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1.

Nascita di una disciplina


Introduzione
L’espressione “educazione linguistica” ha assunto un significato peculiare a partire dagli anni ‘70
del 900; si configurarono un complesso di ipotesi teoriche, di posizioni politiche e di proposte
didattiche incentrate sul tema dell’insegnamento della lingua italiana. Se vogliamo riconoscere un
iniziatore e un padre scientifico di quella che si configura oggi come vera e propria disciplina, non
possiamo che sottoscrivere le parole che Raffaele Simone scrisse al riguardo: “Non ci possono essere
dubbi sul fatto che l’inizio di quell’avventura che abbiamo chiamato educazione linguistica si debba a
un’idea di Tullio De Mauro”.
De Mauro ricorda il suo percorso ed esplicita i suoi debiti; delinea la storia del movimento di idee che
portò nei primi anni 70 alla nascita di un nuovo modo di intendere la pedagogia linguistica. Tra l’altro
ricorda come l’espressione “educazione linguistica” fosse già stata utilizzata da alcune grandi figure di
pedagogisti come G. Lombardo Radice nelle sue Lezioni di didattica del 1913 e M. T. Gentile in
Educazione linguistica e crisi di libertà del 1966. Sabatini sposta ancora più indietro la data di prima
attestazione dell’espressione, che compare in uno scritto di Francesco D’Ovidio. Dobbiamo però
aspettare i primi anni 70 del XX sec per registrare un interesse diffuso per i temi dell’educazione
linguistica: da parte non solo di linguisti, intellettuali e pedagogisti, ma anche di insegnanti di italiano.
In generale si può dire che nelle diverse società quasi tutto l’insegnamento linguistico tradizionale
venne messo in discussione. I giovani linguisti italiani furono in prima linea in quest’opera di
demolizione del vecchio e di ricostruzione del nuovo.

Inquadramento storico
Per illustrare la situazione linguistica italiana alle soglie degli anni 70 del secolo scorso dovremmo
partire da molto lontano, e ricordare, come fin dalla nascita dei volgari la popolazione italiana abbia
usato una pluralità di idiomi che oggi siamo soliti chiamare “dialetti”. Ad eccezione del dialetto
Fiorentino, i dialetti italiani sono serviti nei secoli alla funzione di veicolo linguistico di comunità
ristrette, di aree geografiche limitate. Ma i dialetti non sono idiomi “inferiori” rispetto alla lingua
nazionale. Dopo l’unificazione politica le cose cominciarono lentamente a cambiare. L’unificazione
linguistica fu soprattutto un’esigenza nata da una ben precisa situazione storica. Altri fattori di
unificazione linguistica furono l’industrializzazione e la mobilità interna, soprattutto dal sud al nord, ed
i fenomeni migratori dalle campagne alle città, la diffusione della scolarità e la diffusione dei mezzi di
comunicazione di massa. La scuola ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di diffusione di una
lingua comune. Tuttavia De Mauro ci ricorda come subito dopo l’unità e per tutto il secondo 800 si
scontrarono sulla questione due posizioni inconciliabili: i manzoniani avevano sperato di poter
condurre attraverso la scuola una duplice lotta, volta da un lato a sdradicare la “malerba dialettale”,
dall’altro a imporre come tipo linguistico unitario il fiorentino. Altri, come il De Sanctis, l’Ascoli, il
D’Ovidio erano sfavorevoli ad una lotta contra i dialetti, infatti non andavano messi in ridicolo, ma
studiati e confrontati con la lingua. L’atteggiamento ufficiale delle autorità fu vicino alle posizione
manzoniane. Agli inizi del nuovo secolo sul piano linguistico la situazione era tutt’altro che
incoraggiante: nonostante gli sforzi per insegnare l’italiano a tutti i bambini continuavano a rilevare
gravi carenze linguistiche, e questo perché i maestri tendevano ad usare in classe il dialetto o un misto
di dialetto e lingua letteraria. La dialettofonia diffusa e l’imposizione di un modello letterario di italiano
sono considerate le principali cause del fallimento scolastico nella diffusione di una lingua unitaria. Il
processo di unificazione linguistica andò comunque avanti. Nel primo dopoguerra su questo processo si
innestò la politica linguistica del fascismo, che ebbe nell’antidialettalismo, nella lotta contro le lingue
delle minoranze e contro i forestierismi, uno dei suoi principali punti di forza. Nelle scuole furono
promossi programmi di espulsione nel dialetto. Nel secondo dopoguerra il boom economico fu un
potente fattore di mobilità interna, e quindi di incontro di lingue e di culture; aumenta l’incidenza della
scuola: i livelli di scolarizzazione aumentano costantemente e la percentuale degli analfabeti si abbassa
nel 1951 al 14% e nel 1961 si aggira tra il 12,99% e l’8,4%. E quando poi, nel 1962, fu introdotta in Italia
la scuola media unica che innalzava l’obbligo scolastico a 14 anni , i figli delle classi operaie e contadine,
si affacciarono per la prima volta alla scuola superiore. La scuola era nel frattempo profondamente
mutata: i maestri avevano smesso da tempo di parlare in dialetto con i loro allievi, avevano adottato
unanimamente un atteggiamento di totale espulsione del dialetto dalla scuola e si era imposto in classe
un modello di italiano arcaico. Questo modello di italiano fu definito dai linguisti “italiano
scolastico”, a sottolineare l’artificiosità di una varietà di lingua diffusa solo a scuola. Sul versante
linguistico l’innalzamento della scolarità obbligatoria ebbe degli effetti immediati. I problemi legati
all’imperfetto usa della lingua nazionale da parte dei figli dei contadini e degli operai avrebbero
richiesto ben altra attenzione, ben diversa preparazione linguistica e didattica rispetto a quella
normalmente posseduta da un insegnante di lettere. Non tutti si accorsero della centralità del problema
linguistico per i bambini dialettofoni, costretti dalla scuola a parlare e scrivere in una lingue straniera
per comunicare. Le insufficienze accumulate nelle diverse materie erano per lo più interessare come il
frutto di disattenzione, scarsa applicazione allo studio. Il risultato fu che molti ragazzi ne venivano
espulsi dopo uno o più anni di frustanti esperienze. La fuga dalla scuola fu per molti di quei ragazzi la
soluzione quasi scontata del problema.

I maestri
Su questa scuola, si abbattè nel 1967 la bruciante denuncia di un prete, Don Lorenzo Milani, autore
di un libretto, la “Lettera a una professoressa”, nel quale molti vedono l’atto di nascita di una
critica alle scelte contenutistiche ed alle modalità dell’insegnamento linguistico tradizionalmente in uso
nella nostra scuola. Lettera a una professoressa è un libro collettivo, scritto dai ragazzi che
frequentavano la scuola di Barbiana; si presenta come una lunga lettera che un ragazzo scrive, assieme
ai suoi compagni, ad una professoressa, simbolo delle ottusità e delle arretratezze del sistema scolastico
italiano. I ragazzi raccontano le loro difficoltà nel rapportarsi con un’istituzione che ignora tutto della
loro lingua e della loro cultura; descrivono le modalità di lavoro messe in atto a Barbiana, e le
raffrontano con le pratiche normalmente in uso a scuola. Don Milani afferma che i “poveri” siano
vittime di un deficit linguistico che li priva della possibilità di partecipare in modo attivo alla vita sociale
e politica della comunità. E dunque la responsabilità della scuola, nel momento in cui non prova a
colmare questo deficit ma lo aggrava. Le maggiori accuse che Don Milani fa alla scuola italiana
dell’epoca sono: la scarsa considerazione per la lingua dei poveri (dialetto) e per la loro cultura ha come
conseguenza l’emarginazione dei figli dei contadini e degli operai, che spesso vengono semplicemente
espulsi dalla scuola. La soluzione al problema non è però l’assunzione della lingua dei poveri come
strumento di comunicazione scolastica. Se dunque bisogna insegnare a tutti l’uso di uno strumento
linguistico più ricco e potente, allora il fallimento della scuola è totale. Le cause sono da ricercare in un
insieme di fattori che per Don Milani si riassumono nei seguenti punti:
• il modello di lingua proposto dalla scuola è non solo diverso e lontanissimo dalle abitudini
linguistiche delle classi povere, ma è ancora troppo condizionato da modelli letterari superati;
• la lingua proposta è vecchia, ipocrita e ambigua, incapace, di chiamare le cose con il loro nome;
gli allievi di Don Milani chiameranno culo il culo;
• nessuna attenzione si presta alla cultura del popolo.
A queste se ne aggiunge un’altra, ovvero si accusa la scuola di non insegnare a scrivere. Al contrario a
Barbiana si mette a punto un metodo pionieristico, che può considerarsi il modello di tanti laboratori di
scrittura che nasceranno anni dopo nelle scuole d’avanguardia e nelle classi sperimentali.
La vicenda di Don Milani va collegata ad altre esperienze educative, ad altre figure esemplari di maestri
che negli anni stessi in cui maturava l’esperienza di Barbiana provarono a rinnovare i modi tradizionali
dell’insegnamento linguistico. Tra questi dobbiamo ricordare Bruno Ciari, figura significativa di
maestro e organizzatore culturale, cui devono farsi risalire molte delle coraggiose innovazioni:
dall’atmosfera di classe, serena e rilassata, alla corrispondenza interscolastica, alla tipografia
scolastica. Nel 1951 si era costruita in Italia la Cooperativa della Tipografia a Scuola, o CTS,
un’associazione molto attiva di insegnanti che tenne a Rimini il suo primo congresso. Bruno Ciari fu
uno degli animatori dell’associazione, il cui nome si trasformò successivamente in Movimento di
Cooperazione educativa (o MCE), attivo in Italia fino ai giorni nostri. Una delle idee più innovative per
la scuola del tempo fu la supremazia del linguaggio parlato sullo scritto, da cui scaturì la tecnica del
cosiddetto “testo libero orale”. Questa tecnica si rivela preziosa non solo come stimolo all’uso orale del
linguaggio, ma anche come primo passo e incentivo all’uso scritto della lingua; deve però essere sempre
motivato da reali esigenze comunicative. Ciari rifiutò l’idea di una scrittura scolastica artificiosa,
esclusivamente finalizzata alla valutazione, e pensò alla scrittura come esercizio di trasposizione del
pensiero in forme testuali. (racconto, lettera, diario) Il maestro Ciari insiste molto sulla valenza
educativa della corrispondenza interscolastica, che stimolerà quella che Ciari chiamava ricerca
d’ambiente, un nuovo modo di imparare, basato sulla curiosità, sullo spirito d’iniziativa, sulla raccolta
e osservazione dei dati, in una parola sulla partecipazione attiva degli allievi alla costruzione del loro
sapere. All’esperienza della corrispondenza si farà poi seguire la pratica della tipografia scolastica.
Dunque dobbiamo a Bruno Ciari anche la nascita dei giornalini scolastici. Di questa tecnica fu
maestro un altro eccezionale uomo di scuola, Mario Lodi. L’idea che l’educazione linguistica sia fatta
anche di educazione al parlare e all’ascoltare, ma anche a leggere e scrivere, e l’idea che si possa parlare
in classe uno scambio effettivo si informazioni e di esperienze (e non solo durante le “interrogazioni”),
queste idee nascono dalle esperienze di Mario Lodi e di tanti maestri che negli stessi anni sentirono il
bisogno di cambiare strada. Ricordiamo il maestro umbro Orlando Spigarelli e Maria Maltoni, i
quali hanno il merito di aver lasciato testimonianza scritta delle loro esperienze. Spigarelli era un
maestro che consigliava di scrivere i temi in dialetto, prima con alcune semplici cose e poi con uno
schema formato da alcune domande. Oltre che descrivere personaggi e raccontare storie del proprio
ambiente, i bambini riportano i risultati di piccole inchieste. Egli, inoltre, non solo non reprime il
dialetto dei suoi allievi, ma li incoraggia a produrre pezzi mistilingui. I ragazzi di Maltoni scrivono dei
diari, i “Quaderni di San Gersolè”, in cui raccontano di sé e descrivono la natura che li circonda usando
un italiano semplice e scarno.
C’era tuttavia l’idea che il retroterra linguistico degli allievi fosse un insieme di cattive abitudini da
correggere e possibilmente sradicare, ma un patrimonio da salvare. I maestri che si cimentano in questa
impresa furono moltissimi, ad esempio don Roberto Sardelli, che svolse la sua opera educativa nelle
borgate romane, tra i ragazzi, di cui colse lo sradicamento culturale e linguistico. A differenza dei ragazzi
di Spigarelli e Maltoni, i suoi ragazzi vivono una realtà linguistica dissociata. Non sono più dialettofoni
ma non sono ancora neanche italofoni, privati della loro lingua, conoscono della nuova soltanto poche
parole.

I linguisti
Il mondo della linguistica italiana era in fermento. Si era venuta a formare una nuova generazione di
studiosi del linguaggio sensibili alle peculiarità linguistiche della società italiana. Uno dei primi atti
pubblici di questa nuova linguistica italiana fu la costruzione della Società di Linguistica Italiana (SLI,
1967). Dobbiamo a Tullio De Mauro la sua nascita. L’interesse della SLI per l’educazione linguistica
si rivelò subito molto forte. A soli 3 anni dalla sua nascita dedicò il suo quarto convegno annuale a temi
di educazione linguistica. Subito dopo nacque una nuova associazione, il GISCEL (Gruppo di
Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica).

La storia linguistica dell’Italia Unita


“La Storia linguistica dell’Italia Unita” è il titolo di un libro che De Mauro pubblicò nel 1963,
dove si tracia il quadro della situazione linguistica italiana a partire dall’unificazione politica (1861) e
fino agli anni del secondo dopoguerra. De Mauro ricorda come la storia linguistica di un paese sia
connessa con le sue vicende economiche, sociali, politiche, culturali, e come sia impossibile per lo
storico della lingua pretendere di operare in piena autonomia, chiuso nell’ambito della propria
disciplina. Dunque, compaiono tabelle, liste di dati, numeri e percentuali relativi a fenomeni quali
l’assetto demografico delle varie aree del paese, l’urbanesimo, le migrazioni interne ed esterne, il livello
di scolarità, il diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa e così via. Fu anche grazie alla Storia che
si imposero all’attenzione dei linguisti temi come l’analfabetismo, il plurilinguismo diffuso nella società
italiana, le responsabilità della scuola nell’adozione di modelli linguistici superati. Quest’opera incontrò
l’interesse degli insegnanti.
Sono individuati i campi nei quali la scuola avrebbe bisogno di essere maggiormente informata;
contemporaneamente sono additati alla linguistica italiana i settori di studio nell’ambito dei quali si
potrebbe e dovrebbe fare di più per dare alla scuola e ai docenti di italiano alcuni strumenti di lavoro
ritenuti assolutamente necessari. Oggi, le priorità indicate da De Mauro sono state soddisfatte e le
carenze sono state in gran parte colmate, grazie allo sforzo di grammatici, storici della lingua e
sociolinguisti. Oggi abbiamo buone descrizioni dell’italiano e delle sue varietà, e gli insegnanti hanno gli
strumenti per discutere del concetto di norma, e per decidere su quale sia la norma da attivare e
promuovere nei propri allievi.

Suggestioni esterne: il dibattito sulla deprivazione verbale


Il nome di Basil Bernstein è legato alle teoria della cosiddetta “deprivazione verbale”, elaborata e
resa nota in Italia nel periodo a cavallo tra gli ultimi anni del ‘60 e i primi anni ‘70. secondo queste
teoria le differenze socioeconomiche influiscono sul linguaggio e quindi sul rendimento scolastico.
Attraverso la tecnica dell’intervista e l’applicazione di una serie di test, Bernstein trovò che “il successo
scolastico dipende in larga misura dalla capacità verbale, a sua volta correlata positivamente con lo
status sociale medio alto”. La ragione di questa correlazione sta nelle abitudini linguistiche e sociale
delle diverse classi. La famiglia di classe media è una famiglia orientata, che tende cioè a sviluppare la
personalità di ogni suo membro, e in cui i rapporti sono mediati attraverso il linguaggio. Questo tipo di
linguaggio viene da Bernstein definito “linguaggio formale” e, successivamente, “codice
elaborato”. È evidente come un linguaggio di questo tipo sia funzionale alla scuola e garantisca buone
possibilità di successo a chi lo possiede. La lingua delle classi basse è al contrario una lingua poco adatta
alla scuola; la famiglia operaia e contadine è in genere una famiglia orientata sulle “parti”, vale a dire sui
ruoli ricoperti da ciascun membro al suo interno: l’individuo è legato a un ruolo fisso, ad una parte
prestabilita non suscettibile di grandi modificazioni. Questa fissità dei ruoli ha dei riflessi linguistici
importanti. Il riferimento ad esperienze note e condivise comporterà una lingua elementare, che
Bernstein chiamò prima “linguaggio pubblico”, poi “codice ristretto” e si caratterizza per la
scarsità degli elementi formali che concorrono alla sua organizzazione. Bernstein ritiene preferibile il
codice elaborato, l’unico in grado di garantire le esigenze della comunicazione e lo sviluppo cognitivo
dell’individuo. La teoria di Bernstein fu fatta oggetto di critiche severe, che obbligarono il suo autore a
ritornare più volte sugli stessi temi per tentare di ciarire e puntualizzare singoli passaggi della teoria.
Soprattutto fu criticata la relazione tra codice ristretto/elaborato e classe sociale; Bernstein chiarì che
tale rapporto non va visto in modo troppo meccanico. Introdusse un nuovo criterio di differenziazione
tra i due codici: il CODICE RISTRETTO è un codice che può permettersi di essere più rapido e poco
esplicito. Ciò significa che il parlante che adotta tale stile non spiega, non verbalizza in modo chiaro. Al
contrario, l’adozione di un CODICE ELABORATO comporta la massima autonomia dei messaggi dal
contesto di comunicazione e una maggiore esplicitezza e completezza che ne garantisce la
comprensibilità. Un altro punto discutibile della teoria riguarda il ruolo della scuola, la quale dovrebbe
colmare le lacune linguistiche dei “deprivati verbali”. Sulla base di queste sollecitazioni furono messi a
punto negli USA dei programmi di educazione compensatoria allo scopo di fornire agli allievi
svantaggiati quegli stimoli linguistici e culturali di cui erano stati privati dall’educazione familiare.
Bernstein prese le distanze da questi programmi, che spesso erano autoritari e limitativi della creatività
e dell’autonomia degli allievi. Naturalmente i programmi di compensazione messia punto non
riuscirono a raggiungere lo scopo.
Si deve al linguista americano W. Labov la critica più serrata alla teoria della deprivazione verbale.
Studiando il “non standard English”, ovvero quella particolare varietà di inglese parlato dalla comunità
negra del ghetto di New York, egli arrivò a individuare in modo più preciso delle differenze tra codice
ristretto e codice elaborato. Per prima cosa mostrò come anche i bambini dei ghetti mostravano una
verbalizzazione ricca e varia, con la quale erano in grado di esprimere i loro sentimenti e le loro
opinioni. Dunque i bambini delle classi inferiori non sono “privi di lingua”; piuttosto essi posseggono
una lingua diversa dalla lingua usata e richiesta dalla scuola. Labov riprende poi la distinzione
bernsteiniana tra codice ristretto e codice elaborato. Per Labov si tratta di varietà stilistiche legate non
tanto alla classe sociale quanto alle diverse situazioni in cui avviene la comunicazione. Ciò che
caratterizza il codice elaborato è la sua maggiore esplicitezza. Il codice ristretto altro non è, per Labov,
se non la descrizione dello stile casuale, del linguaggio ordinario usato da parlanti di tutte le classi
sociali ogniqualvolta la comunicazione avviene in circostanze non formali.
Ora è giusto che la scuola insegni il codice elaborato, perché alcune caratteristiche di tale stile sono
positive, in quanto consentono al parlante di esprimere le proprie intenzioni in modo più preciso e
adeguato alle diverse situazioni comunicative. Ma non è detto che la complessità sintattica e la varietà
lessicale si traducano sempre in un linguaggio più chiaro ed efficiente. Al contrario, l’analisi di alcuni
discorsi fatti in codice elaborato rivela che produce apparentemente messaggi ricchi e colti, in realtà
intasati di parole incomprensibili. Questi aspetti dello stile elaborato non sono certo da imitare e
proporre come modello nelle aule scolastiche. In conclusione l’analisi di Labov si risolve in un forte
richiamo a tutti coloro che a vario titolo si occupano di educazione, perché vedano nella lingua e nella
cultura dei bambini delle classi inferiori non una lingua e una cultura deprivate. Semplicemente, esse
sono diverse rispetto alla lingua e alla cultura previste dall’istituzione scolastica. È su questa che
bisogna intervenire, affinché la scuola sia un luogo di incontro di lingue e culture diverse.

Il dibattito interno: il GISCEL e le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica


Trasferite nella realtà italiana le idee di Bernstein e di Labov non potevano passare inosservate. I primi
anni ‘70 sono infatti caratterizzati da un dibattito interno sui temi quali i fattori sociali dello svantaggio
linguistico; il modello linguistico adottato dalla scuola; il rapporto che si instaura in classe, tra lingua
italiana e dialetto, e tra le diverse varietà di italiano; il concetto di “norma” e di “errore”; i contenuti e le
modalità dell’insegnamento grammaticale. Contemporaneamente si muoveva anche l’editoria
scolastica; cominciò De Mauro con il suo “Parlare italiano”, un’antologia per i bienni del 1972,
nella quale si presentava un’ampia e varia scelta di testi, allo scopo di documentare la grande varietà di
modi in cui si è parlato e soprattutto scritto in italiano. L’anno dopo usciva il “Libro d’italiano”, di
Simone, che voleva essere una grammatica totalmente rinnovata nei contenuti e nello stile. In questo
quadro si inscrive la nascita del GISCEL, che fu una filiazione diretta della SLI: è lo stesso De Mauro,
che ne fu uno dei promotori, che racconta il primo costituirsi del gruppo (1973), le riunioni nella sede
del CIDI, cui partecipavano oltre a parecchi insegnanti, anche i linguisti R. Simone e L. Renzi. Dunque
fin dall’inizio il GISCEL si contraddistinse per questa sua doppia vocazione, essendo i suoi aderenti
interessati da una parte a seguire l’evoluzione della teoria linguistica e le nuove proposte descrittive
edll’italiano, dall’altra a mettere in atto iniziative di ricerca e di sperimentazione nel campo
dell’educazione linguistica. Dopo quasi 2 anni di gestazione e di dibattito il gruppo elaborò un
documento, redatto proprio da De Mauro, destinato a diventare il manifesto del GISCEL. Il documento
prese il nome di “Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica”. Pubblicato per la prima
volta nel 1975 è stato poi riproposto in varie sedi; è un documento breve e denso, scandito in 10 punti,
redatto in un linguaggio semplice, ma fatto apposta per essere recepito da tutti senza ambiguità. Le
prime 4 tesi enunciano alcuni principi generali ai quali ogni insegnante dovrà ispirare la sua azione
educativa. Così nella prima tesi si ricorda la centralità del linguaggio verbale nella vita di ogni essere
umano, ma nello stesso tempo si ricorda come lo stesso sia radicato nella vita biologica, emozionale,
intellettuale e sociale di ogni individuo (tesi seconda). Si ricorda poi come il linguaggio verbale sia
fatto di molteplici capacità (terza tesi). La quarta tesi è forse la più politica, dal momento che
instaura una connessione diretta tra un corretto insegnamento linguistico e l’attuazione di importanti
principi costituzionali. Il traguardo principale da perseguire è il rispetto e la tutela di tutte le varietà
linguistiche. Seguono le tesi dedicate all’analisi critica della pedagogia linguistica tradizionale (tesi
quinta-settima), cui segue la proposta di una nuova pedagogia linguistica, ritenuta in grado di ovviare
alle incongruenze e ai fallimenti del passato (tesi ottava). Chiudono infine il documento due tesi più
politiche incentrate sulla formazione degli insegnanti (tesi nona) e sulle responsabilità della classe
politica nel gestire l’opera di rinnovamento della scuola (tesi decima).
Il fine ultimo che le Dieci Tesi indicano agli insegnanti di italiano è l’insegnamento a tutti dell’italiano
comune, perché solo il pieno possesso di uno strumento linguistico unitario consentirà a tutti i cittadini
una vita sociale e personale degna e piena. Tale fine va perseguito attraverso un percorso nuovo e che
dovrà essere rispettoso del patrimonio linguistico e culturale di partenza degli allievi.

