Sei sulla pagina 1di 18

Storia della lingua italiana

Quarto anno – A.A. 2022/2023


Prof.ssa Dalia Gamal

1. La latinizzazione dell’Italia

I Latini si erano fissati in una ristretta area fra il Mar Tirreno, la riva sinistra
del Tevere e le colline del Lazio centrale. La lingua latina era abbastanza vicina
alle lingue dei Siculi, che abitavano gran parte della Sicilia, degli Umbri e degli
Oschi, che dominavano in tutta l’Italia centro-meridionale. Latini, Siculi, Oschi
e Umbri sono scesi in Italia dall’Europa nord­orientale nel secondo millennio
avanti Cristo; questi popoli, che chiamiamo Italici, erano linguisticamente
imparentati con altre popolazioni dell’Italia antica, come i Celti o Galli, che
occupavano gran parte della pianura padana. Essi fanno tutti parte della grande
famiglia di lingue indoeuropee. Sono indoeuropei anche i Greci, i Germanici, gli
Slavi, i Persiani, gli Indiani: gli Indoeuropei, attraverso emigrazioni e spedizioni
successive, avevano invaso gran parte dell’Europa e dell’Asia.
Quando Roma cominciò la conquista dell’Italia, in Liguria e in Sardegna si
parlavano lingue non indoeuropee. Ed anche la lingua degli Etruschi, che si
estendevano fra il Tevere, l’Appennino e il Tirreno, appare essere lontanissima
da tutte le altre lingue orientali e occidentali che si conoscono. Si aggiungano,
sulle coste dell’Italia meridionale e della Sicilia orientale, il greco delle colonie
della Magna Grecia; e sulle coste della Sicilia occidentale e della Sardegna, il
fenicio dei Cartaginesi: il fenicio è una lingua imparentata con lingue come
l’arabo e l’ebraico.
La conquista dell’Italia da parte di Roma ha come conseguenza la diffusione
del latino in tutta la penisola, specialmente attraverso la fondazione di colonie
militari e agricole. Un nucleo, cioè, di alcune centinaia di cittadini era mandato
a fondare una città nella regione nemica: ad essi erano concessi vasti terreni
da coltivare. Così sorsero Rimini, Benevento, Spoleto, Parma, Cremona,
Bologna, Torino, Trieste, e tante altre città italiane. Queste colonie erano
naturali centri di diffusione della lingua latina fra le popolazioni sottomesse, le

1
quali abbandonarono le loro lingue originali quando ottennero, dopo molte
lotte, i vantaggi e i diritti della cittadinanza romana.
Si ricordi, tuttavia, che in Italia si parlano tanti dialetti diversi anche a causa
della grande diversità delle lingue dei popoli che sono stati latinizzati. I popoli
vinti hanno abbandonato, nel corso di alcune generazioni, la loro lingua, ma ne
hanno conservato molti caratteri. In Italia, cioè, a un certo momento tutti
parlavano latino, ma con diversità anche notevoli, a seconda della lingua
originale.

Esercitazioni
1- Fa’ un elenco delle lingue che si parlavano in Italia prima della conquista
di Roma.
2- Quali conseguenze linguistiche ebbero le colonie fondate dai Romani in
Italia?
3- Quali conseguenze ha avuto la diversità delle lingue dei popoli latinizzati
sui dialetti italiani odierni?

2. Evoluzione della lingua latina

La lingua latina diffusa in Italia (e in tutta l’Europa occidentale) da soldati,


da agricoltori, da commercianti, è naturalmente un latino di tipo popolare,
abbastanza diverso dal latino scritto, fissato dagli scrittori latini. Tuttavia, i
rapporti fra il parlato e lo scritto erano molto stretti: solo più tardi la lingua
parlata si distanzierà sempre più dalla lingua scritta. E del resto la lingua latina,
sia scritta sia parlata, non è certo del tutto compatta, come molti credono: la
lingua latina è invece, come tutte le lingue del mondo, il risultato dei più diversi
incontri e delle più complesse mescolanze. Si pensi alla presenza in essa
dell’etrusco in parole come populus «il popolo», persona «la maschera»,
taberna «la taverna»; e vengono da lingue mediterranee i termini che indicano
piante e animali propri del Mediterraneo: cupressus «il cipresso», rosa «la
rosa», lepus «la lepre», talpa «la talpa» e così via.
Centinaia e centinaia sono poi le parole di origine greca in latino: molte
vengono alla lingua parlata dalle colonie greche dell’Italia meridionale,

