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Che cos’è la filologia romanza?

La filologia romanza è una disciplina complessa, ma di fondamentale importanza,


in quanto permette di comprendere non soltanto nozioni di letteratura o lingua, ma
soprattutto perché pone davanti al metodo filologico. Lo scopo della filologia non è
pertanto solamente l’insegnamento di un preciso contenuto, ma principalmente la
somministrazione di un metodo.
Di fondamentale importanza è innanzitutto il contatto con i testi, che vengono
studiati e analizzati direttamente. La disciplina nasce nel 1800, nel fermento
culturale innescato dal Romanticismo e dalla nascita delle nazioni. Essa riscopre il
Medioevo, dopo il silenzio, il pregiudizio e l’oscurantismo che avevano
caratterizzato l’approccio a questo periodo durante il Neoclassicismo.
Quest’ultimo, come del resto il Rinascimento, individuava il fondamento della
cultura occidentale nell’antichità classica greco-romana; tuttavia, al fine di
comprendere veramente quali siano stati i processi che hanno generato la
conformazione attuale della cultura occidentale, è fondamentale porre l’accento
sull’importanza del Medioevo, il quale ha preso in eredità la cultura latina, ma al
contempo ha importato elementi caratteristici della cultura araba, della tradizione
germanica e slava. E' necessario dunque superare il pregiudizio che valuta il
Medioevo come un periodo “buio” o “di raccordo”. Il Medioevo è un lungo
periodo, il cui inizio si colloca generalmente con la fine dell’epoca antica e la
caduta dell’impero romano d’Occidente; esso viene fatto terminare
tradizionalmente con il 1492, anche se in merito a ciò gli studiosi sono discordi, al
punto che qualcuno ne individua la fine nel 1550 (“Lungo Medioevo”). Il termine,
coniato dagli studiosi di epoca umanistica e rinascimentale mirava a sottolineare
come questa “epoca di passaggio” o “età di mezzo” separasse due epoche
caratterizzate da grande splendore, quella classica e quella rinascimentale. Oggi è
possibile affermare che, invece, si sia trattato di un periodo fondamentale per la
storia dell’Occidente, in quanto ha dato i natali alle lingue romanze, alle varie
letterature, ai differenti generi letterari, tutti prodotti di una straordinaria
interazione tra esperienze e tradizioni culturali diverse tra loro, comprendenti la
tradizione araba, germanica, classica, celtica.
Nel 1800 si assistette, dunque, alla riscoperta del Medioevo; la filologia nasce
soprattutto ad opera di studiosi tedeschi, (ulteriore motivo di rivalità tra il mondo
romanzo e germanico) i quali rivelarono una certa sensibilità nei confronti del
periodo medievale, cercando di fondare lo studio del Medioevo germanico in
particolare a partire dallo studio del folklore medievale nel suddetto periodo.
La filologia romanza diverrà poi materia delle popolazioni di lingua romanza:
Penisola Iberica, Francia, Svizzera, Italia, Romania, Portogallo. Le lingue
romanze sono la prosecuzione ininterrotta del latino parlato e l’impero
romano, sebbene sconfitto e decaduto, lasciò due grandi eredità: le lingue romanze
e la Chiesa romana, costruita nelle sue strutture fondamentali sulla struttura
dell’Impero romano. (Papa= imperatore; cardinali= senato).
Il latino, attraverso le lingue romanze, è la lingua più parlata al mondo: le sue
costanti trasformazioni hanno dato origine alle lingue romanze. Questa base
comune ha fatto sì che per studiare la transizione infinita dal latino, lingua
indoeuropea, alle lingue romanze gli studiosi si dotassero di un preciso approccio:
il METODO COMPARATIVO, che permette di fare la comparazione tra gli esiti
delle lingue romanze per risalire alla matrice, all’etimo, all’origine delle parole. È
fondamentale porre l’accento però su un particolare elemento: il latino
sopravvissuto all’interno delle lingue romanze non è sicuramente quello classico,
alto, di tradizione scritta, ma quello parlato nella vita quotidiana da persone
appartenenti a differenti livelli sociali e di istruzione (variazioni diastratiche e
diafasiche). Il metodo comparativo permette quindi di risalire ai lessemi della
lingua parlata, non attestati e bisognosi di essere ricostruiti. (AO* parole
ricostruite ma non attestate vanno segnalate con un asterisco). Inoltre è necessario
applicare il metodo comparativo non soltanto alla lingua ma anche alla
letteratura: le varie letterature romanze sono in un rapporto dialettico di scambio,
amore e confronto. Sarebbe ad esempio impossibile comprendere Dante senza
conoscere i trovatori provenzali e la letteratura francese allegorica.
Nella filologia romanza il metodo utilizzato è storico-comparativo: il confronto
tra opere, generi o linguaggi deve essere sempre dimostrato e motivato
storicamente. Protagonista assoluta della riflessione, dello studio e del modus
operandi della filologia è la parola, sia dal punto di vista letterario che linguistico
(filologia= “amore per la parola”).
Con il termine “origini” si fa spesso riferimento alla nascita di un qualcosa
precedentemente inesistente. È pertanto erroneo parlare di “origine” di una lingua,
in quanto la maggior parte delle volte essa è soggetta a modificazioni. Il latino,
lingua parlata dagli antichi romani, non subì un’interruzione diventando una lingua
morta. Una lingua si definisce “morta” nel caso in cui si verifichino circostanze
per cui gli ultimi membri della comunità dei parlanti muoiano senza aver trasmesso
la lingua ad altri individui: è, ad esempio, il caso del dalmatico il cui ultimo
parlante è morto decenni fa.
Il latino è invece una lingua non-morta, che ha subito una serie di
modificazioni radicali nel corso dei secoli dando origine al latino volgare
prima e alle lingue romanze poi. Il latino che noi conosciamo è frutto di una
costruzione, che si rivolge a un tipo particolare di latino, quello “classico”,
collocabile in un momento ben preciso della storia romana e immutabile. Quello
resistito fino ai giorni nostri è il “latino volgare”, quello parlato da tutta la
comunità di ogni epoca e luogo della storia romana, ed è proprio questo ad essere
stato soggetto a una serie di trasformazioni, di carattere fonetico, morfologico e
sintattico: esse non previdero mai una netta cesura ma furono il frutto di una
costante, lenta e impercettibile modifica. È fondamentale tenere in considerazione,
infatti, che anche nelle varie fasi della storia romana non ci fosse un unico tipo di
latino. Esso risentiva di una serie di fattori:
• Realizzazioni personali;
• Luoghi e tempi di diffusione derivanti dalle varie fasi della conquista romana
variabile diatopica e diacronica
• Classi sociali di variabilità diastratica e diafasica
• Mezzi di diffusione di variabilità diamesica
A ciò va aggiunta la componente del sostrato, ossia la presenza nelle varie aree di
dominazione romana di lingue prelatine parlate dai popoli poi conquistati da
Roma, i quali acquisirono la nuova lingua conservando elementi caratteristici della
propria lingua precedente. In virtù del principio del “prestigio”, una lingua di
cultura tende sempre a soppiantare lingue considerate culturalmente inferiori.
Nello Stato romano, tuttavia, il latino non era l’unica lingua di prestigio a essere
parlata: le regioni orientali avevano conservato l’utilizzo del greco e ciò comportò,
per quelle zone, che non si generasse il processo che ha determinato la nascita delle
lingue romanze. Alla morte di Teodosio, nel 395 d.C. l’impero venne diviso in
Impero d’Oriente, affidato al primogenito Arcadio parlante la lingua greca e in
impero d’Occidente, affidato ad Onorio, parlante la lingua latina.
L’evento che maggiormente accelerò il passaggio dal latino alle lingue volgari non
fu la caduta dell’impero romano d’Occidente, avvenuta nel 476 d.C. né tantomeno
la successiva serie di invasioni barbariche, sebbene produssero una serie di fisiche
distruzioni, ma un evento di una portata eccezionale: l’affermazione del
Cristianesimo. L’ideologia cristiana rivoluzionò, infatti, il mondo antico: il
messaggio di una religione creata dai poveri per i poveri sconvolse la dialettica
padrone-schiavo e, in uno Stato come quello romano che si fondava
principalmente su un’economia di carattere schiavistico, ciò determino un lento ma
inesorabile processo di erosione. Si trattò di una rivoluzione originata dal basso
che infranse i meccanismi in uso fino a quel momento. Inoltre l’affermazione del
cristianesimo introdusse un’ulteriore innovazione: il latino utilizzato nelle prediche
cristiane e nella diffusione delle Sacre Scritture -giunte in Occidente dall’Oriente e
pertanto in greco- non era di certo quello classico o dotto, compreso
esclusivamente dagli eruditi, ma quello “volgare” o parlato. Si trattava di una
lingua semplificata, che fu soggetta a ulteriori semplificazioni nella traduzione dal
greco, data l’impossibilità di rendere fedelmente una lingua dotata di caratteristiche
differenti (articoli).
“Inversione di prestigio”: si assiste pertanto a un mutamento di paradigma che
invertì completamente la “questione del prestigio”: la lingua considerata più
prestigiosa divenne il latino parlato, adatto ad essere compreso dal volgo.
• LATINE LOQUI= lingua inizialmente dotata di maggior prestigio, tutto il
mondo guardava a Roma come centro.
• ROMANICE LOQUI= lingua volgare, il Cristianesimo inverte la tendenza: la
fede degli umili, dei poveri, dei diseredati adotta come lingua quella
caratteristica del vulgus.
La lingua più prestigiosa, la più usata e insegnata, non è il latino classico ma
quello parlato. Gli autori cristiani, tuttavia, si formavano in scuole romane e
imparavano il latino classico: ciò era spesso causa di crisi personali, in quanto esso
era considerato lingua dei pagani. La Chiesa riuscirà poi a superare questa
opposizione stabilendo il cosiddetto “accessus ad actores”, che permise di
attingere alle opere in latino classico utilizzandole come mezzo di accesso al latino
della Chiesa.
In questo quadro è evidente che non si possa parlare di un’origine delle lingue
volgari e delle letterature volgari: le lingue romanze, infatti, nascono da una
tradizione antichissima e sono in parte legate al latino, che ha subìto
l’interregno del Cristianesimo, e in parte sono nuove lingue, che hanno
introdotto nuovi elementi (ideali, modalità di scrittura) e hanno subìto un
salto qualitativo che le ha configurate come qualcosa di completamente nuovo.
La transizione tra il latino e le lingue romanze avviene sommessamente e in merito
a ciò non si hanno testimonianze. Le ragioni sono varie:
• Innanzitutto, coloro che erano immersi in quella realtà non si resero conto dei
mutamenti in atto; qualcosa di questo mutamento è ravvisabile nelle iscrizioni,
fonti particolarmente attendibili poiché apposte al muro in un tempo lontano e
lasciate immodificate: esse trasmettono molti fenomeni linguistici estranei, non
corrispondenti al latino classico. Solo alcuni di questi elementi hanno avuto
successo nelle lingue romanze e hanno avuto una loro prosecuzione, altri hanno
preso il nome di “vergini della filologia”;
• Inoltre, la lettura e scrittura erano un’esclusiva riservata a pochi; la popolazione,
principalmente analfabeta (96%), non riuscì ad accorgersi dei mutamenti della
lingua latina.
• Con la scomparsa dello Stato romano e di quelli che erano i mezzi di
trasmissione della cultura -ruolo precedentemente svolto dalle scuole romane-
lo studio cominciò ad essere svolto in scuole episcopali e monastiche: le prime
erano indirizzate a pochi eletti che avrebbero assolto un giorno funzioni
ecclesiastiche, le seconde erano caratterizzate da una profonda chiusura e
miravano alla conservazione di memorie principalmente religiose. Qualcuno
percepì all’interno dei monasteri che ci fossero delle differenze nella lingua
latina, ma erano piccole intuizioni in una trasformazione enormemente più
grande della quale si era perlopiù inconsapevoli.
Quando nacquero le lingue volgari si produssero nuovi suoni sconosciuti al
latino: tali suoni vennero riprodotti attraverso l’alfabeto latino, che venne
riadattato al fine di rappresentare i nuovi suoni e venne organizzato in maniere
sempre diverse nelle diverse zone. Con il passaggio dalle iscrizioni ai manoscritti
le innovazioni provenienti dal basso stentarono ad imporsi in quanto c’era
un’attenzione al rispetto della norma precedente e laddove riuscirono ad imporsi la
grafia non permise di comprenderle appieno. Una delle difficoltà principali delle
lingue romanze fu appunto trasmettere una grafia universale in mancanza di un
centro unificatore che fino a qualche tempo prima era stato costituito da Roma,
ridotta in quel momento a solo centro della Cristianità.
I secoli dal V all’VIII sono quelli più ombrosi per la comprensione delle
trasformazioni linguistiche. Inoltre, anche se è possibile che alcune di esse siano
penetrate nei manoscritti copiati nelle scuole monastiche, nel momento della
riforma carolingia i manoscritti dei secoli precedenti, dove si erano forse inserite
delle forme volgari, vennero cancellate; la riforma carolingia determinò una ripresa
dell’antichità classica, perciò quello che veniva sentito come scorretto venne
annullato. Oggi ne siamo a conoscenza non solo grazie alle dichiarazioni degli
autori ma anche grazie al rinvenimento di lacerti del VI-VII secolo in cui emergono
tracce di volgarismi. Essi erano frammenti di pergamena ritagliati da antichi
manoscritti e messi a supporto delle nuove legature dei manoscritti per rinforzarne
il dorso.
In definitiva si trattò di una transizione infinita, che caratterizzò la lingua dalla
sua origine, la quale da un determinato momento in poi fu irreversibilmente
considerata qualcosa di differente. La
storia dell’umanità non procede sempre alla stessa velocità ovunque e procede a
grandi tappe, che alternano momenti di trasformazione a momenti di stagnazione.
Per gli studiosi la transizione è sicuramente esistita e presumibilmente non si è
trattato di un processo molto veloce, ma di un qualcosa che aveva radici antiche,
che ha subìto un rallentamento con la crisi del III secolo e l’avvento del
Cristianesimo e che in un dato momento ha prodotto un punto di non ritorno.
Infatti tra VII e VIII secolo si assistette alla fine delle istituzioni romane, al
sopraggiungere degli arabi, che introdussero nella coscienza collettiva l’idea di
una popolazione diversa, alla nuova ondata delle invasioni di popolazioni
barbariche. L’accelerazione nella trasformazione della lingua latina si evidenzia in
questo periodo, in particolar modo nell’VIII secolo, che divenne lo spartiacque che
permise di riconoscere nei secoli successivi l’esistenza delle lingue romanze. La
presa di coscienza definitiva avvenne sotto il regno di Carlo Magno, il personaggio
più importante della storia medievale insieme a Federico II. Egli viene chiamato
“rex pater europae”: aveva un progetto per il futuro ancora oggi in atto.
Le invasioni barbariche:
I barbari erano sempre stati a contatto con la popolazione romana lungo il limes ed
erano spesso stati assoldati come mercenari. Da un certo momento essi, spinti dalle
pressioni esercitate dagli Unni, entrarono nell’Impero Romano con furia. I vandali,
per primi, attraversano l’Europa, passando per la Francia, la Penisola Iberica,
lasciando tracce in Andalusia, dalla quale approderanno in Nord-Africa
distruggendo quanto costruito dai romani e il latino parlato. A seguire ci saranno
gli ostrogoti, i visigoti, i burgundi, gli svevi.
Gli ultimi ad entrare in territorio romano furono i Franchi, i quali non interruppero
mai il loro legame con la madrepatria, la Germania; essi a differenza delle altre
popolazioni barbariche, dotate di una loro identità etnica, si caratterizzano per aver
riunito, nella notte dei tempi, i comandanti e guerrieri più validi e coraggiosi
costituendo un popolo a sé: erano uomini liberi che si sono scelti e hanno deciso di
creare un popolo. I franchi si diffusero in Gallia e occuparono tutto il territorio
francese, con una predilezione per la zona centro-settentrionale della Francia e
per quella orientale, che oggi corrisponde al Belgio e alla zona di Aquisgrana;
alla parte meridionale, la Provenza, lasciarono una grande autonomia. Il regno
franco in Gallia non era unitario ma era costituito da una serie di piccoli regni, i
cosiddetti “regni merovingi” dal nome del capostipite della dinastia regnante.
Nella tradizione germanica alla morte del re il regno non veniva ereditato
esclusivamente dal primogenito, ma era diviso in maniera uguale tra tutti i figli: i
regni venivano quindi frammentati in tanti piccoli regni quanti erano i discendenti
del re. Di conseguenza con il passare del tempo si costituirono una serie di regni
deboli, che provocarono un decremento del prestigio dei sovrani. In Francia,
divisa in regno di Austrasia, Neustria, Borgogna e Aquitania, in conseguenza
alla situazione sopra delineata, il potere venne progressivamente assunto da illustri
personaggi della corte, i maggiordomi, i primi ministri del tempo. Uno tra tutti
riuscì ad imporsi sugli altri, Pipino di Herstal, maggiordomo d’Austrasia, il quale
riuscì a imporre il suo potere anche sulla Neustria: era il bisnonno di Carlomagno.
A Pipino succedette Carlo Martello. Passò alla storia per un fatto fondamentale:
nel 711 gli arabi passarono lo stretto di Gibilterra, entrarono in Spagna e nel giro di
7 anni conquistarono il territorio della Penisola Iberica. Essi diedero vita a una
delle civiltà più feconde della storia e introdussero elementi basilari per la cultura
occidentale, come l’algebra, la numerica araba, facendo da tramite tra la cultura
occidentale e quella orientale. Il territorio in cui si insediarono gli arabi era abitato
anche dagli ebrei: la sinergia tra questi elementi determinò un’accelerazione
esponenziale nella cultura. Il mondo arabo era suddiviso in una serie di potentati:
una volta insediatisi in Europa, non tutti gli arabi erano mossi dal desiderio di
espandersi ulteriormente; tuttavia, le città della Francia meridionale erano
caratterizzate da un’enorme ricchezza, dovuta in parte anche alla loro posizione sul
mare che le esponeva a grandi commerci con il Mediterraneo. Allo scopo di
impadronirsene, gli arabi attraversarono i Pirenei operando una serie di scorribande
di predoni nel sud della Francia con il preciso obiettivo di acquisire ricchezze e
inserirsi nel raggio d’azione commerciale in quelle zone. Carlo Martello giunse a
Poitiers e nell’omonima battaglia ( 732 d.C. ) eliminò la minaccia araba dalla
regione; dopo la battaglia di Poitiers gli arabi sparirono dal territorio francese. La
ragione va ricercata probabilmente nel carattere frammentario del tentativo di
invasione, a cui si accompagnò l’epopea nata intorno a questa battaglia, che fu
percepita dal mondo come la strenua difesa della cristianità di fronte alla minaccia
degli Infedeli.
Alla morte di Carlo Martello salirono al trono i suoi figli, Pipino il Breve e
Carlomanno. È necessario sottolineare che a questa altezza cronologica i
personaggi citati non fossero ancora sovrani ma maggiordomi, che non potevano
ancora fregiarsi del titolo regio: in epoca medievale il simbolo era importante e tali
personaggi, nonostante avessero compiuto opere importanti, erano ancora
sottomessi all’autorità dei sovrani merovingi. Poco tempo dopo Carlomanno si
ritirò in convento; l’unico detentore del potere restò Pipino il Breve: egli riuscì a
farsi acclamare formalmente “re dei franchi”; contestualmente nel 742 nacque
Carlo Magno.
In ambito franco iniziò a diffondersi una leggenda, della quale si hanno consistenti
tracce nei testi mediolatini, primo tra tutti il “Partenopeus de Blois”, in cui si
parlava dell’origine troiana dei franchi. Già i romani, in epoca augustea, avevano
costituito un mito secondo il quale la città di Roma era stata fondata dai
discendenti dello stesso Enea, sulla base di testimonianze anche contraddittorie tra
loro. Secondo la leggenda uno dei discendenti di Enea avrebbe risalito l’Italia e
sarebbe entrato in Francia. Il valore simbolico di questa leggenda è evidente:
definire l’origine troiana di un popolo significava dotarla di nobiltà e
legittimazione; peraltro, sostenere che i Franchi avessero origine troiana
comportava una sorta di rivalità con Roma. Nell’ambito di queste operazioni,
mosse da motivazioni politiche ben precise, Pipino acquisì il titolo di re. Ciò
testimonia come i franchi si fossero fatti notare sin da tempi antichi dal papato
come un popolo devoto e presente in caso di necessità. Un’alleanza tra le due
potenze si sarebbe dimostrata conveniente per ambe le parti.
Pipino una volta preso il potere intuì che, nonostante avesse a sua disposizione
potenti forze armate per instaurare il suo potere, aveva bisogno di un
riconoscimento che rendesse il suo colpo di stato ( togliere il potere al sovrano )
legittimo: automaticamente il suo pensiero si volse all’unico uomo dotato di
potere universale, il Papa. Poco prima di mettere in atto il colpo di stato, scrisse
una lettera a Papa Zaccaria, con la quale gli chiedeva di designare il legittimo
sovrano del regno franco. Il papa, preoccupato dalla presenza bizantina e
longobarda in Italia, decise di rifarsi all’autorità dei Padri della Chiesa (S. Agostino
e Gregorio Magno) e rispose che il titolo regio dovesse essere fregiato da colui
che gestiva effettivamente la nazione. Ricevuto l’avallo del re, Pipino nel
novembre del 751 si fece acclamare sovrano dall’assemblea degli aristocratici
del regno e si fece ungere con l’olio dai vescovi delle Gallie. Questo gesto, se da
un lato guadagnerà a Pipino e ai suoi discendenti il potere indiscusso, dall’altro
determinò la pericolosa mescolanza tra potere politico e spirituale che
caratterizzerà le fasi più critiche del Medioevo. Alla morte di Papa Zaccaria, gli
successe al soglio papale Stefano. Ben presto egli si trovò a dover fronteggiare le
minacce dei longobardi, ma non era dotato di esercito: non volendo chiedere aiuto
ai bizantini decise di rivolgersi al suo alleato prediletto, i franchi, i quali accolsero
la richiesta di aiuto. Stefano si recò, quindi, in Gallia -evento eccezionale in
quanto nella tradizione antica i papi non erano soliti allontanarsi dal
Vaticano, a meno che la loro vita fosse in pericolo o nel periodo della cattività
avignonese- e, per sancire il legame con i franchi, unse con l’olio sacro Pipino
e i suoi figli Carlo e Carlomanno; attribuì inoltre a Pipino il titolo di “patrizio
dei romani”. In questo modo il papa riuscì nominalmente a svincolarsi
dall’appoggio dei bizantini. L’unzione sacra cambiò la storia, non solo poiché
generò la commistione di spirituale e politico, ma soprattutto perché Carlo magno
si sentirà sempre investito dal ruolo di difensore della cristianità. Il fatto che il suo
regno di chiamerà “Sacro Romano Impero” testimonia con evidenza la
rappresentazione del sovrano carolingio come erede e custode della fede cristiana.
Da questo momento in poi il potere dei carolingi assunse un carattere sacro, quasi
sacerdotale.
Alla morte di Pipino nel 768, i due figli Carlo e Carlomanno procedettero alla
spartizione dei territori: Carlomanno assunse il controllo della parte interna del
regno, più facilmente difendibile e lasciò al fratello i confini. Carlo magno,
combattente e guerriero, riuscì perfettamente nella difesa dei confini ed ebbe la
possibilità di espandersi verso la Germania. Alla morte di Carlomanno – sulla
quale molto si è vociferato in quanto potrebbe essere stata indotta- il suo
territorio avrebbe dovuto essere diviso tra i suoi due eredi; tuttavia
l’imposizione di Carlomagno fu fulminea, egli si fece acclamare unico re e i
figli del fratello furono costretti a rifugiarsi in Italia.
Carlo Magno, per quanto visionario, fu un uomo del suo tempo, che gestiva il
potere con determinazione e audacia, con ambizione e assenza di scrupolo.
Nonostante ciò è ancora oggi venerato come santo presso la chiesa di Aquisgrana,
al tempo dotata del potere di nominare i propri santi.
Una volta asceso al trono, Carlo Magno si trovò di fonte un regno enormemente
frammentato: suo primo scopo fu quello di unificarlo attraverso una serie di
riforme di tipo istituzionale, fiscale, giudiziario, militare, economico. Agì
complessivamente, con una visione d’insieme lungimirante e brillante, si
circondò di un clan -secondo il costume germanico- di persone fidate e mise in atto
riforme destinate a durare per lungo tempo. Ad esempio, creò missi dominici, in
numero di 2, un ecclesiastico e un laico, incaricati di itinerare nel territorio con lo
scopo di riferire all’autorità regia informazioni sulla gestione del territorio da parte
dei feudatari del re. Di nuovo, con l’istituzione dei missi dominici, Carlo
ribadiva al mondo che il suo fosse un potere misto, generato da una
commistione di laicità e religiosità. Altro dato caratterizzante del regno di Carlo
Magno furono le continue guerre, mirate alla difesa dei confini, in particolare
contro i longobardi, gli arabi in Spagna (missione che diede luogo a una
tradizione letteraria imponente) e in particolare contro i Sassoni, i quali non erano
cristiani. La guerra contro i Sassoni fu sicuramente una guerra di difesa del
territorio e di allargamento dei confini, ma in particolar modo si trattò di una
guerra di religione volta alla conversione degli infedeli. I sassoni costituirono il
vero chiodo fisso del sovrano che, nella battaglia del 782 passata alla storia con il
nome di “massacro di Verdun”, passò a fil di spada migliaia di nemici e il campo
dove avvenne lo scontro si tinse di rosso. L’azione fu talmente violenta che il suo
consigliere spirituale, Alcuino di York, lo invitò rigidamente alla pietas. Su questa
battaglia fu scritta una canzone di gesta, la “Chanson de Saxon” a opera di Jean
Bodel: essa riprendeva le modalità di scrittura della Chanson de Roland e
identificava il nemico non più con gli arabi ma con i Sassoni, compiendo
un’operazione dai tratti più marcatamente storici rispetto a quelli esplicitamente
propagandistici della Chanson de Roland.
In questo senso è indubbio che Carlo Magno sia il padre dell’Europa cristiana, in
quanto, ancor più che il papa, egli riuscì a mantenere stabile il controllo
ecclesiastico sul territorio. Egli, in quanto difensore della cristianità, riuscì a
decidere le sorti dell’Europea in termini di geografia, politica e strutturazione
culturale.
LA RIFORMA CULTURALE DI CARLO MAGNO
La riforma culturale di Carlo Magno ha a che fare anche con la sua riforma
politica.
Al tempo di Carlo Magno esisteva una corte, ma essa non aveva una sede fissa: nel
passato, infatti, sebbene ci fossero sedi privilegiate, non esisteva l’idea di una
località fissa/luogo fisico per le corti, che si caratterizzavano per la il fatto di essere
itineranti, in quanto dovevano seguire l’andamento dello Stato. La stessa Parigi
diventerà capitale soltanto alla fine del 1100.
Carlomagno ebbe un’intuizione: pur non individuando una capitale scelse come
luogo d’elezione Aquisgrana, località a confine tra Belgio e Germania. La scelta
fu dettata dal fatto che la città fosse ricca di acque e terme, elementi che la
rendevano particolarmente amabile e adatta a rispondere alle esigenze di uomini,
come quelli medievali, provati da immense fatiche fisiche. Pertanto, il sovrano rese
Aquisgrana un centro istituendovi, tra le altre cose, la cappella palatina: si trattava
di una meravigliosa costruzione avente parametri che rispondevano all’uso latino
nella disposizione coerente al sorgere e tramontare del sole e che richiamava la
Chiesa di Bisanzio. Tale somiglianza rende evidente il proposito di Carlomagno di
creare una competizione con Bisanzio in quanto l’imperatore bizantino, almeno
sulla carta, era ancora erede dell’impero romano.
Benché Carlo fosse analfabeta (sapeva soltanto firmare con il suo nome) egli era
un uomo politico dotato di straordinaria intelligenza e curiosità e si rese conto che
una riforma dello Stato non potesse funzionare se non era accompagnata da un
preciso progetto culturale. Comprese che, per il funzionamento dello Stato, fosse
necessario non solo un corpus di guerrieri addestrati con maestria ma anche un
gruppo di intellettuali che potessero guidarlo nelle scelte politiche.
L’operazione di Carlo, pertanto, si mosse su più piani: per comprenderla è
necessario fare un piccolo passo indietro.
Carlo conosceva sicuramente il latino, che parlava e capiva, comprendeva la lingua
volgare che si andava delineando e conosceva il tedesco, lingua germanica. Nel
mondo cristiano si erano identificati precedentemente dei luoghi nell’Europa
cristiana, in particolare l’Irlanda e l’Inghilterra, in cui era viva l’attenzione per la
lingua, la letteratura e cultura latina.
• I romani erano sbarcati in Inghilterra, dove avevano costruito i valli di Adriano
e Antonino il Pio.
• Fino a poco tempo fa si era convinti che i romani non fossero riusciti ad arrivare
in Irlanda; recenti studi hanno fatto luce sul rinvenimento di una fortezza,
sicuramente di epoca imperiale, collocata poco distante da Dublino.
Queste due realtà entrarono in contatto con il latino nel corso del processo di
cristianizzazione operato dai monaci.
Personaggio fondamentale per la conversione dell’Irlanda fu San Patrizio, morto
nel 462 e proveniente dal continente, dal quale era fuggito a ridosso della caduta
dell’impero nel momento dell’arrivo dei germani. Egli diede vita, insieme ai suoi
monaci, a una rapida evangelizzazione, in virtù della quale si ebbe una
proliferazione dei cenobi, attorno ai quali si organizzò la chiesa celtica. È
fondamentale porre l’accento sul fatto che in questo territorio, di lingua celtica, il
latino fosse appreso come una lingua straniera sulla base dello studio dei
classici, che costituivano il fondamento della formazione scolastica. A differenza
del latino parlato nel continente, che stava trascolorando in quelle che diverranno
poi le lingue romanze, si trattava di una lingua molto fedele alla tradizione antica.
Questo tipo di latino lasciò importanti tracce in Inghilterra, dove i monaci
irlandesi si trasferirono con lo scopo di convertire gli Angli e i Sassoni.
All’evangelizzazione compiuta dagli irlandesi si affiancò quella promossa dalla
Chiesa di Roma: nel 596, Papa Gregorio Magno inviò in Britannia una missione
di 40 frati capeggiati da Agostino. In Inghilterra si crearono pertanto due correnti
evangelizzatrici parallele, quella irlandese, di impronta monastica, e quella
romana, di stampo episcopale: a questo processo si deve la costruzione
dell’“umanesimo anglosassone”, caratterizzato da una particolare attenzione allo
studio degli antichi codici, da un contatto diretto con la cultura greca e
dall’apertura delle scuole a clerici e laici. Dall’Inghilterra giunse Alcuino di York,
consigliere più ascoltato da Carlomagno.
Uno dei problemi principali di Carlo magno fu proprio quello di riuscire a
completare la cristianizzazione dei Sassoni e riuscire ad estirpare dal suo
territorio le sacche di resistenza del paganesimo: in Gallia, ad esempio, il celtico
continuò a essere parlato a lungo e nelle località lontane dalle grandi strade romane
c’era una resistenza della religione pagana.
Carlo, circondatosi di clerici, ossia uomini di cultura, cominciò a richiamare
presso la sua corte tutti quegli individui di spicco che si erano fatti notare per le
loro doti (Paolo diacono, Teodulfo d’Orleans di origine iberica, che ottenne
l’appellativo di “Orleans” quando ottenne feudi dal sovrano francese): questi
personaggi non erano legati organicamente alla chiesa, ma erano intellettuali
che condividevano spazi comuni, erano mantenuti dal sovrano -che per loro era
di fatto un mecenate- richiamati con il preciso obiettivo di portare prestigio alla
corte e coadiuvare il re nelle scelte politiche. Essi fondarono l’Accademia
Palatina, attraverso la quale si dedicarono allo studio degli antichi poeti (Orazio,
Livio) scegliendoli come modelli: l’attività culturale, a titolo gratuito, era
svincolata dall’attività pratica. In un anno imprecisato che va dal 780 all’800 Carlo
Magno emanò un capitolare rivolto ai vescovi e agli abati del tempo, il “De
Licteris colendis”, in cui li esortava a non trascurare lo studio delle lettere e
gareggiare tra loro al fine di affinare le loro competenze e renderle adatte a
comprendere il mistero delle Sacre Scritture. Pertanto, si ricominciò a studiare il
latino nella forma classica, quella degli autori.
I dotti richiamati a corte si fecero promotori, nell’ambito del più ampio progetto di
instaurazione di un Sacro Romano Impero, dell’idea di una “renovatio imperii”,
ossia dell’istanza di un rinnovamento culturale che sopperisse all’indebolimento
del sostrato culturale generato dalle invasioni barbariche; questi accademici si
sentirono oberati di una responsabilità e al tempo stesso capirono che il sovrano
stesse chiedendo loro di riportare in auge i classici: fu la prima volta, dalla caduta
dell’impero, in cui gli intellettuali si trovarono a svolgere le stesse attività degli
uomini di cultura in epoca augustea e il loro enorme tentativo di emulazione dei
Maestri del passato produsse un enorme rinnovamento culturale.
Nell’ambito di questa operazione, dettata dalla volontà di innalzare il livello degli
studi al fine di comprendere le scritture, in qualche abbazia nacque la scrittura
carolina (vedi sequenza S.Eulalia), una scrittura chiarissima. L’impero romano era
stato dotato di una sua scrittura; con la caduta ogni stato romano-barbarico si era
costruito una scrittura graficamente diversa (visigotica, beneventana, insulare,
onciale e semionciale): questo comportava che non ci fosse un tipo unico di
scrittura. Con l’affermazione della scrittura carolina si assistette alla nascita di una
grafia adatta ad essere compresa da tutti, lineare, con lettere molto divise tra loro,
con un numero molto ridotto di segni di abbreviazione: la nascita di un mezzo di
comunicazione universale contribuì infinitamente al progetto unitario pensato da
Carlo Magno.
In questa operazione culturale l’avvicinamento ai classici fu in prima battuta un
modo per imparare la grammatica latina, leggere meglio i testi antichi e imparare la
forma; con il passare del tempo mutarono anche i contenuti cui gli accademici si
rivolgevano e si diffuse un interesse per gli scritti di carattere civile. Il passaggio
successivo è automatico: gli intellettuali si resero conto per la prima volta che il
latino classico studiato sui libri non fosse più lo stesso utilizzato nella lingua
parlata e che ci si trovasse di fronte a una lingua totalmente cambiata. La riforma
carolingia svincolò per sempre il latino scritto dalle lingue parlate. Fino a quel
momento, immersi come si era all’interno del processo non ci si era resi conto di
parlare una lingua diversa e era diffusa la convinzione di parlare la lingua latina: lo
studio dei classici generò la presa di coscienza che la lingua parlata fosse ben altra
cosa.
Dopo l’emanazione del capitolare il risveglio dell’interesse per la cultura classica
si diffuse in tutto l’impero: vennero così istituite le scuole palatine, la cui
diffusione fu promossa da Alcuino di York.
In seguito alla presa di coscienza delle trasformazioni che la lingua parlata aveva
subìto ci si rese conto che il latino utilizzato per la predicazione delle Sacre
Scritture non fosse compreso dal popolo. Vennero emanati perciò una serie di
capitolari da Carlo Magno (concilio di Reims, Magonza) che insistevano sul tema
della comprensione tra istituzioni e volgo: tra essi di fondamentale importanza fu
la XVII DELIBERAZIONE DEL CONCILIO DI TOURS, emanata nell’813. Le
deliberazioni di questo concilio vertevano su argomenti differenti, come l’invito
allo studio delle Scritture, la giusta condotta, l’invito a rispettare norme
comportamentali: la XVII deliberazione parlava di lingua.
“All’unanimità (dei
vescovi) abbiamo stabilito che ciascun vescovo tenga le omelie contenenti le
necessarie ammonizioni, che saranno utili all’istruzione dei sottoposti (il popolo
cristiano) circa la fede cattolica, (Prout capere possint) affinché tutti possano
capire in merito all’eterna ricompensa dei buoni e all’eterna dannazione dei
malvagi e a proposito della resurrezione futura in seguito all’estremo giudizio (di
Dio) e delle opere che possano guadagnare o escludere dalla vita beata. E (il
vescovo) si preoccupi di tradurre queste omelie in modo chiaro
(transfero=portare da una parte all’altra) nella rustica romana lingua* o tedesca,
affinché tutti possano capire più facilmente le cose che saranno dette.”
Carlo Magno si sta pertanto riferendo alle omelie, la parte della messa svincolata
dalle formule fisse del rito romano, che svolgeva le funzioni d’istruzione, oppure
di ricordo (in particolare nei riti funebri) o di commento di fatti accaduti
all’interno della comunità dei credenti: è il momento più forte della messa, in cui
l’officiante si relaziona con i fedeli e stabilisce con loro un contatto. Il loro ruolo
centra delle omelie rende necessario che esse debbano essere comprese da tutti e,
pertanto, debbano essere effettuate nella lingua del popolo. L’intero rituale della
messa sarà effettuato interamente in lingua romanza soltanto con il Concilio
Vaticano II nel 1967.
Le lingue romanze sono già nate, qui c’è quello che Roncaglia ha definito il
“certificato di nascita”.
*Rustica romana lingua = “romana” viene da un’antica espressione. Il
linguaggio parlato a Roma era indicato con l’espressione “latine loqui”. Sembra
pertanto una contraddizione che si parli di Stato romano ma di lingua latina: con il
termine “latina” ci si riferiva alla lingua colta, la lingua “romana” era quella di uso
comune, frequente e informale, utilizzata da coloro che avevano fondato Roma
(pastori, agricoltori): era il latino parlato, ora diventato un qualcosa di nuovo. Si è
a lungo discusso sull’aggettivo “rustica” poiché ci si è chiesto se esso si riferisse
solo a “romanam” o anche a “thiotiscam”: recenti studi hanno dimostrato che si
riferisse solo a romana, il termine “tautisca” indicava già una lingua parlata dal
popolo. Le lingue, in questo orizzonte cronologico ormai differenziate, derivano da
un’unica lingua, la lingua romana. Ulteriore quesito si è generato intorno ai
destinatari della deliberazione e ci si è chiesto se essa si solo ai vescovi: in realtà il
termine “quisque” si riferisce a chiunque, dal più alto al più basso membro del
mondo clericale.
Altri concili, tutti
dell’813, anche se meno espliciti rispetto a quello sopra analizzato, fanno
riferimento allo stesso tema:
“Bisogna pronunciare le omelie affinché tutti possano capire, secondo la lingua
di ciascuno”