Dopo le Dieci Tesi


Subito dopo la pubblicazione del documento fiorirono iniziative di aggiornamento degli insegnanti e
gruppi di studio che si ponevano la questione del rinnovamento dell’insegnamento linguistico. Uno
degli effetti immediati della lettura delle Dieci Tesi fu il diffondersi di un senso di sfiducia nei
confronti delle pratiche didattiche tradizionali, riconosciute ormai inadeguate a rispondere ai bisogni
linguistici di una scuola di massa.
In Veneto si costituì un gruppo GISCEL molto attivo, dove furono tenuti centinaia di corsi di
aggiornamento con l’intento di illustrare e spiegare agli insegnanti la filosofia e la pratica delle Dieci
Tesi. Il bisogno di conoscere di più e meglio i termini linguistici delle varie questioni poste dalle Dieci
Tesi e i tentativi di sperimentazione didattica, favorì la pratica del trovarsi assieme nelle scuole o nelle
sedi universitarie più coinvolte, per studiare ciò che non si conosceva, e tentare di colmare le lacune
della preparazione universitaria. Il gruppo veneto ruota intorno al linguista e filologo romanzo L.
Renzi, il quale preparò per gli insegnanti del GISCEL veneto un piccolo programma di
autoaggiornamento linguistico. Si inscrivono in questo quadro le iniziative di giornate di studio su temi
di educazione linguistica. In Veneto subito a ridosso della pubblicazione delle Dieci Tesi, fu organizzata
una giornata di studio di cui furono pubblicati gli atti con titolo “L’educazione linguistica”.
Parteciarono, in qualità di relatori, quasi tutti i giovani linguisti di area padovana: da Renzi a Benincà,
da Mioni a Paccagnella, da Cinque a Vanelli. Accanto ai linguisti ci furono anche degli insegnanti: P.
Ellero, M.G. Lo Duca, G. Moro.
Il volumetto padovano testimonia il sorgere di un comune terreno di interesse e studio tra linguisti e
insegnanti. Alcuni volumi che sono oggi più facilmente reperibili nelle biblioteche pubbliche e private
sono stati curati da: Ricciardi (1976), Berruto (1977), Colombo (1979), Coveri, Giacalone Ramat
(1979), Parisi (1979), Simone (1979), Berretta (1981). Queste opere sono caratterizzate dall’essere dei
volumi collettivi, in cui linguisti ed insegnanti si cimentarono sui temi più vari.
Merita una menzione particolare l’attività di M. Berretta, che manifestò un interesse per l’educazione
linguistica fin dai suoi primi lavori (1973). il merito della Berretta sta nell’avere fin dall’inizio coniugato
una rigorosa preparazione linguistica con una costante tensione didattica.
Nel quadro della riforma della scuola realizzata degli anni ‘70 si inscrivono molti lavori, dedicati
all’aggiornamento degli insegannti, al disegno di percorsi didattici finalizzati. Si tratta di libretti ricchi
di suggerimenti, che hanno avuto solo circolazione locale, pubblicati dal Dipartimento della
Pubblica Educazione di Bellinzona: tra questi ricordiamo i 3 fascicoli dedicati all’insegnamento
dell’italiano nelle tre classi della scuola media (Berretta, 1978-79-80). Negli stessi anni vedeva la
luce “Linguistica ed educazione linguistica” (Berretta, 1977), opera che ci appare oggi come un
“classico” dell’educazione linguistica. I suoi lavori smentiscono la visione di un’educazione linguistica
facilona e lassista.
Molti insegnanti di italiano sono passati indenni attraverso gli anni più caldi, arrivando qualcuno ad
ignorare perfino l’esistenza delle Dieci Tesi, e molte delle tematiche connesse.

2. La variabilità linguistica
La scoperta del plurilinguismo
Uno dei temi ricorrenti della nuova educazione linguistica fu la scoperta del plurilinguismo, ovvero la
compresenza sia di linguaggi di tipo diverso, sia di idiomi diversi, sia di diverse norme di realizzazione
di un medesimo idioma. Nella definizione si fa dunque riferimento ai diversi tipi di linguaggio di cui la
specie umane dispone; alle diverse lingue di cui ogni comunità umana può disporre; alle diverse
forme di realizzazione, o varietà, che una lingua può presentare nella medesima comunità. Dunque
nessuna comunità linguistica è omogenea e ciascun parlante è in grado di padroneggiare più
linguaggi, più idiomi, più varietà. Nella scuola dominava una tenace vocazione al monolinguismo, che
già le Dieci Tesi e “Lettera a una professoressa”, avevano denunciato. Bisogna educare i giovani al
rispetto della varietà linguistica ed all’uso d’ogni sorta di creatività linguistica: ciò significa educarli alle
varietà di linguaggio e di lingue, alle varietà di frasi e di vocabolario, alle varietà di stili e di esecuzione.
Finalmente gli insegnamenti cominciarono a confrontarsi con la tematica della variabilità linguistica:
non solo i dialetti, realtà ben nota, ma anche le varietà regionali di italiano, l’italiano popolare, i registri,
realtà, tutte abbastanza sconosciute agli insegnanti di italiano.

Il repertorio linguistico degli italiani: lingua unitaria e dialetto/dialetti


Il plurilinguismo è una situazione che l’insegnante deve conoscere. Procederemo pertanto ad un rapido
resoconto dei risultati degli studi di settore. Tuttavia tale resoconto sarà fatto con l’occhio parziale
dell’insegnante di italiano, che cerca di capire che cosa possa davvero servire al suo lavoro, e in che
modo. Il fine ultimo di questo resoconto sarà arrivare a risolvere quello che Berruto definiva uno dei
“crucci” dell’insegnamento dell’italiano, vale a dire individuare quale norma linguistica prendere a
base dell’insegnamento e che cosa sia la “lingua comune” da far apprendere; che cosa accettare
dall’allievo e che cosa non. Ma per tentare di rispondere a queste domande avremo bisogno di fare un
lungo percorso.
Cominciamo con una definizione: l’espressione “repertorio linguistico degli italiani” designa
l’insieme delle varietà di lingua a disposizione della comunità parlante italofona. Data la particolare
situazione italiana, non esiste un unico repertorio linguistico che sia valido per tutti gli italiani: il
repertorio varia da regione a regione. Dunque quando si parla di repertorio linguistico italiano ci si
riferisce ad un repertorio medio costituito da una griglia in cui trovano posto le diverse varietà. Le quali
possono essere variazioni di una stessa lingua (l’italiano) e lingue diverse (dialetti e parlate
alloglotte). Dal momento che le parlate alloglotte non interessano l’intero territorio nazionale i due
sistemi fondamentali del repertorio linguistico italiano sono la lingua nazionale da una parte, il
dialetto, anzi i dialetti, dall’altra. Gli studiosi dialettologi hanno ormai dimostrato che la differenza tra
lingua e dialetto non è una differenza che ha ragioni linguistiche. La differenza tra i due sistemi è di
ordine funzionale, ed ha origine nelle vicende storiche di una comunità. Una volta chiarito questo
punto conviene ricordare come la contemporanea presenza sul territorio nazionale della lingua
nazionale e dei dialetti prefiguri una situazione che qualcuno ha definito di diglossia. La diglossia
comporta la compresenza, nella stessa comunità, di una varietà linguistica alta, per gli usi scritti e
formali, e una varietà linguistica bassa, per gli usi parlati informali. Lingua nazionale e dialetto non
sono due varietà di una stessa lingua. Dunque più che di diglossia sarebbe forse il caso di parlare di
bilinguismo, anche se i due sistemi (italiano e dialetto) presentano fra loro una distanza strutturale
inferiore rispetto ai repertori bilingui classici. In Italia non c’è una corrispondenza regolare tra uso del
dialetto e parlato conversazionale (si chiacchiera anche in italiano), e ugualmente non è sempre e solo il
dialetto la lingua della socializzazione primaria. È sulla base di queste considerazioni che Berruto
propone di definire il repertorio linguistico degli italiani come una forma di bilinguismo a bassa
distanza strutturale, in cui il rapporto tra varietà altra (italiano) e varietà bassa (dialetto) è meglio
definito dal termine “dilalia” che presuppone entrambe le varietà impiegate/impiegabili nella
conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di sovrapposizione. Anche il dialetto
va considerato come un insieme di varietà; si usa pertanto distinguere tra varietà di dialetto più basse
(dialetti locali) e varietà più alte, tra cui vanno posti i dialetti urbani e le cosiddette koinài
dialettali, o dialetti veicolari impiegati nella comunicazione regionale o sub-regionale.
Sono in atto, in tutti i dialetti italiani, processi di italianizzazione, fenomeno che colpisce soprattutto il
livello fonologico (i suoni più locali sono sostituiti dai corrispondenti suoni italiani) e il livello lessicale
(le parole più locali lasciano il posto a parole italiane, cui viene spesso “prestata” la fonetica locale). E
che dire, infine, della consistenza numerica dei parlanti dialettofoni nella comunità nazionale?
L’aumento, negli anni 1987-2006, dell’uso dell’italiano e il contemporaneo regresso nell’uso del dialetto.
Quote consistenti di italiani hanno abbandonato il dialetto anche nell’ambito più intimo e privato, con
differenze consistenti però tra le diverse aree geografiche e nelle diverse fasce di età: ad esempio solo
l’8,1% della popolazione tra i 6 e i 24 anni parla oggi solo o prevalentemente in dialetto con i familiari,
ma il 26,9% usa in casa sia il dialetto che l’italiano. Questo comportamento mistilingue italiano-dialetto
e dialetto-italiano è documentato in numerose indagini. È stato notato che a partire dagli anni ‘90 del
secolo scorso il dialetto sembra decisamente avviato. Berruto (2002) riferisce di alcuni fenomeni
minori ma interessanti, quali “il pullulare” di termini dialettali piemontesi per la denominazione di
ristoranti, trattorie, negozi; o solo il ricorso al dialetto nel bollettino parrocchiale, nella pubblicità.
Indagini mirate documentano la presenza diffusa e persistente del dialetto ma anche in città e nelle
fasce giovanili. Il dialetto ha fatto la sua comparsa anche in rete. Si tratta di impieghi nuovi, scritti del
dialetto, del tutto imprevisti fino a qualche anno fa. La conclusione che Berruto non esita a trarre è che
la tendenza in atto sembra non proprio quella dell’abbandono dei dialetti. Non è proprio il caso, quindi,
di parlare di “morte” dei dialetti ma piuttosto di un complicato processo di decadenza. Il dialetto tende
oggi a risultare una risorsa comunicativa intercambiabile con l’italiano; italiano e dialetto non ci
appaiono più come idiomi contrapposti, ma come varietà interne a un continuum unitario (De Mauro).

Dialetto e scuola
Negli anni ‘70 i dialetti erano ancora una realtà molto diffusa nell’intero territorio nazionale: nel 1974
dichiaravano di parlare in casa sempre in dialetto più del 51% degli intervistati. Questo significa che il
dialetto era per questi la lingua materna, e l’italiano si configurava come una sorta di lingua seconda,
da apprendere, a scuola. La formula delle Dieci Tesi, sintetizzabile in “educare al plurilinguismo”
doveva significare ad esempio insegnare dialetto. Oppure insegnare in dialetto, facendo del dialetto una
lingua veicolare, accanto all’italiano, per tramettere contenuti disciplinari? Benincà non ha dubbi: se
uno dei fini prioritari della scuola è quello di insegnare la lingua italiana corrente ne consegue che non è
il caso di insegnare un dialetto a scuola. Direi che il dialetto deve essere usato come il primo e il più
accessibile oggetto di riflessione linguistica, proprio nel passaggio all’italiano. Su queste posizioni si
mantennero tutti coloro che intervennero nel dibattito stimolati dalla pubblicazione, nel 1979, dei
nuovi programmi per la scuola media. Sabatini incoraggia gli insegnanti a variare gli interventi, in caso
di educazione linguistica, anche sulla base di un’attenta considerazione della situazione sociolinguistica
della zona di insegnamento. Egli ammette che in ambienti di forte dialettofonia anche il dialetto può
essere assunto in classe come veicolo provvisorio di comunicazione. Era opinione diffusa nella nuova
educazione linguistica che l’utilizzazione degli idiomi locali nel processo educativo, non pregiudicasse
affatto l’assimiliazione dell’italiano. La storia ha dato ragione a questa impostazione.
L’esigenza di un’educazione plurilingue si è concretamente realizzata nella scuola, seguendo 3 diverse
direzioni: uso del dialetto per la narrazione di fatti e aneddoti di vita locale; ricerca d’ambiente e
recupero del dialetto soprattutto attraverso interviste a parlanti anziani; riflessione italiano-dialetto
anche in direzione storico-comparativa. Si tratta tuttavia di esperienze esemplari che hanno interessato
fasce minoritarie di docenti di italiano. Sono probabilmente docenti convinti che l’uso del dialetto possa
essere una fonte di ricchezza. Che questo, sia vero, lo dimostrano i risultati dell’indagine IEA, condotta
negli anni 1990-92 in 31 Paesi differenti per misurare i livelli di alfabetizzazione nella lettura in
studenti compresi tra i 9 e i 14 anni di età. In quell’occasione risultò: i ragazzi che dichiaravano di
parlare quasi sempre italiano a casa ottenevano risultati migliori di coloro che dichiaravano di parlare
sempre italiano, e questi ultimi ottenevano praticamente gli stessi risultati di coloro che non lo
parlavano quasi mai. Solo i dialettofoni esclusivi risultavano penalizzati nelle prove. Ne consegue
che in qualche caso la presenza di più idiomi sembra incidere positivamente sul profitto, creando
intorno al bambino un ambiente linguistico più ricco e stimolante. Un’inchiesta condotta tra 417
insegnanti equamente distribuiti tra i vari ordini di scuola, attive nella provincia di Palermo nel 1994,
rivela che l’83% degli intervistati erano in tutto (45%) o in parte (38%) convinti che la dialettofonia
prevalente o esclusiva fosse un fattore di grave svantaggio linguistico e lo è veramente se la scuola non
è attrezzata per trasformare dialettofonia e multilinguismo in ricchezza e vantaggio. L’inchiesta
palermitana ci ricorda come con il passare degli anni anche per la scuola la tematica dialettale ha perso
parte della sua centralità risultando ancora attuale in aree marginali, dove troviamo ancora realtà
dialettofone compatte ed esclusive: è il caso di Palermo, o almeno di certi suoi quartieri, ed è il caso dei
quartieri popolari del centro storico di Napoli. Qui dialettofonia vuol dire ancora svantaggio
linguistico e conseguente difficoltà scolastica, e nei casi estremi espulsione dalla scuola e
inadempienza dell’obbligo scolastico. l’attuale presidente dell’Accademia della Crusca, Sabatini,
scrive: “I dialetti sono parte della nostra storia sociale, culturale e letteraria e alcuni di noi li sentono
come una forma più spontanea di espressione”. Parlare di insegnamento del dialetto non ha senso: il
dialetto si può solo imparare direttamente da chi lo usa davvero per scopi pratici.
Le parlate alloglotte
Oltre ai dialetti, sussistono sul territorio nazionale le parlate alloglotte, termine con cui si designano
le lingue parlate da piccole minoranze. Secondo G. Francescato le parlate alloglotte sono circa 15 tra
lingue e varietà romanze, e lingue e varietà non romanze, e interessano circa il 4,8% dell’intera
popolazione italiana. Si usa la denominazione di minoranza per indicare un gruppo, di solito non
molto numeroso, nel quale i parlanti alloglotti hanno come prima lingua o lingua materna una
lingua diversa dall’italiano. Queste condizioni si ritrovano in una serie di aree geografiche di antico
insediamento (minoranza tedesca in Alto Adige, francese in Valle d’Aosta, slovena nel Friuli Venezia
Giulia). Non è facile farne una descrizione completa, né indicare con sicurezza i confini precisi.
Francescato sceglie la presentazione di una serie di “punti geografici” dove è presente il fenomeno del
bilinguismo: individua così il provenzale e il franco-provenzale del Piemonte e della Valle
d’Aosta; le minoranze tedesche lunga la catena alpina e in Alto Adige; la minoranza ladina
dolomitica; la minoranza friulana; la minoranza slovena delle provincie di Trieste, Udine e
Gorizia; la minoranza croata della provincia di Campobasso (Molise); la varietà albanese sparsa
nelle regioni meridionali e in Sicilia; parlate greche nelle provincie di Reggio Calabria e Lecce; la
varietà algherese-catalano nella cittadina di Alghero; la lingua sarda; le parlate degli
zingari.
Si tratta di un insieme di caratteristiche linguistiche cui si accompagna una particolare sensibilità per
culture riconoscibili, che vantano una lunga e rispettabile tradizione. Sul piano della tutela e della
vitalità delle lingue minoritaria, bisogna operare una distinzione tra le lingue delle aree di confine,
che godono di una speciale politica di tutela e le altre minoranze linguistiche, le cosiddette isole, le
quali sono state fatte oggetto di un intervento legislativo mirato solo nel 1999. Con la legge del 1999, lo
Stato italiano ha riconosciuto le realtà alloglotte stanziando fondi per promuovere la protezione delle
lingue e delle culture locali. La legge ha fatto discutere, suscitando numerose prese di posizione da parte
di linguisti e sociolinguisti che denunciavano il fatto che la legge fosse arrivata troppo tardi.
Un’inchiesta conoscitiva, condotta dal MIUR a 10 anni di distanza dall’entrata in vigore della legge,
disegna un quadro variegato, con alcuni punti di forza e molti punti di debolezza: tra i quali vanno
annoverati l’adesione tiepida di alcune comunità, il senso di precarietà rafforzato dal progressivo ridursi
del finanziamento, la non entusiastica accoglienza da parte di molti studenti, che spesso sentono le ore
dedicate alla lingua minoritaria come ore di divertimenti ma abbastanza inutili. Anche le inchieste
condotte nei territori interessati rilevano l’avanzata inarrestabile della italofonia esclusiva nelle nuove
generazioni, laddove la lingua minoritaria non sia più presente nel contesto familiare. La legge riguarda
le minoranze linguistiche storiche. Dunque ignora da una parte le minoranza linguistiche di
immigrazione recente di marocchini, albanesi, romeni, cinesi, filippini e dall’altra la minoranza
zingara, che pur essendo di vecchio insediamento non vanta un carattere territoriale ben definito.

Le varietà dell’italiano
Come la ricerca sociolinguistica ci ha da tempo insegnato, oggi sappiamo che ogni lingua conosce
al suo interno una serie di diversificazioni, o varietà. Concentrando la nostra attenzione sull’italiano, è
ovvio che anch’esso non sfugge a questa condizione generale. L’italiano ha sviluppato una gamma assai
ampia di diversificazione, vale a dire dei parametri extralinguistici con cui la variazione interna alla
lingua è correlata. Tali parametri aiutano ad identificare 5 diverse dimensioni della variazione:

1. una lingua cambia lungo l’asse del tempo, e perciò parliamo di VARIETÀ DIACRONICHE;

2. una lingua cambia nelle diverse aree geografiche in cui viene usata, dando vita alle cosiddette
VARIETÀ DIATOPICHE;

3. una lingua cambia a seconda dello strato o gruppo sociale cui appartengono i parlanti, e perciò
parliamo di VARIETÀ DIASTRATICHE;
4. una lingua cambia a seconda della situazione comunicativa in cui viene usata, per cui parliamo
di VARIETÀ DIAFASICHE;

5. infine, una lingua cambia a seconda del mezzo fisico, vale a dire del canale attraverso cui viene
usata, VARIETÀ DIAMESICHE.

Ciascuna dimensione di variazione va immaginata come una specie di continuum, una sorta di varietà
avente ai suoi estremi due varietà ben distinte e fra queste una serie di varietà in cui ciascuna sfuma
nell’altra senza che sia possibile stabilire confini ben delimitati fra l’una e l’altra.

La variazione diacronica
Ogni lingua viva cambia. È chiaro ed evidente a tutti come l’italiano del 300 sia diverso da quello del
700 o da quello del 900. Sono più interessanti per l’insegnante di italiano i mutamenti in corso, quelli
che interessano la lingua italiana d’oggi. Il processo di mutamento è talmente lento che è persino
difficile accorgersene quando esso interessi un periodo breve, quale può essere considerato, ad esempio,
l’arco della vita umana. In quest’ottica a breve termine colpisce il cambiamento che si verifica nel
settore del lessico. Meno evidenti, perché molto più lenti, sono i mutamenti che interessano gli altri
livelli della lingua: il livello fonologico, o quello morfosintattico. Renzi afferma che il cambiamento
linguistico non consiste nella sostituzione improvvisa di una forma con un’altra, ma presuppone un
lunghissimo periodo di convivenza tra una forma consolidata e accettata, ed una nuova forma che tende
a sostituirsi alla prima. Normalmente accade che la vecchia forma resista nei registri più formali e
quindi nello scritto, mentre la nuova forma si affermi e si consolidi nei registri meno formali e
dunque nel parlato. Dopo questo periodo di convivenza può accadere che la forma più vecchia riesca a
vincere il confronto, e ad espellere la nuova forma, oppure che venga espulsa essa stessa lasciando il
posto alla forma rivale. Accade anche che una vecchia forma espanda il suo carico funzionale: è , ad
esempio, il caso dei cosiddetti usi modali dell’imperfetto nell’italiano contemporaneo, per cui
l’imperfetto tende ad assumere funzioni diverse (di cortesia: volevo un etto di prosciutto) a scapito di
altri tempi e modi (al posto di: vorrei un etto di prosciutto).

