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“Nella predicazione
bisogna fare in modo che la popolazione possa capire “
“perché tutto il
popolo possa comprendere (le cose) giuste”.
L’utilizzo del termine “Transferre” presuppone la consapevolezza linguistica che
ormai il latino sia una cosa diversa dalle altre lingue, presuppone una sensibilità
linguistica posseduta in primo luogo da Carlo, il quale era appassionato dai
problemi linguistici e aveva pertanto dato l’ordine di redigere una grammatica
della lingua francona, lingua tedesca per lui lingua materna. Aveva inoltre fatto
trascrivere i canti ancestrali, in cui si cantavano le gesta degli antichi re al fine di
esaltarne la memoria e creare una tradizione per il popolo.
Il IX secolo sarà un’epoca fondamentale, di grandi cambiamenti. Gli studiosi si
sono interrogati se il fermento che attraversò il secolo fu dovuto esclusivamente al
genio di Carlo magno o se egli fosse affiancato e consigliato da qualcuno dotato di
ancora maggiore lungimiranza: in questo contesto un ruolo di primo piano è
assunto da Alcuino di York, proveniente dalla tradizione anglosassone e
consigliere prediletto e più ascoltato da Carlo.
In Inghilterra Alcuino si occupò dell’impresa di evangelizzazione: era
perfettamente consapevole che per potersi far comprendere dal popolo fosse
necessario attuare un processo di traduzione dal latino, lingua delle Scritture,
all’anglosassone. Nel momento in cui giunse sul continente si rese conto che la
lingua parlata in quelle zone di derivazione latina fosse totalmente differente da
quella su cui si era basata la sua formazione. Di conseguenza appare evidente come
il problema linguistico potrebbe essere stato sollecitato a Carlo da Alcuino stesso:
egli era l’unico che proveniva da una realtà differente e pertanto non era stato
immerso nel processo di trasformazione della lingua, cui premeva l’istituzione
di scuole e che era perfettamente consapevole di cosa volesse dire tradurre e che
ci si trovasse di fronte a sistemi linguistici ormai completamente diversi. Da
questo momento il latino classico diventa una lingua morta: l’813 è l’anno di
riconoscimento dell’esistenza in vita delle lingue volgari, tuttavia il primo
documento in lingua volgare arriverà soltanto 30 anni dopo, con i Giuramenti
di Strasburgo.
Carlo morì nell’814. In vita egli aveva avuto diverse mogli dalle quali aveva
avuto diversi figli. Nessuno dei figli maschi, eccezion fatta per Ludovico, cui verrà
dato l’epiteto di “Pio”, era sopravvissuto. Tra questi figli la leggenda vuole che ci
fosse anche un certo Rolando, prefetto delle marche della Britannia. La tradizione
riporta che egli fosse al capo della retroguardia di Carlo Magno e che essa fosse
stata assalita dagli arabi: in realtà a compiere l’attacco fu un gruppo di briganti, che
avevano aspettato il rientro della retroguardia di Carlo, mandata in Spagna e poi
richiamata in patria per far fronte ai Sassoni, presso il Passo di Roncisvalle al fine
di appropriarsi dei cavalli, delle armature e di tutti i beni che l’esercito aveva
portato con sé. Alla morte di Carlo, la cronachistica carolingia riportò l’evento
della “battaglia” di Roncisvalle, collocando al suo interno la morte di Rolando e
costruendo intorno ad essa il mito di uno scontro avvenuto tra le due fedi, quella
islamica e quella cristiana. Sulla base di questa tradizione venne costruita la
“Chanson de Roland”: qui Rolando viene descritto come il beniamino di Carlo
Magno; vi si racconta che egli fu assalito dal suo patrigno, Giano. La sorella di
Carlo Magno aveva dato alla luce Rolando in circostanze ambigue e in assenza di
un marito era stata sposata da Carlo: tuttavia, da alcuni elementi della Chanson e
da passi di documenti storici, in cui si parla del “peccato di Carlo Magno”, alcuni
studiosi hanno ipotizzato che dall’incesto di Carlo con la sorella sarebbe stato
generato il mitico Rolando.
Tra i figli di figli di Carlo l’unico a rimanere in vita fu Ludovico, detto “il Pio”,
che successe al padre come unico sovrano del Sacro Romano Impero. Nel’817
Ludovico emanò la cosiddetta “ordinatio imperii”, una sorta di testamento che
conteneva le disposizioni sulla successione. Essa stabiliva che, alla sua morte, il
regno sarebbe stato diviso tra i suoi tre figli; Lotario, il primogenito, che avrebbe
dovuto ereditare la maggior parte dei territori e il titolo imperiale; Ludovico, detto
“il Germanico”, cui sarebbe spettata la Baviera, e Pipino, cui sarebbe andata
l’Aquitania.
Tuttavia, alla morte della prima moglie Ludovico il Pio si risposò: da questa unione
nacque un altro figlio, Carlo, detto “il Calvo”. Ludovico decise quindi di rivedere
le decisioni in merito alla successione e con un’ordinanza concesse a Carlo molti
privilegi. Gli altri tre fratelli risentiti cercarono di coalizzarsi; tuttavia la morte di
Pipino ristabilì lo status quo.
Alla morte di Ludovico il Pio, secondo quanto stabilito dall’ordinatio imperii
Lotario ricevette il titolo imperiale e la maggioranza del territorio; Ludovico
ereditò la Baviera mentre Carlo ricevette tutti i territori precedentemente
promessi al defunto Pipino.
Ne derivò una situazione attraversata da diverse tensioni, nelle quali ciascuno dei
tre fratelli cercava di guadagnare territorio a discapito degli altri: in particolare
Lotario, passato alla storia per la sua crudeltà, cercava di portare sotto la sua
influenza il maggior numero di territori possibili e in reazione a ciò si generò
un’alleanza contro di lui tra i suoi due fratelli, Ludovico e Carlo. Nella battaglia di
Fontaneye en Puseye i tre si affrontarono e Lotario ne uscì sconfitto. A questo
punto i due fratelli nell’842 stipularono un trattato, passato alla storia con il nome
di “Giuramenti di Strasburgo”, che costituisce il primo documento redatto in una
lingua romanza. L’anno successivo venne firmata la pace, la “pace di Verdun”:
essa prevedeva che Carlo ottenesse gran parte della Francia, Ludovico il
Germanico la Germania e Lotario la Lotaringia, successivamente detta Lorena,
cuore centrale del territorio dell’impero che si estendeva dal Belgio fino all’Italia, e
il titolo di imperatore. Infatti, i due fratelli compresero che fosse più importante
l’omogeneità del territorio che il titolo imperiale: mentre la porzione di territorio
attribuita a Lotario si caratterizzava per un’enorme frammentazione, in primo
luogo linguistica, nelle loro terre Carlo e Ludovico avviarono un processo di
consolidamento che gettò le basi per la fondazione delle nuove nazioni. Il Belgio e
l’Italia saranno anche per questa ragione territori che conosceranno l’unificazione
nazionale soltanto molti secoli dopo: appare evidente quanto i Giuramenti di
Strasburgo e il trattato di Verdun abbiano costituito le basi dell’Europa
contemporanea.
I Giuramenti vennero scoperti nel 1500 e ci sono pervenuti attraverso un’opera
storica, intitolata “Quattro libri di storia”, ad opera di un membro della famiglia di
Carlo Magno, Nitardo, cugino dei sopracitati discendenti del sovrano. Egli lavorò
presso la corte di Carlo il Calvo, il quale, consapevole di trovarsi di fronte a un
evento epocale, gli commissionò un’opera che avesse come nucleo tematico quello
delle contese intercorse tra i figli di Ludovico il pio, dopo il periodo di pace interna
che aveva dominato il regno di Carlo magno. Nitardo fu pertanto non solo non
l’esecutore della volontà del sovrano, ma, essendo parte del clan che gravitava
intorno a Carlo il Calvo, fu testimone di primo piano degli eventi.
L’opera era composta:
• Da un Primo Libro, contenente un’esaltazione di Carlo magno e un’esplicita
critica verso l’operato di Ludovico il Pio;
• Da un secondo libro, che mostrava le macchinazioni di Lotario, la sua
ambizione e la sua violenza e riportava gli eventi legati alla battaglia di
Fontaneye en Puseye.
ciascuno dei due libri era diviso in due sezioni, per un totale di quattro parti. Ad
esse venne aggiunto un
• Terzo libro: Nitardo, temendo che si potessero snaturare i fatti relativi
all’alleanza militare, alla vittoria e soprattutto all’accordo diplomatico che
condusse al trattato di Verdun redasse un ulteriore libro.
Nel cuore del terzo libro ci sono i GIURAMENTI DI STRASBURGO. Rispettabili
studiosi hanno ipotizzato che la collocazione dei Giuramenti nella parte centrale di
questo volume mirasse a valorizzarli e a rivelare al mondo la loro importanza. C’è,
pertanto, da chiedersi, considerando il valore che l’autore del testo aveva attribuito
al documento, quale fosse il suo ruolo nella redazione.
I Giuramenti di Strasburgo sono inseriti all’interno di un una cornice latina e la
loro presenza in lingua volgare li fa risaltare come se fossero una gemma
incastonata.
La cornice recita che, nel sedicesimo giorno delle calende di marzo (14 Febbraio),
Ludovico e Carlo convennero per pronunciare un giuramento in una città allora
chiamata Argentaria -perché piana di miniere d’argento- oggi chiamata Strasburgo.
La specificità dei giuramenti è che essi vennero pronunciati attraverso uno
scambio di lingue: Ludovico, erede della Baviera, giura in lingua romana,
Carlo, re d’Aquitania, in lingua tedesca.
La scelta della città di Strasburgo ha un forte valore simbolico: essa si situa in
Alsazia, regione prossima alla Germania. I due, quindi, cercano un posto che
occupasse una posizione intermedia tra le due realtà, che non fosse collocato né
troppo vicino alla Francia né troppo vicino alla Germania, territorio a metà per fare
l’accordo. Presso Strasburgo i due sovrani fecero confluire i loro eserciti.
• Il giuramento viene fatto chiamando in causa per primo come testimone
invisibile Dio: nella mentalità medievale si era convinti che la parola data,
anche se non scritta, fosse vincolante; il mancato rispetto della parola data
comportava, infatti, la punizione divina;
• seguì il giuramento di Ludovico effettuato in protofrancese; Carlo giurerà
in prototedesco. Mentre ci sono testimonianze scritte del prototedesco, i
giuramenti costituiscono la prima fonte scritta della nuova lingua romanza.
SEQUENZA LATINA:
Traduzione:
I A/B: Intona con la cetra dal dolce suono la cantica della vergine Eulalia,
II A/B: poiché è necessario (est opere) celebrare il martirio con una canzone.
III A/B: Io accompagnerò la tua melodia con la voce e imiterò il canto
ambrosiano₁
IV A/B: suona una bella canzone con la lira e io offrirò l’accompagnamento della
voce.
V A/B: così costringiamo la pietà e la natura umana a versare delle lacrime.
VI A/B: Questa fanciulla nell’epoca della sua fanciullezza, quando ancora non era
in età da marito, VII
A/B: il nemico del giusto avvolse nelle fiamme del fuoco. Subito (egli) rimase
stupefatto dal volo di una colomba;
VIII A/B: era (erit₂) lo spirito di Eulalia, candida, veloce e senza colpe.
IX A/B: ella non dispiacque a Dio per alcuna ragione pertanto si mescolò alle stelle
del cielo.
X A/B: preghiamola affinché protegga i suoi servitori (noi), i quali intonano lieti
un’armonia.
XI A/B: cantiamo con un cuore devoto melodie (modi) virtuose, affinché lei, pia, ci
conceda la benevolenza di Dio
XII A/B: e guadagni a noi il suo aiuto, al cui cenno tremano sole e luna.
XIII A/B: ci rimetta i peccati e ci collochi, lei che è benigna,
XIV A/B: tra le stelle che servono Dio con la corona e la luce dorata B…….
Dio che come i servi siamo rivolti a Dio.