“Nella predicazione
bisogna fare in modo che la popolazione possa capire “

“perché tutto il
popolo possa comprendere (le cose) giuste”.
L’utilizzo del termine “Transferre” presuppone la consapevolezza linguistica che
ormai il latino sia una cosa diversa dalle altre lingue, presuppone una sensibilità
linguistica posseduta in primo luogo da Carlo, il quale era appassionato dai
problemi linguistici e aveva pertanto dato l’ordine di redigere una grammatica
della lingua francona, lingua tedesca per lui lingua materna. Aveva inoltre fatto
trascrivere i canti ancestrali, in cui si cantavano le gesta degli antichi re al fine di
esaltarne la memoria e creare una tradizione per il popolo.
Il IX secolo sarà un’epoca fondamentale, di grandi cambiamenti. Gli studiosi si
sono interrogati se il fermento che attraversò il secolo fu dovuto esclusivamente al
genio di Carlo magno o se egli fosse affiancato e consigliato da qualcuno dotato di
ancora maggiore lungimiranza: in questo contesto un ruolo di primo piano è
assunto da Alcuino di York, proveniente dalla tradizione anglosassone e
consigliere prediletto e più ascoltato da Carlo.
In Inghilterra Alcuino si occupò dell’impresa di evangelizzazione: era
perfettamente consapevole che per potersi far comprendere dal popolo fosse
necessario attuare un processo di traduzione dal latino, lingua delle Scritture,
all’anglosassone. Nel momento in cui giunse sul continente si rese conto che la
lingua parlata in quelle zone di derivazione latina fosse totalmente differente da
quella su cui si era basata la sua formazione. Di conseguenza appare evidente come
il problema linguistico potrebbe essere stato sollecitato a Carlo da Alcuino stesso:
egli era l’unico che proveniva da una realtà differente e pertanto non era stato
immerso nel processo di trasformazione della lingua, cui premeva l’istituzione
di scuole e che era perfettamente consapevole di cosa volesse dire tradurre e che
ci si trovasse di fronte a sistemi linguistici ormai completamente diversi. Da
questo momento il latino classico diventa una lingua morta: l’813 è l’anno di
riconoscimento dell’esistenza in vita delle lingue volgari, tuttavia il primo
documento in lingua volgare arriverà soltanto 30 anni dopo, con i Giuramenti
di Strasburgo.
Carlo morì nell’814. In vita egli aveva avuto diverse mogli dalle quali aveva
avuto diversi figli. Nessuno dei figli maschi, eccezion fatta per Ludovico, cui verrà
dato l’epiteto di “Pio”, era sopravvissuto. Tra questi figli la leggenda vuole che ci
fosse anche un certo Rolando, prefetto delle marche della Britannia. La tradizione
riporta che egli fosse al capo della retroguardia di Carlo Magno e che essa fosse
stata assalita dagli arabi: in realtà a compiere l’attacco fu un gruppo di briganti, che
avevano aspettato il rientro della retroguardia di Carlo, mandata in Spagna e poi
richiamata in patria per far fronte ai Sassoni, presso il Passo di Roncisvalle al fine
di appropriarsi dei cavalli, delle armature e di tutti i beni che l’esercito aveva
portato con sé. Alla morte di Carlo, la cronachistica carolingia riportò l’evento
della “battaglia” di Roncisvalle, collocando al suo interno la morte di Rolando e
costruendo intorno ad essa il mito di uno scontro avvenuto tra le due fedi, quella
islamica e quella cristiana. Sulla base di questa tradizione venne costruita la
“Chanson de Roland”: qui Rolando viene descritto come il beniamino di Carlo
Magno; vi si racconta che egli fu assalito dal suo patrigno, Giano. La sorella di
Carlo Magno aveva dato alla luce Rolando in circostanze ambigue e in assenza di
un marito era stata sposata da Carlo: tuttavia, da alcuni elementi della Chanson e
da passi di documenti storici, in cui si parla del “peccato di Carlo Magno”, alcuni
studiosi hanno ipotizzato che dall’incesto di Carlo con la sorella sarebbe stato
generato il mitico Rolando.
Tra i figli di figli di Carlo l’unico a rimanere in vita fu Ludovico, detto “il Pio”,
che successe al padre come unico sovrano del Sacro Romano Impero. Nel’817
Ludovico emanò la cosiddetta “ordinatio imperii”, una sorta di testamento che
conteneva le disposizioni sulla successione. Essa stabiliva che, alla sua morte, il
regno sarebbe stato diviso tra i suoi tre figli; Lotario, il primogenito, che avrebbe
dovuto ereditare la maggior parte dei territori e il titolo imperiale; Ludovico, detto
“il Germanico”, cui sarebbe spettata la Baviera, e Pipino, cui sarebbe andata
l’Aquitania.
Tuttavia, alla morte della prima moglie Ludovico il Pio si risposò: da questa unione
nacque un altro figlio, Carlo, detto “il Calvo”. Ludovico decise quindi di rivedere
le decisioni in merito alla successione e con un’ordinanza concesse a Carlo molti
privilegi. Gli altri tre fratelli risentiti cercarono di coalizzarsi; tuttavia la morte di
Pipino ristabilì lo status quo.
Alla morte di Ludovico il Pio, secondo quanto stabilito dall’ordinatio imperii
Lotario ricevette il titolo imperiale e la maggioranza del territorio; Ludovico
ereditò la Baviera mentre Carlo ricevette tutti i territori precedentemente
promessi al defunto Pipino.
Ne derivò una situazione attraversata da diverse tensioni, nelle quali ciascuno dei
tre fratelli cercava di guadagnare territorio a discapito degli altri: in particolare
Lotario, passato alla storia per la sua crudeltà, cercava di portare sotto la sua
influenza il maggior numero di territori possibili e in reazione a ciò si generò
un’alleanza contro di lui tra i suoi due fratelli, Ludovico e Carlo. Nella battaglia di
Fontaneye en Puseye i tre si affrontarono e Lotario ne uscì sconfitto. A questo
punto i due fratelli nell’842 stipularono un trattato, passato alla storia con il nome
di “Giuramenti di Strasburgo”, che costituisce il primo documento redatto in una
lingua romanza. L’anno successivo venne firmata la pace, la “pace di Verdun”:
essa prevedeva che Carlo ottenesse gran parte della Francia, Ludovico il
Germanico la Germania e Lotario la Lotaringia, successivamente detta Lorena,
cuore centrale del territorio dell’impero che si estendeva dal Belgio fino all’Italia, e
il titolo di imperatore. Infatti, i due fratelli compresero che fosse più importante
l’omogeneità del territorio che il titolo imperiale: mentre la porzione di territorio
attribuita a Lotario si caratterizzava per un’enorme frammentazione, in primo
luogo linguistica, nelle loro terre Carlo e Ludovico avviarono un processo di
consolidamento che gettò le basi per la fondazione delle nuove nazioni. Il Belgio e
l’Italia saranno anche per questa ragione territori che conosceranno l’unificazione
nazionale soltanto molti secoli dopo: appare evidente quanto i Giuramenti di
Strasburgo e il trattato di Verdun abbiano costituito le basi dell’Europa
contemporanea.
I Giuramenti vennero scoperti nel 1500 e ci sono pervenuti attraverso un’opera
storica, intitolata “Quattro libri di storia”, ad opera di un membro della famiglia di
Carlo Magno, Nitardo, cugino dei sopracitati discendenti del sovrano. Egli lavorò
presso la corte di Carlo il Calvo, il quale, consapevole di trovarsi di fronte a un
evento epocale, gli commissionò un’opera che avesse come nucleo tematico quello
delle contese intercorse tra i figli di Ludovico il pio, dopo il periodo di pace interna
che aveva dominato il regno di Carlo magno. Nitardo fu pertanto non solo non
l’esecutore della volontà del sovrano, ma, essendo parte del clan che gravitava
intorno a Carlo il Calvo, fu testimone di primo piano degli eventi.
L’opera era composta:
• Da un Primo Libro, contenente un’esaltazione di Carlo magno e un’esplicita
critica verso l’operato di Ludovico il Pio;
• Da un secondo libro, che mostrava le macchinazioni di Lotario, la sua
ambizione e la sua violenza e riportava gli eventi legati alla battaglia di
Fontaneye en Puseye.
ciascuno dei due libri era diviso in due sezioni, per un totale di quattro parti. Ad
esse venne aggiunto un
• Terzo libro: Nitardo, temendo che si potessero snaturare i fatti relativi
all’alleanza militare, alla vittoria e soprattutto all’accordo diplomatico che
condusse al trattato di Verdun redasse un ulteriore libro.
Nel cuore del terzo libro ci sono i GIURAMENTI DI STRASBURGO. Rispettabili
studiosi hanno ipotizzato che la collocazione dei Giuramenti nella parte centrale di
questo volume mirasse a valorizzarli e a rivelare al mondo la loro importanza. C’è,
pertanto, da chiedersi, considerando il valore che l’autore del testo aveva attribuito
al documento, quale fosse il suo ruolo nella redazione.
I Giuramenti di Strasburgo sono inseriti all’interno di un una cornice latina e la
loro presenza in lingua volgare li fa risaltare come se fossero una gemma
incastonata.
La cornice recita che, nel sedicesimo giorno delle calende di marzo (14 Febbraio),
Ludovico e Carlo convennero per pronunciare un giuramento in una città allora
chiamata Argentaria -perché piana di miniere d’argento- oggi chiamata Strasburgo.
La specificità dei giuramenti è che essi vennero pronunciati attraverso uno
scambio di lingue: Ludovico, erede della Baviera, giura in lingua romana,
Carlo, re d’Aquitania, in lingua tedesca.
La scelta della città di Strasburgo ha un forte valore simbolico: essa si situa in
Alsazia, regione prossima alla Germania. I due, quindi, cercano un posto che
occupasse una posizione intermedia tra le due realtà, che non fosse collocato né
troppo vicino alla Francia né troppo vicino alla Germania, territorio a metà per fare
l’accordo. Presso Strasburgo i due sovrani fecero confluire i loro eserciti.
• Il giuramento viene fatto chiamando in causa per primo come testimone
invisibile Dio: nella mentalità medievale si era convinti che la parola data,
anche se non scritta, fosse vincolante; il mancato rispetto della parola data
comportava, infatti, la punizione divina;
• seguì il giuramento di Ludovico effettuato in protofrancese; Carlo giurerà
in prototedesco. Mentre ci sono testimonianze scritte del prototedesco, i
giuramenti costituiscono la prima fonte scritta della nuova lingua romanza.

La ragione dello scambio di lingue, oltre ad avere uno straordinario valore


simbolico, risiedeva nella necessità di entrambi i sovrani che l’esercito alleato
comprendesse il contenuto del giuramento e si sentisse sollevato, in caso di
inadempienza dello stesso, dall’obbligo di essere fedele e rispettoso del proprio re.
Dopo il giuramento di Carlo e Ludovico giurano gli eserciti, ciascuno nella
propria lingua: “Se Carlo, mio signore, non rispetta i giuramenti cercherò di
convincerlo ma poi smetterò di rispettarlo.”
I due sovrani, nella decisione di scambiarsi le loro lingue, portarono a
compimento quel processo culturale avviato da Carlo Magno 30 anni prima
con la deliberazione di Tours: la lingua non serve più soltanto a scopi religiosi
ma anche alla politica, si giunge alla conclusione che la lingua sia potere.
Nell’introduzione al giuramento, Nitardo sostiene che la formula recitata da
Ludovico fosse stata detta nella “romana lingua”; rispetto alla deliberazione di
Tours è dunque scomparso l’aggettivo “rustica”: se nella deliberazione c’è un
movimento dall’alto verso il basso della lingua, utilizzata dai dotti ma indirizzata al
popolo, nei giuramenti avviene il contrario, il volgare diviene la lingua dei sovrani,
delle questioni politiche e dello Stato.
Sulla base dell’analisi dei Giuramenti gli studiosi hanno avanzato una serie di
ipotesi:
• una sosteneva che il documento, conforme nella struttura e nelle formule alla
tradizione latina, fosse stato scritto prima in latino e poi fosse stato tradotto in
francese e tedesco.
• Uno studio ha dimostrato che il testo probabilmente fu in una prima fase scritto
in latino, che fu poi tradotto in francese e solo dopo in tedesco.
Sarebbe dunque stata la cancelleria di Carlo il Calvo a provvedere alla redazione
del documento. L’ipotesi dominante è che Nitardo, appartenente alla cancelleria
reale e notaio del documento, sia stato l’ideatore stesso dei giuramenti così
composti.
Il testo ci è pervenuto per mezzo di un manoscritto copiato in area romanza; la
parte in tedesco presenta una serie di errori.
Ulteriore quesito degli studiosi fu generato dalla necessità di definire di quale
lingua romanza fosse il francese in cui erano stati redatti i giuramenti (borgognona,
lorenese, piccardo ecc.). Oggi la critica ritiene che
si sia trattato di un protofrancese, avente una struttura ibrida che comprendeva
elementi del francese e elementi che ricordavano il latino: tale lingua sarebbe stata
prodotta artificialmente e costituirebbe una lingua dal carattere neutrale,
svincolata da quelle che potevano essere le caratterizzazioni dialettali, coerente alla
formula strutturale latina, creata con il preciso obiettivo di trovare una lingua
comprensibile per tutti i membri dell’esercito, provenienti da diverse parti
dell’area francese.
In definitiva, i due sovrani, che giurarono di fronte a Dio scambiandosi le lingue,
stavano consapevolmente dicendo ai loro popoli che la lingua fosse uno
strumento fondamentale non solo nella predicazione ma nell’esercizio del
potere: le lingue nascenti, utilizzate per scopi politici, sono già lingue mature.
Sui giuramenti è stato condotto uno studio molto approfondito da parte di
un’équipe di italiani, che ha dato luce a un saggio uscito nel 2002 e ha portato in
evidenza una serie di questioni.
• Nitardo viene descritto come un membro appartenente alla famiglia di Carlo
Magno; gli studi hanno dimostrato che si trattasse di un aristocratico laico di
notevole cultura, impegnato nella vita civile e politica del suo paese;
• Si è supposto che egli abbia inventato i giuramenti di sana pianta; tuttavia, se è
possibile ipotizzare che egli sia stato l’ideatore e il redattore dei giuramenti non
si può negare che essi siano stati storicamente pronunciati in lingua volgare.
• Egli fu amico di Paolo Diacono e di altri personaggi importantissimi della corte
palatina; fondamentale fu anche l’attività, in particolare in Italia, di
promulgazione di capitolari, testimoni di un’intensa attività della cancelleria;
• Nitardo era esperto delle tre lingue, latino, protofrancese e prototedesco: la sua
eccellente formazione traspare nella stesura dei libri, effettuata secondo lo stile
storiografico di Cesare e Sallustio.
• Importanza strategica di Strasburgo, crocevia tra i due paesi.
• Dalla lettura dei Giuramenti appare evidente la necessità di uno scontro con
Lotario, il quale a differenza dei suoi fratelli si era dimostrato spregiudicato nei
confronti delle volontà del padre Ludovico il Pio, tanto che era arrivato a
compiere un colpo di stato. Quando Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico
giungono alla stipula dell’accordo vengono sottolineate la stabiles fides e la
firma fraternitas, con le quali si vincolano alla reciproca fedeltà: i due fratelli,
sebbene il trattato di Verdun giungerà soltanto l’anno seguente, si sentono già
sovrani dei rispettivi territori. Probabilmente, quindi, la vittoria di Fonteneye en
Puseye aveva già delineato la situazione che si sarebbe realizzata con il futuro
trattato di pace. Tuttavia, essi si configuravano come sovrani più di fatto che di
effettivo diritto: pertanto, Nitardo fece precedere ai Giuramenti un’excusatio in
latino che motivasse le rivendicazioni dei due contraenti contro Lotario.
• Già nella tradizione antica, specialmente quella germanica, era diffusa la
traduzione delle adnuntiationes, le annunciazioni, ossia esposizione in pubblico
dei proclami pronunciati dai sovrani al popolo. Il sovrano si riuniva in una
prima fase con la sua cerchia ristretta per prendere delle decisioni che poi
venivano annunciate oralmente al popolo. I giuramenti si rifanno a questa
tradizione, pertanto è da escludere che si tratti di un testo fittizio, sebbene
drammatizzato da Nitardo.
• È bene riflettere sul fatto che Carlo il Calvo sia stato il primo sovrano parlante
una lingua romanza, pertanto l’utilizzo della lingua come strumento di potere
viene adottato con una nuova consapevolezza.
Lo pseudo-Nitardo, nella redazione dei Giuramenti, si trovò nella situazione di
dover redigere gli scripta in una lingua romanza che non aveva una tradizione
scritta precedente.
• Il giuramento ha una doppia forza: da un lato quella della parola detta sotto
giuramento e pertanto vincolante, sulla base di una tradizione ereditata da
Gregorio di Tours; dall’altra il supporto della successiva messa per iscritto, che
rendeva il testo replicabile, rileggibile e pronunciabile all’infinito e lo poneva
sullo stesso piano dell’antica tradizione giuridica romana.
GLI STUDI EFFETTUATI MIRANO A DIMOSTRARE CHE I
GIURAMENTI SIANO STATI PRONUNCIATI NEL MODO DESCRITTO
DA NITARDO, sebbene egli abbia comunque provveduto a drammatizzarli per
esaltare la figura del suo signore, Carlo il Calvo.
La XVII deliberazione del concilio di Tours, pronunciata nell’813 è seguita dopo
un trentennio dai Giuramenti di Strasburgo, datati all’842.
Trent’anni dopo i Giuramenti viene scritta la prima testimonianza letteraria di
lingua romanza, la sequenza di Santa Eulalia: la periodicità di queste
manifestazioni linguistiche dimostra l’evoluzione della compresenza di lingua
latina, lingua tedesca e romanza nell’orizzonte cronologico dell’epoca carolingia. Il
fatto che Ludovico abbia pronunciato per primo il giuramento non sembra derivare
esclusivamente dal fatto che egli fosse il più grande tra i fratelli: la sua azione
sembra volta a valorizzare la lingua romanza nascente, fino a quel momento
imprigionata nella falsa convinzione che essa fosse ancora latino. La sequenza di
Santa Eulalia, testo in francese che dichiara la sua provenienza, si inserisce
perfettamente all’interno del percorso di evoluzione della lingua: essa presenta
un’introduzione in latino, è seguita da un testo in tedesco ed è pertanto in una
relazione di analogia e coerenza con i Giuramenti.
ASPETTO LINGUISTICO:

• Molte parole sono latine: pro, Deum > Deo; Deus.


• I verbi reggenti sono in posizione finale, secondo la tradizione latina (dunat,
fazet, sit) = il giuramento ricalca la tradizione latina;
• Non ci sono articoli: l’assenza dell’articolo deve indurre a pensare, dato che
l’articolo è l’ultima invenzione delle lingue romanze e che deriva dai pronomi
dimostrativi (articoloide dal greco), o che l’articoloide non avesse ancora
raggiunto un’autonomia linguistica o che si trattasse di un’innovazione troppo
distante dalla tradizione latina. Quest’ultima ipotesi è contraddetta dalla
presenza nel testo di verbi al tempo futuro, formato secondo l’uso tipico delle
lingue romanze, ottenuto dall’infinito del verbo da coniugare più la forma
contratta del presente del verbo avere.
• Incertezza grafica: “aiudha”, “cadhuna” “Ludher). Nella transizione dal latino
alle lingue romanze le occlusive dentali sorde intervocaliche -t- subiscono un
processo di sonorizzazione; in Italia il processo si arresta a questa fase; in area
francese si assiste al passaggio della dentale dalla classe delle occlusive a quella
delle fricative e alla successiva definitiva scomparsa. (QUINDI: -t-> -d- > -ð-
(dh) > scompare: caduno/ chacun). Colui che ha scritto il documento ha
percepito che -d-, diffuso in area romanza, si era evoluto in -ð- in area
francese, pertanto la specificità fonetica viene resa con l’aggiunta di una “h”
grafica.
• Alternanza di forme come “fradre”/“fradra” “Karlo”/“Karle”: l’alternanza delle
vocali finali fa comprendere che le vocali finali francesi si stessero evolvendo
verso una “e” che sarebbe stata poi pronunciata come muta nel francese medio e
moderno. Il copista è pertanto incerto nella grafia.
• Dift<DEBET; o< HOC; ab< APUD coesistenza di elementi latini e romanzi.
Lo studio del 2002 mette in evidenza che si potrebbe riscontrare l’influenza nel
testo della tradizione germanica nell’allitterazione; ciò che si è osservato è che le
frasi tedesche, benché tradotte dal francese, siano poi state calibrate sullo stampo
della tradizione germanica dei giuramenti.
In definitiva si può affermare che se da un lato la XVII deliberazione del Concilio
di Tours permetta di classificare il latino come una lingua morta, dall’altro i
Giuramenti siano il documento che ufficialmente svincola il latino dalle lingue
romanze: infatti, dall’inserimento dei dialoghi in volgare in una cornice latina,
appare evidente come oramai le due lingue siano qualcosa di totalmente
differente; le lingue romanze prendono autonomia.
Dante nel “De vulgari eloquentia” si rese conto che la lingua d’oc e d’oil -lingue
del sì- avessero una matrice comune, che però egli non riesce a ricondurre al latino:
la ragione risiede nel fatto che, ai tempi in cui Dante analizza la situazione
linguistica, le lingue romanze hanno raggiunto una loro dignità, permettono di
assolvere mansioni della vita pratica, hanno creato una loro tradizione letteraria
varia e differenziata; il latino è invece la lingua di una ristretta cerchia di
intellettuali, della sfera giuridica e della Chiesa le due sfere sono indipendenti
l’una dall’altra. Il tempo in cui parla Dante sembra essere il risultato di un processo
avviato con i Giuramenti di Strasburgo: La XVII deliberazione del concilio di
Tours ha perfettamente chiara l’idea che il latino sia trascolorato nella “Rustica
Romana Lingua” e che pertanto si debba tradurre; i Giuramenti inseriscono il
dialogo in “lingua romana” all’interno della cornice latina e, conferendo in tal
modo autonomia e importanza alla nuova lingua romanza, per la prima volta la
considerano qualcosa di indipendente dal latino e dalle sue forme.

La situazione francese si presenta estremamente omogenea e coerente al suo


interno; in Italia, d’altro canto, se si ammette la datazione di Petrucci-Romeo, il
primo esempio di testo in lingua volgare si fa risalire al 780 e il secondo, invece, il
Placito di Capua, comparirà soltanto nel 960. Quest’ultimo è stato a lungo messo in
relazione con i Giuramenti, nei quali, all’interno di un contesto latino vengono
riportati i giuramenti in lingua volgare dei due sovrani. Anche nei Placiti la cornice
latina introduce una formula in lingua volgare; tuttavia l’ambito in cui figura il
testo è quello del diritto privato e va a dirimere la questione tra un privato e il
monastero di Montecassino, non di certo è quello di un diritto “internazionale” che
disegna il volto dell’Europa come quello dei Giuramenti di Strasburgo.
L’indovinello, se si accetta la datazione del 780, costituirebbe un unicum a
quell’altezza cronologica di lingua volgare italiana: tutto ciò che lo separa dai
Placiti Capuani o non ci è pervenuto oppure non è esistito. Sarebbe pertanto più
prudente affermare che l’Indovinello Veronese sia un testo mediolatino, sebbene
con una serie di volgarismi non ancora totalmente volgare, ancora lontano dal
processo di costruzione di lingua che stava avendo luogo in ambito francofono. La
Francia si trova a effettuare un percorso graduale e logico che affonda le sue radici
proprio nella storia: essa aveva conosciuto l’unità culturale del popolo gallico; la
bipartizione tra sud, colonizzato e Nord, conquistato da Cesare; l’unificazione sotto
Clodoveo, che precocemente aveva dotato il suo popolo di un’unica fede; gli eredi
di Carlo Magno avevano poi esteso il loro controllo su un impero, all’interno del
quale i confini geografici e politici del territorio franco erano perfettamente chiari,
già era presente un’idea -seppure in stato embrionale- di nazione ed i processi di
natura linguistica costituivano lo specchio di una serie di scelte politiche prese e
imposte dall’alto.

LA SEQUENZA DI SANTA EULALIA


La scrittura utilizzata nel manoscritto della Sequenza è estremamente nitida e
comprensibile: la scrittura minuscola carolina darà origine poi ai nostri caratteri
tipografici.
La Sequenza di Santa Eulalia assume una rilevanza fondamentale, in quanto si
tratta del primo testo letterario di lingua francese.
Il testo manoscritto è conservato in un unico Codice, nel testo 150, nella
Bibliothèque Municipale de Valanciennes: il codice contiene la traduzione latina
dei sermoni teologici di San Gregorio di Nazianzo; la traduzione latina occupa le
carte 1-140 e la copiatura è probabilmente stata effettuata in territorio
germanico, sulla riva sinistra del Reno, nella prima metà del IX secolo. Il Codice
venne poi trasportato nel monastero benedettino di Saint-Amand, nei pressi di
Valanciennes, al confine franco-belga, dove tuttora è conservato. Il trasporto risale
probabilmente all’881-883, periodo in cui la biblioteca del monastero venne
distrutta ad opera dei Normanni (vichinghi, “uomini del Nord”, abili costruttori di
navi): in seguito a questo evento, in cui andarono perduti molti dei documenti
conservati nella Biblioteca, i monaci benedettini del luogo mandarono richieste
agli altri monasteri al fine di farsi inviare nuovi manoscritti da conservare,
consultare e copiare. Alla fine del codice, dopo i testi latini, erano rimaste pagine
bianche che qualcuno provvide a riempire con altri testi: tra essi figura proprio la
Sequenza.
• All’interno del manoscritto 150, sul recto del foglio 141 venne apposta la
sequenza latina;
• sul verso venne apposta la sequenza francese
• in successione il lied (canzone composta alla morte di un esponente di rilievo
della cultura germanica), il “Rithmus teutonicus de piae memoriae Hluduico
rege filio Hluduici aeq regis” (ritmo germanico sul re Ludovico di pia memoria,
figlio di Ludovico, anch’egli re”), anche noto come “Canzone di Ludovico”.
Anche in questo testo, come nei Giuramenti di Strasburgo, si ha la successione
di testi in latino-francese-tedesco, tutti aventi un legame tra di loro. Dopo il
Ludwigslied è stata introdotta un’altra sequenza latina, nella carta 143, che non
presenta alcun collegamento con Eulalia. I paleografi hanno evidenziato come il
testo relativo ad Eulalia e il Ludwigslied siano stati scritti dalla stessa mano.
La critica romanza colloca il testo francese tra l’881 e l’882: in quest’epoca,
infatti, sono collocati due eventi, uno relativo ad Eulalia e l’altro relativo a
Ludovico.
• Episodio relativo a Sant’Eulalia: nell’878, l’arcivescovo di Narbona si pose
l’obiettivo di dedicare una chiesa a Santa Eulalia, vergine martire spagnola
del III secolo d.C.; prese dunque accordi con l’arcivescovo di Barcellona, città
che dall’874 era divenuta vassalla dell’impero carolingio per trovare le reliquie
della Santa. Il 23 ottobre dell’878 le reliquie vennero trasferite, nella
cerimonia della “translatio”, a Narbona: la notizia dell’evento si diffuse in
tutta la Francia e, in particolare, giunse al monastero benedettino femminile di
Hasnoné. È dunque probabile che le sequenze latina e francese siano state
composte proprio per questa occasione.
• Episodio relativo a Ludovico III: Nell’881 si ebbe poi la Battaglia di
Saucourt, in cui compare la figura di Ludovico III, colui che sarà poi il
protagonista del Ludwigslied, in lotta contro i Normanni. Il rithmus
teutonicus sarebbe stato, dunque, scritto dopo la battaglia di Saucourt e in
occasione della morte di Ludovico, avvenuta il 5 agosto dell’882.
Tutti gli elementi portati in luce sono funzionali a dimostrare, pertanto, che la
stesura della sequenza sia stata effettuata tra l’878 (data della translatio) e l’882
(data della morte di Ludovico III): i tre testi sono disposti l’uno di seguito all’altro,
pertanto la datazione del testo francese va collocata necessariamente tra questi due
avvenimenti.
Il monastero di Saint-Amand, dove si presume siano state scritte le sequenze,
era sede, verso la fine del IX secolo, di un’importante scuola di musica, le cui
attività erano promosse dall’abate Ucbald. La
vicinanza del monastero a Narbona, luogo in cui era avvenuta la translatio di Santa
Eulalia, giustificherebbe il fermento che un evento del genere produsse; era inoltre
vivo, in seguito alla distruzione della biblioteca, l’interesse dei monaci del luogo
per le imprese di Ludovico III contro i Normanni, in quanto essi vedevano nel
sovrano un difensore dei loro territori. La comunità del monastero annoverava tra i
membri monaci di origine romanza e tedesca: tutto concorre, quindi, ad avvalorare
l’ipotesi che individua nel monastero il luogo della scrittura delle Sequenze.
Ucbaldo: Visse tra l’840 e il 930; insegnò musica nel monastero di Saint-Amand
fino all’883 e per molto tempo è stato indicato quale autore delle sequenze.
Tradizionalmente gli si attribuisce l’invenzione delle Historiae Rithmi, l’ufficio
rimato appartenente al genere dei tropi. Ci sono, quindi, alte probabilità che la
composizione della sequenza possa essere attribuita a lui o, tutt’al più a un suo
allievo.
Nel caso della sequenza di Sant’Eulalia è pertanto possibile ricavare una
datazione orientativa e si può individuare un possibile autore.
Si tratta, in realtà, di un caso davvero eccezionale: nella maggior parte delle opere
del Medioevo l’autore è anonimo e, sebbene spesso sia possibile circoscrivere la
zona di appartenenza dell’opera, l’autore risulta spesso non identificabile. Esistono
casi in cui figurano dei nomi, come nel caso di Chretien de Troyes: il numero
imponente di opere firmate con questo nome lo qualifica come uno degli autori più
importanti del Medioevo, inventore del romanzo arturiano e di figure che
entreranno nell’immaginario collettivo come Lancillotto e Percival; tuttavia della
sua vita non si sa quasi nulla. Si può presumere che gli fosse originario di Troyes,
ma non sappiamo altro: la sua data di nascita potrebbe essere ipotizzabile sulla
base della data di composizione delle sue opere; sappiamo forse quando è morto,
presumibilmente accompagnando Francesco d’Alsazia in crociata; nulla si sa della
sua formazione. Dopo la
sua morte, intorno agli anni ’90 del XII secolo, sul personaggio cadde la polvere
dell’oblio, destinata a protrarsi fino alla sua riscoperta, avvenuta ad opera di una
studiosa inglese.
Altro caso eclatante è quello del “Partenopeus de Blois”: il romanzo riscosse un
successo europeo di enorme risonanza, fu tradotto in tutte le lingue antiche
d’Europa e riferimenti a quest’opera sono disseminati in altre opere; ebbe successo
presso i Gonzaga di Mantova, contiene tracce di lirica italiana e quando venne
riscoperto alla fine del 700 fu ritrovato nella sua versione catalana. Nonostante ciò
su quest’opera scende il silenzio. Le ragioni di questa ignoranza sono
principalmente due: una intrinseca al pensiero medievale, in virtù del quale gli
autori sentivano di appartenere a una tradizione, e quindi o non sentivano il
bisogno di firmarsi oppure evitavano di farlo per ragioni di tipo morale e politico;
l’altra ragione risiede proprio nel pregiudizio e nell’oscurantismo di cui è stato
vittima il Medioevo fino al Romanticismo.
Che cos’è una sequenza?
La sequenza è un tipo di componimento della tradizione latina altomedievale
concepito a partire da una base musicale, costituita da coppie di unità
musicalmente simmetriche cui sono stati aggiunti dei versicoli, ossia coppie di
serie sillabiche. La sequenza affonda le sue radici nella tradizione musicale dei
vocalizzi (melismi) sull’Alleluia: la prassi musicale prevedeva, infatti, che sulla
vocale dell’ultima sillaba dell’Alleluia venissero improvvisati una serie di
vocalizzi destinati a dimostrare abilità canore e ad enfatizzare la parola cantata. A
partire da un certo momento, la pratica fino a quel momento improvvisata venne
canonizzata e trascritta: per rendere i vocalizzi adattabili ad altri testi e per
facilitarne la memorizzazione, alle diverse note del vocalizzo vennero associate
delle sillabe, che andarono a comporre le parole di un testo. Pertanto le
sequenze, all’origine composizioni musicali, assunsero dignità letteraria.
Le sequenze, quella in latino e quella in francese, sono composte da 14 periodi
ritmici di lunghezza diseguale; ciascun periodo è diviso al suo interno in due parti
aventi lo stesso numero di sillabe. La sequenza francese segue sicuramente quella
latina. I due testi presumibilmente avevano la stessa melodia: la prima era una
sequenza latina destinata ai chierici, la seconda era in volgare e destinata ai rustici.

