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1. Definizione
Con bilinguismo si intende genericamente la presenza di più di una lingua presso un
singolo o una comunità. Il bilinguismo in senso lato costituisce la condizione più
diffusa a livello sia individuale sia di società: la vera eccezione sarebbe piuttosto il
monolinguismo. Più in particolare, bilinguismo si riferisce sia al concetto più
generale e ampio della competenza e dell’uso di due lingue, sia a quello più specifico
di repertorio linguistico (meglio definito come bilinguismo sociale) formato da due
lingue, che si oppone a diglossia. La diglossia è dunque una specifica forma di
bilinguismo in cui le due lingue disponibili sono in un rapporto gerarchico e
complementare.
2. Bilinguismo individuale e bilinguismo sociale
Le definizioni di bilinguismo che si sono succedute nel tempo tendono a polarizzarsi
da una parte verso un’accezione stretta, che implica uguale competenza in due
lingue apprese simultaneamente, dall’altra verso un’accezione ampia che considera
bilingue chiunque abbia un grado anche minimo di competenza in più di una lingua.
Le definizioni più adeguate sembrano quelle che prendono in considerazione l’uso
delle lingue: Weinreich (2008), ad es., definisce bilingue la persona che usa
alternativamente due lingue; e così Grosjean (2008), che parla di everyday
bilinguals, cioè di persone che usano due lingue nel corso delle loro attività
quotidiane. Diversi gradi di fluenza e di alfabetizzazione, una complementarità di usi
e funzioni almeno parziale (spesso un bilingue non ‘fa’ con entrambe le lingue le
stesse cose) e modalità discorsive diverse rendono necessario parlare della
competenza bilingue in termini di competenza integrata, non riducibile a una
somma di competenze monolingui (Grosjean 2008).
Tradizionalmente si distingue fra bilinguismo bilanciato (pari competenza in
entrambe le lingue) e bilinguismo non bilanciato, che può arrivare a comprendere
anche una competenza solo passiva (o ricettiva) di una delle due. Un’altra
distinzione è fra bilinguismo simultaneo, quasi simultaneo (entrambi i tipi rientrano
nel bilinguismo precoce o infantile) e bilinguismo successivo. L’acquisizione
simultanea di due lingue da parte di bambini piccoli è un tema di grande interesse in
quanto tocca la questione della separazione o meno dei sistemi linguistici, in
particolare della grammatica, nella mente del bambino bilingue.
Il tipo di bilinguismo, e la condizione stessa di bilingue, non sono necessariamente
stabili. Nel corso della vita un individuo può arricchire il proprio repertorio
linguistico (bilinguismo additivo), ma è anche possibile che la competenza in una o
più lingue si danneggi in seguito a una riduzione nell’uso, nelle funzioni o nel
prestigio della lingua stessa, a vantaggio di altre lingue (bilinguismo sottrattivo).
Infine, il parlante bilingue può essere ‘isolato’ (Francescato 1981), cioè vivere in un
ambiente prevalentemente monolingue (è il caso di molti immigrati), oppure può
fare parte di una comunità che è bilingue nel suo complesso.
A livello di società, una comunità linguistica si dirà bilingue se i suoi componenti
usano regolarmente, o hanno la possibilità di usare, più di una lingua interagendo
fra loro. In questo senso le diverse tipologie di bilinguismo diventano un strumento
per individuare comunità linguistiche diverse, a prescindere da criteri di tipo
geografico, amministrativo o etnico. Così, all’interno di una più ampia comunità
linguistica italiana, generalmente monolingue, che utilizza l’italiano per la
comunicazione tra i suoi membri, possiamo riconoscere una serie di comunità
bilingui caratterizzate dalla presenza di (almeno) due sistemi linguistici (o codici).
Accanto all’italiano, infatti, vi può essere un dialetto italoromanzo (ad es., il veneto),
una lingua di minoranza di antico insediamento (ad es., l’albanese) o una lingua di
minoranza di recente immigrazione (ad es., il rumeno).
Quando in una comunità siano compresenti due lingue non differenziate
funzionalmente e perciò utilizzabili sena distinzione in qualunque contesto
comunicativo, si parla di bilinguismo sociale. In società complesse il bilinguismo
sociale implica che entrambe le lingue siano standardizzate ed elaborate, parimenti
utilizzabili in ogni contesto formale, inclusi gli usi scritti, scolastici, scientifici e
tecnologici. È evidente come una situazione di questo tipo sia abbastanza rara,
almeno nei termini citati, fra l’altro perché poco funzionale e ridondante.
Un’altra distinzione utile è quella fra bilinguismo monocomunitario e
bilinguismo bicomunitario. Il primo si ha quando la compresenza di due lingue (per
lo più con gradi diversi di competenza e di uso) è diffusa in tutta la comunità sociale
e la caratterizza (come, per es., in Valle d’Aosta, con italiano e francese). Il
bilinguismo bicomunitario, invece, costituisce il risultato della presenza sul
medesimo territorio di due comunità linguistiche, entrambe riconosciute e
autorizzate a parlare e scrivere la propria lingua in tutti gli ambiti d’uso (è il caso di
tedesco e italiano in Alto Adige). Il bilinguismo bicomunitario non implica quindi
bilinguismo individuale dei membri della comunità, ma la coesistenza di due
comunità potenzialmente monolingui.
3. Diglossia
Il termine diglossia deve la sua fortuna a un articolo di Charles Ferguson nel quale si
trattava, per la prima volta in modo sistematico, di «un tipo particolare di
standardizzazione in cui due varietà di una lingua esistono fianco a fianco nella
comunità, ciascuna con un ruolo definito» (Ferguson 2000: 185). E proprio in questa
distinzione di ruoli e funzioni, associata a una compartimentazione gerarchica
complementare delle varietà, si caratterizza il repertorio linguistico di una comunità
diglottica. La diglossia prevede che la varietà alta (H[igh] o A) e la varietà
cosiddetta bassa (L[ow] o B) non si sovrappongano funzionalmente: mentre la prima
è standardizzata, viene trasmessa dalla scuola ed è usata nello scritto e nei contesti
formali (la liturgia, l’università, l’amministrazione, buona parte dei mezzi di
comunicazione), la varietà B viene acquisita spontaneamente come lingua prima ed
è usata nella conversazione ordinaria e in tutti i contesti informali. La nozione di
diglossia è esemplificata da Ferguson con quattro casi che, ovviamente, riflettono la
situazione sociolinguistica dell’epoca: arabo classico ed egiziano, tedesco e svizzero
tedesco in Svizzera, francese e creolo di Haiti, katharévusa e dhimotikí in Grecia.
La diglossia tende ad essere stabile se le condizioni sociali che l’hanno generata
restano tali, fra l’altro se la comunità continua a riconoscere nella varietà A un
veicolo di valori nazionali, religiosi, culturali. Viceversa, una maggiore diffusione
dell’alfabetizzazione, maggiori possibilità di mobilità e di comunicazione, così come
un mutato orientamento ideologico, sono alla base di uno sfaldamento della
diglossia secondo percorsi abbastanza prevedibili. Da un lato ci può essere
l’affermazione della varietà alta come veicolo principale di comunicazione anche nei
contesti bassi, dall’altro, invece, la varietà (o meglio, una varietà) B prende il
sopravvento ampliando la propria gamma di funzioni.
Per secoli (almeno a partire dal Cinquecento e fino ai primi decenni del XX secolo)
l’italiano ha conosciuto sì una diffusione estesa a tutta la penisola, ma assai limitata
per quanto concerne gli ambiti d’uso e la stratificazione sociale. In tutti i contesti di
comunicazione informale e parlata i codici in uso hanno continuato a essere i dialetti
e le lingue di minoranza presenti sul territorio. Come nota De Mauro (19995: 34), la
«lingua comune, insomma, non si offriva al singolo come una realtà ‘naturale’,
immediatamente acquisibile vivendo la vita associata di ogni giorno, privata o
pubblica». La descrizione che De Mauro dà dell’Italia al momento dell’unità (e che
resta tutto sommato valida, seppure in lento dinamismo, fino alla seconda guerra
mondiale), sembra corrispondere bene alla definizione di diglossia. Mutando le
condizioni sociali del paese, e con il diffondersi dell’italiano a fasce sempre più
estese della popolazione, la rigidità del modello diglottico viene meno sviluppandosi
verso un tipo di repertorio, tipico dell’Italia contemporanea, che Berruto (1987) ha
chiamato «dilalìa». Diversamente dalla diglossia, nella dilalìa (in cui pure si hanno
una varietà A e una B) vi è sovrapposizione funzionale tra le varietà nei domini d’uso
informali, così come nella socializzazione primaria, mentre l’italiano (lingua A) resta
l’unica possibile nei domini funzionalmente alti: in un certo senso si può dire che
l’italiano sia ‘sceso’ erodendo mano a mano lo spazio del dialetto e sovrapponendosi
ad esso.
Si noti invece come il processo che aveva portato all’imporsi del fiorentino come
lingua scritta comune in Italia costituisca un esempio di esito diverso di una
situazione di diglossia precedente; in questo caso, infatti, era stato un volgare (per
quanto colto e prestigioso come il fiorentino) ad essere ‘salito’, andando a occupare
gli ambiti che erano propri di un’altra lingua (il latino), in coincidenza con i primi
tentativi di standardizzazione e di codificazione linguistica. A proposito di casi di
questo tipo, caratteristici di fasi storiche di ridefinizione identitaria e di processi di
standardizzazione, nei quali sia la varietà B ad acquisire sempre più rilevanza e a
occupare sempre più spazi, andandosi a sovrapporre ad A nei domini scritti e
formali, è stato proposto il termine «diacrolettìa» (Dell’Aquila & Iannaccaro 2004:
171).
4. Evoluzione dei concetti
Il termine diglossia ha esteso la sua applicazione a contesti anche molto diversi fra
loro. Da un lato il modello a due livelli si è complicato, prevedendo, per es.,
la triglossia, con una varietà M (media) fra A e B; o una distinzione, applicata da John
Trumper alla situazione italiana sulla base della ‘forza’ della varietà B,
fra macrodiglossia e microdiglossia (cfr. Berruto 1995: 227-250). Dall’altro la nozione
di diglossia, assieme a quelle da essa derivate, si è estesa a includere, oltre alla
compresenza di varietà di lingua imparentate e prossime, anche la compresenza,
purché funzionalmente differenziata, di lingue diverse, strutturalmente distanti fra
loro.
Nel contesto italiano ciò si traduce spesso in repertori tripartiti nei quali la lingua di
minoranza (ad es., l’albanese) si contrappone al dialetto italoromanzo della zona (ad
es., il calabrese) ed entrambi si trovano subordinati all’italiano in un rapporto di
diglossia o di dilalìa.
