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Inquadramento storico
Per illustrare la situazione linguistica italiana alle soglie degli anni 70 del secolo scorso dovremmo
partire da molto lontano, e ricordare, come fin dalla nascita dei volgari la popolazione italiana abbia
usato una pluralità di idiomi che oggi siamo soliti chiamare “dialetti”. Ad eccezione del dialetto
Fiorentino, i dialetti italiani sono serviti nei secoli alla funzione di veicolo linguistico di comunità
ristrette, di aree geografiche limitate. Ma i dialetti non sono idiomi “inferiori” rispetto alla lingua
nazionale. Dopo l’unificazione politica le cose cominciarono lentamente a cambiare. L’unificazione
linguistica fu soprattutto un’esigenza nata da una ben precisa situazione storica. Altri fattori di
unificazione linguistica furono l’industrializzazione e la mobilità interna, soprattutto dal sud al nord, ed
i fenomeni migratori dalle campagne alle città, la diffusione della scolarità e la diffusione dei mezzi di
comunicazione di massa. La scuola ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di diffusione di una
lingua comune. Tuttavia De Mauro ci ricorda come subito dopo l’unità e per tutto il secondo 800 si
scontrarono sulla questione due posizioni inconciliabili: i manzoniani avevano sperato di poter
condurre attraverso la scuola una duplice lotta, volta da un lato a sdradicare la “malerba dialettale”,
dall’altro a imporre come tipo linguistico unitario il fiorentino. Altri, come il De Sanctis, l’Ascoli, il
D’Ovidio erano sfavorevoli ad una lotta contra i dialetti, infatti non andavano messi in ridicolo, ma
studiati e confrontati con la lingua. L’atteggiamento ufficiale delle autorità fu vicino alle posizione
manzoniane. Agli inizi del nuovo secolo sul piano linguistico la situazione era tutt’altro che
incoraggiante: nonostante gli sforzi per insegnare l’italiano a tutti i bambini continuavano a rilevare
gravi carenze linguistiche, e questo perché i maestri tendevano ad usare in classe il dialetto o un misto
di dialetto e lingua letteraria. La dialettofonia diffusa e l’imposizione di un modello letterario di italiano
sono considerate le principali cause del fallimento scolastico nella diffusione di una lingua unitaria. Il
processo di unificazione linguistica andò comunque avanti. Nel primo dopoguerra su questo processo si
innestò la politica linguistica del fascismo, che ebbe nell’antidialettalismo, nella lotta contro le lingue
delle minoranze e contro i forestierismi, uno dei suoi principali punti di forza. Nelle scuole furono
promossi programmi di espulsione nel dialetto. Nel secondo dopoguerra il boom economico fu un
potente fattore di mobilità interna, e quindi di incontro di lingue e di culture; aumenta l’incidenza della
scuola: i livelli di scolarizzazione aumentano costantemente e la percentuale degli analfabeti si abbassa
nel 1951 al 14% e nel 1961 si aggira tra il 12,99% e l’8,4%. E quando poi, nel 1962, fu introdotta in Italia
la scuola media unica che innalzava l’obbligo scolastico a 14 anni , i figli delle classi operaie e contadine,
si affacciarono per la prima volta alla scuola superiore. La scuola era nel frattempo profondamente
mutata: i maestri avevano smesso da tempo di parlare in dialetto con i loro allievi, avevano adottato
unanimamente un atteggiamento di totale espulsione del dialetto dalla scuola e si era imposto in classe
un modello di italiano arcaico. Questo modello di italiano fu definito dai linguisti “italiano
scolastico”, a sottolineare l’artificiosità di una varietà di lingua diffusa solo a scuola. Sul versante
linguistico l’innalzamento della scolarità obbligatoria ebbe degli effetti immediati. I problemi legati
all’imperfetto usa della lingua nazionale da parte dei figli dei contadini e degli operai avrebbero
richiesto ben altra attenzione, ben diversa preparazione linguistica e didattica rispetto a quella
normalmente posseduta da un insegnante di lettere. Non tutti si accorsero della centralità del problema
linguistico per i bambini dialettofoni, costretti dalla scuola a parlare e scrivere in una lingue straniera
per comunicare. Le insufficienze accumulate nelle diverse materie erano per lo più interessare come il
frutto di disattenzione, scarsa applicazione allo studio. Il risultato fu che molti ragazzi ne venivano
espulsi dopo uno o più anni di frustanti esperienze. La fuga dalla scuola fu per molti di quei ragazzi la
soluzione quasi scontata del problema.
I maestri
Su questa scuola, si abbattè nel 1967 la bruciante denuncia di un prete, Don Lorenzo Milani, autore
di un libretto, la “Lettera a una professoressa”, nel quale molti vedono l’atto di nascita di una
critica alle scelte contenutistiche ed alle modalità dell’insegnamento linguistico tradizionalmente in uso
nella nostra scuola. Lettera a una professoressa è un libro collettivo, scritto dai ragazzi che
frequentavano la scuola di Barbiana; si presenta come una lunga lettera che un ragazzo scrive, assieme
ai suoi compagni, ad una professoressa, simbolo delle ottusità e delle arretratezze del sistema scolastico
italiano. I ragazzi raccontano le loro difficoltà nel rapportarsi con un’istituzione che ignora tutto della
loro lingua e della loro cultura; descrivono le modalità di lavoro messe in atto a Barbiana, e le
raffrontano con le pratiche normalmente in uso a scuola. Don Milani afferma che i “poveri” siano
vittime di un deficit linguistico che li priva della possibilità di partecipare in modo attivo alla vita sociale
e politica della comunità. E dunque la responsabilità della scuola, nel momento in cui non prova a
colmare questo deficit ma lo aggrava. Le maggiori accuse che Don Milani fa alla scuola italiana
dell’epoca sono: la scarsa considerazione per la lingua dei poveri (dialetto) e per la loro cultura ha come
conseguenza l’emarginazione dei figli dei contadini e degli operai, che spesso vengono semplicemente
espulsi dalla scuola. La soluzione al problema non è però l’assunzione della lingua dei poveri come
strumento di comunicazione scolastica. Se dunque bisogna insegnare a tutti l’uso di uno strumento
linguistico più ricco e potente, allora il fallimento della scuola è totale. Le cause sono da ricercare in un
insieme di fattori che per Don Milani si riassumono nei seguenti punti:
• il modello di lingua proposto dalla scuola è non solo diverso e lontanissimo dalle abitudini
linguistiche delle classi povere, ma è ancora troppo condizionato da modelli letterari superati;
• la lingua proposta è vecchia, ipocrita e ambigua, incapace, di chiamare le cose con il loro nome;
gli allievi di Don Milani chiameranno culo il culo;
• nessuna attenzione si presta alla cultura del popolo.
A queste se ne aggiunge un’altra, ovvero si accusa la scuola di non insegnare a scrivere. Al contrario a
Barbiana si mette a punto un metodo pionieristico, che può considerarsi il modello di tanti laboratori di
scrittura che nasceranno anni dopo nelle scuole d’avanguardia e nelle classi sperimentali.
La vicenda di Don Milani va collegata ad altre esperienze educative, ad altre figure esemplari di maestri
che negli anni stessi in cui maturava l’esperienza di Barbiana provarono a rinnovare i modi tradizionali
dell’insegnamento linguistico. Tra questi dobbiamo ricordare Bruno Ciari, figura significativa di
maestro e organizzatore culturale, cui devono farsi risalire molte delle coraggiose innovazioni:
dall’atmosfera di classe, serena e rilassata, alla corrispondenza interscolastica, alla tipografia
scolastica. Nel 1951 si era costruita in Italia la Cooperativa della Tipografia a Scuola, o CTS,
un’associazione molto attiva di insegnanti che tenne a Rimini il suo primo congresso. Bruno Ciari fu
uno degli animatori dell’associazione, il cui nome si trasformò successivamente in Movimento di
Cooperazione educativa (o MCE), attivo in Italia fino ai giorni nostri. Una delle idee più innovative per
la scuola del tempo fu la supremazia del linguaggio parlato sullo scritto, da cui scaturì la tecnica del
cosiddetto “testo libero orale”. Questa tecnica si rivela preziosa non solo come stimolo all’uso orale del
linguaggio, ma anche come primo passo e incentivo all’uso scritto della lingua; deve però essere sempre
motivato da reali esigenze comunicative. Ciari rifiutò l’idea di una scrittura scolastica artificiosa,
esclusivamente finalizzata alla valutazione, e pensò alla scrittura come esercizio di trasposizione del
pensiero in forme testuali. (racconto, lettera, diario) Il maestro Ciari insiste molto sulla valenza
educativa della corrispondenza interscolastica, che stimolerà quella che Ciari chiamava ricerca
d’ambiente, un nuovo modo di imparare, basato sulla curiosità, sullo spirito d’iniziativa, sulla raccolta
e osservazione dei dati, in una parola sulla partecipazione attiva degli allievi alla costruzione del loro
sapere. All’esperienza della corrispondenza si farà poi seguire la pratica della tipografia scolastica.
Dunque dobbiamo a Bruno Ciari anche la nascita dei giornalini scolastici. Di questa tecnica fu
maestro un altro eccezionale uomo di scuola, Mario Lodi. L’idea che l’educazione linguistica sia fatta
anche di educazione al parlare e all’ascoltare, ma anche a leggere e scrivere, e l’idea che si possa parlare
in classe uno scambio effettivo si informazioni e di esperienze (e non solo durante le “interrogazioni”),
queste idee nascono dalle esperienze di Mario Lodi e di tanti maestri che negli stessi anni sentirono il
bisogno di cambiare strada. Ricordiamo il maestro umbro Orlando Spigarelli e Maria Maltoni, i
quali hanno il merito di aver lasciato testimonianza scritta delle loro esperienze. Spigarelli era un
maestro che consigliava di scrivere i temi in dialetto, prima con alcune semplici cose e poi con uno
schema formato da alcune domande. Oltre che descrivere personaggi e raccontare storie del proprio
ambiente, i bambini riportano i risultati di piccole inchieste. Egli, inoltre, non solo non reprime il
dialetto dei suoi allievi, ma li incoraggia a produrre pezzi mistilingui. I ragazzi di Maltoni scrivono dei
diari, i “Quaderni di San Gersolè”, in cui raccontano di sé e descrivono la natura che li circonda usando
un italiano semplice e scarno.
C’era tuttavia l’idea che il retroterra linguistico degli allievi fosse un insieme di cattive abitudini da
correggere e possibilmente sradicare, ma un patrimonio da salvare. I maestri che si cimentano in questa
impresa furono moltissimi, ad esempio don Roberto Sardelli, che svolse la sua opera educativa nelle
borgate romane, tra i ragazzi, di cui colse lo sradicamento culturale e linguistico. A differenza dei ragazzi
di Spigarelli e Maltoni, i suoi ragazzi vivono una realtà linguistica dissociata. Non sono più dialettofoni
ma non sono ancora neanche italofoni, privati della loro lingua, conoscono della nuova soltanto poche
parole.
I linguisti
Il mondo della linguistica italiana era in fermento. Si era venuta a formare una nuova generazione di
studiosi del linguaggio sensibili alle peculiarità linguistiche della società italiana. Uno dei primi atti
pubblici di questa nuova linguistica italiana fu la costruzione della Società di Linguistica Italiana (SLI,
1967). Dobbiamo a Tullio De Mauro la sua nascita. L’interesse della SLI per l’educazione linguistica
si rivelò subito molto forte. A soli 3 anni dalla sua nascita dedicò il suo quarto convegno annuale a temi
di educazione linguistica. Subito dopo nacque una nuova associazione, il GISCEL (Gruppo di
Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica).
2. La variabilità linguistica
La scoperta del plurilinguismo
Uno dei temi ricorrenti della nuova educazione linguistica fu la scoperta del plurilinguismo, ovvero la
compresenza sia di linguaggi di tipo diverso, sia di idiomi diversi, sia di diverse norme di realizzazione
di un medesimo idioma. Nella definizione si fa dunque riferimento ai diversi tipi di linguaggio di cui la
specie umane dispone; alle diverse lingue di cui ogni comunità umana può disporre; alle diverse
forme di realizzazione, o varietà, che una lingua può presentare nella medesima comunità. Dunque
nessuna comunità linguistica è omogenea e ciascun parlante è in grado di padroneggiare più
linguaggi, più idiomi, più varietà. Nella scuola dominava una tenace vocazione al monolinguismo, che
già le Dieci Tesi e “Lettera a una professoressa”, avevano denunciato. Bisogna educare i giovani al
rispetto della varietà linguistica ed all’uso d’ogni sorta di creatività linguistica: ciò significa educarli alle
varietà di linguaggio e di lingue, alle varietà di frasi e di vocabolario, alle varietà di stili e di esecuzione.
Finalmente gli insegnamenti cominciarono a confrontarsi con la tematica della variabilità linguistica:
non solo i dialetti, realtà ben nota, ma anche le varietà regionali di italiano, l’italiano popolare, i registri,
realtà, tutte abbastanza sconosciute agli insegnanti di italiano.