Note:
1*: Canto ambrosiano, inventato da Sant’Ambrogio, padre della Chiesa e patrono
di Milano. Considerato all’origine della produzione romanza e probabilmente
correlato alla nascita della rima. 2* erit: in latino
il verbo ha la funzione di futuro; in questa fase l’occorrenza di questo verbo nel
contesto potrebbe essere un errore e potrebbe voler indicare l’imperfetto (erat).
Si tratta di una sequenza neutra, in cui si insiste sulla musica, sulla questione
melodica, in cui si fa riferimento a una donna oggetto di martirio e si insiste sul
fatto che sia una santa alla quale si chiede l’intercessione presso Dio.
SEQUENZA FRANCESE:
I A/B: Eulalia fu una buona pulzella, aveva un bel corpo e un’anima ancora più
bella (bellezour =comparativo di maggioranza di derivazione latina).
II A/B: i nemici di Dio vollero vincerla, vollero farle servire il Diavolo.
III A/B: Ma lei non ha ascoltato i cattivi consiglieri, coloro che le hanno suggerito
di rinnegare Dio che vive su in cielo.
IV A/B: né con l’oro né con l’argento, né con abiti lussuosi, con le preghiere, con
le minacce o i regali V A/B:
nessuna cosa la potette piegare, la fanciulla non accettò mai ciò che non provenisse
da Dio.
VI A/B: perciò fu portata alla presenza di Massimiano, che era allora il re sopra i
pagani. VII A/B:
e lui la esorta ma a lei non importa di rinnegare il nome di cristiana.
VIII A/B: ella si indurisce nel suo animo, preferirebbe sopportare le molestie
IX A/B: piuttosto che perdere la sua verginità, perciò si fece uccidere con grande
onestà.
X A/B: quindi dentro il fuoco la gettarono, perché bruciasse rapidamente, ma lei
che non aveva colpe non bruciò.
XI A/B: a ciò non si volle rassegnare il re pagano e con una spada ordinò che le
fosse tagliata la testa.
XII A/B: la donzella non si oppose quella cosa, aveva deciso di lasciare il mondo e
così prega Cristo.
XIII A/B: in figura di colomba volò al cielo, ora tutti preghiamo perché interceda
per noi
XIV A/B: affinché Cristo abbia pietà di noi e dopo la morta ci conceda di tornare
da lui per la sua clemenza
• 1° verso: la parte A termina in “a”, esattamente come la parte B; nel 2° verso
l’ultima parola della parte A esce in “i”, come la parte B ecc. = si tratta di una
serie di assonanze. Qui, come nei futuri testi dell’epica, i versi sono correlati dal
loro tramite giochi di assonanze.
• Il testo inizia senza fare alcun riferimento alla musica; immediatamente si
accenna alla bontà di Eulalia e alla bellezza del suo corpo e della sua anima
( letterarietà). Immediatamente nella narrazione subentrano gli antagonisti, i
nemici di Dio.
• Analizzando il passaggio dalla forma latina a quella francese il dato più
evidente è proprio la nascita della finzione letteraria: sono presenti la fabula e
l’intreccio, il protagonista e l’antagonista, gli aiutanti. Viene utilizzata la tecnica
narrativa della suspense, nel momento in cui Sant’Eulalia non brucia; inoltre il
ruolo della santa come intermediaria di Dio è ridotto al minimo essenziale.
• La sequenza è l’attuazione pratica di quanto enunciato nella deliberazione di
Tours: appare evidente che il proposito non sia soltanto quello di usare la lingua
volgare, ma di utilizzare una lingua che si imprima nella coscienza e nella
mente del volgo attraverso simboli e immaginazione fantastica e romanzesca.
• La lingua del testo presenta tratti dialettali valloni e piccardi ; è probabile che il
testo sia stato redatto mediante una scripta vallone di epoca pre-franciana nella
zona al nord-est della Francia. La Francia e la Provenza hanno i loro albori tra il
nord-est e sud-ovest: ne è derivata la postulazione di una sorta di asse
geografico di scambio tra le due zone profondamente collegato con i monasteri
benedettini. Si presuppone quindi un sentimento di apertura di questi monasteri
verso il mondo, che ha determinato la formazione di un francese comprensibile
nello sforzo di creare una lingua comune, una koiné.
• Ci sono una serie di critici che mettono in discussione che la sequenza sia stata
scritta presso il monastero di Saint-Amand: in particolare, il paleografo
Bischoff ritiene che il testo sia proveniente dalla bassa Lotaringia. Ulteriore
perplessità è legata al fatto che il codice all’interno del quale è stato rinvenuto il
manoscritto non figuri in nessun inventario prima di quello effettuato tra il 1150
e il 1168: è possibile, tuttavia, che il manoscritto fosse stato prestato e quindi
non si trovasse all’interno della biblioteca in quel momento.
Se anche il manoscritto non è stato composto lì, il collegamento della sequenza con
Saint-Amand esiste; il monastero contribuì, infatti, alla ricostruzione del monastero
di Hasnon nel 1065. La sorella del benefattore del restauro si chiamava proprio
Eulalia.
ITALIANO:
Io sono quello che non ho bene né mai l’avrò, né d’aprile né di maggio, se non l’ho
dalla mia donna; di certo nella sua lingua (la donna forse è italiana) non so dire la
sua gran bellezza, più fresca d’un fiore di gladiolo, per cui non me ne separerò.
FRANCESE:
Bella dolce cara signora, a voi mi dono e mi concedo; non avrò mai gioia completa
se io non ho voi e voi me. (espressione simile presente nel “Tristano”). Siete
davvero una mala nemica, se io muoio per la mia buona fede, ma mai in nessun
modo mi allontanerò dal vostro dominio.
GUASCONE
Signora, io mi arrendo a voi perché siete la più buona e bella che mai fosse, e
gagliarda e valente, se solo non mi foste tanto ostile. Avete bellissime fattezze e
colorito fresco e giovane. Sono vostro, e se vi avessi non mi potrebbe opprimere
nulla.
GALIZIANO-PORTOGHESE
Ma tanto temo il vostro giudizio che ne sono tutto spaventato. Per voi ho pena e
affanno, e la mia persona ferita: la notte, quando giaccio nel mio letto, mi risveglio
continuamente; e poiché non ottengo mai nulla ho errato nel pensiero che ho
concepito.
CONJAT-CONGEDO
Bel Cavaliere, tanto è preziosa la vostra onorata signoria che ogni giorno sono
sgomento. Ohimè! Che farò se colei che ho più cara mi uccide, non so perché? Mia
signora, per la fede che vi devo e per la testa di santa Quiteria, il cuore mi avete
tratto via e nobilmente parlando rubato.
• Questa lirica sarà presa come modello e verrà imitata da altri due autori,
Bonifacio Calvo e Serveri de Girona.
• La prima strofa, di solito, nelle liriche dei trovatori, suole aprirsi con un topos
primaverile, in cui l’amore per la natura e il rigoglio della stagione vengono
comparati al sentimento amoroso. Tale elemento si ritrova anche nella
precedente e coeva lirica mediolatina, tornerà in quella francese mentre tenderà
a scomparire in quella italiana. Ovviamente il topos della primavera come
risveglio può rispecchiare il sentimento gioioso che deriva da un amore
corrisposto o, contrariamente, evidenziare un contrasto tra la natura rigogliosa e
colorata e il cuore arido e triste di un amante non ricambiato.
• Nel primo verso il polisindeto “pratz e vergiers e boscatges” è funzionale a
evidenziare il contrasto tra i prati e i boschi, all’esterno, e i verzieri, i giardini al
chiuso nelle corti.
• La prima strofa è spesso quella che chiarisce lo scopo del poeta e che ne riflette
l’azione metapoetica.
• “coratges”: ci troviamo in presenza della cosiddetta “chanson des changes”, che
ha come protagonista una donna amata da un poeta, in un amore durevole nel
tempo; tuttavia di fronte alla noncuranza e alla crudeltà della donna il poeta
poteva trovarsi a cambiare l’oggetto del suo amore e a rivolgere le sue
attenzioni a una nuova fanciulla. La Chanson des changes assume
importanza perché spesso si trova a definire la destinataria del nuovo
amore con un senhal (soprannome) e a chiarire le ragioni del cambiamento.
Nel caso di questo componimento non è il poeta ad essersi innamorato di
un’altra donna ma il contrario. Questo genere di lirica si diffonderà
notevolmente nel nord della Francia affiancandosi alla poesia mariana di
carattere religioso: alla madonna verranno dedicate poesie con parole amorose
già in uso per la poesia laica e i poeti, per giustificare questo cambiamento
nell’oggetto dell’amore, utilizzeranno come espediente proprio lo change.
Numerosi studi inducono a pensare che la canzone mariana abbia avuto
successo al Nord piuttosto che al Sud per motivi storici: nel 1215 la Chiesa
indisse il IV Concilio Lateranense, con il quale venne rinnovato il divieto dei
tornei, venne definito il rito del matrimonio, venne istituito il sacramento della
Confessione e ribadita l’esistenza del regno del Purgatorio. Il ruolo di Maria
divenne pertanto quello di intercedere presso Dio per la salvezza dell’uomo,
vengono istituite messe per i defunti e donazioni in denaro.
• 2° strofa: in italiano; il testo si fa risalire alla fine del XII secolo e, a
quest’altezza cronologica, la lingua italiana non è ancora dotata di una
tradizione lirica scritta. Di conseguenza all’interno del testo diversi studiosi
hanno rilevato una serie di incertezze grafiche e linguistiche, dovute da un lato
al fatto che l’autore della lirica non fosse madre-lingua, dall’altro al fatto che
non ci fosse una tradizione scritta della lirica cui ispirarsi. Le incertezze si
riscontrano: nella presenza di “ni” e “si”, nei possessivi “so” e “sa”, in “beutà”
che presenta la vocalizzazione della laterale dinanzi a consonante; si hanno
grafie particolari, come “jamai” per giammai; interessante è la conservazione
della /o/ finale, caratteristica del genovese; oscillazione tra le forme verbali di
avere “aio” e “ò” per esigenze anche metriche e rimiche.
• In francese antico “oi” si legge /oe/; anche nella strofa francese il tema rimane
immutato: si parla di un poeta innamorato, di una donna che non corrisponde
questo amore e dell’ostinazione del poeta a non volervi rinunciare. Sicuramente
in questa strofa è presente un grande rispetto del francese, in quanto Raimbaut
intratteneva rapporti con un grande poeta francese del suo tempo.
• La strofa è in guascone: questa lingua, come l’italiano, non aveva una
tradizione letteraria consolidata e continuerà ad esserlo per molto tempo.
Pertanto ci sono una serie di incertezze rappresentative: si ha il passaggio da
/v/> /b/, tipo del guascone; il passaggio da /f/ a una consonante aspirata (Hiera);
si verifica un rotacismo nelle forme “Voera” e “noera”; DOMINA> dauna.
• Il galego-portoghese sarà una lingua he avrà una tradizione lirica molto
importante, in merito alla strofa si è molto discusso, in quanto si è a lungo
ritenuto che essa fosse scritta in castigliano.
• “Behls Cavaliers”= senhal per Beatrice di Monferrato; Santa Quitera, santa
venerata in Guascogna. Le rime del congedo sono simili a quelle delle strofe.
La lirica costituisce sicuramente un caso straordinario: la tradizione provenzale
e francese è, infatti, principalmente monolinguistica; ci sono casi eccezionali di
opere bilingui, opere in cui un poeta entra in contrasto con un altro in una
discussione poetica che viene svolta in due lingue differenti.
Nella scelta delle lingue da utilizzare per il suo componimento Raimbaut
individuò tutti volgari romanzi; tuttavia non tutti sono dotati della stessa dignità
letteraria e duttilità espressiva. La disposizione delle lingue non è assolutamente
casuale: le lingue in posizione dispari nella successione -provenzale, francese e
galego- sono già attestate e dotate di una fiorente tradizione lirica; l’italiano e il
guascone ne sono, invece, prive. Il poeta ha dunque creato una gerarchia interna
al testo nella disposizione degli idiomi utilizzati: c’è una scelta ragionata, originale
e giocosa di discordo tra lingue dotate di una tradizione letteraria e lingue che
ancora non la possedevano.
