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1° LEZIONE - 17/02/2022

SBOBINATRICE: Ajahoung Nelly


REVISIONATRICE: Argento Claudia

Cornice generale del corso:

Durante questo corso ci occuperemo di lingue e faremo una riflessione sia in tema di politiche sulle
lingue. Quali politiche e gli Stati mettono in atto sulle lingue? Quali ideologie sono veicolate
attraverso le politiche linguistiche? E poi come queste politiche linguistiche si riflettono nel contesto
educativo?

In particolare, andremo a occuparci di tre temi ben precisi. Che sono appunto il bilinguismo, il
multilinguismo e il plurilinguismo andremo a definire questi temi e andremo anche ad analizzare
quelle che sono appunto le politiche che in Europa e in Italia sono state messe in atto per favorire il
bilinguismo, il multilinguismo e il plurilinguismo. “favorire” perché è ciò che ci viene più naturale
favorire l'apprendimento delle lingue è importante vedremo anche perché e è importante ma insieme
a favorire potrei dire non fa morire cioè combattere o anche non fare niente perché appunto il
bilinguismo, il multilinguismo e il plurilinguismo possono venire sviluppati.

Cominceremo queste lezioni da oggi ed andremo avanti quasi fino alla fine di maggio.

Articolazione del corso.


Il nostro corso sarà suddiviso in tre parti:

· Nella prima parte ci occuperemo delle definizioni; che significa bilinguismo (il suffisso bi-che dà
l'idea appunto del due poi lo definiremo nel dettaglio perché non esiste una definizione che sia
condivisa o meglio sono cambiate nel corso del tempo le definizioni anche di bilinguismo).
Definiremo poi multilinguismo e plurilinguismo perché c'è stato bisogno di una doppia accezione
multi e plurilinguismo, che differenza c'è fra l'uno e l'altro. Eppure, questi termini e li troviamo
sempre in più utilizzati nel contesto pubblico soprattutto appunto in tema di scuola. Sappiamo bene
che le classi all'interno delle scuole sono sempre più multilingue e multiculturale, ad esempio, in Italia
ed anche in altri paesi. Quindi se vogliamo parlare di educazione linguistica uno dei temi da affrontare
anche per i docenti o chi domani vorrà farsi di insegnare una lingua o anche chi vorrà in qualche
modo riflettere sul tema delle politiche linguistiche. Nelle classi c'è sempre una presenza consistente
(anche se negli anni è profondamente modificata) di studenti che parlano lingue diverse che
provengono dal loro bagaglio culturale di origine. Parlano lingue diverse perché molto spesso
provengono da famiglie che hanno avuto alle spalle dei percorsi migratori. (Esempio: possono essere
sempre di più bambini adolescenti che sono nati nel nostro paese come sono nati in Francia in
Germania in Inghilterra in altri paesi europei ma comunque sono stati inseriti sin dalla nascita in
contesti che linguisticamente e culturalmente sono molto diversificati.). Quindi naturalmente la
scuola, l’educazione i temi dell'immigrazione e appunto il tema importantissimo della gestione delle
società multiculturali che può portare a una visione delle politiche linguistiche che favoriscono
l'inclusione ma anche politiche linguistiche che possono favorire invece l'esclusione.

Quindi vedremo, analizzeremo questi temi e metteremo in luce le loro caratteristiche e le implicazioni
a livello fisiologico. Ovvero che comporta dal punto di vista fisiologico l'essere bilingue rispetto
all'essere monolingue? Quindi andremo a vedere il grado di naturalezza del bilinguismo negli
individui e nella società. Poi vedremo quali sono le loro potenzialità e applicazioni nel campo
dell’educazione direi che insomma una parte delle lezioni sarà anche la parte un po’ più impegnativa
perché ci occuperemo di teorie linguistiche e sulle definizioni.
· Nella seconda parte, invece andremo a vedere come all'interno delle politiche linguistiche e
educative in Europa di nuovo prima di tutto e in Italia poi; se sono state realizzate e se poi sono state
applicate politiche che favoriscano il bilinguismo il multilinguismo e il plurilinguismo. Vedremo che
da tanti anni ci sono delle politiche al livello europeo che hanno cercato di dare indicazioni per
favorire appunto l'utilizzo e l'apprendimento la posizione l'apprendimento di una o più lingue.

· Le ultime lezioni saranno dedicate invece a un tema più di politica linguistica in Italia. perché
quello che deve essere chiaro per noi è che, quando si parla di lingua, di conoscenza, di competenze
in una lingua, si creano delle implicazioni molto forti che incidono profondamente sulla nostra vita
sociale, sulle nostre possibilità di gestione dei contesti delle interazioni sociali. In altre parole, sulla
nostra capacità di partecipazione alla vita sociale e democratica nel nostro paese e anche oltre. Cioè
le implicazioni dell'apprendimento e della conoscenza di una lingua sono fortissime. Un grande
studioso ma anche un grande operatore nel campo dell'educazione linguistica che era un prete si
chiamava Don Milani diceva una cosa molto molto importante: è la lingua che ci fa uguali. Cioè è la
lingua, è la conoscenza di una lingua o di più lingue che ci permette appunto di poter avere le stesse
opportunità all'interno di una società per gestire i contesti sociali, i contesti di studio e i contesti
lavorativi. E per poter avere in mente ben chiaro tutto questo, ci occuperemo di come le lingue sono
utilizzate all'interno di un contesto sociale e culturale molto importante quale quello di un museo.
Ovvero come viene favorita all'interno di un museo la partecipazione, la comprensione di ciò che
viene all'interno del museo esibito nei confronti dei potenziali destinatari. Andremo a fare questo
piccolo modulo monografico che mirerà a mettere in luce come le lingue e i vari linguaggi (non sono
in lingue ma tutto l'universo delle semiotiche) sono utilizzati all'interno del museo per dare identità a
questo a questo luogo e per facilitare appunto la partecipazione, la fruizione, la comprensione da parte
dei potenziali visitatori e fruitori dell'offerta culturale che nei musei è contenuto. Faremo questo breve
monografico e lo condivideremo insieme al corso di semiotica perché ci occuperemo di lingue e
linguaggi e quindi lavoreremo insieme inviteremo appunto anche ospiti che conoscono bene questi
ambienti e ci potranno raccontare e descrivere meglio quanto è importante che la comunicazione sia
realizzata in modo comprensibile per favorire la partecipazione.

Anche qui il tema delle lingue rientra appunto nel tema più grande della partecipazione alla
vita sociale e democratica di un paese. Ci sono a tale proposito delle bellissime ricerche fatte. Un
esempio sono le ricerche realizzate da alcuni studiosi dell'università di Berlino che mettono in luce
come la partecipazione culturale abbia una correlazione forte con la partecipazione sociale e la
partecipazione anche alla vita sociale civile e politica di un paese. Quindi capire, comprendere la
lingua è fondamentale per gestire la nostra vita sociale e per avere opportunità.

La prospettiva con cui analizzeremo questi tre grandi temi bilinguismo, multilinguismo e
plurilinguismo è quella di considerarli non come un ostacolo ma come una risorsa e piano piano
durante il nostro percorso andremo insieme a vedere in che modo possono e perché possono essere
considerati come una risorsa e come possono infatti diventare davvero una risposta.

I testi di studio

1. T. De Mauro, Crisi del monolitismo linguistico e lingue meno diffuse, LIDI 1,1, 2006, p. 11-37
scaricabile al seguente link

https://minerva.usc.es/xmlui/bitstream/handle/10347/5726/pg_005-
024_moenia11.pdf?sequence=1&isAllowed=y
2. E. Piccardo, “We are all (potential) plurilinguals”: Plurilingualism as an overarching, holistic
concept, Cahiers de l’ILOB, 2019, pagg. 183-204 scaricabile al seguente link

https://uottawa.scholarsportal.info/ottawa/index.php/ILOB-OLBI/article/view/3825

3. B. Dendrinos, Multilingualism language policies in the EU today: a paradigm shift in language


education, Training Language and Culture 2(3), 2018, pagg. 9-28

Scaricabile al seguente link

https://www.researchgate.net/publication/327958823_Multilingualism_language_policy_in_the_EU
_today_A_paradigm_shift_in_language_education

L’obiettivo dell’autrice è quello di andare ad analizzare le politiche per il multilinguismo che sono
contenute in tanti documenti europee. Infatti, lei si domanda che cosa tutto questo comporterà poi nel
campo dell'educazione linguistica? A tal proposito, lei parla proprio di cambiamento profondo di
paradigma nell'educazione linguistica se davvero vogliamo mettere in pratica tutte quelle indicazioni
che l'Europa ci dà appunto per sostenere bilinguismo, multilinguismo e plurilinguismo.

4. G. Extra & K. Yagmur, Language Rich Europe: Trends in policies multilingualism in Europe,
2012, Cambridge University Press/British Council ISBN: 9781107633865 scaricabile da
http://www.institut-mehrsprachigkeit.ch/sites/default/files/lre_italian_language_rich_europe_-
_tendenze_nelle_politiche_e_nelle_pratiche_per_il_multilinguismo_in_europanov2012.pdf pagg. 7-
76 e 150-157.

5. Council of Europe, Common European Framework of Reference for Languages: learning, teaching,
assessment. Companion volume with new descriptors, 2018, Council of Europe, Strasbourg, versione
in inglese scaricabile al seguente link https://rm.coe.int/cefr-companion-volume-with-new-
descriptors-2018/1680787989

o versione in italiano scaricabile al seguente link


https://riviste.unimi.it/index.php/promoitals/article/view/15120

Capitoli 1 e 2..

Il Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue (QCER) è un documento con cui
dobbiamo fare i conti se ci vogliamo occupare di politiche linguistiche e in particolare se ci vogliamo
preoccupare di politiche linguistiche per l’educazione nel contesto educativo. Come noto, il quadro
comune è stato pubblicato per la prima volta nel 2001 nella sua prima versione dopo quasi vent'anni
nel 2018 è stato quindi riproposto dopo una lunga sperimentazione (perché è stato utilizzato in tutti i
paesi europei e anche oltre per quasi 20 anni), sono state diciamo aggiunte da questi due studiosi
(Enrica Piccardo e…), molte parti che hanno a che fare con il contesto sociale profondamente
cambiato. Quindi la presenza nelle scuole di ragazzi con lingue diverse, la maggiore fragilità di
comunicazione, la maggiore facilità di mobilità, la possibilità di andare a studiare, a lavorare fuori (in
modo tale che non era possibile precedentemente) hanno fatto sì che sempre di più le società
diventassero multiculturali e multilingue e quindi c'era bisogno appunto di un aggiornamento in
questa direzione anche nel quadro comune europeo di riferimento.
Prima parte
Il nostro obiettivo è vedere e constatare insieme che il multilinguismo e il bilinguismo sono fenomeni
naturali che esistono da migliaia di anni possiamo dire da sempre in ogni parte del mondo, da quando
le persone e le lingue sono entrate in contatto fra loro.

L’Unione europea è un'entità sovranazionale che era arrivata a comprendere 28 paesi; da


quando è diventata operativa la Brexit quindi l'uscita della Gran Bretagna dall'unione europea,
l'Europa è rimasta con 27 paesi.

Come vediamo dalla carta (diapositiva) ci sono tutti i paesi ben delineati con i loro confini
(non c’è sovrapposizione) anche se poi L'Europa è una entità sovranazionale unica. Il motto
dell'unione europea è “United in Diversity" in italiano “Unita nella diversità”.
Questa è un'indicazione forte anche di politica linguistica. Cioè l'Europa è uno stato sovranità
unitario, ma l'obiettivo è quello di mantenere la diversità e di rispettare la diversità. Tanto è vero che
nel trattato per la costituzione dell'Unione europea già nei primi articoli, si dice che i matrimoni
linguistici culturali, di cui ciascun paese è importatore, devono essere rispettati cioè non vanno
annullati. Quindi è vero che abbiamo un’unità ma un'unità fatta di tante diversità. È un manifesto di
politica linguistica perché la scelta avrebbe potuto essere molto diversa. Se prendiamo il caso degli
stati uniti il cui motto è “E pluribus unum” in italiano “Dai molti uno” cioè da più fare una cosa sola.
Dal punto di vista linguistico, siamo in una dimensione completamente opposta. Infatti, gli Stati Uniti
capiscono di essere una nazione che si è creata attraverso l'apporto di tante pluralità ma da queste
pluralità, l'obiettivo è quello di creare unicità. Se andiamo a vedere le politiche linguistiche degli Stati
Uniti sono tutte mirate anche all'apprendimento della lingua inglese da parte da parte di tutte le
componenti della società. Quindi siamo in una prospettiva completamente diversa.

Tornando all’Europa vediamo che è fatta di stati e nazione e nell'idea di rispetto delle diversità
l'unione europea definisce non una lingua ufficiale ma tante lingue ufficiali (tutte le lingue ufficiali
degli stati che appartengono all'unione europea) cioè l'Europa lavora con 24 lingue ufficiali.
Naturalmente ci sono scelte interne diverse per cui lingue di lavoro, quelli dei documenti scritti sono
solo tre (3). Se andiamo a una seduta del parlamento europeo, ci sono le cabine come quello la
dell’interprete che sono enorme sono tutto il parlamento e tutte le sedute sono circondate da queste
cabine perché è necessario che ci sia una traduzione simultanea in tutte le lingue che sono le lingue
ufficiali dell’Europa. Questo è uno dei risultati di questa politica linguistica, cioè di garantire a ogni
rappresentante che va appunto in Europa a rappresentare il proprio paese, garantire di poter continuare
a utilizzare la propria lingua anche a punto nelle sedute parlamentari; quindi 27 paesi, 24 lingue.

Se noi andiamo a fare un paragone tra la cartina che rappresenta soltanto l’Europa (i confini tra gli
stati sono netti) e la cartina che rappresenta le lingue presenti in Europa (diapositive), vediamo come
la situazione nella realtà quanto è più complessa. In questa cartina (the European Languages) c'è
sovrapposizione soprattutto come vediamo nelle aree di confine.

Allora la prima domanda che ci dobbiamo porre è: ogni Stato europeo ha una sola lingua? O meglio
all'interno di ogni Stato europeo esiste solo la lingua che è stata dichiarata come ufficiale per quello
Stato?

Come possiamo osservare, la situazione è più complicata perché ci sono le languages in


monolingualism situation che sono le parti della cartina in cui il colore è netto definito. Poi ci sono
languages in bilingualism situation cioè luoghi territori in cui esiste il bilinguismo. Un esempio è
l’Italia, ma questa cartina non è tanta precisa perché poi vedremo che la situazione italiana è ancora
più complicata di quella che viene scritta in questa cartina perché cui si parla solo di lingua e non si
parla di dialetti. Quindi le parti monolingui non sono ancora ben definite ma noi sappiamo che in
realtà non è proprio così, cioè che la situazione/realtà è ancora più complicata. Come vediamo la zona
Nord dell’Italia è molto confusa. Emergono appunto zone di bilinguismo quindi ci sono zone in cui
si parla per esempio l'italiano e il francese (esempio la Val d'Aosta) ci sono zone in cui si parla
l'italiano e il tedesco (esempio il Trentino ed il soprattutto all'Alto Adige), ci sono zone in cui si parla
l'italiano e lo sloveno e quindi tutto il confine orientale del nostro paese. Ma come osserviamo, lo
stesso succede appunto negli altri paesi, ad esempio, della Francia in cui c’è l'occitano, il
provenzale… quindi ci sono davvero delle vaste aree in cui due lingue o più lingue convivono.

Poi ci sono anche dei puntini, in Italia ce ne sono tanti (Isolated languages) che sono quelle che poi
tecnicamente si chiamano minoranza linguistiche di antico insediamento cioè delle enclave dei
luoghi. Es: in Sicilia c’è la Piana degli Albanesi (una zona in cui da secoli e secoli è immigrata una
comunità albanese che è rimasta in quell'area e che ha continuato a mantenere le proprie tradizioni
linguistiche e culturali). E quindi in questa piana degli albanesi ma anche per esempio in Calabria
esistono delle comunità albanesi che parlano una lingua che si chiama Arbereshe che è una lingua di
antico insediamento ed è una varietà antichissima del moderno albanese; perché appunto si è
racchiusa all'interno di una comunità al di fuori del paese in cui queste lingue normalmente parlata.
Quindi, è successo che questa lingua ha mantenuto le proprie caratteristiche e quindi è rimasta chiusa
più fossilizzata perché ci sono stati meno scambi comunicativi (le lingue cambiano e si evolvono
insieme all'evoluzione delle società, delle culture, delle persone). Se invece sono parlate dalle persone
chiuse rimangono e diciamo cambiano meno.

Se pensiamo alle grandi emigrazioni italiane nel mondo quelle che ci sono state dall’Italia dopo l'unità
alla fine dell'Ottocento e poi per tutto il 900. Se uno vuole andare a studiare i dialetti veneti come
erano cent'anni fa deve andare in Brasile perché in Brasile ci sono delle comunità che parlano questo
dialetto che si chiama talian che è rimasto ed ha subito meno evoluzioni perché parlandolo in pochi
ha subito meno trasformazioni.

Le lingue di minoranza che hanno avuto un vero e proprio riconoscimento sancito dalla Costituzione
italiana e sancita anche da una legge speciale che ne garantisce la tutela e ne garantisce il
mantenimento sono: Albanese, Tedesco, Catalano, Croato, Sloveno, Ladino, Franco-provenzale,
Friulano, Greco, Occitano, Sardo.

Ma notiamo che questo non è l’unico caso dell'Europa, abbiamo anche la stessa situazione in Francia,
in Spagna, Grecia, Austria… quindi, il panorama linguistico è un panorama molto molto più
diversificato in Europa rispetto alle 24 lingue.

L’altra cartina dell'Italia mette in luce anche un altro fattore di diversità che è nato dai dialetti. Ci
sono i dialetti provenzali, franco-provenzali e quindi si vede che il plurilinguismo e multilinguismo
nel nostro paese è una realtà. esiste l'italiano come lingua di tutti italiani ma ciascuno di noi è
potenzialmente plurilingue e anche naturalmente bilingue (accanto all’italiano come lingua ufficiale
ci sono i diversi dialetti). Tuttavia, dobbiamo notare che questa situazione non è solo italiana anche
se l'Italia è uno dei paesi europei che ha il maggior numero di lingue e di varietà. Cioè il
plurilinguismo e il multilinguismo italiano è il multilinguismo molto più marcato rispetto appunto a
dagli altri paesi.

Nel mondo, ci sono tra le 6 e 7 mila lingue che sono parlate da oltre 6 miliardi di persone divise in
189 stati indipendenti. Se prendiamo 6 o 7 mila diviso 189; il risultato ci fa capire che gli stati non
sono monolingue. Quindi già questo come dire è un punto in più alla nostra affermazione di partenza
che era quella di dire il bilinguismo, multilinguismo e plurilinguismo sono naturali ed è la condizione
naturale di tutti i paesi nel mondo.
Per chi fosse interessato a capire quante sono le lingue nel mondo, c'è questo sito che si chiama
etnologhe https://www.ethnologue.com/

Nel mondo siamo a 7117 lingue sono usate. Se andiamo a prendere le versioni di qualche anno fa, le
lingue erano un pochino di più. Perché le lingue essendo, esseri viventi, nascono e muoiono. Quindi
se non ci sono più parlanti della lingua, una lingua è destinata a morire. In questo sito viene definita
appunto una lingua, una lingua usata in unwritten domains. Come si distingue una lingua da un gergo
per esempio: il gergo è una varietà di stretta di una lingua che è utilizzata esclusivamente in alcuni
contesti (il gergo dei giovani, in gergo dei portuali…) però la lingua è quella che viene usata in una
gamma ampia di domini di comunicazione, di contesto comunicazione che viene usata fra tutti i
generi, cioè non è un qualcosa che usano per esempio solo le femmine, non solo le persone di sesso
maschile e tutte le età ; non è una cosa che usano solo gli anziani; quindi una lingua usata in across
gender and age è abbastanza stabile per essere compresa nella intera area in cui questa lingua si pensa
che sia utilizzata.(Per esempio fra le lingue che sono in cui viene fatta una lista dalle etnologhe, non
ci sono molti dialetti perché non sono usati in ampi contesti di comunicazione.)

Ci sono naturalmente lingue più parlate e meno parlate. La lingua più parlata nel mondo è l’inglese,
poi viene il cinese mandarino, poi l’hindi e poi viene lo spagnolo.

Lingua parlata significa lingua usata dai parlanti. è chiaro che l'inglese è la lingua più parlata nel
mondo. Ma se si va a vedere invece qual è la lingua che ha maggiori parlanti nativi, è il cinese e in
particolare il cinese mandarino. Allora anche l’hindi è quasi molto simile come numero di parlanti.
L’hindi è una delle lingue che viene utilizzata nel continente indiano e addirittura lo spagnolo ha più
parlanti madrelingua rispetto all'inglese. Perché lo spagnolo? perché naturalmente lo spagnolo non è
utilizzato solo in Spagna ma è la madrelingua per tanti che abitano appunto nei paesi dell'America
latina.

