L’attuale situazione linguistica italiana è frutto di una serie di mutamenti che hanno segnato l’Italia nel corso degli anni. Gli studiosi, solitamente, fanno riferimento alla storia linguistica di una nazione analizzando la storia linguistica interna e la storia linguistica esterna. Con la prima, ci riferiamo ai cambiamenti che ogni lingua ha subito nelle strutture, da una generazione a un’altra o a seguito di contatti con altre lingue; con la seconda, ci riferiamo, invece, alle cause storiche, politiche e culturali che hanno inciso sulle sue trasformazioni. Le tappe che hanno condotto alla situazione linguistica contemporaneo sono 6: 1. Dal latino ai volgari medievali: un periodo lungo, non identificabile, durante il quale le diverse comunità avvertirono l’esistenza di nuove lingue diverse dal latino, periodo che va dal VI al IX sec. 2. Dal XII-XIII sec. fino alla fine del Trecento: gli anni in cui in molte aree della penisola vengono adoperati i volgari per uso pratico e letterario, basti pensare a Dante, Petrarca e Boccaccio che daranno prestigio al fiorentino rispetto agli altri volgari della penisola. 3. Dal XIV sec. agli inizi del Cinquecento: vi è un ritorno al latino voluto dagli umanisti e il declino del volgare, inadeguato per la scrittura. Ma Firenze, divenuta città dominante sotto tutti gli aspetti, permette la diffusione del fiorentino grazie al lavoro dei 3 grandi autori e all’invenzione della stampa. 4. Dal 1525 all’Unità d’Italia: nel 1525, con la stesura delle Prose della volgar lingua, di Pietro Bembo, si comincia a parlare di una lingua unitaria adoperata da tutti gli scrittori della penisola. Ad accentuare ciò sarà la redazione del primo Vocabolario da parte dell’Accademia della Crusca. 5. Dal 1861 agli anni Quaranta del XX sec.: l’unificazione politica consente un unico insegnamento scolastico, apparato burocratico, un servizio di leva comune. Tutto ciò consente una maggiore diffusione della lingua italiana e una consistente emigrazione verso l’estero. 6. Dagli anni Cinquanta del XX sec. a oggi: l’italiano diviene lingua di uso comune anche nei contesti informali, lasciando sempre meno spazio al dialetto. I mass media, l’istruzione e lo sviluppo economico avranno un ruolo importante nella diffusione. Si assisterà ad un’altra emigrazione verso il nord Italia ed Europa. 1.2. Molti volgari da un latino variegato Molto spesso definiamo l’italiano come una lingua che deriva dal latino. Non è così, perché il verbo derivare non implica la nascita di una lingua, ma la sua lenta trasformazione nel tempo e nello spazio. Si fa riferimento al lento confluire e mescolarsi delle acque: quindi un insieme variegato di componenti. Ogni lingua, infatti, presenta un insieme di differenze condizionate dal tempo, dallo spazio, dalla società. Ciò era vero anche per il latino che subì cambiamenti profondi, a seguito della fine dell’Impero Romano d’Occidente. Il latino che viene studiato ancora oggi è definito classico, quello di Ovidio, Orazio. La definizione risale all’antichità, perché si era soliti associare gli scritti alle classi sociali del tempo. Quindi gli scritti in latino colto erano associati alla classe dei ricchi. Mentre alla base del nostro italiano, ma anche delle altre lingue romanze, troviamo il latino vivo, detto “latino volgare”. L’aggettivo volgare viene erroneamente usato, perché il latino volgare non veniva adoperato soltanto dal popolo. Parlando di latino volgare ci riferiamo a tutte quelle varietà di lingue che diedero vita alle lingue neolatine o romanze. Ci sono molti esempi che esplicano un utilizzo maggiore del volgare che del latino: infatti molte parole italiane derivano dal volgare e non dal latino, per esempio agnello che non deriva dal latino AGNUS, ma dal volgare AGNELLUM. Un grande ruolo ebbe il cristianesimo nella diffusione di lingue nuove, che tramite il messaggio evangelico, fece sì che si disgregassero i registri colloquiali all’interno dell’Impero. Una grande batosta si ebbe con il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476 d. C, che con la penetrazione delle popolazioni germaniche e con la riduzione delle