Dialetto e scuola
Negli anni ‘70 i dialetti erano ancora una realtà molto diffusa nell’intero territorio nazionale: nel 1974
dichiaravano di parlare in casa sempre in dialetto più del 51% degli intervistati. Questo significa che il
dialetto era per questi la lingua materna, e l’italiano si configurava come una sorta di lingua seconda,
da apprendere, a scuola. La formula delle Dieci Tesi, sintetizzabile in “educare al plurilinguismo”
doveva significare ad esempio insegnare dialetto. Oppure insegnare in dialetto, facendo del dialetto una
lingua veicolare, accanto all’italiano, per tramettere contenuti disciplinari? Benincà non ha dubbi: se
uno dei fini prioritari della scuola è quello di insegnare la lingua italiana corrente ne consegue che non è
il caso di insegnare un dialetto a scuola. Direi che il dialetto deve essere usato come il primo e il più
accessibile oggetto di riflessione linguistica, proprio nel passaggio all’italiano. Su queste posizioni si
mantennero tutti coloro che intervennero nel dibattito stimolati dalla pubblicazione, nel 1979, dei
nuovi programmi per la scuola media. Sabatini incoraggia gli insegnanti a variare gli interventi, in caso
di educazione linguistica, anche sulla base di un’attenta considerazione della situazione sociolinguistica
della zona di insegnamento. Egli ammette che in ambienti di forte dialettofonia anche il dialetto può
essere assunto in classe come veicolo provvisorio di comunicazione. Era opinione diffusa nella nuova
educazione linguistica che l’utilizzazione degli idiomi locali nel processo educativo, non pregiudicasse
affatto l’assimiliazione dell’italiano. La storia ha dato ragione a questa impostazione.
L’esigenza di un’educazione plurilingue si è concretamente realizzata nella scuola, seguendo 3 diverse
direzioni: uso del dialetto per la narrazione di fatti e aneddoti di vita locale; ricerca d’ambiente e
recupero del dialetto soprattutto attraverso interviste a parlanti anziani; riflessione italiano-dialetto
anche in direzione storico-comparativa. Si tratta tuttavia di esperienze esemplari che hanno interessato
fasce minoritarie di docenti di italiano. Sono probabilmente docenti convinti che l’uso del dialetto possa
essere una fonte di ricchezza. Che questo, sia vero, lo dimostrano i risultati dell’indagine IEA, condotta
negli anni 1990-92 in 31 Paesi differenti per misurare i livelli di alfabetizzazione nella lettura in
studenti compresi tra i 9 e i 14 anni di età. In quell’occasione risultò: i ragazzi che dichiaravano di
parlare quasi sempre italiano a casa ottenevano risultati migliori di coloro che dichiaravano di parlare
sempre italiano, e questi ultimi ottenevano praticamente gli stessi risultati di coloro che non lo
parlavano quasi mai. Solo i dialettofoni esclusivi risultavano penalizzati nelle prove. Ne consegue
che in qualche caso la presenza di più idiomi sembra incidere positivamente sul profitto, creando
intorno al bambino un ambiente linguistico più ricco e stimolante. Un’inchiesta condotta tra 417
insegnanti equamente distribuiti tra i vari ordini di scuola, attive nella provincia di Palermo nel 1994,
rivela che l’83% degli intervistati erano in tutto (45%) o in parte (38%) convinti che la dialettofonia
prevalente o esclusiva fosse un fattore di grave svantaggio linguistico e lo è veramente se la scuola non
è attrezzata per trasformare dialettofonia e multilinguismo in ricchezza e vantaggio. L’inchiesta
palermitana ci ricorda come con il passare degli anni anche per la scuola la tematica dialettale ha perso
parte della sua centralità risultando ancora attuale in aree marginali, dove troviamo ancora realtà
dialettofone compatte ed esclusive: è il caso di Palermo, o almeno di certi suoi quartieri, ed è il caso dei
quartieri popolari del centro storico di Napoli. Qui dialettofonia vuol dire ancora svantaggio
linguistico e conseguente difficoltà scolastica, e nei casi estremi espulsione dalla scuola e
inadempienza dell’obbligo scolastico. l’attuale presidente dell’Accademia della Crusca, Sabatini,
scrive: “I dialetti sono parte della nostra storia sociale, culturale e letteraria e alcuni di noi li sentono
come una forma più spontanea di espressione”. Parlare di insegnamento del dialetto non ha senso: il
dialetto si può solo imparare direttamente da chi lo usa davvero per scopi pratici.
Le parlate alloglotte
Oltre ai dialetti, sussistono sul territorio nazionale le parlate alloglotte, termine con cui si designano
le lingue parlate da piccole minoranze. Secondo G. Francescato le parlate alloglotte sono circa 15 tra
lingue e varietà romanze, e lingue e varietà non romanze, e interessano circa il 4,8% dell’intera
popolazione italiana. Si usa la denominazione di minoranza per indicare un gruppo, di solito non
molto numeroso, nel quale i parlanti alloglotti hanno come prima lingua o lingua materna una
lingua diversa dall’italiano. Queste condizioni si ritrovano in una serie di aree geografiche di antico
insediamento (minoranza tedesca in Alto Adige, francese in Valle d’Aosta, slovena nel Friuli Venezia
Giulia). Non è facile farne una descrizione completa, né indicare con sicurezza i confini precisi.
Francescato sceglie la presentazione di una serie di “punti geografici” dove è presente il fenomeno del
bilinguismo: individua così il provenzale e il franco-provenzale del Piemonte e della Valle
d’Aosta; le minoranze tedesche lunga la catena alpina e in Alto Adige; la minoranza ladina
dolomitica; la minoranza friulana; la minoranza slovena delle provincie di Trieste, Udine e
Gorizia; la minoranza croata della provincia di Campobasso (Molise); la varietà albanese sparsa
nelle regioni meridionali e in Sicilia; parlate greche nelle provincie di Reggio Calabria e Lecce; la
varietà algherese-catalano nella cittadina di Alghero; la lingua sarda; le parlate degli
zingari.
Si tratta di un insieme di caratteristiche linguistiche cui si accompagna una particolare sensibilità per
culture riconoscibili, che vantano una lunga e rispettabile tradizione. Sul piano della tutela e della
vitalità delle lingue minoritaria, bisogna operare una distinzione tra le lingue delle aree di confine,
che godono di una speciale politica di tutela e le altre minoranze linguistiche, le cosiddette isole, le
quali sono state fatte oggetto di un intervento legislativo mirato solo nel 1999. Con la legge del 1999, lo
Stato italiano ha riconosciuto le realtà alloglotte stanziando fondi per promuovere la protezione delle
lingue e delle culture locali. La legge ha fatto discutere, suscitando numerose prese di posizione da parte
di linguisti e sociolinguisti che denunciavano il fatto che la legge fosse arrivata troppo tardi.
Un’inchiesta conoscitiva, condotta dal MIUR a 10 anni di distanza dall’entrata in vigore della legge,
disegna un quadro variegato, con alcuni punti di forza e molti punti di debolezza: tra i quali vanno
annoverati l’adesione tiepida di alcune comunità, il senso di precarietà rafforzato dal progressivo ridursi
del finanziamento, la non entusiastica accoglienza da parte di molti studenti, che spesso sentono le ore
dedicate alla lingua minoritaria come ore di divertimenti ma abbastanza inutili. Anche le inchieste
condotte nei territori interessati rilevano l’avanzata inarrestabile della italofonia esclusiva nelle nuove
generazioni, laddove la lingua minoritaria non sia più presente nel contesto familiare. La legge riguarda
le minoranze linguistiche storiche. Dunque ignora da una parte le minoranza linguistiche di
immigrazione recente di marocchini, albanesi, romeni, cinesi, filippini e dall’altra la minoranza
zingara, che pur essendo di vecchio insediamento non vanta un carattere territoriale ben definito.
Le varietà dell’italiano
Come la ricerca sociolinguistica ci ha da tempo insegnato, oggi sappiamo che ogni lingua conosce
al suo interno una serie di diversificazioni, o varietà. Concentrando la nostra attenzione sull’italiano, è
ovvio che anch’esso non sfugge a questa condizione generale. L’italiano ha sviluppato una gamma assai
ampia di diversificazione, vale a dire dei parametri extralinguistici con cui la variazione interna alla
lingua è correlata. Tali parametri aiutano ad identificare 5 diverse dimensioni della variazione:
1. una lingua cambia lungo l’asse del tempo, e perciò parliamo di VARIETÀ DIACRONICHE;
2. una lingua cambia nelle diverse aree geografiche in cui viene usata, dando vita alle cosiddette
VARIETÀ DIATOPICHE;
3. una lingua cambia a seconda dello strato o gruppo sociale cui appartengono i parlanti, e perciò
parliamo di VARIETÀ DIASTRATICHE;
4. una lingua cambia a seconda della situazione comunicativa in cui viene usata, per cui parliamo
di VARIETÀ DIAFASICHE;
5. infine, una lingua cambia a seconda del mezzo fisico, vale a dire del canale attraverso cui viene
usata, VARIETÀ DIAMESICHE.
Ciascuna dimensione di variazione va immaginata come una specie di continuum, una sorta di varietà
avente ai suoi estremi due varietà ben distinte e fra queste una serie di varietà in cui ciascuna sfuma
nell’altra senza che sia possibile stabilire confini ben delimitati fra l’una e l’altra.
La variazione diacronica
Ogni lingua viva cambia. È chiaro ed evidente a tutti come l’italiano del 300 sia diverso da quello del
700 o da quello del 900. Sono più interessanti per l’insegnante di italiano i mutamenti in corso, quelli
che interessano la lingua italiana d’oggi. Il processo di mutamento è talmente lento che è persino
difficile accorgersene quando esso interessi un periodo breve, quale può essere considerato, ad esempio,
l’arco della vita umana. In quest’ottica a breve termine colpisce il cambiamento che si verifica nel
settore del lessico. Meno evidenti, perché molto più lenti, sono i mutamenti che interessano gli altri
livelli della lingua: il livello fonologico, o quello morfosintattico. Renzi afferma che il cambiamento
linguistico non consiste nella sostituzione improvvisa di una forma con un’altra, ma presuppone un
lunghissimo periodo di convivenza tra una forma consolidata e accettata, ed una nuova forma che tende
a sostituirsi alla prima. Normalmente accade che la vecchia forma resista nei registri più formali e
quindi nello scritto, mentre la nuova forma si affermi e si consolidi nei registri meno formali e
dunque nel parlato. Dopo questo periodo di convivenza può accadere che la forma più vecchia riesca a
vincere il confronto, e ad espellere la nuova forma, oppure che venga espulsa essa stessa lasciando il
posto alla forma rivale. Accade anche che una vecchia forma espanda il suo carico funzionale: è , ad
esempio, il caso dei cosiddetti usi modali dell’imperfetto nell’italiano contemporaneo, per cui
l’imperfetto tende ad assumere funzioni diverse (di cortesia: volevo un etto di prosciutto) a scapito di
altri tempi e modi (al posto di: vorrei un etto di prosciutto).
La variazione diatopica
Come afferma C. Mazzarini, “l’italiano non è parlato in modo uniforme nell’intero territorio
nazionale”. La variazione diatopica riguarda soprattutto le realizzazioni orali della lingua, anche se
ne possono essere coinvolte forme particolari di scrittura quali le insegne dei negozi. Va subito chiarito
però che l’aggettivo regionale vale a dire “di una certa zona” ed equivale a “locale”. De Mauro
scrive: “la varietà regionali di italiano possono considerarsi come una nuova risultante nata dal
comporsi della tradizione linguistica italiana con le molteplici tradizioni linguistiche dialettali: in latri
termini, esse si sono andate a formare a mano a mano che gli ambienti abituati al monolinguismo
dialettale si sforzavano di usare la lingua comune”.
Lo sviluppo delle varietà regionali ha dunque favorito una grande mobilità di forme e di strutture dai
dialetti alle varietà locali di italiano e quindi alla lingua comune. Tuttavia, non tutti gli studiosi sono
concordi nella esatta individuazione e definizione di queste varietà. Ogni regione linguistica presenta al
suo interno una ricca gamma di variazione che sfumano gradualmente l’una nell’altra, in un continuum.