Quindi ci sono tante grandi lingue ma dobbiamo distinguerle per parlanti nativi e parlanti non
nativi.

Per quanto riguarda l’italiano, è la ventisettesima lingua più parlata nel mondo. una ventina
d'anni fa, era diciannovesima. che è successo? Diciamo che la popolazione italiana non è cresciuta
tanto ma non è nemmeno diminuita così tanto da giustificare questa discesa così forte. Infatti, le
comunità italiani all’estero stanno sempre più diminuendo (le terze, quarte addirittura quinte
generazioni non parlano più italiano) Quindi i nonni, naturalmente bisnonni non ci sono più e appunto
l'italiano non viene diffuso ancora in questi paesi; quindi questo è uno dei motivi appunto per cui
diciamo l'italiano è sceso e soprattutto questa è la classifica relativamente al parlato; quindi significa
che non è nemmeno tanto oggetto di apprendimento come lo sono invece le altre lingue.

Quindi la situazione è estremamente complessa. Dunque, il multilinguismo è qualcosa, di


naturale sia a livello spaziale/nei territori, sia a livello dei singoli individui. Non esiste uno stato dal
punto di vista biologico, cioè il nostro cervello è capace di gestire tante lingue e il possesso di una
non è un ostacolo al possesso di altri.

Qual è l'unica limitazione che ci può essere?

La nostra capacità di memoria. Se si deve andare a trovare un ostacolo, che è un ostacolo


biologico, fisiologico all'apprendimento linguistico e alla capacità di gestione delle lingue è dato
semplicemente solamente dato dalla capienza (quante lingue siamo in grado appunto di gestire?) ma
ci sono delle persone che hanno avuto la fortuna di conoscere più lingue che sono le persone che
parlano correntemente 15, 16 lingue; chi ne parla 8, 9, 10…. Quindi è una capacità naturale ed è una
capacità che ci è data grazie alla possibilità cerebrale che abbiamo di apprendere lingue diverse.
Quindi di nuovo il multilinguismo, il plurilinguismo sono condizioni naturali.

E allora perché vanno sempre giustificati, perché vanno sempre sostenute un trattamento cioè
paradossalmente quella che sembra invece la condizione normale di ciascuno di noi e quella di essere
monolingui?

Se la condizione di multilingue è una condizione che è naturale per ciascuno di noi, perché
tutte le volte invece la dobbiamo in qualche modo giustificare?

Troppo spesso invece, nell'immaginario, ci sono tanti stereotipi che circondano il bilinguismo,
il multilinguismo e il plurilinguismo, si dice che il possesso di una lingua danneggia l'apprendimento
di un'altra. Vedremo che tutto questo non è assolutamente vero e vedremo invece che essere bilingue,
multilingue porta tantissimi vantaggi.

2° LEZIONE - 18/02/2022
SBOBINATRICE: Claudia Argento
REVISIONATRICE: Sabrina Ayari

Il bilinguismo ed il multilinguismo sono fenomeni naturali che esistono da migliaia di anni, in ogni
parte del mondo, da quando le persone sono entrate in contatto tra di loro. In quanto fenomeno
naturale le lingue sono viste come forme di vita che mutano a seconda dei contesti e di quanto i
parlanti le utilizzano.

Secondo i periodici censimenti curati da parte di Ethnologue ne risulta che esistano poco più di 7000
lingue, questo perché la definizione di lingua che usa ethnologue è legata ad alcuni parametri:

1. La varietà di uso della lingua presa in esame

2. Le diverse generazioni che la usano

3. La stabilità nell’area in uso della lingua presa in esame

Il fenomeno della globalizzazione ha portato ad una mobilità e ad un mercato globale per cui vi è la
prevalenza di alcune lingue rispetto alle altre, sono infatti 23 lingue quelle usate da più di metà della
popolazione mondiale: abbiamo quindi lingue molto forti e lingue molto deboli, a rischio di
estinzione. Nel sito dell’UNESCO, una delle principali organizzazioni mondiali che si occupa anche
della salvaguardia della diversità socio-culturale nel mondo, è riportato che sono circa 2500 le lingue
a rischio estinzione e che addirittura circa 200 idiomi sono parlati da poco meno di una decina di
persone.

Oggi consideriamo il bilinguismo, il multilinguismo ed il plurilinguismo come qualcosa la cui


esistenza deve essere messa in discussione: nei vari siti web (UNESCO, Commissione Europea) viene
continuamente promosso il multilinguismo, eppure abbiamo detto che è un processo naturale quindi
perché si osserva questa spinta da parte dei vari enti? Perché non viene fatto lo stesso con il
multilinguismo?

Entriamo nella questione dicendo che il multilinguismo viene incoraggiato ma non sempre: un
esempio di ciò è l’articolo su un sito tedesco (immagine nelle slide) in cui si asserisce che continua
ad essere forte la tesi secondo cui il multilinguismo degli immigrati presenti in Germania sarebbe di
impedimento ad una buona integrazione. Al giorno d’oggi conoscere più di una lingua non è
considerato insolito infatti le nostre società sono sempre più multilingui grazie alla mobilità delle
persone ed alle connessioni internazionali in un mondo globalizzato tuttavia vediamo la presenza di
pregiudizi ed incomprensioni sul multilinguismo, viene quindi distinto tra un multilinguismo utile
(quello dell’apprendimento delle lingue cosiddette forti) ed uno inutile, da evitare (le lingue delle
minoranze).

L’Eurobarometro, è una survey (indagine a campione rappresentativa di tutta la popolazione europea)


nella quale è stato chiesto riguardo le loro competenze linguistiche ed attitudini nei confronti delle
lingue: è emerso che, nel 2005 e nel 2012 nell’area dell’Europa A27, in 7 anni è rimasta la capacità
di parlare inglese (lingua stazionaria) ed è diminuito il francese, il tedesco e il russo ed è, di contro,
aumentato lo spagnolo. Se si vanno ad indagare le motivazioni/attitudini più forti per l’apprendimento
di una determinata lingua ne risulta che le ragioni siano la possibilità di andare a vivere in un altro
Paese e per un futuro lavorativo migliore, anche in country. Da questa indagine si evince che il 67%
dei rispondenti ritiene che la più utile sia l’inglese, seguita dal tedesco, francese, spagnolo, cinese e
italiano (5%).

The European Education Area è uno spazio europeo dell'istruzione superiore o area europea
dell'istruzione superiore ed è il risultato di una serie di accordi a livello ministeriale e delle correlate
attività politiche e istituzionali che, dal 1998 al 2010, hanno caratterizzato la dimensione europea
della politica dell'istruzione superiore, sviluppata organicamente nel contesto del Processo di
Bologna.

Analizzando un campione di studenti europei a cui era stato chiesto quali lingue piacerebbe migliorare
la quasi totalità ha risposto che fosse l’inglese perché l’idea dell’utilità e del prestigio è ben presente
in ognuno di noi. Allo stesso modo è stato chiesto, in un altro sondaggio, se fosse giusto continuare
a studiare le lingue meno forti o se bisognava lasciarle da parte e la risposta predominante è stata
verso uno studio democratico di tutte le lingue. In UE è largamente diffuso il concetto di una lingua
comune che tutti siano in grado di parlare. È giusto però tener conto anche del fattore economico, i
costi elevati sono infatti uno dei motivi per cui effettivamente non è possibile mantenere uno studio
democratico di tutte le lingue.

In Europa le lingue ufficiali sono 24 ed esse sono infatti le lingue di lavoro e della legislazione
primaria dell’UE. Nella Commissione Europea (è il consiglio dei commissari, coloro che
costruiscono le misure che portano avanti l’Europa es. commissario all’agricoltura, commissario
all’economia ecc.) le lingue procedurali sono 3: inglese, francese e tedesco. Con queste 24 lingue
ufficiali è possibile fare 552 combinazione linguistiche, questo perché ogni lingua può essere
tradotta nelle altre 23.

Una tesi molto interessante è quella di Michele Gazzola, studioso a metà strada tra un linguista ed un
economista, sui costi economici e politici del multilinguismo nell’UE. Egli ha calcolato che i costi
politici (vantaggi politici) sono talmente forti da compensare quelli economici: il fatto che ciascuno
possa continuare ad usare la propria lingua è talmente importante che, anche se molto costoso, i
benefici sono maggiori. Il multilinguismo costa l’1% del bilancio economico dell’UE.
Perché si è reso necessario promuovere il multilinguismo se è un processo naturale?

Si tende sempre a cercare delle giustificazioni per il multilinguismo, da sempre visto come forma di
punizione legata all’incomprensione che si crea tra coloro che non si riescono a comprendere. Un
esempio è rintracciabile nell’antichità, addirittura nel libro della Genesi troviamo l’episodio della
Torre di Babele legato al concetto di maledizione della diversità linguistica. Al suo opposto vi è
l’episodio delle Pentecoste, momento in cui Dio concede agli Apostoli la capacità di andare a
predicare nel mondo con lingue diverse.

3° LEZIONE - 24/02/2022
SBOBINATRICE: Sabrina Ayari
REVISIONATRICE: Bondini Denisia
Se il multilinguismo e il bilinguismo sono dei fenomeni naturali che esistono da sempre in ogni parte
del mondo, ovvero che sia normale la presenza di compresenze di tante lingue in un medesimo
territorio, perché tutte le volte che parliamo di multilinguismo o bilinguismo dobbiamo trovare una
giustificazione e soprattutto dobbiamo andare a scrivere delle norme o leggi che promuovono
l'insegnamento delle lingue?!

Negli anni il multilinguismo è stato analizzato come ostacolo piuttosto che una risorsa.

Due tipi di bilinguismo:

1. Buono: bilinguismo si riflette sugli atteggiamenti delle lingue che vengono apprese,
soprattutto per la loro utilità. Pentecoste= idea del multilinguismo come dono;

2. Cattivo: contro al multilinguismo si pone il problema del costo ( anche se costa appena
l'1% del bilancio dell'EU). Babele= idea del multilinguismo associata ad una maledizione.

Babele viene intesa come sfida nei confronti della divinità da parte dell'uomo, il quale vuole arrivare,
se non addirittura superare, la divinità e perciò, date le tante lingue, nasce l'idea di non comprendersi,
cioè la diversità linguistica diventa come una barriera all'intercomprensione e quindi si ha la perdita
di quell'innocenza prebabelica che permetteva a tutti di condividere un'unica lingua e quindi essere
esenti dai problemi di comprensione. Babele rappresenta perciò la fatica, il conflitto, il non capirsi.
Massimo Vedovelli “Prima persona plurale futuro indicativo: Noi saremo”
Si interroga su quello che sarà il destino linguistico dell'italiano, partendo dall'incomprensione di
Babele sino alla pluralità della Pentecoste. Scritto nei primi anni del 2000, Vedovelli mette in luce il
tema dell'italiano nei confronti della sfida di Babele, perché questi sono gli anni in cui la presenza di
una massiccia immigrazione nel nostro paese ha comportato un ulteriore ampliamento della
dimensione multiculturale in Italia, nella quale oltre alle minoranze linguistiche di antico
insediamento e ai dialetti, vengono a sommarsi le lingue immigrate.
Fra la presenza di molte lingue considerate come ostacolo (Babele) e molte lingue considerate come
risorsa (Pentecoste), si gioca il destino linguistico della nostra civiltà, destino che si caratterizza
attraverso le scelte e gli obiettivi che ci diamo.
Babele viene rappresentata come il momento del conflitto e del peccato linguistico che va a superare
quella possibilità da parte degli uomini di parlare una stessa lingua e quindi essere esenti da qualsiasi
tipo di problematicità. La presenza di una sola lingua viene caratterizzata come il momento della
facilità della comprensione perché non ci sono le barriere linguistiche che ci dividono. Le lingue
diventano una punizione e diventa più complessa la loro gestione. Vedovelli afferma che Babele
rappresenta l'analogo linguistico del Peccato originario, perché è il momento in cui si origina la fatica
della intercomprensione. Lo straniero che è il portatore dell'altra lingua è un potenziale portatore di
conflitto, perché non si hanno gli stessi mezzi condivisi di costruzione del senso. Babele→ innesco
della paura della diversità. Dobbiamo temere l'altro linguisticamente perché non conosciamo la sua
lingua. (Qualche anno fa in varie città italiane è stata proibita la presenza di lingue diverse dall'italiano
nelle insegne dei negozi: in alcuni comuni sono state adottate norme che impedivano o almeno
riducevano la presenza di lingue straniere nello spazio di comunicazione sociale. Ciò è scaturito dalla
paura dell'altro).
La ricomposizione della comprensività è data dalla Pentecoste (dono della pluralità linguistica), negli
atti degli apostoli c'è racconto di un episodio in cui gli apostoli sono riuniti intorno a Gesù e ricevono
la fiammella che permette loro di diventare apostoli, coloro che verranno inviati in giro per il mondo
col fine di diffondere la parola del Signore e uno dei doni che ricevono è quello delle lingue,
possibilità di comprendere le altre lingue.
Vedovelli conclude affermando che il destino linguistico della nostra civiltà si pone fra il polo
dell'idea delle lingue come portatrici di conflitto e l'idea delle lingue come ricomposizione di una
frattura, ovvero la capacità di arrivare al senso.
Se la condizione di multilinguismo è una condizione naturale sia a livello di società, territorio ed
individuo in quanto non esistono delle difficoltà che ci impediscono di gestire più lingue diverse,
allora perché lungo il corso dei secoli è diventata la forma meno marcata, meno normale?
Come nasce il monolinguismo?
Ancora oggi, la condizione di monolingue viene considerata normale per ogni individuo. Se
prendiamo il caso della scuola, vedremo come il bilinguismo venga interpretato come un ostacolo
alla completa gestione di una delle due lingue.
Il concetto del monolinguismo è un principio fondamentalmente ideologico, cioè è frutto di
un'ideologia e la sua forza deriva da dei contesti storici, nei quali c'è stato bisogno di rafforzare questo
concetto. Diventa significativo e utile per motivi politici ed economici.
I due eventi storici in cui si consolida l'idea di monolinguismo sono:

1. Il colonialismo

2. La formazione degli Stati-nazione

L'idea di un monolinguismo funziona sulla base di due principi:

1. Le lingue siano sistemi autonomi e stagni, cioè l’idea che le lingue abbiano dei confini
precisi, netti, invalicabili;

2. il monolinguismo rappresenta lo stato normale di ogni individuo e che invece ad


essere spiegato debba essere il multilinguismo
Il XV secolo (1492), rappresenta un momento storico nel quale vi era la necessità di conquistare altre
terre. Dopo la scoperta dell'America le grandi potenze europee, in particolare la Spagna, vanno a
conquistare i nuovi territori, creando così nuove colonie. Colonizzazione alquanto drammatica nella
quale si tenta di estinguere le popolazioni autoctone, tramite l'obiettivo di convertire gli indigeni: e
perciò si rese necessario creare un sistema di descrizione linguistica che permettesse la traduzione
della Bibbia da una lingua all'altra. La Spagna, che legiferava in America centrale e meridionale, da
una parte si consolida come stato-nazione, estromettendo gli arabi dalla penisola iberica, e dall'altra
parte viene immediatamente scritta una grammatica della lingua castigliana, al fine di costituire lo
spagnolo come lingua di questo stato. Ancora oggi ci trasciniamo questa questione. In Catalogna la
rivendicazione della lingua catalana è risentita come un elemento fondamentale del riconoscimento
della loro identità.
Tra la fine del '400 e l’inizio del '500 c'è bisogno di uno spazio discorsivo comune a tutto lo stato
spagnolo e si impone a tutti la lingua castigliana sia nel paese sia nelle colonie. Questa imposizione
porta alla necessità di descrivere le lingue e costruire tutti quegli apparati linguistici (grammatiche,
dizionari) che delimitano i confini di questa lingua e la rendono un linguaggio standardizzato e per
tutti.
Stati-Nazione: uno dei principi attraverso i quali si costruirono gli stati-nazione consisteva nell'unicità
della lingua nazionale. Uno Stato, una lingua, un popolo.
Questa triunità incrementò questa lotta nei confronti del multilinguismo e proseguì l'obiettivo del
raggiungimento di un'omogeneità linguistica e culturale. Da questo momento il multilinguismo
rappresentò un'anomalia. Lo stato-nazione per funzionare doveva essere monolingue e ai confini
geografici dovevano corrispondere delle chiare differenze linguistiche. Il periodo del Romanticismo
(primi dell'800) porta al consolidamento degli altri Stati, come la Germania o come la Francia (ove
vige una legge degli anni '90 , la “Loi Toubon” che impedisce l'utilizzo di lingue diverse dal francese
negli spazi di comunicazione pubblica). Il retaggio di questa mentalità si ritrova fino ad oggi sia a
livello di comportamento degli individui, sia all'interno di un quadro normativo portato avanti da vari
stati.
Ogni stato dichiarò l'ufficialità della propria lingua (l'Italia a quel tempo non era uno stato unitario),
perché per funzionare aveva bisogno di una lingua unica e standardizzata, impiegata anche nel
linguaggio burocratico.
L'altra faccia della medaglia riguarda tutto ciò che non rientra in uno schema di questo tipo, cioè ogni
tipo di forma, variabilità e permeabilità dei confini geografici, culturali e linguistici.
Quindi i confini linguistici dovevano equivalere ai confini geografici. Si pattugliavano perciò dati
confini e si distingueva tra buono e cattivo uso, tra i dialetti (considerati come varietà della lingua
nazionale ) e le lingue degli stati nazionali. Il concetto di multilinguismo, inteso come forma da
mantenere solo in alcuni casi specifici, nasce in questo momento. Esso deve rispettare i confini
linguistici, non ci devono essere dei mescolamenti, perché il concetto di multilinguismo deve avere
come assioma il fatto che le lingue debbano essere dei sistemi chiusi. Quindi il multilinguismo buono
diventa quel multilinguismo per cui varie lingue stanno l'una accanto all'altra. Quello cattivo riguarda
invece quel multilinguismo che si può trovare in alcuni strati della popolazione perché sono persone
che non hanno avuto una scolarizzazione e la scuola qui rappresenta una valida educazione al
monolinguismo.
Questi sono anni in cui il bilinguismo e il multilinguismo sono stati indicati come cause di ritardi
cognitivi e di fallimenti scolastici. (quando negli anni '60 venne aperta la scuola media unica in Italia,
tutti i bambini italiani avevano l'obbligo scolastico fino al termine della terza media. Succede che si
immettono nella scuola centinaia di migliaia di bambini che provengono da contesti linguistici molto
diversificati, in quanto in Italia l'uso del dialetto era considerato una normalità, e perciò tanti bambini
vengono respinti dalla scuola, perché il fatto di essere dialettofoni porta all'idea che essi siano bambini
che non posseggono le capacità per andare a scuola, non tenendo conto delle loro difficoltà dal punto
di vista linguistico).
Bilinguismo cattivo inteso come la causa di ritardi cognitivi, mentre così non è. Se consideriamo il
caso del bambino immigrato, è ovvio che egli avrà difficoltà, ma esse non sono di tipo cognitivo,
bensì sono difficoltà che avvengono sul piano dell'apprendimento linguistico.
Bilinguismo buono inteso dalla conoscenza di più lingue nazionali che devono però stare l'una
accanto all'altra, come se fossero dei blocchi che si immettono nelle memorie e nelle capacità di
ognuno di noi, ma che non devono mischiarsi. Bilinguismo d'élite che serve a coloro che lavorano nel
contesto degli scambi nazionali.
Quando negli anni '60 si verificarono l'indipendenza delle colonie europee e i movimenti democratici
per i diritti civili, in particolare dei processi di democratizzazione (aperta a tutti, non solo a una élite)
dei percorsi d'istruzione, il multilinguismo subì una sorta di rivalutazione e riprese importanza.