Il fatto che due varietà (o lingue o lingua e dialetto) siano sufficientemente diverse e
indipendenti, e ritenute tali dai parlanti stessi, sembra essere una condizione
necessaria per parlare di diglossia. Il restringersi della distanza linguistica fra i codici
produce invece una situazione di tipo diverso, il «bidialettismo» (Berruto 1995: 248).
Qui il rapporto fra i codici è più fluido e possono sussistere sia varietà intermedie fra
A e B, sia pratiche linguisticamente miste. Come casi di bidialettismo in Italia
vengono spesso considerate le situazioni della Toscana e di Roma.
Un tentativo di incrociare i concetti di bilinguismo e diglossia si trova in Fishman
(1975) che ha identificato quattro repertori logicamente possibili:
(a) bilinguismo e diglossia: tutta la comunità padroneggia entrambe le lingue ma le
usa in modo funzionalmente differenziato;
(b) diglossia senza bilinguismo: comunità con forti disparità sociali, nelle quali molti
parlanti non hanno accesso alla lingua A;
(c) bilinguismo senza diglossia: fasi transitorie durante le quali vige incertezza circa
l’uso delle lingue; di solito seguite da una sopraffazione di una lingua sull’altra;
(d) né bilinguismo né diglossia: tipo raro, riscontrabile solo in comunità molto
piccole e isolate.
Per quanto ampiamente accolta in sociolinguistica, questa tipologia presenta una
serie di punti critici che rischiano di indebolire la portata teorica delle nozioni stesse
di bilinguismo e diglossia. In questo modello, infatti, il bilinguismo perde la sua
accezione di bilinguismo sociale, logicamente incompatibile con un modello di
diglossia (una comunità o è bilingue o è diglottica rispetto alle stesse due lingue),
venendo di fatto a coincidere con la competenza bilingue dei parlanti. Un punto
invece importante della classificazione di Fishman (1975) è la necessità di rendere
conto dell’accessibilità o meno dei due (o più) codici linguistici all’intera comunità:
ciò vale tanto per il bilinguismo sociale (il che determina il tipo mono- o
bicomunitario), quanto per la diglossia. La diglossia è infatti molto diversa se è
l’intera comunità ad essere diglottica (come, ad es., nella Svizzera tedesca) o se
invece ad ampi settori della società è di fatto interdetto l’accesso alla lingua o
varietà A (come, ad es., in Italia all’epoca dell’unità nazionale). In questo senso la
diglossia può essere vista come un riflesso dell’asimmetria dei rapporti sociali,
diventando essa stessa strumento di potere.
5. Aspetti linguistici e riflessi letterari
Per quanto riguarda i fenomeni di contatto linguistico riscontrabili a livello
discorsivo, la commutazione di codice sembrerebbe incompatibile con la diglossia, e
probabilmente anche con il bilinguismo bicomunitario, per il quale si può invece
riscontrare un’alternanza di codice funzionale a cambiamenti nella situazione
comunicativa: interlocutore, argomento, mezzo. È invece altamente probabile che
nelle comunità dilaliche la pratica della commutazione di codice sia frequente, vista
la sovrapposizione funzionale di A e B; così come dovrebbe accadere in contesti di
bilinguismo monocomunitario. Insomma, quanto minore è la differenziazione
funzionale fra i codici all’interno di una comunità, tanto maggiore e intimo sarà
prevedibilmente il grado di commistione linguistica.
Nel contesto italiano, la lingua nazionale e i diversi dialetti o lingue di minoranza
sono compresenti nel discorso, all’interno di conversazioni informali, secondo una
tipologia di commistione molto varia. Si vedano, ad es., questi due brevi frammenti
di italiano-novarese: avevi sempre paura del padrone ca t ciapéisa «... che ti
prendesse» (il passaggio dall’italiano al dialetto coincide con il confine fra la frase
principale e la dipendente); tüc’ gli anziani «tutti gli anziani» (il passaggio dal
dialetto all’italiano è interno al sintagma nominale).
I fenomeni di contatto che interessano invece i sistemi linguistici, quali, ad
es. prestiti lessicali, prestiti occasionali (in particolare interiezioni, segnali discorsivi,
particelle modali, ecc.) e interferenze sintattiche, possono costituire un importante
indicatore dei rapporti fra i codici. Una delle caratteristiche di tali fenomeni, infatti,
è l’unidirezionalità del processo che va dalla lingua dotata di maggior peso e
prestigio a quella che, per una serie di ragioni, gode di minore prestigio. Si noti come
anche in contesti di bilinguismo rigidamente regolamentato sia di solito solo una
delle due lingue a fungere da modello per prestiti e interferenze. Così avviene, ad
es., in Alto Adige, dove ai rari prestiti culturali dal tedesco all’italiano
(come strudel o lederhosen) fanno da controparte i molteplici prestiti e
occasionalismi dall’italiano al tedesco: dai ben noti Carabiniere e Patent («patente di
guida», invece di Führerschein), ad aggettivi di uso comune come [ʃ]tuff «stufo»,
imprecazioni come o[ʃ]tia!, fino ad avverbi come magari.
Bilinguismo e diglossia trovano un riflesso indiretto nella letteratura italiana, la
quale ha sì attinto al pluralismo linguistico del paese, rielaborandolo in forme
originali anche di elevato valore letterario, senza tuttavia riflettere necessariamente
i rapporti sociolinguistici fra i codici. Non è, ad es., pertinente al tema di bilinguismo
e diglossia tutta la letteratura dialettale che, dal Cinquecento in avanti, si pone in
consapevole contrapposizione alla lingua unitaria e alle sue tendenze di fissazione e
codificazione; né necessariamente l’utilizzo di regionalismi o dialettismi per
connotare personaggi o situazioni, caratteristica che si trova già nel Decameron con
l’uso di veri e propri blasoni linguistici.
Esempi di bilinguismo nella letteratura italiana sembrano derivare piuttosto da casi
di ‘bilingui isolati’, cioè da episodi di bilinguismo individuale dovuti a biografie
linguistiche particolarmente ricche, non a caso spesso legate all’esperienza
migratoria dell’autore stesso. Esempio emblematico è quello di Luigi Meneghello
che ne Il dispatrio ripercorre i suoi primi anni in Inghilterra facendo ampio uso
dell’inglese in prestiti culturali, occasionalismi, citazioni di interi frammenti di
conversazione: «“Ma dopo il lunch, tra il lunch e il tè, non si lavora?” “Goodness
me, no” mi disse Sir Jeremy» (p. 35). Un caso per così dire rovesciato è quello di
Elvira Dones, albanese, e di altri autori di origine straniera che scrivono in italiano.
In Vergine giurata sono numerosi i prestiti culturali dall’albanese
(fis «casata», qofte«polpette», kulla «casa tradizionale», ecc.), mentre esempi più
vicini alla commutazione di codice sono, forse non sorprendentemente, molto rari:
«Tungjatë Mark. Semplicemente così», «ciao ... » (p. 43).
Casi di vero mistilinguismo nella letteratura italiana recente tendono a configurarsi
più che altro come usi sperimentali del linguaggio. Uno per tutti è quello
del Partigiano Johnnydi Beppe Fenoglio. Si noti che l’origine più letteraria che reale
del bilinguismo del protagonista spiega forse la poca plausibilità linguistica di molti
enunciati mistilingui, come, ad es.: «dopo che i tedeschi haunted sporadicamente
il main hotel» (p. 25).
La diglossia emerge sporadicamente, ad es., nei romanzi di Fruttero e Lucentini,
molto sensibili alla variazione linguistica, per cui all’alta borghesia torinese de La
donna della domenica, italofona ma propensa all’anglofonia e alla francofonia come
vezzo di classe («Mi piace. Mais ça n’empêche. Tu, fai quello che ti pare, io sai dove
vado? Qui dietro, dal boucher», p. 78) si contrappone la coralità del ‘popolino’ in A
che punto è la notte?, tendenzialmente dialettofono: «A l’è chiel! – si sentì
sussurrare tra i parrocchiani degli ultimi banchi. – È lui!».
Infine, si possono citare almeno due esempi, molto diversi tra loro, di bidialettismo:
la mescolanza di dialetti vari e italiano di registri multipli nel Pasticciaccio di Carlo
Emilio Gadda e Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini. In quest’ultimo, alla varietà
romanesca usata nel discorso diretto si contrappone una narrazione perennemente
in bilico fra l’italiano letterario e la stessa varietà popolare usata dai personaggi:
«Amerigo era ubbriaco. “Scegnemo qua ar Forte”, fece al Caciotta, che l’ascoltava
deferente» (p. 83).
Calchi
1. Definizione e distinzioni
Fra le diverse tipologie del prestito ( prestiti), il calco (nella sua accezione linguistica
il termine è usato la prima volta in Francia alla fine del XIX secolo, ma furono poi A.
Meillet e Ch. Bally a dar rilievo al fenomeno nel XX, divulgando la parola calque;
ted. Lehnprägung; ingl. loan translation) rappresenta la forma più raffinata e
complessa. Infatti non si tratta della riproduzione più o meno fedele di un modello
alloglotto nel suo aspetto esteriore, come avviene coi forestierismi integrali o
adattati, ma della ricreazione mimetica della sua conformazione interna per mezzo
di elementi della propria lingua: la parola o la frase straniera viene così ‘ricalcata’
strutturalmente attraverso un nuovo elemento che combinando materiali indigeni
ne riproduce la forma e il significato, oppure riverbera tratti del suo significato su un
termine analogo della lingua mutuante rimodellandone la semantica.
Nel primo caso si parla di calchi formali o strutturali: ad es., ferrovia è un composto
di ferro e via coniato per riprodurre la struttura dell’analoga formazione
tedesca Eisenbahn (a sua volta dall’inglese railway); pallacanestro replica
l’inglese basket-ball; far buon viso a cattivo giocoè una frase modellata sul
francese faire bonne mine à mauvais jeu; insostenibile ricalca il
francese insoutenable, superuomo il tedesco Übermensch.
Nel secondo caso abbiamo i calchi semantici: diligenza assume il significato di
«veicolo» alla fine del Seicento sull’esempio del francese carrosse de
diligence; caffè, sempre per influsso francese, indicherà anche la «bottega del
caffè»; angolo nel senso di «calcio d’angolo» è un’estensione semantica che
rispecchia quella dell’inglese corner; permissivo «troppo tollerante» dipende dal
significato che ha l’aggettivo nell’espressione permissive society.