La scelta da parte dell’autore di utilizzare questi idiomi è dettata, inoltre, da
ragioni personali: egli scrisse una tenzone in lingua genovese ed ebbe rapporti
epistolari con il grande poeta francese Conon de Béthune. Ci si è a lungo chiesti
cosa l’autore conoscesse del galego. Oggi sappiamo che la “Cantiga de amigo”
fosse un genere già praticato a Santiago de Compostela nella seconda metà del XII
secolo: il poeta Johan Soarez de Pavia, il più antico trovatore galego-portoghese,
attivo tra il 1169 e il 1200 (in una fase dunque anteriore all’attività di Raimbaut),
fu un vassallo della corte di Catalogna e Aragona ed è possibile che abbia
frequentato la corte, all’interno della quale si soleva poetare in provenzale. È
dunque possibile che a Raimbaut fosse giunta voce di composizioni in lingua
galiziana e che la sua scelta fosse volta ad omaggiare la nascente tradizione
letteraria in questa lingua. Altro dato da sottolineare è il fatto che l’autore abbia
scelto di non comprendere nella sua scelta il castigliano, in quanto la lingua poetica
utilizzata presso le corti di quest’area della Spagna era, a quest’altezza cronologica,
il provenzale.
Datazione: Nel periodo compreso tra il 1197 e il 1201 Raimbaut dedicò una serie
di composizioni a Beatrice di Monferrato: ci troviamo nella fase immediatamente
precedente alla IV crociata. Le liriche vennero composte presso la corte di
Bonifacio di Monferrato, dove videro la luce:
• il discordo plurilingue;
• il discordo bilingue in occitano-genovese,
• il “Carros”, poema epico-lirico dove l'autore narra un'immaginaria guerra fra
donne;
• l’Estampida: originariamente un genere di poesie cantate e accompagnate da
uno strumento, poi una composizione strumentale con carattere di danza;
componimento che richiama le forme poetiche del nord della Francia.
Bonifacio di Monferrato, nel 1202, sotto proposta di Geoffroy de Villehardouin,
venne posto a capo della IV crociata: la direzione della stessa avrebbe dovuto
essere, in realtà, affidata a Tibaldo III, conte di Blois e di Champagne; egli,
tuttavia, aveva improvvisamente trovato la morte ed era stato sostituito da
Bonifacio. Il fatto che la lirica sia stata composta a ridosso della crociata è un dato
importante: da una serie di altri indizi sappiamo che, in Francia, Provenza e Italia,
sotto la spinta del pontificato di Innocenzo III fosse stata manifestato un grande
entusiasmo per questa crociata. La lirica provenzale introdusse un nuovo modo di
parlare d’amore totalmente differente rispetto a quello adottato in epoca classica e
mediolatina: nella nuova ideologia cortese il sentimento amoroso diviene qualcosa
che invita all’introspezione, è funzionale ad elevare lo spirito umano e rende
migliori.
Sulla base di un recente studio, condotto dal filologo romanzo Giuseppe Tavani:
• il discordo sarebbe la realizzazione formale di un appello a partire per la
crociata attraverso l’unità culturale dell’amore: attraverso una lirica d’amore
manifestata in differenti lingue si produrrebbe l’invito a un’unità ideologica
del mondo romanzo in opposizione a quello arabo e ortodosso sotto una
voce unica, l’amore. Se la ricostruzione fosse corretta, il testo avrebbe
fortissime implicazioni politiche, in quanto vorrebbe portare in luce l’unità del
mondo romanzo sotto l’unica tradizione cortese.
• La scelta dell’italiano e del guascone sarebbe dettata da specifiche ragioni:
l’adozione dell’italiano sarebbe un atto di omaggio a Costanza d’Altavilla,
regina di Sicilia dal 1194 al 1198, moglie di Enrico VI e madre dello stupor
mundi, Federico II. L’omaggio alla regina, di origine normanna, sarebbe volto
inoltre a celebrare anche Filippo, fratello di Enrico, succedutogli al trono nel
1197 di cui Bonifacio di Monferrato era amico e fedele vassallo.
La scelta del guascone sarebbe, invece, da interpretare come un atto di
omaggio nei confronti di un’altra dama, Bianca di Navarra, figlia di Sancho VI,
che a sua volta aveva legami con quel Tibaldo di Blois e Champagne che
avrebbe dovuto essere posto a capo della crociata.
Se l’ipotesi di Tavani fosse vera, ossia se l’arco cronologico di composizione
dell’opera è individuabile tra il 1197 e il 1201 e se l’ordine gerarchico non è
casuale in virtù di tutti gli elementi sopra delineati, la data di composizione del
descort potrebbe essere circoscritta al 1199: in quell’anno, infatti, Tibaldo di
Champagne, nonostante il divieto stabilito dal IV Concilio, aveva indetto un torneo
presso il suo castello durante il quale i partecipanti avevano imbracciato la croce;
nello stesso anno era stato celebrato il matrimonio di Tibaldo con bianca di
Navarra e Federico II era asceso al soglio imperiale. Se l’interpretazione di Tavani
fosse accettabile ci troveremmo in presenza di un testo che, se da un lato
rispecchia lo sperimentalismo caratteristico di Rimbaut, dall’altro
nasconderebbe degli obiettivi politici: il discordo sarebbe una sorte di manifesto
di promozione della IV crociata, esattamente come la Chanson de Roland lo era
stato per la I.
Però io già sento molti sostenere che egli non voglia combattere se non con le
minacce, e so molto bene che a colui che voglia essere rispettato in guerra
conviene porsi incutendo paura e offrendo giudizio, cuore e corpo, denaro e amici.
(pregio= caratteristica fondamentale, in epoca medievale, sia per i cavalieri che per
i trovatori).
Pertanto io suggerisco al sovrano, se vuole riscuotere successo in ciò che ha
intrapreso, che guerreggi senza minacciare, poiché non serve a nulla a mio parere;
e in realtà ho sentito raccontare che egli potrebbe subito affrontare sul campo di
battaglia i due re, se lo desiderasse.
E se lui ora non esibisce sulla sua terra la sua tenda e il suo gonfalone (stendardo)
al re di Navarra e a suo suocero il re di Aragona, avranno ragione a cambiare
opinione su di lui coloro che sono soliti parlare bene di lui.
E già cominciano a dire che il re di Lione già preferisca cacciare con gli astori e i
falconi piuttosto che vestire gli usberghi.
È necessario notare il fatto che ai trovatori fosse permesso dare suggerimenti e
rivolgere ammonizioni persino ai sovrani in carica: essi costituivano una sorta di
élite della società e probabilmente esercitavano anche cariche pubbliche in qualità
di ambasciatori; erano in grado di scrivere, leggere e comporre, conoscevano il
latino e spesso ricevevano la loro educazione in scuole clericali.
Le sollecitazioni torneranno anche nelle canzoni di crociata: appare evidente,
dunque, che la letteratura esercitasse un ruolo di preminenza anche all’interno delle
questioni politiche, dove svolgeva attività propagandistiche. La Provenza e la
Catalogna erano al tempo costituite da una serie di potentati locali, dove ancora
non esisteva un potere centralizzato nelle mani di un unico sovrano: le voci degli
intellettuali, dunque, assumevano un particolare peso.
Ragione relativa all’utilizzo delle 3 lingue:
Il galego portoghese, il provenzale e il francese erano lingue molto stimate presso
la corte di Castiglia. La scelta linguistica è sicuramente dovuta, in parte, alla
volontà di prendere le distanze dall’opera di Raimbaut e mostrare la propria
originalità. Numerosi studiosi hanno sostenuto che, attraverso il componimento
e la scelta del trilinguismo, l’autore mirasse a mostrare il proprio disappunto
verso l’operato del sovrano in tutte le lingue più prestigiose del mondo.
Ulteriore quesito riguarda poi la mancata adozione per il componimento di uno
degli idiomi spagnoli, padri del sirventese di Bonifaci: la ragione risiede nel fatto
che il catalano fosse utilizzato in ambito filosofico e non poetico, genere che
adotterà il provenzale fino al XIV secolo; lo stesso discorso va applicato sia al
castigliano che all’aragonese.
La strutturazione a coblas caudadas complica ed eleva la componente stilistica
della lirica; l’autore attraverso le sue scelte dà prova di possedere una enorme
dimestichezza nell’utilizzo del verso.
Bella dolce cara Dama, tutta la vostra grande bellezza mi ha rapito così tanto che,
se (anche) io fossi già in Paradiso, ritornerei indietro, a condizione che la mia
preghiera mi avesse posto là dove potrei essere il vostro amico (amante) senza che
vi mostriate altera verso di me; perché non ho mai, in nessun modo, agito (così)
male da meritare che mi facciate guerra. (motivo ricorrente nella poesia del Nord
della Francia). Non lascerò che io non dica almeno una parte dei miei mali, in
quanto persona adirata. Sia maledetto il vostro cuore orgoglioso che mi ha fatto
andare in Siria (Terra Santa), falsa, più volubile di una gazza*! Non piangerò mai
per voi. È folle chi si fida di voi, perché voi siete l’abbazia dei miserabili (l’abbazia
di quelli che soffrono), perciò non rivelerò (o non celebrerò) il vostro nome.
La poesia costituisce un caso straordinario, in quanto si compone esclusivamente
di 2 strofe: un numero così ridotto strofe, solitamente in numero di cinque,
produce negli studiosi il dubbio che il testo giunto a noi sia soltanto un frammento
di un componimento più grande.
La lirica presa in esame è nella forma della “Chanson de change”, canzone
originata dal cambiamento per il poeta dell’oggetto del suo amore, che diviene una
nuova fanciulla, in cui si assiste all’encomio per la nuova dama e talvolta al
vituperio della precedente. Essa è, tuttavia una chanson “O”; la forma della
“chanson de change” risultava poco nobile per gli ideali cortesi poiché
nell’immaginario cortese l’amore del trovatore per la sua dama doveva essere
estenuante, irrefrenabile: pertanto spesso gli intenti dietro la composizione di opere
in questa forma erano di carattere parodico, si rivolgevano ad altri ideali oppure
miravano a testimoniare il passaggio dall’amore profano a quello religioso
(canzoni mariane).
Nella prima strofa del componimento il poeta si rivolge con ossequio alla dama;
nella seconda, invece, le attribuisce la colpa di essere partito per l’Oriente e la
accusa di essere falsa e incostante. Il contrasto tra le due strofe non potrebbe
essere più lampante ed è accentuato dalla menzione del Paradiso, nella prima
strofa, in contrapposizione all’“Abbazia dei Sofferenti” nella seconda: questo
elemento ha prodotto una serie di interrogativi negli studiosi. Il fatto che non ci
siano rime che collegano le due strofe ha fatto pensare agli studiosi che si
trattasse di frammenti di altre canzoni affiancati impropriamente.
Recenti indagini, tra cui quella di Maria Luisa Meneghetti, ipotizzano che ci si
trovi in presenza di un divertissement, con l’obiettivo di mettere in scena la
dialettica medievale del “sic et non” di Pietro Abelardo: in sostanza, nella stessa
lirica si vorrebbero evidenziare due aspetti contrapposti dell’amore. D’altronde, il
proposito riprenderebbe una serie di tentativi già effettuati nella zona occitanica:
questo fornirebbe un’ulteriore argomentazione per sostenere come non sia è
possibile che nel mondo romanzo, e in una realtà geograficamente definita come la
Francia, la tradizione della lirica del Nord della regione non condividesse
elementi contenutistici, formali e stilistici con quella del Sud. A titolo
esemplificativo, basti pensare che l’editore di un canzoniere di Bertran de Born
vede nella menzione di una “carretta” all’interno di una delle sue liriche un
riferimento al tema fondante di uno dei romanzi di Chrétien de Troyes, il
“Lancelot”. In effetti recenti ed accuratissimi studi in merito hanno evidenziato
che tale elemento sia comparso nella lirica di Bertran proprio nel momento in cui
Chretien si accingeva a comporre il Lancelot: le due realtà sarebbero, pertanto,
profondamente interconnesse. La letteratura dell’epoca medievale si
caratterizza, pertanto, per una componente fondamentale: l’intertestualità
(con i testi antichi, con quelli mediolatini, o con quelli coevi in volgari differenti).