Nel XIX secolo, con la costruzione degli stati-nazione, siamo di fronte a una politica nella quale
prevale il nazionalismo, mentre la corrente culturale era legata al Romanticismo. In Germania gli
intellettuali tedeschi del periodo descrivevano il popolo germanico come l'erede degli antichi greci e
dei romani e, in quanto tale, poteva guidare anche gli altri popoli (questa concezione ebbe
ripercussioni nel secolo successivo). Dietro ciò era celata l'idea della necessità della Germania di
riconfigurarsi, in quanto ad inizi dell '800 essa faceva parte dell'impero austro-ungarico. Necessitava
quindi di riunificarsi al fine di formare un unico stato tedesco. Nel 1807 un grande filosofo romantico,
Johann Gottlieb Fichte, tenne, per 14 domeniche consecutive a Berlino, delle lezioni che vanno sotto
il titolo di “Discorsi sulla nazione tedesca”: egli si rivolge al popolo tedesco con questa idea di
ricostruire uno stato e giustifica il motivo per il quale lo stato tedesco debba essere quello che avrà il
compito di guidare altri popoli con il fatto della lingua. La lingua tedesca rappresenta la differenza
fondamentale che contraddistingue i tedeschi dagli altri popoli. Fichte fa l'esempio del francese,
affermando che mentre i tedeschi hanno sempre parlato una lingua germanica, la lingua parlata dai
galli, che in principio possedevano la lingua germanica, è stata permeabile ad altre lingue e ciò ha
fatto sì che essa subisse delle mutazioni, rendendo quindi il francese la lingua che viene parlata in
Francia oggigiorno, lingua che presenta sempre un sostrato germanico, ma rimane una lingua
romanza, originata dal latino. Per questo Fichte afferma che il popolo tedesco è il popolo puro, perché
la sua lingua non è stata contaminata da altre lingue.
Ciò che fa la differenza non è tanto il territorio, quanto la lingua. La lingua, dunque, è il fattore
fondamentale dell'identità di un popolo e il mantenimento di questa identità nel corso dei secoli esige
che questa lingua non subisca cambiamenti, fratture e mescolamenti, come invece è avvenuto nella
lingua dei galli.
La scuola diventa lo strumento fondamentale per il proseguimento del monolinguismo.
L'Italia nel 1861 si è unificata territorialmente, ma dal punto di vista linguistico la percentuale di
coloro che parlavano e capivano la lingua italiana era molto esigua (circa il 2-10%). Secondo De
Mauro: la lingua italiana era parlata da chi abitava in Toscana (il fiorentino sta alla base dell'italiano)
o al massimo da chi, abitando nella capitale, aveva a che fare con l'amministrazione.
L'Italia all'epoca era un coacervo di lingue, dialetti, varietà e lingue di antico insediamento. Siamo
arrivati ad un' unificazione linguistica attraverso la scuola: i cittadini italiani oltre ad essere
dialettofoni, erano anche analfabeti, perciò la scuola comincia a portare nelle case di tutti gli italiani
una lingua italiana comune.
Abbiamo bisogno di una lingua comune per comunicare, ma ciò non deve andare a stigmatizzare tutte
le altre varietà presenti nel territorio. La varietà linguistica, in particolare quella dialettale, è stata
negli anni soffocata e condannata, come se il possesso di un dialetto rappresentasse un problema per
l'apprendimento dell'italiano. È necessario, al contrario, considerare la varietà linguistica come una
risorsa.
In Spagna l'indipendenza - soprattutto linguistica - è una conquista difficile da raggiungere, ottenuta
lungo il corso di anni e attraverso spargimenti di sangue. Nei paesi baschi vi furono tantissimi attentati
mossi dal riconoscimento della propria identità, accompagnati dal riconoscimento della propria
lingua. Oggigiorno, non hanno ottenuto un'indipendenza politica, ma sono arrivati alla conquista
dell'indipendenza identitaria che comprende il riconoscimento della propria lingua. Nei paesi baschi
l'istruzione comprende una modalità bilingue, in basco e in castigliano, e lo stesso in Catalogna. La
Spagna ha dichiarato come lingue ufficiali, oltre al castigliano, anche tutte quelle lingue appartenenti
alle minoranze, e queste stanno riemergendo e si stanno rivitalizzando sempre di più anche nell'uso
quotidiano.
Il possedere come stato una lingua ufficiale è un processo necessario, perché altrimenti sarebbe
complesso partecipare alla vita politica, sociale e culturale di un paese. La spinta verso la condivisione
linguistica e verso l'acquisizione degli strumenti linguistici, per far sì che ciascuno di noi possa essere
cittadino di uno stato, è fondamentale. Ma tra il riconoscere questo e il dire che tutto ciò che non
rientra all'interno di questa uniformità linguistica debba essere condannato, ce ne passa molto. La
Francia possiede l'Académie française, che ha lo scopo di preservare la lingua francese, ovvero si
pone l'obiettivo di provare ad impedire che la lingua francese venga contaminata da altre lingue. Tenta
di vietare l'ingresso di alcune parole che provengono dall'inglese, per esempio.
Ci sono visioni di multilinguismo che affermano quanto sia bello essere multilingue: tuttavia, molte
di esse intendono conoscere e parlare le lingue di prestigio. Si tratta di un multilinguismo limitato a
quelle lingue che ti permettono di gestire la comunicazione internazionale.
Philippe Van Parijs, sociologo e filosofo, sostiene l'idea che ci debba essere un'unica lingua, perché
è solo attraverso l'utilizzo di un'unica lingua, che tutti gli europei (ma non solo) possono raggiungere
quelle conquiste e giustizie sociali che ci permetteranno di comprenderci gli uni con gli altri. Tentativi
di un'omologazione linguistica sono già stati fatti, ma non hanno avuto successo perché non è stato
considerato l'altro assioma che si lega a quello di monolinguismo, e cioè che le lingue non sono solo
uno strumento di comunicazione.
***

4° LEZIONE - 25/02/2022
SBOBINATRICE: Bondini Denisia
REVISIONATRICE: Carli Carla

[Trascrizione del video]: “Questo è rappresentato da un libro meraviglioso, Philippe van Parijs ha
scritto questo libro Linguistic justice for Europe and the world, è un libro veramente molto bello;
adesso io semplifico molto perché mi concentro soltanto su un aspetto di questo libro, però è un
libro che tratta anche dei problemi sociali di cui ho parlato.

Però, anche parlando di tutti questi problemi, finalmente Philippe lui pensa al monolinguismo,
perché anche lui, lui è un socialista e dice “noi abbiamo, come socialisti, abbiamo bisogno di una
lingua anche per lottare insieme”, lui pensa spesso alle alle lotte sindacali eccetera, dice “dobbiamo
avere una lingua insieme per lottare, per fare queste lotte sociali”. Allora lui, però, anche per lui la
lingua ha soltanto funzione comunicativa, e lui fa anche un capitolo in cui esclude proprio anche
quell’altra funzione culturale semantica.
Allora, lui dice abbiamo bisogno di una lingua franca, di una sola, se dobbiamo essere capaci di
sviluppare e realizzare delle soluzioni efficaci e giuste per i nostri problemi comuni a livello europeo
e globale. Quindi una lingua franca, una sola, e qui già si vede che le altre lingue naturalmente sono
anche per lui un problema, anche in Philippe van Parijs è molto presente l'orrore della torre di
babele, perché naturalmente la torre di babele è un ostacolo alla comunicazione, è un ostacolo per
la società: questo è chiaro, e lo rimane anche. Allora, perché è così? Naturalmente sogna del
paradiso, allora, lui crede: se una lingua potente dovesse condurre tutte le altre all’estinzione
graduale tutti gli uomini parlerebbero la stessa lingua e formerebbero un solo popolo e dunque
nessun progetto sarebbe loro impossibile. Come vedete, fa naturalmente esplicitamente allusione a
Genesis 11, alla storia della torre di Babele.
Per lui naturalmente il popolo deve essere capace di fare tutto, allora qui naturalmente è una specie
di sogno del paradiso, del ritorno al paradiso dove c'è soltanto una lingua.
Allora, perché è così? anche lui crudelmente dice: se le società, se le comunità
linguistiche vogliono abbandonare le loro lingue, che lo facciano: there is nothing wrong with
linguistic suicide (non c'è niente di male nel suicidio linguistico).
Allora, vedete questo è naturalmente molto coerente come argomento, siccome le lingue non hanno
nessun’altra funzione che la comunicazione, allora non sono necessarie. Però io naturalmente, come
già sapete, trovo che forse sì, forse sì, e arrivo al terzo capitolo: “pensare le lingue diversamente”.
E qui mi riferisco al mio santo, che è Wilhelm von Humboldt, filosofo del linguaggio tedesco che
rappresenta un'attitudine completamente diversa di fronte alle lingue, il linguaggio. Perché anche
lui crede che la funzione primaria del linguaggio e delle lingue non sia la comunicazione, ma - come
vedete qui - l'organo per formare il pensare: il linguaggio è l'organo formativo del pensiero, del
pensare: è una delle frasi centrali.
Allora, se la lingua è l'organo formativo del pensare, naturalmente le lingue diverse saranno
formazioni diverse del linguaggio. Allora, il pensare - scrive lui - non dipende soltanto dal
linguaggio in generale ma in certa misura è determinato anche da ogni singola lingua, dunque il
pensare umano è sì determinato, come dice, però in una certa misura - stiamo attenti - in una certa
misura è determinato anche da ogni singola lingua. E poi c'è questa frase celebre in cui dice: “la
loro diversità (dunque la diversità delle lingue) non è una diversità di suoni e segni, ma delle stesse
visioni del mondo”.
Allora, le lingue sono visioni del mondo: cosa vuol dire? Non vuol dire quello che si pensa sempre,
cioè che le lingue siano proprio delle Weltansichten, delle ideologie diverse, non so, che gli italiani
pensano completamente diversamente dai tedeschi, che hanno un sistema ideologico
completamente diverso dai francesi, no, questo non è detto con questa frase delle visioni del mondo,
ma è qualche cosa di molto primitivo, di molto semplice.
Adesso vi mostro che cosa pensa Humboldt: a questo, per esempio (diapositiva→ ted. sie singt
versus ingl. she is singing / she sings): sono visioni del mondo, sono semantiche diverse. Se voi
parlate inglese, voi dovete sempre fare la differenza tra progressive form e simple form, mentre in
tedesco, anche in italiano, “ella canta”, “ella canta”: però, se parlate inglese, dovete decidere se “she
is singing” o se “she sings”, se è una cantante o se canta adesso. Oppure, noi per esempio tedeschi
facciamo una differenza tra treppe e leiter: voi no, voi pensate questa sfera della realtà in una
maniera diversa, non è che non fate la differenza, perché non so, a un italiano se dici “dammi la
scala” ti porta una scaletta, una leiter, dunque si vede anche la differenza tra leiter e treppe, però
linguisticamente non si fa. Oppure in francese dovete distinguere tra due maniere di presentare la
novità: nouveau e neuf, fra materialmente nuovo e epistemologicamente, cognitivamente nuovo.
Allora, è questo, la visione del mondo: ancora una volta questa questa frase di Humboldt, “dalla
reciproca dipendenza del pensare dalla parola - e viceversa - appare chiaro che le lingue sono
propriamente un mezzo per presentare le verità, non per presentare le verità già conosciute, ma assai
più per scoprire le verità prima sconosciute” e poi viene adesso questa fase “la loro diversità non è
una diversità di suoni e segni, ma delle stesse visioni del mondo”. Allora, cosa vuol dire, che non
presentano le verità già conosciute ma scoprono le verità prima sconosciute? Vuol dire così:
Humboldt, lui pensa contro Aristotele, presentare le verità già conosciute è quello che Aristotele ci
racconta in questa interpretazione. Aristotele dice: l'uomo pensa le cose (pragmata) e forma
concetti: dunque la relazione cognitiva è universale e non ha nulla a che vedere con la lingua, noi
formiamo concetti delle cose nella nostra mente; se poi vogliamo comunicare questi concetti alla
gente, allora usiamo delle parole, suoni, diamo fonemi a questi concetti che abbiamo formato.
Dunque questi suoni sono segni e naturalmente anche Aristotele sa che i segni sono diversi nelle
lingue. Allora c'è un segno 2, segno 3, allora però avete visto, quando non ci sono le parole alla
parte destra non c'è movimento, tutto il concetto, la formazione del concetto è universale, mentre le
lingue servono soltanto a comunicare i concetti universali. Per Humboldt (non è soltanto
l'invenzione di Humboldt, ma diciamo così è una scoperta dell'europa del settecento) è così: loro
hanno visto che il concetto e la parola si formano insieme, che non si forma prima il concetto e poi
la parola, però che le parole formano i concetti insieme e li formano in lingue diverse. Cioè fanno
così, al centro c'è il mondo e poi le lingue diverse formano concetti diversi sulle cose, e questo è
quello che Humboldt chiama “scoprire le verità prima sconosciute”, sconosciute perché non
avevamo dei concetti prima, però formando le lingue formiamo anche le verità.
Allora, vediamo adesso un esempio: lì c'è la pecora, e poi i tedeschi formano una concezione
“schaf”, una cosa universale, e poi quando ne vogliono parlare dicono schaf, poi vengono gli inglesi
dicono sheep, i francesi dicono mouton. Allora però di nuovo avete visto che la relazione cognitiva
rimane la stessa, però Humboldt dice che è così: che al centro abbiamo il mondo e poi ci sono delle
rappresentazioni e delle parole diverse. La pecora non è un buon esempio perché non ci saranno
delle concezioni molto diverse di questi animali nelle lingue diverse, però qui ho creato un altro
esempio che magari può essere interessante: dove pensiamo che abbiamo delle concezioni
universali, ma non è vero, c'è il concetto 99, però è presentato diversamente nelle lingue diverse,
no? Per 99 noi diciamo 990, voi dite 99, i francesi dicono 4-20-10-, per la stessa cosa, e poi c'è
un'altra lingua che dice tre volte 33, per la stessa cosa, per 99. Allora vedete nelle lingue, nella
semantica delle lingue c'è qualche cosa di diverso. Tra l'altro questa quarta lingua
l'ho inventata io [ride].
Allora, questo è quello che Humboldt vuole dire, che la loro diversità non è una diversità di suoni
e segni soltanto, non è una diversità materiale soltanto, ma una diversità semantica delle visioni del
mondo; e perché è così? Perché si forma, se volete, un altro capitale: con la molteplicità delle lingue
cresce immediatamente per noi la ricchezza del mondo, e la molteplicità di quello che conosciamo
in esso; perché tutte le lingue contribuiscono alla conoscenza, alla concezione del mondo, tutti
hanno diverse concezioni del mondo e questo è una ricchezza. E poi l'apprendimento di una lingua
è l'acquisizione di un nuovo punto di vista, allora l'apprendimento di una lingua straniera dovrebbe
essere l'acquisizione di un nuovo punto di vista, di una nuova visione del mondo, dalla visione del
mondo finora regnante, perché ogni lingua contiene il tessuto intero dei concetti e delle
rappresentazioni di una parte dell'umanità.
Allora, questa naturalmente è una concezione totalmente diversa di quella degli scienziati sociali,
qui naturalmente è la semantica, è l'appropriazione del mondo che è proprio al centro, dunque è una
concezione semantica o cognitiva delle lingue, e, quando le lingue spariscono, allora sparisce anche
la ricchezza del mondo”.

Riprendiamo un attimo la riflessione: perchè abbiamo visto questo video? Proprio per confermare ciò
su cui stavamo riflettendo nelle nostre ultime lezioni: ora lo riprendiamo passo a passo, perché è un
video molto denso. Che cosa abbiamo detto ieri? Ieri abbiamo detto che la contrapposizione tra il
multilinguismo (che, come abbiamo visto, è una condizione naturale) e il monolinguismo è una
contrapposizione che nasce da motivi ideologici, e abbiamo cominciato a individuarla in precisi
momenti storici e in precisi contesti sociali. Nasce, si sviluppa e si consolida in precisi momenti
storici, che hanno primariamente a che fare con la formazione delle colonie - e quindi con la necessità
soprattutto di evangelizzare le popolazioni che, appunto, abitano nei continenti lontani che entrano a
far parte dello stato-nazione (in particolare della Spagna) - e, dall’altra parte, si ha una forte
rivalutazione della lingua come identità, come rappresentativa dell’identità di uno stato, di una
nazione e di un popolo al momento della nascita degli stati-nazione europei. In particolare, abbiamo
visto il caso, ieri, della Germania e dei discorsi che Fichte fa alla nazione, dove identifica proprio la
lingua tedesca in quanto lingua intoccata, non mischiata con contaminazioni da altre lingue, la lingua
del popolo puro, il popolo che deve assumere la guida di tutti gli altri. Quindi, una motivazione
fortissima è una motivazione di tipo nazionalistico.
C’eravamo domandati: quest’idea (dopo soprattutto i mutamenti storici, dopo la fine delle grandi
guerre e l’inizio della decolonizzazione di tanti paesi del mondo), quest’idea di monolinguismo è
un’idea che permane ancora sì o no? E abbiamo detto che, nonostante tutto questo movimento che
l’Europa sta facendo per promuovere il multi- e (lo vedremo più avanti) plurilinguismo, ancora
permane, anche da prospettive completamente diverse, l’idea dell’importanza dell’utilizzo di
un’unica lingua.

Il caso che abbiamo visto questa mattina e che ci ha spiegato Jurgen Trabant, che è appunto un
semiologo tedesco, è il caso di questo bellissimo libro di Philippe van Parijs (un sociologo che si
occupa di lingue, tuttora vivente). Van Parijs scrive questo libro (Linguistic Justice for Europe and
for the Word), che è un libro molto recente - è del 2011, quindi sono passati solo 10 anni, e che parte
da un presupposto diverso: cioè, parte dal presupposto che la lingua sia uno strumento fondamentale
per l’esercizio dei propri diritti. Cosa che in realtà è vera perché, se non si parla bene una lingua, se
non si comprende bene una lingua, è chiaro che non siamo in grado di vivere con pienezza all’interno
della società. Quindi, il tema di questo libro di van Parijs è quello di andare a capire come realizzare
la giustizia linguistica, per l’Europa e per il mondo. Quindi la prospettiva di van Parijs non è una
prospettiva nazionalistica, cioè lui non vuol dire “una lingua, un popolo, la purezza del popolo che è
data dall’unica lingua, dalla lingua che viene utilizzata” (e quindi l’inscindibilità del legame tra lingua
popolo e nazione), no, la prospettiva di van Parijs è, come ci dice Trabant, una prospettiva socialista,
quindi politicamente completamente diversa, opposta. Lui dice: “quello che a me interessa è che a
tutte le persone che abitano nel mondo sia data la stessa possibilità di esercitare i propri diritti
attraverso la lingua”: e la soluzione che van Parijs propone è quella della “dissemination of
competence in a common language”, cioè la disseminazione della competenza in un’unica lingua, in
una lingua franca (che significa lingua franca? Lingua franca è lingua che viene utilizzata da tutti; si
parla molto spesso adesso della realtà dell’inglese come lingua franca, che è una lingua che non è
solo e semplicemente legata alla nazione o alle nazioni che la utilizzano, ma è una lingua che serve
globalmente per la comunicazione globale). Questa è la soluzione di van Parijs, cioè la soluzione da
lui proposta è quella che dice “se vogliamo combattere perché ci sia una più grande giustizia in Europa
e nel mondo (e, considerate, la giustizia è raggiunta attraverso la lingua, cioè la capacità di esprimersi
e la capacità di comprendere), allora è necessario un cheap medium of communication, cioè una
modalità di comunicare e di mobilitarci per il raggiungimento della giustizia tutti insieme, e quindi
una lingua franca comune”. Come ci sottolinea appunto Trabant, c’è in questo volume l’orrore per la
torre di Babele, per la molteplicità e per la diversità, e anzi le diverse lingue vengono considerate
come un ostacolo per la società. A un certo punto Van Parijs dice “sì, lasciamole le lingue, ma le
lingue altre devono essere usate soltanto in pochi contesti, chiuse, e non devono essere conosciute
dagli altri, non ha senso: basta una sola unica lingua comune, posseduta nella sua pienezza da tutti gli
abitanti del mondo, di modo che ognuno di loro possa in qualche modo esercitare i propri diritti”.

Vedete com’è interessante anche la copertina del libro? La copertina del libro è una rivisitazione di
Babele, ci sono case anche moderne con per esempio in alto anche delle torri tipo grattacieli, però
l’idea è appunto quella di Babele.

Con una sola lingua, gli uomini potrebbero raggiungere tutti gli obiettivi e, a un certo punto, van
Parijs dice anche una frase molto forte: se le lingue muoiono perché non hanno dei parlanti, poco
male: “there is nothing wrong with linguistic suicide”: perché, appunto, se le lingue muoiono, vuol
dire che sono lingue che non servono, non sono utili, che non servono a niente.

Allora, quello che mi preme che vi sia chiaro è che, è vero, le posizioni ideologiche nazionalistiche
sono quelle che presentano poi maggiormente una esaltazione del monolinguismo, ma ugualmente ci
sono anche posizioni come quella di van Parijs. E, vi potete immaginare, sono stata una volta a Milano
a un convegno di linguisti sulla diversità, quindi c’erano linguisti, architetti, ed era un convegno in
cui si celebrava la diversità: fa la sua relazione van Parijs, e succede una mezza rivoluzione, perché
naturalmente da tutte le parti piovono critiche contro questa sua visione. Perché piovono critiche
contro questa sua visione? Perché, appunto, come ci fa notare Trabant, c’è un piccolo problema: che
van Parijs considera le lingue esclusivamente come mezzo, come strumento di comunicazione, cioè:
l’unica funzione che hanno le lingue è quella di comunicare. È così? Ieri abbiamo cominciato a dire
che forse non è proprio solo così.

E poi, bisogna anche fare attenzione perché, come alcuni critici (anche alcuni di quei linguisti che
erano presenti a quel convegno come Francois Grin e Michele Gazzola) cominciano a dire, siamo
sicuri che la giustizia linguistica si raggiunga attraverso l’utilizzo di un’unica lingua?

