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LE MINORANZE LINGUISTICHE IN
ITALIA
PREMESSA
Nel caso delle minoranze linguistiche, il problema che si pone è quello di tutela del
PATRIMONIO LINGUISTICO, perché i diritti linguistici che le riguardano sono gli stessi di
quelli di qualsiasi altro membro della comunità statale in cui si integrano.
In Italia il problema è complicato dalla difficoltà di distinguere i concetti di Lingua e Dialetto.
Varietà come il sardo e il friulano possono essere considerati alla pari di altri dialetti, al
massimo possono essere strutturalmente più distanti dall’italiano rispetto al dialetto, ad
esempio, di Siena. Entrano in campo però nel loro caso valutazioni extralinguistiche,
connesse con diversi livelli di rivendicazione politico-culturale.
LEGGE 482/99: unico riferimento che definisca norme generali valide per tutto il territorio
nazionale. Ma ha sollevato ambiguità, e mostra limiti di applicabilità pratica.
Solo dall’Ottocento, dunque, si afferma il tema delle minoranze linguistiche, anche grazie al
nuovo clima romantico e ai passi avanti della glottologia. Poteri politici: nuova volontà
precisa di “reductio ad unum” (proprio in questi anni comincia la demonizzazione dei dialetti
come qualcosa di incolto). Vi fu così la corsa all’acquisizione della qualifica di lingua da parte
di diversi gruppi → fenomeni di “invenzione” di una identità. Conseguenza di questo clima fu
il primo, faticoso riconoscimento dell’esistenza degli aspetti politici legati ai diritti linguistici e
culturali.
utilizzato nel processo di standardizzazione di varietà “artificiali” (ma quasi sempre con
scarsi risultati).
La parola etnia è entrata nel lessico a partire dalla fine dell’Ottocento. Ma è difficile
distinguerla, sulla base della sua definizione, da “nazione” (tuttavia, nell’uso corrente, a
quest’ultimo termine viene per lo più associato il significato di un’organizzazione
politico-sociale dotata di istituzioni riconosciute, dimensione non presente nel concetto di
etnia). Dunque, sostanzialmente, “nazione”= società, frutto di un accordo sottoscritto dai suoi
membri; mentre “etnia”= comunità non organizzata, forma spontanea di aggregazione
basata su sentimenti comuni di appartenenza. L’etnia è, dunque, in un certo senso, una
nazione “in potenza”. Risulta tuttavia difficile, storicamente, che una nazione venga a
corrispondere esattamente a una preesistente etnia → da qui, il possibile disagio delle
minoranze all’interno della società-nazione.
Dunque l’etnia è sempre minoranza, anche nelle situazioni più favorevoli del suo rapporto
con lo stato di riferimento, e cessa di esserlo solo nel caso di un’eventuale ottenimento
dell’indipendenza.
Bisogna notare inoltre che la percezione e la questione delle minoranze varia anche
moltissimo da stato a stato (ciò risultando anche in discrepanze notevoli tra le legislazioni
dei vari paesi).
Progetto più importante, in questo ambito, del Consiglio d’Europa: Carta europea delle
lingue regionali e minoritarie (1992) → tratta però delle minoranze STORICHE (sono escluse
quindi quelle degli immigrati). Importante anche per l’estrema adattabilità ai diversi contesti
nazionali e alle situazioni specifiche.
Il dibattito si è protratto poi per alcuni decenni, coinvolgendo non solo i “tecnici del mestiere”,
ma anche ampie fasce dell’opinione pubblica, giungendo infine alla legge del 15 dicembre
1999, n. 482, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” → principale
provvedimento legislativo in materia linguistica espresso dal Parlamento. Si tratta dell’unico
provvedimento-quadro che definisca norme generali valide per tutta Italia, ma presenta
diversi limiti (soprattutto in relazione alla dibattuta enumerazione delle lingue ammesse a
tutela).
L’art. 1, comma 1, definisce l’italiano come lingua ufficiale della Repubblica (novità: nella
Costituzione non è prevista l’ufficialità dell’italiano).
Art.2: La Repubblica promuove altresì la valorizzazione delle lingue e culture tutelate dalla
legge suddetta → punto debole della legge: l’elenco di lingue che vanno tutelate.Tuttavia, ha
il merito di avere sbloccato una situazione di perdurante inadempienza costituzionale.
Quanto del panorama linguistico italiano resta fuori dalla sistemazione proposta dalla legge,
in conclusione, viene di fatto dichiarato non suscettibile di tutela alcuna perché escluso dalla
categoria di “bene linguistico”. I deficit e i rischi di questa impostazione sono evidenti.
Innanzitutto, la 482 legittima una GERARCHIA all’interno del patrimonio linguistico italiano;
inoltre, il numero chiuso delle minoranze linguistiche storiche ingloba e uniforma realtà
sociolinguistiche assai diverse tra loro, con il risultato di fornire soluzioni di tutela molte volte
insufficienti, poco adatte o poco efficaci.
