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Per educazione linguistica si intende quel complesso di ipotesi teoriche, posizioni politiche

e proposte didattiche incentrate sul tema dell’insegnamento della lingua madre. Tullio De
Mauro è il padre della disciplina.
Per tracciare un inquadramento storico della situazione linguistica italiana negli anni ’70
bisogna ricordare come fin dalle origini, le popolazioni della penisola italica abbiano usato i
dialetti. Tuttavia, gli studiosi parlano di volgari italiani per questi secoli. Ad eccezione
del dialetto fiorentino del Trecento, i dialetti sono serviti come veicolo linguistico di
piccole comunità e di aree geografiche ristrette. I dialetti sono vere e proprie lingue, con una
propria struttura morfo-sintattica e un lessico diversi dall’italiano, per cui non
possono essere considerati inferiori.
L’idioma italiano, formatosi dal dialetto fiorentino del trecento, arricchito di latinismi, è
stato utilizzato per molti secoli dalla gente di lettere. Fino a metà ottocento, l’italiano, al di
fuori della Toscana e di Roma, era conosciuto solo da una minoranza: era quindi una lingua
straniera in patria. Negli Stati regionali, classi borghesi e popolari si incontravano e si
capivano grazie ai dialetti e altre lingue minori.
Dopo l’unificazione politica, i fattori che permisero l’unificazione linguistica furono:
la centralizzazione amministrativa, la leva obbligatoria, il disagio provocato dall’assenza di
una lingua comune, l’industrializzazione e la mobilità interna da sud a nord,
l’urbanizzazione e le migrazioni dalle campagne alle città, la diffusione della scolarità
elementare e postelementare, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (radio,
cinema, TV).
La scuola ha svolto un ruolo importante nel processo di diffusione della lingua comune:
tuttavia dopo l’unità, fino alla fine dell’Ottocento si scontrarono due posizioni: i
manzoniani i quali, tramite la scuola, ritenevano di dover sradicare l’uso del dialetto e
imporre il fiorentino come lingua comune; dall’altra parte, De Sanctis, Ascoli e
d’Ovidio, i quali erano sfavorevoli alla lotta contro il dialetto, che non andava
ridicolizzato, ma studiato e confrontato con la lingua, affinché dal confronto nascesse
una riflessione sulle diversità tra lingua e dialetto. In questo modo si voleva diffondere
l’italiano, senza estirpare l’uso dei dialetti. La scuola fu vicina ai manzoniani: infatti,
sia per l’evasione dall’obbligo scolastico previsto dalla legge Casati, sia per la scarsa
efficienza delle istituzioni scolastiche, Camillo Corradini fu incaricato di stendere una
relazione sulla situazione scolastica italiana. I risultati furono sconfortanti: in classe, i
maestri usavano il dialetto. le cause del fallimento scolastico furono la dialettofonia
diffusa e l’imposizione di un modello letterario di italiano.
Il processo di unificazione linguistica andò avanti. Nel primo dopoguerra, la politica
linguistica del fascismo perseguì un ideale nazionale e purista: i dialetti e i forestierismi
furono messi al bando. Nel secondo dopoguerra, il boom economico provocò una forte
mobilità interna, portando alla crisi delle parlate locali. Intanto aumenta la scolarizzazione
e diminuiscono gli analfabeti. Nel ’62 fu innalzato l’obbligo scolastico a 14 anni e fu
introdotta la scuola media unica. I maestri smisero di parlare dialetto con gli allievi e
si era imposto un modello di italiano definito italiano scolastico. L’innalzamento
dell’obbligo scolastico ebbe effetti immediati: gli insegnanti della scuola media si
trovarono impreparati di fronte alla diffusa dialettofonia dei bambini, costretti a
comunicare in una lingua “straniera”. Il risultato fu l’evasione scolastica.
