Sei sulla pagina 1di 26

Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano.

La lingua italiana è una continuazione della lingua latina. In generale il latino è una lingua storico-
naturale che fa parte della famiglia linguistica indoeuropea, la stessa a cui appartengono le lingue
del gruppo germanico, slavo, baltico ed ellenico. Sono esistite molte varietà di un’unica lingua
chiamata latino e i fattori che le hanno prodotte sono diversi: il tempo, lo spazio, il livello stilistico,
la condizione socioculturale degli utenti e la modalità di trasmissione.
Diacronia.
I linguisti chiamano diacronica la variabile legata al tempo. A questo fattore di cambiamento non
sfuggì il latino, lingua di tradizione ultramillenaria. A titolo d’esempio può essere presa in
considerazione un’antichissima testimonianza: la nuova epigrafe del Garigliano. Presso il santuario
della dea Marica, nel Garigliano, al confine tra il Lazio e la Campania è stata ritrovata una scodella
risalente al V secolo a.C. Essa contiene due brevi iscrizioni, la più lunga delle quali, graffita in
scriptio continua recita:
esom kom meois sokiois Trivoia deom duonai nei pari med.
La scodella diffida chiunque dall’impadronirsi da un oggetto appartenente alle divinità. Questa
iscrizione è in latino arcaico.
Ricordiamo cinque varietà di latino:
- Latino arcaico, dalla fondazione di Roma al II secolo a.C.
- Latino preclassico, dalla fine del II secolo a.C. alla prima metà del I secolo a.C.
- Latino classico, dalla seconda metà del I secolo a.C. alla morte di Augusto nel 14 d.C.
- Latino post classico, dalla morte di Augusto alla fine del II secolo d.C.
- Latino tardo, dalla fine del II secolo al VII-VIII secolo d.C.

Diatopia.
È la variabile legata allo spazio.
Es. nell’italiano settentrionale il passato remoto è sempre sostituito dal passato prossimo
contrariamente a quanto accade nell’italiano meridionale.
Nel momento della massima espansione del dominio romano, II e III secolo d.C., il latino era
adoperato su un territorio che andava dalle coste atlantiche dell’Europa fino al Reno e oltre il
Danubio, dalle coste meridionali dell’Inghilterra fino a quelle settentrionali dell’Africa.
Successivamente si ebbe la deromanizzazione e la conseguente delatinizzazione di alcuni di questi
territori: l’Africa settentrionale fu conquistata dagli Arabi nel VII secolo, la Britannia fu
germanizzata così come l’aerea renana e meridionale ecc.
Il latino fu per secoli la lingua di scambio di una zona vastissima ma esso non era un blocco
uniforme.
Primo esempio.
Accanto al latino classico pulcher si utilizzavano forme come formosus e bellusm. Mentre al centro
dell’area romanza di privilegiò la forma bellus, nelle zone periferiche si preferì formosus.
Secondo esempio.
Comedere- latino classico= mangiare.
Nell’area romanza occidentale- comedere, nell’area centrale e orientale manducare.
Il fattore geografico si fuse con quello etnico nel determinare altre diversità, riconducibili al
sostrato linguistico prelatino.
I Romani non puntarono mai a un’assimilazione violenta delle genti soggette e non tentarono mai di
imporre a forza l’uso del latino. La classe dirigente romana si limitava ad assicurarsi il controllo
militare e fiscale del territorio, i popoli assoggettati abbandonarono la loro lingua d’origine per il
latino. In questo processo fu dato rilievo al prestigio che la lingua latina aveva acquisito.
Dimostrazione dell’importanza assunta dal prestigio è il confronto tra zone occidentali e zone
orientali. Nelle zone occidentali il latino fu adottato e la lingua d’origine fu abbandonata, in Oriente
per via della condizione di rilievo che era stata assunta dal greco, l’idioma non fu mai abbandonato.
Le lingue preesistenti al latino non scomparvero del tutto ma lasciarono qualche traccia nella
prosodia, nella pronuncia, nella morfologia, nella sintassi e nel lessico del latino acquisito dai vinti.
Per questo motivo tali lingue furono dette di sostrato: esse dimostrano, nel latino assunto dalle
popolazioni vinte, l’esistenza di uno strato linguistico soggiacente.
Ad esempio:
nei dialetti dell’Italia centromeridionale si registra la tendenza a realizzare come nn il nesso
consonantico latino ND. Questa particolarità proviene dai dialetti italici di tipo osco- umbro. (osco-
lingua dei Sanniti, parlata nel Sannio, nella Campania e in parte di Lucania e Calabria nonché dai
Mamertini e l’umbro parlato tra i fiumi Tevere e Nera nell’Umbria antica.
Diafasia.
È la variabile legata al livello stilistico di una produzione linguistica. Una lingua può cambiare tono
a seconda della situazione in cui si utilizza.
Diastratia.
È la variabile legata alla condizione e al livello culturale di chi adopera la lingua. In Roma antica e
nei territori dell’impero, il latino dei dotti era diverso dal latino degli umili: il primo era una lingua
colta, varia nelle parole e raffinata, il secondo era una lingua popolare, meno controllata
grammaticalmente e sintatticamente e piena di espressioni e di riferimenti materiali.
Diamesia.
È la variabile legata alla modalità di espressione di una lingua che può essere scritta o parlata.
Le fonti del latino parlato.
La fisionomia del latino parlato non è individuabile con facilità. Forme tipiche del latino parlato si
incontrano:
- Nelle iscrizioni murarie graffite o dipinte;
- Nei glossari, cioè nei vocabolari elementari che spiegano con espressioni del latino parlato
parole e costruzioni del latino classico;
- Nelle testimonianze di scriventi popolari, ad esempio le lettere dei soldati romani di stanza
nei territori dell’impero;
- Nelle opere di autori che tentano di riprodurre nella lingua scritta i tratti tipici della lingua
parlata come Plauto e Petronio;
- Nella letteratura di ispirazione cristiana;
- Nei trattati tecnici di architettura o culinaria, farmacologia o medicina veterinaria, i cui
autori si preoccupavano di dominare la materia specifica più che la lingua o lo stile;
- Nelle opere di grammatici e di insegnanti di latino. Costoro non si limitavano a illustrare le
regole della lingua ma segnalavano a lettori e allievi gli errori più frequenti e i modi per
evitarli.
La più famosa delle testimonianze di quest’ultima tipologia è l’Appendix Probi, opera di un
maestro di scuola del III secolo d.C: rimasto anonimo. Così chiamata perché p stata ritrovata al
termine di un manoscritto che conserva le opere di un autore che si è soliti indicare come
pseudo-Probo. Questa appendice è una lista di 227 parole organizzate in due serie diverse. Nella
prima serie le parole si presentano nella forma errata, secondo lo schema A, non B.
Speculum non speclum
Columna non colomna
Ai fini della ricostruzione dei fenomeni che portarono alla lingua italiana contano gli errori del
latino parlato.
Il metodo ricostruttivo e comparativo.
Lo strumento più importante per la ricostruzione del latino parlato è il confronto tra le varie
lingue romanze. Si parla di metodo ricostruttivo e comparativo. Esso consiste nel ricostruire una
forma non documentata sulla base dei risultati che se ne hanno nelle varie lingue romanze.
Quando una forma non è documentata nel latino scritto ma è ricostruita nel latino parlato la di fa
precedere con un asterisco.
Latino classico e latino volgare.
Il latino classico è una realtà linguistica facilmente individuabile: è il latino scritto così come
venne usato nelle opere letterarie dell’età aurea di Roma, 50 a.C.- 50 d.C., ed è rimasto
sostanzialmente lo stesso nel corso della storia.
Latino classico voleva dire latino di classe, anzi latino di prima classe. L’aggettivo classico fu
applicato per la prima volta da Aulo Gellio, un erudito del II secolo d.C., che estese alla
letteratura la divisione della popolazione romana in classi.
Il latino volgare è una realtà linguistica variegata e complessa, possiamo descriverlo come il
latino parlato in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni circostanza e da ogni gruppo sociale della
latinità. Da questa realtà multiforme nacquero le lingue romanze o neolatine.
Dal latino volgare all’italiano.
È lecito domandarsi per quale motivazione il latino volgare si sia affermato sul latino classico e
perché si sia trasformato fino a diventare una lingua diversa.
Questi due processi contigui sono stati accelerati da due fattori determinanti e da un terzo:
- La perdita di potere della classe aristocratica. A decadere assieme alla classe aristocratica
di il ceto di intellettuali che ne era l’espressione culturale e la lingua colta vide diminuire in
parte il suo prestigio;
- La diffusione del cristianesimo. La lingua delle prime comunità cristiane era stata il greco.
Il cristianesimo inflisse un colpo mortale al tino classico e favorì la diffusione del latino
volgare. La buona novella doveva raggiungere la popolazione nella sua interezza e quindi
doveva essere capita da tutti;
- Le invasioni barbariche. Dal IV secolo d.C.: portarono all’affermazione del latino volgare
in tutti i territori dell’impero romano. La chiesa impedì il totale dissolvimento del latino
classico poiché furono custodite e trascritte le opere dei grandi scrittori della Roma
repubblicana e imperiale. Nell’Europa occidentale. Emeridionale e in patrte anche in quella
orientale si continuò a parlare la lingua romana, un latino variegato. Le differenze tra le
lingue si fecero più forti. Il processo di trasformazione che dal latino condusse ai vari
volgari romanzi si concluse nell’VIII secolo d.C. e ne nacquero lingue molto diverse da
quella originaria.

Parole dotte e parole popolari.


