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ESAME DI LINGUA SPAGNOLA

LA LINGUA È UN’ORCHESTRA

L’italiano plurale
L’italiano non è uno ma tanti; è una lingua plurale: in movimento. 

Riconoscere e governare le sue varietà è l’unico modo di maneggiare la lingua. 


1. Lo sapete tu e quelli della palazzina tua


2. Festeggiamo questo change
3. Io sono una famiglia povera

Sono tutte e tre frasi in italiano; la prima è tipica di un italiano locale, non dialetto; incorpora un
aspetto sintattico della parlata romanesca: cioè l’utilizzo del possessivo dopo il sostantivo.

La seconda, invece, è un esempio di iper-di usione dell’inglese, seppur non in ambito di
particolare prestigio; si tratta, infatti, di una parola comunissima che ha, pertanto, un equivalente
italiano.

La terza frase, al contrario, veicola il messaggio secondo il quale la povertà linguistica è associata
a quella materiale; è scritta in un italiano scorretto, seppur italiano; l’italiano di chi non sa:
oggigiorno gli immigrati, ieri gli italiani che parlavano unicamente dialetto. 


A tal proposito, la principale di erenza che si riscontrava nella nostra lingua era dovuta alla
contrapposizione fra un gruppo di persone ristretto, che si servivano della tradizione letteraria, e la
massa di incolti, che parlavano solo dialetto e non sapevano scrivere. 


Le lingue sono sempre state, quindi, tre:

1. Italiano letterario
2. Dialetti
3. Varietà per la comunicazione extra-familiare: un ibrido fra l’italiano d’uso letterario e i dialetti

Oggigiorno, parliamo di ‘italiano regionale’ o ‘locale’; difatti, esiste un italiano standard e linguaggi
settoriali. Inoltre, si consolida, a anco alle altre minorità di lingue straniere, l’inglese. 

Le varietà dell’italiano ha, quindi, a che fare anche con:

1. Storia (la lingua cambia nel tempo)> varietà

2. Geogra a > varietà diatopiche

3. Con i gruppi sociali > varietà diastratiche

4. Con la situazione comunicativa > varietà diafasiche

5. Con il canale di comunicazione > varietà diamesiche

Una menzione la merita anche la varietà del parlato a distanza (es: skype) e dello scritto dei social
media. 


SCRIVERE CHIARO E SCRIVERE OSCURO

Per rendere chiaro il concetto di scrivere chiaro o scrivere oscuro, prendiamo a riferimento due
autori quali Primo Levi e Giorgio Manganelli con, rispettivamente, ‘La tregua’ e ‘Hilarotragoedia’.

Secondo Primo Levi, lo scrittore ha un ruolo importante: deve tramandare un messaggio e non
può farlo con un linguaggio oscuro; deve essere chiaro.

Al contrario, Manganelli è convinto che lo scrittore debba, al tempo stesso, descrivere un
signi cato ma liberarsi di esso. 


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(Corriere della Sera, Febbraio 1997).


Si tratta di due esempi antitetici di come la lingua si faccia stile

LA LINGUA È UN’ORCHESTRA

Non solo esistono diversi stili di scrittura, ma uno stesso scrittore può adoperarne in
contemporanea più di uno; per di più, la voce letteraria può essere molto marcata perché fatta, a
sua volta, di sovrapposizioni e contaminazioni. Difatti, nei romanzi si intrecciano mille voci e
linguaggi di erenti fra loro; di fatto, la voce narrante è un’orchestra che fa stridere o accorda
diverse voci. 

L’Ulisse di James Joyce ne è un esempio: altro non è che senso plurale di ambiguità multi vocale;
niente virgolette, niente discorsi diretti, nessuna citazione; ma una strati cazione di voci che
bisogna cogliere.

COMUNE-MEDIO-NEO-STANDARD

L’italiano comune rimanda a due concetti:

1. Quello di lingua condivisa


2. Quello di lingua capace di comunicare

Una lingua con queste caratteristiche è stata per secoli assente in Italia e si riconosce oggi
nell’esistenza di quello che viene de nito ‘italiano del gusto medio’.

Ciò si deve alle continue evoluzioni, che hanno portato, per esempio:

1. all’uso di gli al posto di loro

2. di lui e lei come soggetto

3. del ‘che’ nell’impiego di subordinate generiche (es:vieni che ti pettino)

4. o dell’uso della forma interrogativa ‘come mai?’ Al posto di ‘perché?’




Mentre, ai tempi più recenti appartengono l’uso dei cognomi femminili, preceduti da articolo, o
la di usione di nomi femminili come ‘la sindaca’. 

Sul piano del lessico, importante è l’introduzione delle parolacce nel vocabolario
fondamentale. 


GRADAZIONI DI DIALETTO

Parliamo di GEOSINONIMI: cioè varianti locali di uno stesso termine; non si tratta di parole
dialettali, bensì di termini italiani che conservano l’impronta del dialetto. 

Ciò non si limita unicamente al lessico, basti pensare alla di usione toscana della forma
impersonale in luogo della prima persona singolare (‘noi si va’), oppure all’uso transitivo di verbi
intransitivi come salire, scendere o uscire. 


Com’è nato, per cui, l’italiano locale?

Dal contatto dei dialetti con l’italiano colto, che ha portato il popolo a parlare non più in dialetto,
ma nemmeno in italiano. 

Lo screditamento del dialetto è stato il prezzo da pagare per consentire agli italiani di accedere
alla lingua nazionale; ma oggigiorno, a processo concluso, i dialetti vanno considerati come
un’opportunità. 

Ed è ciò che viene fatto dagli scrittori più consapevoli; come per esempio fatto Walter Siti che
integra: italiano comune, verbi regionali e moti colloquiali con espressioni del dialetto milanese.


ALTO E BASSO

Tra alto e basso si muove lo stile degli scrittori.



Italo Calvino a ermò che bisognerebbe utilizzare un linguaggio alto, ma con l’uso frequente della
lingua parlata.

Anche la struttura stessa di una frase è fatta di contrasti: un periodo complesso e due incisi; che
porta a dislivelli nelle scelte lessicali.

Il di cile compito del traduttore è quello di ricercare soluzioni e il giusto registro; per quanto
riguarda le traduzione da italiano a inglese, non è di cile utilizzare un registro alto, basta
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aggiungere latinismi, abbastanza comuni in italiano, ma semi in disuso in inglese, per ottenere un
innalzamento della lingua. 


GLI USI SPECIALI DELLA LINGUA

Dunque, una lingua dev’essere pronta ad adattarsi alle scelte stilistiche degli scrittori o in base
alle esigenze comunicative dettate dalle situazioni.

Le varietà linguistiche dettate dalle particolari situazioni sono principalmente raggruppate in due
gruppi: 

1. I linguaggi speciali o settoriali (linguaggio delle scienze, dello sport..)
2. I linguaggi specialistici (giornalismo, politica..)

I linguaggi specialistici, dunque, sono facilmente riconoscibili: utilizzano vocaboli d’uso comune
che, talvolta, acquistano un signi cato altro. 

Riconoscere i vocaboli specialistici e riprodurli è solo parte della s da del traduttore; c’è anche il
rischio opposto: immettere un tecnicismo assente nell’originale.


Prendiamo ad esempio Le serveuse était nouvelle e la traduzione italiana di Yasmina


Melahoua.

In una prima stesura, la traduttrice era caduta nella trappola di un tecnicismo: al posto di tradurre
in gemelle identiche, utilizza ‘gemelle monozigote’.

Tuttavia, monizigote non è un aggettivo, ma un sostantivo privo di plurale; semmai, l’aggettivo
sarebbe monozigotico. 

Meglio tradurre con ‘gemelle identiche’. 

Un altro esempio da prendere in considerazione è il saggio In bed in cui si parla di emicrania. 

Mentre in inglese il verbo che si utilizza per i medicinali è to take; in Italia possiamo utilizzare sia
prendere che assumere un farmaco. 

Il primo si utilizza nel linguaggio comune; mentre, il secondo, lo utilizzano più che altro i medici. 


IL PARLATO PROIETTATO SULLA RETE

Le caratteristiche della scrittura sul web sono facili da riconoscere e la più degna di nota è
l’immediatezza.

Anche il linguaggio digitale ha ormai una storia di alcuni decenni e ha, quindi, subito
un’evoluzione; per esempio, oggigiorno i giovani snobbano le abbreviazioni che dieci anni fa
erano tanto di moda. 