La variazione diatopica
Come afferma C. Mazzarini, “l’italiano non è parlato in modo uniforme nell’intero territorio
nazionale”. La variazione diatopica riguarda soprattutto le realizzazioni orali della lingua, anche se
ne possono essere coinvolte forme particolari di scrittura quali le insegne dei negozi. Va subito chiarito
però che l’aggettivo regionale vale a dire “di una certa zona” ed equivale a “locale”. De Mauro
scrive: “la varietà regionali di italiano possono considerarsi come una nuova risultante nata dal
comporsi della tradizione linguistica italiana con le molteplici tradizioni linguistiche dialettali: in latri
termini, esse si sono andate a formare a mano a mano che gli ambienti abituati al monolinguismo
dialettale si sforzavano di usare la lingua comune”.
Lo sviluppo delle varietà regionali ha dunque favorito una grande mobilità di forme e di strutture dai
dialetti alle varietà locali di italiano e quindi alla lingua comune. Tuttavia, non tutti gli studiosi sono
concordi nella esatta individuazione e definizione di queste varietà. Ogni regione linguistica presenta al
suo interno una ricca gamma di variazione che sfumano gradualmente l’una nell’altra, in un continuum.
All’interno di questo continuum si distinguono i 2 livelli di realizzazione dell’italiano regionale che sono
agli estremi della scala: una varietà regionale “bassa”, più ricca di forme dialettali e una varietà
regionale “alta”, più vicina all’italiano standard. È soprattutto a livello di pronuncia che le
diversità regionali si fanno notare, tanto che quando si sente parlare qualcuno in italiano si riesce quasi
sempre ad individuarne la zona di provenienza, almeno per grandi aree (settentrionale, centrale-
toscana, centrale-romana, meridionale, siciliana, sarda ecc.) grazie a spie fonetiche e
intonazionali, ma anche lessicali. Le differenze di pronuncia, che coinvolgono la fonetica, il
ritmo e l’intonazione, sono numerosissime. Per il settore più studiato, quello della fonetica, T. Telmon
censisce ben III tratti fonetici. Ma se ne potrebbero facilmente aggiungere altrettanti. Tra i tratti
fonetici più riconoscibili ricordiamo:
• realizzazione sempre sonora della s intervocalica (tratto settentrionale); nel centro-sud si
registra al contrario la realizzazione sempre sorda della stessa consonante;
• riduzione delle consonanti doppie, o scempiamento: belo al posto di bello, nono al posto di
nonno (tratto settentrionale);
• aspirazione nella realizzazione delle consonanti occlusive sorde in posizione intervocalica la
hasa al posto di la casa (tratto toscano);
• pertinenza della realizzazione delle vocali intermedie e / o [peska, pronuncia aperta, frutto;
pronuncia chiusa, attività del pescare] (tratto toscano);
• rafforzamento sintattico della consonante iniziale di parola sa ttutto (tratto centro-
meridionale);
• pronuncia sonora delle occlusive sorde dopo n / m in drenda al posto di in trenta (tratto
centro-meridionale);
Per quanto riguarda i tratti morfosintattici, Telmon ne elenca 66, tra i quali scegliamo alcuno dei
più significativi e qualcuno degli esempi, raggruppandoli in 3 grandi gruppi:
a) Varietà settentrionali:
• uso quasi esclusivo del passato prossimo, rispetto alla forma concorrente del passato
remoto;
• assenza dell’articolo determinativo davanti a pronomi possessivi con nome di parentela che
lo richiederebbero: mia mamma, mio papà;
• costrutti particolari per rendere l’aspetto verbale: sono dietro a pensare (sto pensando);
• uso pleonastico dei pronomi e delle particelle pronominali: a me mi piace tanto viaggiare;
• nomi propri di persona femminili preceduti dall’articolo determinativo: la Lucia; in certe zone
(Lombardia, Trentino) il fenomeno è diffuso anche con i nomi maschili: il Carlo;
• rafforzamento di alcune congiunzioni o pronomi per mezzo di che (tratto veneto): quando
che vai via; il paese dove che sono stato in vacanza.

b) Varietà centrali:
• che enfatico con funzione interrogativa (tratto romano): che, vieni a cena stasera?;
• sistema tripartito dei dimostrativi (tratto toscano), che comprende forme riferite all’ascoltatore:
codesto, costì, costà, costassù;
• uso della prima persona plurale in forma impersonale (tratto toscano): noi quest’estate si va al
mare.

c) Varietà meridionali:
• uso generalizzato del passato remoto rispetto alla forma concorrente del passato prossimo
(tratto diffuso in Sicilia);
• alta frequenza dei verbi pronominali intensivi: mi sono mangiato un bel piatto di
spaghetti, mi sono cista il film, e poi sono andata a letto;
• uso del cosiddetto accusativo preposizionale, vale a dire dell’oggetto introdotto dalla
preposizione a: hai visto a tuo padre?;
• scambi di modi tra protasi e apodosi nel periodo ipotetico: se direi..farei.., se
dicessi..facessi.., al posto di se di se dicessi..farei..;
• allocuzione inversa, soprattutto con i nomi di parentela: hai mangiato, mamma? (detto
dalla madre al proprio figlio);
• sostituzione dell’interrogativo perché con la locuzione che + verbo + a fare: che ridi a fare?
Dalla lettura di questi rapidissimi elenchi si può notare che mentre alcuni tratti risultano connotati in
senso regionale, per altri tratti è già documentata una larga diffusione a livello nazionale.

La variazione diastratica
La variazione diastratica è correlata con la collocazione del parlante nella società: quindi è
correlata con lo strato, o classe sociale di appartenenza del parlante, a sua volta determinata dalla
professione, dal reddito, dal grado di istruzione; è correlata anche con la classe di età del parlante e con
il sesso. Per quanto riguarda la dimensione di variazione legata alla posizione sociale, ricordiamo
che essa non interessa i parlanti di classe sociale alta “tipicamente ben scolarizzati e di norma
cresciuti in ambiente italofono”, e dunque tali da avere accesso privilegiato allo standard; vale il
contrario per i parlanti di classe bassa, mediamente poco scolarizzati e meno esposti a produzioni
standard. Per consuetudine si chiamano varietà sociali solo le varietà marcate verso il basso, che
costituiscono il cosiddetto italiano popolare.
E per “italiano popolare” si intende quell’insieme di usi frequentemente ricorrenti nel parlare e nello
scrivere di persone non istruite e che per lo più nella vita quotidiana usano il dialetto, caratterizzati
da numerose devianze rispetto a quanto previsto dall’italiano standard normativo.
Si tratta di un italiano “sgangherato” sul piano dell’ortografia, della punteggiatura e della
morfosintassi, che trasferisce nella scrittura modi e forme tipiche del parlato. Altri tratti ricorrenti
sono la regolarizzazione di forme verbali irregolari (venghino, se stasse zitto), il
rafforzamento dei pronomi attraverso la ridondanza (fagli coraggio a papà, i suoi genitori di
lei), la semplificazione o la reinterpretazione di parole difficili (comprativa per cooperativa,
febbrite per flebite) l’uso di parole generiche (le carte per i documenti). Risultano devianti i fatti
grafici, che provano lo sforzo fatto da questi parlanti per tradurre il parlato in lingua scritta. Gli errori
più frequenti si addensano nelle aree in cui l’ortografia tradizionale dell’italiano è altamente
convenzionale (uso delle maiuscole, punteggiatura, impiego di h) o non presenta corrispondenza
biunivoca tra fonemi e grafemi.
Nato nei primi decenni del 900 tra le classe subalterne non raggiunte dalla scuola, l’italiano
popolare fu il frutto di una situazione storica in cui grandiosi fenomeni sociali fecero incontrare
parlanti aventi alle spalle dialetti diversi che avevano bisogno di comunicare tra di loro, non avendo
però una lingua comune. Nacque dunque fuori dalla scuola per merito delle classi popolari e con
caratteristiche unitarie. Ma nel panorama contemporaneo questa varietà sembrerebbe scomparsa.
La variazione sociale si manifesta anche nelle differenze linguistiche legate al sesso ed all’età.
Per quanto riguarda la prima forma di differenziazione linguistica, non sono emerse differenze
linguistiche tali da autorizzare gli studiosi a ipotizzare l’esistenza di vere e proprie varietà di lingue.
Piuttosto è emerso qualche fattore di differenziazione negli atteggiamenti sociolinguistici generali dei
due sessi: ad esempio lo stile di interazione femminile sembra più orientato sugli aspetti
interpersonali e sulle relazioni fra i parlanti che non sul contenuto referenziale del discorso; ancora, nel
parlato femminile è stata notata un’altra ricorrenza di marche di cortesia e di formule di esitazione e di
attenuazione della forza delle affermazioni, come pure una certa propensione all’uso dell’eufemismo.
Un’altra caratteristica solitamente attribuita al linguaggio femminile è poi quella per cui le donne
sembrano più propense degli uomini ad adottare le varianti normative o dotate di maggior prestigio.
Nella scelta tra italiano e dialetto, la percentuale di coloro che parlano prevalentemente in italiano sia
più alta per le donne che per gli uomini; parallelamente la percentuale di coloro che parlano
prevalentemente in dialetto è più alta presso gli uomini. Questo significa che quando le donne hanno
possibilità di scelta tendenzialmente sceglieranno di parlare ai loro bambini nella lingua considerata
dalla comunità come più prestigiosa, dunque, in italiano.
Quanto alla variazione legata all’età, bisogna riconoscere che questa dimensione di variazione è stata
abbastanza studiata, ma solo nei suoi esiti giovanili. Questo non significa però che il linguaggio dei
giovani non si differenzi al suo interno in relazione all’età, alla geografia, alla classe sociale, al luogo di
aggregazione frequentato (la scuola, il bar, la società sportiva, il gruppo politico). Il linguaggio
giovanile presenta alcune caratteristiche ricorrenti che gli studiosi del campo hanno descritto. Ad
esempio la ricerca dell’espressività e dell’informalità si realizza attraverso l’uso di intercalari frequenti,
altrimenti detti segnali discorsivi (boh, niente, cazzo, cioè), o anche attraverso la riscoperta di
dialettalismi (in Veneto schei o sghei per soldi, moroso/a per fidanzata, ma il romanesco frocio è
diventato panitaliano), o ancora attraverso l’uso insistito di parole e di espressioni interdette
(cazzo, che figata!, che palle!, che culo! Va a fa’ in culo). Un motore importante del linguaggio giovanile
è l’innovazione lessicale, che si manifesta anche attraverso l’adozione di internazionalismi (pop music,
rap, trip) o pseudo forestierismi (arrapescion, modulescion, mutandero).
I giovani giocano anche nella lingua diffusa dal mezzo di comunicazione come la televisione, alla
quale dobbiamo aggiungere Internet e i nuovi media che, frequentati soprattutto dai giovani, accelerano
la dinamica linguistica e amplificano la funzione innovativa della fascia giovanile della popolazione
anche in un’area, quella della lingua scritta, finora più impermeabile al cambiamento. Risulta infine
abbastanza preoccupante il quadro tracciato da Pietro Trifone, che dal suo particolare punto di
osservazione parla di deriva linguistica delle nuove generazioni, cui si accompagnano errori di
ortografia e di sintassi, malapropismi, improprietà, colloquialismi e invenzioni lessicali spesso sguaiate.

La variazione diafasica
La variazione diafasica ha a che fare con il mutare delle situazioni comunicative, le quali sono
condizionate da variabili quali le circostanze in cui ha luogo lo scambio, il ruolo ricoperto dagli
interlocutori, gli scopi e l’argomento dell’interazione. Rientrano in questa dimensione i cosiddetti
“registri” ed i “sottocodici”. Per quanto riguarda i registi, Berruto avvertiva come essi fossero la
classe di varietà meno studiata per l’italiano. Chiameremo registri le varietà diafasiche dipendenti
primariamente dal carattere dell’interazione e dal ruolo reciproco assunto sa parlante e destinatario. Ciò
significa che le scelte di registro dipendono dal grado di formalità o informalità della situazione:
ai due estremi si pongono da una parte le situazioni molto formali, che richiedono un registro formale;
dall’altra si pongono le situazioni molto informali, in famiglia o tra amici e conoscenti, che richiedono
un registro informale, che è quasi esclusivo del parlato. Fra i due estremi si pone una gamma quasi
infinita di situazioni. Le scelte lessicali documentano bene questa gradualità “continua”: Berruto
esemplifica il fenomeno sul verbo morire, che è un termine neutro. Per morire la competenza del
parlante potrebbe individuare questa scala: rendere l’anima a Dio / defungere / perire / decadere /
estinguersi / trapassare / spirare / chiudere i propri occhi / esalare l’ultimo respiro / passare a
miglior vita / salire al Cielo / perdere la vita / spegnersi / mancare / morire / andarsene / tirare le
cuoia / andare all’altro mondo / rimanerci / lasciarci la pelle / crepare.
Come appare chiaro da quest’esempio ogni scelta fra termini contigui sposta un pochino verso il basso o
verso l’alto il registro.
Passiamo adesso ad un tentativo di descrizione più precisa dei tratti che caratterizzano i due estremi
della scala, il registro molto formale e il registro molto informale; il primo coincide quasi del
tutto con l’italiano scritto formale; il secondo è in quasi totale sovrapposizione con l’italiano parlato
informale.
I tratti linguistici tipici dei registri alti sono riassumibili nei termini che seguono:
• a livello fonologico: bassa velocità di eloquio e maggiore accuratezza nella pronuncia, il che
ha come conseguenza un’attenuazione dei tratti regionali più marcati;
• a livello morfosintattico e testuale: massima esplicitezza verbale e scarso ricorso
all’implicito; pianificazione accurata del testo (in primo luogo, come abbiamo già detto, come
vedremo tra poco); uso frequente di connettivi di vario tipo (infatti, quindi, al contrario,
conseguentemente); sintassi elaborata (gerundi, participi); scarsi riferimenti al contesto in cui
ha luogo lo scambio;
• a livello lessicale: variazione spinta (orrore per la ripetizione lessicale) e tendenza alla
verbosità, ripetere con altre parole quanto già detto; preferenza per termini specifici (recarsi
invece di andare, adirarsi invece di arrabbiarsi, conferire con invece di parlare con); alto
impiego di parole complesse (derivate o composte) (nazionalizzazione, notabilato,
assistenzialismo).
Come rileva Berretta l’esplicitezza linguistica dei registri formali non equivale a loro massima
comprensibilità: anzi, alcuni tratti di questi registri li rendono difficili per il parlante di media o scarsa
scolarizzazione.
I tratti caratteristici dei registri informali sono ovviamente di segno opposto:
• a livello fonologico: alta velocità di eloquio e scarsa accuratezza nella pronuncia, cui si
accompagnano tratti quali la tendenza al troncamento (fan, far, son, veniam), all’aferesi (‘sto
per questo, ‘ndiam per andiamo), alla semplificazione di nessi difficili (arimmetica per
aritmetica, proprio per proprio), alla fusione di segmenti (presempio per per esempio);
• a livello morfosintattico e testuale: ricorso all’implicito, al non detto, determinato dalla
condivisione del contesto comunicativo con il destinatario; scarso uso di connettivi e sintassi
spezzata, con frasi brevi e spesso ellittiche;
• a livello lessicale: scarsa variazione lessicale, con alto tasso di ripetizioni e di nomi cosiddetti
generali (cosa, tizio, faccenda); uso frequente di parole abbreviate (bici per bicicletta, prof per
professore); uso frequente di lessico connotato in senso colloquiale (prendersela al posto di
offendersi, sfottere al posto di deridere o prendere in giro, fregarsene al posto di
disinteressarsi), che può diventare adozione di parole ed espressioni interdette (casino nel
senso di confusione).
Il tipo di relazione che intercorre tra gli interlocutori condiziona in maniera forte l’adozione di un
registro più o meno formale: da questa relazione dipende ad esempio la scelta degli allocutivi
(Maria/ signora Maria/ signora/ signora Rossi/ dottoressa Rossi) e dei pronomi allocutivi (tu/
lei/ Ella), oltre che delle formule di saluto (ciao/ salve/ buongiorno). Monica Berretta afferma che
le diverse funzione pragmatiche di un enunciato siano condizionate dal grado di formalità della
situazione e dalla relazione con l’interlocutore. Ad esempio lo stesso contenuto informativo può essere
espresso nelle forme sotto elencate secondo una scala che va dalla minima alla massima formalità:
timbra il biglietto / timbreresti il biglietto? / ti dispiace timbrare il biglietto? / non dimentichi di
timbrare il biglietto / pregasi di obliterare il biglietto / si avvertono i signori passeggeri di obliterare
il biglietto. Le situazioni più informali sopportano formulazioni dirette (l’ordine attraverso
l’imperativo), ma appena si voglia rendere un pò più cortese o meno personale lo scambio si ricorre a
vari mezzi che hanno lo scopo di attenuare la franchezza iniziale, trasformando l’ordine in una richiesta,
in un avvertimento, o addirittura in una preghiera, e passando dal tu al lei e a forme impersonali.
Rientrano nell’ambito della variazione diafasica anche i sottocodici, varietà caratterizzate soprattutto
da un lessico particolare. I sottocodici sono legati a particolari attività lavorative e professionali o
ambiti di studio: si parla dunque di linguaggio della medicina, della filosofia, della musica, del
diritto, dello sport. Sobrero ricorda i criteri a cui deve rispondere una lingua specialistica: tra i più
importanti sono senz’altro la precisione, l’economia e la neutralità emotiva.
Si capisce allora perché il lessico sia forse il settore di maggiore differenziazione di una lingua speciale
rispetto alla lingua comune. Ciò non significa che non siano coinvolti anche altri livelli linguistici.
Sobrero descrive infatti alcune strutture che ricorrono nelle lingue speciali con maggiore frequenza
rispetto alla lingua comune: sul piano morfosintattico, ad esempio, è attestato un largo uso dello stile
nominale, del passivo per lo più senza indicazione della causa o dell’agente.
Anche sul piano testuale sono stati descritti diversi fenomeni che nei testi specialistici si presentano con
una frequenza anomala: ad esempio tali testi presentano di solito un piano compositivo ben organizzato
e una struttura riconoscibile, che in certi casi può diventare rigidamente predeterminata, con schemi
vincolanti. Inoltre i testi specialistici preferiscono le anafore più esplicite e trasparenti a quelle implicite
o ellittiche, e fanno ricorso ai connettivi che esplicitano l’ordine logico-concettuale del testo; molto
frequenti sono anche i connettivi metatestuali (del tipo: come abbiamo già detto, detta ipotesi,
come si vedrà nel capitolo successivo).
Berruto ricorda il notiziario radiotelevisivo, genere testuale particolarmente complesso: è un
testo scritto ma per essere detto, ha la finalità di comunicare informazione ad un pubblico vasto, adotta
un registro sostanzialmente formale e un sottocodice sostanzialmente burocratico. La sua natura
ambigua favorisce le commistioni di registri e sottocodici diversi. Tra i molti esempi di questo disordine,
riportiamo il seguente: “Davanti agli organi di stampa, il presidente Cossiga ha esternato, andando
giù con molta decisione”. Qui è evidente la commistione tra un registro piuttosto formale e
quell’espressione “andar giù con molta decisione”, che Berruto definisce un colloquialismo. La
responsabilità di queste continue sovrapposizioni di registri e sottocodici è da iscrivesi alla televisione.
La variazione diamesica
La variazione diamesica è quella che riguarda il mezzo o canale di trasmissione del
messaggio: che può essere affidato all’oralità o alla scrittura. Va subito messo in chiaro che la
differenza tra parlato e scritto è prima di tutto da riportare alla differente natura del mezzo di
trasmissione, il quale impone una serie di scelte. La possibilità di pianificare il discorso è massima
nello scritto, minima nel parlato. Il testo scritto può essere ritoccato, corretto, ristrutturato più volte. Al
contrario il parlato è ricco di autocorrezioni, di esitazioni, di interruzioni. Ne consegue che il parlato
sarà meno elaborato e più irregolare dello scritto. Inoltre, dalla differente natura del mezzo deriva il
fatto che è impossibile trasferire nello scritto certe caratteristiche del parlato (intonazione, velocità,
esitazioni, silenzi), come è altrettanto impossibile trasferire nel parlato tutti i fatti grafici e di
organizzazione del testo che sono propri della scrittura (suddivisioni interne del testo in paragrafi,
interpunzione, uso di maiuscole e minuscole, varietà di caratteri).
La variazione legata al mezzo presenta al suo interno una ricca gamma di varietà, ed anche in questo
caso dobbiamo pensare al parlato e allo scritto come ai due estremi di una ipotetica scala, in cui è
rappresentata una vasta gamma di varietà intermedie, ciascuna attraversata da altri fattori di
variazione: la classe sociale e il livello di istruzione del parlante, ad esempio, la sua origine
regionale, la sua età, la situazione comunicativa e dunque il grado di formalità prescelto e così via.
Proviamo adesso ad isolare alcuni tratti che si potrebbero definire tipici del parlato. Per far ciò
assumeremo un punto di vista ingenuo, che identifica il parlato con uno degli estremi della scala,
occupato dalla conversazione faccia a faccia, che prevede compresenza degli interlocutori, scambio di
ruoli, possibilità di verifica del passaggio dell’informazione, oltre alla possibilità di veicolare almeno
parte del contenuto informativo attraverso mezzi paralinguistici (volume e tono di voce, enfasi,
velocità di eloquio), cinesici (gestualità, mimica facciale) e prossemici (distanze tra gli interlocutori
e gestione dello spazio). Inoltre in questo tipo di parlato la compresenza di parlante e destinatario nello
stesso contesto consente di non dire ciò che può essere facilmente recuperato dalla situazione o dalle
conoscenze condivise. Ne consegue che questo parlato è meno esplicito dello scritto.
Beretta afferma che i cambiamenti di programma o le autocorrezioni che il parlante sente di dover fare
non possono essere cancellate (come si fa nello scritto).
Da questo parlato-parlato si passa allo scritto, che è all’altro estremo della scala: si va dal parlato
sorvegliato di una lezione, di un comizio, di una predica, i cui contenuti sono più o meno pianificati; a
varie forme di “parlato-scritto”, con cui Nencioni designa il parlato di una conferenza o di una
lezione accademica che si appoggia generalmente ad uno scritto; al cosiddetto “parlato-recitato”, che
è tipico della rappresentazione teatrale e dei notiziari radio-televisivi.
Dei due estremi della scala, il parlato-parlato (massimo di informalità) e lo scritto (produzioni più
formali), è il primo a risultare più interessante, ed è infatti la varietà che hanno tentato di descrivere i
linguisti che hanno preso in esame questa dimensione di variazione. Quanto allo scritto, la sua
descrizione non è parsa sociolinguisticamente rilevante dal momento che essa coincide con la
descrizione della grammatica dell’italiano tout court. Le descrizioni grammaticali di una lingua di
cultura sono state basate interamente sulla lingua scritta, per di più di registro formale. La situazione è
cambiata negli ultimi decenni, infatti sono state prodotte numerose descrizioni dell’italiano parlato. Ci
si è accorti che perfino il parlato spontaneo possiede una sua organizzazione interna paragonabile a
quella della lingua scritta. Solo che è un’organizzazione diversa, il che ha portato qualcuno a postulare
l’esistenza di “un’altra grammatica”. Noi ci limiteremo a descrivere i tratti di maggiore differenziazione
della varietà parlata rispetto a quella scritta. Come dimostra A. Sobrero ragionando su microsistemi
grammaticali i cambiamenti dell’ambiente hanno conseguenze pesanti e dirette sul comportamento
degli uomini.

Tratti del parlato: testualità


La conseguenza più vistosa della scarsa o nulla pianificazione del testo parlato è la frammentarietà
sintattica. Enunciati per lo più brevi sono accostati l’uno all’altro. Ne consegue che i frammenti di
parlato spesso non sono analizzabili in termini di frasi semplici e frasi complesse, o in termini di frasi
principali, coordinate e subordinate. Da questo difetto di pianificazione derivano pause di esitazione e
di programmazione, false partenze, autointerruzioni, cambiamenti di programma, autocorrezioni.
Nell’esempio (pag. 110) sono presenti molti dei tratti che caratterizzano il parlato: numerose pause
(rappresentate dai puntini di sospensione), false partenze e interruzioni (io sto in gruppo-… che-
e… siamo studenti…), autocorrezioni che hanno spesso la funzione di precisare il contenuto del
messaggio (con degli anziani, con persone anziane che hanno problemi… degli anziani poveri
insomma), numerosi segnali discorsivi (eh, insomma, così). Ugualmente frequente è il ricorso
all’implicito, reso possibile dalla condivisione di conoscenze e di situazioni.

Tratti del parlato: sintassi


La paratassi è preferita rispetto all’ipotassi; la subordinazione esplicita è preferita alla
subordinazione implicita. Inoltre, sia nella coordinazione che nella subordinazione si usa una
gamma ristretta di forme: nella coordinazione risultano preferite forme quali e, ma, dopo, poi, allora e
il loro cumulo (ma però); tra le subordinanti sono più utilizzate che, se, perché, siccome, quando quali
introduttori di subordinate esplicite; di, a, per seguite da infinito per le implicite.
Il che viene utilizzato come connettivo generico: e la cosiddetta funzione del che polivalente col quale
si istituisce una relazione sintattica di debole subordinazione, con valore semantico vago, talvolta
causale o esplicativo (...prendi una sigaretta dalle mie, dai Maria, che te ne ho prese ottomila), talvolta
non definibile il termini tradizionali (...veniamo noi, che ci offri un caffè).
Il così è usato spesso come introduttore di frase, dando luogo ad una struttura del tipo: “lascio aperta la
porta, così la vedono” (= affinché possano vederla).
Molto frequente è l’uso di frasi segmentate di vario tipo: dislocazione a sinistra (il libro lo compro
io); dislocazione a destra (lo compro io il libro); frasi con tema libero, o tema sospeso, o
anacoluti (questi limoni, per avere un po' di sugo, bisogna spremerne tre); frasi scisse (è lui che mi
ha fatto cadere al posti di lui mi ha fatto cadere), col altra frequenza di forme interrogative quali chi è
che, cos’è che, quand’è che, che danno luogo a frasi scisse del tipo: chi è che vuole parlare? al posto
della corrispondente chi vuole parlare?; il c’è presentativo seguito da un che pseudorelativo (c’è un
signore che vuole parlare con te).

