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4. MISTILINGUISMO
il parlante italiano è stato attirato dal toscano o ammirato nel parlare popolare di Firenze. Il
parlante non toscano è vissuto in una condizione di disglossia, perché parlava un dialetto d’uso
quotidiano. Le persone colte parlavano il latino, considerato anch’esso nobile.
Il mistilinguismo è la mescolanza di elementi linguistici diversi, nello scritto e nel parlato e
poteva manifestarsi sia involontariamente, sia volontariamente.
5. NOTAI E MERCANTI DEL MEDIOEVO
molti dei primi documenti del volgare sono stati scritti dai notai. Il mercante medievale era
certo meno istruito del notaio, ma non gli mancava una cultura pratica, ad esempio la
conoscenza delle lingue straniere. Non sapeva il latino: imparava a leggere, scrivere e far di
conto; ma il mercante, non conoscendo il latino, era ignorante di lettere.
Il mercante utilizzò altre forme di scrittura, oltre alle lettere missive. Con il nome di pratiche di
mercatura si indicano quaderni miscellanei, vademecum in cui si trovano in maniera abbastanza
disorganica cose nuove, problemi matematici. I libri di famiglia, custoditi tra i beni di casa, sono
quaderni in cui uno o più membri della famiglia annotarono avvenimenti familiari.
Nel 500 però continuò la tradizione delle narrazioni di viaggi.
6. SCIENZIATI E TECNICI
Lo strumento della lingua scientifica fu solo il latino. Questa situazione durò fino al
Rinascimento. Ci volle tempo perché il volgare potesse competere con il latino strappandogli il
monopolio della cultura. Già Dante scrisse in volgare il Convivio.
Galileo Galilei promosso al più alto livello scientifico l’uso del volgare toscano.
7. I GRAMMATICI
Una lingua esiste anche prima che i grammatici ne abbiano fissato le regole. La prima breve
grammatica italiana che si conosca è la cosiddetta Grammatichetta vaticana, di Leon Battista
Alberti, composta nel 400. La prima grammatica a stampa risale a Giovanni Francesco Fortunio.
Le norme fissate dai grammatici del 500 erano ricavate dagli scrittori che avevano reso grande
la lingua: Dante, Petrarca e Boccaccio.
La grammatica, in forma di ordinato manuale, divenne uno strumento fondamentale della
pedagogia scolastica, come lo è oggi.
8. DIZIONARI E ACCADEMIE
accanto alle grammatiche, l’altro grande presidio della norma linguistica è rappresentato dai
dizionari.
La cultura di Firenze seppe intervenire con un’efficacia grandissima, attraverso l’Accademia
della Crusca. Questa Accademia, fondata alla fine del 500 è talmente legata alla storia
linguistica italiana che tracciare la sua storia significa ripercorrere tutti i dibattiti. La Crusca
pubblicò nel 1612 un vocabolario molto più ampio.
9. LA POLITICA LINGUISTICA
l’unificazione politica italiana si è realizzata quando la lingua aveva già raggiunto da sé un
assetto sicuro. In Toscana la lingua parlata era vicina a quella scritta e letteraria, e si aveva
un’omogeneità altrove impossibile. È naturale che in Toscana il potere politico fosse disponibile
alla promozione della lingua volgare. In questo modo la Toscana assumeva una posizione di
vantaggio.
Diversa la situazione nel resto d’ Italia dove si ebbero casi di adozione precoce del volgare
toscano al posto del latino. Eppure il volgare, già nel 400, fece la sua comparsa in alcune
cancellerie signorili. È nella cancelleria che si forma, nel 400, la lingua che usiamo definire come
comune.
Per uno stato, la scelta di una lingua ufficiale può significare una scelta di campo. In Piemonte,
durante il periodo napoleonico, fu introdotto il francese al posto dell’italiano.
Anche i dialetti esprimono una diversità regionale. Non a caso, nel clima che portò all’Unità
d’Italia, si formarono movimenti di opinione che avversarono i dialetti.