Le parole popolari sono passate dal latino parlato all’italiano senza soluzione di continuità:
sono state usate ininterrottamente.
Le parole dotte invece non sono mai entrate nell’uso comune d zono rimaste confinate nei testi
latini scritti. A partire dal XIII secolo, quando il processo di trasformazione dal latino
all’italiano fu concluso, esse furono prese dai libri latini e inserite nei testi italiani allo scopo di
renderne più elegante lo stile. Queste parole furono accolte e adattate al sistema grammaticale
dell’italiano con qualche aggiustamento nelle desinenze.

Capitolo 2.
Foni e fonemi dell’italiano.
I suoni articolati in qualsiasi lingua sono indicati con il termine tecnico di foni. I foni che,
alternandosi negli stessi contesti fonetici, distinguono parole con diversi significati sono detti
fonemi. Il fonema è la più piccola unità di suono dotata di valore distintivo. Nell’uso scientifico
i fonemi che formano le parole si trascrivono entro sbarrette oblique, utilizzando simboli più
analitici e particolari e l’accento viene indicato da un apice prima della sillaba accentata. Se i
fonemi sono presi in considerazione per il loro aspetto fisico allora si trascrivono tra parentesi
graffe. I segni grafici adoperati per trascrivere i fonemi si dicono lettere o grafemi e il loro
insieme costituisce l’alfabeto di una lingua.
Fonemi sordi e fonemi sonori.
I fonemi si pronunciano utilizzando l’aria espiratoria che fuoriesce dai polmoni. Dai bronchi,
l’aria passa nella laringe e qui incontra due pliche muscolari dette corde vocali. Esse possono
assumere tre posizioni:
possono restare inerti, possono chiudersi impedendo il passaggio dell’aria, possono entrare in
vibrazione aprendosi e chiudendosi velocemente.
Quando le corde vocali rimangono inerti, il fonema si dice sordo. Quando le corde vocali
entrano in vibrazione il fonema si dice sonoro. In italiano le vocali sono tutte sonore.
Fonemi orali e fonemi nasali.
Dalla laringe l’aria sale nella faringe e di qui esce all’esterno o attraverso la bocca oppure, se il
velo palatino non si solleva impedendo all’aria di entrare dal naso, attraverso la bocca e il naso.
Nella prima circostanza i fonemi si dicono orali, nella seconda si dicono nasali.
Vocali.
Il suono delle vocali varia a seconda della posizione che la lingua assume all’interno della cavità
orale nell’articolarle. La a è la vocale con il massimo grado di apertura. Per distinguere vocali
aperte e chiuse si utilizzano rispettivamente l’accento grave è e l’accento acuto é.
Le semiconsonanti hanno durata più breve e questo spiega l’impressione che siano un suono a
metà tra vocali e consonanti. Anche se i e u non accentate non sono seguite ma precedute da una
vocale, la loro durata è più breve e si parla di semivocali.
Dittonghi.
L’unione di semivocale o semiconsonante e vocale genera un dittongo, ovvero un insieme di
due vocali che formano un’unica sillaba. Un dittongo è ascendente quando è formato da una
semiconsonante e da una vocale. Il termine ascendente deriva dal fatto che, quando vengono
pronunciati, la voce sale da un elemento atono a un elemento tonico. Un dittongo è discendente
quando è formato da una vocale e da una semivocale. Il termine discendente deriva dal fatto
che, quando vengono pronunciati, la voce scende da un elemento tonico a uno atono.
Trittonghi.
Sono formati da una semiconsonante, una vocale e la semivocale i, ad esempio miei.
Oppure sono formati da due semiconsonanti e da una vocale come in aiuola.
Iato.
Quando due vocali si pronunciano separatamente e appartengono a due sillabe diverse, si ha uno
iato. Uno iato si produce soprattutto quando le due vocali vicine non sono né i né u e quando
una delle due vocali è una i o una u accentata e l’altra è a, e, o come in armonia.
Consonanti.
Per identificare le consonanti si devono prendere in considerazione:
- Modo di articolazione
- Luogo di articolazione
- Tratto di sonorità o sordità.

Modo di articolazione.
Le consonanti si producono quando l’aria che esce dai polmoni incontra un ostacolo e la loro
articolazione può avvenire in tre modi: se il canale espiratorio si chiude completamente abbiamo le
occlusive dette anche momentanee o esplosive; se il canale si restringe si producono le costrittive
dette anche fricative, spiranti o continue; esistono le affricate che scaturiscono dalla fusione delle
categorie precedenti.
Luogo di articolazione.
Se il blocco del canale respiratorio avviene a livello delle labbra, avremo le labiali, se avviene a
livello dei denti anteriori avremo le dentali, se avviene a livello del palato anteriore avremo le
palatali, se avviene a livello del velo palatino avremo le velari.
Se il restringimento avviene tra labbro inferiore e incisivi superiori avremo le labiodentali, se la
lingua tocca gli alveoli degli incisivi superiori, allora avremo delle consonanti alveolari, se la
lingua si appoggia sul palato anteriore, avremo le palatali.
La r è detta vibrante perché quando viene articolata la lingua vibra sugli alveoli; la l è detta laterale
perché, quando viene articolata, l’aria fuoriesce ai lati della lingua.

Come si scrivono le consonanti nella grafia corrente.


I fonemi consonantici dell’italiano sono in tutto 21. In alcuni casi, lo stesso grafema rinvia a due
fonemi diversi: per esempio il grafema c indica sia l’affricata palatale che l’occlusiva velare. Per
sopperire a questa mancanza si utilizzano digrammi o trigrammi cioè due o tre lettere utilizzate per
indicare un unico fonema.

Consonanti scempie e doppie.


Alcune consonanti, in posizione intervocalica, possono essere pronunciate con una diversa energia
articolatoria e quindi possono essere scempio o doppie o tenui e intense.
Capitolo 3.
Dal latino all’italiano: alcuni mutamenti fonetici.
Il latino aveva dieci vocali che potevano essere realizzate in due modi, dipendenti dalla diversa
durata o quantità della pronuncia: una vocali poteva essere breve o lunga,.
Anche l’italiano conosce l’opposizione tra vocali brevi e vocali lunghe. Una qualunque vocale,
seguita da una consonante semplice, è lunga; la stessa vocale, seguita da una consonante doppia, è
breve. In latino, l’opposizione tra vocali brevi e vocali lunghe, consentiva di distinguere parole,
forme e significati diversi. In italiano, la distinzione non ha un’analoga capacità distintiva. Da un
certo momento in poi nel latino parlato le vocali lunghe cominciarono a essere pronunciate come
chiuse e le vocali brevi come aperte. Quando il latino si diffuse in Europa e in Africa, si sovrappose
a lingue che non possedevano l’opposizione tra vocali brevi e vocali lunghe. Allora il senso della
quantità cominciò a perdersi. Per l’Africa in particolare, si può allegare una testimonianza di
sant’Agostino, il quale avvertiva che le orecchie africane non erano in grado di distinguere tra
vocali brevi e vocali lunghe e che era generata una confusione tra la o breve di os, osso, e la o lunga
di os, bocca. Nel latino volgare questa differenza non sopravvive e rimase attiva solo la distinzione
tra vocali aperte e vocali chiuse.

Una sillaba si dice libera o aperta quando termina per vocale, si dice implicata o chiusa quando
termina per consonante. Nel passaggio dal latino all’italiano la e breve ronica e la o breve tonica
latina in sillaba libera hanno prodotto i dittonghi iè e uò; in sillaba implicata si sono trasformate in e
aperta e in o aperta.
L’accento.
Le parole latine avevano un accento di tipo musicale, consistente in un innalzamento della voce. La
posizione dell’accento era determinata dalla durata o quantità della penultima sillaba: se la
penultima sillaba era lunga, l’accento veniva a trovarsi su questa, se era breve, l’accento veniva a
trovarsi sulla sillaba che la precedeva, la terzultima. Questa legge della penultima valeva per le
parole che avevano almeno tre sillabe, sulle parole bisillabiche l’accento si trovava sulla penultima
sillaba, breve o lunga che fosse. La quantità di una sillaba non coincideva necessariamente con la
quantità della vocale che la componeva. Una vocale breve produceva una sillaba breve se era in
sillaba lunga ma produceva una sillaba lunga se era in sillaba implicata; una vocale lunga produceva
sempre una sillaba lunga, sia che fosse in sillaba libera sia che fosse in sillaba implicata.
In italiano l’accento passò da musicale a intensivo. Intensivo è il tipo di accento che consiste nella
massima forza articolatoria che si concentra sulla sillaba di cui fa parte la vocale accentata.
Non è cambiata la posizione dell’accento.
Il mantenimento della posizione originaria dell’accento non si è avuto in alcuni verbi composti, nei
quali si è verificato il fenomeno della ricomposizione. Nella formazione del composto, la vocale
tonica del verbo di base si era abbreviata o aveva cambiato timbro. Nel passaggio dal latino classico
al latino volgare e poi all’italiano, questi e altri verbi furono ricomposti: tutte le volte che il verbo di
base era riconoscibile, i parlanti lo ripristinarono nella forma e nell’accentazione originaria.
Fenomeni del vocalismo.
Monottongamento di AU, AE, OE.
Il latino classico aveva tre dittonghi: au, ae, oe. Una tendenza del latino parlato fu quella di
monottongare questi dittonghi, cioè di pronunciarli come un’unica vocale che, in quanto risultante
da due vocali, avrebbe dovuto essere lunga e perciò caratterizzata, nei successivi sviluppi, da un
timbro chiuso. Per quel che riguarda il dittongo AU, produsse una o lunga con timbro chiuso
soltanto in poche parole come causa- coda. Generalmente monottongò in una o aperta. Questo
fenomeno si produsse in Toscana nell’VIII secolo d.C., il primo caso è documentato in una carta
latina medievale pistoiese del 726.
Il dittongo AE si tramutò in e lunga che fu pronunciata subito aperta. Il dittongo AE in posizione
tonica ha avuto lo stesso trattamento della e breve che in latino volgare era aperta. Monottongando
in italiano ha dato ie in sillaba aperta e e aperta in sillaba implicata.
OE in italiano passa in una e lunga che ha dato regolarmente e chiusa.
Dittongamento toscano.
Il dittongamento di e ed o aperte toniche in sillaba aperta è detto toscano perché è tipico del
fiorentino e degli altri dialetti di Toscana. In sillaba aperta la e aperta derivata da e breve latina o dal
dittongo AE, si dittonga in je (e aperta), e la o aperta derivata da o breve latino si dittonga in wo
(sempre aperta).
La regola del dittongo mobile.
Nella flessione di alcuni verbi con e aperta o o aperta nella radice si registra l’alternanza tra forme
con dittongo e forme senza dittongo come dolore duole, soleva. Questa oscillazione risponde alla
regola del dittongo mobile: il dittongamento si ha solo nelle forme rizotoniche, cioè accentate sulla
radice, e non sulle forme rizoatone, cioè non accentate sulla radice.
Naturalmente non si ha dittongamento neanche nelle forme verbali in cui e ed o aperta sono in
sillaba implicata. La regola del dittongo mobile ha interessato anche parole diverse che fossero
corradicali, cioè che provenissero dalla stessa radice nominale o verbale come ruota- rotaia. Il
dittongamento si è avuto solo quando nei vari termini della serie queste vocali erano toniche, non
quando erano atone. In molti verbi questa regola è andata perdendosi: in alcuni casi le forme
rizotoniche con dittongo sono state abbandonate per l’influsso di forme rizoatone prive di dittongo e
il dittongo è scomparso dall’intero paradigma verbale, in altri casi è accaduto il contrario: il
dittongo delle forme rizotoniche si è esteso alle forme rizoatone per analogia.

