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LE Minoranze Linguistiche IN Italia

Sociolinguistica (Università per Stranieri di Siena)

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LE MINORANZE LINGUISTICHE IN
ITALIA
PREMESSA

In Italia, “minoranza linguistica” = concetto dibattuto. Spesso confuso con “minoranza


nazionale” (formulazione tardo-ottocentesca). Ma sono cose diverse.
Es: minoranza germanofona Alto-Adige: minoranza sia linguistica sia nazionale.
Invece, minoranza albanofona in Italia meridionale: minoranza linguistica, ma NON
nazionale.

Nel caso delle minoranze linguistiche, il problema che si pone è quello di tutela del
PATRIMONIO LINGUISTICO, perché i diritti linguistici che le riguardano sono gli stessi di
quelli di qualsiasi altro membro della comunità statale in cui si integrano.
In Italia il problema è complicato dalla difficoltà di distinguere i concetti di Lingua e Dialetto.
Varietà come il sardo e il friulano possono essere considerati alla pari di altri dialetti, al
massimo possono essere strutturalmente più distanti dall’italiano rispetto al dialetto, ad
esempio, di Siena. Entrano in campo però nel loro caso valutazioni extralinguistiche,
connesse con diversi livelli di rivendicazione politico-culturale.

LEGGE 482/99: unico riferimento che definisca norme generali valide per tutto il territorio
nazionale. Ma ha sollevato ambiguità, e mostra limiti di applicabilità pratica.

Parte prima: minoranze linguistiche e lingue


minoritarie

CAPITOLO UNO: LE MINORANZE LIGNUISTICHE, UNA


RISORSA E UN PROBLEMA
È estremamente difficile trovare stati in cui la popolazione parli nel suo complesso la sola
lingua ufficiale (in Europa, forse, solo l’Islanda).
Pregiudizio monolingue sul rapporto lingua - appartenenza nazionale → si rivela così
infondato anche dal punto di vista culturale, oltre a quello sociolinguistico.
Se si prende in considerazione la nozione più ampia di “patrimonio linguistico”, il concetto di
lingua minoritaria va relativizzato. Ma allora, perché è così importante socioculturalmente,
politicamente e giuridicamente?

PAR. 1) IL CONCETTO SOCIOPOLITICO DI MINORANZA


Nozione di minoranza: entra nel linguaggio sociopolitico dopo il 1800, per definire frange di
popolazione che, all’interno di una compagine omogenea, costituivano eccezioni o
contraddizioni al concetto dominante di Nazione.

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Solo dall’Ottocento, dunque, si afferma il tema delle minoranze linguistiche, anche grazie al
nuovo clima romantico e ai passi avanti della glottologia. Poteri politici: nuova volontà
precisa di “​reductio ad unum​” (proprio in questi anni comincia la demonizzazione dei dialetti
come qualcosa di incolto). Vi fu così la corsa all’acquisizione della qualifica di lingua da parte
di diversi gruppi → fenomeni di “invenzione” di una identità. Conseguenza di questo clima fu
il primo, faticoso riconoscimento dell’esistenza degli aspetti politici legati ai diritti linguistici e
culturali.

PAR. 2) IL CONCETTO LINGUISTICO DI MINORANZA


In Italia, Graziadio Isaia Ascoli individuò attraverso criteri puramente linguistici l’originalità
dei gruppi dialettali ladino prima e franco-provenzale poi. Sebbene non fosse l’intento di
Ascoli, le sue affermazioni mostrarono che il problema delle minoranze linguistiche poteva
implicare una più ampia gamma di sfumature: era possibile in base al criterio linguistico
costruire un’identità locale in grado di entrare in relazione dinamica con lo Stato centrale.
Da qui, tutte le ambiguità e le conseguenze negative della distinzione tra Lingua e Dialetto,
elemento reazionario di discriminazione e affermazione fuorviante (bisognerebbe invece,
infatti, salvaguardare il patrimonio di inestimabile valore storico presente nel nostro Pese,
così come sostenuto formalmente dall’Art. 6 Cost, e non focalizzarsi su ambigue distinzioni
come quella tra lingua e dialetto).

PAR.3) LINGUA E DIALETTO


La lingua è, certo, veicolo consustanziale nella definizione culturale di un popolo. Anche per
questo, anche a livello di opinione pubblica, il tema del rapporto fra Lingua e Dialetto
assume una rilevanza particolare.
L e D: sostanzialmente sinonimi per quanto riguarda l’oggetto che definiscono, ma implicano
sfumature importanti rispetto ai ruoli sociali e alle attribuzioni che tale oggetto di volta in volta
assume. Il D, rispetto alla L, ha uguali possibilità espressive e condivide la capacità della L
di aggiornarsi e modificarsi.
La distinzione tra L e D si pone da un punto di vista quasi esclusivamente politico-sociale. Il
D è infatti espressione spontanea, non formalizzata, della cultura di una comunità, mentre la
L risponde alle esigenze di una società organizzata, che si basa su una NORMA accettata
dai propri membri al di sopra delle eventuali varietà linguistiche personali.
Dunque, ogni L parte come D, e diventa L solo in seguito al riconoscimento e al supporto di
un potere politico (dunque, la definizione di D si pone essenzialmente “in negativo”).
Gli idiomi delle minoranze vivono nella condizione di D fino a quando lo stato non ne
promuova l’uso anche istituzionale portando così a una situazione di bilinguismo con la
lingua ufficiale di tutto il paese. Solo a questo punto verrà meno la situazione di diglossia, e il
D potrà essere considerato L.
Fino al riconoscimento delle istituzioni, dunque, tutte le varietà saranno considerate D, con
la distinzione tra D. eteroetnici (o alloglotti) e D. omoetnici, in base al rapporto di affinità che
vige col codice egemone.
La debolezza del D, dunque, è data semplicemente dal minore prestigio rispetto alla L → il
D, all’interno del mercato linguistico, non risulta affatto “concorrenziale”.

PAR. 4) DISTANZIAZIONE ED ELABORAZIONE


Viene data un’importanza notevole all’esistenza di una elaborazione e in particolare di una
norma scritta codificata, di una varietà “illustre” a cui i parlanti tendono indipendentemente
dall’uso parlato. Entra in gioco allora il concetto di SACRIFICIO LINGUISTICO, spesso

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utilizzato nel processo di standardizzazione di varietà “artificiali” (ma quasi sempre con
scarsi risultati).

PAR. 5) LINGUA E APPARTENENZA ETNICA


Nell’affermazione del ruolo di lingua minoritaria sono importanti anche gli atteggiamenti della
popolazione, che prova la volontà di avviare un processo rivendicativo. Esso potrà essere
agevolato da condizioni particolari (che però non sono necessarie), come la lealtà linguistica
dei parlanti, cioè la capacità di persistere nell’uso di quella lingua minoritaria nonostante le
pressioni della L ufficiale.
Spesso, alla base delle rivendicazioni vi sono processi di elaborazione intellettuale.
Bisogna inoltre tener presente che il sentirsi parte di una minoranza linguistica NON implica
per forza un rapporto negativo od ostile verso l’appartenenza, al contempo, alla
maggioranza.

La parola etnia è entrata nel lessico a partire dalla fine dell’Ottocento. Ma è difficile
distinguerla, sulla base della sua definizione, da “nazione” (tuttavia, nell’uso corrente, a
quest’ultimo termine viene per lo più associato il significato di un’organizzazione
politico-sociale dotata di istituzioni riconosciute, dimensione non presente nel concetto di
etnia). Dunque, sostanzialmente, “nazione”= società, frutto di un accordo sottoscritto dai suoi
membri; mentre “etnia”= comunità non organizzata, forma spontanea di aggregazione
basata su sentimenti comuni di appartenenza. L’etnia è, dunque, in un certo senso, una
nazione “in potenza”. Risulta tuttavia difficile, storicamente, che una nazione venga a
corrispondere esattamente a una preesistente etnia → da qui, il possibile disagio delle
minoranze all’interno della società-nazione.
Dunque l’etnia è sempre minoranza, anche nelle situazioni più favorevoli del suo rapporto
con lo stato di riferimento, e cessa di esserlo solo nel caso di un’eventuale ottenimento
dell’indipendenza.

PAR. 6) LE RELAZIONI STATO-MINORANZA


Va però osservato che la condizione di minoranza non è innata per l’etnia, vi sono eccezioni
e casi particolari di annessioni di nazioni.
Negli altri casi, un aspetto fondamentale nella definizione del concetto di minoranza è dato
dalla riconoscibilità di una comunità in quanto etnia. In alcuni casi il riconoscimento della
specificità, basato su elementi ben tangibili, è immediato. In altri, invece, può essere
determinante l’instaurarsi di relazioni dinamiche tra lo stato nazionale di appartenenza e il
gruppo etnico in questione. Prima di questa fase, però, vi dev’essere la presa di coscienza,
da parte dei membri attivi della minoranza, della peculiarità di cui essi sono portatori (ciò
avviene di solito in seguito a una lenta maturazione, lunga anche secoli, ma vi sono anche
minoranze divenute tali in poco tempo, spesso in seguito a variazioni di confine. Queste
ultime, tra l’altro, quasi sempre possono appoggiarsi al peso politico di un altro stato, in cui
le loro lingue hanno status ufficiale).
Il passaggio dalla rivendicazione culturale a quella politica avviene molte volte, ma non
segue dinamiche uniformi. Spesso, vengono denunciate forme di “colonialismo interno” sulle
minoranze da parte dello stato nazionale (quando la regione è povera e arretrata), oppure
viene accusato uno sfruttamento economico (quando la regione è più ricca dello stato
nazionale). Si viene dunque a creare una stretta relazione tra il concetto di oppressione
culturale e quello di oppressione economico-sociale.

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Regionalismo, autonomismo e separatismo sono le forme principali di rivendicazione politica


in seno alle minoranze etnico-linguistiche.
- Regionalismo: punta a una crescita delle attribuzioni ai poteri locali
- Autonomismo: punta a uno statuto “speciale”, che riconosca alla minoranza forme di
autogoverno maggiori rispetto alle altre componenti geografiche dello stato (spesso,
le minoranze spingono per un federalismo)
- Separatismo: estremizzazione dell’autonomismo; punta a creare un nuovo
stato-nazione, oppure a unire il territorio della minoranza a uno stato-nazione sentito
come più affine (e in tal caso si parla di irredentismo). Separatismo e irredentismo si
colorano spesso di tinte nazionalistiche quando non addirittura razziste (infatti,
l’esaltazione dei caratteri etnici viene portata all’estremo). Inoltre, assumono
facilmente anche caratteri violenti di lotta armata.

PAR. 7) IL PANORAMA GIURIDICO INTERNAZIONALE


Per quanto riguarda la tutela delle minoranze, la riflessione teorica si sviluppa soprattutto nel
XIX secolo intorno al tema dell’autodeterminazione dei popoli. A una concreta discussione si
pervenne però solo al termine della 1GM. La Società delle Nazioni avviò un programma di
tutela delle minoranze nazionali, ponendolo però nei termini di tutela dei diritti dei singoli
individui e non delle minoranze in quanto tali, collettivamente. Dopo la 2GM, con la Carta
delle Nazioni Unite, si sancì il diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione. Dal 1947,
vennero presi ulteriori provvedimenti per la tutela delle minoranze. Nel 1960, L’UNESCO
riconobbe per la prima volta i diritti collettivi delle minoranze dal punto di vista linguistico.
Le rivendicazioni e il diritto all’autodeterminazione hanno quindi una chiara legittimità
giuridica; al contrario, le alternative alla politica di tutela delle minoranze possono: o mettere
in discussione/negare l’effettiva esistenza della minoranza, o portare avanti una politica di
assimilazione che, alla lunga, distruggerà la minoranza.
Spesso, le concessioni fatte da uno stato a una minoranza sono commisurate al grado di
effervescenza culturale e politica messa in atto dalla minoranza, e magari anche da
pressioni internazionali. Le soluzioni applicabili sono varie: da un semplice riconoscimento di
forme minime di uso pubblico dell’idioma minoritario alla concessione di forme ampissime di
autonomia amministrativa (fino ad arrivare addirittura alla creazione di uno stato federale).

Bisogna notare inoltre che la percezione e la questione delle minoranze varia anche
moltissimo da stato a stato (ciò risultando anche in discrepanze notevoli tra le legislazioni
dei vari paesi).
Progetto più importante, in questo ambito, del Consiglio d’Europa: Carta europea delle
lingue regionali e minoritarie (1992) → tratta però delle minoranze STORICHE (sono escluse
quindi quelle degli immigrati). Importante anche per l’estrema adattabilità ai diversi contesti
nazionali e alle situazioni specifiche.

CAPITOLO DUE: LE MINORANZE LINGUISTICHE


STORICHE IN ITALIA
In Italia, come altrove: la fase della “riscoperta” della riflessione sulle identità minoritarie si
colloca a partire dalla seconda metà degli anni 60 (in particolare nel clima del 68).