2
moltissime entrano nella lingua scritta attraverso gli scrittori latini che imitano
le opere dei greci; i termini scientifici e tecnici sono poi in gran parte di origine
greca, perché scienze e tecniche di ogni genere venivano a Roma dalla Grecia.
Citiamo le parole nella loro forma italiana, vicinissima alla latina: olivo,
mandorlo, pepe, tonno, gambero, lampada, pietra, inchiostro, carta, corda,
piazza, stomaco, aria, macchina (nel significato della più antica macchina, la
macina per frangere le olive), poesia, filosofia, musica, geometria, grammatica,
atomo, e così via.
Molte furono poi le parole di origine greca entrate in latino attraverso il
cristianesimo. Il cristianesimo, infatti, giunge a Roma dall’Oriente, dove allora
tutti usavano il greco. È greca la stessa parola Cristo, che vuol dire, in greco,
«colui che è unto»: ci si riferisce alla cerimonia con cui veniva unto con
unguenti sacri colui che era stato scelto come re del popolo ebraico; Cristo è
colui che è stato scelto, e quindi «unto» dal Signore.
E sono parole greche chiesa (che vuol dire «riunione»), cattolico (che vuol dire
«universale»), battezzare (che vuol dire «immergere»), angelo, prete, vescovo,
papa, martire, profeta, e così via.
Perfino termini di importanza assoluta come parlare e parola hanno una
origine greco-cristiana: nel Vangelo vi sono molte parabole, cioè, secondo il
significato della parola greca, «esempi, similitudini»; ma per il cristiano quelle
parabole erano l’essenza stessa del Vangelo, e per questo da parabola vennero
tratte parola e parlare. D’altra parte, molte parole latine cambiarono di
significato per la spinta del cristianesimo. Per esempio, captivus, che significava
«prigioniero», prese il significato di «malvagio» (come è ancor oggi) attraverso
l’espressione captivus diaboli, cioè «prigioniero del diavolo». La parola virtus,
che voleva dire «valore del guerriero», col cristianesimo prese il significato di
«virtù del cristiano», la «virtù» che permette al cristiano di affrontare qualsiasi
pericolo.
Il cristianesimo dapprima si diffuse specialmente fra le classi più umili. Molti
scrittori cristiani, quindi, scrivevano in una lingua di carattere popolare, proprio
perché volevano essere capiti da tutti.
Verso la fine dell’impero romano, in Italia (e in tutta l’Europa occidentale) si
parlava e si scriveva in latino. La lingua parlata aveva alcuni caratteri particolari
nelle varie regioni ed era abbastanza diversa dalla lingua scritta. Ma queste
3
differenze non erano molto forti, anche perché il cristianesimo, accolto ormai
dappertutto, aveva introdotto molte forme popolari anche nella scrittura. Le
grandi invasioni barbariche sconvolsero anche la situazione linguistica
generale.
Esercitazioni
1- Scrivi qualche frase sull’influsso del cristianesimo sul latino.
2- Perché in latino sono così numerose le parole di origine greca?
3- Perché il cristianesimo tradusse molte forme popolari anche nella lingua
scritta?

3. La lingua latina e gli invasori germanici

Ancor oggi molte parole che si riferiscono alle armi, alla guerra, sono in italiano
di origine germanica, proprio perché, dopo la fine dell’Impero romano nel 476
d.C., per alcuni secoli in Italia le armi sono state esercitate soprattutto da popoli
germanici. Già prima della caduta dell’Impero romano negli eserciti romani
c’erano moltissimi soldati che venivano a combattere dalle terre del nord; più
tardi popoli come i Goti e i Longobardi hanno dominato a lungo in Italia,
vietando ai latini sottomessi l’uso delle armi.
Così in italiano si dice guerra (la parola latina bellum è stata abbandonata),
parola che deriva da un verbo che indicava in antico tedesco la “mischia”. Gli
eserciti romani non combattono più su schiere ordinate geometricamente: i
mercenari germanici di quegli eserciti si battono in mischie disordinate, e la
battaglia viene decisa da una serie di duelli. Ecco una serie di azioni violente
indicate con parole germaniche: rubare, arraffare, spaccare, graffiare, spiare,
schiaffo, sgherro, baruffa, scherno. In origine, guardare voleva dire « spiare il
nemico ».
I Goti e i Longobardi arrivarono in Italia non come eserciti, ma come popoli
interi, con donne, vecchi, bambini. I Longobardi poi erano scesi da poco tempo
dalla Germania settentrionale, per cui quasi non conoscevano la civiltà romana:
essi non hanno mai scritto la loro lingua. Così, a causa della superiorità della
cultura dei latini, i Longobardi abbastanza presto abbandonarono la loro lingua
per accogliere la lingua dei Romani vinti: quando si fecero cattolici, il latino per

4
loro non fu più soltanto la lingua dei vinti, ma anche la lingua della loro nuova
religione.
I Latini divenuti cristiani avevano abbandonato il loro antico sistema di nomi
(come, per esempio, Marco Tullio Cicerone o Caio Giulio Cesare): ormai
preferivano nomi che trovavano nei libri sacri, come Giovanni, Andrea, Anna,
Elisabetta (che sono tutti nomi ebraici), o nomi di santi, come Ambrogio,
Benedetto, Paolo. I Germani, invece, avevano un sistema di nomi che
esaltavano la forza o il potere di chi li portava, come Ludovico, Alberto,
Bernardo, Guglielmo (Alberto vuol dire «illustre per nobiltà», Ludovico «illustre
nel combattimento»). In un primo tempo Latini e Longobardi si oppongono
perfino nei nomi: ma ben presto i Longobardi sono diventati cristiani e qualcuno
di essi ha cominciato a dare ai suoi figli nomi cristiani; dall’altra parte, qualcuno
dei Latini ha dato un nome longobardo a un suo figlio per ossequio al re o al
duca longobardo. E poi sono cominciati i matrimoni fra Longobardi e Latini che
hanno fortemente favorito gli scambi linguistici.
Germani e Latini sono stati dunque vicini per molti secoli, per cui le parole
germaniche in italiano non sono soltanto quelle che si riferiscono alla guerra e
alla violenza. Ce ne sono molte altre che indicano parti del corpo umano, come
guancia, schiena, stinco (anche snello e schietto sono di origine germanica); e
così molte della vita dei campi e dell’allevamento del bestiame: vanga, bosco,
melma, greppia, stalla, galoppare. Anche molti colori, come bianco, bruno,
giallo, grigio, sono di origine germanica, forse in riferimento ai colori dei cavalli.
E ancora, ricco, orologio, senno, e così via.