Un esempio di tipo (a) è dato dalla coniugazione del verbo levare. Al presente indicativo, la base
latina levo, lèvas, lèvat in un primo tempo ha dato lièvo, lièvi, lièva; successivamente queste forme
hanno sentito l’influsso delle forme rizoatone non dittongate levate, leviamo, levare, levava, ecc. e
si sono rimonottongate in lèvo, lèvi, lèva.
Nel caso di lèvo, lèvi, lèva la È originaria si è mantenuta aperta; in altri casi il processo di
allineamento alle forme rizoatone, in cui la È atona ha pro dotto una [e], è stato totale, e da È si è
avuta una [e] anche sotto accento. Per esempio, la base latina nègat in italiano antico ha prodotto
nièga\ successi vamente questo nièga, per influsso delle forme rizoatone negate, neghiamo, negare,
ecc., si è trasformato in nèga (con [ε]) e infine in néga (con [e]).

Un esempio di tipo (b) è dato dalla coniugazione del verbo suonare (o sonare, stando alla regola del
dittongo mobile). Nel paradigma di questo ver bo, le forme rizotoniche erano dittongate (sono,
sònas, sónat - con ò tonica - hanno dato regolarmente suòno, suòni, suona), mentre le forme
rizoatone non erano dittongate (sónatis, sònabat, sonare - con ò atona - hanno dato regolarmente
sonate, sonava, sonare). Successivamente, le voci non dittongate hanno sentito l’influsso di quelle
dittongate e hanno preso il dittongo infatti oggi si scrive suonate e non sonate ecc.

Il dittongamento di e breve e o breve toniche in sillaba libera non è presente in tutte le parole. Non è
presente nelle parole dotte. Il dittongamento non si produce in tutte le parole proparossitone come
pecora. Il dittongamento non si produce in tre parole parossitone: bene, nove e lei.

Il mancato dittongamento in bene si spiega col fatto che nella pratica concreta della lingua, in
genere questa parola è sempre accompagnata e nel contesto della frase l’accento tende a cadere
sull’altra parola.

In nove si spiega con l’intento di evitare confusione con nuove.

Illaei è una forma latino-volgare di dativo femminile singolare proveniente dal dimostrativo latino
ille, illa, illud. Il latino classico utilizzava al dativo la forma illi che il latino volgare sostituisce con
illui e illaei. Da qui derivano lui e lei. Non è facile spiegare perché ae non sia dittongato in Toscana.
Possiamo ipotizzare che sia enytrata nell’uso latino volgare quando il fenomeno del dittongamento
spontaneo era ormai chiuso cioè dopo il VII secolo.

Nell’italiano attuale il dittongamento non si verifica in era erano. In italiano antico erano dittongate,
la successiva scomparsa si deve allo stesso motivo che porta a bene.

Nell’italiano attuale il dittongamento non compare nelle parole in cui e aperte e o aperta provenienti
da e e o breve toniche latine seguono il gruppo consonante + r come nel caso in breve. In realtà
nell’italiano antico fino al Trecento il dittongamento era normale anche in contesti come questo. A
Firenze la riduzione del dittongo dopo consonante + r si affermò a partire dal 400 ed essa fu
determinata dall’influsso dei dialetti toscani occidentali. A metà Quattrocento si diffuse la riduzione
di ié in è e poi a metà Cinquecento si diffuse la riduzione di uò in o. a partire dalla seconda metà del
500 la riduzione di iè a è e di uò a ò dopo consonante + r si estese dal fiorentino all’italiano
praticato dagli scrittori, anche non fiorentini. Nell’italiano attuale forme con il dittongo uò sono in
fase di declino se precedute da palatale come in figliuolo. Una forte spinta all’abbandono fu data da
Alessandro Manzoni che eliminò queste forme nella revisione dei Promessi sposi. Nella lingua della
poesia sono state frequenti forme non dittongate dovute all’influsso del siciliano antico. La lingua
poetica italiana ha un consistente fondo siciliano perché siciliana fu la prima esperienza poetica
collettiva praticata sul nostro territorio.
Anafonesi.
Con questo termine si intende una trasformazione che riguarda due vocali in posizione tonica: e
chiusa e o chiusa. In determinati contesti fonetici queste due vocali passano rispettivamente a i e u.
il termine anafonesi si spiega con il fatto che il passaggio costituisce un innalzamento articolatorio.
È un tratto tipico dell’ambiente Toscano escluse le città di Siena e si Arezzo. L’anafonesi si verifica
in due casi.
Nel primo caso la e tonica si chiude in i quando viene seguita da laterale palatale e da nasale
palatale a loro volta provenienti da lj e da nj: consilium- consèglio- consiglio.
Nel secondo caso e tonica e o tonica si chiudono in i e in u se sono seguite da una nasale velare,
cioè da una nasale seguita da velare sorda o sonora. Vedi linguam- lengua- lingua.
In alcuni versi la chiusura di queste vocali, dopo aver investito le forme rizotoniche, si è estesa per
analogia alle forme rizoatone ad esempio vinco- venco- vinco e poi da questo vincete, vincevano
ecc. l’anafonesi è una delle prove più evidenti della forentinità dell’italiano.
Chiusura delle vocali toniche in iato.
La e aperta, la e chiusa, la o aperta, la o chiusa tonica, se precedono una vocale diversa da i con
cui formano uno iato, tendono a chiudersi fino al grado estremo i e u.
Ad esempio:
ego- non ieo ma éo- èo- io.
Il fenome della chiusura in iato non si produce nella e tonica presente nelle forme di imperfetto
senza la v dei verbi di seconda coniugazione come avea, temea, tenea ecc. perché forme simili si
sarebbero confuse con le forme dell’imperfetto senza v dei verbi di terza: sentia, udia, venia.
La chiusura in iato non si produce neanche nei latinismi che non subiscono mutamenti in generale.
Chiusura della e protonica in i.
In posizione protonica, cioè prima della sillaba accentata, una e chiusa tende a chiudersi in i come
in decembrem- decembre- dicembre.
In alcune parole questo passaggio si è avuto più tardi che in altre. In altre parole non si è avuto
affatto come nel caso di febbraio.
In alcuni derivati questa assenza si spiega per l’influsso della parola base, in cui la e non è protonica
e quindi non passa a i. è possibile quindi che fedele non sia diventato fidele per via dell’influsso
della parola fede. La naturale tendenza a uniformare la flessione dei verbi ha fatto sì che anche nelle
forme rizoatone come beveva si mantenesse la e delle forme rizotoniche come bevo. Infiine la e
protonica non si chiude in i nei latinismi e nei prestiti da altre lingua come designare.
Chiusura di i in protonia sintattica.
Il fenomeno della chiusura di e protonica è stato uniforme nei monosillabi con e, nei quali la e si è
presentata in posizione protonica non all’interno della parola ma all’interno di una frase come de
nocte- di notte. Questo tipo di protonia si chiama protonia sintattica.
Chiusura della o protonica in u.
Dalla base latina occido- occido- uccido.
Come si spiega l’alternarsi di odo, udiamo ecc.?
Queste voci derivano da parole latino con il dittongo AU. Questo AU diventa una o tonica e dunque
aperta in odo, ed è diventata protonica in udiamo ecc.
La chiusura della o protonica in u è meno diffusa della chiusura della e protonica in i. in alcune
parole come orecchia non si è prodotta, in altre la forma con chiusura della o protonica in u si è
alternata alla forma senza chiusura come obbedire e ubbidire. In altri casi au non è diventato o ma è
diventato a come in agosto.
Chiusura di e postonica in sillaba non finale.
Anche la e postonica si chiude in i. è un fenomeno con due importanti limitazioni: la e posttonica
che subisce chiusura in i proviene da i breve e non da e breve e non appartiene mai alla sillaba
finale di una parola ma sempre a una sillaba interna quindi il fenomeno si può verificare solo in
parole di almeno tre sillabe.
Es. comicem- cimece- cimice
Passaggio di ar intertonico e protonico a er.
Le parole di quattro o più sillabe non hanno un solo accento ma due: l’accento principale, su cui si
concentra la massima energia articolatoria, e l’accento secondario, su cui si concentra una parte
dell’energia articolatoria. In alcune di queste parole, determinate vocali o determinati gruppi fonici
posti tra l’accento secondario e l’accento principale hanno subito delle trasformazioni come nel
caso di ar fiorentino in er.
Il fenomeno si è verificato:
nelle parole con uscita in erìa come frutteria.
Con il suffisso arello che è passato a erello come fattarello- fatterello
Con il suffisso areccio a ereccio, come boscareccio in boschereccio.
Il caso più importante riguarda le forme del condizionale dei verbi di prima coniugazione come
canatarò- canterò.
Labializzazione della vocale protonica.
In alcune parole una e e una i protoniche seguite da una consonante labiale come p,b,f,v,m sono
state attratte nell’orbita articolatoria di questa consonante e si sono trasformate in o o in u. si dice
che si sono labializzate poiché o e u possono essere considerate non solo velari ma anche labiali in
quanto vengono articolate con uno spostamento in avanti delle labbra.
Es. demandare- demandare- dimandare- domandare.
Fenomeni del consonantismo.
Varie consonanti si mantengono inalterate nel passaggio dal latino all’italiano come la d, m, n, l, r e
f.
Assimilazione consonantica.
L’assimilazione consonantica regressiva o più semplicemente l’assimilazione regressiva è il
fenomeno per cui, in un nesso di due consonanti difficili da pronunciare, la seconda consonante
assimila a sé la prima, dando origine a due consonanti doppie come in advenire- avvenire.
In alcune parole la sequenza consonantica cs resa con x non ha prodotto una sibilante intensa ma
una sibilante palatale intensa come laxare- lasciare.
Mentre il fiorentino e dunque l’italiano ha conosciuto solo l’assimilazione regressiva, altri dialetti
dell’Italia centromeridionale hanno conosciuto anche l’assimilazione consonantica progressiva. In
questo caso è la prima consonante ad assimilarsi alla seconda come nd che diventa nn.
Caduta di consonanti finali.
Nelle parole latine, tre consonanti ricorreva con la particolare frequenza in posizione finale: la m, la
t e la s.
Nel latino parlato m e t cadono molto presto.
La s finale ha subito varie trasformazioni:
- Nei monosillabi si è palatalizzata in alcuni casi come in nos- noi, in altri si è assimilata alla
consonante iniziale della parola successiva – è il fenomeno del raddoppiamento
fonosintattico.
- Nei polisillabi ha palatalizzato la vocale precedente come capras- capre.