All’interno di questo continuum si distinguono i 2 livelli di realizzazione dell’italiano regionale che sono
agli estremi della scala: una varietà regionale “bassa”, più ricca di forme dialettali e una varietà
regionale “alta”, più vicina all’italiano standard. È soprattutto a livello di pronuncia che le
diversità regionali si fanno notare, tanto che quando si sente parlare qualcuno in italiano si riesce quasi
sempre ad individuarne la zona di provenienza, almeno per grandi aree (settentrionale, centrale-
toscana, centrale-romana, meridionale, siciliana, sarda ecc.) grazie a spie fonetiche e
intonazionali, ma anche lessicali. Le differenze di pronuncia, che coinvolgono la fonetica, il
ritmo e l’intonazione, sono numerosissime. Per il settore più studiato, quello della fonetica, T. Telmon
censisce ben III tratti fonetici. Ma se ne potrebbero facilmente aggiungere altrettanti. Tra i tratti
fonetici più riconoscibili ricordiamo:
• realizzazione sempre sonora della s intervocalica (tratto settentrionale); nel centro-sud si
registra al contrario la realizzazione sempre sorda della stessa consonante;
• riduzione delle consonanti doppie, o scempiamento: belo al posto di bello, nono al posto di
nonno (tratto settentrionale);
• aspirazione nella realizzazione delle consonanti occlusive sorde in posizione intervocalica la
hasa al posto di la casa (tratto toscano);
• pertinenza della realizzazione delle vocali intermedie e / o [peska, pronuncia aperta, frutto;
pronuncia chiusa, attività del pescare] (tratto toscano);
• rafforzamento sintattico della consonante iniziale di parola sa ttutto (tratto centro-
meridionale);
• pronuncia sonora delle occlusive sorde dopo n / m in drenda al posto di in trenta (tratto
centro-meridionale);
Per quanto riguarda i tratti morfosintattici, Telmon ne elenca 66, tra i quali scegliamo alcuno dei
più significativi e qualcuno degli esempi, raggruppandoli in 3 grandi gruppi:
a) Varietà settentrionali:
• uso quasi esclusivo del passato prossimo, rispetto alla forma concorrente del passato
remoto;
• assenza dell’articolo determinativo davanti a pronomi possessivi con nome di parentela che
lo richiederebbero: mia mamma, mio papà;
• costrutti particolari per rendere l’aspetto verbale: sono dietro a pensare (sto pensando);
• uso pleonastico dei pronomi e delle particelle pronominali: a me mi piace tanto viaggiare;
• nomi propri di persona femminili preceduti dall’articolo determinativo: la Lucia; in certe zone
(Lombardia, Trentino) il fenomeno è diffuso anche con i nomi maschili: il Carlo;
• rafforzamento di alcune congiunzioni o pronomi per mezzo di che (tratto veneto): quando
che vai via; il paese dove che sono stato in vacanza.
b) Varietà centrali:
• che enfatico con funzione interrogativa (tratto romano): che, vieni a cena stasera?;
• sistema tripartito dei dimostrativi (tratto toscano), che comprende forme riferite all’ascoltatore:
codesto, costì, costà, costassù;
• uso della prima persona plurale in forma impersonale (tratto toscano): noi quest’estate si va al
mare.
c) Varietà meridionali:
• uso generalizzato del passato remoto rispetto alla forma concorrente del passato prossimo
(tratto diffuso in Sicilia);
• alta frequenza dei verbi pronominali intensivi: mi sono mangiato un bel piatto di
spaghetti, mi sono cista il film, e poi sono andata a letto;
• uso del cosiddetto accusativo preposizionale, vale a dire dell’oggetto introdotto dalla
preposizione a: hai visto a tuo padre?;
• scambi di modi tra protasi e apodosi nel periodo ipotetico: se direi..farei.., se
dicessi..facessi.., al posto di se di se dicessi..farei..;
• allocuzione inversa, soprattutto con i nomi di parentela: hai mangiato, mamma? (detto
dalla madre al proprio figlio);
• sostituzione dell’interrogativo perché con la locuzione che + verbo + a fare: che ridi a fare?
Dalla lettura di questi rapidissimi elenchi si può notare che mentre alcuni tratti risultano connotati in
senso regionale, per altri tratti è già documentata una larga diffusione a livello nazionale.
La variazione diastratica
La variazione diastratica è correlata con la collocazione del parlante nella società: quindi è
correlata con lo strato, o classe sociale di appartenenza del parlante, a sua volta determinata dalla
professione, dal reddito, dal grado di istruzione; è correlata anche con la classe di età del parlante e con
il sesso. Per quanto riguarda la dimensione di variazione legata alla posizione sociale, ricordiamo
che essa non interessa i parlanti di classe sociale alta “tipicamente ben scolarizzati e di norma
cresciuti in ambiente italofono”, e dunque tali da avere accesso privilegiato allo standard; vale il
contrario per i parlanti di classe bassa, mediamente poco scolarizzati e meno esposti a produzioni
standard. Per consuetudine si chiamano varietà sociali solo le varietà marcate verso il basso, che
costituiscono il cosiddetto italiano popolare.
E per “italiano popolare” si intende quell’insieme di usi frequentemente ricorrenti nel parlare e nello
scrivere di persone non istruite e che per lo più nella vita quotidiana usano il dialetto, caratterizzati
da numerose devianze rispetto a quanto previsto dall’italiano standard normativo.
Si tratta di un italiano “sgangherato” sul piano dell’ortografia, della punteggiatura e della
morfosintassi, che trasferisce nella scrittura modi e forme tipiche del parlato. Altri tratti ricorrenti
sono la regolarizzazione di forme verbali irregolari (venghino, se stasse zitto), il
rafforzamento dei pronomi attraverso la ridondanza (fagli coraggio a papà, i suoi genitori di
lei), la semplificazione o la reinterpretazione di parole difficili (comprativa per cooperativa,
febbrite per flebite) l’uso di parole generiche (le carte per i documenti). Risultano devianti i fatti
grafici, che provano lo sforzo fatto da questi parlanti per tradurre il parlato in lingua scritta. Gli errori
più frequenti si addensano nelle aree in cui l’ortografia tradizionale dell’italiano è altamente
convenzionale (uso delle maiuscole, punteggiatura, impiego di h) o non presenta corrispondenza
biunivoca tra fonemi e grafemi.
Nato nei primi decenni del 900 tra le classe subalterne non raggiunte dalla scuola, l’italiano
popolare fu il frutto di una situazione storica in cui grandiosi fenomeni sociali fecero incontrare
parlanti aventi alle spalle dialetti diversi che avevano bisogno di comunicare tra di loro, non avendo
però una lingua comune. Nacque dunque fuori dalla scuola per merito delle classi popolari e con
caratteristiche unitarie. Ma nel panorama contemporaneo questa varietà sembrerebbe scomparsa.
La variazione sociale si manifesta anche nelle differenze linguistiche legate al sesso ed all’età.
Per quanto riguarda la prima forma di differenziazione linguistica, non sono emerse differenze
linguistiche tali da autorizzare gli studiosi a ipotizzare l’esistenza di vere e proprie varietà di lingue.
Piuttosto è emerso qualche fattore di differenziazione negli atteggiamenti sociolinguistici generali dei
due sessi: ad esempio lo stile di interazione femminile sembra più orientato sugli aspetti
interpersonali e sulle relazioni fra i parlanti che non sul contenuto referenziale del discorso; ancora, nel
parlato femminile è stata notata un’altra ricorrenza di marche di cortesia e di formule di esitazione e di
attenuazione della forza delle affermazioni, come pure una certa propensione all’uso dell’eufemismo.
Un’altra caratteristica solitamente attribuita al linguaggio femminile è poi quella per cui le donne
sembrano più propense degli uomini ad adottare le varianti normative o dotate di maggior prestigio.
Nella scelta tra italiano e dialetto, la percentuale di coloro che parlano prevalentemente in italiano sia
più alta per le donne che per gli uomini; parallelamente la percentuale di coloro che parlano
prevalentemente in dialetto è più alta presso gli uomini. Questo significa che quando le donne hanno
possibilità di scelta tendenzialmente sceglieranno di parlare ai loro bambini nella lingua considerata
dalla comunità come più prestigiosa, dunque, in italiano.
Quanto alla variazione legata all’età, bisogna riconoscere che questa dimensione di variazione è stata
abbastanza studiata, ma solo nei suoi esiti giovanili. Questo non significa però che il linguaggio dei
giovani non si differenzi al suo interno in relazione all’età, alla geografia, alla classe sociale, al luogo di
aggregazione frequentato (la scuola, il bar, la società sportiva, il gruppo politico). Il linguaggio
giovanile presenta alcune caratteristiche ricorrenti che gli studiosi del campo hanno descritto. Ad
esempio la ricerca dell’espressività e dell’informalità si realizza attraverso l’uso di intercalari frequenti,
altrimenti detti segnali discorsivi (boh, niente, cazzo, cioè), o anche attraverso la riscoperta di
dialettalismi (in Veneto schei o sghei per soldi, moroso/a per fidanzata, ma il romanesco frocio è
diventato panitaliano), o ancora attraverso l’uso insistito di parole e di espressioni interdette
(cazzo, che figata!, che palle!, che culo! Va a fa’ in culo). Un motore importante del linguaggio giovanile
è l’innovazione lessicale, che si manifesta anche attraverso l’adozione di internazionalismi (pop music,
rap, trip) o pseudo forestierismi (arrapescion, modulescion, mutandero).
I giovani giocano anche nella lingua diffusa dal mezzo di comunicazione come la televisione, alla
quale dobbiamo aggiungere Internet e i nuovi media che, frequentati soprattutto dai giovani, accelerano
la dinamica linguistica e amplificano la funzione innovativa della fascia giovanile della popolazione
anche in un’area, quella della lingua scritta, finora più impermeabile al cambiamento. Risulta infine
abbastanza preoccupante il quadro tracciato da Pietro Trifone, che dal suo particolare punto di
osservazione parla di deriva linguistica delle nuove generazioni, cui si accompagnano errori di
ortografia e di sintassi, malapropismi, improprietà, colloquialismi e invenzioni lessicali spesso sguaiate.
La variazione diafasica
La variazione diafasica ha a che fare con il mutare delle situazioni comunicative, le quali sono
condizionate da variabili quali le circostanze in cui ha luogo lo scambio, il ruolo ricoperto dagli
interlocutori, gli scopi e l’argomento dell’interazione. Rientrano in questa dimensione i cosiddetti
“registri” ed i “sottocodici”. Per quanto riguarda i registi, Berruto avvertiva come essi fossero la
classe di varietà meno studiata per l’italiano. Chiameremo registri le varietà diafasiche dipendenti
primariamente dal carattere dell’interazione e dal ruolo reciproco assunto sa parlante e destinatario. Ciò
significa che le scelte di registro dipendono dal grado di formalità o informalità della situazione:
ai due estremi si pongono da una parte le situazioni molto formali, che richiedono un registro formale;
dall’altra si pongono le situazioni molto informali, in famiglia o tra amici e conoscenti, che richiedono
un registro informale, che è quasi esclusivo del parlato. Fra i due estremi si pone una gamma quasi
infinita di situazioni. Le scelte lessicali documentano bene questa gradualità “continua”: Berruto
esemplifica il fenomeno sul verbo morire, che è un termine neutro. Per morire la competenza del
parlante potrebbe individuare questa scala: rendere l’anima a Dio / defungere / perire / decadere /
estinguersi / trapassare / spirare / chiudere i propri occhi / esalare l’ultimo respiro / passare a
miglior vita / salire al Cielo / perdere la vita / spegnersi / mancare / morire / andarsene / tirare le
cuoia / andare all’altro mondo / rimanerci / lasciarci la pelle / crepare.
Come appare chiaro da quest’esempio ogni scelta fra termini contigui sposta un pochino verso il basso o
verso l’alto il registro.
Passiamo adesso ad un tentativo di descrizione più precisa dei tratti che caratterizzano i due estremi
della scala, il registro molto formale e il registro molto informale; il primo coincide quasi del
tutto con l’italiano scritto formale; il secondo è in quasi totale sovrapposizione con l’italiano parlato
informale.
I tratti linguistici tipici dei registri alti sono riassumibili nei termini che seguono:
• a livello fonologico: bassa velocità di eloquio e maggiore accuratezza nella pronuncia, il che
ha come conseguenza un’attenuazione dei tratti regionali più marcati;
• a livello morfosintattico e testuale: massima esplicitezza verbale e scarso ricorso
all’implicito; pianificazione accurata del testo (in primo luogo, come abbiamo già detto, come
vedremo tra poco); uso frequente di connettivi di vario tipo (infatti, quindi, al contrario,
conseguentemente); sintassi elaborata (gerundi, participi); scarsi riferimenti al contesto in cui
ha luogo lo scambio;
• a livello lessicale: variazione spinta (orrore per la ripetizione lessicale) e tendenza alla
verbosità, ripetere con altre parole quanto già detto; preferenza per termini specifici (recarsi
invece di andare, adirarsi invece di arrabbiarsi, conferire con invece di parlare con); alto
impiego di parole complesse (derivate o composte) (nazionalizzazione, notabilato,
assistenzialismo).
Come rileva Berretta l’esplicitezza linguistica dei registri formali non equivale a loro massima
comprensibilità: anzi, alcuni tratti di questi registri li rendono difficili per il parlante di media o scarsa
scolarizzazione.
I tratti caratteristici dei registri informali sono ovviamente di segno opposto:
• a livello fonologico: alta velocità di eloquio e scarsa accuratezza nella pronuncia, cui si
accompagnano tratti quali la tendenza al troncamento (fan, far, son, veniam), all’aferesi (‘sto
per questo, ‘ndiam per andiamo), alla semplificazione di nessi difficili (arimmetica per
aritmetica, proprio per proprio), alla fusione di segmenti (presempio per per esempio);
• a livello morfosintattico e testuale: ricorso all’implicito, al non detto, determinato dalla
condivisione del contesto comunicativo con il destinatario; scarso uso di connettivi e sintassi
spezzata, con frasi brevi e spesso ellittiche;
• a livello lessicale: scarsa variazione lessicale, con alto tasso di ripetizioni e di nomi cosiddetti
generali (cosa, tizio, faccenda); uso frequente di parole abbreviate (bici per bicicletta, prof per
professore); uso frequente di lessico connotato in senso colloquiale (prendersela al posto di
offendersi, sfottere al posto di deridere o prendere in giro, fregarsene al posto di
disinteressarsi), che può diventare adozione di parole ed espressioni interdette (casino nel
senso di confusione).
Il tipo di relazione che intercorre tra gli interlocutori condiziona in maniera forte l’adozione di un
registro più o meno formale: da questa relazione dipende ad esempio la scelta degli allocutivi
(Maria/ signora Maria/ signora/ signora Rossi/ dottoressa Rossi) e dei pronomi allocutivi (tu/
lei/ Ella), oltre che delle formule di saluto (ciao/ salve/ buongiorno). Monica Berretta afferma che
le diverse funzione pragmatiche di un enunciato siano condizionate dal grado di formalità della
situazione e dalla relazione con l’interlocutore. Ad esempio lo stesso contenuto informativo può essere
espresso nelle forme sotto elencate secondo una scala che va dalla minima alla massima formalità:
timbra il biglietto / timbreresti il biglietto? / ti dispiace timbrare il biglietto? / non dimentichi di
timbrare il biglietto / pregasi di obliterare il biglietto / si avvertono i signori passeggeri di obliterare
il biglietto. Le situazioni più informali sopportano formulazioni dirette (l’ordine attraverso
l’imperativo), ma appena si voglia rendere un pò più cortese o meno personale lo scambio si ricorre a
vari mezzi che hanno lo scopo di attenuare la franchezza iniziale, trasformando l’ordine in una richiesta,
in un avvertimento, o addirittura in una preghiera, e passando dal tu al lei e a forme impersonali.