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Il dibattito si è protratto poi per alcuni decenni, coinvolgendo non solo i “tecnici del mestiere”,
ma anche ampie fasce dell’opinione pubblica, giungendo infine alla legge del 15 dicembre
1999, n. 482, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” → principale
provvedimento legislativo in materia linguistica espresso dal Parlamento. Si tratta dell’unico
provvedimento-quadro che definisca norme generali valide per tutta Italia, ma presenta
diversi limiti (soprattutto in relazione alla dibattuta enumerazione delle lingue ammesse a
tutela).
L’art. 1, comma 1, definisce l’italiano come lingua ufficiale della Repubblica (novità: nella
Costituzione non è prevista l’ufficialità dell’italiano).
Art.2: La Repubblica promuove altresì la valorizzazione delle lingue e culture tutelate dalla
legge suddetta → punto debole della legge: l’elenco di lingue che vanno tutelate.Tuttavia, ha
il merito di avere sbloccato una situazione di perdurante inadempienza costituzionale.
Quanto del panorama linguistico italiano resta fuori dalla sistemazione proposta dalla legge,
in conclusione, viene di fatto dichiarato non suscettibile di tutela alcuna perché escluso dalla
categoria di “bene linguistico”. I deficit e i rischi di questa impostazione sono evidenti.
Innanzitutto, la 482 legittima una GERARCHIA all’interno del patrimonio linguistico italiano;
inoltre, il numero chiuso delle minoranze linguistiche storiche ingloba e uniforma realtà
sociolinguistiche assai diverse tra loro, con il risultato di fornire soluzioni di tutela molte volte
insufficienti, poco adatte o poco efficaci.
In aggiunta, un limite importante della legge è il suo impianto storicista e “territorialista”, che
esclude le nuove lingue dei migranti e quelle dei nomadi dalla tutela linguistica.

PAR. 1) L’INVENTARIO DELLE MINORANZE


La rigidità della classificazione degli idiomi ammessi a tutela è uno degli aspetti che ha
suscitato più perplessità al momento dell’approvazione della legge. Da essa consegue tra
l’altro l’enfatizzazione del principio di autoidentificazione, con tutti gli equivoci verificatisi
intorno a esso. Altra conseguenza della legge è stata la sua percezione come “risorsa” per
un profitto economico da parte di comuni il più delle volte collocati in aree economicamente
depresse, e dunque la corsa all’autocertificazione linguistica → ne è risultato un proliferare
di episodi di “creatività” da parte di diverse amministrazioni locali, secondo la c.d. prassi dell’
“etnobusiness”.
Queste pratiche sono lesive per la causa delle minoranze, in particolare per le ripercussioni
di carattere percettivo che inducono a relativizzare il senso di appartenenza delle
popolazioni interessate. Da un tale atteggiamento discende la protesta di quei gruppi
linguistici che, esclusi dall’elenco, si sentono discriminati dalla 482, e chiedono leggi
nazionali per la tutela della loro “lingua” (“lingua piemontese”, “lingua napoletana”, e via
dicendo), proprio mentre al contempo le fondate aspirazioni alla tutela di gruppi minoritari
eteroglossi restano inattese.

PAR. 2) MINORANZE “FORTI”, MINORANZE “DEBOLI”


Alla legge 482 va inoltre ascritto un atteggiamento “sostanzialmente omologativo” che ignora
lo specifico profilo sociolinguistico delle diverse aree, e tratta allo stesso modo le minoranze
“forti”, cioè già ampiamente riconosciute e magari tutelate da altre disposizioni normative, e
quelle invece “deboli”, in crisi d’uso e a rischio di scomparsa.
Ancora una volta, è l’elencazione delle lingue ammesse a tutela a provocare confusione e a
indurre a equivoci.
Insomma, vi è una distorsione del principio di tutela data dal criterio in base al quale una
lingua, per essere “tutelata”, debba immediatamente assumere prerogative ricalcate su

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quelle condivise dal codice egemone. Infatti, se davvero si ammette l’utilità delle pratiche di
ufficializzazione ai fini della rivitalizzazione di un idioma minoritario, diventa allora ineludibile
il problema della sua standardizzazione, ed essa passerà attraverso il tentativo di
promuovere una varietà sopralocale fatalmente artificiosa. In un processo di tutela basato
sull’espansione degli usi scritti, tuttavia, non è possibile ammettere le diverse varietà locali,
con il rischio di gravi perdite nel patrimonio linguistico.
La legge 482, inoltre, favorisce una percezione dei patrimoni linguistici regionali non più
come un insieme e continuum di varietà locali, ma come unità astratte fornite di analoghe
prerogative.

PAR. 3) UNITA’ E VARIETA’ NEI CONTESTI MINORITARI


Nella pratica le esperienze di promozioni di standard unificati partono da un concetto di
“sacrificio linguistico”, che implica una limitazione della pratica spontanea del codice
minoritario. È evidente però che tale processo possa anche portare a reazioni di rigetto da
parte dei locutori. La formulazione della 482 suppone proprio l’esistenza di livelli di
consapevolezza e standardizzazione assenti nella tradizione e nella prassi di gran parte
delle comunità minoritarie risiedenti in territorio italiano. Resta infatti il fatto che gran parte
degli idiomi minoritari risultano storicamente carenti di un processo di “elaborazione”
realmente accettato e condiviso. Manca, in sostanza, in gran parte dei casi, un livello
formale.
La 482, insomma, rischia di promuovere, invece che il patrimonio linguistico minoritario, una
sua sopravvivenza burocratica (portando spesso a reazioni di rigetto verso una lingua
standardizzata e non sentita propria dai parlanti). Pare inopportuno, in conclusione, che
l’esistenza o l’esigenza di standardizzazione sia stata suggerita di fatto dalla legge come
uno dei presupposti per la tutela delle minoranze.

PAR. 4) PLURILINGUISMO E MONOLINGUISMO MINORITARIO


Bisogna osservare come la battaglia a favore delle lingue minoritarie trascuri, attraverso una
visione esasperatamente etnicistica molte implicazioni della problematica reale delle
comunità implicate, a partire dalla stratificazione sociale interna alle minoranze, rilevabile
anche nei suoi riflessi linguistici. La considerazione della minoranza come insieme
socialmente omogeneo e indifferenziato (derivato ancora una volta dal criterio di
catalogazione dei patrimoni linguistici ammessi a tutela) porta infatti a distorsioni della realtà.
Questo è uno dei limiti più grandi della 482: si pensi ad esempio a quanto sia inadeguato
introdurre nell’educazione scolastica la pratica di un monolinguismo a base minoritaria in
realtà storiche connotate in senso plurilingue → mancanza, in ambito educativo e didattico,
di un qualsiasi riferimento teorico alle esperienze più avanzate (come le Dieci Tesi per una
educazione linguistica democratica, del 1975).
La legge rivela, anche in questo caso, una mancata consapevolezza della realtà attuale, e
anche del vissuto storico delle comunità alloglotte e dei singoli individui che vi si integrano →
si finisce per fornire sostanza a concezioni astratte della personalità di ciascuna minoranza.
C’è, insomma, il rischio che l’ingessatura dei patrimoni linguistici minoritari presupposta dalla
482 favorisca il processo di codificazione di artificiose identità “altre”.
Non è stato un risultato positivo della 482 nemmeno l’aver diffuso il marchio “etnico” su
eventi, fiere, cibi ecc: se infatti ciò accredita, da un lato, il principio secondo cui “etnico è
bello”, dall’altro finisce per fossilizzare in un orizzonte passatista e rievocativo la percezione
dei patrimoni idiomatici delle comunità interessate.

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PAR. 5) ALLOGLOSSIA E “LINGUA” MINORITARIA


Alloglossia: varietà diverse e distanziate per origini genetiche o caratteri tipologici rispetto a
quella che costituisce l’orizzonte linguistico dello spazio geografico e geopolitico in cui i
parlanti alloglotti si trovano integrati. Tra le varietà alloglotte presenti in Italia, non tutte si
configurano come “lingue”, seppure minoritarie. Infatti, sebbene molte di queste siano lingue
“per distanziazione”, non lo sono “per elaborazione”. Eccettuata quindi la situazione
specifica delle lingue delle minoranze nazionali, ci troviamo nella maggior parte dei casi di
fronte a “dialetti” eteroetnici. E il rapporto tra questi dialetti eteroetnici con l’italiano e il
rapporto dialetti omoetnici-italiano è sostanzialmente lo stesso. Tutto ciò pone il problema
della legittimità della distinzione di carattere giuridico instaurata in Italia tra alcune varietà
elencate nella 482 e le altre varietà che si integrano nel patrimonio linguistico nazionale.

Per di più, se si ammette l’esistenza sul lungo periodo di forme di identificazione collettiva o
addirittura di rivendicazione di una specificità linguistica e culturale per alcune delle
minoranze attualmente ammesse a tutela, si dovrà ammettere anche che esigenze analoghe
di promozione hanno riguardato in maniera assolutamente analoga diverse realtà dialettali
regionali. Alla luce di ciò, viene meno il ruolo della lingua come fattore “oggettivo” di
distinzione, e persino dell’ambito di diffusione di una varietà come “territorio” afferente a una
specifica realtà “etnica”.
Un altro spunto di riflessione può essere che una specifica “identità” individuale o collettiva
basata su componenti idiomatiche può essere costituita e potenziata in qualsiasi momento e
a partire da qualsiasi situazione. Ciò che “ci si sente” può insomma differire sostanzialmente
da ciò che realmente si è.

PAR. 6) DIRITTI LINGUISTICI E PATRIMONIO LINGUISTICO


La posizione dei giuristi che hanno stilato la 482 nasce dall’equivoco di fondo di ritenere
estensibile a TUTTE le situazioni di alloglossia ammesse a fruire dei benefici di legge un
rango paragonabile a quello delle lingue ufficiali o le lingue delle minoranze nazionali.
Bisognerebbe invece distinguere tra la tutela dei diritti linguistici (che riguarda
individualmente e collettivamente le persone, i locutori) e l’esigenza di una tutela degli idiomi
in quanto “beni” e parte costitutiva del patrimonio delle diverse comunità dello stato, e quindi
dello stato stesso.
Lo stato ha il dovere di tutelare i diritti linguistici di TUTTI i cittadini che si trovino in
situazione di minoranza, non solo di quelli delle minoranze linguistiche.
Inoltre, ammettere l’esigenza della tutela soltanto di alcune tra le varietà che si integrano nel
patrimonio linguistico nazionale costituisce prima di tutto una grave omissione nei confronti
di una parte rilevante di tale patrimonio, con grave danno per i cittadini tutti.
Dal punto di vista legislativo, la tutela dovrebbe insomma garantire da un lato TUTTI i
cittadini da eventuali discriminazioni basate sulla lingua e far sì, dall’altro, che TUTTO il
patrimonio linguistico sia oggetto di promozione e tutela. Non mancano da questo punto di
vista, a livello europeo, modelli legislativi idealmente trasferibili nella situazione italiana.
Il concetto di alloglossia, esteso a tutte le varietà effettivamente e correttamente integrabili in
tale categoria, consentirebbe di individuare quelle varietà che richiedano forme particolari e
diversificate di tutela e promozione.
Il fatto che, purtroppo, il numero di parlanti delle varietà ammesse a tutela dalla 482 continui
a calare inesorabilmente dovrebbe far riflettere sul fallimento dei provvedimenti in vigore e
sull’esigenza ineludibile di un mutamento d'indirizzo.

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Parte seconda: panorama delle lingue minoritarie


in Italia

CAPITOLO TRE: LINGUE DELLE MINORANZE NAZIONALI


Sarà proposta una categoria di “minoranze linguistiche” ampliata rispetto alla classificazione
ufficialmente accreditata.
Francese, tedesco e sloveno hanno in Italia prerogative di lingue “coufficiali” in seguito ad
accordi internazionali di tutela sottoscritti con Francia, Germania e Slovenia. Si tratta inoltre
delle varietà standard delle tre lingue. Tali caratteristiche determinano il ruolo particolare
tenuto da queste varietà rispetto alle altre tipologie minoritarie.

PAR. 1) LA FRANCOFONIA IN VALLE D’AOSTA


In Valle d’Aosta all’uso dei dialetti locali di tipo franco-provenzale si appoggiò precocemente
quello del francese come lingua di cultura. Dal 1861, il francese venne progressivamente
estromesso dall’insegnamento e dagli usi pubblici, fatto accompagnato dall’insorgere di
sentimenti regionalisti in reazione. Tali sentimenti vennero però stroncati dall’avvento del
fascismo, che dal 1923 avviò una dura politica di assimilazione linguistica, culminata nel
1939 con l’italianizzazione della toponomastica e un progetto di italianizzazione dei cognomi.
I fermenti di resistenza culturale cominciarono soprattutto allora ad assumere una
connotazione politica.
Dopo il crollo del fascismo, l’immediata concessione da parte dello Stato italiano di una forte
autonomia amministrativa e linguistica scongiurò il rischio assai concreto di una secessione
e avviò la normalizzazione dei rapporti con il governo centrale anche sulla base di appositi
trattati internazionali con la Francia. Tuttavia, si può affermare che non esistano in Valle
d’Aosta comunità che abbiano il francese come lingua prima: esso ha funzioni prevalenti di
carattere rappresentativo. Per quanto si possa sostenere che l’intera popolazione della
regione sia a vario titolo coinvolta in una conoscenza più o meno attiva del francese, le
statistiche parlano di una percentuale abbastanza bassa di soggetti bilingui, col prevalere
semmai di condizioni di plurilinguismo.
In Val d’Aosta, la scelta dell’italiano o del francese nei rapporti con l’amministrazione è a
discrezione del pubblico; bilingui sono inoltre la segnaletica stradale la toponomastica, e
anche l’educazione scolastica, regolata da apposite normative nazionali e regionali, viene
impartita in italiano e in francese.
La funzione eminentemente statuaria della lingua francese ne favorisce inoltre l’utilizzo
mediatico; inoltre, vi è larga possibilità di accesso ai canali televisivi e alla stampa
provenienti direttamente dalla Francia.
Al di fuori della Valle d’Aosta il francese ha avuto storicamente funzioni di idioma di cultura
nelle valli Valdesi di dialetto provenzale, nonostante anche qui non sembri esistere una
trasmissione del francese come lingua materna.