Palatalizzazione dell’occlusiva velare.


Questo fenomeno interessò la pronuncia del latino dal V secolo d.C.
Nel latino tardo davanti a e e i, le velari si sono palatalizzate attratte dall’orbita articolatoria delle
vocali.
In italiano questo processo ha interessato la velare sorda in posizione iniziale e interna, e la velare
sonora in posizione iniziale. In posizione interna la g, dopo la palatalizzazione, ha subito
un’ulteriore trasformazione, in alcuni casi come legge si è intensificata in altri si è dileguata perché
assorbita da una i successiva detta omorganica perché pronunciata con gli stessi organi articolatori
della consonante precedente, per esempio sagittam- saitta- saetta.
Labiovelare.
Con il termine labiovelare intendiamo la combinazione di una velare seguita da una w. Se la velare
di cui si compone il nesso è sorda si parla di labiovelare sorda, se è sonora si parla di labiovelare
sonora. Nel latino classico la labiovelare sorda poteva trovarsi sia all’inizio sia all’interno di parola
mentre la sonora era solo interna. Una parola italiana che inizi per labiovelare sonora non è latina
ma germanica. In una parola italiana la labiovelare sorda può essere primaria o secondaria. Si dice
primaria la labiovelare che esisteva già in latino e secondaria quella che si è prodotta nel passaggio
dal latino volgare all’italiano. Se è seguita da una A, la labiovelare in posizione iniziale si conserva,
in posizione intervocalica si conserva e rafforza la componente velare, vedi qualis- quale, aquam-
acqua.
Se è seguita da una vocale diversa da A, la labiovelare perde la componente labiale w e si riduce a k
ad esempio quid- che.
La labiovelare secondaria si mantiene intatta quale che sia la vocale che segue. La labiovelare
sonora interna si mantiene in tutti i contesti come dimostrano le parole anguilla e lingua. La gw
interna può aversi per sonorizzazione di kw per esempio aequalem- equale- eguale.
Spirantizzazione della labiale sonora intervocalica.
In posizione iniziale o dopo consonante la B latina si è conservata, seguita da R è diventata intensa
e in posizione intervocalica si è trasformata in una labiodentale sonora, passando così dalla classe
occlusiva a quella costrittiva o spirante come debere- dovere.
Il passaggio ha origini molto antiche, nei primi secoli dell’era volgare però la costrittiva proveniente
dall’occlusiva bilabiale non fu la labiodentale ma una bilabiale che rendiamo come beta. Questo
fonema è sconosciuto all’italiano ma è ben documentato altrove: è il suono costrittivo bilabiale che
si registra in spagnolo. Quindi prima si è avuta questa trasformazione, poi in alcune parti della
Romània si è avuta un’ulteriore evoluzione: i parlanti hanno modificato il luogo di articolazione
passando da bilabiale a labiodentale. In alcuni casi, come nella lingua poetica, la labiodentale
sonora intervocalica si è indebolita fino a scomparire e fino ad avere forme in -ea, -eano e in -ia, -
iano.
La B intervocalica si è mantenuta nei latinismi e nei germanismi. Viene mantenuta nei germanismi
poiché essi si diffondono quando il fenomeno della spirantizzazione non era più attivo.
Sonorizzazione delle consonanti.
Definiamo sonorizzazione il processo di indebolimento articolatorio per il quale una consonante
sorda di trasforma nella sonora corrispondente: p-b, k-g, t-d.
In tutta l’area romanza occidentale, le occlusive sorde latine in posizione intervocalica e
intersonantica (cioè tra vocale e r) si sono trasformate nelle sonore corrispondenti. Per la labiale in
particolare, alla sonorizzazione ha fatto seguito la spirantizzazione in v.
Amicum- amigo.
Questa sonorizzazione non avviene nell’ Italia mediana. La Toscana si colloca in una posizione
intermedia, la sonorizzazione della velare intervocalica e intersonantica ha interessato grosso modo
la metà degli esempi utili. La sonorizzazione e successiva spirantizzazione della labiale p e la
sonorizzazione della dentale t hanno interessato un po’ meno degli esempi utili. Questo spiega
perché in italiano le parole con l’occlusiva sorda intervocalica e intersonantica si alternando con le
parole con l’occlusiva sonora. Nella maggior parte dei casi si è sonorizzata anche la sibilante sorda
del latino. Si mantiene nei suffissi in -oso, -ese e nelle voci in cui non era intervocalica.
Nell’area romanza occidentale il processo di sonorizzazione delle consonanti intervocaliche ha
interessato anche la labiodentale sorda. In posizione intervocalica essa non esisteva nelle parole di
origine latina e si incontrava solo nei prestiti provenienti dal greco o dai dialetti osco-umbri. Essa si
è conservata nel fiorentino, mentre si è sonorizzata nei dialetti del Nord.
Secondo alcuni studiosi in Toscana il processo non è stato generale perché la tendenza spontanea
sarebbe stata quella del mantenimento della sorda e i vari casi si sonorizzazione andrebbero spiegati
come singoli prestiti provenienti dai dialetti del Nord. Secondo altri la sonorizzazione sarebbe stata
generale e i casi di conservazione andrebbero spiegati come latinismo. Questa seconda spiegazione
è inaccettabile. È difficile che si tratti di latinismi visto il loro numero e soprattutto la sorda
intervocalica viene conservata in parole legate alla vita quotidiana dei contadini che non potrebbero
essere latinismi.
Che si tratti di un fenomeno importato è dimostrato dai toponimi, in particolare quelli relativi ad
aree circoscritte come Prato e non Prado. Si dovrà pensare a una pronuncia sonorizzata
dell’occlusiva sorda che in Toscana si determinò per moda, a imitazione della pronuncia
settentrionale. A favorirla furono i commercianti, imprenditori e artigiani che giunsero in Toscana e
nelle regioni circostanti.
Nessi di consonante+ iod.
Nel passaggio dal latino all’italiano, lo j ha costantemente trasformato la consonante che lo
precedeva. La trasformazione più ricorrente è stata il raddoppio della consonante stesso, il
fenomeno risale al I-II secolo d.C.
Labiale e labiodentale + iod.
Nessi pj, bj e vj. Loj ha prodotto il raddoppiamento della labiale che la precedeva come sepiam-
seppia. Poiché all’interno di parola la v latina si è confusa con la b, il nesso vj ha subito lo stesso
trattamento di bj, dando luogo a bbj.
Velare + iod.
Nessi kj e gj.
Il processo ha conosciuto tre fasi:
- Nella prima fase j ha intaccato la velare, trasformandola in affricata palatale sorda o sonora a
seconda della sonorità della velare
- Nella seconda fase j ha prodotto il raddoppiamento dell’affricata precedente
- Nella terza fase j si è dileguato

Regiam- regja- Redzja- reddzia- reggia.