Don Lorenzo Milani, nel 1967 con “Lettera a una professoressa” denuncia e critica i
contenuti e le modalità di insegnamento linguistico tradizionale della scuola. Il testo, libro
collettivo scritto dai ragazzi che frequentavano la scuola di Babiana, si presenta come
una lunga lettera ad una professoressa ipotetica, simbolo dell’ottusità e
dell’arretratezza della scuola italiana. I ragazzi parlano della centralità dello strumento
linguistico nella formazione dell’uomo e del cittadino. Per Don Milani, i poveri sono vittime
di un deficit linguistico, che li priva della possibilità di poter partecipare attivamente alla
vita sociale e politica del Paese. La scuola aggrava questo deficit e non ha considerazione
per i dialetti, per la loro cultura, emarginando così i figli dei contadini e degli operai. La
soluzione non è assumere il dialetto come strumento di comunicazione scolastica e
modello linguistico, ma bisogna insegnare a tutti lo strumento linguistico più ricco e
potente. Le cause del fallimento della scuola sono: il modello di lingua proposto, troppo
anacronistico e condizionato da modelli letterari superati; la lingua proposta, ipocrita e
ambigua, incapace di chiamare le cose col proprio nome; i richiami culturali
proposti, esclusivi e patrimonio di pochi. Inoltre, denuncia l’assenza dell’insegnamento
dell’arte dello scrivere, che va insegnata come qualsiasi altra materia.
Bruno Ciari ha portato a numerose innovazioni, come l’atmosfera di classe serena e
rilassata, la corrispondenza interscolastica (che porta il ragazzo a scrivere, porsi
domande e capire usanze e culture diverse) e la tipografia scolastica (ovvero i giornalini
scolastici). Riconosce inoltre la supremazia del linguaggio parlato sullo scritto, il cui
uso deve essere motivato da reali esigenze comunicative. Ciari rifiuta quindi una
scrittura scolastica artificiosa, finalizzata alla valutazione.

Nel frattempo i linguisti italiani erano in fermento: si era formata una nuova generazione di
studiosi del linguaggio, i quali iniziarono ad osservare le carenze scolastiche causate dalla
cattiva educazione linguistica. Uno dei primi atti della nuova linguistica italiana fu la
costituzione della Società di Linguistica Italiana (SLI), fondata da Tullio De
Mauro. La società ha come interesse quello di promuovere la creazione di una
comunità di studiosi le cui prospettive di ricerca linguistica siano riconosciute e
appoggiate e un interesse applicativo, tramite il contatto tra glottologi, storici della lingua,
lessicologi, ecc. L’interesse dello SLI per l’educazione linguistica fu subito forte. Dalla
società, nacque il GISCEL, finalizzata al rinnovamento della pedagogia linguistica
tradizionale.
La storia linguistica dell’Italia unita è il libro pubblicato da Tullio De Mauro, poco
prima la nascita della SLI, riproposto nel 1970 in versione ampliata. Nell’opera si
traccia il quadro della situazione linguistica italiana dall’Unità fino al secondo
dopoguerra. De Mauro ricorda che la storia linguistica di un paese sia connessa con le
vicende economiche, sociali, politiche, culturali e quindi lo storico della lingua non può
prescindere da tali aspetti.
Nel testo compaiono tabelle, dati, numeri e percentuali relativi a diversi fenomeni, tra cui la
scolarità, il diffondersi dei mezzi di comunicazione, la migrazione interna ed esterna.
Vengono affrontati temi come l’analfabetismo, le conseguenze linguistiche delle
trasformazioni sociali, il plurilinguismo e la responsabilità della scuola nell’adozione
di modelli linguistici obsoleti. De Mauro denuncia l’assenza di una descrizione analitica del
sistema grammaticale e sintattico italiano, così come la mancanza di un’analisi
sociolinguistica che tenga a mente delle pluralità di modelli
regionali. Sono quindi individuati i campi nei quali la scuola dovrebbe essere più informata.