Esercitazioni
1. Perché in italiano ci sono molte parole di origine germanica?
2. Perché i Longobardi abbandonarono la loro lingua germanica per la
lingua dei Latini?

4. Dal latino alle lingue volgari


Sulle grandi strade dell’Impero, commercianti, soldati, cittadini di ogni
genere si muovevano con facilità: con loro, si diffondevano rapidamente le

5
parole nuove e i nuovi modi linguistici, e così non si creavano forti differenze
linguistiche fra le diverse città.
Anche le novità linguistiche da una generazione all’altra non erano grandi,
specialmente a causa dell’azione della scuola, dove tutti studiavano in una
lingua che si era fissata da secoli, e allora le differenze si riducevano
fortemente. Infatti, le lingue cambiano continuamente, ma la scuola, se è ben
organizzata, tende a conservare costante il livello linguistico, attraverso il
tempo.
Dopo la caduta dell’Impero guerre terribili sconvolsero profondamente la vita
nelle città e nelle campagne: le strade non furono più ben tenute e i rapporti
fra le regioni si ridussero fortemente; le masse popolari vivevano ormai una
vita isolata e chiusa, spesso in stato di schiavitù, occupate quasi soltanto
nell’agricoltura e nella pastorizia. In questa situazione, col venir meno del
potere unificatore di Roma, decaddero tutte le istituzioni civili che rendevano
stabile la lingua e la diffondevano da una regione all’altra. La scuola è quasi
distrutta, la massa della popolazione ed anche le classi dirigenti sono formate
in massima parte da analfabeti. Il saper leggere e il saper scrivere in latino non
è più sentito come una necessità e un dovere per tutti, ma come l’abilità propria
di pochi uomini di cultura, che si servivano della lingua scritta per le necessità
della religione, della legge e delle corti degli imperatori, dei duchi e dei vescovi.
E allora in poche generazioni le diversità si accumulano e si moltiplicano, finché
la gente non capisce più un facile brano scritto in lingua latina. E d’altra parte
le lingue parlate delle varie città e regioni si sono mutate fra di loro perché le
novità linguistiche sono rimaste chiuse nei confini di ogni città e di ogni regione.
In qualche caso gli abitanti di paesi a distanza di appena poche decine di
chilometri quasi non si capiscono più.
Infatti, non c’è una data in cui muore il latino e nasce l'italiano, o lo spagnolo
o il francese: c’è invece un graduale passaggio dal latino ai diversi volgari, che,
durante il corso del Medioevo, si verifica in tutte le aree di quello che era stato
il grande Impero di Roma.

Esercitazioni
1. Per quale ragione la scuola romana, ben organizzata, decade con le
invasioni barbariche?
6
2. Perché dopo le invasioni barbariche si accumularono grandi differenze
linguistiche da una regione all’altra, da una città all’altra?
3. Perché, dopo le invasioni barbariche, il latino si trasformò rapidamente
nel corso del tempo?

5. Le caratteristiche del volgare


Alcune caratteristiche strutturali erano comuni a tutte le varietà del latino
volgare e le contrapponevano alla varietà 'alta' del latino: sono proprio le
caratteristiche che ritroveremo in tutti i volgari romanzi. Vediamone le più
importanti.
1- A livello della fonologia il fenomeno più rilevante riguarda il sistema
vocalico. In latino le vocali toniche erano complessivamente dieci, distinte in
lunghe e brevi. È difficile capire l’importanza di questa distinzione relativa alla
lunghezza, o durata, del suono per noi italiani, che parliamo lingue in cui tale
distinzione non è più presente. Nel latino una parola con la stessa vocale, nella
stessa posizione, poteva dare luogo a significati diversi a seconda che questa
vocale fosse lunga o breve: HĪC "qui" e HĬC "questo", LĒGO "lego" e LĔGO
"leggo", PĀLUS "palo" e PĂLUS "palude"
2- A livello della morfologia e della sintassi
a) Nel latino classico l'ordine 'normale delle parole nella frase semplice era:
soggetto-oggetto-verbo (es. Paulus-Petrum-amat); nel latino volgare, invece,
l'ordine era già quello che ancora oggi troviamo nelle parlate romanze:
soggetto-verbo-oggetto (es. Paolo-ama-Pietro).
b) Nel latino classico ogni nome o aggettivo aveva più forme flesse, ciascuna
per un ‘caso’, ovvero il caso nominativo, accusativo, vocativo, ecc1. Nel latino
volgare il numero dei casi si ridusse e man mano il sistema dei casi fu
abbandonato. Al posto di vari casi subentrò lo schema: (preposizione) +
(articolo) + nome: domus Pauli è diventato "la casa di Paolo", domus magistri
"la casa del maestro".
c) Nel latino classico c'erano le forme flesse ma non c'era l'articolo. L'articolo
italiano deriva dalle voci latine UNUS "uno" e ILLE "quello", che nel corso dei
secoli persero via via il valore, rispettivamente, di numerale cardinale e di