In aggiunta, un limite importante della legge è il suo impianto storicista e “territorialista”, che
esclude le nuove lingue dei migranti e quelle dei nomadi dalla tutela linguistica.
quelle condivise dal codice egemone. Infatti, se davvero si ammette l’utilità delle pratiche di
ufficializzazione ai fini della rivitalizzazione di un idioma minoritario, diventa allora ineludibile
il problema della sua standardizzazione, ed essa passerà attraverso il tentativo di
promuovere una varietà sopralocale fatalmente artificiosa. In un processo di tutela basato
sull’espansione degli usi scritti, tuttavia, non è possibile ammettere le diverse varietà locali,
con il rischio di gravi perdite nel patrimonio linguistico.
La legge 482, inoltre, favorisce una percezione dei patrimoni linguistici regionali non più
come un insieme e continuum di varietà locali, ma come unità astratte fornite di analoghe
prerogative.
Per di più, se si ammette l’esistenza sul lungo periodo di forme di identificazione collettiva o
addirittura di rivendicazione di una specificità linguistica e culturale per alcune delle
minoranze attualmente ammesse a tutela, si dovrà ammettere anche che esigenze analoghe
di promozione hanno riguardato in maniera assolutamente analoga diverse realtà dialettali
regionali. Alla luce di ciò, viene meno il ruolo della lingua come fattore “oggettivo” di
distinzione, e persino dell’ambito di diffusione di una varietà come “territorio” afferente a una
specifica realtà “etnica”.
Un altro spunto di riflessione può essere che una specifica “identità” individuale o collettiva
basata su componenti idiomatiche può essere costituita e potenziata in qualsiasi momento e
a partire da qualsiasi situazione. Ciò che “ci si sente” può insomma differire sostanzialmente
da ciò che realmente si è.
italiano, ed è tra le più garantite in Europa dal punto di vista dell’applicazione dei principi del
bilinguismo istituzionale e del riconoscimento dei propri diritti culturali.
Il Tirolo fu per lunghissimo tempo sotto l’Austria; il sentimento irredentista della regione
italofona meridionale cominciò a manifestarsi dal 1848, ma nessuno sostenne mai
seriamente che anche il territorio di Bolzano dovesse far parte delle c.d. “terre irredente”.
Dopo la fine della 1GM, tuttavia, sia il Trentino che l’Alto Adige vennero attribuiti all’Italia. I
Tirolesi germanofoni tentarono in un primo tempo di opporti alla ratifica dello stato di fatto,
orientandosi successivamente sulla richiesta di forme concrete di autonomia amministrativa
e culturale. L’avvento del fascismo coincise invece con la fase dei tentativi di italianizzazione
forzata della regione. Con l’ascesa al potere di Hitler e dopo l’annessione dell’Austria al
Terzo Reich, il governo italiano dovette far fronte al crescente sentimento pangermanico
della popolazione di lingua tedesca, apertamente appoggiato dai nazisti. Molti sudtirolesi
emigrarono a causa di ciò in Germania e in Austria.
Dopo la fine della guerra, De Gasperi concesse la creazione di una regione a statuto
speciale comprendente l’Alto Adige e il Trentino, all’interno della quale furono garantite alla
minoranza di lingua tedesca forme significative di tutela. Tuttavia, una volta che queste non
vennero effettivamente concesse dal governo, si sviluppò e crebbe il terrorismo sudtirolese,
fino ad arrivare a una soluzione nel 1972 con la creazione di un nuovo statuto speciale in cui
vigevano norme di tutela e promozione della lingua tedesca. Queste hanno portato la
popolazione del Tirolo Meridionale a fruire di una reale autonomia politica e culturale.
I maggiori problemi linguistici e culturali dell’autonomia sudtirolese sono dati oggi dalla
nuova situazione discriminatoria che è venuta a crearsi nei confronti del gruppo italiano (per
quanto riguarda aspetti importanti dell’inserimento sociale, vigono infatti rigide regole basate
sulla proporzionale etnica, e gli italofoni sono in netta minoranza quasi ovunque in Sudtirol).
Grazie alle recenti disposizioni, ora tutta l’area di lingua e cultura slava del Friuli-Venezia
Giulia (compresa Udine e provincia) vede istituite condizioni di plurilinguismo affini, almeno
in linea di principio, a quelle vigenti in Alto Adige e in Valle d’Aosta.
È facile constatare dunque come la percezione di una “unità” culturale del gruppo linguistico
ladino possa risultare precaria, e come le diverse vicende storiche vissute dalle varie aree
abbiano avuto ripercussioni sulla percezione dell’identità dei rispettivi parlanti.
PAR.2) IL FRIULANO
Nel territorio della regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia si integrano due realtà
storiche, culturali e linguistiche diverse, quella friulana e quella rappresentata, con Trieste,
da ciò che resta all’Italia dell’area giuliana e istriana.
La popolazione che parla dialetti di ceppo friulano è concentrata in gran parte nelle attuali
province di Udine, Pordenone e Gorizia e in alcune frange di quella di Venezia (anche se va
precisato che in gran parte del Goriziano e nella fascia orientale di Udine i dialetti friulani
convivono storicamente con lo sloveno, e che i principali centri urbani della regione sono
tradizionalmente venetofoni).