Un’altra caratteristica della scrittura digitale è la concentrazione; i tweet si segnalano per due
caratteristiche:

1. Stilistica > intensi cazione delle emozioni raggiunta tramite punteggiatura, intensi catori come
davvero o proprio e aggettivi enfatici

2. Testuale o inter-testuale > i tweet potendo contenere massimo 160 caratteri, si appoggiano e
rimandano ad altri testi, per completare il proprio signi cato

IL TESSUTO DELLA LINGUA

La lingua non è fatta semplicemente di parole, ma dalla loro capacità di combinarsi in frasi e testi. 


Nim è un cucciolo di scimpanzé allevato da un gruppo di ricercatori, i quali, gli insegnano il


linguaggio dei segni. 

Nim ne impara 125 in tempi paragonabili a quelli impiegati da un bambino che, però, ha inoltre la
capacità di stabilire relazioni tra parole: ossia le combina per ottenere signi cati diversi e sempre
nuovi. 

Ed è ciò che dà all’uomo l’opportunità di padroneggiare la lingua; la padronanza della lingua è
possibile solo con la capacità di accostare le parole e moltiplicare le possibilità di signi cato. 


LO SPAZIO DELLA FRASE

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La sintassi (=insieme di regole grammaticali che formano una frase) è data dall’idea di unione ed
ordine. 

Ma cos’è una frase?

Una sequenza di parole contenuta fra due frasi forti, al cui interno si trova un verbo di senso
compiuto. 

Così come gli elementi di una frase sono dotati di valenze, anche i verbi richiedono argomenti che
completino il concetto.

Parliamo di:

1. Verbi zerovalenti > che non necessitano di alcun argomento > es: piovere

2. Verbi monovalenti > dotati di una sola valenza > es: dormire

3. Verbi bivalenti > che richiedono soggetto + complemento diretto + indiretto >

4. Verbi trivalenti > es: prestare

5. Verbi tetravalenti > es: trasferire

A tal proposito, parliamo di frasi SEMPLICI-NUCLEARI: quando il verbo è accompagnato dai suoi
argomenti

Es: mangio una mela

NB. Le frasi nucleari possono essere ampli cate

LA LIBERTÀ DI CHI SCRIVE

Leopardi considerava il francese una lingua geometrizzata, ossia poco libera.



La lingua può essere, al tempo stesso, una gabbia o libertà di espressione.

La grammatica, difatti, è entrambe le cose; esistono regioni governate da regole e altre dove vi è
la possibilità di liberarsene.

Parliamo, pertanto, di:

1. Grammatica delle regole (es: fonologia)

2. Grammatica delle scelte

Se costruire una frase nucleare è compito della grammatica delle regole, ampliarla è compito della
grammatica delle scelte. 

Ciò che si aggiunge alla frase nucleare ha il compito di soddisfare le esigenze comunicative di chi
scrive.

Prendiamo queste frasi tratte da ‘La tregua’ di Primo Levi:

1. Nei primi giorni di gennaio, sotto la spinta dell’armata rossa ormai vicina, i tedeschi avevano
evacuato in fretta il bacino minerario

2. Nelle lunghissime sere polacche, l’aria della camerata, greve di tabacco e odori umani, si
saturava di sogni insensati
3. Mi accorsi ben presto che qualcun altro vegliava

Il nucleo è scritto in corsivo; in tutte e tre le frasi il verbo è bivalente; nella prima c’è un oggetto
diretto; nella seconda indiretto e nella terza una proposizione completava. 


COSTRUIRE PONTI

Esiste una libertà ancora più interessante: le informazioni attorno al nucleo della frase possono
essere spostate in una frase indipendente; come ad esempio:

‘Sotto la spinta dell’armata rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in fretta il
bacino minerario. Questo accadeva nei primi giorni di gennaio 1945.'


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Abbiamo, così, due frasi indipendenti. 


Questa proprietà, però, appartiene unicamente ai margini. 



Non possiamo, quindi, staccare una frase completiva per renderla indipendente. 


Le frasi completive sono subordinate di anteriorità, contemporaneità, posteriorità, causali,


condizionali, concessive o nali. 

Per riconoscerle bisogna, in primis, distinguere fra la causa che ha a che vedere con il mondo
fenomenico e con il motivo, che coinvolge azioni compiute da esseri umani razionali. 

Il ne, a sua volta, è un tipo di motivo proiettato non nel passato, bensì nel futuro:

‘studio molto per laurearmi presto’.

Le completive ci danno un ventaglio di possibilità e due tipi di connessione grammatica:

1. Di coordinazione:

‘Faceva tante cose strane e nuove ed era interessantissimo starlo a guardare’


2. Di subordinazione:

‘Quando faceva tante cose strane e nuove era interessantissimo starlo a guardare’.

NB. In alcuni casi, esse possono divenire frasi autonome, che escono dal dominio della sintassi e
formano un testo.

‘Faceva tante cose strane e nuove. Per questo era interessantissimo stare a guardarlo’.

IL TESSUTO DEL TESTO

Il testo è una produzione linguistica dotata di senso compiuto, fatta da un emittente e ricevuta da
un destinatario, in un contesto determinato, con un’intenzione e un e etto di comunicare.

Il testo si distingue dalla frase non in senso quantitativo, bensì in senso qualitativo: ciò per l’unità
che realizza al di fuori di un qualunque legale grammaticale o sintattico. 

Esso, quindi, deriva la sua struttura unitaria dal fatto che gli enunciati lo compongono e si legano
tra loro in una rete di relazioni concettuali, no a formare un messaggio. 

Anche la poesia, seppur misteriosa, si è fatta linguisticamente testo, creando un rapporto fra. Le
immagini.

Talvolta, pertanto, un testo si rivela tale solo grazie all’ingresso di un esplicito elemento
semanticamente uni cante.

Questa proprietà prende il nome di coesione.

La coesione è la forma linguistica di coerenza; le forme coesive segnalano ciò di cui parla il testo:
pronomi, perifrasi, ripetizioni, riformulazioni; gli elementi connettivi sottolineano, invece,
l’articolazione interna del testo, cioè i rapporti logici; tali elementi sono congiunzioni, avverbi,
modali.

Non esiste testo senza coerenza mentre, al contrario, la coesione potrebbe anche essere assente
all’interno di un testo.

LA LIBERTÀ DI CHI LEGGE

L’autore, grazie alla grammatica, crea una libertà interpretativa, tramite la quale, il lettore
interpreta il testo; il quale può essere interpretato solo tramite due modalità:

1. Codi ca > agisce quando è l’autore a controllare la relazione


2. Inferenza > l’azione interpretativa del lettore è libera

Ovviamente, se la codi ca è maggiore, l’inferenza sarà minore e viceversa.



Codi ca e inferenza sono graduabili tramite la sintassi. 


ES.

‘Faceva cose strane e nuove. Per questo/dunque era interessantissimo starlo a guardare’

‘Perché faceva cose strane e nuove, era interessantissimo starlo a guardare’.

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‘Faceva, insomma, cose così strane e nuove che era interessantissimo starlo a guardare’.

Nelle prime due frasi, assistiamo a un caso di codi ca completa; è, di fatto, l’autore che rende
chiaro il motivo della frase.

Al contrario, nel terzo caso parliamo di ipoinferenza: l’autore rimanda a un motivo che il lettore
coglie per inferenza.

GENERALMENTE, VI SONO TESTI CHE POSSONO LASCIARE MAGGIORE SPAZIO ALL’INFERENZA,


COME QUELLI LETTERALI; ED ALTRI CHE SONO VINCOLANTI: COME QUELLI TECNICI E GIURIDICI. 


TRADURRE E IL BRICOLAGE

Al tradurre spetta il compito di rispettare la scelta comunicativa dell’autore in tema di codi ca o


inferenza.

Prendiamo ad esempio ‘Women in love’ di Lawrence; le protagoniste ri ettono sul fatto che
nessuna di loro è tentata dal matrimonio e la voce narrativa commenta che entrambe ridono
spaventate.

Sembra una convinzione di usa che se hai paura non ridi e, per questo, molti traduttori tendono a
rendere il nesso esplicito, inserendo l’avversativa ma.

Tuttavia, Lawrence vorrebbe dire il contrario: si ride proprio perché si ha paura, per negare la
paura stessa.


IL GOMITOLO DELLE CONCAUSE

La presenza, o l’assenza, di connettivi determina il livello di codi ca di un testo.

Nell’ambito della frase, lo stesso ruolo viene svolto dalla sintassi.


