Fin dal secolo scorso la linguistica comparata è giunta al concetto della unità indoeuropea, ossia alla scoperta
che le lingue germaniche, italiche, elleniche, celtiche appartengono ad un unico gruppo linguistico di cui fan
parte anche l’antico indiano e l’antico persiano.
Un esame più attento delle lingue indoeuropee permette di rinvenire termini comuni che designano l’orso, il
lupo, il castoro, la quercia, la betulla, il gelo, l’inverno, la neve, – ci rimanda cioè ad originarie sedi
settentrionali. La presenza del nome del faggio – albero che non cresce ad Est della linea Konigsberg-Odessa –
e del salmone, pesce che vive nel Baltico e nel Mare del Nord, ma non nel Mar Caspio o nel Mar Nero, ci
permettono di collocare l’antica patria indoeuropea in un territorio compreso tra il Weser e la Vistola, esteso a
Nord fino alla Svezia meridionale e a Sud fino alla Selva Boema e ai Carpazi. Effettivamente, da questo
territorio si irradiano, a partire dal 2500 a.C., una serie di culture preistoriche che dilagano dapprima nelle valli
del Danubio e del Dnjeper, e di qui raggiungono l’Italia, la Grecia, la Persia, l’India.
Di qui l’origine nordica delle civiltà indiana, persiana, greca, ma anche quella di quei prischi Latini che si
stanziarono sui Monti Albani e fondarono Roma. Poiché gli Italici – e tra essi i Latini – in Italia ci sono venuti,
presumibilmente, in diverse ondate, mentre l’antica popolazione mediterranea veniva lentamente sommersa da
queste invasioni finché ne emergevano, come isole staccate, Liguri, Etruschi, Piceni, Sicani.
La parentela delle lingue indoeuropee è un fatto acquisito. Più complesso è il problema del
legame dei singoli linguaggi tra loro. Esistono dei criteri generali di raggruppamento sui quali più
nessuno discute: ad esempio una distinzione tra un gruppo occidentale kentum (del quale fanno
parte il greco, il latino e il germanico ma anche l’ittita) ed un gruppo orientale satem, o anche
l’unità originaria del sanscrito e del persiano in una comunità “aria” che si può ricercare
archeologicamente fino a Nord del Caucaso. Spesso tuttavia i contatti tra le varie lingue sono
così diversi e molteplici da rendere impossibile un preciso raggruppamento per gradi di
parentela. Tutto ciò rispecchia uno stadio originario in cui i territori dei vari popoli erano incerti e i loro rapporti
intrecciati da flussi e riflussi di ondate migratorie.
Il latino è stato dapprima collocato in una supposta unità italo-celtico-germanica, ossia si è immaginato che gli
antenati dei Celti, dei Germani e dei Latini abbiano formato una unità particolare in seno alla grande famiglia
indoeuropea. E’ dubbio però se una tale unità sia esistita o se non si debba cercare una unità ancora più larga
comprendente anche il veneto e l’illirico, con caratteristiche affinità col baltico. Questo ci introdurrebbe al
problema della vera natura del “veneto”, e dell’”illirico”, e a quello della lingua dei popoli dei campi d’urne.
In effetti, tutte queste lingue possiedono dei termini sicuramente indoeuropei – ma che non si
ritrovano in sanscrito o in greco. Esempi di questo “indoeuropeo occidentale” sono il gallico mori,
latino mare, antico tedesco meri, lituano mares, antico slavo morje; l’antico irlandese tuath
“popolo”, osco touto, antico tedesco diota e antico nordico thiod (”deutsch“), lituano tautà e illirico
teutana (”regina”). Comuni a questi popoli sono poi una serie di nomi per i corsi d’acqua che
nell’Europa Centrale rappresentano il più antico strato toponomastico analizzabile, mentre in
Spagna e in Italia furono importati. Valga come esempio Ala in Norvegia, Aller in Germania, Alento in Italia,
Alantà in Lituania – spiegabili col lettone aluots = fonte; Aube in Francia, Alba in Spagna, Elba in Germania,
Albula nell’antico Lazio, illuminabili con l’antico nordico elfr fiume e l’antico tedesco elve “letto fluviale”. Questa
unità linguistica – per la quale il Krahe ha creato la definizione di alteuropaisch, “europeo antico” – sarebbe
quella dello indogermanisches Restvolk, ossia di quegli Indoeuropei rimasti più a lungo nelle antiche sedi.
