Introduzione
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1.1 Il percorso
Questo lavoro è frutto di un lungo periodo di studio e di ricerca, iniziato ben prima della felice
occasione offerta da questo dottorato. Una lunga esperienza di insegnamento della lingua italiana a
stranieri, in contesti diversi e con diverse tipologie di apprendenti, ha fatto sorgere l'esigenza, nel
tempo, sia di una riflessione sui meccanismi di apprendimento, che di una ricerca sull'efficacia
applicativa di metodi e strategie di trasmissione della lingua e cultura italiana. Specialmente in
seguito all'avvento di internet, numerose sono state anche le occasioni di scambio e di confronto
con altri insegnanti di italiano a stranieri, moltissimi dei quali sono ricercatori preparati e
competenti, dotati di inesauribile entusiasmo, inventiva e creatività. Talvolta si ha l'impressione che
le teorie sull'acquisizione della lingua seconda arrivino a dare fondamento teorico a pratiche già
note da tempo agli insegnanti, messe a punto in seguito a una ricerca e a un'esperienza individuale e
collettiva. Altre volte, invece, si ha l'impressione che le teorie, per quanto supportate da studi
sperimentali, rimangano fuori dell'applicazione pratica, troppo legata all'uso dei manuali, a metodi
convenzionali e a una concezione rigida dell'unità didattica.
Anche l'insegnamento attraverso il teatro vive questa alternanza: da un lato ha un posto privilegiato
nelle pratiche di insegnamento delle lingue seconde, collegandosi a quanto era già stato teorizzato e
soprattutto sperimentato in campo educativo a partire dagli anni Settanta, dall'altro continua a
restare ai margini dell'attività didattica, affidandosi per lo più a iniziative individuali. Data la lunga
tradizione che lega le attività teatrali all'educazione e all'educazione linguistica, la novità della
nostra proposta è circoscritta all'utilizzo del teatro di figura, un genere teatrale che, come
cercheremo di dimostrare, è particolarmente adeguato all'insegnamento delle lingue straniere. L'idea
di utilizzare il teatro di figura è scaturita, oltre che da un interesse personale per questo genere
teatrale,1 dalla necessità di motivare, attraverso qualcosa di “vivo”, una classe di sedicenni berlinesi
che seguivano per una settimana un corso di italiano nell'ambito di uno scambio tra licei italiani e
tedeschi. La prima esperienza, che ha avuto luogo nel 2003, ha avuto un tale successo che si è
ripetuta per i successivi cinque anni e gli studenti degli anni successivi, informati dai compagni che
avevano già partecipato al laboratorio di burattini, arrivavano pieni di aspettativa per l'attività che
avrebbero svolto durante il loro breve soggiorno in Italia.
La pratica del teatro sembra suscitare atteggiamenti radicalmente opposti tra educatori e agenzie
formative: entusiasmo incondizionato da parte di alcuni e rifiuto aprioristico da parte di altri, quasi
che sia stato trasferito, in ambito educativo, il giudizio ambivalente che ha accompagnato il teatro e
i suoi attori nel corso della storia. Una certa resistenza suscita pure la proposta di utilizzare il teatro
di figura, anche in questo caso in modo speculare alla pessima reputazione di cui ha quasi sempre
goduto questa forma di spettacolo, tradotta, oggi, nella diffusa opinione che si tratti di un genere
teatrale destinato esclusivamente all'infanzia. Resta il fatto che le forme teatrali devono ancora
trovare un posto preciso nell'organizzazione dei corsi di italiano per apprendenti stranieri.
Recentemente l'interesse per il teatro e le attività drammatiche come strumento della didattica
dell'italiano a stranieri hanno avuto un nuovo impulso, grazie al diffondersi del task approach, di
una didattica “orientata all'azione” teorizzata dal Quadro Comune Europeo (QCE 2002:11-25) e dei
recenti studi sulla dimensione pragmatica della lingua che hanno aperto nuove prospettive e posto
nuovi obiettivi alla didattica delle lingue seconde. Il rinnovato interesse per il teatro, testimoniato
dalle numerose esperienze riportate in riviste specializzate e diffuse attraverso il web, tende tuttavia,
nel panorama italiano, a frammentarsi in brevi interventi e nel resoconto di esperienze individuali
scollegate le une dalle altre. Abbiamo perciò ritenuto fosse necessario uno sguardo di insieme, che
unisse le varie ricerche, sia italiane che straniere, in una cornice concettuale comune.
Nel vagliare i presupposti teorici connessi all'uso del teatro nella didattica delle lingue seconde, ci
1 Chi scrive ha fondato, insieme al marito e ad alcuni amici, un gruppo amatoriale di burattinai (“Oga Magoga”) che ha operato in
provincia di Firenze a partire dal 1994. Il gruppo possiede attualmente una baracca per due burattinai e una per quattro oltre a
venticinque pupazzi.
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siamo ben presto resi conto che gli argomenti correlati e le prospettive di analisi erano vastissime.
Da un lato abbiamo il linguaggio, o meglio i linguaggi del teatro e del teatro di figura, che possono
essere analizzati dal punto di vista letterario, semiotico, con gli strumenti della linguistica testuale;
possono essere assunti entro prospettive filosofiche ed educative, rimandare ad analisi
antropologiche, sociologiche, storico-culturali. Dall'altro abbiamo gli studi sull'insegnamento delle
lingue seconde che condensano, com'è noto, questioni pedagogiche, linguistiche, sociologiche,
filosofiche, psicologiche. Abbiamo perciò dovuto fare una selezione sia delle prospettive di analisi
che dei contenuti legati a ciascuna prospettiva, scegliendo ciò che ci è sembrato più significativo ai
fini della nostra ipotesi. Il presente lavoro non ha pertanto la pretesa di essere esaustivo, ma si
propone come un contributo che, partendo da un'analisi dei presupposti teorici e da una ricognizione
dell'esistente, giunga a una proposta che speriamo possa aprire la strada per ulteriori studi e
approfondimenti.
Apprendere una nuova lingua non significa semplicemente impossessarsi di un nuovo codice per
comunicare contenuti mentali che siamo abituati a gestire nella nostra lingua madre. Significa
entrare in un nuovo universo semiotico dove nuovi contenuti di pensiero sono connessi a nuove
forme espressive. Significa imparare a muoversi in un mondo inusuale di significati sociali,
veicolati sì dalla parola, ma non solo dalla parola: anche tempi, spazi, toni di voce, gesti, mimica,
oggetti, relazioni, abiti sociali (per non dire dei generi letterari e spettacolari) contribuiscono a
creare modalità comunicative e universi di significato che non coincidono necessariamente con
quelli propri della cultura di origine. L'oggetto dell'insegnamento/apprendimento di una lingua
seconda (da ora in poi L2)1 non sono dunque, come spesso gli apprendenti credono ingenuamente,
nuovi vocaboli e nuove regole morfosintattiche che vanno a sovrapporsi alla struttura della
madrelingua (da ora in poi L1), ma è l'intera “cultura”, in senso antropologico, della collettività che
parla tale lingua; è per questo che tradizionalmente i termini “lingua e cultura” sono coniugati
insieme. De Mauro (1989) sostiene che non bisogna tanto parlare di lingua quanto di
“comportamenti linguistici”, ricostruendo una tradizione di pensiero che trova i suoi antecedenti
filosofici nella critica all'aristotelismo di Locke, Berkeley e Hume e si riaffaccia nel pensiero
dell'ultimo Saussure, nel tardo Croce e nelle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein, come anche nelle
teorie di parte della linguistica generale americana ed europea. Per Wittgenstein il parlare “fa parte
di un'attività, o di una forma di vita” (1953/1967:21). Per De Mauro (1989:225) il parlare dell'uomo
è legato alla prassi “è uno dei suoi modi di intervenire nel mondo, ordinando secondo valori
collegati a forme note collettivamente l'esperienza che ne ha: forme e valori che egli stesso ha
creato, e la cui unione egli solo, solidale coi suoi simili e con se stesso, può e sa garantire.
L'esperienza semantica riposa dunque sulla possibilità d'azione dell'uomo”.
In questa prospettiva lingua e cultura non sono sovrastrutture statiche e immutabili, che possono
essere racchiuse in uno schema ben definito per essere imparato e insegnato una volta per tutte: lo
sanno bene quegli insegnanti di lingue che, risiedendo per lungo tempo all'estero, sentono la
necessità di trovare continui modi per aggiornarsi, non solo su come “si parla” in Italia, ma,
soprattutto, su come “si vive”: il parlare segue di conseguenza. Lingua e cultura nascono dalla
dialettica continua tra coloro che parlano e vivono in una determinata società e la società nel suo
insieme. Come afferma il QCE (2002:9), le attività linguistiche “fanno parte di un più ampio
contesto sociale: è soltanto questo che può dar loro pieno significato”. È dunque il contesto sociale
che crea senso (Vedovelli 2002a:39). Apprendere una nuova lingua implica perciò necessariamente
fare un'operazione “interculturale”, mettere in comunicazione due mondi, quello della lingua e
1 Con lingua seconda o L2 indicheremo in generale sia la lingua straniera appresa nel paese in cui viene parlata (per molti la vera e
propria lingua seconda), sia la lingua straniera appresa fuori del paese in cui viene parlata (per molti lingua straniera o LS).
Useremo la distinzione tra L2 ed LS solo nel caso in cui sia necessario differenziare le due modalità di apprendimento.
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cultura di origine e quello della lingua e cultura di apprendimento, e la sintesi che ne deriverà non
potrà essere che assolutamente originale.
L'idea della lingua come prassi, come comportamento, è stata sviluppata, nel secolo scorso, anche
dallo psicologo tedesco Karl Bühler1 che, nella sua Sprachtheorie, definisce il linguaggio
“strumento di orientamento nella vita sociale”, coincidente con il modello teorico dell'homo faber
(Bühler 1965/1983:100-104). In questa ottica il parlare è Handlung, attività umana, qualcosa che
coinvolge tutto l'uomo.2 I primi tentativi consapevoli di comunicare, nel bambino, sono anch'essi di
carattere pragmatico: gesti, e segnali sonori, che realizzano sia i suoi tentativi di azione, che di
riflessione.3 Così, trovandoci in un paese straniero del quale si ignori la lingua, tenteremo di
instaurare una rudimentale comunicazione attraverso gesti e segnali legati al contesto. Ai primi
livelli di apprendimento, anche l'interlingua degli apprendenti si articola in modo “pragmatico” e i
tratti linguistici della L2 vengono organizzati in modo altamente contestuale. È noto infatti che gli
apprendenti di L2 passano da un pragmatic mode a un syntactic mode in conformità a un modo
comunicativo universale, relativamente indipendente sia dalle caratteristiche della lingua di
partenzache da quella di arrivo (Givón 1979; Giacalone Ramat 1993:345, 348). L'attività teatrale
procede nella stessa direzione dell'acquisizione spontanea della L2 restituendo al linguaggio la sua
dimensione “fisica” e gestuale. Il gesto e la parola convivono in ogni forma di discorso, ossia si
trovano strettamente uniti in ogni interazione verbale in presenza. Anche se rimangono ancora molti
punti da chiarire sulla questione dell'evoluzione della funzione linguistica, molti dati portano a
credere che dal gesto alla parola ci sia una continuità ininterrotta. Lieberman (1975/1980) ha
ipotizzato che il processo di identificazione dei fonemi di una lingua non avvenga tanto attraverso la
ricostruzione di una “immagine acustica” quanto dalla rievocazione un pattern motorio. La recente
scoperta che i “neuroni specchio” presenti nell'area di Broca, deputata per il linguaggio, si attivano
durante l'osservazione di azioni manuali, parrebbe rimandare a una continuità evolutiva tra il gesto e
la parola (Rizzolatti-Sinigaglia, 2006).4 Concordiamo con Formigari (2007:77) sul fatto che alla
formazione della rappresentazione mentale concorrano diversi dispositivi “nel quadro di una
strategia pluralista dei processi linguistico-cognitivi”: ad essa potrebbe anche contribuire la
memoria di schemi motori, che sembrano prendere parte alla costruzione dell'esperienza del mondo
vissuta attraverso la mediazione sociale del linguaggio.
L'esperienza teatrale, basata sull'azione, è un'esperienza sensoriale e linguistica inserita entro una
fitta rete di rapporti sociali, e può perciò avere un effetto facilitante sulla ricostruzione e
l'interiorizzazione del sistema di significati propri della lingua di apprendimento. La pratica del
teatro significa infatti elaborazione multimodale, sul piano sensomotorio, categoriale e linguistico,
del sapere acquisito.
Nel corso della nostra ricerca valuteremo le ricadute dell'utilizzo del teatro, in particolare del teatro
di figura, sull'insegnamento/apprendimento dell'italiano come L2. Il termine “teatro” è polisemico:
può significare tanto l'edificio in cui si svolgono gli spettacoli teatrali, quanto gli spettacoli che vi si
rappresentano, il loro pubblico o, infine, il processo di produzione scenica di un'opera teatrale.
Quando parleremo di “fare teatro”, useremo questo termine nell'ultima accezione, intendendo
riferirci a un'attività complessa che ingloba in sé una quantità di altre attività, da tempo usate sia nei
1 Le riflessioni sul linguaggio dello psiclologo Karl Bühler (1879-1963) vengono considerate fondamentali per la nascita della
pragmatica, in particolar modo si fa riferimento alla sua analisi della deissi (Bühler, 1965/1983: 131-195; cfr. anche Bazzanella
2005: 128 nota 19).
2 In tedesco Hand è la mano: afferrare qualcosa con la mano, per manipolarlo o usarlo, o parlare sarebbero dunque attività stretta
mente connesse.
3 Interessante è la ricostruzione del “protolinguaggio” fatta da Halliday (1985/1992:24) dove alla componente pragmatica l'autore
affianca anche una componente “matetica” intendendo con questo termine “le azioni messe in atto per 'apprendere con'”,
componente che anticipa l'altra fondamentale funzione del linguaggio, quella di principio organizzatore dell'esperienza.
4 Confronta a questo proposito anche Formigari 2007, 34-35.
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laboratori teatrali che nella didattica delle L2, spesso comprese sotto la generica definizione di
“drammatizzazione”. Tali attività si distribuiscono su un arco che va dalla drammatizzazione in
senso proprio (drama) - role-play, simulazioni, mimo, scenario enactment - fino alla scrittura e/o
messa in scena di commedie o sketches. Sebbene molte di queste attività vengano utilizzate nella
pratica teatrale, esse sono comunemente distinte dal teatro vero e proprio (theatre) per l'accento
posto sul processo più che sul prodotto. L'obiettivo, nel caso delle attività drammatiche, viene
considerato essenzialmente formativo; nel caso del teatro si concentrerebbe sulla realizzazione di
uno spettacolo ad uso del pubblico.
Il contrasto tra queste due prospettive non è nuovo e si è ripresentato a più riprese a ogni tentativo
di inserire le pratiche teatrali in ambito formativo o sociale. Da un lato c'è chi ha considerato il
confronto col pubblico un'esperienza motivante e determinante, e il teatro nella sua forma
spettacolare di per sé valorizzante e formativo; dall'altro c'è chi ha inteso il principio della
recitazione come esplorazione delle risorse espressive dell'individuo, in un'ottica d'indagine
personale che dovrebbe rimanere aperta a nuovi approfondimenti e rifiuterebbe le finalità e le forme
di una rappresentazione pubblica. Oggi però si tende a risolvere questo apparente conflitto,
riconoscendo che tutte le pratiche sono legittime nelle loro rispettive forme - spettacolo finale,
lavoro interno al gruppo, presentazione di lavori – in quanto vengono impiegate come attività
formative. Il loro valore educativo dipende non dall'obiettivo che viene proposto, bensì dallo spirito
con cui vengono elaborate le molteplici attività che la pratica teatrale rende possibili: l'importante è
definire ogni volta le scelte pedagogiche che le giustificano (Voltz 1998:36).
Da parte nostra cercheremo di delineare una procedura didattica che viaggi su tutti e due i binari
parallelamente: se da un lato l'uso del teatro in un contesto educazionale mira a potenziare
l'apprendimento della lingua italiana, dall'altro tutto il lavoro di realizzazione di un vero e proprio
spettacolo ha come fine la rappresentazione di fronte a un pubblico. Tale realizzazione,
nell'applicazione delle pratiche teatrali all'apprendimento della L2, acquista infatti un'importanza
particolare in quanto momento insostituibile di utilizzo comunicativo della lingua appresa, auto-
verifica delle competenze acquisite, comunicazione significativa col pubblico. Le esperienze fatte
portano inoltre a credere che, nella maggior parte dei casi, l'avere come obiettivo una
rappresentazione pubblica possa costituire uno stimolo positivo per la motivazione e per
l'apprendimento. L'accento sul processo e sul prodotto non sono in tal caso antitetici e, se la
rappresentazione teatrale ha luogo entro un ambiente in qualche modo protetto – di fronte a un
pubblico di coetanei, di conoscenti o di studenti – può generare un proficuo circolo virtuoso che
spinge gli apprendenti in direzione della lingua target. Inserite in un project work teatrale (Ridarelli
1998, Quartapelle 1999a), le attività drammatiche non sono finalizzate solo all'apprendimento della
lingua italiana, ma si caricano di significati culturali ed emotivi, inserendosi in un progetto globale
che prevede l'uso autentico della lingua come mezzo di comunicazione tra i membri del gruppo
teatrale e tra il gruppo teatrale e il pubblico.
Quando parleremo di “fare teatro” nella classe di lingua, intenderemo dunque un vero e proprio
progetto teatrale che include, in modo flessibile a seconda delle esigenze, le seguenti attività:
• leggere un testo teatrale;
• assistere a uno spettacolo teatrale;
• creare un testo teatrale a partire da testi in prosa o da altri stimoli creativi;
• recitare un testo teatrale o parti di esso a partire da un testo drammatico;
• elaborare un testo drammatico;
• prendere parte ad attività laboratoriali finalizzate a mettere in scena un testo teatrale.
In particolare analizzeremo un progetto col teatro dei burattini, in quanto questo genere rappresenta
una forma particolarmente semplificata e codificata di teatro, pertanto più aderente alle esigenze
degli apprendenti anche ai livelli iniziali di apprendimento. La caratteristica “stilizzazione” del
teatro dei burattini ne fa infatti uno strumento di facile leggibilità; il fatto che la realtà più che
imitata venga rievocata in modo simbolico, lo libera dai vincoli spazio temporali del teatro di attori,
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permettendo di trasferire facilmente su di esso elementi fantastici ed emotivi; il fatto che gli attori
non appaiano direttamente sulla scena permette di proiettare sui personaggi caratteristiche che non
necessariamente si sarebbe disposti ad attribuire a sé stessi, superando quell'istintivo imbarazzo che
impedisce di parlare una lingua che non si domini ancora perfettamente e abbassando il filtro
affettivo; per questi motivi il teatro dei burattini viene spesso usato anche in contesti terapeutici e
riabilitativi e può rappresentare un valido strumento di integrazione. Il teatro dei burattini è inoltre
un genere teatrale che si inserisce entro una ricca tradizione legata alla cultura popolare italiana, con
caratteristiche espressive proprie, e la lingua che lo caratterizza può essere utilizzata come un ponte
tra varietà e lingua standard, percorribile in entrambe le direzioni a seconda dei bisogni degli
apprendenti. Dal punto di vista pratico, poi, il teatro dei burattini richiede tempi brevi di
realizzazione e mezzi minimi di allestimento, può essere quindi facilmente adattabile al lavoro in
classe anche in assenza di spazi scenici veri e propri. Infine il laboratorio di burattini, oltre a
utilizzare le tecniche centrate sul gesto e la parola proprie del teatro, offre l'occasione di stabilire
numerosi scambi comunicativi nel momento in cui si decida di far costruire agli apprendenti i
burattini.
La nostra ipotesi è che fare teatro in classe, in particolare con un progetto che prevede l'uso del
teatro di figura, metta in moto meccanismi profondi del processo comunicativo e linguistico,
facilitando le condizioni dell'apprendimento della L2 e determinando differenze positive a favore
degli studenti coinvolti. Pertanto nel presente lavoro cercheremo di valutare gli effetti di questa
attività attraverso un'analisi qualitativa e un'analisi quantitativa svolte in seguito alle
sperimentazioni fatte con diversi gruppi di apprendenti:
• apprendenti adolescenti;
• apprendenti giovani-adulti;
• apprendenti adulti immigrati.
L'analisi qualitativa è stata attuata mediante un questionario che mette in luce gli aspetti
motivazionali, il coinvolgimento emotivo degli apprendenti, le dinamiche interne al gruppo e il
ruolo del docente. Per l'analisi quantitativa abbiamo utilizzato, riadattandolo alle nostre esigenze, il
Glotto-Kit per stranieri (Gensini-Vedovelli 1993; Fragai 2001, 2003). Nel corso della ricerca
abbiamo inoltre cercato di stabilire una procedura “ottimale” per l'uso delle tecniche teatrali e del
teatro di figura nei diversi contesti di insegnamento/apprendimento.
Il lavoro è diviso in tre parti. La prima parte (§ 2) è dedicata all'analisi dei presupposti su cui è
fondata l'idea di introdurre l'attività teatrale nell'insegnamento/apprendimento della L2. La seconda
parte (§ 3) ospita una ricognizione della letteratura e delle esperienze esistenti. Nella terza parte (§
4) riportiamo i risultati delle sperimentazioni da noi fatte utilizzando il teatro di figura nei diversi
contesti di insegnamento/apprendimento.
Nell'ambito dei presupposti teorici, abbiamo individuato una dimensione linguistica (§ 2.1) e una
dimensione didattica (§ 2.2). La sezione sulla dimensione linguistica affronta i linguaggi del teatro e
del teatro di figura dalla prospettiva semiotica, dalla prospettiva della linguistica testuale, e della
sociolinguistica. Colloca inoltre i linguaggi teatrali entro la prospettiva pragmatica.
Nel primo capitolo (“I linguaggi del teatro”) (§ 2.1.1) accogliamo il contributo della semiotica
all'analisi del linguaggio teatrale, rilevando, nel circuito comunicativo che lega lo spettacolo teatrale
al pubblico, gli elementi base dell'interazione propri del linguaggio (funzione simbolica,
compresenza di emittente e destinatario, simultaneità di produzione e comunicazione, non
riproducibilità, pluricodicità) (De Marinis 1982). Rileviamo anche la presenza di un testo generale
entro i vari codici spettacolari che diviene potente veicolo di tratti culturali e l'importanza della
semiotizzazione (Elam 1980/1988) per la creazione e comprensione del significato. L'attenzione si
sposta poi sul secondo circuito di comunicazione presente nello spettacolo teatrale, quello che
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coinvolge gli attori attraverso le battute del dialogo, per individuare l'affinità del linguaggio del
dialogo teatrale con la conversazione naturale (Burton 1980). Il dialogo teatrale rappresenta infatti
un esempio significativo di comunicazione complessa e un utile modello di lingua
nell'insegnamento dell'italiano a stranieri (§ 2.1.1.1). Occupandoci della differenza tra scritto e
parlato (Bazzanella 1994) e della collocazione del testo drammatico entro la tipologia testuale
(Lavinio 1990), riconosciamo nel rapporto tra dialogo scritto e dialogo recitato uno strumento
didattico essenziale per avvicinare gradualmente gli apprendenti da un lato ai testi letterari,
dall'altro alle forme dell'interazione dialogica (§ 2.1.1.2). Passiamo poi a un'analisi del tipo di lingua
usato dal teatro, riconoscendovi la presenza delle varietà, che ne fanno uno specchio fedele della
complessa situazione sociolinguistica dell'italiano (§ 2.1.1.3).
Nel secondo capitolo (“Teatro e pragmatica”) (§ 2.1.2) il linguaggio teatrale è visto dalla
prospettiva aperta di recente dagli studi di pragmatica. In esso infatti la lingua non è solo presentata,
ma agìta all'interno di contesti, di intenzionalità, di scopi, che le restituiscono sia la complessità
delle dimensioni verbali che le dimensioni non verbali, presenti nell'atto comunicativo reale (§
2.1.2.1). La presenza della componente emotiva (§ 2.1.2.2), della deissi, dell’implicito, delle varie
forme del comico (§ 2.1.2.3), l'importanza dei tratti soprasegmentali e della gestualità per la
comunicazione (2.1.2.4) rendono la lingua del teatro uno strumento prezioso per sviluppare una
maggiore consapevolezza nell'uso del mezzo linguistico, per riflettere sulle metafore concettuali
presenti nella lingua e istituire percorsi inter-culturali (Levinson 1983/1985; Bianchi 2001;
Bazzanella 2005; Bettoni 2006) .
Nel terzo capitolo (“Il linguaggio del teatro di figura”) viene analizzato il linguaggio specifico del
teatro di figura: al suo interno vengono tracciate le distinzioni tra teatro dei burattini, il teatro delle
marionette e dei pupi (§ 2.1.3.1, § 2.1.3.2). Viene identificato nella maschera il nucleo significativo
centrale del teatro dei burattini per la sua funzione “tipizzante” che ricollega ogni personaggio a un
carattere universale. La maschera rimanda anche alla Commedia dell'Arte e alla caratteristica
frantumazione regionale della lingua e cultura degli italiani (§ 2.1.3.3). Si considerano poi i temi
ricorrenti di questo teatro (§ 2.1.3.4), la sua diffusione attuale (§ 2.1.3.5) e il suo linguaggio (§
2.1.3.6). Infine se ne mettono in rilievo l'originalità e l'autonomia rispetto al teatro di attori
riassumendo le caratteristiche che ne fanno un mezzo particolarmente efficace per
l'insegnamento/apprendimento della L2 (§ 2.1.3.7) (Leydi-Mezzanotte Leydi 1958; Allegri 1978,
2001; Cipolla-Moretti 2003).
La seconda sezione della prima parte (§ 2.2) è dedicata, come si è detto, all'analisi dei presupposti
emergenti dagli studi sulla didattica della L2. Nel primo capitolo di questa sezione (“L'oralità
nell'insegnamento/apprendimento della L2” ) (§ 2.2.1) cerchiamo di individuare quale sia il ruolo
dell'oralità e dell'interazione orale nella didattica. Viene analizzato il testo teatrale come input (§
2.2.1.1), poi vengono prese in esame le ipotesi interazioniste (Ellis 1999a) che, con diverse
sfaccettature, attribuiscono al processo interattivo una posizione centrale per l'apprendimento della
L2 (§ 2.2.1.2). Tra queste consideriamo di grande interesse la teoria socio-culturale
dell'apprendimento (Lantolf-Thorne 2007) che colloca i processi cognitivi all'interno del contesto
sociale. Per questo assume un'importanza decisiva l'interazione in classe (Orletti 2000; Fele-Paoletti
2003) come luogo di sviluppo delle competenze e di nuove identità culturali (§ 2.2.1.3). La didattica
per compiti (Nunan 1989; Coonan 2006) e la didattica per progetti (Ridarelli 1998; Quartapelle
1999), attraverso le quali si concretizza il progetto teatrale, ci sembrano gli strumenti più idonei
perché si sviluppi un'“alta densità comunicativa” (Vedovelli 2002a) in classe e si creino le basi per
un rapporto di collaborazione tra insegnanti e apprendenti (§ 2.2.1.4).
Nel secondo capitolo (“Linguaggio, apprendimento e memoria”) (§ 2.2.2) prendiamo in
considerazione il rapporto tra memoria, esperienza, emozione e apprendimento facendo riferimento
agli approcci umanistici (Serra Borneto 1998), che mettono l'accento sulla motivazione e le tecniche
olistiche (§ 2.2.2.1), ai vantaggi di una didattica ludica (§ 2.2.2.2) (Freddi 1990; Caon-Rutka 2004;
Caon 2006b) e ai vantaggi dell'attività teatrale ai fini di una didattica differenziata (§ 2.2.2.3).
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L'ultimo capitolo di questa sezione (“La dimensione interculturale”) (§ 2.2.3) sarà dedicato allo
sviluppo di una “competenza pragmatica” negli apprendenti che coinvolge anche l'aspetto
interculturale fortemente implicato dall'approccio teatrale (Bettoni 2006).
La seconda parte (“Il teatro nella didattica delle lingue moderne”) (§ 3) considera gli studi sul teatro
e l'acquisizione della L2. Nella prima sezione di questa parte (“La storia, la teoria, le esperienze”) (§
3.1) ripercorriamo rapidamente la storia del rapporto tra teatro ed educazione in generale (§ 3.1.1)
cercando di enucleare i temi più significativi del dibattito che è scaturito da questo rapporto (§
3.1.1.1) (Bernardi-Cuminetti 1998). Ci soffermeremo sulla teoria e la pratica delle tecniche teatrali
e drammatiche nell'insegnamento/apprendimento della L2 (§ 3.1.2), facendo particolare riferimento
al panorama italiano (§ 3.1.2.1). Nel capitolo successivo (§ 3.1.3) vogliamo di nuovo affrontare
alcune questioni centrali che emergono dall'applicazione d queste tecniche alla didattica delle L2, in
particolare il dilemma tra recitazione e improvvisazione (§ 3.1.3.1), il ruolo dell'insegnante (§
3.1.3.2) e il ruolo degli apprendenti (§ 3.1.3.3).
Nella sezione successiva (“Percorsi e tecniche di drammatizzazione nel progetto teatrale”) (§ 3.2)
cerchiamo di delineare le varie fasi e componenti del progetto teatrale: il laboratorio (§ 3.2.1), il
lavoro sul testo e la costruzione della storia (§ 3.2.2), la realizzazione dello spettacolo (§ 3.2.3)
Infine ripercorriamo i modi e gli usi educativi del teatro di figura (“Teatro dei burattini e
insegnamento/apprendimento dell'italiano L2”) (§ 3.3), ricostruendone le caratteristiche specifiche e
facendo una sintesi della nostra proposta riguardante il laboratorio di burattini per la didattica
dell'italiano L2 (§ 3.3.1). Facciamo anche cenno al valore “psicologico” di questo teatro, utile ai fini
dell'integrazione (§ 3.3.2) e passiamo in rassegna le non numerose testimonianze sull'uso del teatro
di figura nell'insegnamento/apprendimento delle L2 (§ 3.3.3).
L'ultima parte (§ 4) è dedicata alle sperimentazioni da noi effettuate e dalla discussione sui dati
raccolti. Dalle sperimentazioni con adolescenti (§ 4.2) avvenuta in tre anni non consecutivi (2004,
2006, 2008) trarremo alcune conclusioni concernenti l'aspetto motivazionale, il ruolo
dell'insegnante e lo sviluppo delle relazioni sociali in questo tipo di attività. Dal momento che le
tecniche applicate nei diversi laboratori avevano presentato alcune differenze, cercheremo inoltre di
stabilire quale sia stata la procedura più efficace e più gradita a questa tipologia di apprendenti.
Le sperimentazioni con giovani-adulti hanno avuto in due occasioni per protagonisti studenti dei
college americani (alla “Vanderbilt University” e al “Benedectine College”) che frequentavano un
corso di livello A1/A2 (§ 4.3). Solo in un caso è stato possibile stabilire un gruppo di controllo e
rilevare dati riguardanti diversi aspetti dell'apprendimento attraverso le interviste registrate e i test.
Nella sperimentazione con adulti immigrati (§ 4.4), avvenuta alla “Fraternità della Visitazione” di
Pian di Scò (in provincia di Arezzo), che offre ospitalità a donne italiane e straniere insieme ai loro
figli, abbiamo invece fatto un'indagine longitudinale attraverso l'analisi di una produzione orale e un
test. Abbiamo anche somministrato un questionario per stabilire la percezione dell'attività. Il
laboratorio ha avuto una maggiore durata (circa 50 ore distribuite nell'arco di tre mesi e mezzo) e le
apprendenti avevano già sviluppato delle varietà di interlingua tali da affrontare, senza grosse
difficoltà, la maggior parte delle situazioni comunicative quotidiane. Il problema maggiore per
questo tipo di apprendenti è che la loro interlingua si trova a essere soggetta a processi di
fossilizzazione, quindi l'indagine è stata volta a verificare quanto il laboratorio di burattini fosse in
grado di sviluppare la consapevolezza della necessità di migliorare la propria competenza e di
rafforzare la motivazione in questo senso. Da questa esperienza, che ha avuto anche interessanti
risvolti sul piano interculturale (al laboratorio partecipavano donne di diverse nazionalità e donne
italiane), è emerso con evidenza il valore socializzante delle attività teatrali e l'effetto di
integrazione proprio del teatro di figura.
Ringraziamenti: Mio sento in dovere di ringraziare le moltissime persone senza le quali non sarei riuscita a portare a
termine questo lungo lavoro. Innanzitutto la prof.ssa Pierangela Diadori, mio tutor, che mi ha assistito, stimolato e
incoraggiato in questi tre anni. Ringrazio per la guida preziosa il prof. Vedovelli, nostro rettore, il prof. Palermo e la
prof. Pieroni e che si sono avvicendati come coordinatori del dottorato. Ringrazio affettuosamente gli amici carissimi
8
che mi sono stati vicini, in particolare Massimo Avuri che mi ha sostenuto nei momenti peggiori e Jennifer Barry, che
ha reso possibile con la sua attiva collaborazione la sperimentazione con giovani adulti nella struttura di Villa Morghen,
da lei gestita. Ringrazio tutti i membri della mia famiglia: mia madre che ha sostenuto il menage familiare con pranzi e
cene amorevolmente preparati; mio marito Stefano, che mi ha “coraggiosamente” aiutato ogni volta che si è trattato di
mettere in piedi uno spettacolo con gli apprendenti; i miei figli Francesca e Sergio che hanno saputo adattarsi a
“cavarsela” da soli in molte occasioni; mia sorella e i miei nipoti per i saggi consigli. Un caldo ringraziamento anche a
Concetta Dimalta e Lucia Nastasi, preziose presenze nell'Università per Stranieri di Siena.
9
2. Presupposti teorici
10
2.1 La dimensione linguistica
In questa prima sezione analizzeremo i linguaggi del teatro e del teatro di figura per individuarne le
caratteristiche e vedere se sia possibile inserirli in una proposta didattica come modello di lingua e
di interazione. La nostra analisi partirà da considerazioni riguardanti i linguaggi del teatro in genere,
per analizzare poi più da vicino il particolare linguaggio del teatro di figura e specificamente del
teatro dei burattini. Questo non tanto perché crediamo che il teatro dei burattini condivida in toto le
caratteristiche del teatro maggiore o che esso rappresenti solo una forma di teatro “minore” rispetto
a quello di attori, quanto perché i due generi hanno in comune il dialogo scenico, che, a nostro
parere, è in entrambi i casi un modello di interazione utilizzabile per l'insegnamento/apprendimento
dell'italiano L2.
Parleremo di “linguaggi” perché intendiamo riferirci alla comunicazione nel suo complesso,
presente nello spettacolo teatrale, che include sia il linguaggio verbale che i linguaggi non verbali.
Per comprendere i linguaggi del teatro è necessario innanzitutto analizzare quale tipo di
comunicazione avviene nel corso dello spettacolo teatrale: chi parla e a chi? Da un lato
individuiamo un circuito semiotico che lega l'autore, attraverso il testo drammatico e lo spettacolo
teatrale al pubblico. In questo senso lo spettacolo teatrale è un macro atto semiotico che coinvolge
tre elementi: l'autore, il gruppo teatrale (scenografi, attori, registi, costumisti, tecnici ecc.) e il
pubblico. Poiché lo spettacolo teatrale è un atto comunicativo in presenza, questa dimensione del
teatro riflette tutte le caratteristiche dell'oralità. Dall'altro analizziamo il dialogo tra gli attori per
come avviene nella scena. In questo secondo circuito comunicativo, che si realizza all'interno della
“finzione scenica”, il dialogo teatrale ripropone, in modo stilizzato, le caratteristiche della
conversazione naturale. Tale dialogo nel passare dal parlato-scritto del testo drammatico al parlato-
recitato scenico, recupera la dimensione non verbale della comunicazione, presente in ogni
interazione faccia a faccia, offrendo un modello della comunicazione reale. Con l'espressione
“modello” intendiamo qualcosa che non è identico all'originale (come il dialogo teatrale non è
identico alla conversazione spontanea) ma che ne riassume le caratteristiche in modo
esemplificativo.
Dal momento che intendiamo servirci del teatro e dei suoi dialoghi recitati per fornire un modello di
lingua parlata utilizzabile dagli apprendenti dell'italiano L2, dovremo anche cercare di collocare il
linguaggio teatrale entro una tipologia testuale. Si tratta di una lingua letteraria scritta o di una
lingua parlata? Dal momento che lo spettacolo teatrale è legato alla lingua scritta e letteraria tramite
il testo drammatico e alla lingua orale tramite la comunicazione col pubblico cui lo spettacolo è
rivolto, il linguaggio teatrale oscilla tra questi due poli, variando a seconda dei tempi, dei pubblici e
delle poetiche che ne animano il testo. Tuttavia, in questa oscillazione, riflette la problematica
evoluzione storica dell'italiano, per cui diviene luogo privilegiato per l'osservazione della variazione
sia diacronica che sincronica della lingua.
All'interno di questo dialogo è possibile inoltre recuperare la dimensione pragmatica della lingua,
per cui l'oggetto dell'insegnamento/apprendimento si amplia arrivando a includere le regole
sociolinguistiche e la dimensione culturale che sono coinvolte nell'uso del linguaggio. La lingua,
“agìta” sulla scena, diviene evento comunicativo recuperando i tratti non verbali della
comunicazione, la complessità emotiva, la capacità creativa, la dimensione affettiva. I doppi sensi,
la comicità, l'ironia, presenti nel teatro di attori, e ancora di più nel teatro di figura, rappresentano la
strada maestra per evidenziare sia i meccanismi creativi che le norme sociali che regolano dell'uso
della lingua.
Il teatro di figura, che prendiamo in considerazione nell'ultimo capitolo, è visto come
particolarmente adatto ed adattabile al contesto didattico perché, attraverso una potente stilizzazione
dei mezzi espressivi, mostra l'ossatura della comunicazione in modo ancor più evidente del teatro
maggiore. Inoltre questo genere teatrale, invece che affidarsi a un testo drammatico, si basa, come
le fiabe, su una tradizione codificata e trasmessa oralmente, mettendo in scena conflitti, caratteri,
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temi legati ai bisogni primari dell'umanità, attraverso schemi narrativi e rappresentativi
universalmente diffusi. Sarà dunque facile per gli apprendenti, da qualsiasi luogo provengano,
riallacciarsi a una tradizione analoga presente nella cultura di origine e appropriarsi in modo
creativo di un linguaggio, tanto elementare quanto universale, libero dai vincoli di una tradizione
letteraria.
L'analisi dei linguaggi del teatro, che occupa questa prima sezione, pur partendo da una prospettiva
linguistica e semiotica, terrà sempre presente lo scopo didattico al quale facciamo riferimento nel
parlare di teatro. Per questo motivo ci imbatteremo di quando in quando in riflessioni che
sconfinano nel campo della didattica della lingua, nostro obiettivo principale. La dimensione
pragmatica del linguaggio ci farà quindi da ponte verso un approccio didattico orientato all'azione.
L'attività teatrale, per propria natura, racchiude in sé varie e complesse dimensioni, coinvolgendo di
volta in volta il lettore, lo scrittore, lo spettatore, l'attore, lo scenografo, il regista, il costumista, il
tecnico ecc.
A questa complessità di ruoli rimanda anche la complessità semiotica del teatro, che, come la
comunicazione nella vita reale, utilizza una pluralità di codici. Dato che ognuno di questi codici è
culturalmente caratterizzato, il genere teatrale è luogo privilegiato di incontro e confronto tra culture
diverse.
La definizione che De Marinis (1982:64) dà di spettacolo teatrale - evento irripetibile, irreversibile e
multidimensionale – lo differenzia da altri tipi di espressioni artistiche e avvicina il suo linguaggio a
quello della comunicazione quotidiana. La vita può essere letta attraverso la metafora teatrale e il
teatro, per essere persuasivo, deve mettere in atto quelle strategie comunicative proprie della vita.
Entro lo spettacolo teatrale vengono comunemente riconosciuti due macro testi: il testo drammatico
e il testo spettacolare (Elam 1980/1988; De Marinis 1982). Il testo drammatico è quello prodotto
“per” il teatro, mentre il testo spettacolare è quello prodotto “nel” teatro. Il testo drammatico è il
dramma, il copione, la fiction destinata alla rappresentazione scenica. Il testo spettacolare è la messa
in scena finalizzata alla performance, alla transazione tra attori e pubblico (Elam 1980/1988:10-11).
In relazione allo spettacolo teatrale vero e proprio il testo spettacolare viene anche considerato un
metatesto, un testo non scritto che raccoglie le opzioni per la messa in scena che appaiono nello
spettacolo (Pavis 1996/2004:16-17). Nella sua prima fase, la semiologia del teatro punta il proprio
interesse sull'elemento testuale, in particolare sul testo verbale scritto che costituisce il testo
drammatico (Ubersfeld 1977/1984). In seguito, si è posto l'accento sul testo spettacolare nel quale si
concretizzerebbe propriamente la specificità del genere teatrale e al quale il testo drammatico,
antecedente dal punto di vista temporale, sarebbe subordinato. Mentre il testo spettacolare infatti
include e talvolta sembra addirittura prescindere dalla presenza del testo drammatico, quest'ultimo
viene considerato un testo incompleto, che trova il suo compimento solo nel momento della sua
messa in scena (Elam 1980/1988:217; Trifone 2000:13). Ma, a sua volta, il testo spettacolare non è
da considerarsi come finito e conchiuso in se stesso. È De Marinis a sottolineare la necessità di
assumere lo spettacolo concreto come vero oggetto dell'analisi semiotica. Il testo spettacolare va
dunque visto “in rapporto alle condizioni di produzione e di ricezione” e inserito “dentro il processo
comunicativo, considerandolo come produzione (di senso) e come enunciazione più e oltre che
come prodotto ed enunciato” (De Marinis 1982:25).1 A seconda della fenomenologia storica delle
forme drammatiche, osserviamo il prevalere ora dell'uno ora dell'altro testo, ma, come nella lettura
del dramma più letterario non si può prescindere dall'idea della sua potenziale messa in scena, è
altrettanto vero che anche generi teatrali basati sulla improvvisazione non possono prescindere dalla
presenza di un copione, di una traccia, di una tradizione con funzione di testo drammatico di
riferimento. Oggi si tende a stabilire un rapporto paritario tra i due testi. Per Pavis (1996/2004:246)
1 Per una ricostruzione storica della riflessione semiotica sul teatro fino agli anni Ottanta rimandiamo a Elam (1980/1988:13-38)
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lo spettacolo contiene il testo drammatico: “il testo è nella rappresentazione, e non al di sopra né
accanto”. Sarebbe dunque un grave errore limitare l'analisi del linguaggio teatrale alla sola analisi
del testo drammatico o del testo spettacolare.
Il testo drammatico si presenta, di solito, in forma scritta. Esso si propone in una duplice
prospettiva: in quanto la scrittura lo accomuna ai testi letterari, può essere oggetto di un'autonoma
fruizione da parte dei lettori; in quanto contiene le indicazioni per realizzare lo spettacolo, può
essere considerato come un copione, un manuale di istruzioni. Scrive Searle (1975/1978a:157-158)
a proposito del valore prescrittivo del testo drammatico:
(...) il testo del dramma consiste certo di alcune pseudo asserzioni, ma per la maggior parte consiste in una
serie di istruzioni serie date agli attori circa il modo in cui devono far finta di fare asserzioni ed eseguire altre
azioni. (...) Lo scrittore rappresenta sia le azioni reali sia le azioni finte (e i discorsi) degli attori, ma ciò che lo
scrittore fa scrivendo il suo testo è più scrivere una ricetta per finzioni che non impegnarsi direttamente in una
forma di finzione. (...) In tal senso l'autore di un dramma teatrale non fa mostra generalmente di fare asserzioni:
dà istruzioni su come attuare la pretesa che gli attori poi realizzeranno.
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includerle tutte. I diversi codici1 presenti sulla scena coinvolgono i sensi in modo
multidimensionale, ma coinvolgono anche diverse materie dell'espressione che possono appartenere
contemporaneamente a diverse sfere sensoriali: il teatro è cioè plurimaterico (De Marinis 1982:94).
Ciò fa dello spettacolo teatrale un mezzo espressivo di straordinaria potenza e complessità, e
permette anche una più facile decodifica da parte dello spettatore. Il sommarsi di diversi codici
rende infatti il linguaggio teatrale particolarmente ridondante e quindi “leggibile”. Inoltre, le
convenzioni teatrali utilizzano e convertono i codici extraspettacolari, cioè quei codici che non
fanno parte esclusivamente del testo spettacolare, in codici spettacolari2 che, in particolari generi
teatrali come il teatro di figura, possono avere convenzioni molto rigide, ovvero essere
“ipercodificati” rendendo l'accesso a tali generi particolarmente agevole (De Marinis 1982:127). Si
può capire un'opera teatrale anche senza conoscere la lingua, o senza comprendere le allusioni
nazionali o locali, o senza afferrare un certo codice culturale complesso o desueto. “(...) gli
spettatori parigini che hanno visto (e adorato) le rappresentazioni del Campiello di Goldoni, messo
in scena da Giorgio Strehler, non capivano il dialetto veneziano; molti di essi non erano nemmeno
in grado di leggere i riferimenti alla pittura veneziana, a Guardi in particolare; restavano tutti gli
altri codici, che permettevano una ricezione sufficiente dei segni” (Ubersfeld 1977/1984:31).
Emerge evidente la funzione facilitante dello spettacolo teatrale a tutti i livelli di apprendimento
come strumento di trasmissione di sapere linguistico, dai primi stadi dove viene favorita la
comprensione globale della nuova lingua, fino agli stadi più avanzati quando sarà possibile
intraprendere un'analisi dei vari linguaggi del testo spettacolare.
I codici extraspettacolari possono trovarsi in altre combinazioni in testi diversi da quello teatrale (ad
esempio nelle formule, nella gestualità ecc.) creando un ponte tra i testi del teatro e il “testo
generale”, che De Marinis (1982:97) definisce “il sistema culturale complessivo inteso come
l'insieme di tutti i testi sincronici”. Sincronico, a sua volta, è tutto ciò cui una data cultura riconosce
lo statuto di testo, anche testi di epoca anteriore o provenienti da altre culture, ovvero ciò che
semiotici come Lotman e Ivanov chiamano “plurilinguismo culturale”, in pratica la memoria
collettiva di una comunità (De Marinis 1982:154). Ciò mette in luce l'immenso potenziale del teatro
come luogo di trasmissione e contatto tra culture. Dal momento poi che “fare teatro” affianca
l'azione alla comprensione, permette di fare affiorare alla coscienza affinità e differenze all'interno
dei diversi codici, rendendo questa attività chiave privilegiata di accesso per il confronto
interculturale.
Dal testo spettacolare, come abbiamo visto, va ancora distinto il concreto spettacolo teatrale.
Secondo la definizione di De Marinis (1982:64) “gli spettacoli teatrali sono quei fenomeni
spettacolari che vengono comunicati a un destinatario collettivo, il pubblico (che è presente
fisicamente alla ricezione), nel momento stesso della loro produzione (emissione)”. Mentre il testo
spettacolare è un oggetto teorico o del pensiero, un modello teorico semiotico-testuale, lo spettacolo
teatrale è un oggetto materiale, un insieme non ordinato ma coerente e compiuto di unità testuali di
varie dimensioni, che rinviano a codici diversi eterogenei tra loro.3 Tali codici, formati da “segni
parziali”, assumono il proprio significato specifico solo in seguito all'integrazione e composizione
in “segni globali”, che rimandano alla complessità della comunicazione multilineare (Ruffini
1978:54).4 Lo spettacolo teatrale è, come l'interazione reale, innanzitutto una semiosi complessa.
1 Kowzan (1968) individua addirittura 13 “sistemi di segni” nel teatro: 1. la parola nella sua forma normalizzata 2. il tono (entro il
quale sono compresi: intonazione, ritmo, rapidità, intensità, accento) 3. la mimica facciale 4. il gesto 5. il movimento scenico
dell'attore 6. il trucco 7. la pettinatura o parrucca 8. il costume 9. l'accessorio 10. la scena 11. l'illuminazione 12. la musica 13. i
rumori .
2 De Marinis (1982:114) così definisce i codici spettacolari “quella convenzione che, nello spettacolo, permette di associare
determinati contenuti a determinati elementi di uno o più sistemi espressivi”. Spesso i codici spettacolari sono regole di
autosignificazione e non rimandano ad altro da sé.
3 Anche Pavis (1996/2004:17) distingue tra messa in scena (metatesto, sistema astratto e sintetico di principi di organizzazione) e
spettacolo/rappresentazione (oggetto concreto, empirico dell'analisi). La differenza ricalca quella della linguistica testuale tra
testo (costrutto teorico) e discorso (occorrenza concreta).
4 Riallacciandosi alle tesi già sostenute negli anni Sessanta da Roland Barthes, il quale indica nella “polifonia informazionale” e
nello “spessore dei segni” il tratto distintivo del teatro e la sua vera sfida alla sistematicità analitica della semiotica, Pavis cerca di
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Tale complessità è aumentata dal fatto che si svolge entro il quadro di una “finzione” riconosciuta
da un patto non esplicito tra tutti i protagonisti dell'evento teatrale, patto che stabilisce che ciò che
avviene sulla scena non avviene nella “realtà”. L'attore sul palcoscenico non è se stesso, ma qualcun
altro; l'azione che vi avviene non avviene realmente, anche se nel teatro di avanguardia, negli
happenings e nelle performance teatrali questo confine appare più sfumato.1 Ciò fa sì che i
messaggi espliciti che gli attori si scambiano sul palcoscenico non siano altro che messaggi impliciti
dell'autore al pubblico. Trifone, riallacciandosi a Segre (1984:5 e 17), parla di “doppio circuito
comunicativo” del discorso teatrale (fig. 2.1), una “variante estrema di quei tipi di discorso, come il
discorso comico o il discorso allusivo in genere, che si fondano (...) sull'implicito e richiedono
pertanto la mutua cooperazione dei partecipanti, pena il fallimento pragmatico della
comunicazione” (Trifone 2000:11). Il primo circuito comunicativo è rappresentato dalla
comunicazione tra gli attori/personaggi sul palcoscenico (nel riquadro in fig. 2.1). Ma l'azione che
avviene sulla scena è parte di un altro messaggio, quello che l'autore, attraverso i personaggi fa
giungere al pubblico (rappresentato dalla linea tratteggiata in fig. 2.1):
autore
personaggio personaggio
pubblico
Figura 2.1: Schema del doppio circuito comunicativo (riadattato daTrifone 2000:11).
L'azione teatrale si snoda dunque attraverso la tensione che si instaura tra il piano del contesto
attuale – gli attori che recitano, lo spazio teatrale, il pubblico – e il piano cui questa attualità
rimanda: la vicenda che l'autore ha inteso rappresentare con lo spettacolo teatrale. Ma il significato
dello spettacolo emerge solo nel momento in cui esso viene rappresentato di fronte al pubblico:
questa prospettiva ha il pregio di mettere in rilievo la funzione dello spettatore, artefice ultimo della
produzione dei significati.2
Il fatto che la rappresentazione teatrale, a differenza di altre forme letterarie, sia incorniciata in un
limite specifico di spazio fisico e di tempo presente e il fatto che gli spettatori siano costretti a
vedere e a interpretare ciò che viene rappresentato in quello spazio-tempo come integrato in una
unità strutturale con un'intenzione comunicativa coerente, conduce a focalizzare l'attenzione sullo
strumento per sé, in altre parole sul dialogo e l'interazione, producendo anche un'altra interessante
conseguenza. Per quanto opaco possa essere il referente, per quanto minime possano essere le
concessioni alle aspettative dell'auditorio, infatti, in ogni momento dello spettacolo gli spettatori
saranno indotti a interpretare ciò che viene rappresentato.3 In pratica, tutto quanto appare sulla scena
viene sottoposto dallo spettatore a un radicale processo di “semiotizzazione” (Elam 1980/1988:15-
16). In tal modo la scena trasforma radicalmente tutto ciò che contiene, corpi e oggetti,
conferendogli un potere significante diverso dalla sua normale funzione sociale e utilitaristica. La
superare un'analisi che vede il testo spettacolare come un macrotesto composto da testi spettacolari parziali orientandosi verso
una prospettiva più globale: per una comprensione dello spettacolo bisogna abbandonare l'idea di un teatro di segni per parlare di
un teatro di energie che includa anche la prospettiva dello spettatore (Pavis 1996/2004: 17, 35 sg.).
1 La differenza ora indicata è quella tra teatro di presentazione e di rappresentazione: il primo è autoriflessivo il secondo rinvia ad
altro da sé rimandando alla produzione di senso. In ogni forma teatrale sono presenti in diversi gradi sia forme di presentazione
che di rappresentazione.
2 Grotowski (1968/1970) e quanti mettono l'accento sul teatro come produzione più che come prodotto vedono l'azione teatrale
concludersi entro il gruppo teatrale: esistono dunque anche forme di teatro senza spettacolo, dove i ruoli di spettatore e attore
sono cumulati su un unico soggetto.
3 Il pubblico resisterebbe fortemente nell'accettare la totale anarchia e mancanza di significato del testo: se anche si trattasse di
gramlò o nonsenso, non mancherebbe di interpretare l'azione teatrale, magari nel senso che “tutta la comunicazione è fàtica”
(Burton 1980:112).
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semiotizzazione dell'oggetto ha il potere di trasformarlo in simbolo: il tavolo sulla scena non sta per
il “tavolo” del testo drammatico, ma per il significato intermedio “tavolo” ovvero la classe degli
oggetti di cui è membro. Ne consegue che l'oggetto reale può essere sostituito da un simbolo, basta
che questo sia capace di rappresentare la classe dell'oggetto (denotazione). Anche l'attore, il suo
corpo, il suo modo di parlare e di muoversi, sono segni, o così vengono interpretati dal pubblico.
Per questa loro caratteristica gli elementi scenici divengono veicoli di valori sociali, ideologici,
della comunità evocati dagli oggetti teatrali (connotazione). Sono segni dei segni, non degli oggetti
(Bogatyrëv 1971:520). L'anello prezioso al dito di un attore non è segno dell'anello, ma piuttosto il
segno della ricchezza del personaggio. Si tratta del livello connotativo della significazione che
opera per qualsiasi tipo di segno. Per il segno teatrale essa sarà determinante alla costruzione del
“senso finale”. Questa capacità è legata al potere che ha lo spettacolo di trasformare i segni 'naturali'
in segni 'artificiali' (Kowzan 1968:68).
Sull'altro versante della comunicazione teatrale, c'è quella piccola società rappresentata dal gruppo
teatrale. Come emerge dalla bella definizione posta da Wickham (1985/1988:23) all'inizio della sua
“Storia del teatro”:
Il teatro – e i teatri in cui si rappresenta – comprende attori e attrici, pittori e pitture, architetti e operai,
costumisti e macchinisti; si estende ad abbracciare anche compositori, musicisti, coreografi e ballerini,
acrobati e atleti, poeti e giornalisti e l'elemento forse più importante di tutti, il pubblico. In breve, è
un'esperienza di gruppo fondata sull'interazione.
È necessario riflettere su questa definizione, che mette in luce uno degli aspetti fondamentali del
fare teatro, ovvero quella dimensione collettiva e sociale che da sempre ha reso il teatro luogo
educativo per eccellenza (cfr. § 3.1.1). Mette inoltre in luce la dimensione esperienziale che
coinvolge sia l'attore che lo spettatore e quanti partecipano alla realizzazione dell'evento teatrale
nella creazione sociale del suo significato. A tale esperienza si rimanda nell'affidare al linguaggio
teatrale, e alla complessità della comunicazione da esso implicata (fig. 2.2), la trasmissione della
lingua e della cultura di una comunità.
Fin qui ci siamo concentrati soprattutto nell'analisi dello spettacolo, che coinvolge il circuito
comunicativo tra autori, attori e pubblico. Nel prossimo paragrafo passeremo ad analizzare la
seconda direzione in cui si sviluppa la comunicazione teatrale, ovvero l”imitazione” della
comunicazione ordinaria per come si realizza all'interno del dialogo tra gli attori.
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teatrale rimanda a ciò che Lomabardi (Lombardi-Terzuoli 2004:145) definisce “comunicazione
complessa”, ovvero quella comunicazione in cui sono presenti “l'espressivo, l'ingiuntivo, il poetico,
e con essi il non detto, il non verbale ecc.”. Wessels (1987:7), occupandosi dell'applicazione delle
tecniche teatrali all'apprendimento delle lingue seconde, identifica questa caratteristica con il
richiamo alla “realtà di fondo” della comunicazione quotidiana, quell'insieme di intenzionalità e
rimandi a conoscenze condivise che non coincide necessariamente con la “realtà apparente”, ovvero
con la mera superficie linguistica. La mancata corrispondenza biunivoca tra enunciati e atti
linguistici, che caratterizza la nostra comunicazione quotidiana, si è trovata al centro della
riflessione di Hymes (1972/1979) e lo ha portato da un lato ad ampliare l'idea di competenza
linguistica alle competenze pragmatiche e non verbali forgiando il concetto di “competenza
comunicativa” e dall'altro ad approfondire la riflessione sulle componenti del contesto.1
Se la comunicazione referenziale permette un semplice scambio di informazioni, facendo largo uso
di formule e espressioni standardizzate, nel dialogo teatrale troviamo invece l'emergere di
intenzioni, il definirsi di caratteri, lo svolgersi di relazioni spesso non consensuali. Potremmo
chiamare questa caratteristica “contestualizzazione”,2 definendola come la facoltà di calare la lingua
entro un contesto psicologico (rispetto agli scopi), sociale (rispetto alle persone), spazio-temporale
(rispetto al momento specifico dell'enunciazione) (Bazzanella 2005:101) a cui crediamo di dover
aggiungere il richiamo alle conoscenze condivise, ovvero il contesto culturale (fig. 2.3) (cfr.anche
Bianchi 2003:10)3.
Contesto Contesto
culturale sociale
Dialogo te atrale
Contesto
Contesto
spazio-
psicologico
temporale
Figura 2.3: I quattro elementi del contesto di riferimento del dialogo teatrale.
Il dialogo teatrale, che venga letto o che venga rappresentato, fa continuo appello alla dimensione
contestuale, attraverso la sua ricostruzione fantastica nelle didascalie, o simbolico/mimetica
nell'allestimento scenico. Il tempo dell'enunciazione del dialogo è tendenzialmente coincidente col
tempo dell'enunciato,4 né è possibile comprendere il dialogo teatrale se non si coglie la psicologia
dei personaggi, ricostruendo, in maniera immaginativa anche nella semplice lettura, quei tratti
soprasegmentali che sono parte integrante dell'oralità (accento, intonazione, ritmo, prosodia) e
quelle forme di comunicazione che coadiuvano la comunicazione orale pur senza farne
propriamente parte (mimica, gestualità, gestione dello spazio ecc.).
Come abbiamo visto, attraverso i codici extraspettacolari, il teatro rimanda anche al “testo
generale”, che viene a far parte del contesto culturale, richiamando l'attenzione del lettore/spettatore
su elementi presenti nella comunicazione tra nativi che potrebbero altrimenti passare inosservati.
1 Hymes (1980/1974) per fissare le componenti del contesto propone l'acrostico SPEAKING: S = situation ; P = partecipants; E =
ends; A = act sequences; K = key; I = instrumentalities; N = norms; G = genres.
2 Col termine “contestualizzazione” ci richiamiamo al concetto di Gumperz (1992), secondo il quale esso “comprende tutte le
attività dei partecipanti che rendono pertinenti, mantengono, modificano o cancellano (...) ogni aspetto del contesto responsabile
per l'interpretazione di un enunciato nella sua collocazione specifica” (in Bazzanella 2005:121 nota 2).
3 Per alcuni il contesto spazio temporale viene definito “situazione oggettiva di proferimento o contesto semantico”, gli altri tre tipi
di contesto formano invece il “contesto pragmatico” (Bianchi 2003:24); Bettoni (2006:85-89) opera invece una distinzione tra
“contesto oggettivo di proferimento” , che include sia il contesto spazio-temporale che quello sociale e “contesto soggettivo” o
“rete soggettiva di credenze” che include il contesto culturale e il contesto psicologico.
4 Lavinio (1990:83-84) sottolinea che nei testi scritti questa coincidenza non può essere che tendenziale e convenzionale,
“assumendo che il tempo dell'enunciazione, cioè quello impiegato per scrivere (e per leggere) le parole dei personaggi, sia uguale
a quello verosimilmente da loro impiegato per proferirle (cioè al tempo dell'enunciazione enunciata, riportata mediante il discorso
diretto)”.
18
Infatti se nella comunicazione spontanea alcuni tratti potrebbero apparire accidentali e involontari,
nel teatro ogni elemento viene coinvolto nel processo semiotico che attribuisce significato a tutti i
tratti, verbali e non verbali, coinvolti nell'azione scenica (cfr. §. 2.1.1 e il concetto di
“semiotizzazione”).
Mettendo in luce la profonda affinità tra dialogo teatrale e conversazione naturale, Deidre Burton
(1980) prende in considerazione il dialogo teatrale o letterario (drama dialogue/play dialogue,
fictional speech o spoken prose), distinguendolo dal “discorso” (spontaneus speech o natural
occurring speech), cioè il livello linguistico del parlato. Il suo punto di partenza è il tentativo di dar
ragione dell'impressione di naturalezza che il dialogo riesce ad evocare nel lettore/spettatore a
dispetto delle profonde differenze con la conversazione naturale. Tralasciando per ora le differenze
tra scritto e parlato, ovvero tra dialogo drammatico e dialogo recitato, di cui ci occuperemo nel
prossimo paragrafo, ci interessa seguire Burton nell'individuazione dei punti di contatto tra i due
generi operata con gli strumenti messi a punto dai conversazionalisti inglesi1. Burton concentra la
sua analisi sul dialogo teatrale e su quel genere di discorso che si realizza nella conversazione,
presente sia nell'interazione scenica che nell'interazione reale. Entrambe rispettano le stesse regole,
in primo luogo le prime e più fondamentali, individuate dall'analisi conversazionale: l'alternanza e
l'avvicendamento dei turni di parola.2 Grazie all'intento mimetico il dialogo teatrale mette in rilievo
ed evidenzia i caratteri tipici del parlato, rappresentando una risorsa estremamente ricca per l'analisi
conversazionale interessata a descrivere le strutture e i vincoli sociolinguistici che regolano la
conversazione naturale (Burton 1980:101). Burton (1980:14) rileva la presenza nei dialoghi teatrali
della comunicazione fàtica, che coinvolge dati noti a entrambi i partecipanti (“Bella giornata eh?”)
al solo scopo di rafforzare con la conversazione il legame sociale, in modo strutturalmente coerente
con le regole della conversazione naturale.3 La presenza della comunicazione fàtica si rileva in
particolare nella fase di apertura e chiusura dello scambio interazionale, e coinvolge anche modelli
cinesici e prossemici, di valutazione delle pause e del silenzio. Va sottolineata la specificità
culturale di questi tratti che possono rimandare a significati profondamente diversi nei diversi
gruppi sociali.
Sempre Burton (1980:15-16) evidenzia la presenza nel teatro della ripetizione (repeat) come
elemento funzionale, usato per produrre più conversazione sul referente di quel determinato
elemento (“Ho comprato una macchina nuova!” - “Una macchina nuova?”); dalla ripetizione sul
discorso dell'altro è spesso possibile arguire la maggiore o minore competenza di due parlanti.
Anche la replicazione (replication) è frequente nel dialogo teatrale e rappresenta un importante
elemento di coesione (“Ho visitato Firenze” – “Ah! Firenze è una città straordinaria”).
Altri elementi propri della conversazione naturale e presenti nel dialogo teatrale sono il rispetto o la
rottura motivata del principio di cooperazione di Grice4, la presenza di implicature, della metafora e
delle altre forme di linguaggio figurato che realizzano la componente retorica della lingua.
Il dialogo teatrale non riflette solo le regole della conversazione naturale, ma rivela anche profonde
affinità con le strutture formali proprie dell'oralità tanto che Nencioni (1983:176) vi individua un
1 Burton (1980:118) si richiama all'analisi del discorso di orientamento linguistico della Birmingham English Launguage Research
in particolare all'analisi del discorso scolastico di Sinclair e Coulthard (1975).
2 “ (...) 1) il cambiamento dei parlanti si ripete più volte, o comunque avviene almeno una volta 2) in genere, si parla uno alla
volta” (Sacks, Schegloff, Jefferson 1974/2000: 100).
3 Il fenomeno della comunicazione fàtica è stato analizzato in modo approfondito da Labov (1970/2000:225) quando si occupa
della conoscenza condivisa (shared knowledge). Egli classifica tutti gli eventi riportati in una conversazione a due come eventi A
(conosciuti dal parlante A) ed eventi B (conosciuti dal parlante B) e eventi AB (conosciuti da entrambi). Da ciò deriva una
semplice e invariabile regola dell'interpretazione del discorso: “Se A formula un asserzione relativa a un evento B, essa è intesa
come richiesta di conferma”.
4 Lo stesso Grice (1975/1978) evidenzia i modi in cui le massime possono fallire: si possono violare semplicemente le massime; si
può decidere di uscire dal principio cooperativo; ci può essere uno scontro tra due massime che può essere risolto solo
violandone una; si può non tenerne conto deliberatamente. Quest'ultima possibilità è un potente sfruttamento del sistema. Gli
esempi di Grice riguardano le implicature conversazionali e si possono dividere in tre gruppi: 1. nessuna massima è respinta 2.
una massima è respinta ma ciò è interpretabile come la scelta dovuta alla soluzione di un conflitto tra massime 3. le massime
sono ostentatamente respinte, e generano items linguistici tradizionalmente definiti come “figure retoriche”.
19
oggetto privilegiato nello studio della grammatica del parlato (almeno laddove esso prende il
parlato reale come modello). Tale grammatica possiede un'organizzazione e una complessità
proprie, un complessità comunque diversa rispetto alla lingua scritta (Halliday 1985/1992:158). Nel
dialogo teatrale è così possibile rinvenire tutti i tratti distintivi del parlato, sia quelli legati all'uso del
mezzo fonico-acustico, ovvero i tratti fonologici soprasegmentali, sia quelli dovuti al minor grado
di pianificazione, alle esigenze di organizzazione pragmatica del testo o al già menzionato legame
col contesto (Berruto 1993:37-56). Troviamo quindi la presenza di una testualità maggiormente
frammentata, di segnali discorsivi, di pause, esitazioni, impliciti e fenomeni di riformulazione e
autocorrezione (sempre facenti riferimento alla complicità degli spettatori che ne conoscono
contenuti e motivazioni nascoste); troviamo una sintassi caratterizzata dalla paratassi e da un
diverso ordine teso a marcare la struttura informativa della frase con il ricorso a frasi segmentate di
vario genere (frasi scisse, dislocazioni); troviamo differenze significative nella morfologia,
soprattutto verbale e pronominale, forme di ripetizione e iterazione, forte presenza di superlativi,
diminutivi e attenuativi, di interiezioni. Vi rinveniamo anche una minore “densità lessicale”: se
infatti contiamo le voci lessicali e gli elementi grammaticali, troviamo che gli elementi
grammaticali sono più numerosi nel teso orale, mentre le voci lessicali “piene” son più numerose in
quello scritto che risulta per questo quindi più “denso” del testo orale (Halliday 1985/1992:150;
Berruto 1993:54).1
Al di là della possibilità del teatro di “imitare” le caratteristiche della conversazione naturale, esiste
un altro potente meccanismo, presente in particolare nel teatro moderno, e – aggiungiamo noi – nel
teatro comico e nel teatro di figura, che consente di evidenziare le regole sottostanti all'uso della
lingua. Tale meccanismo, che Burton (1980:101-117) definisce “metodologia dell'alienazione”
(alienation methodology) o, con termine mutuato dallo strutturalismo praghese “Vordergrunding”,
si basa su un principio euristico universalmente applicato nella scienza, in particolare nelle scienze
del linguaggio, secondo il quale la violazione delle regole implicite in un processo ne mette in
evidenza il funzionamento. Burton fa un interessante elenco di situazioni disturbate, tratte da opere
teatrali, con precisi riferimenti a situazioni comunicative come l'interazione in classe, il colloquio
medico paziente, il discorso al comitato, il dibattito nei media, la telefonata ecc. Un interessante
utilizzo di questo meccanismo lo troviamo negli Exercises de conversation et de diction française,
che Ionesco (1990) scrive, su richiesta dell'amico linguista Michel Bénamon, come manuale di
lingua ad uso di giovani americani: si tratta di dialoghi di comunicazione quotidiana dove si mostra
il rovescio della comunicazione puramente referenziale lavorando sui giochi linguistici e sulla
rottura delle regole cooperative della conversazione.
Abbiamo citato l'opera di Ionesco per il suo consapevole intento didattico, ma potremmo portare
numerosi esempi del teatro italiano, dalla commedia dell'Arte, a Goldoni, a Pirandello e De Filippo,
fino ad Achille Campanile e tutto il filone comico che attraverso il teatro raggiunge il cinema
(Roberto Benigni, Massimo Troisi, il grande Antonio De Curtis, alias Totò). Senza naturalmente
dimenticare il teatro di figura, in particolare il teatro di burattini, al quale il registro comico è
essenzialmente connaturato (§ 2.1.3).
Le strategie del comico, come vedremo (§ 2.1.2.3), pervadono anche la nostra comunicazione
quotidiana (Paradisi 1987; Banfi 1995: 43-46), pertanto la “metodologia dell'alienazione” e il
comico presenti nel teatro possono essere fruttuosamente utilizzati nell'insegnamento/apprendi-
mento di una lingua straniera.
Ma il dialogo teatrale, come abbiamo detto, non riproduce fedelmente la conversazione naturale,
che per la sua complessità sarebbe inutilizzabile come modello. Esso infatti rappresenta una sorta di
versione semplificata della conversazione naturale, epurata da molti dei tratti tipici del parlato,
come i salti tematici, la mancanza di pianificazione, le false partenze, dovuti all'estemporaneità
1 Coveri-Benucci-Diadori (1998:251) elencano a loro volta 18 tratti distintivi del parlato: enunciati incompiuti; false partenze;
bassa coesione testuale; pause; esitazioni; lessico generico; ripetizioni; autocorrezioni; segnali discorsivi; anacoluti; dislocazioni
e topicalizzazioni; parafrasi; particelle modali; riprese lessicali; ridondanza; stretto rapporto tra intonazione e sintassi; deitticità
verbale e gestuale; sovrapposizione di discorso da parte di emittente e destinatario.
20
dell'interazione reale. La lingua del dialogo teatrale si trova insomma a metà strada tra lingua scritta
e lingua parlata e offre un formidabile ponte tra le due forme testuali.
scritto scritto ----- parlato scritto (dialogo drammatico) ----- parlato recitato (dialogo recitato) ----- parlato parlato
Figura 2.4: Collocazione del dialogo drammatico e del dialogo recitato nel continuum tra scritto e parlato.
La presenza del dialogo nella scrittura, e più ancora di una scrittura fatta di dialoghi, costituisce un
fenomeno non del tutto scontato. La scrittura non nasce come sistema per “fissare” il parlato, e,
come afferma Halliday (1985/1992:80), “non era, e non è stata conversazione trascritta”. Infatti
scritto e parlato hanno valenze funzionali e caratteristiche semiologiche profondamente diverse
tanto che si può affermare che “il parlato e la scrittura impongono diverse griglie all'esperienza”
(Halliday 1985/1992:167). La scrittura infatti presenta una visione sinottica e statica contro quella
dinamica del parlato. È l'oralità ad essere legata alla forma paradigmatica del dialogo; la scrittura si
raccoglie intorno al monologo, e accoglie solitamente il dialogo solo all'interno del genere
narrativo. Anche per Bazzanella (1994:11-12) il contesto dialogico si identifica con la varietà del
parlato. Sappiamo che nel momento in cui la scrittura si accinge a imitare il dialogo reale, lo priva
di una serie di mezzi espressivi che ne sono parte integrante. Ma molti di questi mezzi vengono in
qualche misura reintegrati nel momento in cui dal dialogo scritto si passa al dialogo recitato sulla
scena. Dalla linearità determinata dall'uso del mezzo fonico-acustico derivano infatti alcune
caratteristiche (Bazzanella 1994:15-18), molte delle quali le abbiamo già incontrate nell'analisi
dello spettacolo teatrale in rapporto al testo drammatico: la non permanenza del parlato, che si
affida unicamente alla memoria determinando caratteristiche stilistiche dovute ai limiti della
1 Gli studi sulla grammatica del parlato (Sornicola 1981) rilevano la sua sostanziale omogeneità con la grammatica dello scritto.
Differenze si rilevano invece al livello della testualità.
2 Ruffini (1978:26) propone di chiamare “testo drammatico” solo i dialoghi teatrali e “copione” il testo letterario nella sua
integralità, che include oltra ai dialighi teatrali anche il “metatesto”, cioè le didascalie.
21
memoria stessa, come la ridondanza e le restrizioni all'uso della ricorsività; l'impossibilità di
cancellazione e di riproduzione, corrispettivo della unicità e non ripetibilità dello spettacolo teatrale
individuata da De Marinis (1982); il recupero, infine, dei tratti prosodici e paralinguistici che
contribuiscono all'interpretazione del significato e incidono sulla forza illocutoria degli atti
linguistici (cfr. §. 2.1.2.4).
Altri tratti del parlato che rimangono presenti nel dialogo recitato sono dovuti alla “contiguità”,
ovvero alla compresenza tra parlante e interlocutore tipica della interazione faccia a faccia. La
contiguità determina, da un lato, l'attuarsi della funzione fàtica, che nel parlato teatrale può
svilupparsi su entrambi i circuiti comunicativi, sia come appello diretto agli spettatori, che
all'interno dell'azione scenica; dall'altro permette il riferimento alle conoscenze condivise tra i
presenti, ovvero all'enciclopedia.
Ancora permane nello spettacolo teatrale la compresenza di emittente e ricevente, da cui deriva la
possibilità di feedback, come quella di essere interrotti in qualsiasi momento. Le convenzioni
teatrali non prevedono di solito la possibilità per lo spettatore di intervenire nell'azione teatrale,
tuttavia la presenza del pubblico è parte essenziale dello spettacolo, e il pubblico vi partecipa
manifestando in vario modo il proprio gradimento, o la propria disapprovazione fino al caso
estremo dell'interruzione dello spettacolo, non del tutto assente nella storia del teatro. Il teatro
contemporaneo, inoltre, cerca di coinvolgere anche fisicamente lo spettatore1 e nel teatro di figura,
come vedremo in seguito, la partecipazione del pubblico è non solo prevista, ma gli spettatori hanno
persino il potere di variare lo svolgersi della rappresentazione.
Infine Bazzanella cita, come macro-caratteristica del parlato, il contesto comune di enunciazione,
che da un lato determina il ricorso a mezzi non linguistici di comunicazione (i gesti, la posizione del
corpo, la mimica facciale, l'uso di oggetti), dall'altro consente l'uso di deittici che rimandano al
contesto extralinguistico di enunciazione.2 Trifone (2000:13) considera il genere teatrale un genere
“aperto” che presenta più dimensioni e investe più codici e attribuisce la pervasiva presenza dei
deittici nel linguaggio teatrale al fatto che il testo drammatico è un testo “incompleto”, “nel senso
che esaurisce tutto il suo ciclo comunicativo solo nel momento in cui passa dalla pagina alla scena”,
aggiungendo che la deissi teatrale implica il “gesto o comunque il richiamo diretto alla situazione”
(cfr. Elam 1980/1988:146).
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente nel dialogo recitato riappaiono puntualmente i tratti
del parlato che ne definiscono la differenza con la lingua scritta. Tali tratti si rivelano però
fortemente stilizzati se si considera la mobilità testuale tipica degli scambi linguistici reali. Essi non
derivano infatti dalla pianificazione in tempo reale del parlato e dalla continua rinegoziazione del
topos della conversazione tra i partecipanti al dialogo, ma da una simulazione, attentamente
pianificata, di questo tipo di interazione. In definitiva ciò che resta assente dal dialogo recitato in
teatro è la spontaneità o mancanza di pianificazione, che invece avvicina il parlato-recitato alle
varietà dello scritto. Pur imitando l'andamento tipico del parlato “spontaneo”, di battute dialogiche e
dei monologhi presenti nel parlato reale, la scrittura drammatica, e con essa la recitazione, è infatti
“agli antipodi, per mancanza totale di spontaneità, rispetto al parlato conversazionale che vuole
rappresentare” (Lavinio 1990:19; cfr. Nencioni 1983:178).
Da quanto detto emerge che il testo drammatico non si pone né dentro né fuori i generi letterari in
senso stretto. Questa ambiguità rappresenta il punto di forza del genere teatrale che Trifone
(2000:9) definisce “uno dei più poderosi ponti gettati tra i mondi della cultura scritta e della cultura
orale”, nella descrizione del quale “sarà quindi euristicamente opportuno richiamarsi sia agli
specifici elementi distintivi della scrittura drammaturgica (fenomeni del parlato, regole e tattiche
conversazionali, rapporti con la scena e con il pubblico) sia ai suoi ineludibili legami con la scrittura
letteraria” (Trifone 2000:14). Pertanto Lavinio (1990:78) propone di introdurre, nella classica
1 Un esempio ne sono gli straordinari spettacoli di clownery dell'artista russo Slava Polunin, come lo Slava's Snowshow presentato
per la prima volta a Londra nel 1993 e arrivato in Italia nel 2007.
2 L'uso dei deittici include anche l'“utilizzazione gestuale della deissi” identificata da Levinson (1983/1985:95-99). Anche lo
scritto può far riferimento al contesto extralinguistico pertinente, ma non a quello di enunciazione.
22
tipologia testuale di Werlich, un nuovo tipo, il tipo “rappresentativo”, che includerà il discorso
riportato come discorso diretto, i verbali dettagliati, i vari generi teatrali come la farsa, la
commedia, la tragedia e il dramma; ma anche i dialoghi presenti nei testi narrativi di carattere
letterario.1
Le caratteristiche del testo teatrale ne fanno, a nostro parere, uno strumento prezioso per la didattica
delle L2: è possibile infatti pensare ad un continuum di pianificazione all'interno della recitazione,
che vada dall'interpretazione letterale del testo drammatico memorizzato in modo puntuale
dall'attore, all'improvvisazione semi-pianificata che si serve di canovacci e forme prestabilite, come
nel teatro di figura, fino all'improvvisazione teatrale, più o meno spontanea, di cui l'esempio più
estremo è lo psicodramma di Moreno (1947/1976). Inoltre non è neanche corretto pensare al
parlato, anche al parlato teatrale, esclusivamente come conversazionale; non vanno dimenticate
altre forme di parlato, che possono avvicinarlo alle varietà dello scritto, come il parlato monologico,
descrittivo, espositivo, narrativo, argomentativo o regolativo: tutte forme che trovano ampio spazio
nel laboratorio teatrale e nelle attività coinvolte dall'allestimento scenico. Affrontare i testi teatrali
rappresenta dunque un'occasione preziosa per l'insegnante di italiano a stranieri, da un lato, per
introdurre gli apprendenti alla conoscenza della letteratura e dei tipi testuali, dall'altro, per portarli a
gestire l'oralità e il dialogo attraverso l'esercizio di forme controllate di parlato.
La presenza, sul suolo della nostra penisola, di una moltitudine di dialetti non sempre mutuamente
intellegibili, equidistanti dalla lingua di origine, il latino, quanto altre parlate romanze che, per
ragioni politico-geografiche, vengono definite “lingue”, ha creato sia l'esigenza di trovare un
modello di riferimento, individuato in una koinè di origine colta e letteraria, sia una distanza
profonda fra tale modello e le lingue realmente parlate nelle varie regioni del Paese. Tale distanza,
massima al momento dell'unificazione, quando il repertorio linguistico degli italiani era quasi
esclusivamente limitato al monolinguismo dialettale, è andata gradualmente diminuendo dopo la
metà del XX secolo (De Mauro 1963). Nonostante la tendenza verso una sempre maggiore
diffusione dell'italiano, i dialetti sono ancora considerevolmente vitali e restano presenti soprattutto
in alcune regioni italiane (ad es. in Veneto, in Campania o in Sicilia). In una indagine nel Salento
condotta da Sobrero (1992), la diglossia italiano/dialetto viene percepita in modo assolutamente non
marcato e i due codici vengono considerati ampiamente intercambiabili anche nello stesso
enunciato.2 Pertanto Sobrero (1993b:446-447) ritiene che i due codici non siano alternativi, bensì
utilizzati “come strumenti preziosi per ampliare il quadro delle opportunità stilistiche e funzionali”.
Crediamo che la lingua del teatro possa rappresentare un utile strumento per una didattica della
variazione. L'italiano standard letterario non si è mai infatti rivelato del tutto adatto alla
comunicazione teatrale, troppo lontano com'è dalla lingua del pubblico al quale si rivolge. Nella
1 Nella tipologia dei testi utilizzabili per la didattica citati nel QCE (2002:117) i testi teatrali vengono annoverati, insieme a
spettacoli, letture pubbliche, canzoni ecc., tra i “testi per l'intrattenimento” che rientrano nell'ambito dei “testi orali”. Tra i “testi
scritti” troviamo “libri di carattere informativo o di fiction”, oltre a “manuali di istruzioni”, senza nessun riferimento specifico al
testo teatrale.
2 Berruto (1993:5-6) propone per la realtà italiana il termine “dilalia” dal momento che nel parlato quotidiano si alternano sia la
varietà bassa (dialetto) che quella alta (italiano).
23
storia del teatro si riflette la lenta presa di coscienza dell'autonomia della lingua teatrale, che
Machiavelli esplicita nel Discorso intorno alla nostra lingua: “perché le cose sono trattate
ridiculamente, conviene usare termini e motti che faccino questi effetti; i quali termini, se non sono
proprii et patrii, dove sieno soli intesi et noti, non muovono, né possono muovere.” Posto che
l'obiettivo della commedia sia “muovere”, coinvolgere il pubblico, essa “richiede una comunione e
una complicità di linguaggio che per altri generi letterari non è ugualmente necessaria, e che può
realizzarsi esclusivamente nella dimensione sociale del parlato” (Trifone 2000:35; cfr. Nencioni
1983:172).
Individueremo dunque le caratteristiche della lingua teatrale rispetto ai diversi fattori di variazione:
Variazione diacronica: in quanto genere letterario e mimesi del parlato reale, il dialogo
teatrale è influenzato sia dalle considerazioni emergenti dal dibattito teorico sulla lingua che dalle
trasformazioni storiche della lingua in uso. La lingua del teatro costituisce perciò uno specchio
fedele per lo storico della lingua e anche per chi volesse rinvenirvi le tracce delle trasformazioni in
atto. Ciò vale a maggior ragione per la lingua della Commedia dell'Arte, confluita in seguito nel
teatro di figura, in quanto priva dei vincoli dovuti alla presenza di un testo scritto di riferimento (cfr.
§ 2.1.3.4).
Variazione diatopica, diastratica e diafasica: più di altri generi letterari, il teatro si trova a
confrontarsi col problema della frammentazione della lingua. Trifone parla, fino al Novecento, di
“invenzione” dell'italiano parlato, e ben si possono comprendere le ragioni di questa scelta dal
momento che commediografi e drammaturghi erano costretti a decidere se restare confinati nei
limiti angusti delle aree dialettali, oppure se “inventarsi” una lingua più simile a quella parlata –
ricalcata su quella letteraria ma da essa distinta per alcuni tratti caratteristici - che pur non essendo
in uso in alcuna regione, fosse in qualche modo comprensibile a tutti. 1 È qui che Trifone (2000:50)
individua:
il paradosso della lingua teatrale italiana, e non solo di quella teatrale: da una parte la realtà viva e
corposa di dialetti incomprensibili per la maggioranza degli spettatori; dall’altra la realtà larvale e
anguillesca di un “parlar commune” con inflessioni regionali, assai difficile da tradurre in definito ed
efficiente organismo drammaturgico.
