LA LINGUA È UN’ORCHESTRA
L’italiano plurale
L’italiano non è uno ma tanti; è una lingua plurale: in movimento.
Riconoscere e governare le sue varietà è l’unico modo di maneggiare la lingua.
Sono tutte e tre frasi in italiano; la prima è tipica di un italiano locale, non dialetto; incorpora un
aspetto sintattico della parlata romanesca: cioè l’utilizzo del possessivo dopo il sostantivo.
La seconda, invece, è un esempio di iper-di usione dell’inglese, seppur non in ambito di
particolare prestigio; si tratta, infatti, di una parola comunissima che ha, pertanto, un equivalente
italiano.
La terza frase, al contrario, veicola il messaggio secondo il quale la povertà linguistica è associata
a quella materiale; è scritta in un italiano scorretto, seppur italiano; l’italiano di chi non sa:
oggigiorno gli immigrati, ieri gli italiani che parlavano unicamente dialetto.
A tal proposito, la principale di erenza che si riscontrava nella nostra lingua era dovuta alla
contrapposizione fra un gruppo di persone ristretto, che si servivano della tradizione letteraria, e la
massa di incolti, che parlavano solo dialetto e non sapevano scrivere.
1. Italiano letterario
2. Dialetti
3. Varietà per la comunicazione extra-familiare: un ibrido fra l’italiano d’uso letterario e i dialetti
Oggigiorno, parliamo di ‘italiano regionale’ o ‘locale’; difatti, esiste un italiano standard e linguaggi
settoriali. Inoltre, si consolida, a anco alle altre minorità di lingue straniere, l’inglese.
Le varietà dell’italiano ha, quindi, a che fare anche con:
Una menzione la merita anche la varietà del parlato a distanza (es: skype) e dello scritto dei social
media.
Per rendere chiaro il concetto di scrivere chiaro o scrivere oscuro, prendiamo a riferimento due
autori quali Primo Levi e Giorgio Manganelli con, rispettivamente, ‘La tregua’ e ‘Hilarotragoedia’.
Secondo Primo Levi, lo scrittore ha un ruolo importante: deve tramandare un messaggio e non
può farlo con un linguaggio oscuro; deve essere chiaro.
Al contrario, Manganelli è convinto che lo scrittore debba, al tempo stesso, descrivere un
signi cato ma liberarsi di esso.
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(Corriere della Sera, Febbraio 1997).
LA LINGUA È UN’ORCHESTRA
Non solo esistono diversi stili di scrittura, ma uno stesso scrittore può adoperarne in
contemporanea più di uno; per di più, la voce letteraria può essere molto marcata perché fatta, a
sua volta, di sovrapposizioni e contaminazioni. Difatti, nei romanzi si intrecciano mille voci e
linguaggi di erenti fra loro; di fatto, la voce narrante è un’orchestra che fa stridere o accorda
diverse voci.
L’Ulisse di James Joyce ne è un esempio: altro non è che senso plurale di ambiguità multi vocale;
niente virgolette, niente discorsi diretti, nessuna citazione; ma una strati cazione di voci che
bisogna cogliere.
COMUNE-MEDIO-NEO-STANDARD
Una lingua con queste caratteristiche è stata per secoli assente in Italia e si riconosce oggi
nell’esistenza di quello che viene de nito ‘italiano del gusto medio’.
Ciò si deve alle continue evoluzioni, che hanno portato, per esempio:
GRADAZIONI DI DIALETTO
Parliamo di GEOSINONIMI: cioè varianti locali di uno stesso termine; non si tratta di parole
dialettali, bensì di termini italiani che conservano l’impronta del dialetto.
Ciò non si limita unicamente al lessico, basti pensare alla di usione toscana della forma
impersonale in luogo della prima persona singolare (‘noi si va’), oppure all’uso transitivo di verbi
intransitivi come salire, scendere o uscire.
Dal contatto dei dialetti con l’italiano colto, che ha portato il popolo a parlare non più in dialetto,
ma nemmeno in italiano.
Lo screditamento del dialetto è stato il prezzo da pagare per consentire agli italiani di accedere
alla lingua nazionale; ma oggigiorno, a processo concluso, i dialetti vanno considerati come
un’opportunità.
Ed è ciò che viene fatto dagli scrittori più consapevoli; come per esempio fatto Walter Siti che
integra: italiano comune, verbi regionali e moti colloquiali con espressioni del dialetto milanese.
ALTO E BASSO
Dunque, una lingua dev’essere pronta ad adattarsi alle scelte stilistiche degli scrittori o in base
alle esigenze comunicative dettate dalle situazioni.
Le varietà linguistiche dettate dalle particolari situazioni sono principalmente raggruppate in due
gruppi:
1. I linguaggi speciali o settoriali (linguaggio delle scienze, dello sport..)
2. I linguaggi specialistici (giornalismo, politica..)
I linguaggi specialistici, dunque, sono facilmente riconoscibili: utilizzano vocaboli d’uso comune
che, talvolta, acquistano un signi cato altro.
Riconoscere i vocaboli specialistici e riprodurli è solo parte della s da del traduttore; c’è anche il
rischio opposto: immettere un tecnicismo assente nell’originale.
Le caratteristiche della scrittura sul web sono facili da riconoscere e la più degna di nota è
l’immediatezza.
Anche il linguaggio digitale ha ormai una storia di alcuni decenni e ha, quindi, subito
un’evoluzione; per esempio, oggigiorno i giovani snobbano le abbreviazioni che dieci anni fa
erano tanto di moda.
Un’altra caratteristica della scrittura digitale è la concentrazione; i tweet si segnalano per due
caratteristiche:
1. Stilistica > intensi cazione delle emozioni raggiunta tramite punteggiatura, intensi catori come
davvero o proprio e aggettivi enfatici
2. Testuale o inter-testuale > i tweet potendo contenere massimo 160 caratteri, si appoggiano e
rimandano ad altri testi, per completare il proprio signi cato
La lingua non è fatta semplicemente di parole, ma dalla loro capacità di combinarsi in frasi e testi.
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La sintassi (=insieme di regole grammaticali che formano una frase) è data dall’idea di unione ed
ordine.