Anche con l’inglese come lingua franca, si ripropone, si potrebbe riproporre l’ingiustizia almeno,
Grin dice, in tre dimensioni:

• Prima di tutto il fatto che i parlanti nativi sono comunque avvantaggiati, perché non devono
compiere lo sforzo che gli altri parlanti devono compiere, hanno quella lingua sin dalla nascita
e quindi non dovrebbero impegnarsi per apprenderla. Quindi già qui c’è una discriminazione
tra chi la lingua la possiede dalla nascita e chi invece la deve acquisire.

• Poi, ugualmente, tu una lingua la puoi imparare bene quanto vuoi, ma il parlante nativo
comunque ha opportunità più ampie e migliori perché naturalmente la competenza nativa è
un fattore fondamentale.

• Il terzo piano di ingiustizia, che mi sembra quello più rilevante, è che il privilegio che viene
dato in maniera sistematica ad una lingua rispetto ad un’altra implica il non dare rispetto alle
altre lingue, e ugualmente il non essere giusti nei confronti delle diverse popolazioni che in
queste lingue si identificano.

Quindi, anche se, appunto, l’obiettivo di van Parijs, quello che muove il pensiero di van Parijs è quello
di raggiungere una giustizia linguistica, bene, anche con la scelta di un’unica lingua franca comunque
c’è un peccato originario, perché comunque svantaggi alcuni parlanti rispetto ad altri e, soprattutto,
non consideri, non dai valore ad alcune lingue rispetto ad altre - e che cos’è questo se non una
grandissima ingiustizia?

E, appunto, Grin e Gazzola si domandano: “ma che significa allora giustizia linguistica?”, e
cominciano, anche loro come fa Trabant, a mettere in luce il valore intangibile delle lingue come
portatrici di culture: cioè le lingue non sono solo strumenti di comunicazione, ma sono qualcosa di
molto più profondo.

E questo ce lo spiega bene Trabant utilizzando le parole di un grandissimo filosofo del linguaggio
(ma anche politico, diplomatico, linguista, fondatore per esempio del sistema universitario - se
abbiamo un sistema universitario lo dobbiamo appunto a Wilhelm von Humboldt) che, a cavallo fra
il ‘700 e l’800 comincia a riflettere e a riprendere la visione che Aristotele aveva dato del rapporto
fra lingua e realtà, e mondo che ci circonda (cioè fra le cose, i concetti e le parole), e comincia a
pensare che la lingua sia un organo formativo del pensiero. Cioè, la lingua non è solo uno strumento
di comunicazione, ma è la lingua che dà forma al nostro pensare.

E dice, appunto, il pensiero umano è determinato dal linguaggio, cioè: in italiano noi abbiamo - in
inglese non c’è questa distinzione, language si usa sia per la facoltà di linguaggio (quella che
Chomsky chiama faculty of language in the broad sense) sia per indicare le realizzazioni della facoltà
di linguaggio, che si concretizzano attraverso le diverse lingue - in italiano, per fortuna, abbiamo
invece questa possibilità di differenziazione e quindi “il linguaggio” è la facoltà del linguaggio, è
rappresentato dalle nostre capacità cerebrali, fonatorie, uditive che ci permettono di usare la parola, e
"le lingue” invece sono la realizzazione di questa facoltà. Bene, Humboldt ci dice: “il pensiero umano
è determinato dal linguaggio, cioè senza la nostra facoltà, senza il nostro cervello e capacità cerebrali,
non potremmo pensare e non potremmo nemmeno, senza le capacità fonatorie e uditive, interagire
con gli altri”. Humboldt ci dice che [il pensiero] è, invece, determinato anche da ogni singola lingua.
La diversità delle lingue non sta nei suoni, nella diversità dei suoni e dei segni, ma sta nelle diverse
visioni del mondo. E, nella sua relazione, Trabant ci fa vedere la contrapposizione fra la visione
aristotelica (che appunto individuava nel rapporto fra la cosa, il concetto e la parola un rapporto
lineare e un rapporto che poi si ripeteva allo stesso modo in tutte le lingue: cioè, Aristotele spiega la
differenza dei segni e dei suoni come una diversità che però non tocca il rapporto fra la cosa e il
concetto - vi ricordate, il rapporto fra la cosa e il concetto rimane sempre, sempre uguale; Trabant ci
fa l’esempio della parola “pecora” in cui, appunto, gli italiani dicono pecora, i tedeschi dicono schaf,
gli inglesi dicono sheep e i francesi dicono mouton: cambiano i suoni, cambia il segno, ma il rapporto
fra l’oggetto/la cosa e il concetto è lo stesso).

E, appunto, Humboldt (che poi sarà ovviamente seguito e ampliato da tanti altri filosofi e linguisti
come per esempio Ferdinand de Saussure), mette in dubbio questo rapporto come un rapporto fisso,
cioè quella linea [che collega cosa e concetto] non è assolutamente fissa, anzi, Humboldt dice: è una
questione di relazioni.

E comincia a fare l’esempio sia di forme e strutture di una lingua (l’esempio della progressive form,
o del presente: noi non abbiamo questa distinzione, e invece questa distinzione è marcata per la lingua
inglese: quindi, una differenziazione non solo a livello lessicale, ma a livello delle forme e delle
strutture di una lingua). Fa poi l’esempio di come, anche per un concetto semplice e un concetto che
tutti potrebbero pensare che fosse universale come quello di un numero (99), la modalità di
rappresentazione del numero 99 è una modalità diversa in ogni lingua. E ancora più diversa, lui fa
ancora più diversità quando mette in luce e cita il caso della parola treppe: invece, noi in italiano non
abbiamo questa distinzione e usiamo “scala”, ma non c’è nessuno che - se qualcuno vuol salire un
piano qui, in questo palazzo, e dice “dimmi dov’è la scala” gli porta una scala a pioli: è chiaro, questo
non succede. Però, noi abbiamo semantizzato in modo unico un concetto per cui invece il tedesco ha
due realizzazioni.

Chi di voi è toscano? In Toscana, si usa “scala” sempre? [No, si usa “scaleo”]. Capite? Le differenze
sono differenze culturali che non sono semplicemente legate alla lingua come un blocco monolitico,
ma nelle varietà linguistiche, anche di una stessa lingua, ci possono essere delle diversità. Io non direi
mai, se devo cambiare la lampadina, “portami una scala”: io dico “portami lo scaleo”. Perché sono
abituata culturalmente a dire “portami lo scaleo”. Ma casi di questo tipo ce ne sono infiniti all'interno
di una lingua.

Allora, cominciamo a rifarci la stessa domanda: ma la lingua è solo uno strumento di comunicazione?
Niente affatto. Niente affatto. La lingua, come ci dice Humboldt e come ci sottolinea Trabant, la
diversità delle lingue sta nella diversità delle visioni del mondo.

Cioè, una lingua, come dire, ritaglia porzioni diverse della realtà, e queste porzioni diverse della realtà
possono non coincidere da lingua a lingua.

C’è sempre l’esempio degli eschimesi che hanno tantissime parole per dire “neve”; per noi la neve è
sempre la neve, ci può essere il nevischio, ma lo capite, perché in una lingua come l’eschimese c’è
stato bisogno di differenziare tutte queste espressioni diverse? Perché per loro è una questione di vita
il capire che neve c’è fuori, come vestirsi, che tipo di scarpe mettersi, se puoi andare in un lago e
camminare sopra il lago ghiacciato perché vedi un certo tipo di neve.

Pensate a un caso che, ugualmente, si fa sempre per la lingua italiana, il caso della pasta: per gli
stranieri, la pasta è pasta; per noi, la pasta non ci pensa nemmeno a essere pasta, anzi, se si usa un
certo tipo di pasta si costruiscono delle relazioni diverse con altre cose (almeno io, non metterei mai
il ragù di carne sugli spaghetti, cosa che invece in altre culture si fa tranquillamente).

Quindi, appunto, il linguaggio, per Humboldt, non è un prodotto ma è un’attività creatrice, cioè è
quell’attività che ci permette di creare relazioni con il mondo e costruire relazioni fra segni e altri
segni. Quindi è, come dice l’Humboldt, energeia, cioè è un’energia, un qualcosa in continuo
movimento: non è un ergon, non è un qualcosa di fermo, statico, già fatto, bloccato, ma è qualcosa di
continuamente dinamico.

La visione di Humboldt si contrappone, appunto, a ogni visione naturalistica (la visione di Aristotele
è una visione naturalistica, no? C’è una cosa, a questa cosa si applica un concetto perché c’è un
legame naturale fra questi due soggetti). Ma, invece, Humboldt dice che non c’è assolutamente un
legame naturalistico; poi, Saussure arriverà ancora di più a approfondire l'idea con il concetto di
arbitrarietà, e ancora di più con il concetto di arbitrarietà radicale, cioè: non c’è nessun legame di
necessità fra un concetto, fra una cosa, un concetto e un segno; il legame è dato, è costruito attraverso
motivazioni culturali, sociali, che riguardano una determinata comunità parlante.

Quindi, il linguaggio non è uno strumento del pensiero, non è che prima viene il pensiero e poi viene
la lingua: è la lingua che forma, è la lingua che lo media e lo aiuta a formarsi e condiziona il suo
sviluppo. E quindi, secondo Humboldt, il linguaggio - e soprattutto una lingua - è condizione di
possibilità per l’esperienza.

Quando voi studiate una lingua diversa (e credo che tutti voi lo stiate facendo) non state
semplicemente, meccanicamente traslando segni su segni diversi perché appartenenti a lingue diverse
sugli stessi soggetti, assolutamente no. Voi state entrando in un mondo diverso, e entrate a far parte
di esperienze e di visioni del mondo diverse, che si hanno appunto con le diverse lingue.

Quindi, ripercorriamo un po’ le parole di Humboldt: “il linguaggio forma il pensiero, e dalla reciproca
dipendenza del pensiero dalla parola - e viceversa - appare chiaro che le lingue sono propriamente un
mezzo non per presentare verità già conosciute, ma assai di più per scoprire le verità prima
sconosciute”. Cioè, senza la lingua il mondo ci apparirebbe come una massa informe, la loro diversità
[delle lingue] non è una diversità di suoni e di segni, ma delle stesse visioni del mondo. In ciò, è
racchiuso il fondamento e lo scopo ultimo di ogni ricerca linguistica. Siamo nel 1820, all’inizio
dell’800.

E ancora, il cerchio della lingua intorno all’individuo: “con lo stesso atto in forza del quale l’essere
umano ordisce al suo interno la rete della propria lingua (quindi, ricordatevi sempre, delle relazioni:
è fondamentale. I segni sono sempre in relazione l’uno con l’altro) ed egli vi si intesse, e ogni lingua
traccia, intorno al popolo a cui appartiene, un cerchio da cui è possibile uscire solo passando, nel
medesimo istante, nel cerchio di un’altra lingua”.

Che cosa ci dice quindi? Un concetto fondamentale per noi: che questo cerchio non è invalicabile; ci
parla della permeabilità dei confini linguistici. L’apprendimento di una lingua straniera dovrebbe
essere pertanto l’acquisizione di un nuovo punto di vista nella visione del mondo fino ad allora
vigente. Uscire da una lingua significa, può significare entrare in un’altra lingua, e questa è
un’operazione continuamente possibile.

Grazie alla molteplicità delle lingue cresce la ricchezza e quindi l’apprendimento di una lingua non è
semplicemente l’apprendimento di un nuovo sistema di segni, ma è l’apprendimento di un nuovo
punto di vista sul mondo.

[Domanda di un* student*]: “Ma quindi se non esistesse la lingua eschimese, noi non avremmo le
percezioni di neve diverse? O le avremmo lo stesso?”

[Risposta]: Questa è una domanda molto interessante; una volta abbiamo fatto un corso con una classe
di studenti cinesi e li abbiamo portati a degustare del vino. Erano degli studenti cinesi, venuti qui per
entrare non solo nella lingua ma appieno anche nella nostra cultura. Questi ragazzi, quando abbiamo
fatto una degustazione di vini bianchi - e quindi c’era da distinguere i diversi colori del giallo del vino
- erano in grandissima difficoltà, perché nella loro lingua non avevano le parole per dirlo. Capite?
Come dire, la lingua ti condiziona anche la percezione. È chiaro, se poi lei comincia a imparare
l’eschimese, sta in Lapponia, sta con i lapponi che le fanno notare le differenze certo, prima o poi le
percepisce, ma al primo sguardo, se non hai la parola per dirlo, non sei nemmeno in grado di percepire
le differenze. Ora ci sono moltissimi studi anche sul funzionamento delle lingue, è aperta un’enorme
quantità di studi perché abbiamo tanti strumenti tecnici che permettono, ad esempio, di vedere quali
aree del cervello si attivano quando si pronunciano o si utilizzano certe parole. Quindi, sul
funzionamento del linguaggio siamo ancora quasi all’anno zero, perché c’è tantissimo ancora da
studiare: pensate, per esempio, a tutti gli studi di un altro grandissimo linguista, Roman Jakobson:
come ha fatto Jakobson a costruire tutte le sue teorie sulla comunicazione e sul funzionamento del
linguaggio? Analizzando i casi estremi, cioè i casi delle persone che hanno subito traumi cerebrali
(quindi, chi aveva fatto una guerra e gli era scoppiata una mina e quindi aveva avuto lesioni cerebrali,
oppure chi aveva avuto un ictus - persone che quindi avevano lesioni, anomalie nel funzionamento
del cervello), ha costruito tutta la sua teoria sul “normale funzionamento”. Cioè, è il caso estremo che
ti aiuta a capire qual è il funzionamento normale. Adesso, per fortuna, abbiamo tantissime
strumentazioni, che ci permettono e ci hanno permesso di verificare quali sono le aree cerebrali che
si attivano quando si parla, quando si comprende, quando ci si esprime e così via, proprio perché è
tutta una questione di elettricità, e si vede attraverso le strumentazioni quali sono le aree cerebrali che
si attivano. Ma c’è ancora tantissimo da studiare. Però, quello che ci interessa tantissimo, adesso, è
dire che la scelta di un’unica lingua è una scelta che non solo è ingiusta, ma che poi non può nemmeno
durare nel tempo, perché le lingue sono dinamiche, aperte, è la massa parlante (come diceva Saussure)
che modifica la lingua, sono gli usi che la massa parlante fa della lingua che portano poi a modificarla.

Pensate per esempio a quello che sta succedendo con la lingua inglese: certo la lingua inglese è la
lingua della comunicazione internazionale, è la lingua che tutti conoscono, ma esiste una sola lingua
inglese adesso? No. Cominciano ad esserci anche denominazioni diverse: il chinglish è la lingua
inglese parlata in Cina; oppure, naturalmente, la grande differenza che c’è tra la lingua inglese parlata
negli Stati Uniti e l’inglese britannico o l’inglese parlato in Australia. Sono tutti inglesi? Ma certo
che sono tutti inglesi, ma l’uso e il contesto e la cultura diversa delle comunità che questa lingua
usano hanno prodotto delle grandissime differenze, sia a livello fonetico sia a livello lessicale e, in
un certo senso, anche a livello delle strutture, perché ci sono delle lingue che utilizzano più delle
strutture, le marcano di più e così via.
Perché una lingua come l’esperanto rimane ferma? Perché nessuno la usa. Se decidessimo di non
avvantaggiare nessuno e di scegliere come unica lingua l’esperanto, voi pensate che dopo un secolo,
due secoli, l’esperanto sarebbe lo stesso esperanto in tutti i paesi in cui viene parlato? Pensate a che
cos’è successo alle lingue romanze: eppure, sono tutte lingue che derivano da un’unica lingua, dal
latino. Ma le realizzazioni e i cambiamenti che sono emersi, anche grazie all’affiorare dei sostrati
linguistici nei diversi paesi in cui le diverse lingue romanze si sono sviluppate, le ha fatte
profondamente cambiare.

Se io sento parlare francese, insomma, sì, capisco, ma mica capisco tutto. Anche all’interno del latino,
c’erano tanti latini. Quindi, capite bene che anche l’idea che una lingua comune possa rappresentare
uno strumento di giustizia linguistica: beh, a parte che non lo è - a meno che non si decida tutti di
parlare l’esperanto, allora è una lingua che nessuno di noi sa e tutti ci dobbiamo imparare - col tempo
poi le lingue cambierebbero, si comincerebbero a formare le diverse varietà anche dell’esperanto.
Questo perché, appunto, la lingua non è solo uno strumento di comunicazione. Quindi, nella lezione
di Trabant, l’esempio di van Parijs non è sicuramente un esempio di nazionalismo.

Ieri sera ero a cena con un mio amico che fa l’archeologo, e gli raccontavo un po’ le lezioni che sto
facendo con voi (monolinguismo, nazionalismo linguistico e così via); e lui mi raccontava che,
quando ci fu la caduta del muro di Berlino, e le repubbliche che facevano parte dell’Unione Sovietica
cominciarono a chiedere la loro indipendenza, questo mio amico stava in Uzbekistan a scavare (è un
archeologo, e stava facendo degli scavi in Uzbekistan): bene, lui mi diceva, da profano (lui è un
archeologo, non è che sa di lingue), “guarda, è vero, mi ricordo che quando ero in Uzbekistan a
scavare e l'Uzbekistan divenne indipendente, uno dei temi principali fu quello di dare una lingua a
questo paese: non solo di dare una lingua, ma siccome loro erano abituati prima con l’URSS a usare
il cirillico, il cirillico non doveva essere più usato, e decisero di passare (perché la popolazione uzbeka
era una popolazione che proveniva da un ceppo turco) ai caratteri turchi”. E lui mi raccontò che i suoi
colleghi uzbeki, professori universitari, gente colta, si ritrovarono improvvisamente a essere
analfabeti, perché non sapevano leggere, non erano in grado di leggere la scrittura che veniva imposta
per legge.

Quindi, l’ideologia dominante è tuttora un’ideologia monolingue. Se qualcuno di voi è interessato, ci


sono degli studi meravigliosi: per esempio, di nuovo purtroppo parliamo dell’Ucraina, ma di quello
che è successo linguisticamente in Ucraina, o nelle repubbliche baltiche, in cui subito alla
riacquisizione dell’indipendenza si è riacquistata una lingua.

O un caso, mi pare ancora più interessante, è il caso di Israele, dove arrivano persone che provengono
da tanti paesi del mondo (la diaspora che si ritrova in Israele, diaspora che parlava naturalmente le
lingue dei paesi in cui stavano e poi parlava un dialetto, che era il dialetto yiddish, dialetto colloquiale
utilizzato in casa): arrivano in Israele e, con la formazione dello stato israeliano, si decide di creare
una lingua ex novo. L’ebraico è una lingua che è stata creata, come lingua parlata, dopo la seconda
guerra mondiale, perché c’era bisogno di riprendere una lingua (la lingua che era quella delle Sacre
Scritture), che avrebbe rappresentato e raffigurato l’identità del popolo ebraico. C’è un bellissimo
libro di un grande linguista, che si chiama Bernard Spolsky, che racconta che la polizia andava a
spiare nelle case perché utilizzare lo yiddish era vietato, doveva essere vietato, e quindi spiavano e
ascoltavano quale lingua veniva utilizzata e sanzionavano quelle famiglie che continuavano a usare
una lingua che non era una lingua pura, che non era la lingua dello stato. Perciò, per tutti coloro che
arrivavano in Israele, c’era da crearsi, da inventarsi, da costruirsi, da imparare una nuova lingua che
fino ad allora non era mai stata utilizzata nelle interazioni quotidiane ma era solo una lingua scritta.