Per esempio, nei Promessi Sposi, la scelta di utilizzare causa-e etto in un lungo periodo, fa si che
lo scrittore a erri il lettore e lo guidi nell’interpretazione della storia; lo spazio di inferenza è ridotto
al minimo

DIRE DI PIÙ CON LE STESSE PAROLE: SAO KE KELLE TERRE

Queste poche parole risalgono al 960 DC e appartengono ad uno scritto u ciale de nito Placito
capuano: il primo documento ad attestare l’uso del volgare. 

Dunque, l’atto di nascita dell’italiano; si tratta di un verbale scritto in latino da un notaio che
riporta le parole di un tale che il latino sapeva parlarlo, ma si esprime anche per chi non lo
conosceva. 


Notiamo l’anticipazione del complemento oggetto ‘kelle terre’ a sinistra del verbo, in modo da
dirigere l’attenzione dell’ascoltatore sull’elemento anticipato.

MUOVERE LE PAROLE

Nel volgare l’ordine dei costituenti è importante a scopo comunicativo; mentre, al contrario, nel
latino classico l’atto comunicativo era dato dai casi. 

Nella pratica, il latino classico privilegiava l’ordine SOV: ‘Claudius Marcellum salutat’; mentre nel
volgare parlato si a ermava l’ordine SVO: ‘Claudio saluta Marcello’.

Caduto il sistema delle declinazioni, l’ordine acquisisce, in italiano, la funzione di segnalare la
logica delle parole.

L’italiano tende a trasmettere le informazioni in modo lineare, presentando il tema e poi il rema. 

Il rema può servire, a sua volta, a realizzare una progressione interna, che porta al focus del
discorso. 

Una grande di erenza dal latino si riscontra nella parziale libertà dell’italiano che gode di un ricco
sistema di essione dei verbi, i quali permettono di risalire facilmente al soggetto o dell’ampia
scelta di pronomi clitici, che chiariscono il rapporto verbo-complementi.


DISLOCARE

L’italiano dispone di costruzioni che evidenziano il:

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1. Rema > frasi scisse

2. Tema > dislocazioni (la più di usa è quella a più complementi di sinistra, che ne anticipano
l’apparizione)

Es : ‘Tonio e suo fratello, li lascerà entrare; ma voi! Voi due!’

Notiamo:

1. Che il complemento oggetto viene anticipato

2. Si salda il secondo blocco della frase con il pronome critico ‘li’

La dislocazione a sx è utile per i dialoghi: in questo caso Manzoni, utilizzandola, indica con
chiarezza qual è il tema e potenzia il collegamento con ciò che lo precede.

Nelle Prose di Pietro Bembo, egli conferma la ripresa di pronomi (necessaria alla dislocazione)
come ornamento di stile. 

Al contrario, considera gli interventi sull’ordine delle parole in maniera negativa; e ciò è
sicuramente un modo di limitarne il potenziale. 

Fortunatamente, mentre i grammatici proibivano, gli scrittori sperimentavano. 


Esistono altre tipologie di dislocazione, come la dislocazione a destra:

‘Io le so tutte queste cose’

Il topic della frase si mantiene alla sua destra ma viene, comunque, anticipato dall’uso del
pronome clitico ‘le’, che si inserisce all’interno del rema. 

Molto spesso, in questi casi, si utilizza una virgola dopo il rema: che ri ette la frattura del
costrutto.

SPEZZARE

Esiste una forma che permette di intervenire anche sulla posizione del soggetto: è la frase scissa;
formata da una reggente copulativa priva di soggetto, seguita da una subordinata introdotta dal
che.

La frase scissa anticipa il focus; mentre la dipendente introdotta dal ‘che’ indica il tema. Dà
maggiore enfasi.

ES.

‘In Italia, siamo noi che rappresentiamo la scuola.’

DAL FRANCESE ALL’INGLESE

Il francese è ricchissimo di segmentazioni; ci sono anche formule cristalliate tipo ‘c’est avec grand
plaisir que..’ In cui la struttura segmentata non ha valore marcato, ma ha un potere informativo
che, talvolta, risalta un contrasto. 

Anche l’inglese possiede una serie di strutture che lavorano sull’enfasi ed è essenziale trasferirne
il valore nelle traduzioni in italiano.

Spesso le inversioni in inglese si rendono con la dislocazione a destra in italiano.

ES.

In this way, did he manage to domesticate his terror =

In questo modo riuscì a vincere il terrore.

Ma è anche possibile l’uso di dislocazione a sinistra:

‘In questo modo, il terrore riuscì a vincerlo’

Vero è che l’enfasi risulta eccessiva rispetto alle intenzioni dell’originale e inserire una virgola
potrebbe risultare meno invasivo:

‘In questo modo, riuscì a vincere il terrore’.

La virgola agisce come segnale di marcatezza e può risultare utile in molti casi come, per
esempio, quando in inglese si utilizza il corsivo.

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A ME MI PIACE?

Il complemento propone il tema, poi segue l’informazione. 



Il problema sorge per la ripetizione inutile del pronome; gramaticalmente scorretta ma molto utile
per il ne comunicativo.

il meccanismo è, dunque, quello della segmentazione.

È, pertanto, un costrutto da evitare per l’italiano scritto di tipo formale ed è, al contrario, molto
utile nel parlato. 

Parliamo di tema sospeso o anacoluto (che dal greco signi ca ‘non conseguente), quando un
complemento viene anticipato a sinistra del verbo e perde la preposizione che lo accompagna.

Es:

‘Quel poverino, se non avesse avuto la disgrazia di pensare a me,

Non gli sarebbe accaduto ciò che gli è accaduto’.

L’anacoluto nasce dall’anticipazione del tema, cui segue un’azione che è coerente dal punto di
vista del signi cato, ma non armonizzata dal punto di vista sintattico. 

Anche l’anacoluto è una costruzione antica ed era già presente nel latino tardo:

Es:

‘A chi ha, sarà dato’ (Vangelo Matteo)

Ha la capacità di rendere un linguaggio non solo grammaticale, ma anche informale, non


sorvegliato ed espressivo.

LESSICOGRAFIA

I vocaboli non si limitano a spiegare i signi cati; informano sull’origine delle parole e sulla loro
storia; elencano sinonimi ma, soprattutto, evidenziano le di erenze fra i termini solo
apparentemente intercambiabili. 

Quello della Crusca fu il primo vocabolario di una lingua moderna realizzato secondo criteri
scienti ci. Un lavoro secolare, quello lessicogra co, che continua anche oggi e che ha dotato
l’italiano di eccellenti vocabolari. 

Giorgio Manganelli nella sua ‘Hilarotragoedia’ ha impilato nomi, verbi, aggettivi in serie anche
lunghissime. Le scelte di parole vengono selezionate anche e, sopratutto, per il loro ritmo
martellante.

Neologismo: parola nuova, che fa la sua apparizione in una lingua in un determinato momento
della storia

Arcaismo: parola vecchia, scomparsa o poco usata

Le parole hanno una data di nascita, che coincide con la loro prima attestazione scritta di cui si
abbia notizia. 

I dizionari di oggi registrano per ogni termine etimologia e datazione. 

Ma questa data viene sottoposta a continue veri che. 

La questione è, però, più complicata quando non si tratta di nascita, ma di morte. 

I vocaboli, una volta entrati in circolazione, invecchiano e muoiono.

Ma altri, lentamente, sbiadiscono; però, l’uscita di scena non avviene in un momento preciso e
documentabile, come la nascita; è un processo che si dispiega in tempi lunghi. 

Le parole italiane resuscitano, talvolta, per via letteraria, grazie alla passione antiquaria degli
autori. 

Tullio de Mauro ha spiegato il fenomeno con un esempio. Absentismo.

Si tratta di un termine della loso a Kantiana che si riferisce alla concezione della storia come
priva di direzione e di senso. 

Il vocabolo era stato escluso ance dal Grande Dizionario Italiano dell’uso, redatto dallo stesso De
Mauro che registrava, invece, l’aggettivo ‘aderita’ (stupido, sciocco): parole per de nizione morta.


I DIZIONARI STORICI

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Il più antico vocabolario di lingua moderna è il Vocabolario della Crusca, pubblicato a Venezia, nel
1612; è netto il distacco dall’Académie Française del 1694 o dal Diccionario de la lengua
castellana della Real Academia Espanola pubblicato fra il 1726 e il 1739 o quello inglese del
dottor Johnson nel 1755.