I dialetti friulani, suddivisi in tre grandi raggruppamenti (carnico, occidentale e
centro-orientale) condividono con quelli ladino-dolomitici e con le parlate romance dei
Grigioni una serie di tratti conservativi rispetto alle parlate dell’Italia settentrionale (sulle
cause di ciò si è ampiamente dibattuto nella “questione ladina”, anche se oggi sembra più
probabile che sia un fatto dovuto alla maggior conservazione delle aree laterali piuttosto che
all’esistenza di un’arcaica “unità ladina”). In ogni caso, il friulano ha acquisito personalità
autonoma nel contesto delle varietà italiane settentrionali al punto di essere considerato
dagli studiosi come gruppo linguistico a sé, le cui peculiarità sono state riconosciute dalla
legislazione nazionale mediante il suo inserimento tra le varietà minoritarie ammesse a
tutela in base alla legge 482/99. Si è inoltre sviluppata anche una specifica identità culturale,
soprattutto a partire dalle ricerche dell’Ascoli sull’originalità del friulano. Solo di rado, tuttavia,
il friulanismo si espresse in forme di rivendicazione politica a sfondo nazionalista.
L’affermazione della specificità friulana resta legata in primo luogo alla problematica
linguistica e culturale, ambiti nei quali la minoranza ha saputo dotarsi col tempo di ottime
strutture. I temi principali attuali sono connessi da un lato all’esigenza di uscire dalla relativa
crisi dell’uso, dall’altro alle prospettive di elaborazione di una varietà sopralocale, che
aggiorni la vecchia koinè letteraria basata sul friulano centrale.
Nonostante tutti i limiti e i dilemmi, quella friulana resta oggi una delle culture regionali più
vivaci in Italia, e il friulano è probabilmente, accanto al sardo, l’unica varietà minoritaria che
abbia sviluppato intorno a sé un movimento culturale paragonabile a quello dei principali
gruppi linguistici regionali europei.
PAR. 3) IL SARDO
Le vicende storiche, politiche e linguistiche che la Sardegna dovette attraversare furono
molteplici e complesse. Nel secondo dopoguerra si assistette a un’esponenziale crescita
della coscienza autonomista: i temi del riconoscimento della specificità linguistica e culturale
della Sardegna cominciarono a entrare nel dibattito politico e sociale, davanti all’innegabile
specificità linguistica e culturale della Sardegna. Il sardo rappresenta infatti un insieme
dialettale fortemente originale nel contesto delle varietà neolatine e nettamente differenziato
rispetto alla tipologia italoromanza, al punto che gli studiosi sono sostanzialmente concordi
nell’affermarne l’originalità come gruppo a sé stante.
Un aspetto vistoso della realtà linguistica sarda è dato poi (oltre che dalla presenza sull’isola
di importanti varietà alloglotte) dalla frammentazione dialettale, che consente di individuare
alcune macroaree (logudorese e campidanese in primo luogo), all’interno delle quali si
riscontrano ulteriori elementi di differenziazione interna, corrispondenti alla tradizionale
divisione subregionale del territorio. Il sardo non si configura insomma come UNA lingua
minoritaria, bensì come un gruppo di parlate estranee al sistema dei dialetti italiani ma privo,
tradizionalmente e nella realtà attuale, di una lingua-tetto di riferimento diversa dall’italiano
letterario.
Sull’isola, l’italiano ha ormai stabilmente assunto un ruolo di grande importanza, non soltanto
in quanto lingua ufficiale: infatti, pur essendo sentito come fondamentalmente estraneo alle
tradizioni più autenticamente popolari, il suo possesso è ritenuto necessario e simbolo
potente di avanzamento sociale.
Inoltre, malgrado gli sforzi di estendere il sardo a domini normalmente ritenuti di competenza
del solo italiano, la popolazione continua distinguere nettamente i campi di applicazione
della diglossia, relegando il sardo essenzialmente alla comunicazione quotidiana.
Ciò pone evidenti dilemmi in merito alle iniziative, promosse dall’amministrazione regionale,
di avviare la standardizzazione di una limba sarda unificada sulla quale costruire l’ipotesi di
un bilinguismo istituzionale con l’italiano e un più deciso inserimento nell’uso didattico.
I problemi inerenti alla gestione istituzionale della specificità linguistica sarda non hanno
impedito del resto alla cultura minoritaria di trovare in questi ultimi decenni forme di
espressioni notevoli e vistose.
la scarsa fortuna del tentativo di elaborare una varietà sopradialettale chiamata harpeitan
(arpetano).
I confini dell’area linguistica “franco-provenzale” restano difficili da definire, soprattutto nei
confronti del francese e dell’occitanico, ma anche del piemontese. Per quanto riguarda la
Val d’Aosta, il territorio tradizionalmente interessato ai dialetti franco-provenzali può farsi
sostanzialmente coincidere con quello della regione amministrativa (ma tenendo sempre
conto che l’italiano e il francese convivono nella regione come lingue ufficiali e di cultura
emarginando in tal modo la pratica del franco-provenzale, oggi presente soprattutto nelle
alte valli e nei centri meno esposti al contatto).
Quanto alla provincia di Torino, anche se accanto a essi il piemontese si è imposto come
varietà “illustre” e avanza la diffusione dell’italofonia, dialetti di tipo franco-provenzale sono
tuttora parlati ed esprimono in qualche caso una discreta vitalità in alcune aree montane.
