Premessa.
All’inizio, infatti, quello che sarà l’italiano convive in mezzo ad altre lingue e stenta
ad imporsi come idioma (lett. Lingua) principale della penisola. Se solo dal
Milletrecento inoltrato (inoltrare: progredire, proseguire. Inoltrato: avanzato) una
delle lingue vive sul territorio nazionale inizierà a prevalere sulle altre, occorrerà
attendere il XVI secolo perché questo predominio ottenga (ottenere al cong.
Presente) un generale riconoscimento e bisognerà aspettare addirittura il nostro
secolo per vedere operante nella pratica linguistica di tutta la nazione la lingua
italiana.
Di questo aspetto della storia linguistica italiana abbiamo ancora oggi modo di fare
concreta esperienza. È possibile osservare la vitalità mantenuta, dai vari dialetti nella
comunicazione quotidiana degli italiani, per renderci conto di quanto abbia faticato
l’italiano a diventare davvero la lingua nazionale. Fino a qualche decennio fa era
assolutamente normale usare l’italiano solo in determinate circostanze (scrivendo,
esprimendosi in occasioni ufficiali ecc…) e ricorrere invece al dialetto per gli usi
domestici, quotidiani, orali e informali della comunicazione.
La situazione registrata in pieno Novecento è l’eredità di una lunga storia, in cui una
lingua è diventata italiana solo dopo una faticosa competizione con altre lingue. Il
fatto è che sono mancate nel passato dell’Italia quelle forti occasioni di aggregazione
linguistica della nazione che invece si sono presentati in altri stati europei: si pensi
alla secolare frammentazione dell’Italia, alla diversa storia delle singole regioni, alla
1
mancanza di centri in grado di irraggiare il loro influsso sull’intero territorio
nazionale e così via.
Le origini.
Due, tre secoli dopo la caduta dell’Impero, ovunque si usava una lingua
diversa dal latino, frutto di tradizioni e storie locali, e da una regione all’altra, non
c’era più modo di intendersi. Poiché chi non conosceva che queste nuove svariate
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lingue, era inevitabilmente persona incolta, gli intellettuali cominciarono ad indicare
questi idiomi col titolo di “volgari”, designandoli cioè dallo stato socioculturale di
chi le possedeva ignorando, al tempo stesso, il “vero” latino.
Gli intellettuali appartenevano quasi tutti alla ristretta cerchia dei chierici,
degli uomini di Chiesa o comunque in qualche modo legati alla Chiesa e i “volgari”
si identificarono così con le lingue dei “laici”.
A lungo fu dibattuta nei decenni passati la questione delle tarde origini della
lingua e della letteratura italiana. Il prestigio di cui godeva il latino nella penisola
italiana e la tenace consuetudine che faceva di esso l’unica lingua che si potesse
scrivere, perché salda e fermata da regole precise e rispondente alle molteplici
esistenze della vita pratica, tutto questo servì a ritardare l’avvento del volgare.
PRIME TESTIMONIANZE SCRITTE DEL VOLGARE IN ITALIA
Il più antico documento in volgare italiano è un indovinello scritto a mano da uno
sconosciuto su un libro di preghiere, a Verona.
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alba pratalia araba, arava un bianco prato
albo versorio teneba, teneva un bianco aratro,
negro semen seminaba. seminava un seme nero
La soluzione dell’indovinello era… lo scrivano1!
Il più antico documento ufficiale della lingua italiana, in cui per la prima volta il
volgare appare in piena luce, coscientemente contrapposto al latino è il Placito
capuano (960 secolo X)
Sao ke kelle terre per kelle fini So che quelle terre con quei confini Que ki
contiene trenta anni Segnati qui (sulla carta) li possedette per trenta anni Le
possette parte sancti benedicti la parte di S. Benedetto (cioè il Monastero di
Montecassino)
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genitivo Sancti Benedicti. Analizzando il testo vediamo che sono molte le parole che
si sono stabilizzate nella lingua volgare: terre, per, trenta. Il verbo sao al posto di so
fa pensare al termine dialettale saccio o sapo, dal latino sapio = so.
Nonostante questi primi documenti siano la testimonianza di un volgare nascente, la
distinzione tra latino e volgare è ancora lontana. Il prestigio di cui godeva il latino sul
territorio della penisola italiana faceva di esso l’unica lingua che si potesse scrivere
perché salda e fermata da regole precise.