PAR. 2) IL TEDESCO IN ALTO ADIGE


La popolazione di dialetto tirolese e di lingua tedesca stanziata nella provincia di Bolzano
rappresenta la minoranza dotata di migliori forme di tutela legislativa nell’ambito dello stato

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italiano, ed è tra le più garantite in Europa dal punto di vista dell’applicazione dei principi del
bilinguismo istituzionale e del riconoscimento dei propri diritti culturali.
Il Tirolo fu per lunghissimo tempo sotto l’Austria; il sentimento irredentista della regione
italofona meridionale cominciò a manifestarsi dal 1848, ma nessuno sostenne mai
seriamente che anche il territorio di Bolzano dovesse far parte delle c.d. “terre irredente”.
Dopo la fine della 1GM, tuttavia, sia il Trentino che l’Alto Adige vennero attribuiti all’Italia. I
Tirolesi germanofoni tentarono in un primo tempo di opporti alla ratifica dello stato di fatto,
orientandosi successivamente sulla richiesta di forme concrete di autonomia amministrativa
e culturale. L’avvento del fascismo coincise invece con la fase dei tentativi di italianizzazione
forzata della regione. Con l’ascesa al potere di Hitler e dopo l’annessione dell’Austria al
Terzo Reich, il governo italiano dovette far fronte al crescente sentimento pangermanico
della popolazione di lingua tedesca, apertamente appoggiato dai nazisti. Molti sudtirolesi
emigrarono a causa di ciò in Germania e in Austria.
Dopo la fine della guerra, De Gasperi concesse la creazione di una regione a statuto
speciale comprendente l’Alto Adige e il Trentino, all’interno della quale furono garantite alla
minoranza di lingua tedesca forme significative di tutela. Tuttavia, una volta che queste non
vennero effettivamente concesse dal governo, si sviluppò e crebbe il terrorismo sudtirolese,
fino ad arrivare a una soluzione nel 1972 con la creazione di un nuovo statuto speciale in cui
vigevano norme di tutela e promozione della lingua tedesca. Queste hanno portato la
popolazione del Tirolo Meridionale a fruire di una reale autonomia politica e culturale.
I maggiori problemi linguistici e culturali dell’autonomia sudtirolese sono dati oggi dalla
nuova situazione discriminatoria che è venuta a crearsi nei confronti del gruppo italiano (per
quanto riguarda aspetti importanti dell’inserimento sociale, vigono infatti rigide regole basate
sulla proporzionale etnica, e gli italofoni sono in netta minoranza quasi ovunque in Sudtirol).

PAR. 3) LO SLOVENO IN FRIULI-VENEZIA GIULIA


Il territorio abitato dalla minoranza slovena in Italia corrisponde alla fascia di confine tra il
Friuli-Venezia Giulia e la repubblica di Slovenia, ma include aree nettamente differenziate
dal punto di vista geografico, storico, economico e sociale. L’area slavofona principale è
costituita dalle zone rurali intorno a Gorizia e a Trieste; lo sloveno si parla inoltre negli stessi
centri urbani, dove una parte consistente della popolazione è di lingua slava.
Durante il fascismo, l’elemento slavo subì duri tentativi di assimilazione culturale e
linguistica, che provocarono la radicalizzazioni delle posizioni filo-iugoslave di molti
esponenti della minoranza. Dopo la fine della 2GM, Tito riuscì a ottenere la maggior parte
del retroterra giuliano assieme all’Istria e all’area dalmata, mentre il territorio di Trieste
veniva diviso in due zone sotto diverso controllo.
In seguito agli accordi di pace, la popolazione slovena rimasta sotto amministrazione italiana
ottenne il riconoscimento e la tutela della propria specificità culturale e linguistica.
L’attuazione delle norme di bilinguismo non riguardò invece la popolazione slavofona della
provincia di Udine (anche queste vicende contribuirono ad allargare la frattura culturale
linguistica tra gli slavofoni dell’area triestina e goriziana e quelli della provincia di Udine, che
sostengono la propria specificità, diversa dall’identità “slovena”).
Nelle aree di Trieste e Gorizia, il pullulare di organizzazioni ricreative, sportive, culturali ecc
di lingua slovena ha contribuito a diffondere il modello linguistico dello standard sloveno,
favorendone l’uso didattico ed evitando così un utilizzo esclusivamente dialettale dell’idioma:
analoga funzione è svolta dai numerosi organi di stampa e dalle trasmissioni radiofoniche
della RAI.

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Grazie alle recenti disposizioni, ora tutta l’area di lingua e cultura slava del Friuli-Venezia
Giulia (compresa Udine e provincia) vede istituite condizioni di plurilinguismo affini, almeno
in linea di principio, a quelle vigenti in Alto Adige e in Valle d’Aosta.

CAPITOLO QUATTRO: LINGUE REGIONALI


Lo status di lingue minoritarie viene normalmente riconosciuto per tre sistemi dialettali
tradizionalmente privi di un “tetto” di riferimento differente dall’italiano, ossia il friulano, il
sardo e il ladino. Quest’ultimo può essere considerato come una vera e propria “minoranza
nazionale” dotato di uno stato-tutore di riferimento, cioè l’Austria (cosa che non vale per le
altre due varietà). In ogni caso, anche nel caso del friulano e del sardo, pur con forme e
modalità differenti dal ladino, la specificità linguistica ha finito per appoggiare una percezione
(e autopercezione) diffusa di alterità culturale, avviando o rafforzando processi di
identificazione collettiva profondi.
Ladino, friulano e sardo sono dunque realtà linguistiche regionali - se non più meritevoli di
valorizzazione rispetto ad altre - per le quali si è ormai ampiamente affermata l’idea di
un’originalità forte.
La definizione di queste varietà come “lingue regionali” ha qui un valore essenzialmente
geografico ed è tesa a sottolineare il carattere autoctono, il legame con un ambito territoriale
esteso e la mancanza di un riferimento politico-culturale esterno allo stato italiano.

PAR. 1) IL LADINO DELLE DOLOMITI


I dialetti ladini delle Dolomiti vengono fatti rientrare insieme al friulano e al romancio in un
gruppo linguistico “retoromanzo” distinto nell’ambito degli idiomi neolatini da diverse
caratteristiche tali da far supporre un’antica autonomia, unità e contiguità territoriale delle tre
varietà. Vi fu un passato un aspro dibattito sulla classificazione di queste varietà (a partire
dall’Ascoli e dalla pubblicazione dei suoi “Saggi ladini” nel 1873). A prescindere dalle diatribe
linguistiche, il concetto dell’autonomia culturale è ormai ampiamente accolto a livello
istituzionale, e la realtà della minoranza ladina è assolutamente innegabile.
Un “confine linguistico” netto si può definire solo in rapporto con l’area germanofona; verso il
Trentino e il Veneto i caratteri ladini si stemperano nei dialetti veneto-lombardi, ed è
testimoniato che un tempo parlate ladine coprissero un’area più vasta.
Essendo diversi i rapporti venutisi a installare con l’italiano e l’appartenenza allo stato
nazionale, si distingue di solito tra una ladinità “tirolese” concepita come espressione
culturale di una vera e propria minoranza nazionale e di una (neo-)ladinità “veneta”,
storicamente integrata nel panorama italiano, due realtà che esprimono esigenze differenti di
tutela e valorizzazione delle proprie parlate. La dilatazione dell’area “neoladina” del
Bellunese è continuata in particolare dopo l’approvazione della legge 482/1999, che ha
favorito una vera e propria corsa all’autocertificazione di ladinità da parte delle
amministrazioni locali.
La storia delle rivendicazioni culturali e dei processi di affermazione di una specificità ladina
segue dunque percorsi diversi per l’area “tirolese” e per quella “veneta”. Le vicende politiche
e culturali della minoranza ladina ex austriaca (tirolese) seguirono dal 1918 quelle del
gruppo germanofono sudtirolese. Fu tentato poi, nel secondo dopoguerra, di unificare
amministrativamente le valli di parlata ladina in un unico “cantone” dotato di autonomia, ma
la proposta venne respinta ed ebbe luogo la sperequazione nei confronti dei Ladini tirolesi
nelle province di Trento e Belluno. I ladini tirolesi integrati nelle province “italiane” (al

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contrario di quelli stanziati a Bolzano) non si videro riconosciuta alcuna prerogativa di


minoranza etnico-linguistica. Solo nel 1994, ad esempio, in Val di Fassa il ladino venne
dichiarato lingua ufficiale della valle.
In provincia di Belluno l’effervescenza culturale del gruppo che si comincia oggi a definire
“neoladino” è recente (mentre nelle altre aree ladine esistono tantissime organizzazioni,
associazioni e movimenti legati alla valorizzazione dell’idioma).

È facile constatare dunque come la percezione di una “unità” culturale del gruppo linguistico
ladino possa risultare precaria, e come le diverse vicende storiche vissute dalle varie aree
abbiano avuto ripercussioni sulla percezione dell’identità dei rispettivi parlanti.

PAR.2) IL FRIULANO
Nel territorio della regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia si integrano due realtà
storiche, culturali e linguistiche diverse, quella friulana e quella rappresentata, con Trieste,
da ciò che resta all’Italia dell’area giuliana e istriana.
La popolazione che parla dialetti di ceppo friulano è concentrata in gran parte nelle attuali
province di Udine, Pordenone e Gorizia e in alcune frange di quella di Venezia (anche se va
precisato che in gran parte del Goriziano e nella fascia orientale di Udine i dialetti friulani
convivono storicamente con lo sloveno, e che i principali centri urbani della regione sono
tradizionalmente venetofoni).
I dialetti friulani, suddivisi in tre grandi raggruppamenti (carnico, occidentale e
centro-orientale) condividono con quelli ladino-dolomitici e con le parlate romance dei
Grigioni una serie di tratti conservativi rispetto alle parlate dell’Italia settentrionale (sulle
cause di ciò si è ampiamente dibattuto nella “questione ladina”, anche se oggi sembra più
probabile che sia un fatto dovuto alla maggior conservazione delle aree laterali piuttosto che
all’esistenza di un’arcaica “unità ladina”). In ogni caso, il friulano ha acquisito personalità
autonoma nel contesto delle varietà italiane settentrionali al punto di essere considerato
dagli studiosi come gruppo linguistico a sé, le cui peculiarità sono state riconosciute dalla
legislazione nazionale mediante il suo inserimento tra le varietà minoritarie ammesse a
tutela in base alla legge 482/99. Si è inoltre sviluppata anche una specifica identità culturale,
soprattutto a partire dalle ricerche dell’Ascoli sull’originalità del friulano. Solo di rado, tuttavia,
il friulanismo si espresse in forme di rivendicazione politica a sfondo nazionalista.
L’affermazione della specificità friulana resta legata in primo luogo alla problematica
linguistica e culturale, ambiti nei quali la minoranza ha saputo dotarsi col tempo di ottime
strutture. I temi principali attuali sono connessi da un lato all’esigenza di uscire dalla relativa
crisi dell’uso, dall’altro alle prospettive di elaborazione di una varietà sopralocale, che
aggiorni la vecchia ​koinè ​letteraria basata sul friulano centrale.
Nonostante tutti i limiti e i dilemmi, quella friulana resta oggi una delle culture regionali più
vivaci in Italia, e il friulano è probabilmente, accanto al sardo, l’unica varietà minoritaria che
abbia sviluppato intorno a sé un movimento culturale paragonabile a quello dei principali
gruppi linguistici regionali europei.

PAR. 3) IL SARDO
Le vicende storiche, politiche e linguistiche che la Sardegna dovette attraversare furono
molteplici e complesse. Nel secondo dopoguerra si assistette a un’esponenziale crescita
della coscienza autonomista: i temi del riconoscimento della specificità linguistica e culturale
della Sardegna cominciarono a entrare nel dibattito politico e sociale, davanti all’innegabile
specificità linguistica e culturale della Sardegna. Il sardo rappresenta infatti un insieme

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dialettale fortemente originale nel contesto delle varietà neolatine e nettamente differenziato
rispetto alla tipologia italoromanza, al punto che gli studiosi sono sostanzialmente concordi
nell’affermarne l’originalità come gruppo a sé stante.
Un aspetto vistoso della realtà linguistica sarda è dato poi (oltre che dalla presenza sull’isola
di importanti varietà alloglotte) dalla frammentazione dialettale, che consente di individuare
alcune macroaree (logudorese e campidanese in primo luogo), all’interno delle quali si
riscontrano ulteriori elementi di differenziazione interna, corrispondenti alla tradizionale
divisione subregionale del territorio. Il sardo non si configura insomma come UNA lingua
minoritaria, bensì come un gruppo di parlate estranee al sistema dei dialetti italiani ma privo,
tradizionalmente e nella realtà attuale, di una lingua-tetto di riferimento diversa dall’italiano
letterario.
Sull’isola, l’italiano ha ormai stabilmente assunto un ruolo di grande importanza, non soltanto
in quanto lingua ufficiale: infatti, pur essendo sentito come fondamentalmente estraneo alle
tradizioni più autenticamente popolari, il suo possesso è ritenuto necessario e simbolo
potente di avanzamento sociale.
Inoltre, malgrado gli sforzi di estendere il sardo a domini normalmente ritenuti di competenza
del solo italiano, la popolazione continua distinguere nettamente i campi di applicazione
della diglossia, relegando il sardo essenzialmente alla comunicazione quotidiana.
Ciò pone evidenti dilemmi in merito alle iniziative, promosse dall’amministrazione regionale,
di avviare la standardizzazione di una​ limba sarda unificada ​sulla quale costruire l’ipotesi di
un bilinguismo istituzionale con l’italiano e un più deciso inserimento nell’uso didattico.
I problemi inerenti alla gestione istituzionale della specificità linguistica sarda non hanno
impedito del resto alla cultura minoritaria di trovare in questi ultimi decenni forme di
espressioni notevoli e vistose.