vie di comunicazione tra le province, non permise l’apprendimento della norma scritta latina, riducendo il volgare ad una lingua usata per la comunicazione informale. Quindi non è possibile capire quando una nuova lingua diversa dal latino si sia affermata. Si può pensare soprattutto ad una fase di diglossia (situazione in cui due lingue conservano ruoli sociali differenti e gerarchizzati). Prima che il volgare affiorasse nella scrittura sarebbe passato molto tempo. Gli storici considerano come primo atto scritto in volgare una formula di giuramento trascritta in una serie di placiti emanati intorno al 960 nelle località di Capua. Il più antico, scritto nel 960, è definito Placito Capuano, nel quale si scrive della controversia per delle terre tra l’abbazia di Montecassino e un certo Rodelgrimo d’Aquino: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette patre Sancti benedicti. = So che quelle terre, entro quei confini che qui sono contenuti, le possedette per trenta anni San Benedetto. In questo verbale le parole utilizzate appartengono al latino, ma il notaio preferisce scrivere le parole dei testimoni in volgare, confermando l’esistenza di una nuova lingua differente dal latino. Solitamente il Placito Capuano viene considerato come l’atto di nascita della lingua italiana, ma non è così, perché sono soltanto le prime testimonianze che si hanno in latino volgare. Questo testo probabilmente è stato scritto in un volgare sviluppatosi nel meridione. 1.3. Tra tanti volgari, uno di maggior prestigio Nel XIII secolo cresce la produzione di testi letterari e di scritture pratiche soprattutto a Firenze. Infatti, affiorano numerosi testi scritti da mercanti, che spesso non conoscevano il latino e che scrivevano in volgare. Un ruolo importante hanno anche i notai, che conoscevano sia il latino che il volgare e adoperavano entrambe le lingue in modo da farsi comprendere da più gente possibile. Infatti, scrivevano le minute che precedevano i documenti ufficiali in volgare e traducevano i testi in volgare ai clienti che non conoscevano il latino. La facilità con la quale mercanti e notai scrivevano in volgare fece crescere il numero di testi di vario contenuto. Ma i primi scritti letterari non vengono da Firenze, bensì dai poeti della corte di Federico II, in Sicilia. In Toscana però allestiscono i primi canzonieri, raccolte di poesie. I copisti però, non rispettavano la lingua in cui erano stati scritti, ma la adattavano alla propria, dando vita ai poeti siculo-toscani. Con la fine della dinastia sveva, il centro poetico si sposterà in Toscana dove, nel ‘200 e ‘300, avremo una grande produzione letteraria. In questo periodo vedremo l’affiorare di una nuova corrente letteraria, lo Stil Nuovo, che avrà come poeta maggiore Dante Alighieri e altri poeti come Cavalcanti, Guinizelli. Dante avrà un ruolo importante, accentuato dalle sue opere Convivio e De vulgari eloquentia: con il primo, individua il volgare come mezzo per la diffusione del sapere, nel secondo, dimostra come un volgare illustre possa esistere al di là dei vari volgari esistenti. Ma il contributo maggiore si avrà con la Commedia, con la quale dante potenzierà il lessico e le strutture dell’italiano. In aggiunta a Dante, troveremo due grandi autori Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, che saranno considerati le guide rispettivamente per la poetica e per la narrativa. Dante, Petrarca e Boccaccio saranno denominati le tre corone, che daranno prestigio al fiorentino, rispetto agli altri volgari della penisola. 1.4. Verso la codificazione Con l’Umanesimo, si ritorna allo studio dei classici greci e latini, tralasciando il latino medioevale ormai divenuto troppo distante dal latino classico, e soprattutto il volgare, ritenuta come lingua corrotta. Il volgare veniva considerato lingua corrotta perché non seguiva una struttura grammaticale e dunque non poteva perdurare nel tempo. Con volgare si intendono tutti i dialetti parlati nella penisola. Quindi venne emarginato completamente dall’uso letterario, ma era inevitabile utilizzarlo nell’uso pratico. Basti pensare che in alcune amministrazioni comunali, nelle cancellerie, si utilizzava il volgare. Le cancellerie contribuirono a superare le divisioni linguistiche. In questi anni ci imbattiamo anche nella formazione di lingue interregionali, ovvero lingue parlate in una grande area geografica, come il settentrione, il centro e il meridione. Nella seconda età del secolo assistiamo ad un processo di fiorentinizzazione, ovvero il volgare fiorentino viene esteso a tutta la penisola. 