Allora, appunto, la lezione di von Humboldt ci mette in luce questa funzione diversa di una lingua,
perché appunto una lingua è l’organo formatore del pensiero.
5° LEZIONE - 3/03/2022

SBOBINATRICE: Carla Carli


REVISIONATRICE: Bottaro Maria
La scorsa lezione abbiamo parlato prevalentemente del monolinguismo, di quando nasce, ci sono dei
precisi momenti storico- politici e quindi ideologici che hanno fatto sì che quella che è una condizione
non normale in tutto il mondo sia diventata invece l'ideologia dominante. Abbiamo anche visto che
alla idea di monolinguismo si può affiancare anche nelle ipotesi di vari studiosi tra cui Van Parijs
l'idea di giustizia sociale, è giusto parlare una unica la lingua perché attraverso un'unica lingua si può
dare a tutti i cittadini di tutto il mondo un maggiore far valere i propri diritti di giustizia sociale però
questo non tiene in conto l'enorme portato culturale di cui le lingue sono portatrici e abbiamo detto
che allora bisogna cominciare a pensare alle lingue in modo diverso, non semplicemente come se
fossero degli strumenti di comunicazione. ma andare più nel profondo e ci siamo serviti delle parole
di uno studioso come Trabant e attraverso il politico e filosofo tedesco Von Humboldt che ha operato
a cavallo fra Settecento e Ottocento. Humboldt diceva che la diversità delle lingue non è solo di suono
e di segni ma, rilette una diversità di diverse visioni del mondo. La lingua non si concretizza in un
rapporto diretto tra il concetto e la parola, come pensava nella sua visione naturalistica, Aristotele.
Quello che rimaneva immutabile era il rapporto fra la cosa e il concetto quello che cambiava erano le
singole rappresentazioni verbali di questo rapporto. Von Humboldt, in seguito ad Aristotele ci è stata
un’evoluzione del pensiero. La lingua è l'organo formativo del pensiero e quindi questo rapporto che
sembrava immutabile anche per Van Parijs, fra oggetto e concetto non lo è perché è mediato da tanti
fattori storici, culturali che fanno si che il rapporto tra segni diversi in una lingua non sia identico in
tutte le lingue. Pensare che un’unica lingua in tutto il mondo si possa condividere e che si possa
adottare come caratteristica il monolinguismo è inadeguato e impossibile perché le lingue essendo
energeia, come diceva von Humboldt, mutano continuamente perché devono adattarsi ai bisogni
comunicativi ed espressivi degli individui e delle comunità che le utilizzano. Grazie alla molteplicità
delle lingue cresce la ricchezza perché si ampliano i punti di vista e le diverse modalità in cui ci si
può approcciare al mondo, e l'apprendimento di una nuova lingua non è semplicemente
l'apprendimento di forme, strutture e parole di una lingua ma è l’apprendimento di un nuovo punto di
vista. Von Humboldt ci diceva che si entra in un cerchio di relazioni che è diverso rispetto a quello
della nostra lingua. Quindi il multilinguismo può diventare invece che un sinonimo di complessità,
difficoltà, di maledizione, abbiamo visto tutti i fattori che negativi e qualificazioni negative di
multilinguismo, invece cominciamo a ribaltare questa visione.

Ho messo qui un copertina di un interessantissimo volume che è uscito qualche anno fa, all'inizio di
questo millennio, era un volume che andava a esaminare per la prima volta le lingue presenti nelle
scuole di Londra, scuole frequentate non solo da bambini inglesi ma da bambini di origini diverse e
si comincia a fare un censimento di quelle che sono le lingue parlate all'interno della scuola e si scopre
che ce ne sono centinaia. Non c'è solo l’nglese ma tantissime altre lingue che sono utilizzate a casa,
nei contatti sociali da parte dei bambini e questa è la realtà dei fatti, e la cosa interessante che ribalta
quanto detto finora riguarda il titolo che hanno voluto a dare a questo volume, che si gioca su due
diverse accezioni del termine capitale, è un gioco di parole che funziona bene anche in italiano
fortunatamente quindi lo possiamo comprendere. Il volume si chiama capitale multilingue ma c’è
l'accezione di capitale nel senso Londra è la capitale di uno Stato ed è una capitale multilingue perché
ci sono tante lingue presenti in questa città. L’altra accezione di questo titolo interpreta l'idea del
capitale cioè della ricchezza, anche economica che è portata da fatto si che la lingua e che le lingue
presenti in questa città e nelle scuole di questa città siano molte.Questo libro è corredato da cartine,
con un’ indagine con questionario a tutti i bambini ed è emersa la densità di uso di queste lingue nei
vari quartieri della città. Per esempio qui la percentuale di bambini che parlano il bengali si può
proprio visualizzare, c'è una fortissima concentrazione in alcuni quartieri, segno evidente che vivono
tante persone che parlano il bengali. Ci sono cartine che riguardano anche l’italiano per le nuove
emigrazioni del 900, c’è una gran quantità di italiani che vivono a Londra e usano abitare in zone
limitrofe. L’idea del capitale, della ricchezza che lingue possono portare, una prospettiva che viene
rovesciata. All’interno del volume vi è un capitolo scritto da un economista che dice la città gode di
un vantaggio fortissimo che siano presenti tante comunità che usano tante lingue e questo vantaggio
è anche economico, considerate dice l'economista che Londra è la città con una maggiore presenza,
per esempio di banche di tutti i paesi del mondo, il fatto che ci siamo lingue diverse rende tutto più
semplice perché gli scambi comunicativi e sempre possibile trovare qualcuno che una certa lingua la
parla e tutto questo favorisce la presenza di banche, imprese a livello internazionale.

Questo articolo del 2005 scritto da De Mauro che si intitola “Crisi del monolitismo linguistico e lingue
meno diffuse”. in questo articolo lui dice di guardare il monolitismo linguistico è in crisi profonda.
Che significa intanto monolitismo linguistico? Ma che cos'è il monolite cosa viene in mente? Una
cosa unica, solida, ben definita in uno spazio e soprattutto non permeabile. De Mauro in questo
volume teorizza la crisi del monolitismo linguistico e dice anche un'altra cosa, se noi ci accorgiamo
e siamo consapevoli di questa crisi le conseguenze saranno una apertura agli spazi e alle funzioni
delle lingue meno diffuse, cioè il pensare a la lingua come un monolite o pensare all'importanza del
monolinguismo, chiude gli spazi alle altre lingue. Invece noi vogliamo dimostrare che il monolitismo
linguistico è in crisi e in questo modo non solo diamo maggiore spazio alle lingue meno diffuse, ma
riusciamo a dare completa affermazione a quelli che sono giuridicamente i diritti linguistici umani.
Dove si affermano e quando si affermano questi diritti linguistici, il diritto è quello di riconoscere e
permettere a ciascun individuo di utilizzare la propria lingua e non discriminare, quindi non solo
riconoscimento ma difesa anche delle lingue minoritarie. Tutto questo lo troviamo ad esempio in due
articoli della nostra costituzione italiana promulgata il 31/12/1947.

Essa contiene l'articolo 3 e 6 che inseriscono una affermazione, l’articolo 3 dei diritti linguistici,
spiega che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione
di sesso o di razza. Siamo nel 1947 quindi siamo in un periodo in cui si vuole cancellare l’idea della
superiorità della razza quindi aveva un senso allora dire la razza non deve essere un qualcosa che
discrimina, oggi invece si dice non esistono le razze, esiste solo la razza umana. Si dice qui che la
lingua non può essere un fattore di discriminazione fra i cittadini italiani, quindi c’è un pieno
riconoscimento della diversità linguistica.

L’articolo 6 stabilisce la tutela delle lingue e quindi non solo si afferma la diversità ma attribuisce
come compito allo Stato di tutelare con apposite misure le minoranze linguistiche, c’è un
riconoscimento e una tutela delle lingue.

Gli articoli della costituzione sono 139, nella prima parte, sono contenuti 12 articoli in cui sono esposti
i principi fondamentali, quei principi sui quali si basa il nostro vivere e il nostro stato e la vita
democratica del nostro paese, fra questi 12 principi, ben due volte è citato il termine lingua. Nella
nostra costituzione non c’è un articolo che dice l’italiano è la lingua ufficiale. Essa sancisce una
grande apertura nei confronti delle lingue. Siamo nel 47 ed è appena terminata la seconda guerra
mondiale, l'Italia ha avuto un ventennio di totalitarismo in cui la lingua e l’affermazione del
monolinguismo sono stati fortissimi a livello sociale e scolastico quindi vi era una necessità di reagire.
Attenzione perché il tema delle lingue non è semplicemente un vezzo di una persona di parlare la
propria lingua, ma è un fattore fondamentale per l'identità di una comunità e quindi la repressione
delle lingue fa parte di un insieme di fattori che portano ad altri tipi di repressione.

La questione linguistica non è mai una questione neutra. In quegli anni non solo la costituzione
italiana ma anche altre organizzazioni come l'organizzazione delle Nazioni Unite che è una
organizzazione intergovernativa che ha come obiettivo il dialogo fra gli stati del mondo per mantenere
la pace e la sicurezza mondiale, l'obiettivo è quello di rendere più amichevoli i rapporti fra gli stati,
istituita dopo la 2 guerra mondiale proprio perché non si voleva più la guerra. L'organizzazione delle
Nazioni Unite in due documenti sia nella carta delle Nazioni Unite ma ancora di più nella
dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che vuol dire quasi come la nostra Costituzione, e che
dice che ugualmente ad un individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate senza distinzione
di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o di altro genere o di origine. Anche in
questo caso la lingua è uno di quei fattori a cui non si può attribuire una distinzione, quindi anche in
questo nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, fra i diritti fondamentali dell'uomo ci sono
anche i diritti linguistici e quindi c'è un riconoscimento pieno della diversità delle lingue. A
differenza della Costituzione Italiana, l’ONU non dice nulla sulla tutela, essa è lasciata nelle mani dei
singoli Stati, non c’è nessuna indicazione relativamente alla tutela attiva delle minoranze linguistiche.
Ugualmente il Consiglio d'Europa, organismo nato dopo la 2 guerra mondiale che raccoglie oggi 47
Stati e si trova a Strasburgo nella regione dell’Alsazia nel sud della Francia, a pochi chilometri dalla
Germania, è una città intrinsecamente plurale. Il parlamento europeo ha sede a Bruxelles e una volta
al mese si riunisce anche a Strasburgo e si occupa del welfare europeo. Il Consiglio d’Europa che
raccoglie gli stati europei ed extraeuropei come osservatori, e ha come obiettivo quello di
cooperazione e azione culturale, sociale, educativa, si occupa di tutto ciò che è il welfare europeo per
una migliore gestione degli stati sociali. Ugualmente la Convenzione Europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che è del 1950, in Italia è stata ratificata nel 1955.

Per essere operative le convenzioni europee ma anche le risoluzioni devono essere inglobate
all'interno della legislazione di ogni singolo stato.

L’articolo primo tratta del divieto generale di discriminazione e la lingua e l'appartenenza a una
minoranza nazionale, qui emergel’idea della lingua come patrimonio della comunità.

Qui c'è il riconoscimento della comunità, vengono vietate le discriminazioni e la presa d'atto è che
esistono minoranze,esistono quindi comunità che parlano lingue diverse e si riconoscono, non ci deve
essere discriminazione sulla base di questo, ma manca poi l'azione, la parte attiva.

Quindi prima di tutto diciamo i diritti linguistici nascono e si sviluppano come un approccio
individualistico, non di dimensione collettiva, del godimento dei diritti da parte delle persone che
appartengono alle minoranze. In questo excursus sui diritti linguistici per capire il pensiero di De
Mauro si comprende che nel monolinguismo ci sarà una maggiore affermazione di diritti se ci si rende
conto che il monolitismo linguistico è in crisi.

Nel 1966 patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici nell’articolo 27 si ha una
specie di passo avanti perché si dice in quegli stati nei quali esistono minoranze etniche, religiose e
linguistiche gli individui non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria e di
praticare la propria religione, di usare la propria lingua in comune con gli altri e del proprio gruppo.
Per la prima volta emerge l'idea di una tutela positiva, ciò sottende da parte delle minoranze di essere
riconosciute e che possano continuare ad usare la propria lingua come fattore di identità. Questa tutela
positiva si ritrova nella Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e
significa che si ha diritto delle minoranze all’esistenza e al riconoscimento, ma anche al
mantenimento della propria identità. Nella Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale
immateriale dell’UNESCO, altra associazione che comprende tanti stati e ha come obiettivo la
promozione della cultura e dell’educazione. Esso si occupa del patrimonio materiale e immateriale,
cioè dell’insieme di prassi, espressioni che le comunità riconoscono in quanto parte del loro
patrimonio culturale e all'interno di questa manifestazione del patrimonio culturale immateriale
troviamo il linguaggio (la lingua). Qui si mette in chiaro questo legame indissolubile fra la cultura,i
diritti culturali, l'identità, la diversità linguistica e culturale, si considerano questi concetti come
indispensabili per la realizzazione delle libertà fondamentali e quindi per la democrazia, per il
pluralismo, la coesione sociale, la pace, la sicurezza a livello locale, nazionale e internazionale.
Quindi il mantenimento della diversità delle lingue così come il mantenimento della diversità delle
culture, è condizione per la vita democratica e per la coesione sociale.

Ecco i motivi per cui nel suo articolo De Mauro parla di diritti linguistici, e se consideriamo la lingua
come un monolite non rispettiamo i diritti degli individui. Egli dice all’inizio del suo articolo che se
riconosciamo la crisi del monolitismo linguistico, si aprono nuovi spazi alla completa affermazione
dei diritti linguistici umani.

De Mauro parte dalla spiegazione di linguistico, nella nostra lingua, linguistico ha almeno tre
accezioni diverse:

1. linguistico significa relativo alla facoltà di linguaggio, quindi come aggettivo di linguaggio.

2. relativo alle lingue storico naturali, che in italiano chiamiamo lingue.

3. relativo alla linguistica, agli studi linguistici.

Egli fa questa precisazione perchè dice che se noi dimostriamo che il monolitismo linguistico è in
una crisi profonda che non è reversibile, cioè non si può tornare indietro, questo lo dimostreremo in
tutti e 3 i sensi, quindi vedremo che è in crisi relativamente al linguaggio, alle lingue e alla visione
teorica di lingua.

Nelle prime pagine del testo, fa un’analisi a livello degli stati e a livello politico, non ha più senso
parlare di monolinguismo perché la realtà di tutti gli stati del mondo è una realtà intrinsecamente
multilingue.

Nel mondo usando gli stati che sono presenti nell' organizzazione delle Nazioni Unite a quel tempo
erano 200. È un'operazione che serve per far capire che se si divide 7100 lingue che sono nel mondo
x 200 stati viene fuori che ogni Stato ha almeno 30/32 lingue, quindi la realtà degli stati del mondo
non è monolingue ma multilingue, esiste un solo stato in cui il monolinguismo è prevalente, l’Islanda.

L’slandese è una lingua compatta, perché c’è un fattore geografico che ha impedito la mobilità
essendo essa un’isola, la lingua si modifica attraverso gli usi e la comunità islandese aveva poche
influenze dal mondo esterno. La lingua Islandese è una lingua molto antica che però non è cambiata
perché non ha subito tante influenze dall'esterno. La priorità di lingua, stato, nazione, popolo è stata
importante per l'indipendenza politica, come visto in Francia, Germania, l'Italia soprattutto
accompagnata da una promozione dei livelli di istruzione perché ci fosse una comunicazione paritaria
tra cittadini, una lingua attraverso la quale tutti potessero riconoscersi e comprendersi ma questo non
significa negare l'esistenza delle altre lingue, quindi deve fare i conti con ciò, non trascurarlo, non
mascherare le effettive disparità con il mito di una omogeneità che nella realtà non può esistere, quindi
declina la rappresentazione monolitica dei vari stati del mondo. Vi è una presa di coscienza e di
risveglio accanto a movimenti che hanno avuto come obiettivo quello di ottenere il riconoscimento
formale, legislativo e politico di quelle identità, a questo si è accompagnato la richiesta di legittimità
nell’uso pubblico delle lingue che invece prima erano relegate in un’area subordinata oppure erano
totalmente represse. Durante la politica linguistica del fascismo, se prima le lingue delle minoranze
erano soprattutto di frontiera erano salvaguardate all'interno della scuola e regolate, furono messe
tutte al bando in un obiettivo di nazionalismo e in contemporanea accompagnato da un’accelerazione
dell’italianizzazione, l’italiano era visto come un fattore di identità e di riconoscimento di uno stato,
ciò portò a scontri e lotte. La guerra fra Tedesco e Italiano in Alto Adige è una battaglia che è ancora
in corso e andiamo a vedere un articolo di giornale del 2020 “Alto Adige nuovo tentativo di abolire
il bilinguismo tra i medici”. La provincia autonoma di Bolzano, quando le province sono autonome,
la gestione anche del sistema scolastico è nelle mani della provincia, vi è una direzione dedicata
all’italiano e una al tedesco, vi è ancora questo scontro tra lingue.

La cartina mette in luce i partiti politici a base regionale, che hanno proprio l'obiettivo di far emergere
le identità locali e anche le identità delle identità linguistiche, notate soprattutto questi partiti nelle
zone di confine come sono densi.

Quello che è importante, è che a livello politico e a livello degli stati non ha senso parlare di
monolitismo linguistico, non esistono paesi monoliti.

De Mauro dice che anche negli studi linguistici ci siamo accorti di fenomeni di contatto linguistico e
che emerge non solo dagli stati ma le stesse masse parlanti e ambienti sociali sono caratterizzati dalla
competenza di lingue diverse. A livello degli stati è innaturale parlare di monolitismo ma anche a
livello di ciascuno di noi, l’idea che il parlante debba aderire ad una lingua vista come un monolite,
ha cominciato a cedere il passo a una più realistica visione di parlanti che vivono o quantomeno se
vogliono possono vivere assai liberamente in ricorso ai mezzi che la lingua a loro nota offre per
esprimersi. Sui dati il 45,9/ 46% della popolazione si esprime prevalentemente in italiano in famiglia,
ciò significa che non ci si ferma ad una sola lingua, il 32% dice di parlare sia italiano che che dialetto
il 14% dice ancora di parlare solo dialetto. Il parlare solo dialetto è diminuito drasticamente perché è
parlato da anziani. Sicuramente nelle prossime indagini scenderà ancora il numero di coloro che
parlano solo dialetto, ma ciò non significa che i dialetti siamo morti, perché appunto come vedete non
è che ha avuto un declino così forte negli anni. Soprattutto emerge che nel 1987-88 solo lo 0,6%
della popolazione italiana parlava un'altra lingua, allora nel 2015 quasi il 7% della popolazione diceva
io parlo un'altra lingua ma ci sono da tenere in conto anche gli immigrati.

De Mauro definisce in un altro volume lo spazio linguistico regolato da parametri costituiti dalle
lingue, dalle varietà dai registri che caratterizzano gli usi espressivi di ciascuno di noi. Di nuovo c'è
quest'idea di dinamicità, di apertura e di movimento all’interno di repertori compositi. Quindi diciamo
che la capacità di ciascuno di noi è quella di muoversi in uno spazio linguistico che non è monolitico
ma è uno spazio linguistico ampio e diversificato. Un uso che è regolato da parametri legati all’ambito
spaziale geografico delle parole, la maggiore o minore dipendenza delle parole da un contesto, quindi
maggiore o minore formalizzazione, ma è anche il canale che le parole perdute quindi questo ci fa
capire che anche dal punto di vista degli usi linguistici ci siamo accorti che non è un monolite ma
esiste una modalità di intreccio di usi diversificati.

6° LEZIONE - 4/03/2022
SBOBINATRICE: Maria Bottaro
REVISIONATRICE: Manuela Continanza
In questo testo De Mauro parla della crisi del monolitismo linguistico e la vuole dimostrare da varie
prospettive. L’obiettivo che lui vuole raggiungere è quello di dire: guardate, se smantelliamo il
concetto di monolitismo linguistico in tutte le sue dimensioni, riusciamo a dare quel legittimo spazio
alle lingue meno diffuse e anche alla garanzia dei diritti linguistici. De Mauro dice che vuole
cominciare a decostruire il concetto di monolitismo linguistico sulle diverse dimensioni in cui è
possibile interpretarlo e la prima dimensione che va a decostruire è quella della normalità del
monolinguismo a livello territoriale, perché ci dimostra come la delimitazione così netta fra confini
linguistici che sono aderenti a quelli dei confini di una nazione e quindi rappresentano l’identità un
popolo è una costruzione che nasce nel ‘500 e si sviluppa soprattutto nell’Ottocento, quando si
cominciano a contare le lingue - in un primo tempo se ne contano poche e poi man mano si vanno a
contare sulla base di parametri condivisi, non sulla percezione del parlante ma attraverso altri
parametri. Se si fa quell’operazione che non serve a niente ma serve solo a dimostrare che il
monolinguismo non esiste, dividendo il numero degli Stati che siedono all’ONU per il numero di
lingue, lui dice se facciamo quest’operazione e vogliamo utilizzare come criterio per la definizione
di lingue il fatto che le lingue abbiano una tradizione scritta (perché non tutte le lingue hanno un
sistema di trasposizione dei fonemi in grafemi e non vengono scritte - ad esempio, dell’ebraico c’era
lo scritto ma non c’era l’utilizzo quotidiano della lingua). Anche se restringiamo il numero delle
lingue, vediamo che non c’è mai una corrispondenza 1:1 ma in quasi tutti i paesi del mondo ci sono
più di una lingua. Ad esempio l’Italia, che è uno dei paesi più linguisticamente diversi, ma questo
non significa che non ci deve essere una lingua comune all’interno di uno stato, perché se una lingua
comune è accompagnata da processi di scolarizzazione e quindi da un'educazione linguistica che
permette a tutti i cittadini nei contesti sociali di essere in grado di svolgere a pieno il proprio ruolo di
cittadini e quindi capire, farsi capire, interpretare e gestire le interazioni all’interno dei contesti sociali,
in quel caso è fondamentale godere di una lingua comune e sappiamo bene quanto ancora c’è da fare
in Italia perché i livelli della lingua non solo sono ancora bassi ma il problema è che nel nostro paese
il livello di alfabetizzazione è ancora molto basso. Abbiamo una quota importantissima di persone
che non hanno gli strumenti per gestire le interazioni in italiano della vita sociale del nostro paese,
cioè le persone non riescono a capire quello che leggono, anche studenti della scuola, persone che
sono uscite dal percorso scolastico e che non hanno esercitato più le capacità alfabetiche che
permettono loro di gestire le interazioni sociali. Si parla di analfabetismo di ritorno. Non confondere
con la parola analfabetismo, che significa non saper nemmeno fare la propria firma, non saper leggere
o non saper scrivere. Quello che è preoccupante è il fatto che molte persone soffrono di quello che
viene definito analfabetismo funzionale, cioè incapacità di raggiungere degli obiettivi in determinati
contesti di comunicazione. Le indagini internazionali sono indagini che utilizzano dei testi che hanno
difficoltà uguali in qualunque lingua siano state scritte. Il possesso di una lingua come e il pieno
possesso di gestione di una lingua comune sono fondamentali ma non significa condannare tutte le
altre e farle morire.