Altri linguisti che influirono sul dibattito furono: Bernstein, grazie al quale nacque la
teoria della deprivazione verbale, secondo la quale le differenze socioeconomiche
influiscono sul linguaggio e sul rendimento scolastico. La lingua delle classi basse è poco
adatta alla scuola, è elementare, poco elaborata: questa lingua venne definita
“codice ristretto”. La teoria fu criticata poiché considerata semplicistica. Bernstein
chiarì dicendo che il codice ristretto, facendo ampio affidamento al contesto in cui ha
luogo lo scambio, può essere più rapido, poco esplicito, diventando poco comprensibile a
chi non condivide lo stesso contesto. Al contrario, il codice elaborato prevede la
massima esplicitezza e completezza, garantendone la comprensibilità.
Labov studia il non-standard English, l’inglese usato dagli afroamericani del ghetto
di New York. Dallo studio è emerso che i bambini hanno una verbalizzazione ricca e
varia: pertanto le classi inferiori non sono prive di lingua,
ma hanno una lingua diversa da quella richiesta dalla scuola. Le differenze tra le
forme linguistiche sono solo formali e frutto di un naturale processo di mutamento
delle lingue. Riprende la teoria di Bernstein di codice ristretto ed elaborato, precisando
che non si tratta di varietà stilistiche legate alla classe sociale, ma alle diverse
situazioni in cui avviene la comunicazione. Il codice elaborato è più esplicito e per questo
usa uno stile formale per fornire più informazioni possibili; il codice ristretto è il codice
usato da tutti i parlanti quando la comunicazione avviene in circostante in cui i protagonisti
della comunicazione hanno esperienze comuni e informazioni già date.
Quindi, è giusto che la scuola insegni il codice elaborato: ma la complessità sintattica e
lessicale non sempre si traducono in un linguaggio chiaro ed efficiente. Al contrario,
risultano difficili da comprendere.
Il GISCEL pubblica le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica nel 1975. Si
tratta di un documento breve e denso, in dieci punti, con un linguaggio semplice e diretto.
Le prime quattro tesi enunciano i principi generali ai
quali dovrebbe attenersi ogni insegnante. La prima tesi ricorda la centralità del linguaggio
verbale nella vita degli esseri umani: chi viene privato di questa padronanza avrà difficoltà a
sviluppare il proprio linguaggio. Il linguaggio verbale, essendo radicato nella vita di ogni
individuo, necessita di uno sviluppo equilibrato e sereno del corpo, dei rapporti affettivi e
sociali. Per cui un bambino mal nutrito, parla, legge e scrive male, ad esempio. Si ricorda
poi come il linguaggio verbale sia costituito da molteplici capacità (alcune più visibili, altre
meno). La quarta tesi, la più politica, afferma che la scuola ha il compito primario di
individuare e perseguire i compiti di un’educazione linguistica democratica. Per fare
ciò, deve rispettare e tutelare tutte le varietà linguistiche. Seguono le tesi che
criticano la pedagogia linguistica tradizionale, cui segue la proposta di una nuova per
rimediare agli errori e ai fallimenti passati. A chiusura, una tesi incentrata sulla
formazione degli insegnanti e sulle responsabilità della…..

Ogni lingua riconosce al suo interno delle varietà. Queste varietà sono determinate da
parametri extralinguistici. I parametri identificano cinque dimensioni della variazione:
-varietà diacronica, ovvero i cambiamenti di una lingua lungo l’asse del tempo. I
cambiamenti a breve termine colpiscono di solito il lessico, mentre meno evidenti
sono i cambiamenti fonologici e morfosintattici. Il cambiamento linguistico prevede un
lungo processo, nel quale inizialmente convivono due diverse forme (la più vecchia per lo
scritto, formale; la nuova per l’uso orale);
-varietà diatopica, ovvero le diverse varietà regionali dell’italiano. Riguardano soprattutto
gli usi orali della lingua.