Nel testo alcuni rimanti sono evidenziati in grassetto: la ragione risiede nel fatto
che essi coincidano per la maggior parte con i rimanti della strofa in francese
del discordo “Eras quan vey verdeyar” di Raimbaut de Vaqueiras (chiere,
entiere, maniere, guerriere). Questo testimonia come, nel momento in cui
Raimbaut scrisse il discordo, avesse già letto il componimento di Conon de
Bethune: la citazione dei suoi versi sarebbe, pertanto, un omaggio all’amico. È
frequente che la componente intertestuale utilizzi come espediente la ripresa
dei rimanti: in questo caso è possibile desumere che ci fossero dei debiti formali
di Raimbaut, grande trovatore, nei confronti di Conon, un troviere, appartenente
a una tradizione apparentemente minoritaria.
La lirica di Conon “Belle doce dame chiere” fu trasmessa in maniera frammentaria
nel manoscritto MT e in maniera più estesa nella “Redazione U” e nella
“Redazione O”: pertanto si è lungo discusso su quale fosse la redazione più
antica. La maggiore lunghezza del testo della “redazione U” ha per lungo tempo
indotto gli studiosi a ritenere che fosse questo il testo originale e che gli altri
avessero perso dei frammenti nel processo di trasmissione; tuttavia, secondo la tesi
di Maria Luisa Meneghetti, il testo prodotto da Conon sarebbe proprio la
versione conservata nei manoscritti MT: la studiosa individuerebbe nel testo
della “Redazione U” un centone, ossia un testo composto da un collage di frasi di
autori od opere diversi, unite a formare un'opera originale. A supporto della sua
tesi la studiosa porterebbe l’argomentazione che le corrispondenze con il testo
di Raimbaut siano più forti e cogenti nel Manoscritto MT; inoltre,
l’accostamento strofico all’interno di quest’ultimo, che giustappone la lode alla
condanna della dama, andrebbe a creare l’atmosfera tipica del discordo, del “sic
et non”. Se questo fosse vero, ossia se la versione MT e “O” fosse quella più
antica la scelta di Conon sarebbe un vero e proprio atto di sperimentalismo
poetico; il discordo contrapporrebbe i due volti di una stessa dama in una sorta di
confronto dialogico e la scelta di Raimbaut di comporre nella forma del descort
sarebbe un atto di omaggio ancora più grande nei confronti de troviere.
Il canzoniere di Conon, piccolo ma originale, costituisce un caso eccezionale:
infatti, secondo la tesi di Luciano Formisano ci troveremmo in presenza del
primo “canzoniere d’autore”, ossia un canzoniere all’interno del quale la
successione delle liriche non sarebbe né casuale né sarebbe opera di una scelta del
copista, ma sarebbe stata operata dallo stesso poeta. L’opera non sarebbe
soltanto l’esito di una raccolta dei componimenti dell’autore, ma sarebbe il
frutto di un progetto strutturato e ragionato. Se l’ipotesi fosse valida, esso
costituirebbe un esempio precedente ai testi identificati come prime opere d’autore,
il “Canzoniere” di Petrarca e, prima ancora, quello di Guiraut Riquier, trovatore del
tardo XII secolo: l’opera guadagnerebbe, in questo senso, un primato alla
tradizione poetica francese.
L’ALBA
L'alba ("il sorgere del sole") è un sottogenere della poesia lirica occitana che
descrive la nostalgia degli amanti clandestini i quali, dopo aver passato insieme
l'intera notte, devono ora separarsi per paura di essere scoperti dai loro
rispettivi coniugi. Essa possiede una forte componente narrativa, elemento che
rende la diffusione del genere nel Sud della Francia un evento eccezionale, in
quanto i provenzali non erano particolarmente amanti dei generi narrativi. Tuttavia,
tra tutti i generi narrativi della lirica essa è quella che maggiormente si avvicina
alla canzone d’amore.
Il genere troverà in una fase successiva anche una declinazione di carattere
religioso. Nella tradizione cristiana la notte rappresentava il momento della
tentazione: questo portava i monaci a svegliarsi molto presto per cantare il
Mattutino, forma di ringraziamento a Dio per il sopraggiungere dell’alba. In alcuni
testi mediolatini l’alba è descritta con gioia, in quanto testimonia la fine delle
tentazioni del Diavolo ai danni del cristiano e il sopraggiungere della luce
dell’alba, lo splendore di Dio. Quando il tema verrà utilizzato nelle albe religiose
del Sud l’interpretazione dell’alba sarà la stessa dei poeti mediolatini.
L’alba profana, invece, esattamente la cosa contraria: si tratta di un momento
estremamente infelice, in quanto pone fine all’incontro tra gli amanti e li
costringe a separarsi.
Nel panorama dell’esperienza trobadorica, sia del Nord che del Sud, l’alba di tipo
religioso viene abbastanza trascurata, sia per un fatto di penuria di esemplari sia
perché l’attenzione viene volta più spesso verso il genere profano; tuttavia, da un
certo momento in poi la canzone religiosa, ossia la “chanson pieuse” andò
incontro a un’insperata fortuna. Spesso erano gli stessi autori di lirica profana
a cimentarsi nella scrittura in tale genere poetico, nella forma del “canto di
pentimento”, il cui primo esempio è da attribuirsi a Guglielmo IX, il primo
trovatore. Quest’ultimo canterà canzoni scurrili, nel genere della pastorella, ma in
età avanzata, preoccupato dall’incedere del tempo, scriverà anche un “canto di
pentimento”. Ne deriva che questo genere sia stato presente all’interno
dell’esperienza trobadorica sin dalle origini e che non sia stato introdotto in una
fase più tarda. Dalle vidas si desume che, nell’ultima fase della loro vita, fosse
comune che i trovatori abbandonassero la vita laica per entrare a far parte del
mondo clericale. Lo stesso percorso, in suolo italiano, fu seguito da Guittone
d’Arezzo: egli, da un cento momento in poi, si allontanò dalla lirica profana e
contro di essa effettuò una vera e propria palinodia (ritrattazione in versi di quanto
espresso in alto componimento poetico).
Nel suo Canzoniere, opera dal carattere estremamente raffinato, non si limitò
esclusivamente a negare la posizione precedente, profana, ma la demolì
dall’interno.
La canzone religiosa ebbe una modesta diffusione, che in particolare interessò
la zona settentrionale della Francia; le liriche religiose del Sud sono in un
numero estremamente esiguo, 55, e furono composte in un periodo abbastanza
lungo, che va dalla metà del XII alla fine del XIII secolo. Il numero di liriche
francesi in questo genere si aggira intorno alle 200, se si escludono composizioni
nei generi minori del mottetto e delle ballate; inoltre nel settentrione,
probabilmente, la composizione fu cronologicamente più compatta.
Una studiosa canadese ha sostenuto che la diffusione della lirica religiosa andasse
messa in messa in relazione con il IV Concilio, il quale impose di ricevere almeno
una volta l’anno i sacramenti della Confessione e della Comunione. Il mondo
letterario e culturale, da sempre attento alle novità sociali, produsse un maggior
numero di liriche religiose, in particolare indirizzate alla Vergine, per adempiere al
suo ruolo di mediatrice tra il popolo e le istituzioni. In questo genere, l’oggetto
dell’amore non è più la dama, bensì la Vergine: ciò che scompare è il paradosso
amoroso; se interpretata in questo senso la canzone religiosa è la negazione
dell’ideologia trobadorica. Nel paradosso amoroso, infatti, uno degli aspetti
fondamentali era l’impossibilità di raggiungere l’oggetto dell’amore, in quanto il
sentimento amoroso non era mai ricambiato; al contrario nelle liriche religiose
l’amata, nella persona della Vergine, non poteva non ricambiare l’amore del suo
supplice, né tantomeno sottrarsi al suo ruolo di interceditrice presso Dio. Nella
maggior parte dei casi le canzoni religiose sono dei contrafacta, ossia canzoni
aventi la stessa struttura metrica, rimica e melodica di una canzone profana.
Le ragioni della scrittura di contrafacta sono, essenzialmente due:
• Nella canzone religiosa, l’io lirico (che canta soprattutto della Vergine, in
quanto dama, ma talvolta anche di Cristo), parte dalla consapevolezza che
Dio sia l’unico Fattore e pertanto si nega la possibilità di inventare
qualcosa di nuovo, in quanto questo si configurerebbe come un atto di
superbia;
• Inoltre, trasformare un canto profano in uno religioso alterandone il
contenuto recava in sé un forte valore simbolico: l’operazione appariva
come un rinnegamento delle ideologie profane.
• I contrafacta assumevano una grande importanza in quanto avevano delle
analogie, dal punto di vista melodico, con degli esempi musicali provenienti
dalla Scuola di Notre-Dame, nel Nord della Francia, scuola musicale al
servizio della cattedrale di Notre-Dame di Parigi, nella quale tra il XII secolo e
gli inizi del XIV, si sviluppò la polifonia.
• Al Sud, invece, si assiste a una grande diffusione di albe religiose, in cui
venne recuperata l’interpretazione del sorgere del sole come segno della fine
della tentazione e momento di gioia tipica dei poeti mediolatini. Appartengono
a questo filone interpretativo una serie testi del periodo delle origini della
letteratura provenzale, tra cui spicca in maniera particolare “L’alba bilingue di
Fleury”, scritta il latino e occitanico.
La lirica, a differenza del romanzo, la cui lunghezza produceva la necessità che
fosse letto ad alta voce, non era indirizzata esclusivamente alle corti, ma era
concepita per essere cantata - e probabilmente anche mimata - dai giullari anche
all’esterno, nella piazza del paese. La lirica, nel Sud, era particolarmente amata; al
Nord essa era apprezzata nei circoli borghesi, aperti a tutti e non solo al ceto
nobiliare. Si distingueva per specifiche caratteristiche:
• Era in lingua volgare;
• Poteva essere compresa da tutti;
• Non è caratterizzata da uno stile narrativo;
• I suoi autori sono personaggi noti.
All’interno della produzione lirica sono perfettamente individuabili i rapporti con
la tradizione classica e mediolatina; ancora oscuri, seppur sicuramente presenti,
rimangono i punti di contatto con la tradizione araba e, presumibilmente, con
quella bizantina.
In questo senso, è necessario sottolineare che l’esaltazione di Maria nella canzone
religiosa costituisca una novità: la figura della Vergine, sebbene rivestisse un ruolo
importante nella tradizione cristiana, divenne oggetto di culto principalmente in
Oriente, a Bisanzio, tra i VI e VII secolo e da lì giunse in Occidente attraverso i
crociati.
I rapporti tra Oriente e Occidente non vanno ricondotti esclusivamente alla
crociata: ad esempio Carlo magno intrattenne numerosi rapporti con la corte
bizantina; durante il XII secolo ci furono vari tentativi da parte di famiglie
aristocratiche occidentali di contrarre matrimoni con nobildonne bizantine, i quali
determinarono consistenti scambi culturali. Da un lato questi matrimoni erano
determinati dalla volontà ideologica di ricostituire l’impero romano e superare la
scissione tra Chiesa Cattolica e Ortodossa; dall’altro dal vantaggio, che da essi
derivava, di creare legami con l’imperatore bizantino, di rilevanza eccezionale
nella questione delle campagne militari d’oltremare.