1.5. La svolta del Cinquecento Una delle cause che spinge all’adozione di una lingua unitaria è l’invenzione della stampa, che in Italia vanta centri di editoria volgare come Venezia, Milano e Roma. Inizialmente la lingua utilizzata dalla stampa aveva un’impronta regionalistica. Ben presto, l’industria tipografica capì che era più fruttuoso adoperare un’unica lingua per poter vendere copie in tutta la penisola. Perciò l’incontro con Aldo Manuzio, importante stampatore, e Pietro Bembo, che curò la stampa della Commedia, sarà cruciale. Entrambi cominceranno a studiare i vari scritti degli autori italiani, identificando i punti di forza e non, e cercando di creare dei modelli semplici da seguire. Dallo studio del Decameron, Bembo arriverà a definire le norme della lingua italiana nelle Prose della volgar lingua. Nelle Prose, pubblicate in 3 libri, nel 1525, si esplicano le teorie delle regole stilistiche e grammaticali del volgare. Ma la proposta di Bembo aveva suscitato delle controversie, sia da parte di chi nobilitava la lingua latina, sia da parte di chi nobilitava il fiorentino trecentesco. I primi ribadivano l’importanza del ritorno al latino eliminando i tratti locali; i secondi, rappresentati da Machiavelli, marcavano la superiorità del fiorentino e cercavano di tralasciare i modelli del ‘300, per dare spazio a quelli moderni. Entrambe le proposte erano inapplicabili, in quanto non sarebbe stata possibile la conformazione ad un’unica lingua, in assenza di uno stato unitario. Mentre la proposta di Bembo sembrava vincente, in quanto donava pari dignità sia al volgare che al latino: il latino veniva nobilitato dagli autori, mentre il volgare venina parlato da tutto il popolo. Ma i grandi autori del ‘300 avevano svolto questo compito a pieno, portando il fiorentino ad avere grande importanza. La lingua è prima di tutto scritta e regolata da norme scritte, ma è soprattutto disgiunta dal parlato, che sottomesso a mutamenti, non è in grado di essere trasmesso nel tempo. La proposta di Bembo voleva indicare una via stabile da seguire. Infatti, in poco tempo si assisterà alla produzione di opere di stampo bembiano, che avevano come obiettivo quello di spiegare le regole grammaticali e lessicali. Ben presto, il fiorentino trecentesco sarà utilizzato per qualsiasi forma di scrittura, realizzando un’unificazione linguistica. 1.6. Tracce del fiorentino nell’italiano L’attributo italiano sarebbe stato dato per la prima volta da coloro che sostenevano un modello di lingua comune fondato sull’uso delle corte, mentre Bembo avrebbe utilizzato l’aggettivo toscano. In realtà, gli studiosi hanno appurato come l’italiano avesse molti tratti simile al fiorentino trecentesco. Molti sono ancora visibili anche adesso, come: -il dittongamento toscano, che si registra in parole come buono, fuoco, piede. È un dittongo che riscontriamo soltanto nelle sillabe aperte, ovvero nelle sillabe che terminano per vocale. -l’anafonesi, consiste nell’innalzamento delle vocali chiuse /e/e/o/ a un grado di chiusura superiore /i/e/u/, quando si trovano davanti a suoni consonantici, in particolare, /e/ si innalza ad /i/ davanti a nasale palatale (gramigna, tigna), davanti a alterale palatale (consiglio, famiglia) e davanti a n + occlusiva velare (lingua, tingo); la /o/ si innalza ad /u/ davanti a n + occlusiva velare (fungo, unghia). - la chiusura di e atona in i, si verifica quando la e si trova in posizione protonica, ovvero prima della sillaba accentata (dicembre, difendo). -il passaggio da ar atono a er, tipico nella formazione del futuro e condizionale: amarò, cantarò, che si trasformano in amerò e canterò. La trasformazione si è verificata anche quando