SEQUENZA LATINA:
Traduzione:

I A/B: Intona con la cetra dal dolce suono la cantica della vergine Eulalia,
II A/B: poiché è necessario (est opere) celebrare il martirio con una canzone.
III A/B: Io accompagnerò la tua melodia con la voce e imiterò il canto
ambrosiano₁
IV A/B: suona una bella canzone con la lira e io offrirò l’accompagnamento della
voce.
V A/B: così costringiamo la pietà e la natura umana a versare delle lacrime.
VI A/B: Questa fanciulla nell’epoca della sua fanciullezza, quando ancora non era
in età da marito, VII
A/B: il nemico del giusto avvolse nelle fiamme del fuoco. Subito (egli) rimase
stupefatto dal volo di una colomba;
VIII A/B: era (erit₂) lo spirito di Eulalia, candida, veloce e senza colpe.
IX A/B: ella non dispiacque a Dio per alcuna ragione pertanto si mescolò alle stelle
del cielo.

X A/B: preghiamola affinché protegga i suoi servitori (noi), i quali intonano lieti
un’armonia.
XI A/B: cantiamo con un cuore devoto melodie (modi) virtuose, affinché lei, pia, ci
conceda la benevolenza di Dio
XII A/B: e guadagni a noi il suo aiuto, al cui cenno tremano sole e luna.
XIII A/B: ci rimetta i peccati e ci collochi, lei che è benigna,
XIV A/B: tra le stelle che servono Dio con la corona e la luce dorata B…….
Dio che come i servi siamo rivolti a Dio.
Note:
1*: Canto ambrosiano, inventato da Sant’Ambrogio, padre della Chiesa e patrono
di Milano. Considerato all’origine della produzione romanza e probabilmente
correlato alla nascita della rima. 2* erit: in latino
il verbo ha la funzione di futuro; in questa fase l’occorrenza di questo verbo nel
contesto potrebbe essere un errore e potrebbe voler indicare l’imperfetto (erat).
Si tratta di una sequenza neutra, in cui si insiste sulla musica, sulla questione
melodica, in cui si fa riferimento a una donna oggetto di martirio e si insiste sul
fatto che sia una santa alla quale si chiede l’intercessione presso Dio.

SEQUENZA FRANCESE:

I A/B: Eulalia fu una buona pulzella, aveva un bel corpo e un’anima ancora più
bella (bellezour =comparativo di maggioranza di derivazione latina).
II A/B: i nemici di Dio vollero vincerla, vollero farle servire il Diavolo.
III A/B: Ma lei non ha ascoltato i cattivi consiglieri, coloro che le hanno suggerito
di rinnegare Dio che vive su in cielo.
IV A/B: né con l’oro né con l’argento, né con abiti lussuosi, con le preghiere, con
le minacce o i regali V A/B:
nessuna cosa la potette piegare, la fanciulla non accettò mai ciò che non provenisse
da Dio.
VI A/B: perciò fu portata alla presenza di Massimiano, che era allora il re sopra i
pagani. VII A/B:
e lui la esorta ma a lei non importa di rinnegare il nome di cristiana.
VIII A/B: ella si indurisce nel suo animo, preferirebbe sopportare le molestie

IX A/B: piuttosto che perdere la sua verginità, perciò si fece uccidere con grande
onestà.
X A/B: quindi dentro il fuoco la gettarono, perché bruciasse rapidamente, ma lei
che non aveva colpe non bruciò.
XI A/B: a ciò non si volle rassegnare il re pagano e con una spada ordinò che le
fosse tagliata la testa.
XII A/B: la donzella non si oppose quella cosa, aveva deciso di lasciare il mondo e
così prega Cristo.
XIII A/B: in figura di colomba volò al cielo, ora tutti preghiamo perché interceda
per noi
XIV A/B: affinché Cristo abbia pietà di noi e dopo la morta ci conceda di tornare
da lui per la sua clemenza
• 1° verso: la parte A termina in “a”, esattamente come la parte B; nel 2° verso
l’ultima parola della parte A esce in “i”, come la parte B ecc. = si tratta di una
serie di assonanze. Qui, come nei futuri testi dell’epica, i versi sono correlati dal
loro tramite giochi di assonanze.
• Il testo inizia senza fare alcun riferimento alla musica; immediatamente si
accenna alla bontà di Eulalia e alla bellezza del suo corpo e della sua anima
( letterarietà). Immediatamente nella narrazione subentrano gli antagonisti, i
nemici di Dio.
• Analizzando il passaggio dalla forma latina a quella francese il dato più
evidente è proprio la nascita della finzione letteraria: sono presenti la fabula e
l’intreccio, il protagonista e l’antagonista, gli aiutanti. Viene utilizzata la tecnica
narrativa della suspense, nel momento in cui Sant’Eulalia non brucia; inoltre il
ruolo della santa come intermediaria di Dio è ridotto al minimo essenziale.
• La sequenza è l’attuazione pratica di quanto enunciato nella deliberazione di
Tours: appare evidente che il proposito non sia soltanto quello di usare la lingua
volgare, ma di utilizzare una lingua che si imprima nella coscienza e nella
mente del volgo attraverso simboli e immaginazione fantastica e romanzesca.
• La lingua del testo presenta tratti dialettali valloni e piccardi ; è probabile che il
testo sia stato redatto mediante una scripta vallone di epoca pre-franciana nella
zona al nord-est della Francia. La Francia e la Provenza hanno i loro albori tra il
nord-est e sud-ovest: ne è derivata la postulazione di una sorta di asse
geografico di scambio tra le due zone profondamente collegato con i monasteri
benedettini. Si presuppone quindi un sentimento di apertura di questi monasteri
verso il mondo, che ha determinato la formazione di un francese comprensibile
nello sforzo di creare una lingua comune, una koiné.
• Ci sono una serie di critici che mettono in discussione che la sequenza sia stata
scritta presso il monastero di Saint-Amand: in particolare, il paleografo
Bischoff ritiene che il testo sia proveniente dalla bassa Lotaringia. Ulteriore
perplessità è legata al fatto che il codice all’interno del quale è stato rinvenuto il
manoscritto non figuri in nessun inventario prima di quello effettuato tra il 1150
e il 1168: è possibile, tuttavia, che il manoscritto fosse stato prestato e quindi
non si trovasse all’interno della biblioteca in quel momento.
Se anche il manoscritto non è stato composto lì, il collegamento della sequenza con
Saint-Amand esiste; il monastero contribuì, infatti, alla ricostruzione del monastero
di Hasnon nel 1065. La sorella del benefattore del restauro si chiamava proprio
Eulalia.

RAIMBAUT DE VAQUEIRAS: “ERAS QUAN VEY VERDEYAR”


Si tratta di una lirica famosissima, al punto che la proto-filologia romanza nasce a
partire proprio da essa: infatti, un grande studioso della fine del 1700, Lacurne de
Saint Palaye, si avvicinò allo studio della lirica provenzale a partire da questo testo,
sul quale poi effettuò uno studio esposto nel suo saggio presentato presso
l’Academie française, che gli permise di dimostrare la possibilità di
intercomprensione tra volgari differenti.
Raimbaut De Vaqueiras: viene considerato un grande trovatore provenzale e fu
attivo tra il 1180 e il 1205; era il figlio di un povero cavaliere, divenne giullare e
verso il 1180, epoca d’oro per la lirica, entrò in contatto con Bonifacio di
Monferrato, personaggio di spicco della nobiltà europea dell’epoca. È importante
sottolineare come la lirica, nata in Provenza, abbia raggiunto precocemente l’Italia,
sia per ragioni di prossimità, sia per la presenza di corti simili a quelle provenzali
in quanto a struttura interna e organizzazione; l’Italia diverrà poi il cuore pulsante
della lirica provenzale per due ragioni:
• L’avvio delle crociate: la seconda e la terza crociata diedero una spinta
particolare alla produzione in questo nuovo genere letterario in Italia poiché, in
seguito alla decisione di tentare di raggiungere i Luoghi Santi via mare, la
penisola -e in particolare Venezia e la Puglia- divenne luogo privilegiato di
imbarco e canalizzatrice della Cristianità. Era abitudine dei crociati portare con
sé nei loro viaggi i giullari della corte, cantori e trovatori.
• Durante la crociata rivolta contro gli Albigesi, agli inizi del XIII secolo, le
corti provenzali divennero bersaglio di una serie di feroci attacchi: i giullari, di
conseguenza, furono costretti a rifugiarsi in Italia. Ciò determinò che una
quantità enorme di manoscritti provenzali, ossia dei codici contenenti le liriche
trobadoriche, siano stati copiati in Italia: alcuni di essi sono oggi conservati a
Parigi, altri presso la Biblioteca Vaticana o la Biblioteca Ambrosiana di Milano,
a Firenze, a Oxford, New York. Sulla base dell’evidenziazione, all’interno dei
manoscritti, di tratti linguistici e di particolari decorazioni (miniature), è stato
possibile individuare il luogo di copiatura nel Veneto, nella zona compresa tra
Treviso, Padova e Venezia.
Il ruolo centrale dell’Italia in questa fase ebbe anche un altro esito, ossia la
produzione di
• “vidas”: brevi biografie anonime in prosa e in occitano, riferite agli autori che
avevano composto le diverse liriche;
• “razòs”: spiegazione, scritta in occitano, delle circostanze che hanno dato
origine a una poesia da parte di un trovatore.
Si tratta di testi importanti, in prosa, che all’inizio accompagnano e precedono le
liriche, in quanto permettono l’“accessus ad auctores”; in una fase successiva
verranno svincolati dalle liriche, andando a costituire sezioni a parte che getteranno
i presupposti, secondo alcune visioni critiche, per la formazione di primi testi in
prosa nel genere della novella. Uno degli autori provenzali più importanti di Vidas
e razòs fu Uc de Saint Circ, attivo presso la corte della famiglia Da Romano. La
composizione di brevi passi di prosa in questo genere fu caratteristica della lirica
trobadorica, ma fu totalmente estranea a quella francese (nord della Francia):
quest’ultima infatti fu concepita per essere prodotta esclusivamente nella Francia
del Nord e talvolta in Provenza, in un ambiente in cui gli autori di questi
componimenti erano perfettamente noti. Nell’analisi di un testo in lingua
provenzale e più in generale di epoca medievale è fondamentale concentrarsi non
solo sulla sua produzione ma anche sulla sua fruizione, sul pubblico di
destinazione. La lirica provenzale sarà il fondamento della Scuola Siciliana e della
scuola poetica italiana in generale, dal Dolce Stil novo, a Dante, Petrarca.
Intorno al 1190 Raimbaut de Vaqueiras, a Genova, scrisse una notissima canzone
bilingue, avente strofe in provenzale alternate a strofe in genovese. Il trovatore
accompagnò poi Bonifacio di Monferrato nella spedizione in Sicilia del 1194,
venne nominato cavaliere e compose una serie di poesie dedicate alla figlia di
Bonifacio, Beatrice di Monferrato; prese parte alla IV crociata, con l’assedio di
Costantinopoli, durante la quale probabilmente trovò la morte: in effetti, l’ultima
sua opera risale al 1205 e venne composta presso Salonicco.
La lirica “Eran quas vey verdeyar” ( "Ora quando vedo verdeggiare") è un
esempio di virtuosismo linguistico, metrico e rimico e rappresenta uno dei vertici
della produzione provenzale. Essa è un descort, genere poetico medievale affine
al lai ( canto medievale con andamento melodico ), un adattamento cortese, da
parte dei trovatori, di musiche probabilmente di origine celtica.
Si tratta di una canzone che esprime un «disaccordo», composta da un numero
variabile di strofe, generalmente in un numero compreso tra 5 e 7. Generalmente è
presente una strofa conclusiva, più corta delle altre, che prende il nome di conjat,
congedo, in cui il trovatore si separa dalla sua canzone, oppure si rivolge al
giullare, al committente o, qualora ci fossero, ai personaggi politici e storici
protagonisti della canzone. Non era raro che una stessa lirica avesse destinatari
differenti, pertanto la chiusa e l’invio variavano il nome del destinatario e le
formule conclusive.
La sua particolarità consiste nell'esprimere il dilemma amoroso interno del poeta
mediante una forma «discordante»: ciò è enfatizzato da
strutture metriche insolite e/o mutevoli, versi e strofe molto lunghi
e rime irregolari. In questo caso, in “Eran quas vey verdeyar”, al polimorfismo
strofico o metrico del descort viene ad aggiungersi un'ulteriore "discordanza",
tramite l'impiego di ben cinque idiomi diversi, uno per ogni strofa (cobla):
provenzale, italiano, francese, guascone e galiziano-portoghese; infine, con il
ruolo di conjat o chiusa, la sesta e ultima strofa di 10 versi (dunque più lunga
delle altre) avente la stessa alternanza plurilinguistica ogni due versi. La
straordinarietà di quest’ultima strofa risiede nel fatto che, mentre nelle strofe
precedenti ciascuna strofa fosse indipendente dalle altre e si risolvesse in sé stessa
e nella sua lingua, nel conjat le lingue si alternano unendosi in un discorso coerente
e strutturato. Il fatto che l’autore abbia composto la lirica in 5 lingue romanze
differente presuppone che, a quel tempo, ci fosse una fortissima intercomprensione
tra i vari idiomi romanzi.
Schema metrico e rimico:
• dal conteggio delle sillabe dei versi della prima strofa sembra ci si trovi a
un’alternanza di versi settenari e ottonari; in realtà il provenzale è una lingua
ossitonica, in cui l’accentuazione, nella maggior parte delle parole, cade
sull’ultima sillaba. Quando la sillaba termina con la vocale /e/ essa non si
pronuncia, è muta: pertanto, per convenzione, si è soliti non considerarla nel
conteggio delle sillabe; essa prende il nome di “rima femminile”. Si assiste,
dunque, a un’alternanza tra rime maschili, ossitoniche, (versi di 7 sillabe,
indicati nel testo come, ad esempio, a7) e rime femminili, parossitoniche, (versi
di 8 sillabe, di cui se ne contano 7, indicati nel testo come, ad esempio, b7’):
possiamo ragionevolmente affermare, quindi, che ci troviamo in presenza di
strofe ectasillabiche.
• La disposizione rimica è alternata, ABABAB. La scelta di una sequenza rimica
così semplice è motivata dall’esigenza di concentrare le difficoltà e l’attenzione
nell’uso alternato delle lingue.
La lirica, come tutte le liriche d’amore, non ha un andamento narrativo, ma
circolare. La lirica, infatti, non si pone come obiettivo quello di raccontare gli
eventi, sebbene esistano generi lirico-narrativi: nel modulo per eccellenza della
canzone si parla di amore. La successione delle lingue in cui è articolata la poesia
non è assolutamente casuale ma segue un ordine gerarchico che varia in base al
prestigio linguistico. La lirica antica non aveva un titolo avulso dal testo, ma si
denominava con il primo verso; la prima strofa, tra le altre, era quella più
facilmente memorizzabile ed era l’unica ad avere sempre la stessa posizione,
mentre le altre potevano essere interscambiabili, in quanto il tema era lo stesso. Il
tentativo da parte degli autori di limitare questa tendenza dei giullari a modificare
l’ordine delle strofe li spinse sempre più di frequente a creare collegamenti
interstrofici (coblas doblas con stessi rimanti, oppure verso finale con una
desinenza che rima con la desinenza finale del primo verso della strofa successiva).
PROVENZALE
Ora quando vedo verdeggiare i prati, e i verzieri e i boschi, voglio cominciare un
discordo d’amore, per cui io son disperato (vado errando), perché una donna soleva
amarmi ma ha cambiato la sua intenzione (coratges), per cui io faccio discordare le
parole, i suoni e le lingue.

ITALIANO:
Io sono quello che non ho bene né mai l’avrò, né d’aprile né di maggio, se non l’ho
dalla mia donna; di certo nella sua lingua (la donna forse è italiana) non so dire la
sua gran bellezza, più fresca d’un fiore di gladiolo, per cui non me ne separerò.

FRANCESE:
Bella dolce cara signora, a voi mi dono e mi concedo; non avrò mai gioia completa
se io non ho voi e voi me. (espressione simile presente nel “Tristano”). Siete
davvero una mala nemica, se io muoio per la mia buona fede, ma mai in nessun
modo mi allontanerò dal vostro dominio.

GUASCONE
Signora, io mi arrendo a voi perché siete la più buona e bella che mai fosse, e
gagliarda e valente, se solo non mi foste tanto ostile. Avete bellissime fattezze e
colorito fresco e giovane. Sono vostro, e se vi avessi non mi potrebbe opprimere
nulla.

GALIZIANO-PORTOGHESE

Ma tanto temo il vostro giudizio che ne sono tutto spaventato. Per voi ho pena e
affanno, e la mia persona ferita: la notte, quando giaccio nel mio letto, mi risveglio
continuamente; e poiché non ottengo mai nulla ho errato nel pensiero che ho
concepito.

CONJAT-CONGEDO
Bel Cavaliere, tanto è preziosa la vostra onorata signoria che ogni giorno sono
sgomento. Ohimè! Che farò se colei che ho più cara mi uccide, non so perché? Mia
signora, per la fede che vi devo e per la testa di santa Quiteria, il cuore mi avete
tratto via e nobilmente parlando rubato.

• Questa lirica sarà presa come modello e verrà imitata da altri due autori,
Bonifacio Calvo e Serveri de Girona.
• La prima strofa, di solito, nelle liriche dei trovatori, suole aprirsi con un topos
primaverile, in cui l’amore per la natura e il rigoglio della stagione vengono
comparati al sentimento amoroso. Tale elemento si ritrova anche nella
precedente e coeva lirica mediolatina, tornerà in quella francese mentre tenderà
a scomparire in quella italiana. Ovviamente il topos della primavera come
risveglio può rispecchiare il sentimento gioioso che deriva da un amore
corrisposto o, contrariamente, evidenziare un contrasto tra la natura rigogliosa e
colorata e il cuore arido e triste di un amante non ricambiato.
• Nel primo verso il polisindeto “pratz e vergiers e boscatges” è funzionale a
evidenziare il contrasto tra i prati e i boschi, all’esterno, e i verzieri, i giardini al
chiuso nelle corti.
• La prima strofa è spesso quella che chiarisce lo scopo del poeta e che ne riflette
l’azione metapoetica.
• “coratges”: ci troviamo in presenza della cosiddetta “chanson des changes”, che
ha come protagonista una donna amata da un poeta, in un amore durevole nel
tempo; tuttavia di fronte alla noncuranza e alla crudeltà della donna il poeta
poteva trovarsi a cambiare l’oggetto del suo amore e a rivolgere le sue
attenzioni a una nuova fanciulla. La Chanson des changes assume
importanza perché spesso si trova a definire la destinataria del nuovo
amore con un senhal (soprannome) e a chiarire le ragioni del cambiamento.
Nel caso di questo componimento non è il poeta ad essersi innamorato di
un’altra donna ma il contrario. Questo genere di lirica si diffonderà
notevolmente nel nord della Francia affiancandosi alla poesia mariana di
carattere religioso: alla madonna verranno dedicate poesie con parole amorose
già in uso per la poesia laica e i poeti, per giustificare questo cambiamento
nell’oggetto dell’amore, utilizzeranno come espediente proprio lo change.
Numerosi studi inducono a pensare che la canzone mariana abbia avuto
successo al Nord piuttosto che al Sud per motivi storici: nel 1215 la Chiesa
indisse il IV Concilio Lateranense, con il quale venne rinnovato il divieto dei
tornei, venne definito il rito del matrimonio, venne istituito il sacramento della
Confessione e ribadita l’esistenza del regno del Purgatorio. Il ruolo di Maria
divenne pertanto quello di intercedere presso Dio per la salvezza dell’uomo,
vengono istituite messe per i defunti e donazioni in denaro.
• 2° strofa: in italiano; il testo si fa risalire alla fine del XII secolo e, a
quest’altezza cronologica, la lingua italiana non è ancora dotata di una
tradizione lirica scritta. Di conseguenza all’interno del testo diversi studiosi
hanno rilevato una serie di incertezze grafiche e linguistiche, dovute da un lato
al fatto che l’autore della lirica non fosse madre-lingua, dall’altro al fatto che
non ci fosse una tradizione scritta della lirica cui ispirarsi. Le incertezze si
riscontrano: nella presenza di “ni” e “si”, nei possessivi “so” e “sa”, in “beutà”
che presenta la vocalizzazione della laterale dinanzi a consonante; si hanno
grafie particolari, come “jamai” per giammai; interessante è la conservazione
della /o/ finale, caratteristica del genovese; oscillazione tra le forme verbali di
avere “aio” e “ò” per esigenze anche metriche e rimiche.
• In francese antico “oi” si legge /oe/; anche nella strofa francese il tema rimane
immutato: si parla di un poeta innamorato, di una donna che non corrisponde
questo amore e dell’ostinazione del poeta a non volervi rinunciare. Sicuramente
in questa strofa è presente un grande rispetto del francese, in quanto Raimbaut
intratteneva rapporti con un grande poeta francese del suo tempo.
• La strofa è in guascone: questa lingua, come l’italiano, non aveva una
tradizione letteraria consolidata e continuerà ad esserlo per molto tempo.
Pertanto ci sono una serie di incertezze rappresentative: si ha il passaggio da
/v/> /b/, tipo del guascone; il passaggio da /f/ a una consonante aspirata (Hiera);
si verifica un rotacismo nelle forme “Voera” e “noera”; DOMINA> dauna.
• Il galego-portoghese sarà una lingua he avrà una tradizione lirica molto
importante, in merito alla strofa si è molto discusso, in quanto si è a lungo
ritenuto che essa fosse scritta in castigliano.
• “Behls Cavaliers”= senhal per Beatrice di Monferrato; Santa Quitera, santa
venerata in Guascogna. Le rime del congedo sono simili a quelle delle strofe.
La lirica costituisce sicuramente un caso straordinario: la tradizione provenzale
e francese è, infatti, principalmente monolinguistica; ci sono casi eccezionali di
opere bilingui, opere in cui un poeta entra in contrasto con un altro in una
discussione poetica che viene svolta in due lingue differenti.
Nella scelta delle lingue da utilizzare per il suo componimento Raimbaut
individuò tutti volgari romanzi; tuttavia non tutti sono dotati della stessa dignità
letteraria e duttilità espressiva. La disposizione delle lingue non è assolutamente
casuale: le lingue in posizione dispari nella successione -provenzale, francese e
galego- sono già attestate e dotate di una fiorente tradizione lirica; l’italiano e il
guascone ne sono, invece, prive. Il poeta ha dunque creato una gerarchia interna
al testo nella disposizione degli idiomi utilizzati: c’è una scelta ragionata, originale
e giocosa di discordo tra lingue dotate di una tradizione letteraria e lingue che
ancora non la possedevano.
La scelta da parte dell’autore di utilizzare questi idiomi è dettata, inoltre, da
ragioni personali: egli scrisse una tenzone in lingua genovese ed ebbe rapporti
epistolari con il grande poeta francese Conon de Béthune. Ci si è a lungo chiesti
cosa l’autore conoscesse del galego. Oggi sappiamo che la “Cantiga de amigo”
fosse un genere già praticato a Santiago de Compostela nella seconda metà del XII
secolo: il poeta Johan Soarez de Pavia, il più antico trovatore galego-portoghese,
attivo tra il 1169 e il 1200 (in una fase dunque anteriore all’attività di Raimbaut),
fu un vassallo della corte di Catalogna e Aragona ed è possibile che abbia
frequentato la corte, all’interno della quale si soleva poetare in provenzale. È
dunque possibile che a Raimbaut fosse giunta voce di composizioni in lingua
galiziana e che la sua scelta fosse volta ad omaggiare la nascente tradizione
letteraria in questa lingua. Altro dato da sottolineare è il fatto che l’autore abbia
scelto di non comprendere nella sua scelta il castigliano, in quanto la lingua poetica
utilizzata presso le corti di quest’area della Spagna era, a quest’altezza cronologica,
il provenzale.
Datazione: Nel periodo compreso tra il 1197 e il 1201 Raimbaut dedicò una serie
di composizioni a Beatrice di Monferrato: ci troviamo nella fase immediatamente
precedente alla IV crociata. Le liriche vennero composte presso la corte di
Bonifacio di Monferrato, dove videro la luce:
• il discordo plurilingue;
• il discordo bilingue in occitano-genovese,
• il “Carros”, poema epico-lirico dove l'autore narra un'immaginaria guerra fra
donne;
• l’Estampida: originariamente un genere di poesie cantate e accompagnate da
uno strumento, poi una composizione strumentale con carattere di danza;
componimento che richiama le forme poetiche del nord della Francia.
Bonifacio di Monferrato, nel 1202, sotto proposta di Geoffroy de Villehardouin,
venne posto a capo della IV crociata: la direzione della stessa avrebbe dovuto
essere, in realtà, affidata a Tibaldo III, conte di Blois e di Champagne; egli,
tuttavia, aveva improvvisamente trovato la morte ed era stato sostituito da
Bonifacio. Il fatto che la lirica sia stata composta a ridosso della crociata è un dato
importante: da una serie di altri indizi sappiamo che, in Francia, Provenza e Italia,
sotto la spinta del pontificato di Innocenzo III fosse stata manifestato un grande
entusiasmo per questa crociata. La lirica provenzale introdusse un nuovo modo di
parlare d’amore totalmente differente rispetto a quello adottato in epoca classica e
mediolatina: nella nuova ideologia cortese il sentimento amoroso diviene qualcosa
che invita all’introspezione, è funzionale ad elevare lo spirito umano e rende
migliori.
Sulla base di un recente studio, condotto dal filologo romanzo Giuseppe Tavani:
• il discordo sarebbe la realizzazione formale di un appello a partire per la
crociata attraverso l’unità culturale dell’amore: attraverso una lirica d’amore
manifestata in differenti lingue si produrrebbe l’invito a un’unità ideologica
del mondo romanzo in opposizione a quello arabo e ortodosso sotto una
voce unica, l’amore. Se la ricostruzione fosse corretta, il testo avrebbe
fortissime implicazioni politiche, in quanto vorrebbe portare in luce l’unità del
mondo romanzo sotto l’unica tradizione cortese.
• La scelta dell’italiano e del guascone sarebbe dettata da specifiche ragioni:
l’adozione dell’italiano sarebbe un atto di omaggio a Costanza d’Altavilla,
regina di Sicilia dal 1194 al 1198, moglie di Enrico VI e madre dello stupor
mundi, Federico II. L’omaggio alla regina, di origine normanna, sarebbe volto
inoltre a celebrare anche Filippo, fratello di Enrico, succedutogli al trono nel
1197 di cui Bonifacio di Monferrato era amico e fedele vassallo.
La scelta del guascone sarebbe, invece, da interpretare come un atto di
omaggio nei confronti di un’altra dama, Bianca di Navarra, figlia di Sancho VI,
che a sua volta aveva legami con quel Tibaldo di Blois e Champagne che
avrebbe dovuto essere posto a capo della crociata.
Se l’ipotesi di Tavani fosse vera, ossia se l’arco cronologico di composizione
dell’opera è individuabile tra il 1197 e il 1201 e se l’ordine gerarchico non è
casuale in virtù di tutti gli elementi sopra delineati, la data di composizione del
descort potrebbe essere circoscritta al 1199: in quell’anno, infatti, Tibaldo di
Champagne, nonostante il divieto stabilito dal IV Concilio, aveva indetto un torneo
presso il suo castello durante il quale i partecipanti avevano imbracciato la croce;
nello stesso anno era stato celebrato il matrimonio di Tibaldo con bianca di
Navarra e Federico II era asceso al soglio imperiale. Se l’interpretazione di Tavani
fosse accettabile ci troveremmo in presenza di un testo che, se da un lato
rispecchia lo sperimentalismo caratteristico di Rimbaut, dall’altro
nasconderebbe degli obiettivi politici: il discordo sarebbe una sorte di manifesto
di promozione della IV crociata, esattamente come la Chanson de Roland lo era
stato per la I.

BONIFACI CALVO: “UN NOU SIRVENTES SES TARDAR”


Il testo di Bonifaci viene spesso avvicinato a quello di Raimbaut; tuttavia esso se
ne differenzia per diverse ragioni. Innanzitutto si tratta di un testo con uno scopo
essenzialmente politico; in secondo luogo le lingue utilizzate sono tre e
comprendono: il galego-portoghese, il provenzale e il francese, lingue aventi una
tradizione letteraria importante.
• Il galego portoghese è un omaggio a Alfonso X di Castiglia, sovrano della
corte presso cui il poeta lavora;
• Il provenzale è la lingua internazionale del mondo cortese e della corte
aragonese;
• Il francese è la lingua della cancelleria di Navarra.
Punti di contatto tra la Navarra e la Francia: Tibaldo I di Navarra, IV conte di
Champagne, fu l’ultimo poeta della grande tradizione cortese, colui con cui si
chiuse la fiorente stagione della produzione lirica. Egli divenne re di Navarra nel
1234: il suo diritto al trono era legittimato dalla discendenza dalla madre Bianca di
Navarra e dal nonno materno Sancho VI. Tibaldo trascorse molto tempo presso la
corte, all’interno della quale diede avvio ad importanti iniziative in campo politico
ed economico; fu un personaggio poetico di enorme rilevanza, tanto che Dante lo
menzionò nel “De vulgari eloquentia”. Le sue opere, numerose, si caratterizzano
per la loro enorme complessità, permettono di affiancarlo a poeti di spessore
come Conon de Béthune: egli rivela legami con il “Roman de la Rose” e
introdusse sempre più marcatamente l’elemento allegorico, elemento
fondamentale della produzione poetica francese successiva.
L’opera che prenderemo in analisi è un sirventese di fondamentale importanza.
L’episodio sviluppato l suo interno è legato ad avvenimenti storici, guerre e
scontri: infatti il re di Castiglia, alla morte di Tibaldo I, avrebbe voluto
appropriarsi della Navarra; a lui si oppose poi Giacomo I, che difese il diritto al
trono di suo figlio.
La lirica si compone di quattro coblas (strofe) singulars caudadas: si tratta di
stanze in cui la sillaba finale dell’ultimo verso della strofa si lega in rima alla
sillaba finale del primo verso della strofa successiva; la struttura, di per sé già
complessa, mette inoltre in relazione strofe scritte in lingue differenti.
L’incipit del componimento “un nou sirventes” allude a una tradizione, quella del
sirventese già esistente: il componimento si pone dunque in una relazione di
eredità con la tradizione precedente; Bonifaci Calvo, esattamente come
Raimbaut, affida alla prima strofa il compito di chiarire l’intento dell’azione
poetica, ossia la volontà di comporre un sirventese, compiendo così un’opera di
metaletteratura.

Voglio comporre un nuovo sirventese al re di Castiglia poiché non mi sembra, né


penso, né credo che abbia l’intenzione di guerreggiare contro gli abitanti della
Navarra e il re aragonese; tuttavia, quando avrò detto quello che devo, faccia lui
ciò che crede di fare.

Però io già sento molti sostenere che egli non voglia combattere se non con le
minacce, e so molto bene che a colui che voglia essere rispettato in guerra
conviene porsi incutendo paura e offrendo giudizio, cuore e corpo, denaro e amici.
(pregio= caratteristica fondamentale, in epoca medievale, sia per i cavalieri che per
i trovatori).
Pertanto io suggerisco al sovrano, se vuole riscuotere successo in ciò che ha
intrapreso, che guerreggi senza minacciare, poiché non serve a nulla a mio parere;
e in realtà ho sentito raccontare che egli potrebbe subito affrontare sul campo di
battaglia i due re, se lo desiderasse.
E se lui ora non esibisce sulla sua terra la sua tenda e il suo gonfalone (stendardo)
al re di Navarra e a suo suocero il re di Aragona, avranno ragione a cambiare
opinione su di lui coloro che sono soliti parlare bene di lui.
E già cominciano a dire che il re di Lione già preferisca cacciare con gli astori e i
falconi piuttosto che vestire gli usberghi.
È necessario notare il fatto che ai trovatori fosse permesso dare suggerimenti e
rivolgere ammonizioni persino ai sovrani in carica: essi costituivano una sorta di
élite della società e probabilmente esercitavano anche cariche pubbliche in qualità
di ambasciatori; erano in grado di scrivere, leggere e comporre, conoscevano il
latino e spesso ricevevano la loro educazione in scuole clericali.
Le sollecitazioni torneranno anche nelle canzoni di crociata: appare evidente,
dunque, che la letteratura esercitasse un ruolo di preminenza anche all’interno delle
questioni politiche, dove svolgeva attività propagandistiche. La Provenza e la
Catalogna erano al tempo costituite da una serie di potentati locali, dove ancora
non esisteva un potere centralizzato nelle mani di un unico sovrano: le voci degli
intellettuali, dunque, assumevano un particolare peso.
Ragione relativa all’utilizzo delle 3 lingue:
Il galego portoghese, il provenzale e il francese erano lingue molto stimate presso
la corte di Castiglia. La scelta linguistica è sicuramente dovuta, in parte, alla
volontà di prendere le distanze dall’opera di Raimbaut e mostrare la propria
originalità. Numerosi studiosi hanno sostenuto che, attraverso il componimento
e la scelta del trilinguismo, l’autore mirasse a mostrare il proprio disappunto
verso l’operato del sovrano in tutte le lingue più prestigiose del mondo.
Ulteriore quesito riguarda poi la mancata adozione per il componimento di uno
degli idiomi spagnoli, padri del sirventese di Bonifaci: la ragione risiede nel fatto
che il catalano fosse utilizzato in ambito filosofico e non poetico, genere che
adotterà il provenzale fino al XIV secolo; lo stesso discorso va applicato sia al
castigliano che all’aragonese.
La strutturazione a coblas caudadas complica ed eleva la componente stilistica
della lirica; l’autore attraverso le sue scelte dà prova di possedere una enorme
dimestichezza nell’utilizzo del verso.