L'altra opzione, non incompatibile con la ricerca di una lingua “verosimile” fondata sul presupposto
della intelligibilità comune, è quella del “plurilinguismo”, rinvenibile anche nella narrativa, con
funzione espressiva, liberatoria e buffonesca, che si ripresenta a più riprese, in una linea ininterrotta
che parte dal tardo Medioevo per giungere fino alla commedia di Dario Fo. Il plurilinguismo
“verticale” si muove sull'asse diastratico, attribuendo a ogni personaggio un idioma caratteristico
che permette di fissare immediatamente la sua identità sociale: avremo così l'opposizione tra il
linguaggio dei servi (il dialetto) e quello dei signori (varietà standard), o ancora quello di eruditi o
dottori (formale-aulico).
Il plurilinguismo “orizzontale”, invece, si muove sulla dimensione diatopica e, in particolare con le
maschere della Commedia dell'Arte, fissa ogni personaggio a una identità locale attraverso l'uso di
un determinato dialetto: ad esempio il linguaggio del dottore mescola al suo vocabolario pedantesco
elementi del dialetto bolognese, gli Zanni utilizzano il dialetto rozzo e grossolano dei montanari
bergamaschi, Pantalone, mercante avaro e scaltro, non può parlare che in veneziano, come
Pulcinella, sintesi mirabile dei pregi e dei difetti della città partenopea, in napoletano. Le due
dimensioni si intrecciano tra di loro e investono anche la variazione diafasica, che la Commedia
dell'Arte irrigidisce nella forma della diglossia italiano/dialetto, ma che in autori come il Ruzante
1 Interessante è notare come, parallelamente, anche i “maestri” di lingua italiana e gli autori di manuali per stranieri si muovessero
nella stessa direzione, contribuendo da parte loro alla costruzione di una lingua “panitaliana” con la funzione di assolvere alle
necessità comunicative quotidiane di quegli stranieri che, per motivi diversi, si trovavano a viaggiare o a risiedere nel nostro
Paese (Vedovelli 2002b:47 sgg.). In entrambi i casi il parlato ricreato non coincideva necessariamente con la norma fissata dai
grammatici e ricalcata sulla lingua letteraria scritta, ma cercava di stabilire una norma d'uso non ancora ben definita.
24
mantiene una maggiore sensibilità alla reale articolazione dei piani linguistici (Trifone 2000:59).1
Variazione diamesica: L'opposizione scritto/parlato influenza anche la testualità del nostro
teatro (Trifone 2000:20):
finché permane una forte opposizione tra lo scritto e il parlato su tutti i piani della lingua, ai
commediografi bastano alcune scelte fonetiche, morfosintattiche o lessicali (...) per caratterizzare in senso
del parlato le loro opere; quando invece lo scritto e il parlato tendono ad avvicinarsi, fin quasi a coincidere per
quanto riguarda appunto la fonetica, la morfosintassi e il lessico, si avverte in misura crescente la necessità di
operare interventi significativi sul piano dell'organizzazione testuale.
Mantenendosi nei limiti dell'intelligibilità, la lingua del teatro viene dunque a coprire un'ampia zona
del campo di variazione dell'italiano. Se facciamo riferimento al ben noto schema proposto da
Berruto (1987:21), vediamo che ne restano esclusi i sottocodici che si situano alle estremità
inferiore e superiore dell'asse diafasico, ovvero l'italiano informale trascurato o gergale e le
microlingue specialistiche.2 Come la variazione si distribuisce su un continuum sociolinguistico,
allo stesso modo possiamo distribuire i testi drammatici lungo una linea che oscilla tra una scelta
virante verso la lingua letteraria e una mimesi del parlato reale che tiene più o meno conto della
variazione. Ovviamente i testi utilizzabili allo scopo dell'insegnamento dell'italiano a stranieri
dovranno presentare un linguaggio con caratteristiche assimilabili alle varietà parlate nell'Italia
attuale, ma nulla vieta di avvicinarsi, seguendo interessi letterari o culturali, a testi anche lontani dal
parlato odierno, se essi sono in grado di stimolare riflessioni sulla lingua o sulla cultura del presente
e del passato.3 I testi più utilizzabili saranno naturalmente quelli prodotti a partire dalla fine
dell'Ottocento, quando nel teatro appaiono gradatamente, con sempre maggiore consapevolezza, le
caratteristiche dell'oralità. La trasformazione coinvolge la struttura testuale, i tratti segmentali,
soprasegmentali e le scelte lessicali, come anche gli altri tratti della sintassi e della morfologia del
parlato, rinvenibili nell'“l'italiano dell'uso medio” (Sabatini 1985:154-184) o “neostandard”
(Berruto 1987:62): frasi scisse e segmentate, “che” polivalente, usi pronominali riduttivi,
semplificazione dei tempi e dei modi del sistema verbale, ecc. (cfr. § 2.1.1.2). L'immagine che la
nuova lingua del teatro ci rimanda all'inizio del Novecento è comunque fortemente stilizzata
rispetto alla mobilità testuale tipica degli scambi linguistici reali, e ciò ne fa, come abbiamo detto,
un esempio particolarmente accessibile di lingua “parlata”, estremamente utile per introdurre gli
apprendenti alla consapevolezza delle varietà.
Per comunicare non basta conoscere fonetica, morfologia, sintassi, lessico, e saper produrre e riconoscere frasi.
Nell'uso normale di una lingua si riscontra una serie di fatti e fenomeni che non possono essere spiegati
dall'analisi strettamente linguistica, e che pure sono indispensabili per fare 'funzionare' la comunicazione.
Per quanto ci riguarda possiamo accettare una definizione ampia della pragmatica come “analisi del
1 Per la variazione nel teatro di figura cfr. § 2.1.3.6.
2 Nulla vieta comunque che tali varietà siano presenti, spesso con funzione parodistica e comica.
3 Queste considerazioni ci hanno spinto, ad esempio, a inserire in un'antologia di testi teatrali per stranieri (Alessio-Sgaglione
2007) un testo dell'Opera dei Pupi, sia a causa della fama mondiale di questo genere di teatro di figura, sia per l'interessantissima
commistione di linguaggio letterario (ariostesco) e varietà popolare ivi presente.
4 Levinson (1983/1985:21-46) discute non meno di 15 definizioni di pragmatica trovando che quelle più promettenti, ma non senza
difficoltà, sono quelle che la identificano con una “teoria della comprensione della lingua che prenda in considerazione il
contesto e si ponga così come complementare rispetto al contributo che dà la semantica al significato”.
25
linguaggio in azione”, che ha per oggetto “l'uso del linguaggio, di cui parte integrante è
l'adattamento del locutore alla situazione comunicativa” (Caffi-Hölker 2002:505). Ci sembra
importante non lasciare fuori neanche lo studio dell'influenza della parola sul contesto dal momento
che “i parlanti si servono del linguaggio per modificare la situazione di discorso, per influenzare
credenze e azioni dei loro interlocutori” (Bianchi 2002:11). La prospettiva pragmatica risulta, come
si vede, molto vicina a quella teatrale, dove si vuole rappresentare proprio il “linguaggio in azione”
e in cui ogni atto linguistico deve riprodurre in modo non equivocabile una precisa intenzione
comunicativa in relazione al dialogo rappresentato e al contesto scenico nel suo complesso. Se
consideriamo inoltre il linguaggio da questa prospettiva, non possiamo non notare il legame tra
l'organizzazione linguistica e l'organizzazione del comportamento umano, analizzabile anche da un
prospettiva antropologica, sociale e psicologica, così che la pragmatica si trova a condividere il
campo d'indagine con altre discipline, come l'antropolinguistica, la sociolinguistica e la
psicolinguistica.1 Così esprime Levinson (1983/1985:169-170) questo concetto:
In breve, così come la teoria dell'implicatura riflette la violazione delle proprietà generali dell'interazione
cooperativa (comunque non specifica del comportamento verbale) nella struttura e nell'uso linguistico, in una
teoria della metafora è determinante la violazione di una abilità cognitiva molto generale, la capacità di
ragionare in modo analogico, alla base della strutturazione e dell'uso della lingua. Quindi, così come possiamo
rivolgerci agli studi empirici sull'interazione per raffinare la nostra comprensione dell'implicatura e
dell'inferenza pragmatica, possiamo rivolgerci agli studi psicologici sul ragionamento analogico (comprese le
teorie dell'intelligenza artificiale di associazione ed estrazione dei modelli) per cercare le basi di una spiega-
zione, attualmente inesistente, della processualizzazione della metafora. In entrambi i casi è interesse
centrale della pragmatica l'interazione di un dominio linguistico con un dominio dell'esperienza umana
sostanzialmente indipendente da questo.2
La pragmatica esplora dunque quella zona del comportamento semiotico in cui il linguaggio si
aggancia alle altre forme di attività umane che confluiscono all'interno della comunicazione; “fare
teatro”, col suo richiamo diretto all'esperienza, al gesto e alla parola nel contesto dialogico, può
risultare uno strumento formidabile per “ricompattare” tutti gli elementi che contribuiscono
all'evento comunicativo, attivando le competenze linguistico-comunicative su tutti i livelli.
Potremmo quindi definire il nostro approccio all'insegnamento/apprendimento dell'italiano L2/LS
un approccio “pragmatico-teatrale”.
Questo approccio mette al centro dell'azione didattica l'interazione. Levinson (1983/1985:55-56)
individua nell'interazione faccia a faccia il primo e più importante contesto dinamico dell'uso della
lingua, contesto di acquisizione della lingua per il bambino nonché unico tipo significativo di uso
della lingua in molte comunità del mondo: l'interazione rappresenta quindi la prima condizione del
linguaggio sia per la sua priorità filogenetica che ontogenetica. Il bambino, che non ha a
disposizione un'altra lingua che gli permetta di fare una “traduzione” delle espressioni che va
apprendendo, ne sperimenta il significato entro il contesto interattivo. La strutturazione stessa della
lingua si costruisce facendo riferimento a tale contesto interattivo, fondamento primordiale della
costruzione dell'esperienza e del linguaggio in una reciproca influenza e in un reciproco
potenziamento. De Mauro (2002:39-46) definisce il linguaggio una “forma di interattività
semiotica”, riconoscendo nel linguaggio una forma di azione, senza tuttavia lasciare in ombra la
funzione di “conoscenza” insita nel suo essere una semiosi: “ogni semiosi presuppone e trasferisce,
ma anche elabora conoscenza; e in ciò e con ciò presuppone e determina azioni e interazioni tra i
partecipi della semiosi. Si connette all'ambito del conoscere e a quello dell'agire senza dissolversi
1 Quanto alla difficile distinzione tra pragmatica e sociolinguistica Levinson (1983/1985:43) afferma: “tracciare un confine tra i
fenomeni sociolinguistici e i fenomeni pragmatici è probabilmente un'impresa eccessivamente complicata: ciò è da attribuire in
parte ai diversi ambiti che sono stati assegnati alla sociolinguistica (...), ma in parte deriva dal fatto che i sociolinguisti si
occupano delle interrelazioni tra lingua e società in qualsiasi modo esse si manifestino nei sistemi grammaticali: la
sociolinguistica non è una componente o un livello della grammatica come lo sono la semantica, la sintassi, la fonologia e,
plausibilmente la pragmatica”.
2 Il corsivo è nostro.
26
nell'uno o nell'altro” (De Mauro 2002:44). Benveniste (1965/1985:83-95), nella sua analisi del
tempo, rileva l'importanza dell'intersoggettività per la comunicazione linguistica e
contemporaneamente individua nel linguaggio il luogo fondante di tale intersoggettività.1
La reciproca influenza tra linguaggio, esperienza e pensiero ha da sempre stimolato linguisti e
filosofi. Nell'ipotesi di Sapir-Whorf il pensiero e l'esperienza vengono ordinati e diretti secondo le
categorie linguistiche.2
D'altro canto, secondo Lakoff e Johnson (2002) il linguaggio rimanda, attraverso un complesso
sistema di metafore concettuali, ai principi dell'esperienza sensibile radicata nei processi percettivi.
Secondo la teoria di Lakoff (2002), la metafora è un processo concettuale, prima che linguistico, in
cui viene proiettato un intero dominio cognitivo su un altro dominio cognitivo rendendo possibili
molteplici corrispondenze: “Il sistema concettuale che soggiace a una lingua contiene migliaia di
metafore concettuali (...)” (Lakoff 2002:105). Tali metafore trovano fondamento nelle esperienze
sensibili più comuni. Ad esempio una di tali metafore è quella dell'identificazione della quantità con
la dimensione verticale dell'altezza, espressa nella forma PIÙ È IN ALTO, fondata sull'esperienza
comune dell'aumento in verticale di una quantità (un liquido in un contenitore o una pila di oggetti).
“Queste corrispondenze nell'esperienza reale costituiscono la base della corrispondenza dei casi
metaforici, che vanno oltre i singoli casi dell'esperienza reale (...)” (Lakoff 2002:106). Benché
l'esperienza sia universale tali metafore non si presentano necessariamente in tutte le lingue (Lakoff
2002:107):
Le basi esperienziali motivano le metafore, non le predicono. Quindi non tutte le lingue hanno la metafora
PIÙ È IN ALTO, anche se tutti gli uomini fanno esperienza della corrispondenza tra PIÙ e IN ALTO nella loro
esistenza. Quel che questa base esperienziale predice, piuttosto, è che nessuna lingua avrà la metafora opposta
MENO È IN ALTO, oltre a predire che il parlante della lingua che non ha quella metafora sarà capace di
imparare quella metafora molto più facilmente che non la metafora opposta.
Questa commistione di esperienza e semiosi è tale che non è possibile “insegnare” tutti i significati
di una parola, né sarà possibile per l'apprendente attribuire le condizioni di verità a un enunciato
senza metterlo in relazione al contesto d'uso. Con le parole di Sobrero (1993:405-406):
Per comunicare bisogna dunque che emittente e ricevente conoscano le convenzioni comunicative, che sole
consentono di disambiguare porzioni di testo ambigue, di risalire dal messaggio indiretto e dal significato
letterale al significato reale del testo prodotto dal parlante, di collegare il testo linguistico alla situazione e al
mondo reale in cui viene prodotto, di riconoscere la reale intenzione comunicativa di chi parla, di intendere
certi messaggi non come mezzi per comunicare ma come azioni vere e proprie.
Dal quadro appena delineato derivano due conseguenze per noi rilevanti:
• l'apprendimento del linguaggio attraverso il “dialogo in contesto”, di cui il teatro è
espressione privilegiata, recupera la dimensione pragmatica della comunicazione e quindi
offre agli apprendenti la possibilità di confrontarsi con le regole d'uso della L2;
1 Egli distingue tempo fisico, tempo vissuto e tempo cronico, fissato dai calendari. Attraverso l'universalità della regola che
stabilisce l'uso della deissi temporale, il tempo linguistico permette di operare il raccordo tra la soggettività individuale e
l'oggettività del tempo inter-soggettivo (Benveniste 1965/1985:93): “Si verifica qualcosa di singolare, di molto semplice e
d'infinitamente importante, che produce ciò che sembrava logicamente impossibile: la temporalità che è mia allorché ordina il
mio discorso è immediatamente accettata come sua dal mio interlocutore. Il mio 'oggi' si converte nel suo 'oggi', benché non
l'abbia lui pure instaurato nel proprio discorso, il il mio 'ieri' nel suo 'ieri'. Reciprocamente, quando egli parlerà in risposta, io
convertirò, diventato ricevitore, la sua temporalità nella mia. Tale sembrerebbe essere la condizione di intelligibilità del
linguaggio, dal linguaggio stesso rivelata: essa consiste nel fatto che la temporalità del locutore, benché letteralmente estranea e
inaccessibile al ricevitore, è identificata da costui nella temporalità che informa la sua propria parole allorché egli diventa a sua
volta locutore. L'uno e l'altro si trovano accordati sulla medesima lunghezza d'onda. Il tempo del discorso non viene riportato alle
divisioni del tempo cronico né viene rinchiuso in una soggettività solipsista. Esso funziona come un fattore d'intersoggettività e
proprio quella che dovrebbe essere la sua caratteristica impersonale lo rende onnipersonale. Solo la condizione di inter-
soggettività permette la comunicazione linguistica”.
2 “Il sistema linguistico di fondo (in altre parole la grammatica) di ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione
per esprimere idee, ma esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida dell'attività mentale dell'individuo, dell'analisi
delle sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa (...)” (Whorf 1956/1970:169).
27
• l'apprendimento del linguaggio non può avvenire senza coinvolgere contemporaneamente la
ristrutturazione dell'esperienza, nel senso che attraverso una nuova lingua si apprendono
nuovi modi di interpretare e categorizzare il mondo: fare teatro facilita questa
ristrutturazione ponendo l'esperienza al centro del processo di apprendimento.
In questo paragrafo ci occuperemo di alcuni problemi di pragmatica e mostreremo come il teatro
possa rappresentare un modello e uno strumento utilissimo per apprendere la pragmatica della L2.
Quanto alla seconda questione, che concerne il problema dell'intercultura, verrà ripresa in seguito (§
2.2.3).
1 Giglioli e Fele (2000:14) osservano la mancanza di isomorfismo tra unità linguistiche (una frase) sociolinguistiche (un atto
linguistico) e sociologiche (una mossa interazionale).
28
onorate” Goffman 1981/1987:45). Si tratta del problema della salvaguardia della “faccia”1, ovvero
stabiliscono i modi di comportamento atti a tutelare la propria e l'altrui immagine sociale attraverso
una serie di “interscambi rituali”. Mentre le costrizioni sistemiche possono darsi per presupposte
negli apprendenti, tanto da rappresentare il comune terreno su cui cominciare a costruire la
competenza nella L2, le restrizioni di rituale rappresentano spesso dei punti critici, non sempre
facilmente identificabili, soprattutto per chi non abbia dimestichezza con la lingua e cultura degli
apprendenti. Non tutti i fenomeni pragmatici causano però problemi comunicativi tra chi,
apprendendo o parlando l'italiano L2, resti tuttavia legato al contesto della propria lingua e cultura.
Ad esempio, la deissi spaziale come anche quella temporale, essendo spesso lessicalizzate e
grammaticalizzate nella struttura della lingua, vengono apprese durante il normale sviluppo della
competenza lessicale e grammaticale. Maggiori problemi li crea la deissi personale soggetta a
condizioni discrezionali di uso e alla quale pertanto sia i manuali di lingua che gli insegnanti
dedicano un'attenzione specifica. Un altro problema è la diversa realizzazione degli atti linguistici.
Un esempio in questo senso potrebbe essere rappresentato dagli atti direttivi, dove l'apparente
sovrapponibilità delle strutture grammaticali può trarre facilmente in inganno l'apprendente
(Diadori 2000b).2
Ma il problema della realizzazione di un atto linguistico è più complesso, e va oltre la questione
della traduzione appropriata di un atto in L2. Tra gli studi in prospettiva transculturale e
interculturale3 riportati da Bettoni (2006:120-134) abbiamo la realizzazione degli atti di protesta e
dei complimenti. Nel caso delle proteste, analizzate in due gruppi contrastivi - l'inglese di
australiani di origine anglo celtica a Sydney e l'italiano di Verona da un lato, l'italiano di Napoli e
l'italiano di Torino dall'altro - Bettoni sottolinea che, per protestare in modo culturalmente
appropriato in L2, è necessario compiere diverse operazioni:
• valutare se il destinatario compia un atto contrario al codice comportamentale della sua
cultura, tenendo in considerazione le differenze tra culture;
• considerare il contesto sociopragmatico delle variabili situazionali, ovvero:
- la distanza sociale tra parlante e ascoltatore, la loro maggiore o minore familiarità;
- il potere relativo del parlante e dell'ascoltatore, ovvero la misura in cui si ha il potere
di imporre all'altro i propri piani e l'attenzione alla propria faccia;
- il livello assoluto di imposizione (Brown-Levinson 1987): dal momento che la
protesta ha la duplice forza illocutoria di critica del comportamento e di richiesta di
riparazione, l'intensità dell'imposizione varia rispetto alla gravità del comportamento
indesiderato (ad esempio una protesta perché il vicino tiene il volume dello stereo
1 “Il termine 'faccia' può essere definito come il valore sociale positivo che una persona rivendica per se stessa mediante la linea
che gli altri riterranno che egli abbia assunto durante un contatto particolare. Per faccia si intende quindi un'immagine di se stessi,
delineata in termini di attributi sociali positivi; un'immagine, tuttavia, che gli altri possono condividere,come avviene quando una
persona conferisce prestigio alla propria professione o religione comportandosi in modo da ricevere l'approvazione degli altri”
(Goffman 1967/1971:7-8).
2 Diadori (2000b:105) nota che una traduzione letterale dell'imperativo di cortesia ad esempio in tedesco in italiano non sarebbe
adeguato comunicativamente, le espressioni: “Venga qui!”, “Non prenda quel libro!”, “Mi dia la penna!”, “Me la dia!” che
traducono letteralmente il tedesco “Kommen Sie her!”, “Nehmen Sie das Buch dort nicht!”, “Geben Sie mir den
Kugelschreiber!”, “Geben Sie den mir!” non veicolano in realtà la forza illocutoria dell'atto tedesco. La forza illocuotria di queste
frasi in italiano in realtà si giustifica solo nel caso di un rapporto fra gli interlocutori che sia superiore-inferiore, e non in un
registro “cortese”. L’imperativo di cortesia in italiano si usa infatti per dare un ordine brusco ad un interlocutore col quale si
vogliono mantenere le distanze, esprime dunque una forma di cortesia negativa. Per un registro di alta formalità (cortesia
positiva) si preferisce la frase interrogativa, l’uso del condizionale o altre forme che, diversamente dal tedesco, esprimono la vera
funzione di un ordine nel registro formale.
3 Per i termini di pragmatica contrastiva o transculturale, pragmatica interculturale e pragmatica interlinguistica, che da ora in poi
avremo occasione di usare, facciamo riferimento alle definizioni di Bettoni (2006:92-93; cfr. anche Pallotti 1998:136): con
pragmatica contrastiva “si intende il confronto fra le norme che regolano l'uso di una lingua A secondo la sua cultura A e le
norme che regolano l'uso di un'altra lingua B all'interno della sua cultura B”; con pragmatica interculturale “si intende (...) la
pragmatica dell'interazione tra nativi e non nativi in una determinata lingua e cultura”; per pragmatica interlinguistica “si intende
la pragmatica caratteristica dell'interlingua di chi apprende la L2”. Quanto alla nozione di pragmatica intralinguistica, che
definisce “le norme che regolano l'uso di una lingua all'interno di una cultura”, ci sembra sufficiente indicarla con espressioni
come “la pragmatica dell'italiano”, “la pragmatica dell'inglese”, ecc.
29
troppo alto sarà diversa da quella per un furto) e della difficoltà e impegno richieste
dall'azione di riparazione (una cosa è abbassare il volume dello stereo, un'altra è
abbattere la terrazza abusiva che invade il terreno del vicino) (Bettoni 2006:119).
• calibrare le componenti pragmalinguistiche per trovare le parole giuste e metterle nella
sequenza corretta per esprimere la forza illocutoria desiderata in modo da ottenere la
riparazione desiderata, senza offendere l'interlocutore.
Gli studi fatti (Bettoni 2006:120-130) mettono a confronto il comportamento linguistico degli
anglofoni di Sydney e degli italiani di Verona nel compiere due atti di protesta: il primo nei
confronti di un vicino che ascolta musica rock a volume troppo alto, il secondo perché nel
parcheggio è stato occupato il posto al quale si aveva diritto. Dall'analisi delle produzioni
linguistiche dei due gruppi emerge che gli anglofoni tendono più degli italiani a calibrare
l'intervento in relazione alla gravità della “colpa” che la provoca. Nel secondo studio, riguardante
due proteste avvenute presso i bagni termali di Ischia (George 1990:92-100 in Bettoni 2006),
emergono anche differenze culturali tra l'italiano di Napoli e quello di Torino. Bettoni, mettendo in
relazione i due studi, ipotizza diversi stili di protesta che si pongono su una linea che ha ai due
estremi l'italiano di Napoli e l'inglese di Sydney, passando per Verona e Torino: a un estremo c'è
l'italiano di Napoli con una protesta sostenuta da argomentazioni soggettive basate sui rapporti
interpersonali, all'altro estremo troviamo l'inglese di Sydney con argomentazioni oggettive che
sostengono la protesta per diritto.
Per quanto riguarda i complimenti e le reazioni ad essi, si tratta di atti abbastanza semplici costituiti
da sequenze complementari (Levinson 1983/1985:307), che tuttavia hanno realizzazioni differenti
nelle diverse lingue e culture sia per quanto riguarda l'attributo dei complimenti (dai quali è
possibile intuire almeno superficialmente ciò che viene maggiormente apprezzato in quella cultura),
sia per quanto riguarda la reazione dell'interlocutore: nell'inglese anglo-americano prevale la
massima dell'accordo, in cinese la massima della modestia (Chen 1993), in italiano la massima del
compromesso.
Prendendo spunto da queste ricerche notiamo che è possibile rinvenire nel teatro modelli realistici
della realizzazione degli atti linguistici in italiano.
Se prendiamo due brevi dialoghi di teatro, uno tratto da “Questa sera si recita a soggetto” di Luigi
Pirandello (1941:258) e l'altro dalla commedia per burattini “Sandrone innamorato della maestra” di
Brizzolara (1975:124), vi troviamo realizzati in modo assolutamente appropriato i due atti secondo
le caratteristiche dell'italiano indicate da Bettoni.
Il brano di Pirandello realizza l'atto di protesta di uno spettatore alla strana rappresentazione “a
soggetto” che si sta svolgendo a teatro. Lo spettatore è indignato perché a spettacolo iniziato, poco
prima dell'apertura del sipario, si è udito rumore di litigi dietro le quinte. Rivolge dunque la sua
protesta al capocomico quando egli si presenta davanti al pubblico:
(1) IL DOTTOR HINKFUSS (...) La rappresentazione è cominciata e io sono qua davanti a voi.
IL SIGNORE ANZIANO, DAL PALCO (congestionato). Io credevo per chiederci scusa dello scandalo
inaudito di quei rumori. Del resto le faccio sapere che non sono
venuto per ascoltare da lei una conferenza.
IL DOTTOR HINKFUSS Ma che conferenza! Perché osa credere e gridare così forte
ch'io sia qua per farle ascoltare una conferenza?
Il Signore Anziano, molto indignato di quest'apostrofe, scatta in piedi ed esce bofonchiando dal palco.
Lo spettatore espone la sua protesta in modo indiretto e, secondo la didascalia, molto energico,
sottolineandola con un intensificatore (“inaudito”) e facendola seguire da una dichiarazione
soggettiva d'intenti. Le argomentazioni esposte sono dunque di carattere personale, e si pongono,
nell'ideale linea tracciata da Bettoni, più in direzione di Napoli che di Sydney. Non ottenendo la
riparazione richiesta – la risposta del capocomico è “non preferenziale” (Levinson 1983/1985:332)1,
1 Per preferenza Levinson intende un concetto psicologico “connesso ai desideri del parlante o dell'ascoltatore”. Esso è analogo al
30
non solo non si giustifica, ma rifiuta l'accusa - l'unica maniera per salvare la faccia per lo spettatore
resta l'azione conseguente alla dichiarazione di intenti, ed egli lascia il palco. Qui vediamo
perfettamente compiute in modo coerente le varie operazioni indicate da Bettoni, e da noi
sintetizzate sopra, per un comportamento sociopragmatico e pragmalinguistico adeguato alla lingua
e cultura italiana.
L'esempio (2) ci mostra invece, in veste comica, una reazione ai complimenti culturalmente
adeguata in italiano, rispondente, come si è detto, alla massima del compromesso. Sandrone prima
si schernisce alla definizione di “divertente e simpatico” per poi accettare, quella più modesta di
“semplice e sincero”, curando così sia la faccia dell'interlocutore che la propria:
(2) MARISA Sapete, signor Alessandro, che siete molto divertente e simpatico?
SANDRONE (sorpreso) Chi, me? (...) Cosa vuole da io, signorina, che sonno cresiuto in mezzo ai animali e
cipolle. Non sapete che non mi atenteri gnanca a sognarmela la notte? Troppa diferenza. Lei
siete di razza, e me, un bastardone.
MARISA Oh, no. Siete un uomo semplice e sincero.
SANDRONE Ah quello poi, sì.
Lo stesso ragionamento è valido per quanto riguarda le regole che definiscono l'avvicendamento dei
turni e la sequenzialità delle mosse. Anzi, il teatro mette in evidenza le regole che definiscono la
lunghezza della pausa per la cessione del turno di parola o la possibilità (e il significato) della
sovrapposizione, fenomeni che, come da più parti è stato indicato, variano talvolta anche
considerevolmente da lingua a lingua (Bazzanella 1994:192-203; Pallotti 1998:146; Carbaugh
2005; Bettoni 2006:158-165). Tale variabilità emerge inevitabilmente nel corso delle prove di
recitazione, dove pause, interruzioni, sovrapposizioni devono essere attentamente calibrate e, non
essendo più attribuibili ad esitazioni dovute a difficoltà nella L2, potranno dar luogo a una
riflessione appropriata sul loro significato entro le relazioni interpersonali rappresentate.
Ci sono numerosi altri aspetti legati all'uso della lingua che possono emergere da un lavoro col
teatro, soprattutto a livelli avanzati di apprendimento. Ci sembra in questa sede di doverne
sottolineare tre: l'espressione di stati affettivi, strettamente legata alla recitazione teatrale; il comico,
presente in varia misura nel teatro di attori, ma soprattutto nel teatro di figura; la prosodia e la
gestualità, che rimandano alla dimensione non verbale della comunicazione.
31
tutto diversi, come rimproveri, esortazioni, ordini e così via (Sbisà 1992:364-365). Questo punto si
rivela particolarmente sensibile in una prospettiva pragmatica transculturale ed è facile per un
apprendente fraintendere o non cogliere la coloritura affettiva di alcune espressioni. Un esempio ne
sono i superlativi italiani, che svolgono la funzione di affermazione di verità (“è bellissima” = “è
davvero bella”) e vengono interpretati diversamente in altre culture: in senso più competitivo,
nell'inglese americano dove il superlativo ha una funzione rafforzativa; in culture più inclini
all'understatement invece, come l'inglese britannico, l'uso italiano dei superlativi appare retorico e
teatrale (Balboni 1999:74). Fraintendimenti derivano anche da espressioni quali “i miei figli” o
“casa mia” che, ad esempio per i tedeschi, possono apparire come una volontà di escludere il
partner dall'evento narrato (dal momento che in tedesco si direbbe “unsere Kinder”, “unsere
Wohnung”). Un altro esempio è rappresentato dall'ordine dei componenti di un'azione comune: in
italiano è possibile dire in modo disinvolto e in situazione di non eccessiva formalità “io e mia
madre siamo andate al cinema” laddove in molte altre lingue si ha maggiore cura a porre se stessi al
secondo posto. Di nuovo il teatro si rivela in questo senso un eccellente “maestro di lingua”.
Gli esempi, nel teatro, sono ovviamente innumerevoli: tutti i drammi, le commedie e le farse teatrali
sono imperniate attorno ai rapporti affettivi tra i partecipanti, che trapelano da parole, prosodia e
atti, spesso in netto contrasto col significato letterale degli enunciati. Come unico esempio
prendiamo l'uso di deissi empatica in un dialogo di Edoardo De Filippo (2007:625):
PEPPINO Chi viene?
ROSA (aspra) Chi viene? …Viene tua nuora.
PEPPINO Perché è nuora solamente a me?
ROSA Mi ero dimenticata che qua si deve parlare con punto e virgola. (Scandendo) “Viene nostra
nuora” con Roberto.1
2.1.2.3 Il comico
Il comico nelle sue diverse forme2 è un fenomeno di difficile definizione, che è stato analizzato in
ogni epoca da diverse prospettive teoriche.3 Bergson (1900/1994:10-85) vi distingue tre tipologie
principali:
• il comico di situazione, tipico della beffa, dello scambio di persona, delle “comiche” del
cinema muto;
• il comico di carattere, in cui il riso nasce da un “carattere teatrale”, prevedibile e fisso, come
nelle maschere della Commedia e nei burattini;
• il comico di parola, o linguistico, proprio delle parlate “espressive” e del motto di spirito.
In tutti e tre i casi il comico nasce da una difformità, un'anomalia una “infrazione della norma” o
dalla “trasgressione di una convenzione” e dipende sempre da forze pragmatiche e culturali che
governano l'atto di comunicazione, legato alle regole socioculturali proprie della comunità che lo
esprime e alla lingua in cui si realizza (Banfi 1995:26). La comicità coinvolge inoltre il mondo dei
valori nello stabilire ciò su sui è lecito o non è lecito ridere. Sempre per Bergson è l'automatismo
che, “installato nella vita”, produce il comico, la rigidità, e ciò spiegherebbe l'irresistibile comicità
dei burattini e delle marionette. Analizzando il meccanismo della barzelletta, Mizzau (2005:15)
sostiene che si basa su “una collisione – uno scontro repentino e implicito – tra due matrici (universi
di discorso, frames, isotopie, script) tra loro incompatibili”. Mizzau mette anche a fuoco la funzione
pragmatica della comicità nella satira, che rappresenta un vero e proprio ponte verso conoscenze di
tipo contestuale o generale: ”la relativa caducità del riso provocato dalla satira dipende anche dal
1 Il corsivo è nostro.
2 Banfi (1995) divide la testualità del linguaggio comico, variabile a seconda dei contesti socio-culturali e dei momenti storici, in:
parodia, ironia, mimo, beffa, umorismo e satira. La parodia comprende dalla riscrittura di un testo noto alla raffigurazione
derisoria della parola altrui; l'ironia, si basa soprattutto sull'antifrasi (inversione semantica, attenuazione del significato, iperbole),
spesso accompagnata dall'enfasi intonativa e gestuale; l'umorismo, si fonda sulla violazione sistematica delle massime di Grice, il
gioco verbale, la comunicazione mediata; la satira sul rovesciamento che può riguardare il piano lessicale, sintattico o fonologico.
3 Per una rassegna bibliografica cfr. Banfi 1995.
32
fatto che questo tipo di riso è più che altri legato a conoscenze contestuali” (Mizzau 2005:16). Chi
non ride è perché tende a rifiutare la “dissonanza cognitiva” le situazioni di incoerenza, di
ambiguità; di solito queste persone cercano di ridurre la dissonanza riconducendo il non-noto al
noto (Mizzau 2005:17).
Come Goffman (1981/1987) e Levinson (1983/1985) riconoscono che alcune regole pragmatiche
hanno un carattere universale e altre sono culturalmente determinate, anche Banfi individua nel
linguaggio comico, l'azione di due variabili principali: da un lato i modelli socioculturali, altamente
mutevoli nel tempo e nello spazio, dall'altro strategie linguistiche che presentano straordinari tratti
comuni. “Di tali variabili la prima appare necessariamente dinamica e, pertanto impossibile da
rinchiudere entro definizioni rigide; l'altra invece, costituisce, nella sua 'matericità', una sorta di
variabile (o, forse meglio, di 'invariante') 'pragmatico-universale'”(Banfi 1995:19-20). Tale variabile
è costituita da tecniche che appartengono al piano linguistico. Apte (1985:178-179) ne cita alcune,
rinvenibili probabilmente in tutte le culture: parodia, esagerazione, rovesciamento, giochi di parole,
uso di soprannomi. Alla base dell'umorismo linguistico c'è dunque la nozione di incongruità che
stravolge la familiare relazione tra forma e significato.1 La comprensione del linguaggio comico
svela pertanto agli apprendente meccanismi profondi del funzionamento della lingua che pervadono
anche tutta la comunicazione quotidiana. Paradisi (1987:220-225), prendendo in considerazione
l'affinità dei meccanismi del comico spettacolare che rimandano alla conversazione spontanea,
analizza il meccanismo della violazione delle massime di Grice: lo stupore prodotto in noi dalla
violazione di quelle massime ci spinge fuori dall'interpretazione letterale delle frasi alla ricerca,
lungo le vie delle implicature, di un nuovo senso. Ciò avviene nelle barzellette:
(1) “È in casa il dottore?” chiese il paziente nel suo bisbiglio bronchiale. “No” rispose bisbigliando con voce
rauca la giovane e graziosa moglie del dottore, “Entri, presto”.
Ma avviene comunemente anche nella comunicazione indiretta. È ciò che facciamo ogni volta che
rispondiamo in modo appropriato a frasi come:
Tali frasi forniscono anch'esse un senso implicito: sono espresse come domande, veicolano una
forza illocutoria interrogativa, ma vengono recepite come una richiesta. La risposta adeguata è
dunque l'azione conseguente, non l'interpretazione letterale.
Ma il comico può anche rovesciare la situazione. Prendiamo in considerazione le seguenti risposte
alla (2):
(3) a. Certo che sono capace. (Ma non esegue nessun gesto)
b. Certo che lo so. (Ma non dice l'ora)
La tecnica linguistica presente in queste risposte, che forse più che farci ridere ci lascerebbero
perplessi, è la stessa presente in molte delle tragedie in due battute di Achille Campanile (1978) :
(4) (La scena è una partita di calcio. In seguito a un fallo di gioco si accende una mischia furibonda fra i
giocatori, il gioco non riprende per parecchi minuti)
Il frequentatore appassionato (urlando indignato) – Ma non c'è l'arbitro?
L'incompetente servizievole (facendosi largo tra la folla per vedere meglio e risalendo poi verso il
frequentatore appassionato – Sì, c'è.
1 “The notion of incongruity is crucial for such humor. It involves the disarray of phonological and grammatical elements, the
twisting of the relationship between form and meaning, the reinterpretation of familiar words and phrases, and the overall
misuse of language” (Apte 1985:179).
33
Qui, dice Paradisi (1987:225), “lo stupore ci riconduce verso la lettera del senso, quando eravamo
ormai abituati ad andare al di là di essa.” Lo stupore, per una persona educata in un altra comunità
linguistica, non è detto che sia lo stesso che muove noi al riso. Nel suo caso risalire alla lettera può
significare scoprire modi indiretti di realizzare gli atti linguistici o metafore nascoste nella lingua,
come nella seguente battuta tratta dal teatro dei burattini di Francesco Ferrajolo (1992b: 48):
L'altro meccanismo analizzato da Paradisi (1987:229-235) è il gioco di parole. Quello più semplice
va in cerca di somiglianze sonore, omofonie, ritmi, rime, allitterazioni. È il gioco presente in ogni
filastrocca per bambini, in cui il senso della lingua diviene un appendice superflua per lasciare
emergere la forma che lo sostiene. Prendiamo come esempio un testo dei burattini del grande
burattinaio Italo Ferrari. Sandrone cerca di imparare la parola d'ordine per aprire la porta della
caverna dei briganti (Castellino-Ferrari 1936:213-214):
(6) FASOLINO Ecco, si va vicino alla porta e si dice: (ripete la parola d’ordine)
Tartaròne, Tartaròne.
Attenzione al portone:
Chi porta porta
Chi non porta resti fuori della porta.
SANDRONE (prova e riprova, ma gli riesce impossibile ripeterla giusta) Trottitrone, Tarlitone. Apri la
sporta con dentro la porta.
FASOLINO No così!
ZUCCHETTO No, papà. Si dice così: Tirlitone, tartiglione, porta la sporta con dentro la torta!
L'ilarità di questi giochi di parole è garantita, e lo sanno bene autori per bambini come Gianni
Rodari o Roberto Piumini. La parola qui si associa alle altre parole non per un vincolo concettuale,
ma per la semplice somiglianza della forma acustica, che mantiene tuttavia ferme le regole della
struttura della lingua. Per gli apprendenti stranieri, per i quali tali regole che uniscono forma e
significato non sono né ovvie né scontate, il gioco linguistico può rappresentare un vero e proprio
strumento di apprendimento, una sorta di “palestra” in cui mettere alla prova le proprie competenze.
Essi diverranno, se incoraggiati in questa attività, sempre più capaci di immedesimarsi nella L2, di
usarla per agire linguisticamente, allo stesso modo in cui i bambini, nel giocare con la lingua, nello
smontarla, rimontarla in modi originali, giungono a comprenderne il funzionamento e a
padroneggiare i suoi meccanismi (cfr. § 2.2.2.2).
Dal momento che il teatro comico utilizza, oltre all'umorismo linguistico anche il comico di
situazione e il comico di carattere citati da Bergson (1900/1994), la comicità nel teatro non rivela
solo i meccanismi di significato che sottostanno all'uso del linguaggio, ma mette sotto le “luci della
ribalta” gli aspetti socioculturali, sociopragmatici, (la dimensione soprasegmentale del linguaggio,
l'uso dei gesti, dell'abbigliamento, il significato degli oggetti ecc.), che caratterizzano la
comunicazione nella L2 e che vengono sottoposti allo stesso procedimento di smontaggio
distorsione e rovesciamento che abbiamo notato per il linguaggio.
In una prospettiva didattica il comico può dunque svolgere più funzioni:
• fornire l'occasione per un confronto tra valori, codici socio-culturali e comportamentali
tipici della L1 e della L2;
• riconoscere ed esercitare in modo creativo le regole formali, e le regole d'uso della L2;
• formare l'individuo esercitando la mente a confrontarsi con il nuovo e il diverso.
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prosodici (pause, quantità, ritmo, intonazioni ecc.) sia i codici di comportamento extralinguistici
(cinesica, prossemica, vestemica, comunicazione oggettuale), recupero che, se ha una giovane ma
più consolidata tradizione per quanto riguarda i primi, più immediatamente connessi alla
realizzazione dei messaggi verbali, conta pochi e recenti tentativi di analisi sistematica per quanto
concerne i codici legati al comportamento extralinguistico.
I tratti prosodici, hanno grandissima importanza nel determinare la forza illocutoria di un atto
linguistico e lo stato affettivo ad esso connesso, ad essi è affidato il più delle volte il compito di
trasmettere le intenzioni pragmatiche del locutore. Bertinetto e Magno Caldognetto (1993) citano
sei aspetti della prosodia: ritmo, accento, intonazione, quantità, tono, sillaba. Tra questi, ritmo e
intonazione costituiscono quelli più rilevanti per comprendere le intenzioni di un parlante
(Bertinetto-Magno Caldognetto 1993).
Per quanto riguarda il ritmo, è possibile notare che, all'interno della cornice ritmica propria di
ciascuna lingua, esistono variazioni legate al contesto per cui tempi/ritmi rallentati o accelerati
risultano propri di alcune situazioni comunicative: la lezione accademica avrà un tempo/ritmo
rallentato, la cronaca sportiva ne avrà uno accelerato (Banfi 1995:62).
Bertinetto e Magno Caldognetto (1993:155) definiscono l'intonazione una “funzione
linguisticamente significativa della frequenza fondamentale Fo a livello di frase” Nella frequenza
fondamentale caratteristiche linguistiche si sommano a quelle extralinguistiche, determinate dalle
caratteristiche biologiche del parlante, e paralinguistiche, attribuibili alle emozioni, agli stati
d'animo e alle attitudini del parlante. Così l'andamento intonativo trasmette contemporaneamente
diversi tipi di informazioni (Bertinetto-Magno Caldognetto 1993:159-167) :
• informazioni biologiche: sull'età, il sesso, il carattere del parlante dovute alle variazioni
della frequenza fondamentale (Fo );
• informazioni paralinguistiche: riguardo alle emozioni del parlante;
• informazioni linguistiche: l'intonazione rappresenta un indice di coesione, modalizzazione, è
un segnale di organizzazione sintattica;
• informazioni sociolinguistiche: dall'intonazione è possibile risalire alla provenienza geogra-
fica del parlante; inoltre è possibile risalire da determinate caratteristiche intonative allo
status sociale del parlante e alla professione (politico, insegnante, ecc.) alla modalità di pro-
duzione (intervista, commenti, descrizioni di avvenimenti) (Bertinetto-Magno Caldognetto
1993:178).
I tratti prosodici, come le altre caratteristiche pragmatiche del comportamento verbale umano, sono
in parte determinati biologicamente, in parte acquisiti culturalmente. Spesso, per esempio è stato
sottolineato il carattere universale delle manifestazioni dell'emozione, mettendole in relazione ai
“segnali vocali” emessi da animali non umani. Tuttavia le emozioni non sono semplicemente
attivazione stimolo-risposta, ma complessi sitemi cognitivi: la loro realizzazione vocale è soggetta,
come per la mimica facciale cui è affidata la loro realizzazione visiva, a regole culturali apprese,
che prevedono effetti di intensificazione, deintensificazione, neutralizzazione e mascheramento. Per
l'italiano sono state riconosciute sia opposizioni universali tra andamenti intonativi dinamici o piatti,
sia specificità culturali in studi comparativi con le emozioni prodotte dai giapponesi (Magno
Coldognetto-Kori 1983). Ugualmente per la realizzazione di un atto di domanda l'italiano si affida
unicamente all'andamento intonativo che acquista quindi un'importanza diversa rispetto alle lingue
in cui esso è anche codificato a livello sintattico-morfologico (inglese, tedesco, francese).
Per quel che riguarda la gestualità, alcuni gesti sono socialmente codificati (saluti, stretta di mano),
altri, come i gesti espressivi, parallelamente all'intonazione emotiva, sono in parte universalmente
determinati, in parte culturalmente acquisiti. Sobrero (1993:429-430), sintetizzando studi
precedenti, distingue la gestualità in:
• gesti simbolici dotati di un significato preciso e socialmente condiviso. Sono, come i segni
verbali, legati a regole di corrispondenza precise. Tali gesti si distinguono in gesti
referenziali, che si riferiscono a oggetti e azioni (il dito sulla bocca per dire “silenzio!”) e
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modalizzatori, ai quali corrisponde una frase (ad esempio il gesto descritto come “mano a
borsa” con mano oscillante che può essere tradotto con: “ma cosa vuoi?”).
• gesti mimetici, di carattere iconico;
• gesti deittici, che indicano oggetti o persone e le loro collocazioni nello spazio;
• gesti batonici che mettono in rilevo o commentano una frase, segnalano l'enfasi;
Anche se tutti i gesti sono contestualizzati, i deittici e i batonici non hanno significato proprio e
rientrano a pieno titolo nella pragmatica della conversazione.
I gesti simbolici variano da cultura a cultura e il loro uso, in Italia, è diffuso in modo maggiore al
Sud rispetto al Nord. 1
Anche per i gesti e la prosodia il teatro offre, ovviamente, ampie occasioni di applicazione e di
riflessione. Come per i tratti linguistici anche in questo caso la comicità appare come la strada
maestra per portare alla luce stereotipi sociali e culturali (Banfi 1995:59-69). L'uso dei “lazzi”, della
gestualità e della mimica a fini comici, è patrimonio del teatro sin dalla nascita della commedia. La
variazione del tempo e del ritmo dell'azione, strategia alla base delle “comiche” del cinema muto, è
presente anche nel teatro comico, come pure lo troviamo nel teatro di burattini: lo stesso si può dire
delle variazioni di ritmo nell'eloquio.2 Ma anche il capovolgimento delle aspettative rispetto al tipo
di voce e alla sua intensità (il fiero generale che parla con la voce di un bambino o è quasi afono,
l'omaccione che parla come una timida ragazza), o la loro esagerazione, tipica della fissazione
linguistica del teatro di figura, l'uso a fini comici di varietà sub-standard o dialettali o di difetti di
pronuncia (l'inflazionata balbuzie o la “zeppola” di tanti personaggi teatrali e le anomalie
linguistiche di tanti burattini), le distorsioni della catena fonica, l'uso di fenomeni sociolinguistici
come il code-mixing o code-switching, sono caratteristici della comicità teatrale e burattinesca.
Concludendo, il teatro mette in scena sia le regole universali che quelle culturalmente determinate
che formano l'ossatura pragmatica della comunicazione faccia-a-faccia nella L2. Lo spettacolo
teatrale, rimandando per la sua comprensione alla presenza del contesto secondo principi
universalmente diffusi, rende la comunicazione che avviene sul palcoscenico facilmente
decodificabile per degli apprendenti stranieri. D'altro canto, i mezzi teatrali evidenziano, attraverso
la comicità, la gestualità e i tratti prosodici, i valori e le regole tipici della L2 con cui gli
apprendenti, impegnati a realizzare uno spettacolo dovranno imparare a confrontarsi.
Il teatro di figura è uno “spettacolo di genere” (Pavis 1976:130) ovvero uno spettacolo in cui le
convenzioni teatrali legate a una particolare forma teatrale (ad esempio le tre unità del teatro
classico) sono ipercodificate (De Marinis 1982:126). In esso sono particolarmente abbondanti i
segni testuali che consentono operazioni pragmatiche di riconoscimento del testo e stimolano le
ipotesi predittive del ricevente, permettendo, una più immediata comprensione da parte dello
spettatore (cfr. § 2.1.1). Grazie a tale ipercodificazione, il carattere rappresentativo del teatro di
figura è estremamente ridotto, in particolare nel teatro dei burattini dove la mano diviene
“personaggio”, un carattere umano viene sintetizzato in una maschera, gli oggetti e i movimenti
sono assolutamente rudimentali, il tempo e lo spazio sono ricondotti a schemi simbolici.
Fino a questo momento abbiamo spesso parlato di teatro di figura intendendo per lo più riferirci al
teatro dei burattini. Lo abbiamo fatto per due motivi: innanzitutto per non escludere le forme di
animazione odierne, che uniscono spesso l'uso di pupazzi mossi con diversi espedienti (a vista, dal
1 Diadori (1992), in uno studio sulla gestualità degli attori di diversa estrazione regionale in undici commedie italiane, ha rilevato
la maggiore presenza a Sud dei gesti simbolici diffusi in ambito pan-italiano, presenza che diminuisce progressivamente man
mano che si procede verso Nord.
2 Penso al duello citato nel § 2.1.3.5 tra Pulcinella e il “guappo” realizzato da Luca Ronga oltre che, ovviamente, agli inseguimenti
ad altissima velocità tipici del teatro dei burattini. Per uscire un momento dall'ambito teatrale, penso anche al geniale
lungometraggio Cappuccetto Rosso e gli insoliti sospetti dove lo scoiattolo “Scattino”, parla a una velocità tale da rendersi
incomprensibile, ma, ascoltato alla moviola, rivela un' eccepibile intonazione da presentatore televisivo.
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basso con la mano o con bacchette, dall'alto con i fili ecc.) e quello di altre forme di animazione,
come il teatro delle ombre o il teatro di oggetti (cfr. AA.V.V., 1991; Cipolla-Moretti 2003) 1. In
secondo luogo per permetterci di fare riferimento alle altre due tipologie tradizionali di questo
genere di teatro che hanno avuto, e in parte mantengono ancora oggi, un posto rilevante nella
tradizione italiana: il teatro delle marionette e i pupi. La nostra proposta, aperta a tutti e tre questi
tipi di teatro di figura per quanto riguarda la comprensione dei testi da parte degli apprendenti, si
restringe invece all'uso attivo dei burattini nel momento in cui gli apprendenti diventano i
protagonisti dello spettacolo, sia per motivi di stile che di realizzabilità tecnica.
Non ci è dato in questa sede approfondire un fenomeno tanto complesso e frastagliato quale il teatro
di figura in Italia, tuttavia crediamo necessario trattare brevemente le affinità e le differenze tra il
teatro dei burattini e gli altri due tipi di teatro di figura. Cercheremo poi di analizzare le
caratteristiche specifiche di quest'ultimo genere di teatro, anche in relazione al teatro di attori.
Burattini marionette e pupi differiscono dal teatro di persona perché la rappresentazione non viene
affidata ad attori in carne ed ossa, bensì a delle “figure”, dei fantocci che li rappresentano. Il
burattino è un fantoccio mosso dal basso direttamente dalla mano del burattinaio che la calza come
un guanto. Le marionette e i pupi sono fantocci mossi dall'alto per mezzo di fili che ne mettono in
movimento le membra articolate.2
Alfonso Cipolla e Giovanni Moretti (2003:17) individuano chiaramente le affinità e le differenze tra
i burattini e le marionette:
Sono due simulacri, due sintesi, due allusioni dell'uomo che si rapportano, però, all'uomo in maniera
radicalmente differente e con esiti differenti, non solo per quanto riguarda la concezione dello spettacolo, ma
soprattutto per ciò che concerne l'impresa teatrale, dove per impresa teatrale si intende la formazione e la
conduzione della compagnia, il suo patrimonio di materiali scenici, il pubblico a cui si rivolge e i luoghi i cui
opera.
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Settecento e la prima metà dell’Ottocento, adattandosi allo spirito borghese dell'epoca, le marionette
allargano il loro pubblico installandosi nei teatri stabili: il San Carlino a Napoli (1740), il san
Girolamo a Venezia (1746), il teatro San Martiniano (1859) e poi il “Gianduja” a Torino, il teatro
Fiando detto “Gerolamo” a Milano (1868). Nella prima metà dell'Ottocento gli spettacoli divengono
addirittura sfarzosi (famosa è la messa in scena del ballo Excelsior di Luigi Manzotti). Tuttavia non
è raro trovare le marionette, in forme più rozze, anche nelle piazze, come spettacolo popolare
appena più ricercato del teatro di burattini, condividendo con esso schemi e trame narrative.
Per loro natura le marionette, secondo Roberto Leydi (Leydi-Mezzanotte Leydi1958:14), sono
destinate a una eterna contraddizione “perennemente in bilico fra imitazione del vero e creazione
del fantastico”. La specificità del loro linguaggio teatrale emerge solo nel momento in cui esse
cessano di “imitare” gli attori in carne ed ossa e sfruttano le limitazioni meccaniche proprie del
pupazzo di legno. Per questo motivo è difficile separare in modo netto il teatro di marionette dal
quello realizzato con attori “veri”. Non è un caso che quando il teatro di figura entra in crisi,
all’inizio del Novecento, le prime a cedere di fronte alla concorrenza dei nuovi mezzi espressivi
siano proprio le marionette. Se oggi sopravvivono ancora poche grandi famiglie di marionettisti,1ciò
non è dovuto unicamente a mera difficoltà “tecnica” del mezzo, ma probabilmente anche al
problema della mancata definizione di un genere teatrale (Allegri 1978:117).
I pupi sono delle grandi marionette alte dagli 80 cm a più di un metro (fig. 2.7), diffuse nell’Italia
meridionale, che presentano alcune differenze tecniche e stilistiche nelle diverse tradizioni:
palermitana, catanese e napoletana. Sono di legno, rivestiti di lucenti armature di foggia cinque- o
seicentesca e mossi da un sofisticato sistema di fili. Rappresentano lo spirito epico, eroico e
cavalleresco per mezzo di un’espressione teatrale originalissima che ha avuto, rispetto al teatro di
marionette e di burattini, la fortuna di godere di una più larga fama e di una maggiore attenzione da
parte degli storici e degli studiosi di arti popolari.2
Il pubblico abituale dei pupi di un tempo, formato soltanto dagli uomini dei ceti popolari (le donne
non partecipavano come opranti né erano presenti tra il pubblico), seguiva l’opera, che veniva
allestita al chiuso in locali di fortuna una sera dopo l’altra, e spesso conosceva già perfettamente la
vicenda per aver letto, o sentito narrare, i romanzi cavallereschi in voga nell’Ottocento3. Grazie alla
presenza dei cantastorie, le letture dei romanzi e dei poemi epico cavallereschi erano diffusissime,
non solo in Sicilia. Tale materia era condivisa tra il Settecento e l’Ottocento anche dal teatro “di
attori” ed era diffusa, in misura minore, nel teatro di figura dell’Italia del Nord (Sordi 1980:217).
Nel teatro di marionette i copioni venivano recitati in una sola serata, i pupari meridionali
dividevano invece la materia in cicli di spettacoli che potevano durare molti mesi ed erano in grado
di coinvolgere profondamente il pubblico (Pasqualino 1977; 1980:232-234).4 Le epopee venivano
tramandate oralmente e in parte improvvisate durante lo spettacolo.
Trattare approfonditamente di questo grande genere artistico ci porterebbe lontano. Per quanto ci
riguarda è importante rilevare che il teatro dei pupi, nonostante la quantità di lavoro e la complessità
delle manovre necessari per muoverli, condivide molte caratteristiche col teatro dei burattini, prima
tra tutte quello di essere stato, fino al secolo scorso, una rappresentazione di carattere popolare. Ciò
è evidente anche nel considerarne il repertorio, che comprende oltre alla materia cavalleresca anche
1 Note sono le compagnie fondate dagli eredi di Giuseppe Colla <www.marionettecolla.org>.
2 L’Opera dei Pupi si riallaccia a un’altra forma di tradizione popolare, di origine antichissima: il cuntu, una narrazione illustrata
da gesti fatta da un cantastorie, di solito armato di una spada di legno, in prosa o in versi. In Sicilia i cantastorie sono stati
presenti fino agli anni Cinquanta e ancora oggi a Palermo questa tradizione si mantiene viva.
3 I romanzi più noti erano i romanzi popolari: la “Storia dei paladini di Francia”, “Guerrino il meschino” e “I Reali di Francia”;
altre fonti erano i poemi cavallereschi: “Orlando innamorato” del Boiardo, “Orlando furioso” dell’Ariosto e “Angelica
innamorata” del Brusantini (Sordi 1980).
4 Pasqualino (1980:223) mette in luce la portata rituale di questo genere teatrale che rende ragione dell’intensa partecipazione
emotiva che era in grado si suscitare nel suo pubblico: “La passione, e l’accanimento del pubblico tradizionale si esprimevano
anche in episodi di partecipazione paradossale degli spettatori alla rappresentazione (…) per esempio, tanti anni fa, dopo la morte
di Ruggiero assassinato a tradimento dall’odiato Gano, ho visto con i miei occhi uno spettatore togliersi una scarpa e lanciarla più
volte sul traditore. (…) spesso alla fine della 'Storia dei paladini di Francia' quando Gano veniva squartato il pubblico si
impadroniva dei pezzi del suo corpo per infierire su di essi, farli a brani e spartirseli”.
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storie di banditi, di santi, avvenimenti storici, farse, nonché, a Napoli, il ciclo della camorra e dei
guappi. L'Opera dei Pupi è oggi considerata patrimonio dell'umanità sotto l'egida dell'Unesco. In
Sicilia ne rimangono pochi rappresentanti, tra i quali spicca soprattutto, Mimmo Cuticchio, capace
di mantenere intatto l'antico fascino dello spettacolo tradizionale, pur avvicinandolo alla sensibilità
odierna.1
2.1.3.2. Burattini
Il burattino (fig. 2.8 e fig. 2.9) per Leydi (1980:16) è un “mezzo-uomo”, privo di gambe, che
“incomincia a esistere e vivere oltre i confini del ‘vero’ e del verosimile, secondo un obbligo di
fantasia che nega ogni dipendenza dai vincoli materiali e fisici del corpo umano”. Il burattino
tradizionale è fatto di legno e stracci; quello di oggi è fatto anche di materiali di recupero, poveri e
inusitati: bottiglie, latta, carta, filo di ferro, cartoni da imballaggio, scelti, ad esempio, da Otello
Sarzi e da quanti si sono dedicati alla sperimentazione.2 La testa è sproporzionata, i movimenti goffi
e approssimativi. Il teatro dei burattini tradizionale viene sviluppandosi come arte “minore” e
marginale, di carattere popolare. Per la sua semplicità di mezzi, non aveva bisogno né della
presenza di numerosi opranti, come il teatro dei pupi e delle marionette, né di un teatro dove
mettere in scena gli spettacoli, né di grandi allestimenti scenici. Spesso analfabeti, i burattinai
costruivano da soli, o con l'aiuto di qualche artigiano, i propri fantocci e la baracca e recitavano
sulla base di trame o “scenari” tramandati per tradizione orale di padre in figlio, da maestro ad
allievo.3 Spesso recitavano da soli, meglio in due; le compagnie maggiori, come la famiglia Ferrari,
potevano raggiungere i quattro membri. Lo spettacolo avveniva di solito per la via o in piazza, solo
nel caso di compagnie di particolare successo troviamo i burattini installati in un teatro. I copioni
dei burattini sono opere aperte, strutture drammatiche e narrative che per diventare spettacolo
devono necessariamente sapersi modellare sul pubblico. I repertori sono in gran parte comuni. Le
varie storie, tratte dalle fonti più disparate, vengono modificate senza remore, e arricchite dalle
varianti sedimentate nelle improvvisazioni. Poco importa che le maschere adottate abbiano volti e
nomi diversi, Arlecchino, Pulcinella, Sandrone, Bargnocla, Gioppino: il principio compositivo dello
spettacolo resta inalterato (Cipolla-Moretti 2003:66-67).4 La realtà del quotidiano entra
prepotentemente nelle trame burattinesche, proprio come il suo contrario, il fantastico, le leggende
le superstizioni. Commistione questa, tipica della cultura popolare (Cipolla-Moretti 2003:66-68).
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spesso sviluppata attraverso una “lunga e lentissima elaborazione popolare” (Leydi-Mezzanotte
Leydi 1958:16-17) che si esprime nelle fattezze, nel ritmo gestuale, nella voce, nella parlata
caratteristica (la “maschera linguistica” identificata da Trifone 2000:40), che lo rende
immediatamente riconoscibile. Pulcinella, e anche altre maschere tradizionali, parlavano attraverso
un attrezzo che rendeva allo stesso tempo irriconoscibile la voce del burattinaio e immediatamente
identificabile il personaggio rappresentato.1
Per la loro natura di oggetti inanimati, cui viene infusa “vita” dall'esterno, attraverso la mano, o i fili
che imprimono loro un movimento, marionette e burattini si sono da sempre prestati a farsi
metafora della natura dell'uomo e della sua esistenza (cfr. Allegri 2001:1076). Al di là di questa
tradizione “alta” (Allegri 2001:1077) che fa riferimento all'origine religiosa e rituale della
maschera, cui i burattini sembrano comunque essere legati (Ferrari 1963:204), le maschere sono
schematizzazioni molto lontane dalla realtà concreta, sono simulacri, immagini archetipiche che si
manifestano sotto forma di caratteri fortemente delineati, vere e proprie categorie etico-sociali o
modi di comportamento esistenziale (Cipolla-Moretti 2003:26):
(...) le marionette e i burattini appartengono alla comunicazione originaria dell'umanità, precedono ogni
discorso, che ancora molti oggi ripetono, sulle derivazioni delle forme teatrali dai riti. La marionetta e i
burattini precedono o sono contemporanei ai riti, perché sono una delle strade che l'uomo ha percorso nella
costruzione del rispecchiamento di sé fuori di sé, ovvero nella rappresentazione di un altro io.
Ecco dunque una spiegazione per l’universalità dei caratteri che troviamo nel teatro di figura
presente nei paesi più lontani. I personaggi di questo teatro - la bella, il rozzo contadino, il furbo
servitore, il vecchio avaro, il malvagio ecc. - restano pressoché invariati attraverso le culture,
connettendosi, a volte, a figure mitologiche, altre, a personaggi storici - assunti come simboli oltre
la loro realtà contingente: pensiamo alle epopee cavalleresche e a quelle popolari del Risorgimento,
agli spettacoli sui briganti o ispirati a episodi di cronaca nera. Non può esistere dunque teatro dei
burattini che prescinda dalla presenza delle maschere. Ciò è dovuto alla natura stessa di questo
spettacolo, lontano dalla riproduzione del vero, e teso a rappresentare gli elementi universali e
immutabili della natura umana nei suoi rapporti con il potere sociale e con l’aldilà. Accanto alle
maschere troviamo infatti inevitabilmente la Morte, il Diavolo e il Frate, rappresentanti della legge
divina, e il Carabiniere, rappresentante di quella umana. E la sorte che tocca loro, di ricevere in ogni
spettacolo una buona dose di legnate, è sintomatica del rapporto che i burattinai e il loro pubblico
avevano con la giustizia umana e oltremondana.
La maschera manifesta dunque il carattere universale dei burattini e rappresenta una base comune
tra la cultura degli apprendenti e dell'insegnante. I burattini sono per questo un buon punto di
partenza per la costruzione di una storia e la definizione dei caratteri. Grazie alla presenza di una
solida e semplice struttura narrativa e a tratti culturali condivisi, costruire uno spettacolo coi
burattini partendo dall'improvvisazione o dalla creazione di una storia da parte degli studenti si
rivela più immediato che col teatro di attori (§ 3.3).
Il burattino, per le sue caratteristiche di semplicità e facile manovrabilità, “si radica nell'identità
popolare della comunità, esprimendone caricaturalmente le tradizioni e passioni” (Allegri
soprattutto nelle province di Bergamo e Brescia; Sandrone, rozzo contadino modenese, ignorante ma pieno di buon senso, opera
di Luigi Campogalliani; Fagiolino, il “ragazzo di strada” bolognese che fece la fortuna del suo inventore, il burattinaio Cavazza
e, dopo di lui, di Filippo e Angelo Cuccoli; Sganapino, creato da Augusto Galli, come spalla di Fagiolino; Rugantino, principale
maschera della tradizione romana (il cui nome deriva da “ruganza”, arroganza); e ancora il romano Cassandrino, che mette alla
berlina la Roma pontificia; il veneto Facanapa, il bolognese Spadac, creato da Angelo Cuccoli nel 1870, e infine Stenterello
creato probabilmente, fuori del casotto, da Luigi del Buono alla fine del Settecento. Deriva il nome dalla corporatura stenta, secca
e allampanata del suo ideatore. Nel XX secolo abbiamo invece Bargnocla, creato nei primi anni trenta da Italo e Giordano
Ferrari, che rappresenta la plebe parmigiana ed è caratterizzato da un grosso bernoccolo sulla fronte.
1 Tutte le maschere simili a Pulcinella, che troviamo sparse tra l'Europa e l'Asia, pur cambiando aspetto, conservano la stessa voce
ottenuta con uno strumento del quale i burattinai napoletani tengono gelosamente segreta la fattezza: la “pivetta”. In India vi sono
rappresentazioni di marionette dove le voci sono ottenute con lo stesso strumento e rappresentano le voci degli dei; in persiano il
suo nome è “saphìr”, “respiro” o “anima”; anche nel Mali e in Nigeria le marionette parlano con le stesse voci ottenute con
strumenti simili (Leone 1986:40).
40
2001:1080) venendo a formare, parallelamente al quella “alta”, una tradizione “bassa”, di popolare
e grossolano spettacolo di piazza, dove tuttavia “non muta la tipologia del personaggio fisso e
l'insediamento nei valori della comunità di riferimento, sempre al sevizio di una comicità grottesca
e molto fisica, il cui climax è costituito dalla liberatoria scarica di bastonate” (Allegri 2001:1081)
(fig. 2.10). Questo fa sì che in ogni luogo e in ogni epoca dove questo tipo di spettacolo si è
affermato, esso venga a mettere in scena le caratteristiche di quella comunità. In Italia le maschere
dei burattini testimoniano uno stretto legame con la Commedia dell'Arte.1 Molti studiosi infatti
sostengono una linea di continuità diretta tra queste due forme di spettacolo (mentre le maschere
presenti negli spettacoli per marionette avrebbero la stessa funzione che assumono nelle prime
commedie di Goldoni) (cfr. Leydi-Mezzanotte Leydi 1958; Melloni 1980; Malamani 1987; Cipolla-
Moretti 2003). Fino alla fine del Settecento troviamo in effetti le maschere attive sia nel teatro di
attori che nei casotti di burattinai, ma in seguito alla crisi delle maschere tradizionali (dovuta alla
riforma giacobina che proibiva di indossare in pubblico la maschera nera) il repertorio della
Commedia dell’Arte rimane confinato ai casotti dei burattinai, giungendo in molti casi fino a noi.
“Per questo possiamo affermare con tranquillità che lo studio del repertorio del teatro di animazione
è anche un contributo per la conoscenza della Commedia dell’Arte” (Melloni 1980:23). Sia il
collegamento con questo particolarissimo genere teatrale, noto in tutta Europa, che la
caratterizzazione regionale delle maschere, rappresentano una risorsa preziosa per la didattica
dell'italiano a stranieri. Comprendere il teatro dei burattini significa infatti toccare con mano una
differenziazione storica, culturale e linguistica che influenza ancora largamente il modo degli
italiani di mettersi in relazione tra loro, di valutare gli altri e di valutarsi in rapporto alla
provenienza geografica.
2.1.3.4 Il repertorio
Il teatro dei burattini è un linguaggio, più che un repertorio. Lo stile prescinde dai contenuti dello
spettacolo. Ciò che conta, in primo luogo, non è tanto la narrazione, lo svolgimento della fabula,
che risulta spesso frammentaria o illogica, quanto il modo in cui questa viene condotta. La trama
segue i principi dell’allineamento dei motivi, dei nuclei semantici, ignorando lo svolgimento di un
motivo nell’altro lungo la struttura complessa della narrazione: “le opere folkloriche si costituiscono
per agglomerato, per assemblaggio (…) di dettagli, di nuclei semantici autonomi, che possono
anche essere disomogenei” (Allegri 1978:69). Come nella fiaba ciò che resta invariato è la
“funzione” che un personaggio e un motivo svolgono nell’economia della narrazione (cfr. Propp
1928/1966). Il risultato è una costellazione di frammenti che non si perita di nascondere le “fessure
semantiche” che si determinano inevitabilmente nella giustapposizione degli elementi. Ciò vale
naturalmente per la maggior parte delle opere di burattini, che sono quelle che non ci sono
pervenute se non per accenni. Le opere più recenti, salvo qualche rara eccezione, hanno per lo più
subìto rimaneggiamenti, fatti nel tentativo di ricondurle a unità tematica e di adeguarle a un genere
teatrale “alto”.
Possediamo ancora pochi documenti che ci permettono di conoscere il repertorio dei burattini, rare
e preziose trascrizioni di spettacoli registrati dal vivo o trascritti a memoria da appassionati e
studiosi arrivati, purtroppo, tardi per sottrarre all’oblio se non una minima parte di un grande
patrimonio culturale. “E’ dunque assai difficile tentare un discorso, anche sommario ed essenziale,
sui generi, le forme, gli indirizzi e le derivazioni dirette del teatro dei burattini” (Leydi-Mezzanotte
Leydi 1958:50). Sappiamo che molti dei canovacci della Commedia dell’Arte sono confluiti nei
casotti dei burattinai, con tutto il repertorio di temi come scambi di persona, sdoppiamenti, amori
ostacolati, travestimenti e riconoscimenti.2
1 “(...) occorre ricordare che esiste anche una maschera dell'Arte che si chiama Burattino, da cui non è escluso che i burattini
abbiano preso il nome” (Allegri 2001:1080).
2 Per comprendere la varietà di questo repertorio, può essere interessante scorrere alcuni titoli presenti alla mostra tenutasi a
Milano nel 1980 (AAVV., 1980). Locandine appartenute alla famiglia Preti: “Aida”, “Lo scudiero della Principessa di Navarra”
in 4 atti seguito dalla farsa di “Sgorghiguelo e Sandrone in America”; “Gustavo Wasa Re di Svezia”, dramma in 4 atti seguito
41
Prescindendo dalle trame delle opere famose, spesso tragiche, o dai copioni della Commedia
dell’Arte ai quali i burattini attingono, cerchiamo di individuare alcuni temi ricorrenti e comuni se
non a tutti, almeno alla maggior parte degli spettacoli. Il primo e forse più caratteristico è quello
della giustizia sociale. A questo tema si connette il già citato e onnipresente tema del conflitto con il
potere, sia esso rappresentato dall’austriaco o dal Borbone, dallo Stato unitario o dalla Chiesa. La
ribellione contro l’ingiustizia e l’arroganza del potere costituito, si amplia e si collega al tema della
morte beffata e della sconfitta della morte o del diavolo che compaiono puntualmente nello
spettacolo di Pulcinella, assumendo spesso toni di inusitata violenza.
Bruno Leone (1986:39) così riassume la “morale “ delle guarattelle appresa dal suo maestro Nunzio
Zampella:
Pulcinella è l’uomo di tutti i giorni che cerca di sopravvivere, ma sopravvivere per lui non è continuare a
vivere male, com’è per l’uomo comune, ma vivere meglio, al di sopra della propria condizione, sconfiggere il
potere, la prepotenza e soprattutto la morte, che nessun uomo ha mai potuto sconfiggere. Pulcinella nel suo
rapporto con la donna (con la quale inizia e termina ballando ogni spettacolo) rappresenta la vittoria
dell’amore, della vita sulla morte e su tutte quelle cose che angustiano la vita dell’uomo.
Altri temi sono tratti dai casi della vita, dai fatti locali e di cronaca, dalle burle realmente accadute,
dai quali i burattinai traevano continuamente spunto facendo, dell’osservazione del prossimo, parte
essenziale della loro professione.
Alcuni temi costanti, affidati alle maschere, si ricollegano ai bisogni primari dell’essere umano,
ovvero alle sue necessità corporee: il mangiare, in primo luogo, che potremmo definire il motivo
martellante e il tormentone del teatro dei burattini, almeno quanto doveva esserlo la fame per la
maggior parte dei burattinai. Una delle maschere emiliane, fagiolino, non sogna che due cose:
tagliatelle buone e giustizia per tutti: e la giustizia, consiste in un’equa distribuzione delle tagliatelle
(Leydi-Mezzanotte Leydi 1958:489-490). Abbiamo poi il bere, per cui il rozzo contadino Sandrone
è capace di comporre addirittura versi poetici (Brizzolara 1975:15). Abbiamo l’indecenza
scatologica, onnipresente negli spettacoli di Pulcinella, per cui “o recipiento notturno” fa da
protagonista in “'Na nuttata ‘e guai”, di Pasquale Ferrajolo (1993:7-14) come “'Na purga ‘e sale
inglese” (e le sue indesiderate conseguenze) (Ferrajolo-Ferrajolo 1993:15-24) dà addirittura il titolo
a una commedia dei figli di Pasquale: Francesco e Salvatore. Abbiamo infine le allusioni e i doppi
sensi sessuali, per le quali possono essere allargate le considerazioni che Silvio D’Amico (1982: II,
187-188) scrive riferendosi agli attori della Commedia: “grandissima parte della loro comicità
contava esclusivamente sui doppi sensi peggio che grossolani, su facezie da trivio, su allusioni
immonde o addirittura su rappresentazioni di fatti osceni e ripugnanti” e ne trova una spiegazione
nel fatto che “la Commedia era considerata, non come lo specchio della vita, ma come una
costruzione di vivace artificio, assolutamente estranea ad essa, e fuori dalle sue leggi, anche
morali.”
dalla farsa “Sgorghiguelo servo di 3 padroni”; “Pia de’ Tolomei”; “Giulietta e Romeo”; “Attila, flagello di Dio”; “Rodolfo, ossia
il brigante generoso”; “Lucia di Lamermoor”; “Gli Italiani alla conquista della Libia”. Copioni della famiglia Cuccoli: “Guerin
Meschino”; “Commedia a testamento della vecchia Pulidora”; “La nascita di Faggiolino all’Isola del Sole”; “Le streghe di
Benevento”. Il repertorio dei Cuccoli è uno dei pochi arrivato completo fino ad oggi, conservato presso la Biblioteca Comunale
di Bologna e in parte riportato da Leydi-Mezzanotte Leydi (1958). Della tradizione emiliana, copioni di Italo Ferrari si trovano in
Castellino-Ferrari (1936); altri copioni sono in Brizzolara (1975) che ha scritto alcune commedie sempre ispirate all’opera di
Ferrari. Capellini (1977) fornisce notizie sulla tradizione lombarda di Gioppino. Alcuni manoscritti e scenari di maestri burattinai
a partire dal 1600 si trovano a Bologna presso l'“Archivio del Teatrino dell'ES” di Vittorio Zanella (<www.teatrinodelles.com>),
al “Museo Giordano Ferrari” a Parma (<www.comune.parma.it/castellodeiburattini>), al “Museo dei Burattini e delle Figure” di
Cervia (<www.arrivanodalmare.it>). Quanto alla tradizione napoletana l’associazione “I Teatrini” ospita il “Centro per la
Ricerca e la Documentazione sul teatro d’Animazione in Campania” (<www.iteatrini.it/brunoleone.htm>). Delle guarattelle
napoletane possediamo ancora qualcosa, grazie alla preziosa opera di conservazione e ricerca effettuata da Aldo de Martino
(1992, 1993), coordinatore del “Centro per la Ricerca e la Documentazione del teatro d’animazione in Campania”: quest’ultimo
ha pubblicato parte del repertorio della Famiglia Ferrajolo e recuperato, grazie alla memoria dell’oprante di pupi Michele
Sarcinelli, testi del guarattellaro Zì Luigi, di Castellammare di Stabia , attivo fino agli anni ’40 (De Martino, 1992: 9-26). Bruno
Leone (1986) ci ha lasciato invece la fedele trascrizione di un classico napoletano, il già citato Nunzio Zampella, l’opera del
quale è rinvenibile anche in De Simone (2003).
42
Abbiamo infine i lazzi, derivati direttamente dagli spettacoli della Commedia dell’Arte, espressione
di un’aggressività verbale legata a un’incoercibile aggressività fisica e a scene di violenza corporea.
Com’è noto esistevano veri e propri repertori di lazzi, ai quali i commedianti a corto di risorse
potevano attingere. Nel teatro dei burattini sono rappresentati da fughe e nascondimenti, dalle botte
e soprattutto da rumori, urla, esclamazioni o pernacchie variamente modulate. Ecco Pulcinella nella
fedele trascrizione della famosa “Scena dell’impiccagione” di Nunzio Zampella (Leone, 1986:80) in
cui convince il boia a infilare la testa nel cappio al posto suo (per poi tirare la corda):
PULCINELLA “Aaaaaaah! T’aggie fatt’ fess’! Prrrrrr! A facc’ e pat’t’ va! Vien’ ccà, vien! Taraaaa taraaaa
parapapaaa parapapaaa, e uno, e due, e tre! Brrrrr…..
43
(Cipolla-Moretti 2003:188-190).
Nel 1980 due grandi mostre, “Burattini marionette e pupi” al Palazzo Reale di Milano e “Burattini e
marionette in Italia dal Cinquecento ai giorni nostri” a Roma gettano un ponte tra passato e
presente.
Dalla metà degli anni Settanta il teatro di figura si sviluppa in maniera esponenziale.1 Le compagnie
si moltiplicano anche grazie alle famiglie di tradizione che aprono nuove strutture d'impresa come
le marionette dei Colla, i burattini emiliani di Romano Dainelli, il “Teatro del Drago” della famiglia
Monticelli, la famiglia Ferrari, Mimmo Cuticchio che, come abbiamo visto, ha dato vita a una una
nuova drammaturgia per i pupi. Iniziano i festival, primo fra tutti “Arrivano dal mare!” di Cervia,
che da 28 anni si pone come punto di riferimento delle realtà esistenti.
Molte compagnie, anche storiche, hanno riadattato i propri spettacoli a un pubblico infantile,
riproponendo il repertorio fiabesco, anticamente presente sia nelle marionette che nei burattini. Una
scelta di questo tipo è stata fatta da I Pupi di Stac, fondati da Laura Poli e Carlo Staccioliche
rivisitano la tradizione favolistica toscana. Altre compagnie, producono spettacoli di propria
invenzione o si riallacciano a opere di autore. La tradizione napoletana delle guarattelle2 è stata
rinnovata da Bruno Leone, Gaspare Nasuto e Luca Ronga. Interessanti sono anche gli spettacoli di
contaminazione con le tradizioni extraeuropee.3
2.1.3.6 La lingua
È possibile ricondurre le caratteristiche della lingua del teatro dei burattini a quelle della lingua
teatrale in generale? Se la lingua teatrale getta un ponte tra cultura scritta e cultura orale trovandosi
a condividere lo spazio comune tra lingua letteraria e lingua parlata (§ 2.1.1.2), cosa dire di una
forma teatrale portata avanti per lo più da illetterati, se non da analfabeti, che, nelle sue forme
classiche, non ricorre che eccezionalmente alla scrittura?
Abbiamo identificato nella maschera e nella “maschera verbale” la cifra stilistica dei burattini. La
stilizzazione dei tratti, la “materia prima” dell’opera burattinesca, ne caratterizza anche la lingua.
Non troveremo il declamato oratorio prossimo al “parlato-scritto” ma la sua stilizzazione
parodistica nella lingua “dotta” e latineggiante con cui si esprime di solito il Dottore. Sbaglieremmo
nel credere di trovare nei casotti esempi di “parlato-parlato”, simulato nel teatro di attori dal
“parlato-recitato”: la lingua dei burattini non è più vicina allo scambio comunicativo reale della
lingua teatrale in genere, ma, se l’obiettivo della lingua del teatro è conseguire l’effetto stilistico
dell’autenticità, quello del teatro dei burattini è conseguire l’effetto dello straniamento.
Quanto alla scelta della varietà linguistica, anche i burattini devono risolvere il problema della
variabilità diatopica, con la quale è costretta a confrontarsi, data la situazione linguistica della
penisola, tutta la lingua del teatro (cfr. § 2.1.1.3). Coerentemente alla sua filiazione dalla Commedia
dell'Arte, resta ancora oggi un teatro tendenzialmente multilingue. Si trova pertanto a subire la
pressione di due istanze tra loro difficilmente conciliabili: da un lato i personaggi tradizionali, legati
alle proprie origini regionali e al proprio ruolo sociale, devono essere immediatamente identificabili
usando una lingua marcata a livello diastratico e diatopico; dall'altro devono rendersi comprensibili
1 Attualmente ci sono oltre 200 compagnie di teatro di figura, tra compagnie professionali, semi professionali e gruppi amatoriali;
110 festival e rassegne specifiche oltre a decine di corsi di formazione e scuole per burattinai. Oltre all'UNIMA, fondata da Maria
Signorelli, recentemente è nata l'associazione dei teatri di figura (ADF) che riunisce nell'AGIS le principali compagnie
professionali e familiare italiane (Giunchi 1998). Per ulteriori informazioni il sito <www.teatriniditalia.it> riporta le maggiori
compagnie di burattini e marionette attive in Italia dividendole per regione. Inoltre: <www.iteatrini.it>, <www.burattini.net>,
<www.rivistaburattini.org> e anche, <xoom.virgilio.it/magonio>.
2 Le guarattelle sono un'antica forma di teatro di burattini tipica di Napoli. A recitare è sempre un solo burattinaio e lo spettacolo
avviene per strada. Pulcinella ne è il protagonista incontrastato e la sua voce viene distorta attraverso uno strumento particolare,
la “pivetta”, che il burattinaio tiene in bocca durante lo spettacolo. Le vicende rappresentate sono formate da moduli
intercambiabili, che ogni burattinaio utilizza a seconda dell'occasione e delle reazioni del pubblico. “Pulcinella e il cane” è uno
dei moduli più noti, spesso associato a quello dell'”Impiccagione” e di “Pulcinella e la Morte”, dove Pulcinella sfugge alla legge
impiccando il boia al posto suo e trionfa nel duello con la Morte. Tutti gli spettacoli iniziano e terminano con la tarantella ballata
da Pulcinella insieme alla sua fidanzata, Teresina (Leone 1986).
3 Bruno Leone <www.iteatrini.it/brunoleone.htm> e lo spettacolo di Sergio Diotti e Luca Ronga “Ehi tu” che ha per protagonista il
persiano Mobarak, un parente stretto degli zanni e di arlecchino.
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al pubblico adattando la lingua al tempo a al luogo in cui lo spettacolo si rappresenta. Il problema
era già presente agli attori della Commedia: sappiamo che anche alcuni zani usavano un dialetto
diverso da quello di origine delle maschere. Certo, in Emilia, Sganapino non può che parlare in
dialetto e il Pulcinella delle guarattelle in napoletano. Ma Arlecchino, di origine bergamasca,
quando si naturalizza a Venezia, cambia il dialetto in quello veneziano; Gianduja a Torino, perde
l’idioma campagnolo e acquista quello urbano della capitale del nuovo Regno, e il Pulcinella della
terza generazione dei Ferrajolo, che si ispirano al teatro comico napoletano, adotta una varietà
regionale pan-italiana. Questo virare dei dialetti verso le varietà regionali, se non l’italiano standard,
è un fenomeno inevitabile per l teatro in genere e a maggior ragione per i teatro dei burattini. Man
mano che viene meno il code-switching tra dialetto e italiano letterario, acquista maggiore
importanza la variabilità sull’asse diafasico, che può, negli spettacoli moderni, comprendere gerghi
giovanili, italiano popolare, standard, burocratico o aulico-formale. Sono presenti oggi, come una
volta, anche stilizzazioni di lingue straniere: se una volta trovavamo lo spagnolo maccheronico del
Capitano, oggi è più facile imbattersi in un cinese o in un burattino “extracomunitario”.