Ma cos’è una frase?
Una sequenza di parole contenuta fra due frasi forti, al cui interno si trova un verbo di senso
compiuto.
Così come gli elementi di una frase sono dotati di valenze, anche i verbi richiedono argomenti che
completino il concetto.
Parliamo di:
1. Verbi zerovalenti > che non necessitano di alcun argomento > es: piovere
2. Verbi monovalenti > dotati di una sola valenza > es: dormire
3. Verbi bivalenti > che richiedono soggetto + complemento diretto + indiretto >
A tal proposito, parliamo di frasi SEMPLICI-NUCLEARI: quando il verbo è accompagnato dai suoi
argomenti
La grammatica, difatti, è entrambe le cose; esistono regioni governate da regole e altre dove vi è
la possibilità di liberarsene.
Parliamo, pertanto, di:
Se costruire una frase nucleare è compito della grammatica delle regole, ampliarla è compito della
grammatica delle scelte.
Ciò che si aggiunge alla frase nucleare ha il compito di soddisfare le esigenze comunicative di chi
scrive.
1. Nei primi giorni di gennaio, sotto la spinta dell’armata rossa ormai vicina, i tedeschi avevano
evacuato in fretta il bacino minerario
2. Nelle lunghissime sere polacche, l’aria della camerata, greve di tabacco e odori umani, si
saturava di sogni insensati
3. Mi accorsi ben presto che qualcun altro vegliava
Il nucleo è scritto in corsivo; in tutte e tre le frasi il verbo è bivalente; nella prima c’è un oggetto
diretto; nella seconda indiretto e nella terza una proposizione completava.
COSTRUIRE PONTI
Esiste una libertà ancora più interessante: le informazioni attorno al nucleo della frase possono
essere spostate in una frase indipendente; come ad esempio:
‘Sotto la spinta dell’armata rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in fretta il
bacino minerario. Questo accadeva nei primi giorni di gennaio 1945.'
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Abbiamo, così, due frasi indipendenti.
1. Di coordinazione:
‘Quando faceva tante cose strane e nuove era interessantissimo starlo a guardare’.
NB. In alcuni casi, esse possono divenire frasi autonome, che escono dal dominio della sintassi e
formano un testo.
‘Faceva tante cose strane e nuove. Per questo era interessantissimo stare a guardarlo’.
Il testo è una produzione linguistica dotata di senso compiuto, fatta da un emittente e ricevuta da
un destinatario, in un contesto determinato, con un’intenzione e un e etto di comunicare.
Il testo si distingue dalla frase non in senso quantitativo, bensì in senso qualitativo: ciò per l’unità
che realizza al di fuori di un qualunque legale grammaticale o sintattico.
Esso, quindi, deriva la sua struttura unitaria dal fatto che gli enunciati lo compongono e si legano
tra loro in una rete di relazioni concettuali, no a formare un messaggio.
Anche la poesia, seppur misteriosa, si è fatta linguisticamente testo, creando un rapporto fra. Le
immagini.
Talvolta, pertanto, un testo si rivela tale solo grazie all’ingresso di un esplicito elemento
semanticamente uni cante.
Questa proprietà prende il nome di coesione.
La coesione è la forma linguistica di coerenza; le forme coesive segnalano ciò di cui parla il testo:
pronomi, perifrasi, ripetizioni, riformulazioni; gli elementi connettivi sottolineano, invece,
l’articolazione interna del testo, cioè i rapporti logici; tali elementi sono congiunzioni, avverbi,
modali.
Non esiste testo senza coerenza mentre, al contrario, la coesione potrebbe anche essere assente
all’interno di un testo.
L’autore, grazie alla grammatica, crea una libertà interpretativa, tramite la quale, il lettore
interpreta il testo; il quale può essere interpretato solo tramite due modalità:
ES.
‘Faceva cose strane e nuove. Per questo/dunque era interessantissimo starlo a guardare’
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‘Faceva, insomma, cose così strane e nuove che era interessantissimo starlo a guardare’.
Nelle prime due frasi, assistiamo a un caso di codi ca completa; è, di fatto, l’autore che rende
chiaro il motivo della frase.
Al contrario, nel terzo caso parliamo di ipoinferenza: l’autore rimanda a un motivo che il lettore
coglie per inferenza.
Queste poche parole risalgono al 960 DC e appartengono ad uno scritto u ciale de nito Placito
capuano: il primo documento ad attestare l’uso del volgare.
Dunque, l’atto di nascita dell’italiano; si tratta di un verbale scritto in latino da un notaio che
riporta le parole di un tale che il latino sapeva parlarlo, ma si esprime anche per chi non lo
conosceva.
Notiamo l’anticipazione del complemento oggetto ‘kelle terre’ a sinistra del verbo, in modo da
dirigere l’attenzione dell’ascoltatore sull’elemento anticipato.
MUOVERE LE PAROLE
Nel volgare l’ordine dei costituenti è importante a scopo comunicativo; mentre, al contrario, nel
latino classico l’atto comunicativo era dato dai casi.
Nella pratica, il latino classico privilegiava l’ordine SOV: ‘Claudius Marcellum salutat’; mentre nel
volgare parlato si a ermava l’ordine SVO: ‘Claudio saluta Marcello’.
Caduto il sistema delle declinazioni, l’ordine acquisisce, in italiano, la funzione di segnalare la
logica delle parole.
L’italiano tende a trasmettere le informazioni in modo lineare, presentando il tema e poi il rema.
Il rema può servire, a sua volta, a realizzare una progressione interna, che porta al focus del
discorso.
Una grande di erenza dal latino si riscontra nella parziale libertà dell’italiano che gode di un ricco
sistema di essione dei verbi, i quali permettono di risalire facilmente al soggetto o dell’ampia
scelta di pronomi clitici, che chiariscono il rapporto verbo-complementi.
DISLOCARE
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1. Rema > frasi scisse
2. Tema > dislocazioni (la più di usa è quella a più complementi di sinistra, che ne anticipano
l’apparizione)
Notiamo:
La dislocazione a sx è utile per i dialoghi: in questo caso Manzoni, utilizzandola, indica con
chiarezza qual è il tema e potenzia il collegamento con ciò che lo precede.