CAPITOLO CINQUE: LA CONTINUITA’ DIALETTALE


TRANSFRONTALIERA
In Italia, situazioni come quella dello sloveno in Friuli e del tedesco in Alto Adige possono
essere definite “Penisole linguistiche”, in quanto vi è una continuità transfrontaliera tra questi
idiomi e le lingue parlate oltre il confine. Caso particolare e dibattuto riguarda, invece, il c.d.
“franco-provenzale”.

PAR. 1) DIALETTI FRANCO-PROVENZALI


La popolazione della Valle d’Aosta e di alcune vallate in provincia di Torino parla
tradizionalmente un insieme di dialetti, molto differenziati tra loro, riconducibile all’insieme di
varietà romanze conosciute dagli studiosi con il nome di “franco-provenzale”.
L’individuazione di questo gruppo linguistico diffuso anche in Francia e in Svizzera risale
solo alle ricerche pubblicate dall’Ascoli (1878), attraverso le quali lo studioso isolò una serie
di parlate caratterizzate da elementi specifici e da alcuni tratti in comune sia col francese che
con l’occitanico, ma combinati in modo tale da connotarle in maniera peculiare (alcuni
studiosi hanno, però, duramente contestato la specificità del tipo franco-provenzale).
Attratti da sempre nell’area culturale francese, i dialetti franco-provenzali al di qua e al di là
della Alpi non hanno mai espresso una ​koinè ​letteraria, né usi pubblici ufficiali o di un
qualche prestigio: questo fatto aiuta a spiegare la particolare frammentazione delle parlate e

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la scarsa fortuna del tentativo di elaborare una varietà sopradialettale chiamata ​harpeitan
(arpetano).
I confini dell’area linguistica “franco-provenzale” restano difficili da definire, soprattutto nei
confronti del francese e dell’occitanico, ma anche del piemontese. Per quanto riguarda la
Val d’Aosta, il territorio tradizionalmente interessato ai dialetti franco-provenzali può farsi
sostanzialmente coincidere con quello della regione amministrativa (ma tenendo sempre
conto che l’italiano e il francese convivono nella regione come lingue ufficiali e di cultura
emarginando in tal modo la pratica del franco-provenzale, oggi presente soprattutto nelle
alte valli e nei centri meno esposti al contatto).
Quanto alla provincia di Torino, anche se accanto a essi il piemontese si è imposto come
varietà “illustre” e avanza la diffusione dell’italofonia, dialetti di tipo franco-provenzale sono
tuttora parlati ed esprimono in qualche caso una discreta vitalità in alcune aree montane.
In Valle d’Aosta, il riconoscimento dello status di lingua minoritaria in base alla 482/99 non
pare destinato, per il momento, ad accrescere sostanzialmente il prestigio di parlate
percepite storicamente come varietà basse rispetto alla pratica istituzionale del bilinguismo
italiano-francese. L’auspicio di un maggiore ruolo culturale per il dialetto appare nondimeno
condiviso da una parte della popolazione della regione, e in questo contesto sono da
leggere anche diverse iniziative - ancora in un’ottica prevalentemente volontaristica - di
utilizzo didattico delle varietà franco-provenzali.
Tuttavia, i fermenti di “rinascita” e le manifestazioni di interesse nei confronti delle parlate
sono spesso strettamente collegati alla gestione da parte degli enti locali e
dell’associazionismo culturale dei benefici previsti dalla legge nazionale di tutela.

PAR. 2) DIALETTI PROVENZALI ALPINI


In Italia si parlano dialetti di tipo provenzale in diverse valli delle Alpi occidentali: a tali parlate
fa riferimento l’inserimento tra le lingue ammesse a tutela dell’”occitano”, denominazione
fatta oggetto di contestazioni legate alla valenza fortemente ideologica che ad essa
soggiace. Il concetto di una minoranza “occitana” è infatti anche in Francia un dato tutt’altro
che consolidato, il cui punto debole risiede nella mancanza di un’identità comune alle
popolazioni e alle regioni che si vorrebbero riunire sotto questa denominazione (l’idea di un
“occitano” comune si scontra infatti con la realtà di un notevole frazionamento dialettale e
degli stessi usi scritti). Similmente alle varietà galloitaliche in Italia, i dialetti occitani
rappresentano, nel contesto delle lingue neolatine, un gruppo a sé stante e differenziato
rispetto al francese ma, dopo la fine del glorioso periodo medievale dei Trovatori, l’unità
degli usi letterari entrò in grave crisi.
Tutte le successive, poco appariscenti manifestazioni letterarie negli idiomi di tipo occitano si
espressero nelle diverse varietà regionali, fino alla “rinascita” del trobadorismo con Mistral
che però avvenne solo nel XIX secolo.
Nel dopoguerra, l’occitanismo riuscì ad aggiornare la sua proposta militante, appoggiandosi
al contempo a un’intensa attività pubblicistica e a strutture normative e di promozione della
lingua.
La frammentazione ideologica, politica e culturale dell’occitanismo è tuttora un elemento di
debolezza per lo sviluppo delle sue rivendicazioni.

I dialetti provenzali parlati in Italia, molto differenziati tra loro, appartengono alla sottovarietà
alpina. La maturazione in area italiana di una coscienza etnico-linguistica provenzale è
fenomeno recente anche perché la frammentazione territoriale, amministrativa e religiosa
non favorì mai l’incontro tra le popolazioni delle diverse vallate. Vi era inoltre, da parte degli

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stessi locutori, una storica disistima dei dialetti locali sia rispetto all’italiano e al francese, sia
rispetto al piemontese da sempre percepito come variante di prestigio.
I primi fermenti culturali risalgono solo all’inizio degli anni Sessanta, e in particolare crebbero
nel periodo del ‘68. Venuta meno la fase più accesamente rivendicativa, l’occitanismo si
manifesta oggi attraverso strutture organizzative che hanno trovato interlocutori politici e
istituzionali a livello regionale e provinciale → viene promossa un’immagine accattivante,
divulgata nei suoi aspetti più spiccatamente “suggestivi”.
Più in generale, negli ultimi decenni è andato sviluppandosi un discreto attivismo in campo
musicale, folkloristico, pubblicistico ed editoriale, che punta anche a colmare la storica
assenza di una letteratura nelle varietà provenzali cisalpine.
Mancando una ​koinè​ letteraria, il problema della normalizzazione ortografica è a sua volta
rappresentativo del delicato problema dell’appartenenza delle valli cisalpine a un contesto
culturale più ampio.
Esistono perplessità relative alla gestione della specificità “occitana” anche riguardo
all’individuazione dell’area sulla quale i dialetti provenzali sarebbero diffusi. A causa dei
benefici assicurati dalla 482, infatti, la rivendicazione di un’identità “occitana” si è estesa
anche a comuni e zone nelle quali i dialetti tradizionalmente parlati non presentano affatto
tratti provenzaleggianti. L’assurda situazione venutasi a creare rende dunque difficile
stabilire il numero reale dei parlanti provenzale in Piemonte.

CAPITOLO SEI: COLONIE LINGUISTICHE


La metafora dell’”isola linguistica” viene usata per descrivere la collocazione spaziale di
comunità linguistiche alloglotte, spesso numericamente esigue, inserite in un contesto
dialettale completamente diverso come conseguenza di immigrazioni, o anche di
sopravvivenze rispetto all’affermarsi di uno strato idiomatico successivo. Tuttavia, quest’idea
spesso è fuorviante in quanto implica un isolamento linguistico e culturale che il più delle
volte esula dalla realtà vissuta di queste comunità. Inoltre essa riguarda un’estrema varietà
di situazioni sociolinguistiche (che vanno da casi di enorme recessione della lingua locale a
casi invece di ampia dinamicità d’uso). Pare dunque più appropriato utilizzare il concetto di
“colonie linguistiche”, in quanto si tratta effettivamente di fondazioni nate dal trasferimento e
dalla dislocazione in ambienti nuovi di collettività in grado di mantenere - aggiornandole e
integrandole - le proprie specificità linguistiche. Tuttavia, bisogna tenere presente che
questa categoria minoritaria è caratterizzata da un’estrema varietà di situazioni, non solo
sociolinguistiche ma anche ambientali e per tipologie linguistiche coinvolte.

PAR. 1) LA GRECOFONIA NELL’ITALIA MERIDIONALE


La popolazione di dialetto greco (o grecanico) dell’Italia meridionale è concentrata oggi in
due aree ben distinte, nel Salento in un gruppo di comuni in provincia di Lecce e in Calabria
sul versante meridionale dell’Aspromonte. In realtà, i dialetti locali chiamati tradizionalmente
grico ​sono ormai da tempo praticati solo da un’esigua minoranza della popolazione.
Com’è noto, nell’antichità classica popolazioni elleniche colonizzarono stabilmente la Sicilia
e gran parte dei territori costieri dell’Italia meridionale, dove l’utilizzo del greco come lingua
di cultura si protrasse molto a lungo anche dopo la caduta dell’Impero. Tracce consistenti di
sostrato ellenico si riconoscono del resto in molte aree dialettali meridionali, soprattutto della
Calabria e della Puglia, regioni in cui la presenza di consistenti comunità ellenofone è
documentata più a lungo.

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Intorno all’origine di queste persistenze si è accesa da tempo una disputa filologica e


linguistica: alcuni studiosi sostengono che vi sia una continuità rispetto alle parlate elleniche
della Magna Grecia (tesi minoritaria, portata avanti soprattutto da Rohlfs), mentre altri
pensano che l’origine sia più recente, legata a ripopolamenti risalenti all’epoca bizantina.
Quale che sia la verità, sta di fatto che nelle comunità grecaniche dell’Italia meridionale si
parlano attualmente dialetti evolutisi in maniera autonoma rispetto al greco moderno, con
caratteri conservativi, ma anche, naturalmente, con notevoli influssi dalle circostanti parlate
neolatine.
La crisi della grecità nell’Italia meridionale è collegata a diversi fattori di ordine culturale, tra i
quali il basso status sociale del dialetto, i fenomeni emigratori, la crisi dell’agricoltura e lo
sviluppo turistico.
Generalmente, però, le varietà grecaniche, ammesse a tutela nazionale dalla 482/99,
conoscono oggi vari tentativi di recupero, anch in ambito didattico (tentativi tipici delle
situazioni di piccoli gruppi minoritari opportunamente riconosciuti ma non per questo meno
soggetti a un processo continuo di erosione).

PAR. 2) DIALETTI ALTOITALIANI DELLA SICILIA


In diverse località della Sicilia si parlano varietà dialettali che presentano caratteristiche
fonetiche, morfologiche e lessicali che consentono di attribuirne l’origine a stanziamenti,
avvenuti in poca incerta (secondo le tesi più accreditate, potrebbero risalire al XI-XIII
secolo), di genti provenienti dall’Italia settentrionale.
Essendo caratterizzati da tratti di differenziazione interna anche notevole, sembra probabile
che la formazione di queste parlate in Sicilia rifletta processi di convergenza tra varietà
settentrionale di diversa origine.
I dialetti altoitaliani, storicamente praticati accanto al siciliano e in tempi più recenti sottoposti
alla pressione e all’interferenza dell’italiano, sono ancora particolarmente vitali in alcuni
centri tra loro contigui e nei quali la percezione dell’alterità linguistica rispetto alle circostanti
parlate siciliane è particolarmente intensa.
A dispetto delle iniziative di studio e di promozione promosse soprattutto dall’università di
Catania e dalle ricorrenti iniziative di amministratori e rappresentanti locali, né la legislazione
isolana né quella nazionale hanno mai preso in considerazione forme concrete di
valorizzazione della specificità delle parlate altoitaliane della Sicilia.

PAR. 3) DIALETTI GALLOROMANZI DEL MERIDIONE


A Faeto e Celle San Vito (Foggia) si parla un dialetto di tipo franco-provenzale, molto
esposto al contatto con le circostanti varietà pugliesi. Sulle origini di questa colonia
linguistica non è stata fatta ancora piena luce (forse, il dialetto è stato portato da eretici
valdesi in fuga dalle persecuzioni religiose tra il XII e il XV secolo; oppure, potrebbe essere il
risultato della politica di ripopolamento attuato da Carlo d’Angiò).
Solo di recente gli abitanti dei due paesi, presso i quali il dialetto originario (tutelato dalla
482) è in forte regresso, hanno dimostrato un certo interesse per le proprie origini e la loro
peculiarità linguistica.
A Guardia Piemontese (Cosenza) si pratica invece una varietà arcaica di provenzale, qui
importato fra il XIII e il XIV secolo da coloni valdesi provenienti dalla Val Pellice, che
fuggivano dalle persecuzioni religiose. Oggi il dialetto provenzale, a dispetto delle iniziative
di valorizzazione e di rivitalizzazione, è in condizioni di forte regresso rispetto all’italiano e
alle parlate circostanti (si stima che, attualmente, vi siano solo 340 parlanti della varietà).