1Il caso nominativo corrisponde al soggetto, il genitivo al complemento di specificazione, il


dativo al complemento di termine, l’accusativo al complemento oggetto, il vocativo al
complemento di vocazione, l’ablativo a complementi vari.
7
aggettivo dimostrativo per assumere il valore di articolo. Il processo era già
presente nel latino volgare.

Esercitazioni
1. Come si distingue il volgare dal latino a livello della lunghezza vocalica?
2. Dare un esempio della differenza tra il volgare e il latino a livello della
sintassi?
3. Come si distingue il volgare dal latino a livello della morfologia dei nomi?

6. Dante, primo teorico del volgare


In questa situazione di frantumazione linguistica interviene Dante come il
primo teorico del volgare, nel senso che gli dedicò attenzione, cercò di
comprenderne l’origine e di stabilire come dovesse essere per raggiungere i
massimi risultati d’arte.
Le idee di Dante sul volgare si leggono nel Convivio e nel De vulgari
eloquentia. Nel Convivio il volgare viene celebrato come “sole nuovo” destinato
a splendere al posto del latino per un pubblico che non è in grado di
comprendere la lingua dei classici.
Nel De vulgari eloquentia Dante sottolinea che tutte le lingue naturali sono
soggette a continua trasformazione. Dante sostiene che la grammatica delle
lingue letterarie, come quella del greco e del latino, è una creazione artificiale
dei dotti, intesa a frenare la continua mutevolezza delle lingue per garantire la
stabilità senza la quale la letteratura stessa non può esistere. Anche il volgare,
per farsi letterario, per acquisire un prestigio paragonabile a quello del latino,
deve acquistare stabilità, distinguendosi dal parlato popolare.
Il sommo poeta esamina le parlate locali dell’area italiana alla ricerca del
volgare migliore, che definisce illustre e aulico. L’esame delle varie parlate si
conclude con la loro sistematica eliminazione: tutte sono indegne del volgare
illustre, inclusa la lingua popolare toscana. Migliori risultano il siciliano e il
bolognese, ma non nella loro forma popolare, bensì nell’uso di alto livello
formale dei poeti della corte di Federico II e di Guido Guinizelli. La nobilitazione
del volgare deve avvenire dunque attraverso la letteratura. Gli esempi della
lingua ideale vengono identificati nei modelli dei poeti siciliani e degli stilnovisti.

8
In tal modo, il trattato De vulgari eloquentia, da libro di linguistica, si trasforma
in trattato di teoria letteraria.

Esercitazioni
1. Cosa vuol dire “teorico del volgare”?
2. Come viene descritto il volgare nel Convivio?
3. A che cosa serve la grammatica secondo Dante?
4. Perchè Dante ha cercato il “volgare illustre”? e quale volgare ha scelto?

7. La questione della lingua nel Cinquecento


Una spinta decisiva alla diffusione del modello toscano è data dall'invenzione
della stampa, che permette una larga e rapida circolazione delle opere di
Dante, Petrarca, Boccaccio, ormai apertamente proposte come modelli di
lingua. Le caratteristiche del testo a stampa costringono gli editori e i
grammatici a porre in primo piano un problema che prima era rimasto sullo
sfondo: quello della norma ortografica. Le grafie locali che avevano
caratteristiche dialettali ed erano perciò oscillanti, lasciano rapidamente il posto
a un'unica norma grafica (con oscillazioni minime), che viene modellata sulle
'tre corone' (cioè Dante, Petrarca e Boccaccio). Ma, a parte la grafia, una volta
accettato il dominio del toscano di tipo fiorentino sugli altri volgari, bisogna
sciogliere un altro nodo: quale fiorentino usare? Il modello dei grandi scrittori
del Trecento, o il fiorentino contemporaneo?
Si confrontano principalmente tre posizioni, che sostengono tre diversi
modelli.
a) Il modello trecentesco è sostenuto da Pietro Bembo, veneziano che
difende fermamente l’imitazione di Petrarca e Boccaccio (escludendo le varianti
stilistiche ‘basse’). Non considera Dante come un modello perché, nel suo
passaggio fra registri e varietà, ha attinto anche agli stili più 'bassi'. D'altra
parte il modello del Bembo esclude anche la lingua dell'uso, perché egli vuole
assicurare ai dotti uno strumento raffinato, prestigioso. La lingua, per il Bembo,
è lingua scritta e letteraria, strumento universale destinato ai posteri, anzi
all'eternità, e dunque deve staccarsi dall'uso presente e deve superare la
variabilità propria delle lingue dell'uso. Bembo stabilisce rigide regole
grammaticali, con l'intento di regolamentare e unificare l'italiano che dovranno
usare i letterati: ad esempio è lui a prescrivere che i pronomi lui e lei non si