Bisogna arrivare al Duecento per vedere lo sviluppo dei volgari letterari, quando
cioè in varie parti della penisola si scriveranno testi nelle diverse lingue locali. Di
particolare rilevanza saranno gli esempi dei poeti siciliani. Nel Duecento la politica italiana
è dominata dalla figura di Federico II, alla cui corte ferve un pullulare di artisti e intellettuali
dell’epoca. Fin quasi alla fine del Duecento, la lingua dei poeti siciliani fu quella più usata
in poesia in quasi tutta la penisola. La grande maggioranza degli scritti di questo periodo,
però, è ancora in latino, anche se le condizioni economiche e politiche dell’Italia
miglioreranno sempre più, permettendo nelle varie regioni lo sviluppo di attività nuove e la
necessità di usare una lingua semplice e accessibile a tutti. A dare un forte influsso alla
diffusione del volgare sarà soprattutto lo sviluppo della società mercantile e la religiosità
popolare. Lo scambio delle merci, la circolazione del denaro, un Comune in pieno sviluppo
o un monastero, fecero sì che il volgare locale divenisse una lingua prima parlata, poi scritta
e infine anche colta. Alla fine del Duecento il dialetto fiorentino si sostituì alla lingua dei
poeti siciliani e si impose come lingua italiana, prima di tutto perché quel dialetto non si era
allontanato molto dal latino e inoltre perché Firenze produsse una civiltà di altissimo livello,
grazie anche ai suoi famosi scrittori.
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l’Italia. Nel 1224 San Francesco d'Assisi (1181-1226) compose il Cantico di frate Sole o
Cantico delle creature e fu così uno dei primi autori a lasciare testi poetici basati in buona
parte sulla sua lingua madre (il volgare umbro). Questo cantico è il più antico documento
della letteratura religiosa italiana.
La composizione esprime con estrema semplicità la riconoscenza per i molti doni concessi da Dio all’uomo
e il commosso stupore per le bellezze del Creato. La lingua in questo canto mantiene la grafia di k invece di
. Le forme latine ancora abbondano, ma c’è già la caduta delle consonanti finali e la trasformazione delle
consonanti.
Narcis fu molto buono e bellissimo cavaliere. Un giorno avvenne ch'elli si riposava sopra una
bellissima fontana, e dentro l'acqua vide l'ombra sua molto bellissima. E cominciò a riguardarla, e
rallegravasi sopra alla fonte, e l'ombra sua faceva lo simigliante. »
Il Trecento
Nel Trecento i vari volgari acquistano una loro identità, mentre il latino
rimane la lingua scritta dei dotti. Tra questi volgari, il volgare fiorentino si erge a
lingua predominante. A Firenze, nel Trecento, si affermano tre grandi scrittori che
scrissero in volgare fiorentino: Dante, Petrarca, Boccaccio. Grazie al prezioso
contributo di questi sommi artisti, il volgare assurge a lingua dei dotti e il fiorentino
diviene lingua nazionale, arricchendosi progressivamente di termini di derivazione
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classica, commerciale, di voci idiomatiche e tratte dall’uso quotidiano. I tre grandi
artisti, ognuno con le caratteristiche della propria individualità, trasmettono nelle loro
opere la grande crisi che travaglia il loro tempo. Dante esprime le sue idee sul
volgare italico nel suo trattato De vulgari eloquentia, composto in latino tra il 1304 e
1307. Nell’opera egli enumera quattordici dialetti italiani. Il volgare, cioè la lingua
letteraria comune, scrive l’Alighieri, non coincide con nessuno dei dialetti e deve
essere illustre. Nella nuova lingua, che egli ritenne adatta a esprimere anche la
poesia, egli compose il suo capolavoro, la Divina Commedia, ancora oggi a noi ben
comprensibile.
Con Francesco Petrarca la lingua della poesia volgare diviene elegante e
raffinata e il lessico viene arricchito con termini nuovi, opportunamente scelti. Le
liriche di amore, dedicate a Laura, rappresentano un modello di lingua poetica
utilizzato quasi fino ai nostri giorni. Il Petrarca usa un linguaggio figurato, cura la
scelta delle parole prediligendo le polisemie (l’uso di parole che possiedono diverse
sfumature di significato) e una caratteristica allusività. Con questo poeta anche la
poesia in volgare giunge a perfezione. Egli ordina i suoi periodi secondo la miglior
tradizione latina e riesce a conservare la freschezza dell’uso vivo della lingua.