Nelle Prose di Pietro Bembo, egli conferma la ripresa di pronomi (necessaria alla dislocazione)
come ornamento di stile.
Al contrario, considera gli interventi sull’ordine delle parole in maniera negativa; e ciò è
sicuramente un modo di limitarne il potenziale.
Fortunatamente, mentre i grammatici proibivano, gli scrittori sperimentavano.
Il topic della frase si mantiene alla sua destra ma viene, comunque, anticipato dall’uso del
pronome clitico ‘le’, che si inserisce all’interno del rema.
Molto spesso, in questi casi, si utilizza una virgola dopo il rema: che ri ette la frattura del
costrutto.
SPEZZARE
Esiste una forma che permette di intervenire anche sulla posizione del soggetto: è la frase scissa;
formata da una reggente copulativa priva di soggetto, seguita da una subordinata introdotta dal
che.
La frase scissa anticipa il focus; mentre la dipendente introdotta dal ‘che’ indica il tema. Dà
maggiore enfasi.
ES.
Il francese è ricchissimo di segmentazioni; ci sono anche formule cristalliate tipo ‘c’est avec grand
plaisir que..’ In cui la struttura segmentata non ha valore marcato, ma ha un potere informativo
che, talvolta, risalta un contrasto.
Anche l’inglese possiede una serie di strutture che lavorano sull’enfasi ed è essenziale trasferirne
il valore nelle traduzioni in italiano.
Spesso le inversioni in inglese si rendono con la dislocazione a destra in italiano.
ES.
Vero è che l’enfasi risulta eccessiva rispetto alle intenzioni dell’originale e inserire una virgola
potrebbe risultare meno invasivo:
La virgola agisce come segnale di marcatezza e può risultare utile in molti casi come, per
esempio, quando in inglese si utilizza il corsivo.
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A ME MI PIACE?
Es:
L’anacoluto nasce dall’anticipazione del tema, cui segue un’azione che è coerente dal punto di
vista del signi cato, ma non armonizzata dal punto di vista sintattico.
Anche l’anacoluto è una costruzione antica ed era già presente nel latino tardo:
Es:
LESSICOGRAFIA
I vocaboli non si limitano a spiegare i signi cati; informano sull’origine delle parole e sulla loro
storia; elencano sinonimi ma, soprattutto, evidenziano le di erenze fra i termini solo
apparentemente intercambiabili.
Quello della Crusca fu il primo vocabolario di una lingua moderna realizzato secondo criteri
scienti ci. Un lavoro secolare, quello lessicogra co, che continua anche oggi e che ha dotato
l’italiano di eccellenti vocabolari.
Giorgio Manganelli nella sua ‘Hilarotragoedia’ ha impilato nomi, verbi, aggettivi in serie anche
lunghissime. Le scelte di parole vengono selezionate anche e, sopratutto, per il loro ritmo
martellante.
Neologismo: parola nuova, che fa la sua apparizione in una lingua in un determinato momento
della storia
Le parole hanno una data di nascita, che coincide con la loro prima attestazione scritta di cui si
abbia notizia.
I dizionari di oggi registrano per ogni termine etimologia e datazione.
Ma questa data viene sottoposta a continue veri che.
La questione è, però, più complicata quando non si tratta di nascita, ma di morte.
I vocaboli, una volta entrati in circolazione, invecchiano e muoiono.
Ma altri, lentamente, sbiadiscono; però, l’uscita di scena non avviene in un momento preciso e
documentabile, come la nascita; è un processo che si dispiega in tempi lunghi.
Le parole italiane resuscitano, talvolta, per via letteraria, grazie alla passione antiquaria degli
autori.
Tullio de Mauro ha spiegato il fenomeno con un esempio. Absentismo.
Si tratta di un termine della loso a Kantiana che si riferisce alla concezione della storia come
priva di direzione e di senso.
Il vocabolo era stato escluso ance dal Grande Dizionario Italiano dell’uso, redatto dallo stesso De
Mauro che registrava, invece, l’aggettivo ‘aderita’ (stupido, sciocco): parole per de nizione morta.
I DIZIONARI STORICI
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Il più antico vocabolario di lingua moderna è il Vocabolario della Crusca, pubblicato a Venezia, nel
1612; è netto il distacco dall’Académie Française del 1694 o dal Diccionario de la lengua
castellana della Real Academia Espanola pubblicato fra il 1726 e il 1739 o quello inglese del
dottor Johnson nel 1755.
Il vocabolario della Crusca accoglie solo parole che provengono da fonti letterarie, non dalla
lingua parlata.
L’impostazione di Bembo viene integrata dalle idee dell’accademico Leonardo Salviati.
Insomma, il vocabolario della Crusca non nasce per fotografare la lingua esistenze al tempo, ma
per prescrivere un uso linguistico agli scrittori.
La Crusca isola come oggetto di attenzione la sola lingua letteraria e ne ssa la perfezione non al
presente, ma in un passato lontano.
Esistono 4 edizioni della Crusca; la Seconda risale al 1623, la terza al 1691, la quarta fra il
1729-38, la quinta, interrotta alla lettera O, risale tra il 1863 e il 1923.
A partire dalla terza edizione, si introducono alcuni cambiamenti: entrano nel vocabolario anche
voci del linguaggio scienti co, della terminologia tecnica, delle arti e dei mestieri.
Questo è, dunque, un dizionario storico; esistono altri due importanti dizionari storici:
1. Tomaseo-Bellini
In cui sono presenti alcuni commenti; oggigiorno, inserire commenti non è più un’abitudine in uso.
La distinzione fra le parole vive e quelle in disuso si ottiene con l’utilizzo di una croce per i termini,
appunto, non più in uso.
Il più recente (1961-2002), spesso indicato con la sigla GDLI o come il Battaglia, dal nome del suo
curatore: Salvatore Battaglia. È costituito da 21 volumi che nascono come revisione del Tomaseo-
Bellini ma che donano particolare attenzione al Novecento.
Il progetto viene ampliato in corso d’opera e gli ultimi volumi sono più ricchi dei primi.