Quindi, De Mauro dice che a livello politico il monolitismo linguistico non esiste; non esiste
nemmeno sul piano degli usi perché l’idea che ogni parlante debba aderire ad una lingua vista come
un monolite non sta nelle cose perché ogni parlante è capace di utilizzare gli strumenti linguistici del
repertorio linguistico a proprio disposizione. De Mauro dice che lo spazio linguistico non è un caos
ma è molto articolato, molto vasto perché è regolato da alcuni parametri e quindi la competenza
linguistica si definisce attraverso la capacità di usare i piani di lingua più adeguati rispetto alle
situazioni in cui ci troviamo. Avevamo visto come per una richiesta semplicissima o un concetto
semplice su cui lavorare si poteva avere delle realizzazioni espressive molto diverse a seconda del
contesto in cui ci troviamo: il bambino che dice “per favore mi dai il sale” usa un italiano regionale
colloquiale perché è a casa tranquillo, però in modo formale. Si possono quindi definire e riportare in
punti precisi dello spazio linguistico le diverse espressioni che si presentano. Qui vale per quanto
riguarda lo spazio linguistico di una lingua ma poi si può passare a uno spazio che comprende anche
le altre lingue. De Mauro dice le persone possono utilizzare i mezzi, gli strumenti a loro disposizione
- con questa frase comincia a decostruire il monolitismo linguistico anche sul piano teorico. L’idea
del monolinguismo è una costruzione ideologica, politica che funziona solo se si danno due
condizioni: che il monolinguismo sia lo stato normale e quindi la forma non marcata, e che si debba
spiegare il plurilinguismo. Noi in queste lezioni abbiamo decostruito il monolinguismo: non è vero
che il monolinguismo sia lo status normale di ciascuno di noi. L’altra condizione è che le lingue siano
dei sistemi autonomi e sani, cioè non permeabili, non dinamici, fermi, bloccati. Pagina 16 dell’articolo
che ha dato dice vi sono forti ragioni per ritenere che la lingua sia di natura non sistematica ma che
sta più di sistemica, cioè che includa le potenzialità di un calcolo ma sia più di un calcolo. Una lingua
è un sistema perché è fatta da forme (parole) che si tengono insieme attraverso le regole, ma questo
è un principio che vale per qualunque codice semiologico. Ma è qualcosa di più che include le
potenzialità di un calcolo ma è anche più di un calcolo.
Cos’è un calcolo? Un calcolo è per esempio il linguaggio dell’aritmetica. È un codice semiologico
fatto di segni che sono articolati, di un numero illimitato, ordinabili in modi infiniti e con sinonimia.
Articolati perché possiamo dire uno ma anche undici, cento undici - cioè da un numero limitato di
segni di base siamo in grado di costruire un numero infinito di segni articolati. Ugualmente sono
ordinabili in modo infinito. Cinque più tre uguale otto è una sinonimia cioè lo stesso modo di dire
otto. I significanti dei suoi morfi risultano composti da un numero ridotto di elementi minimi e fonemi
che si raggruppano in sillabe. Queste sono proprietà che ha il calcolo ma ha anche la lingua. La
potenza di un calcolo e di una lingua è quella di partire da un numero ridottissimo di segni.

Il calcolo ha però un rapporto di sinonimia con una relazione biunivoca tra significante e significato.
5 più 3 deve fare 8. La lingua può funzionare così perché quando dici “la margherita è un fiore” è
come un'operazione matematica ma non funziona sempre così. De Mauro dice che il modo in cui i
segni vengono utilizzati è un'operazione molto complessa ed è variabile, la sinonimia non funziona
in modo biunivoco. La lingua è un gioco strano perché per capire ci vogliono altre serie di
informazioni come la vocalità o la grafia dell’enunciazione, le forme che precedono l’enunciato e
quelle che lo seguono, cioè il cotesto verbale, poi il contesto semiotico (insieme di segni appartenenti
ad altri codici che accompagnano l’enunciazione), come ad esempio espressione degli occhi, un gesto
fondamentali per la comprensione. Il contesto situazionale: molte volte è il tipo di contesto in cui ci
si trova che dà senso a quello che si dice. Poi è fondamentale il sotteso, quello che si chiama l’infra-
testo, cioè l'implicita allusione ad altri testi o l’insieme di conoscenze condivise con l'interlocutore
che sono patrimonio condiviso di entrambi e che sono anch'esse fondamentali per comprendere.
Esempio: se ascoltiamo una telefonata tra due amici non capiamo tutto perché non condividiamo ciò
che sta dietro a tante cose dette. Quindi, la lingua è un calcolo perché condivide le proprietà del
calcolo ma va oltre perché fra l’enunciato e la comprensione dell’enunciato è necessario il possesso
di tanti altri dati non linguistici. Quindi, ogni atto di comprensione anche all’interno di una stessa
lingua si può interpretare; come diceva Jacobson (un linguista): comprendere è tradurre. Quindi, la
lingua è un calcolo particolare perché la comprensione è un atto attivo. Molte volte quando si parla
di abilità linguistiche si dice ci sono abilità passive e attive.

Le abilità passive sono la lettura e l’ascolto e quelle attive sono la produzione scritta e quella orale.
Nei primi mesi di vita un bambino ascolta ed è questo un atto molto attivo per il bambino che non
solo seleziona quei fonemi che saranno poi utili per la sua lingua, saranno quelli che sente di più e
sarà in grado di riprodurre, ma allo stesso tempo comincia a fare delle ipotesi sul funzionamento della
lingua ascoltando e imitando, e quindi non c’è niente di passivo nell’ascolto. Come diceva Von
Humboldt, nella lingua, anche nel campo semantico, cioè nel campo del significato delle parole, ci
sono aspetti che è difficile ricondurre ad un calcolo. La lingua è l’organo formativo del pensiero, è
quell’organo che forma alla realtà che ci circondata ma è una realtà che a seconda dei contesti storici,
geografici, climatici in cui ci troviamo è diversificata e quindi molto spesso le lingue vengono definite
come lingue storiche naturali, cioè lingue che fanno parte della nostra natura perché tutti abbiamo la
facoltà del linguaggio (a meno che il nostro cervello non funzioni, a meno che abbiamo avuto dei
problemi fonatori o uditivi) ma è anche storica perché la natura è necessaria ma non sufficiente. La
lingua non è un sistema chiuso ma è dinamico, aperto, che cambia e infatti, come dice De Mauro, è
un’identità diacronica, cioè che cambia nel tempo. Un altro aspetto importante è quello relazionale al
significato dei morfi che appaiono definiti e definibili non tanto per i referenti che possono avere
(ricordare Aristotele: non c’è un legame naturale tra la cosa, il concetto e la parola) ma il carattere è
di tipo relazionale, che sono definibili non tanto per il rapporto che hanno per le cose ma per mutue
relazioni che contraggono con gli altri significati di altri morfi coesistenti all’interno di una stessa
lingua (“pioggerella” c’è perché c’è “pioggia”), quindi la relazione tra questi due termini è
fondamentale. La lingua è più di un calcolo. I calcoli sono sistemi di segni complessi ma la lingua è
ancora di più, va oltre. Perché un calcolo si possa comprendere interamente bisogna conoscere i suoi
segni base e saperne le regole. Come ad esempio gli scacchi: per farlo funzionare come gioco
dobbiamo conoscere il valore di ogni pezzo e le regole che li fanno muovere, se non conosciamo il
valore del pedone non abbiamo altro modo per utilizzare il pezzo in modo adeguato all’interno della
scacchiera. La lingua non funziona così perché noi non conosciamo tutte le parole della lingua. La
lingua è un gioco che funziona anche se non conosciamo tutte le sue forme. Uno degli studiosi che si
accorge di questa proprietà delle lingue è un filosofo del linguaggio austriaco: Ludwig Wittgenstein.
Lui scrive la sua prima opera con titolo latino “Tractatus Logico-Philosophicus” in cui descrive la
lingua come se fosse un calcolo. Col passare degli anni visse delle esperienze che furono per lui
decisive per riflettere sul funzionamento di una lingua e una di queste esperienze decisive fu il fatto
che andò ad insegnare in un paesino di montagna sulle Alpi e si trovò di fronte tanti bambini che
parlavano un tedesco povero che non era il suo tedesco, cioè quello delle persone colte, e quindi lui
cominciò a domandarsi se c’era qualcosa nelle lingue che le fa essere più di un calcolo. I vocaboli
che ognuno di noi conosce e sa usare sono in una parte notevole ignoti agli altri. Ogni mestiere, ogni
sport ha il suo vocabolario ben noto a chi lo pratica che è sconosciuto ad altri e questo sarebbe
impossibile in un calcolo. Quindi, se la lingue fosse un calcolo non dovrebbe succedere che i diversi
utenti conoscano ciascuno parole diverse e in una lingua continua non è così. Abbiamo quindi iniziato
a smontare l’idea che sta alla base del monolinguismo, che è l’idea di chiusura calcolistica e
funzionamento calcolistico di una lingua.

7° LEZIONE - 10/03/2022
SBOBINATRICE: Manuela Continanza
REVISIONATRICE: Giulia Dalfino
Siamo arrivati al punto di riflessione sull’articolo di De Mauro, e abbiamo iniziato con lui a
destrutturare e a riflettere sul concetto di monolitismo linguistico, dicendo che è un concetto che non
funziona, e non ha mai funzionato, dal punto di vista della realtà dei fatti, a livello della
rappresentazione linguistica dei singoli stati; non ha funzionato, non funziona nemmeno nella
possibilità dei singoli parlanti di utilizzare quei repertori, quelle risorse linguistiche che hanno a
disposizione, e quindi non funziona sul piano della concreta realizzazione delle espressioni
linguistiche. Allora De Mauro si domanda: È forse l’idea stessa di lingua che bisogna, in qualche
modo, ripensarla? Perché non è possibile che la consideriamo semplicemente come un sistema di
forme, un sistema di strutture, un sistema che sia chiuso, immobile, statico, come è per sua natura un
monolite.

Cerchiamo di capire quali sono le caratteristiche che contraddistinguono i codici, e in particolare i


codici linguistici; abbiamo visto insieme che la lingua, in quanto codice, condivide le proprietà di
altri tipi di codici, come ad esempio i calcoli, che invece rappresentano bene l’idea del monolitismo,
l’idea della chiusura, però la lingua va oltre – possiede delle caratteristiche che fanno sì che superi la
costruzione di un calcolo. Abbiamo visto che è sì costituita da segni compositi articolati in blocchi di
morfi e morfemi o monemi (dotati di significato) [e poi i significanti sono costituiti da un numero
ridotto di segmenti minimi che sono privi di significato – i monemi] – caratteristiche che la lingua
condivide con gli altri calcoli, ma lingua non funziona solo così, perché esiste sì la sinonimia nella
lingua ma la comprensione non è di tipo lineare, come accade in un calcolo [5 + 3 = 8], ma la
comprensione è un qualcosa che si attua attraverso l’integrazione con altri dati. Attraverso le parole
di Jakobson abbiamo visto che ogni atto di comprensione è un atto di traduzione, un atto di
interpretazione, un tentativo che si attua in un tentativo di comprensione. Un atto di traduzione che
non è solo da una lingua ad un’altra, ma è anche una traduzione all’interno della stessa lingua, per
capire a pieno ciò che il nostro interlocutore ha voluto dire attraverso quelle determinate espressione.

Anche nel campo semantico, all’interno della lingua ci sono dei fattori che sono difficilmente
riconducibili al calcolo: abbiamo visto l’enorme variabilità anche del lessico di una lingua, e del modo
in cui il lessico di una lingua ritaglia e definisce la realtà che ci circonda. Un’altra caratteristica che
la distingue dai calcoli è il fatto che una lingua non è un sistema chiuso, ma è un sistema
diacronicamente variabile – cosa che non può essere il codice della matematica: non ci inventiamo
un numero nuovo perché dovremmo ricostruire tutto il sistema e ricostruire anche tutte le regole di
quel sistema.

Abbiamo visto il carattere relazionale dei significati dei morfi, che appaiono, che sono definiti e
definibili non tanto per le cose a cui si riferiscono, ma per il rapporto che esiste con altri segni
all’interno del sistema.

Abbiamo anche detto che un’altra caratteristica che lo distingue dai calcoli è il fatto che il sistema è
un sistema che ha un numero enorme di segni, e non è detto che tutti debbano essere conosciuti per
far sì che questo sistema possa essere fatto funzionare da ogni singolo parlante. Se gioco a scacchi o
utilizzo un codice matematico e non conosco il valore e il significato dei segni che lo compongono,
e non conosco le regole che permettono, per esempio, il movimento dei pezzi nella scacchiera, non
sono in grado di giocare. Nella lingua non funziona solo così. La lingua ci permette di andare oltre.
Per esempio, il caso del lessico: siamo in grado di far funzionare e di utilizzare il codice linguistico
pur non conoscendo tutte le parole che lo compongono; anzi, di questa massa di parole, ciascuno di
noi ne può conoscere una quantità maggiore o minore, e ne può conoscere porzioni anche molto
diversificate. Quello che permette a tutti di gestire il codice linguistico è il possedere quel nucleo
ridotto di parole che costituiscono il vocabolario di base – tutto il resto può essere totalmente
sconosciuto. Questo non può succedere, per esempio, nel gioco degli scacchi: di una scacchiera noi
dobbiamo conoscere il valore di ciascuna pedina e il tipo di regole che possono permettere il
movimento di ciascuna pedina – che sono in numero infinito anche quelle, però stanno all’interno di
un sistema chiuso.

Avevamo fatto l’esempio di Ludwig Wittgenstein: andando a insegnare in un paesino di montagna a


bambini che erano socioculturalmente in possesso di patrimoni molto limitati, aveva visto che il
processo di comprensione fra il maestro e i bambini si poteva in qualche modo svolgere. Le parole
che ciascuno di noi conosce sono molto diversificate, alcune ci sono note, altre non lo sono; ogni
mestiere, ogni sport ha il suo vocabolario, che è noto a chi lo pratica ma che è sconosciuto ad altri.

Possiamo concludere questa nostra analisi dicendo che in una lingua convivono degli aspetti sistemici
e di composizionalità – cioè delle regole di composizioni dei segni – che sono calcolabili, cioè che
sono tipici anche di un sistema come quello di un calcolo; accanto a questi ci sono anche aspetti che
contraddicono la natura di sistema e di calcolo di una lingua. È un sistema che possiede delle regole
ma possiede anche delle regole che contraddicono le regole stesse – questo non si trova in nessun
altro codice.

De Mauro conclude che la lingua non è e non deve essere un linguaggio a significati determinati,
riferiti a un solo piano dell’esperienza, non è un linguaggio formale chiuso nei suoi assiomi e nelle
sue regole [l’assioma degli scacchi è quello del valore di una pedina e di come questa pedina si muove,
e non può muoversi in altro modo se non in quel modo lì], ma deve continuamente aprire ad
accogliere, come insegnano storia e osservazione, nuovi sensi e nuovi piani dell’esperienza. Cioè, la
lingua deve essere in grado di rispondere a un contesto culturale, sociale, economico, che cambia
continuamente – si deve continuamente rinnovare, pur rimanendo legata a quelli che sono i suoi
principi.

Nuovi sensi: pensate per esempio al lessico – le nuove parole entrano all’interno della lingua quando
serve esprimere un concetto nuovo, perché magari ci sono state delle scoperte tecnologiche che ci
hanno permesso di ampliare il nostro campo dell’esperienza, però questo campo dell’esperienza in
qualche modo va detto, va raccontato – e quindi servono nuove parole. Come entrano le nuove parole
in una lingua? I neologismi possono essere per esempio dei prestiti, parole che provengono da altre
lingue che entrano e col tempo entrano proprio a far parte del sistema linguistico [ad esempio, la
parola computer quarant’anni fa nella lingua italiana questa parola non c’era, è stata presa in prestito
da una lingua – poi il prestito può essere più o meno adattato – in questo caso è entrato così com’è
all’interno della lingua]. Oppure ci possono essere dei neologismi, cioè si possono inventare delle
parole che comunque partono da una base italiana (ad esempio, i nomi dei minerali, delle stelle, delle
piante, degli insetti…) che vengono composti, modificati, ci vengono messi degli alterati… Si
possono creare in questo modo dei neologismi che servono in quel determinato contesto per dire
nuove cose.

Ma la lingua ha anche un’altra possibilità che è “rivoluzionaria”: quella che si chiama dilatabilità
semantica dei suoi segni, cioè si possono usare le stesse parole per dire cose nuove. Quando
dicevamo che la comprensione è un processo di interpretazione, vuol dire che ho bisogno del contesto,
del cotesto, per capire, perché devo capire che tipo di accezione utilizzo per una determinata parola.
Se andate a prendere un dizionario, notate che le parole che hanno un numero più alto di accezioni
sono anche le parole che sono più frequenti nell’uso: tantissime pagine in un dizionario sono dedicate
a parole come fare, casa, cane… le parole che si usano di più, e che sono quelle che da sempre hanno
fatto parte dello zoccolo duro della nostra lingua, sono quelle che con il passare degli anni hanno
assunto su di sé un numero maggiore di accezioni diverse – a volte anche in contrasto le une con le
altre. Questa proprietà che contraddice l’idea di un sistema chiuso è questa varietà imprevedibile sia
diacronica che sincronica del significato dei morfi.

De Mauro: la lingua deve continuamente aprire ad accogliere, come insegnano storia e osservazione,
nuovi sensi e nuovi piani dell’esperienza, i contenuti nuovi dei nuovi linguaggi [ad esempio, il
linguaggio necessario a raccontare un’innovazione tecnologica – pensate a quello che è successo
quando è entrato tutto il linguaggio dei computer, non solo la parola computer ma tutta una serie di
parole collegate che servivano per definire un nuovo campo dell’esperienza], ciò che fino a ieri era
inespresso o appariva inesprimibile per la patrii sermonis egestas, cioè per la povertà della lingua
patria – “povertà” significa impossibilità di raccontare un piano dell’esperienza in quel determinato
momento perché era un piano dell’esperienza prima sconosciuto. Per far questo una lingua utilizza
tutti questi mezzi a sua disposizione (neologismo, prestito, dilatabilità semantica delle parole) per
accogliere nuovi sensi su nuovi piani dell’esperienza.

E cioè una lingua deve essere semanticamente onniformativa, dotata di un campo di sensi illimite,
per rispondere alle esigenze vitali della più adattiva delle specie viventi [siamo noi che ci adattiamo
al contesto che ci circonda, ma adattandoci abbiamo bisogno di dire cose continuamente nuove, e la
lingua deve e può, grazie alle sue caratteristiche, rispondere a queste nostre esigenze]. Caratteristica
di una lingua storico-naturale è la onniformatività linguistica: deve essere in grado di dare forma
linguistica a concetti nuovi, cioè con una lingua si deve poter dire tutto il possibile.

Il variare semantico deve rispondere alle esigenze di dilatazione continua dei limiti del dicibile in e
con una lingua a partire dalle risorse date che essa offre. È attraverso le risorse linguistiche e dalle
possibilità che una lingua ci dà che noi possiamo continuamente dilatare il suo patrimonio, possiamo
continuamente dire cose che prima non era possibile dire perché non esistevano le parole per dirle –
e non esistevano le parole per dirle perché non esistevano quelle cose.