Il vocabolario della Crusca accoglie solo parole che provengono da fonti letterarie, non dalla
lingua parlata. 

L’impostazione di Bembo viene integrata dalle idee dell’accademico Leonardo Salviati. 

Insomma, il vocabolario della Crusca non nasce per fotografare la lingua esistenze al tempo, ma
per prescrivere un uso linguistico agli scrittori.

La Crusca isola come oggetto di attenzione la sola lingua letteraria e ne ssa la perfezione non al
presente, ma in un passato lontano. 

Esistono 4 edizioni della Crusca; la Seconda risale al 1623, la terza al 1691, la quarta fra il
1729-38, la quinta, interrotta alla lettera O, risale tra il 1863 e il 1923.

A partire dalla terza edizione, si introducono alcuni cambiamenti: entrano nel vocabolario anche
voci del linguaggio scienti co, della terminologia tecnica, delle arti e dei mestieri. 

Questo è, dunque, un dizionario storico; esistono altri due importanti dizionari storici:

1. Tomaseo-Bellini

In cui sono presenti alcuni commenti; oggigiorno, inserire commenti non è più un’abitudine in uso.

La distinzione fra le parole vive e quelle in disuso si ottiene con l’utilizzo di una croce per i termini,
appunto, non più in uso. 


2. Grande dizionario della lingua italiana

Il più recente (1961-2002), spesso indicato con la sigla GDLI o come il Battaglia, dal nome del suo
curatore: Salvatore Battaglia. È costituito da 21 volumi che nascono come revisione del Tomaseo-
Bellini ma che donano particolare attenzione al Novecento. 

Il progetto viene ampliato in corso d’opera e gli ultimi volumi sono più ricchi dei primi.

LA POTENZA DELL’USO

Il problema resta, nei secoli, il rapporto fra tradizione letteraria e lingua viva: fra le parole del
passato e quelle dell’uso. 

In e etti, i dizionari hanno una doppia nalità e si orientano verso due categorie di pubblico: chi
legge autori antichi e chi scrive testi destinati alla di usione nel presente. 

E tocca Manzoni risolvere tale problema. 

Lo scrittore spiega che lo scopo di un dizionario si biforca in due direzioni: da una parte
somministra il mezzo per intendere gli scrittori di tutti i tempi, dall’altra, rappresenta una lingua
viva e, quindi, la lingua dell’uso attuale.

L’opera nata grazie alle teorie manzoniane è il Novo vocabolario della lingua italiana, curato da
Giovan Battista Giorgini ed Emilio Broglio (1870-97); si tratta di un vocabolario che trascura la
tradizione letteraria e raccoglie parole dell’uso vivo orentino, con esempi che provengono dalla
lingua parlata. 

Il più ampio fra i contemporanei è il Grande dizionario italiano dell’uso (Gradit) di Tullio de Mauro:
sei volumi, pubblicati nel 2000, e due volumi di aggiornamento (2003; 2007). 

Il Gradit è il dizionario italiano più ricco di parole, anche se molto ampio è anche il Vocabolario
della lingua italiana di Aldo Duro: 4 volumi in 5 tomi, pubblicati fra il 1986 e il 1997.


Ricordiamo anche:

1. Sabatini-Coletti

2. Devoto-Oli

3. Garzanti

4. Zingarelli

I vocabolari contemporanei si aggiornano includendo parole nuove in ogni edizione. 



I nostri discorsi quotidiani sono semplici testi scritti, fatti all’80% di poche centinaia di parole ad
altissima frequenza.

Diverso è il caso per le parole ad altissima disponibilità: cioè quelle che si ritengono conosciute e
comprese da un parlante italiano di media cultura. 

Quindi, frequenza e disponibilità non coincidono. 

Ci sono parole ad alta disponibilità, superiore al 98%, che hanno valori di frequenza bassissimi,

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come per esempio: canguro, canarino, forchetta, gira a…

Ebbene, i dizionari dell’uso di oggi segnalano le parole ad alta disponibilità e o rono anche
indicazioni sul registro dei termini: le cosiddette marche d’uso. 

Tra le sigle più utilizzate ci sono: ant. , lett. , region. , dial. , volg.

A tal proposito, la classi cazione più puntuale è quella applicata da De Mauro nel Gradit, in cui si
riportano le sigle: FO (fondamentale), AU (alto uso), AD (alta disponibilità), CO (comune), TS
(tecnico-specialistico), LE (letterale), RE (regionale), DI (dialettale), ES (esotismo), BU (basso uso) e
OB (obsoleto). 

I libri di base furono, invece, progettati per trattare temi anche complessi in un numero di pagine
limitate con una sintassi semplice; in particolare, le parole ad alta disponibilità sono un insieme
mobile, legato ai mutamenti psicologici e culturali dei parlanti.

Un altro tema da trattare è la registrazione delle polirematiche: unità composte da più termini,
gra camente separati, ma necessari l’uno all’altro, per raggiungere il signi cato, come per
esempio cavallo di battaglia.


Come possiamo riconoscerle?

1. Sono insieme di parole che contano come una sola

2. Sono forme cristallizzate che tendono a non ammettere variazioni, né di tipo lessicale, né negli
ordini costituenti

NB. Sono lemmatizzate le unità composte che, appartengono ad un’altra lingua, non hanno un
lemma o dei costituenti; es: mailbox non è un unità politematica, ma un lemma.

I SINONIMI, CHE NON ESISTONO

Nel 1732 esce a Venezia il primo dizionario italiano dei sinonimi: sinonimi ed aggiunti italiani di
Carlo Costanzo Rabbi.

Gia nel corso del 700, la linguistica francese teorizza il valore dei sinonimi come mezzo per
riconoscere l’uso proprio della parola.

Mazoni era convinto che l’abbondanza della lingua fosse un male; l’italiano è sempre stata una
lingua ricca di vocaboli e doppioni oppure parole con lo stesso signi cato e forme gra che
diverse.

Pertanto, in italiano vi sono molti sinonimi. 

Morandi li suddivide in tre grandi famiglie:

1. Nobili

2. Famigliari

3. Scherzevoli

La buona lingua è quella che sa scegliere il giusto sinonimo in base al contesto.



Per esempio, nel tradurre i Promessi sposi, i traduttori inglesi il vocabolo ‘sollevazione’ viene reso
con ‘sediction’ o ‘insurrection’; nessuno ricorre alla forma parallela di ‘uprising’.

Cogliere le di erenze è il vero obiettivo dei dizionari dei sinonimi, come nel caso del Dizionario dei
Sinonimi di Niccolò Tommaseo, pubblicato nel 1830.

Egli si so erma sulle di erenze fra il termine ‘infermo’ e ‘ammalato’; l’ammalato è costretto a
rimanere a letto, mentre l’infermo può uscire di casa.

Si può essere infermi e non malati. 

Ne ‘Sinonimi e contrari’ di Ra aele Simone, i sinonimi sono suddivisi a seconda dei diversi
signi cati del lemma; si segnala gra camente il cosiddetto sinonimo ‘tipico’, cioè l’alternativa più
comune, e molti termini sono accompagnati dall’indicazione del loro ambito d’uso. 


ES.

Cedere = farsi indietro; il sinonimo più in uso è ‘mollare’ o ‘capitolare’, classi cato come familiare. 

Quindi, in questo caso, nella scelta del lemma interviene la tipologia di registro che si vuole
utilizzare. 


UNA LINGUA COPERTA TUTTA DI GERMOGLI

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Inventare le parole è un’avventura per tutti; lo fanno, senza rendersene conto, anche i bambini.

I dizionari dell’uso registrano un gran numero di neologismi e sceglierli è un esercizio di sensibilità
linguistica. 

Per farlo, si prendono ad esame raccolte, selezionate con criteri scienti ci: per esempio un certo
numero di giornali per un certo numero di anni. 

Strumenti di questo tipo censiscono tutti i termini mai attestati prima e presenti nel campione
scelto e possono, pertanto, rilevarsi utili non solo per datare un testo, ma anche se si deve
produrre o tradurre uno scritto. 

I dizionari puristi sono una scoperta dell’Ottocento; nati, appunto, con l’intento di preservare la
purezza della lingua.

Si realizzarono anche dizionari destinati a censire barbarismi e voci corrotte. 

Il più noto è il Lessico dell’in ma e corrotta italianità di Pietro Fanfani e Costantino Arlia,
contenente forestierismi, latinismi e dialettici. 

La battaglia dei puristi non frena, però, la di usione dei prestiti. 