Affinché possa avvenire un calco, sono perciò necessari un modello straniero
‘trasparente’, cioè motivato semanticamente e strutturalmente, e una buona
competenza linguistica in chi lo effettua, che deve essere in grado di cogliere, oltre
al significato, la forma interna straniera del modello, e di individuare nella propria
lingua un modo per riprodurla adeguatamente. Di conseguenza il calco è un
fenomeno nel suo complesso più colto del semplice prestito (anche se non mancano
calchi popolari) e investe soprattutto il lessico intellettuale, addensandosi nei
periodi in cui l’attività culturale e le conoscenze linguistiche sono maggiori.
Come non sempre è possibile tracciare un confine netto fra prestiti e calchi (specie
quando l’interferenza avvenga fra lingue affini e si ignori l’atteggiamento psicologico
di chi la compie), così anche la differenza fra i calchi strutturali e quelli semantici,
che si fonda sul diverso tipo di motivazione individuata nel modello (formale e
semantica nel primo caso o solo semantica nel secondo caso), è più di grado che di
sostanza. E anche in questo caso, quando non sia chiaro l’atteggiamento che sta
dietro all’interferenza e l’espressione straniera abbia già un corrispettivo nella lingua
d’arrivo, si può restare nel dubbio, come per tavola rotonda, che sul modello
dell’inglese round table ha assunto nell’italiano contemporaneo il nuovo significato
di «discussione fra esperti» e che si può considerare un calco strutturale solo
ipotizzando una introduzione del neologismo avulsa dalla precedente espressione
letteraria che indicava un’assise di cavalieri.
2. Calchi strutturali
Nei calchi strutturali, come si è accennato, viene riprodotta la ‘forma’ del modello,
che deve poter essere interpretata e scomposta nei suoi elementi costitutivi, così da
consentire una resa con materiali indigeni che abbiano la stessa articolazione
strutturale della parola straniera e ne restituiscano la motivazione semantica.
Occorre quindi che il modello straniero sia un derivato, o un composto, o una unità
fraseologica analizzabili sincronicamente: con il calco si creerà una nuova
formazione che andrà a collocarsi nell’inventario lessicale della lingua ricevente.
Merita distinguere fra calchi strutturali di derivazione e calchi strutturali
di composizione. Nel primo caso i derivati stranieri, prefissati e suffissati, vengono
riprodotti con elementi equivalenti della lingua d’arrivo. Se le due lingue sono affini,
si instaurano corrispondenze quasi automatiche che talvolta possono contribuire
alla fortuna di un morfema formativo, come avvenne nel XVIII e XIX secolo con i
calchi di derivati francesi in -
isme (autoritarismo, capitalismo, deismo, giansenismo, parallelismo) e poi coi calchi
di parole inglesi in -
al (attuariale, colloquiale, congeniale, costituzionale, cruciale, editoriale, educazional
e). In qualche caso il calco derivazionale è preceduto dal prestito:
dall’ingl. behaviourism prima si è avuto l’adattamento behaviorismo e poi il
calco comportamentismo.
Carattere più vario e problematico possiede il calco strutturale di composizione. Per
di più, nel caso dell’italiano, fino a tempi recenti lingua poco incline alla formazione
di composti (a esclusione di quelli imperativali, sempre abbastanza produttivi, e di
pochi altri tipi), tale categoria di calchi è stata uno dei principali fattori che negli
ultimi due secoli hanno forzato le strutture tradizionali, aprendo la lingua a nuovi
moduli compositivi. Infatti nel ricalcare i composti stranieri si sono
progressivamente imitati tipi strutturali estranei all’italiano (➔ adattamento): ad
es., calchi come banconota sull’ingl. bank-note, insieme alle neoformazioni con
elementi classici (burocrazia, fotografia; ➔ elementi formativi), hanno aperto la
strada nella composizione alla sequenza determinante + determinato propria del
greco e delle lingue germaniche.
Tuttavia non di rado anche le strutture tradizionali sono riuscite a condizionare in
vario modo la forma del calco inquadrando, ad es., le rese secondo la tradizionale
sequenza neolatina determinato+determinante, come per il ted. Blitzkrieg capovolto
in guerra lampo, l’ingl. hand-ball in pallamano, social climber in arrampicatore
sociale. Nel caso di rendiconto (sul fr. compte-rendu), schiaccianoci (sul
ted. Nussknacker), grattacielo (sull’ingl. sky-scraper) ci si è allineati al diffuso tipo dei
composti imperativali; in altri casi ancora il calco si è risolto in un fraseologismo: il
ted. Arbeitsgeber in datore di lavoro, l’ingl. brainwashing in lavaggio del
cervello, summit conference in conferenza al vertice. In questo modo, come si
distinguono i forestierismi integrali dai forestierismi adattati, ci sono calchi perfetti
che riproducono fedelmente la struttura dell’archetipo, e calchi imperfetti o
approssimativi che invece la adattano agli schemi propri della lingua.
Si parla di semicalchi quando l’imitazione del modello è resa con una certa
autonomia sia sul piano formale che su quello semantico: ad
es., campanilismo riproduce attraverso un derivato l’espressione francese esprit de
clocher; guardalinee e fuorigioco non hanno perfetta corrispondenza con la
semantica degli archetipi linesman e offside. Un’altra categoria è rappresentata dai
calchi parziali o calchi-prestiti, quando ci si limita a tradurre solo un elemento del
composto straniero: uomo-sandwich sull’ingl. sandwich-man. Nei calchi per falsa
motivazione, infine, l’approssimazione della resa non dipende da restrizioni o da
precise scelte, ma dall’errata o imperfetta interpretazione del modello: aria
condizionata deriva da un travisamento dell’ingl. air-conditioned che si riferisce a un
ambiente «condizionato con l’aria»; cartoni animati traduce in modo equivoco
l’ingl. cartoons «disegni» ( anglicismi).
I calchi fraseologici (detti raramente sintematici) concernono la riproduzione di
un’intera espressione polirematica ( polirematiche, parole): tornare alla carica sul
fr. revenir à la charge; terra di nessuno sull’ingl. no man’s land. Spesso si tratta di
fraseologismi che risalgono indietro nel tempo e che si sono irradiati
sinonimicamente in molte lingue europee, ma il fenomeno concerne anche la lingua
contemporanea, con una vitalità e una forza di penetrazione sorprendenti: the man
in the street, uomo della strada, fr. homme de la rue, ted. Mann auf der Strasse,
spagn. hombre de la calle.
3. Calchi semantici
Se con il calco strutturale viene imitato anche il significato del modello, come risulta
in modo particolarmente evidente quando questo non corrisponde alla somma dei
significati dei singoli componenti (anatra zoppa «persona o impresa in difficoltà»
sull’ingl. lame duck), con il calco semantico l’interferenza concerne solo la sfera del
significato: una voce che condivida certi tratti semantici con una parola straniera
viene indotta a imitare l’articolazione del significato straniero e assume nuove
accezioni motivate come estensioni, usi metaforici, specializzazioni, ecc. Il fenomeno
non si instaura con la singola parola straniera presa isolatamente, ma scaturisce dai
contesti in cui essa compare con quel significato particolare: forma «condizione
fisica» è un significato nuovo della parola, ma che proviene dall’espressione essere
in forma, calcata sull’ingl. to be in shape. Diversi calchi semantici di singole parole
sono così preceduti dai calchi delle espressioni che li contengono: voga
«reputazione» da essere in voga sul fr. être en vogue; affluente «benestante»
da società affluente (o società opulenta) dall’ingl. affluent society.
I calchi semantici risultano meno appariscenti degli altri tipi d’interferenza, ma si
stabilizzano in modo più rapido e profondo. Sono ovviamente favoriti dall’affinità
formale fra i lessemi delle due lingue, ma questa può anche non
sussistere: bambola «ragazza procace» sull’ingl. doll, congelare «sospendere un
credito» sull’ingl. to freeze, falco«guerrafondaio» sull’ingl. hawk. Il rapporto di
motivazione tra le diverse accezioni semantiche del modello alloglotto si basa sul
significato comune con il termine corrispondente, e se è vero che il calco avviene
tanto più facilmente quanto minore è il salto semantico da compiere, risulta poi più
difficile dimostrare, senza prove che attestino il processo d’interferenza, che non si
sia trattato di un parallelo sviluppo avvenuto autonomamente nella lingua. Ad es.,
solo l’ampia diffusione del forestierismo authority lo fa ritenere responsabile della
nuova accezione di autorità «organismo di controllo»; solo la compresenza del
prestito integrale single può spiegare la recente accezione di singolo «uomo che vive
da solo» come un calco semantico sull’inglese.
La somiglianza della forma esterna può talvolta influenzare chi compie un calco,
inducendolo a privilegiare un termine più affine al modello, anche se privo di tratti
semantici perfettamente coincidenti: sulla scelta di fallo nel linguaggio sportivo per
rendere l’ingl. foul «infrazione» ha certo pesato la somiglianza del significante. Se
però fra i due termini c’è solo una corrispondenza formale, ma manca ogni
antecedente comunanza di significati, non si ha più un calco semantico, ma un
prestito omofono indipendente dalla parola preesistente: camera «macchina da
presa» è un prestito dell’ingl. camera (a sua volta dall’italiano) e non un calco
semantico ancorato al significato italiano di camera «stanza». In altri casi, quando
fra il significato che viene indotto dal modello straniero e quello che la parola
possedeva prima la distanza è notevole e difficilmente motivabile, non sempre è
possibile stabilire se si tratti di un calco o di un prestito: realizzare ha assunto il
significato di «comprendere» sul modello dell’ingl. to realize «accorgersi (di)», ma il
salto dal precedente valore del verbo è tale che più che di estensione semantica si
può parlare di omonimia.
Contatto linguistico
1. Definizione e ambito
La compresenza di più lingue negli usi dei parlanti dà luogo a una situazione di
contatto linguistico. Una definizione classica di contatto linguistico si trova
nell’opera di Uriel Weinreich che ha aperto la via alla ricerca su questo tema: «due o
più lingue si diranno in contatto se sono usate alternativamente dalle stesse
persone. Il luogo del contatto è quindi costituito dagli individui che usano le lingue»
(Weinreich 1953; trad. it. 2008: 3).