9
debbano impiegare come pronomi soggetto (uso che invece era frequente) e
che la prima persona plurale del presente indicativo non debba uscire in -amo
né in -emo (com'era nell'uso toscano dell'epoca) ma sempre in -iamo (non
amamo, valemo, leggemo, ma amiamo, valiamo, leggiamo).
b) La lingua cortigiana. Tale posizione, pur accettando la base fiorentina
trecentesca (soprattutto Dante e Petrarca), propone di integrarla con gli apporti
di altre corti, e soprattutto della corte papale, dove si è realizzato un bel
miscuglio delle parlate di diversi paesi. In questa lingua possono entrare anche
parole ormai diffuse di origine francese e spagnola. E Giangiorgio Trissino,
vicentino, interpreta il De vulgari eloquentia — erroneamente — come
portatore della teoria di una lingua mista, alla quale contribuiscano forme
provenienti da «tutte le lingue d'Italia». In sostanza, anche questa teoria si
muove all'interno di un ideale aristocratico di una lingua elegante, un prodotto
dell'intelletto e non della realtà.
c) Il fiorentino parlato. Questo modello presuppone la naturale bellezza e
superiorità del fiorentino rispetto agli altri volgari. Uno dei suoi principali
sostenitori è Niccolò Machiavelli, il quale sostiene che il fiorentino
cinquecentesco è la continuazione di quello del Trecento adoperato dai grandi
scrittori. L'aspetto più originale di questa teoria è la centralità della distinzione
tra parlato e scritto. Pur riconoscendo la grande importanza di scrittori come
Dante, Petrarca e Boccaccio, mette in rilievo l’importanza del parlato, anche
del parlato 'popolare', al quale lo stesso Machiavelli attinge nelle sue opere.
Fra le varie teorie prevale quella del Bembo, il che segna un momento
importantissimo nella nostra storia linguistica: stabilisce la divisione fra la
lingua letteraria dei colti e degli intellettuali, basata sull'imitazione di scrittori
classici e perciò immobile, senza evoluzione, e la lingua dell'uso, del popolo,
per sua natura dinamica e in continua evoluzione. Questa scelta bloccherà
l'evoluzione della lingua scritta — almeno di quella letteraria — 'ingessandola'
per quasi quattro secoli. In tal modo cresce di nuovo la differenza tra lo scritto
fisso e le parlate del popolo che si rinnovano continuamente.

Esercitazioni
1- Quali sono le tre posizioni diffuse nel Cinquecento riguardo al modello
linguistico da seguire?
2- Quali sono le conseguenze della prevalenza delle idee di Pietro Bembo?

10
8. Galileo Galilei e la prosa scientifica nel Seicento
La linea indicata dal Bembo nel Cinquecento viene ripresa e portata avanti
nel secolo successivo da una grande impresa, destinata a sua volta a
influenzare notevolmente la storia della nostra lingua letteraria. Verso la fine
del secolo XVI Leonardo Salviati trasforma in un'Accademia un allegro gruppo
di giovani letterati che si riunivano regolarmente a fare discorsi a vanvera. Si
prefiggono lo scopo di creare uno strumento fondamentale per la diffusione
delle teorie bembesche: un vocabolario, in cui raccogliere tutte le parole e i
modi di dire trovati nelle 'buone scritture' anteriori al 1400. In questa
prospettiva che dà il primato al volgare fiorentino di Dante, Petrarca e
Boccaccio l’Accademia si assume il compito di passare la lingua “al setaccio” e
prenderne “il fiore”, cioè la parte migliore, così come si passa al setaccio la
farina per separarla dalla crusca.
Nel Seicento l'italiano si diffonde fra le persone colte con nuovi strumenti:
nascono le prime pubblicazioni periodiche che ospitano per lo più lavori eruditi.
Lo sviluppo delle scienze fisiche e naturali, sommato con la più ampia
circolazione dei testi scientifici — sino ad ora scritti in latino — pone un
problema nuovo: come rinnovare il lessico per designare i nuovi strumenti e le
nuove scoperte? Continuare ad attingere al latino, o attingere al toscano?
In favore della prima scelta c'è la necessità di utilizzare una lingua di
comunicazione nota agli scienziati di tutta Europa, in favore della seconda c'è
la maggiore trasparenza delle parole per un numero molto più elevato di
persone. In altre parole, la scelta di fondo avviene non solo fra due lingue ma
fra due concezioni diverse della scienza: una scienza di élite e una scienza da
diffondere anche fra i meno colti, una scienza aristocratica e una scienza
'democratica'.
Il maggiore scienziato del secolo è, appunto, Galileo Galilei (1564-1642), che
sceglie il rinnovamento: preferisce il volgare al latino, e fa ampio ricorso al
parlato. Quando gli serve una parola nuova, Galileo ricorre alla tecnificazione
di termini già in uso, utilizzando per lo più delle metafore: come macchie solari
(espressione preferita rispetto a helioscopia), momento "incremento istantaneo
e costante della velocità", impeto "il grado di velocità che la palla si trova ad
avere acquistato". Evita, tutte le volte che è possibile, termini formati con
elementi greci o latini: così, a telescopio preferisce cannocchiale (composto da
cannone + occhiale). Si organizza in una sintassi che è già caratterizzata da
quella che ancor oggi è la sua caratteristica fondamentale, lo stile nominale.