Uno degli strumenti della politica linguistica è la scuola. Fino al 700 la scuola superiore fu in
lingua latina. Il volgare non era insegnato, almeno ufficialmente. Solo in Toscana, furono
istituite già nel 500 cattedre di lingua toscana. Con le riforme del Settecento il toscano entrò
nella scuola superiore e nell’università.
4. UN GRAFFITO E UN AFFRESCO
Le più antiche testimonianze italiane di scritture volgari sono carte notarili, rogiti
o verbali processuali; cioè documenti d’archivio. Caso diverso è quello
dell’iscrizione della catacomba romana di Commodilla, la quale è un anonimo
graffito tracciato sul muro. L’interesse di questo graffito deriva dal fatto che si
tratta di un’antica testimonianza, la quale rivela il suo reale carattere di
registrazione del parlato. Il graffito non porta alcuna indicazione cronologica.
Più tarda è l’iscrizione della basilica romana di San Clemente. Mentre il graffito
della catacomba di Commodilla è frutto di una certa casualità, quella della basilica
di San Clemente è di un affresco in cui le parole in latino e in volgare sono state
dipinte fin dall’inizio accanto ai personaggi rappresentati. Il pittore ha aggiunto
una serie di parole che hanno funzione di didascalia, o che indicano le frasi
pronunciate dai personaggi raffigurati: queste frasi sono in un volgare vivace e
popolarescamente espressivo.
CAPITOLO 2 IL DUECENTO
1. IL LINGUAGGIO POETICO DAI PROVENZALI AI POETI SICILIANI
Vi è differenza tra l’uso occasionale del volgare all’interno di documenti notarili o
giudiziari, e l’adozione del volgare stesso come lingua letteraria. La scelta del
volgare per la poesia implicava una promozione della nuova lingua. La prima
scuola poetica italiana fiorì all’inizio del XII secolo.
Altre due letterature romanze si erano già affermate: la letteratura francese in
lingua d’oil e la letteratura provenzale in lingua d’oc. La lingua d’oc esercitava un
grande fascino: era se stessa, la lingua della poesia incentrata sulla tematica
dell’amore. La poesia in lingua d’oc si era sviluppata nelle corti dei feudatari di
Provenza, Aquitania e Delfinato, ma la sua influenza si era estesa al di qua delle
Alpi. Anche i poeti siciliani fecero qualche cosa del genere, in quanto imitarono la
poesia provenzale: ma essi ebbero l’idea di sostituire a quella lingua forestiera un
volgare italiano, il volgare di Sicilia.
Il corpus della poesia delle nostre origini è stato trasmesso da codici medievali
scritti da copisti toscani. Nel Medioevo copiare non era operazione neutrale, che
garantisse sempre il rispetto dell’originale. I copisti toscani intervennero sulla
forma linguistica della poesia siciliana con una vera operazione di traduzione. Nel
corso dei secoli la forma toscanizzata fu presa per buona.
CAPITOLO 3 IL TRECENTO
1. DANTE E IL SUCCESSO DEL TOSCANO
L’eccezionalità assoluta della Commedia permette di isolare quest’opera tra le
altre. Essa è scritta in una lingua diversa e il suo stile utilizza risorse ben più vaste
di quelle proprie della poesia lirica stilnovista. La ricchezza tematica e letteraria
della Commedia favorì una promozione del volgare. La Commedia è opera
compiuta in esilio, che si collega linguisticamente, sì alla Toscana e a Firenze, ma
si proietta sull’Italia settentrionale che ospitò il poeta durante la maggior parte
del lavoro di composizione.
Il successo della Commedia fu determinante per il successo della lingua toscana. Il
toscano iniziò così la sua espansione irreversibile insieme ad altri due autori
toscani che produssero opere in fiorentino: il Canzoniere di Petrarca e il
Decameron di Boccaccio formano con la Commedia una triade giustamente
celebrata, tanto che i tre autori sono stati uniti nella designazione di “Tra
Corone”. Il successo del fiorentino non ci sarebbe stato senza la letteratura.