In Valle d’Aosta, il riconoscimento dello status di lingua minoritaria in base alla 482/99 non
pare destinato, per il momento, ad accrescere sostanzialmente il prestigio di parlate
percepite storicamente come varietà basse rispetto alla pratica istituzionale del bilinguismo
italiano-francese. L’auspicio di un maggiore ruolo culturale per il dialetto appare nondimeno
condiviso da una parte della popolazione della regione, e in questo contesto sono da
leggere anche diverse iniziative - ancora in un’ottica prevalentemente volontaristica - di
utilizzo didattico delle varietà franco-provenzali.
Tuttavia, i fermenti di “rinascita” e le manifestazioni di interesse nei confronti delle parlate
sono spesso strettamente collegati alla gestione da parte degli enti locali e
dell’associazionismo culturale dei benefici previsti dalla legge nazionale di tutela.
I dialetti provenzali parlati in Italia, molto differenziati tra loro, appartengono alla sottovarietà
alpina. La maturazione in area italiana di una coscienza etnico-linguistica provenzale è
fenomeno recente anche perché la frammentazione territoriale, amministrativa e religiosa
non favorì mai l’incontro tra le popolazioni delle diverse vallate. Vi era inoltre, da parte degli
stessi locutori, una storica disistima dei dialetti locali sia rispetto all’italiano e al francese, sia
rispetto al piemontese da sempre percepito come variante di prestigio.
I primi fermenti culturali risalgono solo all’inizio degli anni Sessanta, e in particolare crebbero
nel periodo del ‘68. Venuta meno la fase più accesamente rivendicativa, l’occitanismo si
manifesta oggi attraverso strutture organizzative che hanno trovato interlocutori politici e
istituzionali a livello regionale e provinciale → viene promossa un’immagine accattivante,
divulgata nei suoi aspetti più spiccatamente “suggestivi”.
Più in generale, negli ultimi decenni è andato sviluppandosi un discreto attivismo in campo
musicale, folkloristico, pubblicistico ed editoriale, che punta anche a colmare la storica
assenza di una letteratura nelle varietà provenzali cisalpine.
Mancando una koinè letteraria, il problema della normalizzazione ortografica è a sua volta
rappresentativo del delicato problema dell’appartenenza delle valli cisalpine a un contesto
culturale più ampio.
Esistono perplessità relative alla gestione della specificità “occitana” anche riguardo
all’individuazione dell’area sulla quale i dialetti provenzali sarebbero diffusi. A causa dei
benefici assicurati dalla 482, infatti, la rivendicazione di un’identità “occitana” si è estesa
anche a comuni e zone nelle quali i dialetti tradizionalmente parlati non presentano affatto
tratti provenzaleggianti. L’assurda situazione venutasi a creare rende dunque difficile
stabilire il numero reale dei parlanti provenzale in Piemonte.
La vitalità della cultura catalana in Alghero è stata ed è tuttora significativa, sia per quanto
attiene la produzione letteraria sia per quanto riguarda l’attività di promozione attraverso la
pubblicistica locale, la rivalutazione della toponomastica tradizionale, l’inserimento nei
programmi didattici e in diversi altri settori.
La forte immigrazione dal retroterra sardo e lo sviluppo turistico della città stanno del resto
contribuendo, con gli altri fattori tipici delle situazioni minoritarie, a erodere l’area d’uso del
catalano.
PAR. 9) IL TABARCHINO
L’isola di San Pietro e una parte di quella di Sant’Antioco, a sud-ovest della Sardegna,
ospitano comunità che praticano una varietà d’origine ligure, il tabarchino. Le cittadine
furono fondate da coloni provenienti dall’isolotto tunisino di Tabarca sul quale Genova aveva
trasferito gruppi di pescatori liguri. A Tabarca i genovesi svilupparono un fiorente commercio
e attività mercantili di successo. Tuttavia le pressioni dei francesi sull’isola spinsero molti
pescatori a cercare rifugio altrove, e fondarono così le colonie in Sardegna.
Qui, l’uso del tabarchino è da sempre l’elemento caratterizzante nelle consuetudini
linguistiche della popolazione, che per il resto ha attinto tratti culturali di varia origine,
finendo per assumere una netta individualità e una precisa specificità sia rispetto alla
Sardegna che alla Liguria.
Del resto l’attaccamento dei Tabarchini alle tradizioni linguistiche e la fortissima autostima
che li contraddistingue fanno sì che essi abbiano mantenuto una pratica larghissima della
parlata. Da diversi anni si assiste inoltre alla crescita delle iniziative di salvaguardia e
promozione della cultura locale, con esperienze particolarmente significative di inserimento
nell’ambito didattico favorite dalla notevole tenuta del tabarchino anche presso le
generazioni più giovani.
Il tabarchino è correttamente riconosciuto come lingua minoritaria in base alla legislazione
sarda, ma è sconsideratamente ignorato da quella nazionale.
I dialetti sardo-corsi sono parlati complessivamente da circa il 12% della popolazione sarda,
e interessano con Sassari il secondo centro urbano dell’isola.