Il linguaggio dei burattini ci dà dunque esattamente la misura del livello accettabile di
contaminazione tra dialetti e italiano medio. Prendiamo tre spettacoli di guarattelle napoletane, un
genere teatrale altamente codificato, riproposto secondo moduli sostanzialmente identici oggi sia da
un guarattellaro napoletano “doc” come Gaspare Nasuto, che da un epigono emiliano come Luca
Ronga, e mettiamo a confronto il parlato presente in questi spettacoli con uno spettacolo di Nunzio
Zampella, uno degli ultimi guarattellari tradizionali che ha operato a Napoli nel dopoguerra fino
all'inizio degli anni Ottanta.1 Avremo l'esatta misura del percorso compiuto dal dialetto verso lo
standard e del limite in cui il dialetto si trasforma in varietà regionale, fortemente connotata, ma
ancora comprensibile nelle altre regioni d'Italia. Il limite superiore, varietà regionalmente marcata
ma molto vicina all'italiano medio, sarà dato da Luca Ronga, di padre napoletano ma nato e
cresciuto in Emilia Romagna che ha imparato a fare le guarattelle alla Scuola per Burattinai di
Cervia; il limite inferiore sarà dato dalla recitazione di Gaspare Nasuto, giovane guarattellaro che ha
assimilato l'antica arte “per strada” come da generazioni è sempre avvenuto a Napoli. 2 Ecco la scena
esilarante in cui Pulcinella cerca di ammansire il cane3 apparso improvvisamente sulla ribalta
accarezzandolo e parlandogli in modo suadente. Nella versione di Zampella (De Simone 2003:29):
PULCINELLA 'O piccerillo
'O patrone te vo' bbene
'O patrone t'accat....[ta]
e in quella di Ronga:
PULCINELLA Bravo bravo... hê hê hê hê hê hê hê!
È bravo ...
E bravo a' papà.
E bravo a' papà.
Entrambi i burattinai attingono al registro familiare e “infantile” rivolgendosi al cane come se fosse
un bambino (“'o piccerillo” di Zapella che viene reso con “a' papà” da Ronga). Si nota tuttavia la
1 Le citazioni di Pulcinella e il cane sono tratte dallo spettacolo Pulcinella a quattro mani di Luca Ronga e Gaspare Nasuto,
registrato in occasione del seminario internazionale, La drammaturgia del pollice opponibile, ovvero le mani, radici comuni del
teatro dei Burattini, Cervia (RA), il 6 maggio 2006. Altre citazioni di Gaspare Nasuto sono in parte tratte da uno spettacolo di
piazza che ha avuto luogo sempre a Cervia dal titolo Pulcinella e l'asino del diavolo e dallo spettacolo Pulcinella di mare
registrato da chi scrive il 30 luglio 2006 al Sangiacomo Puppet Festival a San Giacomo di Roburent (CU). Quanto alla versione
di Pulcinella e il cane di Nunzio Zampella, è tratta dallo spettacolo registrato da Roberto De Simone a Napoli il 21 giugno 1975 e
da lui trascritto (De Simone 2003). Le convenzioni di trascrizione dei testi in dialetto si basano sulla versione di De Simone.
2 Le notizie riportate sono frutto di un'intervista fatta ai due burattinai in occasione del Sangiacomo Puppet Festival (Festival
Internazionale di teatro di figura) San Giacomo di Roburent (CU) 30 luglio-5 agosto 2006.
3 In “Pulcinella e il cane”, uno dei moduli più noti delle guarattelle (cfr. nota 2 p. 43) vede Pulcinella aggredito dal cane di un
“guappo”, uno dei personaggi con il ruolo di antagonista. In cambio della sua liberazione, il guappo chiede di essere pagato e
Pulcinella lo ripaga a “suon di legnate” uccidendolo.
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drastica semplificazione di Ronga contro il ricorso a una espressività più modulata e popolare di
Zampella.
Il cane a un certo punto spalanca le fauci e subito Pulcinella accorre a correggere l'atteggiamento
minaccioso richiudendogliela a forza. La versione di Zampella (De Simone 2003:29):
PULCINELLA 'Nzerr 'a vocca!
Ronga:
PULCINELLA M'ha attaccat' 'o vraccio!...
Se fin qui il rapporto passato-presente è prevedibile col netto orientamento del dialetto verso lo
standard, le differenze tra la recitazione di Zampella e quella di Gaspare Nasuto riservano qualche
sorpresa. Infatti Nasuto, che recita il suo spettacolo a Cervia (in provincia di Ravenna), talvolta non
sembra adattare la propria dialettofonia, se non in modo impercettibile, al giovane pubblico, il quale
tuttavia risponde perfettamente, come se questo tipo di varietà gli fosse perfettamente
comprensibile. E così il Pulcinella di Nasuto morso dal cane ricalca letteralmente le parole di quello
di Zampella:
PULCINELLA Aiutateme!
M'ha mozzecat' 'o vraccio!...
oppure, nello spettacolo “Pulcinella e l'asino del diavolo”, rappresentato sempre a Cervia, la strega
chiama il diavolo (Serpentone):
STREGA Serpento' jesce e' faccia ...
(...)
SERPENTONE Cher'è? Che vuo'? Che vai truanno?
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IL PADRONE DEL CANE Pulcinella ne n'è scappato?
Sta qua?
Sta qua?
Ciò che varia nel parlato di Ronga e Nasuto rispetto a quello di Zampella sembra essere soprattutto
la testualità, molto più frammentata quella di Zampella e tutta intessuta di onomatopee, di rime e
assonanze, di tremende minacce e di colorite ingiurie tratte dall'ampio repertorio dialettale, di cui
non abbiamo trovato traccia nel repertorio degli altri due burattinai (De Simone 2003:40):
IL PADRONE DEL CANE Scappa scappa! Carugno'!
'A paura te basta!
PULCINELLA E sso' fasule c' 'a pasta!
Consideriamo infine la crudeltà di Pulcinella nell'uccidere il padrone del cane nella versione di
Zampella (De Simone 2003:47-48):
Tale scena è del tutto assente nella versione di Luca Ronga che risolve il conflitto con un geniale,
quanto comicamente innocuo, duello alla “moviola”. Ne troviamo invece traccia in un altro
spettacolo di Nasuto, rappresentato in provincia di Cuneo, dove l'antagonista è il diavolo, cosa che
pone la violenza e la crudeltà su un piano forse più accettabile (e meno realistico):
È evidente l'adattamento ai gusti e alla lingua del pubblico che emerge da questi pochi esempi, a
conferma dell'evoluzione linguistica e culturale avvenuta negli ultimi cinquant'anni, come è
evidente l'utilità di questo tipo di teatro per una didattica della variazione (§ 2.2.1.1).
Nel teatro di figura troveremo inoltre l'uso ludico creativo e caricaturale della lingua, il gioco
linguistico, la figura retorica, che si riallacciano alla funzione pragmatica analizzata in § 2.2.2.2.
Prenderemo pertanto in considerazione alcuni artifici stilistici che, sempre presenti nel teatro
burattinesco, ne caratterizzano fortemente la lingua in direzione del comico: l’equivoco, la parodia
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della lingua, il gioco linguistico, la facezia, l'iperbole.
L’equivoco linguistico fa emergere l’ambiguità della lingua, aprendo prospettive semantiche
inconsuete, o estranee al contesto. Come esempio riprendiamo il (5) citato in §2.1.2.3.
DON PANCRAZIO Dico il mare era mosso?
PULCUNELLA No, no, nessuno l’ha toccato di là.
Una delle caratteristiche principali delle maschere è la parodia della lingua (il “parlar male”). Il
Sandrone di Italo Ferrari (Castellino-Ferrari 1936; Brizzolara 1975), non sa esprimersi che in
dialetto, e quando tenta di usare l’italiano sfodera un suo personalissimo repertorio di strafalcioni:
“Appena nascituro (nato) mi sgnaccarono dentra ‘na baracca di buratini che vagheggiava (vagava)
su e giù per il mappamondo (mondo) d’la provinzia di Modna e Rezz”. E così via con le
paraetimologie: il “ponte lavatoio”, i “villaneggianti”, “ la palla al balsamo”. Simile a questo è il
linguaggio del bergamasco Gioppino, intercalato dalla reiterata esclamazione “imbeciullo!” sempre
accompagnata da sonore testate sulla ribalta,1 come spesso anche quello del Pulcinella dei fratelli
Ferrajolo, per il quale l’automobile è un’ “automorbida”, il clacson un “pipson”, l’imbarazzo
viscerale un “materasso visceracolo” (Ferrajolo-Ferrajolo 1993:19). Nelle regole che stabiliscono la
possibilità di alterare, unire, distorcere le parole è possibile rinvenire molte regole proprie della
lingua in uso.
Il gioco linguistico rappresenta un altro tratto ricorrente, per esempio nel caso della interpretazione
letterale di un modo di dire (Ferrajolo-Ferrajolo 1993:17):
CELESTINA Il brodo lo berrai tu, a me farai due spaghetti.
PULCINELLA Due non sono pochi? Facciamo otto.
Nel dialogo col pubblico i burattinai usavano spesso la facezia, specialmente per avvisare che tra
poco il burattinaio sarebbe uscito a raccogliere le offerte. Così Zi’ Luigi (in De Martino 1992:8):
Io mi esco… vedite che bellu sole? Non facite c’appena esco vene a chiovere…oilloco… già schizzinea…2
Forte è anche la presenza delle figure retoriche come l’iperbole, l’allitterazione, la reiterazione.
Troviamo un esempio di iperbole all’inizio del dialogo prima riportato tra Pulcinella e Celestina:
CELESTINA Devi dire poche parole. Devi dire: ”Signore, chi siete, cosa volete, questa
donna appartiene a me. Uscite!”
PULCINELLA Fra quanti anni viene questo giovanotto?
CELESTINA Perché?
PULCINELLA Io per imparare tutte queste parole minimo ci vogliono quattro anni.
E ancora il dialogo tra un ben più dialettale Pulcinella e il Frate Cappuccino che cerca di accertarsi
della sua coscienza religiosa prima di impartirgli l’estrema unzione, dove l’allitterazione e la
reiterazione raggiungono un alto livello di comicità (Zampella, cit. in Leone 1986:77):
CAPPUCCINO Chi ti ha creato?
PULCINELLA Papà!
CAPPUCCINO Papà? E primm’ e papà?
PULCINELLA O pat’ e papà!
CAPPUCCINO O pat’ e papà? E primm’ r’o pat’e papà?
PULCINELLA O frat’ r’o frat’ e papà!
CAPPUCCINO O frat’ r’o frat’ e papà? E primma r’o frat’ r’o frat’ e papà?
1 Riporto queste osservazioni per aver assistito a uno spettacolo di Gioppino nel Luglio del 2002, sulla marina di San Vincenzo di
Livorno, manovrato da un burattinaio che lavorava da solo con personaggi e scenari classici.
2 “Io esco… vedete che bel sole? Non fate che appena esco si mette a piovere… ohimé… già comincia a piovigginare…”
(traduzione nostra).
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PULCINELLA O frat’ r’o zio r’o cumpar’ r’o frat’ r’o fratello e mio papà!3
Il teatro dei burattini, lontano dalle aspirazioni letterarie, utilizza abbondantemente tutti i tratti
dell'italiano dell'uso medio presenti parlato identificati da Berruto (1987) e Sabatini (1985), dei
quali faremo solo alcuni esempi:
I costrutti marcati, come la dislocazione a destra e, soprattutto, a sinistra (Brizzolara 1975:44):
SGANAPINO: Ci volevo dire che la donna ce l’ha qui al freddo, scalza, e ci ha già il rafreddore”.
E le finte riprese con funzione fàtica. Sandrone torna a casa dopo essere stato molti anni nel
lontano Oriente e incontra un compaesano (Brizzolara 1975:42-43):
Data la struttura dialogica del testo, ritroviamo la presenza di molti tratti della conversazione
comune, ma semplificati e stilizzati in modo tale da mettere in risalto l’ossatura pragmatica della
comunicazione. Innanzitutto la gestione del turn-taking, che nello spettacolo di burattini è molto
rigida e non permette la sovrapposizione, ma che, proprio per questo, va interpretata con un ritmo
preciso, né troppo lento né troppo veloce. La negoziazione dei turni viene spesso simulata nei
burattini, per esempio in presenza del tipo “balbuziente “ (la maschera di Tartaglia e molti altri) le
esitazioni del quale vengono frequentemente interpretate dagli interlocutori come cessione del turno
di parola. Dal mancato rispetto dei turni di parola scaturiscono infiniti equivoci. Pasquale aspetta lo
sposo americano di sua figlia e un esitante Pulcinella cerca il padrone dell’albergo dove dovrebbe
trovare un impiego (Ferrajolo1992a:33):
3 “CAPPUCCINO Chi ti ha creato? PULCINELLA Mio padre! CAPPUCCINO Tuo padre? E prima di tuo padre? PULCINELLA
Il padre di mio padre! CAPPUCCINO Il padre di tuo padre? E prima del padre di tuo padre? PULCINELLA Il fratello del
fratello di mio padre! CAPPUCCINO Il fratello del fratello di tuo padre? E prima del fratello del fratello di tuo padre?
PULCINELLA Il fratello dello zio del compare del fratello del fratello e mio padre!” (traduzione nostra).
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Gestire i tempi di questo intervento in maniera “realistica”, non è semplice e può servire ad
acquisire consapevolezza delle diversità culturali nell’avvicendamento dei turni.
Resta da considerare un elemento essenziale e inscindibile da quello della lingua: l'uso della voce.
Abbiamo già detto dell'importanza del ritmo e dell'intonazione per la corretta realizzazione della
forza illocutoria di un enunciato, nonché per sottolinearne la struttura sintattica. Coerentemente alle
caratteristiche delineate finora, e in mancanza di una mimica facciale o gestuale che possano
coadiuvare la decodifica degli atti, anche l'intonazione dovrà essere estremamente espressiva e
codificata. Per quanto a un parlante nativo possa sembrare naturale e spontaneo usare e interpretare
in modo appropriato i tratti soprasegmentali, per uno straniero questo costituisce oggetto di
apprendimento affatto scontato, spesso trascurato nella didattica. Afferma Sobrero (1993b: 436):
la realizzazione di un enunciato non si basa, in prima istanza, su una struttura sintattica, ma su una
struttura informativa. Ad esempio, sono i valori informativi realizzati dall’intonazione che consentono
all’ascoltatore di interpretare correttamente un enunciato (…) dobbiamo concludere che una sequenza
parlata viene prodotta – e recepita – in primo luogo come successione di unità di informazione: i fattori
soprasegmentali, cooperando all’identificazione delle funzioni informative di ogni segmento
dell’enunciato, consentono di dare una lettura pragmatica del modo in cui concretamente si realizza una
catena fonica. E consentono di risalire all’intenzione del locutore (…).
Ma nel teatro dei burattini acquistano importanza anche il timbro1 vocale e la frequenza, dalla
quale si inferiscono l'età, il sesso, il carattere e l'umore dei personaggi. A seconda del punto di
risonanza della voce, ben noto a cantanti e attori, abbiamo una voce di testa, di gola o di petto. È
dalla caratterizzazione della voce, oltre che dai movimenti, che lo spettatore comprende
immediatamente chi sta parlando in un determinato momento sulla scena. La caratterizzazione della
voce è allora un elemento essenziale per l'identificazione dei personaggi e la comprensione del testo
teatrale. Ciò spiega perché da sempre i burattinai hanno fato ricorso a strumenti per alterare la
propria voce.
D’altra parte la fissità espressiva richiede insieme alla vivace mobilità dei personaggi anche una
velocità dell’azione che non indulge a lunghi discorsi. I dialoghi saranno allora semplici, brevi; il
monologo si ridurrà a poche battute finalizzate a ottenere la complicità del pubblico. Ancora più
importante di quello che viene detto è infatti il ritmo conferito dai dialoghi alla struttura
dell’azione.2
Volendo fare un paragone con altri tipi di testi che si avvicinano, oggi, alle caratteristiche dei
burattini, dovremmo fare riferimento a due diversi generi: il fumetto e la pubblicità. Paola Peruzzi
(2001:279) trattando dell’uso didattico delle immagini, rileva che entrambi questi generi utilizzano
“l’onomatopea, forme gergali, terminologia settoriale, dialettale, parole straniere, arcaismi e
vocaboli dotti, linguaggio giovanile, imprecazioni e insulti, neologismi”. Non per nulla uno degli
usi più antichi dei burattini li vedeva usati da ciarlatani per reclamizzare i prodotti sulla pubblica
piazza.
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passaggi dall’uno all’altro campo, sia del repertorio che degli stessi manovratori, la viva coscienza
della propria specificità ha indotto sia marionettisti che burattinai a sostenere ognuno la superiorità
del proprio genere.
Allegri (1978: 55-99) analizza approfonditamente il carattere di “subalternità” e soprattutto di
“alterità” del teatro dei burattini nei confronti del teatro di attori. La subalternità, ovvero
l'appartenenza a una “cultura subalterna”, socialmente non riconosciuta a dispetto del suo valore
artistico e culturale, è dimostrata, tra l’altro, sia dalla difficoltà di reperire testimonianze su un
fenomeno che sappiamo essere stato diffusissimo fino ad epoche non lontane, come dalla
riprovazione che troppo spesso accompagna le scarne notizie disponibili1. Tale atteggiamento non
dipende solo dal pubblico popolare, cui questo spettacolo era destinato, ma dalla sua stessa natura.
Il burattino si trova infatti, per i suoi stessi mezzi espressivi, “condannato” a cercare la sua verità
rappresentativa lungo la strada di un teatro “diverso” e “altro”, differenziandosi dal teatro delle
marionette e soprattutto dal teatro di attori.
Il teatro dei burattini si svolge, come abbiamo detto, per strada o in piazza, durante il mercato e le
feste, non ha dunque tempi o luoghi dedicati specificamente allo spettacolo. Il rapporto col pubblico
richiede la sua partecipazione, proprio come in un rito, mentre nel teatro “ufficiale” l’opera d’arte è
“altra” e separata dallo spettatore. Il teatro ufficiale è totalizzante e non ammette interruzioni,
mentre in quello di burattini, come in quello dei pupi, il pubblico può entrare e uscire liberamente
dalla rappresentazione. Se questo avviene è perché esiste una sostanziale complicità tra pubblico e
operatori del teatro, basata sul fatto che la trama è già nota agli spettatori, salvo piccole varianti.
L’intenzione costitutiva del teatro dei burattini, come per i pupi, non è infatti la novità, ma il
rispetto della tradizione, la ripetizione variata di motivi conosciuti. Se il teatro “ufficiale” vive la
dialettica tra il “gesto” - la rappresentazione teatrale - il testo - l’opera letteraria da cui la
rappresentazione ha preso forma e la “realtà” alla quale rimanda, nel teatro dei burattini il testo non
esiste e l’artificialità è talmente evidente da contrapporsi a ogni tentazione mimetica e naturalistica.
Il teatro dei burattini non è dunque “rappresentativo” (Allegri 1978:13-54) nel senso che non
rimanda a una realtà altra da sé, sia che si tratti del testo letterario, che abbiamo visto essere di
solito assente (la sua funzione è svolta dalla tradizione o dal canovaccio), che della “realtà” esterna.
Il “referente” di questo genere di teatro può essere solo l’immaginario. Inoltre il concetto di
“rappresentazione”, implica una linea di separazione, un confine netto tra chi opera lo spettacolo e
chi vi assiste. Tale confine è, nello spettacolo di burattini, particolarmente labile e indefinito: lo
spettatore partecipa sempre attivamente alla costruzione dello spettacolo, talvolta giungendo a
modificarne la trama. Pertanto potremmo meglio assumere, per il teatro dei burattini, il concetto di
“presentazione” secondo il quale il senso dell’azione teatrale non consiste in un “altro” cui fare
riferimento, ma “nel prodursi e nel costruirsi dei ‘gesti’ teatrali il cui ‘significato’ non sarà
preesistente e perciò riprodotto e rappresentato”(Allegri, 1978:31). Il gesto del burattino più che
trasmettere un messaggio ha funzione di designazione, “mostra”, ciò che intende comunicare.
Quando Fagiolino picchia il suo inseparabile bastone sulla testa di qualche nemico, per riaffermare
il diritto della giustizia, il suo gesto non rimanda a un’analoga azione ideata o avvenuta in tempi o
1 Yorick (1902:194-195), uno dei pochi storici che si è occupato del fenomeno alle soglie del XX secolo, dopo aver affermato di
volersi occupare del teatro di marionette citando gli “oltre quattrocento edifizi di marionette” diffusi sul territorio italiano nel
1884, aggiunge: “Non parlo, ben inteso, delle baracche informi, dei castelli miserabili rizzati pei trivi da un povero diavolo
burattinaio ambulante che, infilzati sulla punta delle dita due fantocci che chiamano capoccelli, trattiene sul campo delle fiere e
dei mercati una turba magna di monelli, di villani, di borsaiuoli, collo spettacolo di Pulcinella che giuoca a testate col Diavolo o
col Carabiniere. Quelli sono due volte più numerosi; giungono, partono, vengono, vanno portando seco in un sacco o in un
fagotto tutta la loro fortuna, come quel filosofo greco (…) e nessuno li conta, nessuno li conosce, nessuno si inquieta dei fatti
loro.” In questo breve brano Yorick riassume sinteticamente le caratteristiche dei burattini, per come essi si presentano agli occhi
dei contemporanei: un fenomeno “miserabile” portato avanti da “poveri diavoli”, in una sede “informe” fuori di una rispettabile
sala teatrale, in modo rozzo e primitivo per un pubblico eterogeneo. Sempre Yorick riconosce l’impossibilità di stilare un
repertorio della produzione burattinesca italiana: “Sarei pazzo, o peggio che pazzo, presuntuoso, se intendessi o volessi dare ad
intendere la possibilità di formare oggi una lista compiuta di tutte le produzioni recitate, improvvisate, giuocate dai burattini
d’Italia, fino dal loro primo apparire sulle scene d’un teatro regolare. Si capisce subito che l’impresa è di quelle da non condursi
mai a fine; specie con l’oscurità che regna su tutto quanto riguarda le figurine comiche della famiglia dei pupazzi.”.
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luoghi diversi dal palcoscenico. Più che “rappresentare” interpreta il desiderio di giustizia del suo
pubblico.
Riallacciandoci all'analisi semiotica del teatro fatta nel § 2.1.1, possiamo dire che forse solo nel
teatro dei burattini si realizza pienamente il secondo circuito comunicativo identificato da Segre
(1984:5 e 17) e Trifone (2000:11), la comunicazione tra autori-attori e pubblico, e che lo spettacolo
di burattini, ancor più del teatro di attori, si avvicina alla conversazione quotidiana. Tale atto
comunicativo è “indiretto”, perché il dialogo tra burattinaio e pubblico avviene attraverso un
medium, i burattini appunto, ma i significati sono frutto di una ininterrotta negoziazione tra tutti
coloro che vi partecipano. Per questo motivo i vari codici normalmente presenti in ogni genere
teatrale – visivo, linguistico, gestuale, musicale – interagiscono in modo particolarmente attivo
trasformandosi gli uni con gli altri.
Allegri (1978:35) individua il frequente ricorso a ciò che egli definisce “pertinentizzazione” o
contestualizzazione degli elementi scenici, possibile solo sulla base di una collaborazione attiva del
pubblico alla costruzione dei significati: un esempio ne sono i tre colpi di bastone, che nel teatro
popolare religioso avevano la funzione scenografica di cambiare il luogo dell’azione segnalando
che i pastori, dopo un lungo cammino, erano arrivati alla capanna di Betlemme. Ecco altri esempi di
Allegri:
un tratto di muro, significa diaframma dietro cui nascondersi (pertinentizzazione dei tratti dell’ “opacità”)
oppure edificio contro cui appoggiarsi e battere la testa (pertinentizzazione dei tratti della “durezza”).
Oppure ancora luogo di una demarcazione tra un dentro e un fuori (pertinentizzazione dei tratti della
“dimensionalità”), e così via.
E così il bastone può essere un’arma con cui punire l’avversario o un sostegno cui appoggiarsi, o,
ancora, un indice da puntare verso un oggetto per attirarvi l’attenzione.
Il tacito patto col pubblico, che attribuisce un significato a ogni elemento scenico, coinvolge
ovviamente anche le “figure” sulla scena, alle quali si attribuisce il ruolo di attori nell'interazione
(che avviene tra pupazzi ma anche tra i pupazzi e il pubblico). Affinché un pupazzo di pezza
oppure, come avviene nel teatro di oggetti, un bricco da caffè o un cucchiaio di legno divengano
“personaggi”, le regole di questa interazione devono essere rigorosamente rispettate. Troviamo una
interessante interpretazione di questo fenomeno in Goffman (1971/2000b:79), il quale, a proposito
della struttura dello scambio riparatore, afferma che “ogni mossa [conversazionale] crea una casella
vuota (slot) nel tempo e nello spazio in modo tale che qualsiasi cosa si verifichi immediatamente
dopo può essere interpretata come derivante dalla persona a cui spetta il turno e verrà accuratamente
analizzata allo scopo di scoprire se può essere 'letta' come una replica.” Questo è il meccanismo
sfruttato dal teatro di figura, come Goffman stesso rileva nella nota relativa al testo citato:
Così quando si intende simulare un'interazione conversazionale con un giocattolo, un animale o una
marionetta, si può generare un vivace senso di partecipazione semplicemente stabilendo qualcosa di
simile a una definizione conversazionale della situazione e quindi accordare esplicitamente all'oggetto il
prossimo turno di conversazione e il compito di fornire una replica a uno scambio che rimarrebbe in
sospeso senza di esso [è il caso di pupazzi “muti” con i quali l'attore dialoga permettendo allo spettatore di
inferire le risposte dai suoi turni di parola]. Ogni mossa che viene percepita come proveniente dalla cosa sarà
quindi interpretabile come una replica, così come lo saranno le parole umane pronunciate in tono diverso e
formulate come se provenissero da essa. In realtà credo che l'interazione così vivamente percepita fra le
marionette sia dovuta meno al fatto che hanno figure umane che al fatto che presentano caselle (slots)
interattive di tipo umano. Le sequenze d'interazione creano caselle e queste possono essere efficacemente
riempite con qualsiasi cosa sia disponibile: se non si ha a disposizione una frase, andrà egualmente bene un
borbottio, e, se non c'è un borbottio, basterà una contrazione del viso”.
Dunque, per essere efficace il teatro di figura fa appello alle regole universali su cui si basa la
possibilità di comunicare tout court, ma dipende anche dal rispetto di regole conversazionali
culturalmente determinate: perché il gioco funzioni, tali regole devono essere dunque conosciute e
applicate. Proprio per l'assenza di “somiglianza” con la figura umana, la rappresentazione è efficace
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solo se vengono rispettate le regole dell'interazione reale. Se, nel recitare con i burattini insieme a
degli apprendenti stranieri, qualcosa non va per il verso giusto, perché le regole della L1 non sono
sovrapponibili a quelle della L2, ciò emergerà in maniera evidente permettendo all'insegnante di
intervenire in modo appropriato e all'apprendente di divenirne consapevole.
Concludendo vogliamo riassumere i tratti del teatro dei burattini, emergenti da questa breve
trattazione, che possono essere sfruttati per una didattica dell'italiano L2:
• caratteristiche culturali (tratti universali; riferimenti storici alla Commedia dell'Arte e alla
cultura popolare; riferimenti culturali alle maschere regionali)
• caratteristiche linguistiche (varietà diatopiche, tratti dell'italiano dell'uso medio, tratti
dell'oralità; attenzione alla realizzazione fonica del messaggio)
• caratteristiche pragmatiche (comicità, linguaggio figurato, negoziazione dei turni, regole
conversazionali)
• caratteristiche semiotiche (negoziazione dei significati tra burattinaio e pubblico).
53
2.2 La dimensione didattica
Finora ci siamo occupati del teatro dall'interno, considerandolo come un modello di lingua e di
interazione, e abbiamo visto che esso ripropone le regole sia linguistiche che sociolinguistiche e
pragmatiche presenti nella conversazione reale. Adesso vogliamo considerare l'uso di tale modello
in una prospettiva didattica, analizzandolo più da vicino in rapporto all'apprendimento dell'italiano
L2. In tale prospettiva ci troveremo a considerare il teatro non più solo come linguaggio ma anche
come attività, processo, momento di impegno collettivo nella realizzazione di un progetto.
Nell'inserire il teatro entro l'azione didattica ci troviamo anche ad affrontare un problema
terminologico e di definizione: dobbiamo considerare il teatro un approccio, un metodo, una
tecnica? Nel porci questa domanda ci riferiamo ai tre livelli nei quali Balboni (1998:26-28) articola
la conoscenza e l'azione didattica. Secondo la definizione di Balboni l'approccio è una teoria
dell'educazione linguistica che si ricollega in modo interdisciplinare ad altre scienze teoriche;1 il
metodo è un insieme di principi metodologico-didattici che traducono un approccio in modelli
operativi; una tecnica è un'attività o un esercizio che realizza in classe le indicazioni del metodo e le
finalità dell'approccio. Secondo questa definizione il teatro non può definirsi una tecnica, caso mai è
un insieme di tecniche, alcune delle quali sono tra loro anche molto lontane. Vedremo in seguito (§
3) che il fare teatro può includere dal rilassamento alla comprensione di un testo, dalla
drammatizzazione alla sceneggiatura fino ad attività del tutto pratiche come la costruzione di un
burattino. Abbiamo qualche difficoltà a parlare di “metodo teatrale” perché la parola “metodo”
evoca l'idea di “un sistema rigido di regole che prescrivono 'come bisogna insegnare'” (Serra
Borneto 1998:17). Ogni metodo enfatizza in realtà un aspetto della didattica e dell'apprendimento a
discapito degli altri. Il fare teatro invece non ha in sé niente di rigido né di normativo, è un sistema
aperto, uno strumento che può essere usato in modi diversi all'interno di diversi approcci teorici; è
talmente poco strutturato che può accadere facilmente che sia usato “male”. Noi faremo rifermento
in particolare agli approcci umanistici e alle ipotesi interattive e socio-culturali dell'apprendimento.
Per evitare di cadere nel tecnicismo parlando di “tecnica” o nel totalitarismo del metodo, abbiamo
parlato e parleremo di “approccio teatrale” o, più semplicemente di “pratiche” o “attività” teatrali,
usando il termine “approccio” in senso debole, senza ovviamente attribuire al teatro lo status di
“teoria” né intenderlo in modo esclusivo rispetto ad altre pratiche; la nostra intenzione è solo di
indagare le possibilità aperte dal teatro, uno strumento di grande spessore pedagogico, in particolare
rispetto allo sviluppo dell'abilità di interazione orale.
Nei vari metodi di insegnamento delle lingue moderne a stranieri è stato messo talvolta l'accento
sulla dimensione della lingua come sistema formale, sviluppando in modo organico una descrizione
delle sue caratteristiche fonologiche, morfosintattiche, lessicali e semantiche (attraverso un
approccio grammaticale). In altri casi è stata data la priorità all'idea della lingua come sistema di
comunicazione, cercando di creare in classe le condizioni in cui questa divenga possibile
(orientamento adottato dall'approccio “comunicativo”). Altri hanno infine considerato il linguaggio
verbale come parte di un più ampio sistema di comunicazione, orientando la didattica verso un
approccio pragmatico e interculturale. Dalla constatazione delle molteplici dimensioni della
comunicazione e della complessità dei meccanismi di apprendimento è scaturita la crisi del
“metodo” in senso rigido. Attualmente si tendono pertanto a integrare i vari approcci, orientandosi
non più sulla materia dell'apprendimento, ma sull'apprendente, il suo “stile cognitivo”, i suoi
bisogni, che si trovano al centro degli approcci umanistici-affettivi (cfr. Serra Borneto 1998:19). Ma
anche in questo caso i presupposti teorici di partenza hanno portato la didattica in direzioni diverse.
L'insegnamento di una L2 non riguarda la facoltà del linguaggio.2 Mentre il riferimento implicito
1 Facciamo riferimento alle definizioni di Balboni anche senza condividere il suo annoverare l'educazione linguistica tra le scienze
pratiche che non sarebbero in grado di fornire spunti teorici per la ricerca.
2 Al termine “lingua” corrisponde, in linea di massima, l'idea di sistema specifico di un determinato codice verbale umano, che
rimanda da un lato alla sua realizzazione concreta nell'atto individuale, dall'altro alla facoltà di comunicare, ovvero al
“linguaggio” in senso ampio che include anche il linguaggio non verbale e i linguaggi animali. Alla voce 'linguaggio' nel Breve
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all'avvenuta acquisizione di una “L1” presente nel termine “L2” non può essere dato per scontato
(basti pensare ai bambini immigrati per i quali lo sviluppo della competenza in L1 non è ancora
completo), diamo invece per certo che qualsiasi apprendente possieda la facoltà del linguaggio.
Ovvero possiamo in prima istanza ipotizzare che la facoltà del linguaggio non sia insegnabile: di
fatto tutti i bambini normali apprendono a parlare in assenza di un insegnamento esplicito.
Tali considerazioni hanno avuto un'immediata ripercussione sul versante della didattica delle L2
dove il problema si è posto nei termini seguenti: se il bambino acquisisce la lingua materna
semplicemente attraverso l'esposizione a un input linguistico di qualche natura, in grado di mettere
in moto in lui un meccanismo di ricostruzione attiva della grammatica della lingua, in che cosa
consiste l'insegnamento/apprendimento di una L2? In altre parole, l'apprendimento della L2 segue
lo stesso percorso dell'apprendimento della L1? Dopo l'età critica, fissata orientativamente verso i
13 anni, si nota un rallentamento dei processi inconsci di ricostruzione della lingua. Dobbiamo
ipotizzare che nell'adulto i percorsi di apprendimento coinvolgano risorse diverse? Quali di queste
risorse può essere utile stimolare per una didattica più efficace? In assenza di una risposta certa e
definitiva a queste domande l'intervento didattico, potrà divergere a seconda che si ritenga che
l'input comprensibile rappresenti la condizione necessaria e sufficiente per l'acquisizione della L2
(L2=L1), oppure si ipotizzi l'utilità e la necessità di ricorrere anche ad altre strategie, come la
produzione di output, la negoziazione dei significati e una riflessione metalinguistica esplicita
(L2≠L1). Le ipotesi interazioniste, che prenderemo in esame nel § 2.2.1.2, vanno in direzione della
seconda ipotesi. Esse hanno il pregio di riconciliare le opposte visioni delle ipotesi costruttiviste e
cognitiviste, che pongono l'accento, le une sulla influenza dell'ambiente sull'apprendente, le altre
sulla sua capacità di auto-organizzazione. In una prospettiva interazionista il compito della didattica
è da un lato fornire un input adeguato in grado di attivare l'evoluzione dell'interlingua verso la
lingua target, dall'altro creare le condizioni ottimali perché l'apprendente possa appropriarsi del
nuovo sistema di comunicazione. Ciò significa eliminare gli ostacoli emotivi, cognitivi, ambientali
che impediscono il processo di appropriazione della lingua da parte degli apprendenti; significa fare
della classe un luogo di socialità e di produzione di lingua; significa lavorare sulla motivazione.
L'enfasi sulla partecipazione attiva dell'apprendente al processo di apprendimento si è espressa
nell'approccio orientato all'azione, teorizzato nel QCE, nella didattica per compiti e nella didattica
per progetti.
I diversi approcci che abbiamo citato implicano il ricorso anche a tecniche didattiche diverse. Nel
caso di un approccio formale, l'attenzione viene posta soprattutto sulla lingua scritta. Negli altri
approcci l'accento viene posto sulla lingua orale della quale si riconosce la priorità (§ 2.1.2).
Tuttavia, come molti insegnanti sanno, gestire l'oralità, soprattuto nell'interazione faccia a faccia tra
più partecipanti, è uno degli obiettivi più difficili da raggiungere per un apprendente straniero.
Abbiamo visto che l'interazione orale viene considerata come un fenomeno primario dalle scienze
linguistiche. Lo stesso avviene nell'ambito degli studi sulla didattica delle lingue a stranieri “in
considerazione del fatto che essa riveste un ruolo centrale nella comunicazione” (QCE 2002:18).
L'attività di interazione si trova anche al centro dell'approccio comunicativo. Balboni (2002:113-
114) identifica l'interazione col “saper parlare” e la considera, insieme alla lettura, l'abilità
linguistica più rilevante nella società contemporanea.1 Balboni sembra riferirsi all'interazione orale,
mentre il QCE definisce l'interazione “uno scambio orale e/o scritto” al quale partecipano almeno
due persone “alternandosi nella produzione e nella ricezione che, nella comunicazione orale,
possono anche sovrapporsi”. Tuttavia anche qui si considera l'interazione preferenzialmente affidata
dizionario di linguistica, (Casadei: 2001) troviamo “l'insieme dei fenomeni di comunicazione che avvengono nel mondo
animale” ovvero “la capacità di comunicare usando un codice”. Raffaele Simone (1976) sulla base di questa accezione sostiene
che un'educazione linguistica orientata sul linguaggio consente forme comunicative non veicolate unicamente dalla parola.
1 Per l'oscillazione terminologica tra “abilità” e “attività ” cfr. Vedovelli 2002:44.
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all'oralità come si evince dall'analisi operata dal QCE (2002:18): “Anche quando i turni di parola
vengono rigorosamente rispettati, chi ascolta solitamente sta già anticipando il resto del messaggio
del suo interlocutore e preparando la risposta. Imparare a interagire comporta quindi qualcosa di più
che imparare a comprendere e produrre enunciati”. Evidentemente l'anticipazione del messaggio
appartiene più alla lingua orale che a quella scritta, dove il tempo della ricezione e dell'elaborazione
della risposta, persino nelle forme di scrittura che si avvicinano di più al parlato come la chat, è
maggiormente dilatato. Lo stesso testo che, scritto, può essere facilmente compreso e analizzato, nel
momento in cui si presenta nell'interazione orale spontanea, può presentare imprevedibili difficoltà
dovute al “rumore” di fondo, alla pronuncia, all'intonazione, all'interpretazione dei tratti
soprasegmentali, alla rapidità tipica dello scambio comunicativo orale. Le competenze implicite in
questa abilità sono considerate nel QCE oltre che propriamente linguistiche, di carattere pragmatico,
ovvero richiedono la capacità di adattarsi al contesto (competenza discorsiva), di adattarsi alla
realizzazione delle funzioni comunicative (competenza funzionale) e di seguire dei 'copioni'
interazionali e transazionali (competenza di pianificazione) (QCE 2002:150).
Anche Balboni elenca a più riprese le competenze in gioco in questa attività, facendo riferimento
alla dimensione pragmatica della comunicazione: chi dialoga deve tener conto di specifiche
componenti testuali come problemi di coerenza (non contraddizione), regole socioculturali (turn
taking), scelte socioliguistiche (varietà regionale, standard, registri, ecc.), scelte paralinguistiche
(intonazione, tono di voce, velocità di eloquio), strategie pragmatiche (forza illocutiva esplicitata o
implicita) (Balboni 1991:49). A queste si aggiunge la conoscenza degli script o “copioni
situazionali” (nel QCE inclusi tra le competenze di pianificazione), la capacità di interpretare le
intenzioni e la strategia degli interlocutori per cercare “un punto di accordo, di mutua soddisfazione
in cui entrambi raggiungono i propri scopi”. Anche secondo Balboni sono comunque l'integrazione
e la simultaneità di comprensione e produzione che fanno dell'interazione una delle abilità più
difficili da sviluppare e padroneggiare (Balboni 2002:113-114). Vedovelli (2002a:45-46), sempre
attribuendo maggior peso all'interazione orale rispetto a quella scritta, ne contesta l'autonomia dalle
abilità di produzione e ricezione postulata dal QCE: se poniamo come oggetto dell'attività di
interazione non i singoli enunciati, che secondo l'interpretazione del QCE costituirebbero l'attività
di interazione, ma ciò che lo stesso QCE pone come unità segnica fondamentale, ovvero il testo,
comprendiamo come esso sia l'oggetto sia della produzione che della ricezione, e non solo
dell'interazione. Vedovelli suggerisce dunque che la distinzione fondamentale vada fatta, non tanto
tra produzione e ricezione, quanto tra i generi del discorso, frutto sempre di produzione
comunicativa, in relazione alla monodirezionalità o alla bidirezionalità dei flussi. L'osservazione di
Vedovelli ci appare particolarmente pertinente, in quanto credere di poter distinguere ed esercitare
autonomamente le abilità di produzione, comprensione e interazione orale ci sembra fuorviante
nella pratica didattica e rischia di imbrigliare l'azione dell'insegnante e la possibilità di espressione
degli studenti entro schemi troppo rigidi e poco produttivi.
Ciò che appare essenziale, in questa disamina, non è tanto l'apprendimento di una presunta abilità di
“interazione”, distinta da altre abilità, come la produzione o la comprensione, quanto l'accento posto
sulla dimensione del parlato, in particolare del genere di parlato più naturale ma più complesso: il
parlato conversazionale o dialogo, nella forma di interazione con presa di parola libera faccia-a-
faccia.1 Secondo il QCE, come abbiamo visto, la difficoltà principale dell'interazione consisterebbe
nella necessità di processare il messaggio dell'interlocutore mentre contemporaneamente si progetta
la propria risposta. Secondo noi questa difficoltà, di carattere propriamente linguistico, va a
sommarsi al fatto che il dialogo esige il dominio “automatico” di tutte le competenze linguistico-
comunicative (sociolinguistiche, linguistiche, pragmatiche) nonché degli aspetti non-verbali della
comunicazione, inevitabilmente presenti nella comunicazione in presenza; richiede inoltre di
1 Facciamo riferimento alla classificazione dei cinque generi del parlato individuati da De Mauro (De Mauro et alii 1993:39-41):
A. bidirezionale con presa di parola libera, faccia a faccia; B. bidirezionale con presa di parola libera, non faccia a faccia; C.
bidirezionale con presa di parola non libera, faccia a faccia; D. unidirezionale in presenza del/i destinatari; E. unidirezionale a
distanza o differito su testo non scritto.
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dominare e integrare una lingua che, quando adotta varietà familiari e colloquiali, presenta spesso
tratti di trascuratezza, ellissi, creatività; una lingua che non sempre è coerente nella forma e
costringe l'interlocutore a continui salti concettuali.
Data l'importanza della dimensione dialogica, all'insegnante di italiano a stranieri spetta il compito
di favorirne l'apprendimento. Egli ha a sua disposizione svariate tecniche e attività. Balboni
(1991:50-51) ne cita circa 6:
• drammatizzazione (recitazione letta o memorizzata di un testo dialogico allo scopo di
fissare le espressioni che realizzano i principali atti comunicativi);
• dialogo a catena (dialogo iniziato dall'insegnante che viene continuato rilanciando la
domanda al successivo studente);
• dialogo aperto (ricostruzione delle battute di un dialogo di cui si dispone solo della parte di
un interlocutore: l'attività è di solito svolta per iscritto, in quanto richiede di conoscere in
anticipo tutte le battute, che sono già fissate, per salvaguardare la coerenza e coesione del
testo finale);
• role-taking, (assumere ruoli già previsti in situazioni ascoltate introducendovi piccole
modifiche);
• role-making (reinterpretare situazioni in base a ruoli stabiliti).
• roleplay (ricostruzione di un dialogo in base a una situazione).
In un saggio posteriore (Balboni 1998:53-64) vi aggiunge anche lo “scenario” di Di Pietro (1987),
di cui parleremo in seguito, che riveste per noi importanza particolare in quanto consiste nella
rappresentazione di un piccolo dramma partendo dalle indicazioni presenti in un copione le cui parti
sono distribuite tra gruppi diversi. Ciascun gruppo non è al corrente delle intenzioni comunicative
dell'altro gruppo ed esse sono di solito contrastanti.1
Tutte queste attività hanno la funzione di portare gradualmente l'apprendente ad affrontare le
difficoltà proprie dell'interazione e sicuramente presentano alcuni vantaggi. Se si escludono gli
scenari di Di Pietro, nessuna di esse riesce però a far leva sull'aspetto motivazionale né riesce, di
solito, a far vivere all'apprendente un'esperienza che possa lasciare tracce profonde. Spesso vengono
percepite come “simulazioni” e “finzioni”, cioè “teatro” nel senso peggiore della parola. Pur
presentando indubbiamente molti punti in comune, nel fare teatro in classe, l'utilizzo delle varie
tecniche assume un significato diverso e paradossalmente più “vero”, perché finalizzato a un
progetto da realizzare insieme, al centro del quale c'è la comunicazione teatrale, comunicazione che,
se se è “finzione” nell'azione scenica, certamente non lo è entro il gruppo teatrale e nel patto che
lega il gruppo teatrale al pubblico, dove entrambi sono consapevoli che la finzione scenica serve a
creare, attraverso il coinvolgimento emotivo, un'esperienza reale di significato.
Le attività citate da Balboni, come anche la classificazione dei generi del parlato presenti in De
Mauro et alii (1993:39-41), ci inducono inoltre a riflettere sul fatto che non si può operare una
distinzione netta tra le diverse modalità di comunicazione – parlato e scritto; dialogo e monologo –
e che esistono diverse gradazioni intermedie che vanno dalla già citata chat, un genere di scritto che
si avvicina al parlato, alla conferenza, un genere di parlato che si avvicina allo scritto (passando per
generi intermedi come il parlato trasmesso, la telefonata, il parlato della fiction, gli SMS sul
cellulare, e così via). Esistono dunque diverse tipologie di parlato che si dispongono su un
continuum (§ 2.1.1.2). L'insegnante di italiano a stranieri può allora predisporre con questi mezzi un
percorso che avvicini al dialogo – il genere più complesso – passando dallo scritto (più
controllabile), al monologo in terza persona, alla drammatizzazione (monologo in prima persona,
dialogo basato su un testo o un canovaccio), fino all'improvvisazione, in una progressione che ha
come meta l'interazione dialogica (§ 3.2.2).
Il fare teatro, pur utilizzando molte delle tecniche già conosciute in glottodidattica, permette dunque
di facilitare l'apprendimento giocando sul fattore motivazionale, oltre che sulla memoria,
1 A queste Balboni (2002:252-255) aggiunge in altro luogo anche la telefonata e il dialogo su chatline che rappresentano due
generi di interazione diversi da quella “faccia a faccia” con difficoltà e caratteristiche proprie.
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consentendo l'automatizzazione di una certa pratica linguistica sufficiente a “distogliere l'attenzione
dalle abilità fisiche di 'basso livello' (...), e dalle esigenze di tenere sotto controllo la correttezza
morfologica e sintattica, liberando così la mente per strategie comunicative di livello alto” (QCE
2002: 172). Le strategie di livello alto rappresentano lo spazio che il teatro lascia al desiderio degli
apprendenti di “dire” qualcosa, di inviare al proprio pubblico un messaggio che parli di sé,
attraverso un uso della lingua che recuperi la dimensione espressiva oltre a quella puramente
funzionale. Si compie così quel passaggio dall'imitazione di un modello all'espressione verbale e
non verbale di sé che rappresenta l'obiettivo ultimo dell'insegnamento/apprendimento di una L2.
1 La formula di Fesch è la seguente: F = 206 – (0,6 x S) – P, dove S è il numero di sillabe su un campione di 100 parole e P il
numero medio di parole per frase. La leggibilità è alta se F è superiore a 60, media se fra 50 e 60, bassa sotto 50.
2 Il primo brano analizzato è tratto da “Pulcinella mendicante e disperato” (De Martino 1992) e ha riportato F = 111,31; il secondo
è tratto da “Sabato domenica e lunedì (De Filippo 2007:623-787) e ha riportato F = 101,59. Riportiamo i due brani nell'ordine:
”Pulcinella, che d'è chesta borza che sta ccà 'nterra. / È 'na borza. / E chi t'a rata? / Ma tu vuo' sape' troppi ccose. / Come, tra noi
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Pirandello sarà più complesso di un brano dialogico o del dialogo tra due burattini. Resta il fatto che
la sintassi del linguaggio teatrale, avendo come realizzazione ultima la comunicazione orale,
tenderà ad evitare una complessità eccessiva, anche se questa caratteristica, a ben vedere, non è la
sola a determinare la maggiore o minore difficoltà di un testo. Infatti il QCE mette in guardia anche
contro una eccessiva semplificazione sintattica dei testi che, eliminando la ridondanza, ha l'effetto
di aumentarne la difficoltà. È il caso del parlato dialogico, che, se calcolato secondo l'indice di
Flesch ottiene risultati medio alti,1 ma che presenta altri e ben più profondi livelli di complessità. 2
Come abbiamo visto, però, il testo teatrale si allontana in questo senso anche dalla conversazione
reale. La forza del testo teatrale sta comunque nel suo uso, nell'occasione che offre di essere
recitato, ovvero nella proposta di appropriazione contenuta nella sua stessa forma testuale. Il testo
drammatico si propone sempre come compito, come azione, che può e deve essere adattato al
livello di competenza degli apprendenti. Si offre all'apprendente come opera aperta, da completare
attraverso una interpretazione o una reinterpretazione che rende l'apprendente attivo produttore di
lingua. La gestione dei testi implica, per Vedovelli (2002a:112), uno “sforzo di costruzione di
senso”, che consente qualsiasi operazione sul testo per arrivare a “ipotesi di senso condivise tra i
locutori”. Il testo non va dunque solo scelto e selezionato, ma bisogna intervenire su di esso, e nulla
meglio del testo teatrale si presta a questo scopo. La cooperazione alla costruzione di senso diviene
così il motivo portante della comunicazione didattica.
Tipologia testuale: il QCE suggerisce di valutare la familiarità che gli apprendenti hanno
coi testi che vengono loro proposti. La testualità del teatro, come abbiamo visto (§ 2.1.1.2), non è
del tutto assimilabile a quella di altri generi letterari, né a quella delle conversazione faccia a faccia,
la forma tipica dell'oralità. Lavinio (1990:78) ha dunque proposto di inserire i generi teatrali in una
nuova tipologia di testi “rappresentativi”, che include in sostanza tutte le forme che riportano il
parlato (dialogico o meno) nello scritto. Pertanto il testo teatrale, più di altri, tenderà ad assimilare
le altre forme testuali. Vi trovano spazio e rappresentanza il sermone, la lezione, il monologo, il
dialogo ecc., oltre alle categorie tipologiche universali della descrizione, narrazione e
argomentazione, rintracciabili, in misura maggiore o minore, anche negli altri tipi testuali. Afferma
Vedovelli (2002a:91) a questo proposito:
Il discorso qui riportato riguarda le tre categorie tipologiche fondamentali sopra citate, che formano
i presupposti universali della cognizione, ma può applicarsi al teatro, come forma di comunicazione
sociale e rituale universale, e al teatro dei burattini come genere che, abbiamo visto nel § 2.1.3.2,
rimanda a forme espressive forse addirittura antecedenti a quelle del teatro di attori. Gli apprendenti
amici, noi non ci dobbiamo nascondere niente. Ja! Dimme chi t'a rate. / Chi m'a rate, m'a purtata 'o riavolo. / Commo, commo, o'
riavolo? / Ma commo, tu non me crire ca m'a portato 'o riavolo? Ed io perciò nun t'o bulevo ricere, peccé 'o sapevo che tu non me
vulive credere. / E com'hê fatto, rimme com'hê fatto, accuss'ì 'o faccio pure io. / Tu nun 'o puo' fa'.” (De Martino 1992:16-17). “E
perché che ti è successo? / Non ne posso più, signo’, non ne posso più! / Figlia mia, e tu mo’ te faie veni’ na cosa. / E me
venesse, me venesse ambressa accussì fernisco ‘e suffrì. / Ma di che si tratta? Parla se ti posso aiutare lo faccio con tutto il cuore.
/ Si tratta di mio fratello. / Che ha fatto? / Stamattina si è andato a tagliare i capelli. / E perché non se li doveva tagliare? / E mo’
va carcerato un’altra volta; e fino a quando si fa la causa, va’ ti pesca chi ha torto e chi ha ragione.” (De Filippo 2007:626).
1 Abbiamo calcolato l'indice di Flesch di una breve conversazione telefonica registrata, ottenendo F = 71,5, un indice abbastanza
alto che si avvicina a quello dei testi teatrali. Riportiamo una trascrizione del testo analizzato da cui si potrà constatare che le
difficoltà del testo stanno anche nelle forme di complessità della sintassi del parlato già citate: “allora stasera? / xx, va tutto + +
tutto regolare / \L\ & ci sia +&./ &xx& allora siamo + siamo in quattordici = / = oh mio dio, e chi viene ancora? / noi+ i C[xxxx]
+ laaaaa laaa / &O [xxx]& / avevo invitato Pepxx O[xxx] + no, te l'avevo detto? / &eh& / Pepxx non viene però viene la moglie
che + che anche lei è una +una [...]” (per i criteri adottati nella trascrizione cfr. app. 2.7).
2 Lavinio (2004) distingue tra leggibilità e comprensibilità di un testo in funzione della maggiore o minore presenza in esso di
impliciti: la comprensibilità travalica dunque la superficie del testo e dipende da fattori pragmatici come il contesto
comunicativo, il grado di condivisione dei saperi, l'enciclopedia.
59
avranno modo di rintracciarvi elementi familiari, anticipandone i contenuti e le forme espressive.1
Ciò potrà rappresentare un punto d'appoggio e una base di partenza per l'azione didattica. Le
differenze che invece inevitabilmente verranno alla luce riguardo alle realizzazioni culturalmente
connotate di questo genere teatrale rappresenteranno il punto di partenza per un discorso sul
rapporto tra lingua e cultura nelle diverse società, la cui conoscenza è uno degli obiettivi dell'azione
formativa finalizzata allo sviluppo di una globale competenza comunicativa dell'apprendente.
Quanto a ciò che il QCE definisce la “natura concreta o astratta” del testo, crediamo di potervi
individuare un riferimento alla presenza o meno nel testo di una pluralità di codici, che possano
fornire appigli alla sua comprensione. Ciò sarebbe perfettamente adeguato al teatro e al teatro di
figura, che ancora una volta si rivelerebbe più adattabile alle esigenze di studenti ai primi livelli di
apprendimento.
Struttura discorsiva: anche se, secondo le formule adottate, la “leggibilità” della
conversazione spontanea come abbiamo visto è abbastanza alta, la sua struttura discorsiva non si
rivela né coerente, né ordinata. Gli atti linguistici impliciti sono più frequenti di quelli espliciti, i
salti tematici e temporali sono la regola, e questo ne fa uno fra i testi più difficili da affrontare
secondo le indicazioni del QCE. Ponendo dunque il parlato come obiettivo da raggiungere, il testo
teatrale può rappresentare la via per avvicinarsi gradatamente al dominio delle abilità interattive.
Presentazione fisica attraverso canali diversi: il QCE rileva come i testi scritti siano più
facilmente gestibili di quelli orali per la possibilità di essere processati in un tempo più lungo e per
la maggiore affidabilità del canale (assenza di rumori, distorsioni e interferenze). Ritroviamo qui la
differenza tra oralità e scrittura già analizzata (§ 2.1.1.2). Il testo teatrale si presenta attraverso
entrambi i canali. In esso le ragioni della comunicazione, che vedono il parlato, e al suo interno il
dialogo, come il genere di discorso più naturale, e le ragioni dell'apprendimento, dove lo scritto si
presta a un'analisi e a una riflessione più accurata, trovano un luogo di incontro e una possibilità
operativa: il testo scritto, può divenire oggetto di analisi per rintracciarvi la presenza dei tratti
dell'oralità; il testo recitato sarà, sia in ricezione che in produzione, un esercizio propedeutico
all'interazione spontanea; il testo “ricreato” dagli apprendenti ne sarà il banco di prova (§ 3.2.2).
Lunghezza del testo: la lunghezza non dipende dal tipo di testo affrontato, ma da
parametri interni ad esso: come esistono, nel genere narrativo, romanzi di 800 pagine e racconti di
40 righe, esistono testi teatrali di tutte le lunghezze. La scelta formale sulla lunghezza del testo da
proporre agli apprendenti dipenderà allora dal loro livello di competenza, dagli obiettivi e dal tempo
a disposizione. I testi burattineschi, per la loro struttura modulare, si prestano a essere elaborati in
un tempo minore, e sono più adatti ad apprendenti con un livello di competenza iniziale; testi più
complessi possono venir sezionati, oppure affrontati integralmente solo se il tempo a disposizione
lo consente.
Interesse per l'apprendente: il teatro è motivante. È motivante perché porta in classe i
temi e le vicende della quotidianità. Afferma Clotilde Pontecorvo (1999:35) che narrazione e
discorso quotidiano assumono un ruolo fondamentale in ogni occasione di interazione sociale,
familiare, scolastica, lavorativa; sono le narrazioni e i discorsi quotidiani la malta con cui gli
individui co-costruiscono la conoscenza, l’identità, la realtà stessa. Il discorso quotidiano è materia
prima e strumento del farsi dell’identità nello scambio intersoggettivo e nel discorso. È motivante
perché è una sfida con se stessi nella prospettiva dello spettacolo e perché è in grado di creare un
gruppo sociale. Naturalmente è estremamente importante che la scelta di fare teatro e la scelta dei
testi sia compiuta insieme agli apprendenti, o almeno tenendo in considerazione i loro interessi e le
loro esigenze.
Nello scegliere un testo adeguato alle esigenze degli apprendenti di italiano L2, dobbiamo anche
tenere conto della dimensione sociolinguistica, alla quale anche il QCE (2002:148-150) fa
1 Durante le numerose esperienze di uso del teatro di figura da noi fatte, prima di iniziare il laboratorio di burattini, abbiamo
chiesto agli studenti se avevano dimestichezza con uno spettacolo di questo genere per averlo visto o averlo praticato: non
abbiamo mai trovato nessuno che non ne avesse già avuto esperienza. Gli intervistati provenivano da: Germania, Romania,
Albania, Turchia, Siberia, Stati Uniti, Messico, Kazakistan, Cina, Camerun.
60
rifermento specifico sottolineando l'importanza che gli apprendenti siano consapevoli delle
connotazioni sociali di una particolare varietà, prima di adottarla. Abbiamo visto che l'italiano
presenta una forte variazione influenzata dalla diglossia italiano/dialetto e che è di estrema
importanza tener conto di questo fattore nella scelta della/delle varietà da presentare agli
apprendenti (§ 2.1.1.3). Il cambio di codice è fortemente influenzato dal contesto e investe in modo
disuguale gli apprendenti di italiano L2/LS a seconda dell'input presente nell'ambiente in cui
prevalentemente si verifica l'acquisizione/apprendimento. Diversa sarà anzitutto la varietà con cui
gli apprendenti verranno in contatto in un contesto guidato (ad esempio per apprendenti di italiano
LS), non guidato o misto; diverso sarà l'input a seconda dell'ambiente sociale frequentato, del grado
di istruzione, delle letture e degli interessi, dell'attività svolta in Italia. In particolare nel caso di
apprendimento misto, sia che si tratti di lavoratori immigrati, che di minori scolarizzati, oppure di
studenti di programmi Socrates o Erasmus, la didattica non può ignorare il problema delle varietà se
vuole evitare che si verifichino situazioni di conflitto tra ciò che viene appreso in classe e la lingua
esperita fuori. Santipolo (2002:52-53) elenca alcune conseguenze di tale conflitto che, se trascurato,
può portare a “un vero corto circuito con compromissione dell'acquisizione linguistica”:
– demotivazione degli studenti che vedono le loro oggettive possibilità di interazione ridotte a causa
del contesto bilingue (in altre parole possono avere l'impressione di non compiere progressi nella
comprensione della lingua, perché molti intorno a loro ne impiegano una diversa);
– difficoltà di acquisizione dei meccanismi e delle regole sociolinguistiche (...) che governano la
comunicazione.
D'altra parte proprio queste difficoltà permettono di affrontare, da un certo livello di competenza in
poi, sia il tema delle varietà che un discorso storico sulla complessa realtà linguistica italiana,
permettendo agli apprendenti di sviluppare una sensibilità soprattutto per le differenze diafasiche e
diastratiche non scindibili, nel nostro caso, da quelle diatopiche. Per apprendenti che si trovino in
Italia già da diverso tempo, come per i figli degli immigrati, riuscire a percepire e gestire queste
differenze rappresenta senz'altro un obiettivo significativo.1
È necessario dunque prevedere percorsi di apprendimento che includano gli aspetti sociolinguistici,
sia per quanti studiano l'italiano all'estero come lingua straniera o come lingua etnica, magari
partendo da forme di dialettofonia, sia per quanti hanno appreso la lingua in modo non formale,
entro contesti sociali caratterizzati da varietà regionali o dialettali, o in contesti lavorativi (cfr.
Vedovelli 2004a) che implicano un uso limitato della lingua (si pensi alle numerosissime “badanti”
che passano la maggior parte del loro tempo a contatto con anziani o infermi in ambienti
linguisticamente poveri), o infine anche per chi, apprendendo la lingua in un contesto formale che
prevede prevalentemente una lingua standard o semistandard2, si trova contemporaneamente a
dover affrontare la variegata realtà linguistica italiana.
Tale realtà tende oggi a presentarsi agli apprendenti come composta, oltre che dalle varietà standard
o semistandard, da varietà regionali e regional-popolari permeate da influenze dialettali che
coinvolgono soprattutto il piano della fonetica ma anche quello lessicale e sintattico (Berruto 1987,
1993; Coveri-Benucci-Diadori 1998: 26-27; Santipolo 2002:197-200). La geosinonimia e la
geoomonimia, ad esempio, che raramente creano problemi di comunicazione agli italiani, i quali
almeno a livello di comprensione hanno facile accesso alle varianti, possono causare confusione e
scoraggiamento nell'apprendente costretto a confrontarsi con una sorta di labirinto terminologico
proprio nel dominio delle attività e dei bisogni più immediati e quotidiani (un esempio classico è la
variazione del lessico degli alimenti sulla dimensione diatopica). Per non parlare della difficoltà ad
affrontare le varietà funzionali-contestuali e i sottocodici come l'italiano burocratico o la lingua
1 Lo stesso vale per molti alunni italiani della scuola dell'obbligo.
2 L'espressione “italiano semistandard”, proposta da Santipolo (2002:198) come espressione relativamente neutra per sostituire le
due espressioni più note, ma maggiormente connotate, di “italiano dell'uso medio” (Sabatini 1985:154-184) o “neostandard”
(Berruto 1987:62), ci sembra particolarmente adatta a descrivere la varietà di italiano che viene di solito proposta agli
apprendenti stranieri.
61
medica.1
Ciò che rende il teatro di figura particolarmente interessante per la didattica dell'italiano L2 è da un
lato la forte connotazione regionale del parlato dei personaggi, dall'altro l'alta “leggibilità” del testo
nel suo complesso. Presentare il teatro di figura agli apprendenti potrà pertanto rappresentare per
loro un’occasione speciale per prendere coscienza della variabilità della lingua. A seconda delle
circostanze sarà possibile organizzare un percorso che, senza penalizzare, ma anzi valorizzando le
competenze pregresse, vada gradualmente in direzione dello standard. O viceversa, sarà possibile
presentare agli apprendenti, che siano già in possesso di una certa competenza dello standard,
l'ampio raggio di variazione dell'italiano, rendendoli consapevoli del variare della lingua in
relazione al tempo, al luogo e ai partecipanti all'atto comunicativo. Benucci (2001:117) propone un
modello per la costruzione di itinerari differenziati che tenga conto del livello di competenza e delle
caratteristiche sociolinguistiche della lingua appresa; Tronconi (2001:121-126) presenta un quadro
di variazione che, oltre al livello di competenza tiene in considerazione anche il tipo situazione di
apprendimento dell'italiano: L2, LS, LE (lingua etnica), LI (lingua di immigrazione).2 Abbiamo già
rilevato come il linguaggio del teatro (2.1.1.3) e il linguaggio del teatro dei burattini (2.1.3.6) siano
in grado di rispecchiare l'ampio spettro di variazione della realtà linguistica italiana e possano
rappresentare uno strumento malleabile e utile nella didattica della variazione.
Nel considerare la lingua teatrale come input, dobbiamo infine considerare un'ultima caratteristica
propria del teatro di figura odierno, caratteristica che deriva dal suo essere diretto a un pubblico
prevalentemente infantile. La lingua usata nel teatro di figura dedicato all'infanzia si avvicina
spesso al motherese, la varietà usata dagli adulti per rivolgersi ai bambini (De Marco-Wetter
2000:31-32), la quale a sua volta condivide alcuni tratti con il la lingua usata dal docente di lingua
straniera. Sia il motherese3 che il teacher-talk rappresentano forme di input modificato per adattarsi
all'abilità di comprensione e produzione l'una dei bambini, l'altra degli apprendenti. Tali tratti
riguardano innanzitutto le caratteristiche fonologiche, che presentano una particolare chiarezza nella
combinazione di vocali e consonanti, un ritmo rallentato e un'intonazione accentuata ed esagerata.
Anche il lessico sarà semplificato orientandosi su termini generici appartenenti al vocabolario di
base (De Mauro 1980; 1994). Infine la struttura frasale sarà più trasparente: enunciati brevi,
struttura sintattica organizzata secondo tema-rema, frequenti domande sì/no, riferimento costante al
contesto (Pallotti 1998: 114-115; Villarini 2000:83; Bettoni 2001:35-38; Diadori 2005:105-106).
Per quanto riguarda il teacher-talk tali strategie sono in certi casi riconducibili a fenomeni di
semplificazione, in altri casi di elaborazione; nel linguaggio dei burattini invece troviamo
soprattutto le strategie di elaborazione.4
1 Vedovelli (2002a:81) si unisce a Calvino nel definire il linguaggio burocratico una “antilingua”. Ciò pone l'insegnante di fronte
alla scelta di presentare in modo acritico questo linguaggio o di fare pressione per la sua chiarificazione in direzione di una
comunicazione democratica. A noi piace pensare che la parodia di questi linguaggi presente nel teatro di figura possa contribuire
alla sua demistificazione.
2 Ecco in sintesi la proposta di Tronconi (2001): Primo approccio fino al “livello soglia”: varietà neo standard con differenziazione
tra registro formale e informale. Livello avanzato: varietà regionali, differenze fonologiche, lessicali e strutturali; a livello
passivo, riconoscimento delle principali aree dialettali. LS: presentazione dello standard e neo standard (lo studente non ha
occasione di venire in contatto con altre varietà). LE: non annientare la lingua etnica (familiare e dialettale) ma valorizzare la
cultura sociale e linguistica della famiglia di origine nel contempo permettere l'acquisizione della lingua e cultura dell'Italia
contemporanea. LI: una lingua semplificata che dia soprattutto strumenti di sopravvivenza.
3 Così Camaioni (1980:194) riassume le caratteristiche del motherese: frasi più brevi; frasi più grammaticali; frasi più semplici
sintatticamente; un lessico ristretto; un’intonazione esagerata. Di questi cinque punti l’unico che talvolta viene meno nel teatro
dei burattini è la “grammaticalità” della frase, in quanto spesso l’abbiamo visto giocare con la lingua proprio distorcendone le
caratteristiche. Ma, sia la deformazione del lessico che la letteralizzazione delle metafore, sono tratti del parlato infantile, da cui
se ne deduce che gran parte della comicità del teatro dei burattini (come gran parte della comicità in genere) è dovuta a una
“infantilizzazione” del linguaggio.
4 Queste le strategie di trasparenza adottate dal “teacher-talk”: Fonologia: Riduzione: nessuna. Elaborazione: tono di voce più alto,
pronuncia più accurata, ritmo rallentato; maggiore uso di pause, gamma di intonazioni più ampia; forme linguistiche complete e
non contratte. Morfologia e sintassi: Riduzione: enunciati più brevi e meno complessi, più verbi al presente. Elaborazione: più
enunciati ben formati, più regolarità, ordine canonico delle parole, maggiore mantenimento dei costituenti opzionali (es. pronomi
personali soggetto), relazioni grammaticali marcate più esplicitamente, enunciati topic-comment, più domande, più domande
polari (sì/no), meno domande aperte. Lessico:Riduzione: ripetizioni, uso di poche forme lessicali, meno espressioni idiomatiche,
lessico ad alta frequenza, meno forme opache (sostantivi preferiti ai pronomi), parole più comuni, uso di termini più generici
62
Possiamo per questo definire il linguaggio dei burattini come un input “modificato”? Questo testo è
più adeguato alle esigenze di chi si trova ai primi stadi di apprendimento dell'italiano L2? Crediamo
che nella maggior parte dei casi sia possibile dare una risposta affermativa a queste domande. Se gli
apprendenti avranno occasione di accostarsi a questo genere teatrale, andando a vedere uno dei tanti
spettacoli che si rappresentano in quasi tutte le località turistiche e in molte grandi città italiane,
questa esperienza potrà rivelarsi oltre che istruttiva dal punto di vista linguistico e culturale, anche
estremamente incoraggiante, rinforzando la motivazione e la fiducia nella propria capacità di
affrontare con successo la comprensione di un testo orale.
(iperonimi). Elaborazione: uso di sinonimi, parafrasi, scomposizione di concetti di significato complesso in concetti più semplici,
uso di parole in posizione saliente per inquadrare il resto dell'enunciato (parole-chiave), ripetizione delle parole più importanti.
Pragmatica: Riduzione: preferenza per l'allocutivo informale (it. “tu”, ted. “du”), ordini espressi più spesso con imperativi, scelta
di argomenti ancorati al contesto. Elaborazione: uso di codici cinetici (gesti) per accompagnare il discorso; maggiore ricorso a
deittici (da Diadori 2005:105-6).
1 Useremo in questo capitolo indifferentemente i termini “acquisizione” e “apprendimento” in quanto la distinzione fatta da
Krashen (1985) non ci sembra significativa ai nostri fini.
63
avvicinandosi a ciò che Vygotsky (1934/1990) ha chiamato “livello di soglia prossimale”.1 La
formula rimane tuttavia ambigua, né è possibile sapere come determinare esattamente la
complessità “+1” (Pallotti 1998:162-163; Villarini 2000:84-85). Krashen vede nell'interazione solo
una buona risorsa di input comprensibile, senza ritenere che l'output abbia un ruolo specifico per
l'apprendimento. Mette invece l'accento sull'input modificato e sull'utilità del contesto per la
decodifica dei messaggi. Altri studi tuttavia hanno messo in dubbio che la sola attenzione all'input
sia di per sé fonte di acquisizione. Secondo Long (1983) perché si verifichi l'acquisizione è
necessario che l'apprendente faccia attenzione alla forma linguistica dell'input oltre che al suo
significato mettendolo in relazione con ciò che egli rileva nel proprio output. Ellis (1999:6) osserva
che per l'acquisizione è cruciale non tanto la comprensione dell'input quanto la sua processazione, la
sua elaborazione da parte dell'apprendente. Ciò può avvenire attraverso la negoziazione del
significato, uno dei concetti centrali delle ipotesi interazioniste. Secondo la definizione di Ellis
(1999:3) la negoziazione del significato “riguarda gli scambi conversazionali che si verificano
quando gli interlocutori cercano di prevenire un blocco della comunicazione in corso oppure di
porre rimedio a un blocco che sia insorto”.2 Quando ciò si verifica vengono messe in atto diverse
strategie per evidenziare il problema (ripetizioni, richiesta di chiarificazione, domande) che portano
spesso a una modificazione dell'input finalizzata a facilitare la comprensione e a risolvere così il
blocco comunicativo. Anche questa versione dell'ipotesi interazionista è strettamente legata
all'ipotesi dell'input di Krashen. Se però per Krashen la modificazione interattiva dell'input non
influisce sull'acquisizione più di quanto non faccia un input pre-modificato (come per esempio il
teacher-talk), secondo Long la modificazione interattiva dell'input è un fattore determinante. In
seguito lo stesso Long (1996:414) chiarisce ulteriormente il ruolo della negoziazione: esso consiste
nel facilitare l'attivazione dell'attenzione selettiva e nel favorire la processazione dell'input. Viene
preso in considerazione anche il fattore “tempo”: la negoziazione dà agli apprendenti il tempo di
processare la forma mentre processano il contenuto del messaggio (cfr. anche Pica 1996). Oltre alla
negoziazione dei significati vengono individuati altri due modi in cui l'interazione può contribuire
alla processazione dell'input favorendo l'acquisizione. Il primo è la riformulazione (recast) (Long
1996: 35) che partendo dall'output dello studente lo ripropone in forma grammaticalmente corretta.
La riformulazione fornisce in negativo un feedback grammaticale all'apprendente, che potrà
instaurare così un paragone cognitivo tra la propria formulazione e la formulazione corretta. Ellis
(1999:10) riporta i risultati di studi sperimentali che dimostrano che la riformulazione è più efficace
per l'apprendimento della “modellizzazione” (modelling), ovvero della presentazione di enunciati
contenenti la struttura obiettivo, dove il modello proposto non è negoziabile. Gass (1997) ritiene
che la riformulazione dia inizio a una ristrutturazione dell'interlingua, ma, affinché essa diventi
permanente, è necessario un lungo periodo di incubazione durante il quale l'apprendente continua
ad avere accesso all'input corretto. Ellis (1999:11) riassume così le caratteristiche che rendono
efficace la riformulazione:
• la riformulazione funziona meglio con apprendenti avanzati;
• l'apprendente deve avere la competenza necessaria per processare la forma dell'input
contenuto nella riformulazione;
• deve essere orientato verso la forma più che verso il significato (cosa che normalmente non
avviene nel corso di una conversazione).
Il secondo contributo dell'interazione all'apprendimento è la possibilità di produrre output
modificato. Le ricerche hanno mostrato che gli apprendenti spesso rispondono alle mosse di
negoziazione - come una richiesta di chiarificazione – con una modificazione dell'output. Swain e
1 Tuttavia le due teorie differiscono da molti punti di vista tanto da potersi considerare incommensurabili: secondo Krashen il
passaggio da uno stadio a un altro dell'interlingua è fisso e predicibile. Per Vigotskij invece lo sviluppo è un processo di
maturazione non del tutto prevedibile, che dipende dalle esperienze dell'individuo nel contesto linguistico in cui è inserito (cfr.
Dunn-Lantolf 1998).
2 “This concerns the conversational exchanges that arise when interlocutors seek to prevent a communicative impasse occurring
or remedy at actual impasse that has arisen” (traduzione nostra).
64
Lapkin (2001) studiando gli effetti dello sforzo di produrre ouput comprensibile sull'apprendimento
delle L2, hanno riscontrato la correlazione positiva tra negoziazione dei significati nell'output e
apprendimento. Swain (2005) individua tre funzioni dell'output: la prima è quella di dirigere
l'attenzione e di innescare i processi di elaborazione. Per esempio l'apprendente potrebbe accorgersi
di non riuscire a esprimere con precisione il significato che vorrebbe comunicare, rendendosi
consapevole di alcuni dei suoi problemi linguistici. Ciò lo condurrebbe a cercare qualcosa di cui
sente il bisogno riguardo alla L2, probabilmente dirigendo l'attenzione all'input rilevante;
l'attenzione ha il potere di innescare i processi cognitivi implicati nell'apprendimento, generando
nuova conoscenza linguistica o consolidando quella corrente. La seconda funzione è testare le
proprie ipotesi interlinguistiche rispetto alla reazione degli interlocutori. L'ultima è la funzione
riflessiva, metalinguistica, che porta a formulare nuove ipotesi sulla lingua di apprendimento. In
pratica l'output mette in gioco processi di codifica grammaticale che spingono l'apprendente a
riorganizzare la relazione tra forma e significato, generando una rielaborazione più profonda di
quella presente nella decodifica e nella negoziazione dell'input.
Riassumendo, nelle ultime versioni dell'ipotesi interazionale troviamo in primo luogo la condizione
necessaria per dare avvio all'apprendimento: l'esposizione all'input. L'input comprensibile o
modificato nell'interazione, svolge una funzione essenziale, ma non è ancora sufficiente per
sviluppare l'apprendimento. Perché questo avvenga è necessaria l'attenzione selettiva, l'attenzione
alla forma linguistica oltre che al suo significato: ciò avviene in primo luogo con la negoziazione
dei significati. La sola negoziazione dei significati nell'input può favorire l'acquisizione del lessico,
tuttavia ci sono aspetti del linguaggio, come la morfologia flessiva, che non vengono negoziati in
una conversazione spontanea tra nativi e non nativi e rimangono pertanto fuori dell'attenzione (e
della possibilità di acquisizione) del discente (Ellis 1999:7). La produzione di output invece induce
l'apprendente a testare le proprie ipotesi e a verificarle attraverso il feedback ricevuto; la produzione
di output consente la riformulazione da parte dell'interlocutore, che offre la possibilità di paragonare
le produzioni dell'apprendente con un nuovo input grammaticalmente corretto, e alla formulazione
di nuove ipotesi interlinguistiche che vengono testate attraverso la produzione di output modificato.
In questo processo a spirale che coinvolge attenzione, cognizione, memoria, automatizzazione di
processi, l'apprendente ha modo di progredire nell'interlingua (§ 3.2.2).
Possiamo calare il modello ora proposto sull'attività teatrale: l'input, fornito dal testo, diviene output
nel corso della drammatizzazione. Tra questi due momenti si situa un lungo lavoro di rielaborazione
collettiva del testo. Innanzitutto l'input testuale viene “interrogato”, per estrarne i significati; in
secondo luogo, nel passaggio dall'input all'output, al testo teatrale viene aggiunto il valore
dell'oralità: espressione, tratti soprasegmentali, codici gestuali ecc. Non viene dunque solo
“recitato” ma reinterpretato. Inoltre nell'utilizzare il teatro nella classe di italiano L2, dove il fine
non è quello “filologico” di ricostruzione del testo e delle intenzioni dell'autore, gli apprendenti
hanno piena libertà nel rielaborare o modificare il testo originario, sia per avvicinarlo al loro livello
di competenza, sia per “ricreare” l'interazione teatrale facendola propria. In tal modo l'output degli
studenti diviene occasione di riformulazione e negoziazione interattiva continua. Per quanto
riguarda il teatro di figura inoltre, in assenza del testo scritto, bisogna affidarsi alla ricostruzione
mnemonica o, più spesso, alla creazione dei dialoghi partendo da una traccia o da un copione. In
entrambi i casi gli apprendenti saranno spinti a produrre lingua partendo dal proprio livello di
competenza: i testi da loro prodotti, sia attraverso l'interazione con i compagni che con l'insegnante,
verranno negoziati e riformulati producendo nuove ipotesi interlinguistiche. Ciò consente, tra l'altro,
di tarare la complessità dei testi sulle effettive competenze del gruppo classe, evitando di “calare”
dall'alto modelli prefabbricati secondo criteri che potrebbero non corrispondere allo stadio di
interlingua dei discenti.
Non va infine dimenticato un altro aspetto dell'attività teatrale: la ripetizione e la memorizzazione
che comportano l'automatizzazione dei processi linguistici, liberando risorse per processi di alto
livello coinvolti nella generazione dei messaggi.
65
Questo modello di apprendimento ha suscitato tuttavia non poche critiche. Lantolf e Thorne (2007)
rilevano che il modello interazionista è costruito su una metafora computazionale, di derivazione
chomskiana, che considera l'apprendente come un computer, in cui entrano e da cui escono
informazioni. Inoltre considera l'acquisizione di una L2 come un processo puramente interno
all'apprendente, il quale riceve gli stimoli dall'esterno e li elabora per poi restituirli, senza
riconoscere la dimensione sociale dell'uso e dell'acquisizione del linguaggio. Per Firth e Wagner
(1997), infine, ignora la complessità della società multilingue assumendo in modo acritico un
modello monolingue e rappresentando l'apprendente come un comunicatore “deficitario” nei
confronti del parlante nativo. Da più parti (cfr. Ellis 1999:16) è stata proposta una nuova metafora,
che sostituisca la metafora del possesso implicita nel concetto di “acquisizione”, attribuendo
all'apprendente un ruolo attivo e situando l'apprendimento nel contesto sociale. La teoria
socioculturale dell'apprendimento cerca di realizzare un modello adeguato a questa metafora.
A differenza delle ipotesi interazioniste, che ricorrono a metodi quantitativi, la teoria socio-culturale
dell'apprendimento utilizza un approccio olistico che impiega metodi di analisi qualitativi, sensibili
al modo in cui le interazioni si costruiscono tra i partecipanti e in cui essi negoziano non solo i
significati, ma anche i ruoli relazionali, le identità sociali e culturali. Tale approccio deriva dai primi
lavori di etnometodologia che esaminavano i sistemi di riparazione della conversazione (Schegeloff,
Jefferson, Sacks 1977) ed è vicina alle ricerche e ai metodi degli analisti della conversazione.
La più nota tra le teorie che considerano l'acquisizione come un processo sociale è quella di
Vygotskij (1978 /1980), applicata allo studio dell'apprendimento delle L2 da Lantolf (Lantolf-Appel
1994; Lantolf 2000; Lantolf-Thorne 2007). Questa concezione poggia su quattro concetti
fondamentali: mediazione, internalizzazione, imitazione e zona di sviluppo prossimale (Lantolf-
Thorne 2007).
La mediazione: tutta la conoscenza è mediata attraverso simboli, segni e altri strumenti
culturali. La parola è uno strumento, come un manufatto o una tecnologia, che media tra l'individuo
e il mondo riflettendo le particolari condizioni storiche e culturali in cui è stato creato. La parola
consente di trasmettere nozioni e conoscenze acquisite da una generazione all'altra.
L'apprendimento, secondo Lantolf, avviene quando funzioni mentali biologicamente determinate
evolvono in “ordini superiori” più complessi tramite l'interazione sociale. Per l'apprendimento, la
mediazione dell'interazione interpersonale è fondamentale: le funzioni infatti all'inizio vengono
attivate dall'interazione, e solo in seguito divengono patrimonio individuale.
L'internalizzazione: connessione tra comunicazione sociale e attività mentale individuale.
Tale connessione è segnata, nel bambino, dalla presenza del linguaggio egocentrico, che guida il
passaggio dalle funzioni interpsichiche, cioè dalle forme di attività sociale, a quelle intrapsichiche,
cioè alle funzioni individuali. Afferma Vygotskij: “Nello sviluppo culturale del bambino ogni
funzione compare due volte, su due piani: dapprima compare sul piano sociale, poi sul piano
psicologico. Prima compare tra due persone, sotto forma di categoria interpsicologica, poi
all'interno del bambino, come categoria intrapsicologica” (Vygotskij 1978/1980:163). La sequenza
evolutiva tracciata da Vygotskij parte dal linguaggio sociale passa per il linguaggio egocentrico per
arrivare al linguaggio interno, il pensiero verbale, che pertanto diviene, attraverso il linguaggio,
un'espressione interna della socialità. Il linguaggio egocentrico è “un linguaggio interno per la sua
funzione psichica e un linguaggio esterno per la sua struttura” (Vygotskij 1978/1980:351), ovvero è
un modo di parlare ad alta voce rivolto a se stesso che il bambino usa per orientare il proprio
comportamento nella soluzione dei problemi. Tale linguaggio non è normalmente presente
nell'adulto in quanto è sostituito dal linguaggio interno. Tuttavia esso può essere riattivabile nel
corso di sfide cognitive. Secondo gli studi, pare che il tempo impiegato dagli apprendenti di una L2
per autoregolarsi tramite il linguaggio egocentrico nella risoluzione di un compito sia maggiore di
quello necessario per lo svolgimento del compito stesso (Frawley-Lantolf 1985; Ellis 1999: 22). Il
linguaggio egocentrico è presente, anche se in misura minore, nei compiti interattivi, soprattutto nei
compiti interattivi reali, non simulati. Nel bambino, rappresenta una fase importante della crescita,
66
il punto di contatto tra il discorso esterno e il pensiero interno, attraverso il quale la dimensione
sociale diviene strumento di strutturazione del pensiero. Nell'apprendente contribuisce allo sviluppo
della consapevolezza metacognitiva e svolge un'importante funzione regolativa.