LA POTENZA DELL’USO
Il problema resta, nei secoli, il rapporto fra tradizione letteraria e lingua viva: fra le parole del
passato e quelle dell’uso.
In e etti, i dizionari hanno una doppia nalità e si orientano verso due categorie di pubblico: chi
legge autori antichi e chi scrive testi destinati alla di usione nel presente.
E tocca Manzoni risolvere tale problema.
Lo scrittore spiega che lo scopo di un dizionario si biforca in due direzioni: da una parte
somministra il mezzo per intendere gli scrittori di tutti i tempi, dall’altra, rappresenta una lingua
viva e, quindi, la lingua dell’uso attuale.
L’opera nata grazie alle teorie manzoniane è il Novo vocabolario della lingua italiana, curato da
Giovan Battista Giorgini ed Emilio Broglio (1870-97); si tratta di un vocabolario che trascura la
tradizione letteraria e raccoglie parole dell’uso vivo orentino, con esempi che provengono dalla
lingua parlata.
Il più ampio fra i contemporanei è il Grande dizionario italiano dell’uso (Gradit) di Tullio de Mauro:
sei volumi, pubblicati nel 2000, e due volumi di aggiornamento (2003; 2007).
Il Gradit è il dizionario italiano più ricco di parole, anche se molto ampio è anche il Vocabolario
della lingua italiana di Aldo Duro: 4 volumi in 5 tomi, pubblicati fra il 1986 e il 1997.
Ricordiamo anche:
1. Sabatini-Coletti
2. Devoto-Oli
3. Garzanti
4. Zingarelli
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come per esempio: canguro, canarino, forchetta, gira a…
Ebbene, i dizionari dell’uso di oggi segnalano le parole ad alta disponibilità e o rono anche
indicazioni sul registro dei termini: le cosiddette marche d’uso.
Tra le sigle più utilizzate ci sono: ant. , lett. , region. , dial. , volg.
A tal proposito, la classi cazione più puntuale è quella applicata da De Mauro nel Gradit, in cui si
riportano le sigle: FO (fondamentale), AU (alto uso), AD (alta disponibilità), CO (comune), TS
(tecnico-specialistico), LE (letterale), RE (regionale), DI (dialettale), ES (esotismo), BU (basso uso) e
OB (obsoleto).
I libri di base furono, invece, progettati per trattare temi anche complessi in un numero di pagine
limitate con una sintassi semplice; in particolare, le parole ad alta disponibilità sono un insieme
mobile, legato ai mutamenti psicologici e culturali dei parlanti.
Un altro tema da trattare è la registrazione delle polirematiche: unità composte da più termini,
gra camente separati, ma necessari l’uno all’altro, per raggiungere il signi cato, come per
esempio cavallo di battaglia.
2. Sono forme cristallizzate che tendono a non ammettere variazioni, né di tipo lessicale, né negli
ordini costituenti
NB. Sono lemmatizzate le unità composte che, appartengono ad un’altra lingua, non hanno un
lemma o dei costituenti; es: mailbox non è un unità politematica, ma un lemma.
Nel 1732 esce a Venezia il primo dizionario italiano dei sinonimi: sinonimi ed aggiunti italiani di
Carlo Costanzo Rabbi.
Gia nel corso del 700, la linguistica francese teorizza il valore dei sinonimi come mezzo per
riconoscere l’uso proprio della parola.
Mazoni era convinto che l’abbondanza della lingua fosse un male; l’italiano è sempre stata una
lingua ricca di vocaboli e doppioni oppure parole con lo stesso signi cato e forme gra che
diverse.
Pertanto, in italiano vi sono molti sinonimi.
Morandi li suddivide in tre grandi famiglie:
1. Nobili
2. Famigliari
3. Scherzevoli
Egli si so erma sulle di erenze fra il termine ‘infermo’ e ‘ammalato’; l’ammalato è costretto a
rimanere a letto, mentre l’infermo può uscire di casa.
Si può essere infermi e non malati.
Ne ‘Sinonimi e contrari’ di Ra aele Simone, i sinonimi sono suddivisi a seconda dei diversi
signi cati del lemma; si segnala gra camente il cosiddetto sinonimo ‘tipico’, cioè l’alternativa più
comune, e molti termini sono accompagnati dall’indicazione del loro ambito d’uso.
ES.
Cedere = farsi indietro; il sinonimo più in uso è ‘mollare’ o ‘capitolare’, classi cato come familiare.
Quindi, in questo caso, nella scelta del lemma interviene la tipologia di registro che si vuole
utilizzare.
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Inventare le parole è un’avventura per tutti; lo fanno, senza rendersene conto, anche i bambini.
I dizionari dell’uso registrano un gran numero di neologismi e sceglierli è un esercizio di sensibilità
linguistica.
Per farlo, si prendono ad esame raccolte, selezionate con criteri scienti ci: per esempio un certo
numero di giornali per un certo numero di anni.
Strumenti di questo tipo censiscono tutti i termini mai attestati prima e presenti nel campione
scelto e possono, pertanto, rilevarsi utili non solo per datare un testo, ma anche se si deve
produrre o tradurre uno scritto.
I dizionari puristi sono una scoperta dell’Ottocento; nati, appunto, con l’intento di preservare la
purezza della lingua.
Si realizzarono anche dizionari destinati a censire barbarismi e voci corrotte.
Il più noto è il Lessico dell’in ma e corrotta italianità di Pietro Fanfani e Costantino Arlia,
contenente forestierismi, latinismi e dialettici.
La battaglia dei puristi non frena, però, la di usione dei prestiti.
Un’altra stagione dei purismi risale all’epoca fascista che vieta l’utilizzo di prestiti linguistici.
Nascono delle sorta di raccolte di termini da proibire; la più famosa è Barbaro dominio di Paolo
Monelli; si tratta di una scelta di cinquecento forestierismi di cui si ricostruisce la storia e, per
ciascuno dei quali, si propone una sostituzione italiana.
Nel 2005, per la prima volta, viene selezionata dagli Oxford Dictionaries una parola non-parola,
ossia un’emoji (quella che piange dal ridere).
PACCHETTI DI PAROLE
1. Verbo + nome
2. Nome + verbo
3. Aggettivo + nome
4. Verbo + avverbio
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Inseguendo la prevedibilità.