In genere, si deve pensare che mentre alcune stirpi indoeuropee, spintesi precocemente nell’area della civiltà
egea e medio-orientale, già nel secondo millennio possedevano una lingua ben definita, le altre stirpi, rimaste
nella patria originaria, parlavano dialetti appena differenziati l’uno dall’altro. Dai documenti di Pilo e di Hattusas
noi sappiamo che intorno al 1400 a.C. nel Peloponneso si parlava già una lingua greca e che nell’alta
Mesopotamia lo stato di Mitanni scriveva i suoi documenti in una specie di sanscrito. Ma è presumibile che nella
stessa epoca gli antenati dei Latini e dei Germani storici parlassero dei dialetti allo stato fluido e, per così dire,
sfumanti l’uno nell’altro.
Molte forme latine si lasciano agevolmente confrontare con forme celtiche, altre con forme
celtiche e germaniche. Al latino piscis corrisponde il gotico fisks (tedesco moderno Fisch) e
l’irlandese iask. Il latino salix trova riscontro nell’antico alto tedesco salaha e nell’antico
irlandese sailech. Oltre alla parentela genealogica c’è un tipo di affinità linguistica che potremmo
definire ambientale. Il latino, oltre ad essere stretto parente del germanico e del celtico ha tutto
un vocabolario di termini che hanno riscontro non solo in queste lingue ma anche nel baltico e
nello slavo. E’ il nome del vento del Nord: in latino carus, in gotico skura, in lituano sziaurè,
“Nord” e “vento del Nord”, nell’antico slavo severu, “Nord”. Ecco una serie di parole che designano il freddo:
antico alto tedesco kalt e kuoli; lituano galmenis freddo intenso; antico slavo goloti, ghiaccio e zledica; latino
gelu e glacies. Questo vocabolario ci parla di un’epoca in cui gli antenati dei Latini e dei Germani e degli Slavi
vivevano in un ambiente gelido e settentrionale. Ancora più interessante è un altro termine geografico. Il gotico
marei, il lituano mares, l’antico slavo morje, il gallico mori, il latino mare designano di volta in volta il mare, ma
anche lagune e bacini chiusi e paludosi. Il tedesco moderno Moor, come il latino muria non indicano il mare, ma
la palude. Anche qui si postula una condizione ambientale presente nell’Europa settentrionale preistorica: un
paesaggio di acquitrini, di stagni e di lagune disteso intorno ad un mare semichiuso qual’è il Baltico.
Se si vuol collocare nel tempo questa stretta comunità celtico-germanica-italica-illirica-baltica, bisogna risalire
alla età del bronzo – ossia al secondo millennio a.C. – epoca nella quale i Celti non avevano ancora passato il
Reno, né gli Italici le Alpi, né gli Illiro-Veneti il Danubio mentre i Germani vivevano nelle loro sedi scandinave e
tedesco-settentrionali. In quanto ai popoli baltici, essi occupavano ancora la Prussia Orientale e confinavano coi
Veneti alla foce della Vistola (sinus Veneticum). La partecipazione dello slavo a questa comunità linguistica è
forse solo apparente, e sorge dal fatto che lo slavo dovette assimilare in Polonia gran parte del vocabolario
venetico. E’ solo all’alba dell’età del ferro che i Celti invadono la Gallia, gli Italici l’Italia, e gli Illiri la penisola
balcanica. Ciò porterà ad una graduale espansione dei Germani in tutto il territorio tra il Reno e la Vistola.