11
Galileo segna, con il suo rinnovamento della lingua, il punto più alto di
penetrazione del parlato nella cittadella del trecentismo, accanitamente difesa
dalla Crusca. Ma in questo secolo vi sono anche altri fronti di assedio alla stessa
cittadella: oltre alla letteratura dialettale, i vari documenti e atti della burocrazia
in tutta Italia, le relazioni, gli inventari e le lettere private si infarciscono di
termini dialettali o vicini al dialetto.
Così la terza edizione del Vocabolario della Crusca, uscita nel 1691, mostra
infine un'apertura della Crusca ai 'moderni': segnala con una sigla particolare
le voci fiorentine arcaiche — riconoscendo così che non sono più proposte come
modelli da imitare — e inserisce autori 'moderni' ma addirittura alcuni non
toscani, come Torquato Tasso (nato a Sorrento, cresciuto a Napoli, a Roma e
alla corte di Ferrara).

Esercitazioni
1. Perché l’Accademia della Crusca prende questo nome? E quale posizione
prende nei confronti della questione della lingua?
2. Che cosa caratterizza la terza edizione del Vocabolario della Crusca?
3. Quale problema sorge con lo sviluppo delle scienze fisiche e naturali? E
come reagisce Galileo Galilei a questo problema?

9. L’italiano tra influssi francesi e purismo


Gli avvenimenti a cavallo tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento
hanno riflessi molto importanti sulla lingua italiana: sul suo uso effettivo e sul
dibattito teorico che non resterà limitato ai letterati, ma si estenderà alla storia
civile e culturale d’Italia.
Napoleone esporta in Italia il modello francese, fortemente centralista, e lo
applica all’organizzazione amministrativa, scolastica, giuridica e politica. Tutti i
territori soggetti all’influenza napoleonica adottano il nuovo Codice civile che
supera la storica confusione di norme adottate in periodi diversi e dà finalmente
a tutti i cittadini una legislazione unica, chiara e valida per l’intero territorio.
La vita culturale ha una brusca accelerazione: riviste e giornali si moltiplicano
e incidono sui ceti medi; vengono istituite nuove scuole e università. Tutto ciò
va nella direzione del superamento dei municipalismi e delle separatezze, verso
una più ampia diffusione delle idee e l’unitarietà istituzionale.

12
In questo quadro di ‘francesizzazione’ il prestigio della lingua francese cresce
smisuratamente. Si rinnovano del tutto interi settori del linguaggio, come il
linguaggio politico e quello scientifico, e alcuni nascono, come il linguaggio
della burocrazia (il termine stesso ‘burocrazia’ è di origine francese). Entrano
così nell’italiano parole come importazione ed esportazione, progresso,
pregiudizio, contratto sociale, fanatismo, cittadino, democrazia, patriota,
corporazione e altre parole legate allo ‘spirito del tempo’.
Il francese entra anche nella vita di tutti i giorni, dall’abbigliamento, alla
cucina, all’arredamento. È in questo periodo che entrano in italiano parole
come toilette, ragù, pasticceria, mobiliere.
Ma l’egemonia francese è un conto e la politica linguistica di Napoleon un
altro: contraddicendo l’apertura al nuovo e al moderno che la ‘francesizzazione’
della società e dei costumi ha portato con sé, ma coerentemente con il
centralismo che sta dietro tutta la sua azione riordinatrice in Italia, Napoleone
prende misure per imporre la centralità di una sola varietà linguistica, il
toscano, considerato il dialetto ‘più perfetto’ dell’Italia: stabilisce l’uso del
toscano a fianco del francese in tutti gli atti pubblici e privati, ripristina
l’Accademia della Crusca (1808) e istituisce un premio per le migliori opere in
lingua italiana.
Tale centralità del toscano ha anche altri sostenitori, fieramente contrari a
ogni penetrazione di vocaboli francesi in Italia. Sono i puristi, sostenitori di una
sorta di patriottismo linguistico che rifiuta prestiti da ogni lingua. Il più noto è
Antonio Césari, padovano (1760-1828) che sostiene il ritorno al modello degli
scrittori del Trecento: la sua posizione è simile a quella di Pietro Bembo nel
primo Cinquecento.
Il purismo correva sui vecchi binari del dibattito interno al mondo letterario
Ma ormai il problema di una lingua per tutti gli italiani, e per tutti gli usi, è
uscito dal chiuso delle conventicole letterarie, e sta diventando un problema
sociale, educativo, culturale di grande rilevanza.

Esercitazioni
1. Dare esempi di prestiti francesi entrati in italiano? Perchè i francesismi
sono entrati nella lingua italiana?
2. Qual è stata la politica linguistica di Napoleone in Italia?
3. Chi sono i purist? Qual è la loro posizione lnguistica?