Rientrano nell’ambito della variazione diafasica anche i sottocodici, varietà caratterizzate soprattutto
da un lessico particolare. I sottocodici sono legati a particolari attività lavorative e professionali o
ambiti di studio: si parla dunque di linguaggio della medicina, della filosofia, della musica, del
diritto, dello sport. Sobrero ricorda i criteri a cui deve rispondere una lingua specialistica: tra i più
importanti sono senz’altro la precisione, l’economia e la neutralità emotiva.
Si capisce allora perché il lessico sia forse il settore di maggiore differenziazione di una lingua speciale
rispetto alla lingua comune. Ciò non significa che non siano coinvolti anche altri livelli linguistici.
Sobrero descrive infatti alcune strutture che ricorrono nelle lingue speciali con maggiore frequenza
rispetto alla lingua comune: sul piano morfosintattico, ad esempio, è attestato un largo uso dello stile
nominale, del passivo per lo più senza indicazione della causa o dell’agente.
Anche sul piano testuale sono stati descritti diversi fenomeni che nei testi specialistici si presentano con
una frequenza anomala: ad esempio tali testi presentano di solito un piano compositivo ben organizzato
e una struttura riconoscibile, che in certi casi può diventare rigidamente predeterminata, con schemi
vincolanti. Inoltre i testi specialistici preferiscono le anafore più esplicite e trasparenti a quelle implicite
o ellittiche, e fanno ricorso ai connettivi che esplicitano l’ordine logico-concettuale del testo; molto
frequenti sono anche i connettivi metatestuali (del tipo: come abbiamo già detto, detta ipotesi,
come si vedrà nel capitolo successivo).
Berruto ricorda il notiziario radiotelevisivo, genere testuale particolarmente complesso: è un
testo scritto ma per essere detto, ha la finalità di comunicare informazione ad un pubblico vasto, adotta
un registro sostanzialmente formale e un sottocodice sostanzialmente burocratico. La sua natura
ambigua favorisce le commistioni di registri e sottocodici diversi. Tra i molti esempi di questo disordine,
riportiamo il seguente: “Davanti agli organi di stampa, il presidente Cossiga ha esternato, andando
giù con molta decisione”. Qui è evidente la commistione tra un registro piuttosto formale e
quell’espressione “andar giù con molta decisione”, che Berruto definisce un colloquialismo. La
responsabilità di queste continue sovrapposizioni di registri e sottocodici è da iscrivesi alla televisione.
La variazione diamesica
La variazione diamesica è quella che riguarda il mezzo o canale di trasmissione del
messaggio: che può essere affidato all’oralità o alla scrittura. Va subito messo in chiaro che la
differenza tra parlato e scritto è prima di tutto da riportare alla differente natura del mezzo di
trasmissione, il quale impone una serie di scelte. La possibilità di pianificare il discorso è massima
nello scritto, minima nel parlato. Il testo scritto può essere ritoccato, corretto, ristrutturato più volte. Al
contrario il parlato è ricco di autocorrezioni, di esitazioni, di interruzioni. Ne consegue che il parlato
sarà meno elaborato e più irregolare dello scritto. Inoltre, dalla differente natura del mezzo deriva il
fatto che è impossibile trasferire nello scritto certe caratteristiche del parlato (intonazione, velocità,
esitazioni, silenzi), come è altrettanto impossibile trasferire nel parlato tutti i fatti grafici e di
organizzazione del testo che sono propri della scrittura (suddivisioni interne del testo in paragrafi,
interpunzione, uso di maiuscole e minuscole, varietà di caratteri).
La variazione legata al mezzo presenta al suo interno una ricca gamma di varietà, ed anche in questo
caso dobbiamo pensare al parlato e allo scritto come ai due estremi di una ipotetica scala, in cui è
rappresentata una vasta gamma di varietà intermedie, ciascuna attraversata da altri fattori di
variazione: la classe sociale e il livello di istruzione del parlante, ad esempio, la sua origine
regionale, la sua età, la situazione comunicativa e dunque il grado di formalità prescelto e così via.
Proviamo adesso ad isolare alcuni tratti che si potrebbero definire tipici del parlato. Per far ciò
assumeremo un punto di vista ingenuo, che identifica il parlato con uno degli estremi della scala,
occupato dalla conversazione faccia a faccia, che prevede compresenza degli interlocutori, scambio di
ruoli, possibilità di verifica del passaggio dell’informazione, oltre alla possibilità di veicolare almeno
parte del contenuto informativo attraverso mezzi paralinguistici (volume e tono di voce, enfasi,
velocità di eloquio), cinesici (gestualità, mimica facciale) e prossemici (distanze tra gli interlocutori
e gestione dello spazio). Inoltre in questo tipo di parlato la compresenza di parlante e destinatario nello
stesso contesto consente di non dire ciò che può essere facilmente recuperato dalla situazione o dalle
conoscenze condivise. Ne consegue che questo parlato è meno esplicito dello scritto.
Beretta afferma che i cambiamenti di programma o le autocorrezioni che il parlante sente di dover fare
non possono essere cancellate (come si fa nello scritto).
Da questo parlato-parlato si passa allo scritto, che è all’altro estremo della scala: si va dal parlato
sorvegliato di una lezione, di un comizio, di una predica, i cui contenuti sono più o meno pianificati; a
varie forme di “parlato-scritto”, con cui Nencioni designa il parlato di una conferenza o di una
lezione accademica che si appoggia generalmente ad uno scritto; al cosiddetto “parlato-recitato”, che
è tipico della rappresentazione teatrale e dei notiziari radio-televisivi.
Dei due estremi della scala, il parlato-parlato (massimo di informalità) e lo scritto (produzioni più
formali), è il primo a risultare più interessante, ed è infatti la varietà che hanno tentato di descrivere i
linguisti che hanno preso in esame questa dimensione di variazione. Quanto allo scritto, la sua
descrizione non è parsa sociolinguisticamente rilevante dal momento che essa coincide con la
descrizione della grammatica dell’italiano tout court. Le descrizioni grammaticali di una lingua di
cultura sono state basate interamente sulla lingua scritta, per di più di registro formale. La situazione è
cambiata negli ultimi decenni, infatti sono state prodotte numerose descrizioni dell’italiano parlato. Ci
si è accorti che perfino il parlato spontaneo possiede una sua organizzazione interna paragonabile a
quella della lingua scritta. Solo che è un’organizzazione diversa, il che ha portato qualcuno a postulare
l’esistenza di “un’altra grammatica”. Noi ci limiteremo a descrivere i tratti di maggiore differenziazione
della varietà parlata rispetto a quella scritta. Come dimostra A. Sobrero ragionando su microsistemi
grammaticali i cambiamenti dell’ambiente hanno conseguenze pesanti e dirette sul comportamento
degli uomini.
Criteri normativi
Un primo criterio di giudizio è quello “razionalistico-logicizzante”. Secondo tale criterio una
forma come suicidarsi sarebbe illogica perché contenente un doppio riflessivo (sui- e -si). Ad usare il
criterio della logica dovremmo giudicare scorretta anche la doppia negazione (io non vedo niente
varrebbe io vedo qualcosa), e fu questo l’errore compiuto da qualche sociolinguista americano, che
giudicò la doppia negazione come una prova della scarsa propensione alla logica della popolazione di
colore. Accenna al problema il linguista e grammatico storico A. Castellani il quale definisce un
concetto della lingua del tutto sbagliato ma inconsciamente accolto da molti quello che fa preferire, ad
una frase come non viene nessuno una frase come non viene alcuno. Ancora più inaccettabile è per lo
stesso il fatto che qualche giornalista piemontese o lombardo arriva a scrivere c’è niente invece di non
c’è niente. Castellani attribuisce all’influenza inglese l’uso e l’abuso dell’aggettivo possessivo in contesti
in cui non sarebbe affatto necessario. La frase “trascorrete le vostre vacanze” un tempo si sarebbe detto
“trascorrete le vacanze”, non essendo possibile che qualcuno possa trascorrere le vacanze di un’altra
persona. Per documentare il peso e l’estensione del fenomeno riportiamo altri 2 quesiti interessanti.
Primo quesito: Dicendo “In casa di X ci sono dei bei quadri” non si raddoppia l’indicazione del
luogo, poiché ci significa lì?. Secondo quesito: Dire “Un gruppo di scolari uscivano da scuola” non è
più logico che dire “Un gruppo di scolari usciva da scuola?”.
Spiega la legittimità degli usi attestati dal lettore e mette in guardia anche dalle preoccupazioni
etimologiche.
Dunque né il criterio razionalistico-logicizzante, né il criterio etimologico sono da considerarsi
attendibili nella definizione della norma linguistica. Rimane da considerare il criterio letterario che
ha goduto per secoli di un’adesione incondizionata. Sarà dunque ancora la letteratura la bussola cui
fidarsi? No, non sono di questo parere né Serianni né la grandissima parte dei linguisti e dei grammatici
che si occupano di problemi di norma, anche se ricordiamo una voce discordante in materia, quella di A.
Castellani, che suggerisce agli insegnanti un criterio generali cui uniformarsi, anzi due. Consiglia a tutti
gli scolari di leggere molto, e agli alunni toscani consiglia che quando vengono in mente due modi
d’esprimersi, uno dei quali corrisponde all’uso familiare e l’altro all’uso prevalente in televisione e sui
giornali, scegliere sempre il primo.
Per Castellani il modello di lingua cui attenersi è di tipo letterario, sia pure limitato alla
contemporaneità. Accanto al critico letterario, però, viene suggerito anche un criterio dell’uso, valido
solo in riferimento alla varietà toscana dell’italiano. Serianni esprime molte perplessità sulla validità del
criterio letterario come fonte normativa: non solo non ritiene accettabile come modello normativo l’uso
letterario arcaico, ma neppure l’uso letterario contemporaneo.
È all’uso sociolinguisticamente più prestigioso che dobbiamo rifarci.
Serianni si affida a quella che chiama la “personale sensibilità” dell’insegnante, che saprà
addestrare i suoi allievi ai diversi registri richiesti dalle diverse situazioni comunicative. Se al livello
dell’ortografia, si può ben dire che la norma è una e certe, per la morfosintassi e per il lessico si deve più
spesso rispondere “si dice in più modi, ma in situazioni diverse e con intenzioni espressive distinte”. A
fa l’esempio del dimostrativo codesto, forma popolare solo in Toscana, inusitata altrove tranne che nel
linguaggio burocratico. Segue la discussione su alcuni casi controversi: l’imperfetto congiuntivo
con valore esortativo: se ci sono [i documenti] li tirassero fuori; l’omissione dell’avverbio
negativo in frasi in cui esista già un pronome negativo: fa niente; l’accusativo
preposizionale: a noi ci porti?.
Come considerare questi usi l’insegnante di italiano? Dovrà riconoscerli come errori, quindi come forme
da correggere, da reprimere? La risposta di Serianni è sempre in relazione alla situazione d’uso delle
forme incriminate e alla coscienza linguistica dei parlanti. Ma poiché tale “coscienza linguistica” è
frantumata per l’italiano in una miriade di varietà, non resta che prenderne atto, e indicare agli
insegnanti una bussola difficile da manovrare, ma l’unica possibile: sono per lui da considerare errori
quei fenomeni che contrassegnano un tipo di italiano colloquiale connotato geograficamente e
possono suscitare reazioni sfavorevoli in altre regioni: sono “errori, dunque, per la coscienza
linguistica di vasti gruppi di parlanti”.
Che cosa ciò significhi si può esemplificare sulle abitudini di pronuncia così diverse tra i parlanti: se è
vero che ciascuno di noi pronuncia i suoni dell’italiano con una più o meno forte coloritura regionale; e
se è vero che per comunicare con gli altri dobbiamo essere capiti dai nostri interlocutori; non essere
giudicati in modo negativo, ne consegue che in certe situazioni le pronunce più connotate in senso
regionale possono essere notate e giudicate negativamente dagli altri parlanti. Se abbiamo addestrato i
nostri allievi a riflettere sulla propria pronuncia, se li abbiamo educati alla tolleranza delle varietà,
abbiamo fatto il massimo consentito.
Dopo aver affermato che non è possibile indicare una sola norma da applicare in ogni circostanza,
Sobrero ricorda che ci sono realizzazioni normali di diverse varietà di lingua. E c’è una specie di super
norma che impone la scelta di una varietà o di un’altra, in relazione alle diverse variabili in gioco.
Come aveva già a suo tempo sostenuto Berretta pensa che la scuola non abbia bisogno di dedicare
particolari cure ed energie per insegnare ai ragazzi ciò che essi sanno già fare benissimo, essendo ormai
tutti in grado di usare un italiano colloquiale per parlare in famiglia o con altri coetanei. La scuola non
deve insegnar loro l’italiano informale, essa deve educare il ragazzo a un’importante varietà d’italiano
che non gli è familiare e che non è solo l’italiano dei monumenti letterari del passato. Educare alla
variabilità significa non accettare tutte le manifestazioni linguistiche degli allievi. Non è mancato
neppure chi, denunciando la scarsa conoscenza della lingua scritta formale da parte delle nuove
generazioni, ha addossato parte delle responsabilità di questa situazione proprio alle Dieci Tesi.