(es. marito Maria di Champagne, Enrico il Liberale, intorno al 1177 era partito per
una spedizione in Oriente, durante la quale era divenuto prigioniero degli arabi e si
era ammalato; fu l’imperatore bizantino, Emanuele Comneno, a liberarlo; Nel 1096
una serie di viaggiatori occidentali erano giunti a Bisanzio, che venne da loro
descritta con stupore e meraviglia. Da quel momento gli occidentali tentarono di
emulare il modello orientale dal punto di vista architettonico contatti con
l’Oriente: non solo crociate ma anche spedizioni, viaggi e contatti per
l’approvvigionamento di alcuni materiali altrove introvabili).
I DATI STORICI DELLA FIN’AMOR:
Per comprendere appieno la nascita della tradizione della Fin’amor bisogna
tenere in considerazione una serie di dati storici:
• l’evoluzione della società feudale occitanica, che cominciò ad articolarsi in
corti medie e piccole, vincolate da legami labili al potere regio, che
permettevano ai vassalli di godere di un’autonomia altrove sconosciuta (punti di
contatto con la teoria sociologica di Köhler);
• presenza in Occitania di grandi centri politicamente autonomi dall’autorità
della monarchia parigina, non ancora molto forte. La volta in questo senso
giungerà, dopo un processo di consolidamento che si estese per tutta la metà del
XII secolo, con l’ascesa al trono del figlio di Luigi VII, Filippo, detto
“Augusto” e “Dieudonné” (donato da Dio). Tra le contee autonome,
particolarmente rilevanti furono quella di Poitiers che si ampliò con quella
d’Aquitania, di Tolosa, di Provenza.
• L’influenza di grandi centri culturali, tra cui quello dell’Abbazia di San
Marziale di Limoges, che era in epoca medievale il più grande centro di
produzione di tropi e sequenze. Si trattava, dunque, di un centro musicale, con
cui però ebbero rapporti diversi trovatori, da Guglielmo IX a Marcabruno. Il
culto di S. Marziale tornerà anche nei “Carmina Burana”. Degna di nota è
anche la Scuola filosofica-teologica fondata a Poitiers da Gilberto de la Porée,
modellata sullo stampo della Scuola di Chartres. Al nord, infatti, le scuole
filosofiche erano molto importanti e quella di Chartres fu in assoluta quella che
detenne il primato; ai filosofi che ne facevano parte vanno attribuite:
• l’introduzione del concetto di “integumentum”, ossia l’idea secondo cui che
anche dietro a testi apparentemente sconvenienti da leggere si
nascondessero significati altri, capaci di svelare l’inaspettato;
• la diffusione della “teoria del microcosmo”, secondo cui l’uomo non viene
più considerato, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio, il
dominatore della natura e il padrone dell’universo ma come un essere
facente parte della natura.
Altro centro culturale di fondamentale importanza è l’Università di
Montpellier, famosa per le facoltà di medicina e diritto.
• La floridezza economica: si assistette a una ripresa dell’industria, in
particolare quella mineraria, tessile da cui derivò un periodo di espansione delle
città. Il Sud era costituito da un reticolo di città: Arles, Narbona, Montpellier,
Tolosa, Béziers; Marsiglia, cui si aggiunse poi Bordeaux; il Nord non era
composto da grandissimi centri e da corti così importanti. Inoltre la zona
meridionale era divenuta protagonista di scambi commerciali, che avevano reso
possibile la ripresa dei contatti con l’Oriente. In queste relazioni svolgevano
spesso un ruolo di intermediazione i genovesi e i pisani: non c’è dunque da
stupirsi della presenza di trovatori provenienti da queste zone. Si costituirono
grandi capitali nelle mani della borghesia mercantile e cittadina: non è un caso
che, nel romanzo arturiano “Jaufré”, nel proemio, il poeta si rivolga a un
pubblico di mercanti di stoffe e che il tema delle stoffe e del loro commercio sia
un tema ricorrente nel romanzo tale classe sociale era divenuta preponderante;
• L’estensione e la messa in sicurezza della rete stradale e delle reti di
navigazione interne: ciò permise una maggiore tranquillità nei commerci.
• La diffusione della cultura ad opera di giullari e chierici.
• Il ruolo della donna, dotata di un elevato status giuridico.
I CANZONIERI:
La trascrizione dei Canzonieri, spesso effettuata in Italia, venne operata in una
fase molto successiva alla composizione dei testi: essi, infatti, venivano
inizialmente scritti su dei rotoli di pergamena, che venivano affidati ai giullari
che li trasportavano nelle loro borse da viaggio.
Ciò è testimoniato da due Canzonieri, uno galego-portoghese, il “Rotulo de
Vindel”, e l’altro conservato a Londra di origine probabilmente lorenese, i “Rotulo
G”. I rotoli probabilmente conservavano diverse poesie dello stesso poeta.
Nella fase successiva si costituirono delle piccole raccolte monografiche, che
cominciano a prendere le sembianze di un libro, i cosiddetti “Liederbücher”: essi
contenevano al loro interno i componimenti di un singolo autore. Nel momento in
cui essi confluirono nei canzonieri vennero smembrati e ordinati all’interno delle
nuove raccolte secondo l’ordine per generi di cui sopra.
Un’altra possibilità, sicuramente d’invenzione galloromanza, è il cosiddetto
“canzoniere d’autore” petrarchesco, all’interno del quale era l’autore stesso a
decidere la successione delle liriche. Guiraut Riquier,
l’ultimo trovatore, nel suo canzoniere scritto alla fine del 1200 adottò un principio
organizzativo assai complesso e intricato per le sue liriche: la prima parte è
costituita da un insieme di vers e cansós, ordinate secondo un particolare principio
numerico; la sua amata è indicata con il senhal di “Belh Deport” (bel portamento) e
da un certo momento in poi l’amata diventerà la Vergine. Questo tipo di
canzoniere, che improvvisamente assume una vocazione religiosa, giungerà fino a
Petrarca: egli, infatti, comporrà con il suo “Rerum vulgarium fragmenta” proprio
un canzoniere d’autore. Nel canzoniere d’autore la lirica, che da sempre aveva
rigettato la componente narrativa, incorpora tale elemento nel suo esoscheletro:
la disposizione delle liriche divenne dunque un espediente per conferire una
coerenza contenutistica e strutturale al corpus di liriche. Nella stragrande
maggioranza dei casi, tuttavia, i canzonieri venivano assemblati dai copisti oppure
secondo le volontà del committente.
Un’altra soluzione, sempre d’invenzione francese, è il canzoniere in ordine
alfabetico: di questa tipologia sono a noi pervenuti due esempi, i manoscritti “C”,
conservato a Berna, e “O”, o “Manoscritto Cangé” dal nome del suo proprietario
seicentesco, adornato con eleganti miniature. Anche all’interno dell’ordine
alfabetico, che dimostra una differente modalità di fruizione del testo, viene
rispettato un canone letterario ordinato per importanza.
.
Le Accademie: altro dato da tenere in considerazione è la diffusione, nel
momento in cui l’esperienza trobadorica iniziò a volgere al termine, delle
Accademie, tra cui ricordiamo l’Accademia di Tolosa, cui si rende il merito di
aver inventato i “Jeux floreaux”, gare tra trovatori in cui è possibile comprendere
cosa intendessero questi autori per “genere letterario”. Nella fase immediatamente
successiva il primato della produzione lirica passerà alla Scuola Siciliana e vedrà
come protagonista l’Italia.
Vidas e Razós: Da un certo momento in poi nella produzione nel genere delle
Vidas e delle Razòs si verificò un cambio di paradigma. Inizialmente, quando
esse avevano come destinazione il pubblico italiano, venivano incorporate
all’interno dei Canzonieri: nella sezione dedicata al singolo autore si susseguivano
in ordine la Vida, la Razó e poi il componimento poetico, in particolare nell’autore
Uc de Saint Circ); in una fase successiva Vidas e Razós andranno a costituire delle
sezioni a parte, vere e proprie unità narrative: si genererà quindi una netta
distinzione tra la parte lirica e quello narrativa.
Grammatiche: Nel momento in cui si verificò tutto questo iniziarono a diffondersi
una serie di Grammatiche, probabilmente richieste dal pubblico italiano, il quale
che necessitava, per accedere alla produzione lirica in provenzale, di conoscere a
fondo la lingua. Lo stesso fenomeno interessò la Catalogna.
LA QUESTIONE METRICA:
La metrica era un elemento essenziale nella produzione trobadorica.
Agli albori della tradizione poetica trobadorica, Guglielmo IX si era ispirato, per i
suoi componimenti, alla strofa zagialésca, una varietà di ballata di origine araba
con strofe rimate secondo lo schema AAAB.
Già con Jaufré Raudel e Marcabruno nacque l’esigenza di creare una produzione
che fosse perfetta dal punto di vista metrico: la perfezione formale, infatti, era
simbolo di perfezione morale dell’individuo nei confronti dell’amata.
Al fine di raggiungere il più alto livello possibile di raffinatezza formale i trovatori
misero a punto una serie di meccanismi per consentire ai giullari di ricordare e
rispettare pedissequamente la struttura metrica.
• In provenzale si distinguono sillabe finali maschili e femminili: infatti,
francese e provenzale, così come il catalano e il galego medievali, sono lingue
ossitoniche (ossia accentate sull’ultima sillaba). In prosodia:
• Con “Finale maschile” ci si riferisce a una linea che termina con una sillaba
accentata;
• Con "Finale femminile" si descrive una linea che termina con una sillaba
atona.
• Si prediligeva il verso decasillabo (eventualmente endecasillabo se la sillaba
finale è femminile). In Italia, dove la lingua è parossitonica, il decasillabo sarà
ripreso e trasformato in endecasillabo. Il decasillabo si affermò soltanto in
seconda battuta; inizialmente si predilessero versi settenari e ottonari. Nelle
liriche del Nord appartenenti al filone popolareggiante erano in uso versi più
brevi, di 3 o 4 sillabe.
• Le particelle enclitiche vengono contrassegnate con singole lettere con un
puntino (?) e non vengono conteggiate nel computo delle sillabe.
• Nella lirica del Nord, molto più che in quella del Sud, era diffuso il refrahn,
(ritornello), espediente legato alla sfera musicale e alla tradizione popolare. Nel
nord si distinguono 2 tipi di composizione:
• La Chanson à refrahn: ciascuna strofa è seguita dallo stesso ritornello;
• La Chanson avec refrahns: (la canzone CON ritornelli) dopo ciascuna
strofa si ha un diverso ritornello. La particolarità di questo tipo di
composizione era che i differenti ritornelli fossero citazioni di liriche di altri
autori, che spesso non avevano collegamenti contenutistici con il testo della
lirica= gioco di rinvii che testimonia il legame della tradizione lirica del
Nord con il folklore locale.
• Si prediligevano le rime perfette. La presenza di rime imperfette oppure di
rimanti che differivano per l’accento all’interno dei manoscritti è spesso indice
di un errore del copista. L’assonanza, infatti, non era tollerata. Inoltre, si diffuse
la tendenza da parte dei trovatori, al fine di ostentare la propria bravura, di
complicare ulteriormente il sistema delle rime: dilagarono
• la “rima ricca”, nella quale i rimanti dovevano avere identità fonica non solo
dalla vocale tonica, ma dalla consonante ad essa precedente;
• la “rima leonina”, rima interna tra i due emistichi che componevano
l'esametro e il pentametro (guerrière/derrière);
• rima tra un bisilabo con un trisillabo che conteneva il bisillabo;
• le “rimas caras”, dove si mettevano in rima parole rare;
• la “rima contraffatta”: chantera rima con chant era (due termini in rima si
mettono in relazione tra loro con i due punti “:”);
• La “rima estrampa”, una rima “isolata”, che non rima all’interno della strofa,
ma rima con sé stessa all’interno di tutte le altre;
• La “rima derivativa”, in cui rimano due parole di cui una deriva dall'altra. Es.:
Sdegno-Disdegno
Il virtuosismo, se da un lato complicava la composizione de testo, obbligava
l’esecutore a riportarlo esattamente come era stato scritto. Procedimenti come la
rima estrampa obbligavano l’esecutore a ricordare la successione delle strofe.