C’è. Invece, un racconto di uno scrittore svizzero, Peter Bichsel, che propone un ottimo esempio
di scaricamento non di collocazioni, ma di solidarietà semantiche, intitolato ‘un tavolo è un
tavolo’; la storia è quella di un uomo vecchio e triste, che decide di cambiare nomi alle cose che
gli stanno intorno; chiama, per esempio, il tavolo tappeto, no a dimenticare i nomi veri delle
cose, non capisce più ciò che dicono gli altri e gli altri non capiscono lui.
Bichsel si concentra sulle parole ma, in realtà, rovina la funzione sociale della lingua, che non
deriva dal fatto che i nomi vengano cambiati, ma dal fatto che le azioni legate a quelle cose
continuino ad essere espresse con le stesse parole.
I testi scritti scivolano più spesso di quanto si creda in accostamenti imprecisi e i dizionari sono
un aiuto.
Prendendo ad esempio la traduzione de ‘I misteri del castello d’Udolfo’, ci rendiamo conto che il
linguaggio antiquato veniva considerato tale già ai tempi della sua stesura.
Difatti il Tomaseo-Bellini (1865), de nisce le voci ‘murmure’ e ‘lene’ non in uso; mentre la voce
‘negro’ è de nita meno comune della sorella ‘nero’.
Complicazione, innalzamento di registro e intrusione di tocchi poetici appartengono solo alla
versione italiana e sono assenti nell’originale.
Più che di una traduzione, possiamo parlare di adattamento.
La scrittura si è poggiata per secoli ai grandi modelli del canone trecentesco, mentre il parlato si
evolveva, si sporcava e modernizzava.
Proprio per questo, in Italia il fatto stesso di scrivere implica un innalzamento del registro quasi
automatico.
Le idee di Manzoni, a tal proposito, prevalsero per una serie di ragioni storiche:
1. Dopo l’Unità, Emilio Broglio (ministro pubblica istruzione) invita Manzoni a pronunciarsi su
quale debba essere la lingua del nuovo stato.
La risposta di Manzoni, contenuta nel suo breve scritto intitolato ‘Dell’unità della lingua e dei
mezzi di di onderla’, indica la parlata viva di Firenze la lingua nazionale e suggerisce la sua
di usione attraverso un vocabolario non storico, ma d’uso presente.
Una scelta di rottura che sposta l’attenzione verso la lingua attuale.
2. Gli insegnanti delle scuole che appoggiarono Manzoni furono molti ed attivisti (Pinocchio>
Collodi; Cuore> Edmondo de Amicis).
L’acquisizione del orentino non è un processo immediato per chi non è toscano; non
dimentichiamo che nell’1861 la percentuale di analfabetismo è del 75%.
La lotta per estirpare i dialetti che si ra orza in epoca nascita prosegue no al dopo guerra.
Tuttavia, l’italiano che si insegna a scuola, ignorando i dialetti, esclude di nuovo la lingua parlata.
Oggi il 90% della popolazione parla italiano, non il orentino, ma una lingua variegata, che ha
diversi strati, più codici specialistici, settoriali e gerghi.
Un problema che persiste riguarda la resistenza dei pronomi egli, ella, essi/e al posto di lui, lei,
loro; ciò si deve al fatto che per secoli si sanzionava l’uso dei pronomi complemento in funzione di
soggetto.
Nella prosa Ottocentesca, infatti, egli/ella/essi dominano e lui/lei/loro sono presenti unicamente
per situazioni colloquiali.
Non è, dunque, Manzoni a introdurre lui in funzione di soggetto; anche se è lui che ne ampli ca
l’uso.
La coppia aspettare/attendere ha tutta una serie di alternative simili; la nostra sensibilità di parlanti
ci dice che il primo termine della coppia è sempre più comune e l’altro più formale/letterario.
Esistono, però, casi in cui la sensibilità linguistica deve farsi carico di una responsabilità: evadere
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dalle scelte iniziali e riconoscere gli scarti.
Gli allotropi, cioè forme diverse di una stessa parola, sono molto frequenti anche nell’italiano di
oggi.
Per esempio, il verbo ‘sorbire’ invece di ‘bere’ lo useremmo in una traduzione?
Quando il sinonimo di registro più alto è frequente, la pagina acquista un colore formale che, se
non corrisponde al testo originale, nisce per diventare una sorta di italiano ‘pomposo’.
Qualche anno fa due saggi si sono occupati dello stesso tema: le traduzioni del Castello di Kafka.
Il primo, intitolato ‘Una frase’, è di Milan Kundera e il secondo, ossia ‘Traslatino Kafka’ è di
Coetzee.
Kundera si concentra sulla frase che descrive l’incontro amoroso fra Frieda e Kafka,
confrontandosi con tre versioni francesi.
Egli sente il bisogno di trovare un’altra parola, anziché quella più ovvia (penetrare invece di essere,
per esempio).
Questa pratica, applicata in modo sistematico, nisce per attenuare il pensiero originale dello
scrittore.
Stessa cosa per quanto riguarda la traduzione di Coetzee che propone ‘era posseduto dalla
sensazione’ invece del più semplice ‘aveva costantemente la sensazione’.
Per concludere, la lingua di una traduzione dev’essere aulica se il testo originario lo richiede; non
può esserlo se il testo di partenza utilizza una lingua più sempliciotta, altrimenti tradirebbe
l’intenzione dello scrittore.
La di usione dei classici greci e latini, cui traduzioni sono state sempre più a date a studiosi, e
non a traduttori veri e propri, han fatto sì che i classici di oggi sono dotati di un ‘metalinguaggio’,
ossia sono ad alto tasso di standardizzazione; nulla a che fare con la lingua musicale di Monti con
il ‘cantami o diva’: una lingua, la sua, contemporanea a se stessa. Mentre le attuali versioni
stridono poiché rendono l’antico, sì, ma in una versione comunque datata.
Parlando di parole pompose, non possiamo non citare Italo Calvino e la sua denuncia nei
confronti delle traduzioni che vengono fatte rendendo l’italiano una lingua quasi inesistente e
meccanica.