L'imitazione: l'imitazione, secondo Vygotskij è la capacità puramente umana di imitare il
comportamento intenzionale di altri esseri umani. Essa non va comunque confusa con le teorie
psicologiche behavioriste confluite nel metodo audiolinguale nell'insegnamento delle L2. Coinvolge
invece attività cognitive orientate verso uno scopo che risultano dalla rielaborazione del modello
originario. L'apprendimento del linguaggio avviene attraverso questo tipo di capacità imitativa che
coinvolge l'azione orientata a scopi e la motivazione.
La zona di sviluppo prossimale è il luogo nel quale avviene l'internalizzazione dei processi
sociali, lo spazio interazionale entro il quale l'apprendente è in grado di effettuare un compito al di
sopra del suo corrente livello di competenza grazie all'azione di un sostegno sociale (Vygotskij
1934/1990).
In questo modello viene ad assumere grande importanza un tipo di interazione, detta in inglese
scaffolding (intelaiatura, sostegno), che indica il modo in cui una persona assiste un'altra persona
nel suo tentativo di svolgere una funzione che non sarebbe in grado si svolgere da solo (Ellis 1999:
18). Esso include (Wood-Bruner-Ross 1976 in Ellis 1999)
• il suscitare interesse per il compito
• la semplificazione del compito
• il mantenimento del perseguimento del compito
• il sottolineare le caratteristiche critiche e le discrepanze tra ciò che è stato prodotto e la
soluzione ideale
• il controllo della frustrazione durante la soluzione del problema
• la proposta di una versione idealizzata dell'atto da compiere.
Lo scaffolding, nell'interazione didattica, sostiene la “costruzione verticale” delle strutture
sintattiche (Pallotti 1998:181-184) in cui l'enunciato risulta dalla collaborazione tra i due
interlocutori attraverso più mosse linguistiche. La “costruzione verticale” del discorso è
particolarmente importante per lo sviluppo della sintassi e incoraggia, nel bambino, la produzione
dei primi enunciati di due parole. Numerosi studi hanno dimostrato l'importanza di questo tipo di
discorso per l'acquisizione di blocchi di lingua o routines riutilizzabili in altri contesti (crf. Bettoni
2001). Tra questi vogliamo citare uno studio di Donato (1994) in quanto utilizza tecniche di
drammatizzazione. Lo studio ha come protagonisti un gruppo di studenti universitari di francese L2
con il compito di eseguire un'attività orale basata su uno scenario di Di Pietro (1987). Donato
mostra che gli studenti collaborano nel tentativo di risolvere il problema comune, distinguendo tra
le proprie produzioni e la percezione della soluzione ideale e usando le risorse collettive per
minimizzare la frustrazione e il rischio. Lo scaffolding li aiuta a raggiungere la forma corretta anche
se nessuno dei singoli apprendenti la conosceva prima del compito. Donato dimostra anche che
l'uso di nuove strutture conquistate in una occasione era seguito, il 75% delle volte, dal loro uso
indipendente in altre occasioni. Questo studio vede dunque gli apprendenti impegnati a collaborare
nel tentativo di realizzare un compito di drammatizzazione, un compito sociale per eccellenza. Il
riconoscimento e l'appropriazione delle strutture corrette avviene grazie alla collaborazione tra
apprendenti, senza l'intervento di un parlante nativo. Donato (1994:46) nota a proposito che: “i
parlanti sono allo stesso tempo individualmente principianti e collettivamente esperti, fonti di nuovi
orientamenti l'uno per l'altro e guide per la soluzione di questo complesso problema linguistico”1, e
poi conclude: “la conoscenza individuale è derivata socialmente e dialogicamente, la sua genesi può
essere osservata direttamente nelle interazioni tra parlanti” (Donato1994: 51).2 L'interazione porta
dunque gli apprendenti a concentrarsi sulla forma linguistica anche quando gli interlocutori sono
1 “(...) the speakers are at the same time individually novices and collectively experts, sources of new orientations for each other
and guides through this complex linguistic problem solving” (traduzione nostra).
2 “(...) individual knowledge is socially and dialogically derived, the genesis of which can be observed directly in the interactions
among speakers” (traduzione nostra).
67
altri parlanti non nativi (cfr. Pallotti 1998:178).
La metafora della partecipazione invita a ripensare molti principi dell'insegnamento/apprendimento,
in particolare l'assunzione della concezione statica del sistema linguistico implicita nella metafora
dell'acquisizione. La teoria socio-culturale dell'apprendimento invece, identificando la lingua col
suo uso, pone come obiettivo del processo formativo la capacità dell'apprendente di partecipare al
discorso della comunità. Apprendere una L2 significa da questo punto di vista allargare il contesto
d'uso del linguaggio. In questa prospettiva l'apprendimento è innanzitutto un prodotto sociale prima
che individuale e chiunque partecipi al processo apporterà dei mutamenti al sistema nel suo
complesso. Non si parlerà più allora di italiano L2 quanto di “italiano lingua di contatto”, il che
“significa considerare la competenza linguistico-comunicativa come luogo in cui i codici linguistici
culturali diversi si incontrano e producono nuove identità” (Vedovelli 2002a:174).
Da più parti (Ellis 1999; Larsen Freeman 2002) è stata sottolineata la necessità di “riconciliare”
queste due diverse prospettive teoriche. La possibilità di una prospettiva più ampia, che includa sia
la dimensione sociale che quella psicologica implicita nelle ipotesi interazioniste
dell'apprendimento, è indicata da Larsen Freeman nella teoria del caos e dei sistemi complessi, in
grado di fornire un'interpretazione sia dinamica che sistematica del linguaggio e dell'apprendimento
linguistico. La teoria del caos e dei sistemi complessi supporta la visione dell'apprendimento della
L2 come partecipazione sociale, senza negare una prospettiva di acquisizione. Incoraggia a pensare
i membri di una dicotomia apparentemente inconciliabile (stabilità e fluidità del linguaggio,
schematicità e dinamismo, acquisizione e uso) come termini in relazione tra loro (Lasen Freeman
2002:42-43).
Anche Ellis (1999:16) considera la teoria socioculturale dell'apprendimento un approccio
descrittivo non inconciliabile con un approccio esplicativo di carattere cognitivo. Adottando una
prospettiva “empirica”, individua un conciliazione tra le due ipotesi nel modello cognitivo del
livello di processazione dell'informazione: l'interazione sociale è un mezzo per raggiungere il tipo di
attività mentale richiesto per depositare nuovo materiale nella memoria a lungo termine (Elllis
1999:25-28). Questa concezione rimanda ai concetti di motivazione e memoria ai quali faremo
cenno in seguito (§ 2.2.2).
68
l'osservazione della comunicazione come unico strumento di analisi. Pionieri della svolta
conversazionalista, che ha avuto luogo negli anni Ottanta, sono Sinclair e Coulthard (1975) che
propongono cinque livelli di articolazione del discorso scolastico, dal più generale, la lezione, al più
particolare, l'atto linguistico individuale, attraverso la transazione, lo scambio e la mossa
comunicativa.
Qual'è la normale interazione verbale in classe? Secondo Lavinio (2004), che considera il parlato in
classe come un testo emergente da un rapporto di natura sociale, spesso, sul carattere
conversazionale di questa testualità, prevale l'uso della lingua per trasmettere informazioni anziché
per comunicare e instaurare scambi autenticamente interattivi. Ciò è dovuto alle caratteristiche della
interazione scolastica: l'asimmetria dei ruoli, sottolineata da Orletti (2000) e Fele-Paoletti (2003), il
possesso ineguale di informazioni e competenze da parte di insegnanti e allievi, la sostanziale
artificiosità degli scambi verbali, il richiamo a norme tacite di trasmissione culturale, che non
possono considerarsi estranee alla classe di italiano L2.1
Riguardo all'asimmetria dei ruoli del parlato in classe, Sinclair e Coulthard (1975) hanno
individuato come struttura conversazionale tipica dell'interazione scolastica la “tripletta”, in cui la
prima mossa viene operata dall'insegnante, di solito sotto forma di domanda, la seconda dallo
studente, come risposta, e la terza di nuovo dall'insegnate come conferma/disconferma della
correttezza della risposta. Ciò attribuisce generalmente due mosse all'insegnante contro una
dell'apprendente, dando un peso discorsivo maggiore all'intervento dell'insegnante che si attribuisce
in media i 2/3 della produzione linguistica totale (Coulthard 1985:124). Inoltre le domande
dell'insegnante molto spesso non sono vere domande, ma richieste di dimostrazione verbale,
domande fittizie delle quali l'insegnante conosce già la risposta e che hanno dunque il solo scopo di
valutare la competenza dello studente. Ciò conferma l'asimmetria dei ruoli all'interno della classe
scoraggiando l'instaurarsi di un clima favorevole agli scambi comunicativi.
Gli studi sull'interazione in classe sono strettamente collegati alla teoria socio-culturale
dell'apprendimento e ne confermano gli assunti di principio: il linguaggio e il “sapere” non sono
una condizione individuale (o, in una versione debole, non sono “solo” una condizione individuale),
emergono invece dalla conduzione comune di una pluralità di processi di interpretazione e di
comprensione (Fele-Paoletti 2003:145-166). Ciò significa che il linguaggio prodotto nella classe di
italiano L2 non è la somma della competenza dei singoli partecipanti, o solo la conseguenza di un
travaso unilaterale di conoscenze da una persona più competente ad altre che lo sono meno, ma
qualcosa di più che nasce dal processo di interazione. Data l'importanza della comunicazione per
l'apprendimento, un obiettivo forte per l'educazione linguistica dovrebbe quindi essere l'incremento
della dimensione interazionale e dialogica della lingua con cui si parla in classe. Lavino (2004)
propone esperienze di vero e proprio “parlato euristico”, ovvero esperienze di attività dialogiche
rivolte all'apprendimento che prevedono lo sviluppo di un argomento di studio mediante scambi
comunicativi tra gli allievi, dietro la guida non direttiva dell'insegnante. Vedovelli (2002a:116-118)
vede necessaria la trasformazione del gruppo classe in un “universo di socialità”.
La varietà e la ricchezza degli usi linguistico-comunicativi è decisiva in un corretto modello di didattica della
L2: il ruolo del docente si carica, allora, non solo della funzione tradizionale di trasmettere contenuti
informativi, ma anche di sollecitare flussi di comunicazione, di creare reti di scambi all'interno del gruppo
classe, di selezionare testi in modo variato e tale da garantire l'esposizione a una ricca gamma testuale, di
creare strutture di comunicazione adeguate alle attività sociali che si svolgono nel gruppo. Le attività sociali
finalizzate a raggiungere obiettivi mediante lo svolgimento di compiti (tasks), rappresentano le fonti dei flussi
di comunicazione che, entro il gruppo classe, assumono senso evitando l'artificiosità, l'innaturalezza.
(Vedovelli 2002a:19)
Ciò che Vedovelli sottolinea è innanzitutto la necessità di selezionare una pluralità di testi. Ma dal
momento che l'interazione in classe classe stessa rappresenta a sua volta una fonte di testualità, ciò
implica anche una regia che incoraggi a produrre un parlato diversificato. Come abbiamo visto nel §
1 Ciò riguarda il modello di riferimento degli insegnanti, ma anche le aspettative degli studenti.
69
2.1.1.2 il testo teatrale racchiude in sé altri tipi di testualità (parlato argomentativo, narrativo,
dialogico, descrittivo) offrendo l'occasione di percorsi formativi che affrontano la trasformazione
dei testi (dalla narrazione di una storia alla sua sceneggiatura, dal racconto in terza persona alla
drammatizzazione in prima persona, dallo scritto al parlato ecc. § 3.2.2). Vedovelli sottolinea in
secondo luogo l'importanza delle “attività finalizzate a raggiungere obiettivi mediante lo
svolgimento di compiti” che hanno la funzione di produrre spontanei “flussi di comunicazione”
nella classe. Il testo teatrale, come abbiamo visto, si pone esso stesso come compito; partire da esso
per realizzare una rappresentazione significa impegnare il gruppo classe in un progetto, in una
attività che diminuisce l'asimmetria dei ruoli tra insegnante e apprendenti consentendo il formarsi di
un clima emotivo e interattivo favorevole al progredire dell'interlingua.
70
tutte le conoscenze dell'apprendente altri focalizzano l'attenzione del discente su aspetti discreti e
isolati.
Abbiamo più volte affermato che il testo drammatico è un testo incompiuto, un compito quindi, che
va svolto trasformando il testo drammatico in spettacolo teatrale. Inoltre nel corso dell'allestimento
scenico, dove si lavora alla concreta realizzazione dello spettacolo, saranno svolti numerosi altri
compiti. Alcuni di questi saranno strettamente legati proprio all'aspetto formale della lingua: dal
lavoro sulla pronuncia e l'intonazione, alla realizzazione di testi ben formati che rispettino le regole
sociolinguistiche e pragmatiche adeguate al ruolo, alle relazioni sociali e all'intenzionalità del
personaggio rappresentato. Le opposizioni tra attività focalizzate sulla forma e attività focalizzate
sul significato, apprendimento intenzionale e apprendimento incidentale svaniscono nell'attività
teatrale dove la realizzazione del significato passa attraverso la realizzazione della forma e dove
l'apprendimento intenzionale (la memorizzazione dei testi) e quello incidentale procedono
parallelamente. Anche Cangià vede nel fare teatro un modo per conciliare l’aspetto normativo del
linguaggio senza trascurare la componente comunicativa (Cangià 1992: 211):
Come conciliare allora due esigenze indispensabili nel quadro di un’educazione linguistica completa? Nel
mio “fare teatro in lingua straniera” vengono soddisfatte le esigenze della componente “prescrittività della
lingua” e quelle della componente “comunicazione”, perché lego la prima alla presenza di un testo/copione
preconfezionato, e la seconda alla messa in scena propriamente detta dello spettacolo, che richiede
comunicazione spontanea circa le note di regia, l’esecuzione delle coreografie, la confezione dei costumi e la
realizzazione delle scenografie.
Coerentemente con la sua natura semiotica (§ 2.1.1) l'attività teatrale rappresenta un macro-
compito, la realizzazione dello spettacolo, composto da micro compiti parziali. Tutto ciò richiede
un'organizzazione precisa che trova il suo modello nella didattica per progetti. Parlando di didattica
per progetti, si fa riferimento al noto saggio di Kilpatrick (1918), scritto sotto l'influenza delle idee
pedagogiche del pragmatismo di Dewey, il quale così descriveva le finalità del processo educativo:
“Lo scopo dell'educazione è di permettere agli individui di continuare la loro educazione, ossia
l'obiettivo e la ricompensa dello studio è una continuata capacità di sviluppo” (Dewey
1916/1992:147). Lo sforzo di Kilpatrick era quindi di mettere il processo e l'autonomia
dell'apprendente, la sua capacità di costruire il proprio sapere, al centro dell'azione educativa.
La didattica per porgetti si afferma in Italia a seguito del dibattito pedagogico che coinvolge la
scuola tra gli anni Sessanta e Settanta esprimendo l'esigenza di una metodologia didattica basata
sulla ricerca e non solo sui contenuti disciplinari. Tale orientamento, enfatizzando il soggetto
apprendente e la sua capacità di elaborare l'informazione, rivede il ruolo dell'insegnante che da
protagonista nell'interazione didattica ne diviene il regista e il facilitatore. Così viene ridefinito il
ruolo dell'insegnante (Bertocchi 1999:61): “L'insegnante è un “mediatore” tra l'allievo e l'oggetto
culturale, fornisce, quando necessario, punti di ancoraggio, favorisce la formulazione di ipotesi e di
interpretazioni, utilizzando stimoli aperti, permette i tentativi e gli errori, intervenendo quando
necessario in funzione orientativa, favorisce i processi (...)”. Gli apprendenti che prendono parte a
un progetto sono coinvolti, al pari dell'insegnante, nelle scelte degli obiettivi, nell'organizzazione e
gestione dell'attività didattica, nella sua verifica e valutazione divenendo responsabili del proprio
processo di apprendimento (Quartapelle 1999b:69). La negoziazione pervade l'agire per progetti
“Le scelte non coincidono con l'aggregazione delle decisioni dei singoli componenti del gruppo, ma
si generano dal confronto e dall'integrazione delle loro idee, scelte impreviste e imprevedibili, che
probabilmente all'inizio non erano state nemmeno ipotizzate” (Quartapelle 1999b:71).
Il project work nella classe di L2 è stato spesso realizzato in progetti che spingono l'apprendente a
interagire linguisticamente col mondo reale, svolti sia all'esterno come progetti esplorativi che
implicano un contatto con i parlanti nativi (encounter projects) che per corrispondenza (class
correspondence projects), il noto “amico di penna” che oggi si ricicla nelle forme più agili
consentite dalla rete (e-mail, blog, forum, chat), e infine i progetti testuali (text projects) che
71
possono sfociare anche in role-plays o in drammatizzazioni (Ridarelli 1998). Il progetto teatrale si
colloca in questa ultima categoria, salvo che lo spettacolo non venga rappresentato di fronte a
parlanti nativi (come nelle esperienze di scambio tra classi di nazionalità diverse descritte in § 4.1)
o che il progetto venga portato avanti da un gruppo misto di nativi e non nativi (come nella
sperimentazione con adulti immigrati descritta in § 4.3). In questi casi il progetto teatrale assume
anche le caratteristiche dei progetti esplorativi. Importante è che tali progetti abbiano una chiara
finalità e da essi derivi un “prodotto” che deve essere socializzato.1
Come Quartapelle fa notare le scelte che avvengono nel corso del project work sono spesso
“impreviste e imprevedibili”, e ciò lo rende un'attività di non semplice programmazione. Tuttavia ci
sono alcuni momenti che formano la cornice irrinunciabile dell'attività: la negoziazione, l'attività e
la verifica attraverso il prodotto (Ridarelli 1998:179).
La negoziazione è il momento in cui gli studenti e l'insegnante discutono insieme del
progetto, decidono tra le varie opzioni possibili (quale testo mettere in scena, come farlo, i tempi
della realizzazione, il pubblico che assisterà allo spettacolo). È un momento di densa
comunicazione che riveste grande importanza per la motivazione degli apprendenti.
Lo svolgimento pratico è un momento di lavoro per gruppi. Questi possono essere costituiti
per rappresentare tanti piccoli interventi teatrali, come nel lavoro coi burattini fatto in alcune
sperimentazioni, oppure gruppi legati alla realizzazione di uno specifico ruolo teatrale (dalla regia
alla sceneggiatura, alla scelta delle musiche o dei costumi). In questa fase, se il tempo e la
competenza degli apprendenti lo consentono, il progetto si apre anche a interventi esterni, che
possono determinati dal desiderio di assistere a uno spettacolo, dalla necessità di chiedere consigli
esterni o semplicemente di reperire i materiali necessari per l'allestimento scenico.
La presentazione del prodotto è il momento della verifica del progetto, che viene così ad
essere valutato non solo dall'insegnante ma anche dagli stessi apprendenti. Il prodotto dell'attività
teatrale, lo spettacolo, assume in questa prospettiva una importanza decisiva per la motivazione e la
verifica dell'attività. In assenza di spettacolo il fare teatro si riduce ad una semplice esercitazione in
classe, forse più motivante, forse più divertente di altri tipi di attività, ma comunque finalizzata ad
“apprendere” qualcos'altro (forme, strutture, modalità di interazione), sottoposta ad un altro tipo di
verifica (etero- e non più auto-verifica) e quindi artificiale e non significativa in sé.
Per finire, il lavoro per progetti ha una struttura modulare e offre l'opportunità di superare un
insegnamento sequenziale centrato sui contenuti da trasmettere (Merli 2004:76). Si realizza
attraverso attività didattiche dagli sviluppi imprevedibili frutto della creatività e della ricerca degli
apprendenti stessi che giungono alla lingua partendo dai propri bisogni.
1 “Con il prodotto l'apprendimento si trasforma da attività che si esaurisce nell'apprendente in attività fruibile” (Quartapelle
1999b:84).
72
“tronco” da quello di “ramo” o “foglia”; durante un corso di botanica impareremo a distinguere la
foglia di un platano da quella di un olmo facendo attenzione alle varietà di forma e colore, al
margine liscio o dentellato, alla venatura: tutte caratteristiche non presenti nell'esperienza generica
della foglia che avevamo prima. Nella “attenzione selettiva” più volte citata troviamo
un'importantissima caratteristica inerente all'attività linguistica:1 nella materia e nella forma del
segno linguistico selezioniamo continuamente solo quanto è rilevante per il significato di cui è
portatore. Questa considerazione ha feconde conseguenze sul piano didattico: l'apprendente che
padroneggia già una lingua le cui regole sono per lui in gran parte inconsce, nell'analisi della L2
mette automaticamente in gioco principi di selezione appartenenti alla L1 (significativa a proposito
è l'importanza eccessiva data alle vocali italiane aperte e chiuse da parte di apprendenti anglofoni e
viceversa l'incapacità di percepire le diverse realizzazioni dei suoni vocalici da parte di italiani che
studiano l'inglese) e rimane invece “cieco” a tratti distintivi e opposizioni produttive nella L2.
Crediamo che questo principio determini una sorta di “cecità verso l'input” che può essere superata
solo attraverso una rielaborazione profonda dell'esperienza linguistica quale avviene nel teatro.
Nell'insegnare una lingua straniera dobbiamo quindi risvegliare l'attenzione degli apprendenti verso
modi nuovi di categorizzare l'esperienza. Per questo è importante partire dall'uso dei cinque sensi.
Cosa vedono i miei occhi? Forme, colori, luci? Sono in grado di comunicare a qualcuno le mie
sensazioni nella nuova lingua? Che percezione ho del mio corpo, del mio respiro? Quali suoni e
rumori capta il mio udito? Quali messaggi mi rimanda l'olfatto? Nel far questo, usando una lingua
seconda, l'apprendente deve operare una nuova sintesi dell'esperienza con i nuovi mezzi linguistici
di cui dispone. L'importanza di unire la parola all'azione, alla sensazione, all'esperienza corporea è
sottolineata da De Mauro (2002:15-16), dal quale traiamo questa lunga e stimolante citazione:
Chi immagina che le parole abbiano un versante tutto fisicità, quello della vocalità che produciamo e
udiamo, e un versante di puro spirito, quello dei significati e sensi studiati dalla semantica e dalla
grammatica, appare fuori strada: è (...) con tutto il corpo che viviamo l'esperienza di dare un senso alle voci
e, poi, di serbare a lungo nella memoria voci collegate a sensi e sensi a voci, cioè parole. Aveva
profondamente ragione il “favoloso Gianni”, lo scrittore italiano Gianni Rodari (...). Mentre faceva ai
bambini di Reggio Emilia le “lezioni” poi diventate La grammatica della fantasia, quando i bambini,
sollecitati da lui per inventare storie partendo da un dettaglio o da una parola, tacevano e dicevano di non
ricordare né parole né memorie, Rodari, sorridendo, diceva: “Ma la tua punta del naso, ma il tuo mignolo,
la tua gamba destra, possibile che non si ricordi niente? E il tuo gomito?”. Bambine e bambini ridevano e
parole e ricordi riaffioravano venendo dalla punta del naso, dal mignolo, dal gomito. Non solo la voce, ma
tutto il nostro parlare e capire e sapere una lingua affonda le sue radici in tutto il nostro corpo.
Per Wittgenstein (1953/1967:52) sapere il significato di una parola è ricordare il modo in cui
l'abbiamo imparata. Esiste infatti anche un modo di “fare esperienze” direttamente in L2. Può
succedere che allora manchino, in seguito, i mezzi per esprimere la stessa esperienza in L1 e che
l'apprendente abbia la sensazione di averla dimenticata. In realtà la L1 non è stata dimenticata, ma
si sono fatte nuove esperienze entro un diverso ambiente linguistico, e a queste esperienze non ne
corrispondono di analoghe nella propria lingua.
Studi sperimentali hanno dimostrato l'importanza della parola per l'organizzazione dell'esperienza in
memoria (Markman 1990).2 La parola è dunque uno dei meccanismi più potenti di facilitazione
della memoria. Vediamo così che le relazioni tra parola, memoria ed esperienza sono profonde e
molteplici: se da un lato la parola, come schema verbale dell'esperienza, rafforza i processi di
memorizzazione, dall'altro l'apprendimento e il ricordo della parola passano attraverso l'esperienza.
Dal confronto tra la propria esperienza passata e la nuova esperienza in L2 emergerà una sintesi
personale assolutamente originale. La prospettiva cognitivista descrive il processo di
apprendimento come un processo di rielaborazione (Job-Tonzar 1993:7):
1 Tale caratteristica viene rilevata tra gli altri, anche da Bühler, che la trae dagli studi di fonologia a lui contemporanei e la
definisce “principio della rilevanza astrattiva” (Bühler 1965/1983:94 sgg.)
2 Ellen Markman della Stenford University ha elaborato la “supposizione tassonomica”, secondo la quale pare che i bambini
abbiano una capacità innata di ordinare gli oggetti tassonomicamente quando viene presentata loro un’unica etichetta linguistica.
73
L'apprendimento ha un carattere attivo, costruttivo e interattivo (...) non è mai costituito da un semplice
processo di accumulo e immagazzinamento di informazioni, esso richiede invece di integrare
l'informazione nuova con quella già presente in memoria, di instaurare nuove connessioni tra le conoscenze già
possedute, e di ristrutturare gli schemi interpretativi a disposizione.
1 La memoria di lavoro è costituita, secondo Baddeley (2002:5-6), da un esecutivo centrale con funzioni di natura regolatoria e di
attenzione, dall'anello fonologico che conserva le informazioni per qualche secondo, anche grazie alla “ripetizione subvocale”, e
dal blocco per appunti visuo-spaziale, che svolge una funziona analoga all'anello fonologico per quanto riguarda le
informazioni visuo-spaziali.
2 Un “gruppo neuronale” è un insieme di neuroni che interagiscono cooperativamente, fortemente connessi, attivi di concerto e
capaci di rispondere coerentemente a uno stimolo (Tononi 1995:XIX).
3 Gerald M. Edelman è un neurobiologo, direttore del Neurosciences Institute a La Jolla in California. Ha ricevuto nel 1972 il
premio Nobel per la medicina grazie alla “teoria della selezione clonale” che ricostruisce il sistema di selezione degli anticorpi
sulla base di un rigoroso selezionismo. Sempre sulla base del selezionismo egli ricostruisce l'evoluzione del sistema nervoso
attraverso vari stadi di selezione neuronale in funzione dell'adattamento all'ambiente. Edelman individua tre meccanismi
responsabili del comportamento adattativo del sistema nervoso che si realizza attraverso la “selezione neuronale”, ovvero
l'eliminazione di grandi quantità di neuroni e connessioni non utilizzate: l'adattamenro durante lo sviluppo (eventi epigenetici);
l'adattamento che avviene, nel corso della vita di un individuo, attraverso l'esperienza; la “segnalazione rientrante” che organizza
gruppi di neuroni in “mappe” specializzate nell'esecuzione di determinati compiti. La sua teoria è stata sviluppata in seguito dal
connessionismo evuolutivo (cfr. Calabretta 2002) che ha il merito di unire, in una prospettiva evoluzionista, l'innatismo proprio
dei cognitivisti alle teorie sull'adattamento all'ambiente di ambito costruttivista. Secondo i connessionisti, che operano con
modelli di intelligenza artificiale, la nostra struttura celebrale è frutto di un adattamento perfezionato nel corso tempo e
tramandato di generazione in generazione attraverso il codice genetico.
74
all'interazione con l'ambiente (apprendimento “neotenico” che include l'apprendimento del
canto da parte degli uccelli e del linguaggio da parte dell'uomo entro i primi anni di vita);
• apprendimento associativo o condizionato legato alla associazione tra stimolo e risposta;
• apprendimento comunicativo, trasmesso da individuo a individuo.
Tutte le forme di apprendimento sono basate sull'esercizio, ovvero la ripetizione attiva di schemi
motori.1 L'apprendimento comunicativo, operante nella trasmissione del linguaggio, è basato sulla
imitazione. Tuttavia l'esercizio, ovvero la ripetizione e la frequenza di uno stimolo, non bastano per
garantirne la memorizzazione. Le informazioni linguistiche elaborate dalla memoria di lavoro
hanno una persistenza molto limitata nel tempo e necessitano di essere organizzate in chunks, in
unità di significato per essere ricordate. La MBT sembra essere infatti basata su un codice
fonologico, mentre la MLT preferirebbe una codificazione semantica (Baddeley-Hitch 1993) che
produce tracce maggiormente persistenti dell’elaborazione relativa alle caratteristiche superficiali
del linguaggio. Craik e Lockhardt (1972) sostengono che il tipo di elaborazione influenza la
persistenza della traccia mnesica e la prestazione. La mera ritenzione dell'input nelle MBT non
garantisce l'apprendimento.2 Per far questo è necessario che l'input venga immagazzinato nella
MLT. Ma come avviene questo passaggio? Secondo Craik e Lockhardt (1972) la memoria è meno
una funzione dei diversi tipi di magazzini che una funzione dei processi coinvolti nell'elaborazione
dell'input. La processazione coinvolge diversi livelli:
• livello superficiale: analisi iniziale delle caratteristiche formali dello stimolo;
• livello profondo: elaborazione dello stimolo che viene messo in relazione con gli schemi
preesistenti in memoria per estrarne modelli e significati.
Secondo questo modello la persistenza della traccia nella MLT è una funzione della profondità
dell'analisi, con un livello più profondo di analisi associato con tracce più elaborate, più durature e
più forti (Craik-Lockhart 1972:676).3 Il passaggio dalla MBT alla MLT necessita dunque della
rielaborazione attiva dell'input e viene facilitata dall'organizzazione del materiale (Baddeley 2002).
Secondo Ellis (1999:26) sono due i tipi di compiti che incoraggiano il processo di elaborazione
profonda:
• richiamare alla memoria o riassumere materiali letti;
• leggere un testo formulando su di esso una serie di domande alle quali si tenta di rispondere.
Il primo di questi compiti è molto vicino al trattamento del testo drammatico che viene effettuato
durante il laboratorio, dove si può scegliere di “rievocare” un testo memorizzato dopo averlo letto,
oppure di “ricostruirlo” dopo averlo sintetizzato in un copione (cfr. § 3.2.2.1). Al contrario, un testo
solamente letto non richiederà questo tipo di elaborazione, anche se una lettura drammatica lascerà
una traccia più profonda di una semplice lettura a causa del coinvolgimento del fattore emotivo.
Il secondo compito indicato da Ellis fa parte delle procedure normalmente utilizzate per la
didattizzazione di un testo, che può applicarsi, nella fase di lettura e comprensione, anche al testo
drammatico. Anche l'operazione di trasformazione del testo drammatico in copione ora citata, dove
è necessario suddividere il testo in sequenze evidenziandone le azioni, le intenzioni, i sentimenti,
rappresenta una forma di elaborazione.
L'attività teatrale implica dunque una ripetizione di elaborazione con le seguenti caratteristiche
che consentono un livello profondo di analisi dell'input:
• è sociale: si svolge entro un gruppo sociale significativo;
• è centrata sul significato: richiede un'interpretazione del testo, ovvero una sua elaborazione
a livello semantico;
1 La legge di Hebb, formulata nel 1949, descrive l'effetto dell'esercizio a livello neurobiologico: quando due neuroni si attivano
contemporaneamente, si rafforza la connessione sinaptica; brevi stimolazioni ripetute rendono questo legame stabile. In pratica
un'area funzionale esiste in quanto è esercitata. I rapporti sinaptici si rimodellano in base all'esercizio. Ciò è valido anche per il
suo contrario: la mancanza di esercizio indebolisce i collegamenti (Hebb 1949).
2 Uno studio Bekerian e Baddelay (1980) dimostrano che 1000 ripetizioni di un annuncio della BBC sul cambiamento di frequenza
radiofonica non si sono dimostrati sufficienti ad assicurarne la rievocazione.
3 “(...) trace persistence is a function of depth of analysis, with deeper level of analysis associated with more elaborate, longer
lasting, and stronger traces”.
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• è pluricodica: richiede l'uso contemporaneo di più codici, e utilizza diversi canali di
comunicazione;
• è olistica: coinvolge più dimensioni sensoriali, cognitive ed affettive;
• è motivante: se il project work teatrale viene concordato e non viene imposto agli
apprendenti, esso rappresenta un'attività finalizzata a un prodotto sociale dove ciascuno
assume la propria parte di responsabilità al successo comune.
Sulla base delle teorie della memoria, la glottodidattica, in particolare il Lexical Approach, si è
occupata delle mnemotecniche, ovvero delle tecniche di memorizzazione. Le mnemotecniche
vengono applicate preferibilmente alla memorizzazione del lessico e molte di esse rimandano
all'associazione con immagini, alla ripetizione e alla contestualizzazione dell'input, all'elaborazione
multisensoriale degli stimoli (Cardona, 2001:135). Molte di queste tecniche le troviamo presenti
nell'attività teatrale. Ma nel teatro non si tratta di apprendere vocaboli, siano essi isolati o connessi
attraverso “reti semantiche”, quanto di apprendere sequenze di atti linguistici, molti dei quali
presentano, come emerge dall'analisi della conversazione, una successione fissa o prevedibile. Tali
sequenze, utilizzate dagli informatici nella programmazione dell'interfaccia con gli utenti, vengono
chiamate script. Secondo la definizione di Shank e Abelson (1977), lo script è una struttura che
descrive una sequenza appropriata di eventi in un contesto particolare, oppure una sequenza
predeterminata e stereotipica di azioni che definisce una situazione ben conosciuta (ad esempio le
azioni e gli scambi verbali che si possono svolgere al ristorante). Lo script è di grande importanza
per la memorizzazione in quanto rappresenta uno schema di comportamento linguistico facilmente
recuperabile con caratteristiche non solo lessicali, ma anche sintattiche e pragmatiche. Esso
rappresenta un modello completo di comportamento linguistico.
1 I neuromediatori sono un sostanze che veicolano le informazioni fra le cellule componenti il sistema nervoso, i neuroni,
attraverso la trasmissione sinaptica. Sono mediatori dell'umore e vengono liberati sotto la spinta degli “affetti” già nella vita
intrauterina. La noradrenalina, insieme alla dopamina, è ritenuta svolgere un importante ruolo nell'attenzione e nella sua
focalizzazione. La 5- idrossitriptamina (serotonina) ha un ruolo importante nella regolazione dell'umore e sulle facoltà cognitive.
Anche altre molecole della felicità: endorfine, ossitocina, dopamina, o dell'infelicità serotonina, o dell'allarme (GABA) o della
paura (adrenalina) giocano il loro ruolo nell'attivazione e inibizione della sinapsi (Panizzon 2002).
2 “Thus, motivational and attitudinal considerations are prior to linguistic considerations. If the affective filter is 'up', no matter
how beautifully the input is sequenced, no matter how meaningful and communicative the exercise is intended to be, little or no
acquisition will take place” (traduzione nostra).
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processato. Si tratta dunque di una barriera che può impedire dall'inizio il processo di
apprendimento. Nella sua insistenza sulla comunicazione significativa, Krashen, come molti che si
sono sforzati di applicare metodi comunicativi, lamenta tuttavia la difficoltà di trovare argomenti di
conversazione nella classe, di creare situazioni naturali e comunicative in cui contestualizzare le
difficoltà strutturali da sottoporre all'attenzione degli apprendenti tenendo conto del loro livello di
competenza e dei loro interessi (Krashen 1981:104; cfr. Schewe 1993a:20-22). Krashen conclude:
“Forse la corretta generalizzazione è che le attività migliori sono quelle che sono naturali,
interessanti e comprese. Quando si incontrano questi requisiti, e dove ci sia una buona quantità di
input di questa natura, può darsi che i+1 venga garantito 'naturalmente' e ripassato più e più volte:
ne deriverà un progresso nell'acquisizione del linguaggio” (Krashen 1981:104).1 Abbiamo già
discusso (§ 2.2.1.2) l'idea che l'apprendimento possa essere garantito solo dall'input comprensibile.
Ciò che ci interessa ora è la possibilità di stabilire una comunicazione “naturale” e motivante in
classe. Spesso si è pensato di realizzarla attraverso momenti di “conversazione”, con tutte le
difficoltà ad esse connesse. Il problema che nasce nel momento in cui si cerca di stimolare una
conversazione in classe non dipende a nostro parere solo dalle maggiori o minori capacità di
“animatore” dell'insegnante, che pure hanno una loro importanza, quanto dal contesto formale in cui
avviene l'insegnamento-apprendimento che non favorisce di per sé un processo comune di
costruzione della competenza e dei saperi. Il “gioco” della conversazione è percepito da tutti i
partecipanti come un mezzo per esercitare la lingua. Ovviamente l'attenzione di tutti è sulla lingua
più che sul significato della comunicazione stessa: questa non può che risultare “poco naturale” e
difficilmente motivabile. Schewe (1993a:20-22), contrappone alla “conversazione”, che egli
definisce una “lezione pratica non programmata” (ein konzeptloser praktischer Unterricht), una
lezione di lingua pratica (ein sprachpraktischer Unterricht), ovvero il teatro. Il progetto teatrale
crea un contesto in cui l'elaborazione del linguaggio è l'“Attività”, con la “A” maiuscola, in cui il
gruppo-classe è impegnato. Tale elaborazione ha la L2 come oggetto e la L2 come mezzo di
comunicazione tra i membri del gruppo e tra i membri del gruppo e l'insegnante, ma il suo scopo,
oltre che l'apprendimento, è qualcosa che alla fine dovrà uscire dalla classe, lo spettacolo, che
diviene il momento che giustifica e motiva gli sforzi comuni. Per questo il progetto teatrale, se
viene fatto proprio dal gruppo, è di per sé motivante. Ciò non toglie che l'insegnante debba
compiere un lavoro di motivazione nel momento in cui propone alla classe la possibilità di un
progetto teatrale. L'importanza di questo delicato momento è sottolineato da quanti si sono occupati
dell'uso delle tecniche teatrali nella classe di L2. Sarebbe inutile negare la presenza di resistenze,
talvolta anche forti, nell'affrontare un'attività in cui ognuno è chiamato ad “esporsi” personalmente
di fronte a più persone (cfr. § 3.1.3.3).2 Le resistenze possono essere vinte dall'insegnante, che, oltre
a introdurre adeguatamente l'attività, può per primo “mettersi in gioco”, può creare un clima disteso,
arrivare al progetto drammatico per gradi o portare l'esempio di altri progetti già effettuati che
rendano più accettabile l'idea di affrontare la scena. Il teatro dei burattini presenta a questo
proposito il vantaggio di frapporre tra sé e il pubblico il pupazzo, permettendo agli apprendenti di
mostrare agli altri una “maschera” che li protegge dal rischio di una perdita della faccia. Questo è
uno dei motivi che ci ha portato a preferirlo al teatro “in persona” nel fare teatro con gli apprendenti
stranieri.
Anche gli approcci umanistici pongono attenzione all'apprendente come “persona” curando l'aspetto
motivazionale, emozionale e affettivo del rapporto educativo, considerati elementi facilitanti per
l'apprendimento. Il metodo suggestopedico di Lozanov (Lozanov-Gateva1983) dà importanza
1 “Perhaps the correct generalization is that the best activities are those that are natural, interesting, and understood. When these
requirements are met, and where there is a great deal of input of this nature, it may be the case that i+1 will 'naturally' be
covered and reviewed many times over, and progress in language acquisition will result” (traduzione nostra).
2 Holden (1981:18) si preoccupa che le attività di drammatizzazione, benché motivanti, siano troppo stancanti, tali da determinare
una caduta di interessa da parte degli studenti; Wessels (1987:10) riguardo al progetto drammatico sottolinea l'importanza di
convincere gli studenti dell'utilità del progetto mostrando loro il successo di un progetto precedente e il progresso ottenuto dagli
studenti che lo hanno volontariamente seguito. Butterfield (1989:10 sgg.) insiste ripetutamente sulla necessità di spiegare agli
apprendenti approfonditamente l'utilità e lo scopo delle attività di drammatizzazione.
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all'ambiente in cui avviene il processo di insegnamento/apprendimento, al significato emozionale
delle attività che vengono proposte nel corso della lezione, all'enfasi con cui vengono pronunciate le
frasi da parte dell'insegnante, alla dimensione ludica e creativa. Il Total Physical Response di Asher
(1977) teorizza un totale coinvolgimento dell’apprendente attraverso l'unione della sollecitazione
verbale e del movimento fisico; fa uso dell'umorismo, cerca di ridurre l'ansia e la frustrazione
dell'apprendente lasciando a lui la scelta del momento in cui iniziare a usare attivamente la L2; nel
Community Language Learning (CLL) (Curran 1978) per raggiungere quest'ultimo obiettivo è
previsto l’uso in classe del language alternation, ovvero la possibilità da parte sia del docente che
del discente di usare, se necessario, anche la L1 o una lingua comune diversa dalla lingua target.
Inoltre Curran (1978) sottolinea l'importanza dell'ascolto dell'apprendente da parte del docente e del
rapporto umano entro il gruppo classe. Il Sylent Way (Gattegno 1983) attribuisce la massima
importanza alla indipendenza e all'iniziativa degli apprendenti, ai quali la conquista della nuova
lingua viene posta come sfida cognitiva. Lo Strategic Interaction ideato da Di Pietro (1987) cerca di
impegnare totalmente gli apprendenti in modalità di comunicazione che mettono in gioco la loro
personalità in maniera olistica.
Serra Borneto (1998:26-35) nell'individuare le tre ipotesi generali cui questi approcci fanno
riferimento, si richiama, sia a ciò che definisce l'ipotesi “psicologico-affettiva” che alle già citate
ipotesi cognitiviste e costruttiviste. Dalla dalla prima di tali ipotesi, gli approcci umanistico-affettivi
deducono una concezione olistica dell'apprendimento che considera la lingua come “creatività,
cultura, emozione, modo di ragionare, capacità di metaforizzare, interpretazione del mondo, in una
parola cognizione nel senso più lato del termine” (Serra Borneto, 1998: 30). Dall'ipotesi
costruttivista traggono l'attenzione all'ambiente di apprendimento, in particolare la ridefinizione del
ruolo dell'insegnante inteso come “facilitatore” con il compito di approntare un ambiente, materiale
e sociale, il più possibile adeguato al realizzarsi del processo di apprendimento, fornendo
“occasioni” di uso della lingua che tengano conto dei bisogni dell’apprendente.
Le tecniche utilizzate dagli approcci umanistici sono diverse tra loro, eppure tutte mirano a
motivare l’apprendente proponendo attività gratificanti, stimolanti e “divertenti”, ponendo
attenzione a creare un ambiente sociale comunicativo e, in particolare a gestire l’ansia, che risulta
essere uno dei fattori che ostacolano maggiormente l’apprendimento sia nei metodi tradizionali che
in quelli fortemente centrati sull’insegnante. Il mancare di strumenti adeguati per esprimersi può
suscitare infatti, specialmente all'inizio, la sensazione di una sorta di regresso all'infanzia: quando il
pensiero comincia a utilizzare più la L2 che la L1 il proprio mondo esperienziale può trovarsi a
subire gli stessi limiti cui è soggetta la capacità di espressione. Ciò genera spesso, negli apprendenti
adulti, delle forti resistenze che possono arrivare fino al rifiuto di usare attivamente la L2. Gli
approcci umanistici mettono pertanto l'accento sull'importanza di un ambiente accogliente,
dell'assunzione di una nuova identità, dell'uso della musica, delle tecniche di rilassamento, del gioco
e di quanto possa servire ad abbassare l'ansia e abbattere le resistenze dell'apprendente. Si parla, per
queste tecniche, di “infantilizzazione”: si ritiene cioè che i discenti debbano in qualche modo
“regredire” a uno stadio infantile per poter abbassare quelle difese che altrimenti impedirebbero
loro di rendersi permeabili alla nuova lingua. Il concetto di ”infantilizzazione” ha anche un valore
descrittivo per comprendere ciò che avviene, specialmente in un apprendimento “in immersione”, in
una mente adulta abituata a procedimenti di pensiero complessi quando è costretta a usare un codice
linguistico ristretto. In questo caso la didattica ludica (§ 2.2.2.2) può essere un modo per aggirare
l’ostacolo e sciogliere la tensione.
Molte caratteristiche degli approcci comunicativi e umanistico-affettivi sono rinvenibili negli
approcci teatrali:
• l'infantilizzazione;
• l’attenzione posta sull’aspetto sociale della lingua;
• l'attenzione per la dimensione affettiva e attenuazione dello stress;
• il ruolo attivo dell'apprendente;
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• il ruolo dell'insegnante come facilitatore;
• il focus sul significato;
• l'uso dell'umorismo e della didattica ludica;
• l'associazione gesto-parola;
• l'attenzione alla dimensione interculturale;
• la teorizzazione di una didattica per “compiti” o per “progetti”.
Ma ciò che ci sembra più significativo è che molti degli approcci citati utilizzino in varia misura
tecniche di drammatizzazione. Nel CLL troviamo il paper drama, una storia prodotta dagli
apprendenti da accompagnare con cartelloni che descrivono gli avvenimenti. Pur non essendo
ancora una forma di teatro, il paper drama è la drammatizzazione di un racconto e utilizza, proprio
come i cantastorie di una volta, la narrazione affiancata e rinforzata dalla rappresentazione visiva.Il
TPR, oltre a drammatizzare l'azione in classe seguendo le istruzioni dell'insegnante, fa uso di role
play e di scenografie in miniatura, prodotte dallo stesso Asher, che servono ad “allargare” il campo
di azione degli apprendenti (Visciola 1998:76). Quasi tutti gli approcci prevedono l'attivazione della
L2 attraverso role play, ma chi si avvicina di più a un approccio drammatico-teatrale, pur senza
inserire il teatro in un progetto, è Di Pietro con lo Strategic Interaction (cfr. Vardaro 1998:192-
194). L'impostazione teorica dello Strategic Interaction è di natura pragmatica. Partendo dalla
considerazione che il linguaggio non è mai neutro, Di Pietro (1987) intende elaborare un metodo
che insegni agli apprendenti a valutare il significato “strategico” dell'evento comunicativo. Ciò può
avvenire solo in contesti dove strategie e intenzionalità abbiano modo di svilupparsi, dove siano
presenti obiettivi comunicativi da raggiungere. Lo Strategic Interaction usa un tipo di lingua che
normalmente non ha spazio nell’apprendimento guidato, ma si verifica di solito nell'apprendimento
spontaneo dove l’apprendente è in diretto contatto con la realtà della L2 e deve, attraverso di essa,
risolvere problemi concreti. Nel momento in cui Di Pietro si propone di ricostruire in classe la
complessità e intenzionalità delle interazioni “reali” si trova a far ricorso all’impiego di
“sceneggiature”. Tali sceneggiature sono molto simili agli scenari della Commedia dell’Arte o del
teatro dei burattini e tendono a ricostruire l’azione attraverso la descrizione di un intreccio, spesso
comico, di equivoci, malintesi, intenzioni contrastanti. Ma, mentre nello Strategic Interaction le
intenzioni dell’interlocutore non sono note ai parlanti, nella rappresentazione che deriva dagli
scenari queste, di solito, lo sono. Nella Strategic Interaction quindi le simulazioni sono molto più
vicine alle tecniche dell'improvvisazione che al teatro. Esse rappresentano in un certo senso un
passo ulteriore verso l'interazione “reale” e permettono di lavorare in gruppo partendo dal livello di
competenza degli apprendenti. Le fasi in cui si realizza sono quattro:
• Fase preparatoria: la classe si divide in gruppi composti da un massimo di 8 persone. A ogni
gruppo viene consegnato un foglio con le istruzioni per il ruolo che uno solo elemento del
gruppo dovrà interpretare con l'aiuto dei compagni;
• Fase 1. Rehersal (prova): il gruppo decide le strategie da adottare per interpretare il ruolo
assegnatoli. In questa fase è possibile consultare materiali e chiedere il supporto
dell'insegnante;
• Fase 2. Performance: le persone designate dal gruppo svolgono la drammatizzazione. Nel
caso abbiano bisogno di sostegno e aiuto possono richiederlo al gruppo stesso;
• Fase 3. Debriefing: il linguaggio prodotto sarà sottoposto ad analisi da parte dell'insegnante
che potrà eventualmente proporre modi alternativi di condurre l'interazione.
A questo approccio dobbiamo l’individuazione di alcune importanti categorie impiegate nell’analisi
dell’evento comunicativo come la divisione dei “livelli di comunicazione” che vanno dal semplice e
neutrale “scambio di informazioni” (dov’è, che ora è ecc.), alla “transazione”, che implica
un’intenzione non dichiarata (ad esempio chiedere un’informazione per dare inizio a una
conversazione), e infine all’“interazione”, dove è in primo piano il modo in cui un parlante
interpreta il suo ruolo attraverso il linguaggio.
Assumendo un modello ampio di comunicazione, questo approccio pone inoltre l'accento su
79
elementi come la gestualità, l’intonazione e la risata, ovvero i tratti paralinguistici, che permettono
di trasformare e capovolgere i significato letterale di una frase, e le “strategie intenzionali” messe in
atto per uno scopo preciso (scusarsi, cambiare argomento, criticare, rifiutare) che rimandano
direttamente agli atti illocutori di Austin. Vengono infine rilevate attività comunicative
“ritualizzate” (forme di saluto, augurio ecc.) e “routinizzate”, come l’interazione al telefono o al bar
o al ristorante che abbiamo trovato citate anche nel QCE sotto forma di “copioni interazionali” e
che fanno parte della competenza pragmatica.
Prima di concludere questa breve rassegna, intendiamo ancora accennare a due elementi di estrema
importanza presenti in misura diffusa negli approcci comunicativi e umanistico-affettivi: la didattica
ludica, derivante direttamente dall'”ipotesi affettiva”, e l'attenzione all'individualità e ai bisogni di
ciascun apprendente, che conduce a utilizzare una didattica il più possibile differenziata. Vediamo
come queste due esigenze si realizzano nel progetto teatrale.
Il teatro entra perfettamente nella definizione di “gioco” che per Fabio Caon (2006b:49) è “qualsiasi
attività in cui lo studente è motivato intrinsecamente, è coinvolto nella globalità della sua persona e
si trova in condizione di superare delle difficoltà di ordine cognitivo attivando le sue risorse umane
intrapersonali e interpersonali”. La glottodidattica ludica, secondo la definizione che ne danno
Fabio Caon e Sonia Rutka (2004: 22) “è una metodologia che realizza coerentemente in modelli
operativi e in tecniche glottodidattiche i principi fondanti degli approcci umanistico affettivo e
comunicativo”. Esso trova la sua ragione nella natura globale e olistica dell'esperienza ludica
(Freddi 1990), permettendo un apprendimento costante e naturale e coniugando armonicamente il
divertimento e l'impegno. Il gioco ha la funzione di abbassare il “filtro affettivo”, coinvolgendo
contemporaneamente sia la sfera cognitiva che quella emotiva. Esso non è mai fine a se stesso, ma
risponde a precise finalità linguistiche (Caon 2006:46).
Sempre secondo Caon (2006:47-48) il gioco didattico è proponibile a tutte le età a patto che si tenga
conto della maturità cognitiva e delle competenze linguistiche degli apprendenti, agendo sulla zona
di sviluppo prossimale. Per essere accettate dagli apprendenti adolescenti o adulti le attività devono
essere sia ludiche che sfidanti sul piano cognitivo.
Caon mette anche in luce due importanti caratteristiche del gioco che abbiamo più volte individuato
nel teatro, nel teatro di figura, come nella dimensione pragmatica della lingua. Il gioco è infatti:
• transculturale: ovvero è una forma di comportamento umano universalmente diffuso per
cui è possibile condividere alcune regole implicite (una sorta di “grammatica universale
ludica” che nel nostro caso si identifica con una “grammatica universale spettacolare”);
• culturalmente determinato: in quanto è specchio della società in cui si sviluppa.
Abbiamo spesso individuato in questa compresenza di un piano di condivisione e di un piano di
difformità culturale una risorsa che può essere sfruttata per un percorso che dal “noto” e familiare
porti gradatamente verso il “nuovo” presente nella lingua e cultura seconda, permettendo agli
apprendenti di produrre ipotesi predittive che lo spingono ad attingere alle proprie conoscenze
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pregresse e ad elaborare strategie di azione. Il confronto tra “noto” e “nuovo” consente di instaurare
significativi confronti tra culture diverse.
Il gioco non è solo presente nello spettacolo teatrale, nel piacere, condiviso da attori e spettatori,
della finzione scenica, ma partecipa a ogni fase del processo di realizzazione dello spettacolo.
Coinvolge il momento del travestimento teatrale, della realizzazione delle scene, delle prove. Nel
teatro dei burattini la dimensione ludica è pervasiva, dalla costruzione dei pupazzi, degli scenari,
alla definizione dei caratteri e dei modi di espressione tipici del burattino, fino alla struttura ritmica
e ritualizzata dei movimenti e dell'interazione scenica.
Il gioco è inoltre presente nel linguaggio del teatro comico, nel sovvertimento delle regole che
abbiamo visto caratterizzare ogni forma di umorismo (§ 2.1.2.3). Analizzando i vari tipi di comicità
abbiamo visto che alcuni richiedono ampie e aggiornate conoscenze sul mondo, come la satira, altri
si basano su meccanismi linguistici, come l'umorismo e i giochi linguistici, altri ancora su
meccanismi elementari e universali legati alla situazione. Perché non usare questi mezzi per
giungere a “toccare” il mondo della L2 o sviscerare i meccanismi che regolano le strutture
linguistiche? Perché non utilizzare il capovolgimento dei valori presente nel comico per analizzare
tali valori attraverso le differenze culturali, per incoraggiare gli apprendenti ad avere un
atteggiamento più flessibile, nei confronti delle regole e delle norme sociolinguistiche e socio-
culturali loro consuete?
Mollica (2001:295-296) sintetizza bene i vantaggi che derivano dall'usare l’umorismo verbale in
classe: “l’umorismo verbale si basa fortemente sulla capacità di comprendere la polisemia delle
parole, delle espressioni idiomatiche e delle metafore, di scoprire l’ambiguità, di cogliere e
comprendere l’incongruenza e di accorgersi di un inatteso cambiamento di prospettive”. Mollica ne
considera l’applicazione utile, tra l’altro, per insegnare la pronuncia, sottolineare il significato di
un’espressione idiomatica e “sbeffeggiare” una regola grammaticale. Il meccanismo del gioco
linguistico mette in evidenza la relazione di una parola con le altre normalmente escluse dalle scelte
operate all'interno dell'insieme paradigmatico associato alla memoria del parlante, in pratica le
parole non emesse ma che avrebbero potuto essere scelte dal parlante in quanto hanno rapporti di
somiglianza o di differenza sia fonetica che semantica (Paradisi 1987:232-233). Di solito il parlante
sceglie le parole in opposizione alle altre che compongono il paradigma, e questa scelta esclude
automaticamente tutte le altre. Ricostruire il percorso che conduce dalla parola corretta a quella
distorta (associazione fonetica, logica o semantica, paraetimologia) o viceversa, richiede una
riflessione sulla lingua, sui meccanismi di formazione delle parole (quale suffisso è possibile usare
e quale no, quali parole consentono di essere unite in un composti e quali no, ecc.) che esercitano e
sviluppano le competenze linguistiche negli apprendenti. In questo “gioco” trova posto anche la
correzione dell'errore che potrà avvantaggiarsi del clima ludico e della possibilità di essere inserito
in un contesto collaborativo, permettendo così l'analisi di transfer linguistici o di false ipotesi
interlinguistiche. Così è avvenuto, ad esempio, nella sperimentazione con apprendenti stranieri
(4.2.2), dove il giocare con i difetti di pronuncia è servito a gli apprendenti per divenirne
consapevoli (“sono andata a ritirare i pani” non è la stessa cosa che “sono andata a ritirare i
panni”!).
Un'ultima notazione sull'uso di filastrocche, canzoni e scioglilingua. L'apprendimento di una L2
passa dall'associazione di suoni e significati. I suoni costituiscono le parole, ma non è semplice, per
un principiante, identificare le parole nel continuum linguistico. L'identificazione della sillaba,
l'elemento minimo della parola (cfr. Halliday 1992), e l'intonazione prosodica rappresentano il
ponte che gli apprendenti devono percorrere dal suono inarticolato alla identificazione della parola.
Ciò è valido tanto più per l'italiano, che si struttura fortemente, dal punto di vista morfologico e
fonologico, sulle sillabe e nel quale la prosodia rappresenta spesso una guida nella identificazione
degli atti linguistici (Voghera 1992). La filastrocca, la ripetizione ritmica e corale, che hanno
sempre avuto un posto privilegiato nel laboratorio teatrale, acquistano un'importanza ancora più
determinante nel fare teatro con apprendenti stranieri in quanto rispondono a diversi scopi:
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• identificare i segmenti sonori portatori di senso;
• appropriarsi del ritmo della lingua;
• esercitare la pronuncia;
• esercitare l'intonazione;
• memorizzare il lessico.1
I giochi, gli indovinelli, le canzoni, gli scioglilingua sono strumenti preziosi da sempre usati nella
didattica delle lingue, ai quali l'attività teatrale dedica tradizionalmente appositi spazi.
Questa constatazione, lungi dallo scoraggiare l’azione didattica, deve tradursi nella massima
differenziazione dell’intervento dell’insegnante.
La didattica differenziata si realizza nel progetto teatrale in due modi:
• l'impiego di strategie di apprendimento diverse e la stimolazione di diverse “intelligenze”;
• l'apprendimento cooperativo (Cooperative Learning).
Quanto al primo punto facciamo riferimento a Gardner (1983/1987) che, nella sua teoria delle
intelligenze multiple, propone un approccio pluralistico alla cognizione. Egli definisce l’intelligenza
come capacità di risolvere problemi o di creare prodotti, che siano apprezzati all’interno di uno o
più contesti culturali. A determinare lo sviluppo dell'intelligenza (o delle intelligenze), oltre al
bagaglio biologico e al contesto storico-culturale, contribuisce il contesto educativo che include la
scuola, la famiglia e le decisioni personali. Sebbene egli identifichi diverse intelligenze specifiche e
indipendenti le une dalle altre,2 sostiene che le abilità implicate da un'intelligenza possono essere
usate come mezzo per acquisire informazioni che possono ricadere nell'ambito di un'altra
intelligenza specifica. Per esempio si possono imparare varie cose utilizzando sia codici linguistici
che presentazioni cinestetiche o spaziali o attraverso legami interpersonali (Gardner
1983/1987:354). Di conseguenza esistono diversi modi di apprendimento: diretto (legato
all’osservazione e all’imitazione) o mediato, legato a diversi agenti di trasmissione (persone, libri,
media), in contesto libero o istituzionalizzato ecc. L'importanza di questa affermazione per una
didattica differenziata è evidente. Conoscere le diverse intelligenze permette di sviluppare strategie
di insegnamento/apprendimento appropriate (Gardner 1983/1987:16): “L'educazione dovrebbe
essere 'scolpita' in modo tale da essere sensibile a tali differenze. Invece d'ignorare la diversità e di
pretendere che tutti gli individui abbiano (o debbano avere) lo stesso tipo di mente, dovremmo
adoperarci affinché ognuno riceva una educazione tale da massimizzare il suo potenziale
intellettuale”. L'insegnamento dovrebbe essere il più possibile individualizzato, ma non per questo
dovrebbe essere negata la dimensione cooperativa dell'apprendimento (Gardner 1993/1995:20):
Quando si parla della classe o della scuola centrata sull'individuo, è importante precisare che tale espressione
non nasconde alcuna intenzione di egocentrismo, auto-centratura o narcisismo. Anzi, in un ambiente educativo
centrato sull'individuo, gli approcci che comportano un apprendimento cooperativo sono spesso tenuti in
grande considerazione. Quello che invece voglio sottolineare è l'importanza di prendere sul serio le
inclinazioni, gli interessi, gli obiettivi di ciascun bambino e di aiutarlo, nella massima misura possibile, a
1 Non a caso la grande epica del periodo “orale” della cultura umana è stata tramandata in versi ritmici per essere più facilmente
memorizzabile.
2 Secondo Gardner (1983/1987) esistono varie competenze intellettive umane tra loro relativamente autonome se pur cooperanti.
Le principali sono 7: linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, cinestetica, interpersonale, intrapersonale, a cui è stata
aggiunta di recente anche un’intelligenza naturalistica (cfr. Torresan 2008).
82
realizzare le sue potenzialità. Se questo tipo di educazione centrata sull'individuo dovesse essere realizzata,
porterebbe a una facile situazione, nella quale, una maggiore percentuale di studenti troverebbe la propria
strada, avrebbe una maggiore autostima e forse una maggiore probabilità di ricoprire un ruolo positivo nella
comunità.
83
• usa strumenti multimediali;
• coinvolge vista, udito, tatto;
• richiede una varietà di abilità e comportamenti;
• richiede anche la lettura e scrittura;
• è impegnativo.
1 Tra le manifestazioni visibili della cultura Hofstede (2001:10) individua i rituali, gli eroi e i simboli. Adottando una diversa
prospettiva l'antropologo italiano Carlo Tullio Altan (1999) distingue 5 componenti che definiscono l'identità di una comunità
(ethnos): l'epos (la memoria storica); l'ethos (le norme inespresse che regolano la convivenza); il logos (il linguaggio comune); il
genos (la coesione determinata dai rapporti di parentela); il topos (il territorio).
84
“bisogni comunicativi” inseriti tra gli obiettivi della politica linguistica del QCE (2002:3). Il teatro,
mettendo in azione l'intero complesso di codici che caratterizza l'universo culturale sia degli
apprendenti che della lingua di apprendimento, ci viene in aiuto per sanare queste cecità e per
instaurare un dialogo diretto, se possibile, a superare barriere culturali oltre che linguistiche.
Abbiamo constatato che gli aspetti pragmatici della comunicazione sono soggetti a variazione nei
diversi sistemi di comunicazione linguistico-culturali (§ 2.1.2). Kasper (1992) e Takahashi (1996),
parlano di “transfer pragmatico” quando le abitudini della propria lingua vengono trasferite in L2
senza rendersi conto che non sempre sono appropriate.1 Partendo da un punto di vista sociologico,
più che strettamente linguistico, Goffman (1964/2000a:66) rileva l'importanza delle regole
pragmatiche per il procedere dell'interazione:
Vi sono regole ben precise che determinano il modo di iniziare e terminare gli incontri, le modalità di ingresso
e di uscita di determinati soggetti partecipanti, che cosa si può chiedere a coloro che collaborano a tenere in
piedi l'incontro, qual'è il comportamento corretto, sia in relazione allo spazio sia al tono di voce, che deve
essere mantenuto nei confronti di coloro che partecipano alla riunione e sono esclusi dall'incontro.
85
universali comuni a tutte le lingue. Partendo da questo patrimonio comune la grammatica emerge
dalle interazioni concrete tra i parlanti e appare indissolubilmente legata alle pratiche di
socializzazione attraverso cui l'apprendente entra a far parte di una comunità (Bettoni 2006:200).
Nel fare teatro ciò si verifica durante il lavoro per la messa in scena, dove il bisogno di comunicare
agisce da molla per l'apprendimento (e lo precede) e si basa, all'inizio, soprattutto su principi
pragmatici. Si verifica nell'usare i burattini, dove, per la natura universale della maschera, nativi e
non nativi, apprendenti e insegnanti, condividono sin dall'inizio un piano di comunicazione
pragmaticamente molto codificato che rappresenta il punto di partenza per lo sviluppo della
grammatica. Pertanto al contesto teatrale, benché apparentemente focalizzato sul significato più che
sulla forma, non sono estranei lo sviluppo della grammatica e la riflessione sulla lingua. Solo che,
diversamente da quanto avviene di solito nell'unità didattica, non vengono create situazioni al fine
di introdurre elementi grammaticali, ma si arriva agli elementi grammaticali partendo dal contesto e
dal bisogno comunicativo.
Veniamo a quella parte delle regole pragmatiche che abbiamo visto differire nelle diverse lingue e
culture. Bettoni si pone il problema della loro “insegnabilità”, un problema che pone due
interrogativi:
• cosa si può insegnare?
• come si può insegnare?
Partiamo dal primo di questi problemi. Afferma Bettoni (2006:182):
(...) nella pragmatica si mescolano in modo complesso questioni di identità e di valori, da una parte
l'apprendente può scegliere di rimanere diverso dai parlanti nativi per asserire la propria identità di L1 e C1, e
dall'altra anche i parlanti nativi possono apprezzare una qualche misura di divergenza dalla propria norma,
intendendola appunto come legittima asserzione di diversità.
86
questi ultimi argomenti, molti dei quali investono direttamente le relazioni interculturali in ambito
aziendale, molto è stato scritto (cfr. Hofstede 1991, 2001; Trompenhaars-Turner 1997; Balboni
1999). Bettoni (2006:218) rimanda alla ricerca contrastiva per definire gli obiettivi pragmatici
perseguibili a lezione. Noi riteniamo che anche durante l'attività teatrale questa ricerca possa essere
portata avanti, sia dall'insegnante che dagli apprendenti, ponendosi l'obiettivo comune di osservare
e riflettere, il più liberamente possibile, sui comportamenti emergenti.1
Riguardo alla seconda questione posta, ovvero al modo in cui sia possibile insegnare la pragmatica,
Bettoni (2006:219) suggerisce innanzitutto di “contestualizzare” l'apprendimento e “negoziare” i
significati entro situazioni specifiche:
(...) la presentazione e l'esercitazione didattica di attività quali quelle del ringraziare vanno inserite nel contesto
di un processo di più ampia negoziazione, superando così la tentazione di considerare le conversazioni in
diverse culture come equivalenti al livello di singoli enunciati o anche di coppie complementari quali appunto
grazie-prego, o offerta accettazione, saluto-saluto ecc. (...)
Data la possibilità di variazione, l'insegnamento deve quindi mettere gli apprendenti in grado di negoziare
appropriatamente situazioni specifiche, piuttosto che di recitare una serie di opzioni, per quanto ampie e
motivate. In altre parole, l'insegnamento deve focalizzare l'attenzione non solo sulle regolarità della norma ma
anche sulle possibilità del rimedio quando lo scambio diventa problematico. E questo suggerisce di esporre
l'apprendente anche a numerose interazioni meno prototipicamente lisce, dove elementi come il semplice
grazie-prego sono il prodotto di una estesa negoziazione.
In secondo luogo Bettoni (2006:221) ritiene necessaria una gradazione dei contenuti in base alla
processabilità degli elementi linguistici che realizzano le sequenze linguistiche coinvolte. Ci sembra
che le attività teatrali permettano sia di “contestualizzare” che di “negoziare” i significati. Ma non
solo, ci sembra che, attraverso la drammatizzazione e l'improvvisazione che partono dalla inter-
lingua degli apprendenti, sia possibile soddisfare anche la seconda condizione di cui, secondo
Bettoni, bisogna tener conto nell'insegnamento della pragmatica. Questo è quanto abbiamo cercato
di realizzare nei laboratori sperimentali di cui tratteremo nel § 4.
1 In questa direzione va anche la proposta di Balboni (1999) di osservare le differenze della cultura ospite selezionando alcune
categorie comportamentali. Ciò è possibile nel caso in cui l'apprendimento avvenga come L2 ma non quando si tratta di LS.
87
3. Il teatro nella didattica delle lingue moderne
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3.1 La storia, la teoria, le esperienze
Cosa farne del teatro? La mia risposta, se debbo tradurla in parole, è: un’isola galleggiante,
un’isola di libertà. Derisoria, perché è un granello di sabbia nel vortice della storia e non
cambia il mondo. Sacra, perché cambia noi. (Eugenio Barba)1
Nel considerare l'utilizzo del teatro per l'apprendimento/insegnamento delle L2 non possiamo
prescindere dal prendere in considerazione il complesso rapporto tra il teatro e l'educazione, un
rapporto che affonda le sue radici nella storia e che manifesta la sua ricchezza e produttività nei
numerosi problemi che ha sempre posto, e ancora pone, sia al teatro che alle istituzioni formative, la
scuola in particolare. Dalla intensa riflessione avvenuta a partire dalla fine degli anni Sessanta, sia
la scuola che il teatro escono rinnovati e trasformati (§ 3.1.1).
La presenza del teatro nell'insegnamento/apprendimento delle L2 (§ 3.1.2) risponde a un'esigenza
profondamente aderente alla natura della materia linguistica, un'esigenza che si intensifica a partire
dagli anni Settanta grazie alla “svolta comunicativa” di Hymes (1972/1979). La competenza
linguistica, divenuta competenza linguistico-comunicativa, impone infatti nuovi compiti alla
didattica delle L2:
• che vengano tenute in considerazione le componenti non intenzionali della comunicazione
come il linguaggio del corpo, la mimica, la prosodia;
• che in classe si realizzino forme di interazione quantitativamente e qualitativamente
significative tali da preparare gli apprendenti ad affrontare con successo la comunicazione
fuori della classe;
Il primo punto implica una riflessione sugli aspetti non verbali della comunicazione, “un ambito in
cui sfumano i confini tra qualità distintive e significative ed espressivo psichico” (Huber 2003:23)2e
che coinvolge, oltre alla dimensione psicologica e affettiva dell'apprendente, l'aspetto interculturale
presente nell'apprendimento di una L2. Viene sottoposta a critica una visione dell'apprendimento
come processo cognitivo puramente intellettuale, che esclude la sfera emotiva dell'individuo (cfr.
Damasio 1995). Nella ricerca di modi per sviluppare questi aspetti in considerazione di/nel
confronto con la L2/C2, si è fatto ricorso alle attività drammatiche e teatrali come strumento in
grado di rispondere a una concezione olistica dell'apprendimento.
Sul secondo punto si focalizzano molte delle motivazioni che hanno condotto a teorizzare l'uso
delle attività drammatiche. Il punto di partenza è il paradosso del concetto di “comunicazione”
implicito nel paradigma comunicativo, ovvero il volere insegnare, entro una situazione di
apprendimento, come si comunica al di fuori di una situazione di apprendimento (cfr. Huber
2003:54 sgg.). Ciò conduce al fenomeno constatato in § 2.2.2.1, per cui molti insegnanti lamentano
la difficoltà di stabilire una comunicazione “naturale” in classe. Di più: di fronte a situazioni poco
strutturate si deve constatare che spesso gli apprendenti tendono a rinunciare a esprimersi in L2
ricadendo, nei casi in cui la comune competenza lo consenta, sulla L1, o ricorrendo a strategie di
comunicazione non linguistica. Insomma una delle difficoltà di un apprendimento formale è attivare
le abilità orali, proprio quelle su cui insiste l'approccio comunicativo, anche quando sono state già
sviluppate abilità di ricezione o produzione scritta.3 È proprio questo il caso in cui la distinzione tra
apprendimento e acquisizione sembra avere un valore descrittivo. Per Freddi (1990:177):
la simulazione dell’uso linguistico in classe resta l’unica possibilità allorché si affronta l’apprendimento di una
lingua straniera. Essa costituisce anzi la sola condizione perché – data la situazione artificiale – si passi
dall’apprendimento all’acquisizione (…) facendo della lingua straniera una lingua in qualche misura seconda
(…).
1 Eugenio Barba, La casa delle origini e del ritorno, discorso in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa
dall’Università di Varsavia (28/5/2003) <www.odinteatret.dk/general_information/pdf_filer/La casa ITAL.pdf>.
2 “(...) ein Bereich wo sich die Grenzen zwischen distinktiv-significativen Eigenschaften und dem psychischen Expressivo
verwischen” (traduzione nostra).
3 Non è raro che uno studente chieda a gesti il permesso di uscire dalla classe, o di aprire la finestra, anche se conosce già da tempo
le forme per chiedere un permesso in L2 e sia in grado di ripetere senza esitazione tutte le forme del verbo “potere”.
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Così l'obiettivo della competenza comunicativa ha portato al proliferare di attività di “simulazione”
delle “reali” situazioni di comunicazione. Tali attività sono state proposte nei libri di testo attraverso
i dialoghi utilizzati all'inizio delle diverse unità e nelle attività drammatiche, soprattutto di role play,
che spesso però finiscono con lo scadere in esercizi ripetitivi concernenti le forme linguistiche
oggetto della lezione, in modo non dissimile dai “drill” di comportamentistica memoria.1 Il bisogno
di una visione più ampia della comunicazione, come di una riflessione più approfondita sui modi e
gli obiettivi del “fare teatro” in classe, ha condotto a identificare in una didattica per compiti e per
progetti una via per uscire dal “paradosso comunicativo” radicando la comunicazione nel “qui ed
ora” della classe (§ 2.2.1.3 e 2.2.1.4), e a inserire le “attività di drammatizzazione” in un progetto
teatrale di più ampio respiro che le renda emotivamente significative, e quindi realizzi le esigenze
poste dal primo dei due punti considerati.
Questa nuova prospettiva solleva però il problema di un rinnovamento delle modalità di
insegnamento/apprendimento, delle tecniche utilizzate in classe, dei ruoli del rapporto educativo,
degli spazi dove questo si realizza; problemi che investono in pieno il rapporto tra teatro e
istituzioni educative. Nonostante la lunga e accreditata presenza del teatro nella scuola e nella classe
di lingue, la diffidenza e i timori che suscitano le pratiche teatrali non hanno mai cessato di
accompagnarne le vicende. Spesso tali resistenze sono manifestate proprio da quanti ne teorizzano
l'utilizzo o scelgono di usarne le tecniche. Il timore soggiacente a molte argomentazioni da parte
degli insegnanti è ben espresso da Maley e Duff (1983:19):
Per molte persone le file di banchi e di sedie rappresentano ordine e disciplina; gruppi sparpagliati di sedie
o persone accovacciate per terra rappresentano disordine e mancanza di controllo. Questa è una delle ragioni
reali per cui molti insegnanti si oppongono all'idea del lavorare in gruppi. Essi sentono che gli studenti sono in
qualche misura sfuggiti al loro controllo e che questo è, almeno potenzialmente, pericoloso. Questa non è una
delle obiezioni che vengono avanzate pubblicamente, che sono normalmente del tipo, “ci vuole troppo tempo
per organizzarsi”, “fanno troppo rumore”, “come faccio a correggerli?”, “come faccio a fornire loro il
linguaggio di cui hanno bisogno?”, “come faccio a farli parlare inglese tra di loro?”. Ma tali obiezioni spesso
non sono altro che il riflesso del disagio degli insegnanti che sentono di avere sconvolto l'“ordine” della
classe.2
Il problema sembra essere posto dalla ridefinizione del ruolo dell'insegnante, tanto discussa in teoria
quanto difficile da realizzare in pratica. L'insegnante deve accettare di non essere l'unico a stabilire
quello che avverrà in classe. Deve essere in grado di sopportare la scomodità dell'incertezza e
sostenere una certa dose di ambiguità.
Al di là dei problemi di “autorità”, che comunque investono ciclicamente la scuola e che vengono
proiettate sull'apprendente-cliente nelle agenzie formative, la difficoltà delle attività teatrali a
trovare un posto nella programmazione scolastica e nei curricoli di italiano L2 sono dovute, a nostro
parere, alla loro stessa natura, al loro effetto “trasformativo”, alla loro qualità esperenziale che,
agendo non solo sugli aspetti razionali ma anche su quelli emozionali di quanti vi partecipano (e
intendiamo sia gli apprendenti che gli insegnanti), rende tali attività scarsamente programmabili
rispetto agli obiettivi linguistici, poco prevedibili nel loro svolgimento, difficilmente verificabili
quanto ai risultati. Come afferma Cecily O'Neill, pioniera del Drama in Education, si possono
definire i principi generali dell'uso del dramma, ma non se ne possono fornire le ricette (Taylor-
Warner 2006:74). Nello scorrere le esperienze presenti in riviste specializzate e nei numerosissimi
siti dedicati a queste tematiche, si riporta l'impressione che le attività teatrali, tanto più sono volte a
1 Huber (2993:56) parla a proposito addirittura di una forma di “tardo-comportamentismo” (spätbehavioristiche Auffassung).
2 “For many people, rows of desks and chairs represent order and discipline; scattered groups of chairs or people squatting on the
floor represent disorder and lack of control. This is one of the real reason why many teachers oppose the idea of working in
groups. They feel that the students have somehow escaped from their control and that this is, at least, potentially dangerous. This
is not one of the objections which are publicly advanced; these are normally of the type, 'it takes too long to organize', 'they make
too much noise', 'how can I correct them?', 'how can I give them the language they need?', 'how can I get them to talk English
together?'. But such reasons for objecting are so often as not a reflection of the unease teachers feel at having the 'order' for the
classroom upset” (traduzione nostra).
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raggiungere obiettivi specifici di apprendimento, tanto meno riescono a coinvolgere l'interesse e la
motivazione degli apprendenti. Tuttavia fino a che il progetto teatrale resta ai margini dell'attività
didattica, come attività sussidiaria e accessoria, non potrà conquistarsi né la dovuta considerazione,
né gli spazi e soprattutto i tempi che gli sono necessari. Uscire da questa impasse non è facile. Nel
cercare di definire il problema, più che di fornire una risposta, tracceremo a grandi linee la storia del
rapporto tra teatro e scuola e della presenza delle attività drammatiche nella classe di lingua.
Ripercorreremo in tal modo le esperienze più significative in questo senso, sia per l'insegnamento di
L2 diverse dall'italiano che dell'italiano stesso.
Il teatro cambia, trasforma l'attore e lo spettatore, veicola nuove idee, rafforza la trasmissione dei
valori collettivi. La vocazione educativa del teatro è iscritta nel suo essere una “arte sociale” che
rispecchia, rinsalda, tramanda le fedi religiose, le idee morali e politiche (Wickham 1988:31-39). In
questo senso la funzione educativa del teatro può essere ricondotta alla sua natura di
comunicazione sociale. D'altro canto, a partire dall'Età Moderna, il teatro inizia a essere
considerato anche uno strumento di formazione, una concezione che ritroviamo oggi nelle pratiche
drammatiche a scopi riabilitativi e integrativi.
Già nell'antica Grecia, il teatro rappresentava il momento più significativo dell'esperienza collettiva
di appartenenza alla comunità ed esso svolgeva un'importante funzione di educazione popolare.
Così, durante il Medio Evo, per vincere il diffuso analfabetismo e cercare di rendere i dogmi della
fede accessibili a tutti, la Chiesa mette in scena la Bibbia, tanto che i drammi del teatro sacro
possono considerarsi vere e proprie “lezioni semplici di storia cristiana” per chiunque non fosse in
grado di accostarsi alla parola scritta (Wickham 1988:174). Ma anche il teatro laico e popolare, che
nei Paesi Bassi e nell'Inghilterra del XV e XVI secolo prende la forma di “moralità” (morality
palys), non rinuncia alla sua funzione educativa personalizzando sulla scena il sistema di valori su
cui era fondata la società dell'epoca.
Fino al XVI secolo, tuttavia, il teatro assolve a un generica funzione di rito sociale collettivo e non
viene considerato in alcun caso uno strumento di formazione; il mestiere di attore gode inoltre di
una dubbia reputazione che rende lo strumento teatrale inadatto a qualsiasi utilizzo nell'ambito
pedagogico. È solo nel corso Rinascimento, col risorgere dello studio dei classici greci e latini, che
ne individuiamo per la prima volta la presenza entro un'istituzione formativa: il protestante Jean
Sturm, in una serie di lettere inviate agli insegnanti del Ginnasio di Strasburgo, definisce infatti un
programma di studi che include il teatro come mezzo per raggiungere direttamente le fonti del
sapere letterario e classico alle radici del pensiero cristiano (Sturm 1938 in Verdeil 1995). Sempre
nel XVI secolo nei collegi gesuitici troviamo sia insegnanti che alunni nel ruolo di autori e attori.
Secondo la rigorosa organizzazione degli studi che caratterizzava l'attività dei Gesuiti,
l'organizzatore dello spettacolo (choragus) era di solito il maestro di retorica e l'attività teatrale
rispondeva a due principi: la ratio studiorum della lingua latina, che rimase un imperativo inviolato
almeno fino al Sei- Settecento e la rappresentazione della ecclesia triumphans. Il lavoro teatrale era
organizzato rigidamente attraverso un metodo che prevedeva quattro momenti (Verdeil 1995:1-2):
• la recitatio, che includeva lo studio e l'apprendimento a memoria dei testi latini, oltre alla
loro recitazione accompagnata da qualche gesto per marcare il movimento del testo;
• la declamatio, in cui l'allievo recitava poemi epici, di autori greci e latini, le orazioni di
Cicerone o qualche proprio componimento;
• la disputatio, pubblica discussione su un tema filosofico o storico che metteva in gioco la
capacità di organizzare il pensiero, di verificare la solidità delle idee e la prontezza di
spirito; la disputatio coinvolgeva anche l'aspetto corporeo nella misura in cui il gesto
accompagnava la parola durante l'improvvisazione del discorso;
• il teatro, visto come coronamento del metodo con lo scopo di formare il corpo. Col teatro si
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aspirava a conferire ai giovani allievi una voce armoniosa, un gesto libero, modi di
comportamento nobili e distinti secondo ben precise regole di buone maniere. Attraverso il
lavoro sul corpo ci si proponeva di plasmare anche lo spirito.
Nell'epoca barocca il teatro rappresenta, presso i Gesuiti, il luogo privilegiato per educare la
gioventù al corretto modo di comportarsi in società. Data la sua ampissima diffusione sia in Europa
che nel Nuovo Mondo, il teatro gesuitico si trovò spesso a trascendere i rigidi principi che si era
dato, mescolandosi con elementi comici e popolari. La funzione formativa del teatro si prendeva
così implicitamente una rivincita sul suo sfruttamento per scopi meramente didascalici.
Nell'Ottocento il rapporto teatro-scuola trova spazio nella pedagogia dei collegi salesiani di
Giovanni Bosco, attraverso la ricerca di un teatro educativo, morale e popolare insieme. L’esiguità
degli scritti teatrali di Don Bosco conferma l’idea che egli vedesse nel teatro soprattutto
un’espressione creativa del giovane, secondo un metodo che ricorreva in modo preferenziale
all'improvvisazione su canovaccio (Facchinelli 1998; Crivello 2008).
Anche gran parte del teatro novecentesco è portatore di una forte aspirazione educativa, nel primo
senso da noi indicato all'inizio: basti pensare a Brecht e al compito, assegnato alle sue opere, di
“educare” il popolo per favorire la presa di coscienza delle disuguaglianze di classe; o ad Artaud
che si proponeva di “risvegliare” lo spettatore alla dimensione ”sacra” dell'esistenza.
Se fino ad allora il teatro aveva assolto la sua funzione prevalentemente nei confronti del pubblico,
fruitore dello spettacolo, il processo di trasformazione coinvolge ora anche l'attore, la cui figura si
evolve in parallelo ai nuovi bisogni della messa in scena. Viene così elaborandosi un nuovo metodo,
la cui sintesi più nota è quella di Konstantin Stanislavskij.1 La nuova consapevolezza del potere
trasformativo del teatro sull'attore influenza anche la riflessione pedagogica, il cui manifesto
ideologico è espresso nel “Programma per un teatro proletario di Bambini”, scritto nel 1928 e
pubblicato postumo, dove Walter Benjamin (1969/1993) identifica nel teatro lo spazio formativo
per eccellenza, non più in quanto luogo in cui il bambino possa esser formato attraverso l'imitazione
di modelli precostituiti, come avveniva nel teatro gesuitico, o come veicolo privilegiato per la
trasmissione di valori morali, ma in quanto luogo in cui gioco e realtà si uniscono. L'azione
educativa si realizza, secondo Benjamin, oltre ogni “intento morale” nello spazio comunitario
attraverso “le tensioni del lavoro collettivo”. In questa nuova concezione del teatro praticato dai
ragazzi, Benjamin rifiuta sia l'idea di spettacoli degli adulti per i ragazzi, sia il teatro finalizzato alla
rappresentazione: l'improvvisazione è centrale, le rappresentazioni, se avvengono, avvengono per
caso, “come uno scherzo dei bambini”; la loro importanza risiede nel consentire la liberazione dalle
tensioni accumulate durante il processo creativo.