Il problema posto dalla vitalità di queste parlate è quello del riconoscimento della loro
specificità rispetto al sardo, accolta dalla legislazione regionale, mentre non è chiaro se la
legge n. 482/1999, parlando del sardo, intenda escludere queste varietà dai benefici previsti,
o considerarle arbitrariamente come parte di una “lingua sarda” diffusa su tutta l’isola tranne
che ad Alghero catalana e presso le comunità tabarchine.
Anche nel quadro dei dialetti della Toscana insulare si segnala la presenza storica di una
varietà di tipo corso-ligure a Capraia, attualmente in provincia di Livorno ma fino al 1925
legata amministrativamente a Genova. Qui, tuttavia, il dialetto locale si può ormai
considerare estinto.
In ogni caso, dialetti di tipo altoitaliano sono oggi riconoscibili in Basilicata in due aree
strategicamente importanti della regione.
Non è affatto da escludere, e non mancano tracce in proposito, che l’insediamento
settentrionale abbia interessato altri centri della Basilicata successivamente assorbiti dalla
circostante realtà dialettale di tipo meridionale.
Solo di recente, facendo seguito all’interesse di linguisti che se ne sono a vario titolo
occupati, sono state sviluppate alcune iniziative per la valorizzazione da un punto di vista
culturale del patrimonio linguistico altoitaliano della Basiicata.
PAR. 2) L’EBRAICO
Due minoranze storiche religiose, per il resto ampiamente integrate dal punto di vista
linguistico, fanno uso in Italia di idiomi specifici per le esigenze dei loro culti, e tali pratiche si
inseriscono nel loro patrimonio linguistico tradizionale senza soluzione di continuità rispetto
all’epoca dell’impianto di tali gruppi.
In Italia la presenza israelita risale già all’epoca romana, ma fu notevolmente rafforzata alla
fine del XV secolo.
Si svilupparono nel corso del tempo dei c.d. dialetti giudeo-italiani, varietà delle parlate
italoromanze di riferimento la cui funzione fu quella, essenzialmente, di marca simbolica di
orgogliosa identità etnica.
Quanto all’uso linguistico dell’ebraico classico, esso è parte integrante delle tradizioni
culturali della popolazione di confessione israelita attualmente presente in Italia, ed è
dunque presente nel repertorio linguistico individuale degli Ebrei praticanti e nella vita
associativa delle diverse comunità ufficialmente costituite in varie regioni.
Presso le scuole confessionali l’insegnamento della lingua e della cultura ebraica sono parte
integrante dei programmi di studio.
PAR. 3) L’ARMENO
A sua volta risale al medioevo e in particolare al Rinascimento la presenza in Italia di
comunità di lingua e cultura armena. Portatrice di una grande tradizione umanistica, questa
minoranza religiosa si caratterizzò in Italia per la produzione scritta.
Oggi le comunità di origine armena presenti in Italia sono costituite in primo luogo da
discendenti di profughi scampati alle persecuzioni che le coinvolsero in Turchia tra la fine
dell’800 e i primi decenni del ‘900.
Altri Armeni provenienti dall’area del Medio Oriente sono poi giunti in Italia tra gli anni ‘60 e
‘90, ed è soprattutto tra questi gruppi che l’uso familiare e comunitario della lingua armena
rimane particolarmente vivo.
Oggi, la principale comunità di armeni presente in Italia è quella di Milano, composta da un
migliaio di persone, profondamente integrata nel tessuto sociale della città, ma al tempo
stesso fiera delle proprie tradizioni culturali indissolubilmente legate al culto religioso e alla
liturgia ufficiata in armeno classico, un fatto questo che contribuisce senz’altro alla tenuta,
più in generale, del retaggio linguistico.
PAR. 2) SVIZZERA
La popolazione svizzera è divisa in quattro gruppi linguistici di diversa consistenza numerica,
la cui collocazione geografica non corrisponde esattamente alla suddivisione cantonale: in
particolare, è di lingua italiana il Canton Ticino ed è trilingue tedesco-romancio-italiano il
Cantone dei Grigioni. Nonostante l’equiparazione formale, in realtà il tedesco ha finito per
assumere un ruolo fondamentale nella prassi delle istituzioni federali.
Nei rispettivi ambiti territoriali, in ogni modo, ciascuna lingua ha carattere ufficiale. Non ci si
può nascondere tuttavia che i problemi dell’italiano in Svizzera, a dispetto della parificazione
formale al tedesco e al francese, finiscono per assomigliare sempre più a quelli di una lingua
minoritaria. Oggi infatti l’italiano è la lingua materna soltanto del 62% della popolazione
residente in Ticino. Malgrado l’importante funzione svolta dalla lingua nell’ambito
dell’emigrazione in Svizzera, inoltre, questo tipo di apporto non sembra avere contribuito in
maniera particolare ad accrescere il prestigio istituzionale dell’italiano. È per questo che nel
1996 l’italiano del Ticino e dei Grigioni è stato definito assieme al romancio “lingua protetta”
dalla Confederazione.