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PAR. 4) DIALETTI WALSER


Col termine Valser (letteralmente “vallesano”, riferibile al Canton Vallese) si indica il dialetto
germanico di tipo alamannico originariamente parlato nella sezione orientale del canton
Vallese e in un’area contigua di quello di Berna in Svizzera.
Le comunità walser, tradizionalmente esigue dal punto di vista numerico, hanno conservato
in genere la memoria della propria origine e caratteri più o meno consistenti di specificità
culturale e linguistica.
In generale, per quanto riguarda i dialetti germanici delle Alpi occidentali italiane, essi sono
interessati fin dal secolo scorso da processi di erosione a favore delle varietà galloitaliche e
galloromanze circostanti, dell’italiano e (in Valle d’Aosta) del francese.
In realtà il regresso dei dialetti walser ha conosciuto una brusca accelerazione soprattutto a
partire dal XX secolo e dal secondo dopoguerra in particolare.
Un discreto movimento di riscoperta delle identità locali ha portato nondimeno allo sviluppo
di un associazionismo culturale e di iniziative di tutela e rivitalizzazione delle tradizioni dei
Walser, che vengono oggi utilizzate anche come elementi di richiamo turistico.
I dialetti walser sono tutelati in base a normative regionali e rientrano nel novero delle
“popolazioni germaniche” genericamente riconosciute in base alla 482/99.

PAR. 5) DIALETTI GERMANICI DELL’ITALIA NORDORIENTALE


Diverse aree del Trentino, del Veneto e del Friuli furono interessate durante il medioevo allo
stanziamento di genti di dialetto germanico. In Trentino, si susseguirono varie fasi di
immigrazione proveniente in particolare dalla Baviera: isole linguistiche dove si parla ancora
il bavarese arcaico sopravvivono nella Val Fersina (detta anche, proprio per questo motivo,
“Valle dei mocheni”).
Altre popolazioni di dialetto bavarese si stanziarono tra il XII e il XIII secolo sull’altopiano
d’Asiago e nelle colline veronesi, in contiguità con gli insediamenti trentini della zona di
Lavarone: qui, al loro dialetto venne erroneamente assegnata la denominazione di “cimbro”.
Oggi, tuttavia, il cimbro sopravvive solamente in poche decine di locutori in provincia di
Verona e Vicenza, ed ha una base leggermente più solida presso Lavarone in Trentino.
Anche in Friuli esistono piccole comunità di parlata germanica introdotte a partire dal XIII
secolo in seguito all’immigrazione di genti germaniche accolte dai feudatari locali.
L’ammontare complessivo dei parlanti di dialetto germanico in Friuli è di alcune centinaia di
unità. Le iniziative regionali per la promozione e la valorizzazione di tali varietà rientrano nel
quadro della tutela complessiva del patrimonio linguistico friulano, del quale sono
considerate parte integrante.

PAR. 6) IL CATALANO AD ALGHERO


Alghero costituisce l’unico lembo di territorio italiano dove si parli tuttora la lingua catalana, o
più precisamente un dialetto del sottogruppo orientale caratterizzato da alcuni tratti
arcaizzanti nella fonetica e da una significativa influenza lessicale sarda e italiana.
Le ragioni della peculiarità linguistica e culturale della città, riconosciuta dalla legislazione
nazionale e da quella regionale, risalgono alla conquista dell’isola operata nel 1393 da
Alfonso d’Aragona, che portò dal 1372 alla ripopolazione della città di Alghero con spagnoli
catalani.
La città dunque, dotata di uno statuto speciale, finì per rappresentare un corpo separato
rispetto al retroterra sardo: l’uso vernacolare del catalano continuò così dopo il passaggio
dell’isola ai Savoia e la conseguente, progressiva italianizzazione degli usi linguistici ufficiali.

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La vitalità della cultura catalana in Alghero è stata ed è tuttora significativa, sia per quanto
attiene la produzione letteraria sia per quanto riguarda l’attività di promozione attraverso la
pubblicistica locale, la rivalutazione della toponomastica tradizionale, l’inserimento nei
programmi didattici e in diversi altri settori.
La forte immigrazione dal retroterra sardo e lo sviluppo turistico della città stanno del resto
contribuendo, con gli altri fattori tipici delle situazioni minoritarie, a erodere l’area d’uso del
catalano.

PAR. 7) L’ALBANOFONIA NELL’ITALIA MERIDIONALE


Arberesh ​è il nome tradizionale con cui si identificano le varietà della lingua albanese
storicamente parlate in Italia, ed è riconosciuta e tutelata in base alla legge n. 482/1999.
Le zone in cui è parlata non formano un territorio continuo, bensì un vero e proprio
“arcipelago” di comunità spesso assai distanti geograficamente tra loro, presso le quali la
conservazione dell’idioma originario presenta situazioni sociolinguistiche anche
notevolmente differenziate.
I comuni di parlata albanese in Italia sono attualmente distribuiti in ben cinque regioni
peninsulari (Calabria, Molise, Campania, Puglia e Basilicata) e in Sicilia. Le ragioni di questo
frazionamento territoriale sono legate alla storia degli insediamenti, iniziati nel XV secolo
quando re Alfonso I d’Aragona favorì l’Immigrazione nel Regno di Napoli di genti provenienti
da oltre Adriatico. Il movimento migratorio crebbe in particolare dopo l’invasione turca
dell’Albania (1435).
In Sicilia in particolare, per la minoranza albanese il rito bizantino funge da elemento
centrale nella determinazione della propria specificità.
L’albanese parlato in Italia è affine alla ​koinè ​letteraria affermatasi in Albania, e non esistono
in fondo grandi difficoltà di intercomprensione tra gli abitanti dell’Arberia e i parlanti dell’altra
sponda dell’Adriatico, anche se (soprattutto dal punto di vista lessicale) i dialetti parlati in
Italia hanno risentito dell’influenza delle parlate circostanti, rimanendo esenti dagli influssi
turchi che invece hanno caratterizzato l’albanese della madrepatria.
Inoltre gli albanesi d’Italia hanno sviluppato nei secoli scorsi una produzione scritta
significativa, con la quale si fa in pratica iniziare la tradizione letteraria in lingua albanese.

I dilemmi attuali che investono il problema della salvaguardia e della rivitalizzazione


dell’arberesh sono legati all’alternativa tra l’adozione dello standard albanese o la
standardizzazione di diverse varietà locali.
Mentre non hanno mai dato vita a forme di effervescenza politica, gli Albanofoni d’Italia sono
oggi assai attivi nell’opera di recupero della propria identità culturale; il risveglio delle
comunità albanesi è iniziato in particolare attorno al 1968.

PAR. 8) DIALETTI SLAVI DEL MOLISE


La minoranza di dialetto croato è oggi limitata ai tre comuni di San Felice del Molise,
Montemitro e Acquaviva Collecroce, tutti in provincia di Campobasso.
Queste piccole colonie derivano probabilmente da genti di fede cattolica trasferitesi in Italia
per sfuggire all’invasione turca.
Gli slavofoni dl Molise parlano una varietà discretamente comprensibile per i Croati della
madrepatria, più o meno influenzata dall’italiano e dalle varietà dialettali circostanti.
Negli anni Novanta, presso i comuni slavofoni del Molise trovarono ospitalità diversi profughi
provenienti dalle regioni in guerra della ex Iugoslavia, e relazioni di carattere culturale sono

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state successivamente instaurate con la Croazia (testimonianza della volontà della


minoranza di rinnovare i legami linguistici con l’antica madrepatria).
La minoranza slavofona in Molise è tutelata sia dalla 482 sia da legislazioni regionali, oltre
che da accordi con la Croazia.
Malgrado tutte queste premesse, la tutela della slavofonia in Molise è ancora legata a
iniziative di carattere prevalentemente volontaristico, anche per le oggettive difficoltà legate
all’esiguità della base dei parlanti.

PAR. 9) IL TABARCHINO
L’isola di San Pietro e una parte di quella di Sant’Antioco, a sud-ovest della Sardegna,
ospitano comunità che praticano una varietà d’origine ligure, il tabarchino. Le cittadine
furono fondate da coloni provenienti dall’isolotto tunisino di Tabarca sul quale Genova aveva
trasferito gruppi di pescatori liguri. A Tabarca i genovesi svilupparono un fiorente commercio
e attività mercantili di successo. Tuttavia le pressioni dei francesi sull’isola spinsero molti
pescatori a cercare rifugio altrove, e fondarono così le colonie in Sardegna.
Qui, l’uso del tabarchino è da sempre l’elemento caratterizzante nelle consuetudini
linguistiche della popolazione, che per il resto ha attinto tratti culturali di varia origine,
finendo per assumere una netta individualità e una precisa specificità sia rispetto alla
Sardegna che alla Liguria.
Del resto l’attaccamento dei Tabarchini alle tradizioni linguistiche e la fortissima autostima
che li contraddistingue fanno sì che essi abbiano mantenuto una pratica larghissima della
parlata. Da diversi anni si assiste inoltre alla crescita delle iniziative di salvaguardia e
promozione della cultura locale, con esperienze particolarmente significative di inserimento
nell’ambito didattico favorite dalla notevole tenuta del tabarchino anche presso le
generazioni più giovani.
Il tabarchino è correttamente riconosciuto come lingua minoritaria in base alla legislazione
sarda, ma è sconsideratamente ignorato da quella nazionale.

CAPITOLO SETTE: DIALETTI ITALIANI COME MINORANZE


In questa categoria si collocano situazioni particolari di alterità linguistica, date in primo
luogo dalla presenza in contesti alloglotti di varietà italoromanze che si trovano a
rappresentare altrettante “minoranze nella minoranza”, dando vita a situazioni estremamente
interessanti di macrodiglossia.

PAR. 1) DIALETTI CORSI E SARDO-CORSI


Il concetto di una “lingua corsa” che si viene affermando sempre più pesino nei contesti
scientifici pone il problema dei gruppi di popolazione che parlano dialetti di tipo corso in
territorio italiano. Si tratta in generale delle parlate diffuse in tutta la parte settentrionale della
Sardegna, i cui caratteri di specificità rispetto all’area linguistica propriamente sarda si
devono alla continuità tipologica con i dialetti della Corsica meridionale e centro-occidentale.
Questa continuità linguistica si spiega essenzialmente col massiccio afflusso di Corsi già in
epoca medievale, poi protrattosi per lungo tempo. Nell’ambito delle parlate sardo-corse
occorre distinguere in primo luogo la varietà sassarese; vi è poi il gallurese, a sua volta
suddiviso nella sottovarietà tempiese e aggese. Ha infine caratteri propri il dialetto dell’isola
della Maddalena.

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I dialetti sardo-corsi sono parlati complessivamente da circa il 12% della popolazione sarda,
e interessano con Sassari il secondo centro urbano dell’isola.
Il problema posto dalla vitalità di queste parlate è quello del riconoscimento della loro
specificità rispetto al sardo, accolta dalla legislazione regionale, mentre non è chiaro se la
legge n. 482/1999, parlando del sardo, intenda escludere queste varietà dai benefici previsti,
o considerarle arbitrariamente come parte di una “lingua sarda” diffusa su tutta l’isola tranne
che ad Alghero catalana e presso le comunità tabarchine.
Anche nel quadro dei dialetti della Toscana insulare si segnala la presenza storica di una
varietà di tipo corso-ligure a Capraia, attualmente in provincia di Livorno ma fino al 1925
legata amministrativamente a Genova. Qui, tuttavia, il dialetto locale si può ormai
considerare estinto.

PAR. 2) LA VENETOFONIA IN FRIULI-VENEZIA GIULIA


Il Friuli-Venezia Giulia ospita comunità che hanno adottato storicamente dialetti di tipo
veneto, in parte per il prestigio detenuto in passato da queste varietà, in parte per l’antico
radicamento della venetofonia in alcune aree marginali del territorio.
In Friuli, una distinzione di fondo riguarda infatti il veneto “coloniale” rispetto al veneto c.d.
“originario” e a quello “di contatto” o “di confine”. Il primo è ancora presente sebbene in
crescente regresso di fronte all’italiano nei centri urbani.
Per “veneto originario” si intendono invece i dialetti parlati lungo la costa, per i quali si
ipotizza un’antica continuità delle condizioni ambientali, culturali e storiche col litorale
veneto: si tratta di varietà conservative la cui notevole vitalità appare favorita dalla posizione
isolata e dal fatto che il dialetto rappresenta per certi aspetti un elemento costitutivo
dell’identità locale rispetto al retroterra friulano.
Anche in Venezia Giulia, a prescindere dalla componente slovenofona, la popolazione di
Trieste e del territorio litoraneo circostante utilizza tradizionalmente una parlata di ceppo
veneto. Il triestino a base veneziana ma con interessanti evoluzioni interne dovute in parte al
contatto col friulano e lo sloveno è oggi una varietà assai vitale, diffusasi grazie
all’importanza della città anche in altre aree geograficamente vicine. Essa costituisce inoltre
un elemento determinante per la strutturazione identitaria della popolazione non slavofona
della città, sia nei opposizione alla specificità friulana, sia, soprattutto, nei confronti della
minoranza slovena.
Per i dialetti veneti del Friuli-Venezia Giulia non è prevista alcuna forma di tutela da parte
delle istituzioni locali o regionali. La tendenza alla rimozione di questa componente
significativa del plurilinguismo regionale sembra legata alla rinnovata rappresentatività del
friulano, promosso oggi quale lingua regionale “illustre”.