4. LA PROSA DI BOCCACCIO
Il salto di qualità si ha con il Decameron di Boccaccio. Nelle novelle di Boccaccio
ricorrono situazioni narrative molto variate, in contesti sociali diversi. Tutte le
classi si muovono sulla scena, dai regnanti alle prostitute. Qua e là compaiono
voci che introducono elementi diversi dal fiorentino: il veneziano, il senese, il
toscano rustico. Le novelle mostrano sovente una disposizione a concedere spazio
alla vivacità del dialogo. Tuttavia lo stile che divenne boccaccino è quello
caratterizzato dalla complessa ipotassi.
La prosa di Boccaccio resta comunque un modello di eccezionale ricchezza. Una
parte del suo fascino è affidata all’uso di elementi ritmici, i parallelismi sintattici,
l’uso delle figure retoriche. La prosa di Boccaccio è fiorentina di livello medio –
alto.
Giovanni Boccaccio è anche autore di uno dei più antichi testi in volgare
napoletano, un’Epistola del 1339. Uno dei primi esempi di quella che viene
definita letteratura dialettale riflessa, cioè letteratura dialettale coscienze di
essere tale che Boccaccio era in grado di padroneggiare alla perfezione. Si tratta di
uno scritto di tono scherzoso in cui l’autore si è dedicato a una sorta di
divertimento occasionale, rivolgendosi all’amico fiorentino Francesco de’ Bardi.
L’Epistola nasce a Napoli, e si presenta in una lingua napoletana in senso comico.
L’esperimento di Boccaccio mostra un uso volontario di un volgare diverso dal
popolo.
CAPITOLO 4 IL QUATTROCENTO
1 LATINO E VOLGARE
Nello scrivere latino, Petrarca si ispirava a Cicerone, Livio, Seneca, Virgilio e
Orazio. Il confronto con il latino degli autori canonici fu decisivo per la formazione
di una mentalità grammaticale applicata in seguito anche alla stabilizzazione
normativa dell’italiano. La svolta umanistica che incominciò con Petrarca ebbe
come conseguenza una crisi del volgare, la quale non arrestò l’uso del volgare
stesso ma lo screditò agli occhi della maggior parte dei dotti.
Vi furono umanisti della prima generazione che non usarono il volgare, come
Salutati, la cui figura sta al centro dell’Umanesimo fiorentino nei primissimi anni
del 400. L’atteggiamento più comune fu diverso: il disprezzo per il volgare era
normale. Il latino era preferito in quanto lingua più nobile, capace di garantire
l’immortalità letteraria. L’uso del volgare, secondo l’opinione di questi dotti,
risultava accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari. Credere nel volgare era
come scommettere su di un incerto futuro.
4.L’UMANESIMO VOLGARE
A Firenze si ebbe un forte rilancio dell’iniziativa in favore del toscano. I
protagonisti, oltre a Lorenzo de’ Medici, l’umanista Cristoforo Landino e il
Poliziano.
Landino fu cultore della poesia di Dante e Petrarca e nega la naturale inferiorità
del volgare rispetto al latino e invita i concittadini di Firenze a darsi da fare perché
la città ottenga il principato della lingua.
Landino sosteneva la necessità che il fiorentino si arricchisce con un forte apporto
delle lingue latina e greca.
La vitalità dell’Umanesimo volgare fiorentino esige che si presti interesse alle
realizzazioni poetiche di Lorenzo. Il volgare viene assunto in questo caso a
soggetto di un esercizio letterario colto, in ambiente d’elite, da parte di autori che
sono in grado di gustare appieno le bellezze della letteratura classica.
CAPITOLO 5 IL CINQUECENTO
1. ITALIANO E LATINO
Nel 500 il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo il riconoscimento
pressochè unanime dei dotti. In questo secolo assistiamo a un vero e proprio
trionfo della letteratura in volgare, con il fiorire di autori come Ariosto, Tasso,
Machiavelli, Guicciardini. Il volgare scritto raggiunse nel 500 un pubblico molto
ampio di lettori.
Si avvertiva un clima nuovo. La crisi umanistica del volgare era ormai superata. Gli
intellettuali avevano generalmente fiducia nella nuova lingua. Si ebbero le prime
grammatiche a stampa dell’italiano e i primi lessici.