Un’altra stagione dei purismi risale all’epoca fascista che vieta l’utilizzo di prestiti linguistici.

Nascono delle sorta di raccolte di termini da proibire; la più famosa è Barbaro dominio di Paolo
Monelli; si tratta di una scelta di cinquecento forestierismi di cui si ricostruisce la storia e, per
ciascuno dei quali, si propone una sostituzione italiana. 

Nel 2005, per la prima volta, viene selezionata dagli Oxford Dictionaries una parola non-parola,
ossia un’emoji (quella che piange dal ridere).

DALLA COSA ALLA PAROLA

Al momento dell’Unità, gli italiani parlavano dialetto o un italiano approssimativo, raggiunto


attraverso il dialetto. 

Stabilito che la lingua della nazione sarebbe stato il toscano, si trattava di insegnarlo a tutti.

A tale scopo, si rivelarono molto utili i dizionari; soprattutto quelli rivolti a chi aveva in mente un
oggetto o un concetto, ma non possedeva la parola per esprimerlo. Tali dizionari si de niscono
‘vocabolari metodici’: proprio perché rivolti a un pubblico che voleva scoprire i nomi italiani degli
oggetti della quotidianità. 

Il più ambizioso e importante di questi include anche neologismi, parole straniere e regionali ed è
il Vocabolario nomenclatore illustrato di Palmiro Premoli.


PACCHETTI DI PAROLE

Il lessico di una lingua non è solo un inventario, ma un insieme di combinazioni. 



Le parole di cilmente si muovono sole; l’e etto di rottura generato dall’aggettivazione per
contrasto è un marchio stilistico molto riconoscibile di alcuni scrittori, quali Manganelli. 

I gruppi di parole che tendono a presentarsi insieme sono, in italiano come in ogni lingua, molto
numerosi e coinvolgono parti diverse del discorso:

1. Verbo + nome

2. Nome + verbo

3. Aggettivo + nome

4. Verbo + avverbio

La collocazione si distingue da altri accostamenti; ad esempio ‘mangiare di gusto’ è una


collazione poiché i componenti mostrano una certa predilezione a combinarsi fra loro.

Le collocazioni sono più vincolate delle combinazioni libere: nell’espressione ‘mangiare un panino’
esiste un rapporto di solidarietà semantica fra il verbo e l’oggetto. 

Se nell’espressione ‘si mangia la foglia’, invece, se si cambia qualcosa, il valore idiomatico va
perduto e l’espressione può, quindi, essere interpretata solo in senso letterale.

Un’altra caratteristica delle collocazioni è l’assenza di equivalenti in altre lingue. 



Su questo fronte, esiste tutt’oggi, un dizionario bilingue che ha fatto della segnalazione delle
collocazioni uno dei suoi punti di forza: quello tedesco-italiano e italiano-tedesco di Luisa
Giacoma e Susanne Kolb. 

Assente, per altre combinazioni linguistiche, uno strumento analogo e bisogna, pertanto, prendere
a riferimento dizionari di collocazione della lingua di partenza e di quella straniera.

Nel 2002 Mariarosa Bricchi ha tradotto A murder, a mistery, a marriage di Mark Twain; il suo
racconto è l’esasperazione e la presa in giro di una serie di stereotipi narrativi e linguistici. 

Per questa ragione, Bricchi gioca a sua volta a ricreare in italiano le collocazioni più consolidate. 


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Inseguendo la prevedibilità. 

C’è. Invece, un racconto di uno scrittore svizzero, Peter Bichsel, che propone un ottimo esempio
di scaricamento non di collocazioni, ma di solidarietà semantiche, intitolato ‘un tavolo è un
tavolo’; la storia è quella di un uomo vecchio e triste, che decide di cambiare nomi alle cose che
gli stanno intorno; chiama, per esempio, il tavolo tappeto, no a dimenticare i nomi veri delle
cose, non capisce più ciò che dicono gli altri e gli altri non capiscono lui. 

Bichsel si concentra sulle parole ma, in realtà, rovina la funzione sociale della lingua, che non
deriva dal fatto che i nomi vengano cambiati, ma dal fatto che le azioni legate a quelle cose
continuino ad essere espresse con le stesse parole. 

I testi scritti scivolano più spesso di quanto si creda in accostamenti imprecisi e i dizionari sono
un aiuto.

PARLARE ARTIFICIALE: LA ROCA TROMBANZA

Prendendo ad esempio la traduzione de ‘I misteri del castello d’Udolfo’, ci rendiamo conto che il
linguaggio antiquato veniva considerato tale già ai tempi della sua stesura. 

Difatti il Tomaseo-Bellini (1865), de nisce le voci ‘murmure’ e ‘lene’ non in uso; mentre la voce
‘negro’ è de nita meno comune della sorella ‘nero’. 

Complicazione, innalzamento di registro e intrusione di tocchi poetici appartengono solo alla
versione italiana e sono assenti nell’originale. 

Più che di una traduzione, possiamo parlare di adattamento. 


PARLARE COME UN LIBRO STAMPATO

La scrittura si è poggiata per secoli ai grandi modelli del canone trecentesco, mentre il parlato si
evolveva, si sporcava e modernizzava. 

Proprio per questo, in Italia il fatto stesso di scrivere implica un innalzamento del registro quasi
automatico. 

Le idee di Manzoni, a tal proposito, prevalsero per una serie di ragioni storiche:

1. Dopo l’Unità, Emilio Broglio (ministro pubblica istruzione) invita Manzoni a pronunciarsi su
quale debba essere la lingua del nuovo stato. 

La risposta di Manzoni, contenuta nel suo breve scritto intitolato ‘Dell’unità della lingua e dei
mezzi di di onderla’, indica la parlata viva di Firenze la lingua nazionale e suggerisce la sua
di usione attraverso un vocabolario non storico, ma d’uso presente. 

Una scelta di rottura che sposta l’attenzione verso la lingua attuale.

2. Gli insegnanti delle scuole che appoggiarono Manzoni furono molti ed attivisti (Pinocchio>
Collodi; Cuore> Edmondo de Amicis).

L’acquisizione del orentino non è un processo immediato per chi non è toscano; non
dimentichiamo che nell’1861 la percentuale di analfabetismo è del 75%.

La lotta per estirpare i dialetti che si ra orza in epoca nascita prosegue no al dopo guerra.

Tuttavia, l’italiano che si insegna a scuola, ignorando i dialetti, esclude di nuovo la lingua parlata. 

Oggi il 90% della popolazione parla italiano, non il orentino, ma una lingua variegata, che ha
diversi strati, più codici specialistici, settoriali e gerghi. 


EGLI E L’ESAME DI LETTERE

Un problema che persiste riguarda la resistenza dei pronomi egli, ella, essi/e al posto di lui, lei,
loro; ciò si deve al fatto che per secoli si sanzionava l’uso dei pronomi complemento in funzione di
soggetto. 

Nella prosa Ottocentesca, infatti, egli/ella/essi dominano e lui/lei/loro sono presenti unicamente
per situazioni colloquiali. 

Non è, dunque, Manzoni a introdurre lui in funzione di soggetto; anche se è lui che ne ampli ca
l’uso.


NON SUCCEDE SOLO CON I PRONOMI

La coppia aspettare/attendere ha tutta una serie di alternative simili; la nostra sensibilità di parlanti
ci dice che il primo termine della coppia è sempre più comune e l’altro più formale/letterario. 

Esistono, però, casi in cui la sensibilità linguistica deve farsi carico di una responsabilità: evadere

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dalle scelte iniziali e riconoscere gli scarti. 

Gli allotropi, cioè forme diverse di una stessa parola, sono molto frequenti anche nell’italiano di
oggi. 

Per esempio, il verbo ‘sorbire’ invece di ‘bere’ lo useremmo in una traduzione?

Quando il sinonimo di registro più alto è frequente, la pagina acquista un colore formale che, se
non corrisponde al testo originale, nisce per diventare una sorta di italiano ‘pomposo’.

Qualche anno fa due saggi si sono occupati dello stesso tema: le traduzioni del Castello di Kafka.

Il primo, intitolato ‘Una frase’, è di Milan Kundera e il secondo, ossia ‘Traslatino Kafka’ è di
Coetzee.

Kundera si concentra sulla frase che descrive l’incontro amoroso fra Frieda e Kafka,
confrontandosi con tre versioni francesi. 

Egli sente il bisogno di trovare un’altra parola, anziché quella più ovvia (penetrare invece di essere,
per esempio).