• Le strofe: anche qui si adottavano una serie di espedienti tecnici; potevano
essere:
• Isometriche: tutte della stessa lunghezza, tutti i versi hanno lo stesso numero
di sillabe;
• Eterometriche
All’interno delle strofe era possibile distinguere la Fronte dalla cauda, che
potevano essere collegate tra loro da una rima comune, in modo che non
venissero svincolate.
Martín de Riquer definisce la cobla come un'"unità metrica il cui numero di
versi e situazione di rime si ripetono nelle diverse parti di una poesia, e che
nello stesso tempo è anche un'unità melodica".
Connessioni tra le strofe:
• Coblas singulars: se ogni cobla ha una sua propria rima;
• Coblas doblas: quando presentano la stessa rima ogni due coblas (1ª e 2ª, 3ª e
4ª, ecc.);
• Coblas ternas: quando hanno la stessa rima ogni tre coblas (1ª, 2ª e 3ª; 4ª, 5ª e
6ª, ecc.);
• Quaternas: quando hanno la stessa rima ogni quattro coblas.
• Alternadas: le coblas pari seguono una rima e le dispari ne seguono un'altra;
• Unissonans (monorime o unisono): se tutte le strofe hanno la stessa rima. Era
frequente che strofe di questo genere venissero scambiate nel momento
dell’esecuzione. Per i critici è dunque particolarmente difficile, in questi casi,
riconoscere se ci siano errori nella trascrizione delle liriche.
Era diffuso, tra i trovatori, un procedimento che consentiva di unire una strofa
alla successiva attraverso la rima: in questo modo per l’esecutore era più
difficile alterarne l’ordine. Si tratta delle:
• Coblas capcaudadas, in cui si ha a corrispondenza tra la rima dell’ultimo
verso di ogni strofa e il primo verso della successiva. (=la rima finale di una
cobla è la prima rima del primo verso della strofa successiva).
• Coblas capfinidas, in cui l’aggancio non è costituito dalla rima ma da una
parola: nel primo verso di ogni cobla appare una parola dell'ultimo verso della
strofa precedente.
• Coblas Rentronchadas: quando una parola si ripete al primo e al nono verso
di ogni strofa.
• Capdenals: quando vari versi di una stessa cobla iniziano allo stesso modo.
• Tornada/ congedo: Commiato o congedo dell’antica canzone provenzale
• Senhal: Nella poesia provenzale, il nome fittizio dietro il quale si usava celare
la donna cui era rivolto l'omaggio o la dedica
Amore di terra lontana, / a causa vostra mi duole tutto il mio essere. / E non posso
trovare una medicina/ se non corro al suo richiamo/ con la lusinga d’un dolce
amore/ dentro un giardino o sotto il baldacchino/ con la compagnia desiderata.
È ben ricompensato con la manna colui/ che ottiene qualcosa del suo amore!
Il mio corpo non cessa di desiderare/ quella creatura che io amo di più, / e credo
che la volontà m’inganni/ se la concupiscenza me la toglie: /perché è più pungente
di una spina/ il dolore che si guarisce con il joi: /quindi non voglio affatto che mi si
compianga.
Senza lettere di pergamena / trasmetto il vers, che cantiamo /nella facile lingua
volgare, /a Ugo Bruno tramite Filhol: /mi fa piacere sapere che gli abitanti del
Poitou, /del Berry, della Guyenne / e della Bretagna siano contenti di lui.
STROFA II:
• “amore di terra lontana”, quindi amor de lohn;
• “reclam” termine tecnico dell’arte venatoria, rappresenta il pezzo di carne che
i falconieri usavano per richiamare il rapace =rimanda all’idea di amore
carnale. I trovatori e i trovieri si rifacevano spesso ad esperienze della caccia,
una delle esperienze primarie del nobile. Nel 1400 si diffuse in Italia una
forma poetica che aveva proprio il nome di “caccia”.
STROFA III: si fa riferimento alla donna come “più bella cristiana, o giudea o
saracena”; la donna amata era orientale.
STROFA IV: il termine “joi” deriva da GAUDIUM: si tratta di un termine
fondamentale nella lirica trobadorica; con esso si indicava l’amore
completamente realizzato, pertanto era ciò a cui ciascun trovatore aspirava.
STROFA V FINALE O TORNADA:
• fa riferimento alla pergamena di cui abbiamo parlato sopra;
• la lingua occitanica viene definita “plana lengua romana” = rimandi
all’espressione “rustica romana lingua” con cui si indicava la lingua volgare;
• “Hugon Brun per Filhol”: evidenzia una delle caratteristiche fondamentali
della tornada, ossia la presenza di riferimenti storici. Filhol doveva essere il
giullare del quale il trovatore si servì per far arrivare a sua lirica al nobile Ugo
Bruno. Non era inconsueto che il nome dello stesso giullare ricorresse in
componimenti di autori diversi: questo dimostrava il fatto che egli fosse al
servizio di più nobili.
È certo morto chi non sente nel cuore/ una qualche dolcezza d’amore;/ e che cosa
vale vivere senza valore/ se non per dare fastidio alla gente?/ Dio non si adiri tanto
con me/ da farmi vivere un giorno o un mese/ dopo che sarò incolpato di tedio/ e
che non avrò più desiderio d’amore.
Con fedeltà piena e senza inganno/ amo la più bella, la migliore. /Dal cuore
mando sospiri, dagli occhi lacrime, / perché io l’amo tanto da riceverne danno. / E
che cosa posso fare, io, se Amore mi cattura, / e se il carcere nel quale mi ha
rinchiuso / non può essere aperto da alcuna chiave se non da pietà, / e se pietà non
la trovo affatto?
Questo amore mi ferisce amabilmente/ nel cuore con un piacere dolce:/ ogni giorno
muoio cento volte di dolore / e rinasco altre cento per il diletto. / Il mio male ha
certo un aspetto piacevole, /visto che il mio male vale più di qualunque altro bene;/
e poiché il mio male mi è così gradito, /sarà gradito il bene dopo l’angoscia.
A Mio Cortese, là dove si trova, /mando il vers, e non gli pesi/ il fatto che sono
stato a lungo lontano.
STROFA III: la donna viene considerata la più bella del mondo, la migliore: si
tratta di un aspetto caratteristico delle canzoni d’amore; ad esso si affianca il tema
di amore come carcere, immagine che diventerà canonica e tornerà anche in
Thibaut de Champagne. La prigione in cui si trova il trovatore -quella del suo
amore- è la conseguenza di una sua libera scelta; Thibaut, nei suoi componimenti,
svilupperà e complicherà l’immagine della prigione.
STROFA IV: “Il mio male ha certo un aspetto piacevole”: sembra quasi un
ossimoro; in realtà quel male è un qualcosa che dà valore alla vita del poeta, in
quanto discende dall’azione d’amare. L’amante soffre per amore, ma non vuole
rinunciarvi.
STROFA V:
• “fin amador”: da mettere in relazione con fin’amor;
• “lauzenger”: maldicenti, mettono in giro brutte voci: personaggi che tornano
anche i “Tristano e Isotta”.
STROFA VI:
• “come la foglia al vento”: è una delle similitudini, utilizzate da Bernart, che
entrerà nell’immaginario poetico mondiale.
• “almorna” = elemosina: è un qualcosa che si fa quando si ha pietà di qualcuno.
Come il pesce che si getta nella nassa /e non sa nulla, finché viene preso
all’amo, /anch’io mi lasciai andare ad amare troppo, un giorno, /senza fare
attenzione, finché fui nel mezzo della fiamma, /che mi brucia più intensamente di
quanto farebbe il fuoco nel forno; / e nonostante questo non posso allontanarmi di
una spanna, /tanto mi tiene prigioniero e mi avvince il suo amore.
Non mi meraviglio se il suo amore mi imprigiona, /perché non credo che nel
mondo si possa ammirare un corpo più nobile (del suo): /è bello e bianco, e fresco
e gaio e liscio /ed è proprio come io lo desidero. /Non posso dire alcun male di lei,
perché non ne ha; /e ne avrei parlato con gioia, se lo sapessi, /ma non gliene
conosco (di mali), per questo lascio perdere.
Sempre desidererò il suo onore e il suo bene, /e sarò per lei vassallo, amico,
servitore, /e l’amerò, che le piaccia o le pesi, / perché non è possibile strizzare un
cuore senza uccidere. /Non conosco donna che, volesse o no, /io non potessi amare,
qualora lo desiderassi. /Ma ogni cosa può essere interpretata male.
Alle altre sono toccato in sorte qui: / chiunque voglia mi può attirare a sé, /a patto
che non mi sia venduto / l’onore e il bene che ha desiderio di darmi; /perché è da
pusillanime pregare, se è inutile; /lo dico per me, perché me n’è venuto male, /visto
che mi ha tradito la bella altezzosa.
Invio in Provenza gioia e saluti /e auguri maggiori di quanto si possa desiderare; /e
mi sforzo, e compio qualcosa che ha del miracolo, /perché mando loro ciò di cui
sono privo, /visto che io non ho gioia se non quella che mi dà /il mio Bel Vedere e
messer Incantesimo, mio amico intimo, /e messer Alverniate, signore di Belcaire.
Mio bel vedere, attraverso voi Dio compie un miracolo / tale che non vi si può
vedere senza essere incantati /da ciò che di piacevole sapete dire e fare.
I STROFA: Il poeta nella lirica dichiara di non essere più nella sua terra d’origine,
Ventadorn, e nonostante ciò di continuare ad amare la sua donna.
II STROFA: “come il pesce si getta nella nassa e non sa nulla finché non viene
preso all’amo” / “della fiamma che mi brucia più intensamente di quanto farebbe
il fuoco nel forno”: si tratta di due similitudini che torneranno con frequenza nelle
liriche dei poeti della Scuola Siciliana. Le immagini che entrano a far parte
della poetica di Bernart si ispirano alla vita quotidiana e alla natura, che
diventa termine di paragone della lirica d’amore (la foglia, il pesce, il fuoco).
La sua chiarezza e semplicità rendono il trovatore un punto di riferimento per
i successivi poeti: è come se, nelle sue immagini ricorrenti, egli fondasse i
pilastri della lirica trobadorica.
Il poeta sostiene di essere stato ingannato come un pesce catturato da un amo; il
tema dell’amore come fiamma ricalca la memoria virgiliana.
VI STROFA: il poeta invia alla Provenza la sua gioia e i suoi saluti e sostiene di
non avere altra gioia che il suo “Bel Vezers”, Bel Vedere, senhal della donna,
identificata probabilmente con la moglie di Raimondo V di Tolosa, rappresentato
con lo pseudonimo “en Alvernhatz”. Viene introdotto qui un altro tema, presente
nella lirica trobadorica già da Guglielmo IX: la donna amata viene paragonata a
una fata il termine deriva dal latino FATUM: nella tradizione, nel momento della
nascita, le fate giungevano per portare i doni del destino al neonato. La fata
(plurale di FATUM) è quindi colei che è incaricata di consegnare all’uomo il suo
destino.
Bernart di Ventadorn è sicuramente il poeta d’amore più rilevante; la sua
produzione fu copiosa per il tempo: alcune liriche, attribuite a Bernardo, non sono
state accettate da Appel, che le ha considerate composizioni ibride. Poteva infatti
capitare che il manoscritto del Canzoniere non fosse particolarmente affidabile: è il
caso del Canzoniere in ordine alfabetico conservato a Berna; i compositori di lirica
si contraddistinguevano per particolari stilemi, immagini, argomenti privilegiati,
indizi fondamentali per la ricostruzione filologica nelle attribuzioni delle liriche.
(Bertran de Born =poeta della guerra; Marcabruno =poeta moralista; Bernart de
Ventadorn =poeta d’amore). Nei poeti francesi c’era una minore specializzazione
nella produzione delle liriche rispetto al Sud: uno dei motivi potrebbe essere la
maggiore fruizione di lirica nella zona meridionale del Paese, dove quindi c’era
maggiore competizione tra i poeti. Al Nord il numero delle corti era inferiore,
pertanto si svilupperà una produzione borghese e cittadina
LA PASTORELLA:
Tale genere era dotato di un’enorme vitalità. Esso viene definito un genere
“onnivoro”, in quanto in virtù della sua strutturazione lirico-narrativa, fu in
grado di assorbire stilemi, espressioni, modalità appartenenti ad altri generi
lirici; continuerà ad essere coltivato fino alla metà del XX secolo: ultimo esempio
di pastorella è, infatti, la canzone di Fabrizio De André, su testo di Paolo Villaggio,
“Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” (“Re Carlo tornava dalla
guerra. Lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor.”)