Il procedere degli studi ha condotto a delineare via via un concetto più sfumato e
più articolato di contatto, che può essere considerato dal duplice punto di vista dei
parlanti o delle lingue (Berruto 2009). Dalla prospettiva dei parlanti, due (o più)
lingue sono in contatto quando sono contemporaneamente padroneggiate in
qualche misura da uno o più parlanti. Dalla prospettiva delle lingue, due (o più)
sistemi linguistici (che possono essere anche una lingua e un dialetto) sono in
contatto quando si trovano a interagire, cioè quando le loro strutture sono esposte
all’azione dell’una sull’altra. Il luogo del contatto può essere sia il singolo parlante,
sia la comunità sociale nel suo insieme, sia un determinato punto o territorio
geografico, come messo a fuoco in un’altra definizione classica: «il contatto
linguistico è l’uso di più di una lingua nello stesso luogo allo stesso tempo»
(Thomason 2001: 1).
Il contatto di lingue è strettamente associato al bilinguismo ( bilinguismo e
diglossia): una condizione solitamente ritenuta necessaria perché ci sia contatto
linguistico è che ci siano parlanti bilingui. Ma a ben vedere due lingue possono
trovarsi a interagire senza che si debba necessariamente presupporre che i parlanti
o le comunità siano bilingui: è sufficiente che vi siano rapporti fra comunità diverse
tali che una lingua abbia una qualche presenza in una comunità che parla un’altra
lingua. In questo senso, le lingue del mondo odierno sono per la gran parte a
contatto con l’inglese, e ne risentono in varia misura l’influsso, senza che vi sia, o
vada presupposta, effettiva conoscenza dell’inglese da parte dei loro parlanti (la
cosa è particolarmente evidente per l’italiano). Il contatto linguistico è una
situazione diffusa e molto comune, da considerare normale per la generalità delle
comunità parlanti: ogni volta che una popolazione di una lingua si trova ad aver
rapporti con una popolazione di un’altra lingua si ha infatti una situazione di
contatto linguistico.
Gli studi sul contatto linguistico hanno acquistato negli ultimi decenni un notevole
rilievo anche in Italia, dove spesso viene usata per indicare questo settore degli studi
linguistici l’etichetta di interlinguistica (Gusmani 1993; Fusco 2008), che da altri
autori è invece impiegata per indicare gli studi sulle lingue ausiliarie artificiali, in
particolare l’esperanto. La denominazione linguistica del contatto ha tuttavia ormai
raggiunto per quest’area di ricerca un’ampia circolazione internazionale (Myers-
Scotton 2002; Winford 2003; Bombi 2005).
2. Aspetti sociolinguistici e conseguenze del contatto
A seconda di vari fattori sociali e culturali, il contatto può essere orizzontale, quando
le due lingue hanno entrambe prestigio e un’importanza socioeconomica e culturale
comparabile, o verticale (o asimmetrico) quando le due lingue hanno differente
prestigio e una delle due ha una posizione dominante nella società. Il contatto può
essere stabile e durare per secoli, o transeunte e verificarsi per un lasso di tempo
ridotto, o essere anche solo momentaneo, legato a contingenze particolari. Può
inoltre essere diffuso e intensivo, quando i rapporti fra parlanti di lingue diverse
sono molteplici, fitti e continui, oppure può essere episodico e occasionale, quando i
rapporti fra i parlanti sono pochi e limitati ad alcune situazioni comunicative
essenziali.
L’intrecciarsi di questi fattori dà luogo a diversi tipi di situazioni di contatto (cfr. Dal
Negro & Guerini 2007). In ogni situazione di contatto una lingua influisce in qualche
modo sull’altra. I rapporti possono essere sia unidirezionali, quando è solo una delle
due lingue in contatto (detta lingua ricevente o anche lingua replica) ad accogliere
influssi dall’altra (detta lingua fonte o lingua modello), sia bidirezionali, quando le
due lingue si influenzano a vicenda e si scambiano reciprocamente materiali
linguistici. L’italiano è coinvolto in tutta una gamma di situazioni di contatto, sia
orizzontale (contatto esterno, in genere unidirezionale, con l’inglese; contatto
esterno con altre lingue di cultura dell’Unione Europea; contatto interno con il
tedesco e il francese rispettivamente in Alto Adige/Südtirol e in Valle d’Aosta), sia
verticale. È verticale il contatto interno con le diverse lingue di minoranza o parlate
alloglotte, come quelle delle comunità greca (➔ greca, comunità), albanese
(➔ albanese, comunità), provenzale (➔ francoprovenzale, comunità), ecc., e con i
vari dialetti italo-romanzi (➔ dialetti) come il piemontese, il veneto, il siciliano, ecc.
Il contatto coi dialetti è bidirezionale, giacché allo stesso tempo l’italiano influenza i
dialetti, che tendono a convergere verso l’italiano (è il fenomeno noto come
➔ italianizzazione dei dialetti), e subisce il loro influsso (nettamente visibile
nell’➔italiano regionale e nell’➔italiano popolare, oltreché nell’apporto di lessico
che i dialetti hanno fornito alla lingua nazionale nel corso dei secoli; ➔ dialettismi).
Il contatto nella situazione linguistica italiana si dà naturalmente anche fra diversi
dialetti e soprattutto diverse varietà dello stesso gruppo dialettale. In questo caso è
frequente, in aree di forte frammentazione e diversificazione dialettale, la
formazione di una koinè, vale a dire una varietà di dialetto a valenza regionale o
subregionale frutto dell’eliminazione di tratti percepiti come più localmente marcati
e spesso modellata sulla parlata del centro principale o città capoluogo dell’area.
Situazioni tipiche di contatto in cui l’italiano è coinvolto sono anche quelle
migratorie ( acquisizione dell’italiano come L2; emigrazione, italiano dell’). Si tratta
di contatto in genere verticale, con l’italiano lingua dominante nel caso
dell’immigrazione nel nostro paese (che a cavallo tra i secoli XX e XXI ha posto in
contatto l’italiano con decine di lingue anche tipologicamente e geneticamente
molto diverse e lontane), e lingua dominata nei molteplici casi di emigrazione
italiana all’estero, fenomeno com’è noto particolarmente imponente dalla fine del
XIX secolo agli anni Sessanta del XX. Fra le varietà di contatto coinvolgenti l’italiano
formatesi in aree di emigrazione sono noti il cocoliche, mescolanza di italiano e
spagnolo usata nei primi decenni del Novecento nella zona del Río de la Plata e in
particolare a Buenos Aires, e l’italoamericano, una varietà di italiano con lessico
fortemente americanizzato tipica dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti.
In tempi più recenti, si sono moltiplicati i contatti dell’italiano con svariate lingue
dell’immigrazione straniera nel nostro paese, e più ampiamente del commercio
internazionale (Banfi & Iannaccaro 2006). Mentre appaiono ancora poco significativi,
e limitati ad alcuni lessemi dell’ambito gastronomico e commerciale o dell’attualità
internazionale (come kebab e sushi, o talebani) gli apporti recenti delle ‘lingue
esotiche’ con cui l’italiano (sia per effetto delle immigrazioni che per l’aumento della
mobilità e dei contatti internazionali) ha molti più contatti che in passato, un
risultato del contatto fra l’italiano e le lingue materne degli immigrati, che per lo più
apprendono spontaneamente la nostra lingua in contesto naturale, è il formarsi
presso gruppi di immigrati di varietà etniche di italiano interferite dalle lingue di
provenienza.
Il contatto di lingue dà luogo a tutta una serie di fenomeni linguistici e
sociolinguistici e può avere esiti di diverso genere. Un contatto verticale prolungato
fra due lingue in una comunità parlante può condurre alla progressiva perdita di
vitalità e quindi alla decadenza e morte di una delle due lingue, in un processo noto
come sostituzione di lingua. Una delle due lingue occupa via via tutti gli spazi di
impiego dell’altra, finché questa non è più usata da nessuno in nessun dominio e va
considerata estinta (nella comunità che la parlava). Un passo importante in questo
processo è dato dalla riduzione della trasmissione intergenerazionale: la lingua in
recessione viene sempre meno utilizzata nella socializzazione primaria (i genitori
non la parlano più con i bambini piccoli), talché il numero dei parlanti competenti in
quella lingua diminuisce fino a eventualmente azzerarsi col passare delle
generazioni. Un processo di questo genere è in corso in Italia per molte lingue o
varietà minoritarie, e in parte per i dialetti.
Il contatto fra lingue può però anche dare adito al fenomeno opposto: la nascita di
nuove lingue. Questo avviene in situazioni in qualche modo eccezionali, come sono
per es. quelle della formazione di lingue miste. Le lingue miste propriamente dette
( mistilinguismo) nascono da un contatto intensivo che porta due lingue a mescolarsi
nel lessico e nella grammatica, con un’interpenetrazione progressiva che dà appunto
luogo a un nuovo sistema linguistico.
Molto significative per i fenomeni linguistici che vi si verificano sono anche le
situazioni di contatto non intensivo in un contesto fortemente plurilingue e
pluriculturale con la presenza di una lingua dominante, che portano alla formazione
di pidgin ( italiano come pidgin). I pidgin sono lingue strutturalmente semplificate e
dal ridotto raggio di azione che nascono per esigenze essenziali di
intercomunicazione fra parlanti di lingue molto diverse. Sono caratterizzati
dall’avere una loro grammatica, diversa da quelle delle singole lingue che
contribuiscono alla formazione del pidgin, e frutto di elaborazione autonoma in
contesto naturale, non guidata da modelli normativi. Viene quindi ‘creata’ una
nuova lingua di uso sussidiario, attraverso processi di semplificazione e di
(ri)grammaticalizzazione, a partire da materiale lessicale tratto prevalentemente
dalla lingua più importante nella situazione, solitamente di tipo coloniale o
migratorio, nella quale si forma il pidgin. Tale lingua base è detta lingua
lessicalizzatrice. Un pidgin, per definizione, non ha parlanti nativi; ma se è adottato
da qualche settore della comunità parlante nella socializzazione primaria acquista
parlanti nativi e può diventare una lingua pienamente sviluppata, un creolo.
L’italiano non è propriamente lingua lessicalizzatrice di alcun pidgin vero e proprio,
ma nella sua storia è stato significativamente coinvolto nella formazione della lingua
franca mediterranea ( lingua franca, italiano come), una varietà pidginizzata che
ebbe fra il Cinquecento e l’Ottocento una certa circolazione nel bacino del
Mediterraneo e in cui molto materiale veniva appunto dall’italiano e da volgari
italiani. Ai nostri tempi, merita di essere menzionata una varietà di lingua di
contatto, il Fremdarbeiteritalienisch («italiano dei lavoratori stranieri»), sviluppatasi
nel secondo dopoguerra negli ambienti urbani della Svizzera tedesca come lingua
veicolare fra immigrati di diversa provenienza, caratterizzata da alcuni tratti di
ristrutturazione tipici dei pidgin (come per es. l’impiego di c’è / ci sono col valore di
verbo pieno, «avere»: io non c’è bambini «non ho figli»). Non vanno confuse coi veri
e propri pidgin le varietà rudimentali di apprendimento spesso sviluppate da
parlanti stranieri di varia provenienza che vengono in contatto con l’italiano.