L’antilingua di cui ci parla ha la stessa origine della lingua altisonante forzata: la paura di un
italiano limpio e normale.
Diversa, invece, è la sua origine storica: mentre la lingua altisonante si nutre della tradizione
letteraria italiana, l’antilingua si nutre dell’italiano burocratico, che ha la sua svolta nel Novecento.
Negli anni ’60 anche la lingua si modernizza.
Pier Paolo Pasolini coglie i segni del nuovo; i luoghi di elaborazione della lingua diventano le
aziende; e il centro non è più Firenze, ma l’asse Torino-Milano.
Scompaiono i dialetti e si di onde il linguaggio tecnico.
Il concetto di antilingua ha dunque una data ben precisa: 1965 e si sviluppa in un contesto storico
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preciso: l’Italia del boom economico.
Parliamo anche di ‘esattismi’: termine coniato da Giuseppe Antonelli, che ce ne fa un esempio: sul
banco di un salumiere possiamo trovare la scritta ‘non si e ettuano panini’.
Capita molto spesso che l’antilingua si insinui non tanto nella traduzione, quanto nella rivisitazione
di un testo.
‘Faire rien pour elle’ si potrebbe tradurre in ‘Fare niente per lei’ ma si rende con ‘fare alcunché per
lei’.
L’antilingua è solitamente oggetto di prese in giro ma, nonostante ciò, continua ad essere in uso.
Le grammatiche contemporanee concordano nello stabilire che le completive rette da verbi, nomi
o aggettivi che esprimono certezza, sicurezza, consapevolezza, reggono l’indicativo.
Nell’Ottocento, la Sintassi italiana dell’uso moderno di Ra aello Fornaciari, raccomanda
l’indicativo quando ik verbo reggente indica percezione sicura.
Tuttavia, nell’italiano di oggi, ci sono tantissimi testi che so rono di iper-impiego del congiuntivo.
Oggigiorno si pensa che chi sa usare il congiuntivo, conosce bene la lingua e viceversa.
Ciò porta ad una sorta di ansia da prestazione; da un lato esistono le regole grammaticali chiare e
un elenco di verbi che reggono il congiuntivo proposto da Luca Serianni (es: aspettare, attendere,
desiderare, domandare ecc..) e dall’altro quelli che reggono l’indicativo (es: a ermare, dichiarare,
intuire, promettere, ricordare..)
Ci sono poi verbi che, a seconda del signi cato, sono seguiti dall’uno o dall’altro modo; per
esempio capire che:
Il verbo ‘dimostrare’ regge l’indicativo; il ché potrebbe portare ad errori nel parlato, ma meno nello
scritto.
Succede che spesso sia necessario l’intervento dell’editing, per evitare suoni stridenti dati
dall’iper uso del congiuntivo.
ES.
1. È sorprendente scoprire che l’abbazia di Westminster fosse già un’attrazione turistica nel
lontano 1600
‘She acknowledged that the photograph was genuine but she alleged that it had been taken while
she was waling’ =
Ammise che la foto era autentica ma sosteneva che fosse stata scattata mentre camminava
Abbiamo un congiuntivo di troppo; certo è che si potrebbe sostituire il verbo con ‘dichiarare’, ma
Bricchi sceglie di ri etterci e controllare la lista dei verbi di giudizio e percezione presente
nell’Accademia della Crusca.
Si può dire che il congiuntivo cela l’incertezza della dichiarazione; ma il verbo ‘sostenere’ si
de nisce un a ermare con decisione e convinzione, per cui non cela alcuna insicurezza o dubbio
in cui lo usa e in chi lo ascolta.
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A questo punto, prendendo in considerazione la de nizione del Collins del verbo ‘to allege’, da cui
siamo partiti, che si de nisce ‘you say it, but you don’t prove it’, capiamo che è un sostenere
senza a ermare e provare e allora sostituire il verbo italiano con pensare può essere una giusta
soluzione al problema.
L’editing impone delle scelte; da una parte c’è la decisione dell’autore e del traduttore e dall’altra
l’idea di correttezza dell’editing.
Il suo compito è proprio questo: veri care la consapevolezza stilistica e il grado di responsabilità
grammaticale degli autori.
L’ipercorretismo del congiuntivo è l’errore che ci si trova più spesso a correggere; capita spesso
da parte di autori insicuri, che si sentono protetti dall’opzione del congiuntivo, in caso di dubbio,
pensano sia quella meno rischiosa.
Infatti, non a caso nei testi dove abbondano i congiuntivi, ci sono spesso parole più ricercate:
scelta che dà sempre sicurezza all’autore indeciso e insicuro.
Some said the sisters were in their nineties, but whatever their ages none was likely to nd it out
from there.
C’era chi diceva che le sorelle avessero superato la novantina ma, qualunque età avessero,
nessuno l’avrebbe mai saputa da loro.
Anche la frase: ‘it was already decided he was a suitable match for her’ tradotta ‘era state gig
decido che fosse un buon patriot per lei’ non convince.
Il verbo decidere regge il congiuntivo quando si traduce con ‘disporre’ e l’indicativo quando
signi ca ‘rendersi conto’.
Sarebbe meglio tradurla con ‘era un buon partito’.
INTERVENTO VS INQUINAMENTO
Spesso ci sono errori di ripetizione, in cui il congiuntivo viene trascinato in maniera meccanica.
Come in questo caso:
Risposta inattesa in un uomo che, nonostante avesse vissuto due guerre, attraversato la fame,
so erto l’emigrazione dei gli, fosse ancora pieno di energia ed entusiasmo.
L’errore in cui spesso può cadere l’editor è quello di inquinare lo stile dell’autore; bisogna fare
attenzione: il suo compito è unicamente la correzione, non l’inquinamento dello stile.
A volte il revisore deve fare un passo indietro, altre deve imporsi su autore e traduttore.
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Tuttavia, la lingua funziona diversamente dalla medicina e ciò che oggi è un errore, potrebbe
essere segno di una grammatica del futuro.
TRATTI E TRATTINI
We were walking over the bridge from Place de la Concorde, my mother and I - arma in arm, like
two sisters who never quarrel. (Across the bridge- Mavis Gallant).