Tratti del parlato: morfologia


In generale nel parlato si assiste ad un movimento di riorganizzazione di sottosistemi. Il sistema
verbale si presenta semplificato e ridotto, con la sottoutilizzazione di alcuni tempi (passato remoto,
trapassato remoto) e modi (congiuntivo, condizionale). A questo processo di riduzione di forme si
accompagna l’acquisizione di un maggiore carico funzionale da parte di alcuni tempi e modi: ad
esempio il presente veicola anche il passato (il cosiddetto presente narrativo: ieri mio padre torna a
casa e comincia a fare tutta una serie di domande) e il futuro (stasera vado al cinema, domani parto);
il passato prossimo si espande a spese del passato remoto e del futuro anteriore (quando ho finito di
laurearmi...devo anche vendere la casa).
Il futuro e l’imperfetto indicativo acquistano valori modali, cioè tendono a funzionare come modi: il
futuro (chi sarà a quest’ora?), l’imperfetto (nel gioco fra bambini: poi entra un uomo in negozio/ e noi
ci nascondevamo dietro una sedia.../e poi io tiravo una spada/ e tu lo colpivi con il bastone), o un
atteggiamento di cortesia (in un negozio: Volevo un etto di prosciutto).
Anche il sistema di pronominale presenta nel parlato forme di ristrutturazione e semplificazione: i
pronomi personali soggetto sono usati con più frequenza rispetto allo scritto, allo scopo si dare più
enfasi al discorso (poi se tu mi vai in un paesino), il che può generare anche forma di ridondanza
pronominale (a me mi piace molto); le forme lui, lei, loro, usate in posizione di soggetto, sostituiscono
altre forme (egli, esso, ella, essa, essi, esse); il clitico maschile gli dativo sostituisce le forme del
femminile (le ho detto) e del plurale (ho detto loro); la forma che rimpiazza quasi completamente il/la
quale e le altre forme del paradigma.
Il parlato registra una grande frequenza di verbi pronominali di vario genere: mangiarsi un panino,
vedersi un film alla televisione, andarsene. Da segnalare sono anche i fenomeni connessi con la velocità
e la trascuratezza di pronuncia tipica del parlato: caduta di sillabe non accentate, apocopi (son/so’
venuto, lavoran bene, lavorà bene) e afaresi (‘sto fatto, ‘bastanza, ‘nsomma).
Tratti del parlato: lessico
Dall’esigenza di comunicare in modo efficace e veloce dipendono i tratti che caratterizzano le scelte
lessicali nel parlato. La mancanza di pianificazione e la velocità di eloquio portano ad una minore
diversificazione nella scelta delle parole, cui si accompagna la frequente ripetizione della stessa unità
lessicale e il fenomeno della superutilizzazione di parole dal significato generico (cosa, coso, fatto, roba,
affare, persona, tizio).
L’esigenza espressiva si manifesta in vari modi: ad esempio in superlativi e formule varie di
accrescimento/enfasi del tipo “ho avuto tantissima paura, è un esame pazzesco, c’era un traffico
mostruoso, ho speso un sacco di soldi”. Si produce un effetto dello stesso genere anche attraverso
l’iterazione del lessema: è una casa piccola piccola, ha preso un gattino nero nero. Anche la negazione
può essere resa più forte ed espressiva con vari mezzi: non ho visto un accidente di niente, non ho visto
un tubo. Sono ugualmente frequenti l’uso di diminutivi soprattutto in -ino (un cosino, un attimino, un
pochettino, un pensierino per regalo) e formule varie di attenuazione (è un po' matta, non è poi così
scema). Va forte l’uso del lessico cosiddetto interdetto, di solito bandito nello scritto e nel parlato
sorvegliato, che ricorre invece nel parlato-parlato, nei registri più informali e nelle varietà giovanili
(cazzo, stronzo, rompere seguito da complementi vari, palle in varie locuzioni).

3. Modello (o modelli?) di lingua e norma


L’italiano standard e neo-standard
La situazione della variabilità chiama in causa a sua volta il problema del rapporto tra le diverse
varietà, soprattutto in relazione alla definizione di lingua comune o lingua standard. Partiremo da una
concezione ingenua di lingua standard che Nora Galli de’ Paratesi chiama teoria linguistica
inconscia. Secondo questa teoria una lingua “assumerebbe la posizione e funzione di standard in una
comunità perché essa è all’origine diversa o dotata di caratteristiche che le altre forme di lingua non
hanno”. Una di queste caratteristiche sarebbe la centralità o neutralità rispetto ad altre varietà.
Le ragioni che fanno di una lingua una lingua standard non sono legate ad una sua neutralità o
superiorità: sono piuttosto ragioni storiche, che hanno a che fare con le vicende di una comunità. Ciò
non toglie che, una volta diventata lingua standard, una lingua non sviluppi alcune delle caratteristiche
che il parlante le attribuisce, come ad esempio la “sovraregionalità”, o attenuazione di tratti marcati in
senso regionale.
La storia dell’italiano è nota: il toscano del ‘300 delle classi colte è diventato lingua nazionale. Ciò è
accaduto non perché il toscano possedesse dei tratti intrinsecamente “migliori” rispetto ad altre parlate
locali, ma piuttosto perché è stato apprezzato e ammirato come lingua della Commedia di Dante, del
Decameron di Boccaccio e del Canzoniere di Petrarca, e dunque è stato preso a modello dalle classi
colte delle altre regioni italiane che, trovavano un volgare che aveva già subito un potente processo di
sistematizzazione ad opera dei 3 grandi trecentisti. L’espansione del toscano è poi stata inarrestabile.
Da qui nasce forse l’idea che il “vero italiano”, vale a dire l’italiano standard, risieda oggi a Firenze o
in Toscana; in realtà l’italiano standard è il frutto di un’opera secolare di contaminazione del toscano da
parte delle parlate locali.
Se però passiamo all’oggi, e ci chiediamo dove risieda oggi l’italiano standard, non possiamo che
rispondere con le parole dei linguisti che con più continuità e competenza si sono occupati di questo
tema: con le parole di A. Sobrero che distingue uno “standard alto, di base letteraria, diffuso nelle
classi colte, nelle situazioni formali, e realizzato nello scritto più che nel parlato” e uno “standard
basso, ovvero il cosiddetto italiano dell’uso medio”.
Per quanto riguarda la prima varietà, Sobrero la vede realizzata nei buoni scrittori contemporanei; è
dunque la lingua scritta, usata dagli studiosi, dai legislatori, dai buoni giornalisti e da qualche
romanziere, lingua la cui descrizione si trova nelle grammatiche normative. Al di sotto di questa varietà
“alta” gli autori pongono una varietà “bassa” che chiamano neo-standard, riferendosi con tale
termine al cosiddetto “italiano dell’uso medio”, depurato. Il neo-standard non va inteso come una
varietà che si oppone allo standard; potrebbe a prima vista sembrare del tutto coincidente con
l’italiano parlato. Vi si ritrovano infatti molti dei tratti che abbiamo già visto, tipici dell’italiano
parlato. Sabatini, elenca in tutto 35 tratti, che successivamente riduce a 14:
1. Lui, lei, loro in posizione di soggetto.
2. Uso della forma dativale gli al posto di le (a lei) e loro (a loro).
3. Partitivo preceduto da preposizione: con degli amici.
4. Le dislocazioni a sinistra (quel libro l’ho già letto), a destra (l’ho già letto, quel libro) e il
tipo sintattico: a me piace leggere, di pane non ne ho più.
5. Che polivalente, soprattutto con valore temporale: dal giorno che ti ho visto…
6. Per cui con valore di connettivo frasale: pioveva, per cui ho preferito restare a casa.
7. Cosa?, al posto di che cosa?.
8. E, ma, o, allora, comunque in posizione iniziale di frase.
9. L’indicativo al posto del congiuntivo: credo che hai torto; se venivi, era meglio.
10. La concordanza ad sensum: sono venuti a trovarmi una decina di amici.
11. Il soggetto post-verbale: non ci sono soldi, o anche il tipo: niente soldi!
12. Verbi in forma pronominale: mi sono bevuto un bel caffè.
13. La frase scissa: è lui che mi ha fatto cadere.
14. Il ci attualizzante: non c(i) ho tempo; non ci capisco niente.
Questi tratti, a parere di Sabatini, non riguardano solo le realizzazioni parlate della lingua. Essi
prefigurano una varietà panitaliana, vale a dire una varietà di italiano che non appartiene a questa o
quella regione, e che viene usata da parlanti di ogni età e di ogni ceto e livello di istruzione. Questo
“italiano dell’uso medio” è quanto di più simile si riesca ad immaginare ad una lingua media,
veramente comune a tutti gli italiani, parlata e scritta, ma anzitutto parlata.
Come Sabatini stesso sostiene, parte dei tratti propri di questo italiano dell’uso medio erano già presenti
nel sistema dell’italiano dei secoli scorsi. Tali tratti, repressi per secoli, riemergono oggi. Insomma, sta
avvenendo nella nostra lingua quello che in altre lingue (il francese, l’inglese sia britannico che
americano) è avvenuto già da secoli.
A sua volta l’italiano standard viene più avanti definito come fissato e riconosciuto al più alto livello
di istituzionalità. Sabatini indica l’italiano standard e l’italiano dell’uso medio come le uniche 2 varietà
nazionali dell’italiano contemporaneo.
Continua la stessa linea di ricerca Lorenzo Renzi quando tenta di fissare una serie di cambiamenti in
corso nella lingua italiana. In un primo momento Renzi individua 23 tratti, quasi tutti nuovi rispetto a
quelli indicati da Sabatini. Qualche anno più tardi ne elenca 30; divide le innovazioni i 2 gruppi: i
fenomeni di ordini linguistico superiore, che riguardano la struttura della frase, o i pronomi clitici che
ci si inseriscono e i fenomeni di ordine più basso, quindi fatti più marginali quali ad esempio una nuova
forma di avverbio o di saluto. Tenta poi anche di provare a prevedere se tali innovazioni siano destinate
a stabilizzarsi oppure no, dividendo i fenomeni tra i veri e propri “errori”, cambiamenti “dal basso” che
sono i soli ad avere la possibilità di diventare forme e fenomeni del futuro; e gli snobismi, cambiamenti
dall’alto, forme destinate a cadere con il passare della moda che li ha sospinti.
Tra i fenomeni più generali Renzi ricorda, oltre alle dislocazioni, la frase introdotta da è che.., non è
che.. (come in: lo studio non è che mi abbia portato grandi soddisfazioni); il verbo avere preceduto da
ci (come in: l’unico che c’avevano); il verbo entrare preceduto da ci (come in: ma lui che c’entra?); tipo
usato come avverbio (come in: saltavano fuori tipo degli animatori).
Tra i fenomeni meno generali Rendi ricorda l’avverbiale da subito con valore decorrenziale (dobbiamo
esercitare da subito una forte pressione sull’Ateneo); dai! come interiezione di meraviglia (“Sai che ho
preso 30 in storia romana!” “Dai!”); il tipo non esiste! per “è assurdo”, “non è possibile”, che si
presenta anche nella forma rafforzata non esiste proprio!, per “non se ne parla nemmeno”; il tipo
“troppo bello, troppo forte” per “molto bello, molto forte”; il tipo sembra a me, pare a me al
posto di “mi sembra, mi pare”, elencato tra gli anglismi sintattici.
Renzi si chiede se i cambiamenti da lui stesso registrati non abbiano cambiato il volto dell’italiano, al
punto da stravolgerlo. La sua risposta è netta: non sembra, almeno finora, che i fenomeni nuovi siano
tali da cambiare l’assetto di fondo della lingua.
È rimasta finora esclusa dal nostro ragionamento è giunto adesso il momento di porci una domanda, la
stessa che si poneva vent’anni fa A. Mioni: esiste una pronuncia standard dell’italiano? O esiste un
modello riconosciuto di realizzazione dei suoni dell’italiano, una norma cui attenersi.
L’italiano è stata una lingua quasi solo scritta per molti secoli: quando dovevano parlare, gli abitanti
delle varie regioni italiane usavano il dialetto. Quando poi si è imposta l’esigenza di una lingua unitaria
nazionale anche nella comunicazione orale la pronuncia dell’italiano che si è venuta formando nelle più
diverse regioni non poteva che subire una forte interferenza della fonologia della parlata locale per cui
risulta molto difficile definire una sola fonologia dell’italiano: ci troviamo in realtà di fronte a un
insieme (in termini tecnici: diasistema) di almeno una ventina di fonologie dell’italiano.
Di fronte a tanta varietà, bisogna dire che nessuna pronuncia regionale è riuscita a diventare effettivo
modello nazionale. I manuali di ortoepia, i trattati di fonetica, i dizionari e le scuola di dizione destinati
ai professionisti della parola (attori, annunciatori della radio e della televisione), hanno adottato una
varietà un po' artificiale che lo depura delle particolarità locali. Nello stesso tempo, l’addestramento
pratico in questo modello tenta di espungere qualsiasi inflessione dialettale, allo scopo di rendere
irriconoscibile la provenienza regionale del parlante. È difficile dire quanto questo modello abbia
influito sulle abitudini fonologiche degli italiani. Di fatto è accaduto che ha via via preso il sopravvento,
soprattutto al Nord, una pronuncia basata sulla grafia, che non attua le distinzioni non rappresentate
graficamente, e che non distingue tra le realizzazioni aperta e chiusa di e ed o, o tra le realizzazioni
sonora e sorda di s e z.
A questi movimenti si sono accompagnati movimenti di segno opposto. Parallelamente alla diminuzione
del raggio di uso e di influenza dei dialetti, si assiste oggi in tutti i livelli della lingua (fonologia, lessico,
morfosintassi) ad un movimento lento ma costante verso la standardizzazione dei tratti più locali, vale a
dire propriamente dialettali, o influenzati dal dialetto.
La de’ Paratesi sostiene una tesi secondo cui esiste un modello di pronuncia che si è storicamente
imposto in Italia. Tale modello è un modello toscano emendato dai tratti più tipicamente fiorentini e
assunto e reinterpretato al Nord-Ovest, da dove si va lentamente espandendo in tutta Italia, compresa la
Toscana. Secondo questa studiosa alla domanda “dov’è la più vicina approssimazione all’italiano
normativo?” bisognerebbe rispondere “senza ombra di dubbio a Milano”.
Questa tesi è stata molto discussa. Berruto, ad esempio, sostiene che il panorama attuale presso le classi
colte è quello della presenza di diversi accenti standard regionali ben consolidati e in equilibrio stabile.
È un modello piuttosto variegato definito neo-standard, che si ritrova nel parlato sorvegliato: di
questo Berruto traccia una breve lista di tratti fonologici che si sono imposti a livello nazionale unitario
nel senso di comprensibile a tutti e privo di tratti locali troppo marcati o troppo connotati, forse
esemplato sulla pronuncia dei ceti colti settentrionali, pronuncia che gode oggi di un prestigio maggiore
rispetto ad altre varietà.
Insomma, nel caso della pronuncia è difficile parlare di standard, e forse anche il neo-standard è più
una prospettiva che una realtà, anche se non mancano autorevoli tentativi di sistemazione come il
“Dizionario di pronuncia italiana” (DOP). Diversa la scelta di L. Canepari, che per il suo Dizionario
di pronuncia italiana propone per molte parole più di una pronuncia, quella definita “moderna”,
quella “tradizionale”, quella “accettata” o “accettabile”. Accanto a queste 3 varianti descrive e
registra altre varianti più periferiche: la pronuncia “tollerata”, quella “intenzionale”, quella
“aulica”, per un totale di ben 7 varietà di pronuncia.
Tutto quanto andrebbe ripetuto per la prosodia, vale a dire per l’accento, lo schema intonativo, la
quantità, il tono, che contribuiscono a definire il ritmo di una lingua. Tali fenomeni sono stati assai poco
studiati per l’italiano.
Prendere atto della varietà di realizzazioni delle diverse strutture intonative dell’italiano parlato, varietà
abbastanza facili da individuare anche semplicemente ad orecchio, abbastanza difficili da descrivere e
abbastanza tenaci da resistere a qualsiasi cambiamento.

Quale italiano nelle grammatiche italiane?


Quale italiano nelle grammatiche italiane? Tenteremo di rispondere a questa domanda limitando lo
sguardo ad alcune tra le più recenti opere grammaticali sull’italiano, che si possono definire
“grammatiche di riferimento” dell’italiano, nel senso che perseguono l’obiettivo di descrivere la
lingua italiana in tutte le sue forme e le sue strutture. Solo un’opera tra quelle che citeremo non è una
grammatica sistematica.
Si tratta in tutti i casi di grammatiche descrittive, non normative: ciò vuol dire che l’intento
comune non è quello di prescrivere la buona lingua, ma è quello di descrivere l’italiano così come
effettivamente viene usato dalla comunità: ma poiché l’italiano si articola in diverse varietà, la
domanda che ci siamo fatti non è banale, e la risposta non è scontata. Luca Serianni introduce la sua
grammatica rifiutando qualunque delimitazione.
Il modello d’italiano che è alla base della nostra trattazione è l’italiano comune: quello che chiunque
scrive e che non è solo scritto ma anche parlato dalle persone colte in circostanze non troppo informali.
Trovano spazio in questa grammatica sia i fenomeni dell’italiano standard, che corrispondono ai
tratti dell’italiano così come sono stati fissati e tramandati dalla tradizione grammaticale (la lingua
letteraria), sia i fenomeni dell’italiano neo-standard (la lingua comune), di cui si indicano volta
per volta gli ambiti d’uso prevalenti se non esclusivi: ad esempio per i pronomi personali soggetto di
terza persona si dice che la coppia egli/ella è in forte declino rispetto a lui/lei. Parla di una caratteristica
“funzione affettivo-intensiva dei pronomi atoni, in tutti i casi in cui si vuole sottolineare la
partecipazione del soggetto all’azione. Questo è molto esteso nell’italiano regionale del Centro e del
Mezzogiorno”. L’attenzione ai tratti del neo-standard è ancora più accentuata nell’ultima parte
dell’opera. Qui trovano posto molte questioni controverse. Tali questioni sono affrontate con equilibrio
e misura. Si affronta l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo/condizionale nel periodo ipotetico
dell’irrealtà (se lo sapevo, non venivo).
In un’altra grande grammatica di riferimento dell’italiano, curata da Renzi, Salvi e Cardinaletti, la
scelta del tipo di italiano che si intende descrivere è la grammatica generativa: la lingua che in
quest’opera è oggetto di descrizione è l’italiano che il parlante nativo naturalmente conosce e usa nella
molteplicità delle situazioni. La conseguenza di questa scelta è l’attenzione per una grande massa di dati
dell’italiano, vale a dire per tutti i fenomeni, dai più centrali (o non-marcati) ai più periferici (o
marcati), che fanno parte della competenza linguistica di questo parlante ideale. Esemplare in proposito
il capitolo sull’ordine degli elementi nella frase, in cui si ragiona contemporaneamente di ordini non
marcati (S+V+O: Giorgio compra i giornali) e dei molti ordini marcati che violano quest’ordine
canonico (i giornali li compra Giorgio, li compra Giorgio i giornali, è Giorgio che compra i giornali).
Anche qui il grammatico indicherà gli ambiti d’uso di questa o quella forma.
L’opera curata di Sobrero assume questa prospettiva in modo ancora più netto: essa si pone l’obiettivo
di presentare “un’istantanea della lingua italiana contemporanea, articolata in 2 pose, statica la
prima, dinamica la seconda”. La foto “statica” descrive i livelli d’analisi fondamentali della lingua;
la foto “dinamica” riprende come oggetto proprio le varietà e gli usi particolari: ad esempio i gerghi,
le lingue speciali, l’italiano degli stranieri. In entrambe le foto l’attenzione è puntata sui fenomeni più
rilevanti della lingua italiana contemporanea.
Siamo dunque di fronte ad un totale capovolgimento di prospettiva rispetto alle opere grammaticali
tradizionali: si guarda al presente cercando di intravvedere le direzioni del cambiamento a partire dalla
lingua parlata.
Di fondamentale importanza la grammatica di C. Schwarze, scritta inizialmente in tedesco, poi
tradotta in italiano (da A. Colombo) e completamente rivista nel 2009. Nell’Introduzione l’autore
dichiara subito il suo problema: “In presenza di una lingua come l’italiano, che ha una grande
molteplicità di varietà, il grammatico si trova sempre di fronte alla questione di come si debba
comportare nei loro confronti”. La sua soluzione è pragmatica, e cioè: grande spazio ai fenomeni
grammaticali che non variano, nell’ambito della lingua quotidiana non dialettale e della prosa
stilisticamente non sperimentale, cui si accompagnano osservazioni sui modi espressivi che sono di uso
limitato a una determinata varietà o tipici di essa. La base della descrizione è dunque un italiano che
potremmo definire medio, parlato e anche scritto ma non troppo connotato.
Anche la nuova grammatica di Prandi e De Santis parte da un’idea abbastanza originale e più volte
ribadita: “Una lingua contiene un nucleo di strutture rigide e non negoziabili, circondato da un ampio
repertorio di opzioni a disposizione del parlante”. Il nucleo rigido è costituito da “architetture formali”,
il repertorio delle scelte da “compiti funzionali”.
Ne consegue che ci sarà posto sia per i fatti strutturali, governati da regole che nessuno si sognerebbe
mai di violare volontariamente, sia per i domini concettuali che consentono una pluralità di opzioni
diverse, vale a dire tutti quei fatti sui quali si può operare una scelta (indicativo o congiuntivo? Egli o
lui? Maria magia la mela o la mela la mangia Maria?), e sui quali spesso l’insegnante di italiano è
particolarmente incerto.
Le grandi grammatiche di riferimento dell’italiano descrivono più o meno lo steso complicato oggetto,
vale a dire l’italiano che si parla e si scrive oggi in Italia, e che è il frutto di una lunga storia fatta di
prescrizioni di grammatici, di usi colti e popolari, di differenze regionali, di contaminazioni di ogni tipo.
È certo un fatto: nessuna delle grammatiche considerate esclude dalla trattazione i fenomeni del
cosiddetto italiano neo-standard, almeno di quelli più diffusi. Ciò significa che questi tratti sono da tutti
e a pieno titolo considerati parte della lingua.