Giovanni Boccaccio (1313-1375) scrive il Decameron tra il 1349 e il 1353,
all’indomani cioè della peste del 1348. Nella sua opera usa anch’egli una lingua
volgare in cui si mescola tutta la vivacità della lingua d’uso con la maestria che
deriva della sua cultura seria e complessa. Ne consegue una lingua scoppiettante,
briosa e plastica che porta al culmine della perfezione la tradizione popolare accanto
alla tradizione d’arte ricavata dai testi della tarda classicità. L’opera del Boccaccio
rimarrà a lungo il modello della lingua italiana in prosa.
Nel 1224 san Francesco di Assisi compose il Cantico di Frate Sole in volgare
umbro, il più antico documento della letteratura religiosa italiana.
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1Altissimu, onnipotente,bon Signore,
Ad te solo,Altissimo,se konfano,
8
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
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Traduci il Cantico di San Francesco, parola per parola, in lingua italiana
corrente e di ogni parola evidenzia i mutamenti che sono intervenuti dalla
lingua in cui è stato composto in italiano.
II. Ecco ora due strofe di un sonetto petrarchesco. Volgile in prosa e rileva le
differenze del linguaggio rispetto al nostro (il sonetto è stato scritto dal poeta dopo la morte
di Laura).
Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente
e le braccia, e le mani, e i piedi e ’l viso,
che m’avean sì da me stesso diviso,
e fatto singular da l’altra gente;
le crespe chiome d’or puro lucente,
e ’l lampeggiar de l’angelico riso
che solean fare in terra un paradiso,
poca polvere son, che nulla sente.
III. Infine, un brano del Decameron del Boccaccio. Quali parole sono diverse
dalle parole moderne? Sottolineale. Quali forme verbali sono identiche e quali
diverse? Trascrivi il brano in lingua moderna e dì in che cosa soprattutto ti
sembra diversa la lingua trecentesca dalla lingua di oggi (il testo appartiene
alla novella Chichibìo e la gru, in cui il cuoco Chichibìo, avendo dato una
coscia della gru arrostita alla sua donna Brunetta, deve ora dimostrare a
Currado, suo padrone, che le gru hanno una zampa sola).
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Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente come il giorno
apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l’ira cessata, tutto ancor
gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto montar
Chichibìo sopra un ronzino, verso una fiumana, alla riva della quale sempre
soleva in sul far del dì vedersi delle gru, il menò dicendo:
Ma già vicini al fiume pervenuti, vide sopra la riva di quello ben dodici gru, le
quali tutte in un piè dimoravano, sì come quando dormono soglion fare. Per
che egli prestamente mostratele a Currado, disse:
– Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non
hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno.
Aspettati, che io ti mosterrò che elle n’hanno due –; e fattosi alquanto più a
quelle vicino gridò:
– Ho ho!
Per lo qual grido le gru, mandato l’altro piè giù, tutte dopo alquanti passi
cominciarono a fuggire.
Chichibìo quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose:
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Una crisi del volgare
Il Quattrocento è stato definito come un’epoca di “crisi del volgare”. Questo non
vuol dire, ovviamente, che in questo periodo gli abitanti d’Italia abbiano smesso di parlare
volgare
per tornare a parlare latino. Significa solo che i letterati più importanti del tempo – gli
umanisti – scrissero prevalentemente o esclusivamente in latino.
Il volgare continuò invece a essere la lingua generale della conversazione. Le stesse
persone di cultura parlavano in latino solo tra di loro, e solo in situazioni particolari: nella
scuola, in ambienti d’élite come la Curia papale, o di fronte a stranieri di pari preparazione.
Al di fuori della letteratura, anche nella lingua scritta il ruolo del volgare si conservò o
si espanse. I mercanti continuarono a scrivere corrispondenza in volgare e i banchieri a
tenere in volgare i propri conti. Nelle cancellerie, se la corrispondenza più importante
rimase
per lungo tempo in latino, con l’avanzare del secolo il ruolo del volgare si fece più ampio.
Resta però il fatto che tra la morte di Boccaccio (1375) e gli ultimi anni del Quattrocento
non compaiono opere letterarie in volgare che abbiano l’importanza della Commedia
dantesca o del Decameron boccacciano nel Trecento, e nemmeno del Principe di
Machiavelli
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o dell’Orlando furioso di Ariosto nel Cinquecento. E in parallelo, il ruolo del volgare
nell’ambito letterario viene esplicitamente svalutato.