Pensate sempre alla scacchiera: se quella pedina degli scacchi improvvisamente assumesse un valore
nuovo e si muovesse con regole diverse, arriveremmo alla schizofrenia, perché nessuno capirebbe più
come quel gioco funziona. Cioè, un gioco, per poter funzionare, si deve far sì che le regole non
cambino mentre il gioco si sta giocando, sennò si arriverebbe all’anarchia – nessuno saprebbe più
giocare al gioco degli scacchi, non ci si capirebbe può niente se le regole cominciassero a mutare.
Invece, in una lingua le regole possono mutare mentre quel codice lo stiamo usando.
Allora, ecco che emerge un’altra importantissima proprietà della lingua: al metalinguisticità
riflessiva, che funziona da argine e da spiegazione per questa continua dilatazione dei limiti del
dicibile; torna a mettere in comune fra locutori i nuovi sensi e i nuovi usi che vadano profilando. La
metalinguisticità riflessiva è quella capacità che la lingua ha di parlare di se stessa attraverso se stessa;
è una proprietà che si utilizza a gradi diversi. Quando vi chiedo “avete capito?” e magari riformulo
con parole diverse quello che ho già detto, io utilizzo questa capacità della lingua di riflettere su se
stessa e di utilizzare se stessa per chiarificare, per far capire meglio. Strumenti metalinguistici per
eccellenza sono le grammatiche e i dizionari, che attraverso l’utilizzo delle parole della lingua stessa
ci spiegano il funzionamento del codice, e quindi ci permettono di far entrare parole nuove perché
queste parole nuove le possiamo spiegare. La prima volta che è entrato computer nella lingua italiana
è stato possibili dire: computer è quella macchina che funziona con un sistema binario, ha all’interno
un sistema operativo che poi si manifesta a noi attraverso un’interfaccia che è più semplice da
utilizzare rispetto al codice che è sotteso e che ci permette di fare delle operazioni di calcolo che
altrimenti non avremmo potuto fare in altro modo. Questa è la messa in atto della metalinguisticità
riflessiva, la possibilità di spiegare le parole attraverso l’utilizzo di altre parole.

Come ci conclude De Mauro: La dilatabilità semantica delle parole e la chiarificazione


metalinguistica che la accompagna, ci danno le condizioni di possibilità come del comprendere così
del riformulare e del tradurre sia “intralinguistico” sia “esolinguistico”. Cioè, è grazie alla
possibilità di questa dilatazione semantica delle parole e l’immediata possibilità di porre argine a
questa dilatabilità attraverso la chiarificazione metalinguistica che si dà la condizione di possibilità
perché noi possiamo capirci, e perché incrementare continuamente anche il patrimonio linguistico a
nostra disposizione.

Se vogliamo andare a definire una lingua storico-naturale e la vogliamo distinguere da un calcolo,


vedremo che è un codice semiologico a segni articolati, di numero illimitato, ordinabili in modo
infinito [possiamo ordinare sia i morfi che i segni i modo infinito – pensate a tutto quello che è stato
scritto e detto attraverso l’uso delle parole], con sinonimia non calcolabile [può essere calcolabile
come può non esserlo] e, di conseguenza, con i segni i cui significati possono riferirsi a sensi
appartenenti a piani diversi dell’esperienza [pensate a una parola come calcio, a quanti piani
dell’esperienza si può applicare – eppure è sempre la stessa parola], ivi compreso il piano costruito
dalla lingua stessa, dalle sue parti, dal suo funzionamento e storia [cioè ivi compreso tutto il piano
della metalinguisticità riflessiva]. Questa è la definizione di una lingua storico-naturale e come questa
si distingue da un calcolo.

Nelle sue conclusioni di questo articolo, De Mauro ci dice che: Lo sgretolarsi del monolitismo
linguistico ci restituisce non soltanto la coesistenza di più lingue in uno stesso paese e in un medesimo
ambiente e in una stessa persona, ma l’intera realtà dei singoli parlanti. Questi sono tanto più e
meglio in grado di capire e farsi capire con parole, quanto più è ricco il loro patrimonio di
conoscenza e più ricca è l’esperienza del loro uso nella comunità a cui appartengono. Ci fa capire
qui che in tutte le dimensione in cui è andato a studiarlo, il monolitismo linguistico come sistema
chiuso, bloccato, di formule e di regole non funziona.

All’inizio del suo articolo, De Mauro aveva detto che mettendo in crisi il monolitismo linguistico si
dava una nuova possibilità ai singoli parlanti e alle lingue meno diffuse e soprattutto ai diritti
linguistici, perché si riconosce che, invece, il multilinguismo è la condizione naturale sia di ogni paese
sia di ogni parlante; si mette in luce come il monolitismo sia una costruzione ideologica, legata a
precisi momenti storici. Nel tempo che ci circonda, ma anche nel passato, l’idea del monolinguismo
in un singolo paese non è mai stata una realtà.

La tutela dei diritti linguistici, la tutela del diritto a poter usare la propria lingua identitaria, a
svilupparne il possesso, a vederla rispettata, comincia da qui. Di “patria” e “nazione” si è potuto
dire che sono entità immaginarie e l’argomento torna talora, in modo paradossale, proprio tra i
nazionalisti statalisti che vorrebbero negare diritti linguistici alle minoranze o ad alcune minoranza.

{La questione linguistica anche nella guerra tra Russia e Ucraina ha avuto il suo peso, perché, così
come in Ucraina durante la dominazione russa era stato impedito l’utilizzo della lingua ucraina,
ugualmente nel momento in cui l’Ucraina si è dichiarata indipendente ha completamente bandito il
russo dalle scuole. Quest’idea di adesione totale ad una lingua rispetto ad un’altra è un’idea che
bisogna superarla in qualche modo, perché porta, insieme a tanti altri fattori, a dei contrasti a degli
esiti che sono davvero tragici.}

De Mauro dice che l’argomento torna tra i nazionalisti statalisti ma è un argomento che non si regge
nella realtà delle cose: le lingue possono convivere ed è possibile far sì che ciascun parlante continui
a coltivare i diversi patrimoni linguistici che ha a disposizione.

La persona umana, nelle sue dimensioni biologiche, fisiche, culturali, sociali, ha diritto alla tutela
della propria lingua […] non solo la tutela della lingua del singolo, ma della comunità intera in cui
persona si è linguisticamente formata e vive.

Non nasconde De Mauro che i problemi attuativi sono rilevanti: mettere in atto poi questa tutela
positiva nei confronti delle singole lingue, e dare incarico ai singoli Paesi di coltivare il
multilinguismo che è invece caratteristico di ciascuno di noi e di ciascuna delle nostre comunità pone
problemi non irrilevanti, anche perché presuppone un’azione educativa anche molto diversa rispetto
a quella a cui siamo abituati. Questa sensibilità e consapevolezza della possibilità di gestire lingue
diverse che stanno attorno a noi dovrebbe essere legata con azioni che si svolgono nel contesto
educativo, non solo in quello sociale.

Tutela delle lingue di minoranza deve significare anzitutto tutela della effettiva identità linguistica
delle persone, anzitutto delle bambine e dei bambini che entrano nelle scuole. Pensato a come una
visione di questo tipo va a incidere quando poi nelle scuole entrano bambini che provengono da
diversi percorsi migratori, per cui il focus dell’educazione linguistica non deve essere solo quello
dell’insegnamento della lingua del Paese, ma si deve accompagnare con la tutela e la valorizzazione
delle lingue di provenienza, così come si dovrebbe accompagnare con il far prendere consapevolezza
ai bambini italiani che esistono anche le altre lingue.

È un problema educativo non insuperabile, come sanno molte scuole in parecchi paesi, portare gli
allievi dal nucleo di conoscenze linguistiche con cui entrano nelle scuole verso gli standard linguistici
delle lingue minoritarie e, dal sicuro possesso di questi alla conoscenza della lingua del loro paese
e delle altre lingue di più larga circolazione internazionale.

L’Europa sta promuovendo il plurilinguismo anche nei contesti educativi. Nei sistemi educativi della
Svezia, per esempio, convivono lingue diverse, e viene offerta la possibilità ai bambini di apprendere
lingue diverse, ma soprattutto viene da subito fatto comprendere ai bambini che la lingua non è un
sistema bloccato, non esiste un unico standard, ma esistono varietà di registri e dialetti e altre lingue;
si crea quindi da subito nei bambini la consapevolezza di questa diversità.

Secondo De Mauro, partendo dalle conoscenze di ciascuno degli allievi si può ampliare e andare ad
accrescere il loro patrimonio linguistico, si può permettere agli alunni di ampliare la loro capacità di
movimento all’interno di uno spazio linguistico, e far sì che utilizzino quegli strumenti linguistici che
sono più adeguati a rispondere ai diversi contesti comunicativi.

Calpestare quel nucleo, come oggi sappiamo, è un drammatico errore psicologico e pedagogico che
rischia di spedire tra i dropouts ragazze e ragazzi. Far dimenticare, cancellare [come è successo per
tanto tempo, anche nella nostra scuola, con il tema dei dialetti], non considerare il patrimonio
linguistico con cui bambini e ragazzi arrivano a scuola è un grande problema, e rischia di spedire fra
coloro che poi smettono di frequentare la scuola coloro che arrivano con un patrimonio linguistico
che è non ancora e non solo legato agli standard linguistici della lingua di scolarizzazione.

In questo modo, si possono da una parte rivalutare le lingue minoritarie, dall’altra far valere i diritti
linguistici di ciascuno e anche delle diverse comunità.

Abbiamo concluso la lettura del testo di De Mauro, il primo da studiare per l’esame – ho cercato di
estrapolare i nuclei fondanti di questo testo.

Il percorso che abbiamo fatto: abbiamo destrutturato, abbiamo riflettuto e abbiamo provato a
destrutturare l’idea del monolitismo, l’idea che una lingua sia un monolite, che non possano convivere
più lingue in un certo territorio, più lingue e più varietà linguistiche all’interno del bagaglio di ogni
parlante e abbiamo detto che la lingua stessa va guardata da un’altra prospettiva, che non la vede
come un sistema chiuso, bloccato, ma la vede invece come un sistema aperto.

8° LEZIONE - 11/03/2022
SBOBINATRICE: Giulia Dalfino
REVISIONATRICE: Alessia Di Franco e Nevia Dattilo

Politiche linguistiche europee

Consiglio d’Europa: articolo che parla dei principi fondanti dell’educazione plurilingue e
interculturale.
Plurilingual: nei documenti del consiglio d’Europa si distingue tra multilinguismo e plurilinguismo.

Plurilinguismo e educazione interculturale sono guidati dai seguenti principi fondanti:


- il riconoscimento della diversità linguistica e culturale come garantito dalle convenzioni del
Consiglio d’Europa

- il diritto di tutti a usare le loro varietà linguistiche come mezzo di comunicazione, un veicolo per
apprendere e un mezzo di espressione

- il diritto di ogni apprendente to gain experience and achieve a command of languages: il cittadino
europeo deve apprendere più lingue: language of schooling, la prima lingua, lingue straniere ecc. e la
relativa cultura, a seconda dei loro personali bisogni e aspettative, siano essi cognitivi, sociali, estetici
o affettivi, così da essere in grado di sviluppare le necessarie competenze nelle altre lingue da soli
dopo aver finito la scuola;

lifelong learning: continuare ad apprendere anche da soli al termine del percorso scolastico

- centralità del dialogo fra persone, che dipende essenzialmente dalle lingue. L’esperienza dell’altro
attraverso lingue e culture che portano è la precondizione necessaria ma non sufficiente per una
comprensione interculturale e un’accettazione reciproca.

Le lingue sono portatrici di culture e formatrici di culture che ci permettono di accettare gli altri e di
dialogare con loro.
Identità plurilingue

Ogni apprendimento linguistico è un apprendimento culturale

La differenza tra plurilinguismo e multilinguismo si trova nei documenti del Consiglio d’Europa. Il
documento in cui si trova una definizione è il QCER, frutto di politiche linguistiche del Consiglio
d’Europa. È stato pubblicato tra fine anni 90 e inizio anni 2000 e ha come obiettivo quello di
promozione del plurilinguismo, spiega l’approccio adottato, definisce le basi teoriche della proposta
del quadro e ha una seconda parte in cui è presentato l’aspetto più conosciuto del QCER, cioè la
suddivisione della competenza linguistico-comunicativa in livelli che sono suddivisi e descritti sulla
base di descrittori linguistici.

Nel documento, capitolo 1 paragrafo 3, si trova la definizione e differenziazione tra plurilinguismo e


multilinguismo: negli anni recenti il concetto di plurilinguismo è cresciuto di importanza
nell’insegnamento linguistico. Tra plurilinguismo e multilinguismo c’è una differenza perché il
multilinguismo è la conoscenza di un numero di lingue o la coesistenza di lingue diverse in una
determinata società. Multilinguismo è considerare le lingue come sistemi chiusi, uno accanto all’altro,
che possono essere aggiunte nella competenza di ciascuno di noi oppure possono coesistere in un
certo territorio. Il multilinguismo si promuove aggiungendo una lingua in più nell’offerta educativa
della scuola e stimolando i ragazzi ad apprendere più di una lingua.

Plurilinguismo: l’esperienza di lingua espande, si muove in uno spazio che comprende sia lingue
parlate a casa, sia la lingua della società, sia lingue parlate da altri: un continuum di apprendimento e
un continuum di capacità di movimento all’interno di questo spazio. Lingue e culture non sono
separate ma la persona costruisce la competenza comunicativa alla quale contribuiscono tutte le
esperienze di lingua e nella quale le lingue interagiscono e sono in relazione le une con le altre.

Piccardo e North sono gli autori della revisione del QCER, di cui nel 2018 è uscita una nuova
versione, chiamata QCER Companion Volume (volume complementare).

Piccardo fa una riflessione in cui approfondisce il tema del plurilinguismo, del rapporto tra diverse
lingue, il tema della mediazione linguistica come abilità che serve a costruire e mantenere il rapporto
tra lingue diverse.

Nel video (che la prof ha fatto vedere in classe) della Piccardo, l’insegna della farmacia di Toronto è
multilingue perché le lingue replicano gli stessi significati, senza interagire l’una con l’altra, ma
stanno una accanto all'altra.

Mentre la seconda insegna è un esempio di plurilinguismo, perché il significato dell’insegna si


costruisce tramite l’interazione di lingue diverse; quindi per capire il senso dell’insegna è necessario
utilizzare le diverse lingue che possono essere presenti nel repertorio dei passanti: il senso è dato
dall’interazione di lingue diverse (interconnection).

È importante che sia evidente l’approccio diverso alla questione. Un approccio che vede:

- il multilinguismo come languages side by side, addiction of elements e quindi moltiplicazione di


elementi singoli che vengono aggiunti via via.

- Mentre il plurilinguismo è visto come un network, una rete di connessioni multiple con interrelazioni
dinamiche, un approccio più olistico fatto da interconnessione delle varie lingue.

Si parla di competenza plurilingue quando la persona non tiene lingue e culture in compartimenti
mentali separati, ma costruisce una competenza comunicativa nella quale conoscenze e esperienze
contribuiscono e in cui le lingue interagiscono l’una con l’altra. Il parlante si serve delle porzioni del
proprio spazio linguistico per comunicare in modo efficace con l’interlocutore.

Lo scopo dell’educazione linguistica non è solo l’idea di raggiungere la competenza nelle lingue,
ciascuna delle quali presa in isolamento e avendo come modello il parlante nativo ideale, ma è anche
quello di sviluppare un repertorio linguistico, nel senso di spazio linguistico in cui tutte le abilità
linguistiche hanno un posto, uno spazio.

Ciò implica che le lingue offerte in una istituzione educativa debbano essere diversificate e che gli
studenti possano sviluppare una competenza plurilingue.

Lo sviluppo delle motivazioni di un giovane, delle abilità e della capacità di trovarsi di fronte a nuove
esperienze linguistiche fuori dalla scuola deve essere importante.

La scuola deve dare consapevolezza che l'apprendimento linguistico si svolge durante tutta la nostra
vita.

La responsabilità delle istituzioni educative deve essere orientata allo sviluppo della consapevolezza
negli studenti del rapporto continuo che si può creare tra le lingue e di quanto le lingue possano
interagire le une con le altre.

Il Consiglio d’Europa dice che lingue di cui ci dobbiamo occupare sono:

- Lingue apprese a scuola

- Lingue riconosciute dalla scuola ma non insegnate

- Lingue e culture presenti nella scuola ma che non sono riconosciute e non insegnate

È fondamentale sviluppare la consapevolezza della pluralità delle risorse che possono avere un ruolo
nei contesti educativi: lingue presenti a scuola, quelle tramite le quali si sviluppa il percorso
educativo, ma anche le lingue straniere.

Ciò è fondamentale quando le lingue sono insegnate come disciplina, ma è un tema che riguarda
anche la presenza delle lingue nelle altre discipline.

Dice Piccardo: il cambiamento di paradigma si ottiene attraverso la pertinentizzazione della


differenza tra multi e plurilinguismo, differenza presente nelle politiche linguistiche del Consiglio
d’Europa.

9° LEZIONE - 23/03/2022
SBOBINATRICE: Alessia Di Franco e Nevia Dattilo
REVISIONATRICE: Maria Grazia Falsitta

Il CLIL (lezione Prof.ssa Silvia Minardi)


Uno dei problemi legati al CLIL è la sua definizione. Nell’immaginario di tutti noi, il CLIL è
l’insegnamento/apprendimento di una disciplina detta “non linguistica” in una lingua seconda o
straniera.

Una delle definizioni del CLIL è del 2010 e tiene insieme Marsh, considerato da alcuni il papà, il
nonno del CLIL, e Do Coyle e Hood, studiosi che hanno preso rispetto al CLIL un’altra posizione,
un’altra strada. Come hanno definito il CLIL nel 2010? Innanzitutto, usano il termine “approccio”. È
un approccio duale in cui una lingua aggiuntiva è utilizzata per apprendere e imparare sia il contenuto
che la lingua. Questo significa che non si apprende storia in inglese perché già si sa l’inglese, ma si
apprende storia e al tempo stesso si apprende la lingua della storia in una lingua straniera. Quindi,
lingua e contenuto dovrebbero andare di pari passo, perché, come si dice in didattica del CLIL,
imparare la storia significa imparare anche come dire la storia, la lingua della storia. Del resto, anche
in lingua 1 come faccio a dimostrare di avere imparato un argomento? Ho bisogno della lingua, che
mi permette di dimostrare, raccontare, esprimere, spiegare, descrivere, definire quell’aspetto
dell’apprendimento della disciplina. Quindi, questo è un punto importante: si impara il contenuto, ma
si impara anche la lingua.

Il CLIL nasce in Europa, ma quando si parla di Europa e politiche linguistiche è necessario distinguere
due livelli: da una parte c’è l’Unione Europea, dall’altra c’è il Consiglio d’Europa, che raggruppa
adesso 46 Paesi, perché la Russia è stata esclusa in queste settimane, per le vicende legate
all’invasione dell’Ucraina.

Quindi, dicendo che il CLIL nasce in Europa, si intende che nasce all’interno delle direzioni collegate
al settore educativo a Strasburgo, si intende l’Unione Europea (unione dei 26 Paesi). Si fa questa
puntualizzazione perché l’Unione Europea pensa al CLIL, quando lo avvia, con un intento politico-
educativo al tempo stesso. L’UE lancia il CLIL nel ‘94, quando lancia tutta una serie di azioni sulle
lingue, pensando alla mobilità dei lavoratori, pensando alle lingue all’interno del mercato e
dell’economia. Si basa sull’idea che per poter favorire la mobilità dei lavoratori in Europa, era
necessario che i lavoratori avessero un alto livello di competenza linguistica.

Quindi, quando si parla di politiche linguistiche all’interno dell’Unione Europea, si parla di politiche
linguistiche che hanno una forte componente strumentale. La lingua viene appresa per lavorare, per
fare commercio, per viaggiare da adulti.

Il Quadro Comune Europeo, infatti, nasce pensando al lavoratore adulto in mobilità. Le griglie
servivano perché tutti sapessero, in questo grande “Paese” che è l’Unione Europea, cosa fosse B2.
Ma non era pensato, ad esempio, per i bambini o per l’apprendimento precoce delle lingue.

Sempre nel ‘94 c’è questa spinta educativa che veniva soprattutto dal Canada, Paese tradizionalmente
bilingue, dove il CLIL era già diffuso, ma con un altro acronimo e con grandissime differenze rispetto
a quello che poi sarebbe stato il CLIL europeo. In Canada l’acronimo è CBI (Content Based
Instruction), che ha poi dato vita, per esempio nell’istruzione universitaria, all’EMI (English
Mediated Instruction). Il CLIL nasce, quindi, con quei due esempi in mente e l’idea è migliorare
l’apprendimento delle lingue, permettere agli studenti di raggiungere alti livelli di competenza
linguistica.

Sempre in quegli anni, il Libro Bianco parla delle lingue con questo obiettivo: promuovere la
conoscenza di tre lingue comunitarie. Era il famoso 2+1: lingua 1 + almeno 2 lingue straniere. In
questa visione del 2+1 o 1+2 (a seconda di chi lo pronunciava) appare questa idea (siamo nel 1995):
“sarebbe inoltre opportuno che, come nelle scuole europee, la prima lingua straniera appresa diventi
la lingua di insegnamento di talune materie nella scuola secondaria”. Quindi, sostanzialmente il CLIL
nasce con un obiettivo linguistico: si fa CLIL per migliorare le competenze linguistiche degli studenti.

Nel 2004-2006, sempre l’UE lancia un grande Piano d’azione per le lingue e, all’interno di questo, il
CLIL occupa uno spazio importante. Dice che il CLIL svolge un ruolo decisivo nella realizzazione
degli obiettivi dell’UE e in termini di apprendimento delle lingue. Il Piano d’azione sottolinea: “tale
metodo può offrire agli allievi concrete opportunità di mettere subito in pratica le nuove competenze
linguistiche acquisite, anziché dedicarsi prima all’apprendimento delle lingue e poi passare alla
pratica”. L’idea è che se si impara la lingua attraverso la storia, la storia dell’arte, la fisica, poi si usa
subito la lingua. Non si ha bisogno di fare prima lingua e poi applicare la lingua ad altri settori di
apprendimento (anche se questo si scontra un po’ con la realtà).