13
10. Il Progetto di Manzoni: un’Italia linguisticamente unita
Il passaggio dalla dimensione letteraria alla dimensione sociale del problema
è rappresentato dalla storia del pensiero manzoniano sul problema della lingua.
Le preoccupazioni iniziali di Alessandro Manzoni sono decisamente letterarie.
La ricerca di una lingua accessibile ad ampi strati di popolazione, e nello stesso
tempo tanto elaborata da poter trattare argomenti di interesse non ristretto
geograficamente, approda — nella prima stesura del suo romanzo del 1823 —
a una lingua che comprende sia parole e costrutti toscani (sia letterari che
dell'uso, borghese e popolare) che voci lombarde (usate soprattutto per
caratterizzare alcuni personaggi), francesismi e latinismi. Ma il risultato non lo
soddisfa, e nella seconda stesura, che intitola Promessi sposi (1827), rende più
omogeneo l'impasto linguistico: elimina tanto gli eccessi di letterarietà
(latinismi), quanto gli eccessi di dialettalità. Sostituisce i lombardismi che
caratterizzavano i personaggi più umili con voci 'basse' del toscano letterario.
Dopo il soggiorno a Firenze Manzoni rimedita ancora sulle sue scelte
linguistiche e scrive due trattati di filosofia del linguaggio, Della lingua italiana,
iniziato nel 1830, e Sentir messa (1836), nei quali espone due concetti
rivoluzionari:
a) la lingua è strumento comune della sociabilità;
b) l'uso è arbitro e signore delle lingue.
Manzoni abbandona definitivamente l'impostazione tradizionale —letteraria
— del problema della lingua, e lo imposta invece come problema di tutta la
società italiana: bisogna cercare una lingua che possa essere «il mezzo
d’intendersi Italiani con Italiani». La scelta finale di Manzoni è in favore
dell'italiano parlato dai fiorentini colti.
L'edizione dei Promessi sposi del 1840-42 riflette questa scelta teorica:
Manzoni sottopone il romanzo a una revisione totale, che riguarda anche la
veste linguistica. Lavora in tre direzioni:
• abbandona definitivamente le forme arcaiche, o di uso solo letterario:
cangiando > cambiando, veggio > vedo, pargoli > bambini;
• abbandona le forme dialettali: inzigare > aizzare, tosa > ragazza;
• opta per le forme colloquiali del fiorentino colto: confabulare >
chiacchierare, ambedue / ambo / entrambi > tutt'e due.

14
Manzoni non cerca la precisione del fiorentinismo a tutti i costi, ma in molti
casi, per dare più espressività alla sua scrittura, rinuncia al fiorentinismo
autentico.
La rivoluzione manzoniana consiste nell'aver avvicinato la lingua scritta alla
lingua parlata, e nell'aver preso piena consapevolezza del fatto che non bisogna
considerare l'idea di lingua una questione letteraria, bensì una questione
sociale e nazionale.
Manzoni propose una serie di provvedimenti concreti per unire
linguisticamente l'Italia:
• la redazione di un "vocabolario del linguaggio fiorentino vivente» da
diffondere nelle scuole;
• la redazione di vocabolari dialettali per apprendere l'italiano partendo dai
vari dialetti;
• l'invio di maestri toscani per tutta la penisola, a insegnare il fiorentino agli
altri;
• l'invio di maestri non toscani a Firenze, per impararvi l'italiano.
Questi provvedimenti non ebbero il successo sperato. Le condizioni oggettive
della nazione non erano quelle che immaginava Manzoni. La sua proposta si
sarebbe potuta realizzare se l'Italia avesse già avuto un tessuto unitario di
base; se le poche, grandi città del Nord (alle quali soprattutto pensava
Manzoni) e la quasi totalità dei paesi delle immense campagne dove regnava
la miseria - al Nord come al Sud, al Centro come nelle isole - avessero avuto lo
stesso retroterra culturale, gli stessi problemi; se ci fosse stato un sistema
scolastico efficiente, centralmente ben controllato, e un italiano di base fosse
stato già patrimonio di una classe sociale, o di uno strato culturale significativo.
Invece l'Italia era ancora - e restò per molto tempo – un insieme disomogeneo
di culture e di modi diversi di pensare, di comportarsi e di parlare. La scuola
era poco frequentata, perché era considerata come un sopruso dello Stato che
sottraeva forza lavoro alla vita dei campi (nel 1871 nell'Italia meridionale e
insulare gli analfabeti superavano 1'80%, e nel 1901 erano ancora fra il 60%
e l'80%).
L'insufficienza della proposta manzoniana fu lucidamente identificata da un
grande linguista della seconda metà dell'Ottocento, il goriziano Graziadio Isaia
Ascoli. Ascoli era un dialettologo, e dal contatto con la realtà del parlato
quotidiano aveva imparato a diffidare delle imposizioni normative, e a credere
15
invece nella forza dei cambiamenti linguistici guidati dall'evoluzione storica e
dalle trasformazioni sociali. Secondo Ascoli non si trasforma la società partendo
dalla lingua, ma al contrario si arriva all'unificazione e alla diffusione della lingua
attraverso la trasformazione della società.