Non ci si lasci ingannare dalla presenza della i in parole come faccio o reggia: quella i non è la
rappresentazione grafica dello iod ma una i diacritica, cioè un espediente grafico per rappresentare
la pronuncia palatale e non velare di C e G.
Dentale+ iod.
Nesso tj.
Il nesso tj in Toscana ha avuto due esiti:
in alcune parole si è trasformato in affricata dentale sorda ts doppia se il nesso era tra due vocali,
come in aretium- arezzo, scempia se il nesso era tra consonante e vocale come in fortia- forza.
In altre parole si è trasformato in una sibilante palatale sonora (rappresentata con la mia z), questo
fono non esiste nell’italiano standard ma rappresenta l’esito galloromanzo del nesso tj. poiché nella
grafia si rende con gi, nella pronuncia dell’italiano ufficiale esso è stato assimilato a un altro suono
quello dell’affricata palatale sonora.
In alcune parole la medesima base latina ha avuto due continuatori, uno in dz e l’altro in tts come
pretium- pregio e prezzo.
Attenzione a non confondere questi casi di allotropia in cui dalla base latina si possono avere due
esiti, entrambi popolari, dai casi in cui si produce un termine popolare e uno dotto.
In un gruppo di verbi di prima coniugazione di formazione tarda, il nesso tj preceduta da una
consonante ha prodotto un’affricata palatale sorda, questo è accaduto in:
cuminitiare- cominciare
gli studiosi non sono ancora riusciti a spiegare il perché. Non si può dire che esso sia determinato
dalla consonante che precede il nesso perché in altre parole la medesima presenza non ha impedito
lo sviluppo dell’affricata alveolare come in nuptias- nozze.
Nesso dj.
Ha avuto in Toscana due esiti paralleli: in alcune parole ha formato l’affricata alveolare sonora dz,
doppia anche se il nesso era tra due vocali e scempia se tra vocale e consonante come prandium-
pranzo; in altre parole si è trasformato in affricata palatale sonora intensa come hodie- oggi.
Dalla medesima base latina radium abbiamo razzo e raggio.
Nasale+ iod.
Nesso mj: j ha prodotto il raddoppiamento della nasale labiale che la precedeva come simiam-
scimmia.
Nesso nj: due fasi; nella prima j ha prodotto il raddoppiamento della nasale passando da nj a nnj;
nella seconda j ha intaccato la nasale velare intensa attirandola nella sua orbita articolatoria e
trasformandola in una nasale palatale intensa come iunium- junnjum- giugno.
Laterale+ iod.
Lj- due fasi: nella prima j ha prodotto il raddoppiamento della laterale ed è passato da lj a llj, nella
seconda j ha intaccato la laterale intensa, attirandola nella sua orbita articolatoria e trasformandola
in laterale palatale intensa come in filiam- fillja- figlia.
Vibrante+ iod.
Rj: c’è una differenza tra Toscana e il resto d’Italia.
In Toscana la R è caduta e il nesso RJ si è ridotto a J.
I due suffissi -aio e -oio in parole come fioraio, granaio ecc. sono la continuazione dei suffissi latini
-arium, -orium. Anche in questi casi la R di RJ è caduta. In molti dei dialetti del resto della penisola,
invece, la R si è mantenuta e a cadere è stato J. Alcune parole provenienti da questi dialetti sono
state accolte in italiano per esempio la forma -moro per muoio è normale nella lingua poetica.
Anticamente, il plurale delle parole in -aio, anche in Toscana, era ari e ai come notaio- notari ecc.
questa evoluzione muoveva da un nominativo plurale latino in arii. Dopo il conguaglio delle due I
finali, la R non cade più perché non c’è lo j a determinare la caduta. In un secondo tempo l’uscita in
-ai, rimodellata per analogia sul singolare, ha sostituito l’uscita in -ari. L’analogia ha operato in
direzione opposta nella parola denaro.
Sibilante+ iod.
Sj- a Firenze e in Toscana ha avuto due esiti paralleli: in alcuni casi ha prodotto la sibilante palatale
sorda tenue, in altri ha prodotto una sibilante palatale sonora tenue. Essi sono due foni propri della
pronuncia toscana, non rappresentati nella pronuncia dell’italiano, in questa sono stati sostituiti
dalle affricate palatali sorda e sonora. Il doppio trattamento del nesso -sj si spiega tenendo presente
il fenomeno della sonorizzazione delle consonanti intervocaliche.
Nessi consonante+ l
Si trasformano in consonante + j. Se è all’inizio di parola o dopo una consonante, non ci sono
trasformazioni. Se è in posizione intervocalica, lo j che si è prodotto determina il raddoppio della
consonante precedente come in fibulam- fibbia.
Gl in posizione intervocalica è un caso particolare. Nel fiorentino antico si trasforma in gj e poi in
ggj come vigilare- vegghiare. A partire dal primo 500 vengono modificate in vegliare. Nel
fiorentino di campagna del 400 la laterale palatale intensa proveniente dal nesso lj fu sostituita con
la sequenza ggj, con velare sonora intensa quindi invece di figlio- figghio. A Firenze città la censura
nei confronti di queste forme non si fece attendere e quindi abbiamo per le forme grammaticalmente
corrette l’ipercorrettismo.
Casi particolari di nessi di consonante+ l.
Sl- nesso sconosciuto nel latino classico. In posizione iniziale, si incontra solo nei prestiti
provenienti da lingue diverse dal latino o in parole del latino medievale. In posizione interna si è
formato in seguito alla sincope di una u breve postonica interna alla sequenza sul come Insulam che
in italiano diede Ischia. Per renderne più agevola la pronuncia fu inserita una k all’interno come
insulam- isclam- ischia.
Tl- sconosciuto al latino. In latino volgare si forma in seguito alla sincope di una u postonica o
intertonica nella sequenza tul. Il nesso secondario tl si è confuso con cl e ha dato lo stesso risultato
kkj come il vetulum- vetlum- veclum- vecchio.
Fenomeni generali.
Prostesi.
Consiste nell’aggiunta di un corpo fonico all’inizio di parola. È il fenomeno che si registra in
sequenze del tipo per iscritto e simili: quando una parola terminante per consonante era seguita da
una parola iniziante per s+ consonante, all’inizio di questa seconda parola il parlante inseriva una i
che rendeva più agevole la pronuncia.
Epitesi.
Consiste nell’aggiunta di un corpo fonico alla fine di una parola. È un fenomeno tipico dell’italiano
antico. L’italiano tende a rifiutare la finale consonantica e proprio per evitarla si può sviluppare
l’epitesi di una vocale o di una sillaba. L’italiano antico tendeva anche ad evitare le parole ossitone
aggiungendo alla vocale finale accentata un’altra vocale, in genere una e o una o, oppure una
sillaba, in genere ne. Vedi virtùe. Questa tendenza dipende dal fatto che queste parole fossero rare. I
casi di ossitonia si limitavano alle voci di prima e terza persona del futuro semplice, alla terza
persona del perfetto dei verbi di prima coniugazione e di alcuni verbi di seconda e di terza
coniugazione. La diffusione di parole tronche si è avuta grazie a parole piante come bontade in cui
vi fu un’apocope aplologica.
Epentesi.
Consiste nell’aggiunta di un corpo fonico all’interno di parola. L’italiano ha conosciuto sia
l’epentesi consonantica che si è prodotta quando c’era una sequenza di due vocali come viduam-
vedoa, l’epentesi vocalica il caso più importante è quello dell’epentesi di i in alcune parole con
sequenza consonantica sm. Nell’epentesi consonantica in genere vengono aggiunte la labiodentale
sonora e in italiano antico la velare sonora.
Aferesi.
Consiste nella caduta di un corpo fonico all’inizio di una parola, sto per questo.
Il fenomeno per cui due parole in sequenza si uniscono formando un’unica parola viene detto
univerbazione. Esso si spiega tendendo conto del fatto che, nel parlato, non c’è nessun tipo di
interruzione tra le parole. In alcuni casi l’aferesi ha contribuito alla formazione di parole italiane
come illui- lui.
Discrezione dell’articolo.
Nella realizzazione della catena parlata parole grammaticalmente e semanticamente separate si
pronunciano unite. Data una parola iniziante per l o per la, in alcuni casi il parlante interpreta questi
foni iniziali come articoli determinativi e quindi li separa dalla parola come in oscurum- oscuro-
l’oscuro- scuro.
Analogamente in diverse parole inizianti per A questa vocale è stata interpretata come parte finale
dell’articolo femminile ed è stata separata dalla parola come abbatissam- abbadessa- a badessa-
badessa.
È frequente anche la discrezione di n iniziale interpretata come parte finale dell’articolo
indeterminativo ad esempio arancio che deriva da narang.
Concrezione dell’articolo.
Poiché articolo e nome formano un tutt’uno nella segmentazione della catena parlata, talvolta
l’articolo è diventato parte del nome. È quanto accade nella parola lastrico proveniente dal latino
astracum.
Sincope.
È la caduta di un corpo fonico all’interno di parola. A cadere sono le vocali o le sillabe più deboli,
la sincope non investe mai una sillaba accentata. In molte parole italiane la sincope ha interessato le
vocali postoniche e le intertoniche. Il fenomeno è molto antico ed è attestato nell’Appendix Probi.
La sincope della vocale postonica si è avuta in molte parole proparossitone del latino parlato e poi è
passata in italiano come dom(i)na(m).
La sincope della vocale intertornica si è avuta in alcune parole di più di tre sillabe come bontade-
bontà.
Apocope.
È la caduta di un corpo fonico in fine di parola. Si distingue in apocope vocalica e apocope
sillabica. Il caso più importante è quello dell’apocope per aplologia, prodottasi in parole terminanti
in -tà e in tù come bontà. L’aplologia è la cancellazione di suoni simili o identici vicini tra loro.
Bontà e città derivano le basi latine terminanti in atem o utem. Prima assistiamo alla sincope della
vocale intertonica e poi alla sonorizzazione dell’occlusiva dentale sorda intervocalica che ha
prodotto la sillaba finale -de come bonitatem- bontate- bontade.
Era molto facile che queste parole, nel concreto degli scambi comunicativi, fossero seguite da un
elemento funzionale comela preposizione de, variante antica di di. Così vennero a determinarsi
delle sequenze in cui si avevano due sillabe de consecutive, la prima finale di parola e la seconda
preposizione. Nel parlato questa ripetizione è stata evitata attraverso l’apocope di -de finale di
parola. Nell’italiano moderno l’apocope sillabica è presente in pochi casi, è facoltativa con
l’aggettivo grande, con il pronome un poco, mentre è obbligatoria con l’aggettivo santo. I casi delle
preposizioni articolate del e al e degli aggettivi bel e qual vanno interpretati non come esempi di
apocope sillabica ma come esempi di apocope vocalica: invece della caduta dell’intera sillaba -lo in
dello, allo, quello bisognerà pensare alla caduta della sola vocale finale e alla conseguente riduzione
a consonante semplice della consonante doppia in fine di parola, non ammessa in italiano.
Dello- dell- del.
L’apocope vocalica è obbligatoria in tre casi:
- Negli infiniti seguiti da pronome atono come vedere+lo- vederlo
- In sostantivi usati come titolo di rispetto o di professione seguiti da un nome proprio come il
signor Barbieri
- Con l’aggettivo buono, se precede il nome a cui si riferisce come del buon pane,