L’autore di queste accuse è M. Dardano, un linguista. È giusto interrogarsi sui risultati fin qui
ottenuti, ed è giusto chiedersi perché non sono stati quelli sperati, e se ad esempio la scarsa padronanza
delle varietà più formali anche da parte di giovani ad alta scolarizzazione sia da attribuirsi per intero alla
scuola, o a una sua componente, o a chi altro. La validità della proposta di Serianni: la scuola dovrà
addestrare al riconoscimento e all’uso di tutte le varietà in rapporto alle diversi situazioni
comunicative. Ciò significa che essendo le varietà più formali, parlate e scritte, quelle meno praticate
dai giovani fuori della scuola, è giusto che di queste ci si occupi in modo serio e fin dall’inizio del
processo formativo. È questa la via maestra che la nuova educazione linguistica ha indicato.
Le conclusioni sono scontate, le basi teoriche della grammatica tradizionali, sono fragili, più deboli sono
le sovrastrutture ideate dai grammatici per spiegare le peculiarità dell’italiano.
Altra accusa mossa fu l’incapacità della grammatica tradizionale a garantire a tutti gli allievi, anche
quelli provenienti da classi sociali inferiori, il possesso della lingua e il suo uso corretto. Molti furono
d’accordo, Berretta, Parisi, Renzi ma meno categorica fu Maria Luisa Altieri Biagi che dopo aver detto
che “a comunicare si impara comunicando”, aggiunge: “oggi è ancora vegeta l’interpretazione della
grammatica come mezzo per raggiungere correttezza e abilità di esecuzione.”
Sulla stessa linea, Monica Berretta, tenta di suggerire ambiti in cui è possibile intervenire, attraverso la
grammatica, per migliorare le prestazioni linguistiche degli alunni.
Negli anni 70/80 è la confusione a dominare il campo. Tullio de Mauro ricorda: “cominciavano a
circolare nelle scuole grammatiche strutturaliste grammatiche generativiste e grammatiche
semanticiste.”
Spesso questi sforzi di rinnovamento si arrestarono a metà timorosi delle reazioni di un corpo
insegnante impreparato alle novità grammaticali gli autori delle nuove grammatiche adottavano
approcci misti la stessa confusione veniva denuncia da Renzi. Per reagire a questa tendenza si
accinsero, molti linguisti, a scrivere delle grammatiche o dei libri di educazione linguistica, destinati
alla scuola media, il biennio delle superiori e anche alle elementari. Alcuni dei testi che videro la
luce negli anni 80 sono stati più volte revisionati o parzialmente riscritti per ordini diversi di scuola
spesso con l'ausilio di docenti impegnati nelle scuole.
Alcuni seguirono con passione le indicazioni della linguistica italiana che si interrogarono con
molta sincerità sul da farsi. Possiamo dire che è stato proprio da quella iniziale confusione teorica e
terminologica che sono emerse le idee vincenti e si è col tempo costituita una nuova consapevolezza
da cui partire.
la proposta di Renzi anticipa un atteggiamento eclettico. Si è fatta strada col tempo l'idea che molte
delle categorie e delle sistemazioni del modello tradizionale vadano proposte nella scuola accanto
ad altre categorie e livelli di analisi poco praticati tradizionalmente ma non necessariamente in
conflitto con le prime.
Berretta suggerisce di non limitarsi nella scuola di base ai livelli tradizionali ma di aggredire altri
settori dell'analisi linguistica.
Il saggio della Berretta riguarda la competenza metalinguistica nella scuola di base non vi sono
contemplate esigenze di sistematicità e formalità troppo spinte. La terminologia adoperata
competenza metalinguistica che vuole esplicitamente fa riferimento a un ventaglio ampio di
fenomeni relativi al linguaggio umano. ciò che è Beretta chiama competenza metalinguistica altri
chiamano riflessioni sulla lingua. anche Francesco Sabatini dà una definizione dell'espressione:
Afferma che con questa espressione riflessione sulla lingua si indica un campo di indagini e
conoscenze molto composite dove si possono distinguere quattro ambiti:
• le conoscenze relative alla pura trasposizione della lingua dal mezzo fonico al mezzo
grafico.
• le conoscenze relative agli aspetti pragmatici della comunicazione riguardanti la situazione
in cui si comunica e le funzioni del messaggio
• le conoscenze relative alla struttura generale della lingua. fonologia morfologia lessico
ecc…
• Le conoscenze relative ai rapporti tra le vicende storiche sociali culturali e la lingua.
Rivisitato dunque il concetto di riflessione grammaticale diventato riflessione sulla lingua impone
allargamento degli orizzonti grammaticali tradizionali e una risposta più articolata al vecchio
quesito sulle finalità di una considerazione scolastica dall'aspetto forma della lingua.
il superamento della visione grammaticale tradizionale limitata la considerazione esclusiva dei fatti
morfosintattici dell'italiano, Ha avuto la conseguenza di risolvere il problema della ricerca di un
unico modello teorico di riferimento. come dice Colombo: “l'insieme dei fenomeni linguistici e un
oggetto di studio troppo complesso per essere esaurito da un solo approccio descrittivo.”
La riflessione sulla lingua così intesa ha avuto una conseguenza pratica tangibile nella dimensione
dei libri di testo destinati alle scuole. I contenuti dei manuali vengono definiti come la realizzazione
del programma di Renzi e delle 10 tesi contemporaneamente: una rivisitazione e un ampliamento
dello strumento grammaticale tradizionale alla luce delle nuove acquisizioni della linguistica e della
grammatica descrittiva.
l'ampliamento dei confini tradizionali ha modificato la risposta al vecchio quesito relativo agli
obiettivi che realistico tentare di perseguire raggiungere attraverso questo tipo di insegnamento.
Negli anni 70 la risposta era stata univoca: posto che la nuova educazione linguistica dovesse porsi
come obiettivo lo sviluppo delle competenze d'uso della lingua molti dovettero ammettere che la
riflessione formale all'epoca concepita come analisi morfologica non contribuiva al raggiungimento
di questo obiettivo. Mutato però il quadro di riferimento teorico e divenuta la riflessione
grammaticale riflessione sulla lingua le risposte all antico quesito mutano.
Francesco Sabatini individua tre ordini di obiettivi che giustificano un nutrito programma di
riflessione sulla lingua:
• lo sviluppo delle capacità linguistiche
• il potenziamento della formazione culturale
• lo sviluppo cognitivo.
sul primo obiettivo Sabatini continua a mostrare perplessità. Ammette che la prospettiva testuale
potrebbe dare qualche risultato. Sul secondo punto, obiettossia quello della formazione culturale, .
Non c'è chi non vede che ogni lingua quale strumento di una comunità debba adattarsi ad esprimere
tutte le esigenze di comunicazione le varietà linguistiche sono il risultato della molteplicità delle
relazioni umane dell oggi. aiutare i giovani a leggere loro presente loro passato attraverso la lingua
significa aiutarli a diventare membri pensanti della comunità nazionale. il terzo obiettivo è invece
quello della crescita cognitiva e già stato individuato da alcuni interventi negli anni 70 come quello
di Maria Luisa Altieri Biagi.
sua idea è che la riflessione della lingua posso svolgere un ruolo importante nel migliorare le abilità
cognitive di base attivando capacità mentali che sono alla base dei processi di più un siero più
maturi. Ciò è possibile solo a condizione di adottare una metodologia corretta.
Sono in molti oggi a condividere questa impostazione ad esempio Raffaele Simone il quale insiste
sulla necessità di aiutare i ragazzi a pensare.
La scuola dovrebbe essere la scuola della mente della conoscenza e la mente la conoscenza si
esercitano non a vuoto ma su specifiche forme di sapere e dunque sulla grammatica.
Hai tre obiettivi indicati da Sabatini nei raggiunto un quarto su cui hanno richiamato l'attenzione in
molti.
Consiste. nel fatto che la riflessione sulla lingua materna fornisce gli allievi un bagaglio di
conoscenze di tecniche di analisi spendibili in qualsiasi nuovo apprendimento linguistico.
Prandi e De Santis nel presentare la loro grammatica, Sottolineano il valore insostituibile che è
un'analisi approfondita della lingua madre e un punto di partenza obbligatorio. e insomma solo la
riflessione sulla lingua materna che può fornire il supporto concettuale utile e indispensabile
all'apprendimento di altre lingue.
Colombo facendo un po il bilancio del dibattito sull'educazione linguistica scrive che il vero punto
debole resta la riflessione della lingua e ricorda come l'unico ambito in cui sia stata vera e profonda
innovazione, sia quello della riflessione sugli aspetti testuali e comunicativi, mentre il nocciolo duro
della grammatica resta ancorato ai manuali.
stenta ad affermarsi l'idea che il lavoro sulla grammatica possa e debba essere attività intelligente.
una volta uscita un'opera grammaticale innovativa ha bisogno di molto tempo per entrare in circolo
e diventare bagaglio comune possono passare anni forse decenni prima che ciò avvenga anche
perché le opere grammaticali contengono sempre dosi consistenti di sapere tecnico la cui
assunzione non è mai facilissima.
Per occuparsi anche di altre questioni forse più legati alla pratica didattica si può parlare del
problema del curriculo che riguarda tutta l'educazione linguistica. si tratta in poche parole di
definire come distribuire conoscenze competenze e abilità tra gli obiettivi propri dei tre livelli in cui
la riflessione è praticata scuola elementare media e biennio superiore. e noto che la situazione
attuale da questo punto di vista è molto insoddisfacente si cercava un modo di evitare ripetizioni e
sprechi.
lo studioso Colombo ritorna su questi stessi temi suggerendo un curriculo plausibile che punta ad
evitare la pratica nefasta della ripetizione ciclica degli stessi argomenti.
gli argomenti sono gli stessi presentati nella medesima sequenza in ogni ciclo si fa più o meno tutto
e si ricomincia da capo nel ciclo successivo il risultato è l'ignoranza grammaticale generalizzata per
aver successo qualsiasi programma di insegnamento deve essere fondato su un curriculum ben
motivato ciò vale anche per l'insegnamento grammaticale.
per quanto riguarda il primo punto Simone suggerisce un primo criterio ossia, non insegnare ciò che
il ragazzo già sa. Secondo Altieri Biagi invece una grammatica nella scuola media dell’obbligo non
dovrebbe insegnare nulla che il ragazzo già non sappia, dovrebbe portare a galla il già saputo.
Questa seconda tesi trova oggi il maggior consenso soprattutto da parte di chi pensa che un
programma di riflessione sulla lingua deve essere impostato come un processo guidato di scoperta
da parte dell'allievo. Si tratta di aiutarlo a sollevare a livello di consapevolezza esplicita, quel sapere
grammaticale inconsapevole.
Aggiungiamo anche che forse gli insegnanti possono permettersi di aggirare il problema visto che la
selezione e la progressione dei contenuti sono indicate a grandi linee dallo stato.
Si ricordi che lo sviluppo linguistico del bambino è strettamente correlato al suo sviluppo cognitivo.
Questo significa che l’attività può anticipare di poco i risultati di questo sviluppo. Se il bambino
non è pronto a recepire una certa forma e a individuarne la relativa funzione non c’è strategia
didattica che possa arginare questo ostacolo.
Certi fatti di lingua troppo precocemente presentati si fissano in maniera indelebile nella testa dei
bambini e arrivano a bloccare la possibilità di un successivo ripensamento critico. La maggiore o
minore separatezza delle ore di grammatica, il rapporto fra la riflessione e la pratica concreta dei
testi ecc…
Francesco Sabatini non ha dubbi sul fatto che la riflessione vada fatta in momenti appositamente
programmati. Maria Luisa Altieri Biagi insiste sull’importanza di una riflessione che parta dai testi
e ne evidenzi le caratteristiche strutturali e lessicali.
Secondo la studiosa, solo questo tipo di approfondimento mette tutti in grado di capire il testo. È
un’impostazione che sembra preferire una riflessione legata alla pratica testuale. In realtà nei
percorsi suggeriti da Maria Luisa il testo è un mero pretesto, diventa la fonte originaria che fa
sorgere una o più domande. Rispetto ad una riflessione “astratta” la riflessione sui testi avrebbe il
vantaggio di essere più redditizia.
Altra questione riguarda il “quando” iniziare e il “quando” finire un programma di riflessione della
lingua. Colombo parte dagli ultimi anni del livello elementare, pur dichiarando di non possedere
elementi per dire che effettivamente che quell’età sia la più adatta.
Anche Veronica Ujcich nel presentare i suoi percorsi didattici per l’uso dei verbi nella scuola
primaria, parte dalla terza classe. Le attività di riflessione sulla lingua proposte sa Roberto Morgese
sono sempre molto concrete (prevedono scatole, cartoncini, giornali) e partono fin dal primo anno
di scuola elementare. Analogamente un gruppo di maestre di Bolzano propone un sillabò
grammaticale che parte dalla prima classe elem. e lega le prime osservazioni sulle forme della
lingua alle prime esperienze di scrittura. Queste diverse esperienze sono concordi sulla opportunità
e possibilità di una partenza precoce di un programma di riflessione grammaticale. Sostenuto questo
già da Monica Berretta segnalava infatti la comparsa di capacità di riflettere sulla lingua nel
bambino già a partire dai due anni. Rivelandosi tale capacità nelle molte domande il bambino fa.