Nel teatro sperimentale degli anni Sessanta, con le esperienze del Living Theatre, dell'Open Theatre
di J. Chaikin, del Theatre Laboratorium di Grotowski e dell'Odin Teatret dell'italiano Eugenio
Barba, il processo di trasformazione dell'attore si intensifica, fino a giungere a forme teatrali che
hanno come fine il processo drammatico stesso, rendendo superflua la presenza degli spettatori.
Contemporaneamente, a fianco del teatro professionale, viene ad aumentare progressivamente il
numero di coloro che praticano il teatro dilettante, forti della libertà e della povertà di mezzi
materiali necessari per la realizzazione delle nuove forme teatrali. Tale tendenza ha prodotto il
fiorire, negli ultimi trent'anni del secolo scorso, di una multiformità di gruppi sperimentali, di
spettacoli d'avanguardia, di gruppi teatrali universitari, aperti all'innovazione e alla contaminazione.
Il teatro viene sempre più riconosciuto come luogo formativo, sintesi di linguaggi ed esperienze
diverse.
Questa nuova concezione del teatro si coniuga, nel secondo dopoguerra con un vasto e variegato
movimento pedagogico, ispirato dalla riflessione di Fröbel, Spencer, Claparède, Montessori,
Dottrens, che trova una sintesi filosofica nel pensiero di J. Dewey, e un fondamento pedagogico
nell’epistemologia genetica di J. Piaget, tesa a spiegare i processi cognitivi in termini di fasi di
1 Se si considerano da vicino le due opere maggiori di Stanislavslij, “Il lavoro dell'attore su se stesso” (Stanislavskij 1938/1996) e
il “Lavoro dell'attore sul personaggio” (Stanislavskij 1957/1988), si percepisce l'intento di creare un “uomo nuovo”, in cui tutti
gli elementi della vita intellettuale, affettiva e del comportamento corporeo siano rinnovati e ricostruiti (cfr. Verdeil 1995).
92
sviluppo.1 Punto centrale de rapporto tra pedagogia e teatro sono la conquista del valore formativo
del gioco e l'attenzione al corpo (Oliva 2005:14). Tutta la pedagogia dà il primato al fare manuale:
l'idea di “apprendere agendo” (learning by doing), propria di Dewey, sposta sempre più l'interesse
dai contenuti verso i metodi di insegnamento e i modi di l'apprendimento, mettendo così al centro
della vita scolastica il soggetto apprendente. La riflessione verte attorno ai concetti di
individualizzazione dell'azione didattica, socializzazione e significatività dell’apprendimento.
Questa nuova concezione pedagogica dà vita a un movimento, che negli Stati Uniti prende il nome
di “Educazione Progressiva” e in Europa va sotto il nome di “Attivismo”, che promuove la
partecipazione dei discenti al processo di apprendimento tramite la realizzazione di progetti che
mettono in gioco la motivazione e l’operatività.2
Negli anni Sessanta, dalla coniugazione delle nuove istanze pedagogiche e dei fermenti
nell'ambiente teatrale, nascono le prime vere e proprie compagnie teatrali attive nell'ambito delle
istituzioni scolastiche. In Inghilterra nel 1965 nasce la prima compagnia di Theatre in Education
(TIE), messa in piedi da un gruppo di insegnanti di Coventry convinti dell'apporto essenziale
dell'esperienza per l'apprendimento. Le compagnie TIE di solito viaggiano per incontrare i loro
pubblici e si rivolgono a gruppi di giovani o di scolari mettendo in scena rappresentazioni di natura
morale ed educativa, strettamente coordinate con il curricolo scolastico. Il TIE condivide con
un'altra forma di teatro non professionale, le Community, formatesi negli Stati Uniti intorno al 1900
-1925, il fatto di rivolgersi a specifici gruppi di utenza. Invece che obiettivi prettamente educativi le
Community si pongono obiettivi sociali lavorando con emarginati e persone in difficoltà.3
Accanto al Theatre in Education si sviluppa parallelamente un altro modo di fare teatro, il Drama
in Education, che se ne distingue per la partecipazione attiva dei giovani e degli studenti
all'ideazione e realizzazione del dramma oltre che per l'accento posto sul processo di elaborazione
drammatica. Talvolta il lavoro può sfociare nella creazione di uno spettacolo, un pezzo di TIE o
qualche altro tipo di performance, ma l'obiettivo principale dell'attività è la formazione
dell'individuo attraverso l'esperienza delle tecniche teatrali (Cuminetti 1994). Tutte queste attività
vengono oggi riunite sotto il concetto ombrello, non sempre univoco, di “Applied Theatre”
(Ackroyd 2000, 2007; Taylor 2003; Nicholson 2005), che si riferisce a un ampia varietà di
individui, gruppi e istituzioni per i quali il teatro come forma d'arte non è un fine di per se stesso,
ma il punto centrale e la fonte di ispirazione per attività che trascendono l'aspetto puramente
spettacolare.4
Un processo simile avviene anche negli altri paesi europei: in Germania Hans Wolfgang Nickel
fonda nel 1959 il Berliner Lehrerbühne, unendo i due campi della pedagogia e del teatro, tanto da
fare della Theaterpädagogie un autonomo settore professionale; in Francia sempre negli anni
Sessanta si comincia a parlare per la prima volta di “animazione” in rapporto alle nuove istanze
pedagogiche di Freinet e agli studi di Piaget (Bianchi 2001:733). Il teatro entra progressivamente a
far parte integrante dei programmi scolastici attraverso il “principio della partnership” tra
1 Secondo Fröbel il gioco e le attività spontanee devono porsi a fondamento del processo pedagogico perché educare non significa
“mettere dentro” l'apprendente delle conoscenze ma “tirar fuori” da esso le sue capacità: si passa così dall'acquisizione dei
contenuti alla conquista delle capacità operative; Spencer fa riferimento all'autoistruzione intendendo l'insegnamento come guida
e stimolo dell'interesse dello scolaro attraverso oggetti e materiali euristici, una proposta attuata da Montessori attraverso gli
“autoesercizi”; anche per Claparéde la scuola deve far nascere il bisogno e l'interesse per l'apprendere stimolando l'autonomia
funzionale; Dottrens a sua volta promuove l'insegnamento individualizzato (cfr. Oliva 2005:15).
2 L’Attivismo in Europa viene comunemente ricondotto alle “scuole nuove” che iniziarono a comparire alla fine del XIX secolo in
Inghilterra, Francia, Germania e Italia (la “Rinnovata” di Giuseppina Pizzigoni e la “scuola serena” di Maria Boschetti Alberti
ispirata al metodo della Montessori).
3 Le più note, in Inghilterra, sono Cardboard Citizens (<www.cardboardcitizens.org.uk>), che lavora a Londra per e con i senza
casa, e Clean Break (<www.cleanbreak.org.uk>), che porta avanti progetti di reinserimento di donne ex-carcerate. Famoso, anche
in Italia, è il “Teatro dell'Oppresso”, nato in Brasile negli anni Sessanta per opera di Augusto Boal
(<www.utopie.it/formazione/teatro_dell'oppresso.htm>). Per un quadro complessivo del teatro sociale cfr. Bernardi-Cuminetti-
Dalla Palma 2000.
4 “It brings together a broad range of dramatic activity carried out by a host of diverse bodies and groups.” E in riferimento a ciò
che i diversi gruppi hanno in comune: “They share a belief in the power of the theatre form to address something beyond the
form itself” (Ackroyd 2000:1).
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insegnante e artista, che vede operare insegnanti, non esperti di teatro, in collaborazione con artisti
teatrali (Volz 1998). Anche la Spagna che, dopo le drammatiche vicende succedute alla Seconda
Repubblica Spagnola1 era rimasta in parte isolata dai venti di innovazione degli anni Sessanta, il
teatro è oggi integrato nel curricolo scolastico come insegnamento a regime speciale non svincolato
dall'ambito accademico (Cuminetti 1992).
In Italia la riflessione sul rapporto teatro-scuola si sviluppa con gli scritti teorici di Gian Renzo
Morteo, grande ispiratore del teatro per ragazzi, Giuseppe Bartolucci, combattivo sostenitore
dell'avanguardia teatrale italiana e Francesco de Bartolomeis, passando attraverso una severa critica
al sistema scolastico e la ricerca di una scuola più democratica e partecipativa .
Alla fine degli anni Sessanta viene definendosi l'esperienza del “teatro ragazzi” che sostituisce il più
tradizionale “teatro per ragazzi” in stretto rapporto con il cambiamento della società e dei modelli
culturali che stavano avvenendo in quegli anni. Si individua nel bambino uno spettatore attivo e
sensibile, al di fuori delle rigide convenzioni del teatro ufficiale. Il teatro ragazzi ha carattere assai
diverso per concezione da quello degli altri stati europei e diventa adulto e professionista attraverso
l'attività di alcuni operatori, non a caso spesso provenienti dalla ricerca, che decidono di rivolgersi
esclusivamente ai ragazzi.2 Il teatro-ragazzi esce dalla scuola e diventa autonomo, pur essendo parte
integrante dello sviluppo del bambino, e in più, attraverso il lavoro di questi professionisti, usa
stilemi propri, molto diversi dal teatro per adulti, sperimentando sempre nuovi linguaggi al servizio
dell'immaginario infantile (Beneventi 1994; Bianchi 1998). Per una definizione del teatro ragazzi
riportiamo le parole di Franco Passatore (Oliva 2005:120):
Il nostro modo di fare teatro o meglio l'unico modo di fare oggi teatro: senza autore né regista, senza spettatori
né ruoli fissi, senza palcoscenico, senza copione, sbigliettamento, orario, contratti, sindacati; soltanto teatro,
Teatro-Gioco-Vita, una proposta fatta alla gente di giocare permanentemente e spontaneamente il proprio
teatro di vita in una possibilità continua di interscambio di ruoli, delle situazioni, dove ogni individuo è autore
e interprete di sé stesso e interlocutore dell'altro, dove ognuno fa teatro, è teatro.
Il bambino è percepito come un attore che si esprime liberamente facendo uscire da sé le proprie
potenzialità: è il momento della drammatizzazione e dell'animazione teatrale che a più riprese
vengono riproposte nella scuola. I programmi scolastici inseriscono il teatro nella programmazione
della scuola primaria e delle materne: negli “Ordinamenti” del 1955 si parla di “drammatizzazione”
e si suggerisce “che l'alunno partecipi attivamente a spettacoli di burattini”, in quelli per la scuola
materna del 1958 sia drammatizzazione che “teatro e rappresentazioni per i piccoli” sono indicati
per educare alla vita morale e sociale. Nel 1969, con l'istituzione della scuola materna statale,
vengono definiti i nuovi “Ordinamenti dell'attività educativa”, dove la funzione del teatro non è più
relegata ai solo fini dell'educazione morale ma, in particolare i burattini, vengono consigliati come
attività utile all'educazione linguistica (cfr. 3.3.3).3
Da allora la presenza del teatro nella scuola ha coinvolto ogni ordine e grado della scuola
dell'obbligo. Col “Progetto Giovani” per la prevenzione del disagio giovanile, rilanciato dal
Ministero della Pubblica Istruzione nel 1989, il laboratorio teatrale, forte delle sue valenze di
progettualità, ritualità, socializzazione, esplorazione di registri non verbali, introspezione, si impone
anche nelle scuole superiori, assumendo e consolidando modalità estetiche ed espressive autonome.
1 In questo convulso periodo, in cui lo stato cercò di strappare il monopolio dell’educazione alla Chiesa creando migliaia di scuole
nelle città e nelle campagne, si situa l'azione di García Lorca e della sua compagnia teatrale girovagante, La Barraca, che
utilizzava il teatro come linguaggio universale per raggiungere quanti vivevano nelle zone più povere, isolate e incolte del paese .
2 Sono numerosissimi gli attori professionisti che si sono dedicati al teatro ragazzi, come le compagnie di teatro o di teatro di
figura nate a questo scopo. Portiamo ad esempio le significative esperienze di Franco Passatore, Remo Rostagno e Sergio
Liberovici a Torino e l'azione del Movimento di Cooperazione Educativa di Torino, le azioni teatrali condotte nelle scuole da
Giuliano Scabia, ideatore del Teatro Vagante, l'attività di Stefano Bailani, Remo Rostagno, Paolo e Laura Poli, (fondatrice
insieme a Carlo Staccioli del teatro di burattini I Pupi di Stac), Maria Perego e il suo famossisimo Topo Gigio, Il Teatro del Sole
di Carlo e Iva Formigoni e la Compagnia del Buratto, che opera una ricerca col tetro di figura, il Collettivo Giocosfera di Roma e
il Teatro dell'Angolo di Torino, o infine Il teatro Mangiafuoco, fondato da Otello Sarzi a cui collabora lo scrittore Roberto
Piumini.
3 Gli ordinamenti sono reperibili nel seguente sito web: <www.ipbz.it/Generale/VisualizzaDescrSezione.aspx?area=6&id=968>.
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Infine il 6 settembre 1995, auspici Maurizio Scaparro e il pedagogista Luciano Corradini, viene
firmato dal Ministero della Pubblica Istruzione, dal Dipartimento dello Spettacolo e dall'Eti un
protocollo d'intesa relativo all'educazione al teatro che, concepita sia come fruizione sia come
pratica attiva, viene riconosciuta quale “componente importante nella formazione dei giovani”. Il 12
giugno 1997 un secondo protocollo (detto Veltroni-Berlinguer), siglato dal Dipartimento dello
Spettacolo, dal Ministero della Pubblica Istruzione e da quello dell'Università e della Ricerca
Scientifica, estende il riconoscimento a tutte le discipline dello spettacolo. A seguito di tali
documenti nascono le prime iniziative organiche di formazione, afferenti al teatro della scuola,
rivolte a operatori scolastici e teatrali. Nel 2007 il protocollo era orientato all'integrazione dei
diversamente abili, nel 2008 il “Protocollo d'intesa sulle attività di teatro della scuola e
sull'educazione alla visione” auspica un intervento sul piano dell'intercultura (per i testi dei
protocolli cfr. Di Rago 2001: 209-216).
Un breve cenno meritano anche le esperienze dei CUT (Centri Univesitari Teatrali), nati in epoca
fascista e giunti fino a oggi superando momenti di alterno entusiasmo, che vivono realtà diverse
talvolta percependo sfondi direttamente dall'università, altre, in modo autonomo (Granchi
2005:175-182).1
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esplica nella lettura delle opere e nella fruizione degli spettacoli, dalla pratica artistica, cioè
l'esperienza personale della recitazione; tuttavia la pratica culturale nutre quella artistica e quindi i
due approcci al teatro possono integrarsi.
b) Opera chiusa o opera aperta? La questione, di per sé di non facile soluzione, può essere
ricondotta al problema del valore, involutivo o creativo, della ripetizione. Per Dalla Palma
(1998:25) sono possibili entrambe le forme: la ripetizione involutiva è rigida, e indica che non c'è
più niente da dire; quella creativa rappresenta l'integrazione dell'esperienza appresa con un
contributo personale e originale. Opera chiusa e opera aperta convivono nel teatro, finché questo
resta legato alle pulsioni vitali della comunità dove tradizione e innovazione coesistono nel segno
della continuità culturale. Ciò può avvenire nel teatro più che nei media, per Dalla Palma esempio
di opera chiusa: “sembra che siamo di fronte a una società che apparentemente espande i suoi
saperi, ma in realtà li controlla tutti, fino al punto di sottrarre la possibilità di entrare in gioco e di
vivere la situazione del rischio, inteso soprattutto come capacità di stare in una evenienza con tutto
il proprio corpo, con l'altro, con lo sguardo, con la relazione” (Dalla Palma 1998:26). Ciò non fa che
ribadire ancora una volta il valore del teatro quando esso resta vicino alla sua sorgente creativa.
Crediamo che nel teatro di figura la questione non si ponga, dal momento che improvvisazione
(creazione) e ripetizione (presenza di personaggi stereotipati e di canovacci tipici) coesistono e sono
essenziali a questo genere di spettacolo (§ 3.3).
c) Il teatro educativo è arte o pedagogia? Riducendo il teatro alla dimensione pedagogica
si rischia di assoggettarlo a obiettivi a lui esterni strumentalizzandolo e mortificandone la forma
artistica. D'altra parte, intendendo l'arte “come valore assoluto che ogni intervento pedagogico
finirebbe per svilire” si faranno delle scelte stilistiche e formali che possono andare a discapito della
prospettiva formativa. Per Voltz (1998:38-39) bisogna uscire da questo doppio limite, rifiutare il
pedagogismo come dipendenza del mezzo dal fine e contemporaneamente una definizione di “arte”
totalitaria. Ciò è possibile se si mette l'accento sulla recitazione (momento collettivo) rispetto alla
creazione dell'“opera” (individuale). Ciò avviene, ancora una volta in particolare nel teatro di
figura, dove i vari ruoli di attore, regista, scenografo e drammaturgo sono cumulati su un unico
soggetto (dove per soggetto intendiamo sia il soggetto individuale che quello collettivo).
d) L'operatore teatrale è un insegnante o un artista? Il quarto punto è strettamente
connesso a quello precedente e concerne il ruolo dell'operatore teatrale, ovvero di colui che guida e
accompagna il gruppo nell'esperienza teatrale. La formazione degli insegnanti deve essere quella di
un educatore o di un attore, di un animatore di un artista? I campi disciplinari coinvolti nelle attività
teatrali e le competenze necessarie sono vastissimi. Georges Laferrière (1998:58) elenca i seguenti
aspetti che dovrebbero formare la competenza dell'insegnante mettendolo in grado di organizzare
lezioni teoriche e attività pratiche:
• arte drammatica: corpo voce;
• altre arti: musica danza, arti plastiche;
• letteratura: testo;
• materie umanistiche: storia, sociologia, politica, filosofia;
• espressione: personale, collettiva, psicologica;
• comunicazione: personale, collettiva, mass media.
L'orientamento attuale prevede, oltre a una specifica formazione degli insegnanti, una
collaborazione con esperti e professionisti dello spettacolo (Oliva 2001). Le esperienze precedenti
hanno mostrato che tale formula si è rivelata ricca ma fragile in quanto basata sul difficile equilibrio
tra una persona non competente e responsabile entro l'istituto educativo e una competente ma
esterna ad esso (Voltz 1998:29). Pertanto si cerca di amalgamare gli interventi dei due operatori
attraverso una formazione specifica, di tipo psicopedagogico, degli esperti teatrali che intendano
operare nella scuola (Facchinelli 2001).
e) L'accento deve essere posto sul processo (attività drammatiche) o sul prodotto
(spettacolo)? A questo punto abbiamo già accennato nell'introduzione (§ 1.3) e riguarda la
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disamina tra quanti intendono l'attività teatrale come drammatizzazione e quanti invece non
ritengono che le attività teatrali implicate nella drammatizzazione siano scindibili dal progetto
spettacolare. Resta il fatto che in campo educativo teatro e drammatizzazione non sono la stessa
cosa: in quanto il dramma rimanda allo sviluppo integrale dell'individuo e alla comunicazione
interpersonale, il teatro rimanda allo spettacolo come frutto rigoroso di un lavoro artistico (Teruel
1998:79). Come abbiamo già affermato, le tecniche drammatiche sono un procedimento, un insieme
di pratiche finalizzate a un obiettivo educativo ma, se correttamente praticate non escludono
un'esibizione pubblica, il macro-obiettivo sovraordinato, che conferisce senso ai micro-obiettivi
didattici. Importante è non perdere di vista il valore specifico di ciascun momento dell'attività.
Proprio come la relazione tra teatro ed educazione, anche quella tra dramma, teatro e insegnamento
delle lingue straniere è di antica data. Caratteristiche dell'attore possono attribuirsi allo stesso
insegnante, nel suo sforzo di catturare l'attenzione degli apprendenti “rappresentando” i significati
linguistici che intende trasmettere. Insegnanti e studenti hanno da sempre “fatto teatro” ogni volta
che hanno “fatto finta” che per loro fosse naturale interagire nella lingua di
insegnamento/apprendimento (Schewe 2007; Butterfield 1989:26).
Il collegamento tra parola e azione era già noto agli antichi se Quintiliano nella sua Institutio
oratoria (90 a.C. Circa) subordinava il possesso della “recte loquendi et scribendi ratio” allo studio
della actio e la parallela conquista di virtù morali. Anche la concezione pedagogica di Pestalozzi
(1746-1827), che esorta a coniugare “mente, cuore e mano”, ovvero intelletto, morale e capacità
creativa dell'uomo, anticipa una concezione olistica dell'educazione.1
Procedendo dalle considerazioni di carattere meramente pedagogico nella direzione di una prassi
drammatica, troviamo, oltre ai già citati padri gesuiti, il francese François Gouin (1897), il quale,
anche se non si riferisce esplicitamente al dramma e al teatro, con le sue idee prepara il terreno per
l'agire linguistico in contesti fittizi. Nella pubblicazione “L'art d'enseigner et d'etudier les langues”
descrive un metodo che prende a modello il gioco infantile di associare parole e azioni,2
sottolineando esplicitamente la relazione tra azione corporea e produzione linguistica. Titone
(1980:72) rileva la dimensione innovativa della concezione di Gouin individuandovi un chiaro
collegamento con l'ambito del dramma/teatro:
Il nuovo elemento che Gouin veniva introducendo nell'insegnamento delle lingue moderne era l'intensa attività
di drammatizzazione delle frasi che costituivano l'esercizio; la lingua non era più considerata come un
complesso di elementi isolati, qualcosa di astratto da anatomizzare e poi rimettere insieme: “la lingua è
comportamento”, potrebbe dire Gouin oggi. Per questo motivo l'associazione, la mimica, la memorizzazione
costituivano le attività cardini dell'apprendimento linguistico.
Il concetto di insegnamento di Gouin seguiva tuttavia uno schema di sequenze rigide e concedeva
poco spazio al gioco e alla dimensione creativa.
Ma è negli anni Settanta, in seguito alla svolta comunicativa nella didattica delle L2, all'impulso
dovuto alla diffusione del Drama in Education inglese e all'affermazione dell'animazione teatrale
nella scuola, che la didattica delle lingue moderne comincia a manifestare interesse per le tecniche
ludiche e teatrali: la necessità di sollecitare la comunicazione spontanea in classe porta a inserire nei
manuali come nelle programmazioni didattiche role paly, role taking, giochi di ruolo, simulazioni e
dialoghi aperti. Le attività drammatiche vengono però relegate a un ruolo puramente integrativo e
1 La concezione pedagogica di Pestalozzi (1781/1928), fortemente influenzato dalle idee di Rousseau, è rintracciabile nel lungo
romanzo “Leonardo e Geltrude”.
2 Il metodo di Gouin (1831-1896) prevedeva di associare azioni alla L1 e poi di sostituirne gradualmente i termini con i termini in
L2. Ad esempio all'azione di aprire la porta associava una lunga serie di frasi del tipo: cammino verso la porta (cammino); mi
avvicino alla porta (mi avvicino); mi avvicino sempre più (mi avvicino di più); arrivo alla porta (arrivo) ecc. (in Titone 1980:70
sgg.).
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“ricreativo” e mantengono una funzione secondaria rispetto alla didattica tradizionale. Negli anni
Ottanta l'interesse per la drammatizzazione e il teatro si rafforza grazie all'effetto di pubblicazioni in
lingua inglese (Holden 1981; Maley-Duff 19831; Karbowska Hayes 1984; McRae 1985; Dougill
1987; Wessels 1987; Butterfield 1989), ma anche per lo svilupparsi dei metodi umanistico-affettivi
(detti allora anche “metodi alternativi”) come il TPR, la Suggestopedia, il CLL, che integrano
consapevolmente aspetti come la corporeità, le emozioni, la gestualità e la mimica nella didattica
(cfr. § 2.2.2.1). I lavori pubblicati in questi anni constano prevalentemente di raccolte di attività,
suggerimenti e tecniche di drammatizzazione con finalità essenzialmente pratiche. Si tratta infatti di
strumenti pensati come “manuali” per gli insegnanti, privi il più delle volte di una prospettiva
teorica.2 L'esigenza di ricorrere alle tecniche di drammatizzazione nasce prevalentemente da tre
fattori:
• l'insoddisfazione nei confronti dei libri di testo e i materiali a disposizione degli insegnanti;
• la difficoltà a creare un clima autenticamente comunicativo in classe;
• la necessità di fornire agli apprendenti un modello di lingua “vivo” e aderente all'uso
linguistico “fuori della classe”.3
Anche se il più delle volte non vengono esplicitati, i presupposti teorici dell'utilizzo delle attività
drammatiche si richiamano in vario modo all'approccio olistico (coinvolgimento fisico ed emotivo
oltre che intellettuale) e al cambiamento di paradigma dovuto alla centralità dell'apprendente
enfatizzata dagli approcci umanistici, da cui deriva la necessità di un coinvolgimento attivo e
creativo dei discenti. Tra il drama e il theatre si privilegiano senz'altro le attività drammatiche, in
quanto più facilmente inseribili entro una programmazione scolastica. Molta attenzione è posta
infatti sui tempi di lavoro, per cui le proposte riguardano attività più consistenti solo se intese a
sostituire la “lezione di conversazione”. Maley e Duff (1983), che si muovono in questa direzione,
propongono due alternative: o un corso intensivo di attività drammatiche che duri 5 giorni, oppure
l'inserimento di tali attività entro il normale curricolo della classe impegnando da 1 a 3 ore
settimanali. Se non intesa come sostituto della “conversazione”, la drammatizzazione trova il suo
posto entro la lezione tradizionale, accanto ad altri tipi di “esercizi”: Holden (1981), ad esempio,
propone brevi sessioni da utilizzare in alcuni momenti specifici della lezione (all'inizio, come
“riscaldamento”, o alla fine, come “rilassamento”). Spesso emerge un certo timore nell'utilizzo di
questi “nuovi” strumenti didattici: sempre Holden (1981:29) suggerisce di usare le attività
drammatiche non più di 15 minuti una volta alla settimana; Maley e Duff (1983:19) ci avvertono
che nelle attività drammatiche “è meglio fermarsi troppo presto che troppo tardi”.4
Ciò che rimane fuori dell'approccio di questa prima ondata di testi e manuali per la
drammatizzazione è quasi sempre il “progetto teatrale” vero e proprio, che non sempre viene preso
in considerazione, essendo in genere considerato un progetto culturale ambizioso e poco adatto allo
sviluppo della L2. Si ha l'impressione che gli autori di lingua inglese, probabilmente a causa della
netta separazione tra le attività proprie del Theratre in Education e del Drama in Education, siano
fin troppo legati a una interpretazione convenzionale della “rappresentazione teatrale”. Questa viene
intesa come un processo che, dall'analisi del testo drammatico-letterario volta a ricostruire il
pensiero del drammaturgo, giunge a una “messa in scena” rigorosamente fedele all'idea originale
1 Prima ed. 1978.
2 Schewe (1993:33) parla ditimidezza teorica (Theorieschüchternheit) di questi primi autori di testi sulle attività drammatiche per
l'insegnamento delle L2.
3 Maley e Duff (1983:9-12) lamentano che i libri di testo presentino solo un aspetto del contesto, quello situazionale (setting)
ignorando il contesto sociale (role and status) quello psicologico (mood, attitude and feeling) la conoscenza condivisa (shared
knowledge). Per Holden (1981:7) le tecniche teatrali servono a sanare la artificialità della comunicazione in classe e gettare un
ponte verso il mondo fuori della classe (“The aim is to bridge the gap between the classroom and the world outside”). Butterfield
(1989:5) ritiene la drammatizzazione un complemento necessario di un insegnamento formale in quanto “If the more formal
styles are convergent and impressive in their approach, the drama method is certainly divergent and expressive”.Wessels
(1987:9) nel riconoscere alla drammatizzazione la capacità di sviluppare le “spoken communication skills”, critica le correnti
“lezioni di conversazione” che spesso si rivelano noiose e pedanti: “so often, these lessons are dull and pedestrian, with the
teacher supplying most of the language needed”.
4 “(...) it is better to stop too early than too late” (traduzione nostra).
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dell'autore. Dal momento che non sono previste modifiche al testo drammatico, la recitazione
rischia di divenire un'attività puramente ripetitiva e mnemonica, che inibisce, invece di favorire,
l'attenzione al significato (e alla forma come funzione dell'espressività della parola) che abbiamo
identificato come una delle caratteristiche più preziose del linguaggio teatrale ai fini
dell'apprendimento. Ciò appare evidente nella proposta di Holden (1981:59-72), che sembra
oscillare tra il riconoscimento del valore dell'attività di theatre, e la sua riduzione a esercizio di pura
“lettura espressiva”. Butterfield (1989:19) invece contrappone il teatro all'improvvisazione secondo
le categorie di passivo/attivo, direttivo/non direttivo, prodotto (statico)/processo (dinamico) ecc. e
prende in considerazione il teatro solo come rappresentazione fatta da insegnanti-attori a beneficio
degli studenti, secondo la tradizione del Theatre in Education (Butterfield 1989:138-142). Spesso
manca anche una precisa definizione di “drama” o di “theatre”: per McRae (1985) “drama” è
sinonimo di dialogo scritto (quindi la sua utilizzazione è circoscritta all'ambito della letteratura);
Maley e Duff (1983:7) parlano di “drama” in modo generico, come un modo per fornire agli
studenti l'occasione per contribuire all'ora di lezione in modo creativo con la loro personalità
individuale (Maley-Duff 1983:7); Dougill (1987) tratta di attività informali (giochi didattici,
simulazione, giochi di ruolo) distinte dal theatre (sketch, rappresentazione di un pezzo teatrale) che
considera più impersonale e formale. Fa eccezione Wessels (1987:110-113) il quale, oltre a
distinguere concettualmente le due categorie, vede nel progetto teatrale un'integrazione preziosa
della lezione tradizionale e propone di inserirlo nella “sezione cultura” dei corsi di EFL (English
Foreign Language), magari adattandone i contenuti al programma formale di studi per far sì che i
direttori didattici si convincano ad adottarlo.1
I timori nei confronti del cambiamento di paradigma implicito nelle attività di drammatizzazione si
manifestano attraverso esortazioni a un uso “moderato” e “graduale” delle attività. Holden (1981),
ad esempio, costella i suoi, pur utilissimi suggerimenti per la drammatizzazione, di appelli alla
moderazione: non è saggio dedicare troppo tempo alle attività di drammatizzazione che sono
motivanti ma stancanti e richiedono molta concentrazione. L'autrice inoltre avverte: “Dovremmo
ricordarci che stiamo insegnando lingua, non drammatizzazione!”2 (Holden 1981:23). Quanto al
posto delle attività drammatiche nel curricolo didattico, esse restano un complemento,
un'integrazione della lezione, che non va usato troppo spesso e non va sostituito ad altri obiettivi.3
Quanto ai vantaggi delle attività drammatiche i vari autori sono piuttosto unanimi. Abbiamo cercato
di identificare, raggruppandoli secondo categorie generali, i temi e le argomentazioni ricorrenti:
• centralità dell'apprendente: autonomia, creatività;
• dimensione cognitiva: focus on meaning, apprendimento multi-sensoriale, memorizzazione
del lessico;
• dimensione pragmatica: coinvolgimento dei codici non verbali, attenzione alla prosodia;
• dimensione affettiva: abbassamento del filtro affettivo, uso di una didattica ludica;
• dimensione sociale: lavoro in piccoli gruppi; presa di coscienza della variazione delle
regole culturali;
• dimensione linguistica: potenziamento delle abilità orali (lingua più vicina a quella
“reale”); variazione sociolinguistica.
Sebbene per tutti gli anni Ottanta le attività teatrali siano restate appannaggio dell'iniziativa di
singoli insegnanti e pionieri della didattica, alcuni di essi hanno cominciato a sviluppare delle vere e
proprie metodologie, appoggiandosi a pratiche teatrali già applicate nel teatro sociale come lo
1 In pratica si tratta di “travestire” il valore specifico di questa attività, del quale Wessels sembra essere almeno in parte
consapevole, contrabbandandolo per attività di carattere meramente letterario. Con questo non vogliamo negare che il teatro
possa avere “anche” valore culturale e possa essere un mezzo per avvicinare gli apprendenti alla letteratura della L2 (cfr. § 2.1.1).
Riteniamo però che questo sia un valore aggiunto, ma non l'unico né lo specifico di un progetto teatrale.
2 “We should remeber we are teaching language, not drama!” (traduzione nostra).
3 Butterfield (1989:5) scrive nell'introduzione del suo volume che, rispetto a un metodo formale di insegnamento “The ideas
advocated in this book may be seen as an ancillary rather than as a straight alternative”. Per Holden (1981:29) “(...) drama is
only one aid to learning, and that it should not be usen too often or to the exclusion of other aids” .
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psicodramma di Moreno (1947/1976)1: citiamo Bernard Doufeau e Daniel Feldhendler, tra coloro
che hanno cominciato in quegli anni a occuparsi di teatro in mnodo sistematico, anche se al di fuori
delle istituzioni e delle principali linee di tendenza della didattica.
Benard e Marie Dufeu2 hanno sviluppato la “Psychodramaturgie Linguistique” (PDL) (cfr. Dufeu
1991, 1992/1998; Floridia 2007) e i principi di una pedagogia relazionale. Concetto centrale del
PDL è la “pedagogia dell'essere” (Dufeu 1992/1998) contrapposta alla “pedagogia dell'avere” (tab.
3.1):
Tabella 3.1: Pedagogia dell'avere e pedagogia dell'essere (Dufeu 1992/1998).
PEDAGOGIA DELL'AVERE PEDAGOGIA DELL'ESSERE
FUNZIONE INSEGNANTE trasmette il sapere animatore
AZIONE INSEGNANTE insegna - propone un'attività dinamica
- fornisce a richiesta il materiale linguistico desiderato
DEFINIZIONE STUDENTE apprendente partecipante
PROCESSO apprendimento acquisizione
RISULTATO sapere (intellettuale) conoscenza (esperienza)
Alla base del PDL troviamo sette ipotesi formulate da Dufeu (1991) sulle condizioni che facilitano
lo sviluppo e l'apprendimento della L2:
• consapevolezza della doppia dimensione (linguistica e affettiva) dell'acquisizione del
linguaggio;
• sensibilizzazione verso gli aspetti prosodici e fonetici della L2;
• stabilire una relazione diretta tra il parlante e le sue produzioni linguistiche (ricorso ad
attività drammatiche che sviluppino il desiderio di comunicare);
• applicazione di metodologie che uniscono continuità e cambiamento (modulazione di
sequenza, variazione dei parametri situazionali);
• tenere conto delle funzioni fondamentali del linguaggio come mezzo di espressione e di
comunicazione nel gruppo;
• stabilire percorsi individualizzati verso la L2 (pedagogia della differenza);
• rispettare il ritmo individuale di apprendimento.
Riassumiamo brevemente i tratti essenziali del PDL a partire da queste ipotesi:
• l'utilizzo di uno spazio non strutturato (insegnanti e apprendenti siedono per terra e si
muovono liberamente nell'ambiente);
• l'utilizzo di tecniche come il “doppio” e lo “specchio” (l'insegnante produce un input poi
rispecchiato dall'apprendente e a sua volta raddoppia la produzione dell'apprendente
orientandone l'intonazione e la gestualità);
• la tecnica della “maschera neutra”, da apporsi sul volto per favorire la concentrazione e la
percezione sensoriale e contemporaneamente far sentire gli apprendenti “protetti”
nell'assumere la nuova identità fornita dalla L2;
• il ricorso ad attività di drammatizzazione per stimolare la comunicazione nel gruppo sia
attraverso l'uso di testi che delle tre funzioni drammaturgiche fondamentali: desiderio,
opposizione, sostegno;
• la ricostruzione attiva e induttiva della grammatica della L2 a partire dai bisogni di
comunicazione degli apprendenti;
• il confronto continuo tra culture (pedagogia della differenza).
1 Lo psicodramma rappresenta una tecnica di approccio psicologico messa a punto da Jacob Levi Moreno nel 1921. Essa permette
alla persona di esprimere, attraverso la drammatizzazione, i diversi vissuti psicologici, aiutando a stabilire tra questi dei
collegamenti costruttivi. Il presupposto implicito in questa metodologia è la spinta, determinata dalla drammatizzazione, a
proiettare nella rappresentazione la reale condizione psicologica dell'individuo e le sue problematiche di carattere relazionale.
2 Bernard Dufeu, docente di lingua francese e fonetica presso l’Università di Magonza (Germania), all'inizio degli anni Ottanta ha
fondato insieme alla moglie Marie Dufeu e a Daniel Feldhendler il Centre de Psychodramaturgie a Mainz, tuttora attivo (cfr.
<http://psychodramaturgie.net>).
100
Daniel Feldhendler (1993, 2005, 2007), lettore di francese alla Università J.W. Goethe di
Francoforte, ha condiviso parte del percorso di Dufeu; mentre Dufeu sviluppava una “pedagogia
relazionale” a Mainz, Feldhendler sviluppava una “drammaturgia relazionale” (relational
dramaturgy) all'università di Francoforte, applicando i metodi psicodinalmici alla didattica. Anche
Feldhendler si collega allo psicodramma di Moreno (1947/1976) oltre che al “Teatro dell'oppresso”
di Augusto Boal (1977), ma lavora con una particolare forma di teatro, il Playback Theater (PT),
sviluppatosi in USA nel 1975 per opera di Jonathan Fox, e Jo Salas (Fox 1994). Si tratta di un teatro
interattivo basato sull'improvvisazione e l'esperienza personale dove gli attori drammatizzano la
narrazione dei partecipanti.1 In pratica il gruppo degli attori mima le azioni e le esperienze che
scaturiscono dalla narrazione in prima persona della storia dei partecipanti. Il PT introduce dunque
nel concetto di “drammatizzazione” il valore psicologico della “identità narrativa”2 e intende
incoraggiare il dialogo e creare legami interpersonali a partire dalla condivisione di tale identità. La
dinamica del “mirroring” lavora come un catalizzatore per un apprendimento ermeneutico che
scaturisce dalla interpretazione estetica. Il processo di approfondimento della comprensione schiude
le dimensioni della coscienza e dell'inconscio collettivo gettando un ponte tra l'individuo e la
società (Feldhendler 2005).
Un posto particolare è occupato infine dalla Strategic Interaction (SI) di Di Pietro (1987), di cui
abbiamo già parlato nel trattare degli approcci umanistico affettivi, che unisce caratteristiche
teoriche a quelle pragmatiche tipiche dell'ambito anglosassone (cfr. 2.2.2.1).
Le proposte di Dufeu, Feldhendler e Di Pietro gettano un ponte tra gli ambiti del dramae del
theatre: nel PDL gli apprendenti assumono identità fittizie con le quali agiscono entro contesti
immaginari che spaziano nel mondo drammaturgico, mitologico o fiabesco (Floridia 2007:26), il PT
mette in scena una vera e propria rappresentazione drammatica della narrazione dei partecipanti e le
interazioni costruite sugli scenari dello SI (il cui carattere “teatrale” è innegabile) vengono a essere
oggetto di vere e proprie micro-rappresentazioni, anche se solo entro il gruppo-classe.
All'inizio degli anni Novanta si percepiscono tendenze per lo sviluppo autonomo di una didattica
delle L2/LS orientata verso il drammatizzazione e il teatro (Schewe 2007), che si manifestano con
un intensificarsi di studi ed esperienze. La teorizzazione di una vera e propria metodologia
dell'insegnamento delle lingue straniere orientata in senso drammatico (dramapädagogischer
Fremdspracheunterricht) ha luogo, in ambito tedesco, da parte di Manfred Schewe (1993a; 1993b).
Schewe intende fondare il suo metodo su una teoria della natura del linguaggio e del suo
apprendimento, fissare gli obiettivi, elaborare un sillabo, definire il ruolo dell'apprendente, del
docente e dei materiali usati, stabilire le procedure e le tecniche da utilizzare in classe. Intende
anche osservare e riportare le proprie esperienze secondo il metodo della ricerca-azione (Schewe
1993b:203-286). Schewe fa riferimento al “metodo comunicativo”, ritenendo che le pratiche
drammatiche ne siano una logica estensione, e assume una prospettiva orientata all'azione, legata a
una didattica interattiva e basata sull'esperienza. Come obiettivi si rifà a quelli formulati da
Richards e Rodgers (1986)3 ai quali si ispira per redigere un sillabo per compiti.
1 “Through the sharing of biographical moments in narrative form and through their immediate transformation into a dynamic
mirroring, what is shared becomes incorporated into one's resource for self-knowledge or perception of oneself and others. The
method becomes a medium of communication – both magnifying glass and megaphone at the same time – between the individual
and the group. Thus PT shows itself to be an important tool for identity work: it enables and promotes the formation of a
“narrative identity“ (...) between the individual and the community. While voicing one's own story in this way means, on the one
hand, discovering one's story anew; it also means being seen and heard. The result is that a form of mindfulness of others arises.
The dialogical value exists in the sharing of one's own life stories and experiences and in cooperation with others in the here and
now, bringing them to life, allowing the stories on the stage to have an effect on oneself, and to examine one's present, personal
reality. In this way new, creative paths and processes can be called into existence” (Feldhendler 2007<http://epu.ucc.ie/scena
rio/2007/02/feldhendler/04>).
2 Il concetto di “identità narrativa” è ricollegabile, in ambito filosofico, al pensiero di Paul Ricoeur (1985/1988) il quale distingue
due modi per intendere il “sé”: l'idem (il medesimo, l'identità sostanziale) e l'ipse (l'identità narrativa, dialogica e aperta) in
continua trasformazione. In ambito semiotico Roland Barthes (1966/1977) riconosce nel racconto una modalità universale
dell'umanità. In ambito psicologico Jerome Bruner (1986/1988) riconduce alla modalità del pensiero narrativo la formulazione e
l'espressione dei significati.
3 “1. an integrative and content level (language as means of expression); 2. a linguistic and instrumental level (language as
101
La proposta di Schewe, che si riallaccia consapevolmente al Drama in Education britannico, è
tuttavia fortemente orientata in teatrale: dal teatro trae le metodologie per creare contesti didattici in
cui apprendenti e insegnanti sono coinvolti in attività corporee e linguistiche, così da “mettere in
scena” la lingua straniera e il processo di apprendimento (“die fremde Sprache wird 'inzeniert'”)
(Schewe 1993a:4). I docenti e gli apprendenti devono possedere per quanto possibile le competenze
proprie ai protagonisti del processo teatrale:
• il drammaturgo (o un gruppo di autori) scrive il dramma e ha un interesse primariamente
letterario;
• il regista sviluppa, eventualmente insieme al drammaturgo un'idea per la messa in scena,
cioè elabora le idee che permetteranno agli spettatori di fare una specifica esperienza. Al
centro del suo interesse è l'ambito scenico, cioè l'effetto dell'azione drammatica;
• gli attori sono il materiale vivente della messa in scena. Essi applicano i metodi teatrali per
sviluppare in modo ottimale le proprie capacità espressive e per trasmettere allo spettatore
l'illusione della realtà.
Secondo Schewe la pedagogia drammatica britannica, espressa nella formula “to think on one's
feet” (improvvisare, decidere su due piedi) invita a sospendere il permanente autocontrollo a favore
di un'esperienza corporea spontanea, l'unico modo per mettere in moto i processi di apprendimento
attraverso un movimento che unisce facoltà attive (movimento) e ricettive (apprendimento
/acquisizione).
Egli distingue tre fasi nel lavoro teatrale (Schewe 1993a:51-52):
• fase di sensibilizzazione costituita da giochi interattivi ed esercizi finalizzati a liberare i
partecipanti da un'idea rigida della didattica, a fornire loro un primo modello di
insegnamento/apprendimento con “testa, cuore, mani e piedi”, a migliorare la conoscenza tra
i membri del gruppo e a creare un'atmosfera rilassata;
• fase di contestualizzazione in cui i partecipanti devono adattarsi a lavorare per un periodo
abbastanza lungo all'interno di ruoli fittizi. Per l'identificazione nei personaggi è di estrema
importanza la contestualizzazione: si crea a questo scopo un contesto d'azione armonioso
con esercizi interattivi e individuali;
• fase di intensivazione in cui si crea una tensione maggiore che induce i partecipanti a
confrontarsi con sfide più impegnative coinvolgenti anche la sfera affettiva. In questa fase si
introducono anche le tecniche della messa in scena.
Schewe ha continuato a occuparsi attivamente delle pratiche teatrali (cfr. Schewe-Schaw 1993;
Schewe 2002; Schewe-Scott 2003;) e nel 2007 ha dato vita, insieme a Susanne Even, a “Scenario”,
una rivista elettronica bilingue (tedesco e inglese) dedicata all'insegnamento delle lingue straniere
attraverso la drammatizzazione e il teatro del quale, a oggi, sono stati pubblicati tre numeri.1
Alla proposta di Schewe si avvicina quella del Process Drama (PD), sviluppatosi in Inghilterra, a
partire dagli anni Sessanta, dall'incontro tra la pedagogia di Brian Way, Doroty Heathcote e Gavin
Bolton (Bolton 1979; Heathcote-Bolton 1995; Bolton 1998; Bolton-Heathcote 1999) e il lavoro di
operatori teatrali come O'Neill (O'Neill 1995, Kao-O'Neill 1998, Liu 2002). Si tratta di
un'evoluzione dello SI di Di Pietro (1987), dal quale il PD riprende l'idea della contestualizzazione
della lingua, dell'assunzione di ruoli, la tensione dinamica, il potere motivante dell'inatteso. A questi
elementi si aggiunge una maggiore enfasi sull'autonomia dell'apprendente, sul suo coinvolgimento
immediato e sulla funzione dell'insegnante che partecipa attivamente alle attività drammatiche.2
semiotic system and an object of learning); 3. an affective level of interpersonal relationships (language as a means of
expressing values and judgments about oneself and others); 4. a level of individual learning needs (remedial learning based on
error analysis); 5. a general educational level of extra-linguistic goals (language learning within the school curriculum)”
(Richard-Rodgers (1986:73).
1 Cfr.<www.ucc.ie/en/scenario/>
2 Heathcote (1984) introduce a questo proposito due espressioni, poi divenute patrimonio comune di questo approccio: fare
indossare all'apprendente il “mantel of expert”, ovvero metterlo in condizione di sfruttare attivamente le proprie competenze e
l'espressione “teacher in role”, che si riferisce a un'attività in cui l'insegnante impersona un ruolo fittizio entro la classe,
rispondendo alle domande degli studenti per mettere in moto il processo di teatralizzazione.
102
L'insegnante e gli apprendenti divengono attori e protagonisti di un mondo immaginario da loro
creato (Liu 2002). Il lavoro inizia con la fase “pre-text in context” che propone il tema della
situazione da rappresentare. Ad esempio il contesto “ritorno del direttore alla vecchia scuola”
potrebbe avere come pretesto una comunicazione dell'insegnante del tipo: “Cari amici, il nostro
vecchio direttore, il signor Smith, sparito 5 anni fa, tornerà a scuola domani. Ha perso la capacità di
parlare, ma si assumerà la responsabilità della nostra scuola” (Liu 2002:58). Dopo questa fase gli
studenti, in gruppi, inizieranno a discutere sul modo di animare questo contesto fino a che un
gruppo non deciderà di rappresentare la prima scena, alla quale seguiranno le altre (fase “roles in
role”). Segue la fase di “tension in extension”, dove l'eccitazione mentale e il coinvolgimento
emozionale saranno sollecitati al massimo. In questa fase sarà incoraggiato l'utilizzo del linguaggio
non verbale e corporeo (Liu 2002:60-61).
Al Process Drama vengono riconosciute tre funzioni (O'Neill 1995; Kao-O'Neill 1998:13; Liu
2002):
• cognitiva: il materiale di solito utilizzato per l'apprendimento è solo potenzialmente
significativo, e l'apprendimento è migliore se significativo. La mancanza del contesto è ciò
che ostacola la realizzazione dell'apprendimento, e il Process Drama realizza la costruzione
collettiva di un contesto, lasciando spazio alla creatività e alla ricerca attiva degli
apprendenti;
• sociale: il lavoro di gruppo nel Process Drama coinvolge tutti i partecipanti. L'uso
pragmatico della lingua sensibilizza gli apprendenti al riconoscimento e al rispetto delle
diversità culturali;
• affettiva: la possibilità di discutere le fasi dell'attività e quindi l'incontro umano sono
altamente motivanti. Il gruppo fornisce il supporto emotivo agli individui. L'apprendimento
linguistico parte dai bisogni individuali.
Dagli anni Novanta fino a oggi diminuisce gradualmente l'iniziale separazione tra drama e theatre
andando sempre più nella direzione della libertà espressiva degli apprendenti anche nel loro
rapporto col testo letterario. La nuova concezione assorbe gli stimoli delle filosofie della New Age e
interpreta la “teatralità” come luogo di espressione globale dell'individuo. La riflessione sulle
attività teatrali si approfondisce concentrandosi attorno ad alcuni nuclei tematici che erano restati ai
margini delle considerazioni degli anni precedenti:
a) l'uso delle tecniche drammatiche per attivare una consapevolezza transculturale e
per risolvere problemi interculturali (Fels-McGivern 2002; Axtmann 2002;
Blankemeyer 2004; Tselikas 2006);
b) l'attenzione alla dimensione estetica delle attività teatrali (Huber 2003; Donnery
2006);
c) il recupero dell'attenzione alla forma attraverso una concezione drammatica della
grammatica (Ready 2000; 2002; Schmenk 2003; Even 2003; 2004; 2005);
d) il recupero del testo letterario e del suo valore culturale come punto di partenza per
forme di drammatizzazione non necessariamente ancorate alla lettera del testo (Lys
et alii 2002; Schewe-Scott 2003; Marini Maio 2004).
a) Il dramma viene identificato come il luogo dove sviluppare le “abilità interculturali” e la
complessità dell'apprendimento transculturale, assimilando tecniche mutuate dai movimenti teatrali
di Stanislawski, Grotowsky, Boal. Si recepiscono gli impulsi delle teorie psicoanalitiche (la
psicoterapia junghiana e la psicologia umanistica di Carl Rogers) e da altre forme aritstiche. Un
esempio significativo in questa direzione è Authentic Movement,che si ricollega alla Modern Dance
e alla Dance therapy (Blankemeyer 2004).1 Questa metodologia associa il movimento spontaneo ed
espressivo alla descrizione (il più possibile neutrale) da parte dei “testimoni” che osservano i
movimenti. Il processo è inverso rispetto a quello del PT, dove il movimento mima la narrazione.
1 Authentic Movement nasce in Europa nel 1950 grazie alla danzatrice Mary Starks Whitehouse, allieva di Martha Graham;
Whitehouse studiò al C.G.Jung Institute in Svizzera e fu membro della American Dance Therapy Association. Le sue pratiche
sono state sviluppate e articolate in seguito negli Stati Uniti da Janet Adler e Joan Chodorow.
103
Le linee guida dell'attività incoraggiano ad abbandonare il giudizio, le proiezioni e le interpretazioni
sia per chi mette in scena il movimento che per i testimoni. I momenti dell'attività sono quattro:
• vedo: osservazione basata sul movimento dell'interprete;
• percepisco: sensazione cinestetica del corpo;
• sento: emozione;
• immagino: immaginazione/storia (Blankemeyer 2004:128).
L'enfasi è sulla comunicazione corporea e non verbale, al centro anche della raccolta di saggi di
Gerd Bräuer (2002) che porta il titolo significativo: “Body and Language, Intercultural Learning
Through Drama”.
b) La dimensione estetica, nel suo significato etimologico di “aísthesis” (dal greco
“sensazione”, “percezione”) con riferimento alla dimensione esperenziale dell'apprendimento, viene
sempre più a informare la teoria e la pratica didattica attraverso le tecniche drammatiche. Tale
dimensione si trova al centro della riflessione di Ruth Huber (2003) la quale intende la didattica
delle lingue come una “educazione dei sensi”, nel senso di Cassirer e Baumgarten. Usare i sensi
(Sinne) può sviluppare la capacità di ascolto in senso ampio e la percezione, il vissuto personale
costituirà la base della comunicazione significativa in classe dalla quale emergerà il solo “senso”
(Sinn) possibile, quello costruito attraverso l'interazione (Huber 2003:493). La cultura dell'ascolto
(Hörkultur) è inoltre essenziale nella società multiculturale, per creare spazio per l'empatia,
l'accettazione, la tolleranza dell'ambiguità, la capacità di cooperazione nella soluzione dei conflitti
(Huber 2003:216).
c) Il fatto che le attività teatrali sviluppino sia la fluency che l'accuracy, la possibilità di
attivare una riflessione induttiva sulla forma e di ricostruire la grammatica a partire dai significati,
sono presenti in modo più o meno esplicito in tutti gli approcci teatrali fino ad ora considerati.
Questa impostazione teorica diviene la tesi centrale del “Drama Grammatik” di Susanne Even
(2003:21), secondo cui “l'insegnamento drammatico-pedagogio può innescare un'efficace
elaborazione dei fenomeni grammaticali della lingua straniera”1 In tal modo la Even mette a fuoco
un elemento rimasto in secondo piano, se pur presente, nella riflessione sul rapporto tra
drammatizzazione e apprendimento delle L2, tendente a enfatizzare più il focus on meaning che il
focus on form. L'insegnamento drammatico della grammatica getta un ponte tra la conoscenza delle
regole e l'uso della lingua che abbiamo visto rappresentare uno dei punti deboli dell'insegnamento
formale.
d) Il mettere al centro dell'azione drammatica l'apprendente, la sua creatività, i suoi bisogni,
porta a ridefinire il rapporto col testo drammatico: la sua messa in scena non sarà più tesa a
ricostruire il pensiero del commediografo, autore e “proprietario” assoluto della sua autenticità, ma
sarà volta a liberare la creatività degli apprendenti e ad istituire un confronto col mondo culturale di
cui il testo è espressione. In questa direzione vanno la teoria e le esperienze riportate in Lys et alii
(2002) e Schewe e Scott (2003). Particolarmente significative ci sembrano le esperienze, il cui
resoconto è stato pubblicato sulla rivista “Italica” (Winter 2004), fatte negli Stati Uniti da cinque
docenti che partecipavano ad un gruppo di lavoro sull'insegnamento dell'italiano LS attraverso il
teatro (Marini Maio 2004; Del Fattore-Olson 2004; Ryan Scheutz-Colangelo 2004; Valeri 2004;
Colli 2004). Tra queste2 dedicheremo particolare attenzione a quella che Nicoletta Marini Maio
(2004) ha attivato con gli studenti della University of Pennsylvania per tre motivi: innanzitutto
perché riguarda l'insegnamento/apprendimento della lingua italiana, in secondo luogo per il
104
carattere sistematico con cui è stata condotta, e infine perché ci pare rappresentativa del nuovo
atteggiamento nei confronti del testo drammatico. Il titolo dell'articolo “I sei personaggi siamo noi:
Pirandello, o la metamorfosi degli studenti nel laboratorio teatrale in italiano” è significativo a
proposito. Il laboratorio teatrale aveva lo scopo di mettere in scena i “Sei personaggi”, un testo
canonico proposto di solito nei programmi di teatro in lingua inglese.
Nell'analizzare le caratteristiche del laboratorio teatrale da lei attivato Marini Maio si richiama agli
Standards for Foreign Language Learning elaborati negli USA nel 1996 (Phillips 1999) basati sulle
cinque ”C”: Communication, Culture, Connections, Confrontations, Community.
• La comunicazione (Communication) nel laboratorio teatrale è attivata da una pratica lunga e
prolungata e si concretizza in varie forme:
– metaletteraria (dibattito sul testo drammatico);
– performativa (dalla lettura ad alta voce, all'analisi delle caratteristiche emotive del testo,
improvvisazioni, azioni drammatiche);
– pragmatica (nelle discussioni su adattamenti e problemi che mettono in moto strategie di
comunicazione sofisticate).
• La cultura (Culture) italiana viene affrontata nella sua complessità attraverso il testo
letterario.
• Il laboratorio teatrale con i sui molteplici codici ha un forte carattere interdisciplinare
(Connections).
• Il confronto (Confrontations) avviene sia sul piano linguistico (eventuale traduzione del
testo drammatico) che culturale attraverso la rielaborazione del testo in chiave attualizzante;
• Il teatro crea il gruppo sociale. Inoltre il laboratorio teatrale può coinvolgere docenti,
studenti, la comunità italofona locale, amici e parenti allargando la dimensione comunitaria
(Community).
Nella conduzione pratica del laboratorio Marini Maio ha adottato un modello teorico olistico e ha
utilizzato la didattica per compiti ponendo attenzione sia al processo che al prodotto. Il macro
obiettivo (spettacolo teatrale) è stato scisso in micro-obiettivi specifici secondo un approccio
modulare: conoscenza del testo e dell'opera di Pirandello, adattamento del testo, acquisizione di
tecniche teatrali. Gli studenti sono stati liberi di trasformare il testo e di modificarlo e arricchirlo
secondo la propria esperienza. Il lavoro ha occupato 14 settimane con una frequenza di tre ore
settimanali. Le ultime cinque settimane hanno richiesto da una a 3-4 ore in più per le prove e
l'allestimento scenico (circa 55 ore in tutto). Ogni modulo è stato precisato attraverso prerequisiti,
obiettivi, modalità di svolgimento dell'attività, metodologia di verifica, durata:
• modulo letterario: mini-curricolo storico letterario, lettura di brani, approfondimento del
pensiero di Pirandello, analisi del testo. La verifica è consistita in un breve questionario, un
colloquio e l'elaborazione di proposte per l'allestimento scenico;
• modulo performativo: attività di riscaldamento, improvvisazione, teoria e pratica delle
tecniche teatrali, performance individuali e in coppia;
• modulo spettacolare: allestimento dello spettacolo, assegnazione dei ruoli, riadattamento
del testo, prove.
Come si può constatare il lavoro di Marini Maio è stato molto impegnativo, sia in considerazione
dei tempi che del lavoro svolto. Ma proprio per questo ci è sembrato un modello al quale fare
riferimento nell'organizzare le sperimentazioni attuate col laboratorio di burattini. A conclusione del
lavoro, Marini Maio (2004:459-460) fornisce un giudizio estremamente positivo, constatando come
la componente letteraria, quella linguistica e quella culturale si siano intersecate in modo naturale
nella forma teatrale:
L'esperienza del laboratorio ha dimostrato che, quando la componente letteraria e quella culturale si combinano
con l'interazione linguistica, replicando le condizioni di apprendimento in situazione di full immersion, in cui la
lingua viene usata come mezzo per giungere all'obiettivo della performance finale, allora la difficoltà
linguistica, la letterarietà e le implicazioni culturali del testo si riverberano in modo molto positivo sugli
105
studenti.
Fare teatro insieme coinvolge inoltre il discente in una relazione interpersonale che lo rende
cognitivamente attivo e contemporaneamente facilita la comprensione della L2 per la presenza di un
continuo e massiccio riferimento al contesto. Rappresentando un’esperienza sensoriale e motoria
estremamente creativa e coinvolgente rende piacevole l’acquisizione della lingua straniera. Cangià
rileva anche l’importanza di questa esperienza per l’estensione della personalità, ovvero riconosce il
valore formativo del teatro che lo rende uno strumento prezioso specialmente nella scuola
dell’obbligo. Cangià coniuga le caratteristiche riconducibili sia alla a tradizione del theatre che del
drama, in quanto riconosce la spinta motivazionale data dall'obiettivo dello spettacolo (le attività
didattiche hanno come obiettivo finale una vera e propria rappresentazione, completa di
scenografie, costumi e pubblico) ma lega le attività di drammatizzazione al laboratorio teatrale. In
questo modo riesce a coniugare sia il focus on form che il focus on meaning (Cangià 2007). Il
laboratorio teatrale, con le sue attività di realizzazione dei costumi, delle scene, delle scenografie,
degli inviti per il pubblico, rappresenta anche uno spazio prezioso di interazione spontanea e di
1 Cfr. <www.hocus-lotus.edu>.
106
apprendimento della L2 in una condizione di full immersion. Le fasi dell'unità didattica proposta da
Cangià (1998) prevedono:
• lo studio del copione, ovvero l'analisi linguistica, delle interazioni tra i personaggi, dei
registri da utilizzare (colloquiale, formale);
• lo studio delle battute, accompagnate dall’intonazione e dai gesti appropriati alla situazione;
(nella fase della la memorizzazione gli apprendenti saranno coadiuvati dall'utilizzo del
computer dove sarà presente un “ipercopione” col quale interagire in modo ludico, con la
possibilità di ascoltare le battute e riascoltare le proprie battute registrate);
• la scenografia, fase pratica del laboratorio dove saranno definiti i costumi, i trucchi gli
oggetti di scena: ciò permetterà di usare la lingua collegandola alle azioni e alle esperienze
concrete;
• lo spettacolo in cui la comunicazione si sposterà dal laboratorio al pubblico.
Interessante, nell'approccio di Cangià, è la presenza del computer, come strumento di gioco e di
studio e come “aiuto regista”, con la funzione di consentire all'insegnante di essere presente dove è
più necessario e agli alunni di conquistare modalità di lavoro sempre più autonome.
Elementi teatrali sono presenti anche in alcune metodologie adottate alla scuola Dilit di Roma,
fondata nel 1977 da Christopher Humphris e fortemente orientata in senso comunicativo. Ci
riferiamo alla “ricostruzione di conversazione” (Urbani 1982) che costituisce un esempio di
“drammatizzazione” finalizzata alla ricostruzione analitica e capillare delle regole di produzione
della lingua (quindi orientata in senso “grammaticale”). L'insegnante sceglie un dialogo
(possibilmente reale) tra due locutori A e B, come nell'esempio:
Luisa: Giorgio, scusa, che tu sappia, la riunione di sabato mattina è alle nove o alle dieci?
Giorgio: Dovrebbe essere alle dieci. Comunque per maggior sicurezza domanda a Giancarlo.
Luisa: No, perché in un primo momento era stato detto alle nove, quindi molti sanno alle nove e in caso
andrebbero informati del cambiamento.
Giorgio: Certo. Come ripeto, io credo che si siano messi d'accordo per le dieci. Ma, se parli con Giancarlo, da
lui puoi avere un'informazione certa.
L'insegnante contestualizza il dialogo, indicando le caratteristiche e le relazioni che intercorrono tra
i personaggi. Poi comunica agli apprendenti le battute del dialogo attraverso codici iconici
(cartelloni, fotografie, disegni), codici gestuali (mimando il contenuto della conversazione o
attraverso singoli gesti significativi), codici verbali che possono essere la L2 o, se necessario la L1
degli apprendenti, senza però avvicinarsi mai ai reali enunciati del dialogo-obiettivo che devono
essere raggiunti attraverso un processo di ricostruzione cooperativa da parte degli apprendenti. Lo
scopo dell'attività è, non solo la ricostruzione esatta del dialogo, ma anche la sua realizzazione
fonologica, intonativa e gestuale corretta, che prende spunto dalla pantomima dell'insegnante. Si
tratta dunque di un'attività fortemente focalizzata sulla forma (vengono usate anche molte categorie
grammaticali) ma che, grazie alle sue caratteristiche drammatiche, include oltre l'aspetto lessicale,
morfosintattico e fonetico, anche aspetti, come quelli paralinguistici, cinesici, sociolinguistici e
pragmatici che normalmente restano esclusi da un approccio più convenzionale.
Non è possibile prendere in esame tutte le esperienze italiane per l'insegnamento delle L2/LS
attraverso tecniche teatrali, il cui elenco risulterebbe tanto lungo quanto poco significativo. Sulle
riviste dedicate alla didattica dell'italiano L2 compaiono periodicamente articoli che rimandano alle
tecniche e alle esperienze teatrali, e ultimamente un intero numero della rivista di linguistica e
glottodidattica “Culturiana” (anno 1, n° 2, 2007) è stato dedicato al rapporto tra teatro e
glottodidattica. Inoltre nel Dicembre 2008 è stato organizzato un convegno sull'argomento a
Frascati.
A seguito dei protocolli di intesa per l'educazione al teatro che si sono susseguiti dopo il 1995 (§.
3.1.1), il teatro è entrato a far parte di moltissimi progetti finalizzati all'integrazione linguistica nella
scuola oltre che in progetti di formazione degli insegnanti per l'insegnamento dell'italiano L2 nella
107
scuola pubblica.1 Quanto all'insegnamento nelle Università citiamo il progetto TiLLiT (Teatro in
Lingua, Lingua in Teatro) dell'Università del Piemonte Orientale (Reinhadt 2007), dove,
accogliendo l'impostazione di Huber (2003), si cerca di inserire l'apprendimento linguistico in una
cornice di gioco, cornice ben rappresentata dal palcoscenico. Viene inoltre posto l'accento sulla
dimensione del comico.
Per quanto riguarda l'insegnamento dell'italiano a stranieri abbiamo invece alcune iniziative di cui
sono protagoniste le due Università per Stranieri di Perugia e di Siena.
Alla teoria della bimodalidtà dell'apprendimento linguistico (Danesi 1988; 1998)2 si richiama invece
Anna Comodi (Comodi-Gaone 2001; Comodi-Pettinelli 2007) che ha curato laboratori teatrali
sperimentali presso l'Università per Stranieri di Perugia fortemente orientati nel senso del theatre e
dell'interculturalità. Anche in questi laboratori il testo viene manipolato e avvicinato all'esperienza
degli apprendenti con un libertà che sembra sempre più diventare la cifra interpretativa del rapporto
teatro-educazione nel nuovo millennio.
Siena è invece protagonista di alcune esperienze riportate nella rivista “Tendenze italiane”: un
progetto che vede la messa in scena di un'opera lirica (Cingottini 2005), un'esperienza con bambini
e adolescenti stranieri che mettono un scena “Le avventure di Pinocchio” (Quartesan 2006); infine
esperienze fatte con le maschere della Commedia dell'Arte (Colombini 2007). L'esperienza riportata
da Cingottini ci sembra particolarmente significativa. Si tratta di un progetto realizzato dalla
cantante-regista americana, Karen Saillant, realizzato a Città della Pieve nell'agosto 2004. Karen
Saillant organizza, con la collaborazione dell'Amministrazione comunale locale, la messa in scena
in italiano del “Midsummer Night's Dream” di Shakespeare, proponendo uno stage intensivo di
lingua italiana ai suoi allievi americani di canto. L'attiva partecipazione all'esperienza della
comunità di Città della Pieve, il coinvolgimento delle istituzioni e di esperti, come Antonio Fava,
autore, attore e Maestro della Commedia dell'Arte e direttore della Scuola internazionale dell'attore
comico di Reggio Emilia, hanno consentito agli studenti di vivere un'esperienza di alto livello
artistico e contemporaneamente di acquisire una padronanza della lingua italiana non facilmente
raggiungibile con i metodi tradizionali.3 Così descrive l'esperienza Gaetano Fiacconi sul Corriere
dell'Umbria (20 agosto 2004):
Si tratta di una vera e propria immersione che prevede lo studio della lingua italiana, della dizione della stessa,
ma insieme gli stagisti visitano la città e le sue opere d'arte, si intrattengono nelle botteghe artigiane con
falegnami, ricamatrici e ceramisti. Non ultimo, molti di essi parteciperanno come figuranti al corteo del Palio
dei Terzieri. Le giornate si alternano dunque fra prove in teatro e la vita in città, dove gratuita e spontanea è
1 Cfr. ad esempio il “Progetto interculturale: L'apprendimento dell'italiano come lingua seconda” per la formazione dei docenti e la
realizzazione di attività sperimentali nelle classi interculturali nella scuola di ogni ordine e grado, promosso dal Ministero della
Pubblica Istruzione e Sovrintendenza Scolastica per la Toscana di Firenze con durata triennale (dal 1998 al 2001)
<www.bdp.it/leonardo/sovr_fi/proget~3.rtf >.
2 La teoria di Danesi cerca di tenere conto delle basi neurolinguistiche dell'apprendimento nel programmare un paradigma
educativo. Essa utilizza due concetti fondamentali: la bimodalità e la direzionalità dell'apprendimento linguistico. Gli studi sulla
specializzazione emisferica attribuiscono all'emisfero destro una preferenza per le rappresentazioni spaziali e per i processi di
elaborazione sintetici, a quello sinistro una preferenza per le rappresentazioni verbali e per i processi analitici. Per quanto
riguarda il linguaggio, l'emisfero sinistro sarebbe cruciale per la comprensione e l'elaborazione del linguaggio letterale, fonetico e
sintattico; mentre l'emisfero destro sarebbe coinvolto negli aspetti del messaggio con cui vengono espresse le parole, le frasi e il
contenuto emozionale. Secondo la teoria della bimodalità i due emisferi collaborano in modo complementare nell'elaborare
l'informazione attraverso un dialogo costante “perciò l'apprendimento linguistico (...) costituisce un processo coinvolgente queste
due modalità neurofunzionali connesse rispettivamente con i due emisferi cerebrali in un'interazione cognitiva reciproca” (Danesi
1998:65). Ciò conduce verso una prospettiva interdisciplinare dell'educazione che pone come necessaria la complementarietà tra i
vari approcci disciplinari. La direzionalità dell'apprendimento linguistico implica che l'apprendimento della lingua avviene
coinvolgendo prima i processi sintetici propri dell'emisfero destro e in seguito quelli analitici dell'emisfero sinistro, cosa di cui la
didattica delle lingue dovrebbe tenere ugualmente conto sollecitando innanzitutto la ricezione “globale” e multisensoriale del
testo per passare in seguito alla sua considerazione analitica.
3 “(...) se loro imparano a parlare italiano in maniera corretta, non l'italiano che serve per andare al supermercato a comprare
qualcosa così, ma l'italiano che serve per esprimere quello che crea l'emozione, quello che porta l'emozione all'ascoltatore.....Se si
può ottenere quello, loro hanno un vantaggio enorme, perché si trovano subito immersi in una situazione per cui l'emozione non
rimane dentro, ma può uscire e trasferirsi verso chi ascolta (...)” dall'intervista al Maestro Vittorio Rosetta (Cingottini 2005:51-
52).
108
sorta la collaborazione di molti pievesi che hanno sostenuto il gruppo con ospitalità, lavori manuali e consigli.
Ci sembra che il valore delle attività teatrali come luogo di formazione e di incontro di comunità
emerga con evidenza da questa esperienza.1
Vogliamo menzionare infine il progetto GlottoDrama (cfr. Nofri 2007) che vede come partner
università italiane (Tor Vergata di Roma e Scuola di Lingua e Cultura Italiana di Perugia) e centri di
ricerca stranieri (Cetre de Recherche et d'Etudies Italienne e l'Università di Bucarest) e mira a
realizzare una rete europea di istituzioni educative che adottino tra le attività curricolari un metodo
che integri nella didattica comunicativa le dinamiche e le tecniche della recitazione teatrale. Nel
progetto si prevede la collaborazione di insegnati di lingua e di recitazione. L'affermarsi del
“glottodrama” come nuova impostazione didattica ci sembra dimostrare che il teatro e le sue
tecniche hanno ormai conquistato definitivamente la loro autonomia come strumenti del processo di
insegnamento/apprendimento dell'italiano L2.
Anche l'uso del teatro e della drammatizzazione nella didattica delle L2 ha sollevato una serie di
problemi che abbiamo in parte già considerati nel ripercorrerne a grandi linee la storia. Alcuni di
essi coincidono con i problemi individuati nell'analizzare il rapporto tra teatro ed educazione ai
quali rimandiamo (§ 3.1.1.1), altri riguardano specificamente l'insegnamento/apprendimento delle
L2. Tra questi abbiamo individuato tre aree critiche, attorno alle quali periodicamente si riaccende
la discussione e sulle quali crediamo sia necessario tornare per una riflessione più approfondita. La
prima riguarda il ruolo del testo nelle attività di drammatizzazione, la seconda il ruolo
dell'insegnante e la terza la gestione e motivazione del gruppo classe.
109
contrario, “non c'è motivo (...) per cui lavorare con i testi non debba essere creativo e stimolante
come altre attività” (Fleming 2003:96).1 In esperienze come quelle di Marini Maio (2004) o di
Cangià (1998) l'interpretazione e l'improvvisazione si coniugano in modo armonico all'interno del
processo teatrale. Cerchiamo di ricostruire ciò che avviene (o che può avvenire) nei due processi
seguendo Holden (1981), la quale, prendendo in considerazione la messa in scena di un testo,
delinea la diversa direzione del processo ideativo a seconda che si parta o meno dal testo teatrale
(Holden 1981:59-72). L'improvvisazione prende spunto dalle idee o dai sentimenti che si
desiderano esprimere, seleziona i significati e le espressioni nella L2 che appaiono più adeguati e
infine giunge all'espressione verbale e non verbale. L'interpretazione del testo parte invece dalle
parole e dalle didascalie presenti nel copione, ne estrae i significati e le espressioni e solo allora
giunge a comprendere le idee e i sentimenti (dell'autore) che ne costituiscono l'ispirazione e che
vengono poi restituiti attraverso l'espressione verbale e non verbale. I due processi vengono
riassunti da Holden nel modo seguente:
a) improvvisazione: ideazione (idee e sentimenti) - significati1 (selezione dei significati delle
espressioni) – espressione (parole e gesti);
b) interpretazione: testo (dialoghi e didascalie) – significati2 (comprensione dei significati delle
espressioni) – ideazione (idee e sentimenti) – espressione (parole e gesti).
Holden fa finire qui il lavoro sul testo. Ma in tal modo trascura di evidenziare il fatto che solo
quando si interiorizzano le idee e sentimenti dell'autore e si reinterpretano come propri è possibile
ripercorrere il processo che riconduce all'espressione verbale e non verbale: non più parole scritte
ma parole pronunciate, non più didascalie, ma gesti e espressioni di sentimenti. Anche se Holden
osserva che spesso i testi non danno informazioni sui gesti e le espressioni e queste devono essere
dedotte dai dialoghi, non evidenzia l'aspetto creativo di questo processo. In realtà è necessario un
lavoro di rielaborazione e integrazione del testo ben esemplificato da Stanislavskij (1938/1996) nel
suo insistere sulla necessità di “rivivere” i sentimenti e le motivazioni del personaggio
rappresentato. Senza nulla togliere alla creatività implicata dalla interpretazione del testo teatrale,
per graduare e raggiungere gli obiettivi didattici è possibile fare un passo ulteriore. Facendo
riferimento alla fig. 3.1, si può sfruttare il cambiamento di direzione della freccia partente dal
“testo”:
Figura 3.1 - Schema delle due direzioni del processo di improvvisazione e di interpretazione di un testo
IMP ROVVISAZIONE
ideazione significati 2
significati 1
testo
le parole, che sono state la sorgente e la fonte di ispirazione dei sentimenti, possono essere ricreate,
ovvero il testo può essere riscritto o reinterpretato dagli apprendenti. Nel caso della interpretazione,
tra la ideazione e l'espressione, si situa ancora una volta la selezione dei significati e delle
espressioni. Per cui in questo caso il processo della (re-)interpretazione può essere schematizzato
nel modo seguente:
c) (re-)interpretazione: testo (dialoghi e didascalie) – significati1 (comprensione dei
significati delle espressioni) – ideazione (idee e sentimenti) – significati2 (selezione
significati e espressioni) - espressione (parole e gesti).
1 “ (...) there should be no reason (…) why working with texts should not be as creative and engaging as other activities”
(traduzione nostra).
110
In questo processo il testo originario viene assimilato, trasformato, riassorbito: ed è questa una delle
direzioni intraprese dalla più recente pedagogia teatrale. Questa operazione presenta (almeno)
quattro vantaggi:
• recupera il valore del testo teatrale come input;
• recupera il valore letterario e culturale del testo teatrale;
• permette un confronto attivo tra la C1 degli apprendenti e la C2 cui il testo rimanda:
• permette agli apprendenti di esprimersi a partire dalla propria interlingua.
In questo modo sia l'improvvisazione che l'interpretazione vengono riconosciute come processi
creativi che possono coesistere come momenti di un processo unitario. Il testo agisce in questo caso
come “pre-testo” (O’Neill 1995:5) arricchendo l'esplorazione attiva degli apprendenti e fornendo
tutta una serie di spunti che possono essere soggetti a ulteriori elaborazioni (cfr. § 3.2.2). La
maggiore o minore insistenza su l'una o sull'altra forma di drammatizzazione dipenderà dalla
competenza degli apprendenti e dal percorso che l'insegnante vorrà proporre, percorso in cui anche
la recitazione svolge la sua funzione, come forma di ripetizione e rinforzo propria dei primi livelli
di apprendimento, necessaria per passare alla interpretazione del testo e infine all'improvvisazione:
tappe del cammino degli apprendenti verso forme sempre meno pianificate di comunicazione.
111
Due delle “paure” riguardano le condizioni esterne e due le competenze dell'insegnante. Nella
recente discussione intorno all'uso didattico del teatro si enfatizza la partecipazione attiva
dell'insegnante (Butterfeld 1989, Schewe 1993a, O'Neill 1995). Ciò non è così scontato in ambiti
diversi dall'apprendimento delle L2, dove si è pensato a lungo che l'insegnante non dovesse
partecipare per lasciare ai ragazzi la libertà di esprimersi a partire dalle proprie capacità. Tuttavia
nell'insegnamento della L2 l'insegnante è, oltre che un facilitatore e sollecitatore di processi
comunicativi, anche il modello di lingua. La sua partecipazione garantisce la presenza autentica
della L2 all'interno della classe. Ma ha anche la funzione di “innescare” il processo drammatico
fornendo agli apprendenti la motivazione essenziale per superare le proprie resistenze a mettersi in
gioco.1 Egli deve trasformarsi dunque in “teacher in role” (Heathcote 1984; O'Neill 1995), e per far
questo necessita di una preparazione specifica e/o della possibilità di collaborare con un operatore
pedagogico-teatrale. La preparazione dell'insegnante, l'unico modo per superare le “paure” prima
citate, deve essere volta ad appropriarsi delle tecniche del laboratorio teatrale e a sviluppare la
consapevolezza nelle capacità espressive del corpo e della voce, ma non è assolutamente necessario
che egli possieda particolari abilità come attore, cosa che escluderebbe la maggior parte dei docenti
di lingua italiana da questa attività.
Tra i ruoli che Richards e Rodgers (1986) identificano nell'auto-percezione degli insegnanti a
seconda del significato attribuito all'insegnamento comunicativo, Schewe (1993b:293) ne identifica
tre che si adattano all'insegnante coinvolto nelle attività teatrali:
• l'insegnante come facilitatore: assume il ruolo di promuovere il processo di comunicazione
tra gli apprendenti e tra gli apprendenti e l'ambiente in cui si svolgono le prove;
• l'insegnante come consulente (counsellor): viene in aiuto per gettare un ponte tra le
intenzioni dei parlanti e le interpretazioni degli ascoltatori, parafrasando o riformulando
enunciati problematici;
• l'insegnante come manager (o meglio in questo caso produttore-direttore): gestisce i
processi di gruppo stabilisce una cornice organizzativa e metodologica per le attività
comunicative. Durante o dopo queste attività fornisce impulsi che accelerano o inducono a
una riflessione sui processi di comunicazione nel gruppo.2
In conclusione nel fare teatro l'insegnante/regista co-partecipa al lavoro drammatico e crea un clima
di cooperazione in classe in quanto facilitatore dei flussi di comunicazione. Egli rappresenta una
risorsa a disposizione degli apprendenti e deve essere in grado di gestire i processi che si attivano
nel gruppo. In questo modo permette forme di interazione democratiche che incoraggiano
emotivamente gli apprendenti all'uso attivo della lingua. Per svolgere al meglio questo ruolo
l'insegnante necessita di una preparazione specifica o della collaborazione di una figura
professionale.
112
motivazionale sia uno dei pericoli maggiori che può portare al completo fallimento dell'iniziativa.
Inoltre sono presenti resistenze dovute a esperienze pregresse o ad aspettative specifiche rispetto al
modo in cui una L2 andrebbe studiata e appresa. Ovviamente questo fattore è legato all'età degli
apprendenti: bambini e adolescenti accettano volentieri di essere coinvolti nel “gioco” teatrale, per
quanto riguarda giovani e adulti le cose non stanno sempre così. La corretta preparazione
dell'insegnante svolge in questo caso un ruolo determinante nel riuscire a comunicare agli
apprendenti la fiducia nella “bontà” e l'”efficacia” delle iniziative proposte.
Interessante è a questo proposito l'indagine svolta sull'”uso non corretto” della drammatizzazione da
parte di una insegnante di tedesco a studenti del Corke Institute of Technology nell'Irlanda
meridionale riportata da Borge (2007). Borge, spinta dal desiderio di affiancare attività di
drammatizzazione alla lezione tradizionale per integrare le carenze del libro di testo soprattutto a
riguardo del vocabolario “emozionale”, si scontra con la resistenza di studenti poco motivati.
Sottoponendo la propria esperienza a una analisi tanto onesta e preziosa quanto rara, giunge a
stabilire le seguenti cause cui si deve il fallimento dell'attività:
• una preparazione da autodidatta dell'insegnante che può essere insufficiente per l'uso
effettivo della drammatizzazione;
• trascurare le dinamiche interne al gruppo;
• trascurare di tenere conto delle caratteristiche di ciascun gruppo (introverso, estroverso);
• porsi obiettivi troppo ambiziosi in tempi troppo ristretti;
• non prendere in considerazione l'importanza dell'arredamento e e dello spazio in cui si
svolgono le attività;
• trascurare di motivare gli apprendenti dando per scontato che gli esercizi di drammatiz-
zazione suscitino necessariamente attenzione.
L'esperienza riportata da Borge mette in luce l'importanza particolare che assume la gestione del
gruppo in queste attività. Quando nel gruppo sorgono problemi bisogna sapere come affrontarli
apertamente, essere disposti a modificare il proprio atteggiamento e, al limite, saper rinunciare
all'attività. Le tecniche teatrali forniscono strumenti essenziali in questo senso. Il teatro si è infatti
preoccupato da sempre di formare il gruppo teatrale, dalla cui coesione dipende il successo o
l'insuccesso dello spettacolo così come, nel nostro caso, dipende il successo o l'insuccesso
dell'apprendimento.
113
3.2 Percorsi e tecniche di drammatizzazione nel progetto teatrale
Le indicazioni che daremo in questa parte intendono offrire una panoramica delle possibilità aperte
dalla prospettiva di un progetto teatrale e dei diversi percorsi che essa ci presenta e chiarire i
momenti essenziali di questa attività. Per il resto crediamo che l'insegnante debba trovare la propria
strategia considerando i bisogni, gli interessi e le caratteristiche degli apprendenti, i tempi e gli
obiettivi dell'azione didattica, il contesto in cui essa va ad inserirsi. Crediamo che nel costruire un
percorso didattico secondo un approccio teatrale vadano tenuti in considerazione anche gli interessi
dell'insegnante, grandi assenti dal panorama della didattica delle lingue (e della didattica in genere):
se l'insegnante non è a sua volta motivato, se non mette in gioco nell'attività una parte di sé, se non
segue i propri interessi culturali e non gioisce nel condividerli con gli apprendenti, il “gioco”
teatrale non riesce a mettersi in moto.
Nel modello di regia “attoriale” cui abbiamo fatto cenno in § 3.1.3.2 le fasi del lavoro sono tre
(Cantarelli-Innocenti Malini 2001:147):
• laboratorio teatrale: promozione dei processi espressivi e di sviluppo delle capacità
attoriali;
• lavoro sul testo / drammatizzazione a partire da un “pre-testo”: stimolo della ricerca
degli attori attraverso indicazioni di lavoro;
• messa in scena teatrale: fase drammaturgica di montaggio delle drammaturgie degli attori.