in altri casi è facoltativa anche se è sottoposta a delle restrizioni.


La vocale da apocopare deve essere preceduta da una laterale, da una vibrante o da una nasale;
la vocale da apocopare deve essere atona;
e e i atone non possono essere apocopate quando hanno valore morfologico, cioè quando
servono a distinguere il plurale femminile o maschile;
la a atona non può essere apocopata, tranne che nell’avverbio ora e nei suoi composti, nonché
nella parola suora seguita da un nome proprio;
non si dà apocope di una parola in fine di frase, tranne che in poesia.
È importante non confondere l’apocope con l’elisione. L’elisione è la caduta della vocale
finale atona di una parola davanti alla vocale iniziale di una parola successiva e, a differenza
dell’apocope, non può mai avvenire prima di una parola cominciante per consonante, inoltre, è
sempre segnalata dall’apostrofo. Invece, l’apocope è segnalata dall’apostrofo quando la vocale
apocopata è preceduta da un’altra vocale.
Il raddoppiamento fonosintattico.
È una tipologia di fenomeno di fonetica sintattica: ciò vuol dire che non si produce all’interno di
una parola ma all’interno dell’intera frase. È definibile un’assimilazione regressiva all’interno di
frase. L’assimilazione consonantica regressiva può avvenire anche all’interno di frase, perché
nella realizzazione della catena parlata parole grammaticalmente separate possono essere
pronunciate unite. Nel caso del raddoppiamento fonosintattico a essere pronunciate unite sono
una parola terminante per consonante e una successiva iniziante per consonante: la consonante
finale della prima parola non case ma si assimila alla consonante iniziale della parola successiva
determinandone la pronuncia intensa.
Il raddoppiamento avviene dopo i monosillabi forti, cioè dotati di accento; dopo le parole
tronche, indipendentemente dal numero di sillabe; dopo quattro polisillabi piani: come, dove,
sopra e qualche.
Il raddoppiamento dopo blu, do, fra, ho, me si spiega col meccanismo dell’analogia. Il
raddoppiamento dopo come, dove, sopra e qualche si spiega col fatto che queste parole
presentano un elemento finale che è un monosillabo richiedente il raddoppiamento sintattico:
come proviene da quomo(do) et.
Nell’Italia del Nord questo fenomeno non si verifica. I dialetti settentrionali tendono a
degeminare le consonanti doppie intervocaliche.

Capitolo 4.
Dal latino all’italiano: i mutamenti morfologici.
La lingua latina, come la lingua italiana, aveva due numeri riconoscibili per le diverse uscite che
li caratterizzavano. Nel passaggio dal latino all’italiano non ci sono state trasformazioni di
rilievo per quanto riguarda il sistema dei numeri.
Il genere del nome. La scomparsa del neutro.
La lingua latina, a differenza dell’italiana, aveva tre generi: il maschile, il femminile e il neutro.
Schematizzando si può dire che gli esseri animati erano maschili e femminili, gli esseri
inanimati erano neutri; ma le parole che si allontanavano da questo criterio erano molte. Inoltre,
il genere di numerose parole era incerto. Alcune erano usate sia con l’uscita del maschile che
con quello del femminile come locus.
Nel passaggio dal latino all’italiano, il neutro si perse e le parole che appartenevano a questo
genere furono trattate come maschile. Il neutro non è scomparso del tutto e ne rimangono vari
relitti. In particolare, alcune parole maschili singolari in -o presentano due plurali uno in -i e uno
in -a, ciascuno con significati e usi specifici come bracci, braccia. I plurali in -a sono relitti del
plurale neutro latino e sono stati trattati come femminili.
La scomparsa del sistema dei casi.
Casi e declinazioni erano gli strumenti attraverso i quali il latino distingueva le funzioni logiche
e i significati che una o più parole potevano avere all’interno della frase. L’italiano affida questa
funzione alla posizione che una parola assume all’interno della frase, nonché all’opposizione tra
l’articolo e le varie preposizioni che possono precedere un nome o un pronome.
Il compito di distinguere le funzioni logiche di una parola era affidato, in latino, al caso: cioè
alla diversa uscita che una parola poteva assumere per esprimere funzioni sintattiche diverse. I
casi erano sei. Ogni nome o aggettivo era composto di una parte fissa, la radice, e una parte
variabile, detta desinenza. Ancor prima dell’età classica si affermò una tendenza a ridurre e
semplificare il complesso sistema di casi del latino. Ben presto i parlanti confusero nominativo e
vocativo, in alcuni casi i complementi non furono espressi solo dalla desinenza della parola ma
anche da una preposizione che precedeva la parola stessa. Per esempio il complemento di stato
in luogo non fu più espresso attraverso l’ablativo semplice ma attraverso l’ablativo preceduto da
in. Nel corso del tempo sia i costrutti con preposizione sostituirono i casi semplici, sia molte
funzioni vennero trasferite all’accusativo che divenne un caso tuttofare. L’accusativo ha finito
con il sostituirsi anche al nominativo e si presenta come il caso da cui derivano tutte le parole
dell’italiano. La quarta e la quinta declinazione latine erano scarsamente consistenti sul piano
numerico. I sostantivi della quarta confluirono nella seconda, quelli della quinta confluirono
nella prima. Il passaggio di un nome da una declinazione. A un’altra viene definito
metaplasmo.
Esistono anche metaplasmi di genere e di numero. Questi metaplasmi si verificano in:
-alcuni plurali neutri uscenti in -a sono stati interpretati come femminili singolari ad esempio
folia;
- i nomi di alberi appartenenti alla seconda declinazione in latino erano femminili, in italiano
sono maschili come faggio, pino- fagus, pinus;
- il sostantivo acus di genere femminile è diventato maschile.
La derivazione dei nomi italiani dall’accusativo.
I nomi appartenenti alla prima e alla seconda declinazione non consentono di stabilire da quale
caso derivino le parole italiano. Un nome come -a può derivare sia dal nominativo- vocativo sia
dall’accusativo, sia dall’ablativo. La stessa cosa per i nomi in -o.
Invece, la flessione dei nomi di terza consente di escludere che essi derivino da nominativo-
vocativo. Infatti una parola come salute non può derivare da salus ma deve derivare da salutem
o da salute ablativo. L’ablativo può essere escluso se si tiene conto della flessione dei nomi
neutri di terza declinazione. Infatti, una parola come fiume non può derivare dall’ablativo del
termine latino corrispondente ma solo dall’accusativo flumen. Ci sono delle eccezioni:
- I pronomi loro e coloro che derivano dal genitivo;

cui deriva dal dativo del pronome relativo qui, quae, quod; che deriva dal pronome interrogativo
e indefinito neutro latino quid con riduzione della labiovelare a velare semplice, passaggio dalla
i breve tonica a e chiusa e raddoppiamento fonosintattico prodotto dalla -d finale.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che il che derivi da quem. Questa ipotesi è improbabile dal
punto di vista della morfosintassi storica. Nel latino volgare, infatti, quid ha esteso la sfera d’uso
che aveva nel latino classico e ha preso il posto di molte altre parole come la congiunzione
causale quia, la congiunzione causale- dichiarativa quid e la congiunzione comparativa quam e
in effetti “che”, in italiano, svolge tutte queste funzioni.
Aggettivi e pronomi indefiniti.
Qualche non deriva direttamente dal latino, ma dalla riduzione della locuzione italiana qual che
sia, con perdita di sia e univerbazione di qual e che.
Analogamente, qualcuno e qualcosa derivano dalle forme italiane qualche uno (elisione -e
finale e univerbazione), e qualche cosa (apocope di che e univerbazione).
Alcuno deriva da alicunum, evoluzione del latino classico aliquem unum, da notare la sincope
della i intertornica posta tra accento principale e accento secondario.
Certo deriva da certum con un ampliamento del significato originario: in latino significava
certo solo nel senso di sicuro e risoluto.
Tale deriva da talem.
Altro deriva da alterum con sincope della e postonica. Il latino classico utilizzava due indefiniti
diversi per “tutto” ovvero omnis e totus. L’italiano è l’unica lingua romanza a conservarli. Da
omnem è derivato ogni- mn ha dato nn per assimilazione regressiva e così da omne si è passati a
onne.
In fonetica sintattica la -e in onne, se seguita da parola cominciante per vocale, si è chiusa in
iato, trasformandosi in una i, che in quanto seguita da un’altra vocale ha assunto il valore di iod.
Il nesso nj ha determinato la nasale palatale. Alla base della forma tutto c’è l’aggettivo
indefinito latino totum.
La dentale intensa si deve alla variante tottus, diffusa nel latino tardo e documentata dai
grammatici; la u tonica si deve invece a un probabile incrocio con la forma nullus.
Il verbo.
Nel passaggio dal latino all’italiano, il sistema verbale ha subito modificazioni fortissime. Le
più importanti sono state:
- La riduzione delle coniugazioni verbali;
- La formazione di tempi composti;
- La diversa formazione del futuro;
- La formazione del condizionale, che in latino non esisteva;
- La formazione del passivo perifrastico.