LA LIRICA NELLA FRANCIA SETTENTRIONALE: TROVIERI E LANGUE


D’OIL.
Non è un caso che la produzione lirica si sia andata sviluppando in quella parte
della Francia settentrionale che era, al tempo, più vitale dal punto di vista
economico. Tuttavia, nel momento in cui la società “borghese” riuscì ad
appropriarsi dell’ethos cortese e dell’intero sistema ideologico esso viene
parzialmente svilito e ridotto a mera ripetizione formale: l’adesione all’ideale
cortese non fu più qualcosa di totale. Ciò spiegherebbe anche l’apertura della lirica
al folklore, indirizzata a rinnovare un qualcosa che si percepiva come ormai
stanco. I personaggi della poesia trobadorica erano essenziali: si aveva un “io-
lirico” che manifestava il suo amore nei confronti della dama; a questi protagonisti
potevano aggiungersi maldicenti, pettegoli, antagonisti, ma il focus dell’esperienza
poetica era concentrato sull’amore tra i due. Nella lirica francese, d’altro canto,
inizia ad affermarsi l’ideale del “Dio Amore”: l’amore non è più soltanto un
sentimento, ma diventa quasi una sorta di entità fisica, personificata. Tale
tendenza potrebbe da un lato essere connessa alla tradizione classica, in
particolare ovidiana, diffusa e stimata nel Nord della Francia (Scuola di Chartres,
Scuola di Champagne); dall’altro potrebbe essere un espediente per sganciare la
produzione poetica dall’ambiente cortigiano e coinvolgere canonici e
personaggi appartenenti alla realtà cittadina, i cui nomi spesso figuravano
all’interno della cronachistica cittadina e che da questo momento in poi potettero
iniziare a parlare d’amore. Da questo punto di vista le differenze tra il Nord e il
Sud della Francia non potrebbero essere più evidenti: nel primo caso l’esperienza
poetica divenne accessibile anche al ceto in ascesa, si configurò come
espressione individuale, legata anche al diletto; al Sud gli autori di lirica
trobadorica, invece, furono quasi sempre personaggi appartenenti all’alta
nobiltà e non era raro che l’azione poetica fosse svolta anche da donne, che
avevano ereditato la tradizione di Eleonora d’Aquitania, le quali rivestivano un
ruolo fondamentale nell’ideologia cortese. La situazione appena delineata mostra
in maniera evidente come, dello stesso ideale di partenza -quello cortese- si siano
avute diverse declinazioni, dipendenti dal retaggio culturale e dalle circostanze
politiche e sociali dei diversi luoghi.
Conon De Béthune: fu un grandissimo troviere. Nato nel 1150, era il decimo
figlio di Roberto V, signore di Béthune, sita nella zona del Pas de Calais; era
imparentato con la famiglia governante degli Hainaut nelle Fiandre. Fu un
personaggio molto attivo dal punto di vista politico e militare: infatti, prese parte
al matrimonio del re Filippo Augusto con Isabella di Hainaut nel 1180,
partecipò alla terza crociata e a una serie di altre spedizioni militari che lo
portarono ad entrare in contatto con personaggi del calibro di Alessio IV Comneno,
imperatore di Bisanzio. Egli fu attivo tra il 1180 e il 1220, periodo che ha lasciato
in eredità un canzoniere, una raccolta di liriche molto piccola ma originalissima. È
interessante una canzone in cui il poeta esprime il proprio disappunto per essergli
stata rimproverata, alla corte di Filippo Augusto, la pronuncia piccarda;
attestazione assai significativa circa i gusti linguistici della corte di Francia.
Ebbe rapporti molto stretti con Raimbaut de Vaqueiras, certificati da una
tenzone, uno scambio di strofe in cui uno scriveva in francese (Conon) e l’altro in
provenzale (Raimbaut). Probabilmente esso non fu composto in un momento in cui
i due autori erano distanti, ma in uno in cui erano insieme: gli studiosi sono divisi
tra l’ipotesi che la stesura del componimento sia da collocarsi nel 1204, presso
Costantinopoli, dove i due poeti erano giunti per la IV crociata, oppure più
probabilmente in una fase precedente, nella zona del Monferrato. Conon, infatti,
svolse un ruolo importante nell’organizzazione della IV crociata: egli venne
inviato in Italia per trattare con il doge di Venezia Enrico Dandolo sul prezzo
delle navi da prendere in affitto per la spedizione della IV crociata. È possibile,
dunque, che egli abbia attraversato il Monferrato, sia entrato in contatto con
Raimbaut e i due abbiano prodotto il partimen. Il fatto che i due autori abbiano
scelto di scambiarsi stanze in lingue differenti dimostra che le due lingue, come ha
dimostrato il discordo, fossero perfettamente comprensibili non soltanto per i due
autori ma anche per tutti coloro che fruivano di quella lirica.
Un altro importante contatto di Conon de Béthune fu quello con Bertran de Born,
personaggio considerato come il massimo autore di liriche politiche e di
sirventesi della Provenza. Ci troviamo, dunque, in presenza di un reticolo di
legami e rapporti di colleganza tra il mondo dei trovatori e quello dei trovieri. Le
crociate, in maniera particolare, fornirono l’occasione per entrare in contatto e
stabilire una serie di scambi politici, intellettuali, culturali e stilistici.
CONON DE BÉTHUNE: BELLE DOCE DAME CHIERE ( BELLA DOLCE
CARA DAMA )

Bella dolce cara Dama, tutta la vostra grande bellezza mi ha rapito così tanto che,
se (anche) io fossi già in Paradiso, ritornerei indietro, a condizione che la mia
preghiera mi avesse posto là dove potrei essere il vostro amico (amante) senza che
vi mostriate altera verso di me; perché non ho mai, in nessun modo, agito (così)
male da meritare che mi facciate guerra. (motivo ricorrente nella poesia del Nord
della Francia). Non lascerò che io non dica almeno una parte dei miei mali, in
quanto persona adirata. Sia maledetto il vostro cuore orgoglioso che mi ha fatto
andare in Siria (Terra Santa), falsa, più volubile di una gazza*! Non piangerò mai
per voi. È folle chi si fida di voi, perché voi siete l’abbazia dei miserabili (l’abbazia
di quelli che soffrono), perciò non rivelerò (o non celebrerò) il vostro nome.
La poesia costituisce un caso straordinario, in quanto si compone esclusivamente
di 2 strofe: un numero così ridotto strofe, solitamente in numero di cinque,
produce negli studiosi il dubbio che il testo giunto a noi sia soltanto un frammento
di un componimento più grande.
La lirica presa in esame è nella forma della “Chanson de change”, canzone
originata dal cambiamento per il poeta dell’oggetto del suo amore, che diviene una
nuova fanciulla, in cui si assiste all’encomio per la nuova dama e talvolta al
vituperio della precedente. Essa è, tuttavia una chanson “O”; la forma della
“chanson de change” risultava poco nobile per gli ideali cortesi poiché
nell’immaginario cortese l’amore del trovatore per la sua dama doveva essere
estenuante, irrefrenabile: pertanto spesso gli intenti dietro la composizione di opere
in questa forma erano di carattere parodico, si rivolgevano ad altri ideali oppure
miravano a testimoniare il passaggio dall’amore profano a quello religioso
(canzoni mariane).
Nella prima strofa del componimento il poeta si rivolge con ossequio alla dama;
nella seconda, invece, le attribuisce la colpa di essere partito per l’Oriente e la
accusa di essere falsa e incostante. Il contrasto tra le due strofe non potrebbe
essere più lampante ed è accentuato dalla menzione del Paradiso, nella prima
strofa, in contrapposizione all’“Abbazia dei Sofferenti” nella seconda: questo
elemento ha prodotto una serie di interrogativi negli studiosi. Il fatto che non ci
siano rime che collegano le due strofe ha fatto pensare agli studiosi che si
trattasse di frammenti di altre canzoni affiancati impropriamente.
Recenti indagini, tra cui quella di Maria Luisa Meneghetti, ipotizzano che ci si
trovi in presenza di un divertissement, con l’obiettivo di mettere in scena la
dialettica medievale del “sic et non” di Pietro Abelardo: in sostanza, nella stessa
lirica si vorrebbero evidenziare due aspetti contrapposti dell’amore. D’altronde, il
proposito riprenderebbe una serie di tentativi già effettuati nella zona occitanica:
questo fornirebbe un’ulteriore argomentazione per sostenere come non sia è
possibile che nel mondo romanzo, e in una realtà geograficamente definita come la
Francia, la tradizione della lirica del Nord della regione non condividesse
elementi contenutistici, formali e stilistici con quella del Sud. A titolo
esemplificativo, basti pensare che l’editore di un canzoniere di Bertran de Born
vede nella menzione di una “carretta” all’interno di una delle sue liriche un
riferimento al tema fondante di uno dei romanzi di Chrétien de Troyes, il
“Lancelot”. In effetti recenti ed accuratissimi studi in merito hanno evidenziato
che tale elemento sia comparso nella lirica di Bertran proprio nel momento in cui
Chretien si accingeva a comporre il Lancelot: le due realtà sarebbero, pertanto,
profondamente interconnesse. La letteratura dell’epoca medievale si
caratterizza, pertanto, per una componente fondamentale: l’intertestualità
(con i testi antichi, con quelli mediolatini, o con quelli coevi in volgari differenti).
Nel testo alcuni rimanti sono evidenziati in grassetto: la ragione risiede nel fatto
che essi coincidano per la maggior parte con i rimanti della strofa in francese
del discordo “Eras quan vey verdeyar” di Raimbaut de Vaqueiras (chiere,
entiere, maniere, guerriere). Questo testimonia come, nel momento in cui
Raimbaut scrisse il discordo, avesse già letto il componimento di Conon de
Bethune: la citazione dei suoi versi sarebbe, pertanto, un omaggio all’amico. È
frequente che la componente intertestuale utilizzi come espediente la ripresa
dei rimanti: in questo caso è possibile desumere che ci fossero dei debiti formali
di Raimbaut, grande trovatore, nei confronti di Conon, un troviere, appartenente
a una tradizione apparentemente minoritaria.
La lirica di Conon “Belle doce dame chiere” fu trasmessa in maniera frammentaria
nel manoscritto MT e in maniera più estesa nella “Redazione U” e nella
“Redazione O”: pertanto si è lungo discusso su quale fosse la redazione più
antica. La maggiore lunghezza del testo della “redazione U” ha per lungo tempo
indotto gli studiosi a ritenere che fosse questo il testo originale e che gli altri
avessero perso dei frammenti nel processo di trasmissione; tuttavia, secondo la tesi
di Maria Luisa Meneghetti, il testo prodotto da Conon sarebbe proprio la
versione conservata nei manoscritti MT: la studiosa individuerebbe nel testo
della “Redazione U” un centone, ossia un testo composto da un collage di frasi di
autori od opere diversi, unite a formare un'opera originale. A supporto della sua
tesi la studiosa porterebbe l’argomentazione che le corrispondenze con il testo
di Raimbaut siano più forti e cogenti nel Manoscritto MT; inoltre,
l’accostamento strofico all’interno di quest’ultimo, che giustappone la lode alla
condanna della dama, andrebbe a creare l’atmosfera tipica del discordo, del “sic
et non”. Se questo fosse vero, ossia se la versione MT e “O” fosse quella più
antica la scelta di Conon sarebbe un vero e proprio atto di sperimentalismo
poetico; il discordo contrapporrebbe i due volti di una stessa dama in una sorta di
confronto dialogico e la scelta di Raimbaut di comporre nella forma del descort
sarebbe un atto di omaggio ancora più grande nei confronti de troviere.
Il canzoniere di Conon, piccolo ma originale, costituisce un caso eccezionale:
infatti, secondo la tesi di Luciano Formisano ci troveremmo in presenza del
primo “canzoniere d’autore”, ossia un canzoniere all’interno del quale la
successione delle liriche non sarebbe né casuale né sarebbe opera di una scelta del
copista, ma sarebbe stata operata dallo stesso poeta. L’opera non sarebbe
soltanto l’esito di una raccolta dei componimenti dell’autore, ma sarebbe il
frutto di un progetto strutturato e ragionato. Se l’ipotesi fosse valida, esso
costituirebbe un esempio precedente ai testi identificati come prime opere d’autore,
il “Canzoniere” di Petrarca e, prima ancora, quello di Guiraut Riquier, trovatore del
tardo XII secolo: l’opera guadagnerebbe, in questo senso, un primato alla
tradizione poetica francese.

LE TRACCE NELLA LIRICA PROVENZALE DELLE ORIGINI


La definizione di “tracce” si deve a un grande filologo romanzo italiano, Alfredo
Stussi e, prima di lui, al paleografo Armando Petrucci: quest’ultimo, in un
articolo del 1983 e poi, più ampiamente, nel lavoro del 1988, sostenne che,
particolarmente in Italia e in Francia, i più antichi testi letterari fossero stati
tramandati in forma di aggiunte avventizie e occasionali effettuate in genere
nelle carte di guardia finali di codici contenenti testi latini. (Carta di guardia =
Carta di protezione, in carta o in pergamena, isolata o parte di una serie,
appartenente al primo e/o all’ultimo fascicolo o aggiunta all’inizio e/o alla fine del
volume al fine di proteggere il manoscritto al suo interno; essa poteva essere
inoltre dotata di una buona imbottitura, la cosiddetta “coperta” -da cui
“copertina” - che poteva essere in cuoio, legno). Le carte di guida, essendo di
colore bianco, diedero ai copisti e ai possessori del manoscritto la possibilità di
apporvi delle scritte, degli appunti, che denunciano che il manoscritto, nella fase
più antica, avesse senso di esistere per i suoi testi in latino e che le scritte volgari si
incuneassero negli spazi vuoti. Le carte di guardia erano inoltre utilizzate per
apporvi il nome del proprietario del manoscritto, oppure di colui che lo aveva
regalato o ancora la data. È evidente, dunque, che per lo studio filologico esse
siano estremamente preziose.
In Italia se ne hanno una serie di testimonianze, tra cui:
• L’ “Indovinello veronese”;
• La “Sequenza di Santa Eulalia”
• il “Ritmo cassinese”;
• il “Ritmo di Sant’Alessio”;
• il “Ritmo Laurenziano”;
• i “Memoriali bolognesi”, scoperti e studiati da G. Carducci. Si trattava di scritti
di ambito notarile, inquadrati in un’impaginazione in cui il testo era disposto
entro linee verticali che ne segnavano i margini laterali. Gli atti notarili, infatti,
non potevano essere modificati in alcun modo e un’impaginazione del genere
consentiva che un’eventuale contraffazione dell’atto fosse immediatamente
riconoscibile: furono proprio i margini lasciati bianchi ad essere poi adornati
con componimenti poetici.
• spesso figurano in manoscritti di ambito privato, in particolare in manoscritti
notarili. Al loro interno figurano spesso scritture avventizie aventi un obiettivo
lirico, magari di gusto stilnovistico, che dimostrano l’interesse di questa
categoria per la poesia.
Queste scritture avventizie potevano essere di differente misura e estensione ed
erano spesso opera di scriventi occasionali; inoltre esse potevano collocarsi, a
livello cronologico, in una fase di molto successiva a quella di stesura del codice,
ossia si inserivano in un contesto preesistente con il quale spesse volte non
avevano connessioni né logica causale con il testo.
Lasso, (termine che tornerà nella poesia petrarchesca, perché non sono sparviero
od astore, che potesse volare da lei, la (dama) gentile abbracciare, baciare la sua
dolce bocca, addolcire e quietare ogni dolore.
• L’immagine dello sparviero torna con il termine “ironda” nel componimento
di Bernart de Ventadorn
Oh Dio, perché non sono una rondine, che volerebbe nel cielo e di notte andrebbe
dove lei si nasconde. = motivo ricorrente nella lirica trobadorica per eccellenza
Il motivo del desiderio di essere un “amante-sparviero” tornerà anche nella
poesia trobadorica per eccellenza: la metafora esprime non solo il desiderio di
poter volare per raggiungere l’amata, ma anche l’idea di lontananza dell’io-
amante e il vagheggiamento. Tali motivi, assieme a quelli delle pene d’amore e
del bacio, torneranno anche nella fase successiva, ad esempio nel lai d’Yonec e in
tradizioni folkloriche. Pertanto, il testo sarebbe espressione di un motivo già
presente nella tradizione popolare locale, che verrà poi ereditato anche da Bernart
de Ventadorn, poeta trobadorico della terza generazione, considerato il massimo
poeta in materia amorosa.
Il secondo lacerto, il Testo B, ha posto una serie di problemi, in primo luogo dal
punto di vista interpretativo, in quanto non si capisce perfettamente cosa voglia
intendere. Appare evidente l’influsso latino, ravvisabile ad esempio
nell’espressione “sacramente”; sono presenti forme volgari come “schevaler” e
“speriure” (spergiuro).
• Secondo Bischoff sarebbe qui presente un’allusione all’amore di un’ignota
dama per un cavaliere prigioniero;
• secondo L. Lazzerini, il testo potrebbe essere interpretato come un mini
sirventese, un’invettiva moralistica contro cavalieri senza scrupoli e contro
monache pronte ad infrangere i voti sacri di castità.
*** Il testo significherebbe “I giuramenti (o i voti) non valgono più / circola
ogni sorta di spergiuro/ e anche molte …(monache?) /per amore/ accolgono i
cavalieri i quali così sono traditori (di Cristo).”
Se la traduzione fosse corretta, mentre dietro il primo testo sarebbe visibile una
tradizione giullaresca, con le sue radici nel folklore, dietro il secondo sarebbe
ipotizzabile la figura di un chierico che condanna il comportamento dei
cavalieri; emergerebbe quindi precocemente un elemento che sarà poi
caratteristico e che percorrerà tutto il Medioevo: la rivalità tra cavalieri e
chierici. Nella concezione medievale, la società era fondata su tre grandi ordini:
al vertice gli oratores (i sacerdoti), coloro che si occupavano della salvezza
delle anime; in successione i bellatores (cavalieri), che lavoravano direttamente
per gli oratores; infine i laboratores, ossia i contadini, coloro che lavoravano
per conto di tutte e tre le classi sociali. Da un determinato momento i cavalieri
e, più in generale i laici, tentarono di svincolarsi dalla sudditanza agli oratores,
in primo luogo appropriandosi della scrittura e della facoltà di poetare: questo
elemento accentuò la rivalità tra le due classi.
La critica alle monache figura anche in un precedente testo mediolatino
dell’autore Aelredo di Rievaulx, monaco cistercense vissuto tra il 1109 e il
1167, il quale si scagliò duramente contro i costumi di alcune monache. La
Lazzerini sostiene, dunque, che saremmo in presenza di due liebesstrophen di
cui soltanto la prima sarebbe una canzone d’amore: la seconda apparterrebbe
alla forma del sirventese, all’interno del quale le critiche di un chierico si
rivolgono alle monache lascive e alla condanna dei loro costumi. Pertanto,
all’interno di questi primi esempi di lirica, è possibile osservare una precoce
differenziazione dei generi della lirica volgare (lirica d’amore/ sirventese:
lirica etico-politica).
Il testo sarebbe un’ulteriore testimonianza di intertestualità tra volgari
romanzi e di contatti tra l’Italia e la produzione poetica d’oltralpe, anteriori
alla scuola siciliana.