Se non si seguono le fasi con ordine, e in particolare si trascura la prima di esse, si rischia di
precipitare in un modello di regia efficentista che accentra sull'insegnante/regista tutta la
responsabilità della messa in scena e appiattisce il lavoro dell'attore sul testo drammatico.
Una considerazione speciale riguarda la dimensione dello spazio e del tempo: il “setting” è
fondamentale in quanto è difficile, se non impossibile, fare teatro in uno spazio angusto, ingombro
di banchi o di tavoli. Bisognerà quindi identificare uno spazio idoneo all'attività o renderlo tale.
Quanto alla valutazione del tempo, anche senza voler dare indicazioni troppo dettagliate che
resterebbero astratte rispetto ai contesti specifici in cui il teatro va di volta in volta a inserirsi,
crediamo sia indispensabile pianificare gli incontri e le prove con cura e attenzione, soprattutto in
considerazione di un tempo minimo per ogni incontro.
Il laboratorio teatrale rappresenta la base e il cuore di tutta l'attività drammatica. Esso è il luogo in
cui si realizzano i processi creativi e l'attività teatrale diviene ricerca dei mezzi espressivi e
dell'incontro con l'altro. In esso confluiscono molteplici attività che caratterizzano il “drama”,
attività che, in quanto propedeutiche alla realizzazione del progetto teatrale, acquisiscono una
finalità e un significato specifico. Il laboratorio teatrale comprende momenti diversi:
• motivazione del gruppo;
• tecniche di rilassamento e sensibilizzazione;
• lavoro sul corpo;
• lavoro sulla voce;
• drammatizzazione e improvvisazione.
114
L2. Crediamo che in proposito siano necessarie alcune considerazioni.
La prima e più importante considerazione è che il progetto teatrale non può essere semplicemente
“calato” su un gruppo qualsiasi di apprendenti. Bisogna “ritagliarlo” su misura del gruppo oppure
proporlo su base volontaria. Va sempre accuratamente pianificato in precedenza, ma bisogna essere
disposti ad accettare che si trasformi in qualcosa di diverso.
La seconda considerazione è che il progetto teatrale va negoziato insieme agli apprendenti, e questa
negoziazione è parte del progetto stesso: innanzitutto il testo o il contesto/stimolo da cui partire per
la rappresentazione, poi i tempi, i modi, i luoghi, i ruoli, il pubblico potenziale, sono tutti elementi
che vanno discussi e definiti nel corso dell'attività.
In terzo luogo il progetto teatrale è sempre frutto di un patto tra insegnante e apprendenti:
l'insegnante deve chiarire che l'impegno e la continuità sono la condizione essenziale della
partecipazione al progetto da parte degli apprendenti e garantire altrettanto da parte sua. Se si
intende lavorare con un gruppo-classe precostituito si può proporre a chi fosse restio ad assumersi la
responsabilità di recitare, il ruolo di costumista, scenografo, osservatore, ecc. Di solito tali ruoli
vengono accettati volentieri da chi ha delle resistenze a salire sul palcoscenico.
115
suoni alla L2 aumentano considerevolmente (Guasti 2007:269-270). Anche se si ritiene
generalmente che la pronuncia della lingua italiana presenti meno difficoltà rispetto a quella di altre
lingue, essa può comunque rappresentare un ostacolo sia alla comprensione che alla produzione, in
relazione della L1 degli apprendenti. Pertanto è assolutamente necessario rendere gli apprendenti
consapevoli della realizzazione fono-articolatoria dei vari suoni dell'italiano (cfr. Costamagna
2000). Altrove abbiamo già considerato l'importanza dell'intonazione e del ritmo per la
realizzazione e comprensione dei messaggi (cfr. § 2.1.2.4). Il lavoro sulle caratteristiche
fonetico/fonologiche, ritmiche e intonazionali della L2 trova il suo posto nel laboratorio teatrale, e
può comprendere un ampio ventaglio di attività, anche queste in gran parte presenti nei testi citati
alla fine del paragrafo precedente. Ciò che differenzia l'approccio teatrale da quello
“convenzionale” è l'inserire le attività entro un lavoro generale sulla voce che procede in modo
graduale dal semplice (realizzazione di fonemi e sillabe) verso il complesso (dalla realizzazione di
frasi fino alla improvvisazione) mirato a realizzare sia la fluenza che l'accuratezza insieme alla
funzione espressiva del linguaggio. In questa attività può essere di grande aiuto anche l'uso di
sussidi tecnologici, dal registratore, al computer che, attraverso la visualizzazione del pich, permette
un apprendimento multimodale della fonetica (Hardison-Chayawan 2005).
1 Il concetto di “drammatizzazione” coincide praticamente con quello di Balboni (1991:50; 1998:53-64) già preso in
considerazione in § 3.1.3.1.
116
3.2.2 Testo e “pre-testo”
Il progetto teatrale può partire da un testo drammatico oppure decidere di creare uno spettacolo
prendendo spunto da un “pre-testo”, un tema, un racconto, una situazione ecc. La scelta è legata a
molti fattori, come la valutazione del livello di competenza, il tempo disponibile, gli obiettivi del
corso, gli interessi degli apprendenti. Ribadiamo comunque che nell'uso didattico del teatro anche il
testo è un pre-testo, e quindi il lavoro di drammatizzazione nei due casi percorre le stesse tappe. Se
il testo drammatico offre il vantaggio di consentire agli apprendenti di accostarsi a un testo
letterario in L2 e di offrire un modello di lingua, il pre-testo (e il testo drammatico come tale)
permette di lavorare sul livello di interlingua degli apprendenti innestando processi di riflessione e
negoziazione che, abbiamo visto, sono un presupposto indispensabile per lo sviluppo della L2.
Questa fase del lavoro è essenzialmente focalizzata sulla forma, in quanto in ogni caso gli
apprendenti sono spinti a elaborare le proprie espressioni nel modo più appropriato possibile; anzi,
tutta questa fase si può dire tesa a individuare una forma, verbale e non verbale, più aderente al
contenuto cui si intende dar corpo durante la rappresentazione. Tenendo conto degli obiettivi
didattici e delle esigenze degli apprendenti, sarà opportuno istituire tappe di riflessione
metalinguistica in modo da realizzare un percorso di apprendimento che sfrutti le risorse del
gruppo.
È inoltre possibile partire sia dal testo che dal pre-testo per istituire un percorso in direzione
dell'interazione spontanea, che parta da un genere più controllabile, come l'espressione scritta
(realizzazione del copione e dei dialoghi), e, passando dalla la narrazione in terza persona, giunga
alla drammatizzazione in prima persona utilizzando anche forme di improvvisazione. Ciò conduce
l'apprendente ad appropriarsi gradualmente di schemi di interazione sempre più vicini
all'interazione reale.
a) uso del testo drammatico: il testo drammatico può essere considerato e trattato come un
testo letterario per:
• leggerlo;
• sviscerarne le caratteristiche linguistiche e contenutistiche;
• discuterne in classe;
ciò permetterà di confrontarsi con le varietà, l'ambiguità, la comicità, i messaggi indiretti
ecc.
117
b) uso del testo spettacolare: dopo aver affrontato la fase a) lo spettacolo può essere visto a
teatro, cosa che costituisce senza dubbio un'esperienza di grande spessore, da affrontare
preferibilmente con apprendenti di livello alto; altrimenti si può vederne una registrazione,
più adatta ad apprendenti con competenze iniziali o medie, in quanto offre la possibilità di
fermare lo svolgimento dell'azione e di rivedere più volte le scene. La visone dello
spettacolo teatrale comporterà una rilettura del testo integrata con gli altri linguaggi del
teatro, che si presta a nuove considerazioni in classe. Allo scopo di favorire l'osservazione
riguardo ai tratti culturali presenti nell'interazione scenica, l'insegnante può fornire gli
apprendenti di una griglia di interpretazione.
Se la competenza degli apprendenti lo consente, il processo può essere compiuto a ritroso,
una tecnica già collaudata per l'uso del cinema in classe:
• introduzione allo spettacolo da vedere;
• visione diretta dello spettacolo teatrale o di una sua registrazione;
• discussione sui contenuti;
• recupero del testo drammatico per l'analisi linguistica;
c) drammatizzazione: la drammatizzazione può riguardare l'intero testo o parti di esso e può
comprendere varie attività:
c.1) la forma più “convenzionale” prevede:
• lettura espressiva;
• recitazione con testo;
• memorizzazione del testo;
• recitazione a memoria senza testo;
c.2) la forma da noi indicata nel § 3.1.3.1 come più appropriata al progetto teatrale nella
didattica della L2 prevede:
• lettura espressiva;
• sintesi del testo in un copione;
c.2.1) riscrittura del testo drammatico a partire dal copione;
• discussione e correzione dei testi riscritti;
• lettura espressiva;
• recitazione con testo;
• memorizzazione del testo;
• recitazione a memoria senza testo:
c.2.2 ) improvvisazione dei dialoghi e dell'azione teatrale a partire dal copione;
• discussione e correzione dei dialoghi improvvisati (è indispensabile una
registrazione);
• riscrittura del testo drammatico a partire dalle improvvisazioni;
• discussione e correzione dei testi riscritti;
• lettura espressiva;
• recitazione con testo;
• memorizzazione del testo;
• recitazione a memoria senza testo:
d) la fase del teatro vero e proprio che include le prove, la regia ecc. secondo le seguenti fasi:
• allestimento scenico;
• prove;
• spettacolo;
• discussione e recupero dopo lo spettacolo (eventuale sua registrazione e visione).
Le attività descritte in c.2.2) includono quelle descritte on c.2.1) che al loro volta includono quelle
descritte in c.1). La recitazione ritorna dunque anche nel nostro schema, ma solo dopo
l'elaborazione profonda del testo drammatico attraverso la rilettura e riscrittura del testo.1 In tal
1 Non neghiamo tuttavia a priori l'utilità di usare, in determinate circostanze e specialmente con principianti assoluti, direttamente i
118
modo ogni testo diventa un “pre-testo” per mettere in scena la propria identità, il suo valore
letterario passa in secondo piano, mentre emerge il suo significato originale legato al gruppo dei
partecipanti al laboratori teatrale in quanto: “(...) il lavoro su un testo messo in mano a una comunità
(...) diventa immediatamente il lavoro di un autore collettivo” (Gherzi 2001:140).
In questo processo che dal testo porta alla realizzazione dello spettacolo teatrale, troviamo presenti i
tre elementi che, per la teoria dell'interazione (2.2.1.2) sono fondamentali per mettere in moto il
processo di apprendimento: l'input modificato (il testo), la negoziazione del significato (nel corso
della riformulazione, riscrittura o improvvisazione, del testo), la riformulazione (nella discussione e
correzione del testo prodotto), la produzione di output modificato (nel continuo tentativo formulare
e riformulare il proprio output secondo le nuove ipotesi interlinguistiche formulate dagli
apprendenti). Questo processo si compie a più riprese passando dal testo scritto al testo orale e
viceversa, secondo un movimento a spirale che consente a ciascuno di seguire i tempi e i modi del
proprio apprendimento.
3.2.2.2 Il “pre-testo”
Non sempre è possibile o appropriato intraprendere un progetto a partire dal testo teatrale. Con
apprendenti di livello basico, ad esempio, o con quanti non abbiano i mezzi o la motivazione per
avvicinare la dimensione letteraria del testo, sarà necessario costruire un testo partendo da un “pre-
testo” drammatico. Molteplici sono le direzioni che si possono prendere in questo senso: dalla
creazione di piccoli sketch a partire dai dialoghi presenti nel libro di testo (cfr. Holden 1981;
Butterfield 1989), alla creazione di contesti fittizi dai quali fare scaturire una storia, alla
presentazione di un copione preparato dall'insegnante stesso, o, infine, la lettura di un racconto
breve da drammatizzare con la tecnica illustrata ai punti c2.1) o c.2.2) del paragrafo precedente.
Importante è che a partire dal pre-testo si possano ricreare nel modo più particolareggiato possibile
il contesto, la personalità, il ruolo dei personaggi da interpretare, altrimenti l'azione drammatica
resterà vuota e poco significativa, perdendo completamente la sua funzione. Pertanto il percorso dal
pre-testo al testo richiede grande competenza e convinzione da parte dell'insegnante, al quale in
questo caso è affidata più che mai la responsabilità di mettere in moto il gioco teatrale attraverso la
sua partecipazione attiva.
Un pre-testo può essere:
• un testo in prosa;
• un copione;
• uno o più personaggi;
• un contesto;
• un'esperienza sensibile (visiva, uditiva ecc.);
• l'esperienza personale.
Riguardo al partire dall'esperienza sensibile, vogliamo qui citare Huber (2003) che propone
straordinarie attività per la creazione di storie che prendono spunto da suoni e rumori o da stimoli
visivi.
La messa in scena teatrale, che include l'allestimento dello spettacolo (realizzazioni sceniche, luci,
musiche, regia) e le prove, è un momento di lavoro pratico, caratterizzata da un'alta densità
comunicativa. La messa in scena offre l’opportunità di usare la lingua in modo autenticamente
comunicativo in un contesto finalizzato a uno scopo. Nel corso dei questa attività la classe diviene
un luogo di lavoro artigianale, ben rappresentato dalla metafora della “bottega” usata da Caterina
Cangià (1998:261-264):
testi come in c1), a patto che il significato del testo venga elaborato dagli apprendenti e interpretato a livello drammatico (ovvero
che il testo venga integrato con i codici non verbali e gli altri codici propri del teatro).
119
La classe come bottega vede un equilibrio tra l'apprendimento artigianale, dove si impara a stretto contatto con il
maestro e con gli apprendisti più esperti, e la polifonia originaria del gruppo, all'interno del quale nessuna voce è
uguale all'altra. Nella bottega, la lingua straniera si colloca in uno spazio adatto, da possedere. Appunto perché
l'esperienza linguistica va vissuta come dilatazione degli spazi comunicativi, della motricità, della sensorialità,
dell'industriosità (...) ho escogitato la messa in scena di un copione teatrale che comporta la realizzazione delle
scenografie, la confezione dei costumi di carta, l'acquisizione dell'arte del trucco, l'apprendimento di passi di
danza, di canzoni e di battute. Per le attività che vi si svolgono, la bottega è un canto per l'interdisciplinarità.
Se il lavoro sul testo è focalizzato sulla forma, ora l’accento è posto sul significato e sul successo
della comunicazione. Sarà dunque compito dell’insegnante il cercare di rendere il più possibile
fluida la comunicazione e rilassato l’ambiente dove si svolge il laboratorio. Perché l'attività abbia
successo bisognerà usare l’accortezza di predisporre un ambiente il più possibile sereno e ordinato,
dove l’interazione comunicativa sia ben chiara e comprensibile, mettendo eventualmente a
disposizione di apprendenti principianti “pezzi” di lingua che possano essere usati anche
autonomamente e senza il suo intervento per la comunicazione in classe. Maggiori saranno infatti
gli scambi comunicativi dentro e fuori della classe, maggiore sarà il successo di questa attività.
La fase operativa del laboratorio unisce di solito il dominio educativo (aule, scuole, laboratori) a
quello più specificamente teatrale. L’interazione avverrà con i compagni, coi docenti o con il
personale presente nella scuola o fuori di essa, data la capacità di includere segmenti sociali propria
del teatro. Gli scambi comunicativi vedranno gli apprendenti impegnati in azioni comuni finalizzate
a raggiungere dei risultati precisi: verranno utilizzati testi regolativi e argomentativi e saranno
esercitate le funzioni linguistiche (chiedere per avere, chiedere per sapere, scusarsi, protestare
ecc.).1
In questa fase del lavoro teatrale il linguaggio verrà a essere inserito in un contesto di
comunicazione sociale realizzando i presupposti della teoria socioculturale dell'apprendimento.
L'apprendimento avverrà attraverso l'interazione interpersonale tra apprendenti e tra apprendenti e
insegnante. Nell'affrontare i compiti, linguistici e non linguistici, l'apprendente verrà inoltre
stimolato ad usare il “linguaggio egocentrico”, che abbiamo visto rappresentare, secondo questa
teoria, uno dei presupposti per lo sviluppo dell'abilità metacognitiva e per l'interiorizzazione della
L2.
1 Riteniamo che con apprendenti principianti sia utile, in questa fase, ricorrere al language alternation (Curran 1978). L’insegnante
potrebbe, cioè, lasciare che gli studenti si esprimano nella loro L1 o in una lingua comune a entrambi e tradurre ogni volta le frasi
dette nella L2. Allo stesso modo, ogni volta che l’insegnante si rivolge a uno o più studenti userà prima la L2, poi, se necessario,
tradurrà la frase nella L1 degli apprendenti o in una lingua compresa da tutti. Ciò impedisce il crearsi di blocchi emotivi e,
rispettando i tempi di apprendimento individuale, permette a ciascuno di superare con maggiore facilità i propri timori
nell’esprimersi in L2.
120
3.3 Teatro dei burattini e insegnamento dell'italiano L2
Il teatro di figura condivide col teatro di attori la presenza di una molteplicità di codici, che
conferiscono un senso di concretezza all'attività teatrale ed esercitano gli uni sugli altri una funzione
di completamento e verifica automatica. Tuttavia abbiamo visto che il teatro dei burattini non
presenta che superficiali legami di dipendenza dal teatro “in persona” definendosi come un
“genere” autonomo (§ 2.1.3). Riprendendo ancora una volta le parole di Roberto Leydi (1980:16), il
burattino è “impegnato a sfruttare i suoi propri mezzi rappresentativi, i propri strumenti
comunicativi in una direzione opposta a quella seguita dall'attore “vero”, dall'attore in carne ed
ossa. Così (...) incomincia a esistere oltre i confini del “vero” e del verosimile, secondo un obbligo
di fantasia che nega ogni dipendenza dai vincoli materiali e fisici del corpo umano, con quanto
inevitabilmente ne consegue”. Il teatro dei burattini, in quanto teatro di “presentazione” in
opposizione al teatro di “rappresentazione”, è orientato verso l'oggettivazione, la materializzazione
della volontà espressiva del burattinaio modellata dal rapporto col suo pubblico. Molti dei problemi
incontrati nei paragrafi precedenti (§ 3.1.1.1 e § 3.1.3), come molte delle tensioni presenti nelle
avanguardie novecentesche, trovano nel teatro dei burattini una spontanea sintesi e soluzione (cfr.
Allegri 2001). Il problema della definizione del teatro come opera chiusa o opera aperta, a sua volta
collegato a quello dell'opposizione tra recitazione/interpretazione e improvvisazione trova una
sintesi nella figura del burattinaio, ideatore e attore del testo spettacolare. Nel teatro dei burattini gli
strumenti sono assai semplici. Per questo l'attore diviene immediatamente padrone del processo
registico, nella direzione che abbiamo visto prendere dal teatro novecentesco e che ha portato alla
ridefinizione del ruolo del regista (e dell'insegnante-regista). Eppure nel generare lo spettacolo di
burattini, l'immaginazione del burattinaio non è lasciata a se stessa nell'indeterminatezza priva di
appigli di un processo creativo astratto, ma si radica nella tradizione, si concretizza nel rapporto col
pubblico, si coagula attorno al potere evocativo della maschera. Nel teatro dei burattini ripetizione e
creatività convivono. Come fa notare Dalla Palma (1998:24-25) esiste una ripetizione involutiva,
ripetere perché non c'è più niente da dire, e una ripetizione creativa che è frutto della mediazione tra
apprendimento ereditato e contributo personale. Lo schema della ripetizione-innovazione è parte
inscindibile del teatro dei burattini. Non si tratta più di operare una scelta tra l'opera chiusa, già
compiuta nel testo drammatico, e l'opera aperta, ma tra “modelli ripetitivi, inventivi e creativi”,
come quelli del teatro di figura, e “modelli storicamente filtrati attraverso la mediazione dei grandi
saperi teatrali e delle grandi drammaturgie” (Dalla Palma 1998:25) che hanno per tanto tempo reso
problematico l'uso pedagogico del dramma letterario. L'operazione di reinterpretazione del testo,
alla quale la riflessione sull'uso didattico del teatro approda dopo non poche difficoltà, è, nel teatro
dei burattini, inevitabile e connaturata alla natura stessa dello spettacolo. La caratterizzazione della
maschera, di cui il burattino è espressione per le sue stesse fattezze (anche a prescindere delle
maschere tradizionali della Commedia dell'Arte o delle maschere regionali) e la fissazione della
trama a canoni precisi, costituiscono dei “pre-testi” fortemente evocativi e rappresentano una
cornice entro la quale è possibile ricreare i più svariati contesti comunicativi e dare spazio alla
fantasia degli apprendenti. Il teatro dei burattini fornisce dunque un solido terreno su cui hanno
possibilità di esprimersi la creatività, la spontaneità e la pratica dell'improvvisazione.
Secondo Angelini (2001:125), lo stretto rapporto tra “visivo e auditivo, tra manuale e mentale, tra
concreto e simbolico, tra coinvolto e distaccato”, proprie di questo teatro, produce una messa a nudo
“oggettiva” e pre-volontaria dei meccanismi di se stesso. Ciò ne fa un “laboratorio” nel senso
originario di “luogo di elaborazione” dove si rivelano “i meccanismi mentali del percepire”.1
Infine il teatro dei burattini, plurilingue sin dalle origini, si presta a farsi specchio della “società
complessa” (Balboni 2002) e a divenire luogo di contatto linguistico, come avviene oggi in molti
spettacoli che uniscono tradizioni e modi espressivi appartenenti a diverse culture. Questo aspetto
1 Per questo motivo, Angelini (2001:125) considera il teatro dei burattini un laboratorio propedeutico per le altre forme di
teatralità.
121
permette di realizzare un percorso didattico sulle varietà dell'italiano (§ 2.1.1.3 e § 2.2.1.1), ma
anche di sottolineare con ironia le idiosincrasie linguistiche degli apprendenti permettendo loro di
partire dalla varietà di interlingua di cui sono al momento padroni e divenendo
contemporaneamente consapevoli della necessità di ampliare il proprio spazio linguistico. Ciò è
particolarmente importante sia per la didattica dell'italiano L2 a bambini (cfr. Alessio 2006), sia a
lavoratori adulti immigrati, la cui interlingua è soggetta spesso a processi di fossilizzazione (§ 4.4).
La realizzazione di uno spettacolo di burattini presenta alcuni caratteri che rendono questa attività
più adatta ad essere inserita in un curricolo, anche breve, di italiano L2, scavalcando molti dei
problemi riguardanti gli spazi e i tempi necessari per la realizzazione di uno spettacolo teatrale. Così
Angelini (2001:124) riassume tali caratteristiche specifiche:
• necessità relativamente limitata di grandi spazi (basta un'aula);
• possibilità di far lavorare contemporaneamente piccoli gruppi su scene diverse senza perdere
l'effetto d'insieme: l'identità dei personaggi è garantita dai materiali anche quando è gestita
da manipolatori diversi;
• senso di completezza anche in tempi di rappresentazione corti, dunque possibilità di far
lavorare piccoli gruppi anche su piccoli progetti diversi;
• effetti efficaci con tecnologie semplici: dimensione ridotta dello spazio scenico, complicità
col pubblico sulla convenzionalità dell'evento e sulla distanza dal realismo (che può fare di
un fiammifero un falò);
• capacità di far superare facilmente gli imbarazzi relativi al presentarsi in pubblico, attraverso
lo star nascosti in “baracca” (ma anche nelle tecniche di manipolazione “a vista”, gli oggetti
scenici fissando su di sé l'attenzione sia del manipolatore che del pubblico, abbassano il
senso di esposizione e l'ansia relativa).
Per cui, conclude Angelini: “Soprattutto con adolescenti e adulti, più lontani nel tempo
dall'esperienza del gioco, la componente modellistica intrinseca al teatro di figura, svolge un
efficace protezione dal sentirsi coinvolti in cose infantili e permette un rilassamento e una
disponibilità anche senza complessi esercizi preliminari”.
122
da impiantarsi su una base ad acqua e un telo nero attaccato al bordo. Nella parte anteriore il telo ha
un'apertura che forma il boccascena. Il tutto risulta leggermente "instabile" ma ha il vantaggio di
essere veloce da montare e facile da trasportare (fig. 3.5).
Le scene, nel teatro antico, non erano sempre presenti. Nel teatro delle guarattelle non c’è alcuna
indicazione scenografica. La scena immaginata, forse talvolta dipinta sul fondale, è sempre la stessa
e non muta.1 Le scene più frequenti rappresentavano i luoghi tipici delle attività umane: la casa, la
strada cittadina, il campo, il bosco. Quando deve bussare alla porta, il burattino bussa
semplicemente sul laterale del teatrino. Se deve recarsi in qualche luogo lontano, non fa altro che
spostarsi, facendo finta di camminare e, quando si ferma, è arrivato. Oppure sparisce dalla scena e
quando riappare è giunto alla meta. In alcuni teatrini delle tradizioni bergamasche o emiliane può
esserci una scena dipinta sul fondale, di solito di stoffa, e troviamo anche le quinte, in legno, e i
“celetti”, i pezzi di stoffa rettangolari che vengono appesi in alto, in corrispondenza delle quinte; in
questo caso le scene sono mutevoli e i cambiamenti di scena più frequenti. Nel realizzare uno
spettacolo con gli studenti, la presenza o meno di scene dipende unicamente dalla possibilità di
farne un momento significativo dal punto di vista degli apprendimenti (come è stato in nella
sperimentazione con adolescenti descritta in § 4.2.1) e non è necessariamente vincolante. Il fondo
nero è comunque ottimo per valorizzare l'azione dei burattini.
123
appropriatezza linguistica. A questo proposito abbiamo fatta nostra la riflessione di Cangià
(1992:210), secondo la quale nei progetti di drammatizzazione “l’obbligo di utilizzare un bagaglio
lessicale/frasale è minimo” mentre “massima è la richiesta di comunicazione” mentre, di fronte al
copione preconfezionato, avviene il contrario. Partendo dalla improvvisazione drammatica e
approdando al testo scritto è stato possibile trovare un equilibrio tra l’aspetto prescrittivo e quello
comunicativo della lingua. Il copione prodotto dagli apprendenti ha consentito inoltre di assumere
come punto di partenza la loro varietà di interlingua e di rispettare i modi e i tempi di
apprendimento di ciascuno.
L'opzione da noi maggiormente praticata è stata comunque quella di partire dalla costruzione del
burattino, uno per ogni partecipante. In questo caso il copione, la storia, è nata spontaneamente
dalle figure realizzate, consentendo di mettere in scena “pezzi” del proprio vissuto personale
(desideri, timori, stralci della propria storia) che altrimenti difficilmente avrebbero trovato una via
di espressione.
1 Relazione di Stefano Giunchi al seminario internazionale "La drammaturgia del pollice opponibile ovvero le mani, radici comuni
del Teatro dei Burattini", Cervia, 6/05/2007, a seguito di un progetto di ricerca durato tre anni (finanziato in parte dall’Unione
Europea nel programma Teatro Figura Europa) che ha messo a confronto burattinai delle tradizioni più antiche.
2 Per la costruzione dei burattini cfr. Signorelli 1986; Manzini-Zanoni 1994; Stradiotti 2000.
3 La tecnica della carta colla è simile a quella della carta pesta ma più semplice. Si tratta di costruire una forma comprimendo della
carta di giornale e fermandola con del nastro adesivo di carta. Questa viene poi ricoperta di strisce di giornale imbevute in acqua
e colla vinilica sulla quale viene poi dato uno spesso strato di tempera bianca che infine viene dipinta.
124
l'affermazione o la negazione.1 Lavorando su questi semplicissimi elementi di base possono
svilupparsi le prime storie rudimentali, anche in assenza di un copione o di uno scenario. Ciò spiega
l'universalità delle gag fondamentali del teatro dei burattini in tutte le tradizioni.
Il burattino non può esprimere sentimenti con movimenti fini o espressioni del volto, ma può
esprimerli attraverso la velocità del movimento. Esso trasforma infatti ogni moto dell’animo in
moto del corpo. Ecco come Carlo Brizzolara (1975:178), ammiratore del grande burattinaio
parmense Italo Ferrari, ne descrive i movimenti:
Noi corriamo incontro a un caro amico, alla nostra dolce fidanzata? Il burattino gli vola incontro ed
esprime la sua gioia con evoluzioni che tengono tutto il boccascena durante un dialogo. Noi assaliamo un
nostro nemico? Lui come una saetta gli salta in groppa. E i duelli? Niente di più rapido dello scambio di colpi e
di felino nei movimenti, e niente di più feroce nelle lotte all’ultimo sangue fra uomini e uomini, fra uomini e
belve.
Data la sua struttura, il burattino non può afferrare oggetti piccoli e quindi tutti gli oggetti di scena
saranno sovradimensionati: un paio di forbici sarà grande quasi quanto tutto il pupazzo e ancor di
più il famoso bastone, abbracciato, più che impugnato, da tutto il corpo; anche i rumori saranno
amplificati, eccessivi, caricaturali.
L'attività di costruzione dei burattini è un'attività manuale che mette gli apprendenti a contatto con
svariati materiali – carta, colla, stoffa, lana, colori, pennelli ecc.- innescando un processo di
“concretizzazione” della parola che finisce col legarla in modo indissolubile all'esperienza fatta.
Inoltre il lavorare con le “cose” è un potente fattore di ispirazione creativa. Secondo Angelini
(2001:127-128):
Imparare a guardare un oggetto, esplorarlo, associarlo alle informazioni mentali di altro tipo, indagare queste
informazioni con procedure analoghe a quelle usate per gli oggetti, usare dunque le trame come reagente per
gli oggetti e viceversa, aiuta a inquadrare l'elaborazione creativa in una serie di procedure, rende percepibile
che anche la più aerea delle poesie è fatta di sentimenti e della tecnica per restituirli.
Il burattino, in quanto oggetto inanimato, che necessita per la propria esistenza della vita a esso
impressa dal suo creatore, diventa oggetto di proiezione attraverso il quale gli apprendenti possono
indossare una nuova identità linguistica e culturale integrandola con l'identità passata: la
costruzione del burattino diviene allora una costruzione di sé, un'estensione della personalità che
possiede, però, una libertà espressiva molto maggiore. Il burattino: “Può andare dove la persona ha
paura di andare; può fare sbagli senza crucci. Può volare. Può cantare” (Ackerman 1993:64)2.
Questa attività possiede inoltre un valore didattico e sociale (cfr. § 2.2.1), in quanto il burattino è un
“dono” (Ackerman 1993:65) attraverso il quale ognuno può concretamente offrire agli altri una
parte di sé. Il salto di qualità nella accuratezza della rappresentazione (dalla dizione allo studio dei
movimenti) si realizza in effetti quando si comprende che stiamo lavorando per uno spettacolo che
verrà visto, recepito, goduto da altre persone, quando l'attività diviene un modo di mettersi in
relazione con gli altri.
1 Nunzio Zampella, uno degli ultimi grandi “maestri” della tradizione napoletana, parla del movimento del burattini come di un
“ritmo”: “la mimica è musicale, il movimento è musica: non è l’ammortizzazione di un pupazzo” (Leone 1986:12).
2 “A puppet is an extension of the personality but it has greater freedom to express this personality. It can go where the person is
afraid to go; it can speak with mistakes without worry. It can fly. It can sing” (traduzione nostra). Tova Ackerman è fondatrice di
“Puppetry in Practice”, un centro per lo sviluppo della alfabetizzazione al Brooklyn College di New York.
125
possibilità di comunicazione laddove questa è per qualche motivo interrotta. Secondo Ackerman
(1993:63-64) ciò è dovuto al valore metaforico del teatro dei burattini, che mette in scena “oggetti”
animati dalla volontà di comunicazione del manipolatore:
Il teatro dei burattini, visto come metafora, può essere differenziato dalle altre forme d'arte; ha la comicità e lo
stile della comunicazione orale che è allo stesso tempo fortemente visuale e persuasiva nei termini del
coinvolgimento dello spettatore. Un burattino è fatto per parlare. (...) ha una funzione che coinvolge la
comunicazione. Questo aspetto del teatro dei burattini è ad esso intrinseco.1
Associato alla cultura orale, il teatro dei burattini aggiunge al linguaggio la dimensione
dell'essenzialità in quanto (Ackerman 1993:64):
Offre al parlante un modo per dichiarare intensamente un pensiero prima che sia pronunciata una sola parola.
Attinge alla psiche del parlante per trovare le parole che riflettono emozioni e pensieri che sono per lui centrali.
Cerca l'atteggiamento, l'umore, la determinazione per trasmettere sensazioni e ricettività all'ascoltatore previsto. Il
potere del burattino è il potere della persona di connettersi con gli altri. Esso offre una via di connessione, che è
diretta perché viaggia indirettamente, attraverso il burattino, entro la facoltà di comprensione umana, che è
universale.2
Questa caratteristica ha portato, nel 1976, alla creazione dell'associazione “Marionette et Thérapie”,
fondata da Madeleine Lions e organo dell'UNIMA (Unione Internazionale dei Marionettisti) con
sede a Parigi in Francia, allo scopo di raccogliere e mettere a confronto esperienze di utilizzo di
marionette e burattini come strumenti di cura, di rieducazione e di reinserimento sociale.3
Tra i punti emersi dalle esperienze riportate nel corso del convegno “Teatro di figura e
integrazione”, che ha avuto luogo a Cervia il 4/5/2007, crediamo di doverne sottolineare alcuni, che
secondo noi riassumono i tratti essenziali del valore psicologico del teatro dei burattini:
• i burattini possono funzionare come mediatori delle emozioni (occupare le mani per
esprimere lo spirito);
• possono aiutare a ritrovare (nel nostro caso a istituire) il senso della parola, ovvero a
migliorare i sistemi di comunicazione verbale e non verbale attraverso una “riduzione” della
comunicazione ai suoi elementi essenziali;
• svolgono una funzione di integrazione sociale;
• sviluppano l'autonomia dell'individuo;
• hanno la facoltà di mediare tra il passato e il presente riassumendo in sé forme della
1 “Puppetry, as seen as metaphor, can be differentiated from other art forms; it has a zaniness and a style of oral communication
that is at once strongly visual and persuasive in terms of involving the spectator. A puppet is made to speak (...) it has a function
that involves communication. This aspect of puppetry is intrinsic to it” (traduzione nostra).
2 “It gives the speaker a way to state a thought in a strong way before a word is uttered. It reaches into the psyche of the speaker
to find the words that reflect emotions and thoughts that are central to the speaker. It searches for the stance, the mood, the set to
transmit feeling and receptivity to the anticipated listener. The power of the puppet is the power of a person to connect with
others. It provides a way for connection that is direct because it travels indirectly, through the puppet, within the human
understanding that is universal” (traduzione nostra).
3 A questa associazione che opera oltre che in Francia anche in Bulgaria, sono collegate altre iniziative in ambito internazionale, i
rappresentanti delle quali sono intervenuti al convegno internazionale "Tetro di figura e integrazione" (Cervia 4/05/2007).
Citiamo L'Albatros in Belgio, che si occupa di handicap psico-fisici gravi in individui adulti (<www.rocroi-
ville.com/albatros.php>); l'ÉNAM (École Nationale d'Aprendissage par la Marionette) fondata nel 1990 in Quebec al fine di
promuovere l'utilizzazione della marionetta nella terapia della comunicazione; la compagnia Khayal in Libano che si occupa
delle vittime della guerra e la compagnia Tamà che lavora coi bambini di strada in Africa (Togo). In Italia opera l'associazione
Burattini e salute (<www.burattiniesalute.it>) e innumerevoli sono le esperienze presenti in tutto i Paese, delle quali riportiamo
solo quelle presenti al già menzionato festival di Cervia: la Cooperativa sociale Le Mani Parlanti, nata nel 1988 a Parma, che ha
messo insieme diverse professionalità (psicologi, psicoterapeuti, psicomotricisti, musicoterapeuti, medici, insegnanti, operatori
informatici e teatrali) e lavora nei reparti pediatrici e nella riabilitazione motoria oltre che nelle situazioni di disagio psicofisico
(<www.lemaniparlanti.it>); la compagnia teatrale La Mandragola in Basilicata, che lavora dal 2000 insieme al reparto di
psichiatria (Casa Alloggio Demetra di villa d'Agri) nel progetto Sotto Sopra”(<www.mandragolateatro.it/sottosopra.htm>);
l'associazione Cyrano per l'uso del teatro di figura come risorsa nell'integrazione e la riduzione dell'handicap, che opera nel
territorio di Cesena e vede una stretta collaborazione tra marionettisti e psicologi; le compagnie integrate (Pupazzi da Slegare,
Fuori dal Soro) che vedono la collaborazione di disabili e burattinai coinvolgendo le ASL e le scuole (cfr. anche il ricco sito
dell'Unima <http://members.tripod.com/~unimalu/>).
126
memoria collettiva e della tradizione, e ricollegando al contesto presente l'esperienza
vissuta.
Quest'ultimo punto riveste una particolare importanza per l'integrazione scolastica dei bambini
stranieri: spesso infatti i bambini focalizzano tutti i loro sforzi nell’apparire “uguali agli altri”
ponendo in ombra il proprio passato e la propria cultura di origine (cfr. Alessio 2006). Uno dei
bisogni fondamentali di questi bambini è quello di ricordare la propria storia di migrazione e
condividerla con i compagni. Ciò è emerso con evidenza anche nella sperimentazione con adulti
immigrati (§ 4.4).
Dal convegno citato è emersa anche la necessità di elaborare una procedura per la conduzione del
laboratorio di burattini, procedura che abbiamo fatta nostra e riadattata alle esigenze degli
apprendenti stranieri nel corso delle sperimentazioni. Ne riassumiamo le sequenze essenziali:
• rilassamento e lavoro sullo schema corporeo;
• animazione di oggetti (secondo il principio espresso da Angelini 2001:81: “se i burattini
sono cose, le cose possono diventare burattini”): partire da un oggetto qualsiasi, un oggetto
neutro e metterlo in movimento. Lavorare sulle sensazioni prodotte dall'oggetto e mettere
l'oggetto in relazione allo spazio e in relazione a se stessi. Si mettono in evidenza sensazioni
arcaiche ed elementari, si lavora sull'estetica del movimento facendo attenzione al ritmo e
effettuando movimenti estremamente rallentati;
• scoperta del ritmo: dal ritmo pre-musicale del respiro fino al ritmo personale (danzare,
battere le mani ecc.); focalizzazione sulle sensazioni uditive;
• lavoro sulla voce: farla uscire come rumore organizzato, prima senza significato poi come
sillabe e singole parole. Imparare ad accettare la propria sonorità in presenza degli altri. Poi
formare frasi, parole, poesie, storie.
A questo punto si passa alla costruzione dei burattini e a forme di improvvisazione e di
drammatizzazione in base ai loro caratteri, di qui alla costruzione delle storie, al lavoro sul testo
come descritto in § 3.2.2.1,
La drammatizzazione con i burattini è da lungo tempo presente nella scuola dell'infanzia. Citiamo
ancora una volta gli “Ordinamenti dell'attività educativa” del 1969 che ci sembrano riassumere in
modo significativo il valore didattico di questo teatro1:
Sarà bene (...) promuovere il gioco drammatico e il teatro dei burattini, dei quali si deve tener presente la
grande efficacia (...) particolarmente ai fini della educazione linguistica dei bambini. L'acquisizione di nuovi
vocaboli e di nuove abitudini linguistiche pone spesso il problema del rapporto tra lingua nazionale e dialetto.
In molti casi, questo è l'unico linguaggio del bambino e il suo uso va dunque rispettato perché egli ne trae un
senso di stabilità e di sicurezza essenziale per uno sviluppo equilibrato. Ma l'educatrice dovrà fare in modo
che, accanto alle abitudini linguistiche dialettali, ed al loro completamento (e non già in antitesi con esse) si
vengano gradualmente sviluppando e consolidando altre abitudini verbali relative all'uso della lingua
nazionale.
(...) Strettamente connesso alla lingua è il gioco drammatico, volto a riprodurre episodi e situazioni tipiche
della vita infantile, gli eventi della scuola che possono aver più interessato i piccoli, le scene e gli avvenimenti
che essi hanno osservato nel mondo circostante impersonandone via via i protagonisti. A questo proposito non
sarà mai raccomandato a sufficienza l'uso del teatro dei burattini realizzato non solo dalle educatrici, ma anche
dalla sollecita attività dei bambini stessi. Essi possono, insieme con l'educatrice progettare le scene da
rappresentare e procedere alla confezione dei burattini e alla loro manovra. Oltre ai temi di cui si è fatto cenno,
potranno costruire argomento del teatro dei burattini le favole più semplici e più vicine al mondo dell'infanzia.
È ben nota l'importanza sia del gioco drammatico, sia del teatro dei burattini ai fini dello sviluppo intellettuale
ed etico-sociale dei bambini. Pratica e teoria assicurano anche la validità di queste forme di attività espressiva
ai fini della loro igiene mentale, per la possibilità che esse hanno di favorire attraverso processi di
1 D.P.R. 10 settembre 1969, n. 647, questo e gli altri documenti citati riguardante la scuola per l'infanzia sono rinvenibili sul sito:
<www.ipbz.it/Generale/VisualizzaDescrSezione.aspx?area=6&id=968>.
127
identificazione e di proiezione la soluzione di problemi emotivi.
Negli Ordinamenti del 1969 viene dunque riconosciuta l'efficacia dell'uso del teatro dei burattini ai
fini dell'educazione linguistica, per l'integrazione affettiva e sociale tra alunni parlanti diverse
varietà linguistiche e appartenenti a diverse realtà sociali e culturali; vengono inoltre evidenziati la
funzione formativa e il valore psicologico dei burattini. Anche i successivi “Ordinamenti
dell'attività educativa per la Scuola Materna Statale” (D.M. 3 giugno 1991) raccomandano “i giochi
simbolici liberi e guidati, i giochi con maschere, i travestimenti, la costruzione e l'utilizzazione di
burattini e marionette, le drammatizzazioni, le narrazioni e tutto ciò che può facilitare i processi di
identificazione dei bambini e il controllo della emotività” così come, più brevemente, le
“Raccomandazioni per l’attuazione delle Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati delle
Attività Educative nelle Scuole dell’Infanzia” (legge n. 5,. 28 marzo 2003) citano i burattini come
mezzo per sviluppare le attività orali. Dei burattini non c'è traccia invece nelle recenti “Nuove
Indicazioni per il Curricolo della Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo di Istruzione” (D.M. 31
luglio 2007), così come nelle indicazioni per la scuola primaria dopo il 1985, quando “I programmi
della Scuola Elementare” citano marionette e burattini come strumenti per integrare diversi
linguaggi nell'ambito dell'educazione all'immagine e dell'educazione musicale.1
Al di là della loro presenza o meno nelle indicazioni ministeriali (comunque significativa), i
burattini sono stati e restano uno strumento di grande efficacia usato, oggi non meno di una volta,
sia nella scuola dell'infanzia che nella scuola primaria.2 Se nell'Italia del dopoguerra la presenza di
varietà dialettali affidava alla scuola il compito dell'integrazione linguistica, oggi, di fronte a una
scuola che accoglie un numero sempre maggiore di alunni di altre nazionalità, sono più che mai
necessari strumenti per facilitare l'acquisizione dell'italiano L2 in condizioni di non-
discriminazione. Il teatro dei burattini resta una risorsa preziosa in questo senso.3 Tuttavia,
conformemente alla sua presunta destinazione per un pubblico infantile, è invece quasi del tutto
assente già nella scuola primaria di secondo grado come nella scuola secondaria.
L'uso dei burattini per l'insegnamento delle L2 ai bambini è molto diffuso, sia in Italia che all'estero.
Compagnie di burattinai si sono specializzate nella realizzazione di spettacoli in lingua straniera e
molti insegnanti hanno scelto di utilizzare i burattini nei corsi di DaF (Deutsch als Fremdsprache)
(Balzinger 1982) o ELF/ELS (English as Foreign Language; English Second Language) (Galarcep
1971; Gerngoss-Puchta 1998; Phillips 1999), FSL (French as Second Language); altri hanno
utilizzato i burattini ai fini dell'integrazione linguistica e culturale.4 Gerngoss e Puchta (1998) hanno
elaborato un progetto per la didattica dell’inglese L2 molto noto anche in Italia, che vede, tra le altre
tecniche ludiche, l’utilizzo di un burattino, Max, presente durante la lezione e con il quale i bambini
possono interagire. I due autori usano quello che definiscono smile approach che prevede un
apprendimento multisensoriale e il potenziamento della memoria a lungo termine attraverso l'uso di
musica, movimento, ritmo e rima.
I bambini possono essere spettatori di un piccolo spettacolo, come è il caso della proposta di
Massimo Maggini e Stefania Semplici (2003), che hanno accompagnato, con attività ludiche e
didattiche incentrate sulla competenza linguistica, la registrazione video di uno spettacolo di
1 “Il teatro dei burattini, in particolare costituisce una delle migliori occasioni per rendere vivo e operante il principio della
integrazione” (D.P.R. 12 febbraio 1985, n 104, <http://edscuola.it/archivio/norme/programmi/elementare.html>).
2 Accanto esperienze storiche come quelle di Otello Sarzi (Cooperativa “Il Setaccio” 1975) e Mariano Dolci
(<www.italiaplease.com/ita/megazine/zibaldone/burattini>), le attività coi burattini del Castello dei Burattini di Parma, Molto
materiale si può trovare suo web citiamo solo alcuni siti significativi: <www.scuolacreativa.it/burattini.html>;
<www.manomagia.it/burattini scuola.html>; <www.scuoleaperte.com/scuole/news/news (16), 16-12, DD VII Cd Benevento,
(BN).pdf>.
3 Numerose testimonianze confermano l'utilità di questo strumento per l'integrazione linguistica di bambini stranieri, come ad
esempio la bella esperienza riportata da Dempsie (2000) che riesce, tramite un burattino di nome “Hilda” ad instaurare una
comunicazione e a favorire l'integrazione di Shazana, una bambina proveniente dalla Malesia inserita in una classe della scuola
dell'infanzia in Pensilvania.
4 Cfr. Fedrowitz 1987; <www.manapuppets.com.au/about.php>; <www.africanpuppet.com/educmenu6.html>; in Italia opera, tra
le altre, la compagnia “Burattingegno” con spettacoli in inglese per i più piccini (<www.burattingegno.it/buratti.html>).
128
burattini della compagnia Tindipic-Teatro ingenuo di piccolo cervo (composta da Tomas Jelinek e
Gloria Satti) che si ispira a una favola di origine cecoslovacca. Interessante è notare che, trattandosi
di un testo autentico, la varietà adottata non è l’italiano standard, ma una varietà regionale fiorentina
che può rivelarsi più vicina all’esperienza dei bambini cui la storia è destinata. Questo ci sembra
mettere in luce ancora una volta la duttilità e l’adattabilità della lingua dei burattini, che in certo
qual modo impone ogni volta di “calarsi” dentro una realtà linguistica specifica, non prestandosi
mai a un linguaggio astratto e teorico.
Tutte le proposte e le esperienze citate sono, come si è detto, dirette all'infanzia, fascia privilegiata
per le attività ludiche, e i burattini restano assenti dall'insegnamento delle L2 a giovani o adulti. Per
le caratteristiche da noi evidenziate e in seguito alle esperienze da noi fatte, concordiamo con
Ackerman (1993:64) quando afferma che “Il teatro dei burattini è uno strumento dinamico per
sviluppare le abilità di comunicazione orale sia con bambini che con adulti”1 e pertanto ci siamo
mossi in questa direzione nelle sperimentazioni da noi fatte.
1 “Puppetry is a dynamic tool for developing language communication skills with both children and adults” (traduzione nostra).
129
4. Sperimentazioni
130
4.1 Considerazioni metodologiche
In questa sezione riassumeremo le esperienze fatte utilizzando il teatro di figura con apprendenti
stranieri e analizzeremo i dai dati in esse emersi. Le nostre prime esperienze sono state realizzate
con adolescenti, in seguito con giovani adulti e con adulti immigrati. I contesti di insegnamento-
apprendimento erano dunque diversi, e in ognuna delle esperienze di seguito descritte abbiamo
dovuto adattare di volta in volta le attività ai bisogni e alle esigenze degli apprendenti. Obiettivo
delle sperimentazioni era individuare eventuali dati attribuibili all'attività del laboratorio di burattini
sia per quanto riguarda l'evoluzione della L2 che per quanto riguarda l'aspetto di integrazione che
abbiamo individuato come una delle caratteristiche di questo tipo di attività. Abbiamo quindi
affrontato il problema degli apprendimenti linguistici sia dal punto di vista interno, che da quello
esterno alla lingua (Bazzanella 2005:90). Nel far questo abbiamo messo in atto da un lato una
ricerca-azione (Scaglioso 1991; Scurati-Zaniello 1993; Benati 2005) attraverso l'osservazione,
diretta e indiretta e attraverso questionari che riportano il vissuto soggettivo dei partecipanti alle
sperimentazioni, dall'altra abbiamo analizzato un corpus di dati per verificare l'influenza delle
attività teatrali sugli apprendimenti. La nostra analisi sarà dunque in parte qualitativa e in parte
quantitativa (tab. 4.1).
L'analisi qualitativa è stata attuata, dopo alcuni laboratori di burattini, attraverso un questionario
che mette in luce gli aspetti motivazionali, il coinvolgimento emotivo degli apprendenti, le
dinamiche interne al gruppo e il ruolo del docente, la percezione soggettiva dell'utilità dell'attività ai
fini dell'apprendimento della L2. Tale analisi viene condotta su un campione di studenti
(apprendenti adolescenti) che hanno seguito tre diversi corsi di italiano in cui era prevista una breve
sperimentazione col teatro di burattini e su un gruppo di donne immigrate (apprendenti adulti
immigrati), che sono state coinvolte in un laboratorio per realizzare uno spettacolo di burattini.
L'analisi quantitativa analizza un corpus di interviste registrate fatte ad apprendenti giovani-adulti
americani alla fine di un semestre passato in Italia nell'ambito dei programmi di Study Abroad
attivati dalle università americane. Le interviste di 5 apprendenti che avevano seguito un laboratorio
di burattini di 10 ore sono state messe a confronto con quelle di un campione omogeneo di studenti
che avevano frequentato lo stesso corso di italiano L2 svolgendo, parallelamente al laboratorio di
burattini, altre attività integrative. Abbiamo anche somministrato due test, uno per verificare il
riconoscimento del lessico utilizzato nel corso di Italiano L2, l'altro per verificare, a distanza di
tempo, il riconoscimento del lessico utilizzato durante il laboratorio di burattini. Un altro corpus di
dati è stato raccolto nel corso della sperimentazione con donne adulte immigrate la cui interlingua
era soggetta a processi di fossilizzazione (Vedovelli 1994). Per tre di esse è stato possibile effettuare
un'indagine sociolinguistica attraverso un'intervista registrata e l'analisi di una produzione orale
all'inizio e alla fine del laboratorio. In tali occasioni, abbiamo anche somministrato due test,
ciascuno contenente 20 vocaboli del lessico di base (De Mauro 1980), per verificare eventuali
progressi nel riconoscimento e uso del lessico. Per entrambe le analisi abbiamo utilizzato,
riadattandolo alle nostre esigenze, il Glotto-Kit per stranieri (Gensini-Vedovelli 1993; Vedovelli
1996; Fragai 2001; 2003).
Tabella 4.1: Schema delle prove utilizzate per l'analisi delle tre sperimentazioni
apprendenti giovani-adulti apprendenti adulti immigrati
analisi comparativa tra un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo analisi sociolinguistica e verifica dell'apprendimento del lessico
tipo di prova obiettivi della valutazione tipo di prova obiettivi della valutazione
test lessicale in uscita (entrambi i verifica della competenza intervista registrata rilevazione della condizione
gruppi) semantica sul lessico scolastico socioculturale
test lessicale in uscita (solo il verifica della competenza analisi della registrazione della determinazione del profilo
gruppo sperimentale) semantica sul lessico del narrazione di una storia in entrata/ linguistico e di eventuali variazioni
laboratorio di burattini in uscita (scambio comunicativo dell'interlingua
unidirezionale in presenza dei
destinatari)
131
analisi dell'intervista registrata in verifica della competenza prova di riconoscimento e uso del verifica della competenza lessicale
uscita di entrambi i gruppi fonologica, morfosintattica e lessico in entrata/in uscita all'inizio e alla fine del laboratorio
(interazione faccia a faccia pragmatica
parzialmente strutturata)
– accuratezza fonologica
– produttività (numero di parole
media di parole-frase)
– appropriatezza morfologica
– conoscenza e uso del lessico
– competenza metalinguistica
– competenza pragmatica e
sociolinguistica
Attraverso le analisi fatte crediamo di aver individuato solo alcune delle possibili implicazioni di un
approccio teatrale all'insegnamento/apprendimento dell'italiano L2, escludendo inevitabilmente
molti ambiti di ricerca che pure sarebbe necessario e utile indagare. La la nostra indagine, inoltre, si
svolge su un campione di informanti molto ridotto. Nonostante questi limiti evidenti crediamo
tuttavia che la nostra analisi possa essere comunque utile per individuare alcuni ambiti di influenza
del laboratorio di burattini, confermando le ipotesi da noi formulate, e inoltre possa contribuire ad
aprire la strada verso ulteriori ipotesi su quali siano gli aspetti coinvolti nell'apprendimento di una
L2 maggiormente favoriti dalle attività teatrali.
132
4.2 Sperimentazioni con adolescenti
Il liceo scientifico Piero Gobetti di Bagno a Ripoli organizza annualmente uno scambio tra le classi
quarte, che hanno come seconda lingua il tedesco, e gli studenti della Sophie Charlotte Oberschule
(Gymnasium) di Berlino. Lo scambio prevede una settimana di presenza degli studenti tedeschi a
Bagno a Ripoli, ospiti delle famiglie dei loro coetanei italiani, seguita da una settimana di soggiorno
degli studenti italiani a Berlino. Durante la settimana in Italia, gli studenti tedeschi seguono un fitto
programma di visite dedicate alla città di Firenze, accompagnati dai loro compagni italiani che
fanno da “ciceroni” in tedesco. La mattina, quando i ragazzi italiani seguono le lezioni scolastiche,
gli studenti di Berlino seguono un corso di lingua italiana che si svolge nei locali del liceo Gobetti
in concomitanza delle lezioni. Il corso di solito prevede 14 ore di lezione frontale suddivise in 4
giorni. Gli studenti non hanno alcuna conoscenza pregressa della lingua italiana e per la maggior
parte non hanno intenzione di intraprenderne lo studio. Tutti parlano piuttosto bene l'inglese che
resta la lingua più usata durante il loro soggiorno in Italia. Nel 1988 a chi scrive è stato richiesto di
tenere il corso di lingua italiana, cosa che da allora è avvenuto quasi annualmente. A partire dal
2003 è stata introdotta nei corsi un piccolo laboratorio col teatro di figura, la cui modalità è stata
perfezionata e modificata di anno in anno. Nel 2003 gli studenti hanno messo in scena testi
riadattati dalle “Favole al telefono” di Gianni Rodari, nel 2004 brevi brani ideati dall'insegnante,
nel 2006 testi prodotti da loro a partire da “copioni” proposti dall'insegnante. Per lo spettacolo
hanno di solito utilizzato pupazzi del teatro dei burattini messi loro a disposizione dall'insegnante
insieme al teatrino. Nei corsi tenuti fino al 2006, le ore dedicate al laboratorio teatrale non sono
state più di 4 o 5 in totale. Le altre ore erano dedicate a una normale lezione di lingua italiana che,
su richiesta della responsabile tedesca, svolgeva le prime quattro unità di un manuale per
apprendenti tedescofoni.2 Nell'ultima sperimentazione, quella del 2008, il laboratorio è stato invece
proposto sin dall'inizio, e tutto l'apprendimento è avvenuto al suo interno. Inoltre gli studenti hanno
costruito da soli i propri burattini e le storie sono scaturite dai personaggi stessi. Le esperienze che
prenderemo in considerazione sono quelle del 2004 del 2006 e del 20083 in quanto alla fine di tutti e
tre i corsi è stato presentato agli studenti un questionario simile, per valutare come il laboratorio di
teatro di figura fosse stato recepito nelle sue diverse modalità. Dalla discussione sui questionari
scaturirà una riflessione sui vantaggi e gli svantaggi delle tre diverse metodologie di lavoro
applicate che vengono qui di seguito riassunte:
• Sperimentazione 2004: 9 ore di lezione tradizionale e 4 di laboratorio più 1 di spettacolo.
Messa in scena di testi redatti appositamente dall'insegnante. I burattini sono portati in
1 D'ora in poi, nella descrizione delle sperimentazioni, parleremo di “laboratorio” nel senso di “progetto teatrale” nel suo
complesso, in quanto questo è stato il nome attribuito alle attività nel momento in cui sono state proposte a istituzioni e studenti.
2 Maria Martorana-Frank, Mattias Frank, Allora Andiamo! Langenscheidt, Berlin und München 1999. Il libro è corredato di
esercizi e due CD audio uno con registrazione dei dialoghi e un altro con testi per gli esercizi.
3 Tutte le sperimentazioni sono state condotte da chi scrive in qualità di docente.
133
classe dall'insegnante.
• Sperimentazione 2006: 9 ore di lezione tradizionale e 4 di laboratorio più 1 di spettacolo. Il
testo viene redatto dagli studenti sulla base di copioni proposti dall'insegnante e delle
conoscenze acquisite durante il corso. I burattini sono portati in classe dall'insegnante.
• Sperimentazione 2008: 13 ore di laboratorio più 1 di spettacolo. Gli studenti costruiscono i
propri burattini e le storie liberamente. L'insegnante è a disposizione come consulente e
guida linguistica.
Nel corso del 2006 è stato possibile fare delle riprese video dello spettacolo. Per il corso del 2008
sono disponibili registrazioni audio e alcuni brevi videoclip dello spettacolo.
134
gruppo è stata consegnata una scheda con un copione e una serie di indicazioni utili per la
costruzione di un breve spettacolo (app. 1.4). I copioni presupponevano la conoscenza delle
funzioni che gli studenti avevano già appreso in classe. Ogni copione aveva un sentimento che
rappresentava il “tema” da sviluppare.1 I gruppi dovevano innanzitutto comprendere il significato
delle espressioni utili per esprimere i sentimenti, cosa che veniva fatta collettivamente. In secondo
luogo dovevano comprendere il testo del copione. Infine dovevano cercare di scrivere un breve
dialogo che è stato poi in parte corretto e rielaborato insieme all’insegnante. Solo a questo punto
potevano impararlo a memoria e recitarlo, prima tra di loro, poi nel teatrino, di fronte ai compagni
tedeschi. Alla fine lo spettacolo è stato messo in scena di fronte agli insegnanti e ai compagni
italiani che partecipavano allo scambio.
1 I sentimenti erano sei, uno per ciascun gruppo/spettacolo: stupore/sorpresa, tristezza, timidezza, gioia/felicità, paura, rabbia.
2 Nel 2004 era stato distribuito anche un questionario all'inizio del corso, che però non viene qui preso in considerazione. Sempre
nel 2004 il questionario di uscita era stato compilato prima dello spettacolo, nel 2006 e nel 2008 è stato invece possibile
somministrarlo dopo.
3 Nel 2008, dato che non c'è stata una divisione tra corso di lingua e laboratorio di burattini, gli studenti hanno espresso il loro
giudizio solo sul laboratorio.
135
utili per apportare i cambiamenti nelle attività dei corsi successivi, infatti diversi studenti avevano
manifestato il desiderio di inventare le storie e di costruire da soli i propri burattini, cosa che è stata
fatta nelle sperimentazioni successive. Riportiamo qui di seguito una tabella con i risultati
comparati dei tre questionari (i dati tra parentesi sono in percentuale).1
Tabella 4.2 - Confronto tra i questionari di uscita nel corso 2004 , 2006 e 2008
Campo 1: giudizio globale 2004 2006 2008
1. Esprimi un giudizio con un voto da 1 a 5 su (i punteggi sono Il corso di italiano 4,4 4,3 -
riportati come media): Il manuale 3,6 3,2 -
Le esercitazioni 3,6 3,8 -
Il laboratorio di burattini 3,6 4,5 3,9
La rappresentazione 3,8 4,8 3,6
1 Ciò è stato necessario per rendere confrontabili i punteggi, dato il diverso numero degli studenti del corso del 2008 rispetto al
2004 e al 2006.
2 Nel questionario del 2004 le risposte erano state divise tra attori e scenografi, in quanto non tutti i ragazzi avevano recitato nello
spettacolo. Nel questionario del 2006 e del 2008 invece tutti i ragazzi avevano avuto lo stesso ruolo di drammaturghi/attori/registi
e quindi non aveva senso distinguere fra i vari ruoli.
136
Non è stato utile 2 (11,1) 0 1 (7,1)
Comprendere meglio la grammatica 0 2 (11,1) 6 (42,8)
137
Considerando tutte e tre le sperimentazioni complessivamente solo 7 studenti (il 14 %) vedono la
funzione direttiva come unica prerogativa dell’insegnante e uno solo lo vive come frustrante.
Campo 6: influenza sull’apprendimento: l'influenza sull'apprendimento del laboratorio di
burattini, almeno nella percezione soggettiva degli studenti, sembra essere positiva. Nel 2004 il 61,1
% trova questa attività utile per l’apprendimento della lingua, il 55,5 % la trova utile per migliorare
la pronuncia. Qualcuno (il 16%) riconosce la portata “interculturale” dell’attività. Solo l'11,1 %
ritiene che il laboratorio non sia stato utile e nessuno ritiene che serva a comprendere la
grammatica, che d’altronde non rappresentava l’obiettivo specifico di questa attività. La situazione
è ancora migliore nel 2006, dove il 66,6 % ritiene utile l'attività di laboratorio sia per imparare la
lingua italiana che per migliorare la pronuncia, l'11,1 % ne riconosce il valore interculturale, e la
stessa percentuale ne riconosce anche la validità per la comprensione della grammatica. Ciò è
dovuto probabilmente al fatto che questo gruppo ha prodotto autonomamente i propri testi. I
risultati del 2008 vanno interpretati con cautela, perché il corso si svolgeva in forma di laboratorio
(il risultato è in linea col non entusiastico giudizio globale del campo 1): solo il 57,1% riconosce la
validità del laboratorio per l'apprendimento della lingua italiana e il 50 % ritiene che sia utile per
migliorare la pronuncia, solo uno studente (il 7,1%) ritiene che possa servire a comprendere meglio
la mentalità italiana, e sempre per uno studente (il 7,1% ) l'attività non è stata utile. Quanto
all'apprendimento della grammatica, risulta in questo caso più alto che negli altri corsi (42,8%),
proprio perché si era svolto contestualmente al laboratorio.
4.2.3 Conclusioni
Le sperimentazioni al liceo Gobetti ci hanno permesso di comprendere i vantaggi e gli svantaggi
delle diverse attività legate alla drammatizzazione con le figure. Nel corso degli anni l'esperienza si
è senza dubbio arricchita e nell'ultima sperimentazione sono anche state impiegate tecniche di
laboratorio teatrale, centrate sulla consapevolezza corporea e l'articolazione fonetica. Dai risultati
dei questionari (e di un test di riconoscimento del lessico somministrato sia alla fine di un corso
senza laboratorio di burattini effettuato nel 2002, sia alla fine del laboratorio di burattini nel 2008)
ci sembra che si possano trarre alcune conclusioni in proposito. Innanzitutto appare evidente che il
laboratorio di burattini rappresenta qualcosa di nuovo e inusuale nel quadro dell'insegnamento delle
lingue straniere. Ciò determina una qualche insicurezza negli apprendenti sul suo valore didattico
(cfr. 3.1.3.3). Ciò spiega i risultati del giudizio globale del 2004, più positivo nei confronti della
lezione tradizionale che del laboratorio (campo 1) e di quello non molto positivo del 2008,
mancando del tutto la lezione tradizionale. Gli studenti, come anche gli insegnanti, si sentono
rassicurati dal sapere, momento per momento, quello che andranno ad apprendere, pertanto fanno
affidamento sulle attività più strutturate rispetto a quelle più libere. Ciò è confermato dal giudizio
sul laboratorio (campo 2) in cui risultano alcune evidenze a favore della sperimentazione del 2006,
dove probabilmente era stato trovato il giusto equilibrio tra lo spazio lasciato alla creatività degli
apprendenti e la guida dell'insegnante. Nel 2004 infatti i testi scritti dall'insegnante erano risultati
troppo difficili e non erano stati sentiti propri da tutti gli studenti e nel 2008, come già accennato
sopra, l'eccessiva libertà creativa, la scarsa competenza nella L2 e il frammentarsi dei tempi
individuali di apprendimento non si sono rivelati sempre produttivi.
In secondo luogo è evidente il valore motivante del progetto teatrale, come anche della possibilità di
esprimere la propria creatività costruendo i burattini e inventando le storie. Ciò ci sembra
confermato dal fatto che la stragrande maggioranza degli studenti si è sempre preparata per la
rappresentazione e che il giudizio sulla rappresentazione è stato molto positivo (punti 3.1; 3.4).
L'impegno messo dagli apprendenti nella costruzione dei burattini mostra come anche questa
attività sia molto motivante, sebbene non sia sempre realizzabile per ragioni di tempo. L'esperienza
del 2008 mette in guardia dal lasciare gli studenti troppo liberi nella costruzione dei burattini che va
attentamente organizzata nei modi e nei tempi (come poi verrà fatto nella sperimentazione al
Benedectine College, § 4.3) per evitare un'eccessiva dispersione di energie e per consentire il
138
massimo utilizzo della L2 durante l'attività.
Quanto all'aspetto emotivo (punti 3.2; 3.3), di nuovo i risultati del questionario parlano a favore
della sperimentazione del 2006: l'aver dato agli studenti la possibilità di creare essi stessi le storie
ha permesso loro di usare un livello di lingua adeguato alle loro possibilità, contenendo la loro ansia
e dando loro la sicurezza di aver raggiunto il proprio obiettivo. Ciò si è verificato meno sia nel
2004, dove gli apprendenti recitavano testi non propri e probabilmente sovradimensionati rispetto
alle loro competenze, né nel 2008 dove loro stessi, lasciati in piena libertà, si sono posti spesso
obiettivi troppo alti o troppo riduttivi.
L'importanza del lavoro autonomo e di gruppo è confermata dal campo 4, dove il naturale timore di
un giudizio da parte dei compagni e dell'insegnante viene compensato dal piacere di lavorare
insieme. Dal campo 5 emerge con evidenza il ruolo dell'insegnante come co-autore e consulente,
fonte di aiuto e di collaborazione. Ciò è dovuto, a nostro parere, dal moltiplicarsi delle occasioni di
scambio individuale che si verifica durante questo tipo di attività, che permette una diversificazione
degli interventi e un più diretto coinvolgimento da parte degli studenti nello scambio comunicativo.
Dall'analisi della comunicazione in classe (§ 4.5) emerge infatti la preponderanza degli scambi
individuali insegnante-studente e studente-insegnante durante il laboratorio.
Più del 50% degli studenti, in tutte e tre le sperimentazioni, ritiene che organizzare una
rappresentazione con i burattini aiuti nell'apprendimento della L2 (campo5), in particolare sia
coadiuvante rispetto alla competenza fonetica e fonologica. Ciò trova una conferma nelle
registrazioni degli spettacoli dove risalta la chiarezza e la comprensibilità dei testi prodotti dagli
studenti. Riguardo al corso del 2008 notiamo una certa discrepanza tra la non altissima valutazione
del corso e del suo impatto sull'apprendimento dell'italiano e i risultati di un test finale che è stato
proposto agli apprendenti l'ultimo giorno di lezione prima dello spettacolo. Un test analogo era stato
sottoposto ai 21 studenti dello scambio del 2002, scambio che aveva avuto sempre una durata di 14
ore e nel quale non era stata prevista alcuna sperimentazione coi burattini (app. 1.7). Si tratta in
entrambi i casi di un test scritto di comprensione lessicale e di competenza semantica dove si
richiedeva di tradurre, nella propria L1, 68 item (brevi frasi e parole singole) italiane. La media
delle risposte esatte nel 2008 è stata del 74,26 %, leggermente più alta dei risultati ottenuti nel 2002,
dove le risposte esatte erano state complessivamente il 72,52 % (tab. 4.3).
Tabe lla 4.3:Pe rce ntu ale di risposte e satte n e lla prova
di riconoscim e n to de l le ssico n e llo scam bio de l 2002 e
in qu e llo de l 2008
75
70
65
60
55
50
risposte esatte
45
40
35
30
25
20
15
10
5
0
Scambio 2002 Scambio 2008
139
4.3 Sperimentazione con giovani-adulti
Le sperimentazioni messe in atto con giovani-adulti sono state entrambe rivolte a piccoli gruppi di
studenti volontari che frequentavano un semestre all'estero nell'ambito dei programmi di Study
Abroad attivati dalle università americane. Il vantaggio di queste sperimentazioni è stato il poter
lavorare su un campione omogeneo di studenti e, nel caso del Benedectine College, la possibilità di
organizzare un gruppo di controllo e di somministrare alcuni test. Alla Vanderbilt University ciò
non è stato possibile; l'esperienza ha avuto dunque soprattutto valore documentario dato dalle
riprese video (circa 4 ore) e dalle registrazioni audio (2 ore) effettuate. Al Benedectine College non
è stato possibile fare riprese video, ma ci sono circa 6/7 ore di registrazioni audio.
I limiti di queste sperimentazioni si possono così sintetizzare:
• breve durata dei due laboratori (10 ore in entrambi i casi);
• scarsa competenza degli apprendenti e conseguente esiguità della lingua messa in gioco;
• esiguo numero dei partecipanti (4 per la Vanderbilt e 8 per il Benedectine College, dei quali
però solo 5 sono stati oggetto di osservazione sistematica).
1 CET Academic Programs è un'istituzione privata con sede a Washington DC, che organizza corso di studio all'estero in diversi
paesi del mondo dal 1982. A Firenze i corsi erano organizzati in collaborazione con il CLA dell'Università di Firenze.
140
• costruzione dei burattini e degli eventuali oggetti di scena (fig. 4.6 e fig.4.7);2
• Spettacolo (SPET):
– dopo le prove è stato fatto lo spettacolo che ha avuto come spettatori altri studenti della
Vanderbilt University e ospiti italiani (fig. 4.8).
In questo laboratorio abbiamo potuto mettere in pratica in modo sistematico e rigoroso le tecniche
utilizzate in alcuni dei corsi con gli adolescenti descritti nel capitolo precedente; ciò è servito, sia
per osservare il comportamento e le produzioni degli apprendenti che per stabilire le attività da
inserire nel successivo Puppetry Workshop al Benedectine College (per il diario dettagliato cfr. app.
2.1).
Qui di seguito una tabella riassuntiva per le attività svolte durante il Puppetry Workshop:
Tabella 4.4: Distribuzione delle attività nelle ore di laboratorio
ore lezione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
attività MP MP MP MS MS LAB MP MS MP MS
MS MS MS SPET
MP = modulo performativo
MS = modulo spettacolare
LAB = laboratorio di costruzione burattini
SPET = spettacolo teatrale
Nel corso del laboratorio gli apprendenti, dopo aver visionato alcuni videoclip sui burattini
tradizionali e averne analizzato insieme all'insegnante la struttura, erano stati stimolati a
immaginare una storia dove fossero presenti un eroe e un antagonista e dove, alla fine, l'eroe
avrebbe trionfato. La storia che ne è emersa, intitolata “Il Ciccione” (app. 2.2), è stata poi
sceneggiata con l'aiuto dell'insegnante. In essa viene espresso una sorta di “mito” moderno del bene
e del male, che ben si adatta alla nostra società opulenta. L'eroe infatti è un cuoco, una persona che
“nutre” gli altri, dando loro il sostentamento primario (come la madre-terra). Ma egli è vittima di un
avventore avido e insaziabile, che non gli permette mai un momento di sosta o una serata per uscire
con la sua bella, e alla fine divora persino il cane della ragazza del cuoco. Quando questa se ne
accorge bastona a morte il cuoco liberando il cane che ne viene fuori come Cappuccetto Rosso dalla
pancia del lupo. A questo punto i due possono finalmente uscire insieme. Ci sembra che questa
storia realizzi in modo esemplare la potenzialità dei burattini di dare espressione, con apparente
semplicità, a contenuti ed esperienze profonde e significative degli studenti.
4.3.1.2 Conclusioni
Anche se l'attività è stata molto breve per poter trarre delle conclusioni, è stato possibile osservare
in positivo:
• il potenziamento della motivazione: l'attività non rilasciava alcun credito ed era del tutto
volontaria. Il fatto che le studentesse abbiano seguito il Workshop con dedizione, costanza e
impegno dimostra che le attività teatrali riescono a fare leva sulla motivazione favorendo
l'apprendimento della L2;
• un sensibile miglioramento della pronuncia per almeno tre delle quattro studentesse;
• il crearsi di uno spirito di gruppo e di collaborazione che ha permesso alle partecipanti di
“rischiare” nell'esprimersi molto più di quanto non avvenisse normalmente in classe;
• lo spazio lasciato alla creatività sia nella costruzione del burattino che nell'ideazione della
storia che ha trovato nei burattini il modo per dal voce a esperienze profonde.
In negativo, invece, osserviamo:
• la mancanza di tempo, che ha reso soprattutto la fase della stesura del dialogo molto
2 I burattini sono stati costruiti con carta e materiali di riciclo. Il teatrino è stato fornito dall’insegnante. Il tipo di burattino costruito
in questo laboratorio, formato da un cono di carta, ha richiesto per la sua semplicità pochissimo tempo (fig. 3.6). Ma presentava
degli svantaggi nella manipolazione per cui nelle sperimentazioni successive è stato sostituito col modello presentato nelle fig.
3.7 e 3.8 (cfr. § 4.3.2.2).
141
impegnativa e faticosa per le studentesse; inoltre non ha permesso all'insegnante di lavorare
in modo approfondito sulla produzione delle apprendenti per condurle verso una
soddisfacente consapevolezza metalinguistica;
• c'è stato poco lavoro di gruppo e l'insegnante ha mantenuto un ruolo abbastanza accentratore
forse anche per le competenze linguistiche estremamente limitate delle studentesse;
• essendo tutte le studentesse di uguale madrelingua, non è stato facile indurle a usare tra di
loro la L2.
Il laboratorio al Benedectine College (Atchison, Kansas), che ha anche preso il nome Puppetry
Workshop, ha avuto luogo dal 5 marzo al 15 aprile 2008 nella struttura residenziale di villa
Morghen, a Settignano (Firenze), presso il Tolomei Cultural Institute, dove svolgevano anche il
programma di study abroad . Ha coinvolto 8 studenti, 6 di un corso A1/A2 e 2 di un corso B1, in
Italia per lo Spring Semester 2008. Gli studenti oggetto della sperimentazione sono stati solo 5 del
corso A1/A2, in quanto per i due del corso B1 non è stato possibile stabilire un gruppo di controllo
e un'intervista è andata purtroppo perduta.1 Gli studenti oggetto della sperimentazione
frequentavano, assieme ai loro compagni dello stesso livello, un corso di lingua italiana che
prevedeva 74 ore di lezioni frontali e 50 di studio individuale; erano previsti tre quiz, un esame
intermedio (midterm) e uno finale sia scritto che orale (finalterm). Le lezioni di lingua italiana
avevano luogo la mattina, dalle 9.30 alle 11.30 dal lunedì al giovedì, per un totale di 8 ore
settimanali distribuite in poco più di 9 settimane, senza contare la settimana delle vacanze pasquali.
Tutte le altre lezioni seguite dagli studenti erano tenute in lingua inglese. Gli studenti sono rimasti
in Italia circa due mesi e mezzo, dal 3 febbraio al 15 aprile 2008. Il Puppetry Workshop è iniziato la
quarta settimana del programma, il 5 marzo, svolgendosi dopo la lezione di lingua italiana dalle
11.30 alle 12.30 circa due volte alla settimana per 9 ore complessivamente escluso lo spettacolo. Il
gruppo di controllo ha svolto parallelamente altre due attività: un breve corso di cucina (5 ore),
tenuto in lingua italiana con la collaborazione dell'insegnante e di una tirocinante, e un laboratorio
dedicato alla canzone italiana (4 ore), tenuto da uno studente italiano. Tutte le attività laboratoriali
erano su base volontaria e non finalizzate al rilascio di crediti.
1 La registrazione finale dell'intervista a una studentessa non era utilizzabile e tutti i suoi dati sono stati esclusi dall'analisi.
2 Da ora in poi chiameremo Gruppo P (da “puppets”) il gruppo sperimentale che ha partecipato al laboratorio di burattini e Gruppo
C (da “controllo”) il gruppo di controllo.
142
Variabili legate all'attitudine e allo stile cognitivo: l'attitudine ad apprendere una L2 può
considerarsi da un lato innata, dall'altro acquisita (Villarini 2000:73). Abbiamo cercato di valutare
l'attitudine acquisita in base alla conoscenza di altre lingue oltre alla L1, ovvero alla presenza o
meno di un'esperienza già consolidata che avesse sviluppato strategie per l'apprendimento di una
L2. Come risulta dalla tabella 4.5, a seguito di un'indagine iniziale effettuata attraverso una breve
intervista in classe, più della metà degli studenti di entrambi i gruppi ha dichiarato di avere una
conoscenza scolastica della lingua spagnola, eccetto ALEX (Gruppo P) che ha dichiarato di
conoscere anche un po' di francese e di tedesco; nessuno di loro ha dichiarato di conoscere bene una
seconda lingua, cosa abbastanza comune per gli studenti dei college americani.
Tabella 4.5: Caratteristiche dei due gruppi e abbreviazioni dei nomi.
Gruppo P Guppo C
sigla del sesso età lingue straniere studio italiano in sigla del sesso età lingue straniere studio italiano in
nome conosciute futuro nome conosciute futuro
TIM M 19 nessuna sì PAT M 21 poco spagnolo sì
ALEX M 20 poco tedesco francese e sì MAT M 19 nessuna no
spagnolo
JESS F 20 poco spagnolo sì KAS M 20 poco spagnolo no
ANNA F 18 nessuna sì CHEL F 20 poco spagnolo sì
EMY F 19 poco spagnolo no RACH F 21 poco spagnolo sì
Quanto alla misurazione dell'attitudine innata, essa appare connessa con lo stile cognitivo, ovvero
“l'insieme di strategie e operazioni mentali che il discente mette in atto in modo più o meno
consapevole per apprendere una nuova lingua” (Villarini 2000:76). Lo stile cognitivo che, secondo
vari studi (Chapelle-Green 1992), favorisce maggiormente l'apprendimento di una L2 è quello
indipendente dal campo, che però risulta “non correlato positivamente con il successo
nell'apprendimento linguistico, quanto, piuttosto, l'indicatore di una “intelligenza fluida”,
quest'ultima sì correlata col successo linguistico” (Villarini 2000:77). L'intelligenza fluida è a sua
volta definita come “la capacità di un individuo di rispondere correttamente ed in breve tempo alle
sollecitazioni impreviste provenienti dalla realtà”. Questo tipo di intelligenza si basa sull'efficienza
dei meccanismi di ragionamento e, a differenza dell'intelligenza cristallizzata, che si fonda sulle
conoscenze già acquisite in memoria, sembra essere legata all'acquisizione di nuovi stimoli e
all'autocorrezione.1
Uno dei test più accreditati per misurare l'intelligenza fluida è un test generico di intelligenza non
verbale, le matrici di Raven (1969/2005).2 Abbiamo deciso di utilizzare questo test, la cui adozione
ha presentato, per noi, alcuni vantaggi: tempi brevi di somministrazione (10'), facilità di
somministrazione, e alta garanzia di validità e affidabilità del test.
In base ai risultati del test, che è stato somministrato a tutti i 14 studenti della classe, abbiamo
potuto escludere dal Gruppo C tre studenti che avevano riportato risultati scarsi (cfr. app. 3.1).
Abbiamo ottenuto così due gruppi con lo stesso numero di elementi e relativamente omogenei.
Nonostante ciò, il Gruppo P ha continuato a presentare una certa superiorità, come risulta dalla
tabella 4.6.
Tabella 4.6: Risultati in percentuale della media delle risposte esatte al test di intelligenza non verbale (matrici di Raven).
Gruppo C Gruppo P
media risposte esatte 83,6 % 89,00%
1 La distinzione tra “intelligenza fluida” e “intelligenza cristallizzata” si deve allo psicologo americano James McKeen Cattell
(1860-1944), che, insieme a Wilhem Wundt, fu uno dei primi a occuparsi di misurazione dell'intelligenza (cfr.
<wapedia.mobi/it/intelligenza>).
2 Siamo debitori al prof. Pino Cossu, dell'Università di Parma, per il suggerimento di utilizzare tale strumento per la valutazione
della variabile apprendimento. Per una discussione dettagliata sulle matrici e sui risultati dei test, cfr. app. 3.2.
143
Come si vede lo scarto tra il Gruppo C e il Gruppo P è di 5,4 punti percentuali. Se si paragonano
questi risultati con i risultati dei test svolti dagli studenti durante e alla fine del corso, possiamo
trovare una conferma del valore predittivo del test. Lo scarto tra i due gruppi, risulta in questo caso
leggermente minore che nelle matrici di Raven, ma rimane costantemente presente in tutte le prove
(tab. 4.7) aggirandosi intorno ai 4,4 punti percentuali. Di tale scarto dovremo dunque tener conto
nell'interpretazione finale dei dati.
Tabella 4.7: Media in percentuale delle prove scolastiche avvenute durante il corso di italiano nell'ordine temporale di somministrazione. Il
grafico (sotto) si riferisce alla tabella (in basso), dove i numeri rappresentano la media percentuale delle votazioni riportate nelle prove
scolastiche dai due gruppi. Nell'ultima riga della tabella la differenza tra i risultati dei due gruppi conferma una certa superiorità del gruppo
P.
100
Legenda:
90
80
Q1= prim o quiz
70
Q2 = secondo quiz
60
GRUPPO P Mid = Midterm
50 GRUPPO C
Q3 = terzo quiz
40 Final = Final term
30 Oral = Oral interview
20
10
0
Q1 Q2 Mid Q3 Final Oral
Variabili legate alla motivazione: la motivazione per l'apprendimento della L2, nel nostro
caso l'italiano, per gli studenti dei college americani, è solitamente di tipo strumentale. La
conoscenza di una seconda lingua è necessaria infatti all'ottenimento dei crediti necessari per il
completamento degli studi.1 Alla domanda se avrebbero continuato a studiare l'italiano in futuro, 4
studenti del Gruppo P e 3 del gruppo C ha risposto positivamente, e anche tra questi nessuno ha
dichiarato di avere intenzione di seguire corsi di italiano all'università o presso altri enti formativi
negli Stati Uniti (tab. 4.5). Di fatto possiamo supporre che, per molti di loro, la volontà di
continuare a studiare l'italiano si situasse sul piano delle intenzioni. La percentuale delle risposte
positive mostra comunque una motivazione leggermente più alta da parte del Gruppo P.
Variabili legate a fattori affettivi: la scelta, come attività facoltativa, del laboratorio di
burattini, manifestava a nostro parere un atteggiamento di apertura e di sperimentazione nei
confronti della nuova lingua, presupposto di un buon apprendimento (Ellis 1985:122). Benché
avesse un carattere ludico, questa attività presentava infatti un discreto carico di lavoro e di tensione
in quanto teso alla realizzazione di uno spettacolo in cui ogni partecipante doveva mettersi in gioco
e dar prova di sé anche individualmente. La disponibilità ad avvicinare la lingua italiana al di fuori
delle attività scolastiche si è manifestata anche nel Gruppo C, che ha seguito il corso di cucina, che
prevedeva una cena collettiva, e il laboratorio di canzone italiana, che è terminato con una serata
informale di canti. Tuttavia gli studenti del laboratorio di burattini erano probabilmente più
disponibili a svolgere un'attività emotivamente coinvolgente, e maggiormente focalizzata sulla
lingua.