ar è in posizione intertonica, ovvero posto tra accento principale e secondario (margherita, macelleria). -la riduzione del nesso rj a j, visibile in parole che terminano per –aio e –oio (notaio, cuoio). Ciò si oppone ad altri dialetti dove conservano la r invece della j, suffisso –aro (tassinaro, paninaro). Tutte queste particolarità non interessavano soltanto Firenze, ma anche altre città toscane, benché convivessero anche altri volgari diversi tra loro. I tratti del fiorentino sono diventati i tratti dell’italiano grazie alla norma fissata da Bembo. Infatti, nel terzo libro delle Prose, indica l’uscita in - a per la prima persona singolare del presente indicativo e –iamo per la prima plurale. La decisone di utilizzare il fiorentino trecentesco come fonte da cui attingere per l’italiano piuttosto del fiorentino contemporaneo, ha fatto sì che non arrivassero all’italiano le varie forme che si erano diffuse a Firenze. Nel fiorentino del ‘400 e ‘500, gli articoli el, e cambiano in il, i, e le forme verbali arò, arei, aggiungeranno il nesso –vr, avrò, avrei, mentre fusti e fussi in fosti e fossi e fosti. Non fu soltanto la normazione di Bembo a contribuire alla nascita dell’italiano, ma anche i vari autori che modificarono le loro opere adattandosi alle nuove norme grammaticali. 1.7. Con l’unità politica una nuova unità linguistica All’indomani dell’Unità d’Italia, lo Stato appena unificato, si trovò a fare i conti con numerosi problemi, uno su tutti la scarsa conoscenza della lingua unitaria e il basso grado di istruzione, analfabeti 75%. Quindi era urgente la formazione di un’istituzione scolastica solida. Per trovare una soluzione efficace al problema della lingua, il ministro dell’Istruzione Emilio Broglio, nominò nel 1868 una commissione presieduta da Manzoni. Manzoni scrisse una relazione Dell’Unità della lingua e dei mezzi di diffonderla. Il suo interesse per la questione della lingua nasce dall’esigenza di trovare una lingua adatta al romanzo moderno. Nello scrivere Fermo e Lucia, l’autore definisce la lingua come un composto indigesto, frutto della mescolanza di vari dialetti. Per questo motivo pubblicherà una nuova edizione del suo romanzo, Promessi Sposi, cercando di modificare la lingua. Ma insoddisfatto, continuò la sua ricerca con un soggiorno a Firenze, che per il romanzo sarà definita “risciacquatura in Arno”. Qui avverrà la svolta decisiva, dove capirà che la lingua non potrà trovarsi sui libri ma nell’uso parlato di una comunità, e capì che il fiorentino era l’unico modello che avrebbe potuto soddisfare sia l’uso scritto che parlato. Manzoni cominciò a lavorare anche ad un’opera che rimarrà incompleta “Della lingua italiana”. Questo testo aiuta a capire su quali teorie linguistiche poggino le soluzioni di Manzoni. Un ruolo fondamentale è dato all’Uso da Manzoni, che coincide con l’uso della comunità parlante. Manzoni propose dunque il fiorentino vivo come lingua della comunità parlante e indicò alcune vie per una maggiore diffusione, come la redazione di vocabolari e glossari. Ma alla soluzione di Manzoni, si oppone Graziadio Ascoli, che non apprezza il fatto di tralasciare la lingua della tradizione letteraria. Ascoli vedeva la proposta del fiorentino come un’imposizione dall’alto, mentre lui era a favore di una lenta trasformazione naturale della lingua. I due autori avevano formazioni diverse: Ascoli, di impronta tedesca, prestava attenzione agli aspetti diacronici della lingua (DIACRONIA= studia le lingue secondo il loro divenire nel tempo), Manzoni, di impronta francese, prestava attenzione al funzionamento sincronica della lingua (SICRONIA= la valutazione dei fatti linguistici considerati in un dato momento). All’affermazione dell’italofonia contribuirono numerosi fattori, prima tra tutti la scuola. Fu emessa, inizialmente, la legge Casati, che proponeva i primi due anni di elementari obbligatori con gratuità. Successivamente avremo la legge Coppino, che estendeva l’obbligo ai primi tre anni delle elementari. Infine, avremo la legge Orlando, che estese l’obbligo fino a 6 anni, prevedendo un anno in più per chi non avrebbe continuato gli studi. Furono importanti anche altri fattori, come il fenomeno dell’industrializzazione, spostamento dalle campagne alle città; la creazione di un’unica amministrazione pubblica, contribuì alla diffusione di un unico apparato burocratico; l’istituzione della leva militare obbligatoria, fece incontrare uomini di diverse regioni, costringendoli a parlare la lingua comune; la prima ondata di emigrazione verso l’estero; l’affermazione dei quotidiani, fa crescere l’interesse alle vicende del paese. 