La riduzione delle coniugazioni verbali.


Il latino aveva quattro coniugazioni verbali, distinguibili in base all’uscita dell’infinito: i verbi
che all’infinito. L’italiano ha soltanto tre coniugazioni distinguibili in base all’uscita
dell’infinito. La differenza si spiega con il fatto che, nel passaggio all’italiano, i verbi della
seconda e della terza latina confluirono in un’unica coniugazione perché l’italiano non distingue
la e breve dalla e lunga.
Nel latino parlato, la e di alcuni di questi verbi ha mutato quantità, il che ha prodotto uno
spostamento di coniugazione in latino e uno spostamento di accento in italiano. Per esempio,
alcuni verbi di seconda coniugazione sono passati alla terza come respondere e così l’accento è
passato dalla penultima alla terzultima sillaba. Alcuni verbi di terza coniugazione sono passati
alla seconda, così l’accento è passato dalla terzultima alla penultima sillaba. Delle tre
coniugazioni italiane, solo la prima e la terza sono produttive. Si può citare il verbo cliccare.
La formazione del presente indicativo.
Le terminazioni continuano quelle del presente indicativo latino.
Alla prima persona singolare è generale la desinenza in -o che caratterizzava le quattro
coniugazioni latine.
Alla seconda persona singolare è generale la desinenza -i, in latino era una s, nei verbi
provenienti dalle prime 3 coniugazioni ha palatalizzato la vocale che la precedeva prima di
cadere. Nei verbi provenienti dalla quarta è caduta. Nei verbi di prima coniugazione un primo
grado di palatalizzazione ha prodotto un’uscita in -e, attestata in italiano antico e
successivamente chiusasi in -i.
Alla terza persona singolare la caduta della -T finale latina ha prodotto una terminazione in A
per la prima coniugazione, in E per la seconda e per la terza- per analogia.
La desinenza della prima persona plurale è -iamo, inizialmente però era -amo, -emo, -imo. Solo
a Firenze dalla seconda metà del 200 queste desinenza furono soppiantate dall’uscita -iamo,
derivata dalla desinenza del congiuntivo dei verbi di seconda e quarta coniugazione latina.
Alla seconda persona plurale le tre uscite: -ate, -ete, -ite sono la regolare continuazione delle
terminazioni latine in ATIS, ETIS, ITIS.
L’uscita in -no caratteristica della terza persona plurale è il risultato di un’estensione analogica.
Dalle basi latine di terza persona plurale del presente, in un primo tempo, per la caduta di nt si
aveva avuto ama, teme e sento. Per evitare confusione con la 3 e la 1 singolare, i parlanti
sviluppano una finale -no. Originariamente, l’aggiunta di una -o epitetica a una -n finale
interessò la forma sum passata a son e poi a sono. Dalla voce verbale sono si estese a tutte le
terze persone plurali.
La formazione del passato remoto.
Il passato remoto deriva dal perfetto indicativo latino. Nella lingua latina poteva indicare un
fatto compiutosi e conclusosi nel passato oppure un fatto accaduto nel passato. L’italiano rende
questi valori con tre tempi: passato prossimo, passato remoto e trapassato remoto.
Il perfetto latino aggiungeva una w al tema del presente, in alcuni verbi di 2 e 3 coniugazione le
differenze tra presente e perfetto potevano riguardare le consonanti del tema come mittit- misit.
Oppure la quantità delle vocali come venit breve- venit lunga.
Data la grande varietà di forme del perfetto latino, è impossibile dar conto di tutti i tratti del
passato remoto che ne sono derivati.
I verbi regolari di prima e quarta coniugazione avevano uscita in -avi e -ivi. Le trasformazioni
che subirono furono:
- Prima persona singolare: amavi- amai, la caduta della v intervocalica era già del latino
classico; nel latino volgare si estese per analogia alla prima persona del perfetto dei verbi di
I coniugazione.
- Seconda persona singolare: sincope della v e ritrazione dell’accento da amavìsti ad amàsti;
- Terza persona singolare: la caduta della i dell’uscita determina, nel perfetto dei verbi di
prima coniugazione, la formazione di un dittongo secondario AU che si monottonga in una o
aperta, da qui la caratteristica della forma tronca. Nel perfetto dei verbi di quarta
coniugazione, la medesima caduta della I e il passaggio della U atona a o chiusa producono
la forma uscente in -io con successiva caduta della o finale per analogia con la forma
corrispondente di prima coniugazione.
- Prima persona plurale: la i cade per sincope, il nesso consonantico VM passa a MM per
assimilazione regressiva;
- Seconda persona plurale: sincope della sillaba VI e ritrazione dell’accento;
- Terza persona plurale: amaverunt- amaro- amarono. Alla pronuncia amaverunt del latino
classico si affiancò, nel latino colloquiale, la pronuncia con accento ritratto amàverunt. Si ha
la sincope di Ve e la caduta di NT. Successivamente, dalla fine del XIII secolo, si aggiunge
la sillaba -no per analogia con le voci di terza persona plurale. Il tipo più antico continuò a
essere usato nella lingua della poesia. In alcuni verbi di 2 coniugazione si affermò una forma
in -ei, -esti, -è, -emmo, -este, -erono. Tale modello si diffuse per analogia col passato remoto
dei verbi di prima e di quarta coniugazione del tipo amaii e finii molto più numerosi dei rari
verbi di seconda coniugazione con perfetto uscente in evi, destinato a divenire ei. Molti di
questi verbi presentano alla 1, 3 singolare e alla 3 plurale una forma parallela in -etti, -ette, -
ettero come in assistei- assistetti.
Queste forme si diffusero fin dal Duecento. Ci sono passati remoti forti e passati remoti
deboli. Quelli forti sono accentati sulla radice in prima e terza singolare e in terza plurale.
Anche i participi passati si distinguono in deboli, se accentati sulla desinenza come amàto, e in
forti se accentati sulla radice come in dètto.
La formazione dei tempi composti.
In latino, la coniugazione attiva conosceva solo forme verbali semplice o sintetiche. Le forme
verbali composte erano diffuse nel latino parlato. Perifrasi verbali formate da una voce del
verbo habere e da un participio perfetto sono attestate fin dall’età preclassica. Esse non avevano
il significato attuale. Habere era un verbo autonomo nel suo significato di possesso, il participio
aveva funzione predicativa.
Dall’unione del presente indicativo di habere con il participio perfetto è nato l’indicativo
passato prossimo italiano.
La formazione del passivo perifrastico.
La coniugazione passiva latina era formata da forme sintetiche e da forme analitiche. Le forme
analitiche con l’ausiliare essere e il participio passato hanno sostituito le forme semplici con la
desinenza propria del passivo che si univa al verbo. Nel passaggio dal latino all’italiano, le voci
del verbo avere hanno concorso alla formazione di due tempi semplici: il futuro e il
condizionale.
La formazione del futuro.
Nel latino classico, l’indicativo futuro aveva una formazione analoga a quella degli altri tempi
verbali dell’indicativo. Il futuro dei verbi di 1 e 2 era diverso da quello di 3 e 4. Un fattore di
debolezza consisteva nella confusione con altre forme verbali ad esempio l’imperfetto
indicativo per 1 e 2, e il presente congiuntivo per 3 e 4. Il latino aveva varie forme perifrastiche
alternative al futuro sintetico. Tra queste abbiamo habeo+ infinito dove il verbo habeo assumeva
il significato di “ho da”, “devo”.
Finire habeo- ho da finire- finirò.
Il presente di habeo si riduce in -ao, -as, -at, -emus, -etis, -ant.
La formazione del condizionale.
In italiano ha due funzioni: esprime la conseguenza all’interno di un’ipotesi giudicata possibile
o irreale ed esprime il futuro in dipendenza da un passato. Il condizionale nasce dalla perifrasi
del latino volgare formata dall’infinito e dal perfetto di habeo.
Hebui si è ridotto a -ei per sincope della sillaba centrale= desinenza 1 pers. Sing.
Le rimanenti cinque uscite derivano dalla riduzione o trasformazione delle altre persone verbali.
Nei dialetti dell’Italia meridionale e della Sicilia c’è una forma di condizionale molto rara, il
tipo amàra, cantàra che deriva dal piuccheperfetto indicativo latino:
ama(ve)ra(m)- amàra
nella lingua dei poeti siciliani si incontra anche un’altra forma uscente il -ia come avria.
Probabilmente deriva dal provenzale. Anche questo condizionale è il risultato di una perifrasi,
data dall’infinito seguito da habebam, imperfetto di habere. Habebam ha subito una forte
riduzione: sono rimaste solo vocale tonica e vocale desinenziale, la e lunga tonica in siciliano ha
esito ia e da qui deriva la desinenza in ia.
Amar(e)- (hab)e(b)a(m).
Capitolo 5.
Dal latino all’italiano: alcuni mutamenti sintattici.
L’ordine delle parole nella frase: dalla sequenza SOV alla sequenza
SVO.
L’ordine abituale di una frase italiana è SVO. Nella maggior parte delle frasi italiane
quest’ordine è obbligato perché consente di distinguere S dal O. nel latino classico questa
azione era svolta dalla desinenza. Da una parte gli scrittori latini privilegiavano la sequenza
SOV dall’altra nel latino tardo si affermò SVO. Molti autori di testi letterari tra cui Boccaccio,
Alfieri, Bembo, ecc. inserirono spesso nella prosa il modello SOV per imitare il modello latino.
In poesia questa tendenza è ancora più forte che nella prosa perché il poeta ha la necessità di
allontanarsi dai modi della comunicazione quotidiana. La sequenza SVO non è marcata.
Espressione e posizione del pronome soggetto.
La lingua antica è stata caratterizzata dalla forte tendenza a esprimere il pronome personale
soggetto e a collocarlo prima del verbo nella frase enunciativa e dopo il verbo nella frase
interrogativa. La lingua contemporanea tende a omettere il soggetto pronominale in ogni tipo di
frase.
L’enclisi del pronome atono.
Le forme mi, ti, gli, lo, la, si, se, ci, ce, vi, ve, li, le, si, se sono atone, si appoggiano, per la
pronuncia, al verbo che li segue. Questi pronomi si dicono proclitici e il fenomeno prende il
nome di proclisi. In quattro casi particolari si appoggiano per la pronuncia al verbo che il
precede al quale vengono uniti nella grafia, si parla di enclisi e si ha:
-con un imperativo
-con un gerundio
-con un participio isolato
-con un infinito
La legge Tobler- Mussafia.
È così chiamata dal nome dei due studiosi che per primi hanno scoperto e descritto il fenomeno
dell’enclisi.
Nell’italiano antico l’enclisi era obbligatoria:
-dopo una pausa, all’inizio del periodo
-dopo la coniugazione ma
-dopo la coniugazione e
-all’inizio di una principale successiva a una subordinata.
Del primo tipo di enclisi, diversamente dal secondo e dal terzo non si conoscono eccezioni.
In tutti gli altri casi l’enclisi era libera.
Funzioni di che: le proposizioni completive.
In italiano le proposizioni completive sono formate dalla coniugazione che+ l’indicativo o il
congiuntivo nella forma esplicita e dalla preposizione di+ l’infinito nella forma implicita.
In latino le preposizioni completive si presentavano in tre forme diverse:
-quod+ indicativo
-ut+ congiuntivo
-soggetto in accusativo e predicato verbale all’infinito.
I limiti tra proposizioni introdotte da quod e quelle introdotte da ut e quelle con accusativo e
infinito non erano netti. Alcuni verbi potevano reggere sia il costrutto con quod che quello con
accusativo e infinito come miror: mi meraviglio che tu dica questo= miror quod tu id dicis,
miror te id dicere. La costruzione con quod prevalse sulle altre ed è documentato già da Plauto.
Capitolo 6.
Le lingue d’Italia nel Medioevo: una visione d’insieme.
Il milanese antico.
Appartiene ai dialetti gallo-italici, dialetti settentrionali parlati nelle regioni che furono abitate
dai Galli, popolazione appartenente al gruppo celtico. Non rientra nei dialetti gallo-italici il
dialetto veneto che rimase estraneo al dominio celtico. Tra le caratteristiche dei dialetti
settentrionali abbiamo:
- Lo scempiamento delle consonanti doppie in posizione intervocalica come gata da cattam;
- La sonorizzazione generalizzata delle consonanti sorde intervocaliche che successivamente
possono spirantizzarsi quindi trasformarsi in costrittive e poi anche cadere come amita-
amida;
- Passaggio dalle affricate palatali alle affricate alveolari. Questo fenomeno si può descrivere
come un avanzamento delle affricate infatti la seconda componente dell’affricata palatale
viene sostituita da un elemento articolato anteriormente a livello degli alveoli.
Successivamente, questa affricata dentale può perdere la sua componente occlusiva,
riducendoli a sibilante sorda o sonora come cimicem- zenza nel bolognese.