Notiamo un segno molto di uso della prosa inglese, ma problematico da rendere in italiano: il
trattino.
Bisogna, prima di tutto, distinguerlo dal tratto breve, che aggrega parole singole come week-end,
dalla lineetta che è de nita ‘tratto lungo’ e lavora entro lo spazio della frase.
Il tratto lungo ha un posto ben chiaro: una separazione più forte di una virgola.
In italiano è normale l’uso del doppio tratto, in apertura e in chiusura, per isolare un inciso; ma un
tratto che apre e non chiude è un segno che è stato a lungo trascurato dalla tradizione
grammaticale; il primo a registrarlo è stato Giovanni Gherardini che, nella sua Appendice alle
grammatiche italiane, stabilisce che il segno serve a dividere un concetto da un altro.
Ugo Foscolo, per esempio, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortist ha usato il tratto per rendere una
virata improvvisa del tema.
Il trattino è, pertanto, un elemento di libertà; molto usato nella scrittura epistolare.
Ci permette, tal volta, di sottolineare il concetto più importante nella subordinata, non nella
principale; e di stimolare l’attesa e il mistero nel lettore.
La cerimonia dei rapporti sociali è il motore stesso dei romanzi di Jane Austen, dunque ogni
dettaglio importa.
Notiamo che, nella traduzione di Abbazia di Northanger si usa il voi e in Emma si utilizza il lei.
Mentre il lei si va a ermando con lentezza, la resistenza del voi si spiega per due motivi principali:
2. Per la persistenza del voi nei dialetti centro-meridionali dovuto, a sua volta, al fatto che nel
medioevo essendo l’italiano lingua romanza, si aveva un sistema bipartito tu/voi; l’allocutivo lei
si di onde durante il Rinascimento.
Nel 1980, Edoardo Sanguineti, conia una nuova parola: traduttorese, variante dell’attuale più
di usa ‘traduttese’.
Tale termine sta ad indicare la lingua corretta e scorrevole impiegata, non tanto in testi tradotti, ma
per romanzi italiani degli anni novanta, dove non vi è un rimando all’originale, ma si assiste ad una
sorta di colonizzazione culturale dell’inglese.
Parliamo di ‘interferenza mimata’, che si veri ca in assenza di rapporto diretto con uno speci co
testo fronte.
In conclusione, forse il traduttese non esiste; se non nel gioco consapevole degli scrittori italiani
che lo praticano.
GIUSTO.SBAGLIATO.DIPENDE
1. Tempo > bisogna considerare la dimensione storica delle regole, che si attuano in un dato
momento piuttosto che in un altro; per esempio, nel Novellino si considerava giusta la formula
‘molto bellissima’
3. Uso> ha a che fare con il senso d’appartenenza: esprimersi con chiarezza signi ca
riconoscersi membri di un gruppo di individui, con i quali, condividiamo la lingua.
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Parliamo di ‘conformismo grammaticale’: ossia stabilire norme o giudizi di correttezza o
scorrettezza.
L’esempio più facile è il codice penale italiano, che de nisce osceni gli atti che o endono il
pudore; tatuava, sia il pudore morale che linguistico si modi cano entrambi nel tempo.
Correggere gli altri è uno sport praticato da tanti; ma che cosa sono gli errori?
Il concetto stesso di errore non è assoluto: non solo perché si muove nel tempo, ma perché scelte
scorrette, in una data situazione comunicativa, possono risultare accettabili in un’altra.
Adattare il tono della lingua alla situazione è la vera correttezza.
Mentre gli errori davvero gravi hanno a che fare con l’incapacità di produrre messaggi chiari e
adeguati e che generano ambiguità nella comunicazione.
TRADURRE AL BUIO
Il coinvolgimento dello statuto del tradurre implica, per sua natura, una conoscenza più
approfondita dell’opera.
Eugenio Montale, ne ‘poesia travestita’ dà origine a un gioco: vi sono una serie di traduzioni cui
interprete e titolo rimane ignoto.
Alla sua morte, l’idea viene portata avanti dalla Corti, che trova altri traduttori e completa il gioco,
pubblicandone il risultato.
Si può dire che questo gioco somigli molto al ‘telefono senza li’.
La scommessa di Montale era quella di partire da un testo particolarmente ricco e intensi carne
arti cialmente l’aspetto.
Un gioco in parte diverso è quello dello scrittore inglese Adam Thirlwell in cui vi sono 12 racconti,
tradotti in 18 lingue da 61 autori diversi; ciascuno dei quali traduce la traduzione precedente più la
sua, senza avere accesso all’originale.
Si tratta di una provocazione: il testo di partenza non è mai riprodotto, dunque il lettore è invitato
a valutare non la traduzione, in rapporto al racconto di partenza, ma la traduzione in quanto nuovo
racconto.
L’esempio più facile da prendere in considerazione è quello di Kafka; il protagonista, essere senza
nome che è rinchiuso in una sinagoga, viene prima chiamato creature, poi animal, criatura in
spagnolo o pet - mascot in inglese.
Pertanto, lo scarto nell’implicazione a ettiva è patente.
I due punti non sono un particolare trascurabile; sono il segno più plastico e cavilloso: uniscono e
separano, spezzando. La frase e lavorando al suo interno.
I due punti hanno lo stesso ruolo delle congiunzioni ‘ma’ ed ‘e’, ossia dicono al lettore cosa viene
prima e dopo e che fra il prima e il dopo esiste un rapporto logico-semantico e lo invitano a non
trascurarlo.
I due punti appartengono, pertanto, alla classe dei connettivi.
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Pertanto, è spesso più facile usare ripetizioni in pagine ad altissima densità letteraria, quanto più
di cile per quanto riguarda le situazioni quotidiane.
L’italiano, per ottenere lo stesso e etto di sonorità del francese, avrebbe bisogno di una buona
dose di ripetizioni.
VITA E BULLONI
Le congiunzioni servono a connettere qualcosa che viene prima con qualcosa che viene dopo e
rendere più o meno esplicita la relazione logica che li lega.