Anche quando non diano luogo a esiti ‘catastrofici’ come la morte o la nascita di
lingue, le situazioni di contatto a lungo termine inducono di solito mutamenti a vari
livelli nelle strutture delle lingue in contatto. Tali mutamenti portano spesso verso la
convergenza, cioè l’avvicinamento strutturale dei sistemi: nella situazione italiana, è
in genere ben visibile, e da lungo tempo, un processo di convergenza dei dialetti
della campagna nei confronti dei dialetti urbani, e dei dialetti nel loro insieme verso
la lingua standard.
3. Fenomeni linguistici del contatto
I fenomeni linguistici più tipici del contatto sono il prestito ( prestiti), l’interferenza e
la commutazione di codice, nelle loro varie forme e sottocategorie. Anche se si
tratta di concetti che si riferiscono a realtà complesse e la cui precisa definizione è in
parte controversa, se ne può fornire una sommaria caratterizzazione nei termini che
seguono.
Per prestito s’intende fondamentalmente il passaggio di materiale di superficie, e in
primo luogo di elementi lessicali, parole, da una lingua a un’altra: per es., leader,
termine inglese ormai acclimatato in italiano. Si noti che con il termine prestito si
designa sia il fenomeno in sé, il processo, sia il singolo elemento specifico che una
lingua prende dall’altra. L’interferenza concerne invece l’influsso che una lingua può
esercitare su un’altra a livello delle strutture grammaticali, fonologiche, lessicali,
semantico-pragmatiche. Un esempio di interferenza a livello sintattico: sono al
cinema andata, detto da una bambina bilingue, dove l’ordine delle parole tipico
della sintassi tedesca interferisce sulla frase in italiano.
Per molti studiosi, le categorie di prestito e interferenza ricoprono peraltro gli stessi
fenomeni; mentre per altri il prestito è una sottocategoria dell’interferenza, e
precisamente dell’interferenza lessicale, che comprende i due fondamentali
fenomeni del prestito e dei ➔ calchi. Nel calco è in gioco non il significante
straniero, bensì il significato: a materiale lessicale già esistente in una lingua viene
attribuito un nuovo significato mutuato da materiale lessicale corrispondente in
un’altra lingua (come per es. in pellerossa, calco del franc. peau-rouge e questo a
sua volta calco dell’ingl. redskin).
Mentre interferenze, prestiti e calchi sono fenomeni che riguardano la struttura del
sistema linguistico, la commutazione di codice (ingl. code-switching) si manifesta nel
discorso, nell’uso del sistema linguistico che i parlanti compiono in situazione, e
consiste nell’alternare due lingue, con il passaggio dall’una all’altra nel corso della
stessa interazione verbale, non raramente all’interno di una stessa frase. Un
esempio prodotto da un parlante bilingue italiano/francese: il y avait des jeunes qui
ce la mettevano tutta! («c’erano dei giovani che …»). Un caso particolare, che per
certi aspetti sta a metà fra i fenomeni che riguardano il discorso e quelli che
riguardano il sistema, è la formazione di ➔ ibridismi (parole costituite da morfemi
provenienti da due lingue diverse), che in particolari contesti sociolinguistici può
anche essere il sintomo di una elevata compenetrazione delle grammatiche delle
due lingue.
Nel corso della sua storia, l’italiano è stato in rapporti di contatto con numerose
lingue di cultura, e ciascuno di questi rapporti ha prodotto manifestazioni di diversi
dei fenomeni sopra elencati e lasciato sedimentazioni più o meno evidenti nel
patrimonio di parole e strutture della nostra lingua. Tali rapporti sono stati
particolarmente significativi, per ovvie ragioni storiche e geografiche, in epoca
medievale con l’arabo (➔ arabismi) e in epoca moderna con le lingue romanze e
germaniche (➔ anglicismi, ➔ francesismi, ➔ germanismi). A un prevalente influsso
francese nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, ha fatto seguito nel
prosieguo del secolo un crescente predominio dell’inglese. L’italiano tuttavia non è
soltanto stato lingua ricevente, ma ha anche esportato materiale linguistico,
soprattutto a livello lessicale: in Stammerjohann (2008) sono catalogate alcune
migliaia di parole italiane passate nel corso dei secoli in francese, inglese o tedesco,
o anche in tutt’e tre queste lingue (come, oltre ai noti ciao, mafia, pizza, e a molti
termini musicali e culinari, anche basta, bravo, far niente, malaria, salto, ecc.;
➔ italianismi).
Emigrazione, italiano dell’
1. Definizione
L’espressione italiano dell’emigrazione designa tutte le forme di italiano parlate, nei
paesi di destinazione, da emigrati italiani e dai loro discendenti. Questa nozione
esclude le forme di italiano apprese e utilizzate da gruppi di parlanti non di origine
italiana con cui gli emigrati sono entrati in contatto, come l’italiano semplificato
d’Etiopia sorto nel Corno d’Africa in seguito alla colonizzazione italiana (➔ italiano
come pidgin). In base alla stessa definizione non sono prese in considerazione le
forme di italiano ufficiali fuori d’Italia, come l’italiano elvetico (Berruto 1984;
➔ Svizzera, italiano di), nonché le forme di italiano relative ai recenti usi
internazionali della lingua, per es. nell’ambito delle istituzioni dell’Unione Europea
(Turchetta 2005). Tutte le forme di italiano fuori d’Italia sono trattate in un quadro
unitario da Bertini Malgarini (1994).
Dal punto di vista dei parlanti, l’italiano dell’emigrazione è la lingua di quegli italiani,
singoli o gruppi, che, in seguito a spostamenti in località fuori d’Italia, hanno
conferito un nuovo orientamento alla propria quotidianità nelle due componenti
fondamentali delle attività per la propria sussistenza e della rete di rapporti sociali.
Queste caratteristiche escludono dalla definizione di emigrante i turisti, la cui
quotidianità non è riconfigurata dallo spostamento, e vi includono i lavoratori
stagionali caratterizzati da consuetudini di pendolarismo su distanze più o meno
grandi: per es., transatlantiche tra Italia e America meridionale per i mietitori
campani del tardo XIX secolo; transalpine tra la Val di Zoldo e il Cadore (Belluno) e la
Germania per i gelatieri veneti nel XX secolo (Krefeld 2004: 12, 25).
Infine, dal punto di vista storico, si prende in considerazione il periodo a partire dalla
seconda metà del XIX secolo, prima del quale non si davano le condizioni politico-
economiche per l’espatrio di masse di italiani, ancora privi di un riferimento statale,
sociale e linguistico unitario.
2. Direzioni dell’emigrazione
La consistenza e le direzioni dell’emigrazione italiana nel mondo sono riportate
nella fig. 1 per il periodo 1876-2008, a partire dagli anni seguenti l’Unità del paese
fino ai giorni nostri. La presenza di emigrati italiani e di loro discendenti è
preponderante in Francia e nella Confederazione Elvetica in Europa, e negli Stati
Uniti d’America fuori dall’Europa; presenze più o meno consistenti si riscontrano
anche in Germania, Regno Unito e Belgio in Europa, e Argentina, Canada, Brasile,
Venezuela e Australia fuori dall’Europa. Fino al 1945 i flussi emigratori si sono rivolti
principalmente, ma non esclusivamente, verso la Francia, gli Stati Uniti d’America, il
Brasile e l’Argentina e dopo quella data anche e soprattutto verso la Confederazione
Elvetica, la Repubblica Federale di Germania, il Venezuela, l’Australia.
La multiforme situazione dell’italiano dell’emigrazione che risulta dal dispiegarsi dei
flussi lungo l’arco di più di 130 anni e dalla dispersione delle comunità di emigrati in
vari paesi è stata descritta con metodologie diverse in molti lavori dedicati a singole
realtà. Tra questi vanno menzionati Rovere (1977) per la Svizzera, Krefeld (2004) per
la Repubblica Federale di Germania, Marzo (2010) per il Belgio, Tosi (1991) per il
Regno Unito, Haller (1993) per gli USA, Lo Cascio (1987) per l’America Latina, Bettoni
& Rubino (1996) per l’Australia. Questioni generali sono trattate anche da Vedovelli
(2002).
La natura dell’italiano dell’emigrazione è riconducibile a tre dimensioni principali
relative alle dinamiche che si sono sviluppate rispetto a:
(a) le varietà di italiano della madrepatria;
(b) le altre varietà del repertorio dell’emigrazione, con particolare riguardo verso i
dialetti importati dall’Italia e le lingue dei paesi ospiti;
(c) la trasmissione dell’italiano verso le generazioni successive a quella dell’espatrio.
3. Italiano dell’emigrazione e italiano della madrepatria
L’italiano dell’emigrazione si caratterizza rispetto all’italiano d’Italia per le diverse
configurazioni comunicative dei suoi usi, ridotti lungo quattro dimensioni:
(a) la gamma di varietà, limitata a quelle più basse, che l’emigrato porta nel paese di
destinazione per la sua posizione sociale;
(b) l’assenza dei modelli di riferimento che condizionano la dinamica evolutiva delle
varietà dell’italiano in Italia;
(c) lo spettro degli ambiti d’uso, relativi ai soli rapporti interpersonali all’interno del
gruppo di emigrati;
(d) la pressione delle lingue dei paesi ospiti, obbligatoriamente utilizzate per
rispondere ai bisogni comunicativi in ambiti d’uso lavorativi, scolastici, burocratici,
nonché nei rapporti interpersonali nel nuovo ambiente (Berruto 1987: 180).