Norma tradizionale e italiano scolastico


Quello della definizione di standard o norma, vale a dire del modello di lingua da assumere, è per
l’insegnante di italiano un punto davvero cruciale: si tratta di prendere la più impegnativa delle
decisioni, adottando il modello di lingua che è giusto prendere come riferimento, e dunque proporre
all’attenzione e all’addestramento pratico degli allievi.
Il tema dell’errore di lingua è molto connesso alla scelta della norma di riferimento: solo se sapremo
individuare con certezza un modello di lingua standard potremo decidere quali delle sequenze
linguistiche prodotte dai nostri allievi si adeguano a quel modello e quali invece se ne discostano.
Queste ultime sono dunque da considerare errore, da correggere e reprimere. Il tema della norma ha
un altro risvolto importante connesso con l’insegnamento grammaticale e con i manuali di grammatica
in uso nelle classi. Dal momento che ogni libro di grammatica descrive un certo sistema linguistico, ci
chiediamo: quale modello di lingua assumono in generale le grammatiche scolastiche, quale italiano
descrivono?
Seguiremo un percorso almeno in parte storico, ritornando indietro alle prime tappe del dibattito.
Partiremo da Berretta, che affronta a più riprese questo tema. L’autrice ricorda che uno degli obiettivi
fondamentali dell’insegnamento scolastico della lingua madre sia portare gli allievi ad esprimersi
correttamente in buon italiano. Nel 1977, questo buon italiano era la lingua della letteratura, dei buoni
autori. Dunque il modello di lingua proposto agli allievi era anacronistico e inadeguato alla maggior
parte delle reali situazioni comunicative.
Dunque di fronte a certi usi tipici del parlato (ad esempio l’uso di lui, lei come pronomi personali
soggetto, o di gli per “a lei” o “a loro”) la posizione della pedagogia linguistica tradizionale era di tipo
“puristico”.
Come scrive Marazzini “nella situazione italiana sono stati proprio gli scrittori a incidere sullo
sviluppo della lingua nazionale, fornendo gli elementi sui quali grammatici e teorici hanno poi stabilito
la norma”. E infatti quando nel XVI secolo si stabilì, per opera di Bembo, la norma dell’italiano, tale
norma si modellò sull’esempio dei grandi trecentisti toscani, senza i quali dunque l’italiano non avrebbe
potuto essere quello che è stato ed è ancora oggi”. Ed anche successivamente e fino al secolo XIX, tutta
la questione della lingua ha ruotato fondamentalmente attorno a modelli di carattere letterario.
Insomma, non esistendo ancora, in Italia, una norma di fatto, parlata e scritta, invalsa a livello sociale,
l’operazione messa in atto fu quella di scegliere aprioristicamente una forma e imporla. Le conseguenza
furono importanti e di lunga durata.
De Mauro individua “l’antiparlato”, modello tipicamente scolastico affermatosi nella scuola italiana
fin dai primi anni dell’unità. Esso si identifica con l’italiano scolastico, una varietà particolare di
lingua, adottato tipicamente a scuola, di cui ad esempio si documenta l’esistenza in una ricerca di
qualche anno più tardi. In questa ricerca 4 insegnanti sottoposero ad analizzare le correzioni apportate
da 4 loro colleghi a 247 elaborati scritti. La ricerca documenta la presenza di interventi correttivi
inutili (ora posso dormire tranquilla, corretto in: ora posso dormire tranquillamente) o addirittura
inaccettabili (non avrò da lamentarmi verso di loro, corretto in : non avrò da lamentarmi verso
loro), con proposte di aggiunte di alcune parole o di sintagmi non necessari (i miei non vogliono
che io vada a fare l’operaio, corretto in: i miei non vogliono che io vada a fare il mestiere dell’operaio),
o viceversa con la cancellazione di parole o sintagmi ritenuti superflui (lo si festeggia insieme ai
propri parenti, corretto in: lo si festeggia insieme ai parenti).
Vale la pena chiedersi a quale modello di lingua si ispirassero questi docenti. Più che di un modello
letterario si trattava di una versione impoverita e banalizzata di quel modello, di cui gli insegnanti
dimostravano un possesso malsicuro e incerto.
Il rifiuto dei linguisti nei confronti di questa norma scolastica è stato netto.
È tornato ad occuparsi di italiano scolastico M. A. Cortelazzo, che prova a delineare una storia di
questa varietà. Sulla base di un piccolo corpus d testi avanza l’ipotesi che tale varietà sia già scomparsa
agli inizi degli anni ‘80, e questo per il convergere di ragioni sociolinguistiche e di spinte didattiche, tra
le quali va certo annoverato il nuovo modo di intendere l’educazione linguistica. Alcuni studi recenti
confermano la persistenza di interventi correttivi inutili, che tendono ad elevare il tono medio della
lingua. Forse sono in numero minore, ma c’è ancora chi corregge andare con recarsi, ha con possiede,
notato con evidenziato, più con maggiormente.

Norma linguistica ed uso


Le discussioni sull’italiano scolastico ci riportano al problema della definizione della norma, del modello
di riferimento da adottare in classe. Sul primo punto è intervenuta la de’ Paratesi, con una serie di
puntualizzazioni preziose sui concetti di norma a priori e norma a posteriori. Sulla seconda questione
Serianni ha dedicato alcuni saggi specifici. Lui sostiene che è difficile parlare di norma in termini
astratti, prescindendo dalla reazione linguistica che, in una certa comunità di parlanti e in un dato
momento storico, è lecito aspettarsi.
La norma linguistica viene messa in rapporto non già con un modello letterario (i buoni autori), o
con un certo stadio storico della lingua, ma con l’uso che una certa comunità fa della lingua stessa.
Dunque la norma coincide con l’uso statisticamente prevalente, quell’uso che si adegua al comune
sentimento della lingua dei parlanti.
Dunque il grammatico dovrà certo descrivere la norma, ma ben sapendo che essa coincide con l’uso e a
questo egli dovrà sottomettersi, distinguendo però tra processi importanti e presumibilmente duraturi,
e mode passeggere di scarsa rilevanza, fenomeni linguistici di vita generalmente breve. Il grammatico sa
che la lingua esaminata in sincronia, vale a dire in un suo particolare momento storico, è governata da
leggi, vale a dire da norme, le quali sono generali ma non imperative.
Cambiamenti e trasformazioni sono non solo sempre possibili, ma naturali e inarrestabili. L’evoluzione
delle lingue è fatale; il tempo altera ogni cosa e non c’è ragione per cui la lingua sfugga a questa legge
universale. I cambiamenti linguistici non sono mai generali ed improvvisi, possono passare decenni,
secoli addirittura prima che una nuova forma o una nuova funzione si consolidino e si impongano
all’uso di milioni di persone. Sono i fatti di innovazione linguistica, i fenomeni di transizione, che
porranno, al grammatico e anche all’insegnante, i maggiori problemi.
Nel suo argomentare sulla norma dell’italiano contemporaneo, Serianni, individua e segnala agli
insegnanti di italiano due poli estremi, uno che definisce di “massima stabilità”, rappresentato
dall’ortografia, uno che definisce di “massima oscillazione”, rappresentato dalla pronuncia.
Per quanto riguarda il primo punto, egli ricorda come la norma dell’italiano si sia stabilizzata di
recente e che solo un secolo fa c’erano ancora molti dubbi in fatto di accenti, apostrofi, doppie. Serianni
elenca una serie di casi sui quali si registrano ancora dubbi: ad esempio l’uso della i in alcune parole di
origine latina, o nel plurale dei nomi in -cia, -gia, o nella I persona plurale di verbi come sogniamo,
bagniamo; l’uso di accenti e apostrofi; l’uso delle scempie e delle doppie in soprattutto, caffellatte;
l’uso delle maiuscole. La sua previsione però è che su questi casi marginali la pratica della videoscrittura
agirà da agente normalizzatore più potente della scuola (Word).
A contrario dell’ortografia, Serianni pensa che al polo opposto va collocata la pronuncia. È importante
ricordare che qualunque parlante, tranne i professionisti della parola (attori, doppiatori ecc) lascia
trasparire in modo più o meno forte la sua provenienza regionale, o almeno la macro-area geografica di
appartenenza.
Nonostante ci sia stata una spinta potente verso la normalizzazione, questa si è per lo più limitata
all’adozione di tratti meno marcati in senso regionale, soprattutto in conseguenza della minore
pressione dei dialetti sulla lingua comune. Ma il settore relativo alla pronuncia è il settore meno
normalizzato e quello più interessato a una forte differenziazione di tipo regionale, ed è il settore in cui
gli interventi correttivi sono meno sicuri e quindi meno frequenti.
Tra i due poli, di massima (ortografia) e minima (pronuncia) normalizzazione, si situano gli altri
livelli della lingua: la morfologia, la sintassi, il lessico. Sono questi i settori più problematici per un
insegnante. Per aiutarli Serianni presenta e discute alcuni criteri di giudizio.

Criteri normativi
Un primo criterio di giudizio è quello “razionalistico-logicizzante”. Secondo tale criterio una
forma come suicidarsi sarebbe illogica perché contenente un doppio riflessivo (sui- e -si). Ad usare il
criterio della logica dovremmo giudicare scorretta anche la doppia negazione (io non vedo niente
varrebbe io vedo qualcosa), e fu questo l’errore compiuto da qualche sociolinguista americano, che
giudicò la doppia negazione come una prova della scarsa propensione alla logica della popolazione di
colore. Accenna al problema il linguista e grammatico storico A. Castellani il quale definisce un
concetto della lingua del tutto sbagliato ma inconsciamente accolto da molti quello che fa preferire, ad
una frase come non viene nessuno una frase come non viene alcuno. Ancora più inaccettabile è per lo
stesso il fatto che qualche giornalista piemontese o lombardo arriva a scrivere c’è niente invece di non
c’è niente. Castellani attribuisce all’influenza inglese l’uso e l’abuso dell’aggettivo possessivo in contesti
in cui non sarebbe affatto necessario. La frase “trascorrete le vostre vacanze” un tempo si sarebbe detto
“trascorrete le vacanze”, non essendo possibile che qualcuno possa trascorrere le vacanze di un’altra
persona. Per documentare il peso e l’estensione del fenomeno riportiamo altri 2 quesiti interessanti.
Primo quesito: Dicendo “In casa di X ci sono dei bei quadri” non si raddoppia l’indicazione del
luogo, poiché ci significa lì?. Secondo quesito: Dire “Un gruppo di scolari uscivano da scuola” non è
più logico che dire “Un gruppo di scolari usciva da scuola?”.
Spiega la legittimità degli usi attestati dal lettore e mette in guardia anche dalle preoccupazioni
etimologiche.
Dunque né il criterio razionalistico-logicizzante, né il criterio etimologico sono da considerarsi
attendibili nella definizione della norma linguistica. Rimane da considerare il criterio letterario che
ha goduto per secoli di un’adesione incondizionata. Sarà dunque ancora la letteratura la bussola cui
fidarsi? No, non sono di questo parere né Serianni né la grandissima parte dei linguisti e dei grammatici
che si occupano di problemi di norma, anche se ricordiamo una voce discordante in materia, quella di A.
Castellani, che suggerisce agli insegnanti un criterio generali cui uniformarsi, anzi due. Consiglia a tutti
gli scolari di leggere molto, e agli alunni toscani consiglia che quando vengono in mente due modi
d’esprimersi, uno dei quali corrisponde all’uso familiare e l’altro all’uso prevalente in televisione e sui
giornali, scegliere sempre il primo.
Per Castellani il modello di lingua cui attenersi è di tipo letterario, sia pure limitato alla
contemporaneità. Accanto al critico letterario, però, viene suggerito anche un criterio dell’uso, valido
solo in riferimento alla varietà toscana dell’italiano. Serianni esprime molte perplessità sulla validità del
criterio letterario come fonte normativa: non solo non ritiene accettabile come modello normativo l’uso
letterario arcaico, ma neppure l’uso letterario contemporaneo.
È all’uso sociolinguisticamente più prestigioso che dobbiamo rifarci.
Serianni si affida a quella che chiama la “personale sensibilità” dell’insegnante, che saprà
addestrare i suoi allievi ai diversi registri richiesti dalle diverse situazioni comunicative. Se al livello
dell’ortografia, si può ben dire che la norma è una e certe, per la morfosintassi e per il lessico si deve più
spesso rispondere “si dice in più modi, ma in situazioni diverse e con intenzioni espressive distinte”. A
fa l’esempio del dimostrativo codesto, forma popolare solo in Toscana, inusitata altrove tranne che nel
linguaggio burocratico. Segue la discussione su alcuni casi controversi: l’imperfetto congiuntivo
con valore esortativo: se ci sono [i documenti] li tirassero fuori; l’omissione dell’avverbio
negativo in frasi in cui esista già un pronome negativo: fa niente; l’accusativo
preposizionale: a noi ci porti?.
Come considerare questi usi l’insegnante di italiano? Dovrà riconoscerli come errori, quindi come forme
da correggere, da reprimere? La risposta di Serianni è sempre in relazione alla situazione d’uso delle
forme incriminate e alla coscienza linguistica dei parlanti. Ma poiché tale “coscienza linguistica” è
frantumata per l’italiano in una miriade di varietà, non resta che prenderne atto, e indicare agli
insegnanti una bussola difficile da manovrare, ma l’unica possibile: sono per lui da considerare errori
quei fenomeni che contrassegnano un tipo di italiano colloquiale connotato geograficamente e
possono suscitare reazioni sfavorevoli in altre regioni: sono “errori, dunque, per la coscienza
linguistica di vasti gruppi di parlanti”.
Che cosa ciò significhi si può esemplificare sulle abitudini di pronuncia così diverse tra i parlanti: se è
vero che ciascuno di noi pronuncia i suoni dell’italiano con una più o meno forte coloritura regionale; e
se è vero che per comunicare con gli altri dobbiamo essere capiti dai nostri interlocutori; non essere
giudicati in modo negativo, ne consegue che in certe situazioni le pronunce più connotate in senso
regionale possono essere notate e giudicate negativamente dagli altri parlanti. Se abbiamo addestrato i
nostri allievi a riflettere sulla propria pronuncia, se li abbiamo educati alla tolleranza delle varietà,
abbiamo fatto il massimo consentito.
Dopo aver affermato che non è possibile indicare una sola norma da applicare in ogni circostanza,
Sobrero ricorda che ci sono realizzazioni normali di diverse varietà di lingua. E c’è una specie di super
norma che impone la scelta di una varietà o di un’altra, in relazione alle diverse variabili in gioco.
Come aveva già a suo tempo sostenuto Berretta pensa che la scuola non abbia bisogno di dedicare
particolari cure ed energie per insegnare ai ragazzi ciò che essi sanno già fare benissimo, essendo ormai
tutti in grado di usare un italiano colloquiale per parlare in famiglia o con altri coetanei. La scuola non
deve insegnar loro l’italiano informale, essa deve educare il ragazzo a un’importante varietà d’italiano
che non gli è familiare e che non è solo l’italiano dei monumenti letterari del passato. Educare alla
variabilità significa non accettare tutte le manifestazioni linguistiche degli allievi. Non è mancato
neppure chi, denunciando la scarsa conoscenza della lingua scritta formale da parte delle nuove
generazioni, ha addossato parte delle responsabilità di questa situazione proprio alle Dieci Tesi.
L’autore di queste accuse è M. Dardano, un linguista. È giusto interrogarsi sui risultati fin qui
ottenuti, ed è giusto chiedersi perché non sono stati quelli sperati, e se ad esempio la scarsa padronanza
delle varietà più formali anche da parte di giovani ad alta scolarizzazione sia da attribuirsi per intero alla
scuola, o a una sua componente, o a chi altro. La validità della proposta di Serianni: la scuola dovrà
addestrare al riconoscimento e all’uso di tutte le varietà in rapporto alle diversi situazioni
comunicative. Ciò significa che essendo le varietà più formali, parlate e scritte, quelle meno praticate
dai giovani fuori della scuola, è giusto che di queste ci si occupi in modo serio e fin dall’inizio del
processo formativo. È questa la via maestra che la nuova educazione linguistica ha indicato.

Norma e grammatiche scolastiche


Qual è l’atteggiamento prevalente nei manuali scolastici relativamente al problema della norma?
Domanda interessante che si posero Simone e Cadorna quando, nel 1970, decisero di analizzare un
campione di grammatiche in uso nella scuola dell’obbligo. Ritroviamo la stessa domanda in una ricerca
del 1997 condotta da G. Fiorentino, del gruppo GISCEL Campania, su una serie di testi ben diffusi a
livello nazionale, in uso nella scuola media inferiore e nel biennio superiore.
La norma adottata da queste grammatiche non tiene in nessun conto le ragioni di distribuzione statica,
vale a dire la frequenza delle realizzazioni di certe forme e strutture nell’italiano contemporaneo.
Le grammatiche studiate da Fiorentino danno un certo spazio al tema della varietà di lingua. Le parti
dedicate alla variabilità infatti si aggiungono al nucleo centrale della grammatica ma restano slegate tra
loro. Dunque il modello che pare sotteso a questa impostazione sembra il seguente: c’è una lingua, e ci
sono delle varietà, e le grammatiche descrivono l’una e le altre. Il risultato è spesso di una certa
confusione.
In una ricerca più mirata, tesa a verificare se nelle grammatiche scolastiche si faccia cenno ai 14 tratti
dell’italiano dell’uso medio indicati da Sabatini, Sgroi e collaboratori concludono che soli i tratti 2 (uso
della forma pronominale gli al posto di le, loro) e 9 (l’indicativo al posto del congiuntivo nelle
subordinate e nelle ipotetiche) sono presenti in tutti i testi esaminati.
Giunge alle stesse conclusioni Serianni, che esamina 29 manuali in uso nella scuola secondaria di I
grado e nel biennio delle superiori. Molti testi ignorano del tutto alcuni fenomeni tipici degli usi parlati
della lingua, come ad esempio l’imperfetto del periodo ipotetico dell’irrealtà e le dislocazioni.
La generale indifferenza al contesto comunicativo e la mancanza di sensibilità sociolinguistica hanno
una conseguenza abbastanza grave: il confine tra forme inaccettabili se non agrammaticali e forme di
registro colloquiale appare poco chiaro, e una sequenza come a me mi piace il gelato può essere
stigmatizzata al pari del ben più grave ci diremo noi la verità (al posto di gli/le diremo noi la
verità).
Dunque le grammatiche scolastiche continuano a descrivere e a proporre un modello di lingua che
corrisponde solo in parte all’italiano comune. Gli insegnanti continuano ad adottare testi poco
aggiornati.

4) La grammatica nell’educazione linguistica.

La grammatica sotto accusa.


I primi furono Raffaele Simone e Giorgio Cardona che nel 1971 hanno passato in rassegna i diversi livelli
dell’analisi linguistica (fonologia, morfologia, sintassi, lessico) e per ognuno hanno elencato le
inadeguatezze, le semplificazioni. Tutto nel loro saggio suonava come una critica alle grammatiche
tradizionali.
Furono due le accuse verso il modo di fare grammatica in classe:
1) L’inaffidabilità scientifica dei contenuti proposti
2) L’inefficacia rispetto agli obiettivi che si credeva di poter raggiungere.
Primi ad essere criticati furono i contenuti grammaticali, le distinzioni e le definizioni adottate.
Il tutto è riconducibile alle convinzioni teoriche degli insegnanti che Monica Berretta riassume in:
• L’italiano è un sistema perfettamente unitario, con un lessico, morfologia, sintassi.
• Tale sistema dell’italiano è basato sul toscano, fiorentino colto.
• I dialetti “italiani” sono degenerazioni della lingua, vanno aboliti.
• Tutte le deviazioni dal canone prestabilito, dai neologismi sono degli abusi.
Mentre dunque si distingueva tra suono e lettera, si davano indicazioni sulla “retta pronuncia”.
Nell’approccio tradizionale, era assente l’attenzione di tipo contrastiva, ossia di confronto tra sistemi
linguistici non solo con lingue straniere ma anche in rapporto ai dialetti.
La conseguenza di questa assenza di qualsiasi attenzione circa lo spessore sociale dei fenomeni
linguistici non può che non essere quella denunciata da Pier Marco Bertinetto, quel “carattere
prescrittivo” che avevano quasi tutte le grammatiche.
Tra le scelte più insistite della sistemazione grammaticale scolastica rientravano la morfologia e la
sintassi, ambiti in cui viene denunciato negli anni sessanta, un grande disordine.
L’addestramento grammaticale degli allievi aveva il fulcro nel riconoscimento delle diverse categorie di
cui si compone la lingua. Quest’insieme di pratiche grammaticali sono quelle a cui ci si riferisce quando
si parla di grammatica tradizionale.
Non costituiscono però un modello teorico coerente. Visto con gli occhi della linguistica italiana degli
anni sessanta, il modello tradizionale pare irrecuperabile.
Alcuni dei difetti che furono denunciati:
1) Nell’identificazione delle categorie sia morfologiche che sintattiche vengono proposti criteri
diversi, tra loro non coerenti:
§ Il criterio formale che divide le categorie sulla base della loro variabilità o
invariabilità morfologica.
§ Il criterio nozionale-semantico che si sforza di trovare un contenuto semantico
comune a tutte le parole appartenenti ad una stessa categoria.
§ Il criterio distribuzionale indica il posto occupato da una certa categoria
§ Il criterio funzionale indica ciò che serve ad una certa categoria.

La critica si è accanita maggiormente contro il criterio nozionale-semantico, il


preferito delle grammatiche tradizionali

2) Alcune nozioni e distinzioni grammaticali considerate universali, hanno realizzazioni


diversissime da lingua a lingua, non confrontabili. È stata dunque notata l’assenza di
universalità delle categorie proposte.
3) Il criterio nozionale-semantico può portare ad una inutile proliferazione di categorie e
sottocategorie moltiplicabili all’infinito.
4) Il tenace attaccamento al modello tradizionale è stato in buona parte determinato dalla
presenza del latino.
5) Tra i buchi più vistosi del modello tradizionale, sono stati notati l’assenza di considerazione
particolare per il lessico, l’assenza della distinzione tra complementi necessari o secondari,
distinzione introdotta dal modello valenziale.

Le conclusioni sono scontate, le basi teoriche della grammatica tradizionali, sono fragili, più deboli sono
le sovrastrutture ideate dai grammatici per spiegare le peculiarità dell’italiano.
Altra accusa mossa fu l’incapacità della grammatica tradizionale a garantire a tutti gli allievi, anche
quelli provenienti da classi sociali inferiori, il possesso della lingua e il suo uso corretto. Molti furono
d’accordo, Berretta, Parisi, Renzi ma meno categorica fu Maria Luisa Altieri Biagi che dopo aver detto
che “a comunicare si impara comunicando”, aggiunge: “oggi è ancora vegeta l’interpretazione della
grammatica come mezzo per raggiungere correttezza e abilità di esecuzione.”
Sulla stessa linea, Monica Berretta, tenta di suggerire ambiti in cui è possibile intervenire, attraverso la
grammatica, per migliorare le prestazioni linguistiche degli alunni.

Dal rifiuto alla grammatica, alla ricerca di altre grammatiche.