LA REALTÀ STORICA DELL’OCCITANIA


La lirica trobadorica è alla base dell’esperienza lirica europea e la formazione
sentimentale dell’Occidente è una diretta eredità dell’operato dei trovatori:
attraverso di essi si assistette alla diffusione di una marcata sensibilità, dai tratti
particolarmente innovativi, cui si aggiunse un’interpretazione in chiave laica ed
aristocratica dei valori ereditati dalla tradizione cristiana; l’esito di questo
processo fu una fusione tra la tensione erotica e quella spirituale, tipica del
Cristianesimo.
Di fondamentale importanza fu il mutamento ideologico che vide protagonisti i
produttori di lirica, i quali cominciarono ad assumere consapevolezza autoriale e
a mirare di rendersi riconoscibili per la loro attività. Con la
poesia dei trovatori si affermò il modello di un amore atemporale, manifestato
attraverso la voce dell’io cortese spersonalizzato: obiettivo fondamentale diventò
quello di porre l’accento sul carattere nobilitante dell’amore, in grado di
trascendere il tempo. Nonostante ciò la lirica mantenne una forte vena soggettiva,
che permea la tradizione trobadorica e permette una perfetta empatia tra lettore (o
ascoltatore) e autore. Questa ha legami con la realtà storica del XII e XIII secolo e
sono stati indagati.
• Köhler ha posto in analisi gli aspetti storici alla base della nascita della lirica; il
lessico dei trovatori, infatti, si richiama a quello delle strutture feudali.
• Roncaglia sottolinea invece l’aspetto moralistico-teologico.
Il Sud della Francia aveva acquisito una grande indipendenza politica; fino al
1200 i principali aspiranti al potere sono i duchi d’Aquitania, i conti di Tolosa, i re
di Castiglia e di Aragona, i quali amministravano la zona compresa tra il Poitou e
l‘Aquitania fino ai Pirenei.
Guglielmo IX di Aquitania, asceso al trono nel 1096, fu il primo trovatore e re del
sud della Francia (Aquitania, Guascogna, Poitiers, Tolosa). Sua nipote Eleonora
ereditò il suo trono e un vastissimo territorio e, nel 1143, si unì in matrimonio
con Luigi VII, re di Francia. Tuttavia l’unione si mostrò presto turbolenta. Essi
ebbero due figlie, che raggiunta l’età adulta sposarono i due più importanti uomini
di corte del nord della Francia: Maria sposò Enrico di Champagne; Alice sposò
Tebaldo di Blois.
Eleonora d’Aquitania accompagnò il marito nella II crociata e, con lo zio
Raimondo di Antiochia (originariamente di Poitiers), cercò di fare pressione per
dirottare la crociata verso Aleppo. Ben presto sorsero una serie di dissapori tra
Luigi e Raimondo, la cui responsabilità è tradizionalmente attribuita a Eleonora,
accusata di avere un rapporto incestuoso con lo zio. Il papa Eugenio III tentò in
qualunque modo di favorire una riconciliazione tra i due sposi, al punto di
minacciarli di scomunica nel caso di separazione; alla fine i due ottennero
l’annullamento del matrimonio a causa del loro presunto legame di consanguineità.
Intanto Eleonora aveva incontrato Enrico II Plantageneto, re d’Inghilterra.
Egli era divenuto vassallo del re di Francia, il quale gli aveva concesso una serie di
territori nel meridione, la Bretagna e la Normandia. Dall’unione tra i due nacquero
quattro figli maschi, Enrico il Giovane, Riccardo Cuor di Leone, Goffredo di
Cornovaglia e Giovanni Senza Terra, e tre figlie femmine che contrassero
matrimoni vantaggiosi. L’unione tra Eleonora e il re inglese determinò che il re di
Francia si trovasse accerchiato dai loro possedimenti: fu questa la radice dello
scoppio della Guerra dei Cent’anni.
Quando la regina fu in Francia tenne corte a Poitiers (riattivandola dopo anni di
abbandono) e seguì soprattutto i suoi interessi in Aquitania. La corte fu ritrovo
d'artisti e trovatori, tra cui Bernart de Ventadorn, con il quale Eleonora ebbe
una fugace ma intensa relazione, Benoît de Sainte-Maure e Robert Wace; ebbe
contatti anche con Arnaut Guilhem de Marsan, signore di Marsan, che aveva
composto una guida di buon comportamento del cavaliere. Secondo Andrea
Cappellano Eleonora creò una corte letteraria con la figlia Maria, protettrice del
troviero Chrétien de Troyes, verso il 1170.
Il figlio secondogenito ed erede al trono Enrico il Giovane, debole di carattere e
circondato da consiglieri nemici del padre, iniziò una ribellione, nel 1173. Si recò
a Parigi, da dove su consiglio di Luigi VII lanciava accuse e calunnie contro il
proprio padre; quindi si recò segretamente in Aquitania, dove i fratelli Riccardo
e Goffredo vivevano alla corte di Poitiers, presso la madre; Enrico il Giovane
incitò i fratelli, sembra con il consenso della madre, a unirsi a lui nella ribellione.
Eleonora spinse i figli a raggiungere Parigi per unirsi al fratello maggiore
contro il loro padre Enrico. Quindi Eleonora fu intercettata, arrestata e inviata
al re Enrico a Rouen; fu segretamente imprigionata a Chinon per circa un anno,
poi nel castello di Winchester e dopo ancora in quello di Sarum. I tre figli dopo
poco fecero atto di sottomissione al padre e la ribellione finì. La regina visse fino a
veneranda età; alla sua morte si fece seppellire accanto al figlio prediletto,
Riccardo cuor di Leone, morto di setticemia dopo essere stato colpito da una
freccia.
Il Sud era molto turbolento. In Occitania, in tutto il territorio, si parlava la lingua
d’oc, idioma comprensibile che intratteneva con il francese un rapporto di grande
intercomprensione.
CARATTERISTICHE DEL FEUDALESIMO OCCITANICO:
Il feudalesimo occitanico è di 3 tipi:
• Signoria bannale: il potere veniva delegato direttamente dal re; i signori
governavano in autonomia, avevano il diritto di esercitare la giustizia e di
esazione delle tasse;
• Signoria demaniale: il signore era legittimato a riscuotere affitti e tasse in
cambio di terra messa a disposizione di contadini;
• Vassallaggio: rapporto tra uomo e signore feudale in cambio di servizi militari e
di corte.
Nella regione occitanica i legami non erano così stringenti come nella Francia del
Nord: il concetto di omaggio vassallatico (formale atto di sottomissione con il
quale un signore feudale riconosceva la superiorità di un altro nobile) rimarrà
estraneo alla mentalità occitanica fino alla fine del XIII secolo, quando il re di
Francia riuscirà a vincere la crociata contro gli Albigesi e a riconquistare la regione
meridionale. La differenza ideologica tra Nord e Sud viene confermata da alcuni
testi epici, all’interno dei quali si evince la grande divisione tra:
• Il Nord, avente uno stretto legame con a Chiesa e fondato sulla forma di
feudalesimo che siamo soliti autorappresentarci, creazione artificiale
• E il Sud, dotato di grande autonomia e indipendenza; c’era un rapporto
paritario, basato su contratti e promesse e sulla fedeltà.
Il primo trovatore fu Guglielmo IX: nei suoi testi non è facile trovare lessico
vassallatico poiché egli era il signore più potente di Francia.
• Ourliac ha sostenuto che dobbiamo parlare dei rapporti con la dama secondo la
dialettica AMANTE-SERVO piuttosto che secondo quella AMANTE-
VASSALLO;
• Kay ha parlato dell’omaggio metaforico come strategia retorica.
• Flori ha preso in analisi l’argomento sull’origine del concetto di cavalleria,
collocabile intorno al XII secolo. È infatti possibile operare una distinzione tra
cavalieri vassalli (bassi territori di lingua d’oc) e cavalieri cittadini (Tolosa,
Montpellier, Marsiglia).
Nel Settentrione e nella zona del Poitou si hanno notizie, a partire dal 1220, delle
cosiddette “cerimonie di investitura”, documentate in maniera particolare dai
romanzi arturiani. Nella regione meridionale,
si assiste a una realtà vivace e a un reticolo di città, ricordo dell’antica tradizione
romana, prese poi in carico dai vescovi. Abbiamo una società meno ricalcabile, più
variegata, profondamente diversa da quella descritta dalla Chanson de Roland.
Accanto ai cavalieri vassalli e urbani abbiamo i cavalieri della masnada, i quali
risiedevano stabilmente presso il signore di cui erano gli amici più stretti e fidati e i
cavalieri mercenari, senza vincoli, pronti a combattere, definiti i “souldatiers” (al
soldo).
SOCIETÀ:
• Cavalieri (vassalli, urbani, masnada e mercenari);
• Borghesi (molto attivi)
• Villani: “Villans” contadini e inservienti, spesso utilizzati per le crociate: livello
più basso della società. Al di sotto o equiparato ad esso vi era il pastore, che
apparteneva alla condizione sociale più misera; i pastori non conducevano una
vita sedentaria, non riuscivano a mettere su famiglia e vivevano a stretto
contatto con gli animali. Alla figura del pastore la tradizione trobadorica
dedicherà il genere della PASTORELLA.
Alla fine del XII secolo si venne a costituire il fenomeno universale del
cavaliere, secondo Jean Flori, nel francese antico “chevalier”, termine che si
riferiva al soldato di mestiere che sceglieva di legarsi a un signore. Si tratta di
un’invenzione appartenente alla tradizione francese: arriverà in Occitania ma non
porterà con sé il concetto di lealtà al signore, in quanto nel meridione si prediligeva
il libero o mutuo aiuto tra eguali al feudalesimo.
Al nord c’era una forte connessione tra cavalleria e ideale religioso, che si
realizzava nell’idea di mettere le armi al servizio di Dio e in quella di difesa del
clero; il legame con la crociata, tuttavia, non si creerà subito, ma otterrà una
definizione in questo senso soltanto in una fase successiva. Nel 1099 venne
bandita la prima crociata a Clérmont Ferrand: l’idea di crociata tuttavia aveva
cominciato a circolare nella cancelleria pontificia già a partire dagli anni ’70
dell’XI secolo. L’iniziativa di conquistare i territori d’oltremare e la formazione di
ordini saranno efficaci modi per dirottare le energie dei figli cadetti delle grandi
famiglie aristocratiche, i quali avevano innescato una serie di conflitti intestini in
quanto non aventi diritto all’eredità familiare.
A CORTE: La società occitanica è cortese: la corte è a cassa di risonanza della
lirica. La più antica poesia nasce presso la corte di Poitiers, nel Poitou. Gli
uomini di corte formeranno il loro modo di agire sugli ideali della lirica.
Anche in Catalogna ci sarà intensa attività letteraria in provenzale, che diventerà la
lingua della lirica d’amore andando a formare una koinè. La lirica trobadorica non
è solo lirica d’amore, dietro si nasconde altro.
Negli anni ‘80/’90 del XII secolo i trovatori iniziarono a cercare protezione nelle
corti italiane, presso i Monferrato, i Savoia, i Malaspina, i duchi d’Este, a Padova,
Verona, Lombardia e Piemonte.
Degna di nota era la corte di Treviso, dove la produzione trobadorica giunse nel
periodo in cui vi soggiornava Federico II.
La vita di corte determinò alcune idee fondamentali nella lirica:
• Generosità, (largueza): il signore deve essere generoso; generosità tra pari. Vi
si oppone l’avarizia;
• Sen vs foudatz: il buon senso si oppone alla follia, all’audacia del giullare.
Le corti divennero, quindi, non solo centri politici, ma luogo di incontro tra
poeti, luogo di scambio tra intellettuali simil-accademie.
Tra i trovatori troviamo funzionari di corte e la classe dei trovatori andò a formare
una sorta di confraternita. A differenza degli intellettuali che gravitavano intorno
alla corte di Federico II la classe sociale di appartenenza degli intellettuali non
era un fattore imprescindibile. Pertanto si può parlare, in riferimento alla corrente
trobadorica, del primo movimento poetico democratico, tutti gli adepti erano
mossi da una volontà egualitaria, dettata dall’idea di appartenenza a uno
stesso mondo ideologico-sentimentale: per poetare non era indispensabile essere
nobili, bastava essere abili nel praticare la nobile arte del trobar.
Era frequente che si scatenasse una rivalità ludica tra i trovatori, di cui abbiamo
testimonianza, ad esempio, nella “Galleria Satirica” di Peire d’Alvernhe,
sirventese in cui ciascuna cobla costituisce un ritratto satirico dei dodici trovatori
più in vista del momento, probabilmente scritto in occasione di una corte solenne
organizzata nel Poitou, quando nel 1170 Eleonora d’Aquitania lasciò l’Inghilterra
per andare in Spagna ad organizzare il matrimonio della figlia.
La poesia trobadorica nasce in un momento di relativa tranquillità, nel corso
del XII secolo, nel periodo compreso tra la I e la II crociata. Negli anni ‘70/’80
del XII secolo si assistette a un periodo felice di speranza per il futuro e ci furono
dei festeggiamenti a corte: essi crearono l’occasione di organizzare gare poetiche e
garantirono l’incontro tra trovatori. Con Chrétien ci fu l’avvio di una produzione
unica francese secondo le modalità trobadoriche.
All’interno della corte:
• al trovatore spettava il ruolo di comporre;
• al giullare quello di performare; tuttavia i due ruoli erano spesso
intercambiabili.
Il Nord della Francia era costituito da vasti territori ed era spesso attraversato da
grandi conflittualità tra i signori, che miravano a espandere sempre di più i loro
possedimenti. In quest’area, nella regione della Champagne, si organizzavano
spesso fiere stagionali, che garantirono alla regione una grande vivacità
economica.
Il Sud era, invece, fondato su una produzione vinicola e frutticola. Il territorio si
caratterizzava per una maggiore frammentarietà, che consentiva ai contadini di
vivere in condizioni di maggiore ricchezza e li rendeva molto più liberi rispetto ai
contadini del Nord, accentuandone l’individualità.
L’Occitania era una terra urbanizzata; la ricchezza era diffusa nel reticolo
urbanistico e faceva sì che non ci fossero distinzioni tra città e campagna. La
regione divenne sempre più attiva all’interno della rete di scambi commerciali
nel Mediterraneo: ad esempio, Montpellier aprendosi ai mercati italiani, divenne
una città di fondamentale importanza e assunse un ruolo di intermediazione. Era
una città plurilingue, dove venne presto introdotto il provenzale nell’educazione.
Nella zona vennero poi a costituirsi le corporazioni (somiglianze con l’Italia) e si
assistette all’incontro con la realtà ebraica, che costituiva una parte integrante del
tessuto sociale: l’Occitania, infatti, divenne luogo di rifugio per gli ebrei e gli
arabi in fuga dalla Spagna. Il contatto tra queste popolazioni, nel contesto di una
società incredibilmente elastica, rese possibile un continuo scambio culturale.
(es- insegnamento della medicina: connessione = mal d’amore).
Il fulcro della poesia trobadorica era la figura femminile: nel sud della Francia
essa non era esclusivamente la protagonista della lirica, ma rivestiva un ruolo di
rilievo anche all’interno del tessuto sociale. In alcune zone d’Europa la
parentela matrilineare viene sostituita da quella patrilineare e la posizione delle
donne, fino a quel momento molto elevata, diminuì. Soltanto dove si conservarono
rapporti di carattere matrilineare la donna continuò a rivestire ruoli di rilievo
sociale: è il caso del sud della Francia, dove operarono donne del calibro di
Eleonora d’Aquitania, Agnese di Borgogna, Adelaide di Tolosa.
La donna in Occitania conservò una discreta autonomia, anche per quanto riguarda
le transazioni economiche e l’utilizzo della dote: essa, infatti, conservava un ruolo
effettivo sulla proprietà anche dopo il matrimonio e per la realizzazione delle nozze
era necessario ottenere il suo consenso. In alcuni casi, come quello di Eleonora
d’Aquitania, le donne riuscirono a occuparsi anche di questioni politiche
all’interno delle crociate e, spesso, era loro concesso di presenziare le corti di
giustizia.
Nel corso del XII secolo, il matrimonio divenne da affare laico a affare religioso,
entrando a far parte della sfera pubblica: ciò che prima era giurisdizione del
diritto consuetudinario ricevette, con papa Alessandro VI, una normazione da
parte della Chiesa, che per la prima volta riuscì ad inserirsi nella sfera privata.
Ciò permise, in qualche modo, di tutelare la donna dalla poligamia dell’uomo: il
sacramento cominciò a fondarsi sul rispetto dell’individuo e venne promossa la
tutela del matrimonio come scelta; fu posto l’accento sull’atto del consenso -
inizialmente soltanto morale, poi anche sessuale- da parte della donna. La Chiesa
propendeva per l’esogamia, elemento che generò situazioni di conflitto con
l’aristocrazia. In seguito alla normazione ecclesiastica le
donne cominciarono a perdere potere. Per quanto riguarda l’adulterio esso veniva
considerato normale per gli uomini, mentre le donne potevano essere perseguite;
tuttavia nel meridione il crimine di adulterio era posto sotto la giurisdizione del
tribunale secolare, meno rigido. I trovatori, infatti, si dichiarano favorevoli
all’adulterio.
Vita monastica femminile: l’antico diritto romano prevedeva, per l’accesso ai
monasteri, l’attesa fino al quarantesimo anno di età; i conventi dovevano essere
controllati da un uomo. Nella fase iniziale le donne si autorecludevano in casa e
soltanto a partire dal XII secolo esse cominciarono a ritirarsi nei monasteri
maschili. In seguito a ciò si assistette alla fondazione di monasteri femminili, sotto
il diretto controllo delle monache badesse. Non essendo abili al lavoro agricolo le
monache si dedicavano alla tessitura.
Nel 1099 venne fondato il monastero di Fontevrault, connesso tradizionalmente
alla figura di Robert D’Arbrissel, la cui predicazione riuscì a trascinare molte
persone, anche collocate ai margini della società (prostitute). A lui si deve
l’ideazione di due edifici separati, adibiti a monaci e monache, che andavano a
costituire congregazioni poste sotto il diretto controllo di una madre badessa. Il
monastero femminile, grazie alle donazioni straordinarie dei nobili, arrivò ad
ospitare circa 300 monache. Guglielmo IX inventò l’amore cortese come versione
secolare della predicazione di Robert, come reazione alla tentazione spirituale. È
un’eccezione.
Eresie: crociata contro gli Albigesi. Il catarismo venne considerato male
endemico della cristianità; coloro che aderivano al nuovo credo vi vedevano anche
un modo per sperare in un riconoscimento. Attraverso l’eresia le donne potevano
esercitare il ruolo liturgico. Il catarismo ebbe successo proprio per il diverso
approccio nei confronti delle donne e, inoltre, per la diversa concezione del
matrimonio. Fu una forma di rifugio; presenza forte delle donne. L’educazione
delle donne era solo privata ed era gestita da uomini. Il loro ruolo nella tradizione
occitanica è confermato dalla presenza di trovairitz: rovesciano i ruoli, rivendicano
l’autorialità, sfidano la voce maschile. L’amor cortese è condizionato da questo
potere delle donne. I catari attuano un meccanismo di solidarietà, nel sociale
davano aiuto a vedove ecc. forte anticlericalismo e indipendenza dal potere
ecclesiastico: successo del catarismo.
LA FIN’ AMOR
Letteralmente l’espressione indicherebbe l’“amore raffinato”, “perfetto”. L’amore
provenzale è una “fides”, un patto, un servaggio, una totale disponibilità
spirituale dell’artista verso la “dama”: il trovatore diventa di lei esclusivo
cantore inaugurando un rapporto “servo-tiranno” con implicazioni di ogni tipo.
Questo amore è un’ascesa verso il perdersi senza confini: non è il possesso il
fine, bensì lo sguardo, la promessa di un bacio quasi mai ottenuto. Il senso di
questo singolarissimo corteggiatore sta in realtà nell’attesa, non nel risultato in sé,
che è del tutto secondario: la sola presenza di quell’essere magnifico e magnificato
che non ha e che brama ha il potere di innalzarlo, purificarlo, fargli sentire la
perfezione.
Questo s’intende per FIN’AMOR o come noi traduciamo “amor cortese”. In esso
malinconia e rimpianto lasciano spesso spazio ad un sentimento ben più forte: il
“JOI”, ovvero lo stato di grazia, l’istante, il giorno in cui da un segnale
dell’amata l’amante gode una condizione beata dell’animo in perfetta armonia col
mondo.
CONFRONTO TRA L’EROS ANTICO E QUELLO TROBADORICO:
Dagli antichi l’amore era considerato una sorta di debolezza, di follia. Basti
pensare all’Eneide, in cui Enea viene accusato di follia per essersi innamorato di
Didone e viene rimproverato di aver dirottato la sua attenzione lontano dalla sua
missione, quella di fondare Roma. Raramente nei poeti antichi, in particolare in
quelli greci, la felicità dell’amata è la condizione necessaria per la felicità
dell’amante, elemento che sarà invece caratteristico della lirica trobadorica. Nella
concezione antica lo spirito femminile non era considerato come lo specchio
entro il quale dovessero riflettersi le virtù maschili.
Il cambiamento di prospettiva è riconducibile, essenzialmente, a due ragioni:
• La presenza delle dottrine platoniche: il Platonismo venne riconsiderato in
maniera particolare nel Nord della Francia a metà del XII secolo. Prima di
giungere in Spagna gli arabi si erano resi collettori delle scoperte
matematiche, scientifiche, astronomiche di tutto il Medio-Oriente: è pertanto
possibile che l’ideologia platonica fosse stata importata in Spagna dagli
arabi e che fosse poi giunta in Francia. D’altronde il sud della Francia
intrattenne sempre rapporti di scambio culturale con la cultura musulmana.
A partire dalla metà dell’XI secolo ebbero inizio le cosiddette “crociate franco-
spagnole”, ossia i tentativi, da parte delle comunità del mondo cristiano, di
riconquistare quei territori del nord della Spagna che erano stati posti
sotto la dominazione araba ( Reconquista spagnola): ad esse parteciparono, a
fianco di quei piccoli regni spagnoli che avevano conservato la religione
cristiana, cristiani di lingua francese (parlanti di lingua d’oil, d’oc, normanni).
La Chiesa utilizzò la lotta ideologica della crociata per riconquistare territori
che le erano state precedentemente sottratti e per allontanare dalla propria
sfera di influenza i figli cadetti delle grandi famiglie, che non avevano diritto
all’eredità e la cui bellicosità aveva creato una situazione di continua
conflittualità: essi partirono in gran numero per le spedizioni militari, con
l’obiettivo di conquistare dei territori che sarebbero stati la loro unica possibilità
di possedere un feudo.
Non è dunque un caso che la versione più antica della Chanson de Roland
(pervenutaci nel manoscritto 23 e conservata presso la Biblioteca Bodleiana di
Oxford), più antica testimonianza dell’epica romanza, vide la luce,
probabilmente, nell’Inghilterra anglo-normanna.
• Il supposto firmatario e autore dell’opera, Turoldo, era probabilmente un
personaggio di spicco del clero. In merito alla firma apposta da Turoldo si è
molto discusso: non è, infatti, chiaro se si tratti del copista, dell’autore, del
giullare oppure dell’autore del modello di derivazione del manoscritto 23.
La firma, contrariamente a quanto era in uso, è posta alla fine: nei romanzi
era consuetudine degli autori, al fine di rivendicare la loro autorialità,
apporre la firma nel prologo. La firma risulta un qualcosa di veramente
importante, in quanto chiarisce non solo l’autore, ma è spesso corredata da
interventi metanarrativi che fornisco informazioni sulla data, sui
protettori, sui committenti, sull’intento dell’opera.
La tradizione letteraria francese non si dotò mai di composizioni nel
genere delle Vidas e delle Razos, diffuse in ambito trobadorico: esse,
composte con il proposito di fornire un’embrionale storiografia letteraria,
permettono di ricavare informazioni sulle biografie dei trovatori. La
mancanza di composizioni di questo tipo in ambito francese si deve al
differente pubblico di destinazione delle opere letterarie, concepite per
circolare esclusivamente in territorio di lingua d’oil e, eventualmente, di
lingua d’oc; al contrario, la produzione trobadorica giunse presto in Italia e
si rese necessario creare delle opere che permettessero al pubblico italiano
di conoscere gli autori dei vari componimenti. Appare dunque evidente
quanto sia importante, per lo studio filologico, la presenza, all’interno di
testi francesi, di interventi metanarrativi degli autori.
• All’interno del testo, in maniera anacronistica, si attribuiscono a Rolando
e Carlo Magno delle conquiste che erano in realtà state opera dei
Normanni. Appare dunque evidente il legame l’elemento anglo-
normanno e la Chanson de Roland, che al di là della questione linguistica,
si deve anche alla presunta esistenza di una proto-Chanson de Roland. Nella
versione del manoscritto di Oxford essa viene datata tra l’ultimo quarto
dell’XI e l’inizio del XII secolo (1125 ca).
Per concludere, è possibile che gli arabi abbiano portato idee ed opere di
pensatori che si rifacevano al platonismo e che esse siano giunte in Francia:
d’altronde è documentato il fatto che personaggi come Guglielmo IX
abbiano intrattenuto rapporti con califfi del Nord della Spagna.
• Il Cristianesimo: nell’ideologia cristiana l’amore, nella sua declinazione di
“amore verso il prossimo” comincia ad essere idealizzato. Non è un caso che
nei poeti arabi e nei primi trovatori, a partire dall’XI secolo, la donna cominci
ad essere rappresentata come un essere in grado di provocare nell’uomo uno
stato di felicità: anche se in una forma ancora immatura, si assiste a un
allontanamento dell’idea di amore come follia tipica dell’età classica. Si
diffonde la tendenza, da parte dell’amante, di voler fornire all’amata un
omaggio e di porsi, rispetto a lei, in una posizione di sottomissione e servitù.
La formazione dell’ideale di amore cortese è frutto di un lungo processo di
formazione: dal momento della sua nascita, alla fine del 1100, fino al
1160/1170, momento in cui si costituisce a terza generazione trobadorica con il
grande cantore dell’amore Bertrand de Ventadorne, si assistette a una continua
gestazione dell’ideale cortese. Inoltre, i principi trobadorici hanno a lungo
faticato per affermarsi, poiché hanno incontrato una serie di resistenze.
Tra i princìpi portati avanti dalla nuova ideologia se la fedeltà è il principio
cardine sui cui è fondato il rapporto tra gli amanti, lo stesso non si può
affermare della castità: l’amore cavalleresco, infatti non è un amore casto e,
se da un lato è vero che i poeti cavallereschi raramente accennino alla
concretizzazione dell’amore, nella canzone d’amore il raggiungimento
dell’amore carnale è rimandato sine die. Nonostante ciò esiste un genere
all’interno della produzione lirica di trovatori e trovieri in cui l’amore
fisico viene narrato: la pastorella, quasi un contraltare della canzone d’amore.
Ciò che rende la fin’amor un qualcosa di straordinario è il fatto che l’amore
cavalleresco trascini con sé un desiderio di perfezione morale: ossia, per
meritare l’amore della dama cantata il trovatore compie delle imprese che, a
differenza della tradizione del Nord, in cui esse si configurano come vere e proprie
azioni cavalleresche, presuppongono un vero e proprio innalzamento morale
dell’amante. La fin’amor si configura,
pertanto, come una sorta di purificazione interiore; il corteggiamento avviene
attraverso l’avvicendarsi di una serie ben precisa di stadi che, in una fase
successiva e più matura della formazione dell’ideale cortese, andranno incontro a
una normazione e comprenderanno: l’attrazione per la donna, di solito tramite lo
sguardo; l’adorazione della donna da lontano; la dichiarazione di devozione
passionale; il rifiuto da parte della donna virtuosa; il rinnovato corteggiamento con
giuramento di virtù ed eterna fedeltà; i lamenti per l'approssimarsi della morte,
dovuti al desiderio insoddisfatto (e altre manifestazioni fisiche del mal d'amore); le
gesta eroiche che vincono la ritrosia della donna; l’eventuale consumazione
dell'amore segreto e avventure e sotterfugi per evitare di essere scoperti.
L’amore cortese non è, infatti, un sentimento adatto ad essere provato da tutti ed è
segno della nobiltà d’animo di colui che lo sperimenta. L’affermazione dell’idea
di amore come innalzamento spirituale ebbe due esiti: da un lato
l’allontanamento dalla concezione di amore come follia e dall’altro la creazione
di similitudini con l’amore verso Cristo, in particolare nella declinazione
descritta da San Paolo.
Altro motivo ricorrente, caratteristico di uno dei fondatori, Jaufré Raudel, è
l’amore verso una donna mai vista, se non per reminiscenza che costituisce per il
trovatore la quintessenza del sentimento amoroso: si tratta del sentimento definito
come amor de lonh, ossia amore lontano, in cui l’anelo e la consunzione sono
elementi costitutivi della relazione amorosa, che affinano ed elevano l’anima nella
contemplazione dell’oggetto del desiderio, in una tensione irrisolta destinata a
non appagarsi mai.
In definitiva ne emerge che, a differenza del mondo antico, nel mondo trobadorico
la donna assume una posizione di rilievo tale da essere in grado di ispirare la
virtù; tale aspetto, che affonda le sue radici nella rivoluzione ideologica innescata
dal Cristianesimo, riabilita l’idea caratteristica della visione platonica per cui la
forma amata sia l’immagine della bellezza attraverso cui si tende
all’immortalità.
Nel processo di affermazione della figura femminile il catarismo svolse un ruolo
importante: esso, infatti, riconosceva uno spazio anche alle donne all’interno della
sfera religiosa.
DOTTRINA DELL’AMORE PROVENZALE:
• L’amore è considerato come un atto di libera scelta e non è mai subìto come
una condanna alla passione da parte dello spirito ( Chretiene ).
Nel Medioevo l’amore era considerato sia come una scelta di libera elezione sia
come una forza fatale, in grado di innescare la passione: è il caso di Tristano e
Isotta, gli amanti per eccellenza, innamoratisi dopo aver assunto un filtro
d’amore.
All’interno dello stesso periodo storico, dello stesso movimento culturale,
entrambi gli aspetti erano contemplati. La scelta dell’oggetto dell’amore
rispecchiava in maniera fedele il principio del libero arbitrio promosso dalla
Chiesa cristiana, la quale tuttavia non poteva accettare il risvolto passionale
portato avanti dagli ideali trobadorici.
In una fase successiva, quando i trovatori faranno riferimento a Tristano e Isotta
e alla loro passione travolgente si dichiareranno contrari a questo particolare
sviluppo tematico. L’opposizione a questa declinazione del tema amoroso
affonda le sue radici nel pensiero del primo grande troviere, Chrétien de Troyes,
inizialmente voce isolata e sicuramente figlio del neoplatonismo e della visione
clericale del Nord: egli si dichiarerà contrario all’amore di Tristano e Isotta,
sostenendo che il filtro inibisse la libertà. Nelle sue due liriche e nei sui romanzi
a tema amoroso - nell’“Erec et Enide” nel “Cligèsse” e nell’ “Yvain” - egli
porta avanti proprio questa tesi, al punto che il suo “Cligèsse” verrà chiamato
“l’anti-Tristano”: il filtro verrà usato da una donna andata in sposa a un
vecchiardo contro la sua volontà per ingannarlo e fargli credere di concedersi a
lui durante la notte, con l’obiettivo di permetterle di riservare il suo corpo al
vero oggetto del suo amore. Chrétien sosteneva, infatti, che laddove si trovasse
il cuore dovesse trovarsi anche il corpo.
• L’amore nasce attraverso lo sguardo. Lo sguardo dell’amata era in grado,
secondo la concezione trobadorica e neoplatonica, di trasmettere dai suoi occhi
un fluido che andava a posizionarsi nel cuore del trovatore. La bellezza
esteriore della dama è sempre associata a quella interiore, alla virtù: quando
questo non accade, come nel caso del componimento di Raimbaut de Vaqueiras,
il poeta è legittimato a scagliarsi contro di lei (è il caso della mala cansó)
oppure a mutare l’oggetto del suo amore.
È evidente che, durante il processo di elevazione interiore, la scelta della dama
fosse sempre messa in discussione: si tratta di quel procedimento introspettivo
che si suole attribuire alla lirica tout court.
• Il trovatore deve scegliere una e una sola dama, alla quale indirizzare la
sua fedeltà. Solitamente la dama era di una posizione sociale superiore rispetto
a quella del poeta.
Mentre al nord il principio di ogni azione nobile risiedeva nella fedeltà
all’amata, nella lirica trobadorica il principio viene sublimato e si trasforma in
una fedeltà all’idea di amore. Questo elemento, all’interno di una società
bellicosa e violenta che esercitava forti pressioni sulle classi sociali meno
abbienti, profila all’orizzonte un ideale di nobiltà d’animo, di perfezionamento
morale, che libera dall’attaccamento alle cose materiali.
• Questo amore, che nasce e si sviluppa nel cuore del trovatore, dove è destinato
a rimanere confinato, spinge l’innamorato ad agire nobilmente: amare vuol
dire vivere secondo la virtù.
Mentre al nord il principio di ogni azione nobile risiedeva nella fedeltà
all’amata, nella lirica trobadorica il principio viene sublimato e si trasforma in
una fedeltà all’idea di amore. Questo elemento, all’interno di una società
bellicosa e violenta che esercitava forti pressioni sulle classi sociali meno
abbienti, profila all’orizzonte un ideale di nobiltà d’animo, di perfezionamento
morale, che libera dall’attaccamento alle cose materiali.
• Altro dato ricorrente è il tema della reminiscenza: spesso i trovatori parlano
della dama ricordando un incontro, una visione. Il “souvenir” diventerà la cifra
identificativa dell’ultimo poeta del Nord, Thibaut de Champagne.
Il cuore della lirica è il cosiddetto “paradoxe amoureux” (paradosso amoroso),
tema introdotto dal filologo romanzo L. Spitzer: egli lo definisce come
l’antinomia tra il volere e il non volere l’amata, quello stato per cui il rinvio
dell’incontro con l’oggetto dell’amore è quello che maggiormente contribuisce
all’innalzamento morale.
Negli anni ’70 del 1900 uscì un libro dello studioso tedesco W. Köhler, uno dei più
grandi conoscitori dei romanzi francesi e della lirica trobadorica. A lui si attribuisce
la “teoria della piccola nobiltà”. Köhler sosteneva che una
delle idee più importanti della lirica trobadorica fosse la generosità: infatti i poeti
spesso si lamentavano della scarsa generosità dei loro signori. L’avarizia era un
tema ricorrente nella lirica amorosa: in particolare Marcabruno, uno dei trovatori
più importanti e prolifici della seconda generazione (1130-1140), inventore di
alcuni generi (tenzone, pastorella), e la cui scrittura, oscura e ricca di riferimenti ad
altri testi, era permeata di moralismo e si inseriva nella tipologia del “trobar clus”,
introdusse con forza il tema dell’avarizia, individuando in essa la madre di tutti i
vizi e la causa principale della decadenza del mondo. Spesso, all’interno dei
sirventesi, i trovatori rimproveravano ai baroni la loro lesineria e li invitavano
alla generosità, considerata essenza stessa della nobiltà e via d’accesso
all’amore cortese. Ne deriva che la ricchezza e il potere non fossero, secondo la
visione trobadorica, oggetti materiali ma valori morali. Secondo Köhler questo tipo
di rimprovero ai nobili poteva essere effettuato soltanto dai membri della
piccola nobiltà, di cui facevano parte alcuni trovatori, in quanto erano gli unici ad
ergersi in difesa dei valori della nobiltà: è, dunque, a loro che si deve la creazione
dell’ideologia trobadorica. A questa idea, con la quale i membri della piccola
nobiltà desideravano affiancare l’innalzamento morale al desiderio di ascesa
sociale, era connessa al concetto di gelosia che, in fondo, è una diversa
declinazione dell’avarizia. In merito al “paradoxe amoureux” Köhler sosteneva
che il processo del desiderare-non possedere, del vedere-non vedere, fosse
un’esperienza di elevazione interiore, un processo di auto-nobilitazione e
perfezionamento.
In definitiva Köhler individuava il centro propulsore dell’ideologia trobadorica
nella piccola nobiltà, la quale effettivamente, a partire dalla seconda generazione
di trovatori diede un fortissimo impulso alla lirica; a essa si attribuisce la creazione
di un sistema ideologico, avente l’obiettivo di consentire l’ascesa sociale
attraverso la somministrazione alla grande nobiltà di un’educazione che la
invogliasse ad aprirsi ai ceti più bassi. La piccola nobiltà, per poter essere
integrata nella grande nobiltà, doveva da un lato avere con essa una “parziale
comunanza di interessi”; in secondo luogo doveva proporre un sistema di valori
che fosse comune a tutto lo stato nobiliare e che invogliasse la grande nobiltà ad
aprirsi verso di sé e consentire l’ascesa sociale. Dopo la morte di Carlo Magno e
dopo la caduta del mondo carolingio, infatti, si era determinato, in particolar
modo in Francia, un periodo di anarchia in cui la grande nobiltà aveva condotto
una politica spregiudicata e lesiva nei confronti dei piccoli proprietari terrieri:
pertanto, alla base della nascita dell’ideologia trobadorica, ci sarebbero
questioni di carattere sociale.
(La piccola nobiltà era spesso formata da giovani (baccellieri, cavalieri) che
potevano manifestare una forte tensione erotica nei confronti della domina del
feudatario poiché non erano sposati.)
La teoria di Köhler è stata aspramente contestata: infatti, se da un lato è possibile
che alla base ci possano essere state questioni sociali, è anche vero che la classe
dei trovatori non fosse formata esclusivamente da nobili. (es. Raimbaut de
Vaqueiras, Marcabruno, Bernart de Ventadorne). Inoltre, il primo trovatore viene
tradizionalmente individuato in Guglielmo IX, sulla carta vassallo del re di
Francia ma di fatto molto più potente.
Ne deriva che attribuire alla nascita del fenomeno esclusivamente una radice
sociologica sia riduttivo: la lirica trobadorica è infatti permeata di elementi
filosofici, di caratteri importati dal Cristianesimo e di retaggi della tradizione
poetica mediolatina. Se la nascita di un movimento così potente fosse stata legata
solamente a ragioni di carattere sociale un qualsiasi mutamento sociale avrebbe
potuto portare la lirica a prendere una diversa direzione; il fatto che ancora Dante e
Petrarca si interrogheranno sul “paradoxe amoureux” testimonia che
quell’ideologia abbia avuto origine dalla convergenza di differenti elementi: la
lirica araba, l’introspezione cristiana, l’elevato ruolo della donna in Occitania,
tensioni sociali, la volontà del mondo laico di appropriarsi della scrittura in
volgare, fino a quel momento prerogativa del mondo clericale. La ragioni vere
e proprie restano a noi tuttora oscure.

PEIRE D’ALVERNHE/PIETRO D’ALVÈRNIA: CHANTERAI D’AQUESTZ


TROBADORS
Fu attivo a metà del XII secolo e autore di una ventina di componimenti in uno
stile "esoterico" e "formalmente complesso" conosciuto come trobar clus: tra essi
figura tra il sirventese “Chantarai d’aquestz trobadors”, definito “galleria
satirica”. Si tratta di un testo in cui ciascuna strofa è dedicata a un diverso
trovatore, che viene descritto da Peire attraverso la “strategia satirica”,
procedimento per cui si carica “una caratteristica fisica o comportamentale del
personaggio di turno collegandola, quando possibile, a motivi o stilemi ricavabili
dalla sua poesia”. Si pensa che la galleria satirica non sia stata composta per caso,
ma in occasione di una corte solenne organizzata nel Poitou, quando nel 1170
Eleonora d’Aquitania lasciò l’Inghilterra per andare in Spagna ad organizzare il
matrimonio della figlia. Alla corte parteciparono numerosi trovatori e giullari, che
vedevano nell’iniziativa della regina una possibilità di essere mantenuti da lei a
corte per qualche giorno, eventualmente ricevere un compenso e farsi conoscere.

L’ALBA
L'alba ("il sorgere del sole") è un sottogenere della poesia lirica occitana che
descrive la nostalgia degli amanti clandestini i quali, dopo aver passato insieme
l'intera notte, devono ora separarsi per paura di essere scoperti dai loro
rispettivi coniugi. Essa possiede una forte componente narrativa, elemento che
rende la diffusione del genere nel Sud della Francia un evento eccezionale, in
quanto i provenzali non erano particolarmente amanti dei generi narrativi. Tuttavia,
tra tutti i generi narrativi della lirica essa è quella che maggiormente si avvicina
alla canzone d’amore.
Il genere troverà in una fase successiva anche una declinazione di carattere
religioso. Nella tradizione cristiana la notte rappresentava il momento della
tentazione: questo portava i monaci a svegliarsi molto presto per cantare il
Mattutino, forma di ringraziamento a Dio per il sopraggiungere dell’alba. In alcuni
testi mediolatini l’alba è descritta con gioia, in quanto testimonia la fine delle
tentazioni del Diavolo ai danni del cristiano e il sopraggiungere della luce
dell’alba, lo splendore di Dio. Quando il tema verrà utilizzato nelle albe religiose
del Sud l’interpretazione dell’alba sarà la stessa dei poeti mediolatini.
L’alba profana, invece, esattamente la cosa contraria: si tratta di un momento
estremamente infelice, in quanto pone fine all’incontro tra gli amanti e li
costringe a separarsi.
Nel panorama dell’esperienza trobadorica, sia del Nord che del Sud, l’alba di tipo
religioso viene abbastanza trascurata, sia per un fatto di penuria di esemplari sia
perché l’attenzione viene volta più spesso verso il genere profano; tuttavia, da un
certo momento in poi la canzone religiosa, ossia la “chanson pieuse” andò
incontro a un’insperata fortuna. Spesso erano gli stessi autori di lirica profana
a cimentarsi nella scrittura in tale genere poetico, nella forma del “canto di
pentimento”, il cui primo esempio è da attribuirsi a Guglielmo IX, il primo
trovatore. Quest’ultimo canterà canzoni scurrili, nel genere della pastorella, ma in
età avanzata, preoccupato dall’incedere del tempo, scriverà anche un “canto di
pentimento”. Ne deriva che questo genere sia stato presente all’interno
dell’esperienza trobadorica sin dalle origini e che non sia stato introdotto in una
fase più tarda. Dalle vidas si desume che, nell’ultima fase della loro vita, fosse
comune che i trovatori abbandonassero la vita laica per entrare a far parte del
mondo clericale. Lo stesso percorso, in suolo italiano, fu seguito da Guittone
d’Arezzo: egli, da un cento momento in poi, si allontanò dalla lirica profana e
contro di essa effettuò una vera e propria palinodia (ritrattazione in versi di quanto
espresso in alto componimento poetico).
Nel suo Canzoniere, opera dal carattere estremamente raffinato, non si limitò
esclusivamente a negare la posizione precedente, profana, ma la demolì
dall’interno.
La canzone religiosa ebbe una modesta diffusione, che in particolare interessò
la zona settentrionale della Francia; le liriche religiose del Sud sono in un
numero estremamente esiguo, 55, e furono composte in un periodo abbastanza
lungo, che va dalla metà del XII alla fine del XIII secolo. Il numero di liriche
francesi in questo genere si aggira intorno alle 200, se si escludono composizioni
nei generi minori del mottetto e delle ballate; inoltre nel settentrione,
probabilmente, la composizione fu cronologicamente più compatta.
Una studiosa canadese ha sostenuto che la diffusione della lirica religiosa andasse
messa in messa in relazione con il IV Concilio, il quale impose di ricevere almeno
una volta l’anno i sacramenti della Confessione e della Comunione. Il mondo
letterario e culturale, da sempre attento alle novità sociali, produsse un maggior
numero di liriche religiose, in particolare indirizzate alla Vergine, per adempiere al
suo ruolo di mediatrice tra il popolo e le istituzioni. In questo genere, l’oggetto
dell’amore non è più la dama, bensì la Vergine: ciò che scompare è il paradosso
amoroso; se interpretata in questo senso la canzone religiosa è la negazione
dell’ideologia trobadorica. Nel paradosso amoroso, infatti, uno degli aspetti
fondamentali era l’impossibilità di raggiungere l’oggetto dell’amore, in quanto il
sentimento amoroso non era mai ricambiato; al contrario nelle liriche religiose
l’amata, nella persona della Vergine, non poteva non ricambiare l’amore del suo
supplice, né tantomeno sottrarsi al suo ruolo di interceditrice presso Dio. Nella
maggior parte dei casi le canzoni religiose sono dei contrafacta, ossia canzoni
aventi la stessa struttura metrica, rimica e melodica di una canzone profana.
Le ragioni della scrittura di contrafacta sono, essenzialmente due:
• Nella canzone religiosa, l’io lirico (che canta soprattutto della Vergine, in
quanto dama, ma talvolta anche di Cristo), parte dalla consapevolezza che
Dio sia l’unico Fattore e pertanto si nega la possibilità di inventare
qualcosa di nuovo, in quanto questo si configurerebbe come un atto di
superbia;
• Inoltre, trasformare un canto profano in uno religioso alterandone il
contenuto recava in sé un forte valore simbolico: l’operazione appariva
come un rinnegamento delle ideologie profane.
• I contrafacta assumevano una grande importanza in quanto avevano delle
analogie, dal punto di vista melodico, con degli esempi musicali provenienti
dalla Scuola di Notre-Dame, nel Nord della Francia, scuola musicale al
servizio della cattedrale di Notre-Dame di Parigi, nella quale tra il XII secolo e
gli inizi del XIV, si sviluppò la polifonia.
• Al Sud, invece, si assiste a una grande diffusione di albe religiose, in cui
venne recuperata l’interpretazione del sorgere del sole come segno della fine
della tentazione e momento di gioia tipica dei poeti mediolatini. Appartengono
a questo filone interpretativo una serie testi del periodo delle origini della
letteratura provenzale, tra cui spicca in maniera particolare “L’alba bilingue di
Fleury”, scritta il latino e occitanico.
La lirica, a differenza del romanzo, la cui lunghezza produceva la necessità che
fosse letto ad alta voce, non era indirizzata esclusivamente alle corti, ma era
concepita per essere cantata - e probabilmente anche mimata - dai giullari anche
all’esterno, nella piazza del paese. La lirica, nel Sud, era particolarmente amata; al
Nord essa era apprezzata nei circoli borghesi, aperti a tutti e non solo al ceto
nobiliare. Si distingueva per specifiche caratteristiche:
• Era in lingua volgare;
• Poteva essere compresa da tutti;
• Non è caratterizzata da uno stile narrativo;
• I suoi autori sono personaggi noti.
All’interno della produzione lirica sono perfettamente individuabili i rapporti con
la tradizione classica e mediolatina; ancora oscuri, seppur sicuramente presenti,
rimangono i punti di contatto con la tradizione araba e, presumibilmente, con
quella bizantina.
In questo senso, è necessario sottolineare che l’esaltazione di Maria nella canzone
religiosa costituisca una novità: la figura della Vergine, sebbene rivestisse un ruolo
importante nella tradizione cristiana, divenne oggetto di culto principalmente in
Oriente, a Bisanzio, tra i VI e VII secolo e da lì giunse in Occidente attraverso i
crociati.
I rapporti tra Oriente e Occidente non vanno ricondotti esclusivamente alla
crociata: ad esempio Carlo magno intrattenne numerosi rapporti con la corte
bizantina; durante il XII secolo ci furono vari tentativi da parte di famiglie
aristocratiche occidentali di contrarre matrimoni con nobildonne bizantine, i quali
determinarono consistenti scambi culturali. Da un lato questi matrimoni erano
determinati dalla volontà ideologica di ricostituire l’impero romano e superare la
scissione tra Chiesa Cattolica e Ortodossa; dall’altro dal vantaggio, che da essi
derivava, di creare legami con l’imperatore bizantino, di rilevanza eccezionale
nella questione delle campagne militari d’oltremare.
(es. marito Maria di Champagne, Enrico il Liberale, intorno al 1177 era partito per
una spedizione in Oriente, durante la quale era divenuto prigioniero degli arabi e si
era ammalato; fu l’imperatore bizantino, Emanuele Comneno, a liberarlo; Nel 1096
una serie di viaggiatori occidentali erano giunti a Bisanzio, che venne da loro
descritta con stupore e meraviglia. Da quel momento gli occidentali tentarono di
emulare il modello orientale dal punto di vista architettonico contatti con
l’Oriente: non solo crociate ma anche spedizioni, viaggi e contatti per
l’approvvigionamento di alcuni materiali altrove introvabili).
I DATI STORICI DELLA FIN’AMOR:
Per comprendere appieno la nascita della tradizione della Fin’amor bisogna
tenere in considerazione una serie di dati storici:
• l’evoluzione della società feudale occitanica, che cominciò ad articolarsi in
corti medie e piccole, vincolate da legami labili al potere regio, che
permettevano ai vassalli di godere di un’autonomia altrove sconosciuta (punti di
contatto con la teoria sociologica di Köhler);
• presenza in Occitania di grandi centri politicamente autonomi dall’autorità
della monarchia parigina, non ancora molto forte. La volta in questo senso
giungerà, dopo un processo di consolidamento che si estese per tutta la metà del
XII secolo, con l’ascesa al trono del figlio di Luigi VII, Filippo, detto
“Augusto” e “Dieudonné” (donato da Dio). Tra le contee autonome,
particolarmente rilevanti furono quella di Poitiers che si ampliò con quella
d’Aquitania, di Tolosa, di Provenza.
• L’influenza di grandi centri culturali, tra cui quello dell’Abbazia di San
Marziale di Limoges, che era in epoca medievale il più grande centro di
produzione di tropi e sequenze. Si trattava, dunque, di un centro musicale, con
cui però ebbero rapporti diversi trovatori, da Guglielmo IX a Marcabruno. Il
culto di S. Marziale tornerà anche nei “Carmina Burana”. Degna di nota è
anche la Scuola filosofica-teologica fondata a Poitiers da Gilberto de la Porée,
modellata sullo stampo della Scuola di Chartres. Al nord, infatti, le scuole
filosofiche erano molto importanti e quella di Chartres fu in assoluta quella che
detenne il primato; ai filosofi che ne facevano parte vanno attribuite:
• l’introduzione del concetto di “integumentum”, ossia l’idea secondo cui che
anche dietro a testi apparentemente sconvenienti da leggere si
nascondessero significati altri, capaci di svelare l’inaspettato;
• la diffusione della “teoria del microcosmo”, secondo cui l’uomo non viene
più considerato, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio, il
dominatore della natura e il padrone dell’universo ma come un essere
facente parte della natura.
Altro centro culturale di fondamentale importanza è l’Università di
Montpellier, famosa per le facoltà di medicina e diritto.
• La floridezza economica: si assistette a una ripresa dell’industria, in
particolare quella mineraria, tessile da cui derivò un periodo di espansione delle
città. Il Sud era costituito da un reticolo di città: Arles, Narbona, Montpellier,
Tolosa, Béziers; Marsiglia, cui si aggiunse poi Bordeaux; il Nord non era
composto da grandissimi centri e da corti così importanti. Inoltre la zona
meridionale era divenuta protagonista di scambi commerciali, che avevano reso
possibile la ripresa dei contatti con l’Oriente. In queste relazioni svolgevano
spesso un ruolo di intermediazione i genovesi e i pisani: non c’è dunque da
stupirsi della presenza di trovatori provenienti da queste zone. Si costituirono
grandi capitali nelle mani della borghesia mercantile e cittadina: non è un caso
che, nel romanzo arturiano “Jaufré”, nel proemio, il poeta si rivolga a un
pubblico di mercanti di stoffe e che il tema delle stoffe e del loro commercio sia
un tema ricorrente nel romanzo tale classe sociale era divenuta preponderante;
• L’estensione e la messa in sicurezza della rete stradale e delle reti di
navigazione interne: ciò permise una maggiore tranquillità nei commerci.
• La diffusione della cultura ad opera di giullari e chierici.
• Il ruolo della donna, dotata di un elevato status giuridico.