L’italiano dell’emigrazione mostra i caratteristici tratti non-standard che si ritrovano
in Italia nell’➔italiano popolare, la varietà utilizzata da parlanti semicolti di strato
sociale basso, ovvero:
(a) forme analogiche nel sistema
verbale: fando «facendo», rimanerebbe «rimarrebbe»;
(b) riduzione dei verbi pronominali esserci e averci alla terza persona: non c’è
italiani «non ci sono italiani», ci sarà certi posti «ci saranno certi posti», le farmacie
c’ha «le farmacie hanno»;
(c) riduzione delle forme di congiuntivo: basta che mangiano e bevono «basta che
mangino e bevano»;
(d) ausiliare avere al posto di essere: m’ha piaciuto tanto «mi è piaciuto tanto»;
(e) ridondanza pronominale: lui mi capiva bene me «mi capiva bene»;
(f) riduzione di forme pronominali: io gli parlo alla padrona «(le) parlo io alla
padrona», lui ci porta a casa la spesa «lui le porta a casa la spesa», parlavano tutto il
suo dialetto «parlavano tutti il loro dialetto»;
(g) ➔ che polivalente: i modelli che lei gli ha dato il nome «i modelli a cui ha dato il
nome»;
(h) fragilità nell’➔accordo soggetto-verbo, con tendenza a concordanze logiche: la
gente che lavorano «la gente che lavora», nessuno mi conoscono «nessuno mi
conosce», le vostre famiglie ottiene tutto quello che gli spettano «le vostre famiglie
ottengono tutto quello che spetta loro»;
(i) scambio di avverbi e aggettivi: lavorare privato il sabato «lavorare privatamente il
sabato», i nostri meglio clienti «i nostri clienti migliori»;
(j) sovraestensioni di preposizioni: non era facile a tornare «non era facile
tornare», è venuto qua di quindici anni «è venuto qui a quindici anni»;
(k) fenomeni di riduzione di negazione multipla: vedo niente «non vedo niente»;
(l) dislocazioni di elementi tematici, a sinistra: la gente la vedi in giro; a destra: non li
lasciano andare negli appartamenti i cani.
La convergenza delle varietà dell’italiano dell’emigrazione verso quelle basse
dell’italiano d’Italia è probabilmente il risultato non tanto di un influsso diretto,
quanto dell’azione di strategie di ➔ semplificazione del sistema indotte dall’analogo
contesto comunicativo orale e informale, dalla condivisione di conoscenze da parte
degli interlocutori, dal riferimento a persone, oggetti, temi, presenti nel contesto
della situazione comunicativa.
La caratterizzazione generale dell’italiano dell’emigrazione come varietà di italiano
popolare va ulteriormente differenziata tra le singole comunità di emigrazione in
base a tre variabili:
(a) la provenienza geografica, che comporta l’intreccio dei tratti popolari sub-
standard con tratti di italiano regionale e dei dialetti ad esso soggiacenti: pecché da
V. a M. dobbià fa tutte quelle curve […] di tornare la sera […] si vedeva
niende «perché da V. a M. dovevamo fare tutte quelle curve […] tornando la sera […]
non si vedeva niente» (emigrato pugliese in Germania);
(b) il tipo di reti sociali presenti nella comunità, che condiziona il mantenimento e la
diffusione di certi tratti (per es., le forme conservative di forme dialettali
meridionali, mantenute e diffuse anche presso emigrati non di origini meridionali
nella rete sociale coesa delle comunità del Belgio studiate da Marzo 2010);
(c) il tempo in cui è avvenuta l’emigrazione, che si riflette in due condizioni: la
diversa predominanza di dialetto e italiano nella competenza del singolo emigrante
lungo il periodo in cui hanno avuto luogo i flussi emigratori, fattore che è funzione
dei processi di diffusione dell’italiano dopo l’Unità descritti in De Mauro (1963); la
relativa disponibilità di contatti con l’italiano d’Italia, che può condizionare
l’orientamento verso lo standard presso gli emigrati.
I contatti con l’italiano d’Italia dipendono dalle tecniche di comunicazione a
distanza, che per decenni dall’inizio dell’emigrazione sono state affidate solo alla
corrispondenza scritta, contribuendo così al relativo isolamento linguistico delle
comunità emigrate dalla madrepatria. Tuttavia l’emigrazione del primo periodo
(circa 20 milioni tra il 1876-1951, di cui 7 rimasti definitivamente all’estero; De
Mauro 1963: 53) impose agli espatriati e ai loro congiunti, esclusivamente
dialettofoni e poco o nulla scolarizzati, l’esigenza di alfabetizzazione e istruzione per
poter comunicare senza intermediari con le persone lontane. L’emigrazione fu così
uno dei fattori cruciali nell’italianizzazione in Italia e fuori, favorendo la diminuzione
dell’analfabetismo (De Mauro 1963: 61-63). L’evoluzione più recente dei mezzi di
comunicazione a distanza (TV satellitari, telefoni cellulari, rete telematica mondiale),
insieme alla maggiore facilità di spostamento, potrà comportare una più fitta rete di
contatti e una potenziale convergenza delle varietà emigrate con quella
metropolitana, come già traspare dalla minore ricorrenza di tratti sub-standard
rilevata a questo riguardo da Marzo (2010).
4. La posizione dell’italiano nei repertori degli immigrati
In termini generali, il repertorio degli emigrati comprende tre poli: il dialetto,
l’italiano (nella varietà popolare descritta nel § 2), la lingua del paese ospite. Il
repertorio può essere ulteriormente articolato nel caso di compresenza di più
varietà di lingua del paese ospite (per es., tedesco svizzero e tedesco standard nella
Confederazione Elvetica).
I tre poli del repertorio degli emigrati hanno diverso peso specifico a seconda:
(a) della relativa predominanza di dialetto nel gruppo di emigrati di prima
generazione fino al 1945, e di italiano dopo quella data;
(b) delle reti di comunicazione delle singole comunità;
(c) degli ambiti d’uso della lingua;
(d) delle generazioni successive alla prima.
L’intreccio di questi fattori comporta diverse configurazioni di dominanza nelle
diverse comunità di emigrati.
La predominanza del dialetto è emblematicamente esemplificata dalla comunità di
Chipilo (stato di Puebla, Messico, oggi 4000 abitanti), dove si è mantenuto il dialetto
veneto di Sigusino (Treviso) come era parlato più di un secolo fa, al momento
dell’insediamento di 529 abitanti di quel paese nel 1882 (Ursini 1988). L’egemonia
della lingua del paese ospite nella varietà locale di tedesco svizzero è invece stata
registrata nella seconda e nella terza generazione di emigrati nella Confederazione
Elvetica (Berruto 1991). L’intreccio dei fattori elencati si dispiega in molteplici
configurazioni di uso di dialetto, italiano o lingua del paese ospite a seconda delle
situazioni, degli interlocutori, degli argomenti: per es., l’uso dell’inglese tra fratelli è
minoritario nella prima generazione di emigrati in Australia (8-31% delle situazioni),
ma dominante tra quelli di seconda generazione (93-98%) (Bettoni 1993).
La possibilità di alternare più lingue nella conversazione e la posizione della lingua
del paese ospite rispetto agli altri due poli del repertorio, per ampiezza di ambiti
d’uso e prestigio sociale, comporta fenomeni di pressione della lingua straniera
sull’italiano, che si manifestano in interferenze, prestiti e nell’insorgere di varietà
miste.
Interferenze si ritrovano anzitutto nei segnali di articolazioni del discorso: iè ←
ingl. yeah«sì»; iù nòu ← ingl. you know «(tu) sai»; esté ← spagn. esté «ebbene».
I prestiti si possono configurare come adattamenti alla struttura della parola
italiana, nonché come calchi semantici e strutturali: nierlàsug ←
ted. Niederlassung «permesso di soggiorno»; firma ← ted. Firma «ditta»; farma ←
ingl. farm «fattoria»; giobbo ← ingl. job«lavoro»; introdurre ←
ingl. introduce «presentare»; scuola alta ← ingl. high school «scuola
superiore»; baliù ← franc. banlieue «(sobborgo di) periferia».
Varietà miste, con forti influssi lessicali e strutturali della lingua del paese ospite,
formatesi nel periodo di emigrazione con predominanza del dialetto nel repertorio
di partenza, sono l’➔italoamericano (Haller 1993), l’italoaustraliano (Bertini
Malgarini 1994), il cocoliche nell’Argentina degli anni 1880-1950 (cfr. omenaggio ←
spagn. omenaje «omaggio»; partire← spagn. partir «dividere»; ladroni ←
spagn. ladrones «ladri»; alcun amico ← spagn. algún amigo «qualche amico»; parlo
per sapere ← spagn. hablo por saber «parlo perché so»; ricorsi tutte le tende ←
spagn. recorrí todas las tiendas «sono stato in tutti i negozi»; Giunchi 1986;
➔ ispanismi.
5. Processi di logorio dell’italiano dell’emigrazione
La pressione della lingua del paese ospite nel repertorio concorre all’abbandono
dell’italiano in dipendenza di fattori quali la coesione familiare, la dispersione della
comunità nella società ospite, la durata del soggiorno nel paese ospite, la
generazione di appartenenza dell’emigrato, la distanza geografica e culturale
dall’Italia.
L’italiano appare più saldo presso le comunità di emigrati nei paesi europei che non
in quelle oltreoceano; negli USA la pressione all’integrazione ha reso più rapido
l’abbandono dell’italiano, mentre la recente politica multiculturale e linguistica
adottata in Australia lo ha rallentato.
L’abbandono dell’italiano si manifesta nel logorio delle sue strutture, che si
dissolvono fino a ridursi a uno stato di estrema frammentazione indotto dall’input
sempre più limitato a disposizione degli appartenenti alle generazioni seguenti la
prima. Secondo il modello di Gonzo & Saltarelli (1983), tra la prima e la terza
generazione la lingua (qui l’italiano) passa da L1 a L2, riduce la sue funzioni a poche
occasioni, subisce drastiche semplificazioni e il lessico viene richiamato alla memoria
del parlante in maniera sempre più selettiva. Nella comunità lucchese emigrata nella
California nord-occidentale il logorio comporta l’erosione delle regole fonologiche in
confine di parola, che nella seconda generazione trovano solo applicazione fissa con
determinate parole o locuzioni; analogamente, le forme di negazione un, ’n «non» si
mantengono solo se seguite da ci, ce (cfr. ’n c’o «non c’ho»), ma sono sostituite
da non in tutti gli altri contesti (Scaglione 2000). Presso un gruppo di emigrati a
Perth, in Australia, dei sei tempi usati da parlanti della prima generazione (presente,
imperfetto, passato prossimo, passato remoto, trapassato prossimo, futuro)
scompaiono nell’ordine futuro e trapassato prossimo nella seconda generazione.
All’interno di questa, si riduce drasticamente anche il numero di occorrenze corrette
dei tempi utilizzati, che scende sotto il 50%. Il sistema viene così semplificato con la
sovraestensione delle forme verbali a disposizione, soprattutto presente e
imperfetto: fare con i bambini cresciono a bit more «quando i bambini saranno
cresciuti un po’ di più» (presente per futuro anteriore), e dopo andavo su dove c’ho
tutte i zie «e dopo andrei là dove ho tutte le zie» (imperfetto per condizionale
presente), quando mi maritavo I couldn’t cook «quando mi sono sposata non sapevo
cucinare» (imperfetto per passato prossimo) (Caruso 2010).