Latino e germanico
Le affinità europee della lingua latina e il suo vocabolario settentrionale si lasciano spiegare col cosiddetto
“indoeuropeo nord-occidentale” del Devoto, ossia con quella caratteristica affinità che si rinviene tra italico,
celtico, germanico, illirico ma anche baltico e slavo. Questa affinità, secondo il Krahe è quella
dell’indogermanisches Restvolk, ossia di quegli Indoeuropei rimasti nelle antiche sedi centro e nordeuropee.
Non è qui il caso di ripercorrere tutte le complesse vicende della formazione dell’ethnos indoeuropeo e della sua
progressiva dispersione. Mi limito a rimandare alla mia Introduzione a Religiosità indoeuropea di Hans F. K.
Guenther, dove, chi lo volesse, potrà trovare un’ampia discussione del problema indoeuropeo.
Basterà accennare che l’espansione indoeuropea è legata a due grandi movimenti migratorii. Il primo è quello
della ceramica cordata e delle asce di combattimento strettamente intrecciato con quello delle anfore globulari
che raggiunge sia la Grecia che l’Anatolia, sia il Volga che il Caucaso. A questo primo movimento, databile tra il
2300 e il 2000 a.C., si deve il distacco dal ceppo comune di Greci e Ittiti, Traci e Arii. Il secondo, più recente, si
colloca intorno al 1250-850 a.C.. E’ quello dei cosiddetti campi d’urne (Urnenfelder). Il focolare della
Urnenfelderkultur è la Lusazia, e, in genere, il paese tra l’Elba e l’Oder. Verso il 1400 a.C. la cultura lusaziana si
trasforma nella cultura dei campi d’urne, che prende il nome dai sepolcreti a fior di terra dove le urne si
allineano le une accanto alle altre. L’usanza di bruciare i morti ha antiche radici nell’Europa centrale, ma solo
ora assume un carattere organico e totalitario. E’ una nuova espressione di quel culto del cielo e del fuoco che
sta all’origine della religiosità indoeuropea.
Il simbolismo della Urnenfelderkultur si tocca con quello delle incisioni rupestri scandinave. Verso il 1250 la
cultura dei campi d’urne – estesa ormai a tutto il territorio tra Reno, Vistola e Alpi – esplode violentemente.
Tutta una serie di armi di foggia centroeuropea, i sepolcreti d’urne, monili, fogge, utensili di fabbricazione
austriaca, tedesca, boema, ungherese, si diffondono rapidamente verso il Sud. Ma anche all’Ovest è lo stesso. I
campi d’urne dilagano nella regione francese, nelle isole britanniche, fino in Catalogna. La migrazione dei campi
d’urne porta alla dispersione dell’indogermanisches Restvolk: Celti ad Ovest, Italici verso Sud, Illiri verso Sud-
Est. In Grecia, le città micenee crollano sotto l’urto della Emigrazione dorica”.
Ma gli incineratori non si sono fermati nel Lazio. Noto da quasi un secolo è il sepolcreto di Timmari, presso
Matera. E tuttavia solo dopo l’ultima guerra si son messi in luce nuovi sepolcreti a incinerazione a Torre
Castelluccia (Taranto), a Pontecagnano (Salerno), a Torre dei Galli (Pizzo Calabro), a Milazzo. Essi sono destinati
a mutare molte delle idee correnti sulle origini dei popoli italici.