PAR. 3) DIALETTI ALTOITALIANI DELLA BASILICATA E DELLA CAMPANIA


Nel panorama linguistico lucano spicca l’originale situazione di alcune varietà che
presentano caratteristiche, oggi sempre meno riconoscibili, di tipo italiano settentrionale.
Questi dialetti non erano in precedenza percepiti come “altri” rispetto al contesto lucano in
cui erano integrati: i tratti della “settentrionalità” sono infatti molto stemperati in una
significativa componente meridionale (conseguenza forse di un’originaria condizione di
mistilinguismo, tale da aver favorito l’elaborazione di varietà dialettali “ibride” fin dai primi
tempi di un fenomeno immigratorio del quale mancano però testimonianze storiche dirette).
Forse, queste parlate hanno origine nel trasferimento in Basilicata di nuclei di popolazione
d’origine settentrionale in epoca normanna e angioina, in un contesto di ripopolamenti e
fondazioni.

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In ogni caso, dialetti di tipo altoitaliano sono oggi riconoscibili in Basilicata in due aree
strategicamente importanti della regione.
Non è affatto da escludere, e non mancano tracce in proposito, che l’insediamento
settentrionale abbia interessato altri centri della Basilicata successivamente assorbiti dalla
circostante realtà dialettale di tipo meridionale.
Solo di recente, facendo seguito all’interesse di linguisti che se ne sono a vario titolo
occupati, sono state sviluppate alcune iniziative per la valorizzazione da un punto di vista
culturale del patrimonio linguistico altoitaliano della Basiicata.

PAR. 4) ETEROGLOSSIE INTERNE MINORI


Altre situazioni di un certo interesse si riscontrano in casi di problematica (e
demograficamente esigua) insularità linguistica alla quale non sembrano tuttavia associarsi
forme tradizionali di costruzione identitaria o iniziative di rivendicazione e promozione di una
specificità. Alcuni esempi: l’emiliano parlato in certe aree della Garfagnana, il napoletano
presente nelle isole Tremiti (Foggia) conseguenza di ripopolamenti attuati dalle autorità
borboniche a partire dal 1792.

PAR. 5) ALTRE SITUAZIONI


Le discrepanze tra i confini delle regioni italiane e quelli che individuano convenzionalmente
i diversi gruppi dialettali pongono qualche problema nella definizione di appartenenze
culturali e linguistiche. Iniziative di ridiscussione dei confini amministrativi sulla base del
senso di appartenenza linguistica e culturale, ad esempio, hanno riguardato a più riprese
l’ipotesi di istituzione di una regione romagnola separata dall’Emilia e integrata dalle zone di
dialetto galloitalico delle Marche (nel Pesarese) e della Toscana.
Forme analoghe di secessionismo regionale riguardano l’ipotesi della costituzione di una
Lunigiana autonoma dalla Toscana.

PAR. 6) DISLOCAZIONI RECENTI


Ancora un discorso a parte meritano i casi in cui il trasferimento di varietà dialettali italiane al
di fuori della regione d’origine risale a fenomeni relativamente recenti di impianto di comunità
compatte e territorialmente circoscritte. Appartiene a questa categoria lo stanziamento di
coloni veneti (padovani) in provincia di Grosseto, promosso dalle autorità fasciste nell’ambito
del ripopolamento delle aree bonificate della Maremma.
Abbastanza simili sono le modalità di alcuni ripopolamenti che hanno contribuito ad
arricchire ulteriormente il già variegato panorama linguistico della Sardegna.

CAPITOLO OTTO: VARIETA’ NON TERRITORIALIZZATE

Il criterio dell’individuazione di un legame tradizionale con un territorio per le varietà


linguistiche ammesse a tutela ha portato a escludere qualsiasi forma di valorizzazione, in
Italia, per la minoranza zingara pure presente nel paese almeno a partire dal XV secolo. La
minoranza rom, dunque, appare doppiamente discriminata: in primo luogo perché è quella
più emarginata dalla società, in secondo luogo perché non la si riconosce giuridicamente
come minoranza etnico-linguistica al pari delle altre minoranze alloglotte italiane, bensì
semplicemente come inquietante e irrisolto problema sociale.

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Completamente diverso è il caso di altre due varietà linguistiche prive di delimitazione


territoriale, l’ebraico e l’armeno, che per quanto non siano realmente tramandate come
varietà ​parlate ​in Italia, associandosi agli usi liturgici di due antiche minoranze religiose sono
comunque presenti nel panorama linguistico italiano.

PAR. 1) GLI ZINGARI IN ITALIA


Gli zingari chiamano se stessi con nomi diversi a seconda del gruppo linguistico e tribale al
quale appartengono. Recentemente, il nome Rom si è imposto per indicare collettivamente
tutti i membri del popolo zingaro, originario dell’India nord-occidentale e caratterizzato sin
dall’inizio da un carattere nomade.
Durante le loro peregrinazioni, a contatto con genti diverse, cambiarono di volta in volta i loro
usi e costumi e soprattutto la loro lingua, il ​romanès.
Oggi la varietà linguistica zingara più diffusa è quella, frammentata peraltro in decine di
sottovarietà, diffusa nei Balcani, dove appare influenzata in particolare dal romeno e dalle
lingue slave.
Non soltanto in Italia i rapporti tra gli Zingari e le popolazioni stanziali sono storicamente
caratterizzati da incomprensioni legate alla “diversità” etnico-linguistica e ai comportamenti
antisociali che a torto o a ragione vengono genericamente attribuiti ai membri dei gruppi
nomadi. Le diffidenze sono continuate, accentuandosi per certi aspetti, dopo che
l’industrializzazione ha messo in crisi le tradizionali attività economiche degli Zingari,
obbligandoli a un’esistenza ancora più precaria e marginale.
Un computo complessivo della popolazione zingara nelle diverse parti del mondo appare
difficile, ma si calcola che essa ammonti a circa 15 milioni di persone (esclusa l’India).
Quanto agli usi linguistici resta assai difficile stabilire quante persone pratichino le diverse
parlate di ceppo zingaro, in quanto i tentativi di integrazione con le diverse popolazioni
stanziali implicano in primo luogo l’adozione dei loro idiomi. Alcune stime parlano tuttavia di
almeno un milione e mezzo di parlanti in Europa e in America.
La cultura zingara è sempre stata intrinsecamente debole anche in ragione del suo carattere
nomade, e le stesse strutture tribali non hanno mai ottenuto alcun riconoscimento da parte
dei governi, per i quali non sono interlocutori rappresentativi. Anzi, gli stessi provvedimenti
legislativi e amministrativi emessi da alcune regioni si preoccupano essenzialmente, più che
di assicurare possibilità concrete di integrazione e di una vita dignitosa, di esercitare un
controllo sulla pratica del nomadismo.
In Italia, gli zingari presenti appartengono per lo più all’etnia sinto (soprattutto al nord), rom
(diffusa in particolare in Abruzzo) e ai c.d. Camminanti (Sicilia).
È assai difficile stabilire quanti zingari italiani abbiano mantenuto un uso attivo dei dialetti
ancestrali, anche perché la tendenza generale alla convergenza e alla contaminazione con
le parlate delle popolazioni stanziali ha favorito lo svilupparsi di parlate miste.
Nessuna varietà zingara figura in ogni caso tra quelle tutelate in Italia in base alla legge
482/1999; non esiste in particolare una reale politica di educazione linguistica volta
all’inserimento della lingua zingara nei programmi didattici che coinvolgono i bambini e i
giovani appartenenti a questa comunità.

PAR. 2) L’EBRAICO
Due minoranze storiche religiose, per il resto ampiamente integrate dal punto di vista
linguistico, fanno uso in Italia di idiomi specifici per le esigenze dei loro culti, e tali pratiche si
inseriscono nel loro patrimonio linguistico tradizionale senza soluzione di continuità rispetto
all’epoca dell’impianto di tali gruppi.

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In Italia la presenza israelita risale già all’epoca romana, ma fu notevolmente rafforzata alla
fine del XV secolo.
Si svilupparono nel corso del tempo dei c.d. dialetti giudeo-italiani, varietà delle parlate
italoromanze di riferimento la cui funzione fu quella, essenzialmente, di marca simbolica di
orgogliosa identità etnica.
Quanto all’uso linguistico dell’ebraico classico, esso è parte integrante delle tradizioni
culturali della popolazione di confessione israelita attualmente presente in Italia, ed è
dunque presente nel repertorio linguistico individuale degli Ebrei praticanti e nella vita
associativa delle diverse comunità ufficialmente costituite in varie regioni.
Presso le scuole confessionali l’insegnamento della lingua e della cultura ebraica sono parte
integrante dei programmi di studio.

PAR. 3) L’ARMENO
A sua volta risale al medioevo e in particolare al Rinascimento la presenza in Italia di
comunità di lingua e cultura armena. Portatrice di una grande tradizione umanistica, questa
minoranza religiosa si caratterizzò in Italia per la produzione scritta.
Oggi le comunità di origine armena presenti in Italia sono costituite in primo luogo da
discendenti di profughi scampati alle persecuzioni che le coinvolsero in Turchia tra la fine
dell’800 e i primi decenni del ‘900.
Altri Armeni provenienti dall’area del Medio Oriente sono poi giunti in Italia tra gli anni ‘60 e
‘90, ed è soprattutto tra questi gruppi che l’uso familiare e comunitario della lingua armena
rimane particolarmente vivo.
Oggi, la principale comunità di armeni presente in Italia è quella di Milano, composta da un
migliaio di persone, profondamente integrata nel tessuto sociale della città, ma al tempo
stesso fiera delle proprie tradizioni culturali indissolubilmente legate al culto religioso e alla
liturgia ufficiata in armeno classico, un fatto questo che contribuisce senz’altro alla tenuta,
più in generale, del retaggio linguistico.

Parte terza: l’italiano e i dialetti italiani all’estero


CAPITOLO NOVE: L’ITALIANO LINGUA UFFICIALE E DI
CULTURA ALL’ESTERO
Per quanto riguarda l’italiano standard, la sua posizione giuridica nei territori esterni alla
repubblica ove viene tradizionalmente praticato, varia dal rango di lingua ufficiale a tutti gli
effetti a quello di lingua minoritaria tutelata in base alla giurisdizione locale.

PAR. 1) SAN MARINO


San Marino ottenne l’indipendenza dai domini papali intorno all’885; nel corso della sua
storia plurisecolare il paese riuscì a difendere la propria sovranità contro le mire
espansionistiche delle signorie circostanti. Rifugio di perseguitati politici durante il
Risorgimento, San Marino regolò i propri rapporti con l’Italia attraverso una serie di trattati e
convenzioni che ne garantiscono la piena indipendenza.
La lingua ufficiale è storicamente l’italiano, anche se la popolazione locale si esprime
abitualmente in una varietà regionale di impronta romagnola, il sammarinese. Dunque, a

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differenza di altri “stati minimi” (Monaco o Andorra, ad esempio), la specificità linguistica


della popolazione non viene percepita come elemento integrante dell’identità nazionale, e
ciò anche in virtù degli ottimi rapporti che tradizionalmente sussistono con l’Italia.

PAR. 2) SVIZZERA
La popolazione svizzera è divisa in quattro gruppi linguistici di diversa consistenza numerica,
la cui collocazione geografica non corrisponde esattamente alla suddivisione cantonale: in
particolare, è di lingua italiana il Canton Ticino ed è trilingue tedesco-romancio-italiano il
Cantone dei Grigioni. Nonostante l’equiparazione formale, in realtà il tedesco ha finito per
assumere un ruolo fondamentale nella prassi delle istituzioni federali.
Nei rispettivi ambiti territoriali, in ogni modo, ciascuna lingua ha carattere ufficiale. Non ci si
può nascondere tuttavia che i problemi dell’italiano in Svizzera, a dispetto della parificazione
formale al tedesco e al francese, finiscono per assomigliare sempre più a quelli di una lingua
minoritaria. Oggi infatti l’italiano è la lingua materna soltanto del 62% della popolazione
residente in Ticino. Malgrado l’importante funzione svolta dalla lingua nell’ambito
dell’emigrazione in Svizzera, inoltre, questo tipo di apporto non sembra avere contribuito in
maniera particolare ad accrescere il prestigio istituzionale dell’italiano. È per questo che nel
1996 l’italiano del Ticino e dei Grigioni è stato definito assieme al romancio “lingua protetta”
dalla Confederazione.
Un aspetto significativo della situazione linguistica elvetica è dato dal diverso livello di vitalità
dei dialetti locali, che nell’uso corrente concorrono talvolta con gli idiomi ufficiali, arrivando a
trovare largo impiego, soprattutto nell’area germanofona, in molte circostanze della parlata
pratica anche formale. L’atteggiamento della Confederazione e dei governi cantonali non è
affatto ostile ai dialetti: anzi, vi vede un elemento di ricchezza culturale di alto interesse.

PAR. 3) VATICANO
Vanno ora segnalate due realtà esterne ai confini nazionali presso le quali l’italiano, sebbene
in assenza di un qualsiasi status giuridico, svolge comunque importanti funzioni come
strumento di cultura e comunicazione. Tale particolarità è conseguenza diretta della
collocazione territoriale e delle vicende storico-politiche delle entità statali corrispondenti.
La Città del Vaticano venne creata nel 1929 in seguito ai Patti Lateranensi che portarono
alla normalizzazione dei rapporti diplomatici tra l’Italia e il Papato.
La lingua ufficiale della Chiesa Cattolica rimane il latino peraltro sempre meno diffuso
nell’uso parlato delle stesse gerarchie ecclesiastiche.
Se il mantenimento del latino a livello ufficiale intende ribadire il carattere universale della
missione della Chiesa, ad essa si associa quindi un notevole impegno di divulgazione
attraverso le principali lingue nazionali e internazionali, e in questo quadro, all’italiano resta
affidata una funzione veicolare essenziale.