I processi di logorio non sono ineluttabili. Oltre che dal concorrere di fattori sociali
favorevoli, essi possono essere rallentati da atteggiamenti positivi dei parlanti nei
confronti delle lingue importate nel paese ospite e da un’accorta politica scolastica e
linguistica (Bettoni 1993).
Europeismi
1. Definizione
In linguistica il termine europeismo ha vari significati. Possono essere
definiti europeismitratti comuni a più lingue d’Europa, ma anche elementi formativi
di parole (come prefissi e suffissi), locuzioni e persino tratti grammaticali e fonologici
diffusi nelle lingue europee. L’uso a cui si fa riferimento in questa voce è quello per
cui europeismo è una parola (o espressione) che, partendo da una lingua europea, si
è diffusa in una varietà più o meno grande di altre lingue europee,
indipendentemente dalla loro parentela.
2. La nozione di europeismo
Tralasciando gli orientalismi (per es. ➔ arabismi come, nella loro forma
italiana, zucchero, marzapane, sorbetto) ed i gallicismi (per es.
➔ francesismi come bastardo, dozzina, stendardo), che si sono diffusi in italiano e in
altre lingue europee sin dal medioevo, la prima lingua volgare a influire su altre
lingue europee è stata l’italiano (➔ italianismi).
A partire dal Seicento, quando il predominio culturale dell’Europa era passato
dall’Italia alla Francia, sono stati i francesismi a diffondersi nel lessico europeo, come
dimostrano gli esempi seguenti (oltre alle voci elencate da Leopardi):
____________________________________________________
italiano francese inglese
bivacco bivouac bivouac
burocrazia bureaucratie bureaucracy
dettaglio détail detail
maionese mayonnaise mayonaise
menu menu menu
omelette omelette omelet
parquet parquet parquet
proletariato prolétariat proletariat
reazionario réactionnaire reactionary
terrorismo terrorisme terrorism
____________________________________________________
tedesco polacco ungherese
― biwak biwak
Bürokratie biurokracja bürokrácia
Detail detal ―
Mayonnaise majonez majonéz
Menü menu menü
Omelette omlet omlett
Parkett parkiet parketta
Proletariat proletariat proletariátus
reaktionär reakcjonista reakciós
Terrorismus terroryzm terrorizmus
Alla francomania seguì l’anglomania, ai gallicismi gli anglicismi: termini di politica, di
costume e dello sport, nomi di cibi e di bevande:
___________________________________________________________________
tedesco polacco ungherese
auf Wiedersehen do widzenia a viszontlátásra
eiserner Vorhang żelazna kurtyna vasfüggöny
Mutter aller Schlachten ― ―
Sono stati considerati internazionalismi (europeismi) anche locuzioni, cioè calchi di
fraseologismi o interfraseologismi (ted. Inter-Phraseologismen; Braun & Krallmann
1990). Molti di essi risalgono alla comune tradizione cristiana e sono calcati da, o
varianti di, citazioni bibliche (ibid.: 76 segg.):
it. portare il cuore in bocca
fr. avoir le cœur sur les lèvres
ingl. to wear one’s heart on one’s sleeves
ted. sein Herz auf der Zunge tragen
pol. mieć serce na dłoni
ungh. ami a szívén, az a száján
Spiccano generalmente i riferimenti al corpo umano, come in questi esempi:
it. accogliere qualcuno a braccia aperte
fr. recevoir quelqu’un à bras ouverts
ingl. to receive somebody with open arms
ted. jemanden mit offenen Armen empfangen
pol. przyjąć z otwartymi rękami
ungh. tárt karokkal fogad
it. perdere la testa
fr. perdre la tête
ingl. to lose one’s head
ted. seinen Kopf verlieren
pol. stracić głowę
ungh. elveszti a fejét
it. mostrare i denti a qualcuno
fr. montrer les dents à quelqu’un
ingl. to show somebody one’s teeth
ted. jemanden die Zähne zeigen
pol. pokazać zęby, (wy)szczerzyć zęby
ungh. kimutatja a foga fehérjét
Per uno studio degli europeismi locuzionali, ricco di esempi di interesse altrettanto
culturale che linguistico, cfr. Lurati (2002). La stessa considerazione vale per i tratti
grammaticali propri a più lingue. Nocentini (2002: 326 seg.) ha fatto il confronto
seguente (con lo spagnolo e il russo, senza il polacco):
it. la commissione ha votato per l’ordine del giorno
fr. la commission a voté pour l’ordre du jour
ingl. the committee has voted for the order of the day
ted. die Kommission hat für die Tagesordnung gestimmt
pol. komisja przyjęła porządek dzienny
Oltre alle molte corrispondenze lessicali, tra le lingue europee ci sono anche
corrispondenze morfologiche e sintattiche; anzi, la nozione di lega linguistica viene
riferita più spesso a corrispondenze grammaticali che a corrispondenze lessicali,
perché quelle grammaticali sono più difficili da evidenziare. Anche la consapevolezza
della convergenza grammaticale dell’Europa non è recente (Pagliaro & Belardi 1963:
139-153); risale (1939) all’americano Benjamin Lee Whorf (Haspelmath 2001) la
coniazione del termine Standard Average European (SAE, «europeo medio
standard»), usato per cogliere i tratti comuni all’area delle lingue inglese, francese,
tedesca e altre lingue indoeuropee a confronto della lingua amerindiana hopi. Da
allora è stata sviluppata la nozione del SAE e il
termine europeismi (ingl. europeanisms; Haspelmath 2001: 1493) è stato esteso a
tratti grammaticali, come l’articolo definito e indefinito (in italiano il, la, ecc.,
rispetto a un, uno, una), le proposizioni relative con pronomi relativi (che, chi, cui,
ecc.), il passato composto del tipo ho amato, ecc. (Haspelmath 2001; Nocentini
2002: 327; Haarmann 1976, che abbozza anche una tipologia fonologica delle lingue
d’Europa). Ma mentre la comunanza grammaticale (e fonologica) delle lingue
d’Europa è un fenomeno di lunga durata e perciò meno palese, quella lessicale viene
confermata ogni giorno da una comune neologia: una neologia che è ormai globale,
più che europea, tanto che europeismo è diventato una nozione storica.
Forestierismo
In linguistica (in cui più comunemente si usa il sinonimo prestito), parola, locuzione
o anche costrutto sintattico introdotti più o meno stabilmente in una lingua da una
lingua straniera, sia nella forma originaria (per es., l’ingl. week-end) sia con
adattamento alla struttura fonetica e morfologica della lingua d’arrivo (per
es., bistecca); in qualche caso, non è un elemento lessicale che viene mutuato ma
una delle accezioni che esso ha nell’altra lingua (e allora si parla più propriamente
di calco).
Italianismi
1. Definizione
Sono entrati in altre lingue anche ➔ affissi italiani, per es. il suffisso -esco, entrato in
francese (arabesque, burlesque, grotesque), spagnolo e portoghese
(arabesco, burlesco, grotesco; Serianni 2008: 28) ecc., o -issimo, entrato in francese
(grandissime, richissime, sérénissime) e in altre lingue, ma non sempre distinguibile
dal latino -issimus, adottato anche direttamente in portoghese (Paiva 2008).
Possono essere italianismi grafie, per es. in romeno le grafie fonetiche invece di
grafie etimologiche (emoragie, filosofie di contro a fr. hémorragie, philosophie), o
l’inserzione di una h per rappresentare la pronuncia velare di ‹c› e ‹g› davanti a ‹e› e
‹i› (chiar, chimie, spaghete,ghid), e addirittura pronunce, se è vero che nel francese
dei secoli XVI-XVII c’era esitazione tra squadron e staffette, all’italiana, e
fr. esquadron e estaffette (Serianni 2008: 27); la difficoltà che hanno gli spagnoli a
pronunciare la s impura li induce tuttora a inserire una e prostetica e pronunciare,
per es., scudetto come escudetto.
Il calco può essere formale e semantico. Nel calco formale (o strutturale) è calcata la
forma, per es. fr. chou-fleur, che è la traduzione letterale di it. cavolfiore; in una
lingua come il tedesco l’ordine degli elementi costitutivi è inverso: Blumenkohl,
letteralmente *fiore cavolo. Meno numerosi dei calchi di locuzioni nominali sono
quelli di locuzioni verbali, per es. fr. être de mèche (< esserci di mezzo). Anche frasi
intere possono essere calcate, come dimostrano l’interiezione francese te vienne le
chancre! (< ti venga il canchero!) o il detto famoso che la leggenda attribuisce a
Galileo Galilei, eppur si muove!, adattato in tedesco come und sie bewegt sich
doch! Un calco può essere parziale, quando una parte è stata presa a prestito, l’altra
tradotta, per es. ted. Nettogewicht < it. peso netto, con traduzione di peso e con la
tipica inversione degli elementi costitutivi.
Nel calco semantico è calcato il significato: per es. ted. Füh;-rer «guida, dirigente,
conducente», romeno Conducător, serbocroato Poglavnik, spagn. Caudillo, hanno
adottato il significato di «dittatore» dall’it. duce, che aveva anticipato questo
sviluppo semantico in italiano. Più sono imparentate le due lingue coinvolte e più
facilmente tra loro possono nascere calchi semantici.
3. Tipi
Si chiamano pseudoitalianismi le formazioni che sembrano italiane ma non lo sono,
per es. la locuzione tutti frutti, che si trova in molte lingue nel senso di «frutta
mista», poi «gelato misto», quindi usato per qualsiasi mixtum compositum (per i
dettagli vedi DIFIT 2008). Similmente, il romeno contropapa è composto da due
parole italiane, mentre il composto italiano è antipapa.
Un prestito può a sua volta essere preso a prestito; allora il prestito primario è
chiamato diretto, quello secondario indiretto. Per es., il fr. baguette è un italianismo
diretto perché viene da it. bacchetta, ma l’ingl. baguette e il ted. Baguette sono
italianismi indiretti perché vengono dall’it. bacchetta attraverso il fr. baguette;
similmente, il suffisso fr. -esque (< it. -esco, vedi sopra) è un italianismo diretto, ma
l’ingl. -esque e il ted. -esk (< fr. -esque < it. -esco) sono italianismi indiretti. Sono
notevoli gli italianismi indiretti in romeno, per es. quelli passati attraverso il
neogreco.