Pur se il volgare si collocò nei confronti del latino in una posizione di forza, il
latino stesso mantenne una posizione rilevante nella pubblica amministrazione e
nella giustizia.
Per avere un’idea del rapporto tra italiano e latino è utile anche considerare il
reciproco peso delle due lingue nella produzione di libri. Quasi esclusivamente in
latino si presentano la filosofia, la medicina e la matematica. Il volgare viene usato
nella scienza quando si tratta di stampare opere di divulgazione. Quanto al settore
umanistico letterario, il volgare trionfa nella letteratura.
8. IL LINGUAGGIO POETICO
Il petrarchismo è caratteristico del linguaggio poetico cinquecentesco. Il
petrarchismo nella cultura italiana ed europea significa la scelta di un vocabolario
lirico selezionato e di un repertorio di topoi.
I rapporto tra Tasso e la Crusca costituiscono un capitolo celebre e doloroso nelle
discussioni linguistico lettersrie della fine del 500. Tasso non aveva perso le
distanze dalla lingua toscnaa. In realtà egli non mise mai in discussione la
sostanzialie toscanità della lingua italiana non riconobbe il primato fiorentino: la
trdizione toscana è sentita da lui come patrimonio culturale comune. La polemica
con la Crusca non toccò la sua poesia lirica ma il poema. Tra le accuse rivolte a
Tasso epico, alcune ebbero per oggetto questioni di lingua e di stile. Lo stile di
Tasso epico era giudicato oscuro, distorto, sforzato; la sua lingua era giudicata
troppo culta; il suo linguaggio era visto come una mistura di voci latine, straniere,
lombarde, nuove. I cruscanti giudicavano che Tasso, rispetto a Ariosto, non fosse
facile da intendere. Tasso costringeva il suo pubblico alla lettura silenziosa, a un
esame visivo del testo.
Le critiche della Crusca mostrano uno scarso apprezzamento nei confronti dl
nuovo gusto letterario, visto che Tasso si era necessariamente staccato dal
modello di Ariosto.
9. LA CHIESA E IL VOLGARE
La lingua ufficiale della Chiesa restò il latino, ma il problema del volgare emerse
nella catechesi e nella predicazione. Il Concilio discusse la legittimità delle
traduzioni della Bibbia. I padri del Concilio di Trento non arrivarono a una
decisione radicale e specifica su questo punto. La diffusione del solo testo latino
avrebbe reso il libro sacro più distante dagli interpreti meno colti, garantendo la
funzione di controllo della gerarchia ecclesiastica. Al Concilio di Trento si affrontò
il problema della traduzione della Sacra Scrittura.
La discussione sul tema della Messa era simile a quella della Bibbia. Veniva
sottolineata in maniera particolare la funzione di lingua sacra propria del latino. Al
latino era riconosciuto il carattere di lingua universale: esso garantisca un
‘omogeneità nel messaggio della Crusca.
Il Concilio di Trento insisteva proprio sul fatto che la predicazione in lingua volgare
era un o dei compiti a cui i parroci non dovevano assolutamente sottrarsi, e che
questa predicazione doveva svolgersi proprio durante la Messa, cioè il rito
pronunciato in latino. In ogni modo la Chiesa dovette affrontare una vera e
propria questione della lingua.
Il primo elemento di cui si deve prendere atto è la forte influenza del bembismo
anche nel campo della predicazione. La predicazione si presentava come un
settore in qualche modo vergine, ricollegabile alle regole dell’oratoria antica, ma
nuovo
CAPITOLO 6 IL SEICENTO
1 IL VOCABOLARIO DELL’ACCADEMIA DELLA CRUSCA
La Crusca fu un’associazione privata senza sostegno pubblico, in un’Italia divisa in
stati diversi. Eppure la Crusca portò a termine il disegno di restituire a Firenze il
magistero della lingua. Per secoli essa fu un’istituzione avversata, ma nessuno
potè permettersi di ignorarla.
Il contributo più rilevante della Crusca si ebbe quando questa accademia si
indirizzò alla lessicografia, ciò che avvenne a partire dal 1591.