L’attività metalinguistica è un fatto del tutto naturale e la scuola non dovrebbe fare altro che
continuare a mantenere vivo questo interesse. Non certo con l’imposizione precoce. La Beretta fa
molti esempi di attività metalinguistiche che coinvolgono direttamente il bambino (ricerche degli
usi della lingua nel quartiere, riflessione sul dialetto dei nonni).
Le attività proposte non prefigurano a volte una riflessione sistematica e organica ma mirano a
sollecitare curiosità. L’idea di Francesco Sabatini è che il programma di riflessione sulla lingua
debba coinvolgere in modo stabile e forte tutte le fasce scolari (anche superiori).
I motivi sono due.
• Certi fenomeni linguistici non sono disponibili alla comprensione degli allievi se non a
livelli avanzati.
• Seconda ottima per continuare la grammatica al liceo è che questo periodo può essere usato
per fissare e revisionare tutto il sapere grammaticale accumulato.
5. La dimensione testuale.
Uno dei filoni di ricerca più interessanti dell’educazione linguistica risulta dall’incontro fra la
critica alle forme tradizionali di addestramento nelle quattro abilità canoniche (parlare, ascoltare,
leggere e scrivere) e la cosiddetta linguistica del testo (che nasce in Germania negli anni 70). È
stato sicuramente un incontro molto produttivo, una vocazione testuale è sempre stata presente nella
scuola. Da sempre gli insegnati sono abituato a confrontarsi con i “testi”.
Questo è stato il primo contributo della linguistica del testo alla didattica delle lingue.
L’ampliamento del concetto di testo a qualunque messaggio dotato di senso è autosufficiente, scritto
o orale, formale o informale, ha fatto sì che possano essere considerati testi anche una poesia o un
notiziario o una conversazione tra amici.
Un altro filone della linguistica testuale ha studiato alcune regolarità di comportamento, di tipo
grammaticale e semantico che interessano tutti i tipi di testo. Sono i fatti costituiscono la “tessitura”
testuale. La linguistica testuale a differenza dei tanti modelli grammaticali, parte dall’assunto che
sia il “testo” a costruire il dominio della grammatica e non la frase.
Coesione e grammatica:
coesione è l’insieme dei meccanismi grammaticali dei quali ci serviamo per collegare assieme le
varie parti di cui un testo si compone. Tali meccanismi sono realizzati linguisticamente e sono
facilmente rintracciabili.
L’anafora.
È uno dei principali mezzi che le lingue hanno a disposizione per “legare” assieme porzioni di testo.
La grammatica del testo chiama antecedente la prima menzione di un individuo/oggetto in un resto;
ripresa amatori a la seconda menzione e tutte le successive.
Anafora quindi è quel meccanismo linguistico che instaura una relazione fra due o più elementi del
testo. Se gli elementi di richiamo sono più di uno si parla di ripresa anaforica nella quale vengono
segnalati anche casi di Ellissi o di anafora zero. Nel caso dell’Ellissi, l’assenza è apparente.
La linguistica del testo ha studiato e descritto i diversi tipo di ripresa anaforica che i parlanti hanno
a disposizione nelle lingue.
• Sintagma nominale definito espresso dalla semplice ripetizione dell’antecedente
• Sintagma nominale definito espresso da un sinonimo, un sovraordinato, un nome generale,
una perifrasi, un sinonimo testuale.
• Pronomi tonici e atoni.
• Ellissi
• Anafora zero in cui manca anche la marca di accordo sul verbo.
Vale la pena notare come tutte le riprese di tipo lessicale sono costituite da sintagmi definiti, mentre
l’antecedente è spesso introdotto dall’articolo indefinito. L’articolo indeterminativo è un segnalatore
di presunta novità. Una volta introdotto il “gatto” se si vuole continuare a parlare di lui si mette
l’articolo determinativo, se si vuole parlare di un altro gatto quello indeterminativo.
Tra antecedente e ripresa anaforica si instaura un rapporto di coreferenza. Capire l’esistenza di tale
rapporto è fondamentale.
Sono state descritte dalla letteratura anche altre forme di anafora in cui tra antecedente e ripresa non
si instaura un rapporto di coreferenza:
• Il cosiddetto incapsulatore anaforico con antecedente frasale in cui la ripresa è una specie di
“capsula”, un nome astratto che riassume o racchiude una certa porzione di testo precedente.
• L’anafora associativa in cui le diverse riprese anaforiche non rimandano allo stesso referente
dell’antecedente, ma introducono nel testo nuovi referenti.
Il nucleo centrale delle riflessioni fatte dai grammatici del testo sull’anafora è un principio
funzionale di correlazione fra tipo di antecedente e di ripresa.
Le condizioni che regolano il meccanismo anaforico sono in realtà più complesse di come le
abbiamo presentate. Un’’attenta considerazione consentirà all’insegnate di valutare e soppesare il
grado di difficoltà dei testi proposti dall’insegnate. Lo stesso ragionamento si potrebbe ripetere con
i sinonimi difficili da decodificare o per gli incapsulatori e per i sinonimi testuali. Simile all’anafora
è la catafora, ossia, quel meccanismo relazionale che richiama, anticipando, quanto verrà introdotto
più avanti nel testo. Anche la catafora può presentarsi sotto varie forme, essere quindi espressa da
perifrasi, pronomi sinonimi ecc…
Può provocare un interessante effetto psicologico, quello di sollecitare la curiosità del destinatario.
Il meccanismo della catafora diventa espediente letterario, consentendo di presentare e svelare per
gradi il suo personaggio.
I CONNETTIVI:
sono elementi di connessione, nel senso che “collegano fra loro parti di testo.
La definizione della Berretta introduce una destinazione tra i connettivi semantici che collegano
elementi contenutistici in quanto tali, e i connettivi testuali che non collegano dei fatti ma parti di
testo in quanto unità di discorso.
Tra i connettivi semantici possono rientrare i connettivi temporali segnalano gli snodi temporali nei
testi narrati, la posteriorità, contemporaneità, anteriorità.
Tra i connettivi testuali invece rientrano tutti. Quegli elementi che servono a scandire il testo in parti
o anche quegli elementi che segnalano snodi importanti del test e cioè l’apertura e la chiusura
dell’interno testo o di una sua parte significativa..
La distinzione tra connettivi semantici e connettivi testuali, si rivela irta di difficoltà quando si
voglia arrivare ad una tassonomia convincente.
Difficoltà è aumentata dal fatto che la diversità della funzione non si accompagna necessariamente
ad una diversità di forme.
Alcune delle principali funzioni di connessione svolte dai connettivi sono:
1. Funzione additiva, quando segnalano l’aggiunta di nuove
informazioni a quelle già date
2. Funzione avversativa (al contrario, all’opposto, comunque ecc…)
3. Funzione esplicativa, correttiva esemplificativa e riassuntiva quando
introducono sequenze ce spiegano, correggono, esemplificano e
riassumono affermazioni contenute precedentemente nel testo
4. Funzione consecutiva quando esprimono la conseguenza che derida
una certa premessa
5. Funzione comparativa istaurano paragoni tra sequenze.
6. Funzione pragmatica: quando negli scambi orali o nelle sequenze che
simulano gli scambi orali segnalano l’inizio o la fine d i uno scambio
o quando servono a richiamare l’attenzione o a riempire spazi vuoti
L’elenco comprende sia connettivi tipici dei testi molto pianificati e dotati di struttura complessa sia
connettivi tipici del parlato informale. L’identificazione della categoria dei connettivi è affidata a
criteri funzionali. In questo caso non è la forma, ma la funzione a fare da criterio guido. Sono questi
i motivi che ne fanno una “categoria difficile”.
Questa difficoltà è conformata dallo scarso uso che generalmente gli adolescenti fanno dei
connettivi.
COERENZA E SIGNIFICIATO:
Se la coesione è data dalla rete più o meno fitta di segnali coesivi che il testo esibisce, dovremmo
concludere che un testo povero di legami coesivi sia un testo poco coeso. Questa conclusione è però
contraddetta da molti esempi in cui sequenze totalmente prive di legami risultano essere ben
formate e dotate di senso.
Anomalia spiegata da Maria Elisabeth Conte quando ha notato che un testo per funzionare oltre che
coeso deve essere coerente. La coerenza interna del testo è data dalla combinazione di tre proprietà
semantiche che devono essere presenti contemporaneamente: l’unitarietà, la continuità e la
progressione.
Queste tre proprietà sono le fondamenta del testo ma non funzionerebbero se on ci fosse a
cooperazione del destinatario. Al di là dunque, di ciò che un testo dice, il destinatario è chiamato a
trarre delle inferenze a costruire anelli mancanti. Il ricevente è portato a rivedere la sua precedente
interpretazione, alla ricerca d’un senso coerente. Il tema dell’implicito è stato affrontato anche in
ambiti di ricerca la logica e scienza cognitiva, la semiotica la pragmatica.
I termini di implicito, implicazione, inferenza, presupposizioni, ecc possono essere usati in modo
differente.
A volte, il processo inferenziale è innestato dalle conoscenze che il ricevente ha del sistema
linguistico.
Si tratta di casi in cui l’informazione rimane implicita, non detta, perché le parole o le costruzioni
utilizzate bastano, da sole, a farsì che i ricevente la inferisca. In alti casi, il processo dinferenziale è
attivato dal contesto situazionale in cui viene prodotto il testo o dalle consocenze del mondo che il
parlante assume condivise dal ricevente. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, si parla di
conosecenza precedente o enciclopedica.
Pare che questo bagaglio comune sia organizzato nella nostra testa secondo degli schemi ricorrenti
di cui sono stati descrtti tipi diversi, gli “scripts” o “copioni, “il frame”, i “plans”.
QUELLO CHE UN INSEGNATW NON ODVREBBE MAI DIMENTICARE è CHE
L’INTERPRETAZIONE DI CERTI TESTI NON è ACCESSIBILE AI RICEVENTI CHE NON
POSSEGGANO UNA CONOSCENZA DEL MONDO PARI A QUELLA ASSUNta dal parlante o
dall’autore.
Vale la pena ricordare che l’obbiettivo del saper ricavare dai testi le ifnormzioni in testi oraali e
scriti è trasversale a tutte le discipline perché funzionale ad un obiettivo generale ossia
l’acquisizione delle conoscenze.
Tipologie testuali.
Un campo di studi proficuo è la tipologia testuale che è quel ramo della linguistica che persegue il
tentativo di individuare una tassonomia, una classificazione dei diversi tipi di testo che possono
essere prodotti dai parlanti nelle diverse situazioni comunicative.
Centrale in questo ambito di studi il concetto di “competenza comunicativa” ossia la capacità del
parlante d’impegnare adeguatamente il linguaggio nelle diverse situazioni.
A seconda del criterio o dei criteri adottati per la classificazione dei testi, sono state proposte
diverse tassonomie. Se si privilegia il canale di trasmissione, si classificheranno i testi in parlati e
scritti, a loro volta, i testi parlati sono stati suddivisi in monologici e dialogici sulla base del criterio
della monodirezionalità e bidirezionalità del messaggio. Se invce i criteri distintivi sono i destinatari
e il contesto si parlerò di testi perosnali, testi pubblici, istituzionali. Diversa la proposta di Sabatini
che propone una tipologia foondata sul “patto comunicativo che lega emittente e destinatario”
distinguendo i testi in base ai diversi gradi di rigidità introdotti nel patto comunicativo. Si avranno
quindi testi molto/mediamente e poco vincolanti. Le tipologie che hanno avuo più seguito sono state
quelle di Beaugrande/Dressler e da Werlich. Entrambe distinguono i testi in base alla funzione, in
base al soggetto di cui trattano e in base al modo in cui ne trattano.
Beaugrande e Dressler individuano una tipologia tripartita: testi descrittivi, narrativi e argomentativi
e a questi tre tipi Werlich aggiungre il tipo espositivo e regolativo.
Secondo Cristina Lavinio tutti gli studi concordano nell’individuare almeno una tipologia basica
che distingue i testi descrittivi e argomentativi. Tipologia minima. Questa niversitalità è resa
possibile dalle matrici cognitive che presiedono slla realizzazione dei vari tipi.
Il tipo descrittivo è la realizzazione del macro-atto del descrivere ed è consenitto dala capacità
cognitiva del paragonare e cogliere le differenze; il tipo narrativo è il risultato del macro-atto del
natrrare ed è consentito dall capacità di paragonare situazioni; il testo argomentativo è correlato al
macro-atto dell’argomejtaren per dimostrare o sostenere la vaidità di una tesi.
Lavinio suggerisce poi le matrici cognitive che presiedono ai due tipi suggeriti in più da Werlich,
l’espositivo e il regolativo cui aggiunge il tipo scenico. Tali tipi si sono poi strutturati in generi
testuali di numero molto più elevato e difficilmente circoscrivibile in una lista chiusa. Ad esempio il
tipo narratibo si realizza in una molteplicità di generi, ogni genere si articola poi in sotto generi
differenziati per contenuto o per mezzo di trasmissione. Bisgogna tener conto che i testi reali non si
lasciano incasellare tanto facilmente e che le zone di intersezione tra i diversi generi sono tali da far
definire molti testi reali “testi misti” che contengono frammenti anomali.
Il tipo Narrativo.
Per capire la spinta innnovativa che la tematica tipologica ha comportato per la didattica delle
abilità, dbbiamo ricordare che educare alla lettura significava leggere e commentare testi letterari.
Nello stesso tempo educare alla scrittura ha significato addestrare a produrre testi che a quei modelli
si ispiravano. Si trattava di di una pedagogia del testo letterario e scritto che trascurava del tutto,
non solo la dimensione dell’oralità ma anche quella della varietà dei prodotti testuali.