Questa pratica, applicata in modo sistematico, nisce per attenuare il pensiero originale dello
scrittore. 

Stessa cosa per quanto riguarda la traduzione di Coetzee che propone ‘era posseduto dalla
sensazione’ invece del più semplice ‘aveva costantemente la sensazione’. 


MR MICAWBER E IL CAVALIER LANDE

In discorso indiretto rende l’inglese pomposo e caricaturale.



La lingua di Micawber viene de nita ‘a Great parade of words’; qui sì che il traduttore dovrà
attingere dal vocabolario più démodé dell’italiano.

Il romanziere Emilio de Marchi, quarant’anni dopo, propone una reincarnazione specializzata in
connettivi, che merita il soprannome di cavaliere Laonde. 

Fra gli zimbelli dei colleghi del ministero ci sono per esempio, adunque e imperciocché: paroloni
che, mezzo secolo prima, circolavano in molti romanzi italiani e di cui, ora, lo scrittore può farsi
be a. 

Le parti invariabili del discorso sono soggetti a inerzia e, mentre molti registrano l’invecchiamento,
altri ci si aggrappano. 

Prendiamo ad esempio ‘conciossiacosacché’ che compare nel Galateo di Giovanni della Casa,
seguito inoltre da un lungo periodo, porta Al eri a decidere di interrompere subito la sua lettura e
butta il libro dalla nestra: un gesto simbolico per il futuro. 


Per concludere, la lingua di una traduzione dev’essere aulica se il testo originario lo richiede; non
può esserlo se il testo di partenza utilizza una lingua più sempliciotta, altrimenti tradirebbe
l’intenzione dello scrittore.

I CLASSICI E IL JET LEG

La di usione dei classici greci e latini, cui traduzioni sono state sempre più a date a studiosi, e
non a traduttori veri e propri, han fatto sì che i classici di oggi sono dotati di un ‘metalinguaggio’,
ossia sono ad alto tasso di standardizzazione; nulla a che fare con la lingua musicale di Monti con
il ‘cantami o diva’: una lingua, la sua, contemporanea a se stessa. Mentre le attuali versioni
stridono poiché rendono l’antico, sì, ma in una versione comunque datata. 


L’ANTILINGUA DEL BRIGADIERE

Parlando di parole pompose, non possiamo non citare Italo Calvino e la sua denuncia nei
confronti delle traduzioni che vengono fatte rendendo l’italiano una lingua quasi inesistente e
meccanica. 

L’antilingua di cui ci parla ha la stessa origine della lingua altisonante forzata: la paura di un
italiano limpio e normale.

Diversa, invece, è la sua origine storica: mentre la lingua altisonante si nutre della tradizione
letteraria italiana, l’antilingua si nutre dell’italiano burocratico, che ha la sua svolta nel Novecento. 

Negli anni ’60 anche la lingua si modernizza. 

Pier Paolo Pasolini coglie i segni del nuovo; i luoghi di elaborazione della lingua diventano le
aziende; e il centro non è più Firenze, ma l’asse Torino-Milano. 

Scompaiono i dialetti e si di onde il linguaggio tecnico. 

Il concetto di antilingua ha dunque una data ben precisa: 1965 e si sviluppa in un contesto storico

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preciso: l’Italia del boom economico. 

Parliamo anche di ‘esattismi’: termine coniato da Giuseppe Antonelli, che ce ne fa un esempio: sul
banco di un salumiere possiamo trovare la scritta ‘non si e ettuano panini’. 

Capita molto spesso che l’antilingua si insinui non tanto nella traduzione, quanto nella rivisitazione
di un testo. 

‘Faire rien pour elle’ si potrebbe tradurre in ‘Fare niente per lei’ ma si rende con ‘fare alcunché per
lei’.

L’antilingua è solitamente oggetto di prese in giro ma, nonostante ciò, continua ad essere in uso.


L’ITALIANO È AMMALATO DI CONGIUNTIVO: SONO CERTO CHE SI USA

Le grammatiche contemporanee concordano nello stabilire che le completive rette da verbi, nomi
o aggettivi che esprimono certezza, sicurezza, consapevolezza, reggono l’indicativo. 

Nell’Ottocento, la Sintassi italiana dell’uso moderno di Ra aello Fornaciari, raccomanda
l’indicativo quando ik verbo reggente indica percezione sicura. 

Tuttavia, nell’italiano di oggi, ci sono tantissimi testi che so rono di iper-impiego del congiuntivo. 


COL CONGIUNTIVO COME MI GIRA, SE MI GIRA

Oggigiorno si pensa che chi sa usare il congiuntivo, conosce bene la lingua e viceversa. 

Ciò porta ad una sorta di ansia da prestazione; da un lato esistono le regole grammaticali chiare e
un elenco di verbi che reggono il congiuntivo proposto da Luca Serianni (es: aspettare, attendere,
desiderare, domandare ecc..) e dall’altro quelli che reggono l’indicativo (es: a ermare, dichiarare,
intuire, promettere, ricordare..)

Ci sono poi verbi che, a seconda del signi cato, sono seguiti dall’uno o dall’altro modo; per
esempio capire che:

1. In senso di ‘rendersi conto’ regge l’indicativo 



es. ‘capisco che sei stanco’

2. In senso di ‘trovare naturale’ regge il congiuntivo

es. ‘capisco tu debba andartene’

Il verbo ‘dimostrare’ regge l’indicativo; il ché potrebbe portare ad errori nel parlato, ma meno nello
scritto. 


SOSTENEVA CHE FOSSE

Succede che spesso sia necessario l’intervento dell’editing, per evitare suoni stridenti dati
dall’iper uso del congiuntivo. 


ES.

1. È sorprendente scoprire che l’abbazia di Westminster fosse già un’attrazione turistica nel
lontano 1600

2. Era evidente che sapesse molto bene quello che faceva

3. Era n troppo palese che sapessero qualcosa sul mio conto

In fase di editing, tutti i congiuntivi sono stati sostituiti con l’indicativo. 



Ma ci sono situazioni più complesse, come la frase:

‘She acknowledged that the photograph was genuine but she alleged that it had been taken while
she was waling’ =

Ammise che la foto era autentica ma sosteneva che fosse stata scattata mentre camminava

Abbiamo un congiuntivo di troppo; certo è che si potrebbe sostituire il verbo con ‘dichiarare’, ma
Bricchi sceglie di ri etterci e controllare la lista dei verbi di giudizio e percezione presente
nell’Accademia della Crusca.

Si può dire che il congiuntivo cela l’incertezza della dichiarazione; ma il verbo ‘sostenere’ si
de nisce un a ermare con decisione e convinzione, per cui non cela alcuna insicurezza o dubbio
in cui lo usa e in chi lo ascolta. 

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A questo punto, prendendo in considerazione la de nizione del Collins del verbo ‘to allege’, da cui
siamo partiti, che si de nisce ‘you say it, but you don’t prove it’, capiamo che è un sostenere
senza a ermare e provare e allora sostituire il verbo italiano con pensare può essere una giusta
soluzione al problema. 


LA LINGUA DEGLI ALTRI

L’editing impone delle scelte; da una parte c’è la decisione dell’autore e del traduttore e dall’altra
l’idea di correttezza dell’editing. 

Il suo compito è proprio questo: veri care la consapevolezza stilistica e il grado di responsabilità
grammaticale degli autori. 

L’ipercorretismo del congiuntivo è l’errore che ci si trova più spesso a correggere; capita spesso
da parte di autori insicuri, che si sentono protetti dall’opzione del congiuntivo, in caso di dubbio,
pensano sia quella meno rischiosa. 

Infatti, non a caso nei testi dove abbondano i congiuntivi, ci sono spesso parole più ricercate:
scelta che dà sempre sicurezza all’autore indeciso e insicuro. 


DICEVA CHE AVESSERO

Ancora una traduzione dall’inglese:

Some said the sisters were in their nineties, but whatever their ages none was likely to nd it out
from there. 


La versione che l’editing riceve è:

C’era chi diceva che le sorelle avessero superato la novantina ma, qualunque età avessero,
nessuno l’avrebbe mai saputa da loro. 


Il verbo ‘dire’ autorizza sia l’uso dell’indicativo che del congiuntivo. 



La personale scelta dell’editing sarebbe stata diversa da quella optata dal traduttore: il
congiuntivo complica la frase da un punto di vista fonico-ritmico. 