Esercitazioni
1. Come si sviluppa la stesura dei Promessi sposi dal punto di vista
linguistico?
2. Quali sono le misure proposte da Manzoni per unire l’Italia
linguisticamente? E perché non hanno avuto successo?
3. Qual è la posizione di Ascoli?

11. L’unificazione linguistica reale


Tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima del Novecento, grazie a diversi
eventi storici, si realizzarono quell’attività civile, quell’unione di intenti e di
affetti, cioè quella solidarietà culturale che Ascoli aveva indicato agli italiani
come strada obbligata per giungere infine all'unità linguistica reale.
L'emigrazione: come primo fattore di unificazione reale l'emigrazione
italiana verso l'estero e le migrazioni interne, dalle regioni meridionali al
Piemonte e alla Lombardia, diedero luogo, fin dai primi anni dell'unità, a
spostamenti in numeri molto elevati, di giovani e di persone di mezza età. Così
si impoverivano le società di partenza, si laceravano tessuti sociali saldissimi,
ma — paradossalmente — si ponevano anche le basi per un progresso civile
che altrimenti avrebbe tardato ancora di più.
Chi emigrava si trovava in una realtà ben diversa da quella che aveva
lasciato: non era più analfabeta e ignorante tra ignoranti e analfabeti, ma era
analfabeta, e perciò discriminato, in società dove la cultura era diffusa.
Sperimentava sulla propria pelle l'importanza vitale della cultura e
dell'alfabetizzazione e trasmetteva questa consapevolezza alla propria famiglia.
Ne conseguì una spinta 'esterna' alla scolarizzazione, al rapporto con altre
culture, che costituì — insieme al denaro — il contributo positivo
dell'emigrazione alla storia degli italiani.
L'urbanesimo: La seconda rivoluzione industriale, a cavallo fra i due secoli,
situò le attività industriali (meccaniche, tessili, siderurgiche ecc.) all'interno o
vicino alle città: lì si trasferirono coloro che nell'industria cercavano un impiego.
16
Ai primi del Novecento si registrò un considerevole abbandono delle campagne
e un incremento della popolazione urbana: si accrebbero soprattutto le città
industriali (Torino, Milano, Genova). Era l'inizio del lento ma decisivo passaggio
dalla civiltà agricola alla civiltà industriale, che sarebbe continuato nei decenni
successivi e avrebbe subito infine una brusca accelerazione nel secondo
dopoguerra. La vita in città offrì stimoli all'arricchimento culturale, indusse alla
valorizzazione della scuola e obbligò all'istruzione in vista della promozione (o
anche della semplice accettazione) nella nuova società.
La diffusione della stampa: Nell'ultimo decennio dell'Ottocento sono nati
i primi giornali a tiratura nazionale e ad ampia diffusione, e agli inizi del
Novecento sono stati fondati alcuni dei grandi quotidiani nazionali ancora vivi
oggi: «La Stampa» e il «Corriere della Sera». Essi diffondevano la cultura in
una prosa che non era più retorica, ma essenziale e concreta.
La burocrazia e l'esercito: La burocrazia, applicando la riforma
napoleonica, distribuì uffici e funzionari su tutto il territorio nazionale,
diffondendo attraverso di essi espressioni e fraseologie standardizzate. Nei
rapporti col pubblico si era obbligati a usare l'italiano. Lo stesso accadde
nell'esercito per via della leva obbligatoria su base nazionale: tutti i giovani
ventenni furono costretti a convivere per un certo tempo con coetanei di altre
regioni d'Italia, e l'italiano divenne per loro una necessità per la comunicazione.
La scuola: L'azione unificatrice della scuola non si è esercitata nei tempi
brevi che auspicava Manzoni, ma più lentamente. Due tappe sono state
fondamentali: l'istituzione della scuola media obbligatoria (1963) ha aperto la
strada a una scuola effettivamente 'per tutti', e il rinnovamento didattico-
pedagogico degli anni Settanta sia per la scuola media (1979) sia per la scuola
elementare (1985).
Il cinema, la radio e la TV: Sono i più potenti strumenti di diffusione
dell'italiano. Nel primo e nel secondo dopoguerra hanno portato la lingua
nazionale in tutte le famiglie con una forza tale che oggi il dialettofono puro
non esiste più.
A fronte di queste trasformazioni sociali e culturali, la letteratura è diventata
un capitolo secondario della storia linguistica d'Italia. Qui non conta tanto per
i suoi capolavori quanto per alcuni prodotti di enorme diffusione, anche se
stilisticamente e linguisticamente poveri. Grazie a una straordinaria diffusione
attraverso la stampa 'popolare' questi prodotti paraletterari sono stati e sono
tuttora insostituibili mezzi di addestramento ed esercizio di lettura. In un'Italia
17
scolasticamente male attrezzata anche la letteratura popolare è stata, ed è,
per masse ingenti di semi-alfabetizzati, un forte sostegno all'alfabetizzazione in
lingua italiana.

Esercitazioni
1. Quali sono i fattori di unificazione linguistca reale dell’Italia a partire dalla
fine dell’Ottocento?

18

Potrebbero piacerti anche