Nonostante l’esempio dei grandi scrittori del Trecento, a molti umanisti il volgare
sembrava infatti privo delle qualità necessarie alla scrittura letteraria. Alcuni degli
umanisti più importanti non scrissero mai in volgare, ma solo in latino. Altri criticarono
Dante e chiunque avesse scritto in volgare. I nemici e i detrattori del volgare furono
numerosi non solo nel Quattrocento, ma anche nel secolo successivo.
In questo clima di “pregiudizio umanistico” si svolsero anche le prime discussioni storiche
sull’origine del volgare, fondate sulla lettura delle fonti e sul confronto con altre situazioni
linguistiche. Dal punto di vista degli umanisti, il volgare poteva ricoprire un uso molto
limitato.
Il volgare e la grammatica
Gli umanisti presero spesso in considerazione il volgare solo come curiosità storica. Con
l’eccezione di Alberti e del cosiddetto “Umanesimo volgare” fiorentino gli umanisti
non ammisero la possibilità che il volgare venisse usato come lingua di cultura, e
conseguenza la possibilità che venisse regolamentato, che diventasse oggetto di
descrizione e codificazione grammaticale.
È famosa la discussione sull’origine del volgare avvenuta nel 1435, durante il concilio
di Firenze, all’interno della Curia di Eugenio IV. La discussione coinvolse alcuni degli
umanisti più importanti dell’epoca, e avvenne in uno dei luoghi e momenti di massimo
prestigio del latino, cioè:
1/ nella Curia papale, un gruppo di persone al servizio del papa composto da funzionari di
alto livello che si occupavano, per esempio, della corrispondenza pontificia. In questo
ambiente era indispensabile avere una perfetta conoscenza del latino;
2/ durante il concilio di Firenze, un incontro tra i massimi rappresentanti della Chiesa
cattolica e di quella ortodossa. Il concilio fu uno dei momenti in cui il latino venne usato per
forza di cose anche come lingua parlata, tra persone di alta cultura e di nazionalità diversa
che non avevano altro mezzo per comunicare tra di loro.
La discussione, che si prolungò per diversi anni, vide contrapposte all’inizio le tesi del
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fiorentino Leonardo Bruni e quelle del forlivese Biondo Flavio. Le loro opinioni
sull’origine del volgare si possono riassumere in questo modo:
1/ Leonardo Bruni: già in epoca latina la lingua del popolo era profondamente diversa da
quella della letteratura. La lingua del popolo ha dato poi origine al volgare oggi parlato;
2/ Biondo Flavio: in epoca classica la lingua della letteratura era anche lingua parlata. I
volgari italiani sono nati dalla corruzione di questa lingua, provocata dalle invasioni
barbariche.
La tesi più corretta, agli occhi dei contemporanei, è quella di Leonardo Bruni, che
supponeva che in età classica ci fosse già una situazione di diglossia, cioè di compresenza
di due registri
linguistici differenziati nell’uso: la variante “alta” della lingua impiegata per la letteratura,
la variante “bassa”, popolare del latino, impiegata per l’uso quotidiano (il “latino volgare”),
senza nessuna sovrapposizione.
Ma questa tesi si era diffusa in una forma estrema. Secondo questa ricostruzione
“pseudobruniana”, il volgare, proprio il volgare in uso nel Quattrocento, sarebbe esistito già
in età classica, a fianco del latino della letteratura. Il fatto che gli antichi non avessero
ritenuto opportuno scrivere in volgare, ma avessero scritto unicamente in latino, sembrava
quindi una condanna a priori di qualunque uso letterario del volgare.
Bruni riteneva quindi che tra latino e volgare ci fosse una diversità sostanziale: il
latino
era una lingua grammaticale, e lo era grazie all’intervento dei dotti che tale complessa
struttura grammaticale avevano costruito; il volgare invece non aveva una vera
struttura grammaticale. Secondo la linguistica moderna, tutte le lingue parlate funzionano
grazie a una struttura grammaticale implicita che funziona nella mente dei parlanti
Bruni invece seguiva una concezione del rapporto tra le lingue e la grammatica
non troppo diversa da quella che più di un secolo prima era stata espressa da Dante nel
De vulgari eloquentia.
A molti umanisti, in effetti, sembrava semplicemente impossibile che una lingua parlata
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da un intero popolo avesse caratteristiche grammaticali paragonabili a quelle del latino.