Occorre porre l’accento sul fatto che il genere non sia un qualcosa di universale,
ma che sia la conseguenza della necessità dell’uomo di ordinare i contenuti e dare
una strutturazione interna alla materia: è necessario pertanto, nel momento in cui si
fa riferimento al concetto di genere letterario, considerare che i contorni di un dato
genere sfumino inevitabilmente in un altro. La pastorella consente di riflettere sul
concetto di genere: esso è una formulazione “a valle”, cui si può attingere soltanto
a posteriori, nel momento in cui si decide di ampliare una produzione preesistente
inserendo nel nuovo prodotto caratteristiche ormai codificate per quel genere. Sulla
base di questa premessa, tenteremo ora di delineare le caratteristiche della
pastorella:
• Si tratta di un genere lirico-narrativo;
• Mette in scena un contrasto, su sfondo agreste o nel locus amoenus, tra un
cavaliere-trovatore e una giovane pastora che respinge o accetta le proposte
d'amore del cavaliere.
Il fatto che la pastorella sia ambientata in uno scenario di aperta campagna crea
un contrasto con la lirica di corte, tanto che il filologo romanzo J. Frappier
definisce la pastorella come “vacanza dal mondo della cortesia”.
Trama: Il cavaliere, innamorato come da tradizione di una dama di corte, si
imbatte casualmente in una pastorella e, colpito dalla sua bellezza, le rivolge
attenzioni, complimenti ma soprattutto richieste amorose.
• In alcuni casi la pastorella poteva cedere alle lusinghe del cavaliere, il quale per
raggiungere il suo scopo, le offriva doni (in particolare cinture, capo
d’abbigliamento diffuso nelle corti) o operava false promesse di vario genere.
Infine, i due arrivavano a consumare l’amore e, dopo l’atto sessuale, l’ingenua
fanciulla veniva abbandonata;
• In altri casi, al rifiuto della ragazza di cedere alle richieste del cavaliere,
seguivano lo stupro il successivo abbandono.
• Altra opportunità per la fanciulla, di fronte alle molestie, era quella di chiedere
aiuto ai pastori presenti nelle vicinanze che, accorrendo, mettevano in fuga
l’importuno.
MARCABRUNO (…1130-1149…)
La poetica marcabruniana è densa d’invettive, di denunce nei confronti della
degradazione dei costumi: il bersaglio del trovatore è la concezione stessa
dell’amore trobadorico, ideologia neonata ma già pesantemente criticata.
All’interno dei suoi componimenti è frequente la denuncia della corruzione della
società cortese, effettuata in uno stile realistico, espressionisticamente violento e
affettato. L’articolazione delle strofe e delle rime è particolarmente originale.
Sappiamo che egli fu legato alla tradizione poetica latina del medioevo, punto di
contatto questo con il primo trovatore, Guglielmo IX.
I dati biografici conosciuti sono scarsissimi: le sue origini furono probabilmente
molto umili; lavorò per molte corti, dove svolse importanti funzioni; fu al servizio
di Guglielmo VIII di Poitiers e X d’Aquitania, figlio del primo trovatore
(Gugliemo VII di Poitiers e IX d’Aquitania) e di Alfonso VII di Castiglia.
La pastorella di Marcabruno è la prima composizione testimoniata facente parte di
questo genere.
Metro: pastorella di XII coblas doblas di heptasyllabes femminili secondo lo
schema aaab aab più 2 tornadas conclusive di tre versi ciascuna (aab). Il quarto
verso di ciascuna strofa, eccezion fatta per le tornadas, presenta come rimante la
parola “vilaina”, ossia villana, la protagonista della lirica. Essa entra sempre in
rima con l’ultima parola dell’ultimo verso di ciascuna strofa. Si tratta di una
struttura molto particolare: infatti saremmo in presenza di una strofa costituita da
due parti
• una quartina, avente lo schema rimico aaab, struttura tipica della strofa
zagialesca;
• Una quartina mancante di un verso secondo lo schema aab
“Bella” -feci io- “dolce e pia, mi sono allontanato dalla via per fare compagna a
Voi (da APUD VOS, lett. “Presso di voi”), poiché una tale ragazza villana non
deve guardare così tante bestie senza una compagnia adatta in una tale terra
desolata”.
“Signore” -fa lei- “chiunque io sia, so distinguere il senno dalla follia. La vostra
compagnia, signore” -mi dice la villana- “stia dove deve stare, coloro che pensano
di essere signori non ne hanno che. l’apparenza.”
“Bella, per quanto io possa vedere, vostro padre fu un cavaliere che vi generò in
vostra madre, che per questa ragione fu una cortese villana. Più vi guardo e più mi
sembrate bella ed io per la gioia mi illumino, se soltanto voi foste più umana (nei
miei confronti)!”
“Bella” -feci io- “una gentile fata vi generò quando foste nata: una bellezza
raffinata di smeraldo è in voi, cortese villana, e questa bellezza vi sarebbe
raddoppiata con una sola riunione (lett. Quando gli animali si ammassano”) io
sopra e voi sotto.”
“Signore, tanto mi avete lodata che io ora sono completamente annoiata. Poiché mi
avete elevata in pregio, signore” -così disse la villana- “perciò mi avrete per
ricompensa alla vostra partenza: aspetta e spera, folle e aspetta invano a
mezzogiorno!”
“Bella, ogni creatura ritorna alla sua natura. Dobbiamo prepararci, io e voi,
all’accoppiamento, villana, al coperto lungo il pascolo, perché sarete più sicura (di
non esser vista) per fare la dolce coppia” (lett. Fare la dolce cosa pari,
l’accoppiamento)
“Ragazza, della vostra figura non ne vidi mai una più perfida e infame di cuore di
voi tra tutta la gente cristiana”.
“signore, (la civetta ci augura che c’è chi si incanta davanti a un dipinto e qualcun
altro che aspetta la manna) = c’è chi si fa incantare dall’aspetto e chi aspetta la
manna.
STROFA I:
• “l’autrer”, l’altro ieri: diventerà una marca identificativa del genere della
pastorella; l’indicazione temporale diventa identificativa del genere. (Elemento
evidenziato e studiato dalla filologa tedesca E. Schulze-Busacker). La
contestualizzazione temporale, quando sarà utilizzata in componimenti di altri
generi, costituisce la spia del fatto che l’autore, volutamente, stia ammiccando
alla pastorella. La scelta di questo specifico avverbio temporale fa riferimento a
una precedente lirica di Guglielmo IX.
• Dall’abbigliamento della fanciulla si desume che ella abiti in una zona molto
fredda; la camicia intrecciata ritorna in una famosa canzone di Castra, poeta di
cui si ignora l’origine citato nel “De vulgari eloquentia” di Dante: egli compose
una delle prime pastorelle in lingua italiana, conservata nel Codice Vaticano
Latino 2793.
• La prima strofa è un’introduzione: prima protagonista ad essere messa in scena
è la villana.
MANOSCRITTO N E V:
Una Donna non fa peccato mortale se ama cavalier leale; ma se ama un monaco o
un chierico senza ragione la si dovrebbe bruciare con un tizzone.
Una mi dice nel suo linguaggio: “Dio vi aiuti, signor viandante! Mi sembrate molto
per bene a prima vista (per quanto ne sappia), ma assai ne vediamo andare per il
mondo di gente folle.”
Ora sentirete cosa ho risposto: non le dissi né ai né bai*, ferro o bastone non
menzionai, ma solo questo: “Babariol, babariol, babarian”
Da mangiare mi diedero capponi, e sappiate che erano un bel po’ (più di due), ma
non c’erano né sguattero né cuoco, solo noi tre; il pane era bianco, il vino buono, il
pepe (spesso) abbondante.
Agnese andò a prendere la bestiaccia: era grossa e con lunghi baffoni; io, quando
fu fra noi, n’ebbi spavento, per poco non persi i sensi e l’ardimento.
Quando avemmo bevuto e mangiato mi spogliai come a lor piacque, sulla schiena
mi misero il gatto cattivo e fellone; una lo tirò dal costato fino al tallone. (il gatto
graffia la schiena del trovatore)
Per la coda, tutto a un tratto tirò il gatto e quello graffiò; ebbi più di cento piaghe
quella volta; ma non mi sarei mosso neanche morto.
Tanto io le scopai come udirete: centottant’otto volte, per poco non mi ruppi la
correggia e anche l’arnese; non vi posso dire il male che mi prese.
STROFA II: il componimento rivela che colui che parla sia un cavaliere, che
condanna le dame che amano monaci e chierici.
STROFA III:
• “En” = dominus;
• “trobei” = termine presente nella pastorella di Marcabruno.
• il riferimento esplicito a Don Guarino e Don Bernardo dimostra che i due
fossero conosciuti dal pubblico che ascoltava la lirica; erano probabilmente
vassalli.
STROFA IV:
• “En son lati” = nel suo linguaggio, lett. Nel suo latino.
• Il fatto che delle dame fermino uno sconosciuto viandante risulta
particolarmente strano.
STROFA V:
• “no le diz ni ‘bat’ ni ‘but’”: tradotto sopra con né ai né bai; a lungo tradotto con
“né batto né botto”: non è traducibile, sarebbe il corrispettivo in italiano di “né a
né b”.
• “Babariol, babariol, babarian”: il poeta imita il verso di una persona
balbuziente: voci onomatopeiche.
• Questa lirica di Guglielmo IX è alla base della famosa novella boccacciana
“Masetto da Lamporecchio”: egli, invitato dal giardiniere in un convento di
suore, si finge muto e giace ogni notte con una suora diversa.
STROFA VII:
• “mi prese sotto il mantello”: si tratta di un’espressione feudale, che allude al
momento in cui il signore accoglieva sotto il proprio mantello il vassallo da
difendere; si trattava di un gesto simbolico che dimostrava la protezione che il
signore garantiva a quel vassallo.
• “fornel” = insistenza sul tema del fuoco: è funzionale a introdurne la
concezione edonistica.
STROFA VIII: i capponi erano un cibo costoso, non tutti potevano permettersi di
cibarsene. Essi erano spesso tenuti da parte per le grandi occasioni e, solitamente,
si provvedeva ad uccidere un solo cappone. La presenza di capponi, di spezie, vino
e pane bianco (pregiato, solitamente si consumava pane di segale) in abbondanza
evidenziano l’insolita ricchezza delle due donne.
STROFA X:
• “l’enoios”: colui che mi dà noia, la bestiaccia; “sensi” e “ardimento” = rinviano
a allusioni erotiche.
STROFA XIV: correggia è una striscia, tradizionalmente di cuoio, utilizzata per
legare o mantenere accostati due pezzi di uno stesso oggetto. Nelle antiche
antologie questa strofa veniva omessa.
Il trovatore Guglielmo IX, nella sua lirica, sostiene di essersi travestito da
pellegrino: questa figura era spesso ascrivibile all’ambito clericale.
Probabilmente l’episodio descritto è veritiero e realmente le due donne erano le
mogli di Don Guarino e Don Bernardo, vassalli di Guglielmo. La lirica si
scaglia, in maniera critica, contro quelle donne che usavano respingere i
cavalieri ed avere esperienze sessuali con chierici e monaci.
Questa lirica, comunemente detta “del gatto rosso”, viene messa in connessione
con la pastorella. Se il protagonista della pastorella di Marcabruno viene
individuato in Guglielmo IX la ragione risiede anche in alcuni punti di contatto con
questa lirica.