Le varietà regionali di italiano si sono formate man mano che gli ambienti abituati al
monolinguismo dialettale si sforzavano di usare la lingua comune: i dialettofoni hanno
inserito elementi lessicali di origine dialettale. Ogni regione linguistica ha al suo interno
variazioni che sfumano in un continuum, all’interno del quale si distinguono una varietà
regionale bassa e una alta. Le diversità regionali sono distinguibili soprattutto nella
pronuncia;
-varietà diastratica, correlata alla collocazione del parlante nella società, determinata
da professione, reddito, grado di istruzione, età e sesso del parlante. Infatti, si intende per
italiano popolare l’uso frequente dei parlanti poco istruiti che usano perlopiù il dialetto,
di devianze rispetto all’italiano standard normativo (come il che polivalente, la
reinterpretazione di parole difficili, l’uso di parole generiche, ecc.). L’italiano
popolare è nato dall’incontro di parlanti con dialetti diversi, i quali avevano bisogno
di comunicare tra loro: nacquero forme sovradialettali e sovraregionali. Per quanto
riguarda le differenzelinguistiche legate al sesso, cambia piuttosto lo stile di interazione, più
orientato agli aspetti interpersonali, con alta ricorrenza di marche di cortesia, nel parlato
femminile. Inoltre, le donne parlano maggiormente italiano, rispetto agli uomini. Le
differenze legate all’età sono caratterizzate da una maggiore ricerca all’espressività e
all’informalità nei giovani, tramite l’uso di parole interdette, neologismi e pseudo
forestierismi. Tali differenze sono agevolate dai media, frequentati soprattutto dai
giovani;
-varietà diafasica, ovvero i cambiamenti di una lingua a seconda della situazione
comunicativa, condizionata dalle circostanze in cui ha luogo lo scambio, il ruolo degli
interlocutori, gli scopi e gli argomenti trattati. In questa varietà rientrano i registri e i
sottocodici. I registri sono varietà diafasiche che dipendono dal carattere dell’interazione e
dal ruolo dei parlanti. Sono fattori di variazione di registro il grado di formalità o
informalità e il grado di attenzione e controllo che il parlante pone nella produzione
linguistica. I sottocodici sono caratterizzati da un lessico particolare e servono per
comunicare in settori circoscritti (linguaggio della medicina, della fisica, ecc.);
-variazione diamesica, riguarda il mezzo o canale di trasmissione del messaggio, affidato
all’oralità o alla scrittura (con tutte le variazioni possibili).
Le differenze tra parlato e scritto sono: la possibilità di pianificare il discorso, massima
nello scritto, ridotta nel parlato; ritoccare il testo scritto, mentre il parlato è meno elaborato e
più irregolare; impossibilità nello scritto di trasferire i tratti del parlato (intonazione, enfasi)
e nel parlato di trasferire tratti dello scritto (suddivisione, uso di maiuscole). Il parlato
prevede la compresenza degli interlocutori, lo scambio di ruoli e la possibilità di verifica del
passaggio di informazioni, oltre alla possibilità di veicolare parzialmente il contenuto
informativo tramite mezzi paralinguistici, cinesici e prossemici. Il testo parlato è
caratterizzato dalla frammentazione sintattica, conseguenza della scarsa o nulla
pianificazione: gli enunciati sono brevi, accostati senza organizzazione, con pause,
false partenze e autocorrezioni. Maggiore è il ricorso all’implicito. Nel parlato, la
paratassi (giustapposizione e coordinazione) è più frequente dell’ipotassi
(subordinazione). La subordinazione esplicita è preferita rispetto a
quella implicita; si usa una gamma ristretta di forme sintattiche (che polivalente);
frequente uso di dislocazioni, anacoluti, frasi scisse, c’è presentativo. Il sistema verbale è
ridotto e semplificato: alcuni tempi e modi (indicativo, …).

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