Un aspetto significativo della situazione linguistica elvetica è dato dal diverso livello di vitalità
dei dialetti locali, che nell’uso corrente concorrono talvolta con gli idiomi ufficiali, arrivando a
trovare largo impiego, soprattutto nell’area germanofona, in molte circostanze della parlata
pratica anche formale. L’atteggiamento della Confederazione e dei governi cantonali non è
affatto ostile ai dialetti: anzi, vi vede un elemento di ricchezza culturale di alto interesse.
PAR. 3) VATICANO
Vanno ora segnalate due realtà esterne ai confini nazionali presso le quali l’italiano, sebbene
in assenza di un qualsiasi status giuridico, svolge comunque importanti funzioni come
strumento di cultura e comunicazione. Tale particolarità è conseguenza diretta della
collocazione territoriale e delle vicende storico-politiche delle entità statali corrispondenti.
La Città del Vaticano venne creata nel 1929 in seguito ai Patti Lateranensi che portarono
alla normalizzazione dei rapporti diplomatici tra l’Italia e il Papato.
La lingua ufficiale della Chiesa Cattolica rimane il latino peraltro sempre meno diffuso
nell’uso parlato delle stesse gerarchie ecclesiastiche.
Se il mantenimento del latino a livello ufficiale intende ribadire il carattere universale della
missione della Chiesa, ad essa si associa quindi un notevole impegno di divulgazione
attraverso le principali lingue nazionali e internazionali, e in questo quadro, all’italiano resta
affidata una funzione veicolare essenziale.
PAR. 4) MALTA
La Repubblica di Malta è costituita dall’arcipelago omonimo collocato tra la Sicilia e la costa
tunisina. Il maltese è l’unico idioma semitico parlato tradizionalmente in Europa e
rappresenta anche l’unico dialetto arabo volgare che svolga funzioni di lingua ufficiale in un
paese indipendente. Importantissimo per il processo di integrazione di Malta nell’orizzonte
culturale europeo fu anche il ruolo svolto dalla religione cattolica praticata dalla popolazione.
Una “questione della lingua” maltese si pose soprattutto a partire dal 1870, quando la
rivendicazione nazionalista cominciò ad appoggiarsi non più soltanto all’italianità, ma anche
sulla promozione del vernacolo come elemento costitutivo della specificità isolana.
PAR. 1) SLOVENIA
Agli italiani rimasti in territorio sloveno e croato furono in seguito assicurate, da parte del
governo iugoslavo, forme di tutela analoghe a quelle garantite a tutte le altre minoranze.
Oggi, in Slovenia e in Croazia vige una sempre più armonica politica di rispetto e tutela delle
rispettive minoranze, che passa anche attraverso il rafforzarsi della collaborazione
transfrontaliera in materia economica e commerciale.
In Slovenia, il numero dei membri della comunità italiana è stato in regresso fino all’inizio
degli anni ‘90 del secolo scorso, quando, ormani in un clima di generale ridiscussione
dell’”ordine” iugoslavo, molti cittadini sono tornati a dichiarare apertamente la propria
appartenenza al gruppo linguistico italiano.
Le prerogative culturali del gruppo italiano appaiono sufficientemente tutelati soprattutto per
quanto riguarda l’insegnamento della lingua, per il quale è stato istituito un sistema
scolastico autonomo. Gli Italiani hanno inoltre proprie strutture organizzative e intrattengono
relazioni con la madrepatria, che attua una sorta di tutorato su questa piccola comunità in
rapporto di reciprocità per quanto avviene da parte della Slovenia nei confronti della
minoranza slava in Friuli.
PAR. 2) CROAZIA
Dopo l’esodo degli anni ‘40, l’Istria e la Dalmazia sono oggi quasi completamente slavizzate:
nel 2001, ha dichiarato la propria appartenenza alla nazionalità italiana solo lo 0.44% della
popolazione. Oltre che dalle leggi croate, la minoranza è tutelata come in Slovenia in virtù
degli accordi bilaterali sottoscritti a suo tempo dalla Iugoslavia con l’Italia, rimasti in vigore
anche dopo l’indipendenza. L’appoggio del governo italiano si rivela tuttavia determinante
nel mantenimento delle prerogative linguistiche e della specifica identità di questo gruppo, la
cui fruizione è resa difficile dalla scarsezza di mezzi finanziari in grado di assicurare un
effettivo sviluppo alla vita associativa e culturale e alle attività scolastiche in seno alla
minoranza.
PAR. 4) ROMANIA
Da parte loro, anche le autorità romene riconoscono ufficialmente l’esistenza di una
minoranza linguistica italiana: qualche migliaio di persone, residuo di un più consistente
flusso migratorio di origine veneta, friulana e trentina. Esso, costituito da coloni agricoli e
manodopera specializzata, ebbe origine nella seconda metà dell’800 e venne
favorevolmente accolto dalle autorità austro-ungariche e da quelle romene.
Alla minoranza italiana, che esprime proprie strutture politiche e culturali, spetta un seggio di
diritto al parlamento nazionale, e in linea di principio viene riconosciuto il diritto all’utilizzo
della lingua in ambito didattico.