Molti insegnanti, impreparati a sostituire lo strumento grammaticale tradizionale, con uno innovativo,
preferirono rinunciare. Ci fu un processo parziale, di “messa in soffitta della grammatica” che fu la
conseguenza del ripensamento della validità del modello tradizionale cui si accompagnò la ricerca di un
qualche nuovo modello da adottare. Raffaele Simone contribuì a demolire alcuni secolari certezze del
sapere grammaticale degli insegnanti, si pose il problema di un modello da contrapporre al modello
analitico della gramm. tradizionale.
Seguivano tutte uno schema dato: partono da un corpus di frasi date per corrette e procedono a
spezzettarle, questo è il nome, questo è il verbo, ecco il soggetto ecc… forniscono al bambino che cresce
linguisticamente un casellario estremamente complesso. Il problema dell’ampliamento della
competenza dell’utente linguistico resta fuori del suo campo.
A questo modello Simone preferisce un modello sintetico o generativo definito come “il modello che
parte da un insieme finito di entità iniziali e tramite una serie di operazioni date, produce tutte le entità
terminali, facenti parte della lingua data.
Simone approda ad una soluzione, adottare un orientamento implicito.
Insegnare dunque una lingua con tecniche implicite significa presentare al ragazzo non un corpus di
materiale linguistico e un sistema di nozioni mediante cui ripartirlo in classi, ma presentare soltanto dei
materiali linguistici rinunciando a tutto l’apparato nozionale usuale. Simone preferiva si rinunciasse alla
grammatica a favore di un’esposizione ricca e controllata della lingua. Che Simone non fosse soddisfatto
della soluzione cui era pervenuto, si vede dall’insistenza con cui continuò a riflettere su questi temi, e
dalla decisione di mettere mano lui stesso ad un testo di grammatica. Ci sono però due equivoci che
sottendono a tutto il suo ragionamento e in parte lo inficiano.
1) Il primo nasce dalla convinzione che esiste/esisteva di un modello grammaticale, il modello
generativo, che poteva aspirare a prendere il posto del modello tradizionale essendo finalizzato
a predire le possibilità nuove, corrette della lingua, dunque secondo Simone più adatto ad
incoraggiare le possibilità produttive e creative di chi apprende. In realtà però, la ricerca sul
modello generativo, ha chiarito come questo modello ha intenti teorici poco compatibili con
l’interpretazione applicativa che ne dava Simone.
2) Secondo equivoco, legato al primo. L’idea che comunque possa esistere un modello
grammaticale più adatto rispetto ad altri e che compito del linguista sia ricercare questo
modello, mentre compito del didatta sarà tradurre il modello in pratica didattica. Traspare
chiara l’idea che l’insegnamento grammaticale non altro debba aspirare che a sviluppare la
lingua.
Simone provò a tradurre le sue idee in un libro “Libro di Italiano”. Voleva chiudere con la tradizione
delle torture scolastiche basate sulla grammatica e pensava che per ottenere questo risultato
occorressero alcune categorie concettuali nuove. Pensava non si dovesse torturare l’infanzia con
regolette da imparare. Il suo tentativo fu cercare dei contenuti e un metodo in grado di innescare la
crescita linguistica.
Chi non ebbe mai dubbi sulla necessità di “fare grammatica” nella scuola sarà Monica Berretta. La
sua attenzione è su modelli grammaticali che si erano all’epoca imposti nel panorama linguistico
internazionale per cercare un’alternativa plausibile al modello tradizionale.
Descritto il modello, presentati e discussi i nodi centrali, punti di forza e debolezza, ne studia le
possibili applicazioni in sede didattica. Quadro stimolante ma fortemente problematico, richiama gli
insegnanti al dovere di “fare attenzione”. La preoccupazione della studiosa, di fronte al dilagare
nella scuola di libri di testo che si ispiravano ad alcuni dei modelli grammaticali proposti dai teorici
che proponevano nuove prospettive senza che fosse stato indagato il rapporto tra i modelli teorici
cui si ispiravano e le applicazioni didattiche che ne venivano tratte.
Alcune delle idee della Berretta influenzarono il dibattito successivo, ad esempio l’idea che una
grammatica didattica debba essere di superficie (spiegare direttamente le frasi della lingua così
come appaiono), senza pretendere di derivare sistematicamente le strutture di superficie da fatti
“profondi”, da quelle strutture profonde che alcuni modelli supponevano comuni alle lingue.
Questo porta a rifiutare la proposta chomskyana e quella di Domenico Parisi e dei collaboratori di
Roma. Il gruppo romano si è fatto promotore di una prospettiva teorica e di un programma di
interventi didattici molto articolato. Puntavano a soddisfare entrambe le condizioni necessarie a
rinnovare l’insegnamento linguistico in Italia.
1) La prima: è che vi sia una ricerca scientifica adeguata che elabori modelli sistematici e coerenti e
strumenti capaci di cogliere i meccanismi del linguaggio nella loro complessità
2) La seconda: è che questa ricerca si misuri con i problemi reali della pedagogia linguistica.
Solo se queste.due condizioni saranno soddisfatte sarà possibile drealizzare una pedagogia
linguistica razionale, ossia jn apedagogia in cui l’insegnante conosce scientificamente la reale natura
delle aiità che vuole far crescere nei rsagazzi.
Ci saranno poiuna seerie di riflessioni sull’insegnamento dell’italianoe indicazioni didattiche molto
articolate; attività di riflessione grammaticale con l’obiettivo di condurre gli allievi a scoprire la natura
scopistica del linguaggio.
Laproposta di Parisi si distingue per il suo carattere organi di un modello teorico che aspira a sostituire
il modello tradizionale.
Al contrario il lingusta padovano Lorenzo Renzi conduce la stessa ricerca, in parte, di Berretta e
approda a conclusioni ismili.
Suggerisce egli stesso una soluzione, lanciandouna proposta cui diede il nome di “grammatica
ragionevole per l’insegnamento”. Questa proposta ebbe un ruolo chiarificante e rassicurante. Si
pronunciò in suo favoread esempio Adriano Colombo che si spinse fino al punto di proporre un
itinerario didattico ad essa ispirata. Oggi pensiamo che la èproposta di renzi sia stata ua delle vincenti
grazie anche alla forte dose di realismo che la ispirava.
Egli afferma che la miglior base di un insegnamneto grammatoicale sia ancora la gramatica tradizionale
maliberata daalle sue contraddizioni e aperta agli apporti della riflessione e del lavoro linguistic. La
grammati tradizionle fornisce la base. Sefue poi una rassegna di alcuni “nodi” della grammatica
tradizionale: iol soggetto, complementi, parti del discorso.
Perogni categoria e per ogni struttura Renzi discute in toni pacati le modalità tradizionali di
presentazione. Ne individua i punti deboli e le incongruenze. A dfferenzza di alcune proposte lanciate
dal dibattito grammaticale di quegli anni renzi non disdegna l’integrazione con altri modelli ed atre
tradizioni tutte le volte che dei “risultati acquisiti” vae a dire comunemente accettati dalla comunità
scientifica sembrin outiliall’insegnamneto.
Proposta alternativa venne da Raffaele Simone. Si convinse della necessità di adottare
nell’insegnamento almeno alcuni dei concetti e dei suggerimenti della grammatica nozionale. Le
grammatiche nozionali partono dalla identificazione di alcune nozioni, identificano le categorie o le
funzioni sintattiche che le realizzano I una lingua, descrivono le forme superficiali che tali categorie
assumono. Percorso opposto alle grammatiche formali le quali partono dalla superficie della lingua, da
ciò che si vede o sente e solo in un secondo tempo le grammatiche formali identificano le funzioni che le
categorie assolvono. Ad esempio una grammatica nozionale identifica una modalità attenuativi o di
cortesia per esprimere richieste, una gramm. formale identifica le forme attraverso cui si realizza il
modo condizionale, le forme regolari, irregolari. Ragioni che spiegano l’interesse per le grammatiche
nozionali sono varie. È intuitivo che un modello nozionale si presta meno di un modello formale alle
categorizzazioni rigide in schemi, favorisce il confronto fr ale lingue suggerendo un comune quadro
teorico agli insegnanti di lingua materna e lingue seconde.
La facile adattabilità a lingue diverse è ciò che ha dato al modello nozionale, successo, soprattutto
nell’insegnamento della lingua seconda. È stato infatti adottato dal Consiglio D’Europa come comune
quadro teorico per la stesura dei sillabò di varie lingue.
Non ha avuto lo stesso successo nel l’insegnamento della lingua materna per alcuni motivi. Primo, idea
della Berretta, che una grammatica per la scuola debba essere una grammatica di superficie. Dovrebbe
essere il cammino inverso rispetto a quello previsto da modello nozionale. Altra ragione del mancato
success ova ricercato nell’impalcatura teorica, quasi sempre formale, delle grandi grammatiche di
riferimento dell’italiano. Grammatiche che accolgono la tematica funzionale. Le grammatiche di
riferimento dell’italiano hanno colmato la grave lacuna esistente negli studi sull’italiano all’epoca in cui
aveva luogo il dibattito.
Anni 70/80 furono molti a denunciare l’assenza di un repertorio attendibile di dati sull’italiano, di una
grammatica scientifica cui fare riferimento.
Un altro modello grammaticale, il cosiddetto modello valenziale, possiede le caratteristiche di
semplicità e di potenza descrittiva necessarie ad un modello da adottare per l’insegnamento. Se ne è
fatto paladino in Italia, Francesco Sabatini.
Sistemazione organica si deve al linguista francese Lucièn Tesniere è una sua applicazione al lessico
verbale dell’italiano ai fini descrittivi e didattici si deve a Cordin, Lo Duca, Sabatini, De Santis (…).
Tale modello ha un suo punto di forza nella definizione della struttura della frase semplice, vista come la
proiezione linguistica di un predicato-verbo. Ogni verbo infatti possiede, in base alla scena che evoca,
delle “valenze”, (o argomenti) che devono essere “saturate” nelle frasi, attraverso degli elementi
obbligatori. Altri verbi richiedono più elementi 2/3/4 altri zero o uno.
Rispetto al modello nozionale, quello valenziale, è il miglior candidato ad un’assunzione generalizzata
nell’insegnamento. Si presta ad integrare il modello tradizionale, intervenendo solo su un livello di
analisi, quello della frase.
Ad esempio si può continuare a parlare di “soggetto” come dell’argomento che concorda con il
predicato e riflettere sui complementi in relazione al fatto se essi siano necessari alla realizzazione
dell’evento. In più però si riesce a capire perché non tutte le frasi semplici hanno la stessa struttura,
perché uno stesso verbo che esibisce significati diversi, si realizzi poi in strutture diverse. Questo
modello elimina molte inutili tassonomie. In secondo luogo lavora poi il modello valenziale in
superficie etichettando i sintagmi e le parole in base alle categorie di appartenenza. risponde a quei
requisiti di chiara visibilità e riconoscibilità che deve avere un modello Grammaticale.

Le nuove frontiere della grammatica nell'insegnamento.

Negli anni 70/80 è la confusione a dominare il campo. Tullio de Mauro ricorda: “cominciavano a
circolare nelle scuole grammatiche strutturaliste grammatiche generativiste e grammatiche
semanticiste.”
Spesso questi sforzi di rinnovamento si arrestarono a metà timorosi delle reazioni di un corpo
insegnante impreparato alle novità grammaticali gli autori delle nuove grammatiche adottavano
approcci misti la stessa confusione veniva denuncia da Renzi. Per reagire a questa tendenza si
accinsero, molti linguisti, a scrivere delle grammatiche o dei libri di educazione linguistica, destinati
alla scuola media, il biennio delle superiori e anche alle elementari. Alcuni dei testi che videro la
luce negli anni 80 sono stati più volte revisionati o parzialmente riscritti per ordini diversi di scuola
spesso con l'ausilio di docenti impegnati nelle scuole.
Alcuni seguirono con passione le indicazioni della linguistica italiana che si interrogarono con
molta sincerità sul da farsi. Possiamo dire che è stato proprio da quella iniziale confusione teorica e
terminologica che sono emerse le idee vincenti e si è col tempo costituita una nuova consapevolezza
da cui partire.

Grammatica tradizionale e altre grammatiche.

la proposta di Renzi anticipa un atteggiamento eclettico. Si è fatta strada col tempo l'idea che molte
delle categorie e delle sistemazioni del modello tradizionale vadano proposte nella scuola accanto
ad altre categorie e livelli di analisi poco praticati tradizionalmente ma non necessariamente in
conflitto con le prime.
Berretta suggerisce di non limitarsi nella scuola di base ai livelli tradizionali ma di aggredire altri
settori dell'analisi linguistica.
Il saggio della Berretta riguarda la competenza metalinguistica nella scuola di base non vi sono
contemplate esigenze di sistematicità e formalità troppo spinte. La terminologia adoperata
competenza metalinguistica che vuole esplicitamente fa riferimento a un ventaglio ampio di
fenomeni relativi al linguaggio umano. ciò che è Beretta chiama competenza metalinguistica altri
chiamano riflessioni sulla lingua. anche Francesco Sabatini dà una definizione dell'espressione:
Afferma che con questa espressione riflessione sulla lingua si indica un campo di indagini e
conoscenze molto composite dove si possono distinguere quattro ambiti:
• le conoscenze relative alla pura trasposizione della lingua dal mezzo fonico al mezzo
grafico.
• le conoscenze relative agli aspetti pragmatici della comunicazione riguardanti la situazione
in cui si comunica e le funzioni del messaggio
• le conoscenze relative alla struttura generale della lingua. fonologia morfologia lessico
ecc…
• Le conoscenze relative ai rapporti tra le vicende storiche sociali culturali e la lingua.

Rivisitato dunque il concetto di riflessione grammaticale diventato riflessione sulla lingua impone
allargamento degli orizzonti grammaticali tradizionali e una risposta più articolata al vecchio
quesito sulle finalità di una considerazione scolastica dall'aspetto forma della lingua.
il superamento della visione grammaticale tradizionale limitata la considerazione esclusiva dei fatti
morfosintattici dell'italiano, Ha avuto la conseguenza di risolvere il problema della ricerca di un
unico modello teorico di riferimento. come dice Colombo: “l'insieme dei fenomeni linguistici e un
oggetto di studio troppo complesso per essere esaurito da un solo approccio descrittivo.”
La riflessione sulla lingua così intesa ha avuto una conseguenza pratica tangibile nella dimensione
dei libri di testo destinati alle scuole. I contenuti dei manuali vengono definiti come la realizzazione
del programma di Renzi e delle 10 tesi contemporaneamente: una rivisitazione e un ampliamento
dello strumento grammaticale tradizionale alla luce delle nuove acquisizioni della linguistica e della
grammatica descrittiva.
l'ampliamento dei confini tradizionali ha modificato la risposta al vecchio quesito relativo agli
obiettivi che realistico tentare di perseguire raggiungere attraverso questo tipo di insegnamento.
Negli anni 70 la risposta era stata univoca: posto che la nuova educazione linguistica dovesse porsi
come obiettivo lo sviluppo delle competenze d'uso della lingua molti dovettero ammettere che la
riflessione formale all'epoca concepita come analisi morfologica non contribuiva al raggiungimento
di questo obiettivo. Mutato però il quadro di riferimento teorico e divenuta la riflessione
grammaticale riflessione sulla lingua le risposte all antico quesito mutano.
Francesco Sabatini individua tre ordini di obiettivi che giustificano un nutrito programma di
riflessione sulla lingua:
• lo sviluppo delle capacità linguistiche
• il potenziamento della formazione culturale
• lo sviluppo cognitivo.
sul primo obiettivo Sabatini continua a mostrare perplessità. Ammette che la prospettiva testuale
potrebbe dare qualche risultato. Sul secondo punto, obiettossia quello della formazione culturale, .
Non c'è chi non vede che ogni lingua quale strumento di una comunità debba adattarsi ad esprimere
tutte le esigenze di comunicazione le varietà linguistiche sono il risultato della molteplicità delle
relazioni umane dell oggi. aiutare i giovani a leggere loro presente loro passato attraverso la lingua
significa aiutarli a diventare membri pensanti della comunità nazionale. il terzo obiettivo è invece
quello della crescita cognitiva e già stato individuato da alcuni interventi negli anni 70 come quello
di Maria Luisa Altieri Biagi.
sua idea è che la riflessione della lingua posso svolgere un ruolo importante nel migliorare le abilità
cognitive di base attivando capacità mentali che sono alla base dei processi di più un siero più
maturi. Ciò è possibile solo a condizione di adottare una metodologia corretta.
Sono in molti oggi a condividere questa impostazione ad esempio Raffaele Simone il quale insiste
sulla necessità di aiutare i ragazzi a pensare.
La scuola dovrebbe essere la scuola della mente della conoscenza e la mente la conoscenza si
esercitano non a vuoto ma su specifiche forme di sapere e dunque sulla grammatica.
Hai tre obiettivi indicati da Sabatini nei raggiunto un quarto su cui hanno richiamato l'attenzione in
molti.
Consiste. nel fatto che la riflessione sulla lingua materna fornisce gli allievi un bagaglio di
conoscenze di tecniche di analisi spendibili in qualsiasi nuovo apprendimento linguistico.
Prandi e De Santis nel presentare la loro grammatica, Sottolineano il valore insostituibile che è
un'analisi approfondita della lingua madre e un punto di partenza obbligatorio. e insomma solo la
riflessione sulla lingua materna che può fornire il supporto concettuale utile e indispensabile
all'apprendimento di altre lingue.

Il dibattito attuale: punti fermi e nodi irrisolti.

Colombo facendo un po il bilancio del dibattito sull'educazione linguistica scrive che il vero punto
debole resta la riflessione della lingua e ricorda come l'unico ambito in cui sia stata vera e profonda
innovazione, sia quello della riflessione sugli aspetti testuali e comunicativi, mentre il nocciolo duro
della grammatica resta ancorato ai manuali.
stenta ad affermarsi l'idea che il lavoro sulla grammatica possa e debba essere attività intelligente.
una volta uscita un'opera grammaticale innovativa ha bisogno di molto tempo per entrare in circolo
e diventare bagaglio comune possono passare anni forse decenni prima che ciò avvenga anche
perché le opere grammaticali contengono sempre dosi consistenti di sapere tecnico la cui
assunzione non è mai facilissima.
Per occuparsi anche di altre questioni forse più legati alla pratica didattica si può parlare del
problema del curriculo che riguarda tutta l'educazione linguistica. si tratta in poche parole di
definire come distribuire conoscenze competenze e abilità tra gli obiettivi propri dei tre livelli in cui
la riflessione è praticata scuola elementare media e biennio superiore. e noto che la situazione
attuale da questo punto di vista è molto insoddisfacente si cercava un modo di evitare ripetizioni e
sprechi.
lo studioso Colombo ritorna su questi stessi temi suggerendo un curriculo plausibile che punta ad
evitare la pratica nefasta della ripetizione ciclica degli stessi argomenti.
gli argomenti sono gli stessi presentati nella medesima sequenza in ogni ciclo si fa più o meno tutto
e si ricomincia da capo nel ciclo successivo il risultato è l'ignoranza grammaticale generalizzata per
aver successo qualsiasi programma di insegnamento deve essere fondato su un curriculum ben
motivato ciò vale anche per l'insegnamento grammaticale.
per quanto riguarda il primo punto Simone suggerisce un primo criterio ossia, non insegnare ciò che
il ragazzo già sa. Secondo Altieri Biagi invece una grammatica nella scuola media dell’obbligo non
dovrebbe insegnare nulla che il ragazzo già non sappia, dovrebbe portare a galla il già saputo.
Questa seconda tesi trova oggi il maggior consenso soprattutto da parte di chi pensa che un
programma di riflessione sulla lingua deve essere impostato come un processo guidato di scoperta
da parte dell'allievo. Si tratta di aiutarlo a sollevare a livello di consapevolezza esplicita, quel sapere
grammaticale inconsapevole.
Aggiungiamo anche che forse gli insegnanti possono permettersi di aggirare il problema visto che la
selezione e la progressione dei contenuti sono indicate a grandi linee dallo stato.
Si ricordi che lo sviluppo linguistico del bambino è strettamente correlato al suo sviluppo cognitivo.
Questo significa che l’attività può anticipare di poco i risultati di questo sviluppo. Se il bambino
non è pronto a recepire una certa forma e a individuarne la relativa funzione non c’è strategia
didattica che possa arginare questo ostacolo.
Certi fatti di lingua troppo precocemente presentati si fissano in maniera indelebile nella testa dei
bambini e arrivano a bloccare la possibilità di un successivo ripensamento critico. La maggiore o
minore separatezza delle ore di grammatica, il rapporto fra la riflessione e la pratica concreta dei
testi ecc…
Francesco Sabatini non ha dubbi sul fatto che la riflessione vada fatta in momenti appositamente
programmati. Maria Luisa Altieri Biagi insiste sull’importanza di una riflessione che parta dai testi
e ne evidenzi le caratteristiche strutturali e lessicali.
Secondo la studiosa, solo questo tipo di approfondimento mette tutti in grado di capire il testo. È
un’impostazione che sembra preferire una riflessione legata alla pratica testuale. In realtà nei
percorsi suggeriti da Maria Luisa il testo è un mero pretesto, diventa la fonte originaria che fa
sorgere una o più domande. Rispetto ad una riflessione “astratta” la riflessione sui testi avrebbe il
vantaggio di essere più redditizia.
Altra questione riguarda il “quando” iniziare e il “quando” finire un programma di riflessione della
lingua. Colombo parte dagli ultimi anni del livello elementare, pur dichiarando di non possedere
elementi per dire che effettivamente che quell’età sia la più adatta.
Anche Veronica Ujcich nel presentare i suoi percorsi didattici per l’uso dei verbi nella scuola
primaria, parte dalla terza classe. Le attività di riflessione sulla lingua proposte sa Roberto Morgese
sono sempre molto concrete (prevedono scatole, cartoncini, giornali) e partono fin dal primo anno
di scuola elementare. Analogamente un gruppo di maestre di Bolzano propone un sillabò
grammaticale che parte dalla prima classe elem. e lega le prime osservazioni sulle forme della
lingua alle prime esperienze di scrittura. Queste diverse esperienze sono concordi sulla opportunità
e possibilità di una partenza precoce di un programma di riflessione grammaticale. Sostenuto questo
già da Monica Berretta segnalava infatti la comparsa di capacità di riflettere sulla lingua nel
bambino già a partire dai due anni. Rivelandosi tale capacità nelle molte domande il bambino fa.
L’attività metalinguistica è un fatto del tutto naturale e la scuola non dovrebbe fare altro che
continuare a mantenere vivo questo interesse. Non certo con l’imposizione precoce. La Beretta fa
molti esempi di attività metalinguistiche che coinvolgono direttamente il bambino (ricerche degli
usi della lingua nel quartiere, riflessione sul dialetto dei nonni).
Le attività proposte non prefigurano a volte una riflessione sistematica e organica ma mirano a
sollecitare curiosità. L’idea di Francesco Sabatini è che il programma di riflessione sulla lingua
debba coinvolgere in modo stabile e forte tutte le fasce scolari (anche superiori).
I motivi sono due.
• Certi fenomeni linguistici non sono disponibili alla comprensione degli allievi se non a
livelli avanzati.
• Seconda ottima per continuare la grammatica al liceo è che questo periodo può essere usato
per fissare e revisionare tutto il sapere grammaticale accumulato.

5. La dimensione testuale.
Uno dei filoni di ricerca più interessanti dell’educazione linguistica risulta dall’incontro fra la
critica alle forme tradizionali di addestramento nelle quattro abilità canoniche (parlare, ascoltare,
leggere e scrivere) e la cosiddetta linguistica del testo (che nasce in Germania negli anni 70). È
stato sicuramente un incontro molto produttivo, una vocazione testuale è sempre stata presente nella
scuola. Da sempre gli insegnati sono abituato a confrontarsi con i “testi”.
Questo è stato il primo contributo della linguistica del testo alla didattica delle lingue.
L’ampliamento del concetto di testo a qualunque messaggio dotato di senso è autosufficiente, scritto
o orale, formale o informale, ha fatto sì che possano essere considerati testi anche una poesia o un
notiziario o una conversazione tra amici.
Un altro filone della linguistica testuale ha studiato alcune regolarità di comportamento, di tipo
grammaticale e semantico che interessano tutti i tipi di testo. Sono i fatti costituiscono la “tessitura”
testuale. La linguistica testuale a differenza dei tanti modelli grammaticali, parte dall’assunto che
sia il “testo” a costruire il dominio della grammatica e non la frase.

Coesione e grammatica:

coesione è l’insieme dei meccanismi grammaticali dei quali ci serviamo per collegare assieme le
varie parti di cui un testo si compone. Tali meccanismi sono realizzati linguisticamente e sono
facilmente rintracciabili.
L’anafora.

È uno dei principali mezzi che le lingue hanno a disposizione per “legare” assieme porzioni di testo.
La grammatica del testo chiama antecedente la prima menzione di un individuo/oggetto in un resto;
ripresa amatori a la seconda menzione e tutte le successive.
Anafora quindi è quel meccanismo linguistico che instaura una relazione fra due o più elementi del
testo. Se gli elementi di richiamo sono più di uno si parla di ripresa anaforica nella quale vengono
segnalati anche casi di Ellissi o di anafora zero. Nel caso dell’Ellissi, l’assenza è apparente.
La linguistica del testo ha studiato e descritto i diversi tipo di ripresa anaforica che i parlanti hanno
a disposizione nelle lingue.
• Sintagma nominale definito espresso dalla semplice ripetizione dell’antecedente
• Sintagma nominale definito espresso da un sinonimo, un sovraordinato, un nome generale,
una perifrasi, un sinonimo testuale.
• Pronomi tonici e atoni.
• Ellissi
• Anafora zero in cui manca anche la marca di accordo sul verbo.
Vale la pena notare come tutte le riprese di tipo lessicale sono costituite da sintagmi definiti, mentre
l’antecedente è spesso introdotto dall’articolo indefinito. L’articolo indeterminativo è un segnalatore
di presunta novità. Una volta introdotto il “gatto” se si vuole continuare a parlare di lui si mette
l’articolo determinativo, se si vuole parlare di un altro gatto quello indeterminativo.
Tra antecedente e ripresa anaforica si instaura un rapporto di coreferenza. Capire l’esistenza di tale
rapporto è fondamentale.
Sono state descritte dalla letteratura anche altre forme di anafora in cui tra antecedente e ripresa non
si instaura un rapporto di coreferenza:
• Il cosiddetto incapsulatore anaforico con antecedente frasale in cui la ripresa è una specie di
“capsula”, un nome astratto che riassume o racchiude una certa porzione di testo precedente.
• L’anafora associativa in cui le diverse riprese anaforiche non rimandano allo stesso referente
dell’antecedente, ma introducono nel testo nuovi referenti.
Il nucleo centrale delle riflessioni fatte dai grammatici del testo sull’anafora è un principio
funzionale di correlazione fra tipo di antecedente e di ripresa.
Le condizioni che regolano il meccanismo anaforico sono in realtà più complesse di come le
abbiamo presentate. Un’’attenta considerazione consentirà all’insegnate di valutare e soppesare il
grado di difficoltà dei testi proposti dall’insegnate. Lo stesso ragionamento si potrebbe ripetere con
i sinonimi difficili da decodificare o per gli incapsulatori e per i sinonimi testuali. Simile all’anafora
è la catafora, ossia, quel meccanismo relazionale che richiama, anticipando, quanto verrà introdotto
più avanti nel testo. Anche la catafora può presentarsi sotto varie forme, essere quindi espressa da
perifrasi, pronomi sinonimi ecc…
Può provocare un interessante effetto psicologico, quello di sollecitare la curiosità del destinatario.
Il meccanismo della catafora diventa espediente letterario, consentendo di presentare e svelare per
gradi il suo personaggio.