Per formativi estrapolati da prestiti e diventati a loro volta produttivi in altre lingue,
come l’appena menzionato suffisso francese -esque, è stato proposto il termine
«induzione» (Gusmani 19862: ad indicem). Così il suffisso -esque, che si ritrova in
fr. feuilletonnesque e attraverso il francese anche in inglese, per es. gardenesque, e
in tedesco, per es. clownesk, serve fra l’altro per formare aggettivi deonomastici, per
es. fr. kafkaësque, ingl. Kafkaesque, ted. kafkaesk. Per -issimo l’induzione è ovvia
quando viene giocosamente attaccata a parti del discorso improprie, per es.
fr. affairissimo (Margarito 2008: 81), spagn. tenorissimo(riferimenti allo spagnolo,
salvo qualche esempio, da Losada & Gil 2008), ted. Transportissimo (per una
raccolta di suffissi incontrati negli italianismi tedeschi cfr. Grassi 1987; per il finnico
cfr. Suomela-Härmä & Härmä 1991; per valutare la produttività di un suffisso in una
lingua si vedano, dove esistono, i dizionari inversi, per es. Landi 1991 per l’albanese).
4. Adattamenti
Un prestito può essere più o meno adattato e l’adattamento può essere fonetico,
grafico, grammaticale, lessicale e semantico. È plausibile che prestiti passati per via
orale mantengano più la pronuncia che la grafia, mentre prestiti passati per via
scritta, soprattutto se sono meno antichi e già soggetti a qualche standardizzazione
ortografica, sempre conservatrice, mantengano più la grafia che la pronuncia.
A livello fonetico soprasegmentale, per es., per i francesi è difficile sopprimere la
tendenza ad accentare l’ultima sillaba (ossitonia); per gli ugro-finnici quella ad
accentare la prima (Suomela-Härmä & Härmä 1991), per es.
ungh. àllegro, màcaroni, pìzzeria; per i polacchi, quella ad accentare la penultima
(«parossitonia»), per es. gondòla, mandòrla, podèsta (Widłak 2000). In inglese e
tedesco spostamenti di accento sono rari ma capitano, per es. rondò (< fr. rondeau),
in queste e altre lingue viene accentato sulla prima sillaba. Dove occorrono,
spostamenti d’accento possono essere indicativi della via orale del prestito.
A livello fonetico segmentale, le lingue europee continentali condividono con
l’italiano la cosiddetta continental pronunciation delle vocali (principalmente la
pronuncia delle vocali come in latino), mentre l’inglese le adatta o rilassandole o
dittongandole, per es. [ælˈeɪgrəʊ] (accanto a [aˈlegro]). Anche in tedesco la
pronuncia delle vocali è più rilassata che non in italiano, mentre in francese è ancora
più tesa. È da notare che per pizza gli inglesi conservano la pronuncia tesa, cioè
[ˈpiʦə] o addirittura [ˈpiːʦə], mentre i tedeschi la rilassano e
pronunciano Pizza come Spitze, cioè [ˈpɪʦa]. Per i francesi, poi, è difficile non
nasalizzare la sequenza italiana vocale + nasale, sicché la loro pronuncia
di accelerando sarà più o meno nasalizzata: [akseleˈʀãdo].
La r italiana, tipicamente pronunciata con la punta della lingua (r apicodentale;
➔ vibranti), è diffusa in molte lingue, ma in francese, inglese e tedesco solo
regionalmente; normalmente la r francese e tedesca è moscia (r uvulare) e quella
inglese è retroflessa. I tedeschi poi si riconoscono anche per il colpo di glottide
davanti a iniziale vocale di sillaba, per es. [aˈlegro], e per l’aspirazione delle
consonanti mute, per es. Tempo [ˈthɛmpo] (tutti e due però tratti più del tedesco
settentrionale che generali); per la sonorizzazione di siniziale davanti a vocale, per
es. Sakko, Salami, Salat [za-]; per la pronuncia dei nessi sp- e st- come [ʃp] e [ʃt], per
es. Spion [ʃpjoːn], Stafette [ʃtaˈfɛtə]; e per la pronuncia del nesso
labiovelare (c)qu come [kv], per es. Aquatinta [akvaˈtɪnta] rispetto a it. e anche a fr.
e ingl. [akwa-]; sembra dovuto all’influsso latino (aqua) se le altre lingue non
conservano la ridondanza grafica dell’italiano e riducono il nesso grafico cqu, che
esiste pure nelle loro lingue (fr. acquérir, ingl. acquire), a qu.
È comune a francesi, inglesi, tedeschi e molti altri la difficoltà di pronunciare le
consonanti lunghe, scritte doppie, dell’italiano: alla viene pronunciato [aˈla] invece
di [aˈlːa]. Infatti, molte lingue non conservano neanche la grafia doppia e la
semplificano sistematicamente: per es. il romeno, che non la conosce affatto,
scrive rizoto, o lo spagnolo, che conosce solo la doppia rr, scrive risoto. Secondo la
lingua e il grado di adattamento, molti italianismi perdono l’uscita vocalica: per
es. arsenale > fr. arsenal, ingl. arsenal, ted. Arsenal; baldacchino > fr. baldaquin,
ingl. baldachin, -quin, ted. Baldachin; bandito > fr. bandit, ingl.bandit, ted. Bandit.
Un esempio di adattamento grafico è la grafia francese allégro (accanto a allegro). In
tedesco, il grafema ‹c› viene spesso sostituito con ‹k› se velare o con ‹z› se palatale:
per es. cappuccino > Kapuziner, dove le consonanti doppie sono anche semplificate.
Dimostra una grande forza integrativa il romeno; per es., la z sorda (foneticamente
[ʦ]) viene resa con ţ(piaţă), la s sonora ([z]) con z(rizoto), sc davanti a e e i ([ʃ])
con ş(şirop). In spagnolo, gli italianismi amici e chianti vengono
scritti amichi e quianti (port. quiante). I prestiti dell’it. ciao in varie lingue riflettono
gli adattamenti alle grafie rispettive, per es. spagn. chao, port.tchau, romeno ciau,
ted. tschau (raro, accanto a ciao).
L’adattamento grammaticale riguarda, fra l’altro, il genere e il numero dei sostantivi.
In francese, con gli stessi due generi maschile e femminile dell’italiano e gran parte
del lessico apparentato, potrebbe sembrare normale che i nomi conservino il loro
genere. Ma ci sono eccezioni, soprattutto quando la parola italiana perde la
desinenza identificatoria del genere: per es. alberello, naturalmente maschile in
italiano, in francese è diventato albarelleed è femminile. Il tedesco ha la scelta fra
tre generi − maschile, femminile e neutro − e nel senso di «vaso da
farmacia» alberello è passato anche in tedesco. Ha conservato la desinenza ma è
neutro: das Alberello. Infatti, sostantivi in -o, normalmente maschili in italiano, in
tedesco sono neutri, per es. anche Abattimento [sic], Aggiornamento, Animo; sono
neutri in tedesco tutti i nomi (aggettivi sostantivati) dei tempi musicali, per
es. Adagio, Allegro,Andante, forse per sottintendimento di Tempo, a sua volta
neutro in tedesco. Il passaggio al neutro sembra normale quando la desinenza -o è
andata persa nel passaggio in tedesco, per es. Ballett, Konzert, Kolorit. Hanno
tendenza a diventare neutri in tedesco anche sostantivi italiani in -e, per es.
ted. Ambiente, Arsenal, Belvedere. Invece, sono rari i sostantivi italiani in -a,
femminili, che in tedesco passano al neutro, per es. das Boccia (perché è un gioco,
ted. das Spiel) accanto a die Boccia (perché è una palla, ted. die
Kugel), Filigran, Lametta. Il genere italiano è conservato quando è motivato
semanticamente, per es. nei nomina agentistedeschi Agent, Bariton, Kapuziner. In
romeno soprano ha preso forma e genere ad sensum ed è divenuto soprană,
femminile.
Invece, l’inglese non conosce più la categoria del genere grammaticale; questa è,
secondo Pinnavaia (2001: 99 segg.), la ragione per cui, per
es., intarsio e romanzo sono passati in inglese come intarsia e romanza (e
inversamente, per es., grotta e salva come grotto e salvo). Ma è vero anche che la
maggioranza dei prestiti italiani in inglese finisce in -o, desinenza sentita come
romanza dai non italofoni e perciò usata giocosamente, per es. ted. Palazzo Prozzo o
addirittura Protzo, il soprannome che avevano dato i cittadini della ex Repubblica
democratica tedesca al Palast der Republik, a Berlino, dove avevano luogo le
manifestazioni di interesse nazionale; prozzo o protzo è l’italianizzazione di
ted. Protz «sfoggio».
La formazione del plurale, specie di un maschile italiano in -o, indica
sistematicamente il grado di integrazione di un italianismo: la conservazione del
plurale ‘italiano’ in -i indica una integrazione meno avanzata che la formazione di un
plurale francese, inglese, tedesco, ecc. in -os. A volte un plurale italiano non viene
riconosciuto come tale e se ne forma uno nuovo, per es. broccoli (> fr. le brocoli, les
brocolis; ted. der Brokkoli o Broccoli, die Brokkolis o Broccolis, almeno nell’uso
popolare) e similmente confetti, graffiti, maccaroni (dial.,
it. maccheroni), panini, paparazzi, salami, plurali italiani che in molte lingue sono
considerati singolari e dotati di nuovi plurali. Spaghetti, che designando la pasta è
spesso riconosciuto come plurale, in inglese e tedesco (popolare) è singolare e
forma un nuovo plurale nel significato spregiativo di «(uomo) italiano».
Anche Azzurri, essendo il nome di una squadra, viene spesso messo al plurale, per
es. ted. die Azzurris o, meno improprio, spagn. azurros (per i modi di adattamento
grammaticale in polacco, lingua a grande forza integrativa, cfr. Małecka 1997).
Passando agli adattamenti lessicali, la prima constatazione è che il prestito di verbi
italiani è molto più raro in inglese che non in francese o in tedesco, forse perché
queste due lingue hanno più facilità di adattarli. Mentre il francese, lingua romanza
come l’italiano, li adatta alla coniugazione affine, per es. accasare > acaser, e il
tedesco può ricorrere alla desinenza -ieren, per es. improvvisare > improvisieren,
l’inglese, non avendo più desinenze infinitivali indigene, può adattarli solo lasciando
cadere le desinenze italiane, per es. impastare > to impast (ted. impastieren) o, a
volte, sostituendo la desinenza italiana con una desinenza inglese di origine latina,
per es. martellare > to martellate. Ma l’inglese deve la ricchezza del suo lessico, fra
l’altro, alla sua facilità di convertire una parte del discorso in un’altra, e così può
anche formare verbi da sostantivi o aggettivi italiani per semplice conversione, per
es. to balloon, to crescendo, to fresco. Più curioso il prestito della locuzione della
Crusca come Della-Cruscan, a sua volta sostantivato in Della-Cruscanism.