Quello della Crusca fu un vocabolario concepito attenendosi alle regole fissate
all’interno dell’Accademia. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca uscì
dunque nel 1612 presso la tipografia veneziana di Giovanni Alberti. Sul
frontespizio portava l’immagine del frullone o buratto, lo strumento che si usava
per separare la farina dalla crusca, con sopra il motto “Il più bel fior ne coglie”.
L’impostazione del Vocabolario della Crusca fu legata all’insegnamento di Salviati,
anche se l’opera fu realizzata dopo la sua morte.
Nonostante il dissenso che si manifestò, il Vocabolario assunse senz’altro un
prestigio sovraregionale e internazionale.
La terza edizione, stampata a Firenze, nel 1691, si presenta invece vistosamente
diversa fin dall’aspetto esterno: tre tomi al posto di uno, con un corrispondere
aumento del materiale, verificabile sia nella quantità dei lemmi, sia negli esempi e
nella definizione delle voci. La terza Crusca fece un salto quantitativo,
consolidando il primato dell’Accademia di Firenze nel campo della lessicografia.
CAPITOLO 7 IL SETTECENTO
1. L’ITALIANO E IL FRANCESE NEL QUADRO EUROPEO
La lingua di comunicazione elegante da usare con i viaggiatori stranieri nei
territori di lingua tedesca era il francese, ma anche l’italiano aveva una posizione
di prestigio. L’italiano era lingua di corte di Vienna, e Metastasio nel suo lungo
soggiorno viennese non sentì la necessità di imparare il tedesco. Anche a Parigi
l’italiano era abbastanza conosciuto, come lingua da salotto e per le dame,
corredo della buona educazione delle fanciulle aristocratiche. Un italiano colto del
700 che non voglia sfiorare nel bel mondo deve parlare un po’ di francese.
Scrivere in francese significava non solo essere alla moda, ma anche essere intesi
senza bisogno di traduzione. Il francese veniva usato da scrittori dell’Italia
settentrionale per appunti privati, per annotazioni, per abbozzi.
La penetrazione del francese avveniva attraverso un’infinità di canali, non solo
attraverso l’alta cultura. Era una moda che investiva aspetti del costume e della
vita comune.
L’italiano è caratterizzato da una grande libertà nella posizione degli elementi del
periodo: può anticipare il complemento, spostare il verbo in fondo alla frase.
Questo veniva reputato da alcuni un difetto strutturale, laddove invece sarebbe
stato più giusto lamentare.
2. CESAROTTI FILOSOFO DEL LINGUAGGIO
La posizione che meglio esprime gli ideali dell’Età dei Lumi nei confronti di una
tradizione conservatrice è espressa da Cesarotti, nel “Saggio sulla filosofia delle
lingue”. Caratteristiche del trattato di Cesarotti è la nitidezza di impianto:
- Tutte le lingue nascono e derivano; all’inizio della loro storia sono barbare
- Nessuna lingua è pura: tutte nascono dalla composizione di elementi vari
- Nessuna lingua nasce da un ordine prestabilito
- Nessuna lingua è perfetta
- Nessuna lingua è parlata in maniera uniforme nella nazione.
Stabiliti tali principi, Cesarotti affronta il problema della distinzione tra lingua
orale e scritta; quest’ultima ha una superiore dignità. La lingua scritta non
dipende dal popolo, ma nemmeno dipende ciecamente dagli scrittori approvati.
La III parte del Saggio riconosce il valore dell’uso, quando esso accomuna scrittori
e popolo, perché il consenso generale è l’autore e il legislatore delle lingue. Chi
scrive non deve rimescolare gli archivi delle parole. Gli scrittori sono invece liberi
di introdurre termini nuovi o di ampliare il senso dei vecchi.
Secondo Cesarotti i forestierismi e i neologismi, una volta entrati nell’italiano,
possono legittimamente produrre nuovi traslati e derivazioni.
Lui propone un duplice concetto di genio, grammaticale e retorico. La struttura
grammaticale delle lingue è inalterabile: si veda ad esempio la differenza tra una
lingua che distingue i casi mediante le desinenze, come il latino, e una che ne è
priva. Il confronto tra italiano e latino mostra come il genio grammaticale segni la
separazione tra due lingue distinte. Il lessico dipende dal genio retorico, che
riguarda l’espressività della lingua stessa.