PAR. 4) MALTA
La Repubblica di Malta è costituita dall’arcipelago omonimo collocato tra la Sicilia e la costa
tunisina. Il maltese è l’unico idioma semitico parlato tradizionalmente in Europa e
rappresenta anche l’unico dialetto arabo volgare che svolga funzioni di lingua ufficiale in un
paese indipendente. Importantissimo per il processo di integrazione di Malta nell’orizzonte
culturale europeo fu anche il ruolo svolto dalla religione cattolica praticata dalla popolazione.
Una “questione della lingua” maltese si pose soprattutto a partire dal 1870, quando la
rivendicazione nazionalista cominciò ad appoggiarsi non più soltanto all’italianità, ma anche
sulla promozione del vernacolo come elemento costitutivo della specificità isolana.

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Oggi, il maltese è lingua nazionale e ufficiale dell’arcipelago, mentre l’inglese ha qualifica di


lingua coufficiale e l’italiano ha smarrito formalmente ogni prerogativa. Tuttavia, esso resta
compreso e praticato da una parte notevole della popolazione maltese, che continua a
vedere nell’Italia un paese di riferimento.

CAPITOLO DIECI: L’ITALIANO LINGUA MINORITARIA


In nessuna delle situazioni fin qui analizzate all’italiano va riconosciuta la qualifica di lingua
minoritaria (ad esempio ha regime di ufficialità a San Marino, di coufficialità in Svizzera).
Tale è il caso invece delle comunità italofone ancora presenti in Slovenia e in Croazia come
residuo di una ben più massiccia presenza nel passato: qui, l’italiano è lingua minoritaria a
tutti gli effetti, come tale riconosciuta e tutelata.
Dal punto di vista degli usi vernacolari, lungo le coste dell’Istria si parlano dialetti
veneto-giuliani; fanno (o facevano) eccezione i dialetti c.d. “istrioti” parlati in alcuni centri
costieri oggi croati.
Varietà di veneto coloniale, accanto al croato predominante nell’entroterra, si parlavano
anche nelle principali città della Dalmazia. In tutte queste zone, accanto agli usi vernacolari,
la cultura e la lingua italiane furono profondamente radicate, e il contributo di intellettuali e
scrittori giuliano-dalmati al panorama nazionale è enorme.
L’espansione del veneto in Istria risale almeno al XIII secolo; la Dalmazia conobbe a sua
volta l’influenza politica veneziana già a partire dall’XI secolo, fino all’annessione all’Austria
nel 1815.
Durante la 2gm, la Slovenia e la Croazia furono contese tra vari paesi, e attraversarono
complesse e alterne vicende. Durante queste ultime, e in particolare nell’immediato
dopoguerra, l’assoluta maggioranza degli abitanti di lingua italiana della Venezia Giulia,
dell’Istria e della Dalmazia si trasferì in Italia per sfuggire alle rappresaglie operate dai
partigiani di Tito.

PAR. 1) SLOVENIA
Agli italiani rimasti in territorio sloveno e croato furono in seguito assicurate, da parte del
governo iugoslavo, forme di tutela analoghe a quelle garantite a tutte le altre minoranze.
Oggi, in Slovenia e in Croazia vige una sempre più armonica politica di rispetto e tutela delle
rispettive minoranze, che passa anche attraverso il rafforzarsi della collaborazione
transfrontaliera in materia economica e commerciale.
In Slovenia, il numero dei membri della comunità italiana è stato in regresso fino all’inizio
degli anni ‘90 del secolo scorso, quando, ormani in un clima di generale ridiscussione
dell’”ordine” iugoslavo, molti cittadini sono tornati a dichiarare apertamente la propria
appartenenza al gruppo linguistico italiano.
Le prerogative culturali del gruppo italiano appaiono sufficientemente tutelati soprattutto per
quanto riguarda l’insegnamento della lingua, per il quale è stato istituito un sistema
scolastico autonomo. Gli Italiani hanno inoltre proprie strutture organizzative e intrattengono
relazioni con la madrepatria, che attua una sorta di tutorato su questa piccola comunità in
rapporto di reciprocità per quanto avviene da parte della Slovenia nei confronti della
minoranza slava in Friuli.

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PAR. 2) CROAZIA
Dopo l’esodo degli anni ‘40, l’Istria e la Dalmazia sono oggi quasi completamente slavizzate:
nel 2001, ha dichiarato la propria appartenenza alla nazionalità italiana solo lo 0.44% della
popolazione. Oltre che dalle leggi croate, la minoranza è tutelata come in Slovenia in virtù
degli accordi bilaterali sottoscritti a suo tempo dalla Iugoslavia con l’Italia, rimasti in vigore
anche dopo l’indipendenza. L’appoggio del governo italiano si rivela tuttavia determinante
nel mantenimento delle prerogative linguistiche e della specifica identità di questo gruppo, la
cui fruizione è resa difficile dalla scarsezza di mezzi finanziari in grado di assicurare un
effettivo sviluppo alla vita associativa e culturale e alle attività scolastiche in seno alla
minoranza.

PAR. 3) BOSNIA ED ERZEGOVINA


Diversa dalla situazione dell’italofonia in Slovenia e in Croazia è quella di alcune esigue
comunità di tradizione linguistica italiana presenti in altri paesi dell’Europa orientale, alle
quali i governi locali riconoscono prerogative di “gruppo nazionale” non in virtù di accordi
bilaterali ma in base all’applicazione di legislazioni che implicano, tra l’altro, una valutazione
sostanzialmente diversa del concetto di “minoranza linguistica” rispetto a quella affermatasi
in Italia. La qualifica di lingua minoritaria vale infatti, qui, anche se si tratta di gruppi il cui
trasferimento nei territori attuali è di origine relativamente recente, non anteriore comunque
alla metà del XIX secolo (insomma, sono diversi i parametri di riconoscimento delle
minoranze).
La minoranza italiana della Bosnia ed Erzegovina è costituita da alcune centinaia di
discendenti dei coloni trentini trasferitisi qui negli ultimi decenni dell’800 su pressione
dell’Austria.

PAR. 4) ROMANIA
Da parte loro, anche le autorità romene riconoscono ufficialmente l’esistenza di una
minoranza linguistica italiana: qualche migliaio di persone, residuo di un più consistente
flusso migratorio di origine veneta, friulana e trentina. Esso, costituito da coloni agricoli e
manodopera specializzata, ebbe origine nella seconda metà dell’800 e venne
favorevolmente accolto dalle autorità austro-ungariche e da quelle romene.
Alla minoranza italiana, che esprime proprie strutture politiche e culturali, spetta un seggio di
diritto al parlamento nazionale, e in linea di principio viene riconosciuto il diritto all’utilizzo
della lingua in ambito didattico.

PAR. 5) MOLDAVIA
Rispetto alle situazioni precedenti, il trasferimento di italiani verso altri paesi dell’Europa
orientale fu più disordinato e assai meno pianificato. Di questa presenza linguistica e
culturale non rimangono oggi tracce dirette se non in Moldavia, dove si raccolgono in una
minoranza italiana i discendenti di un popolamento che introdusse (in particolare nella
capitale, Chisinau) elementi provenienti soprattutto dalla Liguria nei primi anni del
Novecento.

PAR. 6) CRIMEA
Più massiccia fu la presenza tra l’Otto e il Novecento di una comunità italiana in Crimea,
oggi repubblica autonoma dell’Ucraina. Essa si costituì fra il 1830 e il 1870 con apporti
provenienti ancora una volta dalla Liguria e soprattutto dalla Puglia. Rispetto alla lingua

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italiana viene praticato di preferenza il dialetto: tuttavia, oggi l’uso di entrambi gli idiomi
sembra quasi completamente estinto.

CAPITOLO UNDICI: DA DIALETTI A LINGUE


La situazione delle varietà dialettali parlate al di fuori dei confini nazionali del paese in cui
una modalità standard ad essi imparentata è riconosciuta come lingua ufficiale, è un’altra
prova del valore essenzialmente politico della distinzione lingua-dialetto.
Determinati contesti politico-istituzionali suggeriscono a volte di valorizzare proprio la
specificità linguistica regionale o locale come elemento di identità da fare valere quale
strumento di pressione politico-culturale più efficace ed eventualmente più “visibile” della
lingua tradizionalmente accettata come tetto.
Vi sono dunque casi, come quelli del monegasco e del corso, in cui realtà dialettali
italoromanze, appoggiandosi a una diversa percezione della propria identità da parte dei
parlanti, sono approdate a uno statuto di autonomia rispetto al”tetto” linguistico di riferimento
tradizionale.

PAR. 1) IL MONEGASCO
Un caso per certi aspetti estremo è rappresentato dunque dal monegasco, il dialetto
tradizionalmente parlato nel Principato di Monaco. Se la lingua ufficiale è il francese (e ben
conosciuto vi è anche l’italiano), al monegasco viene riconosciuta a tutti gli effetti la qualifica
di lingua nazionale. Questa parlata rappresenta una varietà ligure occidentale,
successivamente esposta all’influsso del provenzale e del francese.
Se all’attribuzione della qualifica di “lingua nazionale” non corrisponde un utilizzo “ufficiale”,
sta di fatto che la visibilità del monegasco si è accentuata fino a coinvolgere ambiti di
discreto prestigio socioculturale quali la liturgia cattolica e la toponomastica.
Dalla metà degli anni ‘90, inoltre, vi è stata anche la fissazione dello standard ortografico,
l’elaborazione di una grammatica e di altri strumenti normativi, e un rafforzamento della
presenza del monegasco nella pratica didattica.
A dispetto di tutti questi provvedimenti, l’uso vivo dell’idioma locale è comunque in regresso
rispetto al francese, soprattutto presso le generazioni più giovani. Col tempo il monegasco
sembra dunque destinato a sopravvivere soprattutto come lingua recuperata in virtù di una
precisa volontà politica di salvaguardarla.

PAR. 2) IL CORSO
Il concetto di “lingua corsa” risale già alla fine dell’800, e trova una sua legittimazione nella
storia del suo progressivo affrancamento dal “tetto” linguistico tradizionale.
Oggi l’esistenza di una “lingua corsa” nettamente distinta dall’italiano è riconosciuta in
Francia come elemento costitutivo della specificità insulare, e tale riconoscimento nasce non
solo dalle rivendicazioni dei gruppi autonomisti locali, ma anche dall’atteggiamento delle
autorità centrali.
A partire dalla seconda metà dell’800, con la sempre più forte pressione francese, la
rivendicazione della dignità di una “lingua corsa”divenne un modo per affermare una
coscienza nazionale isolana in alternativa tanto alla Francia quanto a una cultura italiana
che cominciava a essere sentita come estranea.
La rinascita culturale andò di pari passo con la crescita di un movimento autonomista, che
però cominciò a ottenere un certo seguito solo a partire dagli anni Sessanta.

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In un panorama politico confuso, nel quale i movimenti corsisti porano avanti da posizioni
spesso contrapposte rivendicazioni diverse emerge oggi il dato di fatto del sostegno di una
parte significativa della popolazione all’area del nazionalismo e dell’autonomismo.
È in questo clima che ha cominciato a porsi il problema di una ​langue corse​ che si strutturi
come soggetto la cui presenza nel contesto isolano implichi, per attualizzarsi, non solo uno
status istituzionale definito, ma anche strumenti tali da garantirle visibilità e funzioni sociali
coerenti con tale ruolo.
Di fronte alle difficoltà di una standardizzazione resa problematica dal frazionamento
dialettale e dall’attaccamento dei parlanti alle diverse varietà, la presa d’atto della pluralità
interna della ​corsité ​ linguistica si è rivelata alla fine la strategia più adatta.
Il concetto di lingua “polinomica” fornisce la chiave di un processo di elaborazione della
pluralità del corso - tuttora in atto - che trova pochi riscontri in altri contesti minoritari. In
questo contesto, l’esigenza di una norma univoca non viene percepita né come elemento
essenziale nella contrattazione col centro politico né come strumento identificatore della
comunità linguistica nel suo insieme.
L’affermazione del principio della polinomia linguistica sembra dunque essersi associato a
una decisiva progressione della “visibilità” del corso come elemento qualificante dell’identità
e dell’immagine culturale dell’isola.

PAR. 3) IL RETOROMANCIO
Nel caso del retoromancio (o romancio), altra varietà per certi aspetti “collegata” al contesto
italofono, l’idea di una specifica autonomia e originalità è acquisizione tradizionalmente
accolta. Oggi le parlate retoromance sono praticate in Svizzera da poco più di 60 mila
persone tutte bilingui, meno dell1% della popolazione totale, concentrate soprattutto in zone
che costituiscono l’area tradizionale d’impianto di tali varietà (un gruppo di valli del cantone
dei Grigioni).
La costituzione cantonale specifica che tedesco, italiano e romancio sono le lingue
“nazionali e ufficiali” dei Grigioni, ma un regolamento del 2002 indica il tedesco quale lingua
da usare negli atti amministrativi. A livello comunale la situazione varia da un luogo all’altro.
In generale, comunque, i problemi di questo gruppo linguistico sono assimilabili a quelli di
una vera e propria minoranza linguistica, sia per la costante pressione del tedesco, sia per il
ristretto numero dei parlanti, sia per le difficoltà che il romancio incontra tuttora ad affermarsi
come idioma dell’uso pubblico. I maggiori problemi in tal senso sono dati dalla
frammentazione dialettale: esistono infatti ben cinque varietà letterarie.
Per ovviare alle difficoltà date da questa situazione, i tentativi di creare un romancio
letterario comune iniziarono già alla fine del Settecento, ma tali iniziative, come altre attuate
successivamente, non riuscirono ad imporsi. Si sta ora diffondendo una varietà sopralocale:
per diversi intellettuali e operatori culturali locali, è proprio la progressiva affermazione della
varietà unificata la grande scommessa sulla quale si gioca la sopravvivenza del romancio, in
quanto solo attraverso una lingua scritta comune il romancio potrà col tempo uscire dallo
stato attuale di intrinseca debolezza.
Molti parlanti manifestano tuttavia una forte perplessità di fronte a una sovrastruttura
linguistica che non corrisponde a un uso parlato effettivo.