La traduzione da preferire sarebbe:

C’era chi diceva che le sorelle avevano superato la novantina..

Anche la frase: ‘it was already decided he was a suitable match for her’ tradotta ‘era state gig
decido che fosse un buon patriot per lei’ non convince. 


Il verbo decidere regge il congiuntivo quando si traduce con ‘disporre’ e l’indicativo quando
signi ca ‘rendersi conto’. 

Sarebbe meglio tradurla con ‘era un buon partito’.

INTERVENTO VS INQUINAMENTO

Spesso ci sono errori di ripetizione, in cui il congiuntivo viene trascinato in maniera meccanica.
Come in questo caso:

Risposta inattesa in un uomo che, nonostante avesse vissuto due guerre, attraversato la fame,
so erto l’emigrazione dei gli, fosse ancora pieno di energia ed entusiasmo.

Fosse per ‘era’ è un errore di ripetizione.

L’errore in cui spesso può cadere l’editor è quello di inquinare lo stile dell’autore; bisogna fare
attenzione: il suo compito è unicamente la correzione, non l’inquinamento dello stile. 

A volte il revisore deve fare un passo indietro, altre deve imporsi su autore e traduttore.

GRAMMATICA DEL FUTURO

Il fenomeno de nito ‘congiuntivite’ non è nuovo: già nell’Ottocento si segnalava il problema


dell’iper correttismo del congiuntivo. 

Ormai è, però, un fenomeno cronico che porta alla coniazione del termine ‘congiuntosi’.


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Tuttavia, la lingua funziona diversamente dalla medicina e ciò che oggi è un errore, potrebbe
essere segno di una grammatica del futuro.

TRATTI E TRATTINI

We were walking over the bridge from Place de la Concorde, my mother and I - arma in arm, like
two sisters who never quarrel. (Across the bridge- Mavis Gallant).

Notiamo un segno molto di uso della prosa inglese, ma problematico da rendere in italiano: il
trattino. 

Bisogna, prima di tutto, distinguerlo dal tratto breve, che aggrega parole singole come week-end,
dalla lineetta che è de nita ‘tratto lungo’ e lavora entro lo spazio della frase. 

Il tratto lungo ha un posto ben chiaro: una separazione più forte di una virgola. 

In italiano è normale l’uso del doppio tratto, in apertura e in chiusura, per isolare un inciso; ma un
tratto che apre e non chiude è un segno che è stato a lungo trascurato dalla tradizione
grammaticale; il primo a registrarlo è stato Giovanni Gherardini che, nella sua Appendice alle
grammatiche italiane, stabilisce che il segno serve a dividere un concetto da un altro.

Ugo Foscolo, per esempio, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortist ha usato il tratto per rendere una
virata improvvisa del tema. 

Il trattino è, pertanto, un elemento di libertà; molto usato nella scrittura epistolare.

Ci permette, tal volta, di sottolineare il concetto più importante nella subordinata, non nella
principale; e di stimolare l’attesa e il mistero nel lettore. 


DARE DEL LEI, NON DARE DEL VOI

La cerimonia dei rapporti sociali è il motore stesso dei romanzi di Jane Austen, dunque ogni
dettaglio importa. 

Notiamo che, nella traduzione di Abbazia di Northanger si usa il voi e in Emma si utilizza il lei.

Mentre il lei si va a ermando con lentezza, la resistenza del voi si spiega per due motivi principali:

1. Calco dell’inglese you e del francese vous

2. Per la persistenza del voi nei dialetti centro-meridionali dovuto, a sua volta, al fatto che nel
medioevo essendo l’italiano lingua romanza, si aveva un sistema bipartito tu/voi; l’allocutivo lei
si di onde durante il Rinascimento.


MA IL TRADUTTESE, ALLA FINE, ESISTE?

Nel 1980, Edoardo Sanguineti, conia una nuova parola: traduttorese, variante dell’attuale più
di usa ‘traduttese’. 

Tale termine sta ad indicare la lingua corretta e scorrevole impiegata, non tanto in testi tradotti, ma
per romanzi italiani degli anni novanta, dove non vi è un rimando all’originale, ma si assiste ad una
sorta di colonizzazione culturale dell’inglese.

Parliamo di ‘interferenza mimata’, che si veri ca in assenza di rapporto diretto con uno speci co
testo fronte. 

In conclusione, forse il traduttese non esiste; se non nel gioco consapevole degli scrittori italiani
che lo praticano.

GIUSTO.SBAGLIATO.DIPENDE

La lingua è mobile e con lei lo è la grammatica. 



Per stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato, entrano in gioco tre fattori:

1. Tempo > bisogna considerare la dimensione storica delle regole, che si attuano in un dato
momento piuttosto che in un altro; per esempio, nel Novellino si considerava giusta la formula
‘molto bellissima’

2. Situazione > il genere, il pubblico di riferimento e il contesto determinano registri diversi e


rendono, pertanto, correte o scorrette scelte grammaticali diverse; in quest’ottica la
correttezza coincide con l’uso appropriato dei registri e delle varietà disponibili in italiano

3. Uso> ha a che fare con il senso d’appartenenza: esprimersi con chiarezza signi ca
riconoscersi membri di un gruppo di individui, con i quali, condividiamo la lingua.

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Parliamo di ‘conformismo grammaticale’: ossia stabilire norme o giudizi di correttezza o
scorrettezza. 

L’esempio più facile è il codice penale italiano, che de nisce osceni gli atti che o endono il
pudore; tatuava, sia il pudore morale che linguistico si modi cano entrambi nel tempo. 


Correggere gli altri è uno sport praticato da tanti; ma che cosa sono gli errori?

Il concetto stesso di errore non è assoluto: non solo perché si muove nel tempo, ma perché scelte
scorrette, in una data situazione comunicativa, possono risultare accettabili in un’altra. 

Adattare il tono della lingua alla situazione è la vera correttezza. 

Mentre gli errori davvero gravi hanno a che fare con l’incapacità di produrre messaggi chiari e
adeguati e che generano ambiguità nella comunicazione. 


TRADURRE AL BUIO
Il coinvolgimento dello statuto del tradurre implica, per sua natura, una conoscenza più
approfondita dell’opera. 

Eugenio Montale, ne ‘poesia travestita’ dà origine a un gioco: vi sono una serie di traduzioni cui
interprete e titolo rimane ignoto. 

Alla sua morte, l’idea viene portata avanti dalla Corti, che trova altri traduttori e completa il gioco,
pubblicandone il risultato. 

Si può dire che questo gioco somigli molto al ‘telefono senza li’. 

La scommessa di Montale era quella di partire da un testo particolarmente ricco e intensi carne
arti cialmente l’aspetto. 

Un gioco in parte diverso è quello dello scrittore inglese Adam Thirlwell in cui vi sono 12 racconti,
tradotti in 18 lingue da 61 autori diversi; ciascuno dei quali traduce la traduzione precedente più la
sua, senza avere accesso all’originale. 

Si tratta di una provocazione: il testo di partenza non è mai riprodotto, dunque il lettore è invitato
a valutare non la traduzione, in rapporto al racconto di partenza, ma la traduzione in quanto nuovo
racconto. 

L’esempio più facile da prendere in considerazione è quello di Kafka; il protagonista, essere senza
nome che è rinchiuso in una sinagoga, viene prima chiamato creature, poi animal, criatura in
spagnolo o pet - mascot in inglese. 

Pertanto, lo scarto nell’implicazione a ettiva è patente.

ATTENTI AI DUE PUNTI

I due punti non sono un particolare trascurabile; sono il segno più plastico e cavilloso: uniscono e
separano, spezzando. La frase e lavorando al suo interno. 

I due punti hanno lo stesso ruolo delle congiunzioni ‘ma’ ed ‘e’, ossia dicono al lettore cosa viene
prima e dopo e che fra il prima e il dopo esiste un rapporto logico-semantico e lo invitano a non
trascurarlo. 

I due punti appartengono, pertanto, alla classe dei connettivi.

RIPETERE SI DEVE (CON GIUDIZIO)

Variare, sinonimizzare, alternare è un vecchio dichtat che può essere rischioso. 



Nei testi scritti con consapevolezza la ripetizione non discende da povertà lessicale, ma è una
scelta dettata da ragioni stilistiche e strutturali. 

Ciò viene perfettamente mostrato da Yasmina Melaouah nella Peste di Camus. 

Le ripetizioni di Camus servono a donare carica emotiva al romanzo e sono anche una chiave di
lettura; creano coesione.