La parte IV del “Saggio sulla filosofia delle lingue” è dedicata a esaminare la
situazione italiana e a proporre soluzioni positive alle polemiche della questione
della lingua. Le pagine più interessanti di questa parte del saggio sono le
conclusive, dove si affronta il tema del rinnovamento della lessicografia. Poiché la
lingua è della nazione, egli proponeva di istituire un consiglio nazionale della
lingua, al posto della Crusca. La sede di questa nuova prestigiosa istituzione
linguistica avrebbe dovuto essere ancora Firenze.
Compito finale e supremo del consiglio era la compilazione di un vocabolario. Il
vocabolario avrebbe dovuto essere realizzato in due forme. Ci sarebbe stata
un’edizione ampia e una ridotta, di uso comune.
6. IL LINGUAGGIO POETICO
Risale al 1690 la fondazione, a Roma, dell’Arcadia, movimento che fu una palestra
poetica di dimensioni gigantesche. Ebbe come strumento una lingua
sostanzialmente tradizionale, ispirata al modello di Petrarca.
Vi è nel linguaggio della poesia del 700 una sostanziale adesione al passato.
Metastasio, che usa un lessico ridotto e una sintassi elementare. Tra due termini,
si tende a scegliere quello più raro e letterario. Sono caratteristiche che
resteranno a lungo nel linguaggio poetico italiano e che resisteranno anche
nell’Ottocento. Il 700 è probabilmente il secolo in cui questo linguaggio si
stabilizza e si collega a un orizzonte tematico di tipo elevato e sublime.
7. LA PROSA LETTERARIA
La prosa saggistica del 700 si avviano verso una sostanziale semplificazione
sintattica.
Assai particolare e diversa dalle tendenze più interessanti del secolo è la prosa di
un grande pensatore come Vico che aveva aderito al capuismo, cioè al
movimento arcaizzante di Di Capua.
Controcorrente dichiara di voler andare anche Vittorio Alfieri, che non perse
occasione per parlare male della lingua francese e per descrivere il proprio
faticoso apprendimento del toscano classico. Alfieri inaugurò anche il soggiorno a
Firenze come pratica di lingua viva.
Nelle tragedie di Alfieri, lo stile dell’autore si caratterizza per un volontario
allontanamento della normalità ordinaria e dal cantabile, allontanamento
ottenuto attraverso ogni sorta di artificio retorico.
CAPITOLO 8 OTTOCENTO
1. PURISMO E CLASSICISMO
All’inizio dell’800 si sviluppò un movimento che va sotto il nome di Purismo.
Questo termine indica in sostanza l’intolleranza di fronte a ogni innovazione. È
evidente che la tradizione linguistica italiana, con il tradizionalismo cruscante e
con il culto del fiorentino arcaico, offriva salde basi alle teorie puristiche più o
meno rigide.
Dionisotti ha parlato di una dottrina così debolmente e sgraziatamente
presentata. Si riferiva in questo caso alla diffusione delle teorie elaborate dal
capofila del Purismo italiano, il padre Antonio Cesari. Egli non si dimostrava
nemmeno in grado di stabilire che cosa fosse quella bellezza della lingua di cui
parlava continuamente come una sorta di entità mistica.
Cesari è il capofila del Purismo, ma molte sono le figure che si muovono
nell’ambito di questo movimento. Puoti tenne una scuola libera e privaya,
dedicata all’insegnamento della lingua italiana.
Lo scrittore Monti ebbe la forza e l’autorevolezza per porre un freno alle
esagerazioni del Purismo. La critica antipurista di Monti arrivò a colpire lo stesso
Vocabolario della Crusca.
6. IL LINGUAGGIO GIORNALISTICO
Nel XIX secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza superiore a quella
che aveva avuto in precedenza. Proliferavano periodici che volvevano raggiungere
un pubblico nuovo, e necessitavano di un linguaggio più semplice. Non era facile
raggiungere questo obiettivo, e il giornale primo ottocentesco restava ancora un
prodotto d’élite.