Per esempio, sembrava impossibile che una lingua parlata spontaneamente declinasse
i sostantivi, come il latino, in base al ruolo logico delle parole nella frase, o coniugasse i
verbi, padroneggiando la grande ricchezza morfologica del sistema verbale latino e
rispettando la consecutio temporum (cioè la correlazione tra i tempi verbali della frase
principale e quelli delle frasi subordinate). Le lingue parlate venivano invece considerate
uno strumento di comunicazione informale, privo di qualunque regola e struttura. La grande
diversità e variabilità dei volgari italiani, in questa prospettiva, era considerata la riprova
della loro assoluta inferiorità.
Riconoscere che anche le lingue parlate e i diversi volgari avevano una grammatica, per
quanto oggi sembri banale, fu un punto di passaggio obbligato per arrivare a riconoscere
pari dignità al volgare in ambiente umanistico. Leon Battista Alberti dovette confutare
esplicitamente la tesi della non-grammaticalità del volgare nel Proemio al III libro dei suoi
Libri della famiglia (scritto tra il 1437 e il 1443) e realizzò una prima grammatica del
fiorentino indicando regole e strutture definite.
Aderirono invece alla tesi della non-grammaticalità del volgare alcuni tra i rappresentanti
più significativi dell’Umanesimo: per esempio Guarino Veronese, il massimo studioso
di grammatica latina della sua generazione, e il filologo Lorenzo Valla. Queste negazioni,
oggi sorprendenti, rientrano in realtà in uno schema conoscitivo frequente in situazioni di
diglossia. Chi padroneggia la varietà “alta” della comunicazione nega spesso, infatti, non
solo la validità ma la stessa esistenza della varietà “bassa”. È un atteggiamento che si è
riprodotto, in circostanze diverse, in molte società moderne.
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Anche se alcuni degli umanisti che negarono con più forza le possibilità del
volgare furono fiorentini, nel Quattrocento Firenze fu uno dei centri in cui l’uso
letterario del volgare venne maggiormente curato nel settore della letteratura “alta”.
Nella prima metà del secolo a Firenze lavorò a favore del volgare soprattutto Leon
Battista Alberti. Alberti infatti:
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La lingua che descrive, tra l’altro, si era profondamente trasformata nei primi anni
del secolo. La forte immigrazione in città aveva prodotto una parlata che non
coincide ancora con quella moderna, ma che non era nemmeno più quella del
Trecento. Tra gli usi quattrocenteschi descritti nella Grammatichetta si ritrovano per
esempio:
l’articolo maschile el, e al posto di il, i (che, usato dagli scrittori del Trecento,
è diventato poi l’articolo maschile dell’italiano)
la prima persona singolare dell’imperfetto in -o (che imitava la desinenza del
presente indicativo) al posto della -a (continuazione diretta dell’imperfetto
latino) utilizzata nel Trecento, periodo in cui si diceva, per esempio, io aveva
(questa forma rimase in uso nell’italiano letterario addirittura fino all’inizio
del Novecento).
Nella seconda metà del secolo, invece, a Firenze il volgare venne valorizzato e
divenne oggetto di una vera e propria politica culturale. Gli umanisti fiorentini
che ruotavano attorno alla corte dei Medici esaltarono concordemente la cultura
cittadina e ne celebrarono anche la lingua. Fanno parte di questo ambiente umanisti
veri e propri, professori universitari. In particolare: Cristoforo Landino, traduttore in
volgare di Plinio il Vecchio e Angelo Poliziano, il più grande studioso di latino e
greco della sua generazione, autore anche di opere volgari come le Stanze scritte per
Giuliano de’ Medici. Ma allo stesso ambiente sono riferibili anche poeti e scrittori che
operarono esclusivamente in volgare, come Luigi Pulci, poeta in volgare, autore del
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poema cavalleresco Morgante e lo stesso Lorenzo de’ Medici, autore di canzoni e rime
burlesche.
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La situazione in altre regioni italiane.
il volgare locale;
il latino
il modello toscano letterario
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pubblicate a Venezia nel 1525: è l’editio princeps (prima edizione a stampa di
un’opera, in particolare stampata nel XV o nella prima metà del XVI sec).