PAR. 5) MOLDAVIA
Rispetto alle situazioni precedenti, il trasferimento di italiani verso altri paesi dell’Europa
orientale fu più disordinato e assai meno pianificato. Di questa presenza linguistica e
culturale non rimangono oggi tracce dirette se non in Moldavia, dove si raccolgono in una
minoranza italiana i discendenti di un popolamento che introdusse (in particolare nella
capitale, Chisinau) elementi provenienti soprattutto dalla Liguria nei primi anni del
Novecento.
PAR. 6) CRIMEA
Più massiccia fu la presenza tra l’Otto e il Novecento di una comunità italiana in Crimea,
oggi repubblica autonoma dell’Ucraina. Essa si costituì fra il 1830 e il 1870 con apporti
provenienti ancora una volta dalla Liguria e soprattutto dalla Puglia. Rispetto alla lingua
italiana viene praticato di preferenza il dialetto: tuttavia, oggi l’uso di entrambi gli idiomi
sembra quasi completamente estinto.
PAR. 1) IL MONEGASCO
Un caso per certi aspetti estremo è rappresentato dunque dal monegasco, il dialetto
tradizionalmente parlato nel Principato di Monaco. Se la lingua ufficiale è il francese (e ben
conosciuto vi è anche l’italiano), al monegasco viene riconosciuta a tutti gli effetti la qualifica
di lingua nazionale. Questa parlata rappresenta una varietà ligure occidentale,
successivamente esposta all’influsso del provenzale e del francese.
Se all’attribuzione della qualifica di “lingua nazionale” non corrisponde un utilizzo “ufficiale”,
sta di fatto che la visibilità del monegasco si è accentuata fino a coinvolgere ambiti di
discreto prestigio socioculturale quali la liturgia cattolica e la toponomastica.
Dalla metà degli anni ‘90, inoltre, vi è stata anche la fissazione dello standard ortografico,
l’elaborazione di una grammatica e di altri strumenti normativi, e un rafforzamento della
presenza del monegasco nella pratica didattica.
A dispetto di tutti questi provvedimenti, l’uso vivo dell’idioma locale è comunque in regresso
rispetto al francese, soprattutto presso le generazioni più giovani. Col tempo il monegasco
sembra dunque destinato a sopravvivere soprattutto come lingua recuperata in virtù di una
precisa volontà politica di salvaguardarla.
PAR. 2) IL CORSO
Il concetto di “lingua corsa” risale già alla fine dell’800, e trova una sua legittimazione nella
storia del suo progressivo affrancamento dal “tetto” linguistico tradizionale.
Oggi l’esistenza di una “lingua corsa” nettamente distinta dall’italiano è riconosciuta in
Francia come elemento costitutivo della specificità insulare, e tale riconoscimento nasce non
solo dalle rivendicazioni dei gruppi autonomisti locali, ma anche dall’atteggiamento delle
autorità centrali.
A partire dalla seconda metà dell’800, con la sempre più forte pressione francese, la
rivendicazione della dignità di una “lingua corsa”divenne un modo per affermare una
coscienza nazionale isolana in alternativa tanto alla Francia quanto a una cultura italiana
che cominciava a essere sentita come estranea.
La rinascita culturale andò di pari passo con la crescita di un movimento autonomista, che
però cominciò a ottenere un certo seguito solo a partire dagli anni Sessanta.
In un panorama politico confuso, nel quale i movimenti corsisti porano avanti da posizioni
spesso contrapposte rivendicazioni diverse emerge oggi il dato di fatto del sostegno di una
parte significativa della popolazione all’area del nazionalismo e dell’autonomismo.
È in questo clima che ha cominciato a porsi il problema di una langue corse che si strutturi
come soggetto la cui presenza nel contesto isolano implichi, per attualizzarsi, non solo uno
status istituzionale definito, ma anche strumenti tali da garantirle visibilità e funzioni sociali
coerenti con tale ruolo.
Di fronte alle difficoltà di una standardizzazione resa problematica dal frazionamento
dialettale e dall’attaccamento dei parlanti alle diverse varietà, la presa d’atto della pluralità
interna della corsité linguistica si è rivelata alla fine la strategia più adatta.
Il concetto di lingua “polinomica” fornisce la chiave di un processo di elaborazione della
pluralità del corso - tuttora in atto - che trova pochi riscontri in altri contesti minoritari. In
questo contesto, l’esigenza di una norma univoca non viene percepita né come elemento
essenziale nella contrattazione col centro politico né come strumento identificatore della
comunità linguistica nel suo insieme.
L’affermazione del principio della polinomia linguistica sembra dunque essersi associato a
una decisiva progressione della “visibilità” del corso come elemento qualificante dell’identità
e dell’immagine culturale dell’isola.
PAR. 3) IL RETOROMANCIO
Nel caso del retoromancio (o romancio), altra varietà per certi aspetti “collegata” al contesto
italofono, l’idea di una specifica autonomia e originalità è acquisizione tradizionalmente
accolta. Oggi le parlate retoromance sono praticate in Svizzera da poco più di 60 mila
persone tutte bilingui, meno dell1% della popolazione totale, concentrate soprattutto in zone
che costituiscono l’area tradizionale d’impianto di tali varietà (un gruppo di valli del cantone
dei Grigioni).