Nella seconda metà del secolo, il giornalismo diventò un fenomeno di massa. Le
edicole furono il punto di vendita della stampa periodica, prima diffusa attraverso
gli abbonamenti. La sintassi giornalistica sviluppò la tendenza al periodare breve,
e spesso alla frase nominale.
La lingua della cronaca non è identica a quella degli articoli politici o letterari, né a
quella delle pagine che si occupano di economia. Compare sui fogli periodici la
pubblicità.
7. LA PROSA LETTERARIA
L’Ottocento è l’epoca in cui si fonda la moderna letteratura narrativa, attraverso
due svolte fondamentali, Manzoni e Verga. Manzoni ebbe il merito di rinnovare il
linguaggio non solo del genere romanzo, ma anche della saggistica, avvicinando lo
scritto al parlato.
Completamente diverso era il modello della prosa caro ai classicisti, che in genere
si ispiravano alla grande tradizione del Rinascimento.
Una svolta nella prosa letteraria è comunque quella segnata da Manzoni nel
Promessi sposi. Fin dallo stesso 1827 lo scrittore, compiendo un viaggio in
Toscana, avviò la cosiddetta risciacquatura di panni in Arno, cioè la correzione
della lingua del suo capolavoro, che egli voleva perfettamente adeguato al
fiorentino delle persone colte.
La posizione di Manzoni è centrale nella storia della prosa ottocentesca non solo
per il valore della sua realizzazione letteraria, ma anche per l’influenza che
esercitò su molti scrittori.
Modelli di prosa toscana che stanno a margine rispetto al Manzoni sono quelli di
Fucini e di Collodi.
Un diverso uso del toscanismo si ha negli scrittori che Contini ha ascritto alla
cosiddetta linea del mistilinguismo.
Ben altra importanza ebbe la svolta inaugurata da Verga, nei Malavoglia. Verga
non abusa del dialetto e non lo usa come macchia locale. Si tratta di adattare la
lingua italiana a plausibile strumento di comunicazione per i personaggi sicilini
appartenenti al ceto popolare. Lo scrittore adotta alcune parole siciliane note in
tutt’Italia, e poi ricorre a innesti fraseologici.
Molto nuova risulta la sintassi usata da Verga, in particolare per il discorso
indiretto libero, che consiste in un miscuglio del discorso diretto e di quello
indiretto. Non vengono aperte le virgolette, quindi apparentemente è ancora lo
scrittore a riferire le parole o i pensieri del suo personaggio, ma nella voce dello
scrittore affiorano modi e forme che sono propri del discorso diretto: il lettore
avverte che non sta più ascoltando la voce dell’autore narratore, ma quella del
personaggio.
CAPITOLO 9 IL NOVECENTO
1. IL LINGUAGGIO LETTERAIO NELLA PRIMA METÁ DEL SECOLO
Gli autori vissuti a cavallo tra i due secoli, come D’annunzio e Pascoli,
testimoniano le trasformazioni in atto. La lingua italiana si presenta nel 900 con
un ribollire di novità. La poesia di D’Annunzio si presenta come innovativa, per la
capacità di sperimentare una miriade di forme diverse e per il gusto di citare e
utilizzare lingua, esempi.
Non solo D’Annunzio fu disposto a venir a patti con le esigenze del proprio
temp0o ma anche collaborò con la nascente cinematografia del muto, fornendo
le didascalie.
Una prima rottura con il linguaggio poetico tradizionale si ha con Pascoli; con lui
cade la distinzione tra parole poetiche e parole non poetiche.
L’altro scrittore del primo 900, Italo Svevo, è famoso per il rapporto non facile con
la lingua italiana, determinato dalla sua provenienza da un’area periferica come
quella di Trieste.
Uno dei punti di riferimento per gli scrittori è il dialetto. Bisogna distinguere tra
l’utilizzazione diretta e le varie miscele che sono possibili combinando dialetto e
lingua. Nel 900, anche il toscano può essere ormai considerato alla stregua di un
dialetto.