Le Prose sono divise in tre libri, il terzo dei quali contiene una vera e propria
grammatica dell’italiano, la quale però risulta poco sistematica ai nostri occhi di
moderni, anche perché il trattato ha una forma dialogica (che ha forma di dialogo)
Il dialogo che costituisce le Prose è idealmente collocato nel 1502: vi prendono parte
quattro personaggi, ognuno dei quali è portavoce di una tesi diversa: Giuliano de’
Medici (terzo figlio di Lorenzo il Magnifico) rappresenta la continuità con il pensiero
dell’Umanesimo volgare. Federico Fregoso espone molte delle tesi storiche presenti
nella trattazione. Ercole Strozzi (umanista e poeta in latino) espone le tesi degli
avversari del volgare, e infine Carlo Bembo, fratello dell’autore, è portavoce
dell’autore.
Nelle Prose viene svolta prima di tutto un’ampia analisi storico-linguistica,
secondo la quale il volgare sarebbe nato dalla contaminazione del latino ad opera
degli invasori barbari. Il riscatto del volgare contaminato per le sue barbare
origini era stato possibile grazie agli scrittori e alla letteratura.
L’italiano era andato progressivamente migliorando, osservava Bembo, mentre
un’altra lingua moderna, il provenzale, che pure aveva preceduto l’italiano nel
successo letterario, era andata progressivamente perdendo terreno. Il discorso si
spostava dunque sulla letteratura, le cui sorti venivano giudicate inscindibili da
quelle della lingua.
Quando Bembo parla di lingua volgare, intende senz’altro il toscano: ma non il
toscano vivente, il toscano parlato nella Firenze del XVI secolo, bensì il toscano
letterario trecentesco dei grandi autori, di Petrarca e di Boccaccio.
Questo è un punto fondamentale della tesi bembiana: egli non nega che i toscani
siano avvantaggiati sugli altri italiani nella conversazione; ma questo non è oggetto
del trattato, che non si occupa del comune parlato, ma della nobile lingua della
letteratura.
Il punto di vista delle Prose è squisitamente umanistico, e si fonda sul primato della
letteratura. La lingua non si acquisisce dunque dal popolo, secondo Bembo, ma dalla
frequentazione di modelli scritti, i grandi trecentisti appunto.
Requisito necessario per la nobilitazione del volgare era dunque un totale rifiuto
della popolarità. Ecco perché Bembo non accettava integralmente il modello della
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Commedia di Dante, di cui non apprezzava le discese verso lo stile basso e
realistico.
Da questo punto di vista, il modello del Canzoniere di Petrarca non presentava
difetti, per la sua forte selezione linguistico-lessicale. Qualche problema invece
poteva venire dalle parti del Decameron, in cui emergeva più vivace il parlato. È
vero che Bembo era convinto che la storia linguistica italiana avesse raggiunto una
vetta qualitativa insuperata nel ‘300, con le Tre Corone.
È altrettanto vero però che egli non escludeva che il volgare, così giovane in
confronto al latino, potesse ancora raggiungere risultati eccezionali, proprio
attraverso la nuova regolamentazione proposta nelle Prose.
La soluzione di Bembo fu quella vincente. Essa formalizzava in maniera rigorosa e
teoricamente fondata quanto era avvenuto nella pratica: il volgare si era diffuso in
tutt’Italia come lingua della letteratura attraverso una più o meno cosciente
imitazione dei grandi trecentisti. Ora la grammatica di Bembo permetteva di portare
a compimento quel processo spontaneo, depurando il volgare stesso dagli elementi
eterogenei della coinè primo-cinquecentesca.
La seconda metà del ‘500 segna il trionfo delle idee di Bembo. La sua soluzione si
pone sul piano elevato del gusto letterario senza per altro accettare del toscano i
caratteri dialettali e plebei del parlato vivo. Il prevalere della soluzione bembiana
avrà numerose conseguenze per la storia futura della lingua italiana. Nel corso del
‘500, l’influenza delle Prose della volgar lingua, fu subito grande. Questo fu
confermato, al livello pratico, dalla scelta dell’Ariosto, che corresse il testo
dell’Orlando Furioso seguendo il gusto e la grammatica del Bembo.