La costituzione cantonale specifica che tedesco, italiano e romancio sono le lingue
“nazionali e ufficiali” dei Grigioni, ma un regolamento del 2002 indica il tedesco quale lingua
da usare negli atti amministrativi. A livello comunale la situazione varia da un luogo all’altro.
In generale, comunque, i problemi di questo gruppo linguistico sono assimilabili a quelli di
una vera e propria minoranza linguistica, sia per la costante pressione del tedesco, sia per il
ristretto numero dei parlanti, sia per le difficoltà che il romancio incontra tuttora ad affermarsi
come idioma dell’uso pubblico. I maggiori problemi in tal senso sono dati dalla
frammentazione dialettale: esistono infatti ben cinque varietà letterarie.
Per ovviare alle difficoltà date da questa situazione, i tentativi di creare un romancio
letterario comune iniziarono già alla fine del Settecento, ma tali iniziative, come altre attuate
successivamente, non riuscirono ad imporsi. Si sta ora diffondendo una varietà sopralocale:
per diversi intellettuali e operatori culturali locali, è proprio la progressiva affermazione della
varietà unificata la grande scommessa sulla quale si gioca la sopravvivenza del romancio, in
quanto solo attraverso una lingua scritta comune il romancio potrà col tempo uscire dallo
stato attuale di intrinseca debolezza.
Molti parlanti manifestano tuttavia una forte perplessità di fronte a una sovrastruttura
linguistica che non corrisponde a un uso parlato effettivo.
PAR. 1) IL BONIFACINO
Presso la comunità di Bonifacio nella Corsica meridionale, sopravvive ancora oggi un
dialetto ligure coloniale, ultimo vestigio delle varietà dello stesso tipo che furono praticate in
passato anche in altre città corse.
Oggi Bonifacio è essenzialmente un centro turistico e peschereccio, con un porto mercantile
di una certa importanza soprattutto per i contatti con la Sardegna. Il bonifacino, tuttavia, è in
gravissima crisi per quanto riguarda gli usi parlati, ed è storicamente coinvolto in un contesto
plurilingue che ha favorito importanti processi di convergenza col corso: si assiste,
purtroppo, da parte delle stesse istituzioni regionali, a una totale rimozione del problema
della specificità culturale e linguistica della città.
Tali atteggiamenti hanno provocato da parte delle associazioni culturali bonifacine la ricerca
di più stretti contatti culturali con la Liguria e con le stesse comunità tabarchine della
Sardegna.
elementi provenienti dalla Diocesi di Albenga introdusse in una decina di località della
Provenza orientale un dialetto di tipo ligure centro-occidentale (il cosiddetto figun), il cui uso
sopravvisse fino alla prima metà del XX secolo.
Una presenza particolarmente massiccia di lavoratori italiani si ebbe anche, già a partire
dall’Ottocento, nelle colonie francesi, in Algeria e soprattutto in Tunisia.
Nei secoli precedenti Tunisi aveva rappresentato un’area di discreta diffusione dell’italiano
come lingua commerciale e diplomatica, e proprio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento andavano scomparendo nel paese africano le ultime tracce di dialetto ligure
parlatovi dai discendenti degli abitanti di Tabarca.
A partire dal ‘900, si assistette al trasferimento nel paese nordafricano di una manodopera a
basso costo formata da operai edili, artigiani, braccianti, piccoli coltivatori e minatori
provenienti dalla Sicilia. L’afflusso dei Siciliani venne incoraggiato dalle autorità francesi, ma
esso ebbe tra le altre conseguenze una crescita delle tradizionali aspirazioni italiane sul
paese africano: da qui il ricorso massiccio alla naturalizzazione degli immigrati, che passava
per quanto possibile attraverso l’apprendimento del francese. In generale però, la maggior
parte dei recenti coloni siciliani conservò l’uso dei propri dialetti, che andarono
progressivamente conformandosi in una koinè variamente sottoposta all’influsso poco
consistente del francese e a quello più significativo dell’arabo.
Gran parte della comunità, tuttavia, si disperse dopo l’indipendenza: oggi si contano circa
3000 italiani, di cui soltanto 900 discendenti dall’emigrazione ottocentesca.
PAR. 2) L’ISTRORUMENO
Il dialetto noto agli studiosi come istrorumeno rappresenta l’estremo lembo occidentale della
romanità balcanica, probabilmente come conseguenza di fenomeni migratori che
interessarono nei secoli scorsi gruppi di pastori seminomadi provenienti dal sud. Oggi,
parlano l’istrorumeno meno di duecento parlanti, per lo più anziani, stanziati in alcune
località dell’Istria croata.
Al di là delle iniziative di ricerca dialettologica non risultano forme di tutela della parlata
istrorumena; l’influsso prevalente delle varietà dialettali croate ha contribuito in maniera
decisiva alla crisi di queste parlate.
Vale la pena di ricordare qui come un altro gruppo dialettale neolatino, il dalmatico diffuso un
tempo lungo le coste e sulle isole della Dalmazia, si sia progressivamente estinto per la
pressione del croato e del veneto coloniale.
A contatto con l’italiano e il dialetto veneto che fu parlato a Zara era anche una varietà
albanese di tipo settentrionale (ghego), diffusa nella località di Borgo Èrizzo.