1 Come è emerso nel corso del convegno Insegnamento dell'italiano L2/LS all'Università: nuove sfide e opportunità (Padova 5-7
novembre 2007) la motivazione e i bisogni degli apprendenti, se non legati a origini italiane, sono essenzialmente orientati a
interessi di ambito umanistico e contemplano un approccio didattico di tipo grammatical-deduttivo. Data la diffusione dell'inglese
nel mondo, l'apprendimento di una L2 non è ritenuto essenziale ai fini della sopravvivenza linguistica e ciò non può non
influenzare negativamente una motivazione di tipo integrativo (intervento di Laura Lenci, Boston University).
144
Variabili dovute all'accesso alla L2: tutti gli apprendenti testati erano insieme nella stessa
classe e avevano la stessa insegnante di italiano, per cui usufruivano dello stesso input linguistico.
Variabili dovute alla diversa integrazione socio-culturale: gli apprendenti vivevano in un
convitto (Villa Morghen a Settignano, Firenze) e svolgevano durante il periodo di permanenza in
Italia le medesime attività. Le altre lezioni seguite nel corso della giornata erano tenute in inglese, e
l'inglese era pure la lingua parlata prevalentemente con i membri dello staff scolastico. Ovviamente
durante le escursioni guidate e il fine settimana gli studenti avevano occasioni di scambi coi nativi,
ma nessuno di loro aveva rapporti costanti con italiani, come spesso avviene nei semestri all'estero
dei college americani.
ore lezione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
attività MP MP LAB LAB LAB MP MS MS MS SPET
MS MS
MP = modulo performativo
MS = modulo spettacolare
LAB = laboratorio di costruzione burattini
SPET = spettacolo teatrale
Nel modulo performativo (MP) abbiamo svolto esercizi di respirazione, vocalizzazione, percezione,
drammatizzazione con oggetti, piccole improvvisazioni a coppie. Il tempo totale impiegato in
questa attività è stato di circa 1,30 ore.
Nel modulo spettacolare (MS) abbiamo individuato i personaggi da rappresentare, ideato e scritto le
storie, le abbiamo drammatizzate, abbiamo fatto le prove e memorizzato i testi. Il tempo totale
impiegato in questa attività è stato di circa 4,30 ore.
Nel laboratorio di costruzione dei burattini (LAB) abbiamo costruito i pupazzi con carta e stoffa. Il
145
tempo totale impiegato in questa attività è stato di circa 3 ore.
La sera prima della partenza, in occasione della cena finale, gli studenti hanno rappresentato lo
spettacolo di fronte ai compagni, agli insegnanti e ai loro familiari.
Prova 1 - Riconoscimento del lessico scolastico. Questa prova è stata somministrata a tutti i
membri del Gruppo C e del Gruppo P contestualmente al final-term (14/04/08). Si trattava di 20
termini e espressioni italiane tratte dal manuale utilizzato dagli studenti durante il corso di italiano. 1
Tali termini erano stati scelti tra 5 gruppi principali: nomi (6, di cui 3 singolari e tre plurali), verbi (6,
di cui 3 inseriti in formule fisse), aggettivi (4), avverbi (3), congiunzioni (1) (app. 2.5). Tale lessico
era stato elaborato durante le 74 ore di lezione del corso. Gli apprendenti erano stati invitati a
scrivere quella che secondo loro era un'espressione equivalente in inglese. La prova intendeva
verificare la comprensione del lessico acquisita durante il corso e la competenza semantica attraverso
la capacità di individuare una traduzione equivalente (QCER 2002:142).2 Si è considerata risposta
corretta la formulazione di un'espressione equivalente in inglese, non solo l'esatta identificazione del
vocabolo (ad esempio si è considerata esatta la traduzione di “baci” con “kisses”, ma non quella con
“kiss”).
In questa prova il Gruppo C ha riportato un numero di risposte esatte pari al 65 % , il Gruppo P pari
all'81 % (tab.4.9).
Tabella 4.9 – Prova di riconoscimento del lessico
scolastico. Percentuale delle risposte esatte. Il Gruppo C
ha fornito il 65% di risposte esatte, il Gruppo P l'81%.
85
80
75
70
65
60
55
50
45
40
35
30
25
20
15
10
5
0
GRUPPO C GRUPPO P
Prova 2 - Riconoscimento del lessico del laboratorio. Ai membri del gruppo P è stata
somministrata sempre contestualmente al final-term un'altra prova analoga, ma riguardante il lessico
utilizzato durante la costruzione dei burattini. Il numero dei termini e delle espressioni nei gruppi era
lo stesso, solo la congiunzione è assente in questa prova, in quanto tutte le congiunzioni usate erano
già presenti nel lessico scolastico. Al suo posto abbiamo inserito un'espressione avverbiale (“è
meglio”) (app. 2.5). La maggior parte del lessico era stato utilizzato durante le prime 5 ore del
1 Il manuale scelto era: Cozzi N., Federico F. Tancorre A., Caffè Italia 1, Eli, Recanati 2005.
2 Per ragioni organizzative e di tempo non è stato purtroppo possibile richiedere agli studenti di contestualizzare le espressioni
presenti nella prova attraverso un uso attivo di queste. I dati di questa prova trovano comunque conferma in quelli emergenti
dall'analisi delle interviste.
146
Puppetry Workshop, ed era stato attivato l'ultima volta il 20 marzo, ovvero 25 giorni prima della
prova. Il lessico di questa prova non era presente nel manuale usato dagli studenti. In questa prova il
numero delle risposte esatte è stato del 62 %.
Prova 3 – Intervista registrata. Si tratta di una prova di produzione orale (tipologia: scambio
comunicativo bidirezionale faccia a faccia con presa di parola parzialmente libera) (De Mauro et alii
1993) consistente in un'intervista registrata ai membri di entrambi i gruppi. L'intervista consisteva
di 8-9 domande, e faceva parte del test finale del corso utile per valutare la competenza orale degli
apprendenti (cfr. tab 6).1 Le interviste sono state fatte a tutti gli studenti del corso e venivano divise
secondo un ordine casuale tra l'insegnante di classe (7 interviste di cui 1 al Gruppo P e 3 al Gruppo
C) e chi scrive (8 interviste di cui 4 al Gruppo P e 2 al Gruppo C).2
Gli indicatori valutati nell'analisi delle interviste sono stati i seguenti (riadattato da Fragai 2001):
1. Indicatori fonetici:
• uso corretto forme di accentazione italiana (ACC valuta in negativo il numero di
errori);
• realizzazione corretta delle consonanti intense (GEM valuta le occorrenze realizzate
correttamente con “+” e scorrettamente con “-”);
• resa corretta dei fonemi dell'Italiano standard (FON valuta in negativo il numero di
parole pronunciate in modo scorretto).
2. Indicatori morfosintattici:
• accordo di numero e genere all'interno del sintagma nominale (A.N. valuta le
occorrenze realizzate correttamente con “+” e scorrettamente con “-”);
• presenza di forme verbali piene non generalizzate (A.V. valuta le occorrenze
realizzate correttamente con “+” e scorrettamente con “-”);
• presenza e uso corretto ausiliari (AUS valuta le occorrenze realizzate correttamente
con “+” e scorrettamente con “-”);
• presenza e uso corretto pronomi personali (PRON valuta le occorrenze realizzate
correttamente con “+” e scorrettamente con “-”);
• presenza e uso corretto aggettivi e pronomi possessivi e dimostrativi (POSS valuta le
occorrenze realizzate correttamente con “+” e scorrettamente con “-”);
• assenza di deittici e modi pragmatici per sostituire elementi morfosintattici o lessicali
(M.P. “NO” indica l'assenza e “SI” );
• presenza e uso corretto di preposizioni (PREP valuta le occorrenze realizzate
correttamente con “+” e scorrettamente con “-”);
• presenza verbi modali (MOD valuta le occorrenze realizzate correttamente con “+” e
scorrettamente con “-”);
• presenza imperativo,congiuntivo, condizionale (IMP/CON valuta le occorrenze
realizzate correttamente con “+” e scorrettamente con “-”);
• sviluppo sistema temporale (non lessicalizzato) (TEMP valuta le occorrenze
realizzate correttamente con “+” e scorrettamente con “-”).
3. Indicatori lessicali:
• mancanza di forme ipergeneralizzate semantico-lessicali e competenza lessicale (LESS
valuta in negativo la presenza di forme ipergeneralizzate o l'appello implicito o
esplicito all'intervento dell'insegnante);
• assenza di cambio di codice (C.S. valuta in negativo la presenza del cambio di codice3);
1 Le domande erano le seguenti. (Le domande tra parentesi non sono state fatte a tutti gli studenti, quelle separate da uno “/ “ sono
alternative tra loro): Come ti chiami?; Di dove sei?; Quanti anni hai?; Che cosa studi?; Vuoi studiare ancora italiano in futuro?;
(Con chi sei in camera?); Descrivi una persona (della tua famiglia o una foto); Che cosa hai fatto ieri?/Che cosa ti piaceva fare da
piccolo?/Sei per la prima volta in Italia?; (Quali sono i tuoi interessi nel tempo libero)?; In un bar, che cosa dici per chiedere
qualcosa al barista?
2 Le interviste fatte da chi scrive sono in generale più brevi e ciò ha determinato una lieve differenza riguardo al numero di
occorrenze tra i due gruppi.
3 Non facciamo qui una distinzione tra commutazione di codice (code switching), che svolge una precisa funzione discorsiva, e
enunciati mistilingue (code mixing) dove non è possibile attribuire al passaggio di codice un valore comunicativo (cfr. Berruto
1993:32) interpretando l'occorrenza dell'inglese sempre come segnale di una competenza sbilanciata nelle due lingue.
147
• produttività (numero di parole)1 (N.P. calcola il numero delle voci lessicali comprensibili,
anche se non grammaticalmente o foneticamente corrette. Il calcolo avviene considerando
le voci una volta sola (lemmi), anche se presenti in forme diverse: ad esempio “è” e
“sono”, si considerano una sola voce. App. 2.7).
4. Indicatori metalinguistici:
• indizi di riflessione metalinguistica (MET valuta positivamente la presenza di episodi di
autocorrezione e la verbalizzazione di difficoltà linguistiche per mezzo di espressioni con
funzione metalinguistica come “non so”, “come si dice” sia in italiano che in inglese).
5. Indicatori di competenza ricettiva orale:
• comprensione orale (COMP valuta negativamente la mancata comprensione delle
domande rivelata dalla richiesta di ripetizione e chiarificazione o dalla risposta non
coerente).
6. Indice di competenza pragmatica e sociolinguistica
• capacità di usare la lingua in modo appropriato al contesto (C.P. valuta con “+” le
sequenze interattive coinvolgenti l'intervistatore dove la lingua viene usata in modo
appropriato allo scopo; valuta con “-” quelle inappropriate).
7. Indice di fluenza nella produzione parlata :
• Obiettivo di questa prova è testare il grado di competenza linguistica orale, analizzando la
facilità di esecuzione e la scorrevolezza della produzione parlata in situazione di parlato
formale tra insegnante e allievo. (FLU indica il numero di parole “buone” pronunciate in
un'unità di tempo di 30 '', non necessariamente continuata per la scarsa competenza degli
intervistati nella L2 a realizzare produzioni parlate prolungate e calcolata anche nel caso di
sovrapposizione di turno con l'intervistatore. Tale sequenza è scelta tra le sequenze di
produzione migliori e più ricche dell'intervista, in genere le sequenze descrittive o
narrative. Dal calcolo delle parole prodotte vengono esclusi gli intercalari, le ripetizioni
inerziali, dovute a esitazioni e le interruzioni di parola; tutti quei fenomeni che, secondo
Fragai (2001:200), vengono ritenuti inutili ai fini dell'efficacia del messaggio (app. 2.7).
Tabella 4.10: Valutazione delle interviste. I risultati del gruppo P sono evidenziati in grigio.
COMP
TEMP
PRON
PRAG
PREP
POSS
MOD
LESS
GEM
M..P.
MET
CON
IMP/
ACC
FON
N..P.
C..S.
AUS
FLU
A.N.
A.V.
- + - - + - + - + - + - + - + - + - + - + - - - + + - -
TIM 0 3 3 5 5 2 4 0 2 0 2 0 1 0 NO 10 2 1 0 0 0 3 0 0 2 62 1 1 1 3 23
ALE 0 0 4 1 6 1 13 0 0 0 2 0 1 1 NO 7 2 1 0 1 0 0 0 0 1 48 2 3 0 2 19
JES 2 5 4 2 9 3 13 0 3 0 2 0 2 0 NO 3 2 2 0 1 0 3 0 1 1 56 1 2 0 0 37
ANN 0 5 3 4 3 2 6 2 2 0 3 0 1 2 NO 1 3 1 0 1 0 3 0 2 2 53 1 6 0 1 17
EMI 0 4 7 9 13 4 9 1 0 0 3 0 0 1 NO 3 0 0 0 0 0 3 2 1 2 44 0 0 0 1 26
PAT 1 1 15 5 8 4 8 4 1 0 2 3 4 0 NO 1 2 0 0 0 0 1 0 4 7 54 3 0 1 3 17
MAT 0 0 12 3 1 5 4 3 0 0 1 1 0 3 SI 3 1 0 0 0 0 0 0 7 4 43 2 0 1 3 18
KAS 0 0 10 6 9 2 6 4 0 0 3 3 2 1 SI 2 0 1 0 0 0 0 0 7 5 48 2 0 1 1 17
CHE 0 0 12 4 9 2 12 1 3 0 1 0 3 0 NO 11 2 0 0 0 0 6 1 3 3 71 1 0 0 1 38
RAC 0 3 8 3 14 2 13 0 0 0 4 2 0 0 NO 4 3 1 0 1 0 0 0 4 6 59 2 2 0 1 22
1 Data la scarsa competenza degli intervistati non abbiamo ritenuto significativo valutare il numero di frasi e il rapporto
parole/frasi.
148
4.3.2.4 Analisi dei dati
Prova 1 - Riconoscimento del lessico scolastico. la prova 1 mostra una capacità maggiore
del gruppo P nell'identificare il lessico scolastico di ben 10 punti percentuali. Anche togliendo la
percentuale di 4,5 individuata come variabile iniziale positiva a favore del Gruppo P, riteniamo che
i 5,5 punti restanti siano attribuibili a un'influenza positiva del laboratorio di burattini sulla corretta
memorizzazione del lessico e la competenza semantica. Tale dato positivo trova conferma anche
negli indicatori lessicali dell'intervista. Ciò sembra confermare l'ipotesi che usare la lingua in un
contesto reale attentamente organizzato come quello del laboratorio, aumenti la quantità e del
lessico appreso e migliori la competenza semantica.
Prova 2 - Riconoscimento del lessico del laboratorio. Anche il risultato della prova 2, sul
riconoscimento del lessico usato nelle prime 5 ore del laboratorio, ci sembra positivo per il Gruppo
P. Nel valutare questo dato abbiamo istituito un paragone col dato già noto sul riconoscimento del
lessico scolastico tenendo conto di due variabili:
• il tempo di elaborazione del vocabolario: nel caso del lessico scolastico il tempo di
elaborazione coincide con le 72 ore del corso di lingua; nel caso del laboratorio consiste di 5
ore, in quanto il lessico presentato era riferito alla sola attività di costruzione dei burattini.
Abbiamo dunque un rapporto di 1,12 vocaboli/ora nel caso del lessico scolastico e di 12,4
vocaboli/ora nel lessico del laboratorio.
• il tempo intercorso tra l'ultima attivazione del vocabolario e la prova di riconoscimento: nel
caso del lessico scolastico, questo era stato attivato fino al momento della prova (gli
apprendenti si erano inoltre preparati per sostenere il colloquio orale); nel caso del lessico
del laboratorio era stato attivato, come si è detto, 25 giorni prima della prova.
Considerando queste variabili, dobbiamo valutare positivamente la percentuale del 62% di risposte
esatte alla prova 2, come un dato a favore dell'ipotesi che l'attività del laboratorio di burattini abbia
da un lato l'effetto di accelerare i tempi di apprendimento, dall'altro favorisca la formazione di una
memoria a lungo termine.
Prova 3 – Intervista registrata. Riguardo alla prova 3, analizzeremo i dati rispetto alle
competenze prese in considerazione:
Competenza fonologica: gli indicatori fonetici sono significativamente favorevoli al
Gruppo P per quanto riguarda l'uso delle consonanti geminate: complessivamente il Gruppo P
pronuncia correttamente 21 parole contenenti consonanti geminate (il 55 % del numero complessivo
di parole contenenti geminate), contro 4 nel gruppo C (lo 0,6 %) (tab.4.11). Quanto ad altri
problemi fonologici, come gli accenti o la realizzazione delle vocali, i due gruppi sembrano essere
più o meno allo stesso livello. Riteniamo che il vantaggio del Gruppo P sia dovuto al lavoro fatto
durante il modulo performativo, che, data la scarsità del tempo disponibile, ha messo l'accento sulle
consonanti geminate, uno dei tratti più significativi della pronuncia italiana.
Competenza grammaticale: non tutti gli indicatori morfologici si riferiscono alle forme e
strutture studiate ed esercitate in classe; si trattava di un corso A1/A2 e alcuni modi verbali, come
l'imperativo e il condizionale, venivano presentati solo come formule non analizzate. I possessivi, i
pronomi personali e i tempi del passato prossimo e dell'imperfetto facevano invece parte del sillabo.
Accorpando i dati dei due gruppi e facendo, ove possibile, la percentuale delle forme corrette sul
totale delle occorrenze di un certo tratto morfosintattico, emergono alcuni dati significativi a favore
del Gruppo P che qui di seguito mostriamo nella tabella 4.11 insieme a tutti gli altri tratti osservati
(i dati positivi sotto le varie voci sono evidenziati in grigio). Nella prima serie di dati (A.N., A.V.,
PREP, PRON, POSS), notiamo una frequenza maggiore di forme corrette nel Gruppo P per quanto
riguarda l'accordo nominale (Gruppo P: 75 %; Gruppo C: 73%) e soprattutto l'accordo verbale
(Gruppo P: 93 %; Gruppo C: 78 %).
149
Tabella 4.11: I dati della tab. 4.10 vengono riassunti e riportati per i due gruppi. I numeri conteggiati nella tab. 4.10 solo in positivo o in
negativo (ACC, FON, M.P., LESS, C.S., MET, COMP) vengono riportati come valore assoluto, per altri (GEM, A.N., A.V., PREP, PRON,
POSS) si calcola il numero percentuale delle forme corrette sul totale delle forme usate . Quanto alle forme che non tutti gli studenti usano,
con O indichiamo il numero di occorrenze e con S il numero totale di studenti che usano la forma nel gruppo (AUS, MOD, IMP/CON,
TEMP). Il numero di parole (N.P.) e la fluenza (FLU) indicano entrambi la media aritmetica dei due gruppi.
COMP
TEMP
PRON
PRAG
PREP
POSS
MOD
LESS
GEM
MET
CON
IMP/
ACC
FON
N..P.
M.P.
C..S.
AUS
FLU
A.N.
A.V.
% % % % % % O S O S O S O S
Riguardo ai pronomi notiamo, oltre a un uso corretto al 100 % nel Gruppo P, anche la presenza di
pronomi oggetto, non presenti in nessuna delle produzioni degli studenti del Gruppo C. Ad esempio
abbiamo:
(1)
12 /ANNA/ [...] mi piace + italiano però non lo studio
e due volte l'espressione “non lo so” (TIM, 42; EMI, 42) nel Gruppo P contro una (RACH, 10) nel
Gruppo C. Constatiamo inoltre l'uso pragmaticamente e morfologicamente corretto del pronome
forte da parte di ALEX (P):
(2)
33 /INS/ Quanti anni ha?
34 /ALEX/ Io?
Nel Gruppo C sono frequenti invece le sequenze di sovrauso del pronome soggetto, che, secondo gli
studi sull'evoluzione della sintassi (Andorno et alii, 2003), caratterizzano le varietà prebasiche e
basiche dell'interlingua. Ad esempio in RACH:
(3)
22 /RACH/ [...] Stephan ha +++ undici ++ o dodici ani e ++ lui è basso con i capeli biondi e lunghi +++ e
++ lui piace computers +++ Nicolas ha sette ani lui gioca ++ calcio football americana e
baseball +++ lui è vavice [vivace].
I due gruppi mostrano un'uguale padronanza e accuratezza nell'uso delle preposizioni, anche se a
un'analisi più mirata notiamo che la preposizione “in” è la più usata nel Gruppo C che invece non
ha alcuna occorrenza della preposizione “per”, attestato nel Gruppo P. Sembra invece che i membri
del Gruppo P abbiano maggiormente assimilato formule fisse per cui abbiamo :
(5)
Gruppo C
22 /RACH/ gioca football americana
56 /PAT/ gioco baseball
Gruppo P
42 /ALEX/ giochiamo a palone o a calcio
50 /EMI/ sei andata a giocare al ++ calcio
Quanto ai possessivi, notiamo un uso più esteso della forma nel Gruppo C oltre che una sua
150
maggiore correttezza, dovuta soprattutto all'uso appropriato dell'articolo di fronte agli aggettivi
possessivi da parte di CHEL. Nel Gruppo C uno studente non usa mai i possessivi e nessuno usa
forme diverse da “mio”. Nel Gruppo P tutti usano i possessivi e una studentessa usa una volta “suo”
(ANNA; 26: “sua capelli”).
Dall'analisi emerge soprattutto la maggiore varietà di forme usate dagli apprendenti del Gruppo P
dei quali 3 fanno uso corretto di ausiliari, 4 esprimono la temporalità in modo non lessicalizzato, 4
utilizzano i verbi modali e 2 forme di imperativo o condizionale. Nel Gruppo C, al contrario, solo 2
studenti usano correttamente gli ausiliari e altrettanti esprimono la temporalità in modo non
lessicalizzato, 2 usano i modali e in uno troviamo una occorrenza di imperativo. Andando a vedere
più da vicino ci accorgiamo che tali forme, in modo simile a quanto osservato già per l'uso delle
preposizioni e dei pronomi, sono state assimilate come formule non analizzate, in modo simile a
quanto avviene nell'apprendimento non guidato. Abbiamo infatti:
(6)
30 /TIM/ Ah ++ può ripetere?
18 /JESS/ +++ Scusa a + ripetere?
48 /ALEX/ Sì eh ++ scusa ++ posso comprare + una capucino
43 /JESS/ ++ Ah ++ sì ++ posso avere un +++ panino?
28 /ANNA/ [...] schiusa
Dobbiamo infine constatare la completa assenza del modo pragmatico (M.P.) nel Gruppo P contro
due studenti appartenenti al Gruppo C che ne fanno uso. Per esempio PAT, quando vuole descrivere
la foggia dei capelli del padre, riesce a farsi intendere solo coi gesti:
(7)
40 /PAT/ [...] capeli è nera baso capeli +++
41 /INS/ corti
42 /PAT/ Corti?
43 /INS/ Capelli corti, *short*
44 /PAT/ Aha *in front* [gesto]
45 /INS/ Ah ok davanti corti, dietro lunghi ok
Allo stesso modo KAS riesce a far capire all'insegnante che lui è “intelligente” con l'espressione del
volto e i gesti:
(8)
22 /KAS/ [...] mi un +++ po' ++ etaliente
23/INS/ Un po'?
24 /KAS/ un [gesto]
25 /INS/ intelligente
In conclusione ci sembra di notare in generale una maggiore competenza grammaticale nel Gruppo
P che usa un numero maggiore di forme e in generale in modo più corretto. Si nota che tali forme
vengono usate in modo automatico in quanto la fluenza nelle espressioni citate è più rapida e
l'intonazione più naturale.
Competenza lessicale: gli indicatori lessicali segnalano un numero leggermente più elevato
di parole usate nel Gruppo C (in parte attribuibile alla maggiore lunghezza delle interviste di questo
gruppo). Tra gli altri indicatori, invece, il numero di forme ipergeneralizzate e la richiesta di aiuto
all'insegnante (LESS) dà un rapporto di 4 a 25 a favore del Gruppo P, altrettanto il conteggio degli
episodi di code switching (8 nel Gruppo C contro 25 nel Gruppo P), che indicano la tendenza a
ricadere sulla L1. Ciò, insieme al mancato ricorso al modo pragmatico (M.P.), indicano una
maggiore competenza lessicale e soprattutto un maggior coinvolgimento nell'ambiente linguistico
della L2 da parte del Gruppo P. A conferma di ciò nell'esempio (5) si può ulteriormente notare che,
in espressioni tra loro simili, gli studenti del Gruppo P preferiscono sistematicamente usare
vocaboli italiani anche quando sarebbe accettabile l'uso di sinonimi in inglese.
Competenza metalinguistica: l'impressione di una minore riflessione metalinguistica del
151
Gruppo P (5 episodi di autocorrezione contro i 10 del Gruppo C) va di pari passo all'uso meno
mediato della L2. Il monitor (Krashen 1985) è meno attivo in quanto la lingua è acquisita a un
livello più profondo e inconscio.
Competenza pragmatica e sociolinguistica: Questo aspetto della competenza linguistico-
comunicativa rappresenta uno dei punti centrali dell'ipotesi da noi formulata, in quanto crediamo
che apprendere una L2 significhi essere in grado di usarla in modo pragmaticamente adeguato alla
cultura cui essa appartiene. Pertanto l'intervista prevedeva una domanda che intendeva
contestualizzare uno dei più comuni scambi interazionali (la richiesta) che gli apprendenti avevano
già affrontato nelle prime lezioni in classe e probabilmente avevano anche verificato fuori. Si
trattava di riferire all'insegnante cosa avrebbero detto al barista per chiedere qualcosa in un bar.
Riportiamo le risposte del Gruppo P:
(9)
52 /TIM/ [...] ciao come stai ++ mi dai un café?
48 /ALEX/ [...] scusa ++ posso comprare + una capucino
43 /JESS/ [...] posso avere un +++ panino?
36 /ANNA/ [...] buonasera ah +++ voglio + una++ ah++ una + pasta poer favore?
ALEX e TIM dimostrano scarsa competenza pragmatica, in quanto non utilizzano la forma di
cortesia, le loro richieste, insieme a quella più appropriata di ANNA, presentano tuttavia una forma
di saluto o una formula fatica di apertura della conversazione. ALEX e JESS usano una modalità
cortese (“posso”), ANNA usa “voglio”, ma attutisce la richiesta alla fine, aggiungendo un
ineccepibile “per favore” accompagnato da una lieve intonazione interrogativa. TIM, che usa una
forma diretta, dà alla frase un'intonazione di cortese domanda.
Vediamo ora le risposte del Gruppo C
(10)
26 /PAT/ [...] ciao! Mi [io] prendo un cafè.
45 /MAT/ [...] un ++ caldo ciocolate e ++mi ++eh++ caldo cicolate un caffé capuccino eh+ e biglietto
*ticketto*
38 /KAS/ [...] prendo++/ ah jea/ io ++ poso + poso prendo magherita picciola *y* eh ++ un + ah++
picceria [bicchiere] uosso [rosso] vino
30 /RACH/ [...] vorei +++ spumata di + oranciata/aranciata
PAT, oltre al saluto informale, non presenta alcun tentativo di attenuare la richiesta, MAT omette
anche il saluto, KAS e RACH usano la modalità cortese ma non introducono in alcun modo la
richiesta, KAS inoltre ordina una pizza e un bicchiere di vino e mostra insufficiente conoscenza
pragmatica non distinguendo tra un bar e una pizzeria.
I membri del Gruppo P inoltre hanno tutti utilizzato forme di richiesta, saluto o di scusa rivolte
all'insegnante, come abbiamo potuto vedere con TIM, JESS e ANNA all'esempio (6), già riportato,
al quale ne aggiungiamo altri due:
(11)
9 /INS/ [...] studi anche l'italiano?
10 /ANNA/ +++eh sì ah ++ cosa?
(12)
16 /ANNA/ [...] come si dice “to clean”?
Tali esempi possono apparire poco significativi, ma non lo sono se paragonati a situazioni analoghe
nel Gruppo C dove tutta la “metacomunicazione”, ad eccezione di RACH, ricade quasi totalmente
sulla L1 degli studenti. PAT, per esempio, che pure rivela una buona competenza lessicale (N.P.
54), tende a ripetere in inglese le domande in italiano dell'insegnante:
(13)
39 /INS/ Eh ++ prova a descrivere tuo padre
40 /PAT/ *Describe my father* ah +++ [...]
152
Anche CHEL, che mostra maggiore competenza sia grammaticale che lessicale rispetto a tutti gli
altri apprendenti, si affida per la metacomunicazione alla L1:
(14)
44 /CHEL/ Eh +++ normalmente coro +++ *around*
45 /INS/ In giro ++. Ok va bene [...]
Per concludere, anche le formule di saluto e chiusura dell'intervista, che nella maggior parte delle
trascrizioni sono omesse in quanto totalmente in inglese, vengono gestite in modo appropriato da
due apprendenti del Gruppo C:
(15)
37 /INS/ Perfetto. ++ Molto bene Anna.
38 /ANNA/ Ah ++ finito?
39 /INS/ Sì finito
40 /ANNA/ Oh grazie mille
(16)
44 /INS/ Molto bene grazie
45 /JESS/ Grazie
4.3.2.5 Conclusioni
L'esperienza al Benedectine College, pur nei limiti dovuti all'esiguo numero di apprendenti
osservati, ha confermato molte delle nostre ipotesi. Abbiamo infatti riscontrato nel gruppo che
aveva frequentato il laboratorio:
• una maggiore accuratezza fonologica, soprattutto negli aspetti che erano stati oggetto di
specifiche attività durante il laboratorio (come le consonanti geminate);
• una maggiore accuratezza e complessità morfologica, con un numero maggiore di forme
usate (imperativo, condizionale, ausiliari, verbi modali) e, soprattutto, un uso più
appropriato (come nel caso dei pronomi personali) delle forme apprese. Dalla rapidità
dell'eloquio si è dedotto che molte di queste forme, alcune delle quali non erano state
elaborate in classe, venivano usate in modo non analizzato, ed erano state probabilmente
acquisite secondo le modalità dell'apprendimento non guidato.
• una maggiore competenza semantica espressa dall'uso di termini più precisi e da un numero
minore di “ricadute” sulla L1;
• una maggiore fluenza probabilmente anche dovuta a un minor controllo da parte del
“monitor”;
• una competenza pragmatica più sviluppata: la maggior parte dei dati osservati sono a favore
di un vantaggio del Gruppo C nella competenza pragmatica. Anche la precisione delle
asserzioni, inclusa dal QCER (2002:150) nella competenza pragmatica, può intendersi
realizzata a questo livello dalla sicurezza nella scelta del vocabolo più appropriato.
Abbiamo infine constatato che l'attività accelera i tempi di apprendimento del lessico: a questo
proposito la prova 2, somministrata a distanza di quasi un mese dall'ultima attivazione del lessico,
153
induce a supporre che le attività di laboratorio favoriscano il depositarsi delle conoscenze nella
memoria a lungo termine. Su questo punto sarebbero tuttavia necessarie ulteriori indagini. Abbiamo
anche notato che le competenze acquisite tendevano a situarsi, come nell'apprendimento non
guidato, nella memoria procedurale più che in quella dichiarativa. Per ragioni di tempo e a causa del
basso livello di competenza degli studenti, non è stato purtroppo possibile organizzare un lavoro di
riflessione sulla lingua che portasse a una maggiore consapevolezza metalinguistica.
154
4.4 Sperimentazione con adulti immigrati
La sperimentazione con adulti immigrati si è svolta alla Fraternità della Visitazione a San Miniato a
Piandiscò (AR), una casa di accoglienza nata dall'esperienza dell'“Unione familiare Santa Maria
dell'accoglienza” che raccoglie un numero di sei case famiglia diffuse in tutta la diocesi di Fiesole.
La Fraternità ha iniziato la sua attività nel 2001 ed è portata avanti da tre suore e da molti volontari.
L'accoglienza è rivolta in particolare a minori in stato di abbandono, ragazze madri e madri con
bambini in difficoltà, donne in fuga dal lavoro coatto sulla strada, in stato di pericolo e in condizioni
di emarginazione sociale. Lo scopo è quello del reinserimento autonomo nella vita sociale.
Attualmente è costituita come associazione di volontariato Onlus regolarmente iscritta all'Albo
Regionale. Qui, a seguito dell'approvazione delle suore responsabili della comunità, è stato attuato
un progetto denominato “A scuola dai burattini”, condotto, oltre che da chi scrive (che vi aveva già
effettuato nel 2005 un corso di lingua italiana per le donne straniere presenti nella comunità), da
Simona Gonnelli, attrice e conduttrice di laboratori teatrali nelle scuole del Valdarno, responsabile e
regista della Compagnia teatrale dell'Orsa di Reggello oltre che volontaria della Fraternità e
operatrice, insieme a chi scrive, del teatro di burattini “Oga Magoga”. Il laboratorio era destinato a
un gruppo di donne di cui 2 italiane e circa 7 straniere provenienti da paesi diversi, con periodi
diversi di permanenza in Italia e ineguali competenze linguistiche (tab. 4.12).
Tabella 4.12: Caratteristiche delle partecipanti e sigle dei nomi.. Le partecipanti evidenziate in grigio sono state sottoposte a osservazione. Le
partecipanti segnate da * hanno recitato nello spettacolo del 2/02/08, quelle segnate con ° hanno recitato nello spettacolo del 17/05/2008.
Sigla del nome Età Paese di provenienza Figli in comunità Lavoro Tempo in Italia Tempo in comunità
MA*° 39 Italia - Impresa di pulizie - 5 anni
DA*° 35 Italia 4 - - -
EV° 32 Albania 1 Badante 5 anni 2 anni
SO *° 39 Camerun 2 Disoccupata 6 anni 4 mesi
AN*° 22 Romania 1 Industria pelletteria 3 anni 2 anni
AL* 19 Romania - Lavori domestici - dal 2 /11/ 2007
GI*° 29 Romania 1 Badante 5 anni dal 21/12/07
AS 18 Russa - Scuola superiore II grado 10 anni -
AH 33 Turchia - Badante - non vive in comunità
SH° 24 Albania 2 Disoccupata - dal 30/01/08
Il laboratorio è iniziato il 19 ottobre 2007 ed è terminato il 2 febbraio 2008. Dal momento che la
permanenza in comunità ha un carattere provvisorio e che alcune partecipanti nel frattempo hanno
trovato lavoro o casa, o hanno iniziato a frequentare corsi in orari non compatibili con quelli del
laboratorio, non tutte le partecipanti che hanno iniziato l'attività vi hanno partecipato fino alla fine
(AS e AH). In compenso altre partecipanti si sono aggiunte in seguito (AL e GI) (tab. 4.13). Sono
stati attuati 17 incontri nell'arco di 15 settimane, di circa 2 ore ciascuno (di solito il venerdì dalle
18,00 alle 20,00 o dopo cena, cercando di trovare un orario in cui tutte le partecipanti fossero libere
dal lavoro e dalla cura dei figli) che hanno portato alla realizzazione dei burattini e delle storie e a
uno spettacolo finale allestito al circolo ACLI di Piandiscò in occasione del carnevale. Il
laboratorio, tranne gli ultimi due incontri effettuati direttamente in teatro, si è svolto nella cucina
della comunità (raramente nel refettorio).
Alla fine del laboratorio siamo stati invitati a ripetere lo spettacolo al Centro sociale “il Pozzo”
presso la comunità di base di don Alessandro Santoro alle Piagge (Firenze). A questo scopo sono
state fatte altre cinque prove (a partire dall'11 aprile 2008 tutti i venerdì sera escluso venerdì 9
maggio) e lo spettacolo è stato rappresentato il 17 maggio 2008. Alcune delle partecipanti allo
155
spettacolo delle Piagge non erano le stesse che avevano realizzato lo spettacolo a Piandiscò, in
quanto AL nel frattempo era tornata in Romania e si era aggiunta una ragazza albanese (SH). Inoltre
ha partecipato EV, che non aveva potuto recitare al primo spettacolo perché malata. Tutti i dati
riportati si riferiscono al laboratorio per la realizzazione dello spettacolo di Piandiscò.
Tabella 4.13: Date degli incontri e presenze
Date incontri AS AN DA EV MA SO AL GI AH
19/10/07 X X X X X X X
26/10/07 X X X X X X X
2/11/07 X X X X X X
9/11/07 X X X X X X X
16/11/07 X X X X X X
23/11/07 X X X X X X
30/11/07 X X X X X X
7/12/07 X X X
21/12/07 X X X X X
04/01/08 X X /X X X X X
11/01/08 X X /X X X X X
18/01/08 X /X X X X X
23/01/08 X X /X X X X X
25/01/08 X X /X X X X X
30/01/08 X X X X X X
01/02/08 X X X X X X
02/02/08 X X X X X X
Durante il laboratorio (di circa 34 ore complessive) sono state realizzate 10 ore di registrazioni
audio; sono inoltre disponibili le videoregistrazioni delle due prove effettuate in teatro e la
videoregistrazione degli spettacoli realizzati.
156
• rilassamento e formazione del gruppo;
• esercizi fonetico/articolatori orientati gradualmente verso a recitazione.
Per la costruzione delle storie siamo partiti dal burattino, in quanto ci è sembrato che potesse
permettere un più facile investimento affettivo: abbiamo portato delle bozze di teste fatte con carta
di giornale pressata pronte per essere rivestite con le strisce di carta imbevute nella colla vinilica
(fig. 4.10 e fig. 4.11). Abbiamo anche portato l'occorrente per finire i pupazzi con la carta-colla. Le
partecipanti hanno subito iniziato a lavorare sulle teste e, negli incontri successivi, hanno continuato
dipingendole di bianco e poi con i colori, attaccando i capelli e definendone lentamente i caratteri.
Quando le teste erano finite abbiamo portato le tuniche da attaccare alla testa e le stoffe per cucire i
vestiti. La costruzione dei burattini è durata molto più del previsto (fino a circa il 14 dicembre).
Contemporaneamente abbiamo lavorato alla creazione delle storie (fig. 4.12). Ogni partecipante ha
scritto una “carta di identità” del burattino che la aiutava a attribuirgli una personalità. La scheda ha
rappresentato la base per la costruzione della storia. Ogni partecipante ha infatti in un primo
momento fatto una narrazione per il suo personaggio (in terza persona) e poi la ha drammatizzata in
prima persona. Infine si è cercato di far intervenire i personaggi nelle storie degli altri (ad esempio
un “assassino stupratore” è diventato un ladro intervenendo nella storia di una “goffa modella”).
Alla fine di questo processo siamo arrivati ad avere cinque storie legate da un narratore comune, il
personaggio della sesta storia (cfr. app. 3.1).
Gli ultimi 5 incontri sono stati dedicati alla memorizzazione della versione definitiva dei dialoghi e
alla messa in scena (oggetti di scena, musiche, fondali, movimenti di scena, luci, effetti vari). Le
ultime due prove sono state fatte in teatro (dove era stato montato il teatrino della compagnia “Oga
Magoga”) dove abbiamo lavorato sui movimenti e ci siamo occupati dell'allestimento scenico (figg.
4.13-4.16).
1 Abbiamo escluso le altre partecipanti straniere perché arrivate successivamente all'inizio del laboratorio o perché non hanno
seguito il laboratorio fino alla fine. AL è stata esclusa perché la sua competenza iniziale e la giovane età non consentivano di
rilevare processi di fossilizzazione e i suoi rapidi progressi potevano essere attribuiti a molti altri fattori.
157
ciascuno di essi e i parametri numerici secondo i quali è stata fatta la valutazione:
Tabella 4.14: Indici di quantificazione dei parametri extralinguistici sottoposti a osservazione e parametrizzati secondo una scala di tipo
semantico.
punti 0 1 2 3 4
1. situazione abitativa e socioeconomica
1.1 anni di residenza in Italia 1 2 3 4 o più
1.2 situazione abitativa prima di arrivare in fraternità: abitano con altri immigrati italiani da sole famiglia
1.3 rapporto numero di persone/stanze 4:1 3:1 2:1 1:1
1.4 possesso patente o auto no studia per la patente auto
patente
2. situazione linguistica
2.1 studio della lingua italiana no prima di venire in Italia prima e in Italia
in Italia
2.2 altre lingue straniere conosciute nessuna dialetto locale 1 più di 1
2.3 lingua usata sul lavoro L2 L2 e L1 L2
2.4 lingua usata in comunità L2 L2 e L1 L2
2.5 lingua usata con i figli L2 L1 L2 e L1
3 situazione culturale
3.1 titolo di studio nessuno elementare superiore università
3.2 sta studiando in Italia no si
4. situazione lavorativa non lavora come lavoro
lavora badante dipendente
5. processi di integrazione
5.1 rapporti con italiani fuori della fraternità nessuno saltuari frequenti solidi
5.2 i figli frequentano bambini italiani no solo a scuola fuori della
scuola
5.3 partecipazione alla vita scolastica dei figli nessuna qualche volta spesso
5.4 ha interessi nel tempo libero fuori della comunità no raramente sì
5.5 progetto di integrazione nessuno tornare nel restare in Italia
proprio paese
158
conoscenza del lessico è stata testata attraverso una griglia rilevazione (app. 3.5) in cui a ogni parola
corrispondevano tre colonne relative alle seguenti categorie: parola non conosciuta; parola
conosciuta ma non usata; parola conosciuta e usata. L'autovalutazione soggettiva è stata sottoposta a
controllo attraverso la richiesta di contestualizzare la parola nella quarta colonna.
L'indagine rivela che le condizioni sociali e il contesto linguistico delle partecipanti non era
favorevole a un ulteriore sviluppo della L2, restando esse per lo più confinate nella comunità, dove
spesso parlavano la L1 con connazionali e avendo scarsi o nulli rapporti sociali al di fuori di essa.
Ciò spiega il basso livello di sviluppo dell'interlingua di SO, nonostante i 6 anni di permanenza in
Italia, come il non alto livello delle altre due partecipanti. L'indagine socioculturale risulta essere in
accordo con l'indagine linguistica, che vede AN, in Italia da un tempo minore ma con un punteggio
di 4,7, usare una varietà intermedia più vicina alla L2 di EV e SO che pure si trovavano in Italia
rispettivamente da 6 e 5 anni.
Analisi dell'indagine linguistica. Di seguito i risultati dell'analisi effettuata sulle
registrazioni delle storie narrate in entrata (prova 1):
Tabella 4.16: descrizione della varietà di apprendimento delle partecipanti osservate.
AN Varietà 4 :di sviluppo, interlingue intermedie
159
Regole fonologiche Presenza di interferenza tra L1 e L2 (mancanza geminate e rafforzamento fonosintattico)
Regole morfologiche problemi di accordo verbale e nominale
tendenza all'uso delle forme più regolari
uso di forme non regolari
Regole sintattiche tendenza alla semplificazione
tendenziale "forza pragmatica"
sviluppo delle funzioni sintattiche fondamentali: tempo, causa relazione
uso di che in frasi oggettive
relative sul soggetto
relativa sull'oggetto
Sistema verbale presente
imperfetto
passato prossimo (corretto accordo del participio)
corretta alternanza imperfetto/passato prossimo
uso di una forma passiva
uso del futuro
mancata presenza di congiuntivo, condizionale
Sistema dei pronomi atoni diretti
assenza di atoni indiretti e di pronomi combinati
ci locativo
si riflessivo
si impersonale
Lessico uso di diminutivi
tratti inanalizzati di varietà di linguaggio burocratico
tratti di varietà substandard regionali e popolari
Interazione comunicativa e strut- è in grado di interagire con nativi su argomenti diversi
ture pragmatiche capisce quasi tutto ciò che gli viene detto
EV Varietà 3: di sviluppo, interlingue intermedie
Regole fonologiche presenza di interferenza tra L1 e L2 (mancanza geminate)
Regole morfologiche problemi di accordo verbale e nominale
tendenza all'uso delle forme più regolari
uso di forme non regolari
Regole sintattiche capacità di organizzare gli enunciati in forma semplificata: giustapposizione e coordinazione semplificata
uso di strategie lessicali e discorsive come rappresentazione sequenziale degli avvenimenti
uso del pragmatic mode: struttura topic/comment
non ancora consolidata la distinzione tra tempi e modi
presenza di frasi complesse introdotte da quando, perché
relative sul soggetto
relative sull'oggetto
assenza di ipotetiche
Sistema verbale presente
imperfetto
passato prossimo (uso dell'ausiliare ancora incerto)
mancata presenza di futuro, congiuntivo, condizionale
isolata presenza del passato remoto
Sistema dei pronomi sovrauso del si riflessivo
uso semplificato del sistema pronominale (li, lo)
Lessico uso di diminutivi e superlativi
lessico relativo alle esperienze quotidiane
Interazione comunicativa e strut- è in grado di interagire con i nativi su temi di interesse generale relativi alla vita sociale e alla propria
ture pragmatiche esperienza
non sempre comprende quello che viene detto
SO Varietà 3: di sviluppo, interlingue intermedie
Regole fonologiche forte interferenza L1 e L2
Regole morfologiche semplificazione
ellissi
problemi di accordo verbale e nominale
tendenza all'uso delle forme più regolari
uso di forme non regolari
Regole sintattiche capacità di organizzare gli enunciati in forma semplificata: giustapposizione e coordinazione semplificata
uso di strategie lessicali e discorsive come rappresentazione sequenziale degli avvenimenti
uso del pragmatic mode: struttura topic/comment
non consolidata la distinzione tra tempi e modi
presenza di frasi complesse introdotte da quando, perché
160
relative sul soggetto
presenza di ipotetiche introdotte da se
che polivalente
Sistema verbale presente
imperfetto
passato prossimo
uso corretto dell'ausiliare
uso quasi sempre corretto dell'alternanza imperfetto/passato prossimo
mancata presenza di futuro, congiuntivo, condizionale, passato remoto
Sistema dei pronomi assenza di pronomi atoni
iterazione del pronome soggetto
Lessico presenza di un lessico soggetto a forte transfert dal francese L1
tratti di varietà substandard regionali e popolari
Interazione comunicativa e strut- non sempre comprende quello che viene detto
ture pragmatiche l'eloquio non è sempre comprensibile
La valutazione delle varietà è stata fatta in base al criterio dei tratti prevalenti. Spesso, infatti, si
trova la presenza di tratti che potrebbero essere attribuiti a varietà diverse, e rivelano la presenza di
processi di fossilizzazione. Abbiamo dunque focalizzato l'attenzione su alcuni di questi tratti che si
presentano come sub-sistemi meno sviluppati del resto dell'interlingua.
Per quanto riguarda AN:
• l'assenza nel sistema verbale di condizionale, trapassato prossimo, futuro e congiuntivo.
Per quanto riguarda EV:
• l'assenza nel sistema verbale di condizionale, trapassato prossimo, futuro e congiuntivo;
• il mancato sviluppo del sistema pronominale.
Per quanto riguarda SO:
• la forte interferenza tra L1 (il francese) e L2, soprattutto a livello fonologico;
• la lentezza e difficoltà nell'eloquio.
Qui di seguito una tabella in cui i risultati dell'indagine socioculturale vengono correlati al livello di
interlingua delle partecipanti:
...
Varietà 5:
avanzate
Varietà 4:
intermedie AN
Varietà 3: EV
intermedie SO
Varietà 2:
iniziali
Varietà 1:
molto iniz.
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Profilo socioculturale parametrizzato da 1 a 10
Dopo il secondo spettacolo, il 22 maggio 2008 abbiamo effettuato una nuova registrazione della
storia raccontata all'inizio, per vedere se si potevano riscontrare variazioni nei tratti meno sviluppati
dell'interlingua delle partecipanti (cfr. app. 3.2). Dall'analisi abbiamo tratto le seguenti osservazioni:
Per quanto riguarda AN, non abbiamo potuto rilevare segni di evoluzione nell'interlingua.
Per quanto riguarda EV notiamo la presenza di due forme di condizionale:
(1)
161
[...] lui però infine do/dovrei scegliere lui
(2)
Che i bambini dovrenno studiare tanto dovrenno essere bravi e dovrenno avere tanti tanti sogni [...]
Per quanto riguarda SO notiamo un miglioramento nella pronuncia di alcune parole come
“diventato”, parola presente in entrambe le produzioni e che nella produzione iniziale era
riformulato (deve deve devetanto/deve + dev/deventato) e in quella finale presenta invece solo una
breve esitazione (dev+entato).
Abbiamo inoltre calcolato l'indice di fluenza (app. 3.4), il quale risulta, per SO, 32 in entrata e 41 in
uscita; per EV passa da 37 in entrata a 44 in uscita, invece per AN non abbiamo riscontrato
differenze (34 in entrata e in uscita) (tab. 4.17).
Tabella 4.17 Indice di fluenza.
fluenza AN EV SO
entr. 34 37 32
uscita 34 44 41
I dati sembrano parlare dunque a favore di un leggero progresso in due dei punti individuati
nell'analisi iniziale: il sistema verbale (ma non quello pronominale) in EV e la velocità dell'eloquio
e la pronuncia per SO. Per quanto riguarda AN, che sia per età che per situazione socioculturale
sembrava avvantaggiata rispetto alla altre due partecipanti, non abbiamo invece potuto osservare
alcuna ristrutturazione percepibile.
Prova di riconoscimento e uso del lessico: I risultati delle due prove, somministrate la
prima il 20/10/2007 e la seconda l'8/02/2008 sono riportati nella tabella seguente:
Tabella 4.18: Risultati delle prove di riconoscimento e uso del lessico in entrata e in uscita.
AN EV SO1
Entrata Uscita Entrata Uscita Entrata Uscita
non conosciute 4 2 4 0 6 3
conosciute ma non usate 2 0 1 2 1 3
conosciute e usate dichiarate 14 dichiarate 18 dichiarate 15 dichiarate 18 dichiarate 13 dichiarate 13
effettive 11 effettive 16 effettive 14 effettive 17 effettive 13 effettive 13
Dall'analisi si nota in tutte e tre le partecipanti un piccolo miglioramento sia nella percezione della
propria conoscenza del lessico che nelle risposte corrette effettivamente fornite. Ciò ci sembra
confermare l'utilità del laboratorio di burattini sia per superare i timori riguardanti le proprie
competenze linguistiche (ciò è valido in particolare per SO che in entrata dichiara di non conoscere
6 parole e in uscita solo tre) che nell'acquisizione del lessico. Il dato sembra confermare quelli delle
altre sperimentazioni fatte.
1 SO non ha compilato il questionario per scritto, ma l'ha fatto oralmente, e le risposte sono state segnate da chi scrive. Ogni volta
che dichiarava di conoscere la parola le veniva chiesto di fare un esempio.
162
Campo 2: giudizio sul laboratorio
2. L’attività di preparazione dello spettacolo è stata per te (più di una risposta): Troppo difficile 0
Difficile ma possibile 3
Adeguata alle tue capacità 1
Facile 2
Interessante 5
Noiosa 0
Dal questionario è emerso un quadro piuttosto simile e più positivo di quello risultante dall'indagine
con apprendenti adolescenti (§ 4.2.2).
Giudizio globale (campo 1). Il giudizio globale è stato migliore di quello delle
sperimentazioni con adolescenti, forse anche perché l'attività si svolgeva al di fuori di un contesto
educativo “tradizionale” e c'erano minori aspettative rispetto al modo in cui l'attività doveva esser
svolta.
Giudizio sul laboratorio (campo 2). Complessivamente quasi tutte le partecipanti giudicano
l'attività interessante (5 su 6) e per nessuna essa è stata difficile o noiosa.
Aspetto emotivo (campo 3). Su 6 partecipanti, 5 si sentivano ben preparate a fare la loro
parte e una “abbastanza”. Tutte erano emozionate prima dello spettacolo, ma tutte si sono giudicate
alla fine “brave” o “abbastanza brave”. Lo spettacolo complessivamente è stato percepito
positivamente.
Aspetto sociale (campo 4). I rapporti tra le partecipanti non sono sempre stati facili: timori,
paure, ripicche e rivalità hanno spesso richiesto l'intervento delle coordinatrici. Non stupisce perciò
che due di esse si siano sentite giudicate dalle compagne. Tuttavia tutte hanno percepito come
positivo il lavoro di gruppo, cosa che rappresentava uno degli obiettivi del laboratorio. Anche le
163
conduttrici sono state percepite da due partecipanti come figure giudicanti, probabilmente in quanto
hanno dovuto talvolta prendere posizioni nette per risolvere le difficoltà di rapporto esistenti.
Ruolo dell'insegnante (campo 5). Il ruolo delle conduttrici risulta evidentemente un ruolo
nel complesso positivo, incoraggiante e comprensivo.
Influenza sull'apprendimento (campo 6). Da questa voce è stata scorporata la risposta
della partecipante italiana. Nel complesso l'attività è sembrata utile alle partecipanti per migliorare
la propria L2 in generale, o per la pronuncia e la grammatica in particolare. Per 2 partecipanti è stata
utile anche per comprendere meglio la mentalità italiana.
Alla fine del questionario veniva chiesto se avrebbero voluto fare un altro spettacolo, e se credevano
che fosse necessario migliorare la propria competenza in italiano. Tutte hanno risposto
positivamente, rilevando le proprie difficoltà a usare la lingua fuori degli ambienti frequentati di
solito. Hanno anche espresso frustrazione per non essere in grado di scrivere correttamente in
italiano. Tutte hanno manifestato il desiderio di continuare a fare spettacoli di burattini e studiare la
lingua.
Ci voleva poteva anche scrivere in fondo al questionario un suggerimento o un consiglio.
4.4.6 Conclusioni
Alla fine di quest'ultima complessa esperienza, restano ancora aperte molte domande. Quanto alla
prima delle questioni che intendevamo verificare nell'allestire questo laboratorio (cfr. § 4.4.3),
l'eventuale influenza dell'attività sulla competenza linguistica delle partecipanti, crediamo che la
prova di riconoscimento e uso del lessico confermi un'influenza positiva del laboratorio di burattini
su questo aspetto della competenza linguistica. La prova di produzione orale vede l'evoluzione di
alcuni tratti linguistici in due partecipanti, ma non nella terza, che pure nell'analisi iniziale sembrava
essere in vantaggio per le condizioni sociolinguistiche. Possiamo avanzare alcune ipotesi per
valutare questo risultato:
• fattori di prestazione: la produzione registrata nella prima intervista era avvenuta di
pomeriggio, la seconda dopo cena: fattori quali la stanchezza o la distrazione potrebbero
aver influenzato la produzione di AN. Contro questa ipotesi si potrebbe obiettare che anche
le registrazioni delle storie di EV e SO erano avvenute nelle stesse circostanze;
• circostanze contestuali: la prima narrazione della storia era rivolta a tutto il gruppo teatrale
in un contesto spontaneo. Sia la storia narrata da AN che quella delle altre due partecipanti
osservate vi appaiono più complesse e lunghe rispetto all'ultima versione, in cui erano
narrate all'intervistatrice, che le conosceva già perfettamente. Forse la motivazione e il
contesto hanno influenzato la seconda versione della storia. Anche in questo caso però
potremmo obiettare che le circostanze erano identiche per le altre due partecipanti;
• fattori di apprendimento: il livello di interlingua di AN era già abbastanza alto, pertanto le
attività di laboratorio non hanno avuto la possibilità di apportare trasformazioni significative
al suo sistema linguistico.
Siamo propensi ad attribuire l'interpretazione dei dati di AN a una co-occorrenza di tutte e tre i
fattori individuati. I risultati tuttavia evidenziano la complessità del processo di apprendimento
linguistico e la necessità di approfondire lo studio dell'influenza del laboratorio di burattini con
campioni più ampi e più standardizzati.
Ci eravamo poi chiesti se attraverso il laboratorio di burattini fosse possibile rendere le partecipanti
più consapevoli della necessità di progredire nell'apprendimento dell'italiano L2, potenziando la
motivazione in modo da rimettere in moto il processo di sviluppo dell'interlingua. Il fatto che tutte
le partecipanti straniere abbiano espresso il desiderio sia di continuare a lavorare coi burattini che di
studiare la lingua italiana sembra confermare un'influenza positiva dell'attività nel senso suddetto.1
1 Riportiamo alcune delle osservazioni scritte dalle partecipanti alla fine del questionario: “Mi sono divertita tantissimo a fare il
mio personaggio”; “Mi ha fatto piacere imparare una cosa nuova che non ho pensato mai di farla, per me è stata una cosa
164
Riguardo al valore di integrazione di questa attività, ci sembra essere confermato dai risultati del
questionario e, soprattutto, dalle storie prima narrate e poi rappresentate dalle partecipanti. Tutte le
storie infatti erano profondamente connesse con la cultura di origine di ognuna di loro; in tutte le
storie erano state inserite poesie, filastrocche o canzoni, recitate o cantate nelle diverse L1 e poi
tradotte in italiano. Ogni storia poi esprimeva desideri, timori, speranze, intimamente connesse con
la vita delle partecipanti, in ognuna di esse era presente un messaggio diretto non solo ai bambini
della fraternità, ma a tutti i bambini e gli adulti di Piandiscò presenti nel pubblico. Infine una delle
partecipanti ha deciso di scrivere in forma teatrale la propria storia di migrazione1 per poterla
rappresentare nel “prossimo spettacolo”: questo ci sembra un'ulteriore conferma del valore
psicologico e di integrazione del burattino, che si presta a oggettivare esperienze e vissuti, anche
dolorosi. Nella storia sceneggiata, la drammatica esperienza di migrante viene filtrata attraverso uno
stile metaforico e immaginifico che non ignora il registro della comicità e dell'umorismo. I burattini
sembrano davvero servire come strumento per restituire voce al passato, ricostruire una identità
entro il nuovo contesto linguistico e culturale.
Per concludere vogliamo riportare in sintesi un'intervista fatta a Simona Gonnelli, che ha condotto il
laboratorio di burattini insieme a chi scrive (app. 3.7), in quanto rappresenta una testimonianza
dell'esperienza dal punto di vista di un osservatore terzo. Nell'intervista Simona riconosce:
• l'importanza del burattino (“la chiave di volta che ha dato a tutte la possibilità di immergersi
nell'attività e di esprimersi anche in maniera sorprendente”);
• l'importanza di recitare nascosti (“avendo una baracca davanti non hai lo scoglio del farti
vedere direttamente in scena”);
• il valore socializzante dell'esperienza (“ [i burattini] sono stati utili per creare una complicità
tra di loro, anche se non definitiva”);
• la possibilità di intraprendere un'attività che valorizzi le differenze e le qualità di ognuno
(“durante il percorso alcune figure anche più marginali della comunità hanno potuto
dimostrare un'adeguatezza al progetto anche superiore ad altre, più integrate, valorizzando le
diverse qualità di ognuna”);
• che l'esperienza ha messo in moto processi linguistici (attraverso “lo sforzo per cercare di
esprimere le loro emozioni e le loro storie, una ricerca di particolari, di colori, per farci
capire a pieno a noi e poi al pubblico”);
• il valore dell'esperienza per l'integrazione (“loro, che sono le ultime, sono state applaudite,
sono riuscite a fare qualcosa per la comunità, ad avere l'approvazione del paese: una cosa
importante per la stima di se stesse”).
interessante di farla in questo modo mi ho migliorato un po' la lingua italiana”; “ (...) è stato molto divertente è mi sento molto
bene quando partecipo”; “(...) era bellissimo da parte mia a me mi è piaciuto parecchio, quando è finita la mia parte volevo fare
anche altre cose”, “dovete continuare con questo modo di fare”.
1 Abbiamo scelto di non riportare qui la storia scritta per rispetto dei contenuti personali in essa presenti.
165
5. Conclusioni
166
5.1 Uno sguardo d'insieme
Abbiamo iniziato il nostro percorso con la proposta di “fare teatro” nella classe di italiano L2;
adesso possiamo aggiungere un'altra parola, che ne definisce la qualità essenziale: fare teatro
“insieme”, cioè attraverso il dialogo tra lo studente, col suo sistema linguistico culturale, con l'intero
sistema linguistico culturale della L2, di cui l'insegnante è portatore.
L'insegnamento/apprendimento della lingua che si verifica attraverso questo dialogo non è
rappresentabile come un travaso di nozioni e conoscenze da chi le possiede a chi ne è privo, ma
come un luogo di incontro e di confronto, un'esperienza e un'avventura comuni, dai quali entrambi i
membri del rapporto educativo vengono trasformati.
Abbiamo individuato nel teatro innanzitutto un modello di lingua, poi un input adeguato alla
competenza degli apprendenti, infine un compito volto a realizzare un prodotto sia sociale, perché
presuppone l'esistenza di una comunità collaborante, che socializzabile, perché destinato a un
ambito più ampio della comunità che lo ha espresso.
Nell'analisi dei linguaggi del teatro, abbiamo individuato un modello di lingua assai ricco per
l'insegnamento/apprendimento dell'italiano L2; tale modello, data la collocazione del testo
drammatico a metà tra la lingua scritta e la lingua parlata, rimanda da un lato alla lingua letteraria,
dall'altro alla conversazione reale. Come testo letterario, il testo drammatico permette di portare in
classe la cultura italiana in una forma accessibile e viva; come modello di lingua parlata esso
conduce gradualmente l'apprendente a impadronirsi delle forme dell'interazione orale, uno degli
obiettivi primari, e più difficilmente realizzabili, dell'insegnamento/apprendimento della L2. Infatti
il dialogo teatrale e la conversazione spontanea condividono molti tratti dell'italiano parlato, tra i
quali la presenza delle varietà e dei tratti dell'italiano dell'uso medio o neostandard, identificati da
Sabatini (1985) e Berruto (1987). Nel momento in cui viene trasferito sulla scena, il dialogo teatrale
recupera inoltre la dimensione non verbale della comunicazione rimandando a un concetto ampio di
insegnamento/apprendimento della lingua che include anche la dimensione pragmatica. Ciò
permette di integrare nella didattica la componente emotiva e quella intenzionale della lingua, tanto
spesso trascurate, così come di coinvolgere ampie zone appartenenti ai comportamenti culturali,
legati a norme sociali inespresse, ma rivelati dalla comicità, dall'ironia, dall'implicito, sempre
presenti nel teatro e soprattutto nel teatro di figura.
Abbiamo inoltre individuato una componente pragmatica, su cui fa leva la comunicazione teatrale,
che rappresenta una forma di esperienza universale e condivisa. A partire da tale componente è
possibile agire per acquisire gradualmente padronanza delle regole sociolinguistiche e socioculturali
soggette a variazione nei diversi sistemi linguistici e culturali. Tali regole, facendo parte di un
livello di comunicazione complesso, non sono riconducibili a una descrizione puramente formale
della lingua e rimangono spesso in ombra nell'insegnamento/apprendimento della L2. Sono invece
potentemente rivelate dal teatro che non solo studia la lingua ma la “mette in scena”, la agisce, in
tutta la sua complessità. Per questo motivo il teatro può essere una via preferenziale per
l'apprendimento della pragmatica.
Nel momento in cui viene utilizzato per la didattica dell'italiano L2, il testo teatrale diviene input,
adeguato alle necessità degli apprendenti in base ai criteri stabiliti dal QCE (complessità, tipologia,
struttura discorsiva ecc.) ma soprattutto adeguabile alle loro necessità in quanto, per la sua funzione
conativa, si propone come spettacolo da mettere in scena. Nell'accogliere e fare proprio questo
compito, la classe si trasforma in gruppo sociale, in una comunità, realizzando le condizioni per un
apprendimento cooperativo e per lo sviluppo di molteplici occasioni di interazione “democratica”
tra insegnante e apprendenti, condizioni ritenute essenziali dalle ipotesi interazioniste e dalla teoria
socioculturale dell'apprendimento. Sul versante della didattica l'approccio cooperativo individua nei
compiti complessi, tra i quali si inserisce a pieno titolo il progetto teatrale, uno dei modi più efficaci
per sviluppare una cooperazione nell'apprendimento in classe. Collocando i processi cognitivi
all'interno del contesto sociale, l'apprendimento di una L2 viene visto come un modo per allargare i
167
contesti d'uso del linguaggio: scompare così una troppo rigida distinzione tra L1 e L2 per lasciar
posto alla nozione di “lingua di contatto”, a indicare l'incontro tra codici linguistici e culturali
diversi.
Il progetto teatrale si ricollega inoltre agli approcci umanistici per l'attenzione ai bisogni
dell'apprendente, ai tempi, ai modi e agli stili individuali di apprendimento, per l'accento posto sul
ruolo della motivazione, del coinvolgimento ludico/affettivo e dell'esperienza nei processi di
memoria.
Nel ricostruire il lungo e complesso rapporto tra teatro ed educazione, che trova fondamento nella
originaria natura di comunicazione sociale del teatro e nella qualità formativa delle attività teatrali
individuata dal teatro novecentesco, abbiamo constatato che anche il rapporto tra teatro e
insegnamento/apprendimento delle L2 non rappresenta una novità. A partire dagli anni Ottanta
l'affermarsi della didattica comunicativa ha spinto gli insegnanti a esplorare le vie della
drammatizzazione e le tecniche drammatiche si trovano inserite in vario modo nei manuali di lingua
oltre che teorizzate in molti degli approcci detti umanistico-affettivi. Anche l'approccio orientato
all'azione, che trova un'applicazione nella didattica per compiti e viene fatto proprio dal QCE, si
muove in questa direzione. Tuttavia mentre l'utilizzazione di varie forme di drammatizzazione,
derivata dal Drama in Education di origine britannica, può vantare oramai anche in Italia una lunga
e ricca tradizione nell'insegnamento/apprendimento delle L2, il teatro, inteso come progetto teatrale,
deve ancora trovare il suo posto nel curricolo di italiano L2.
Le nostre sperimentazioni sono tutte avvenute usando il teatro dei burattini, che, per le sue
caratteristiche di semplicità e “fattibilità”, per il suo valore psicologico di medium creativo e di
strumento di integrazione, si è dimostrato adatto a diversi tipi di apprendenti e a diversi livelli di
competenza. Vorremmo sottolineare ancora una volta l'importanza del rapporto con l'”oggetto”, che
si realizza nella costruzione del burattino (o in attività ad essa propedeutiche come l'animazione di
oggetti) che mette potentemente in moto, con mezzi semplicissimi, le risorse creative dell'individuo
e coinvolge l'uso della L2 finalizzato all'esecuzione di compiti “reali”; vorremmo ricordare che il
teatro dei burattini rappresenta uno spazio “protetto” di comunicazione essenziale, facilmente
gestibile e controllata, adatta quindi anche a livelli iniziali di apprendimento, entro il quale i discenti
possono mettere alla prova le proprie competenze mantenendo basso il livello di ansia. Vorremmo
anche ribadire la radicale “alterità” di questo teatro rispetto al teatro di attori, che lo libera dai
vincoli del testo drammatico, dalla necessità di essere “rappresentazione” di qualcosa di diverso da
sé, facendone espressione dell'”autore-operatore” in rapporto immediato con il suo pubblico. Senza
dimenticare la portata culturale del teatro dei burattini “storico” e delle sue reinterpretazioni
moderne, che lo rendono un ponte tra passato presente, tra lingua e cultura “alta” e lingua e cultura
“popolare” e un luogo privilegiato per l'incontro con le varietà linguistiche, e le diversità culturali e
sociali presenti nel nostro Paese.
Col teatro dei burattini abbiamo lavorato, senza incontrare difficoltà, con adolescenti, giovani adulti
e adulti immigrati e crediamo che esso potrebbe essere utilizzato anche in altri contesti. Andrebbero
fatte ricerche e sperimentazioni sull'uso di questo teatro per l'insegnamento dell'italiano L2 con
bambini, nella scuola primaria come in contesti universitari. Abbiamo lavorato con livelli di
apprendimento iniziale e con varietà di apprendimento che presentavano processi di fossilizzazione,
in quanto crediamo che questi siano gli ambiti privilegiati di intervento di questo tipo di teatro, ma
sarebbe interessante testarne l'efficacia anche con altri livelli di competenza. La sperimentazione
con adolescenti ci è servita come banco di prova per definire la “procedura” più adatta a questo tipo
di apprendenti: abbiamo avuto conferma del volare motivante del progetto, della sua importanza per
ridefinire il ruolo dell'insegnante e per sviluppare una cooperazione costruttiva tra gli apprendenti
stessi. Dall'analisi dei dati delle sperimentazioni con giovani adulti è emerso che quanti avevano
seguito il laboratorio di burattini avevano sviluppato una migliore competenza fonologica, lessicale
e semantica, una maggiore accuratezza e complessità morfologica; essi hanno mostrato un
incremento nella produttività e, soprattutto, una competenza pragmatica più appropriata. Dall'analisi
168
della sperimentazione con adulti immigrati abbiamo avuto una conferma dell'importanza di questa
attività per l'apprendimento del lessico e per rafforzare la sicurezza nella propria capacità di
comprendere e comunicare in L2; abbiamo visto come, in alcuni casi, il laboratorio di burattini può
contribuire a rimettere in movimento tratti cristallizzati dell'interlingua e a ri-motivare gli
apprendenti nella volontà di migliorare la propria comunicazione in L2.
Crediamo che molto lavoro ci sarebbe ancora da fare: resta da confermare con ulteriori indagini
l'influenza di questa attività sui vari tratti della competenza linguistico-comunicativa; andrebbe
valutata la quantità e qualità del parlato in classe prodotto durante il laboratorio confrontandola con
i dati emergenti dalle analisi sull'interazione nella classe di lingua; attraverso corsi rivolti ad
apprendenti di livello più alto bisognerebbe indagare sull'utilità delle attività teatrali per la
competenza trans-culturale e pragmatica, che nei questionari è stata percepita soggettivamente dagli
apprendenti ma sulla quale non abbiamo avuto modo di raccogliere dati, e sulla competenza
metalinguistica.
Non esiste un “metodo” miracoloso per imparare una L2, e neanche il teatro può esserlo. Nelle
esperienze fatte abbiamo notato alcuni progressi e alcune differenze che parlano a favore di questa
attività in quanto aperta, rispettosa dell'autonomia e delle differenze individuali e portatrice di valori
che trascendono il mero “apprendimento linguistico”. Il teatro non è la panacea di tutti i mali né la
soluzione di tutti i problemi, ma può rappresentare uno strumento per la gestione della classe ad
abilità differenziate, può servire a creare uno scopo comune e consentire un'interazione autentica e
significativa, può legare la memoria della lingua a esperienze motorie ed educare gli apprendenti al
confronto interculturale. Può rappresentare un modo per facilitare l'apprendimento, per rispettare le
differenze individuali, per ridurre al minimo le ansie e le difficoltà dell'apprendente e per
trasformare la lezione di italiano L2 in un incontro umano e culturale.
Uno dei problemi che restano aperti riguardo all'utilizzazione delle attività drammatiche
nell'insegnamento/apprendimento delle L2 concerne il posto del teatro nel curricolo di L2. Abbiamo
visto che per molto tempo le pratiche teatrali sono state considerate attività da situarsi ai margini
della lezione convenzionale, al massimo attività da sostituirsi alla classica “lezione di
conversazione”. Abbiamo anche potuto osservare che nelle nelle pratiche e nelle riflessioni più
recenti il teatro tende ad assumere sempre maggiore autonomia assorbendo in sé, almeno
potenzialmente, tutte le componenti del linguaggio: semantica, morfologia, fonetica e pragmatica
oltre a rimandare a un concetto ampio di cultura. Gavin Bolton (1984) è stato uno dei primi a
teorizzare la centralità del drama nel curricolo scolastico, osservando come le esigenze, i problemi e
i temi che rivestono il materiale per il drama siano necessariamente trans-curricolari e attraversino i
confini artificiali del sapere. In effetti lo strumento drammatico ha un ruolo da giocare in ciascuna
delle quattro abilità, non solo nelle abilità orali. Attualmente le due tendenze sopra descritte, uso
ancillare delle attività teatrali o loro centralità, convivono nella pratica didattica: le prime sono
ormai entrate pienamente nella definizione dei curricoli, le seconde restano ancora ai margini o
come attività extracurricolari e sperimentali, o come proposte di centri educativi legati a
orientamenti specifici (PNL, PT, Dilit, Suggestopedia, ecc.).
Quanto a noi concordiamo con Schewe (1993) e Holden (2003) nell'affermare che se si considerano
le attività proprie del drama isolate dal loro aspetto “teatrale” queste finiscono col diventare poco
più che un esercizio di “fissazione”. Schewe (1993:137), abbiamo visto, ha parlato di un “deficit
drammatico” di queste attività alle quali difetta spesso proprio una delle caratteristiche essenziali
per la riuscita della messa in scena, ovvero la precisa definizione del ruolo dei partecipanti. Si tratta
inoltre di forme didattiche chiuse in quanto il loro svolgimento è fissato sin dall'inizio. Anche i
giochi didattici sono fortemente regolativi e mirano a un preciso e predeterminato comportamento
linguistico (Schewe 1993:29). Holden (2003:56 e 325) riconosce nei role play e nei giochi didattici
169
addirittura una forma di “neo-comportamentismo”, in quanto sarebbero basati su un'idea di
apprendimento come “allenamento”. Senza volere aprioristicamente considerare come “negative”
tutte le forme di “allenamento” e di “ripetizione”, crediamo che queste attività possano essere
efficaci se inserite in un contesto significante, come quello del progetto teatrale, altrimenti non si
differenziano da altri tipi di “esercizi” propri della didattica tradizionale.
Per quanto riguarda la riflessione i ambito italiano, è Balboni (1991; 1998; 2002) che, trattando le
attività per lo sviluppo delle competenze orali, si occupa, come abbiamo visto (cfr. § 2.2.1), delle
tecniche di drammatizzazione. Egli da un lato considera la drammatizzazione un passaggio
necessario per muovere dal puro ascolto all’interazione e cita il teatro dei burattini il quale, a suo
parere, elimina “l’iniziale disagio di chi deve ‘mettersi in scena’” (Balboni 1991:50-51); dall'altro
definisce la drammatizzazione “ripetizione di un dialogo già ascoltato e compreso” e limita la sua
funzione alla fissazione e all'esercizio delle abilità linguistiche, ma non al loro sviluppo. Inoltre la
drammatizzazione gli appare come un'attività poco produttiva rispetto all'impegno richiesto
(Balboni 1994:84). Ci sembra che questa posizione mostri come, se isolata dal contesto teatrale vero
e proprio, la drammatizzazione finisca con l'identificarsi nella “recitazione a memoria” tanto spesso
deprecata, un mero esercizio finalizzato non a sviluppare la competenza ma a fissare e rinforzare la
forma. Mostra anche che la riflessione su questo punto, in Italia, ha ancora molta strada da fare. Il
“fare teatro”, al quale noi ci siamo riferiti (cfr. § 1.3) è invece un insieme di attività che includendo
la drammatizzazione, la inserisce in un contesto significativo, quello del progetto teatrale, che
coinvolge il gruppo e l'interazione sia entro lo spazio spettacolare che fuori di esso. In tal modo
queste attività non sono solo un esercizio tra gli altri, ma si collocano in una cornice in cui il
linguaggio e i suoi significati vengono creati (nell'interazione reale) e ricreati (nei contesti fittizi)
allargando via via lo spazio linguistico degli apprendenti. Più che ipotizzare l'inserimento del teatro
nel curricolo crediamo dunque che sia necessario elaborare una grade varietà di curricoli teatrali in
base alle esigenze e alle tipologie di apprendenti.
Se consideriamo l'ampio ventaglio di bisogni che possono caratterizzare i diversi apprendenti, la
necessità in alcuni casi di sviluppare abilità parziali, oltre alla variabile del tempo da dedicare
all'apprendimento della L2, non possiamo affermare che questo tipo di attività debba rappresentare
l'unica via per accostarsi all'italiano L2. Tuttavia crediamo che la maggior parte degli apprendenti
trarrebbe giovamento nel partecipare almeno una volta a un progetto teatrale. In alcuni contesti poi,
nell'integrazione linguistica nella scuola, nell'educazione linguistica dei lavoratori immigrati, e ogni
volta che lo studio della lingua debba o voglia coniugarsi con il confronto identitario, il fare teatro
ci appare come uno strumento essenziale perché questo processo si realizzi. Del teatro potremmo
ripetere le parole di Fleming (2003:149): “(...) non serve solamente come mezzo arbitrario per uno
scopo, ma in realtà influenza lo scopo e il risultato. In questo caso l'obiettivo 'apprendere una lingua
straniera' si trasforma in 'apprendere una lingua straniera in un modo focalizzato sulla ricchezza e la
complessità del comportamento umano' o, per dirla in altro modo, è accostarsi alla lingua entro il
suo contesto culturale”.1
Leggendo alcune notizie biografiche sugli insegnanti di L2, in particolare su quanti si sono occupati
di teatro e di didattica, siamo stati colpiti dalla loro estrema mobilità: Alan Maley, ad esempio,
originario della Gran Bretagna, ha vissuto e lavorato nella ex-Iusgoslavia, in Ghana, in Italia, in
Francia, in Cina, India e Singapore, Thailandia e Malesia; Charlyn Wessels ha insegnato EFL/ESL
in Gran Bretagna, in Germania e in Africa; Schewe, tedesco di Oldenburg, vive e lavora a Cork,
nell'Irlanda del Sud. Insomma molti insegnanti di L2 si spostano di paese in paese, di continente in
1 “Drama here is not serving merely as an arbitrary means to an end but is actually affecting the end or outcome. In this case the
end ‘learning a foreign language’ changes to ‘learning a foreign language in a way which focuses on the richness and
complexity of human behavior’ or, to put it in another way, it is to approach language in its cultural context”.
170
continente, rasentando talvolta forme di “nomadismo”. Per questo motivo conoscono e usano
diverse lingue, come Bernard Dufeu, di origine francese, che vive a Magonza, in Germania e
pubblica libri in inglese, in francese e in tedesco. Ma anche gli insegnanti che restano “fermi” in un
luogo, si trovano comunque a “viaggiare” attraverso culture diverse, talvolta lontanissime tra loro, a
seconda che si trovino a contatto con tedeschi, africani, cinesi o siberiani, spagnoli o americani.
Ogni volta occorre cercare di conoscere per comprendere e adattarsi ai nuovi bisogni e le nuove
aspettative. Ed ecco che ci è sembrato di trovare una certa affinità tra i moderni insegnanti di L2,
che operano e vivono in un'epoca sempre più globalizzata, e i vecchi burattinai che vagavano per
l'Europa con i loro teatrini e i loro fantocci, anch'essi nomadi, anch'essi costretti rapportarsi con
diverse culture, diversi modi di vivere e di parlare, tanto intimamente presenti nella loro vita e nella
loro arte da far sì che quella diversità si trasferisse nella piccola società multietnica in scena giorno
dopo giorno all'interno della baracca. Anche il burattinaio, come l'insegnante di L2, doveva
rapportarsi ogni volta con un nuovo pubblico, doveva adattare la propria arte a diverse esigenze,
doveva escogitare mezzi espressivi per comunicare in napoletano con i veneziani e in veneto coi
napoletani, intuire se e come lo spettacolo fatto ieri con un determinato pubblico in un certo luogo
sarebbe stato gradito domani, con un altro pubblico e in un diverso luogo. Entrambi, l'insegnante e
il burattinaio, sono dediti a un'attività “pratica” che nasce dal rapporto con l'altro. Entrambi non
cessano mai di escogitare mezzi per interessare, per divertire, per “istruire”. E spesso ciò avviene
attraverso espedienti semplici, che tuttavia richiedono la pratica e l'abilità che si conquistano solo
attraverso l'esercizio e la lunga esperienza, uniti al desiderio costante di migliorare nella propria
arte.
Infine sia i burattini che la didattica delle L2 vivono, nella coscienza comune, una certa dimensione
di “subalternità”: i burattini sono stati a torto considerati una versione minore del teatro di attori,
ignorando l'autonomia del loro linguaggio espressivo riscoperto solo nel secolo scorso; la didattica
delle lingue moderne è stata, e per certi versi è ancora, considerata una forma di insegnamento
secondario rispetto alla didattica disciplinare.
Forse per questo i burattini si sono imposti alla nostra attenzione come un mezzo particolarmente
adatto per dar voce alla diversità e per creare un luogo di incontro e di confronto tra culture
(interculturale e transculturale), un linguaggio attraverso il quale l'identità possa “narrare” il proprio
passato per costruire il proprio futuro attraverso il confronto con l'identità dell'altro, e in questo
confronto dar vita a un universo di significati nuovo e più ricco.
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Appendici
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Appendice 1. Sperimentazione con adolescenti
Scambio italo-tedesco tra il liceo scientifico Piero Gobetti di Bagno a Ripoli e la Sophie Charlotte
Oberschule di Berlino (22 - 26 marzo 2004).
9.15-10.10 Consegno delle carte con nomi di nazioni e di città per esercitarsi sulle domande e sulle risposte: “di dove
sei?” “sono …. di…”e “di dov’è?” “è …. di …”. Qualche difficoltà con “Germania” e “tedesco”. Leggiamo un piccolo
brano sulle lingue parlate in Italia (li invito a cercare di capirne solo il senso). Faccio delle domande di comprensione e
poi spiego in tedesco alcune caratteristiche linguistiche del nostro paese (rapporto dialetti-italiano).
10.15-11.10 Cerco di ricapitolare le domande e le risposte che abbiamo incontrato fino a ora. Poi passo al lavoro di
preparazione sui burattini. Avverto che metteremo in scena tre piccoli spettacoli: uno ambientato per strada, uno al bar e
uno nel bosco. Divido la lavagna in tre e scrivo: LA STRADA, IL BAR, IL BOSCO. Invito tutti a pensare tutte le cose
che possono rientrare nella scena della strada. Per la scenografia della strada troviamo: automobile, motorino, autobus,
bicicletta, semaforo, striscia pedonale, fermata dell’autobus, casa, marciapiede. Per la scena del bar: birra, caffè,
bottiglia, lattina, alcolico, tazza, bicchiere, cucchiaino, tavolino, piatto, porta, bancone. Per la scena del bosco: albero,
cespuglio, foglia, erba, cielo, sole, nuvola, fungo, fiore, uccellino, lepre, cinghiale. Sulla strada e sul bar il vocabolario
era molto più ampio che per il bosco.
11.25-12.15 Approfitto di tutti questi nomi per introdurre l’articolo. Dividiamo i nomi in maschili e femminili e
mettiamo gli articoli determinativi. Poi distribuisco una po’ di schede e chiedo di fare delle domande ai burattini per
poterle riempire.
nome
nazionalità
provenienza
età
professione
carattere
aspetto fisico
Presento i personaggi facendoli parlare con le loro voci burattinesche. Gli apprendenti fanno delle domande. Io rispondo
introducendo un po’ anche le storie e i caratteri dei personaggi. Ci divertiamo molto. Noto che se avessimo un po’ di
tempo, e se gli studenti fossero un po’ più avanti nello studio dell’italiano, sarebbe facilissimo creare delle storie a
173
partire dai caratteri che si sono definiti durante questo “gioco”. Dico alla classe di riportare domani la lista degli scenari
e le schede in cui hanno preso nota dei personaggi.
10.15-11.10 Riprendiamo il lavoro sul teatro. Prima faccio formare tre gruppi a seconda dell’ambiente in cui si svolgerà
la storia: gruppo “Strada”, gruppo “Bar” e “Bosco”. Ci sono un po’ di questioni e proteste perché molti sono andati nel
gruppo “il bar”. Cerco di creare gruppi omogenei (anche qui, con un po’ di tempo, si potrebbe lavorare sulla lingua).
Poi consegno a ogni gruppo il testo da rappresentare e una scheda dove ci sono indicazioni sugli attori, sulle scene e
sugli oggetti di scena. La prima cosa da fare è comprendere i testo. Due gruppi non trovano difficoltà. Il terzo sì, forse
perché è meno motivato. Probabilmente è stato un errore da parte mia lasciare che fossero i partecipanti a decidere in
quale gruppo andare. Si spartiscono i ruoli e io allestisco un banco con carta, forbici, gessetti colorati, pennarelli,
spillatrice, lacca, carboncini neri e ocra. Metto anche dei bigliettini con il nome sugli oggetti. Gli scenografi vengono da
me e mi chiedono cosa vogliono. I gruppi sono molto autonomi e chiedono poco aiuto. Se avessi comunque un aiutante
alla “cartoleria” sarebbe molto meglio. Ma nessuno studente è un grado di farlo, e comunque non ho pensato di
introdurre precedentemente questo tipo di dialogo in vista dell’attività.