Dovranno dunque passare molti annni perché certe pratiche si facessero strada tra gli insegnanti di
italiano.
La capacità di produrre testi di questo tipo non si acquisisce naturalmente. È necessario una
formazione espressa guidata da altri. Nel fare ciò la scuola deve misurarsi con testi reali.
Contemporaneamente si sono poi imposti anche altri orientamenti della ricerca come l’approccio
cognitivo che sposta l’interesse dei ricercatori e degli insegnanti dai “prodotti” testuali ai “processi”
che vengono attivati quando si capisce un testo o quando lo si produce.
Per quanto riguarda la lettura sono parsi subito evidenti i limiti delle pratiche tradizionali,
concentrate soprattutto sulla lettura ad alta voce fatta in classe. Come sono diversi i profotti testuali,
sono diversi gli scopi per cui si legge e le strategie di letturs attivate nelle diverse situazioni. Si
leggono in maniera differente un manuale, un romanzo.
“leggere” significa molte cose, molto diverse tra loro.
Wuesta tematica ha conquistato i documenti ufficiali ed è entrata con forza nelle classi attraverso le
prove di lettura somministrate dall’INVALSI.
La tematica testuale si è lentamente iposta anche nell’editoria.
Ad esempio, Raffaele Simone definisce eccessiva la preoccupazione testuale che si è insinuata nella
scuola italaliana e chw si manif3esta ad esempio nell’ossessione delle schede di lettura e dell’analisi
testuale condotta su tutto ciò che si legge.
Per raggiungere questo obiettivo, le schededi lettura non sono il mezzo più idoneo. Importa molto
più che l’insegnante sappia scegliere con attenzione i testi letterari da proporre ai giovani. Il criterip
che deve guidare nella scelta è quello della “piacevolezza”. Ha ragione dunque Simone quando
denuncia la mania delle schede di lettura e delle analisi testuali.
Gli interventi di Simone hanno spesso il merito di far discutere su pratiche e temi ormai dati per
scontati. Il rischio è che le “nuove” pratiche dell’educazione linguistica diventino macchine
anch’esse proposre ai gioani per abitudine e pigrizia.
Si capisce dun queche la tematica tipologica doveva fatalmente scontrarsi con il prodotto principale
della scrittura scolastica (il tema di italiano). Negli anni ’70 la nuova educazione linuista dichiarò
guerra al tema cin una serie di intwrventi molto severi. Le critiche hanno sempre riguardato
l’artificialità sdi questo genere testuale privo di determinazioni di luogo e di tempo ossia rivo di
qualsiasi paramentro comunicativo ache fittizoio: dunque privo di un destinatario le cui eventuali
posizioni costituiscono l’indispensabile punto di riferimento per chi pafrla o scrive.”
Quando la riflessione grammaticale proposta dalla scuola si esauriva nella considerazione dei soli
fatti morfosintattici rilevabili all’interno della frase, l’opinione piùdiffusa dagli studiosi era che
questo tipo di analisi non avesse alcun effetto sulla pratica delle abilità. Ma non appena la
linguistica del testo si è imposta nel panorama internazionale e nella ricerca didattica, l’approccio
testuale è parso a molt linguisti e insegnanti in grado di coniugare gli obiettivi piùastratti e formali
della riflessione grammaticale con gli obiettvi pià concreti e funzionali della comunicazione.
Ad esempio, francesco Sabatini scrive che la distinzione netta tra l’uso della lingua e la riflessione
sulla lingua (fra la pratica delle abilità e lo studio della grammatica) è un falso problema.
Limitarsi alla pura pratica può svere conseguenze negative sugli sviluppi delle abilità più sofisticate.
Si potrebbe pensare ad una sorta di curriculum di scrittura, tipologicamente differenziata che
conduca per gradi l’allievo dalla scrittura spontanea ad una scrittura matura. È ragionevole ensare
che una riflessionedi questo tipo influisca positivamente sulla pratica delle quattro abilità. Ma è pur
sempre un’ipotesi.
Bisgnerebbe creare le condizioni sperimentali più adeguate, quali potrebbero esseer la scelta di
lavorare con classi parallele con lo stesso numero di allievi, aventi la stessa età, lo stesso livello di
maturazione linguistica e cognitiva. La scelta dei materiali, uguali in entrsambe le classi e la
programmazione delle stesse attività. Un solo docente sperimentatore nelle due classi. Bisogna
condurre l’esperimento nel modo più neutro possibile e bisogna essere in grsdo di dsèer leggere i
risultati. Di fronte a tali difficoltà è comprensibile che la ricerca didattica, almeno in italia, abbia
imboccato altre strade per la verifica delle sue ipotesi di labpro.
6. L’italiano seconda lingua.
Nell’Italia degli anni ’70 in cui nascono le Dieci Tesi, il richiamo ai diversi linguaggi, alle
diverse lingue si esauriva in una dimensione autoctona e nazionale. Nell’Italia del 2000
plurilinguismo significa altro. Il nostro paese è interessato dalla presenza di nuove minoranze
linguistiche, nuovi “alloglotti”.
Per vedere un’incidenza attuale della presenza di alunni stranieri nella scuola italiana riportiamo
i dati raccolti dall’invalsi. Dividono la popolazione sulla base dell’origine. Fornisce dati
interessanti riguardanti le presenze di alunni immigrati si prima e seconda generazione.
Documenta la non equa distribuzione della popolazione immigrata nelle diverse aree del paese.
La diversa presenta di alunni immigrati nelle diverse fasce di scolarità. La maggiore incidenza
tra i più piccoli dei nati in Italia da famiglie immigrate.
Bisogna dunque insegnare la lingua comune nel rispetto delle lingue e delle culture di
provenienza degli allievi.
È un compito nuovo per gli insegnanti, difficile. Insegnare italiano come lingua seconda
comporta delle competenze tecniche particolari. La difficoltà è poi aggravata dal fatto che
bambini e adolescenti immigrati provengono da aree linguistiche molto distanti.
Il problema non riguarda solo gli insegnanti di italiano ma tutti i docenti, qualunque sia la
disciplina. Per tutti infatti si pone il problema di veicolare i contenuti attraverso la lingua e
dunque di avvicinare gli allievi alla “lingua dello studio”.
L’insegnamento dell’italiano come lingua seconda riguarda diversi tipi di pubblico.
La linguistica acquisizionale tenta di capire come procede l’acquisizione di una lingua, prima o
seconda. È come un campo di studi che pur non ponendosi nell’immediato fini pratici può
rivelarsi del massimo interesse per l’insegnante. Infatti se non vi trova indicazioni didattiche
immediatamente spendibili in classe, il docente di lingua troverà un quadro teorico di
riferimento.
Il concetto di Interlingua.
Interlingua è utilizzato per parlare della lingua posseduta da un discente alle prese con il
difficile compito di imparare una L2. Definibile come la lingua imperfettamente posseduta da
chi sta tentando di impadronirsi di un nuovo sistema linguistico.
La nascita del concetto di Interlingua va posta in relazione con una svolta importante che si
verificò alla fine degli anni sessanta.
Chomsky fondatore del generativismo proponeva una teoria dell’apprendimento linguistico che
si opponeva in modo radicale alle teorie comportamentiste. Secondo i comportamentisti
l’apprendimento della lingua madre è il risultato della formazione di abitudini. In questo modo
l’apprendimento della L2 consiste nel processo di formazione di nuove abitudini che vincano
l’influsso di quelle create dalla lingua madre.
Chomsky non crede affatto che il bambino che sta imparando la sua prima lingua stia imitando
dei modelli e acquisendo delle abitudini automatiche. Crede che stia scoprendo delle regole.
La povertà e la frammentarietà dei dati che giungono all’orecchio dei bambini fanno si che il
processo di acquisizione non possa essere immaginato come una semplice scoperta induttiva
delle regole di una lingua.
Chomsky interpreta il processo di acquisizione della lingua madre come il frutto dell’interazione
di due componenti distinte ed essenziali. Da una parte i dati linguistici primari (a cui il bambino
è esposto dalla prima infanzia) e poi un sistema di aspettative precise sulla forma d
organizzazione che un sistema grammaticale può prendere, un complesso di principi
organizzativi della struttura grammaticale delle lingue naturali. Questo complesso di principi
organizzativi fornisce una serie di ipotesi possibili sulle regole grammaticali della lingua sta
apprendendo. Va ricordato anche l’apporto della psicologia cognitiva.
Mentre nel quadro comportamentista il bambino è visto come una tabula rasa, nella psicologia
cognitiva è concepito come un agente attivo.
Ogni apprendimento linguistico si basa sulla ricostruzione delle regole che governano il sistema
della lingua.
Sono stati poi delineati modelli teorici che hanno spiegato l’apprendimento linguistico in modi
diversi.
Marina Chini divide le diverse proposte in 4 grandi gruppi.
• Le teorie innatiste
• I modelli cognitivi
• I modelli ambientalisti
• I modelli integrati.
Nella panoramica di Marina Chini sono menzionati, all’interno del filone cognitivo anche gli
approcci funzionalisti,
Interessanti a studiare “le modalità con cui un apprendente scopre il rapporto forma-funzione
nella lingua d’arrivo”.
I diversi approcci hanno avuto modo di mettersi alla prova nei numerosi studi empirici che sono
stati progettati è realizzati negli ultimi tre decenti. L’idea sottostante tali studi è che per seguire
l’iter evolutivo dell’allpprendente così come esso naturalmente si struttura e si modifica
bisognasse eliminare le possibili interferenze provocate dall’insegnamento scolastico. Gli studi
sull’interlingua hanno preferito come oggetti di studio apprendenti che acquisiscono una L2 in
contesti naturali.
La ricerca europea sull’acquisizione di lingue seconde è nata in Germania con il cosiddetto
“progetto di Heidelberg” ed ha prodotto numerosi studi che ad esso si sono ispirati. Similmente
in Italia si è costituito un gruppo di ricerca attiva fino dal 1986 che ha avuto tra i suoi soggetti
preferiti lavoratori adulti immigrati in Italia da varie aree linguistiche e studiati nelle loro
Interlingue.
Gli studi acquisizionenali hanno evidenziato che il processo acquisizionenale procede secondo
tappe precise che si ripetono regolarmente negli apprendenti.
Una prima tappa chiamata tre basica è caratterizzata dalla presenza per mezzi pragmatici di
comunicazione il cosiddetto pragmatic mode che sfrutta e amplia le risorse linguistiche
elementari possedute in L2 facendo ricorso a varie strategie come l'uso della gestualità e
chiamata in causa del contesto, richiesta attiva di cooperazione, ripetizione di una o più parole
dell’interlocutore come segnali di partecipazione.
È tipica di questa prima fase la memorizzazione di elementi lessicali quindi di parole che
vengono usate senza riguardo alla morfologia e di formule o routine.
Presenza di queste frasi nell'interlingue iniziali è solo un effetto della loro alta frequenza
nell’input dal quale la prendente le ricava è che memorizza quasi fossero parole uniche, moduli
prefabbricati di linguaggio che non è in grado di smontare.
segue un secondo momento chiamato varietà di base in cui il pragmatic mode viene sostituito da
una modalità più grammaticale il syntatic mode.
Marina chini scrive che le frasi cominciano ad organizzarsi attorno ad un verbo la grammatica è
ancora quasi assente.
le varietà post-basiche sono caratterizzate da un ricorso sempre maggiore a strategie
grammaticali con progressivo avvicinamento alla lingua obiettivo.
Nell’acquisizione spontanea della morfologia verbale dell’italiano Le ricerche condotte su
apprendenti diversi hanno dimostrato che l'ordine di comparsa delle diverse forme è il seguente:
• presente indicativo alla terza persona, forma basica, la forma non è marcata dal punto di
vista temporale è usata per fare riferimento a situazioni presenti passate e future.
• Participio passato la forma che finisce con -to, È marcata dal punto di vista formale in
quanto dotata di un suffisso saliente ed è marcata dal punto di vista della funzione perché
portatrice di valori temporali e aspettuali
• imperfetto la cui funzione è quella di esprimere il passato imperfettivo: parallelamente alla
comparsa dell’imperfetto si riduce l'area di utilizzazione del presente.
• Futuro condizionale, congiuntivo: emergono per ultime le forme che esprimo la non
fattualità.
Il fatto che la sequenza di acquisizione sia implicazioninale significa che un apprendente che
possegga l'imperfetto ossia lo stadio ci ha già superato lo stadio A lo stadio B.
Le seguenti acquisizioninali fin qui individuate e studiate ricorrono con regolarità in apprendenti
diversi e in molti casi rivelano una somiglianza con le seguenti acquisizioni ali ritrovate nei
bambini che hanno la stessa lingua come lingua materna. Ad esempio, nell’acquisizione
dell’italiano come L1 e come L2, La prima forma verbale del passato che viene acquisita e per
entrambi i tipi di apprendenti il participio passato.
strategie di apprendimento
alcune di queste strategie sono state descritte dalla letteratura acquisizionenale che definisce
come procedure per formulare delle ipotesi sulla scrittura della L2, E per stabilire regole
dell’Interlingua sulla base di queste ipotesi.
altri studiosi pongono l'accento sull’aspetto sociale e comunicativo delle strategie di
apprendimento definite come tentativi compiuti dal apprendente di esprimere o decodificare il
significato delle espressioni linguistiche nella L2 in situazioni problematiche.
Proposte varie tassonomie di strategie di apprendimento le strategie più elementari sono quelle
paralinguistiche o contestuali l’apprendente sfrutta al massimo la mimica e la gestualità per
indicare i partecipanti allo scambio o denominare descrivere l'entità del mondo chiamate in
causa dall’interazione. Rientrano in queste strategie anche i commenti e disegni vocali, ideofoni,
ho anche i disegni estemporanei.