Dal punto di vista del signi cato, alcuni connettivi sono più energici di altri, come per esempio ‘ne
conseguenze’ e altri sono più duttili, poiché lasciano aperta la possibilità di interpretarne il senso,
come la congiunzione ‘e’ per esempio; che può interceptare più ruoli:
La congiunzione testuale ‘né’, che un tempo si de niva ‘licenza poetica’, agisce come indicatore
linguistico di un rapporto tra la ri essione che precede e la realizzazione poetica che ne
scaturisce.
2. Oppure, se è diverso da quello della reggente, dovrebbe poi essere introdotto da un nome o
pronome
ES. ‘sbagliando s’impara’; ‘ripensandoci, quello che è successo mi pare molto grave’.
Il problema non appartiene solo all’italiano; tutte le modalità che complicano, rendono meno
immediata la distinzione fra soggetto grammaticale e soggetto logico e, dunque, incoraggiano la
creazione di frasi ibride.
I titoli dei libri, spesso, non li traducono i traduttori e nemmeno gli editori.
Talvolta, non si tratta nemmeno di traduzione, ma semmai di adattamento.
Ci sono anche casi in cui, con la nuova edizione di un romanzo, si decide di cambiarne il titolo,
come nel caso di Sense and Sensibility di Jane Austen che viene reso nelle edizioni più recenti
Ragione e sentimento e non più Senno e sensibilità, anche e soprattutto perché la parola senno è
inusuale e in disuso.
Possiamo parlare di un altro fenomeno e cioè il ‘sistema di riferimento trans-autoriale’ per il quale
non importa che l’autrice dei romanzi sia la stessa, ma ciò che conta è il riferimento ad una
costellazione di romanzi che include concetti come ti any, amore, NY, colazione…
Difatti, possiamo citare una serie di titoli che rimandano a gioielli, colazioni e agli echi di NY.
Nel 2011 esce in italiano Un regalo da Ti any di Melissa Hill e i titoli-Tifanny vanno acquistando
nuova forza.
Per concludere, oggigiorno si a accia un nuovo concetto di serie: non più libri pensati in
sequenza fra loro scritti da uno stesso autore, bensì libri più o meno esterni fra logo, aggregati per
via di martellanti anafore titolatorie.
GIOCARE ED ALTERARE
Gli alterati sono una risorsa tipica dell’italiano, ma spesso sottoimpiegata nelle traduzioni.
Il motivo è chiaro: molte lingue di partenza ne sono sprovviste o li possiedono in una gamma
meno ricca.
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Prendiamo ad esempio l’inglese: abbiamo solamente due su ssi diminutivi e neanche
frequentissimi, ch esono -let e -ette e due vezzeggiativi, che sono -y o -ie.
Mentre in tedesco si limitano a -chen e -lein.
In italiano, al contrario, possiamo riferirci alla dimensione o al valore dei dei nomi e creare un
su sso che abbia anche una connotazione a ettiva.
Ma, soprattutto, i su ssi sono tanti e imprevedibili; il che genera, naturalmente, spazi disponibili
alla fantasia per utilizzarli.
Le schede di lettura sono, oggi come allora, un micro-genere ad alto tasso di codi cazione,
regolato da una sua propria grammatica.
Il lettore di una casa editrice si misura, senza sosta, con l’incertezza, le oscillazioni del giudizio, il
con itto fra bisogno di approfondimento e l’imperativo della sintesi.
Pareri, schede di lettura o, semplicemente, le letture sono i testi che descrivono e valutano il
manoscritto, esprimendo un giudizio sulla sua possibilità di trasformarsi in libro, entro il catalogo
di una determinata casa editrice.
Pertanto, la scheda di lettura è un prodotto di scrittura professionale, caratterizzato per la sua
destinazione interna e redatto, appunto, a nché il pubblico non vi abbia accesso.
Una scheda di lettura standard deve contenere due elementi:
1. Descrizione del libro > bisogna graduare le info in rapporto allo spazio e individuare il nucleo
narrativo portante del testo, distinguendolo dagli elementi accessori.
2. Valutazione
Le schede più lunghe sono caratterizzate da un paradossale doppio percorso a direzioni invertite;
nell’esiguo spazio della scheda, si percorrono non le singole azioni, ma le linee di forza
dell’intreccio.
Di solito, le schede distringono fra racconto della storia, analisi e giudizio.
Parliamo, in questo caso, di struttura tripartita, in cui scoviamo:
2. Riassunto
NB. Anche in questo caso il riassunto è più lungo ed elaborato della valutazione.
La valutazione si fonda, in assoluto, sulla credibilità del lettore: non c’è descrizione del libro, non
c’è presa di posizione critica motivata, non c’è argomentazione.
La valutazione ha, dunque, per oggetto la fattibilità pratica assieme alla qualità e riguarda il
rapporto, più o meno sbilanciato, fra le due.
Accade che un libro non funzioni no in fondo; ma, dal punto di vista argomentativi, è interessante
ed innovativo; e può funzionare a una condizione: che l’autore sia disposto a rimetterci le mani.
Alla Rizzoli, negli anni sessanta, si chiedeva ai lettori di articolare le schede in due sezioni:
1. Riassunto
2. Giudizio
Alla Mondadori, più semplicemente, c’era una scheda prestampata: carta intestata con la scritta
Comitato di lettura e i campi ssi per indicare autore, titolo, editore, ricevuto da, lettore.
Le lettere editoriali sono una variante delle schede: di erente la formula, ma identico lo scopo.
Unica di erenza: dedicare ogni lettera a un solo tema, in modo da facilitarne l’archiviazione come
documento editoriale.
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raccontare, segnalando qualità e ritmi del dialogo.
DOLENTI DECLINARE
Umberto Eco scrisse diverse parodie di schede di lettura e le raccolse in un saggio intitolato
‘dolenti declinare’: il più e cace manuale disponibile per aspiranti lettori editoriali.
Il primo insegnamento sta proprio nel titolo: scartare (declinare) è il vero lavoro del lettore
editoriale; il suo compito è quello di distinguere cosa va pubblicato da cosa va scartato, di isolare
le ragioni della scelta e motivarle.
La satira colpisce su due fronti:
2. Prende in giro le vanterie e le ossessioni del mondo editoriale (spesso portato ad inchiodare
un autore alla sua opera precedente o alla più nota).
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