La somma di tutti questi fattori portò ad un affinamento dei costumi sociali,


che
determinarono la nascita di questo nuovo tipo di poesia dallo stile pregevole.
Le trascrizioni musicali: Nella produzione del Sud, a differenza dei Canzonieri del
Nord, si hanno pochissime testimonianze di trascrizioni musicali. La
strutturazione dei Canzonieri* veniva effettuata per generi, il cui ordine variava
tra il nord e il sud:
• In area Provenzale l’ordine era costituito da Canzoni, Sirventesi, Tenzoni
• Nel Settentrione si riscontrano Canzoni, in rarissimi casi piccole raccolte di
pastorelle (genere più coltivato) e jeux-partis (tenzoni).
All’interno dei generi si procedeva poi per autori, disposti non in ordine
cronologico ma in base alla loro importanza: questo dato permette di comprendere
quale fosse il canone della cultura. Si è
lungo ritenuto che la ragione dell’assenza di trascrizioni musicali delle opere
del Sud risiedesse nel fatto che le opere fossero state trascritte in Italia, dove la
musica (non sacra) non rivestiva un ruolo rilevante. Roncaglia sosteneva quindi
che si verificò un “divorzio” tra musica e poesia, nonostante quest’ultima si
manifestasse nelle forme del sonetto, della ballata, del madrigale (tutti termini che
rimandavano alla musica). A sostegno di questa tesi ci sarebbe l’argomentazione
che i Canzonieri C ed R, copiati in Francia, presentino la trascrizione della parte
musicale. Al contrario, i testi francesi, accompagnano alla prima strofa di ciascun
componimento lo spartito musicale, da eseguirsi sempre uguale a sé stesso in tutte
le strofe; gli unici due canzonieri francesi a fare eccezione sono quelli che furono
copiati in Italia.
In questo orizzonte cronologico la musica veniva trascritte su tetragramma, ossia
il rigo musicale composto da quattro linee orizzontali separate tra loro da 3 spazi
(≠ pentagramma: 5 linee 4 spazi) e veniva prodotta da particolari strumenti
musicali tipici del periodo medievale come la viella (strumento a corde simile
alla viola), strumenti a fiato e a percussione. La produzione musicale era riservata a
momenti importanti, come festeggiamenti nelle corti o particolari ricorrenze e feste
popolari.
Etimologia del termine “trobar”: Al termine “trobar” sono stati attribuiti due
differenti etimologie:
• Il termine potrebbe derivare da “tropos”, il tropo, ossia l'ampliamento di un
brano liturgico dato, attraverso l'inserimento ex novo di un testo o di una
melodia. Il verbo deriverebbe dall’espressione “tropos invenire”, ossia
comporre i tropi. Se questo fosse vero la nascita del movimento dei trovatori
affonderebbe le sue radici nella sfera religiosa;
• Il termine potrebbe derivare, anche se non si tratta dell’ipotesi più quotata,
da “turbare” ossia pescare increspando in maniera particolare la superficie
dell’acqua. Questa operazione, smuovendo l’acqua, permetteva di pescare
meglio: la produzione lirica sarebbe quindi legata a questo particolare
significato.
Nelle opere, poi, al termine “trobador” fa concorrenza il termine “chantador”,
derivante da “cantatore”: la fondamentale differenza sta nel fatto che al primo si
attribuisca la composizione del testo e molto spesso del canto, al secondo la sua
esecuzione.

I CANZONIERI:
La trascrizione dei Canzonieri, spesso effettuata in Italia, venne operata in una
fase molto successiva alla composizione dei testi: essi, infatti, venivano
inizialmente scritti su dei rotoli di pergamena, che venivano affidati ai giullari
che li trasportavano nelle loro borse da viaggio.
Ciò è testimoniato da due Canzonieri, uno galego-portoghese, il “Rotulo de
Vindel”, e l’altro conservato a Londra di origine probabilmente lorenese, i “Rotulo
G”. I rotoli probabilmente conservavano diverse poesie dello stesso poeta.
Nella fase successiva si costituirono delle piccole raccolte monografiche, che
cominciano a prendere le sembianze di un libro, i cosiddetti “Liederbücher”: essi
contenevano al loro interno i componimenti di un singolo autore. Nel momento in
cui essi confluirono nei canzonieri vennero smembrati e ordinati all’interno delle
nuove raccolte secondo l’ordine per generi di cui sopra.
Un’altra possibilità, sicuramente d’invenzione galloromanza, è il cosiddetto
“canzoniere d’autore” petrarchesco, all’interno del quale era l’autore stesso a
decidere la successione delle liriche. Guiraut Riquier,
l’ultimo trovatore, nel suo canzoniere scritto alla fine del 1200 adottò un principio
organizzativo assai complesso e intricato per le sue liriche: la prima parte è
costituita da un insieme di vers e cansós, ordinate secondo un particolare principio
numerico; la sua amata è indicata con il senhal di “Belh Deport” (bel portamento) e
da un certo momento in poi l’amata diventerà la Vergine. Questo tipo di
canzoniere, che improvvisamente assume una vocazione religiosa, giungerà fino a
Petrarca: egli, infatti, comporrà con il suo “Rerum vulgarium fragmenta” proprio
un canzoniere d’autore. Nel canzoniere d’autore la lirica, che da sempre aveva
rigettato la componente narrativa, incorpora tale elemento nel suo esoscheletro:
la disposizione delle liriche divenne dunque un espediente per conferire una
coerenza contenutistica e strutturale al corpus di liriche. Nella stragrande
maggioranza dei casi, tuttavia, i canzonieri venivano assemblati dai copisti oppure
secondo le volontà del committente.
Un’altra soluzione, sempre d’invenzione francese, è il canzoniere in ordine
alfabetico: di questa tipologia sono a noi pervenuti due esempi, i manoscritti “C”,
conservato a Berna, e “O”, o “Manoscritto Cangé” dal nome del suo proprietario
seicentesco, adornato con eleganti miniature. Anche all’interno dell’ordine
alfabetico, che dimostra una differente modalità di fruizione del testo, viene
rispettato un canone letterario ordinato per importanza.
.
Le Accademie: altro dato da tenere in considerazione è la diffusione, nel
momento in cui l’esperienza trobadorica iniziò a volgere al termine, delle
Accademie, tra cui ricordiamo l’Accademia di Tolosa, cui si rende il merito di
aver inventato i “Jeux floreaux”, gare tra trovatori in cui è possibile comprendere
cosa intendessero questi autori per “genere letterario”. Nella fase immediatamente
successiva il primato della produzione lirica passerà alla Scuola Siciliana e vedrà
come protagonista l’Italia.
Vidas e Razós: Da un certo momento in poi nella produzione nel genere delle
Vidas e delle Razòs si verificò un cambio di paradigma. Inizialmente, quando
esse avevano come destinazione il pubblico italiano, venivano incorporate
all’interno dei Canzonieri: nella sezione dedicata al singolo autore si susseguivano
in ordine la Vida, la Razó e poi il componimento poetico, in particolare nell’autore
Uc de Saint Circ); in una fase successiva Vidas e Razós andranno a costituire delle
sezioni a parte, vere e proprie unità narrative: si genererà quindi una netta
distinzione tra la parte lirica e quello narrativa.
Grammatiche: Nel momento in cui si verificò tutto questo iniziarono a diffondersi
una serie di Grammatiche, probabilmente richieste dal pubblico italiano, il quale
che necessitava, per accedere alla produzione lirica in provenzale, di conoscere a
fondo la lingua. Lo stesso fenomeno interessò la Catalogna.

LA QUESTIONE METRICA:
La metrica era un elemento essenziale nella produzione trobadorica.
Agli albori della tradizione poetica trobadorica, Guglielmo IX si era ispirato, per i
suoi componimenti, alla strofa zagialésca, una varietà di ballata di origine araba
con strofe rimate secondo lo schema AAAB.
Già con Jaufré Raudel e Marcabruno nacque l’esigenza di creare una produzione
che fosse perfetta dal punto di vista metrico: la perfezione formale, infatti, era
simbolo di perfezione morale dell’individuo nei confronti dell’amata.
Al fine di raggiungere il più alto livello possibile di raffinatezza formale i trovatori
misero a punto una serie di meccanismi per consentire ai giullari di ricordare e
rispettare pedissequamente la struttura metrica.
• In provenzale si distinguono sillabe finali maschili e femminili: infatti,
francese e provenzale, così come il catalano e il galego medievali, sono lingue
ossitoniche (ossia accentate sull’ultima sillaba). In prosodia:
• Con “Finale maschile” ci si riferisce a una linea che termina con una sillaba
accentata;
• Con "Finale femminile" si descrive una linea che termina con una sillaba
atona.
• Si prediligeva il verso decasillabo (eventualmente endecasillabo se la sillaba
finale è femminile). In Italia, dove la lingua è parossitonica, il decasillabo sarà
ripreso e trasformato in endecasillabo. Il decasillabo si affermò soltanto in
seconda battuta; inizialmente si predilessero versi settenari e ottonari. Nelle
liriche del Nord appartenenti al filone popolareggiante erano in uso versi più
brevi, di 3 o 4 sillabe.
• Le particelle enclitiche vengono contrassegnate con singole lettere con un
puntino (?) e non vengono conteggiate nel computo delle sillabe.
• Nella lirica del Nord, molto più che in quella del Sud, era diffuso il refrahn,
(ritornello), espediente legato alla sfera musicale e alla tradizione popolare. Nel
nord si distinguono 2 tipi di composizione:
• La Chanson à refrahn: ciascuna strofa è seguita dallo stesso ritornello;
• La Chanson avec refrahns: (la canzone CON ritornelli) dopo ciascuna
strofa si ha un diverso ritornello. La particolarità di questo tipo di
composizione era che i differenti ritornelli fossero citazioni di liriche di altri
autori, che spesso non avevano collegamenti contenutistici con il testo della
lirica= gioco di rinvii che testimonia il legame della tradizione lirica del
Nord con il folklore locale.
• Si prediligevano le rime perfette. La presenza di rime imperfette oppure di
rimanti che differivano per l’accento all’interno dei manoscritti è spesso indice
di un errore del copista. L’assonanza, infatti, non era tollerata. Inoltre, si diffuse
la tendenza da parte dei trovatori, al fine di ostentare la propria bravura, di
complicare ulteriormente il sistema delle rime: dilagarono
• la “rima ricca”, nella quale i rimanti dovevano avere identità fonica non solo
dalla vocale tonica, ma dalla consonante ad essa precedente;
• la “rima leonina”, rima interna tra i due emistichi che componevano
l'esametro e il pentametro (guerrière/derrière);
• rima tra un bisilabo con un trisillabo che conteneva il bisillabo;
• le “rimas caras”, dove si mettevano in rima parole rare;
• la “rima contraffatta”: chantera rima con chant era (due termini in rima si
mettono in relazione tra loro con i due punti “:”);
• La “rima estrampa”, una rima “isolata”, che non rima all’interno della strofa,
ma rima con sé stessa all’interno di tutte le altre;
• La “rima derivativa”, in cui rimano due parole di cui una deriva dall'altra. Es.:
Sdegno-Disdegno
Il virtuosismo, se da un lato complicava la composizione de testo, obbligava
l’esecutore a riportarlo esattamente come era stato scritto. Procedimenti come la
rima estrampa obbligavano l’esecutore a ricordare la successione delle strofe.
• Le strofe: anche qui si adottavano una serie di espedienti tecnici; potevano
essere:
• Isometriche: tutte della stessa lunghezza, tutti i versi hanno lo stesso numero
di sillabe;
• Eterometriche
All’interno delle strofe era possibile distinguere la Fronte dalla cauda, che
potevano essere collegate tra loro da una rima comune, in modo che non
venissero svincolate.
Martín de Riquer definisce la cobla come un'"unità metrica il cui numero di
versi e situazione di rime si ripetono nelle diverse parti di una poesia, e che
nello stesso tempo è anche un'unità melodica".
Connessioni tra le strofe:
• Coblas singulars: se ogni cobla ha una sua propria rima;
• Coblas doblas: quando presentano la stessa rima ogni due coblas (1ª e 2ª, 3ª e
4ª, ecc.);
• Coblas ternas: quando hanno la stessa rima ogni tre coblas (1ª, 2ª e 3ª; 4ª, 5ª e
6ª, ecc.);
• Quaternas: quando hanno la stessa rima ogni quattro coblas.
• Alternadas: le coblas pari seguono una rima e le dispari ne seguono un'altra;
• Unissonans (monorime o unisono): se tutte le strofe hanno la stessa rima. Era
frequente che strofe di questo genere venissero scambiate nel momento
dell’esecuzione. Per i critici è dunque particolarmente difficile, in questi casi,
riconoscere se ci siano errori nella trascrizione delle liriche.
Era diffuso, tra i trovatori, un procedimento che consentiva di unire una strofa
alla successiva attraverso la rima: in questo modo per l’esecutore era più
difficile alterarne l’ordine. Si tratta delle:
• Coblas capcaudadas, in cui si ha a corrispondenza tra la rima dell’ultimo
verso di ogni strofa e il primo verso della successiva. (=la rima finale di una
cobla è la prima rima del primo verso della strofa successiva).
• Coblas capfinidas, in cui l’aggancio non è costituito dalla rima ma da una
parola: nel primo verso di ogni cobla appare una parola dell'ultimo verso della
strofa precedente.
• Coblas Rentronchadas: quando una parola si ripete al primo e al nono verso
di ogni strofa.
• Capdenals: quando vari versi di una stessa cobla iniziano allo stesso modo.
• Tornada/ congedo: Commiato o congedo dell’antica canzone provenzale
• Senhal: Nella poesia provenzale, il nome fittizio dietro il quale si usava celare
la donna cui era rivolto l'omaggio o la dedica

JAUFRÉ RUDEL: “QUAN LO RIUS DE LA FONTANA”


Di Jaufré Rudel si sa davvero poco: leggendo la sua Vida, si desume che egli fosse
il principe di Blaia, nella Gironda; era dunque appartenente alla categoria alta dei
trovatori, quella dei grandi nobili. È probabilmente che egli si sia recato in Terra
Santa.
I temi privilegiati all’interno del Canzoniere di Jaufré Rudel sono quello
dell’amor de lonh, ossia l’amore di lontano, che non vuole possedere ma godere
di questo stato di non possesso e quello dell’innamoramento ses vezer (senza
vederla). La produzione di Jaufre Rudel è caratterizzata da ciò che è stato definito
un "paradosso amoroso", poiché l'esperienza amorosa appare come una tensione
costante verso l'irraggiungibile perfezione richiesta per essere degni di ricevere la
grazia della donna amata.
Da un certo momento in poi nei “joc partit” del Sud e nei “jeux partis” del Nord
della Francia si diffuse la tendenza di parlare di “banalità”: si discute se sia meglio
indirizzare l’amore a un chierico o a un cavaliere, oppure a una donna bella ma
lontana o brutta ma vicina ecc. Si tratta della cosiddetta “casistica amorosa”: essa
diventerà un vero e proprio gioco, tanto che nel “De Amore”, attribuito a Andrea
Cappellano, si parlerà delle “corti d’amore”, in realtà mai esistite. Esse, secondo la
tradizione, erano luoghi in cui si riunivano esclusivamente le donne: appare
evidente la loro natura fittizia. La nascita della casistica testimonia il volgere al
termine dell’esperienza della lirica cortese, fondata sul tema del paradosso
amoroso, in quanto esso ha esaurito la sua energia e si è manifestato in tutte le sue
possibilità: Roberto Antonelli sostiene che il passaggio successivo sarà proprio
quello inventato da Dante, in cui il tema dell’ineffabilità della donna si
materializza nella sua morte. Nell’ultima fase quindi il joc parti diventerà davvero
un’attività ludica, che prevedeva un'organizzazione ricalcata sull'istituzione
giudiziaria, in cui venivano discussi diritti e doveri inerenti a questioni d'amore e
venivano assegnati premi ai migliori trovatori.
“QUAN LO RIUS DE LA FONTANA”

Quando il rivo della fonte si schiarisce/ come


è solito fare/ e spenta la rosa di macchia/ e l’usignolo sul ramo/ fa
fluire, svaria e rende limpido/ il suo dolce canto, e lo affina, / è giusto che anch’io
intoni il mio.

Amore di terra lontana, / a causa vostra mi duole tutto il mio essere. / E non posso
trovare una medicina/ se non corro al suo richiamo/ con la lusinga d’un dolce
amore/ dentro un giardino o sotto il baldacchino/ con la compagnia desiderata.

Visto che il possesso mi manca del tutto, / non mi meraviglio se ne infiammo:


/perché non esistette una più bella cristiana/ o giudea o saracena, né Dio la vuole./

È ben ricompensato con la manna colui/ che ottiene qualcosa del suo amore!
Il mio corpo non cessa di desiderare/ quella creatura che io amo di più, / e credo
che la volontà m’inganni/ se la concupiscenza me la toglie: /perché è più pungente
di una spina/ il dolore che si guarisce con il joi: /quindi non voglio affatto che mi si
compianga.
Senza lettere di pergamena / trasmetto il vers, che cantiamo /nella facile lingua
volgare, /a Ugo Bruno tramite Filhol: /mi fa piacere sapere che gli abitanti del
Poitou, /del Berry, della Guyenne / e della Bretagna siano contenti di lui.

• Si tratta di una canzone di quattro coblas doblas, in cui, ad esempio, fontana


(v.1,) rima con “lonhdana” (v.8).
• Ciascuna di esse è composta da 7 heptasyllabes maschili e femminili.
• In chiusura troviamo una V strofa, una tornada di uguale lunghezza che
segue lo schema rimico abcdace. La tornada, di solito più breve delle strofe, è
composta in questa lirica dallo stesso numero di versi delle altre strofe. (caso
eccezionale). Dato che il modulo tradizionale della canzone prevedeva 5 strofe
più un’eventuale tornada si potrebbe pensare che si tratti di una canzone di 5
strofe, di cui l’ultima ha il contenuto di una tornada.
• Le rime b e d sono irrelate, ossia non hanno una relazione con un’altra rima;
la rima e (-anha) è una rima-refrain, ossia ritorna in tutte e strofe.
STROFA I:
una delle caratteristiche della lirica trobadorica e, in maniera minore, francese è il
cosiddetto “topos primaverile”, il quale era già presente nella tradizione
mediolatina antecedente ai trovatori. Era frequente il riferimento agli uccelli, con il
cui canto i trovatori si identificavano; si diffuse la tendenza di indicare i trovatori
con il nome degli uccelli. (Es. Bernart de Ventadorn= identificato con una piccola
allodola che vola verso il cielo e brucia le sue ali avvicinandosi troppo al sole). Il
tema primaverile è ricorrente nelle canzoni d’amore; tuttavia esso tenderà a
scomparire con il passare del tempo e non avrà particolare fortuna in Italia,
eccezion fatta, forse, per Petrarca (“chiare, fresche e dolci acque”). In Thibaut de
Champagne, ultimo trovatore, solo 5 delle sue 60 composizioni hanno il tema
primaverile.

STROFA II:
• “amore di terra lontana”, quindi amor de lohn;
• “reclam” termine tecnico dell’arte venatoria, rappresenta il pezzo di carne che
i falconieri usavano per richiamare il rapace =rimanda all’idea di amore
carnale. I trovatori e i trovieri si rifacevano spesso ad esperienze della caccia,
una delle esperienze primarie del nobile. Nel 1400 si diffuse in Italia una
forma poetica che aveva proprio il nome di “caccia”.
STROFA III: si fa riferimento alla donna come “più bella cristiana, o giudea o
saracena”; la donna amata era orientale.
STROFA IV: il termine “joi” deriva da GAUDIUM: si tratta di un termine
fondamentale nella lirica trobadorica; con esso si indicava l’amore
completamente realizzato, pertanto era ciò a cui ciascun trovatore aspirava.
STROFA V FINALE O TORNADA:
• fa riferimento alla pergamena di cui abbiamo parlato sopra;
• la lingua occitanica viene definita “plana lengua romana” = rimandi
all’espressione “rustica romana lingua” con cui si indicava la lingua volgare;
• “Hugon Brun per Filhol”: evidenzia una delle caratteristiche fondamentali
della tornada, ossia la presenza di riferimenti storici. Filhol doveva essere il
giullare del quale il trovatore si servì per far arrivare a sua lirica al nobile Ugo
Bruno. Non era inconsueto che il nome dello stesso giullare ricorresse in
componimenti di autori diversi: questo dimostrava il fatto che egli fosse al
servizio di più nobili.

ARNAUT DANIEL: “LO FERM VOLER QU’EL COR M’INTRA


La sestina rappresenta un capolavoro: tale genere metrico venne inventato da
Arnaut Daniel e divenne poi un modulo che conobbe una larghissima diffusione
(Dante, Petrarca). Essa si
presentava come un gioco virtuosistico: il trovatore sceglieva, nella prima
strofa, sei parole-rima secondo lo schema abcdef; nelle stanze successive i
rimanti venivano spostati secondo il principio della cosiddetta “retrogradatio
cruciata” (o “permutazione antipodica”), per la quale si aveva nella II strofa lo
schema faebdc, nella III cfdabe, nella IV ecbfad, nella V deacfb e nella VI
bdfeca; con la settima strofa si ricominciava da capo.
È stato detto che il numero 6 fosse stato scelto dall’autore per creare un
riferimento con le facce del dado: c’è, dunque, una componente numerica di
fondo. La difficoltà, enorme, era quella di piegare il significato alle esigenze
metriche e, nel farlo, utilizzare sempre le stesse parole come rimanti.

a Il fermo volere che nel cuore mi


entra/ b non me lo può scalfire becco né unghia/
c di maldicente che perde, per la sua maldicenza, la sua anima d e visto che
non oso batterlo con un ramo né con una verga/ e almeno di nascosto, laddove
non ci sia zio, / f godrò di piacere, in giardino o
dentro la camera.

f Quando mi ricordo della camera/


a dove, a mio danno, so che nessuno entra/ e - anzi, mi sono
tutti più che fratello o zio-, / b non ho un membro che non
frema, perfino l’unghia, / d così come fa il fanciullo davanti alla verga:
/ c tale è la paura di non esserle vicino all’anima

c Al corpo fossi vicino, non all’anima, / f e mi


ammettesse di nascosto dentro la sua camera, / d perché mi
ferisce il cuore più d’un colpo di verga/ a il fatto che il suo servo
ora non possa entrare là dove è lei: b con lei sarò come carne e unghia /
e e non seguirò consiglio d’amico e di zio.

e Perfino la sorella di mio zio/


c io non amai di più né tanto, per quest’anima/ b e
altrettanto vicino come è il dio all’unghia/ f vorrei essere io
alla sua camera, se a lei piacesse: / a l’amore che mi entra nel
cuore può piegarmi/ d al proprio volere meglio che un
uomo forte di una fragile verga

d Da quando fiorì la secca verga / e e da messer


Adamo nacquero nipoti e zii, / a un amore perfetto come
quello che mi entra nel cuore/
c non penso che sia mai stato in corpo né in anima: / f
dovunque io sia, all’aperto o dentro la camera, / b non posso
allontanarmi da lei quanto l’unghia (dalla carne)

b Così s’apprende e s’inunghia / d il mio


cuore in lei come a corteccia nella verga, / f perché ella per me è
torre, palazzo e camera di gioia; /
e e non amo alcun parente, fratello o zio, così tanto / c che in Paradiso
la mia anima non godrà d’una gioia doppia,/
a se si può entrare là per aver bene amato.

b/e Arnaut trasmette il suo canto di unghia e di zio/ d-c a Gran


Desiderio che ha l’anima della sua verga, / f-a il suo canto contesto a
graticcio che, appreso, entra nella camera.

• Si ha la rima “oncle”, che va nella direzione del francese in quanto si riferisce


alla vicenda di Tristano e Isotta: Marco era, infatti, lo zio dei due.
• La sestina mette in gioco, infatti, la dinamica ideologica circa la passione
dell’amore tristaniano e la questione legata alla cambra, ossia la camera da
letto.
• Tra le parole “arma” e “cambra” c’è una grandissima assonanza/consonanza;
lo stesso torna nei rimanti “oncle e Ongla”: nonostante queste parole non siano
messe in rima tra loro dialogano nelle loro sonorità. Il gioco rimico e fonico è
dunque portato all’ennesima potenza.
• L’ultima strofa, la VII, è una tornada: al suo interno vengono recuperate le sei
parole-rima, collocate in numero di due per ciascun verso: v. 37: ongl’ /oncle;
v. 38. Verj’a/ arma v.39 cambra/intra.
Nella tornada della sestina di Dante, egli, invece di disporre le parole-rima in
numero di due per ciascun verso, colloca le prime tre all’inizio del primo verso e
tre alla fine del verso.
La sestina è considerata un capolavoro: l’invenzione di questa forma metrica,
riutilizzata da Petrarca con grande successo in Europa, ha fatto sì che Arnaut fosse
definito da Dante come “miglior fabbro del parlar materno” (Purgatorio XXVI,
117). Roncaglia effettuò una serie di studi sulle connessioni tra questa sestina e la
sestina di stile italiano: ciò dimostra quando questo nuovo genere sia stato
apprezzato, per il suo virtuosismo, nella Penisola. La sestina necessitava, proprio in
virtù della sua strutturazione, di un enorme rigore formale; analogie saranno
trovate con il sonetto, invenzione della scuola poetica siciliana, il quale necessitava
che l’argomento poetico fosse esaurito entro il quattordicesimo verso: in entrambe
le forme poetiche era richiesta un’eccezionale maestria.

BERNART DE VENTADORN, il cantore dell’amore


Bernardo appartiene alla terza generazione dei trovatori ed è considerato un
caposcuola: infatti, sebbene non sia da attribuirsi a lui la nascita del movimento
trobadorico, con lui si ebbe un sostanziale mutamento nell’ideologia
trobadorica. Il poeta diventerà il cantore per eccellenza dell’amore: il
sentimento amoroso viene visto come qualcosa in grado di creare gioia e dolore;
l’autore è rigorosamente votato alla poesia d'amore per la dama che lo fa soffrire
ma che allo stesso tempo sembra concedergli la speranza; il tema della fedeltà
verso la dama è assimilato al servizio cavalleresco. Egli era rinomato per la
capacità di ritrarre di getto la sua donna come un messo divino e subito dopo,
con un colpo di spugna, ricrearla a immagine di Eva, la causa del peccato
originale. Questa dicotomia nella sua opera viene ad ogni modo rappresentata in
una forma "graziosamente briosa e raffinata". Secondo Bernard de Ventadorn la
poesia è emanazione del cuore, ovvero dell'amore che infonde sapienza, in
parallelo con l'ideologia cistercense.
Nel momento in cui si fa riferimento alla canzone a tema amoroso è, dunque,
impossibile prescindere dal riferimento all’opera bernartiana, che prese i
caratteri di una vera e propria rivoluzione nell’esperienza trobadorica, nata
mezzo secolo prima. A Bernart si rende il merito di essere riuscito a definire il
genere e a stabilire la forma "classica" della poesia dell'amor cortese, la quale
verrà poi imitata e riproposta per tutto il restante secolo e utilizzata come bagaglio
indispensabile per l'attività di trovatore. I trovatori successivi a Bernardo non
poterono, nelle liriche, non ispirarsi all’illustre maestro e non tentare di emularlo:
egli rappresentò per la Provenza quello che Petrarca rappresentò, tempo dopo, per
l’Italia; la sua influenza fu tale che i suoi componimenti furono inseriti in quasi
tutti i Canzonieri trobadorici. Ciò che lo contraddistinse maggiormente fu la sua
totale adesione al tema amoroso, che divenne l’unità di misura di tutta la sua
produzione poetica.
Sarebbe erroneo, tuttavia, considerare la tradizione trobadorica come qualcosa di
uniforme e compatto: si trattò di un movimento poetico fondato su un’ideologia
che subì delle inevitabili modifiche nel tempo e passò da essere un movimento
destinato a pochi individui ad affermarsi come la tradizione lirica e culturale per
eccellenza.
La biografia di Bernart resta qualcosa di oscuro: tra le Vidas composte su di lui,
quella che un tempo godette di grande credito fu quella composta da Ugo o Uc de
Saint Circ, trovatore della prima metà del XIII sec. che dichiarava di avere attinto a
fonti degne di fede. Solo in seguito gli studiosi hanno dimostrato che essa fosse
fondata su elementi immaginari. Si ipotizza che egli abbia soggiornato in
Inghilterra presso Eleonora d’Aquitania, alla quale avrebbe dedicato delle liriche;
sicuramente ebbe contatti con altri trovatori, in particolare Raimbaut d’Aurenga, e
con il primo tra i trovieri, Chrétien de Troyes.
Le sue composizioni, circa 45, appartengono principalmente al genere della
Cansó: esse, pervase di emotività, permisero a Bernart di essere annoverato tra i
migliori musici e tra i più grandi poeti dell'amore in lingua d'oc del suo tempo.
Bernart viene ricordato inoltre per aver reso popolare il trobar leu, ossia il
“trobare facile”: le sue composizioni sono scritte in un linguaggio chiaro, semplice,
scorrevole.

BERNART DE VENTADORN: NON ES MEAVELHA S’EU CHAN


Metro: si tratta di una canzone composta da 7 coblas capcaudadas e alternate di 8
octosyllabes maschili secondo lo schema abba cddc; segue una tornada di tre versi
(ddc).
Nonostante la fama dell’autore, esiste una sola edizione critica delle sue
composizioni, l’edizione Appel 1915, redatta dal famoso filologo tedesco.
Il testo potrebbe essere quasi considerato un manifesto della lirica
trobadorica.

Non c’è da meravigliarsi se canto/ meglio di qualunque altro trovatore,/ perché


più il cuore mi trascina verso amore/ e meglio sono disposto a farmi comandare da
lui./
Il cuore e il corpo e il sapere e il senno / e la
forza e il potere vi ho messo;/ tanto il freno mi tira verso amore/ che non tendo a
nessun altro luogo.

È certo morto chi non sente nel cuore/ una qualche dolcezza d’amore;/ e che cosa
vale vivere senza valore/ se non per dare fastidio alla gente?/ Dio non si adiri tanto
con me/ da farmi vivere un giorno o un mese/ dopo che sarò incolpato di tedio/ e
che non avrò più desiderio d’amore.

Con fedeltà piena e senza inganno/ amo la più bella, la migliore. /Dal cuore
mando sospiri, dagli occhi lacrime, / perché io l’amo tanto da riceverne danno. / E
che cosa posso fare, io, se Amore mi cattura, / e se il carcere nel quale mi ha
rinchiuso / non può essere aperto da alcuna chiave se non da pietà, / e se pietà non
la trovo affatto?

Questo amore mi ferisce amabilmente/ nel cuore con un piacere dolce:/ ogni giorno
muoio cento volte di dolore / e rinasco altre cento per il diletto. / Il mio male ha
certo un aspetto piacevole, /visto che il mio male vale più di qualunque altro bene;/
e poiché il mio male mi è così gradito, /sarà gradito il bene dopo l’angoscia.

Ahimè Dio! Se si potessero riconoscere/ i fini amanti da quelli falsi, / e se i


maldicenti e i truffatori/ portassero delle corna sulla fronte! /Tutto l’oro del mondo
e tutto l’argento/ vorrei aver donato, se lo possedessi, /se soltanto la mia donna
sapesse/ quanto nobilmente io l’amo.
Quando la vedo, subito si capisce/ dagli occhi, dal viso, dall’incarnato, /perché
tremo di paura/ come la foglia al vento. /Non ho l’assennatezza di un fanciullo,
/tanto sono preso da amore;/ e a un uomo che è così annientato/ una donna può
dimostrare grande pietà.
Donna valente, nulla vi domando/ se non
che mi prendiate per servitore, perché io vi servirò come (si serve) un valoroso
signore, /qualunque ne sia il compenso. /Eccomi ai vostri ordini, /creatura leale,
umile, gaia e cortese! /Non siete di sicuro né un orso né un leone, /tanto da
uccidermi, se mi arrendo a voi.

A Mio Cortese, là dove si trova, /mando il vers, e non gli pesi/ il fatto che sono
stato a lungo lontano.

STROFA III: la donna viene considerata la più bella del mondo, la migliore: si
tratta di un aspetto caratteristico delle canzoni d’amore; ad esso si affianca il tema
di amore come carcere, immagine che diventerà canonica e tornerà anche in
Thibaut de Champagne. La prigione in cui si trova il trovatore -quella del suo
amore- è la conseguenza di una sua libera scelta; Thibaut, nei suoi componimenti,
svilupperà e complicherà l’immagine della prigione.
STROFA IV: “Il mio male ha certo un aspetto piacevole”: sembra quasi un
ossimoro; in realtà quel male è un qualcosa che dà valore alla vita del poeta, in
quanto discende dall’azione d’amare. L’amante soffre per amore, ma non vuole
rinunciarvi.
STROFA V:
• “fin amador”: da mettere in relazione con fin’amor;
• “lauzenger”: maldicenti, mettono in giro brutte voci: personaggi che tornano
anche i “Tristano e Isotta”.
STROFA VI:
• “come la foglia al vento”: è una delle similitudini, utilizzate da Bernart, che
entrerà nell’immaginario poetico mondiale.
• “almorna” = elemosina: è un qualcosa che si fa quando si ha pietà di qualcuno.