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CAPITOLO DODICI: EREDITA’ DIALETTALI ITALOROMANZE


NEL MEDITERRANEO OCCIDENTALE
L’italiano ebbe un ruolo importante come lingua di scambio commerciale e di comunicazione
internazionale nel bacino del Mediterraneo dando anche origine a varietà pidginizzanti, ma
di tutto questo non restano tracce apprezzabili in sincronia. Del resto anche l’emigrazione
italiana in America, in Oceania e in Europa settentrionale ha avuto conseguenze significative
dal punto di vista linguistico, ma non ce ne occuperemo in questa sede.
Meritavano invece un accenno la vicenda del rapporto tra la dialettalità italiana
(essenzialmente piemontese) e quella occitanica nella Francia meridionale, e quelle della
presenza linguistica siciliana in Tunisia.
In generale la presenza storica di comunità italofone nell’area del Mediterraneo occidentale
si differenzia da quella che caratterizza ad esempio la regione balcanica, essenzialmente
per la diversa percezione del rapporto con la madrepatria (qui, infatti, non esiste una diffusa
percezione di “italianità” simile a quella presente, ad esempio, in Slovenia).

PAR. 1) IL BONIFACINO
Presso la comunità di Bonifacio nella Corsica meridionale, sopravvive ancora oggi un
dialetto ligure coloniale, ultimo vestigio delle varietà dello stesso tipo che furono praticate in
passato anche in altre città corse.
Oggi Bonifacio è essenzialmente un centro turistico e peschereccio, con un porto mercantile
di una certa importanza soprattutto per i contatti con la Sardegna. Il bonifacino, tuttavia, è in
gravissima crisi per quanto riguarda gli usi parlati, ed è storicamente coinvolto in un contesto
plurilingue che ha favorito importanti processi di convergenza col corso: si assiste,
purtroppo, da parte delle stesse istituzioni regionali, a una totale rimozione del problema
della specificità culturale e linguistica della città.
Tali atteggiamenti hanno provocato da parte delle associazioni culturali bonifacine la ricerca
di più stretti contatti culturali con la Liguria e con le stesse comunità tabarchine della
Sardegna.

PAR. 2) I DIALETTI LIGURI DELLE ALPI MARITTIME


Vi è la presenza di comunità di dialetto ligure in Francia, lungo il confine con la provincia di
Imperia. Tutto il territorio del dipartimento delle Alpi marittime, d’altra parte, ha avuto vicende
storiche complesse, che hanno condizionato l’evoluzione culturale e linguistica della
popolazione locale. Nizza stessa, ad esempio, fu caratterizzata per un lungo periodo dalla
presenza dell’Italia e dell’italiano; oggi, si parla qui un dialetto di tipo schiettamente
occitanico (anche se variamente influenzato da ligure e piemontese) che è diffuso con
varianti in tutta la parte occidentale del dipartimento.
Dialetti di tipo ligure, dall’altra parte, sono parlati in Francia in un’area attorno alle Alpi
Marittime di circa 700 chilometri quadrati: tuttavia, la frammentazione dialettale della zona e
l’assenza di un passato storico comune al resto della Liguria hanno indebolito la coscienza
linguistica dei parlanti, che solo negli ultimi anni, in molti casi, hanno acquisito piena
coscienza della specificità dei propri dialetti (che sono peraltro in forte regresso) rispetto alle
vicine parlate nizzarde.
Ancora diverse sono le vicende storiche delle varietà liguri che furono parlate in alcuni centri
dell’entroterra di Cannes e nei dintorni di Grasse: conseguenza di una politica di
ripopolamento promossa nel corso del XV secolo dai feudatari locali, l’immigrazione di

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elementi provenienti dalla Diocesi di Albenga introdusse in una decina di località della
Provenza orientale un dialetto di tipo ligure centro-occidentale (il cosiddetto ​figun​), il cui uso
sopravvisse fino alla prima metà del XX secolo.

PAR. 3) PRESENZE ITALIANE IN PROVENZA


La presenza italiana nella Francia meridionale, soprattutto durante il XIX e la prima metà del
XX secolo, ha carattere tutt’altro che episodico, e non privo di conseguenze linguistiche.
Fu in primo luogo l’emigrazione piemontese a interessare le aree rurali della Provenza fra il
1850 e il 1950, facilitata dalle affinità culturali che caratterizzano l’area provenzale e l’Italia
settentrionale. Questa sensazione di “italianità” della Provenza risulta accresciuta da
somiglianze e convergenze di carattere dialettale.
Ciò ebbe anche conseguenze dirette anche sulla vitalità, rispetto agli altri dialetti occitani, di
quelli provenzali, chiamati a svolgere funzioni comunicative di notevole importanza, in
un’epoca che vedeva altrove l’incipiente crisi della dialettalità; al tempo stesso, i dialetti
provenzali si dimostrarono aperti a forme significative di commistione con le parlate italiane
che gli immigrati conservavano in molti casi nell’ambito familiare.
Il continuum tra il provenzale e questi usi dialettali produsse, inoltre, anche un travaso
significativo di elementi lessicali di origine italiana nelle parlate locali.

PAR. 4) GENOVESE E TABARCHINO DA GIBILTERRA ALL’ILLA PLANA


Un’emigrazione piuttosto massiccia ma costituita da elementi economicamente forti e
portatori di specializzazioni professionali di prestigio fu anche quella dei Genovesi lungo la
costa spagnola, e in particolare in Andalusia, a partire dal XVI secolo. A un livello più basso,
ebbe conseguenze linguistiche l’immigrazione in parte stagionale e in parte stanziale di
pescatori liguri lungo le coste meridionali della Spagna, e in particolare a Gibilterra, dove
una discreta presenza genovese è documentata già nel Seicento. La componente di
discendenza ligure è tuttora significativa, come dimostra la frequenza dei cognomi di tale
origine, ma nel corso del XIX secolo l’uso del genovese andò esaurendosi. Oggi i
Gibilterriani parlano nell’assoluta maggioranza una varietà dialettale di spagnolo andaluso,
detta ​yanito,​ della quale vengono messi in particolare evidenza gli elementi lessicali di
origine ligure e le numerose interferenze con l’inglese, che rimane l’unica lingua ufficiale di
fatto della colonia e l’unica insegnata nelle scuole.
Sempre sulla costa mediterranea della Penisola Iberica ebbe vicende totalmente a sé
rispetto al popolamento di Gibilterra la colonia tabarchina dell’Illa Plana (o Nueva Tabarca),
un isolotto dove venne trasferita nel 1769 una parte della popolazione ligure superstite di
Tabarca in Tunisia. La pressione esercitata dal catalano e dal castigliano sulle consuetudini
linguistiche dei coloni portò all’estinzione della parlata originaria nei primi anni del
Novecento, e solo scarse tracce lessicali sono state reperite nel dialetto valenciano che si
parla attualmente sull’isola.

PAR. 5) IL SICILIANO IN TUNISIA


La presenza linguistica italiana nell’Africa settentrionale è antica e consistente, ma le sue
vicende si esauriscono nei secoli scorsi senza lasciare tracce significative per la nostra
ricognizione. Ancora a partire dal XIX secolo una significativa comunità di emigrati italiani,
formata in parte anche da esuli politici, fiorì particolarmente in Egitto, al Cairo e soprattutto
ad Alessandria: nella realtà linguistica attuale del Paese non restano tuttavia tracce
particolarmente vistose di tale presenza.

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Una presenza particolarmente massiccia di lavoratori italiani si ebbe anche, già a partire
dall’Ottocento, nelle colonie francesi, in Algeria e soprattutto in Tunisia.
Nei secoli precedenti Tunisi aveva rappresentato un’area di discreta diffusione dell’italiano
come lingua commerciale e diplomatica, e proprio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento andavano scomparendo nel paese africano le ultime tracce di dialetto ligure
parlatovi dai discendenti degli abitanti di Tabarca.
A partire dal ‘900, si assistette al trasferimento nel paese nordafricano di una manodopera a
basso costo formata da operai edili, artigiani, braccianti, piccoli coltivatori e minatori
provenienti dalla Sicilia. L’afflusso dei Siciliani venne incoraggiato dalle autorità francesi, ma
esso ebbe tra le altre conseguenze una crescita delle tradizionali aspirazioni italiane sul
paese africano: da qui il ricorso massiccio alla naturalizzazione degli immigrati, che passava
per quanto possibile attraverso l’apprendimento del francese. In generale però, la maggior
parte dei recenti coloni siciliani conservò l’uso dei propri dialetti, che andarono
progressivamente conformandosi in una ​koinè ​variamente sottoposta all’influsso poco
consistente del francese e a quello più significativo dell’arabo.
Gran parte della comunità, tuttavia, si disperse dopo l’indipendenza: oggi si contano circa
3000 italiani, di cui soltanto 900 discendenti dall’emigrazione ottocentesca.

CAPITOLO TREDICI: ISOLE ALLOGLOTTE NEI TERRITORI


ITALOFONI ALL’ESTERO
Ci occupiamo qui delle lingue minoritarie e dei dialetti alloglotti che si parlano (o si
parlavano) all’estero in territori comunque considerati a vario titolo legati all’ambiente e alla
cultura italiana e interessati da una presenza dell’italiano o di dialetti italiani.
Si tratta in genere di comunità esigue e caratterizzate da fenomeni di avanzata
obsolescenza delle rispettive parlate.

PAR. 1) IL DIALETTO WALSER DEL CANTON TICINO


È tipico sotto certi aspetti il caso di Bosco, il villaggio più alto del Canton Ticino, unico
comune del cantone dove non si parli tradizionalmente una varietà di tipo lombardo: il
dialetto locale appartiene infatti al gruppo alamannico. Bosco ha conservato anche
nell’architettura l’impronta tipica delle popolazioni walser, e le testimonianze della specifica
cultura locale sono raccolte in un apposito museo etnografico. La legislazione cantonale
assicura al dialetto walser, oggi insidiato soprattutto dall’esiguità della sua base
demografica, alcune forme di tutela.

PAR. 2) L’ISTRORUMENO
Il dialetto noto agli studiosi come ​istrorumeno​ rappresenta l’estremo lembo occidentale della
romanità balcanica, probabilmente come conseguenza di fenomeni migratori che
interessarono nei secoli scorsi gruppi di pastori seminomadi provenienti dal sud. Oggi,
parlano l’istrorumeno meno di duecento parlanti, per lo più anziani, stanziati in alcune
località dell’Istria croata.
Al di là delle iniziative di ricerca dialettologica non risultano forme di tutela della parlata
istrorumena; l’influsso prevalente delle varietà dialettali croate ha contribuito in maniera
decisiva alla crisi di queste parlate.

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Vale la pena di ricordare qui come un altro gruppo dialettale neolatino, il ​dalmatico​ diffuso un
tempo lungo le coste e sulle isole della Dalmazia, si sia progressivamente estinto per la
pressione del croato e del veneto coloniale.
A contatto con l’italiano e il dialetto veneto che fu parlato a Zara era anche una varietà
albanese di tipo settentrionale (​ghego​), diffusa nella località di Borgo Èrizzo.

PAR. 3) IL GRECO DI CARGÈSE


Completamente estinta, e definitivamente sostituita dal dialetto corso a partire dagli anni
Cinquanta del secolo scorso, è la varietà neoellenica che fu parlata a Cargèse, un villaggio
nella Corsica nordoccidentale. L’estinzione del dialetto neoellenico non ha impedito il
mantenimento dei cognomi originari, di un certo numero di prestiti lessicali passati al dialetto
corso successivamente affermatosi, e soprattutto degli usi liturgici greco-cattolici che
costituiscono oggi il principale elemento di specificità culturale della comunità cargesina.

PAR. 4) LE COLONIE VALDESI DEL WURTTEMBERG


Un caso particolare nel quadro dei movimenti di popolazione che riguardarono nei secoli
scorsi l’area italiana è rappresentato dalle ormai estinte colonie di dialetto provenzale alpino
del Wurttemberg, frutto del’emigrazione, risalente alla fine del XVII secolo, dei gruppi di
confessione valdese provenienti dalle valli cisalpine occidentali. In questo caso, dunque, si
tratta dell’esodo di esponenti di una comunità linguistica minoritaria storicamente presente in
ambito italiano.
Presso le comunità attuali, che dal punto di vista religioso sono confluite nella confessione
luterana, sopravvive tuttora la memoria tenace delle origini, che si è tradotta a più riprese in
una fioritura di studi sulle vicende delle comunità valdesi della Germania e nella ripresa di
contatti culturali con le zone d’origine.

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