Perché gata non è diventato gada? Evidentemente perché, all’epoca della sonorizzazione delel
consonanti intervocaliche, le consonanti intense non si erano ancora indebolite quindi è
possibile risalire a una cronologia relativa dei due fenomeni, è più difficile avere una cronologia
assoluta.
- Caduta delle vocali finale e debolezza delle vocali atone, tranne a. Le vocali finali si
mantengono in ligure;
- Presenza di vocali turbate, cioè di vocali anteriori con arrotondamento e spinta in avanti
delle labbra. Sono presenti nel francese;
- Esiti di -ct difformi dal toscano; in Piemonte e Liguria passa a -it come lactem- lait. Nei
dialetti lombardi passa a ci (affricata ecc.)
Il veneziano antico.
- Conservazione delle vocali finali, tranne dopo liquida e nasale come in pan- pane e discreta
resistenza delle vocali atone;
- Assenza delle vocali miste o turbate;
- Presenza di dittonghi ie e uo in sillaba libera come nel toscano. Si diffondono verso la metà
del 300. Sono forme che coincidono solo in parte con quelle toscane e si possono trovare
anche in parole che nell’italiano letterario sono latinismi o che rappresentano una e o una o
lunghe come diebia- debba.

Il veneziano dell’epoca di Dante aveva tratti diversi. Li ricaviamo dal Dve. Es. “per le plaghe
de Dio tu no verras”, conservazione del nesso pl, sopravvivenza nessi di consonante+l,
conservazione -s finale nel futuro, rimasto oggi in veneziano solo nelle forme interrogative con
nome posposto.
Il romanesco antico.
Fino al 500 il dialetto di Roma apparteneva ai dialetti meridionali. Poi si avvicinò al toscano,
per i fiorentini discesi a Roma durante il pontificato dei papi medicei Leone X e Clemente VII e
soprattutto lo spopolamento degli abitanti dopo il sacco di Roma del 1527.
Tra i fenomeni linguistici propri del romanesco medievale abbiamo:
- Mancanza di anafonesi;
- Conservazione della e atona specie protonica come medecina;
- Conservazione di ar postonico e intertonico come zuccaro

La metafonesi.
Consiste nel passaggio di una e chiusa del latino volgare e di una o chiusa a i e a u, a condizione
che nella sillaba finale latina ci fosse una i lunga o una u breve. Nigrum- nigri- niru, mentre al
femminile perché non rispetta la condizione abbiamo nera. Nei dialetti meridionali, dopo la
perdita della vocale, questo fenomeno si è rivelato fondamentale per distinguere tra maschile e
femminile. Nei dialetti settentrionali può essere provocata solo da i lunga. In gran parte dei
dialetti centro- meridionali si ha anche il fenomeno del dittongamento metafonetico per cui la e
e la o aperta sono interessate dal fenomeno se alla fine della parola ci sono una i lunga o una u
breve.
Il romanesco medievale non conosceva la metafonesi.
Dei fenomeni consonantici ricorderemo:
- Epentesi di una dentale sorda nel gruppo costituito da una liquida o da una nasale dentale e
da una sibilante come penso- penzo;
- L’assimilazione progressiva dei nessi nd, mb e ld con sincope della vocale postonica come
caldo- callo;
- Laterale preconsonantica che si vocalizza come multum- mòito.
- Tendenza al rotacismo cioè passaggio da l preconsonantica a r- molto- morto.

Il napoletano antico.
Tra i tratti caratteristici:
- Metafonesi e dittongamento metafonetico;
- Sviluppo della vocale atona finale in vocale indistinta;
- Epentesi della dentale nei gruppi di nasale o liquida+ sibilante;
- Spirantizzazione della labiale sonora intervocalica anche all’interno di frase e dopo e;
- Conservazione di iod latina anche con g davanti a vocale palatale come gentem- iente;
- Esito del nesso -pj in affricata palatale sorda di grado intenso come scio- saccio;
- Esito nel nesso cj in affricata dentale sorda di grado intenso come facio- fazzo;
- Esito del nesso pl in occlusiva velare o meglio mediopalatale+ iod come in plangit-
chiagne;
- Raddoppiamento di m intervocalica come camisiam- cammisa;
- Tra i pronomi dimostrativi sistema tripartito: chistu, chillu, chissu- codesto.

Il siciliano antico.
Il vocalismo atono comprende tre vocali, vedi il vocalismo tonico.
- assenza di metafonesi;
- rarità del dittongamento;
- assenza di vocali indistinte;
- mancanza di apocope sillabica negli infiniti.

Condivide tratti consonantismo con i dialetti meridionali.

Le koinè extra-toscane.
Per koinè si intende una lingua sovraregionale che si affianca o si sostituisce ai singoli idiomi in
uso in una certa area geografica. Il termine fu utilizzato per la prima volta per indicare il greco
che si affermò dopo Alessandro Magno. Si parla di koinè così come se ne sviluppò nelle
signorie.
- Fondo regionale locale con eliminazione o attenuazione dei tratti linguistici troppo marcati o
esclusivi di uan sola zona;
- I latinismi
- Il toscano letterario.

Potrebbero piacerti anche