Un'altra strategia e il transfer che consiste nel trasferire in L2 forme o strutture della L1. Un
esempio può essere rappresentato dal cosiddetto accusativo preposizionale degli studenti
ispanofoni che producono in italiano forme del tipo vedere alla sua nonna un altro esempio è
rappresentato dalla riproduzione da parte di studenti tedeschi dell'ordine basico oggetto verbo.
Questa strategia di trasferimento in L2 di modalità della L1 veniva considerata centrale nella
teoria comportamentista. I primi studi sulle sequenze acquisizionali ridimensionare uno il ruolo
della L1.
Bernini ci ricorda che il peso specifico della L1 varia sulla base di molte variabili che sono l'età
e la competenza in L2 dell’apprendente, il livello linguistico considerato, il tipo di produzione
testuale, la distanza tipologica tra le lingue. Il transfer viene interpretato da vari autori non già
come un trasferimento di abitudini ma come un meccanismo cognitivo che influenza in modo
forte le ipotesi che via via la prendente va formulando sulle forme e le regole della L2 anche la
commutazione di codice ossia il passaggio santuario dalla L2 alla L1 potrebbe essere
interpretato come l'effetto di un’operazione di interferenza della L1.
Molto frequenti sono le strategie analitiche che descrivono con circolazione e giri di parole
grammaticali e lessicali. E ampiamente attestato anche l'uso di materiali lessicali vari
tipicamente avverbi di tempo con cui viene delegato il compito di marcare distinzioni temporali
lasciando il verbo invariato.
La strategia analitica opera anche a livello lessicale dove sono ad esempio attestate forme come
fare fidanzato invece che fidanzarsi. Altra strategia frequentemente usata e l'uso di parole
generiche quali cosa persona fare accompagnate da perifrasi descrittive di varia lunghezza e
complessità. L'estensione analogica o generalizzazione è un’altra strategia di apprendimento che
dimostra il grado di elaborazione dell’input che la prendente è in grado di compiere.
E come.se di fronte alle molteplici possibilità dell'italiano la prendente straniero arriva a
focalizzare un solo procedimento alla volta.
Un'altra strategia è quella detta di semplificazione o di riduzione formale: può interessare
qualunque livello linguistico e consiste nell’omissione di alcune forme previste dalla norma. Ad
esempio l'uso di sintagmi privi di articoli o di preposizioni esonera la pendente dal dover
richiamare alla memoria e selezionare la forma adeguata al particolare contesto linguistico.
L'uso di un sistema verbale semplificato è una costante dell’interlingua degli apprendenti all'
italiano come L2 punto la dicitura strategia di semplificazione è accettabile.se si confronta la
varietà di apprendimento con la norma dell'italiano standard. Evidente che dal punto di vista
dell’apprendente sarebbe più giusto parlare di strategia di complessificazione. Se tuttavia il
processo di graduale complessificazione non ha luogo si parla di fossilizzazione.
Altri tipi di strategie sono basate sulla cooperazione con l'interlocutore ossia quando in modo
diretto o indiretto si segnala l'interlocutore il bisogno di aiuto o quando ci si limita a ripetere una
o più parole dell'interlocutore.
Alcune strategie rivelano il tentativo da parte dell’apprendente di aggirare il problema
rinunciando almeno parte del proprio intento comunicativo e quindi sono definite strategie di
riduzione.
Gli studi sulle sequenze acquisizionenali sembrano dar ragione a coloro che esaltano il ruolo dei
fattori che guidano dall’interno i processi di acquisizione linguistica e che sono universali.
L'esperienza accumulata in quasi tre decenni di ricerca vede che accanto al riconoscimento del
ruolo dei principi e delle strategie cognitive probabilmente universali vanno riconosciute delle
differenze nel percorso di apprendimento spontaneo e tali differenze sono in parte imputabili a
fattori interni ai due, o più sistemi linguistici in contatto. Tale distanza coinvolge non solo le
forme e le strutture linguistiche ma anche le categorie concettuali ad esse sottese. Non si tratta
solo di imparare le etichette per denotare certe entità o classe di entità ma anche di pensare per
ciascuna le delimitazioni le articolazioni interne e le interrelazioni.
In questo quadro hanno un peso rilevante nell’acquisizione le caratteristiche delle lingue di
partenza e le caratteristiche delle lingue di arrivo.
A questi fattori linguistici, Vanno aggiunti le strategie di apprendimento attivati dal singolo
apprendente che possono variare sulla base delle condizioni di esposizione alla lingua obiettivo
e delle caratteristiche di personalità.
Nell'apprendimento linguistico giocano un ruolo Fattori comuni, forse universali, e fattori
particolari.
Tuttavia, il peso dei limiti di questi condizionamenti andranno studiati e correlati fra loro.
L'errore di lingua.
uno degli obiettivi prioritari del Consiglio d'Europa fin dalla sua Fondazione ossia 1949 è stato
quello di incoraggiare e favorire la conoscenza reciproca tra i popoli europei. Tale conoscenza si
attua anche attraverso la promozione di una più ampia diffusione delle lingue europee moderne.
Come dice il quadro comune europeo: solo una migliore conoscenza delle lingue europee
moderne riuscirà a facilitare la comunicazione e l'interazione tra cittadini che parlano lingue
diverse.
È stato messo a punto il progetto lingue moderne, mirante alla diffusione della conoscenza delle
lingue europee. Tra il 1975 e il 1981 sono stati messi a punto una serie di sillabe per alcune
lingue inglese francese tedesco italiano.
Si tratta di opere che tentano di definire i contenuti linguistico culturali necessari a formare un
livello di competenza linguistica giudicato in grado di coprire i bisogni comunicativi più
immediati.
le opere del livello soglia ci appaiono ancora oggi come il tentativo più coerente che sia stato
compiuto per trasferire nell’insegnamento le convinzioni maturate all'epoca del campo
dell'insegnamento delle lingue seconde.
risulta centrale l'idea che per selezionare le forme e le strutture da insegnare bisognasse partire
dal l'individuazione di uno o più destinatari di uno o più destinatari tipo.
L’impegno del Consiglio d’Europa non si è fermato con l’elaborazione dei livelli di soglia.
I principi formulati in sede comunitaria in materia di insegnamento sono stati illustrati in un
documento chiamato: Common European Framework for Languages: Learning, Teaching,
Assessment.
Questo documento riprende, sistematizza ed elabora l’impianto originale già espresso bei livelli
soglia, secondo cui l’obiettivo primo di ogni insegnamento linguistico è lo sviluppo della
competenza linguistico-comunicativa.
Questa va considerata una somma di più competenze: competenza pragmatica, una
sociolinguistica, linguistica.
Un sillabo che volesse adeguarsi a queste premesse dovrebbe tener conto della necessità di
sviluppare armonicamente tutte le competenze coinvolte nei contesti comunicativi.
Il Quadro Comune europeo si limita a suggerire una cornice comune, un quadro teorico di
riferimento.
Si ispirano alcuni sillabi di italiano L2, al quadro comune.
E un sillabo nato sperimentato nel centro linguistico dell'università di Padova dedicato agli
studenti universitari scambio. Influenzato dagli studi acquisizionali questo sillabe costituisce il
primo tentativo di delineare per l'italiano i sei livelli previsti dal quadro comune secondo tre
diverse prospettive: la competenza pragmatica, la competenza linguistica e la competenza
sociolinguistica. Per ognuna di queste prospettive si elencano i compiti comunicativi e le
funzioni linguistiche da perseguire nei sei livelli , i generi testuali che concretamente realizzano
tali compiti , gli indici linguistici in senso stretto.
Benucci nasce nel centro linguistico dell'università per stranieri di Siena e fa tesoro della lingua
esperienza maturata nei corsi di lingua italiana a stranieri erogato da quella istituzione.
Ultimo in ordine di uscita e il sillabo di Spinelli e Parizzi, l'unico sillabo di italiano L2 che possa
fregiarsi dell'avallo del Consiglio d'Europa. Il volume promette di delineare per l'italiano i primi
quattro livelli di competenza da A1 a B2, ma non tutti gli ambiti sono descritti.
Nonostante siano presenti nel volume alcuni contributi pregevoli il docente di italiano L2 non vi
troverà un sillabo coeso e coerente e neppure un profilo ma un insieme di saggi.
Quasi 20 anni fa Paolo Baldoni scriveva che in questo settore la glottodidattica italiana compiuto
approfondimenti meno sistematici limitati all'attività delle due università per stranieri quella di
Perugia è quella di Siena ad alcuni progetti del CNR.
Non esisteva all'epoca una consolidata tradizione di ricerca sull’insegnamento dell'italiano come L2
ma sono iniziative sparse e poco conosciute.
Questo ritardo non sorprende: l'esigenza di insegnare l'italiano come le due si è imposta non da
moltissimi anni ma con urgenza maggiore.
Negli anni che ci separano dal 1994 si è fatto il massimo possibile: le ricerche le esperienze già
avviate sono state scoperte da un pubblico più vasto. Contemporaneamente all' attivazione di
numerosissimi corsi italiano e iniziative varie di sostegno linguistico dirette a bambini e adulti
immigrati si è intensificato l'interesse delle istituzioni e dei centri di ricerca. Le università hanno
infatti dovuto provvedere in tempi rapidissimi alla richiesta di corsi di italiano avanzata da parte
degli studenti stranieri. Dall’altro hanno dovuto rispondere alla richiesta di formazione attivando
corsi di diploma laurea perfezionamento e master. Molte sedi universitarie si sono dotate di nuove
strutture, i centri linguistici di ateneo, il cui scopo è quello di promuovere insegnamenti linguistici.
In molti di questi centri all'insegnamento delle lingue si accompagna un’intensa attività di
formazione dei docenti. È giusto ricordare l'attività delle università per stranieri che hanno sede a
Perugia e Siena e che sono da anni impiegate nell’insegnamento dell'italiano L2 a giovani e meno
giovani. Ricorderemo solo iniziative editoriali più importanti diretta la formazione di insegnanti che
si sono succedute nel tempo.
Il primo in ordine di tempo è il progetto argentina, messa a punto per gli insegnanti di italiano
operante in Argentina utilizzabile anche in altre situazioni e realizzata tra il 1992 e il 1993
dall'Istituto dell'enciclopedia italiana Treccani, l'opera si è valso della consulenza e della
collaborazione di decine di studiosi, si articola in 51 fascicoli dedicati a temi di lingua e cultura
italiana.
Subito dopo viene messa in cantiere una iniziativa ufficiale il progetto MILIA promosso dalla
direzione generale scambi culturali del ministero della pubblica istruzione.
E stata invece patrocinata dall’Unione europea la collana, diretta da Carla Marello per i tipi della
paravia scriptorium, Dal titolo italiano lingua straniera formazione degli insegnanti. La collana
uscita tra il 1999 e il 2000 si compone di vari volumi. il merito sta nel tentativo di ripensare i
risultati della ricerca linguistica e glottodidattica in chiave applicativa.
A partire dal 2002 sono usciti numerosi volumi della collana: “le lingue di babele” diretta da Paolo
Baldoni.
e nata dal vivo di un centro linguistico particolarmente attivo il centro di italiano per stranieri
dell'università di Bergamo la collana CIS edita da Guerra Che a partire dal 2003 pubblica gli atti dei
seminari di aggiornamento per docenti di italiano L2 tenuti ogni anno.
Infine, ricordiamo la collana materiali linguistici, a cura dell'università di Pavia ed edita da Franco
Angeli, con una chiara vocazione di ricerca in cui sono presenti importanti titoli relativi all' italiano
L2.
al di là delle collane e delle riviste dedicate alla L2 sono numerose le iniziative editoriali dirette agli
insegnanti di italiano L2.
L'abbondanza delle proposte non riguarda solo la carta stampata: le iniziative messe in atto da
associazioni locali e nazionali trovano un canale più facilmente abbordabile nella rete.
A giudicare dei libri dei materiali in circolazione non c'è dubbio che l'italiano L2, se oggi un tema
popolare.
Sembra essersi diffusa una pratica didattica di buon livello che ha tratto grande giovamento da una
parte dal costante legame con riferimento a livello internazionale e dall'altra da una tradizione di
riflessioni che italiana e che ne segna uno dei più rilevanti tratti di originalità.
La ricchezza degli stimoli provenienti da ambiti disciplinari vicini vicinissimi ha permesso di
colmare in tempi brevi ritardo denunciato. è possibile a questo punto fare di più, incrementando la
ricerca di base il che vuol dire studiare i percorsi di apprendimento dei minori inseriti nel normale
circuito scolastico, studiare l'impatto sull’apprendimento delle scelte didattiche, tecnologia sia
tecnologie no? Correggere non correggere?, scoprire quali sono i punti di crisi per uno straniero che
vuole imparare l'italiano e capire.se essi siano tali per tutti o se vadano ascritti a particolari gruppi di
apprendenti. Quest'ultimo. Merita la massima attenzione.
In alcuni dei libri approntati per la formazione degli insegnanti di italiano come L2 la grande
assente è proprio la lingua italiana. E come se la grande stagione dello studio scientifico della lingua
italiana non abbia ancora raggiunto il mondo dell'insegnamento dell'italiano come lingua seconda.
Dunque, c'è ancora molto da fare per sanare quella frattura tra la ricerca e la classe di cui in anni
ormai lontani scrivevano con preoccupazioni due studiose molto diverse ossia: Wanda D’Addio
Colosimo e Anna Giacalone Ramat.