I CONNETTIVI:
sono elementi di connessione, nel senso che “collegano fra loro parti di testo.
La definizione della Berretta introduce una destinazione tra i connettivi semantici che collegano
elementi contenutistici in quanto tali, e i connettivi testuali che non collegano dei fatti ma parti di
testo in quanto unità di discorso.
Tra i connettivi semantici possono rientrare i connettivi temporali segnalano gli snodi temporali nei
testi narrati, la posteriorità, contemporaneità, anteriorità.
Tra i connettivi testuali invece rientrano tutti. Quegli elementi che servono a scandire il testo in parti
o anche quegli elementi che segnalano snodi importanti del test e cioè l’apertura e la chiusura
dell’interno testo o di una sua parte significativa..
La distinzione tra connettivi semantici e connettivi testuali, si rivela irta di difficoltà quando si
voglia arrivare ad una tassonomia convincente.
Difficoltà è aumentata dal fatto che la diversità della funzione non si accompagna necessariamente
ad una diversità di forme.
Alcune delle principali funzioni di connessione svolte dai connettivi sono:
1. Funzione additiva, quando segnalano l’aggiunta di nuove
informazioni a quelle già date
2. Funzione avversativa (al contrario, all’opposto, comunque ecc…)
3. Funzione esplicativa, correttiva esemplificativa e riassuntiva quando
introducono sequenze ce spiegano, correggono, esemplificano e
riassumono affermazioni contenute precedentemente nel testo
4. Funzione consecutiva quando esprimono la conseguenza che derida
una certa premessa
5. Funzione comparativa istaurano paragoni tra sequenze.
6. Funzione pragmatica: quando negli scambi orali o nelle sequenze che
simulano gli scambi orali segnalano l’inizio o la fine d i uno scambio
o quando servono a richiamare l’attenzione o a riempire spazi vuoti
L’elenco comprende sia connettivi tipici dei testi molto pianificati e dotati di struttura complessa sia
connettivi tipici del parlato informale. L’identificazione della categoria dei connettivi è affidata a
criteri funzionali. In questo caso non è la forma, ma la funzione a fare da criterio guido. Sono questi
i motivi che ne fanno una “categoria difficile”.
Questa difficoltà è conformata dallo scarso uso che generalmente gli adolescenti fanno dei
connettivi.

COERENZA E SIGNIFICIATO:

Se la coesione è data dalla rete più o meno fitta di segnali coesivi che il testo esibisce, dovremmo
concludere che un testo povero di legami coesivi sia un testo poco coeso. Questa conclusione è però
contraddetta da molti esempi in cui sequenze totalmente prive di legami risultano essere ben
formate e dotate di senso.
Anomalia spiegata da Maria Elisabeth Conte quando ha notato che un testo per funzionare oltre che
coeso deve essere coerente. La coerenza interna del testo è data dalla combinazione di tre proprietà
semantiche che devono essere presenti contemporaneamente: l’unitarietà, la continuità e la
progressione.
Queste tre proprietà sono le fondamenta del testo ma non funzionerebbero se on ci fosse a
cooperazione del destinatario. Al di là dunque, di ciò che un testo dice, il destinatario è chiamato a
trarre delle inferenze a costruire anelli mancanti. Il ricevente è portato a rivedere la sua precedente
interpretazione, alla ricerca d’un senso coerente. Il tema dell’implicito è stato affrontato anche in
ambiti di ricerca la logica e scienza cognitiva, la semiotica la pragmatica.
I termini di implicito, implicazione, inferenza, presupposizioni, ecc possono essere usati in modo
differente.
A volte, il processo inferenziale è innestato dalle conoscenze che il ricevente ha del sistema
linguistico.
Si tratta di casi in cui l’informazione rimane implicita, non detta, perché le parole o le costruzioni
utilizzate bastano, da sole, a farsì che i ricevente la inferisca. In alti casi, il processo dinferenziale è
attivato dal contesto situazionale in cui viene prodotto il testo o dalle consocenze del mondo che il
parlante assume condivise dal ricevente. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, si parla di
conosecenza precedente o enciclopedica.
Pare che questo bagaglio comune sia organizzato nella nostra testa secondo degli schemi ricorrenti
di cui sono stati descrtti tipi diversi, gli “scripts” o “copioni, “il frame”, i “plans”.
QUELLO CHE UN INSEGNATW NON ODVREBBE MAI DIMENTICARE è CHE
L’INTERPRETAZIONE DI CERTI TESTI NON è ACCESSIBILE AI RICEVENTI CHE NON
POSSEGGANO UNA CONOSCENZA DEL MONDO PARI A QUELLA ASSUNta dal parlante o
dall’autore.
Vale la pena ricordare che l’obbiettivo del saper ricavare dai testi le ifnormzioni in testi oraali e
scriti è trasversale a tutte le discipline perché funzionale ad un obiettivo generale ossia
l’acquisizione delle conoscenze.

Tipologie testuali.

Un campo di studi proficuo è la tipologia testuale che è quel ramo della linguistica che persegue il
tentativo di individuare una tassonomia, una classificazione dei diversi tipi di testo che possono
essere prodotti dai parlanti nelle diverse situazioni comunicative.
Centrale in questo ambito di studi il concetto di “competenza comunicativa” ossia la capacità del
parlante d’impegnare adeguatamente il linguaggio nelle diverse situazioni.
A seconda del criterio o dei criteri adottati per la classificazione dei testi, sono state proposte
diverse tassonomie. Se si privilegia il canale di trasmissione, si classificheranno i testi in parlati e
scritti, a loro volta, i testi parlati sono stati suddivisi in monologici e dialogici sulla base del criterio
della monodirezionalità e bidirezionalità del messaggio. Se invce i criteri distintivi sono i destinatari
e il contesto si parlerò di testi perosnali, testi pubblici, istituzionali. Diversa la proposta di Sabatini
che propone una tipologia foondata sul “patto comunicativo che lega emittente e destinatario”
distinguendo i testi in base ai diversi gradi di rigidità introdotti nel patto comunicativo. Si avranno
quindi testi molto/mediamente e poco vincolanti. Le tipologie che hanno avuo più seguito sono state
quelle di Beaugrande/Dressler e da Werlich. Entrambe distinguono i testi in base alla funzione, in
base al soggetto di cui trattano e in base al modo in cui ne trattano.
Beaugrande e Dressler individuano una tipologia tripartita: testi descrittivi, narrativi e argomentativi
e a questi tre tipi Werlich aggiungre il tipo espositivo e regolativo.
Secondo Cristina Lavinio tutti gli studi concordano nell’individuare almeno una tipologia basica
che distingue i testi descrittivi e argomentativi. Tipologia minima. Questa niversitalità è resa
possibile dalle matrici cognitive che presiedono slla realizzazione dei vari tipi.
Il tipo descrittivo è la realizzazione del macro-atto del descrivere ed è consenitto dala capacità
cognitiva del paragonare e cogliere le differenze; il tipo narrativo è il risultato del macro-atto del
natrrare ed è consentito dall capacità di paragonare situazioni; il testo argomentativo è correlato al
macro-atto dell’argomejtaren per dimostrare o sostenere la vaidità di una tesi.
Lavinio suggerisce poi le matrici cognitive che presiedono ai due tipi suggeriti in più da Werlich,
l’espositivo e il regolativo cui aggiunge il tipo scenico. Tali tipi si sono poi strutturati in generi
testuali di numero molto più elevato e difficilmente circoscrivibile in una lista chiusa. Ad esempio il
tipo narratibo si realizza in una molteplicità di generi, ogni genere si articola poi in sotto generi
differenziati per contenuto o per mezzo di trasmissione. Bisgogna tener conto che i testi reali non si
lasciano incasellare tanto facilmente e che le zone di intersezione tra i diversi generi sono tali da far
definire molti testi reali “testi misti” che contengono frammenti anomali.

Il tipo Narrativo.

Terremo conto di due tradizioni di studio


1. Il modello di Weinrich che analizza i tempi
verbali in prospettiva testuale
2. Aclcuni studi che ad esso si ispirano come la
sistemazione di Bertinetto che indaga con
grande acutezza le caratteristiche temporali ed
aspettuali dei tempi verbali.
Partimao da una definizione di narratività di Maeder:
“ un qualsiasi testo narrativo deve contenere un narrativo minimo ossia, qualsiasi testo che presenti
la trasformazione da uno stato A ad uno stato B. operazione fatta da un attore e che deve avvenire
nel tempo, cioè implicare un prima e un dopo a livello profondo. Sono il tenpo e l’attore (che funge
da soggetto della trasformazzione) che danno coerenza. (attore che può essere collettivo o
individuale).
Bice M. Garavelli parla del testo narrativo come un testo “DINAMICO” avente il fulcro nella
“successione del tempo” al contrsario del testo espositivo che è statico.
Rappresenteremo il tempo su una retta orizzontale che va da sinistra a destra e su questa
segnaleremo i punti, o momenti, necessari a localizzare un evento. Assumeremo anche che dietro
ogni testo narrativ oc’è un narratore N dalle cui scelte dipendono decisioni importanti.
Sull’asse del Tempo, che è una linea infinita, sono evidenziati due momenti.
1. MA (momento dell’avvenimento)
2. ME (momento dell’enunciazione) ossia il momento in cui il N
produce il suo testo.
L’alternanza dei due tempi riproduce il profilo classico delle narrazioni in italiano, tipico dei testi
scritti e di alcuni generi narrativi.
Se analizziamo la funzione svolta nel testo dai due tempi notiamo che la funzione dell’IMP è di tipo
descrittivo. Attraverso l’IMP si danno informazioni sulle caratteristiche dei personaggi e degli
ambienti. La funzione del PR è invece quella di far avanzare la stoira. L’IMP rappresent ala perieria
e il PR il centro dell’azione sulla quale il N vuole richiamare l’attenzione.
L’IMP è un tempo profondamente imperfettivo rappresenta il processo verbale in modo
indeterminato. Il PR è un tempo perfettivo e a differenza dell’IMP rapresenta un processo verbale
che si da per compiuto. Analoga funzioen svolge il passato prossimo che si presenta come tempo
alternatio al PR. L’alternanza di IMP PR e PP si accompagna spesso ad altri due tmepi che servono
a spostarsi lungo l’asse del tempo il TP (trap. pross.) e il CC (condizionale composto).
La differenza tra tempo fisico e tempo grammaticale ci consenre di gettar eun rapido sguardo slla
funzione del N e sulle sue opzioni grammaticali.
Il P narrativo è tipivo di alcuni generi letterari come le fiabe le biografie gli aneddoti.
C’è una distinzione netta con il modello di Weinrich fondato sulll’analisi di testi narrativi scritti
prevalentmenete letterari, i tempi dell’italiano sono suddvisi in “tempi narrativvi” e “tempi
commentativi”. Tra i primi fa rientrare l’IMP, PR, TP, CC, tra i secondi rientrerebbero il P e il PP. In
realtà l’analisi dei testi narrativi non letterari, parlati e scritti hanno messo in crisi questo modello.
Sappiamo adesso che anche il P e il PP possono svolgere una funzione narraitva.
Pier Marco Bertinetto parla di “ambiguità dei tempi verbali”.
Lucia Lumbelli e Bice M. Garavelli avvertono sulla nacessità di tenere nel debito conto “il ruolo
che va assegnato all’intenzione del riformulatore”. Ne segue la necessità per l’insegnante di
selezionare con molta cura il tipo di compito da proporre agli allievi. Altra difficoltà posta dai testi
letterari narrativi ossia il “dove metteremo il ME?” cosa ci permette passati degli eventi narrati?
Bertinetto afferma “i Tempi Passati usati in un testo letterario, non implicano ami un autentico
riferimento al passato. Non diversamente Weinrich aveva scritto, a proposito dei tempi verbali delle
favole, che essi ci ricordano che siamo “in un mondo diverso da quello che ci circonda ogni giorno
e quindi sarebbe inguistificato identificare il narrato con il passato”.

Tipologie testuali e abilità.

Per capire la spinta innnovativa che la tematica tipologica ha comportato per la didattica delle
abilità, dbbiamo ricordare che educare alla lettura significava leggere e commentare testi letterari.
Nello stesso tempo educare alla scrittura ha significato addestrare a produrre testi che a quei modelli
si ispiravano. Si trattava di di una pedagogia del testo letterario e scritto che trascurava del tutto,
non solo la dimensione dell’oralità ma anche quella della varietà dei prodotti testuali.
Dovranno dunque passare molti annni perché certe pratiche si facessero strada tra gli insegnanti di
italiano.
La capacità di produrre testi di questo tipo non si acquisisce naturalmente. È necessario una
formazione espressa guidata da altri. Nel fare ciò la scuola deve misurarsi con testi reali.
Contemporaneamente si sono poi imposti anche altri orientamenti della ricerca come l’approccio
cognitivo che sposta l’interesse dei ricercatori e degli insegnanti dai “prodotti” testuali ai “processi”
che vengono attivati quando si capisce un testo o quando lo si produce.
Per quanto riguarda la lettura sono parsi subito evidenti i limiti delle pratiche tradizionali,
concentrate soprattutto sulla lettura ad alta voce fatta in classe. Come sono diversi i profotti testuali,
sono diversi gli scopi per cui si legge e le strategie di letturs attivate nelle diverse situazioni. Si
leggono in maniera differente un manuale, un romanzo.
“leggere” significa molte cose, molto diverse tra loro.
Wuesta tematica ha conquistato i documenti ufficiali ed è entrata con forza nelle classi attraverso le
prove di lettura somministrate dall’INVALSI.
La tematica testuale si è lentamente iposta anche nell’editoria.
Ad esempio, Raffaele Simone definisce eccessiva la preoccupazione testuale che si è insinuata nella
scuola italaliana e chw si manif3esta ad esempio nell’ossessione delle schede di lettura e dell’analisi
testuale condotta su tutto ciò che si legge.
Per raggiungere questo obiettivo, le schededi lettura non sono il mezzo più idoneo. Importa molto
più che l’insegnante sappia scegliere con attenzione i testi letterari da proporre ai giovani. Il criterip
che deve guidare nella scelta è quello della “piacevolezza”. Ha ragione dunque Simone quando
denuncia la mania delle schede di lettura e delle analisi testuali.
Gli interventi di Simone hanno spesso il merito di far discutere su pratiche e temi ormai dati per
scontati. Il rischio è che le “nuove” pratiche dell’educazione linguistica diventino macchine
anch’esse proposre ai gioani per abitudine e pigrizia.
Si capisce dun queche la tematica tipologica doveva fatalmente scontrarsi con il prodotto principale
della scrittura scolastica (il tema di italiano). Negli anni ’70 la nuova educazione linuista dichiarò
guerra al tema cin una serie di intwrventi molto severi. Le critiche hanno sempre riguardato
l’artificialità sdi questo genere testuale privo di determinazioni di luogo e di tempo ossia rivo di
qualsiasi paramentro comunicativo ache fittizoio: dunque privo di un destinatario le cui eventuali
posizioni costituiscono l’indispensabile punto di riferimento per chi pafrla o scrive.”

Dimensione testuale e grammatica.

Quando la riflessione grammaticale proposta dalla scuola si esauriva nella considerazione dei soli
fatti morfosintattici rilevabili all’interno della frase, l’opinione piùdiffusa dagli studiosi era che
questo tipo di analisi non avesse alcun effetto sulla pratica delle abilità. Ma non appena la
linguistica del testo si è imposta nel panorama internazionale e nella ricerca didattica, l’approccio
testuale è parso a molt linguisti e insegnanti in grado di coniugare gli obiettivi piùastratti e formali
della riflessione grammaticale con gli obiettvi pià concreti e funzionali della comunicazione.
Ad esempio, francesco Sabatini scrive che la distinzione netta tra l’uso della lingua e la riflessione
sulla lingua (fra la pratica delle abilità e lo studio della grammatica) è un falso problema.
Limitarsi alla pura pratica può svere conseguenze negative sugli sviluppi delle abilità più sofisticate.
Si potrebbe pensare ad una sorta di curriculum di scrittura, tipologicamente differenziata che
conduca per gradi l’allievo dalla scrittura spontanea ad una scrittura matura. È ragionevole ensare
che una riflessionedi questo tipo influisca positivamente sulla pratica delle quattro abilità. Ma è pur
sempre un’ipotesi.
Bisgnerebbe creare le condizioni sperimentali più adeguate, quali potrebbero esseer la scelta di
lavorare con classi parallele con lo stesso numero di allievi, aventi la stessa età, lo stesso livello di
maturazione linguistica e cognitiva. La scelta dei materiali, uguali in entrsambe le classi e la
programmazione delle stesse attività. Un solo docente sperimentatore nelle due classi. Bisogna
condurre l’esperimento nel modo più neutro possibile e bisogna essere in grsdo di dsèer leggere i
risultati. Di fronte a tali difficoltà è comprensibile che la ricerca didattica, almeno in italia, abbia
imboccato altre strade per la verifica delle sue ipotesi di labpro.
6. L’italiano seconda lingua.

Le ragioni sociali: vecchi e nuovi migranti.

Nell’Italia degli anni ’70 in cui nascono le Dieci Tesi, il richiamo ai diversi linguaggi, alle
diverse lingue si esauriva in una dimensione autoctona e nazionale. Nell’Italia del 2000
plurilinguismo significa altro. Il nostro paese è interessato dalla presenza di nuove minoranze
linguistiche, nuovi “alloglotti”.
Per vedere un’incidenza attuale della presenza di alunni stranieri nella scuola italiana riportiamo
i dati raccolti dall’invalsi. Dividono la popolazione sulla base dell’origine. Fornisce dati
interessanti riguardanti le presenze di alunni immigrati si prima e seconda generazione.
Documenta la non equa distribuzione della popolazione immigrata nelle diverse aree del paese.
La diversa presenta di alunni immigrati nelle diverse fasce di scolarità. La maggiore incidenza
tra i più piccoli dei nati in Italia da famiglie immigrate.
Bisogna dunque insegnare la lingua comune nel rispetto delle lingue e delle culture di
provenienza degli allievi.
È un compito nuovo per gli insegnanti, difficile. Insegnare italiano come lingua seconda
comporta delle competenze tecniche particolari. La difficoltà è poi aggravata dal fatto che
bambini e adolescenti immigrati provengono da aree linguistiche molto distanti.
Il problema non riguarda solo gli insegnanti di italiano ma tutti i docenti, qualunque sia la
disciplina. Per tutti infatti si pone il problema di veicolare i contenuti attraverso la lingua e
dunque di avvicinare gli allievi alla “lingua dello studio”.
L’insegnamento dell’italiano come lingua seconda riguarda diversi tipi di pubblico.

Suggerimenti dalla ricerca: la linguistica acquisizionale.

La linguistica acquisizionale tenta di capire come procede l’acquisizione di una lingua, prima o
seconda. È come un campo di studi che pur non ponendosi nell’immediato fini pratici può
rivelarsi del massimo interesse per l’insegnante. Infatti se non vi trova indicazioni didattiche
immediatamente spendibili in classe, il docente di lingua troverà un quadro teorico di
riferimento.

Il concetto di Interlingua.

Interlingua è utilizzato per parlare della lingua posseduta da un discente alle prese con il
difficile compito di imparare una L2. Definibile come la lingua imperfettamente posseduta da
chi sta tentando di impadronirsi di un nuovo sistema linguistico.
La nascita del concetto di Interlingua va posta in relazione con una svolta importante che si
verificò alla fine degli anni sessanta.
Chomsky fondatore del generativismo proponeva una teoria dell’apprendimento linguistico che
si opponeva in modo radicale alle teorie comportamentiste. Secondo i comportamentisti
l’apprendimento della lingua madre è il risultato della formazione di abitudini. In questo modo
l’apprendimento della L2 consiste nel processo di formazione di nuove abitudini che vincano
l’influsso di quelle create dalla lingua madre.
Chomsky non crede affatto che il bambino che sta imparando la sua prima lingua stia imitando
dei modelli e acquisendo delle abitudini automatiche. Crede che stia scoprendo delle regole.
La povertà e la frammentarietà dei dati che giungono all’orecchio dei bambini fanno si che il
processo di acquisizione non possa essere immaginato come una semplice scoperta induttiva
delle regole di una lingua.
Chomsky interpreta il processo di acquisizione della lingua madre come il frutto dell’interazione
di due componenti distinte ed essenziali. Da una parte i dati linguistici primari (a cui il bambino
è esposto dalla prima infanzia) e poi un sistema di aspettative precise sulla forma d
organizzazione che un sistema grammaticale può prendere, un complesso di principi
organizzativi della struttura grammaticale delle lingue naturali. Questo complesso di principi
organizzativi fornisce una serie di ipotesi possibili sulle regole grammaticali della lingua sta
apprendendo. Va ricordato anche l’apporto della psicologia cognitiva.
Mentre nel quadro comportamentista il bambino è visto come una tabula rasa, nella psicologia
cognitiva è concepito come un agente attivo.
Ogni apprendimento linguistico si basa sulla ricostruzione delle regole che governano il sistema
della lingua.
Sono stati poi delineati modelli teorici che hanno spiegato l’apprendimento linguistico in modi
diversi.
Marina Chini divide le diverse proposte in 4 grandi gruppi.
• Le teorie innatiste
• I modelli cognitivi
• I modelli ambientalisti
• I modelli integrati.
Nella panoramica di Marina Chini sono menzionati, all’interno del filone cognitivo anche gli
approcci funzionalisti,
Interessanti a studiare “le modalità con cui un apprendente scopre il rapporto forma-funzione
nella lingua d’arrivo”.

La ricerca sull’interlingua: tappe e sequenze di apprendimento.