1.8. Dopo la metà del Novecento: tra problemi risolti e nuove sfide da affrontare Nei primi anni dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Italia versava in condizioni gravi. Poco dopo cominciò un periodo di grandi trasformazioni economiche, culturali e sociali, che si tradussero in un vero e proprio miracolo economico. Nel giro di poco tempo si realizzò una rivoluzione linguistica che consentì all’italiano di essere considerato allo stesso livello delle altre lingue europee. L’italiano sarà utilizzato in ogni circostanza, lasciando meno spazio ai dialetti. L’uso della lingua italiana in ogni ambito sarà la scelta più valida: grazie a ciò, anche i giovani delle classi più disagiate potranno sentirsi partecipi di una società. La lingua della letteratura smette di essere il modello da seguire perché lo sarà l’italiano parlato. Ci sono fattori che hanno contribuito alla diffusione della lingua, come l’emigrazione verso il Nord del paese e Europa: il contatto di persone di varie aree linguistiche ha imposto l’utilizzo di una sola lingua e la perdita dei dialetti originari. Un grande peso avrà la televisione, che avrà funzione pedagogica, riuscendo a trasmettere un italiano curato. Anche la scuola che diventerà obbligatoria fino alle medie. Il tasso di analfabetismo scende notevolmente, ma non tutti i problemi sono stati risolti, perché molti non sono capaci di comprendere le strutture sintattiche e lessicali. Per questo motivo l’istruzione sarà soggetta ancora a cambiamenti. 2. Confronto: l’italiano e le altre lingue La storia linguistica italiana è in parte diversa da quella degli altri paesi di lingua romanza. Il fiorentino letterario ebbe la capacità di imporsi sulle lingue italoromanze, ma, nonostante ciò, non ci fu mai un decreto che ne prescrivesse l’adozione, a differenza del francese e spagnolo. In Francia esistevano le due grandi famiglie delle lingue d’oc e d’oil. La lingua d’oc, adoperata nel sud della Francia, la lingua d’oil, a nord. Ciò che favorisce il prevalere della lingua d’oil è la corte di Parigi, molto influente. Decisiva fu la crociata contro gli albigesi, che favorì il predominio del francese. Ma la lingua sarà riconosciuta ufficiale dopo l’ordinanza di Villers-Cottorets, che indicava la scrittura delle leggi in francese. L’Italia influenzò la lingua francese, agevolando l’ingresso di latinismi. Inoltre, il cardinale Richelieu fondo l’Acadèmie française sotto il modello dell’Accademia della Crusca. Ma i compiti dell’Accademia francese saranno stabiliti dal re Luigi XIII. Grazie alla Rivoluzione francese, il francese verrà considerato come lingua ufficiale. In Spagna convivevano diversi volgari, quando fu conquistata dagli arabi. Ciò comporterà l’entrata di molte parole arabe nella lingua. Gli arabi diedero il via ad una ricca società, ma gli spagnoli cercarono di liberarsene nel processo di riconquista della penisola. Un ruolo importante ebbe il Regno di Castiglia, e soprattutto il Re Alfonso VIII, che assorbì tutti i regni islamici. In questo periodo il castigliano acquista prestigio, grazie al re Alfonso il Savio, che riunì presso la corte numerosi intellettuali, commissionando opere scientifiche e letterarie, estendendo il castigliano anche in ambito giuridico. Complessa fu l’unificazione con il Regno di Aragona, che si sancirà con il matrimonio dei due re. Da questo momento, il castigliano si diffonderà a discapito delle altre lingue presenti come il catalano e il basco. Le imposizioni del castigliano resero difficili le elazioni sociali. Ciò avrebbe portato le comunità minori a richiedere la propria autonomia linguistica nel 1979.