Quest’ultima è ascrivibile al genere della “chanson de réncontre”: essa non fu
un’invenzione di Guglielmo, ma era già presente nella tradizione in lingua
mediolatina. L’incipit della lirica ““FARAI UN VERS POS MI SONELH””, che
recita “farò un verso poiché ho sonno”, richiama le chansons de réncontre
mediolatine: d’altronde i contatti di Guglielmo IX con la Spagna furono
frequenti, in quanto egli prese parte alle crociate franco-spagnole.
Il componimento “del gatto rosso”, simbolo del Demonio, si configura
chiaramente come un attacco al mondo clericale che, non potendo sfogare,
seppur presenti, le pulsioni erotiche, le rinviava sul piano del sogno; il
resoconto dell’episodio, estremamente dettagliato, mira a rendere verosimile e
pungente il contenuto e ad esaltare la figura del cavaliere, esperto nell’ars
amatoria, mettendone a confronto le “imprese” con i sotterfugi operati dai monaci.
MANOSCRITTO C:
La versione di questo manoscritto manca delle prime due strofe, nelle quali
viene esposto lo scopo della lirica, ossia avanzare una critica nei confronti del
mondo clericale. Essa inoltre presenta una tornada assente nelle altre versioni:
STROFA 1b: “nigra puella”: rimanda alla teoria della Meneghetti sulla pastorella
di Marcabruno.
STROFA 2a: la cintura era un capo d’abbigliamento molto prezioso e desiderato
nel medioevo.
Nelle strofe introduttive si comprende che ci siano due uomini che decidono di
iniziare a cantare: l’argomento del canto è una pastorella di grande bellezza, ma
straziata dalle fatiche del suo lavoro.
STROFA 3a: il gregge descritto in questa strofa tornerà nel Carmen 90; per questo
si dice che i due carmina siano legati. Secondo la tradizione il gregge dovrebbe
essere composto dalla stessa specie di animali: il gregge descritto non solo è
estremamente piccolo, ma anche mescolato = senso metaforico negativo.
STROFA 3c: la pastorella, che conduce il gregge sopradescritto, provata dalle
fatiche si permette di attaccare i due signori.
STROFA 4a: (i fatti del pascolo sono per la moltitudine di coloro che seguono la
stella polare????)
STROFA 4b: si mettono in scena dei pastori che invece di preoccuparsi delle loro
greggi portandole a pascolare, mungendole e proteggendole fai lupi sono dei
mercenari, degli affabulatori e mentitori. Essi vengono meno ai loro doveri.
È ipotizzabile che il componimento, scritto a ridosso della stesura della pastorella
di Marcabruno, sia una risposta della Chiesa alla pastorella. Nonostante il
destinatario delle critiche di Marcabruno fosse Guglielmo IX e non la Chiesa, le
parole della pastorella si sottraggono alle norme sociali: una pastorella non si
sarebbe mai dovuta permettere di accusare un signore. È come se Marcabruno
avesse superato i confini sociali: un appartenente alla classe dei laboratores non
avrebbe dovuto permettersi di muovere delle rimostranze nei confronti delle classi
superiori. Le altre due pastorelle potrebbero essere un tentativo da parte del poeta
di ridimensionare quanto affermato in precedenza.
La struttura del Carmen Buranum è costituita da una parte narrativa e una
dialogica: tuttavia il dialogo è intrapreso e concluso dai pastori, dietro i quali si
nascondono i “pastori di anime”, ossia i clerici.
Secondo una studiosa, i Carmina 89 e 90 sarebbero agganciati: nei due
componimenti torna lo stesso gregge.
Uscì all’alba una rustica fanciulla con un gregge, con il bastone e con la nuova
lana.
Nel piccolo gregge ci sono una pecora, un’asinella, una vitella con un vitello, una
giovane capra e una capretta.
IL MANOSCRITTO B AGGIUNGE:
Vide seduto sull’erba uno scolare (giovane chierico): “cosa fai, signore? Vieni con
me a giocare?”
Se i due Carmina, come si ipotizza, possono essere agganciati ci troveremmo in
presenza di una pastorella che viene ricollocata nel suo ruolo sociale di
inferiorità: i due uomini le suggeriscono di tornare a filare, unica mansione
adatta a una donna; nel Carmen 90, inoltre, essa viene ridotta al ruolo di
prostituta.
L’ipotesi potrebbe essere motivata dalle due pastorelle, che analizzeremo di
seguito, attribuite a Gautier de Châtillon.
GAUTIER DE CHÂTILLON: (1135-1175)
Fu un grande poeta mediolatino; scrisse componimenti egregi, conservati
anche all’interno dei “Carmina Burana”. Egli nacque verso il 1135 vicino Lille,
studiò a Parigi e Reims, luoghi fondamentali per apprendere la cultura
mediolatina; soggiornò a Bologna e poi a Roma. Verso il 1165 si trovò a servizio
della cancelleria Enrico II d’Inghilterra, dove si legò a un grande intellettuale
della sua corte, Johan de Salisbury. A Gautier si deve la stesura dell’opera
“Alexandreis”, poema epico in esametri, scritto in latino, che esaltava la figura di
Alessandro Magno e del testo sul martirio di Thomas Beckett, personaggio
fondamentale nella corte d’Inghilterra, ucciso nella cattedrale di Canterbury nel
1170. L’uccisione, operata da sicari, fu commissionata dallo stesso Enrico II, il
quale dovrà poi chiedere perdono al Papa per le accuse rivoltegli.
Le prime pastorelle a comparire nel territorio del Nord in lingua mediolatina
sono da attribuire proprio a Gautier de Châtillon.
“DECLINANTE FRIGORE”:
Il componimento presenta nella prima strofa il topos della primavera: la terra,
fiduciosa di sé si riempie dei colori dei germogli e l’io-lirico, mentre la notte volge
al termine, è seduto sotto un albero. Nella seconda strofa vengono descritte le
sensazioni del poeta riguardo i suoni prodotti dalla natura (lo scrosciare dell’acqua
del fiume, il sussurro delle fonti, il cinguettio degli uccelli) e l’atmosfera idilliaca
in cui è immerso. Mentre il poeta si meraviglia di tanta bellezza -ascolta il concerto
degli uccelli, il sussurro delle fonti e il chiacchiericcio degli uccelli attraverso la
cavità dei monti, i quali allontanano le sue preoccupazioni- vede andare verso di
lui una tale “Glycerium”, donna dal bel seno. La ragazza è avvolta in un
bellissimo mantello, che le scende grazioso dalla testa; la sua veste è di colore
rosso (Tirio). La sua fronte è liscia, le sue labbra tenerissime; il poeta, rapito, le si
rivolge così: “Avvicinati a me, dilettissima, cuore mio e anima mia! Nutri le mie
profondità più intime! Di fronte a te non riesco a tacere e a stento domino il mio
ardore; so leggere e scrivere (è quindi un chierico) e sono tormentato da questo
sentimento”. Di fronte a queste parole la fanciulla, abbattuta, si siede davanti al
chierico ed è costretta a sopportare ciò che lui le fa subire. Il componimento si
chiude con la frase “ma chi non conosce il resto?” “predicatus vincitur” = si tratta
di una metafora; letteralmente significa “la parte reggente della frase (il predicato)
ha vinto sul soggetto”. Viene utilizzata una metafora legata alla grammatica per
alludere all’atto sessuale dell’ecclesiastico.
Si tratta della prima pastorella, a livello cronologico, in cui viene
rappresentato un rapporto sessuale.
“SOLE REGENTE LORA”
Metro: la lirica è composta da 8 strofe di heptasyllabes (settenari) che seguono lo
schema aaab cdc;
•la prima parte della strofa è identica alla cobla marcabruniana (aaab). Ogni
Strofa figura al IV verso con la rima uscente in -ula; l’ultimo verso di ogni
strofa va in rima con il quarto verso.
•il testo sembra pertanto una riscrittura in mediolatino, parodistica,
della pastorella marcabruniana.
Sia nella lirica “Declinante frigore” sia in “Sole regente lora” è messo in atto un
gioco molto sottile di riferimenti alla tradizione mediolatina e vi si recuperano
molte delle immagini appartenenti alla tradizione e alla mitologia antica
(Glycerium, il sole trainato da briglie).
Nel primo dei due componimenti la protagonista è Glycerium, una donna
benestante utilizzata dal chierico per appagare i suoi desideri; la fanciulla
descritta nella seconda lirica è, invece, di ben altra condizione sociale: si evince
dal componimento il tentativo da parte dell’uomo di blandirla, tuttavia presto si
giunge alla proposta erotica esplicita. Nonostante i tentativi da parte della
ragazza di allontanare l’uomo, implorandolo e sostenendo di essere ancora
troppo piccola, di avere un gregge da controllare e di aver paura di tornare
troppo tardi a casa e essere sgridata dalla madre, egli si dimostra irremovibile
e -nascondendosi dietro espressioni tipiche del latino alto- la invita a resistere e le
promette di giungere in breve tempo al termine dell’atto sessuale. La fanciulla
replica sostenendo di non voler perdere la sua castità: in tutti i modi la ragazza
cerca di respingere le molestie dell’uomo ma senza riuscirci. Il componimento
si chiude con la dichiarazione, da parte del poeta, di essere riuscito a piegare
al suo volere la ragazza, a suo avviso falsamente reticente; i fiori e l’erba
fungono da letto al loro amplesso.
Le due liriche di Gautier di Châtillon sono chiaramente due chansons de
réncontre:
• nella prima lirica il chierico è seduto sotto un albero e incontra una ragazza,
Glycerium, che gli si concede facilmente;
• nella seconda è la ragazza ad essere seduta per terra; l’uomo tenta l’approccio
ma lei lo respinge chiamando addirittura in causa la madre (tema tipico della
lirica della mal maritata, tema della lirica popolareggiante); tuttavia a nulla
portano le suppliche della ragazza, che viene stuprata.
Il fatto che la struttura metrica sia simile a quella della pastorella
marcabruniana potrebbe indicare che il componimento sia una risposta del
clero a Marcabruno: se nel componimento di quest’ultimo la pastorella aveva
rifiutato con successo le avances dell’uomo e lo aveva rimproverato per il suo
comportamento in “sole regente lora” la fanciulla viene deliberatamente violentata.
In seguito alla pubblicazione di queste due pastorelle di Gautier de Châtillon,
dopo un lungo periodo di silenzio, esplose nel Nord la moda delle pastorelle in
volgare secondo lo schema “classico” descritto in precedenza. È come se,
dinanzi all’esperimento di Marcabruno, si sia delineato un tentativo di resistenza
della Chiesa: in un primo momento, con il “Carmen Buranum 89” si ha una
fortissima censura, per cui viene adottato lo schema dialogico utilizzato nella
pastorella marcabruniana ma le redini del discorso sono tenute da “nos duo boni” (i
due pastori di anime); successivamente, con Gautier de Châtillon,
particolarmente sensibile alle letterature volgari, si hanno due pastorelle che
reintroducono il tema del réncontre, il tema degli omaggi e l’amplesso,
ottenuto con o senza consenso.
A livello più profondo è possibile ravvisare in questo periodo un grande scontro
tra mondo clericale e laico, che nella fase aurorale della produzione volgare
doveva essere particolarmente acceso: infatti il mondo ecclesiastico, unico
detentore fino a quel momento della capacità di scrivere in lingua volgare e
pertanto unico detentore della cultura, vide in questo periodo la nascita di una
produzione laica in lingua volgare (lirica trobadorica9) che, per di più, parlava di
un amore profano, diverso dall’amore per Dio; il nuovo movimento venne visto
dalla Chiesa come pericolo in grado di sovvertire le gerarchie sociali in uso
fino a quel momento, le quali ovviamente, la vedevano al vertice in campo
culturale e politico.
Dopo lunghe e alterne vicende, il genere della pastorella vide la luce: esso
continuerà a subire una serie di modifiche, che porteranno all’introduzione di
canzoni mariane.
L’altro ieri entrai nel mio bosco / per rilassarmi e distendermi, / e trovai una
pastora graziosa; / in un verziere faceva la guardia agli agnelli, / all’ombra d’un
ramo.