STROFA VII: “gazardo” = guiderdone; altro tema fondamentale della lirica


trobadorica: il poeta ama nell’attesa di una ricompensa.
STROFA VIII:
• “A Mo Cortes”: senhal; il senhal poteva indicare la dama amata, il committente
o, come si presume in questo caso, la protettrice del trovatore.
• “vers”: in una fase antica i poeti chiamano le loro liriche “vers” < VERSUS;
Se si analizza la lirica, si evidenzia la mancanza di una componente narrativa di
fondo: già dalla prima strofa si parla di amore incondizionato, totale, che
produce sofferenza ma per cui il poeta è disposto a tutto; la lirica è ben
strutturata grazie alla struttura per coblas capcaudatas, che impediscono ai giullari
di invertire l’ordine delle strofe. Nonostante la mancanza dell’elemento narrativo si
comprende il senso profondo del componimento: il poeta sente di poter rinunciare
alla propria libertà per un amore che, nonostante provochi dolore, vale la pena di
essere vissuto con devozione. L’amore non può essere mai disgiunto dall’azione
del canto: nella lirica trobadorica questi due elementi sono legati inscindibilmente;
non è possibile cantare senza amare e se questo si verifica il prodotto letterario che
ne deriva è falso e mediocre. A differenza dei trovatori precedenti, questo aspetto
viene proclamato con forza da Bernart.

“BE M’AN PERDUT LAI ENVES VENTADORN”


Si tratta di una chanson de lohn. Il tema della lontananza è un topos nella lirica
d’amore: esso sarà ampiamente coltivato da un epigono di Bernart de Ventadorn, il
poeta francese Gace Brulé. Egli parlerà degli uccellini della sua terra, in realtà
metafora della lontananza dalla donna.
Metro: canzone di 6 coblas doblas di 7 décasyllabes maschili e femminili, secondo
lo schema ababaab; segue una tornada di 3 versi (aab)

Mi hanno perduto, là, dalle parti di


Ventadorn, /tutti i miei amici, visto che la mia donna non mi ama; /ed è senz’altro
giusto che io non vi faccia più ritorno, /perché nei miei confronti lei è sempre ostile
e dura. /Eccovi il motivo per il quale mi lancia sguardi irati e cupi: /perché per me
è un piacere continuare a amarla! /Di nient’altro si rammarica e si lamenta.

Come il pesce che si getta nella nassa /e non sa nulla, finché viene preso
all’amo, /anch’io mi lasciai andare ad amare troppo, un giorno, /senza fare
attenzione, finché fui nel mezzo della fiamma, /che mi brucia più intensamente di
quanto farebbe il fuoco nel forno; / e nonostante questo non posso allontanarmi di
una spanna, /tanto mi tiene prigioniero e mi avvince il suo amore.
Non mi meraviglio se il suo amore mi imprigiona, /perché non credo che nel
mondo si possa ammirare un corpo più nobile (del suo): /è bello e bianco, e fresco
e gaio e liscio /ed è proprio come io lo desidero. /Non posso dire alcun male di lei,
perché non ne ha; /e ne avrei parlato con gioia, se lo sapessi, /ma non gliene
conosco (di mali), per questo lascio perdere.
Sempre desidererò il suo onore e il suo bene, /e sarò per lei vassallo, amico,
servitore, /e l’amerò, che le piaccia o le pesi, / perché non è possibile strizzare un
cuore senza uccidere. /Non conosco donna che, volesse o no, /io non potessi amare,
qualora lo desiderassi. /Ma ogni cosa può essere interpretata male.

Alle altre sono toccato in sorte qui: / chiunque voglia mi può attirare a sé, /a patto
che non mi sia venduto / l’onore e il bene che ha desiderio di darmi; /perché è da
pusillanime pregare, se è inutile; /lo dico per me, perché me n’è venuto male, /visto
che mi ha tradito la bella altezzosa.
Invio in Provenza gioia e saluti /e auguri maggiori di quanto si possa desiderare; /e
mi sforzo, e compio qualcosa che ha del miracolo, /perché mando loro ciò di cui
sono privo, /visto che io non ho gioia se non quella che mi dà /il mio Bel Vedere e
messer Incantesimo, mio amico intimo, /e messer Alverniate, signore di Belcaire.
Mio bel vedere, attraverso voi Dio compie un miracolo / tale che non vi si può
vedere senza essere incantati /da ciò che di piacevole sapete dire e fare.

I STROFA: Il poeta nella lirica dichiara di non essere più nella sua terra d’origine,
Ventadorn, e nonostante ciò di continuare ad amare la sua donna.
II STROFA: “come il pesce si getta nella nassa e non sa nulla finché non viene
preso all’amo” / “della fiamma che mi brucia più intensamente di quanto farebbe
il fuoco nel forno”: si tratta di due similitudini che torneranno con frequenza nelle
liriche dei poeti della Scuola Siciliana. Le immagini che entrano a far parte
della poetica di Bernart si ispirano alla vita quotidiana e alla natura, che
diventa termine di paragone della lirica d’amore (la foglia, il pesce, il fuoco).
La sua chiarezza e semplicità rendono il trovatore un punto di riferimento per
i successivi poeti: è come se, nelle sue immagini ricorrenti, egli fondasse i
pilastri della lirica trobadorica.
Il poeta sostiene di essere stato ingannato come un pesce catturato da un amo; il
tema dell’amore come fiamma ricalca la memoria virgiliana.
VI STROFA: il poeta invia alla Provenza la sua gioia e i suoi saluti e sostiene di
non avere altra gioia che il suo “Bel Vezers”, Bel Vedere, senhal della donna,
identificata probabilmente con la moglie di Raimondo V di Tolosa, rappresentato
con lo pseudonimo “en Alvernhatz”. Viene introdotto qui un altro tema, presente
nella lirica trobadorica già da Guglielmo IX: la donna amata viene paragonata a
una fata il termine deriva dal latino FATUM: nella tradizione, nel momento della
nascita, le fate giungevano per portare i doni del destino al neonato. La fata
(plurale di FATUM) è quindi colei che è incaricata di consegnare all’uomo il suo
destino.
Bernart di Ventadorn è sicuramente il poeta d’amore più rilevante; la sua
produzione fu copiosa per il tempo: alcune liriche, attribuite a Bernardo, non sono
state accettate da Appel, che le ha considerate composizioni ibride. Poteva infatti
capitare che il manoscritto del Canzoniere non fosse particolarmente affidabile: è il
caso del Canzoniere in ordine alfabetico conservato a Berna; i compositori di lirica
si contraddistinguevano per particolari stilemi, immagini, argomenti privilegiati,
indizi fondamentali per la ricostruzione filologica nelle attribuzioni delle liriche.
(Bertran de Born =poeta della guerra; Marcabruno =poeta moralista; Bernart de
Ventadorn =poeta d’amore). Nei poeti francesi c’era una minore specializzazione
nella produzione delle liriche rispetto al Sud: uno dei motivi potrebbe essere la
maggiore fruizione di lirica nella zona meridionale del Paese, dove quindi c’era
maggiore competizione tra i poeti. Al Nord il numero delle corti era inferiore,
pertanto si svilupperà una produzione borghese e cittadina

Riassumendo: Forme della poesia trobadorica viste fino ad ora


• Argomento amoroso: chanson
• Argomento militare/politica: sirventese
• Argomenti etico-morali
• Genere lirico-narrativo: alba
• Trovatori che dibattono tra loro su una questione, che può essere anche amorosa
(Marcabruno): tenzoni; Joc partit (Sud); Jeux partis (Nord): danno la misura che
la lirica sia un gioco delle parti. Essendo un’esperienza circoscritta a poche
persone c’era il desiderio o di emulazione o di rivalità con altri trovatori. La
lirica è, in qualche modo, un genere dialogico = intertestualità
• Pastorella: genere nato al sud, che trovò ampia diffusione al nord.

LA PASTORELLA:
Tale genere era dotato di un’enorme vitalità. Esso viene definito un genere
“onnivoro”, in quanto in virtù della sua strutturazione lirico-narrativa, fu in
grado di assorbire stilemi, espressioni, modalità appartenenti ad altri generi
lirici; continuerà ad essere coltivato fino alla metà del XX secolo: ultimo esempio
di pastorella è, infatti, la canzone di Fabrizio De André, su testo di Paolo Villaggio,
“Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” (“Re Carlo tornava dalla
guerra. Lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor.”)
Occorre porre l’accento sul fatto che il genere non sia un qualcosa di universale,
ma che sia la conseguenza della necessità dell’uomo di ordinare i contenuti e dare
una strutturazione interna alla materia: è necessario pertanto, nel momento in cui si
fa riferimento al concetto di genere letterario, considerare che i contorni di un dato
genere sfumino inevitabilmente in un altro. La pastorella consente di riflettere sul
concetto di genere: esso è una formulazione “a valle”, cui si può attingere soltanto
a posteriori, nel momento in cui si decide di ampliare una produzione preesistente
inserendo nel nuovo prodotto caratteristiche ormai codificate per quel genere. Sulla
base di questa premessa, tenteremo ora di delineare le caratteristiche della
pastorella:
• Si tratta di un genere lirico-narrativo;
• Mette in scena un contrasto, su sfondo agreste o nel locus amoenus, tra un
cavaliere-trovatore e una giovane pastora che respinge o accetta le proposte
d'amore del cavaliere.
Il fatto che la pastorella sia ambientata in uno scenario di aperta campagna crea
un contrasto con la lirica di corte, tanto che il filologo romanzo J. Frappier
definisce la pastorella come “vacanza dal mondo della cortesia”.
Trama: Il cavaliere, innamorato come da tradizione di una dama di corte, si
imbatte casualmente in una pastorella e, colpito dalla sua bellezza, le rivolge
attenzioni, complimenti ma soprattutto richieste amorose.
• In alcuni casi la pastorella poteva cedere alle lusinghe del cavaliere, il quale per
raggiungere il suo scopo, le offriva doni (in particolare cinture, capo
d’abbigliamento diffuso nelle corti) o operava false promesse di vario genere.
Infine, i due arrivavano a consumare l’amore e, dopo l’atto sessuale, l’ingenua
fanciulla veniva abbandonata;
• In altri casi, al rifiuto della ragazza di cedere alle richieste del cavaliere,
seguivano lo stupro il successivo abbandono.
• Altra opportunità per la fanciulla, di fronte alle molestie, era quella di chiedere
aiuto ai pastori presenti nelle vicinanze che, accorrendo, mettevano in fuga
l’importuno.

Questo schema, caratteristico della cosiddetta “pastorella classica”, fa da


contraltare all’amore cortese: essa, nella lirica del medioevo sembra dare
"sfogo" al desiderio carnale maschile, in quanto la pastora (una donna di
bassa estrazione sociale, reputata facile) viene ridotta a un puro oggetto
erotico. Il cavaliere fa uso del linguaggio della seduzione e del vocabolario del
fin'amor, ma se ne allontana, in quanto l'aspetto brutale del suo desiderio (che
lui vuole appagare, costringendo la donna, se non consenziente), contraddice il
suo dire; il genere, quindi, riflette probabilmente le aspirazioni segrete di una
cavalleria talvolta stanca della preziosità delle Cours d'amour.
Differenze:
• Esiste una variante della pastorella classica, la “pastorella oggettiva”. Essa
giunse in una fase cronologicamente più avanzata e mette in scena, sempre in
un’ambientazione campestre, un cavaliere che, mentre rivolge i suoi pensieri
alla dama amata, si imbatte in pastori e pastorelle, intenti a far festa,
divertirsi, o anche litigare; egli può assumere l’atteggiamento del “voyeur”
(colui che vede) oppure può essere avvicinato dai pastori ed essere interrogato
sui suoi pensieri.

Si tratta di un genere più neutro; la pastorella oggettiva evolverà, in seguito,


nella pastorale: genere letterario e musicale di antica memoria virgiliana,
ispirato a una visione più o meno convenzionale o simbolica della vita rustica
che avrà una larghissima fortuna nel corso del 1500.
La pastorella fu un genere molto coltivato: alla fine del 1200, Adam de la Halle
scriverà una pièce teatrale. Il teatro rinacque inizialmente con la rappresentazione
dei misteri sacri (es. “Le Jeu d’Adam”); successivamente nel contesto borghese
della città di Arras, nella zona dell’Artois, personaggi come Adam de la Halle e
Jean Bodel daranno origine ai Jeux (rappresentazioni teatrali): essi venivano
solitamente rappresentati in occasione di ricorrenze religiose, registrate in
documenti d’archivio legati alla Confrérie (confraternite di giullari); dunque è
possibile, per i filologi, risalire all’anno della loro rappresentazione e
composizione. Ad Adam de la Halle si attribuisce anche la composizione del “Jeu
de Robin et Marion”, nomi per antonomasia dei pastori.
La pastorella verrà coltivata anche dall’autrice Christine de Pizan, figlia di
Tommaso di Benevento di Pizzano, presso Bologna; nel 1368, in giovanissima età
arrivò in Francia, dove suo padre lavorava come medico e astronomo presso la
corte di Carlo V. Qui sposò un gentiluomo piccardo, che morì nel giro di poco
tempo, lasciandola sola con i tre figli, la madre e la nipote. Ella viene ricordata per
essere una delle prime femministe della storia: per mantenere la sua famiglia
divenne copista, mise su un laboratorio e scrisse diverse opere, tra cui ricordiamo
“La cité des dames” (la città delle dame): nell’opera, in opposizione con “La città
di Dio” di Sant’Agostino, tre virtù -Ragione, Diritto e Giustizia- appaiono
all’autrice e la invitano a costruire una città inespugnabili per le donne illustri del
passato, del presente e del futuro. Ella scrisse inoltre il “Dit de la Pastoure”.
Nello studio del genere della pastorella gli studiosi hanno riscontrato una serie di
problemi.
• Le pastorelle del Nord, le cosiddette “pastorelle oitaniche”, sono
numerosissime (circa 130); furono composte tra la fine del XII e la fine del
XIII secolo. La gran parte della produzione letteraria, tuttavia, si colloca nella
prima metà del XIII secolo. La struttura de componimento è qui narrativa.
• Le pastorelle del Sud, al contrario, sono circa 30: nonostante l’invenzione del
genere sia ascrivibile all’area meridionale, pochissimi sono gli esempi di
questo genere riconducibili a questa zona. Inoltre il primo esemplare,
attribuito a Marcabruno, non presenta lo schema narrativo sopra delineato:
esso mette in scena una pastora e un uomo che le fa delle profferte amorose
sempre più esplicite; i due, però discutono e la pastora riesce addirittura ad
allontanarlo. La struttura del componimento è qui dialogica: il dialogo, in
alcuni casi, può arrivare a toccare addirittura temi politici e storici; l’aspetto
erotico esce quasi completamente di scena.
Sulla base della quantità numerica, sarebbe logico attribuire l’invenzione del
genere all’area oitanica; tuttavia, la prima pastorella rinvenuta è di area provenzale.
Inoltre l’opera “Razòs de trobar”, una sorta di manuale sulle ragioni del comporre,
sosteneva che la lingua da adottare per la composizione di pastorelle e romanzi
dovesse essere il francese.
Come spiegare questa ambiguità? Il “Razòs de trobar”, con l’espressione sopra
riportata, mirava ad indicare quale fosse la zona dove il genere era maggiormente
coltivato e, dunque, maggiormente sviluppato nelle sue possibilità. Ovviamente
esso era stato scritto “a valle”, ossia soltanto dopo che il genere letterario era nato e
si era diffuso.

MARCABRUNO (…1130-1149…)
La poetica marcabruniana è densa d’invettive, di denunce nei confronti della
degradazione dei costumi: il bersaglio del trovatore è la concezione stessa
dell’amore trobadorico, ideologia neonata ma già pesantemente criticata.
All’interno dei suoi componimenti è frequente la denuncia della corruzione della
società cortese, effettuata in uno stile realistico, espressionisticamente violento e
affettato. L’articolazione delle strofe e delle rime è particolarmente originale.
Sappiamo che egli fu legato alla tradizione poetica latina del medioevo, punto di
contatto questo con il primo trovatore, Guglielmo IX.
I dati biografici conosciuti sono scarsissimi: le sue origini furono probabilmente
molto umili; lavorò per molte corti, dove svolse importanti funzioni; fu al servizio
di Guglielmo VIII di Poitiers e X d’Aquitania, figlio del primo trovatore
(Gugliemo VII di Poitiers e IX d’Aquitania) e di Alfonso VII di Castiglia.
La pastorella di Marcabruno è la prima composizione testimoniata facente parte di
questo genere.
Metro: pastorella di XII coblas doblas di heptasyllabes femminili secondo lo
schema aaab aab più 2 tornadas conclusive di tre versi ciascuna (aab). Il quarto
verso di ciascuna strofa, eccezion fatta per le tornadas, presenta come rimante la
parola “vilaina”, ossia villana, la protagonista della lirica. Essa entra sempre in
rima con l’ultima parola dell’ultimo verso di ciascuna strofa. Si tratta di una
struttura molto particolare: infatti saremmo in presenza di una strofa costituita da
due parti
• una quartina, avente lo schema rimico aaab, struttura tipica della strofa
zagialesca;
• Una quartina mancante di un verso secondo lo schema aab

L’AUTRER JOST’UNA SEBISSA


L’altro ieri presso una siepe incontrai una ragazzetta (a lungo tradotto con
“plebea”), piena di gioia e di senno: così come figlia di villana, veste una mantella,
una gonnella, una pelliccia e una camicia di tela grossa e intrecciata (cotone
intrecciato, segnale di un abbigliamento molto povero), calzari e calze di lana.

A lei mi avvicinai attraverso la pianura.


“Bella” -feci io- “creatura (cosa) graziosa, ho dolore perché il freddo vi punge”.
“Signore” -mi disse la villana- “grazie a Dio e alla mia nutrice, apprezzo poco se il
vento mi scompiglia, perché sono allegretta e sana”.

“Bella” -feci io- “dolce e pia, mi sono allontanato dalla via per fare compagna a
Voi (da APUD VOS, lett. “Presso di voi”), poiché una tale ragazza villana non
deve guardare così tante bestie senza una compagnia adatta in una tale terra
desolata”.

“Signore” -fa lei- “chiunque io sia, so distinguere il senno dalla follia. La vostra
compagnia, signore” -mi dice la villana- “stia dove deve stare, coloro che pensano
di essere signori non ne hanno che. l’apparenza.”

“Bella, per quanto io possa vedere, vostro padre fu un cavaliere che vi generò in
vostra madre, che per questa ragione fu una cortese villana. Più vi guardo e più mi
sembrate bella ed io per la gioia mi illumino, se soltanto voi foste più umana (nei
miei confronti)!”

“Signore, tutto il mio lignaggio e la mia (razza) vedo risalire e appartenere al


versorio e all’aratro, signore” -ciò mi disse la villana- “ma i tali che si fanno
cavalieri dovrebbero fare altrettanto gli altri sei giorni della settimana”

“Bella” -feci io- “una gentile fata vi generò quando foste nata: una bellezza
raffinata di smeraldo è in voi, cortese villana, e questa bellezza vi sarebbe
raddoppiata con una sola riunione (lett. Quando gli animali si ammassano”) io
sopra e voi sotto.”

“Signore, tanto mi avete lodata che io ora sono completamente annoiata. Poiché mi
avete elevata in pregio, signore” -così disse la villana- “perciò mi avrete per
ricompensa alla vostra partenza: aspetta e spera, folle e aspetta invano a
mezzogiorno!”

“Ogni cuore selvatico e selvaggio si può addomesticare con l’uso. Riconosco a


prima vista che una tale fanciulla come vuoi possa dare ad un uomo una ricca
compagnia, un’amicizia nobile, se l’uno non inganna l’altro.”
“Signore, un uomo preso dalla sua follia
giura, prega e promette ricompense. Tanto mi fareste omaggio, signore” -mi disse
la villana- “ma io per un poco di guadagno non voglio scambiare la mia verginità
per il nome di puttana”.

“Bella, ogni creatura ritorna alla sua natura. Dobbiamo prepararci, io e voi,
all’accoppiamento, villana, al coperto lungo il pascolo, perché sarete più sicura (di
non esser vista) per fare la dolce coppia” (lett. Fare la dolce cosa pari,
l’accoppiamento)

“Signore, sì, ma secondo il diritto lo stupido cerca la sua stupidità, il cortese


l’avventura cortese, il villano la villana; il senno viene meno laddove l’uomo non
guarda alla misura (non sa regolarsi), così dice la gente (cristiana) anziana.”

“Ragazza, della vostra figura non ne vidi mai una più perfida e infame di cuore di
voi tra tutta la gente cristiana”.

“signore, (la civetta ci augura che c’è chi si incanta davanti a un dipinto e qualcun
altro che aspetta la manna) = c’è chi si fa incantare dall’aspetto e chi aspetta la
manna.

STROFA I:
• “l’autrer”, l’altro ieri: diventerà una marca identificativa del genere della
pastorella; l’indicazione temporale diventa identificativa del genere. (Elemento
evidenziato e studiato dalla filologa tedesca E. Schulze-Busacker). La
contestualizzazione temporale, quando sarà utilizzata in componimenti di altri
generi, costituisce la spia del fatto che l’autore, volutamente, stia ammiccando
alla pastorella. La scelta di questo specifico avverbio temporale fa riferimento a
una precedente lirica di Guglielmo IX.
• Dall’abbigliamento della fanciulla si desume che ella abiti in una zona molto
fredda; la camicia intrecciata ritorna in una famosa canzone di Castra, poeta di
cui si ignora l’origine citato nel “De vulgari eloquentia” di Dante: egli compose
una delle prime pastorelle in lingua italiana, conservata nel Codice Vaticano
Latino 2793.
• La prima strofa è un’introduzione: prima protagonista ad essere messa in scena
è la villana.

STROFA II: È il cavaliere ad apostrofare per primo la fanciulla, asserendo di


essere preoccupato che lei abbia freddo. La fanciulla, sin dall’inizio, chiama in
causa Dio e la sua nutrice e risponde di essere abituata a quelle temperature, di
essere allegra e sana.
STROFA III:
• Il cavaliere insiste nel chiamare la fanciulla “bella”; lei si rivolge a lui
chiamandolo “Segner”, “Don” da DOMINUS: deve trovarsi quindi di fronte a
un uomo importante.
• “pareil-paria” termine importante: compagnia adatta, letteralmente “compagnia
pari”.
STROFA IV:
• “pareillaria”: la fanciulla gioca sulle parole utilizzate dal cavaliere.
• Appare evidente che il cavaliere stia tentando di sedurre la fanciulla, che si
dimostra reticente alle sue proposte: ella dichiara di essere allegra, di non aver
bisogno di compagnia e di saper distinguere il senno dalla follia. Lo schema
sociale conosceva 2 grandi categorie: gli oratores, i bellatores e i laboratores; i
pastori costituivano il grado più basso della società. Appare strano quindi che
lei parli di senno e follia e che lo accusi di essere galante solo in apparenza.
STROFA V:
• il cavaliere inventa che la fanciulla sia figlia di un cavaliere, per cercare di
blandirla. L’espressione “cortese villana”, riferita alla madre della ragazza,
sarebbe un ossimoro = dà l’idea dell’ironia che si cela dietro il dialogo.
• “joi” =gioia intesa con l’accezione descritta in precedenza tipica dell’amor
cortese
STROFA VI: la fanciulla fa notare al cavaliere che dovrebbe comportarsi come
tale sempre, gli sta dando dell’impostore.
STROFA VII: “bada fols bada, en la muz’a meliaina!”: modo di dire proverbiale,
intraducibile letteralmente. “a mezzogiorno” momento in cui si diceva apparisse
una fata, in quanto era l’ora più calda. Si diceva pertanto che in quell’ora non si
dovesse essere fuori dalle case, perché la fata avrebbe potuto tentare le persone che
incontrava. “effetto Fata Morgana” = in ottica la Fata Morgana, o Fatamorgana, è
una forma complessa e insolita di miraggio che si può scorgere all'interno di una
stretta fascia posta sopra l'orizzonte si tratta di un fenomeno frequentemente
osservato nello stretto di Messina e tramandato dai Normanni. Esso fa riferimento
alla fata Morgana della mitologia celtica, che induceva nei marinai visioni di
fantastici castelli in aria o in terra per attirarli e quindi condurli a morte: a
mezzogiorno, ad esempio, il sole sembra tramontare.
STROFA VIII: “amistat de paratge” espressione spesso utilizzata dai trovatori per
indicare il rapporto di amicizia tra poeta, servo, e la sua dama.
STROFA IX: il cavaliere, dopo aver lusingato a lungo la fanciulla, afferma che lei
è destinata a tornare alla sua natura, quella di villana.
STROFA X:
• “mezura”: termine proprio della lirica trobadorica, è necessario non esagerare
ma sapersi controllare. È un segno di autodisciplina.
• “cristiana”: termine ammesso da un manoscritto, si privilegia la traduzione
“anziana”.
TORNADA: è uno dei passi marcabruniani di difficile interpretazione. La
traduzione non è sicura= spesso si fa riferimento a proverbi di cui non c’è un
corrispettivo italiano.
La lirica ha un numero di strofe pari: la caratteristica di questo componimento è
che dopo la prima strofa, introduttiva e di andamento narrativo, si ha un
continuo dialogo (“botta e risposta”) tra i due protagonisti. Il carattere dialogico
sarà un elemento costante della produzione occitanica nel genere della pastorella.
La struttura dialogica del componimento di Marcabruno richiama il canto dei
pastori dell’epoca di Teocrito: si tratterebbe quindi di una tradizione legata al
folklore, che si sarebbe mantenuta e diffusa in Europa.
La struttura è parallela: il primo a parlare è il cavaliere, le cui affermazioni sono
seguite dalle risposte della pastorella; tuttavia nella seconda strofa lo spazio
dedicato alle parole della fanciulla è superiore a quello dedicato alle parole del
cavaliere e il componimento riserva a lei l’ultima parola.
La pastorella marcabruniana mette in scena un brutale tentativo di seduzione:
il cavaliere, trovandosi davanti a una pastora, considerata feccia della società, dopo
aver tentato inizialmente di lusingarla e avendo riscontrato la sua reticenza, si
rivolge in modo grottesco alla ragazza con una serie di espressioni molto esplicite,
rare nella produzione occitanica.
A differenza delle pastorelle tradizionali francesi, nelle quali solitamente l’io
lirico si identifica con il cavaliere e ne prende le parti e la donna viene vista come
oggetto erotico nella pastorella di Marcabruno l’autore non parteggia per il
signore, ma per la fanciulla: questo elemento, che scomparirà nella pastorella
francese, tornerà in auge nella scrittura di Christine de Pizan.
Alla luce di quanto evidenziato possiamo affermare che il contenuto del
componimento abbia un valore moralistico, reso esplicito dalle varie risposte della
pastora.
Nella prima strofa, il termine “trobei”, se da un lato significa “trovare” riconduce
anche al verbo “trobare”: c’è un’allusione indiretta all’attività del canto
trobadorico. Una serie di studi ha permesso di avanzare l’ipotesi che dietro al
generico “cavaliere” si nasconda un personaggio reale, identificato con
Guglielmo IX, ossia il padre del cortigiano presso cui lavorò Marcabruno.
L’avverbio “l’autrer” torna in una poesia di Guglielmo IX, “Be vueill que
sapchon li pluzor”: essa è costruita su una sequenza di coblas doblas secondo lo
schema metrico AAAB AAB, ossia la stessa struttura metrica della pastorella
sopra analizzata. La poesia di Guglielmo al suo interno parla di senno e follia e,
nel momento in cui l’autore descrive il suo modo di scrivere, sostiene di essere un
infallibile maestro nell’ars amatoria; tuttavia -suppongono gli studiosi- il poeta
confessa di aver avuto pochi giorni prima (“l’altro ieri”) una “défaillance
amorosa” e di esser stato rimproverato dalla sua dama. In definitiva, all’interno
della sua lirica, Guglielmo IX affianca all’arte trobadorica quella erotica e
racconta, prendendosi in giro, di aver avuto un rapporto sessuale “fallimentare”. La
parola “l’autrer”, attestazione temporale, figura per la prima volta proprio in
questo componimento.
Se il cavaliere protagonista della pastorella di Marcabruno fosse Guglielmo IX,
la défaillance in questione riguarderebbe il rifiuto del suo tentativo di seduzione:
il fatto che una giovane pastora dia insegnamenti morali all’uomo più potente di
Francia è un elemento di fortissima rottura.
La quartina è una struttura molto elementare, di cui si trova traccia anche nel
folklore: dallo studio del musicologo Vincent Pollina sulla trascrizione musicale
di questa pastorella è emerso che ci siano elementi che riconducono anche a
passi di danza; è possibile riscontrare due elementi riconducibili alla tradizione
popolare: la strofa zagialesca e l’elemento coreografico. Questo potrebbe
portare a pensare che esistessero pastorelle, ossia canti di pastori, cui
Marcabruno potrebbe essersi ispirato.

Pastorella di Marcabruno, quesito: Se è vera la ricostruzione che individua in


Guglielmo IX il cavaliere-trovatore protagonista della lirica “L’AUTRER
JOST’UNA SEBISSA”, quale fu la ragione che spinse Marcabruno (i quale
lavorò a servizio del figlio di Guglielmo IX) a compiere questo riferimento?
La risposta a questo quesito risiede nella lirica che analizzeremo di seguito.
La generazione di trovatori a cui appartiene Marcabruno è la seconda; la
generazione precedente vede come protagonisti Guglielmo IX d’Aquitania,
Jaufré Rudel e Ebolo di Ventadorn, delle cui composizioni nulla è giunto ai
giorni nostri.
Guglielmo IX visse tra il 1071 e il 1126, ossia tra la fase finale dell’XI secolo, in
cui venne organizzata la prima crociata (1096-1099), e l’inizio del XII secolo, il
quale costituì un periodo fondamentale per lo sviluppo delle letterature volgari;
fu il IX duca d’Aquitania e VI di Poitiers. Formalmente egli era un vassallo
del re di Francia, tuttavia egli dispose in vita di un enorme potere.
Si è a lungo discusso se egli possa essere considerato il primo poeta in lingua
volgare.
Nel famoso studio di Angelo Monteverdi, Guglielmo viene definito “trovatore
bifronte”. Dalla piccola produzione dell’autore (circa 10 testi) emergono, infatti,
due distinti temperamenti: uno scanzonato e allegro, ricco di ironia e temi arditi
(erotismo); l’altro dedito al servizio d’amore e estremamente lirico.
Oggi siamo a conoscenza che Guglielmo IX, alla giovane età di 15 anni, divenne
un feudatario, vassallo del re di Francia; per le sue seconde nozze egli sposò
Philippa, figlia del conte di Tolosa: appare evidente l’interesse di rivendicare
pretese sulla contea. Nel 1097, approfittando che lo zio di Filippa, Raimondo di
Saint Gilles, era partito per la prima crociata, Guglielmo IX il Trovatore invase e
occupò la contea di Tolosa: questo atto gli guadagnò una prima scomunica da
parte del Papa, in quanto una serie di leggi stabilivano che durante le spedizioni
militari i possedimenti dei crociati fossero posti sotto la tutela della Chiesa e
fossero considerati sacri. Dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1099, egli si recò
in Terra Santa e a Costantinopoli; in Oriente si trovò a combattere contro i
Turchi in Anatolia, contro i quali l’armata della contea d’Aquitania subì una
pesantissima sconfitta e venne decimata. Quindi, nel 1102, il duca Guglielmo IX
fece ritorno in Aquitania. Nel 1120, in occasione dell’organizzazione delle
crociate franco-spagnole, Guglielmo andò in soccorso del re Alfonso I
d’Aragona e partecipò alla vittoriosa battaglia di Cutanda contro un esercito di
Mori almoravidi, e poi alla conquista di Calatayud; rimase nella penisola iberica
sino al 1123, partecipando anche alle campagne di Alfonso I per la conquista del
territorio di Valencia, dove ottenne alcune vittorie.
La figura di Guglielmo IX non era particolarmente benvista dal papato: infatti,
la sua mancanza di rispetto nei confronti delle prescrizioni ecclesiastiche,
l’abuso che spesso faceva del suo grande potere e in generale la sua irriverenza
(es. Si era recato in crociata con uno scudo su cui era disegnato il ritratto della sua
amata) gli avevano guadagnato l’astio della Curia ed egli era stato scomunicato per
comportamento indegno. I cronisti si riferiscono a lui definendolo “fatuus e
lubricus” (sciocco e offensivo), mentre la sua Vida lo descrive come grande
seduttore.
La critica sostiene che le composizioni più ironiche e oscene fossero destinate
ai compaños, i cavalieri che accompagnavano il signore nelle sue imprese e che
stabilivano con lui un rapporto di amicizia e fiducia quasi paritario.
GUGLIELMO IX (GUILHEM DE PEITIEU): “FARAI UN VERS POS MI
SONELH”
La lirica è nota al mondo come “lirica del gatto rosso” e si contraddistingue per
l’utilizzo di un linguaggio esplicito e di tematiche ardite.
Il componimento che verrà di seguito analizzato è presente in due versioni
differenti: la prima versione è inserita all’interno dei manoscritti N ( viene
prima di quello C ) e V; la seconda all’interno del manoscritto C.
•nel manoscritto N la lirica è attestata sia a carta 228r sia a carta 235r.
Era abbastanza frequente che in uno stesso manoscritto lo stesso testo
potesse essere ripetuto due volte; di solito le due copie avevano delle
variazioni.
•Il manoscritto C è un manoscritto linguadociano abbastanza tardo; esso
accoglie testi anche molto antichi a riprova del fatto che esso sia stato
compilato in una fase successiva.
Metro: la lirica è composta da 14 coblas singulars di 6 versi, seguite da una
tornada di 2. Si alternano versi eptasillabi e quaternari, secondo lo schema
aaabcb. Prevalentemente si tratta di coblas singulars, tuttavia la terza e la quarta
strofa sono coblas doblas.
Differenze tra le versioni N/V e C:
• la versione N/V presenta due strofe in più della versione C, poste all’inizio.
• La tornada del manoscritto C, rivolta al giullare Monet, manca nel manoscritto
NeV

MANOSCRITTO N E V:

Farò un canto, poiché sonnecchio e cammino e sosto al sole; ci sono donne


sconsiderate (di cattivo proposito) ed io so dire quali: quelle che amor di cavaliere
tengono a male (disprezzano)

Una Donna non fa peccato mortale se ama cavalier leale; ma se ama un monaco o
un chierico senza ragione la si dovrebbe bruciare con un tizzone.

In Alvergna, oltre il Limosino, me ne andavo da solo (tapi=in incognito),


pellegrino, trovai la moglie di Don Guarino e Don Bernardo mi salutarono con
modestia, per san Leonardo!