Gli incineratori trovano l’Italia Centrale occupata dalla cosiddetta “cultura appenninica”, le cui origini si lasciano
ricercare fin verso il 1800 a.C. Substrato mediterraneo e superstrato mitteleuropeo si mescolano e si
condizionano l’un l’altro. Sui Colli Albani, dove l’appenninico non esiste, possiamo attenderci di cogliere con
maggiore purezza il superstrato nordico. Altrove, dove il substrato è ricco e tenace, l’elemento protoitalico è
assorbito. Questo è appunto il caso dell’Etruria. La moderna archeologia ha fatto giustizia della favola erodotèa
d’una provenienza del popolo etrusco dalla Lidia. V’è, sì, in epoca già tarda, una “moda orientalizzante”, ma non
dei precisi ritrovamenti che possano provare un’origine dall’Asia Minore. Il popolo etrusco, e la lingua etrusca,
sono indigeni. Ciò significa però che la cultura appenninica dell’età del bronzo non può essere indoeuropea.
Quegli elementi della cultura delle asce di combattimento penetrati fino in Toscana (Rinaldone), fino in
Campania (Gaudo), non possono essere stati niente dì più che avvisaglie d’indoeuropeismo. Poiché – se la
cultura appenninica fosse già italica – donde sortirebbero l’etrusco, il piceno di Novillara, e tutti gli altri tenaci
residui mediterranei testimoniati fin in epoca recente? L’origine dell’”italico”, o almeno del latino, non può non
essere ricollegata ai campi d’urne. La nascita dell’ethnos latino dalla cultura incineratrice dei Colli Albani è lì a
dimostrarcelo.
Quattro sono le principalì culture incineratrici nella prima età del ferro (1000-650 a.C.). La prima è quella
atestina, sui Colli Euganei, matrice della nazionalità veneta. La seconda è quella di Golasecca, nella Lombardia
Occidentale e nel Canton Ticino. La sua identificazione etnica è incerta. Sulla base di alcune iscrizioni, si può
parlare d’una parziale indoeuropeizzazione dei Liguri. Ancora più complesso è il caso della cultura villanoviana,
estesa dal bolognese alla Maremma attraverso l’Umbria, e sul cui impianto si sviluppa la fiorente civiltà etrusca.
Per la zona toscana si può pensare ad un assorbimento delle correnti italiche da parte del ricco substrato
appenninico. L’etrusco ne conserva tracce nel vocabolario: etrusco usil, “sole”, si riconnette ad un indoeuropeo
*sauwel, italico auselo, (nel nome della gens Aurelia “a sole dicta”). Etrusco aisar si riconnette al veneto aisus e
ai germanici Asen. Per la zona umbra bisognerà credere che correnti transadriatiche – attraverso le Marche
meridionali – abbiano sommerso un’area protovillanoviana affine a quella veneta e a quella latina. Le differenze
e le affinità tra umbro e latino verrebbero spiegate da questa ipotesi.
Nel Lazio a Sud del Tevere, gli incineratori trovano un paese pressoché deserto. I Colli Albani – coperti di foreste
-, le bassure del Tevere, le paludi Pontine non sembrano avere attratto coloni dell’età del bronzo. Gli
insediamenti degli incineratori si depositano particolarmente fitti sui Monti Albani: intorno, è la bassura
paludosa. I sepolcreti di Marino, Albano, Grottaferrata, Frascati, Rocca di Papa, Castel Gandolfo, Lanuvio,
Velletri, Ardea, Anzio ci forniscono un quadro esauriente della più antica cultura latina. Il rito è quello
mitteleuropeo dell’incinerazione. Fibule, rasoi, armi, rimandano agli esemplari austriaci e tedeschi. L’urna a
capanna è stata spesso spiegata con influenze indigene. Ma le urne a capanna dello Harz e della bassa Vìstola,
il nome stesso del Lat-ium, identico a quello della Lettonia (Lat-via), e lo stesso nome Roma, così frequente
nella Prussia Orientale per designare un “luogo sacro” (Rom-uva, Rom-inten), ci rimandano ad un area
“venetica” non troppo lontana dal golfo di Danzica (”sinus Veneticum“). Niente meno che Giacomo Devoto ha
calcato l’accento sulla menzione di Venetulani nell’elenco pliniano degli antichi popoli del Lazio, e ha spiegato il
nome Rutuli come “i biondi”.
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