I diversi approcci hanno avuto modo di mettersi alla prova nei numerosi studi empirici che sono
stati progettati è realizzati negli ultimi tre decenti. L’idea sottostante tali studi è che per seguire
l’iter evolutivo dell’allpprendente così come esso naturalmente si struttura e si modifica
bisognasse eliminare le possibili interferenze provocate dall’insegnamento scolastico. Gli studi
sull’interlingua hanno preferito come oggetti di studio apprendenti che acquisiscono una L2 in
contesti naturali.
La ricerca europea sull’acquisizione di lingue seconde è nata in Germania con il cosiddetto
“progetto di Heidelberg” ed ha prodotto numerosi studi che ad esso si sono ispirati. Similmente
in Italia si è costituito un gruppo di ricerca attiva fino dal 1986 che ha avuto tra i suoi soggetti
preferiti lavoratori adulti immigrati in Italia da varie aree linguistiche e studiati nelle loro
Interlingue.
Gli studi acquisizionenali hanno evidenziato che il processo acquisizionenale procede secondo
tappe precise che si ripetono regolarmente negli apprendenti.
Una prima tappa chiamata tre basica è caratterizzata dalla presenza per mezzi pragmatici di
comunicazione il cosiddetto pragmatic mode che sfrutta e amplia le risorse linguistiche
elementari possedute in L2 facendo ricorso a varie strategie come l'uso della gestualità e
chiamata in causa del contesto, richiesta attiva di cooperazione, ripetizione di una o più parole
dell’interlocutore come segnali di partecipazione.
È tipica di questa prima fase la memorizzazione di elementi lessicali quindi di parole che
vengono usate senza riguardo alla morfologia e di formule o routine.
Presenza di queste frasi nell'interlingue iniziali è solo un effetto della loro alta frequenza
nell’input dal quale la prendente le ricava è che memorizza quasi fossero parole uniche, moduli
prefabbricati di linguaggio che non è in grado di smontare.
segue un secondo momento chiamato varietà di base in cui il pragmatic mode viene sostituito da
una modalità più grammaticale il syntatic mode.
Marina chini scrive che le frasi cominciano ad organizzarsi attorno ad un verbo la grammatica è
ancora quasi assente.
le varietà post-basiche sono caratterizzate da un ricorso sempre maggiore a strategie
grammaticali con progressivo avvicinamento alla lingua obiettivo.
Nell’acquisizione spontanea della morfologia verbale dell’italiano Le ricerche condotte su
apprendenti diversi hanno dimostrato che l'ordine di comparsa delle diverse forme è il seguente:
• presente indicativo alla terza persona, forma basica, la forma non è marcata dal punto di
vista temporale è usata per fare riferimento a situazioni presenti passate e future.
• Participio passato la forma che finisce con -to, È marcata dal punto di vista formale in
quanto dotata di un suffisso saliente ed è marcata dal punto di vista della funzione perché
portatrice di valori temporali e aspettuali
• imperfetto la cui funzione è quella di esprimere il passato imperfettivo: parallelamente alla
comparsa dell’imperfetto si riduce l'area di utilizzazione del presente.
• Futuro condizionale, congiuntivo: emergono per ultime le forme che esprimo la non
fattualità.
Il fatto che la sequenza di acquisizione sia implicazioninale significa che un apprendente che
possegga l'imperfetto ossia lo stadio ci ha già superato lo stadio A lo stadio B.
Le seguenti acquisizioninali fin qui individuate e studiate ricorrono con regolarità in apprendenti
diversi e in molti casi rivelano una somiglianza con le seguenti acquisizioni ali ritrovate nei
bambini che hanno la stessa lingua come lingua materna. Ad esempio, nell’acquisizione
dell’italiano come L1 e come L2, La prima forma verbale del passato che viene acquisita e per
entrambi i tipi di apprendenti il participio passato.

strategie di apprendimento

alcune di queste strategie sono state descritte dalla letteratura acquisizionenale che definisce
come procedure per formulare delle ipotesi sulla scrittura della L2, E per stabilire regole
dell’Interlingua sulla base di queste ipotesi.
altri studiosi pongono l'accento sull’aspetto sociale e comunicativo delle strategie di
apprendimento definite come tentativi compiuti dal apprendente di esprimere o decodificare il
significato delle espressioni linguistiche nella L2 in situazioni problematiche.
Proposte varie tassonomie di strategie di apprendimento le strategie più elementari sono quelle
paralinguistiche o contestuali l’apprendente sfrutta al massimo la mimica e la gestualità per
indicare i partecipanti allo scambio o denominare descrivere l'entità del mondo chiamate in
causa dall’interazione. Rientrano in queste strategie anche i commenti e disegni vocali, ideofoni,
ho anche i disegni estemporanei.
Un'altra strategia e il transfer che consiste nel trasferire in L2 forme o strutture della L1. Un
esempio può essere rappresentato dal cosiddetto accusativo preposizionale degli studenti
ispanofoni che producono in italiano forme del tipo vedere alla sua nonna un altro esempio è
rappresentato dalla riproduzione da parte di studenti tedeschi dell'ordine basico oggetto verbo.
Questa strategia di trasferimento in L2 di modalità della L1 veniva considerata centrale nella
teoria comportamentista. I primi studi sulle sequenze acquisizionali ridimensionare uno il ruolo
della L1.
Bernini ci ricorda che il peso specifico della L1 varia sulla base di molte variabili che sono l'età
e la competenza in L2 dell’apprendente, il livello linguistico considerato, il tipo di produzione
testuale, la distanza tipologica tra le lingue. Il transfer viene interpretato da vari autori non già
come un trasferimento di abitudini ma come un meccanismo cognitivo che influenza in modo
forte le ipotesi che via via la prendente va formulando sulle forme e le regole della L2 anche la
commutazione di codice ossia il passaggio santuario dalla L2 alla L1 potrebbe essere
interpretato come l'effetto di un’operazione di interferenza della L1.
Molto frequenti sono le strategie analitiche che descrivono con circolazione e giri di parole
grammaticali e lessicali. E ampiamente attestato anche l'uso di materiali lessicali vari
tipicamente avverbi di tempo con cui viene delegato il compito di marcare distinzioni temporali
lasciando il verbo invariato.
La strategia analitica opera anche a livello lessicale dove sono ad esempio attestate forme come
fare fidanzato invece che fidanzarsi. Altra strategia frequentemente usata e l'uso di parole
generiche quali cosa persona fare accompagnate da perifrasi descrittive di varia lunghezza e
complessità. L'estensione analogica o generalizzazione è un’altra strategia di apprendimento che
dimostra il grado di elaborazione dell’input che la prendente è in grado di compiere.
E come.se di fronte alle molteplici possibilità dell'italiano la prendente straniero arriva a
focalizzare un solo procedimento alla volta.
Un'altra strategia è quella detta di semplificazione o di riduzione formale: può interessare
qualunque livello linguistico e consiste nell’omissione di alcune forme previste dalla norma. Ad
esempio l'uso di sintagmi privi di articoli o di preposizioni esonera la pendente dal dover
richiamare alla memoria e selezionare la forma adeguata al particolare contesto linguistico.
L'uso di un sistema verbale semplificato è una costante dell’interlingua degli apprendenti all'
italiano come L2 punto la dicitura strategia di semplificazione è accettabile.se si confronta la
varietà di apprendimento con la norma dell'italiano standard. Evidente che dal punto di vista
dell’apprendente sarebbe più giusto parlare di strategia di complessificazione. Se tuttavia il
processo di graduale complessificazione non ha luogo si parla di fossilizzazione.
Altri tipi di strategie sono basate sulla cooperazione con l'interlocutore ossia quando in modo
diretto o indiretto si segnala l'interlocutore il bisogno di aiuto o quando ci si limita a ripetere una
o più parole dell'interlocutore.
Alcune strategie rivelano il tentativo da parte dell’apprendente di aggirare il problema
rinunciando almeno parte del proprio intento comunicativo e quindi sono definite strategie di
riduzione.

Universalità e variabilità dei percorsi acquisizionenali.

Gli studi sulle sequenze acquisizionenali sembrano dar ragione a coloro che esaltano il ruolo dei
fattori che guidano dall’interno i processi di acquisizione linguistica e che sono universali.
L'esperienza accumulata in quasi tre decenni di ricerca vede che accanto al riconoscimento del
ruolo dei principi e delle strategie cognitive probabilmente universali vanno riconosciute delle
differenze nel percorso di apprendimento spontaneo e tali differenze sono in parte imputabili a
fattori interni ai due, o più sistemi linguistici in contatto. Tale distanza coinvolge non solo le
forme e le strutture linguistiche ma anche le categorie concettuali ad esse sottese. Non si tratta
solo di imparare le etichette per denotare certe entità o classe di entità ma anche di pensare per
ciascuna le delimitazioni le articolazioni interne e le interrelazioni.
In questo quadro hanno un peso rilevante nell’acquisizione le caratteristiche delle lingue di
partenza e le caratteristiche delle lingue di arrivo.
A questi fattori linguistici, Vanno aggiunti le strategie di apprendimento attivati dal singolo
apprendente che possono variare sulla base delle condizioni di esposizione alla lingua obiettivo
e delle caratteristiche di personalità.
Nell'apprendimento linguistico giocano un ruolo Fattori comuni, forse universali, e fattori
particolari.
Tuttavia, il peso dei limiti di questi condizionamenti andranno studiati e correlati fra loro.

Dagli studi acquisizionali alla didattica della L2.

La linguistica acquisizionenale non si è posta all'inizio il problema di tradurre i risultati delle


ricerche in suggerimenti didattici. Il suo scopo è quello di scoprire descrivere le tappe di
acquisizione nell’apprendimento spontaneo di un L2, e arriva lì per stare via a capire i principi e
le modalità attraverso cui la mente umana elabora e ricostruisce un sistema Linguistico.
E ovvio che una volta acquisita tale conoscenza vi sono delle ricadute didattiche importanti
tuttora infatti è in corso un interessante processo di avvicinamento tra i due campi disciplinari
interessati: da una parte la linguistica acquisizionenale, dall'altra l'insegnamento delle lingue
seconde. Ne è nato un nuovo filone di ricerca che qualcuno ha chiamato didattica
acquisizionenale. Non tutti i fenomeni dell'interlingua sono stati studiati e dunque non abbiamo
ancora le conoscenze necessarie a costruire un programma didattico organizzato sulla base dei
risultati degli studi sull’interlingua. Il lavoro da fare è ancora molto per quanto riguarda
l'italiano L2 gli studi condotti in circa tre decenni hanno gettato luce sull’acquisizione di
relativamente pochi frammenti della grammatica dell'italiano.
In particolare, sono stati studiati:
• l'espressione delle relazioni temporali e il sistema verbale italiano
• l'espressione della modalità
• la morfologia nominale flessiva e alcuni procedimenti derivazionali
• alcuni settori lessicali
• l'ordine delle parole e la subordinazione
• procedure di produzione testuale e funzioni discorsive.
da questo rapido elenco dovrebbe saltare all'occhio la pochezza dei fenomeni indagati.
Manfred Pienemann, fa una proposta molto strutturata. Dopo aver enunciato nel 1984 la
cosiddetta ipotesi di insegnabilità, mi è ritornato a più riprese negli anni successivi elaborando
la teoria della processabilita.
Questa parte da un assunto: l'insegnamento di una qualunque L2 avrà successo solo.se si
uniforma all'ordine di acquisizione naturale rilevato dalla ricerca acquisizionenali, ordine che
non può essere modificato o stravolto. Perché la prendente si è in grado di recepire una nuova
forma, deve aver maturato certi prerequisiti cognitivi e linguistici che lo rendono pronto,
disponibile, dotato di mezzi per processare interiorizzare quella forma. La teoria della
processabilita elabora una gerarchia di elaboralità delle procedure di codifica grammaticale,
dovuto all'architettura della nostra mente, la quale consente di posizionare in quattro differenti
stadi che vanno dal m alla frase, i contenuti grammaticale della lingua oggetto di insegnamento.
Al di là delle differenze di impostazione tutti i linguisti acquisizione nali sono d'accordo che
l'insegnamento debba uniformarsi all'ordine naturale di acquisizione. Solo disponendo i
materiali didattici secondo un piano di difficoltà crescente che sia in linea conseguenze
acquisizioni naturali l'intervento didattico avrà successo. L'ideale sarebbe poter disporre di un
sillabo in cui le forme e le strutture della lingua d'arrivo siano presentate nello stesso ordine in
cui emergono nell’acquisizione spontanea.

L'errore di lingua.

un'importante conseguenza didattica e la mutata considerazione dell’errore di lingua Che tali


studi autorizzano a trattare e a diffondere tra gli insegnanti.
Bisogna lasciare che gli allievi abbiano il tempo di elaborare il materiale linguistico passando
attraverso l'esperienza dell'errore.
su questo punto specifico le ricerche sull’interlingua, ci dicono che gli errori sono delle
realizzazioni devianti ma transitorie e sistematiche e non casuali.
Secondo Stephen Pit Corder, Commettere errori e da considerare una parte inevitabile e
necessaria al processo di apprendimento studiando l'insegnante può riuscire a penetrare nello
stato di conoscenza dell'allievo.
Gli errori non devono essere considerati fenomeni negativi. Insegnanti dovrebbero ricordare che
i loro allievi sono individui Alle prese con un compito difficile. Hanno bisogno di avanzare
ipotesi sul funzionamento di questa nuova lingua. Hanno bisogno di sbagliare e di imparare dai
loro errori. Gli insegnanti non hanno possibilità di risparmiare l'esperienza dell'errore. Altro
problema invece e se anche i passaggi errati debbano diventare parte di un sillabo oggetto di
insegnamento.
Se l'errore non va stigmatizzato o sia punito, rimangono altre decisioni importanti da prendere
decisioni che spettano all’insegnante ad esempio una volta è stato commesso l'errore va fatto
notare all' allievo? Oppure va corretto?
Si registrano al riguardo varie posizioni. La posizione estrema per cui la correzione degli errori
sarebbe sempre e comunque svantaggiosa. Ad esempio, Truscott sostiene che correggere e
sempre inutili a causa della scarsa dimestichezza che in genere gli insegnanti hanno con la
linguistica acquisizionenale e fa sì che i loro interventi siano troppo superficiali.
secondo Truscott linguistica acquisizionenale studia le seguenze di apprendimento in condizioni
di acquisizione spontanea ed è l'unica che potrebbe dirci.se l'allievo è in grado di capire perché
una certa forma scorretta. le ricerche sulle sequenze di apprendimento sono ben lontane dall'
aver raggiunto e descritto tutti i fenomeni dell'interlingua. non è dunque realistico pensare che
l'insegnante possa intervenire sugli errori con piena cognizione di causa.
Questa posizione estrema contrasta con i risultati di molte ricerche sul campo risulta infatti che
la possibilità di ricevere feedback di qualunque tipo sui propri errori migliora le prestazioni dei
soggetti mentre la non correzione risulterebbe una scelta ritardante.
Forse il meglio sarebbe adottare una pluralità di strategie correttive.
E la pratica della cosiddetta correzione selettiva.
la strategia proposta da Truscott, quella che finge di ignorare l'errore dello studente senza
intervenire, può diventare utile e necessaria in due casi:
• quando l'errore sia in una zona considerata dall' insegnante ancora inaccessibile rispetto alla
maturazione linguistica dello studente.
• quando l'urgenza della comunicazione è tale che l'interruzione indotta dall’intervento
correttivo verrebbe sentita come inopportuna e demotivante.
in altri casi invece il mancato intervento potrebbe essere interpretato come accettazione piena
della forma prodotta, come consenso.
Si potrebbero suggerire in conclusione alcune strategie correttive che vanno da un minimo a un
massimo di esplicitezza e insistenza.
Una strategia esplicita ma leggera potrebbe limitarsi ad una riformulazione corretta
dell'enunciato.
L'insegnante può tentare di rendere più esplicita questa strategia accentuando la voce in
corrispondenza dell'errore.
anche.se non tutti sono d'accordo sul feedback metalinguistico quello di partire dall’errore della
pendente può essere uno dei percorsi possibili per indurre la sana abitudine a riflettere su ciò che
si fa e inutile ripetere che una strategia che punta la presa di coscienza dei motivi che lo hanno
indotto in errore può essere altamente formativa.

Gli apporti del Consiglio d'Europa.

uno degli obiettivi prioritari del Consiglio d'Europa fin dalla sua Fondazione ossia 1949 è stato
quello di incoraggiare e favorire la conoscenza reciproca tra i popoli europei. Tale conoscenza si
attua anche attraverso la promozione di una più ampia diffusione delle lingue europee moderne.
Come dice il quadro comune europeo: solo una migliore conoscenza delle lingue europee
moderne riuscirà a facilitare la comunicazione e l'interazione tra cittadini che parlano lingue
diverse.
È stato messo a punto il progetto lingue moderne, mirante alla diffusione della conoscenza delle
lingue europee. Tra il 1975 e il 1981 sono stati messi a punto una serie di sillabe per alcune
lingue inglese francese tedesco italiano.
Si tratta di opere che tentano di definire i contenuti linguistico culturali necessari a formare un
livello di competenza linguistica giudicato in grado di coprire i bisogni comunicativi più
immediati.
le opere del livello soglia ci appaiono ancora oggi come il tentativo più coerente che sia stato
compiuto per trasferire nell’insegnamento le convinzioni maturate all'epoca del campo
dell'insegnamento delle lingue seconde.
risulta centrale l'idea che per selezionare le forme e le strutture da insegnare bisognasse partire
dal l'individuazione di uno o più destinatari di uno o più destinatari tipo.
L’impegno del Consiglio d’Europa non si è fermato con l’elaborazione dei livelli di soglia.
I principi formulati in sede comunitaria in materia di insegnamento sono stati illustrati in un
documento chiamato: Common European Framework for Languages: Learning, Teaching,
Assessment.
Questo documento riprende, sistematizza ed elabora l’impianto originale già espresso bei livelli
soglia, secondo cui l’obiettivo primo di ogni insegnamento linguistico è lo sviluppo della
competenza linguistico-comunicativa.
Questa va considerata una somma di più competenze: competenza pragmatica, una
sociolinguistica, linguistica.
Un sillabo che volesse adeguarsi a queste premesse dovrebbe tener conto della necessità di
sviluppare armonicamente tutte le competenze coinvolte nei contesti comunicativi.
Il Quadro Comune europeo si limita a suggerire una cornice comune, un quadro teorico di
riferimento.
Si ispirano alcuni sillabi di italiano L2, al quadro comune.
E un sillabo nato sperimentato nel centro linguistico dell'università di Padova dedicato agli
studenti universitari scambio. Influenzato dagli studi acquisizionali questo sillabe costituisce il
primo tentativo di delineare per l'italiano i sei livelli previsti dal quadro comune secondo tre
diverse prospettive: la competenza pragmatica, la competenza linguistica e la competenza
sociolinguistica. Per ognuna di queste prospettive si elencano i compiti comunicativi e le
funzioni linguistiche da perseguire nei sei livelli , i generi testuali che concretamente realizzano
tali compiti , gli indici linguistici in senso stretto.
Benucci nasce nel centro linguistico dell'università per stranieri di Siena e fa tesoro della lingua
esperienza maturata nei corsi di lingua italiana a stranieri erogato da quella istituzione.
Ultimo in ordine di uscita e il sillabo di Spinelli e Parizzi, l'unico sillabo di italiano L2 che possa
fregiarsi dell'avallo del Consiglio d'Europa. Il volume promette di delineare per l'italiano i primi
quattro livelli di competenza da A1 a B2, ma non tutti gli ambiti sono descritti.
Nonostante siano presenti nel volume alcuni contributi pregevoli il docente di italiano L2 non vi
troverà un sillabo coeso e coerente e neppure un profilo ma un insieme di saggi.

Insegnare l'italiano come l 2: suggerimenti dalla glottodidattica.

Quasi 20 anni fa Paolo Baldoni scriveva che in questo settore la glottodidattica italiana compiuto
approfondimenti meno sistematici limitati all'attività delle due università per stranieri quella di
Perugia è quella di Siena ad alcuni progetti del CNR.
Non esisteva all'epoca una consolidata tradizione di ricerca sull’insegnamento dell'italiano come L2
ma sono iniziative sparse e poco conosciute.
Questo ritardo non sorprende: l'esigenza di insegnare l'italiano come le due si è imposta non da
moltissimi anni ma con urgenza maggiore.
Negli anni che ci separano dal 1994 si è fatto il massimo possibile: le ricerche le esperienze già
avviate sono state scoperte da un pubblico più vasto. Contemporaneamente all' attivazione di
numerosissimi corsi italiano e iniziative varie di sostegno linguistico dirette a bambini e adulti
immigrati si è intensificato l'interesse delle istituzioni e dei centri di ricerca. Le università hanno
infatti dovuto provvedere in tempi rapidissimi alla richiesta di corsi di italiano avanzata da parte
degli studenti stranieri. Dall’altro hanno dovuto rispondere alla richiesta di formazione attivando
corsi di diploma laurea perfezionamento e master. Molte sedi universitarie si sono dotate di nuove
strutture, i centri linguistici di ateneo, il cui scopo è quello di promuovere insegnamenti linguistici.
In molti di questi centri all'insegnamento delle lingue si accompagna un’intensa attività di
formazione dei docenti. È giusto ricordare l'attività delle università per stranieri che hanno sede a
Perugia e Siena e che sono da anni impiegate nell’insegnamento dell'italiano L2 a giovani e meno
giovani. Ricorderemo solo iniziative editoriali più importanti diretta la formazione di insegnanti che
si sono succedute nel tempo.
Il primo in ordine di tempo è il progetto argentina, messa a punto per gli insegnanti di italiano
operante in Argentina utilizzabile anche in altre situazioni e realizzata tra il 1992 e il 1993
dall'Istituto dell'enciclopedia italiana Treccani, l'opera si è valso della consulenza e della
collaborazione di decine di studiosi, si articola in 51 fascicoli dedicati a temi di lingua e cultura
italiana.
Subito dopo viene messa in cantiere una iniziativa ufficiale il progetto MILIA promosso dalla
direzione generale scambi culturali del ministero della pubblica istruzione.
E stata invece patrocinata dall’Unione europea la collana, diretta da Carla Marello per i tipi della
paravia scriptorium, Dal titolo italiano lingua straniera formazione degli insegnanti. La collana
uscita tra il 1999 e il 2000 si compone di vari volumi. il merito sta nel tentativo di ripensare i
risultati della ricerca linguistica e glottodidattica in chiave applicativa.
A partire dal 2002 sono usciti numerosi volumi della collana: “le lingue di babele” diretta da Paolo
Baldoni.
e nata dal vivo di un centro linguistico particolarmente attivo il centro di italiano per stranieri
dell'università di Bergamo la collana CIS edita da Guerra Che a partire dal 2003 pubblica gli atti dei
seminari di aggiornamento per docenti di italiano L2 tenuti ogni anno.
Infine, ricordiamo la collana materiali linguistici, a cura dell'università di Pavia ed edita da Franco
Angeli, con una chiara vocazione di ricerca in cui sono presenti importanti titoli relativi all' italiano
L2.
al di là delle collane e delle riviste dedicate alla L2 sono numerose le iniziative editoriali dirette agli
insegnanti di italiano L2.
L'abbondanza delle proposte non riguarda solo la carta stampata: le iniziative messe in atto da
associazioni locali e nazionali trovano un canale più facilmente abbordabile nella rete.
A giudicare dei libri dei materiali in circolazione non c'è dubbio che l'italiano L2, se oggi un tema
popolare.
Sembra essersi diffusa una pratica didattica di buon livello che ha tratto grande giovamento da una
parte dal costante legame con riferimento a livello internazionale e dall'altra da una tradizione di
riflessioni che italiana e che ne segna uno dei più rilevanti tratti di originalità.
La ricchezza degli stimoli provenienti da ambiti disciplinari vicini vicinissimi ha permesso di
colmare in tempi brevi ritardo denunciato. è possibile a questo punto fare di più, incrementando la
ricerca di base il che vuol dire studiare i percorsi di apprendimento dei minori inseriti nel normale
circuito scolastico, studiare l'impatto sull’apprendimento delle scelte didattiche, tecnologia sia
tecnologie no? Correggere non correggere?, scoprire quali sono i punti di crisi per uno straniero che
vuole imparare l'italiano e capire.se essi siano tali per tutti o se vadano ascritti a particolari gruppi di
apprendenti. Quest'ultimo. Merita la massima attenzione.
In alcuni dei libri approntati per la formazione degli insegnanti di italiano come L2 la grande
assente è proprio la lingua italiana. E come se la grande stagione dello studio scientifico della lingua
italiana non abbia ancora raggiunto il mondo dell'insegnamento dell'italiano come lingua seconda.
Dunque, c'è ancora molto da fare per sanare quella frattura tra la ricerca e la classe di cui in anni
ormai lontani scrivevano con preoccupazioni due studiose molto diverse ossia: Wanda D’Addio
Colosimo e Anna Giacalone Ramat.

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