Una mi dice nel suo linguaggio: “Dio vi aiuti, signor viandante! Mi sembrate molto
per bene a prima vista (per quanto ne sappia), ma assai ne vediamo andare per il
mondo di gente folle.”

Ora sentirete cosa ho risposto: non le dissi né ai né bai*, ferro o bastone non
menzionai, ma solo questo: “Babariol, babariol, babarian”

“Sorella” disse Agnese ad Ermessenda “abbiam trovato quel che cercavamo!”


“Sorella, per amor di Dio, ospitiamolo che è proprio muto, da lui i nostri propositi
non saranno rivelati”.

Una mi prese sotto il mantello, e mi condusse in camera, al fornello; sappiate che


fu buono e bello e il fuoco giusto; ai gran carboni io mi scaldai volentieri.

Da mangiare mi diedero capponi, e sappiate che erano un bel po’ (più di due), ma
non c’erano né sguattero né cuoco, solo noi tre; il pane era bianco, il vino buono, il
pepe (spesso) abbondante.

“Sorella, quest’uomo è un gran furbone, ha smesso di parlar per causa nostra;


portiamo il nostro gatto rosso, subito lo farà parlare espressamente se lui mente. "

Agnese andò a prendere la bestiaccia: era grossa e con lunghi baffoni; io, quando
fu fra noi, n’ebbi spavento, per poco non persi i sensi e l’ardimento.

Quando avemmo bevuto e mangiato mi spogliai come a lor piacque, sulla schiena
mi misero il gatto cattivo e fellone; una lo tirò dal costato fino al tallone. (il gatto
graffia la schiena del trovatore)

Per la coda, tutto a un tratto tirò il gatto e quello graffiò; ebbi più di cento piaghe
quella volta; ma non mi sarei mosso neanche morto.

“Sorella, disse Agnese ad Ermessenda, è proprio muto, mi pare evidente” “Sorella


al bagno prepariamoci e al soggiorno!”. Otto giorni e ancor di più restai in quei
dintorni.

Tanto io le scopai come udirete: centottant’otto volte, per poco non mi ruppi la
correggia e anche l’arnese; non vi posso dire il male che mi prese.
STROFA II: il componimento rivela che colui che parla sia un cavaliere, che
condanna le dame che amano monaci e chierici.
STROFA III:
• “En” = dominus;
• “trobei” = termine presente nella pastorella di Marcabruno.
• il riferimento esplicito a Don Guarino e Don Bernardo dimostra che i due
fossero conosciuti dal pubblico che ascoltava la lirica; erano probabilmente
vassalli.
STROFA IV:
• “En son lati” = nel suo linguaggio, lett. Nel suo latino.
• Il fatto che delle dame fermino uno sconosciuto viandante risulta
particolarmente strano.

STROFA V:
• “no le diz ni ‘bat’ ni ‘but’”: tradotto sopra con né ai né bai; a lungo tradotto con
“né batto né botto”: non è traducibile, sarebbe il corrispettivo in italiano di “né a
né b”.
• “Babariol, babariol, babarian”: il poeta imita il verso di una persona
balbuziente: voci onomatopeiche.
• Questa lirica di Guglielmo IX è alla base della famosa novella boccacciana
“Masetto da Lamporecchio”: egli, invitato dal giardiniere in un convento di
suore, si finge muto e giace ogni notte con una suora diversa.
STROFA VII:
• “mi prese sotto il mantello”: si tratta di un’espressione feudale, che allude al
momento in cui il signore accoglieva sotto il proprio mantello il vassallo da
difendere; si trattava di un gesto simbolico che dimostrava la protezione che il
signore garantiva a quel vassallo.
• “fornel” = insistenza sul tema del fuoco: è funzionale a introdurne la
concezione edonistica.
STROFA VIII: i capponi erano un cibo costoso, non tutti potevano permettersi di
cibarsene. Essi erano spesso tenuti da parte per le grandi occasioni e, solitamente,
si provvedeva ad uccidere un solo cappone. La presenza di capponi, di spezie, vino
e pane bianco (pregiato, solitamente si consumava pane di segale) in abbondanza
evidenziano l’insolita ricchezza delle due donne.
STROFA X:
• “l’enoios”: colui che mi dà noia, la bestiaccia; “sensi” e “ardimento” = rinviano
a allusioni erotiche.
STROFA XIV: correggia è una striscia, tradizionalmente di cuoio, utilizzata per
legare o mantenere accostati due pezzi di uno stesso oggetto. Nelle antiche
antologie questa strofa veniva omessa.
Il trovatore Guglielmo IX, nella sua lirica, sostiene di essersi travestito da
pellegrino: questa figura era spesso ascrivibile all’ambito clericale.
Probabilmente l’episodio descritto è veritiero e realmente le due donne erano le
mogli di Don Guarino e Don Bernardo, vassalli di Guglielmo. La lirica si
scaglia, in maniera critica, contro quelle donne che usavano respingere i
cavalieri ed avere esperienze sessuali con chierici e monaci.
Questa lirica, comunemente detta “del gatto rosso”, viene messa in connessione
con la pastorella. Se il protagonista della pastorella di Marcabruno viene
individuato in Guglielmo IX la ragione risiede anche in alcuni punti di contatto con
questa lirica.
Quest’ultima è ascrivibile al genere della “chanson de réncontre”: essa non fu
un’invenzione di Guglielmo, ma era già presente nella tradizione in lingua
mediolatina. L’incipit della lirica ““FARAI UN VERS POS MI SONELH””, che
recita “farò un verso poiché ho sonno”, richiama le chansons de réncontre
mediolatine: d’altronde i contatti di Guglielmo IX con la Spagna furono
frequenti, in quanto egli prese parte alle crociate franco-spagnole.
Il componimento “del gatto rosso”, simbolo del Demonio, si configura
chiaramente come un attacco al mondo clericale che, non potendo sfogare,
seppur presenti, le pulsioni erotiche, le rinviava sul piano del sogno; il
resoconto dell’episodio, estremamente dettagliato, mira a rendere verosimile e
pungente il contenuto e ad esaltare la figura del cavaliere, esperto nell’ars
amatoria, mettendone a confronto le “imprese” con i sotterfugi operati dai monaci.
MANOSCRITTO C:
La versione di questo manoscritto manca delle prime due strofe, nelle quali
viene esposto lo scopo della lirica, ossia avanzare una critica nei confronti del
mondo clericale. Essa inoltre presenta una tornada assente nelle altre versioni:

Monet, tu andrai al mattino coi miei versi e un borsellino*; dì alla moglie di


Guarino e di Bernardo che uccidano il gatto per mio riguardo.
*i rotoli di pergamena in cui erano scritte le liriche venivano trasportati nelle borse
dei giullari

Altro elemento differente è la seconda strofa:


Ascoltate bene cosa risposi loro, in tal linguaggio: “Tarrababart marrababelio riben
saramahart”
L’espressione “Babariol, babariol, babarian”, presente nella seconda strofa della
versione del manoscritto N e V ha senso, in quanto riproduce i suoni prodotti da un
uomo balbuziente; invece, l’espressione riportata nel manoscritto C risulta
particolarmente ambigua.
La questione ha messo in movimento lo studio degli arabisti: il filologo arabista
Patrice Uhl sostiene che i suoni riportati nella versione del manoscritto C non
siano onomatopeici, ma costituiscano una frase dal significato osceno con
riferimenti alla prostituzione femminile. Le parole oscene -spiega lo studioso-
sarebbero legate a una leggenda musulmana: essa vedrebbe come protagonisti
due angeli, inviati sulla terra per prendere atto della condotta peccaminosa degli
uomini per poi riferire quanto visto a Dio; una volta giunti sulla Terra gli angeli
avrebbero ceduto alle tentazioni della carne e avrebbero assassinato coloro che li
avevano scoperti.
Secondo Uhl, nella lirica, il cavaliere, in procinto di compiere un atto
peccaminoso, riporterebbe le parole della leggenda in arabo. D’altra parte è
certo che Guglielmo IX abbia avuto contatti con il mondo arabo, sia in occasione
delle crociate franco-spagnole e sia per i suoi rapporti personali con uno dei califfi
locali: è possibile che Guglielmo abbia imparato questa formula in una delle
sue occasioni di contatto con il mondo musulmano. È stato inoltre ipotizzato che
la seconda strofa sia stata modificata dal copista; tuttavia è più plausibile che esse
siano originario.
Ricostruzione filologica:
• La versione N e V sarebbe destinata al grande pubblico: questo elemento
spiegherebbe la presenza del prologo, che evidenzia la finalità del
componimento;
• La versione C, corredata da parole arabe, sarebbe probabilmente destinata
ai compaños (cavalieri della masnada): questa ipotesi spiegherebbe anche la
presenza dell’apostrofe al giullare.
• In entrambe le versioni figura la critica al mondo clericale. La seconda
versione, tuttavia, sarebbe più sfacciata: qui Guglielmo sostiene di aver risposto
in latino, lingua della Chiesa, ma in realtà si esprime in arabo. La provocazione
effettuata dal trovatore è ferocissima, non tanto per i contenuti sessuali,
quanto per l’utilizzo della lingua volgare, fino a quel momento riservata al
mondo clericale, in una composizione scritta.
• Connessione con la pastorella di Marcabruno. Recenti studi, condotti dalla
filologa romanza Maria Luisa Meneghetti, hanno messo in evidenza che
l’etimo dell’espressione “tozeta mestissa” (pastorella di Marcabruno “L’autrer
jost’una sebissa”), tradotto tradizionalmente con “fanciullina plebea", andrebbe
inteso con la parola “meticcia”, ossia una ragazza aventi origini arabe.
Marcabruno, per punire la sfacciataggine di Guglielmo IX, avrebbe dunque
ripagato il potente trovatore con la sua stessa moneta: egli, così come
Guglielmo si era ispirato alla chanson de réncontre, Marcabruno avrebbe
messo in scena un incontro una pastora (strato sociale più basso della società),
la quale non solo avrebbe respinto le sue avances ma, se è plausibile la
ricostruzione della Meneghetti, avrebbe avuto origini arabe ; inoltre, come
Guglielmo aveva deciso di esprimersi nella lingua utilizzata dal mondo
clericale, così Marcabruno avrebbe utilizzato -e in tal modo omaggiato- il modo
di cantare dei pastori.
Ovviamente, un’operazione del genere non fu indolore: sappiamo che
Marcabruno scrisse altre due pastorelle, entrambe frammentarie e
ambigue. Si è a lungo discusso se esse siano antecedenti o meno alla pastorella
“maggiore”: la frammentarietà delle altre due pastorelle potrebbe indurre a
pensare che esse fossero dei tentativi. Dopo la pubblicazione di questi
componimenti sul genere della pastorella cadde un periodo di silenzio e il
genere smise di essere coltivato nel Sud della Francia fino a Guiraut de
Borneil, per poi essere ripreso nel nord della Francia con Jean Bodel: questo
elemento risulta particolarmente insolito. Il silenzio sul genere, caduto dopo il
1143 circa, venne squarciato dalla diffusione di pastorelle mediolatine, in
particolare da quella che è stata definita “la più antica pastorella
mediolatina”, conservata nel Codex Buranus (“Carmina Burana”); alle
pastorelle contenute nel codex seguirà la comparsa della prima pastorella
di tipo francese, scritta dall’autore mediolatino Gautier De Châtillon. È
possibile che la Chiesa si sia appropriata del modello della pastorella
marcabruniana e che l’abbia utilizzata per i propri scopi: essa metterà in
scena lo stupro di fanciulle pastorelle ad opera dei cavalieri e costituirà una
critica non solo verso la categoria dei cavalieri ma verso tutto il sistema
ideologico cortese dei trovatori.
La tradizione mediolatina aveva ereditato dalla tradizione classica non solo la
lingua, ma anche i generi e le forme espressive; ci sono inoltre casi di epica
mediolatina ispirati a esperienze dell’epica romanza, ad esempio in romanzi
aventi come protagonista Artù: essi si diffusero notevolmente in Inghilterra, il
paese che, secondo la leggenda, Artù avrebbe dovuto liberare dagli anglo-normanni
(“Esperanza bretone”). Il processo di diffusione della letteratura in volgare fu
rapidissimo: in poco più di cento anni la nuova tradizione aveva instaurato con
la coeva tradizione mediolatina un rapporto simbiotico, di reciproco scambio
a livello testuale e musicale.Ad essa, inoltre, la lirica volgare aveva sottratto
l’uso esclusivo della lingua volgare, fino a quel momento gestita dal mondo
ecclesiastico: il potere della scrittura passò dunque nelle mani di questi nuovi
poeti, laici sia nella vita che nei contenuti cantati.

CARMEN BURANUM N.89


Il testo che analizzeremo di seguito viene definito da H. Spanke “la più antica
pastorella mediolatina” la quale presenta punti di contatto con la pastorella di
Marcabruno.
Essa è conservata all’interno del “Carmen buranum 89” il quale, secondo gli
studiosi dei “Carmina Burana”, necessita di essere letto congiuntamente al Carmen
Buranum 90.
I “Carmina Burana” sono una raccolta di canzoni medievali scoperta nel 1803
nella Biblioteca bavarese di Benedicktbeuern: il corpus è composto da circa 228
testi latini o bilingui (in lingua latina e tedesca9; attualmente il manoscritto è
conservato nella Biblioteca Statale di Monaco. Secondo studi recenti i carmina
furono raccolti intorno al 1230 in Carinzia o nel Tirolo del Sud da tre diversi
compilatori, i quali avrebbero attinto da una produzione precedente già in
circolazione: all’interno dell’opera essi avrebbero unito repertorio locale e
folklorico a repertorio internazionale; tra le liriche figura anche un
componimento di Gautier De Châtillon. Gli studiosi ritengono che il manoscritto
sia riconducibile all’ambito monastico, tuttavia i compilatori vi inserirono
materiale in circolazione di carattere eterogeneo che, per la maggior parte,
rifletteva le aspirazioni dei giovani studenti. Parte di questa produzione potrebbe
quindi essere legata a un mecenate ecclesiastico di una piccola corte tedesca, che
avrebbe fatto da collettore di opere di natura differente. La raccolta si
contraddistingue per la sua complessità: al suo interno si ha un’alternanza di testi
che danno un’immagine piuttosto precisa della lirica mediolatina.
CARMEN BURANUM 89 “NOS DUO BONI”
Il Carmen Buranum, scritto sotto forma di sequenza (strofa a e b), è
particolarmente importante: secondo Spanke i presunti pastori presenti in scena
sarebbero da ricollegare a un gruppo di cantori del Sud della Francia o della
Spagna, dove il conductus era particolarmente utilizzato; inoltre -secondo lo
studioso- esso sarebbe databile al 1150, cioè al ridosso della composizione della
pastorella marcabruniana.
Il testo che del Carmen è frammentario; il significato risulta essere parzialmente
oscuro.

STROFA 1b: “nigra puella”: rimanda alla teoria della Meneghetti sulla pastorella
di Marcabruno.
STROFA 2a: la cintura era un capo d’abbigliamento molto prezioso e desiderato
nel medioevo.
Nelle strofe introduttive si comprende che ci siano due uomini che decidono di
iniziare a cantare: l’argomento del canto è una pastorella di grande bellezza, ma
straziata dalle fatiche del suo lavoro.
STROFA 3a: il gregge descritto in questa strofa tornerà nel Carmen 90; per questo
si dice che i due carmina siano legati. Secondo la tradizione il gregge dovrebbe
essere composto dalla stessa specie di animali: il gregge descritto non solo è
estremamente piccolo, ma anche mescolato = senso metaforico negativo.
STROFA 3c: la pastorella, che conduce il gregge sopradescritto, provata dalle
fatiche si permette di attaccare i due signori.
STROFA 4a: (i fatti del pascolo sono per la moltitudine di coloro che seguono la
stella polare????)
STROFA 4b: si mettono in scena dei pastori che invece di preoccuparsi delle loro
greggi portandole a pascolare, mungendole e proteggendole fai lupi sono dei
mercenari, degli affabulatori e mentitori. Essi vengono meno ai loro doveri.
È ipotizzabile che il componimento, scritto a ridosso della stesura della pastorella
di Marcabruno, sia una risposta della Chiesa alla pastorella. Nonostante il
destinatario delle critiche di Marcabruno fosse Guglielmo IX e non la Chiesa, le
parole della pastorella si sottraggono alle norme sociali: una pastorella non si
sarebbe mai dovuta permettere di accusare un signore. È come se Marcabruno
avesse superato i confini sociali: un appartenente alla classe dei laboratores non
avrebbe dovuto permettersi di muovere delle rimostranze nei confronti delle classi
superiori. Le altre due pastorelle potrebbero essere un tentativo da parte del poeta
di ridimensionare quanto affermato in precedenza.
La struttura del Carmen Buranum è costituita da una parte narrativa e una
dialogica: tuttavia il dialogo è intrapreso e concluso dai pastori, dietro i quali si
nascondono i “pastori di anime”, ossia i clerici.
Secondo una studiosa, i Carmina 89 e 90 sarebbero agganciati: nei due
componimenti torna lo stesso gregge.

CARMEN BURANUM 90: “EXIIT DILUCULO”

Uscì all’alba una rustica fanciulla con un gregge, con il bastone e con la nuova
lana.

Nel piccolo gregge ci sono una pecora, un’asinella, una vitella con un vitello, una
giovane capra e una capretta.

IL MANOSCRITTO B AGGIUNGE:
Vide seduto sull’erba uno scolare (giovane chierico): “cosa fai, signore? Vieni con
me a giocare?”
Se i due Carmina, come si ipotizza, possono essere agganciati ci troveremmo in
presenza di una pastorella che viene ricollocata nel suo ruolo sociale di
inferiorità: i due uomini le suggeriscono di tornare a filare, unica mansione
adatta a una donna; nel Carmen 90, inoltre, essa viene ridotta al ruolo di
prostituta.
L’ipotesi potrebbe essere motivata dalle due pastorelle, che analizzeremo di
seguito, attribuite a Gautier de Châtillon.
GAUTIER DE CHÂTILLON: (1135-1175)
Fu un grande poeta mediolatino; scrisse componimenti egregi, conservati
anche all’interno dei “Carmina Burana”. Egli nacque verso il 1135 vicino Lille,
studiò a Parigi e Reims, luoghi fondamentali per apprendere la cultura
mediolatina; soggiornò a Bologna e poi a Roma. Verso il 1165 si trovò a servizio
della cancelleria Enrico II d’Inghilterra, dove si legò a un grande intellettuale
della sua corte, Johan de Salisbury. A Gautier si deve la stesura dell’opera
“Alexandreis”, poema epico in esametri, scritto in latino, che esaltava la figura di
Alessandro Magno e del testo sul martirio di Thomas Beckett, personaggio
fondamentale nella corte d’Inghilterra, ucciso nella cattedrale di Canterbury nel
1170. L’uccisione, operata da sicari, fu commissionata dallo stesso Enrico II, il
quale dovrà poi chiedere perdono al Papa per le accuse rivoltegli.
Le prime pastorelle a comparire nel territorio del Nord in lingua mediolatina
sono da attribuire proprio a Gautier de Châtillon.
“DECLINANTE FRIGORE”:
Il componimento presenta nella prima strofa il topos della primavera: la terra,
fiduciosa di sé si riempie dei colori dei germogli e l’io-lirico, mentre la notte volge
al termine, è seduto sotto un albero. Nella seconda strofa vengono descritte le
sensazioni del poeta riguardo i suoni prodotti dalla natura (lo scrosciare dell’acqua
del fiume, il sussurro delle fonti, il cinguettio degli uccelli) e l’atmosfera idilliaca
in cui è immerso. Mentre il poeta si meraviglia di tanta bellezza -ascolta il concerto
degli uccelli, il sussurro delle fonti e il chiacchiericcio degli uccelli attraverso la
cavità dei monti, i quali allontanano le sue preoccupazioni- vede andare verso di
lui una tale “Glycerium”, donna dal bel seno. La ragazza è avvolta in un
bellissimo mantello, che le scende grazioso dalla testa; la sua veste è di colore
rosso (Tirio). La sua fronte è liscia, le sue labbra tenerissime; il poeta, rapito, le si
rivolge così: “Avvicinati a me, dilettissima, cuore mio e anima mia! Nutri le mie
profondità più intime! Di fronte a te non riesco a tacere e a stento domino il mio
ardore; so leggere e scrivere (è quindi un chierico) e sono tormentato da questo
sentimento”. Di fronte a queste parole la fanciulla, abbattuta, si siede davanti al
chierico ed è costretta a sopportare ciò che lui le fa subire. Il componimento si
chiude con la frase “ma chi non conosce il resto?” “predicatus vincitur” = si tratta
di una metafora; letteralmente significa “la parte reggente della frase (il predicato)
ha vinto sul soggetto”. Viene utilizzata una metafora legata alla grammatica per
alludere all’atto sessuale dell’ecclesiastico.
Si tratta della prima pastorella, a livello cronologico, in cui viene
rappresentato un rapporto sessuale.
“SOLE REGENTE LORA”
Metro: la lirica è composta da 8 strofe di heptasyllabes (settenari) che seguono lo
schema aaab cdc;
•la prima parte della strofa è identica alla cobla marcabruniana (aaab). Ogni
Strofa figura al IV verso con la rima uscente in -ula; l’ultimo verso di ogni
strofa va in rima con il quarto verso.
•il testo sembra pertanto una riscrittura in mediolatino, parodistica,
della pastorella marcabruniana.
Sia nella lirica “Declinante frigore” sia in “Sole regente lora” è messo in atto un
gioco molto sottile di riferimenti alla tradizione mediolatina e vi si recuperano
molte delle immagini appartenenti alla tradizione e alla mitologia antica
(Glycerium, il sole trainato da briglie).
Nel primo dei due componimenti la protagonista è Glycerium, una donna
benestante utilizzata dal chierico per appagare i suoi desideri; la fanciulla
descritta nella seconda lirica è, invece, di ben altra condizione sociale: si evince
dal componimento il tentativo da parte dell’uomo di blandirla, tuttavia presto si
giunge alla proposta erotica esplicita. Nonostante i tentativi da parte della
ragazza di allontanare l’uomo, implorandolo e sostenendo di essere ancora
troppo piccola, di avere un gregge da controllare e di aver paura di tornare
troppo tardi a casa e essere sgridata dalla madre, egli si dimostra irremovibile
e -nascondendosi dietro espressioni tipiche del latino alto- la invita a resistere e le
promette di giungere in breve tempo al termine dell’atto sessuale. La fanciulla
replica sostenendo di non voler perdere la sua castità: in tutti i modi la ragazza
cerca di respingere le molestie dell’uomo ma senza riuscirci. Il componimento
si chiude con la dichiarazione, da parte del poeta, di essere riuscito a piegare
al suo volere la ragazza, a suo avviso falsamente reticente; i fiori e l’erba
fungono da letto al loro amplesso.
Le due liriche di Gautier di Châtillon sono chiaramente due chansons de
réncontre:
• nella prima lirica il chierico è seduto sotto un albero e incontra una ragazza,
Glycerium, che gli si concede facilmente;
• nella seconda è la ragazza ad essere seduta per terra; l’uomo tenta l’approccio
ma lei lo respinge chiamando addirittura in causa la madre (tema tipico della
lirica della mal maritata, tema della lirica popolareggiante); tuttavia a nulla
portano le suppliche della ragazza, che viene stuprata.
Il fatto che la struttura metrica sia simile a quella della pastorella
marcabruniana potrebbe indicare che il componimento sia una risposta del
clero a Marcabruno: se nel componimento di quest’ultimo la pastorella aveva
rifiutato con successo le avances dell’uomo e lo aveva rimproverato per il suo
comportamento in “sole regente lora” la fanciulla viene deliberatamente violentata.
In seguito alla pubblicazione di queste due pastorelle di Gautier de Châtillon,
dopo un lungo periodo di silenzio, esplose nel Nord la moda delle pastorelle in
volgare secondo lo schema “classico” descritto in precedenza. È come se,
dinanzi all’esperimento di Marcabruno, si sia delineato un tentativo di resistenza
della Chiesa: in un primo momento, con il “Carmen Buranum 89” si ha una
fortissima censura, per cui viene adottato lo schema dialogico utilizzato nella
pastorella marcabruniana ma le redini del discorso sono tenute da “nos duo boni” (i
due pastori di anime); successivamente, con Gautier de Châtillon,
particolarmente sensibile alle letterature volgari, si hanno due pastorelle che
reintroducono il tema del réncontre, il tema degli omaggi e l’amplesso,
ottenuto con o senza consenso.
A livello più profondo è possibile ravvisare in questo periodo un grande scontro
tra mondo clericale e laico, che nella fase aurorale della produzione volgare
doveva essere particolarmente acceso: infatti il mondo ecclesiastico, unico
detentore fino a quel momento della capacità di scrivere in lingua volgare e
pertanto unico detentore della cultura, vide in questo periodo la nascita di una
produzione laica in lingua volgare (lirica trobadorica9) che, per di più, parlava di
un amore profano, diverso dall’amore per Dio; il nuovo movimento venne visto
dalla Chiesa come pericolo in grado di sovvertire le gerarchie sociali in uso
fino a quel momento, le quali ovviamente, la vedevano al vertice in campo
culturale e politico.
Dopo lunghe e alterne vicende, il genere della pastorella vide la luce: esso
continuerà a subire una serie di modifiche, che porteranno all’introduzione di
canzoni mariane.

ANONIMO: “EN MA FOREST ENTRAI L’AUTRIER”


Si tratta di una pastorella francese.
Metro: si tratta di una pastorella francese composta da 6 strofe, avente ciascuna 5
versi, tre octosyllabes maschili e 2 hexasyllabes femminili, secondo lo schema
aaaba. Generalmente le pastorelle francesi avevano uno schema metrico più
semplice e un incatenamento rimico più essenziale.

L’altro ieri entrai nel mio bosco / per rilassarmi e distendermi, / e trovai una
pastora graziosa; / in un verziere faceva la guardia agli agnelli, / all’ombra d’un
ramo.

Non indossava né corsetto né pelliccia / né copricapo né cappuccio / era tutta


scollacciata; / bianca aveva la gola e bianco il mento / più della neve gelata.

Se ne stava sola, senza compagno, / teneva un bastone in mano, / cantava a voce


alta: / cantava una canzonetta, / ma non si era affatto accorta di me.
Mi siedo sotto l’albero accanto a lei, / poi dico: “Pastora, ascoltami, / non ti
spaventare; / se vuoi fare una cosa per me, / farò di te la mia amante”.
“Franco (leale) cavaliere, lasciatemi perdere, / non ho voglia di farmi prendere in
giro, / ecco la notte oscura. / Lasciate che custodisca i miei agnelli, / (del vostro
gioco non ho cura) non mi curo di voi”.
Quando la sentii parlare così, / senza indugio mi sedetti accanto a lei, / la presi per i
fianchi; / la baciai e l’abbracciai tanto / che divenne la mia amante.
Dal componimento si evince uno dei caratteri fondamentali della pastorella
“classica”: le prime due strofe sono caratterizzate da una forte vena narrativa; si
tratta di una Chanson de réncontre, dove non c’è dialogo; infatti, anche se la
pastorella risponde alle avances del cavaliere, non c’è un vero e proprio “botta e
risposta”. Nelle pastorelle francesi, poiché il punto di vista del trovatore coincideva
con quello del cavaliere, non era inusuale che la maggior parte delle battute fosse
riservata proprio a lui.
STROFA I:
• “nel MIO bosco”: se ne deduce che il protagonista sia molto ricco.;
• Torna il termine “l’autr’ier”, avverbio temporale che rinvia immediatamente al
genere della pastorella.
• “verziere”: giardino recintato. Se la pastorella è ambientata in un bosco ‘utilizzo
del termine risulta ambiguo.
STROFA II:
• Il corsetto, assente in questa lirica, rimanda alla pastorella di Marcabruno.
• La descrizione dell’abbigliamento della pastora sembra voler giustificare il
comportamento del cavaliere.
STROFA III: la descrizione delle azioni della pastora sono funzionali a renderne
l’immagine stereotipata.
STROFA IV: il fatto che il cavaliere si sieda sotto l’albero rimanda alla pastorella
mediolatina. Il tema fondante della lirica viene sminuito: il termine “amie”, infatti,
riguardava soltanto la dama amata dal trovatore.

ANONIMO: “PER COI ME BAIT MES MARIS?”


La canzone di tipo popolareggiante ebbe molto successo nella produzione oitanica
del Nord: la lirica in questione appartiene al genere della chanson de femme -
monologo amoroso pronunciato da una donna- nel sottogenere della canzone della
“malmaritata”: una donna si lamenta del marito, per lo più vecchio o villano, e
spesso manifesta il desiderio di tradirlo con un amante giovane e bello.
Una serie di studiosi hanno sostenuto che la chanson de femme fosse di
pertinenza del genere popolare: in effetti, dalle testimonianze dell’VIII-IX
secolo, risulta che le donne danzassero le carole, balletti che vennero presto banditi
dalla Chiesa, poiché considerati seducenti e tentatori. In ambito galego-portoghese
si hanno delle canzoni di donna che si lamentano della partenza dei loro mariti.
Il tema della “malmaritata” sarà poi assorbito dalle pastorelle francesi: il
carattere misto narrativo-dialogico conferì alla pastorella una enorme forza
attrattiva, che le consentì di incorporare temi e forme provenienti da altri generi
(“genere onnivoro”). La pastorella è stata considerata un genere di rottura: in
effetti essa si pone in contrasto con i caratteri fondamentali della tradizione
cortese; inoltre essa, sviluppatasi notevolmente nel Nord della Francia nel corso
del 1200 in un contesto borghese, potrebbe essere intesa come una forma di
rivalsa di questa classe sociale nei confronti dell’amore cortese.
D’altronde nella regione settentrionale, dove il potere era concentrato nelle
mani di pochi e potenti nobili e l’autorità regia era maggiormente consolidata,
lo scontro tra cavalieri e classe borghese era molto forte: tale elemento è
visibile chiaramente anche all’interno del romanzo “Perceval” di Chrétien de
Troyes: al contrario nel Sud, l’estrema frammentazione del potere e la
flessibilità sociale permettevano di stemperare le tensioni tra classi.
Dietro alla pastorella è possibile individuare un’aspra critica al sistema cortese. I
ruoli tradizionali della fin’amor, che vedono protagonisti una dama e un
trovatore-cavaliere, che le offre in omaggio una fedeltà vassallatica e opera nei
suoi confronti una seduzione combattuta e idealistica la cui realizzazione è rinviata
sine die, subiscono un totale rovesciamento nella pastorella: qui il cavaliere
viene privato delle sue virtù morali, la donna viene oggettualizzata e l’amore è
considerato esclusivamente nella sua declinazione erotica.

Metro: ballata di 3 strofette di 4 versi ciascuna, con un ritornello di 2 versi,


secondo lo schema aaab CB. Il dato interessante è costituito proprio dai réfrains.

Perché mi picchia mio marito? Poveretta me!


Io non gli ho fatto niente di male / né gli ho parlato con cattive parole, / ho solo
abbracciato il mio amico / sola soletta.
Perché mi picchia mio marito? Poveretta me!
E se non mi permette d’andare avanti / e di
condure una vita piacevole, / farò sì che lo chiamino cornuto / per davvero.
Perché mi picchia mio marito? Poveretta me!
Ora so cosa farò / e come mi vendicherò: / andrò a letto con il mio amico / tutta
nuda.
Perché mi picchia mio marito? Poveretta me!

Il motivo della donna che ha un amico di cui il marito ignora l’esistenza,


spesso di origine borghese, tornerà nei e Fabliaux e, naturalmente, in Boccaccio. I
Fabliaux sono brevi racconti in versi, nei quali sono narrate storie comiche e
spesso oscene in toni crudamente realistici o satirici; si caratterizzano per
l'ambientazione borghese, quotidiana, la mancanza di finalità allegoriche o
simboliche, la presenza della parodia di generi più alti e soprattutto la brevità; i
personaggi hanno caratteristiche fisse: la donna è spesso scaltra, il chierico avaro
e goloso; i due consumano l’amore all’oscuro del marito stolto e ingenuo della
donna. I racconti ebbero un enorme successo nella Piccardia, zona caratterizzata
dalla presenza di una vivace classe borghese.
Si hanno almeno 4 poesie della scuola poetica siciliana – “Madonna dir vo
voglio” di Giacomo da Lentini, testo considerato il manifesto della scuola poetica
siciliana, “Troppo son dimorato” di Giacomo da Lentini, “Poi li piace c’avanzi”
di Rinaldo d’Aquino e “Umile core e fino e amoroso” di Jacopo Mostacci – che
sono molto probabilmente trascrizioni e adattamenti di liriche provenzali, di
cui è stato possibile rintracciare il modello: non si tratta di traduzioni ma di
vere proprie riscritture attraverso cui i poeti siciliani introiettarono i moduli
contenutistici e formali della tradizione trobadorica; è inoltre possibile, sulla
base di quanto affermato, che i poeti siciliani abbiano fatto derivare dalle liriche
provenzali anche la melodia, operando il cosiddetto “contrafactum”, pratica
consistente nella ripresa di un modulo strutturale, rimico e melodico per
scrivere una poesia differente. Tale procedimento, contrariamente a quanto si
potrebbe pensare, che avveniva sia nell’ambito trobadorico che oitanico, si
realizzava anche con passaggi dall’uno all’altro ambito: non per forza l’asse era
quello occitanico-oitanico, giustificabile in virtù del primato cronologico del primo
sul secondo, ma anche nel senso contrario. In ambito religioso, il contrafactum si
proponeva di dimostrare che l’uomo, da solo, non fosse in grado di inventare nulla,
in quanto era Dio l’unico Fattore: la creazione umana era una riproposizione di
qualcosa inventato precedentemente.
Alla luce di tutte queste considerazioni è necessario dunque ridimensionare
l’affermazione di Roncaglia sulla separazione in Italia tra testo e musica: a
riprova di questo basti pensare che il manoscritto G, conservato nella Biblioteca
Ambrosiana di Milano sia di edizione italiana e conservi le melodie; inoltre, il
ritrovamento dei frammenti, quello zurighese che porta in evidenza tratti tipici
della lingua toscana e quelli ravennate e piacentino, sono particolarmente
importanti proprio per la presenza dell’elemento musicale. Infatti, se fino al
ritrovamento la prospettiva di analisi aveva individuato tra le caratteristiche della
produzione lirica d’Oltralpe la compresenza di parola e musica e in quella italiana
una produzione svincolata dalla musica, l’emersione di questi nuovi elementi
costringe la critica a rivalutare tutte le precedenti posizioni.
Alla corte angioina di Napoli giunsero dei trovatori francesi che sicuramente
eseguivano le loro composizioni musicate. La fruizione della lirica provenzale
avveniva principalmente nelle corti; in Italia le corti erano disseminate
principalmente nel Nord, in cui transitarono numerosi trovatori ma la tradizione
curiale che si andò costituendo fu quella della scuola poetica siciliana.

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