Spesso, un testo in cui vi sono molte ripetizioni risulta più legato e coeso rispetto ad uno dove vi
sono molti pronomi e forme sostitutive. 

Il problema è che si ha paura delle ripetizioni, a causa delle tradizione retorica italiana dura a
morire; l’italiano è una lingua che non tollera molto le ripetizioni, fatta eccezione per il Partigiano
Jhonny di Beppe Fenoglio, che le esalta. 

Le ripetizioni di Fenoglio sono musica; egli si è ispirato all’inglese e ha forzato l’italiano no a
renderlo ‘straniero’ per far posto al ritmo della sua lingua.

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Pertanto, è spesso più facile usare ripetizioni in pagine ad altissima densità letteraria, quanto più
di cile per quanto riguarda le situazioni quotidiane. 

L’italiano, per ottenere lo stesso e etto di sonorità del francese, avrebbe bisogno di una buona
dose di ripetizioni.

VITA E BULLONI

Le congiunzioni servono a connettere qualcosa che viene prima con qualcosa che viene dopo e
rendere più o meno esplicita la relazione logica che li lega. 

Dal punto di vista del signi cato, alcuni connettivi sono più energici di altri, come per esempio ‘ne
conseguenze’ e altri sono più duttili, poiché lasciano aperta la possibilità di interpretarne il senso,
come la congiunzione ‘e’ per esempio; che può interceptare più ruoli:

1. Sono uscito e ho preso il treno > relazione di successione

2. Sono uscito e ho dovuto rientrare subito > relazione di contrasto

La congiunzione testuale ‘né’, che un tempo si de niva ‘licenza poetica’, agisce come indicatore
linguistico di un rapporto tra la ri essione che precede e la realizzazione poetica che ne
scaturisce. 


UN INCIAMPO: LE FRASI SLOGATE

Spesso il problema principale è dato dal gerundio.



Esso dovrebbe o:

1. Se non è espresso coincidere con quello della frase principale

2. Oppure, se è diverso da quello della reggente, dovrebbe poi essere introdotto da un nome o
pronome

Ci sono, naturalmente, alcune eccezioni: i verbi impersonali e quelli a soggetto generico.

ES. ‘sbagliando s’impara’; ‘ripensandoci, quello che è successo mi pare molto grave’.

Il problema non appartiene solo all’italiano; tutte le modalità che complicano, rendono meno
immediata la distinzione fra soggetto grammaticale e soggetto logico e, dunque, incoraggiano la
creazione di frasi ibride. 


ARS TITOLANDI E DINTORNI

I titoli dei libri, spesso, non li traducono i traduttori e nemmeno gli editori. 

Talvolta, non si tratta nemmeno di traduzione, ma semmai di adattamento.

Ci sono anche casi in cui, con la nuova edizione di un romanzo, si decide di cambiarne il titolo,
come nel caso di Sense and Sensibility di Jane Austen che viene reso nelle edizioni più recenti
Ragione e sentimento e non più Senno e sensibilità, anche e soprattutto perché la parola senno è
inusuale e in disuso. 

Possiamo parlare di un altro fenomeno e cioè il ‘sistema di riferimento trans-autoriale’ per il quale
non importa che l’autrice dei romanzi sia la stessa, ma ciò che conta è il riferimento ad una
costellazione di romanzi che include concetti come ti any, amore, NY, colazione…

Difatti, possiamo citare una serie di titoli che rimandano a gioielli, colazioni e agli echi di NY. 

Nel 2011 esce in italiano Un regalo da Ti any di Melissa Hill e i titoli-Tifanny vanno acquistando
nuova forza. 

Per concludere, oggigiorno si a accia un nuovo concetto di serie: non più libri pensati in
sequenza fra loro scritti da uno stesso autore, bensì libri più o meno esterni fra logo, aggregati per
via di martellanti anafore titolatorie. 


GIOCARE ED ALTERARE

Gli alterati sono una risorsa tipica dell’italiano, ma spesso sottoimpiegata nelle traduzioni. 

Il motivo è chiaro: molte lingue di partenza ne sono sprovviste o li possiedono in una gamma
meno ricca. 


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Prendiamo ad esempio l’inglese: abbiamo solamente due su ssi diminutivi e neanche
frequentissimi, ch esono -let e -ette e due vezzeggiativi, che sono -y o -ie.

Mentre in tedesco si limitano a -chen e -lein.

In italiano, al contrario, possiamo riferirci alla dimensione o al valore dei dei nomi e creare un
su sso che abbia anche una connotazione a ettiva. 

Ma, soprattutto, i su ssi sono tanti e imprevedibili; il che genera, naturalmente, spazi disponibili
alla fantasia per utilizzarli.

LE SCHEDE DI LETTURA COME MICRO-GENERE

Le schede di lettura sono, oggi come allora, un micro-genere ad alto tasso di codi cazione,
regolato da una sua propria grammatica.

Il lettore di una casa editrice si misura, senza sosta, con l’incertezza, le oscillazioni del giudizio, il
con itto fra bisogno di approfondimento e l’imperativo della sintesi. 

Pareri, schede di lettura o, semplicemente, le letture sono i testi che descrivono e valutano il
manoscritto, esprimendo un giudizio sulla sua possibilità di trasformarsi in libro, entro il catalogo
di una determinata casa editrice. 

Pertanto, la scheda di lettura è un prodotto di scrittura professionale, caratterizzato per la sua
destinazione interna e redatto, appunto, a nché il pubblico non vi abbia accesso.

Una scheda di lettura standard deve contenere due elementi:

1. Descrizione del libro > bisogna graduare le info in rapporto allo spazio e individuare il nucleo
narrativo portante del testo, distinguendolo dagli elementi accessori.

2. Valutazione

Le schede più lunghe sono caratterizzate da un paradossale doppio percorso a direzioni invertite;
nell’esiguo spazio della scheda, si percorrono non le singole azioni, ma le linee di forza
dell’intreccio. 

Di solito, le schede distringono fra racconto della storia, analisi e giudizio. 

Parliamo, in questo caso, di struttura tripartita, in cui scoviamo:

1. Presentazione dell’autore e anticipazione del giudizio

2. Riassunto

3. Inquadramento critico e valutazione conclusiva

NB. Anche in questo caso il riassunto è più lungo ed elaborato della valutazione.

La valutazione si fonda, in assoluto, sulla credibilità del lettore: non c’è descrizione del libro, non
c’è presa di posizione critica motivata, non c’è argomentazione. 

La valutazione ha, dunque, per oggetto la fattibilità pratica assieme alla qualità e riguarda il
rapporto, più o meno sbilanciato, fra le due. 


Accade che un libro non funzioni no in fondo; ma, dal punto di vista argomentativi, è interessante
ed innovativo; e può funzionare a una condizione: che l’autore sia disposto a rimetterci le mani. 


Alla Rizzoli, negli anni sessanta, si chiedeva ai lettori di articolare le schede in due sezioni:

1. Riassunto

2. Giudizio

E di compilare un modulo a mo’ di questionario, che includeva trenta domande.

Alla Mondadori, più semplicemente, c’era una scheda prestampata: carta intestata con la scritta
Comitato di lettura e i campi ssi per indicare autore, titolo, editore, ricevuto da, lettore. 


Le lettere editoriali sono una variante delle schede: di erente la formula, ma identico lo scopo. 

Unica di erenza: dedicare ogni lettera a un solo tema, in modo da facilitarne l’archiviazione come
documento editoriale.

I giudizi di lettura sono un ‘genere dialogico’: innescano condivisione e scambio di opinioni,


perché si rivolgono a un destinatario e perché suscitano reazioni. 

Difatti, il procedimento che restituisce immediatezza è quello del confronto; spetta al lettore

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raccontare, segnalando qualità e ritmi del dialogo. 


DOLENTI DECLINARE

Umberto Eco scrisse diverse parodie di schede di lettura e le raccolse in un saggio intitolato
‘dolenti declinare’: il più e cace manuale disponibile per aspiranti lettori editoriali. 

Il primo insegnamento sta proprio nel titolo: scartare (declinare) è il vero lavoro del lettore
editoriale; il suo compito è quello di distinguere cosa va pubblicato da cosa va scartato, di isolare
le ragioni della scelta e motivarle. 

La satira colpisce su due fronti:

1. Scioglie i nodi del processo di valutazione

2. Prende in giro le vanterie e le ossessioni del mondo editoriale (spesso portato ad inchiodare
un autore alla sua opera precedente o alla più nota).

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