11.25-12.15 Controllo gruppo per gruppo l’andamento del lavoro. Distribuisco i burattini agli attori e ascolto una prima
volta la recita gruppo per gruppo, mentre gli altri continuano a lavorare. Il gruppo “Bosco” e quello “Bar” sembrano
molto presi, si sforzano di adattare le voci e di pronunciare correttamente. Il gruppo “strada” meno, ma le scenografe
stanno dando il meglio di sé. L’ora passa velocemente. L’insegnante che accompagna il gruppo mostra qualche
perplessità per la confusione e dubbi sul risultato finale.
10.15-11.10 Riprendiamo il lavoro sul teatro. Il teatro è in classe, proviamo le scene, che vengono finite. Proviamo lo
spettacolo nel teatro. Si apportano gli ultimi ritocchi. Lo spettacolo “Strada” non funziona. Gli altri due vanno bene.
11.25-12.00 Ho un momento di panico perché mi rendo conto che il gruppo “Strada” recita in modo incomprensibile e
senza alcuna motivazione. Decido di spiegare a tutti, tutti e tre gli spettacoli, ma è chiaro che mi rivolgo soprattutto al
gruppo “Strada”, e i partecipanti sono piuttosto frustrati. Spiego i motivi dei fraintendimenti, i doppi sensi, il carattere
dei personaggi. Alla fine decido di tagliarne un pezzo. Faccio lo stesso con gli altri due, anche se sono sicura che sono
stati capiti meglio. Decido che lo spettacolo del gruppo “Strada” sarà il primo ad essere rappresentato. Distribuisco il
test di uscita.
12.15-13.00 Spettacolo. Il pubblico fa miracoli e tira fuori la grinta anche negli attori più titubanti. E’ interessante
vedere lo stupore degli stranieri a sentire gli italiani ridere per le battute.
Il gruppo “Strada” ottiene un successo forse maggiore degli altri due. Alla fine tutti ricevono applausi, anche gli
scenografi. Credo che dopo lo spettacolo “vero” i giudizi del test sarebbero stati diversi. Ma forse un giudizio a freddo è
più obiettivo di quello “a caldo”.
174
Appendice 1.2 Testi usati nella sperimentazione del 2004
Scambio italo-tedesco tra il liceo scientifico Piero Gobetti di Bagno a Ripoli e la Sophie Charlotte
Oberschule di Berlino (22 - 26 marzo 2004).
Il testo 1, “Il cacciatore sfortunato” era stato già messo in scena nel 2003 e tratto dalle “Favole al telefono” di Gianni
Rodari. Gli altri due testi, inventati dall'insegnante, hanno subito dei tagli durante la messa in scena: riportiamo quindi
la versione effettivamente utilizzata. Nel testo 2 “In città” si è pensato di scherzare sulla figura della “straniera”, dal
carattere fatuo e un po’ svanito, che naturalmente non capisce niente di quanto viene detto. Viste le difficoltà incontrate
nel recitarlo, riteniamo che fosse troppo difficile, specialmente con dei principianti. È vero che ha avuto molto successo
tra il pubblico, ma crediamo sarebbe meglio proporlo a un gruppo di apprendenti più competenti. Il testo 3 “Al bar” è
nato in seguito al racconto di un malinteso realmente accaduto ad alcune studentesse
SCENA I
mamma e Giuseppe
Presentatore Buongiorno a tutti! Io sono il presentatore. Lui è Giuseppe. Questa è la casa di Giuseppe.
Giuseppe abita in campagna. E’ un bravo cacciatore. Lei è la mamma di Giuseppe.
Mamma Prendi il fucile, Giuseppe, prendi il fucile e vai a caccia. Domani tua sorella si
sposa e vuole mangiare polenta e lepre.
Giuseppe Va bene mamma. A stasera!
SCENA II
Giuseppe poi lepre. Fucile. Oggetti: velo da sposa
(Der Fasan tritt ganz zufrieden und überaupt nicht beunruhigt vor. Er singt)
Presentatore Questa sembra una gallina, ma in realtà è un fagiano…
(Giuseppe schiesst auf den Fasan)
Fucile Pam! Pam! Ecc.
175
(Der Fasan läuft weg, aber kommt sofort wieder heraus: er hat im Schnabel etwas zum Essen )
fagiano Ciao! Io sono il fagiano Ugo. E tu, come ti chiami?
Giuseppe Giuseppe. Mia sorella vuole mangiare polenta… Ma che cosa fai?
Fagiano Porto il pranzo ai miei figli. Anche i miei figli devono mangiare. Arrivederci, saluta tua
sorella!!
(Der Fasan geht weg)
Giuseppe Ma allora, fucile, che succede?
Fucile Faccio sciopero! Sono per la pace e la non violenza!
Giuseppe Ho capito, stasera porto a casa due arrabbiature belle grasse. Chissà come sono buone con la
polenta!
Testo 2: In città
176
giovane Gi i emme…eh no, non ricominciamo!
Straniera Ma…dov’è il mio borsellino? Tu sei un ladro! Aiuto aiuto!
carabin. Che succede? Perché urla signorina?Forse questo giovane le dà noia?
Straniera (piange) Sììììì, perché io voglio andare a San Girmignano e non ho più il mio borsellino!
carabin. E’ vero giovanotto? Lei offende questa signorina e poi le ruba il borsellino?
giovane Ma no, no, io non sono un ladro, lo giuro!!!
carabin. Bene, è meglio se lei mi segue in commissariato.
giovane E di cosa sono accusato?
carabin. Di furto e molestie aggravate da incomprensioni varie.
Straniera Scusi, dove porta questo giovane?.
carabin. In commissariato. .
Straniera È malato?
carabin. No, i malati vanno in ospedale, lo porto in prigione!
straniera La stagione? Sììì, la pizza quattro stagioni! Mi piace!
carabin. In galera!
giovane Buona sera! (scappa)
carabin. Presto, presto, prendetelo, prendetelo! (fa per uscire dietro il ladro)
straniera Dove va? Non andiamo a mangiare la pizza quattro stagioni?
carabin. Ma sì, certo signorina, le offro una pizza e poi andiamo a fare la denuncia in commissariato.
straniera Che bello! Anche il gelato!
Testo 3: Al bar
personaggi
Barista
Primo cliente
Sec. cliente (straniero/a)
Carabiniere
Un bar con un bancone. Dietro al bancone c’è la scaffalatura con le bottiglie. Il barista è dietro il bancone.
Primo cliente Buongiorno.
Barista Buonasera!
Primo cliente Sera? Se sono solo le due di pomeriggio!
Barista Eh già, ma Lei non ha ancora pranzato?
Primo cliente Ho pranzato, e allora?
Barista E allora buonasera.
Primo cliente Ma non vede che è ancora giorno? Allora buongiorno!
Barista Ma lei, scusi, di dov’è?
Primo cliente Sono bolognese.
Barista E allora a Bologna può dire buongiorno, ma a Firenze deve dire buonasera subito dopo pranzo.
Primo cliente Va bene, va bene, vorrei un caffè per favore.
Barista Corretto?
Primo cliente No grazie.
Barista Macchiato?
Primo cliente No grazie.
Barista All’americana?
Primo cliente Ma non ho detto che sono di Bologna scusi?
Barista Lungo?
Primo cliente Nooo! Voglio solo un caffè normale, un espresso!
Barista Va bene, va bene, ho capito.
(Il barista si mette a fare il caffè)
Sec. cliente Buongiorno!
Barista E riecco il buongiorno! Be’, questo è straniero/a, poveretto, non è colpa sua. Buonasera!
Sec. cliente Buona..sera vorrei un caffè con il latte.
Barista Un caffellatte, un latte macchiato o un cappuccino?
Sec. cliente Mi scusi, ma qual è la differenza?
Primo cliente Un caffellatte è un caffè in un bicchiere di latte, un latte macchiato è un bicchiere di latte con un po’
di caffè e un cappuccino è un caffè espresso in tazza con un po’ di schiuma di latte…
Sec. cliente (Sono Pazzi Questi Italiani) Ehm, Lei cosa mi consiglia?
177
Primo cliente Il cappuccino è molto famoso tra gli stranieri, ma a chi non piace troppo il caffè consiglio un latte
macchiato.Sec. cliente Grazie. (Al barista) Allora … un latte macchiato per favore.
Barista Subito.
Primo cliente Allora...arrivederci.
Sec. cliente (Al barista) Avete qualcosa da mangiare?
Barista Desidera una pasta o preferisce un salato?
Sec. cliente Una pasta no, grazie, ho già pranzato.
Barista Ma che ha capito? Dico una pasta dolce, un cornetto, un bignè, un diplomatico.
Sec. cliente Voi mangiate i diplomatici?
Barista Certo, con la crema chantilly.
Sec. cliente Grazie, grazie, vorrei pagare…
Barista Prego, alla cassa.
Sec. cliente Allora arrivederci (fa per uscire).
Barista Ehi ehi, fermo, deve ancora pagare!
Sec. cliente Dove posso pagare?
Barista Deve andare alla cassa.
Sec. cliente Allora grazie, arrivederci!
Barista Ehi, fermo, polizia, polizia!
Carabiniere Alto là chi va là, cosa succede?
Barista Barista Questo/a farabutto non vuole pagare la consumazione!
Carabiniere Lei non vuole pagare la consumazione?
Sec. cliente Con… con..su..man …zione?
Carabiniere Non faccia lo spiritoso! Perché non paga il conto al barista?
Sec. cliente Ma io ho detto – posso pagare? – e lui ha risposto – deve andare alla casa.
Carabiniere E’ vero che lei ha detto al cliente di andare a casa?
Barista Ma non a casa, alla cassa, alla cassa!
Carabiniere Allora tutto è chiaro: Le ordino in nome della legge, di aggiungere
una esse alla casa e di pagare immediatamente!
Sec. cliente Ho capito ecco qua, quant’è?
Barista Settanta centesimi grazie.
Sec. cliente Arrivederci e buona..sera.
Barista Buonasera, buonasera.
Carabiniere E lei, signor barista, deve subito scrivere un cartello: PAGARE ALLA CASSA con due esse…da
appendere sul bancone.
178
Appendice 1.3 Programmazione della sperimentazione del 2006
Scambio italo-tedesco tra il liceo scientifico Piero Gobetti di Bagno a Ripoli e la Sophie Charlotte
Oberschule di Berlino (20-24 marzo 2006).
Lunedì 20/03
8.15-8.30 Arrivo a scuola con gli ospiti italiani. Breve visita dell’edificio scolastico.
Martedì 21/03
8.15 - 11.10 Funzioni Strutture
Chiedere e dire la nazionalità; parlare delle lingue Aggettivi; verbi: la prima coniugazione del
[3 ore]
conosciute; domande essenziali. presente regolare; presente del verbo avere; nomi:
maschili e femminili; domande; numeri ordinali.
11.25-12.15 Laboratorio burattini
Distribuzione delle carte dei burattini: comprensione della carta di identità e presentazione del proprio
[1 ora]
burattino. Primi dialoghi a coppie. Gioco: indovinare il personaggio da una descrizione.
Mercoledì 22/03
8.15 - 10.10 Funzioni Strutture
Chiedere e parlare di professioni e studi; chiedere Articolo indeterminativo e determinativo; verbi:
[2 ore]
e riferire di un indirizzo e dei numeri di telefono; la seconda e terza coniugazione del presente
ringraziare. regolare;
10.10-12.15 Laboratorio burattini
Distribuzione dei burattini: primi dialoghi a coppie di fronte ai compagni dove si cerca di interpretare
[2 ore]
il personaggio: attenzione alla pronuncia, al timbro vocale, alla prosodia.
Espressioni per esprimere i sentimenti. Costituzione di gruppi e distribuzione dei “copioni” ogni tre
studenti. I gruppi scrivono i dialoghi che vengono corretti e recitati una prima volta.
Venerdì 24/03
8.15 - 10.10 Funzioni Strutture
Presentare qualcuno in modo formale/informale; Nomi e aggettivi singolari e plurali; articoli al
[2 ore]
descrivere una persona; identificare qualcuno plurale; presente di alcuni verbi irregolari.
sulla base di una descrizione fisica.
1010-11.10 Laboratorio burattini
Prove dello spettacolo in teatro
[1 ora]
11.20-12.15 Spettacolo
[1 ora]
179
Appendice 1.4 Copioni usati nella sperimentazione del 2006
Scambio italo-tedesco tra il liceo scientifico Piero Gobetti di Bagno a Ripoli e la Sophie Charlotte
Oberschule di Berlino (20-24 marzo 2006).
Qui di seguito i copioni per la messa in scena delle storie rappresentate nella sperimentazione del 2006. Ogni copione
ha come tema un sentimento al quale sono collegate delle espressioni che erano state elaborate assieme agli studenti.
Ogni storia contiene una descrizione. Gli studenti, divisi in gruppi, dovevano in primo luogo cercare di comprendere il
testo delle storie con l'aiuto del vocabolario. In seguito dovevano scrivere i dialoghi sulla base della storia proposta e
con l'aiuto delle “espressioni utili”.
Scena II Entra il drago. Pulcinella crede che è un cane. Dialogo tra Pulcinella e il cane (es. cosa vuoi? Hai
fame anche tu?) Anche il drago ha fame. Pulcinella non ha niente da mangiare. Il drago morde
(beißt) Pulcinella. Pulcinella urla (schreit). Il drago sente arrivare il carabiniere e scappa (läuft weg).
Scena III Il carabiniere chiede a Pulcinella che cosa succede (passiert). Pulcinella descrive il drago (ma pensa
che è un cane). Il carabiniere si meraviglia.
Scena IV Arriva il drago (ho fame ho fame). Pulcinella e il carabiniere scappano. Pulcinella torna (kommt
zurück) e bastona il drago.
Scheda 2: Tristezza
Scena I Ciccina e il Beduino si dichiarano il loro amore. Sono infelici e si disperano perché se Piromanillo sa
del loro amore dà fuoco a tutti e due..
Scena II Arriva Piromanillo e il beduino scappa. Ma Piromanillo lo vede e chiede a Ciccina chi è.
Descrizione. Piromanillo va a cercare il Beduino per dargli fuoco.
Scena III Ciccina sola è molto triste.
Scena IV Arriva il Beduino e porta via Ciccina con il suo cammello.
180
Scheda 3: Timidezza
Scena I Il 6 gennaio la Befana vuole portare un regalo a Tonino. Chiede a Tonino cosa vuole. Lui vuole
(vorrei, vorrei…) un gatto o un cane (descrizione). Tonino è molto timido e la Befana capisce solo
che Tonino vuole un animale.
Scena II La Befana va a casa. A casa c’è l’Asino. La Befana chiede all’Asino se ci sono ancora animali per i
bambini. L’asino dice che i gatti e i cani sono finiti, e anche i criceti e i pesci rossi, e le tartarughe e i
pappagallini…. C’è solo l’Asino.
Scena III La Befana ritorna da Tonino. Regala l’Asino a Tonino. Tonino ringrazia.
Scena IV Tonino chiede all’Asino “fai miao!!” E l’Asino “Hi Ho!” ecc.
Scena I Teresina è innamorata (ist verliebt) del Sole. Gioia. Dichiara al Sole il suo amore. Il Sole dice che
non possono amarsi, perché lui è troppo caldo.
Scena III Arriva Aziz che consola (tröstet) Teresina (Non devi essere triste! Guarda che bella giornata! ecc.).
Chiede chi è il suo innamorato. Teresina descrive il Sole.Teresina si innamora di Aziz. Aziz rivela
(offenbart) a Teresina di essere il Sole. Teresina e Aziz sono felici
181
Scheda 5: Paura
Scena II Arriva Giovanni che vuole sparare (schießen) a Bianchino. Ma Bianchino chiede molto gentilmente
se sa dov’è la volpe. Descrive la volpe Rosa. Va via.
Scena III Giovanni è solo e si arrabbia (vedi scheda 6) (Adesso trovo la volpe e le sparo!).
Scena IV Arriva Rosa. Saluta gentilmente. Chiede se sa dov’è Bianchino. Descrive il coniglio. Giovanni
risponde (è andato di là!). Rosa ringrazia e va via.
Scheda 6: Rabbia
Scena I Gino e Giustina sono felici insieme (vedi scheda 4) anche se sono poveri (arm). Alì sente che sono
felici e pensa che sono molto ricchi (reich). Gino va a lavorare.
Scena II Alì è felice e vuole andare a rubare (stehlen) prende un sacco già pieno (schon voll) di oro. Bussa e
Giustina lo lascia entrare (permesso? posso entrare? Avanti! avanti!). Alì dice di essere un venditore.
Vede che Giustina e Gino sono poveri ed è molto arrabbiato. Giustina offre caffè, cioccolata,
caramelle…Alla fine (schliesslich) Alì va via. È così arrabbiato che dimentica (vergiesst) il sacco.
Scena III Gino torna dal lavoro. Gino e Giustina aprono il sacco. Trovano l’oro e sono molto contenti!
182
Appendice 1.5 Programmazione della sperimentazione del 2008
Scambio italo-tedesco tra il liceo scientifico Piero Gobetti di Bagno a Ripoli e la Sophie Cahrlotte
Oberschule di Berlino (25-29 febbraio 2008)
Lunedì 25/02
8.15-8.30 Arrivo a scuola con gli ospiti italiani. Breve visitadell’edificio scolastico.
Funzioni Strutture
salutare, presentarsi, domandare come si chiama, alfabeto, pronomi personali, chiamare, no, non..., essere, stare.
sillabare, affermare, negare, chiedere come stai/sta.
8.30-9.30 Spiego il progetto del corso. Presentazioni. Introduzione alfabeto e gruppi fonetici. Di dove sei? Cosa
[1 ora] studi?
11.25-12.15 Chi non ha finito continua a costruire i burattini, chi ha finito riempie delle schede con la carta di
identità del burattino. Primi piccoli dialoghi a coppie: come si chiama, quanti anni ha, di dov'è, cosa
[1 ora]
fa, come sta, ti piace/le piace ecc., ha fame, sete, sonno, è stanco, ha bisogno di, dove abita .
Giovedì 28/02
Funzioni Strutture
raccontare, esprimere sentimenti, funzioni lingui- verbi modali, qualche forma del passato .
stiche e lessico che emergono dalle scenette.
8.20-9.15 Rilassamento, fonetica. Ripetizione: ognuno scrive tre parole o frasi che ha imparato e si mettono in
comune.
[1 ora]
9.15–10.10 Costruiamo una storia: elementi della storia dei burattini . Si dividono in gruppi con: protagonista/i
antagonista aiutante. Costruiamo una storia: formazione definitiva dei gruppi. Ideazione e narrazione
[1 ora]
della storia.
10.20-11.10 Sceneggiatura e costruzione dialoghi.
183
11.25-12.15 Prima recitazione delle storie. Qualcuno finisce solo ora di costruire i burattini e di creare i dialoghi.
Venerdì 29/02
8.20-8.40 Rilassamento e fonetica. Revisione.
[1/2 ora]
8.40–10.10 Recitazione delle storie e conclusione della sceneggiatura per chi non aveva ancora finito.
Organizzazione degli oggetti di scena e definizione dei movimenti.
[2.30 ore]
184
Appendice 1.6 Questionario utilizzato nelle sperimentazioni con adolescenti1
1. Geben Sie ein Urteil über den Sprachkurs ab. Wählen sie eine Nummer zwischen 1 (Minimum) und 5
(Maximum).
Italilenischunterricht ___________________
das Lehrbuch ___________________
die Übungen ___________________
das Puppenlabor ___________________
die Darstellung2 ___________________
4. Haben Sie sich beurteilt gefühlt von den deutschen Kollegen? ja nein ziemlich
von den italienische Kollegen? ja nein ziemlich
von dem Lehrer? ja nein ziemlich
Hat es Ihnen gefallen mit den Kollegen zusammenzuarbeiten? ja nein ziemlich 5
1 Il seguente questionario è stato sottoposto agli studenti, con lievi modifiche, nelle sperimentazioni del 2004, 2006 e 2008.
2 Esprimi un giudizio con un voto da 1 a 5 su: il corso di italiano (lezioni frontali); il manuale; le esercitazioni; il laboratorio di
burattini; la rappresentazione. Nella versione del 2008 non erano presenti le prime tre voci.
3 L’attività di preparazione dello spettacolo è stata per te: troppo difficile; difficile ma possibile; adeguata alle tue capacità; facile;
troppo facile; interessante; noiosa.
4 Ti sei preparato per fare bene la tua parte? sì – no - abbastanza. Come ti sei sentito durante la rappresentazione? tranquillo –
emozionato – imbarazzato; Pensi di essere stato bravo? sì- no – abbastanza; Pensi che la rappresentazione nel suo complesso
abbia avuto successo? sì - no – abbastanza;
5 Ti sei sentito giudicato dai tuoi compagni tedeschi? sì - no – abbastanza; - dai colleghi italiani? sì - no – abbastanza; -
dall’insegnante? sì – no – abbastanza. Ti è piaciuto collaborare con i compagni? sì – no- abbastanza.
6 L’insegnante è stato: direttivo - frustrante – aiutante - comprensivo.
7 Creare uno spettacolo è stato: utile per l’apprendimento della lingua; - migliorare la pronuncia; - comprendere meglio la
grammatica; - comprendere meglio la mentalità italiana; non è stato utile.
185
Appendice 1.7 Test lessicale (2002 e 2008)
Schede utilizzate nelle prove di comprensione del lessico alla fine del corso del 2002 e del 2008
nell'ambito dello scambio italo-tedesco tra il liceo scientifico Piero Gobetti di Bagno a Ripoli e la
Sophie Charlotte Oberschule di Berlino
Si tratta di 68 item formati da parole singole o brevi espressioni italiane di cui gli apprendenti dovevano fornire una
espressione equivalente corretta in tedesco. Il test riguarda l'abilità di comprensione scritta ma anche la competenza
semantica segnalata dalla corretta traduzione nella L1. Nel 2002 lo scambio non prevedeva il laboratorio di burattini e il
lessico selezionato riguardava solo le prime 4 lezioni del manuale. 1 Nel 2008 sono stati variati 11 item in relazione al
lessico parzialmente diverso utilizzato nel corso-laboratorio. Gli item diversi nelle due prove sono evidenziati in
corsivo.
1 Maria Martorana-Frank, Mattias Frank, Allora Andiamo! Langenscheidt, Berlin und München 1999.
186
Scheda utilizzata nel corso del 2008
Espressione italiana Espressione tedesca Espressione italiana Espressione tedesca
buon giorno andiamo al bar!
buona sera allora, andiamo!
notte Anna suona la chitarra
ciao Maria e Luisa leggono un libro
come ti chiami Luigi scrive una lettera
mi chiamo la penna
quanti anni hai? hai un pennarello?
ho diciassette anni ho bisogno di un foglio
di dove sei? vorrei un cappuccino
come si scrive? quanto costa?
le forbici venticinque
la spillatrice undici
la colla otto
i fogli inverno
il libro ridi sempre!
sole Eva va a letto
topo sto bene
coccodrillo sto male
pinguino sono americano
pesce cane sono tedesca
Alberto mangia un panino noi cantiamo una canzone
Carla dorme Marina gioca a palla
io corro il tavolo rosso
loro sono italiani la sedia verde
hai sete? quattro
hai sonno? cinque
come sta? diciotto euro
come stai? per favore
siete stanchi? a domani!
ho fame scusa!
grazie piacere di conoscerti
dammi la penna ecco!
sei pronto? la finestra
Sandra beve un'aranciata Luca guarda la televisione
187
Appendice 2. Sperimentazione con giovani-adulti
È stata fatta una presentazione in inglese con power point rivolta a tutti gli studenti del Summer Course (circa 30) al fine
di spiegare il contenuto del laboratorio. Al termine della presentazione si sono iscritte 4 studentesse che poi hanno
seguito con costanza il laboratorio.
Primo incontro:
• Iniziamo col rilassamento e gli esercizi di respirazione, come faremo anche in tutti gli altri incontri. Siccome
tre delle 4 studentesse sono principianti assolute, le istruzioni vengono date prima in italiano e poi in inglese
(per es. chiudete gli occhi – close the eyes – e trovate una posizione comoda – find a relaxed position ...). A
seguito degli esercizi di respirazione vengono proposti alcuni esercizi di vocalizzazioni dove si richiede di
esagerare molto la posizione delle labbra (una delle maggiori difficoltà degli anglofoni, infatti, è
l'identificazione dei suoni vocalici italiani che non corrispondono a quelli della loro lingua madre).
• Per creare un'atmosfera positiva nel gruppo viene proposto un esercizio classico, quello della “Camminata”. Si
tratta di camminare per la stanza (appropriazione dello spazio) accelerando il passo o meno (consapevolezza
corporea) e salutando poi gli altri partecipanti in vari modi: formale, informale, dandosi la mano, esprimendo
sentimenti di sorpresa, ostilità, ecc (appropriazione dello spazio sociale). L'insegnante partecipa all'attività.
• Animazione oggetti: vengono distribuiti alcuni oggetti presenti in classe (un libro, una penna ecc.) Ognuno
deve poggiare a terra il proprio oggetto e poi riprenderlo come se fosse qualcosa di molto delicato e
importante, qualcosa di molto amato. L'oggetto viene “cullato” e poi passato al compagno nominandolo con un
tono che indichi il nostro sentimento nei suoi confronti. Il compagno ringrazia esprimendo identico sentimento.
Facciamo lo stesso considerando gli oggetti volta a volta qualcosa di pericoloso, schifoso ecc.
• Ognuno attribuisce un'identità al proprio oggetto e la descrive agli altri con l'aiuto di una scheda di lavoro.
Secondo incontro:
• Rifacciamo il rilassamento come la prima volta, ma questa volta solo in italiano. Dopo la vocalizzazione
vengono introdotti per la prima volta gruppi sillabici (/ka/ /ko/ /ku/ /ki/ /ke/; /ba/ /bo/ /bu/ /bi/ /be/; ecc.) e poi
le consonanti geminate pronunciate ritmicamente (/ba/ /ba/ - /ba/ /ba/ - /babba/ /babba/ /babba/ /babba/; /ma/
/ma/ - /ma/ /ma/ - /mamma/ /mamma/ /mamma/ /mamma/; ecc.)
• Costruzione del personaggio: riprendiamo le schede dei personaggi fatte la volta precedente e continuiamo la
presentazione. A ogni personaggio viene attribuito un carattere e una voce.
• Le studentesse visionano dei videoclip di burattini dove si mettono in luce alcune caratteristiche specifiche di
questo genere di spettacolo: il carattere universale (burattini iraniani), la presenza di canto, ritmo, la presenza
di un eroe e di un antagonista (guarattelle napoletane), il movimento della mano (burattini cinesi).
• Le studentesse ricevono una scheda per la costruzione della storia che presenta alcune funzioni universali come
quelle individuate da Propp per la fiaba. Leggiamo insieme la scheda. A casa hanno il compito di discutere e
decidere, con l'aiuto delle schede, la storia da rappresentare, partendo dai personaggi nati nel corso della
drammatizzazione di oggetti e tenendo in considerazione gli elementi individuati nei videoclip.
Terzo incontro:
• Le studentesse iniziano a raccontare la storia che hanno pensato insieme. La storia viene esposta
prevalentemente dalla studentessa che ha una maggiore competenza in italiano, ma le altre partecipano
attivamente. I termini sconosciuti vengono scritti sulla lavagna.
• Il rilassamento avviene questa volta dopo la narrazione della storia, anche perché una studentessa arriva in
ritardo e decidiamo di aspettarla. Dopo la vocalizzazione le studentesse hanno il compito di ripetere, con un
solo respiro, una frase inizialmente breve che poi si allunga sempre più attraverso espansioni (sono andata al
cinema; sono andata al cinema con bianca; sono andata al cinema con la mia amica bianca; sono andata al
cinema con la mia amica bianca a vedere un film ecc.)
• Pronunciamo la frase con toni diversi.
• Cominciamo a far parlare i personaggi della storia. Ognuno si presenta con un tono di voce caratteristico scelto
per il personaggio. Ci esercitiamo a ripetere le presentazioni con il tono stabilito per ogni burattino.
• Allestiamo il laboratorio per costruire le figure. Ci sono molti materiali ognuno con una etichetta: forbici,
colla, carta, pennarelli ecc. Vengono distribuiti sul tavolo e le studentesse sono invitate a memorizzare i nomi
per 3 minuti. A turno ripetono i nomi memorizzati.
• L'insegnante fornisce istruzioni verbali per la costruzione del burattino (di carta). Le studentesse eseguono. Se
188
non è necessario non vengono date dimostrazioni pratiche delle attività richieste in modo da esercitare la loro
abilità di comprensione. Vengono introdotte e fissate alcune forme che loro potrebbero utilizzare nella
comunicazione come: ho bisogno di, mi dai.., vorrei..., ecc.
Quarto incontro:
• Rlassamento e respirazione. Vocalizzazioni. Le studentesse devono ripetere una filastrocca prima a bassa voce
poi a volume sempre più alto.
• Sulla base della storia che le studentesse hanno raccontato, cerchiamo di improvvisare dei dialoghi che
scriviamo. Purtroppo non c'era il tempo per fare il lavoro di registrazione e autocorrezione dei dialoghi e alla
fine il testo definitivo è stato scritto dall'insegnante che lo ha spedito alle studentesse via mail in modo che
potessero cominciare a studiarlo durante la settimana.
• Cominciamo a provare le varie scene sia a coppie che tutti insieme
Quinto incontro
• Rilassamento.
• Prove di recitazione nel teatro.
• Spettacolo di fronte ai compagni che arrivano nell'ultima mezz'ora.
• Rinfresco.
189
Appendice 2.2 Testo prodotto dalle studentesse della Vanderbilt University
Puppetry Workshop (11 giugno - 23 luglio 2007) svolto durante il Summer Course 2007 organizzato da
CET Academic Programs a Firenze per la Vanderbilt University (Nashville, Tennessee).
Il Ciccione
Scena I
Filippo – Buonasera, benvenuti nella mia cucina. Mi chiamo Filippo e sono un cuoco bravissimo. Ma ora devo
lavorare, preparo gli spaghetti alla carbonara e il tiramisù. Gli spaghetti ci sono, le uova ci sono, la pancetta
c'è...manca il sale! Chiamo mia moglie...Francesca, Francesca....aiutatemi a chiamare Francesca!
(tutti chiamano Francesca e lei arriva)
Francesca – Eccomi, eccomi...cosa vuoi amore mio?
Filippo – Ho bisogno del sale per favore!
Francesca – Sì, caro...vado subito (bacio) ...Stasera usciamo? Ti va di andare al cinema?
Filippo – Certo, mio amore, che bella idea! Perfetto!
(Francesca e Filippo escono)
Scena II
Mario – Che fame! Ho fame!, ho fame, ho bisogno di mangiare...dov'è il cibo? C'è qualcosa da mangiare? Qui non c'è
niente...e nemmeno qui! Ho fame....ah ecco, mmm, sembra buono (mangia il cibo del cane)
Rocco – Il mio cibo!!! Mario che fai?? Stai mangiando il mio cibo!!!! Dov'è il mio cibo?
Mario – Non lo so...
(il cane odora Mario, Mario scappa e il cane lo rincorre)
Rocco – Povero me! Mario ha mangiato tutto il mio cibo! E io ho fame...che fame! Bau bau uuuuuuh! Adesso chiamo
la mia padrona, Francesca. Francesca Francesca!
Scena III
Scena IV
Mario – Ciao Francesca! Come stai? Ti sono mancato?? Ho fame, ho molta, molta fame...Dov'è Filippo?
Francesca – Mario, non puoi mangiare il cibo del cane! Non vedi come sei grasso?
Mario – Ma io ho fame, ho molta, molta fame...cosa prepara Filippo stasera? Mmmm, sento un profumino!
Francesca – Spaghetti alla carbonara...
Mario – e....
Francesca – e tiramisù.
Mario – e...
Francesca – E spaghetti alla carbonara!
Mario – e...
Francesca – e tiramisù
Mario – e...
Francesca - e basta!!
Mario – che cos'è, un nuovo piatto?
Francesca – Nooooo! Ho detto BASTA, non ti bastano gli spaghetti alla carbonara e il tiramisù?
Mario – Ma manca il secondo! E il contorno! No, non mi basta, voglio il secondo e il contorno!
Francesca – Ma stasera Filippo e io vogliamo uscire!
Mario – E io voglio mangiare!
190
Scena V
(Mario è a tavola con molto cibo sul piatto e mangia. Entra Rocco e annusa rumorosamente)
Rocco – Per favore, vorrei un po' di spaghetti.....
Mario – No, sono miei!
Rocco – Un pezzettino di pancetta!
Mario – No, è mia!
Rocco – Un bocconcino di tiramisù!
Mario – No, è mio!
Rocco – Un gocciolino d'acqua!
Mario – No! E' mia anche l'acqua! E' tutto, tutto mio, CAPITO?????
Rocco – Maledizione, Mario, dammi qualcosa da mangiare, prima hai mangiato tutto il mio cibo!
Mario – Aspetta un momento....quasi quasi mangio anche te!
Rocco – No, Mario, aspetta! Sono troppo magro! Sono pieno di ossa e peli! Sono pieno di pulci...sono cattivo da
mangiare...Mario!!!!
(Mario rincorre il cane e lo mangia)
Scena VI
Scena VII
Francesca – Rocco! Rocco! Dove sei? Vieni qui cagnolino mio bello vieni qui!
(entra Mario)
Francesca – Mario, hai visto Rocco? Lo cerco da un'ora e non lo trovo!
Mario – Non lo so....
(Rocco abbaia nella pancia di Mario)
Francesca – Sento abbaiare! Mario, non mi dire che hai mangiato Rocco!
Mario – Non lo so...com'era il tuo cane? Forse era marrone con gli occhi gialli?
Francesca – Mario, non è possibile!
Mario – Come?
Francesca – Rocco, aspetta! Ti salvo io! (prende il mattarello e picchia Mario. Mario muore e il cane torna fuori)
Scena VIII
191
Appendice 2.3 Matrici progressive
Test di intelligenza somministrato a 10 apprendenti del Benedectine College (Atchison, Kansas) 5 dei
quali frequentavano il Puppetry Workshop (5 marzo - 15 aprile 2008) nella struttura residenziale di
villa Morghen, a Settignano (Firenze), presso il Tolomei Cultural Institute, dove svolgevano il
programma per lo Spring Semester 2008.
Il test di intelligenza, somministrato agli apprendenti per valutare la loro attitudine all'apprendimento linguistico
correlata a una intelligenza fluida, sono le matrici di Raven, dette anche progressive matrici. Si tratta di un test utilizzato
per la misurazione dell'intelligenza non verbale. Questo test non fa riferimento alla comprensione linguistica, né nella
comprensione del compito, né nella risposta e necessita inoltre di un minimo di istruzioni verbali da parte del
somministratore.
John Carlyle Raven pubblicò il test per la prima volta nel 1938 nel Regno Unito, ed esso è stato utilizzato con un alto
numero di soggetti di diverse età; per questo motivo la sua valutazione psicometrica è considerata tra le più attendibili.1
Esistono 3 tipi di matrici: Progressive Matrici Colore, per bambini; Progressive Matrici Standard, detta anche Serie II,
da 6 a 80 anni (36 schede); Progressive Matrici Avanzate per adolescenti e adulti (Serie I), la versione da noi utilizzata
(12 schede). Tutte le matrici consistono di un certo numero di schede in ciascuna delle quali viene richiesto di
completare una serie di figure con una mancante (fig.1). La serie di item diventa sempre più difficile, richiedendo una
sempre maggiore capacità di analisi, codifica, interpretazione e comprensione.
Figura 1 - Radattamento della prima scheda delle APM (Advanced Progressive Matrices).
Nel manuale per la somministrazione delle matrici (Raven 1969) si valuta che la Serie I sia altamente attendibile nel
caso di adolescenti e adulti. Essa può essere eventualmente fatta seguire dalla Serie II che prevede un numero maggiore
di item e richiede almeno un'ora per l'esecuzione. Il tempo richiesto per la Serie I è molto minore, sono sufficienti infatti
10-15 minuti per la somministrazione, e, data la scarsità del tempo a nostra disposizione, ci è sembrato fosse più adatta
alle nostre esigenze. Il manuale consiglia di far eseguire la prima prova come esemplificazione e di non calcolarla nel
1 Esistono vari test (alcuni anche reperibili online) simili alle matrici di Raven, che, pur essendo magari validi e attendibili, non
restituiscono un dato utilizzabile poiché non si può far riferimento a dati normativi di riferimento e alla suddivisione o
stratificazione del campione normativo.
192
punteggio. Seguendo queste istruzioni abbiamo somministrato il test a tutta la classe (14 studenti) dedicando circa 5
minuti all'esemplificazione della prima prova e 10 minuti all'esecuzione del test. Agli studenti erano stati distribuiti dei
fogli contenenti le schede numerate e un foglio a parte con i numeri delle schede accanto ai quali dovevano scrivere le
risposte. Tutti hanno consegnato le risposte entro i 10 minuti previsti. Nella tabella 1 è possibile vedere i risultati dei
test del Gruppo P e del Gruppo C ordinati secondo i tempi di consegna.
Tabella1: Risposte esatte al test di Raven nei due gruppi e tempi di consegna .
Gruppo P Gruppo C
Numero di risposte esatte (su 11 Minuti passati dall'inizio del test Numero di risposte esatte (su 11 Minuti passati dall'inizio del test
item) item)
8 5 8 5
10 5 9 5
11 6/7 10 5
10 7 9 9/10
10 9 10 10
Per quello che riguarda la valutazione delle prove, concernente la nostra indagine, possono bastare le indicazioni
presenti nel manuale (Raven 1969:12):
Le persone di livello mentale scadente incontrano difficoltà nelle prime cinque prove, e ad eccezione di una
soluzione dovuta al caso, il loro punteggio totale nella Serie è minore a 6. Persone di livello “medio” non
incontrano difficoltà nelle prime quattro prove, fanno errori nelle prove dal 5 al 10 e di rado risolvono le ultime
due prove della Serie. Le persone di intelligenza “ottima” capiscono rapidamente il principio e, ad eccezione di
un possibile errore per trascuratezza di metodo, di rado sbagliano più di una prova.
Queste indicazioni ci hanno permesso di selezionare per il Gruppo C i 5 studenti con risultati più omogenei a quelli del
gruppo P, eliminando i tre risultati più scarsi. Nonostante ciò le prove del Gruppo P sono rimaste in media leggermente
migliori di quelli del Gruppo C (il numero di risposte esatte in percentuale del Gruppo P è 89,09 contro le 83,63 del
Gruppo C). Inoltre quelli che avevano dato risposte esatte nelle prove 11 e 12, significative per definire una intelligenza
“ottima” erano in numero maggiore nel Gruppo P (tab.2). Comunque tutti gli studenti nei due gruppi si distribuiscono
nella fascia medio/ottima. Nessuno studente del gruppo C e 3 studenti del Gruppo P hanno invece risolto correttamente
entrambe le prove 11 e 12. Anche questo risultato mostra una superiorità del Gruppo P in questo tipo di prova.
193
Appendice 2.4 Programmazione della sperimentazione al Benedectine College
Programmazione del Puppetry Workshop (5 marzo - 15 aprile 2008) per gli studenti del Benedectine
College (Atchison, Kansas) che frequentavano programma per lo Spring Semester 2008 presso il
Tolomei Cultural Institute nella struttura residenziale di villa Morghen a Settignano (Firenze).
194
RIPETERE con un solo respiro una frase sempre più lunga: MP
andiamo
adesso andiamo
adesso andiamo in città
adesso andiamo tutti insieme in città
adesso andiamo tutti insieme in città a prendere un gelato
adesso andiamo tutti insieme in città a prendere un gelato con panna
...
COSTRUZIONE DELLE STORIE MS
partire dai pupazzi: come si chiama, quanti anni ha (numeri) di dov'è, cosa fa, come sta, ti
piace/le piace ecc., ha fame, sete, sonno, è stanco, ha bisogno di, dove abita ....
MUOVERE I PUPAZZI MS
1. esercizi per imparare a “guardare” con la mano
2. piccoli dialoghi tra i pupazzi (a coppie)
SETTIMA ORA (7/04)
(Discutiamo dei prossimi appuntamenti) MS
COSTRUZIONE DELLE STORIE
1. elementi della storia dei burattini
2. formazione dei gruppi con: protagonista/i antagonista aiutante
COSTRUZIONE DELLE STORIE MS
1. formazione definitiva dei gruppi
2. ideazione e narrazione della storia
OTTAVA ORA (10/04)
COSTRUZIONE DELLE STORIE MS
1. drammatizzazione delle storie
2. introduzione di brevi filastrocche-scioglilingua
NONA ORA (14/04)
COSTRUZIONE DELLE STORIE MS
1. sceneggiatura
2. correzione dialoghi e loro memorizzazione
3. recitazione in teatro col testo
4. recitazione in teatro senza testo
DECIMA ORA (14/04)SERA
SPETTACOLO SPET
195
Appendice 2.5 Testi prodotti dagli studenti del Benedectine College
Testi prodotti durante il Puppetry Workshop (5 marzo - 15 aprile 2008) dagli studenti del Benedectine
College (Atchison, Kansas) che frequentavano programma per lo Spring Semester 2008 presso il
Tolomei Cultural Institute nella struttura residenziale di villa Morghen a Settignano (Firenze).
Di seguito riportiamo i testi scritti e poi recitati dagli apprendenti del Benedectine College. I testi sono la fedele
trascrizione dei copioni prodotti dagli apprendenti dopo la correzione orale dell'insegnante.
Testo 1
Corruzione della maestra
Scena I : Scuola
Act 1
Maestra Uno per uno trento e belluno, uno per due bistecca di bue, un per tre evviva il re, un per quattro
passa il gatto
Freddino Non ascolta e launchare papel a Lily
Lily ignora maestra, diche a Freddino dismettere
Maestra Freddino, BASTA!!
Freddino Non volevo..
Maestra Freddino, scusati con Lily
Freddino No, non volio!
Maestra Freddino....
Freddino Scusami Lily
Maestra Freddino, dime, quanto fa 2 + 2?
Freddino 14
Lily No, stupido
Maestra Lily, dime, quanto fa 2 + 2?
Lily
Maestra Brava Lily
(Suona campanella)
Act 2
Scena II Ristorante
196
Testo 2
La bella e la bestia
Scena: Spiaggia
Beth È una bella giornata, dobbiamo andare alla spiaggia, anche perché voglio trovarsi un amico. Ho un regalo per
lui, un'arancia Adesso mangio la rancia. Mi piace mangiare frutte.
Polly Certo! Ci andiamo. Forse alla spiaggia si incontrerò il mio amore, il mio principo!
Beth Ma chi vuole n'anatra per una moglie?
Polly Il principe de mei suoni.
Glad. Eccola! È la mia arancia! Hai rubato la mia arancia
Polly No! Ho preso l'arancia per il mio amico
Glad. Chi è il tuo amico?
Polly Aspetta! Ma chi sei? Perché stai urlando a Beth?
Glad. Io sono il gladiatore! Questa è la mia spiaggia. Sto urlando perché lei ha rubato la mia arancia. Allora, per
questo, tolgo la tua mano!
Polly No! Non puoi togliare la sua mano.
Mostro Ah,ciao Beth. Come stai? Chi sono i tuoi amici?
Glad. Io non sono tuo amico. Sono un nemico grande con lei, ma siamo più nemici, perché tu sei il mostro del
mare!
Polly Mi fa paura! Beth, non sapevo che il tuo amico è un mostro! Mi aiuti gladiatore!
Beth Basta! Non capite! Mio amico, il mostro è bravo e simpatico. Gladiatore, puoi avere l'arancia.
Glad. No! Combatterò per l'arancia. Prepara per morire!
Polly Stai attento!
Mostro Perché dobbiamo combattere?
Glad. Perché siamo nemici e i voglio l'arancia
FIGHT
Beth e Polly No, basta....
Mostro Sono morto!
Glad. Ho vinto! Ecco la testa del mostro per te!
Polly Grazie mille! È stupendo
Glad. Adesso, mi sposi?
Polly Si, certo, il mio gladiatore
Beth Tutto per una arancia. È un peccato.
Mostro Non ti preoccupata. Sono qui! In fatti io sono un mostro magico, non posso morire.
Beth Ah! È un miracolo! Ti ho portato questa arancia.
Mostro Grazie! Ho molto fame. Dov'e i tuoi amici, l'anatra e il gladiatore.
Beth Loro sono innamorati
Mostro Al fine, tutto stanno bene. Sono molto contento. Adesso mangiamo l'arancia insieme
197
Appendice 2.6 Prova 1 e 2: test lessicali usati al Benedectine College
Puppetry Workshop (5 marzo - 15 aprile 2008) con gli studenti del Benedectine College (Atchison,
Kansas) che frequentavano programma per lo Spring Semester 2008 presso il Tolomei Cultural
Institute nella struttura residenziale di villa Morghen a Settignano (Firenze).
Prova 1 di riconoscimento del lessico scolastico somministrata al Gruppo P e al gruppo C. Il lessico è tratto dal libro di
testo utilizzato.1 La prova è stata somministrata l'ultimo giorno del corso contestualmente al final test. Gli studenti
dovevano scrivere accanto a ogni espressione un'espressione corrispondente in inglese (cfr. § 4.3.2.4 ).
Prova 2 di riconoscimento del lessico del laboratorio somministrata al solo gruppo P. Il lessico è tratto da quello
utilizzato durante la costruzione dei burattini. La prova è stata somministrata contestualmente il final test
immediatamente dopo la prova di riconoscimento del lessico scolastico.
198
Appendice 2.7 Trascrizioni interviste finali agli studenti del Benedectine College
Puppetry Workshop 5 marzo - 15 aprile 2008. Trascrizioni e marcatura delle interviste registrate degli
studenti del Benedectine College (Atchison, Kansas) alla fine dello Spring Semester 2008 frequentato
presso il Tolomei Cultural Institute nella struttura residenziale di villa Morghen a Settignano (Firenze).
Sequenze utilizzate per determinare l'indice di fluenza1.
Qui di seguito la trascrizione delle interviste agli apprendenti dei due gruppi. La sigla del nome viene contrassegnata
con P o con C a seconda che l'apprendente appartenga al Gruppo P o al Gruppo C. Alla fine di ciascuna intervista viene
riportata la/le sequenze dalla quali è stato tratto l'indice di fluenza. Sono state utilizzate le seguenti sigle per segnalare la
presenza, alcune solamente in negativo, altre in positivo o in negativo (+ o -) degli indicatori linguistici da identificare
nelle interviste (per i dettagli sul significato degli indicatori rimandiamo al § 4.3.2.4):
Per la trascrizione delle interviste abbiamo adottato le convenzioni del progetto Pavia (Andorno 2001) 2 parzialmente
riadattate nel progetto Teacher Talk curato dalla prof.ssa Diadori presso l'Università per stranieri di Siena. La
trascrizione delle parole avviene secondo le convenzioni ortografiche dell'italiano o della lingua usata. Se una parola è
pronunciata in modo diverso dall'italiano ciò viene reso seguendo il normale sistema grafematico italiano (per es.
scrivendo “pelò” al posto di “però”). Per chiarezza talvolta viene aggiunta fra parentesi quadre la parola italiana
effettiva: (p.es. pelò [però]). Le parole in lingua straniera sono trascritte fra due asterischi. Non si usano il punto e
virgola e i due punti. La maiuscola indica solo i nomi propri o l'inizio di un nuovo enunciato. Nella colonna a sinistra
sono riportati, mediante un numero progressivo, i turni di parola, allo scopo di facilitare i riferimenti nel commento.
Convenzioni di trascrizione
nome dell'interlocutore fra barre oblique \INS\
fine di enunciato interrogativo indicato con un punto interrogativo enunciato?
fine di enunciato esclamativo o enfasi indicati con un punto interrogativo enunciato!
cesura intonativa senza pausa indicato con una virgola enunciato,
fine di enunciato con intonazione discendente indicato con un punto enunciato.
pausa breve (massimo un secondo) +
pausa media (da uno a tre secondi) ++
pausa lunga (più di tre secondi) +++
intonazione sospensiva indicata da una linea dopo la sillaba finale di parola parola-
inizio e fine di discorso senza pausa fra parlanti diversi (segno = poi a capo con segno = e testo =
continuazione del discorso del secondo interlocutore) = testo
inizio e fine di discorso in sovrapposizione fra parlanti diversi indicati dal segno & (i due testi &testo&
sovrapposti vengono scritti su due righe diverse, l'uno sotto l'altro) &testo&
1 Il numero di parole “buone” pronunciate in un'unità di tempo di 30 '', non necessariamente continuata per la scarsa competenza
degli intervistati nella L2 a realizzare produzioni parlate prolungate e calcolata anche nel caso di sovrapposizione di turno con
l'intervistatore. Tale sequenza è scelta tra le sequenze di produzione migliori e più ricche dell'intervista, in genere le sequenze
descrittive o narrative. Dal calcolo delle parole prodotte vengono esclusi gli intercalari, le ripetizioni inerziali, dovute a esitazioni
e le interruzioni di parola; tutti quei fenomeni che, secondo Fragai (2001:200), vengono ritenuti inutili ai fini dell'efficacia del
messaggio
2 Riferimenti in rete al sito:< file://F:\convenzioni_di_trascrizione.htm e http://www.unipv.it/wwwling.>
199
interruzione del parlante che si autocorregge indicata da barra obliqua parola\
parti di discorso in una lingua diversa dall'italiano indicate fra asterischi *testo*
commenti e osservazioni del trascrittore (non inclusi nella registrazione) indicati da parentesi [testo]
quadre
parti del testo eliminate dal trascrittore indicate con tre puntini fra parentesi quadre […]
sillabe incomprensibili indicate con delle x (xxx)
TIM (P)
1 /INS/ Ciao
2 /TIM/ Ciao
3 /INS/ Come ti chiami?
4 /TIM/ Timoteo [ride] sì
5 /INS/ E + di cognome?
6 /TIM/ M(xxx)
7 /INS/ E ++ quanti anni hai?
8 /TIM/ Dicio/diciannove= GEM+
9 /INS/ =diciannove
10 /TIM/ Diciannove
11 /INS/ Eh + di dove sei?
12 /TIM/ Di Denver in Colorado PREP++
13 /INS/ Colorado
14 /TIM/ Eh +++ in + Stati Uniti PREP+
15 /INS/ Eh +++ che cosa studi + all'università?
16 /TIM/ Qui?
17 /INS/ Sì
18 /TIM/ Ahh + studio ++ italiano e ++ coltura ++ e coltura con Header FON
A.V.+
PREP+
19 /INS/ Con Header
20 /TIM/ Eh +++*spirituality* C.S.
21 /INS/ Spiritualità
22 /TIM/ Spiritualità e coltura italiano me(xx)a? Italiano più con (xxx) FON
A.N.-
PREP +
/INS/ Cultura italiana +++ Senti + è la prima volta che vieni in Italia? ++ È la prima volta che sei in
23 Italia?
24 /TIM/ Sì, +++ a no ahh ++ due ani fa ++ a no tre ani fa +++ sono andato in Italia con i + genitori. FON
GEM--
A.N.+
A.V.+
AUS
PREP++
TEMP+
25 /INS/ Dove siete andati?
26 /TIM/ E +++ siamo andato a ++ Venezia e Genova e + Cinqueterre GEM+
A.N.-
A.V.+
AUS
PREP+
TEMP+
27 /INS/ Avete fatto un giro in Italia ++ eh ++ i tuoi genitori parlano italiano?
200
28 /TIM/ No solo ingleise FON
29 /INS/ Senti +++ qui con chi sei in camera?
30 /TIM/ Ah ++ può ripetere PRAG+
MOD
COMPR
31 /INS/ Chi è nella tua camera, con chi sei in camera? Quale persona-
32 /TIM/ Ahh ++ Alessandro Alex e Beth ++ anche (xxx)
33 /INS/ Senti e tu studierai anche in futuro l'italiano?
34 /TIM/ Sì ahh +++ chie + do chiedo Francesca per un libro ah + de italiano per prossimo (xxx) PREP++
PREP--
35 /INS/ Vuoi continuare a studiare
36 /TIM/ Ehh ++ sì
37 /INS/ Senti ++ ehh ++ che cosa ti piace fare nel tempo libero + i tuoi hobbies
38 /TIM/ (xx) COMPR
39 /INS/ Che cosa ti piace fare, la musica il teatro il cinema ++ calcio
40 /TIM/ Calcio sì e ++ la musica
41 /INS/ Che musica ascolti?
42 /TIM/ Non lo so + eh ++ specifico +++ tutta tutta GEM+
A.N.+
PRON +
43 /INS/ Suoni + suoni uno strumento?
44 /TIM/ Ah + sì la chiatara e + piano FON
45 /INS/ Suoni bene il piano?
46 /TIM/ Ahh+ ho inizia ++ iniziato AUS
TEMP+
47 /INS/ Senti, mi puoi descrivere una persona della tua famiglia?
48 /TIM/ Ah ++ sì, mio padre +++ è alto +++ capelli grigi +++ è simpatico e robusto lui divertente *mui* + A.N.+++
divertente ++ molto divertente ++ e ++ bravo A.V.+
PRON+
POSS+
MET
C.S.
49 /INS/ Ascolta un'ultima cosa, se noi siamo in un bar e tu devi ordinare un caffè che cosa dici?
50 /TIM/ +++ COMP
51 /INS/ Che cosa chiedi ++ che cosa dici + al barista?
52 /TIM/ Ah ++ ciao come stai ++ mi dai un café? GEM-
PRAG -
53 /INS/ Va bene, grazie
[...]
TIM
Fluenza : 23
(righe 26-28) Sì due ani fa no tre ani fa sono andato in Italia con i genitori siamo andato a Venezia e Genova e Cinqueterre
ALEX (P)
1 /INS/ Buongiorno!
2 /ALEX/ Buongiorno!
3 /INS/ Come stai?
4 /ALEX/ Bene! PRAG +
201
5 /INS/ Anch'io [ride] +++ come ti chiami?
6 /ALEX/ Mi chiamo Alex A.V.+
PRON +
7 /INS/ Eh + quanti anni hai?
8 /ALEX/ +++ ho ++ venti ani GEM -
A.V.+
9 /INS/ Eh + di dove sei?
10 /ALEX/ +++ so + sono americano AN +
AV+
11 /INS/ Di dove?
12 /ALEX/ Ah ++ sono di + Saint Luis, Missouri A.V.+
PREP +
13 /INS/ Da quanto tempo sei in Italia?
14 /ALEX/ Tre mesi
15 /INS/ Ehh ++ che cosa studi al college Alex?
16 /ALEX/ ++ io studio ++ baiologhia, baiologia FON
A.V.+
MET
17 /INS/ Biologia, ehh senti stai studiando ancora l'italiano studi ancora l'italiano?
18 /ALEX/ Ah +++ sì
19 /INS/ Un po'?
20 /ALEX/ Ah yea, sì un po'
21 /INS/ Ma ++ all'università o da solo?
22 /ALEX/ +++ da solo PREP+
23 /INS/ Quale lingue parli oltre all'inglese? Conosci l'inglese e sai anche un'altra lingua? Spagnolo,
francese -
24 /ALEX/ Sì, spagnolo un poco a francese e un poco a tedesco
25 /INS/ Hai studiato a scuola?
26 /ALEX/ Sì sì
27 /INS/ Senti + mm ++ sai dirmi + che cosa hai fatto ieri?
28 /ALEX/ +++ ieri io ++ lavoro + ahh +++ poi ++ cucino + cena A.V++
29 /INS/ Cucino cena-
30 /ALEX/ sì
31 /INS/ Senti + eh+ sai descrivere una persona della tua famiglia ++ una persona + della tua famiglia?
32 /ALEX/ Una pers/ ++ ah + mio fratelo ehh +++ è abastaza alto e ++ molto magro ehh +++ GEM --
A.N.+++
A.V.+
POSS+
33 /INS/ Quanti anni ha?
34 /ALEX/ Io ? PRON+
PRAG+
COMP
35 /INS/ Lui
36 /ALEX/ Eh + ha +++ venti due A.V.+
37 /INS/ Ventidue anni ++ è più grande di te
38 /ALEX/ sì
39 /INS/ Senti ++ cosa ti piace fare nel tempo libero ++ non so ++ ti piace leggere o ++ ascoltare musica?
40 /ALEX/ Ja ++ con mio + amico Marco A.N.+
202
PREP+
POSS-
41 Cosa fai col tuo amico Marco
42 /ALEX/ Giochiamo a palone o a calcio A.V.+
PREP++
43 /INS/ Senti un'ultima cosa + + se tu sei in un bar in Italia e vuoi ordinare un cappuccino + cosa dici ++
al barista?
44 /ALEX/ +++ am +++ *can you repeat that*? C.S.
COMPR
45 /INS/ Sei in un bar italiano
46 /ALEX/ ok
47 /INS/ E vuoi un cappuccino, vuoi ordinare un cappuccino, cosa dici?
48 /ALEX/ Sì eh ++ scusa ++ posso comprare + una capucino IMP+
MOD+
A.N.-
A.V ++
PRAG -+
49 /INS/ Ok
50 /ALEX/ Un capucino MET
A.N.+
51 /INS/ Grazie Alex
[...]
ALEX
Fluenza: 19
(righe 24 e 32) Sì, spagnolo un poco a francese e un poco a tedesco - mio fratelo è abastaza alto e molto magro
JESS (P)
1 /INS/ Ciao!
2 /JESS/ Ciao!
3 /INS/ Come stai?
/JESS/ Bene e tu? FON
4 PRON+
5 /INS/ Bene +++ come ti chiami?
/JESS/ Mi chiamo Jessica PRON+
7 A.V.+
8 /INS/ E++ quanti anni hai Jessica?
9 /JESS/ +++ Em ++ ho ++ vente ani GEM-
FON
A.V.+
10 /INS/ Venti e + dove ++ di dove sei?
/JESS/ ++ Sono a Cansas City A.V.+
11 PREP-
12 /INS/ Di Cansas &City&
13 /JESS/ &A Stati Uniti& PREP-
14 /INS/ Senti + e cosa studi al college?
15 /JESS/ Ah+ studio psicologia A.V.+
16 /INS/ Psicologia.++e + a quale anno +++ stai studiando?
18 /JESS/ +++ Scusa a + ripetere? A.V.+
IMP
203
PRAG+
19 /INS/ Quale quale anno ++ primo secondo-
/JESS/ Ah++ jea sì sì ahm ++ quattro GEM +
20 LESS.-
21 /INS/ Senti Jessica
22 /JESS/ *I graduate in december* C.S.
23 /INS/ A dicembre, a dicembre fai + il diploma
24 /JESS/ Sì
25 /INS/ Senti ma studi ancora l'italiano ++ lì
30 /JESS/ Sì, no++ no + ah + non ora ma ++ voglio in la futura MOD+
A.N.-
PREP+
31 /INS/ In futuro
32 /JESS/ Sì
33 /INS/ Sì senti, che cosa hai fatto ieri ++ puoi descrivermi la tua giornata ieri
34 /JESS/ Ho sì + amm +++ sì ho fatto++ mmm++++ GEM +
A.V.+
AUS+
TEMP+
35 /INS/ Dai, ce la puoi fare!
37 /JESS/ Ah +++ (xxxxx) ah sono andatoa a + piazza san maichelangelo, santa maria del fiore, santa croce A.N.++
++ ahh +++ ho mangiato ahh + il cibo bene + buono e ++ tanto gelati A.N.-
A.V.++
AUS++
PREP++
TEMP++
MET
38 /INS/ Brava ++ senti puoi descrivermi una persona della tua famiglia?
39 /JESS/ Sì mio papa ACC
40 /INS/ Va bene
41 /JESS/ Ahm +++ mio papa è alto ++ inteligente++ha capeli nero e + ochi verdi ++ è ++ simpatico. Mia ACC
mamma è bassa ++ ha capeli lunghi ++ ehm ++ è bella GEM+++
GEM---
A.N.+++++++
A.N.-
A.V.++++
POSS++
42 /INS/ Senti ++ un'ultima domanda + siamo in un bar ++ tu vuoi mangiare o bere qualcosa ++ cosa dici?
JESS
Fluenza :37
(righe 37 e 41) sono andatoa a piazza san maichelangelo santa maria del fiore santa croce ho mangiato il cibo buono e tanto gelati -
mio papa è alto intelligente ha capeli nero e ochi verdi è simpatico. Mia mamma è bassa
ANNA (P)
1 /INS/ Come ti chiami?
204
2 /ANNA/ Mi chiamo Anna PRON+
A.V.+
3 /INS/ Ehh ++ quanti anni hai?
4 /ANNA/ Ho dicioto ani GEM--
A.V.+
5 /INS/ Come stai
6 /ANNA/ Eh +++ stata ++ ehhh ++ a ++ dentista PREP -
TEMP+
COMPR
7 /INS/ Senti Anna + che cosa studi al college?
8 /ANNA/ Ahh +++ eh +++ econo ++ econo + mia
9 /INS/ Mm ++ e +++ studi anche l'italiano?
10 /ANNA/ +++eh sì ah ++ cosa? PRAG +
11 /INS/ Studi anche l'italiano?
12 /ANNA/ Oh ++ ah+++ mm +++ i ++ mi piace+ italiano però non lo studio perché ha no lezione de italiano A.V.++
*in the Unites States* PRON++
PREP -
C.S
13 /INS/ all'università
14 /ANNA/ In (xx)rsità FON -
PREP-
15 /INS/ Eh ++ sai dirmi ++ che cosa hai fatto ieri?
16 /ANNA/ Hoi ah +++ ieri ++ ah ieri ++ ho +++ ah ++ come si dice “to clean”? PRAG +
MET
17 /INS/ Pulire, pulito
18 /ANNA/ Ho pulire la graxxx FON
A.V.-
AUS+
TEMP+
19 /INS/ Il garage?
20 /ANNA/ Il garage e ++ ahh ++ ho ++ man +++ mangia + to AUS+
TEMP+
21 /INS/ Brava
22 /ANNA/ Ah ++ poi mi ++ amica alle sei ehh ah + ok GEM +
POSS-
PREP+
23 /INS/ Benissimo ++ ancora una cosa + puoi descrivere una persona della tua famiglia?
24 /ANNA/ Solo uno + persona? A.N.-
25 /INS/ Solo una
26 /ANNA/ Ah +++ mi sorella Elisabeth è +++ un po' alto ++ e ahh ++ sua capelli è ahh +++ castel+lo GEM ++
A.N.-
A.V.-
POSS-
POSS+
LESS-
27 /INS/ Sì, castani
28 /ANNA/ Castani, schiusa, [ride] castani ++ e ha ha molto simpatica e ++ ha ++ hai+++ ahh +++ hai GEM -
quindici ani FON
A.N.++
A.V.+
PRAG+
IMP+
LESS-
205
29 /INS/ Ha quindici anni, perfetto +++ l'ultima domanda, l'ultima
30 /ANNA/ Ok
31 /INS/ Eh + tu sei in un bar italiano
32 /ANNA/ ok
33 /INS/ E vuoi ordinare / vuoi un cappuccino, un caffè, un'aranciata, qualcosa eh +++?
34 /ANNA/ Sì sì
35 /INS/ Che cosa ++ che cosa dici al barista?
36 /ANNA/ Ok buonasera ah +++ voglio + una ++ ah ++ una + pasta poer favore? FON
A.N.+
A.V.+
PRAG +
MOD +
37 /INS/ Perfetto. ++ Molto bene Anna
38 /ANNA/ Ah ++ finito? PRAG+
39 /INS/ Sì finito
40 /ANNA/ Oh grazie mille GEM ++
PRAG+
41 /INS/ Grazie a te
ANNA
Fluenza: 17
(righe 12 e 36) mi piace italiano però non lo studio perché no lezione de italiano - buonasera voglio una pasta poer favore
EMI (P)
1 /INS/ Allora, Emilia cominciamo ++ e ++ senti tu pensi di studiare ancora l'italiano dopo quando sei +
in Kansas?
/EMI/ Amxx no perché + io studio *espagnoles* in Kansas FON
2 A.V.+
PRON+
PREP+
C.S.
3 /INS/ E quindi non vuoi continuare-
4 /EMI/ No &perché&
5 /INS/ &Troppx&
6 /EMI/ Ehhh ++++ no
7 /INS/ Senti, ma chi è la tua compagna di stanza?
8 /EMI/ ++ COMPR
9 /INS/ La tua compagna/in camera tua + qui con chi sei + in camera?
/EMI/ Aaa + io + dormo (xxx) *y* PRON+
10 A.V.+
C.S.
11 /INS/ La tua co/la tua amica, che dorme insieme a te
12 /EMI/ Mia amica + Rachele ah POSS-
13 /INS/ Tu dormi con Rachele e bas&ta&
14 /EMI/ &e basta&
15 /INS/ [Ride] Allora dai prova/a no aspetta dimmi, cosa studi tu?
16 /EMI/ Studio storia A.V.+
17 /INS/ Storia ++moderna
18 /EMI/ Tutti A.N.-
206
19 /INS/ Tutto + storia americana o europea
/EMI/ E ++ americana e iuropea FON
20 A.N.++
21 /INS/ Europea, senti mi + provi a descrivere la tua famiglia?
22 /EMI/ Amm + mia familia ++ mi madre è simpatica *y* basso *y* ++ ha occhi verdi capeli corti e GEM +
xchiali marouni GEM ---
FON ---
A.N.++++
A.N.-
23 /INS/ Quanti anni ha?
24 /EMI/ Ha cinquantuno ani GEM -
FON -
25 /INS/ E tuo padre
26 /EMI/ Mi padre è morto FON-
27 /INS/ Ah + scusa ++ hai dei fratelli ++ hai dei fratelli, sorelle-
28 /EMI/ No
29 /INS/ Ah non ha [ride]
30 /EMI/ No, no ho fratelli o sorelli A.N.+
A.N.-
A.V.+
31 /INS/ Allora, facciamo così + descrivi ++ prova a descrivere ++ ora ti faccio ridere eh ++ prova a
descrivere questo pers/questo personaggio qua + chi è lui?
32 [L'insegnante mostra una foto; ridono]
33 /INS/ Chi è lui?
34 /EMI/ Xxxx è alto *y* grasso, un po' grasso= FON-
GEM+
35 /INS/ =diciamo-
36 /EMI/ Robusto
37 /INS/ Robusto brava, bravissima
/EMI/ I capelli corti, ha capelii + chiari marroni, e occhi +++ ha ochi scuro GEM+++
38 GEM---
AN+++
A.N.-
A.V.+
39 /INS/ Scuri
40 /EMI/ Scuri
41 /INS/ Forse marroni, penso + e di carattere com'è?
42 /EMI/ Oh +++ è simpatico educato inteligente +++ non lo so GEM -
A.N.+++
A.V.++
PRON+
43 /INS/ Cosa fa?
44 /EMI/ Eh ++ politica?
45 /INS/ [Ride] Brava ++senti l'ultima cosa ++ prova a raccontare una cosa di quando eri piccola
/EMI/ Ok quando avevo pichiula FON
46 A.N.+
A.V.+
TEMP+
LESS
47 /INS/ Quando ero piccola
48 /EMI/ Ero piccola +++ io+++ io andata +++ a gioca PRON+
207
AUS-
TEMP+
TEMP-
49 /INS/ Sei andata a giocare
/EMI/ Sei andata a giocare al ++ calcio + *y* baseball *y* +++ basta + ah A.N.+
50 A.V.-
AUS+
PREP++
TEMP+
TEMP -
51 /INS/ Ma giocav/tu giocavi a calcio e a baseball quando eri piccola + sempre
52 /EMI/ sì
53 /INS/ Va bene, dai basta grazie
[...]
EMI
Fluenza: 26
(righe 34-38) è alto i grasso un po' grasso robusto i capelli corti ha capeli chiari marroni e ha ochi scuro è simpatico educato
inteligente non lo so
PAT (C)
1 /INS/ Allora
2 /PAT/ Ciao Francesca!
/INS/ Ciao bello! Allora ++ allora ragazzo cominciamo con le domande facili +++ quan/co + come ti
3 chiami?
4 /PAT/ Mi chiamo Pat e tu? A.V.+
PRON+
5 /INS/ Francesca
6 /PAT/ Piacere!
7 /INS/ [Ride] quanti anni hai?
8 /PAT/ Ho +++ ben ++ tuno ani
GEM-
FON-
9 /INS/ Di dove sei?
10 /PAT/ Ah ++ sono +++ nato? TEMP+
11 /INS/ mhm
12 /PAT/ Ah ++ di + Stati Uniti +++ in Arizona in/ a (XXX) ACC-
PREP+
PREP-
MET
13 /INS/ E ++ cosa studi?
14 /PAT/ S +++ tudio comuni +++*comunication* A.V.+
C.S.
15 /INS/ Comunicazioni
16 /PAT/ Comunicazione +++(xxx)
17 /INS/ Senti ++ ma quando torni in america +++ aspetta aspetta + quando torni in America vuoi
continuare a studiare l'italiano?
18 /PAT/ Ah ++ un poco
19 /INS/ Ti è piaciuto l'italiano?
20 /PAT/ Ah sì ++ ahh +++ molto male ++ (xx) + in &italiano& COMPR
21 /INS/ &no non è vero& senti e +++ sei in un bar
208
22 /PAT/ Sei un bar?
23 /INS/ Tu, tu sei in un bar, va bene? Devi ordinare un caffè ++ cosa dici al cameriere?
24 /PAT/ In cafè? GEM-
COMPR
25 /INS/ Sì sì sei in un bar devi dire *please I would like a coffee* come dici al cameriere?
26 /PAT/ E + ah ++ ciao! Mi prendo un cafè GEM-
PRON-
PRAG-
27 /INS/ Senti + e invece prova /parlami/parla della tua famiglia, come si chiamano + quanti anni hanno
mh?
28 /PAT/ Ahh ++ mia padre + ha qua+nti FON-
POSS+
A.N.-
29 /INS/ Quanti anni ha? Tuo padre
/PAT/ Mia padre ha + cin ++ quanta *y* due A.N.-
A.V.+
LESS-
30 C.S.
31 /INS/ Come si chiama?
/PAT/ Chiam ++ o G(xx) eh + mia madre +++ cinquanta + tre si chiama Debora ah + mia sorela + una GEM--
sorela + si chiama E(xx) *and* due fratela/frateli uno +++ trenx ani FON-
A.N.+++
A.V.-
A.V.++
PRON-
PRON+
POSS++
LESS-
MET
32 C.S.
33 /INS/ trenta
34 /PAT/ Si chiam + o Josh A.V.-
35 /INS/ Si chiama Josh ah
36 /PAT/ Si chiam(x) Josh a +++ *other* C.S.
LESS-
37 /INS/ Quell'altro-
38 /PAT/ Altr(x) fratelo ha + venti + nove ani e si chiamo Joan GEM-
A.V.-
PRON+
39 /INS/ Eh ++ prova a descrivere tuo padre
40 /PAT/ *Describe my father* ah +++ po' baso capeli è nera baso capeli +++ GEM--
A.N.-
C.S.
41 /INS/ corti
42 /PAT/ Corti?
43 /INS/ Capelli corti, *short* C.S.
44 /PAT/ Aha *in front* [gesto] C.S.
P.M.
45 /INS/ Ah ok davanti corti, dietro lunghi ok
46 /PAT/ Ah ++ barba sì grande
47 /INS/ Tanta barba
48 /PAT/ Ochi azuri eh molto simpatico ah molto +++ alegro sempre GEM--
A.N.+++
209
49 /INS/ Sempre allegro come te, e tua mamma?
50 /PAT/ Anche [ride] no ah +++ mia madre ha capeli longhi biondi + occhi GEM+
GEM-
FON-
A.N.++
A.V+
POSS+
51 /INS/ È bella
52 /PAT/ Molto bela ha ochi verde e ++ molto soridente sempre come mi GEM---
A.N.-
A.V.+
PRON-
53 /INS/ [...] Senti + ehm + sai dirmi che cosa hai fatto ieri +++ capisci?
54 /PAT/ Ah ++ sì si ++ ah ++ ieri ahm +++ ieri ahm + a +++ stud/studenti ieri? COMPR
55 /INS/ Che cosa hai fatto ieri sì +++ *yesterday yesterday* sì
56 /PAT/ Ieri eh +++ ieri +++ mangiare +++ ehh ++ um +++ gioco baseball e ah +++ m +++ molto stanco A.V.-
++ dormire/dormo e nove ++ tempo nove? A.V.+
PREP-
LESS-
MET
57 /INS/ Alle nove, alle nove
58 /PAT/ Alle nove
[...]
PAT
fluenza : 17
Chiamo G(xx) mia madre cinquantatre si chiama Debora mia sorela si chiama E(xx) due frateli uno trenx ani
MAT
1 /INS/ Come ti chiami?
2 /MAT/ Mi chiamo Mateo GEM-
A.V.+
PRON+
3 /INS/ Eh +++ quanti anni hai Matteo
/MAT/ Ah ++ eh ++ denctinove ani GEM -
4 LESS-
5 /INS/ Ventinove eh +++ di che co/di dove sei?
6 /MAT/ Ah +++ (Xxxx) PREP-
7 /INS/ Eh ++ che cosa studi?
8 /MAT/ Ah ++ mi studenti eh + ah + economica A.V.-
LESS-
9 /INS/ Economia + al/ al college?
10 /MAT/ Eh + ec + onomia
11 /INS/ Eh ++ e studi l'italiano o ++ ancora negli Stati Uniti?
12 /MAT/ Ah no se ++ studiti + italiano? A.V.-
/INS/ Come te ok senti un cosa allora, prova +++ a descrivere la tua giornata in america cosa fai di
13 solito + un giorno in america
14 /MAT/ Sì ++ a scuola *or not* C.S.
COMPR
15 /INS/ A scuola sì, ti ricordi l'abbiamo fatto?
210
16 /MAT/ Sì a +++ a scuola mia svelio alle ote in matina io +++ [xxx] GEM---
FON--
PRON-
PREP++
LESS-
17 /INS/ vado
18 /MAT/ Scuela in ++ clase +++ tre +++*ours*? GEM-
FON-
PREP+
LESS-
C.S.
19 /INS/ Tre ore
20 /MAT/ Tre ore
21 /INS/ A che ora comincia la lezione?
22 /MAT/ Lezione a++lla nove A.N.-
23 /INS/ Alle nove
24 /MAT/ Letter alla+
25 /INS/ Fino a &mezzogiono&
26 /MAT/ &Undici&
27 /INS/ A undici sì
28 /MAT/ Ah +++ dopo undici classe undici lezione +++ mangiare/mangio ++ dopo pranzo io + vado +++ GEM-
can + coro *practice* A.V.+
LESS-
MET
C.S.
29 /INS/ Sisì, corro faccio esercizio
30 /MAT/ Dopo ++ dopo coro ++ ahh ++ io mangio +++ dopo dopo mangio io ++ studio GEM-
A.V.+
31 /INS/ E poi a che ora vai a dormire?
32 /MAT/ +++ ala ++ undici A.N.-
33 /INS/ E + la sera dopo cena cosa fai?
34 /MAT/ Ala cinque ise(xx) A.N.-
LESS-
COMPR
35 /INS/ Ma cosa fai, cosa fai dopo cena + di solito ++ studi?
36 /MAT/ Sì sì
37 /INS/ Sempre?
38 /MAT/ sì
39 /INS/ Studi sempre dopo cena+ non ci cre /* I cannot beleve it* va bene bravo ok
40 /INS/ Ascolta Matteo sai descrivere una persona della tua famiglia, tuo padre, tua madre..
41 /MAT/ Ah sì tu pa ++ mi padre è molto alegro, e + mi madre molto +++ molto alegro e mi sorela e GEM ----
fratela è molto ++ molto triste e +++ basta A.N.+
A.N.--
A.V.+
A.V.-
POSS---
MET
42 /INS/ Un'ultima cosa, se tu sei in un bar, in un bar italiano,
43 /MAT/ Un bar?
44 /INS/ In un bar italiano + vuoi prendere un caffé, un cappuccino,++ qual&cosa&
45 /MAT/ &Sì, si& sì, ah + un ++ caldo ciocolate e ++ mi ++ eh ++ caldo cicolate un caffé capuccino eh + e GEM - -
211
biglietto *ticketto* FON -
A.N. -
LESS-
PRAG -
C.S.
46 /INS/ Lo scontrino
47 /MAT/ Sì
48 /INS/ Grazie
[...]
MAT
Fluenza : 18
mi padre è molto alegro e mi madre molto alegro e mi sorela e fratela è molto triste
KAS
1 /INS/ Allora, come ti chiami?
2 /KAS/ Ah ++ mi chiami Kasey K(xxx) A.V.-
PRON+
3 /INS/ Ah + Kasey + quanti hanni hai?
4 /KAS/ Ah ++ ooo ++ io ho+ venti uno ani GEM-
5 /INS/ Bene + eh di dove sei?
6 /KAS/ Ah +++ ahh +++ di++ di dove sei?
7 /INS/ Sei italiano?
/KAS/ [ride] no +++ sei italiano ++ *I'm+ no* ++ americana A.N.-
8 C.S.
9 /INS/ Senti + che cosa studi, ++ che cosa studi al college?
10 /KAS/ Ah ++ io studio ah + italiano +++ ah + in Italia A.V.+
PRON +
PREP +
11 /INS/ In Italia + eh + e in America?
12 /KAS/ Ah ++ in America ah ++ io studio + ah ++ *e + conomics* A.V.+
PREP+
C.S.
13 /INS/ Senti + che cosa hai fatto ieri?
14 /KAS/ Ahm ++ fatto ieri +++
15 /INS/ *yesterday*
16 /KAS/ *Yesterday *sì , ahm, ++ io + eh creo perché (xxxx) ioah +++ studio ++ economics e ++ io ++ FON --A.V.+++
dormo PRON +
C.S.
17 /INS/ Perfetto, va bene senti ++ prova a descrivere te stesso + prova a descrivere te, [...]
18 /KAS/ Mi? PRON-
19 /INS/ Sì
20 /KAS/ Eh + io ++ ha ++ capeli è biondi ++ con azuri occhi GEM--
GEM+
A.N.++
A.N.-
A.V.--
21 /INS/ Occhi azzurri
22 /KAS/ Occhi azurri ah +++ molto nervoso + ora +++ perché [...] +++ mi caratere mio alegro sempre ++ GEM---
mi so ++ ridente sempre e++mi un +++ po' ++ etaliente PRON--
212
POSS-
LESS-
23 /INS/ Un po'?
24 /KAS/ Un [gesto] P.M.
25 /INS/ intelligente
26 /KAS/ Inteligente + un poco GEM-
27 /INS/ Un'altra cosa ++ puoi descrivere una persona della tua famiglia?
28 /KAS/ Mia madre Ken, hai ++ quaronta no +++ cinquanta no ++ A.N.+
A.V.-
POSS+
29 /INS/ *Fifty?*
30 /KAS/ Yea, cinquanta?
31 /INS/ Mmm
32 /KAS/ Ja, ani, e++mi ++ mio padre Joan eh ++ anch'io ani ++*y*++ un/una sorela lei (xxx) *she* ++ eh GEM---
++ ventiquatro ani eh +++ A.N.++
POSS+
LESS-
MET++
C.S.2
33 /INS/ Ventiquattro anni + è simpatica tua sorella eh?
34 /KAS/ Sì sì, ah ++ molto simpatica A.N.+
35 /INS/ L'ultima domanda sei in un bar italiano e vuoi prendere qualcosa, cosa dici? COMPR
36 /KAS/ +++
37 /INS/ *[...] What do you say?*
38 /KAS/ ++ eh ++ eh prendo ++/ ah jea/ io ++ poso + poso prendo magherita picciola *y* eh ++ un + ah++ FON ----
picceria [bicchiere] uosso [rosso] vino A.N.+++
A.V.+
PRAG. -
MOD
C.S.
[...]
KAS
Fluenza : 17
Mia madre Ken, hai quaronta no cinquanta ani, e mio padre Joan anch'io ani i una sorela
CHEL
1 /INS/ Allora +++
2 /CHEL/ [Ridono]
3 /INS/ Senti allora ++ racconti una tua vacanza?
4 /CHEL/ Ah ++ due giorni f/no + due setimane fa ahh++ho telefonato al mio fidanzato +++ GEM-
A.N.+
A.V.+
AUS+
POSS+
PREP+
TEMP+
5 /INS/ Come si chiama?
6 /CHEL/ Joe
7 /INS/ Quanti anni ha?
8 /CHEL/ Ah +++ ventuno ani
213
9 /INS/ Ma lui studia al Benedectine College?
10 /CHEL/ sì
11 /INS/ Cosa studia?
12 /CHEL/ *(xxx)* C.S.
13 /INS/ Economia + tutti fate economia! ok
14 /CHEL/ Ahm +++ e a reconto a lui la storia dela mia vacanza con Anna e Niki e + quando abiamo +++ a GEM-
+++ Spagna in /in Spagna FON-
A.N.++
A.V.+
PRON+
POSS+
PREP + + +
TEMP-
15 /INS/ In Spagna siete andate in Spagna
16 /CHEL/ *(xxx)* C.S.
17 /INS/ Tranquilla [...]
18 /CHEL/ Ah ++ siamo rimaste in/a Firenze fino a venerdì matina e poi abiamo preso ++ la barca da GEM---
Levorno a Barcelona e subito dopo abiamo preso il treno a Malaga e t(xxx) e abiamo preso il sole FON--
tutti i giorni [ridono] non abiamo ++ nora/nuotare perché il mare era molto nero +++ e A.N. ++
poi+++abiamo incontrato + i + miei + amiche in Seviglia A.N. -
A.V.+++++
A.V. -
AUS +
POSS+
PREP ++
PREP--
TEMP +++
LESS-
MET
19 /INS/ Siviglia?
20 /CHEL/ Siviglia e poi Milano e poi +++ &qui&
21 /INS/ &siete tornate qui& +++ ma in tutte le vacanze che hai fatto +++ qual'è stata la città più bella che
hai visto, la città più bella?
22 /CHEL/ ++ Cinque Tere COMP
23 /INS/ Cinque terre
24 /CHEL/ Lì c'era +++ lì c'era verde e il mare chiaro azuri azur(xx) GEM -
A.N.+
A.N.-
A.V.+
TEMP+
25 /INS/ Ma lì avete fatto il bagno? +++ avete fatto il bagno ++ avete nuotato alle Cinque Terre?
26 /CHEL/ No &no&
27 /INS/ &freddo&
28 /CHEL/ Sì
29 /INS/ eh
30 /CHEL/ Abiamo ++ fat + to una pasegiata in la campagna ale Cinque Tere GEM ----
A.N.+
A.V.+
PREP ++
AUS +
TEMP +
LESS-
31 /INS/ Em ++ senti +++ invece descrivi una giornata, un giorno in America, quando sei in America ++
cosa fai + di solito + durante il giorno
214
32 /CHEL/ Ah ++ normalmente +ah studio &tuti i giorni& A.N.+
A.V.+
33 /INS/ &sempre& cosa studi?
34 /CHEL/ Ah baiologia FON-
35 /INS/ biologia
36 /CHEL/ Poi ++ visi/visito + con i miei amici e gio + co A.N.+
A.V.+
PREP +
LESS-
37 /INS/ Ma + a che ora ti alzi + di solito?
38 /CHEL/ Mmm +++ ale otto GEM -
PREP +
39 /INS/ Ma hai lezione oppure no?
40 /CHEL/ Lezione subito
41 /INS/ Tutto il giorno
42 /CHEL/ Ehm +++ fino a + le ++ tre normalmente
43 /INS/ E poi dopo + cosa fai ++ dopo le tre
44 /CHEL/ Eh +++ normalmente coro +++ *around* GEM -
A.V.+
C.S.
45 /INS/ In giro ++. Ok va bene [...]
CHEL
fluenza : 38
(riga 18) siamo rimaste a Firenze fino a venerdì matina e poi abiamo preso la barca da Levorno a Barcelona e subito dopo abiamo
preso il treno a Malaga e abiamo preso il sole tutti i giorni non abiamo nuotare
RACH (C)
1 /INS/ Allora Rachele, come ti chiami?
2 /RA