Il primo grande vocabolario della lingua italiana sarà redatto dagli accademici della
Crusca e stampato a Venezia nel 1612. Il Vocabolario della Crusca sarà un esempio
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della situazione tipicamente italiana di condizionamento dovuto ad una tradizione
letteraria dominanteLa prima e la seconda edizione del Vocabolario della Crusca
erano state accompagnate da polemiche che, in sostanza, contestavano la preminenza
degli antichi sui moderni in fatto di lingua, mettevano in discussione la mancata
accoglienza di autori nuovi come Torquato Tasso, ponevano il problema della
compatibilità della nuova cultura con una lingua vecchia (Tassoni segnalava
l’assenza di eroe, esagerare, floscio, lindo, tabacco. Il compromesso tra antico e
nuovo, fu raggiunto nella terza edizione del Vocabolario della Crusca (1691).
La polemica sulla lingua nei secoli successivi, e in particolare nel ‘700, avrà come
fine la liberalizzazione della troppa letterarietà del culto trecentesco per rinnovare la
cultura e i suoi strumenti espressivi e comunicativi. Questa liberazione passerà
attraverso l’abbandono della pesante eredità del purismo bembiano.
I fiorentini dell’Accademia della Crusca, avviando una ricerca sul lessico che sfocia
nel loro celebre Vocabolario del 1612, coniugano l’umanesimo metatemporale e per
grandi autori di Bembo con la loro sensibilità per la lingua popolare. Accettando il
rinvio al Trecento, non solo per la grandezza delle sue Tre Corone, ma anche per la
freschezza nativa del toscano di allora, rilanciano la loro lingua in tutte le sue
dimensioni (letteraria e pratica), salvaguardando contemporaneamente il primato
degli scrittori e della parlata.
Ne deriva una grammatica arcaizzante ma anche popolare, che trova la norma nella
lingua più che nello stile di alcuni autori eccelsi. Naturalmente, è una grammatica più
orientata all’antico che al moderno, con conseguenze pratiche non piccole per gli usi
nuovi della lingua, ma comunque capace di restituire al toscano in sé quel primato
che Bembo gli aveva concesso solo in quanto lingua dei grandi autori.
Questa soluzione (che si dovette ad alcuni intellettuali particolarmente lucidi, tra cui,
in particolare, Lionardo Salviati) occupa per tutto il XVI secolo i molti partecipanti
al dibattito sulla questione della lingua. Il suo successo si deve anche al fatto che,
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mentre era sempre più forte la spinta verso l’impiego letterario di un volgare unico
per tutto il Paese, questa spinta non era altrettanto forte su altri piani della
comunicazione sociale, men che mai su quello parlato e pratico.
Scritto e parlati
Solo una lingua impegnata a mettere in contatto persone nella vita quotidiana poteva
esigere una norma più calibrata sul presente. Ma di questa lingua non c’era ancora
un’esigenza unitaria e diffusa, anche se nel secondo Cinquecento crescono e si
ufficializzano usi della lingua italiana in numerose istituzioni laiche e politiche.
Il parlato passa in gran parte attraverso le lingue materne locali, che ora l’accoglienza
generalizzata della norma bembiana e cruscante fa retrocedere al rango di dialetti, da
allora in poi, per secoli, vivissimi idiomi, non solo parlati ma persino scritti, in testi
teatrali, poesie, canzoni, con una vitalità senza pari in Europa. La grande
letteratura dialettale italiana comincia da questo momento e resta fino a oggi un
tratto caratteristico della cultura italiana.
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spinti, per es. nelle comunicazioni delle cancellerie, negli atti degli Stati, nelle
relazioni dei diplomatici
Più in generale, nel corso del secolo, ormai vinto di fatto il confronto col latino (che
pur resta attivo in molti settori chiave della cultura), il volgare ‘italiano’ occupa
sempre maggiori spazi, anche grazie alla ripresa di un’attività già antica di
traduzione che ora va oltre l’ambito religioso e letterario ed entra decisamente in
quello filosofico.
Intanto l’italiano conosce, dopo quella delle origini duecentesche, la prima vera
ondata di forestierismi.
Entrano ispanismi:
brio, etichetta, cioccolato,risacca, complimento, sfarzo, vigliacco, flotta;
francesismi
arrivano parrucca, equipaggio, reggimento, gendarme, lacchè, petardo. Nonostante
gli scarsi risultati in letteratura, la cultura barocca spinge la lingua a fare i primi veri
conti con il moderno.
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Nel Seicento si diffuse e si stabilizzò la norma elaborata nel Cinquecento da Pietro
Bembo per la lingua letteraria, che si riconvertì in norma per la comunicazione
ordinaria, estendendosi anche all’oratoria (sacra e civile) e alla conversazione colta.
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