Ma c’è un altro aspetto, che poi è cresciuto nelle politiche linguistiche dei Paesi: l’integrazione lingua-
contenuto, quindi il CLIL, mette i giovani in contatto con le lingue senza richiedere più ore di lezione.
Il CLIL è stato usato nelle politiche dei singoli Paesi sostanzialmente per giustificare un minor
numero di ore di lezione di lingua, proprio perché c’è il CLIL. Il CLIL permette di fare lingua, nella
visione ereditata dai documenti europei. Nasce con un intento “nobile”, però poi sono le singole
politiche dei singoli Paesi che lo hanno un po’ impoverito.

Un ultimo punto interessante nel Piano d’azione: “la presenza di insegnanti qualificati la cui lingua
materna è la lingua veicolare può facilitare l’introduzione dei metodi CLIL”. Quindi, il Piano d’azione
per le lingue fa passare l’idea che per fare il CLIL servano docenti madrelingua.

Ci sono molti concetti errati attorno al CLIL e questo sta condizionando molto la sua realizzazione
nel nostro Paese.

L’obiettivo è linguistico e in quegli anni il CLIL era affidato soprattutto agli insegnanti di lingua che
facevano delle lezioni in inglese. Lo sforzo era quello di tenere insieme lingua e contenuto. In realtà
nasce subito una fase 2 nella didattica del CLIL, soprattutto grazie ai lavori del Consiglio d’Europa,
i cui scopi sono i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto. Abbiamo quindi da una parte
l’Unione Europea (idea dei lavoratori in mobilità, l’economia, il commercio), dall’altra i diritti umani,
la democrazia e lo stato di diritto.

Nell’ambito dei lavori del Consiglio d’Europa, alcuni studiosi cominciano ad accorgersi che la sfida
del CLIL (Content and Language Integrated Learning) è la “I” di “integrazione”, non è tanto mettere
lingua e contenuto insieme.

Allora, nascono all’interno dei gruppi di lavoro che fanno capo al Centro Europeo di Lingue Moderne
di Graz una serie di lavori attorno alla didattica del CLIL, alcuni strumenti di programmazione.

Per quanto riguarda il primo strumento, Do Coyle dice che quando si fa CLIL, occorre nella
programmazione tenere sempre presenti le quattro “C”. Quale fu la grossa rivoluzione di questi
strumenti di didattica?

(prima “C”) Do Coyle dice che per fare CLIL non si parte dalla lingua, ma si parte dai contenuti. La
prima scelta in didattica CLIL è, quindi, il contenuto della disciplina detta “non linguistica” che deve
diventare oggetto di insegnamento.

(seconda “C”, communication) Quali aspetti linguistici servono per dire la storia? Per aspetti
linguistici non si intende solo il lessico, perché si possono anche sapere tutte le parole della storia in
una lingua, ma questo non significa che si possa raccontare, spiegare, dimostrare di aver capito un
determinato fenomeno solo perché si sanno tutte le parole collegate a quel fenomeno. Servono le
parole ma anche i testi, i generi testuali per dire quella cosa.

Se nel CLIL fisica un docente dà come compito, dopo una lezione in laboratorio, di scrivere una
relazione di laboratorio in inglese, dà un compito di tipo linguistico-testuale, chiede di elaborare un
testo che ha delle caratteristiche discorsive di costruzione del discorso che sono proprie della fisica e
diverse da quelle di altre discipline scientifiche. Infatti, se ad esempio chiedo ad uno studente di
definire un fenomeno economico, la definizione ha una struttura linguistico-discorsiva diversa in
storia e in economia. Quindi, quando scelgo il contenuto, scelgo anche quali aspetti della lingua di
quella disciplina vado ad insegnare.

Gli aspetti culturali sono la terza “C”, spesso ce ne dimentichiamo, soprattutto in questo uso
strumentale che si vuole imporre all’inglese. Infine ci sono gli aspetti cognitivi.

C’è una grossissima elaborazione di materiali didattici con una revisione delle tassonomie, in
particolare della tassonomia di Bloom, dove si dimostra che per poter arrivare a livelli molto alti è
necessario procedere per singoli step. Questo si vede molto bene quando si analizzano i materiali
didattici per il CLIL. Spesso si ha una lettura con un glossario, quindi tutti i vocaboli nuovi vengono
dati prima, abituando quasi lo studente a dire “se non conosco tutto il lessico non posso leggere”,
quando, in realtà, non è così. Poi c’è il brano di lettura, qualche volta ci sono le domande di
comprensione (quasi sempre sono domande multiple choice, vero/falso, pochissime domande
chiedono la scrittura di una frase intera, magari solo una parola, non un’elaborazione testuale). Ci
sono alcune volte delle attività di tipo lessicale e poi, facendo un esempio, “adesso mettiti in gruppo
e discuti dei pro e i contro degli OGM”. La discussione dei pro e i contro già in lingua 1 ha bisogno
di essere preparata, sostenuta non solo da un punto di vista lessicale, figuriamoci in lingua 2. Altre
volte i CLIL si chiudono sempre con delle grandi presentazioni in Power Point. Si crede che basti
leggere un testo, fare qualche esercizio di comprensione e poi automaticamente lo studente è in grado
di fare una presentazione o partecipare a un debate. In realtà, la cognizione, la quarta “C”, ci abitua a
dire che ci sono dei passaggi obbligati, delle tappe intermedie. Una volta che si è individuato, capito,
definito, prima di arrivare al valutare o al creare si ha bisogno di passaggi intermedi (applicare,
analizzare, smontare e rimontare la lingua di un determinato concetto).

Il secondo aspetto importante è il trittico delle lingue. In particolare, Do Coyle dice che quando si
elabora un lavoro CLIL bisognerebbe tenere tre fuochi linguistici:

-la lingua dell’apprendimento, ovvero la lingua che mi serve per apprendere quel determinato
argomento);

-la lingua per l’apprendimento. Cosa faccio con quell’argomento? Se lo scopo finale è scrivere un
rapporto di laboratorio, la lingua per l’apprendimento vuol dire che io insegno agli studenti i passi
per poter arrivare a scrivere una relazione di laboratorio. Poi magari ci si accorge che questo è troppo
alto, e allora ci si limita ad una comprensione della relazione di laboratorio e la scrittura la si affida
alla L1, ammesso però che si sia però costruita un’attività linguistica in L1;

-il language through learning, ovvero l’apprendimento della lingua per le attività didattiche. Per
esempio, se si decide di far fare agli studenti un lavoro di gruppo su un determinato argomento, qual
è la lingua che serve nelle interazioni orali all’interno del gruppo? Altrimenti finiranno per usare la
L1 e poi il più bravo si incarica di mettere insieme tutto, ma quello non è apprendimento.
Qual è la fase attuale del CLIL? Gli autori sono sempre Do Coyle e Oliver Meyer che fanno capo al
gruppo di ricerca tuttora attivo a Graz (Consiglio d’Europa quindi). L’anno scorso hanno pubblicato
il libro che si intitola Andiamo oltre il CLIL, una grossa provocazione che non vuol dire buttare via il
CLIL ma imparare alcune lezioni. In modo particolare, “il CLIL che vorrei” è un CLIL che,
abbandonata l’utopia del “serve a migliorare le competenze linguistiche”, serve anche a migliorare
l’apprendimento. Si mostra la necessità di usare il CLIL non solo in chiave linguistica e di usare le
lingue grazie al CLIL per migliorare l’apprendimento anche disciplinare.

La prima “L” di CLIL in Italia la decliniamo ancora come (content and) language. In molti Paesi
europei è diventata (content and) languages e in quel languages c’è dentro anche la lingua 1.

Un’altra idea che abbiamo in Italia è che fare CLIL significhi usare solo la L2 dall’inizio alla fine
della lezione CLIL.

“Il CLIL che vorrei” è disponibile online ed è legato alla guida per l’elaborazione dei curricula che si
intitola “Le dimensioni linguistiche di tutte le discipline scolastiche”. La guida parla della centralità
della lingua nell’apprendimento e dice che la lingua è trasversale al curricolo (mentre
nell’immaginario di tutti noi la lingua è una di quelle caselle nell’orario settimanale degli studenti,
idea a volte condivisa anche dai docenti di lingue stessi).

La trasversalità della lingua rispetto al curricolo è lo strumento che abbiamo per la valorizzazione del
plurilinguismo, che non vuol dire 1+2 o 2+1, ma utilizzare tutte le risorse linguistiche presenti per
favorire l’apprendimento. Vediamo quindi il ruolo della lingua, le competenze linguistiche proprie di
ciascuna disciplina e la sottolineatura importantissima che la lingua costituisce il fondamento più
affidabile del successo negli apprendimenti disciplinari. Spesso gli studenti, anche italiani, fanno
fatica con i problemi di matematica non per la matematica. Se uno studente non ha capito il testo di
un problema, c’è un problema linguistico. Se lingua e contenuto lavorano insieme, quindi, gli studenti
avranno qualche problema in meno.

Questo è a grandi linee lo sviluppo di quello che è accaduto con il CLIL in Europa, soprattutto con i
lavori del Consiglio d’Europa (sito del centro europeo di lingue europee di Graz ECML - area CLIL
- progetti che mostrano l’evoluzione della didattica CLIL).

Il CLIL, dice Do Coyle, ci sposta dal fuoco sulle differenze tra le lingue verso una lingua across
languages, trasversale alle lingue, non alle discipline. Questo è il volto concreto della teoria di
plurilinguismo che si trova nei documenti europei, che dicono che il plurilinguismo non è la somma
delle lingue, perché nella nostra mente non abbiamo caselle dell’orario dove inglese si stacca da
francese, tedesco, italiano, latino e matematica. È tutto correlato e all’interno della mente gli studenti
per primi utilizzano le risorse in modo strategico. La scuola va in un’altra direzione, soprattutto la
scuola superiore, dove le discipline sono ancora rigidamente separate le une dalle altre non solo
nell’orario, ma anche nella pratica quotidiana della didattica.

Qual è la fase attuale? Euridice (punto di riferimento interessante perché pubblica dei rapporti annuali
su vari aspetti dei sistemi scolastici europei dell’UE) nel 2017 pubblica il rapporto sull’insegnamento
delle lingue in Europa. In quell’anno il rapporto riguardava i key findings in language education. Per
quanto riguarda il CLIL, il rapporto Euridice dice “il CLIL serve a migliorare le competenze
linguistiche degli studenti”. È un ritorno al passato, all’idea che il CLIL serva solo a questo, ma c’è
dell’altro.

Cosa succede in Italia? Il CLIL dovrebbe essere obbligatorio, è una legge dello Stato, ma nella realtà
questa è una delle tante riforme disattese. Viene introdotto per legge nel 2003. Con il dpr del 2010, il
CLIL diventa obbligatorio nella scuola secondaria di secondo grado (licei e istituti tecnici), e dal
2013-2014 il CLIL era obbligatorio nei licei linguistici a partire dal terzo anno. Quindi, la legge dice
che il CLIL è obbligatorio all’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado. Nei licei si
prende una lingua straniera e una disciplina detta “non linguistica” del curricolo, negli istituti tecnici
materie di indirizzo in inglese. Tutti i licei, tutti gli istituti tecnici hanno dunque l’obbligo di realizzare
dal 2013-2014 questa norma.

Cosa significa lingua all’ultimo anno di un liceo? Nei licei, tranne che nel liceo linguistico, si fa una
lingua straniera sola e il più delle volte è l’inglese. Negli istituti tecnici è la norma che dice che è
l’inglese. Quindi di fatto il CLIL nel nostro Paese serve nella mente del legislatore per migliorare le
competenze linguistiche in inglese degli apprendenti.

Secondo aspetto: c’era CLIL in Italia? Sì, ce n’era tanto. Nella scuola primaria era molto diffuso
anche per effetto di alcuni progetti europei legati al programma Erasmus. Continuano ad esserci, ma
l’obbligo di legge riguarda soltanto la scuola secondaria di secondo grado, tanto che lo stesso rapporto
Euridice del 2017 parla dell’Italia dicendo “il caso Italia”: siamo l’unico Paese in Europa in cui il
CLIL è obbligatorio per legge. Gli istituti professionali nella norma originale non erano presi in
considerazione

Quali sono gli obiettivi per il CLIL in Italia? 2015 legge 107: “valorizzazione e potenziamento delle
competenze linguistiche con particolare riferimento all’italiano nonché alla lingua inglese, ad altre
lingue dell’Unione anche mediante l’utilizzo della metodologia CLIL”. Quindi, nel 2015 la legge 107
ribadisce che il CLIL serve per migliorare le competenze linguistiche.

In Italia il CLIL ha dunque un difetto innanzitutto normativo. La scuola va avanti, ma normativamente


parlando il nostro Paese è un po’ poco informato di quello che si potrebbe fare.

Nel gennaio 2011 esce il regolamento con il profilo del docente CLIL che prevede il docente di
disciplina detta “non linguistica”, quindi non un insegnante di lingua straniera; che sia abilitato ad
insegnare la sua disciplina e che abbia competenza certificate nella sua lingua almeno di livello C1.
Per entrare in questi corsi di perfezionamento, quindi universitari, servono 60 crediti formativi
comprensivi di un tirocinio di almeno 300 ore. Questa era la norma 2011 che non è mai stata realizzata
perché ci si rende subito conto che se si voleva partire nel 2013-2014 con i licei linguistici servivano
insegnanti e non c’era il tempo, anche perché la formazione iniziale in Italia non esiste nei termini
previsti da quel regolamento. Quindi esce un nuovo regolamento dove vengono utilizzati docenti di
discipline, dette non linguistiche, già in servizio nella scuola, personale che già lavorava a scuola e
che sostanzialmente poteva iniziare a frequentare questi corsi di perfezionamento attivati dalle
università con il vincolo del possesso di un certificazione linguistica di livello B1 - C1.

Nel 2013, il docente con competenze linguistiche di livello B2 può essere direttamente impegnato
nell’insegnamento CLIL, oltre ad essere ammesso a corsi di formazione universitari di 20 crediti.
Quindi, C1 - B1 e a un certo punto B2, a condizione che stia anche frequentando anche il corso
universitario.

Nel 2014 c’erano circa 10mila docenti di disciplina coinvolti in tutto il Paese, a regime servirebbero
18 mila docenti, questo è il numero del fabbisogno che lo Stato italiano avrebbe per fare CLIL
utilizzando la norma di legge. Questa è molto lontana dalla realtà e quindi incominciano ad abbassarsi
le richieste, inizia la stagione infinita delle norme transitorie, tuttora valide, cominciano ad uscire una
dietro l’altra, a cavallo tra il 2013 e il 2015 quando il CLIL doveva iniziare nei licei linguistici, e
sostanzialmente la norma transitoria di fine luglio nel 2014: “Il dirigente scolastico (siccome è il
dirigente scolastico che decide quali insegnanti possono fare CLIL) può individuare il possesso di
una competenza linguistica di livello B2 purché impegnati nella frequenza di percorsi formativi (e
questo lo aveva già detto la norma precedente), in ogni caso, tenuto conto dell’avvio graduale del
CLIL, l’insegnamento di una disciplina può essere sperimentato attraverso moduli parziali anche da
docenti comunque impegnati in percorsi di formazione per acquisire il livello B2.”. Ciò vuol dire che
le norme transitorie dicono che anche un docente di matematica che abbia un livello B1 per l’inglese
(PET), purché stia frequentando un corso per avere la certificazione B2, possono fare il CLIL. Questo
è quanto previsto dalle norme.

Modalità ancora di attuazione dice: in questa fase transitoria, il CLIL “di norma” per il 50% del monte
ore delle discipline, la valutazione resta nelle mani del docente di disciplina (quindi è lui che mette
eventualmente un voto sul CLIL e soprattutto che fa l’esame di Stato). L’esame di Stato prevede
questa cosa, ovvero, se in commissione non c’è il docente di disciplina CLIL, quella disciplina non
può essere oggetto di valutazione. Nella scuola italiana, soprattutto nei due anni di pandemia, non si
fa CLIL, se non pochissimo perché pochissime sono le condizioni spendibili. Questa è la situazione
nella scuola italiana.

Sono stati anni difficilissimi nella scuola per il CLIL: da un parte credevo in questa potenzialità ma
dall’altra ogni volta che usciva una norma, vedevo sminuire il potenziale del CLIL, soffrivo lavorando
come tutor alla statale di Milano con questi docenti di formazione, soffrivo nel vederli che facevano
una gran fatica ma non c’erano gli strumenti per poterli accompagnare.

Nel 2015 è nata la mia ricerca di dottorato sul CLIL. Ho cominciato guardando all’orizzonte europeo
per capire quali fossero i principali aspetti di ricerca in Europa. Vedevo in questo Paese un fiorire di
attività in cui il CLIL veniva decantato come il migliore dei mondi possibili: andava tutto bene, le
cose sono splendide, ti mostravano materiali, realizzazioni, progetti, etc… Ma che cosa succedeva in
realtà in Europa? Questi sono gli aspetti più grossi che avevo trovato all’inizio della mia ricerca.

Innanzitutto c’è un problema di definizione, se cerchiamo una definizione di CLIL non la trovate, ne
trovate tantissime: a seconda di alcune linee di pensiero si sviluppano definizioni diverse. Ad
esempio, in Spagna il CLIL è stato introdotto solo sull’inglese, in Spagna hanno eliminato quasi tutte
le seconde lingue perché c’è lo spagnolo catalano-castigliano e poi c’è l’inglese e il CLIL è stato fatto
solo sull’inglese. Dal mondo accademico spagnolo sono venute una serie di ricerche di studi dove
dicono mettiamoci d’accordo su che cos’è il CLIL, altrimenti si rischia ognuno di andare per i fatti
suoi (concetto applicabile a tutta Europa).

Secondo aspetto interessante: rapporto tra lingue e apprendimento quindi qual è il ruolo della lingua
nell'apprendimento che sia L1 o LS. Le pratiche di classe, nei lavori di ricerca c’era tantissimo lavoro
di confronto tra quello che accade in una classe di LS e quello che accade in una classe CLIL. Questo
è stato uno dei punti chiave: in Italia il docente CLIL è un docente di disciplina che di norma svolge
il 50% della sua disciplina in CLIL ma il resto lo la in lingua italiana, a lei non interessava il confronto
tra una classe CLIL e una classe di lingua ma tra una classe di fisica CLIL (nel suo caso) e una classe
di fisica in L1, che cosa cambia quando io insegno la disciplina in L1 e quando la insegno attraverso
una lingua che però è ancora in fase di apprendimento. Altro tema grosso era il profilo del docente
CLIL: ogni Paese europeo ha preso una strada diversa, in Germania un insegnante è sempre abilitato
in due discipline quindi la doppia abilitazione (esempio, in geografia e in inglese) quindi, in quel
caso, sembra quasi naturale che siano quelli gli insegnanti CLIL.

Il punto numero 5: moltissime ricerche avevano voluto verificare se il primo obiettivo (miglioramento
delle competenze linguistiche degli alunni), se sono effettivamente migliorate oppure no, era
l’obiettivo iniziale e continua ad esserlo nel nostro Paese. Qui ci sono state moltissime ricerche in
ambito Germania-Austria perché in Germania fanno CLIL gli studenti migliori, gli studenti che hanno
determinate competenze linguistiche vengono indirizzate nell sezioni dove si fa CLIL, quindi in
Germania hanno fatto moltissime ricerche sulle competenze linguistiche, in L2 di questi studenti
CLIL, e hanno dimostrato che le competenze linguistiche migliorano, ascolto e lettura. Quanta
esposizione orale e alla lingua scritta uno studente CLIL ha in più rispetto a uno studente che non fa
CLIL, il fatto di avere un’ora alla settimana di storia in inglese aumenta l’esposizione alla lingua e
l’aumento all’esposizione delle lingue comunque, secondo tutti gli studi acquisizionali, permette un
miglioramento. Questo è legato alla metodologia CLIL e se non migliorano le altre competenze di
produzione, di interazione, notiamo che l’attenzione alla lingua della disciplina manca.

Il punto numero 6 - che cosa succede alle competenze disciplinari: una delle grosse obiezioni che gli
insegnanti di disciplina hanno rispetto al CLIL, è che si scelga di fare in CLIL le parti più facili, gli
argomenti più semplici, perché c’è quest’idea che il CLIL li obblighi ad abbassare un po’ l’asticella.
Episodio nel liceo in cui ha lavorato: il collega di storia aveva deciso di fare CLIL nelle sua classi e
questi genitori erano preoccupati che il risultato finale dell’esame di stato sarebbe stato in qualche
modo peggiorato dal fatto che lui facesse storia male, perché storia fatta in inglese, siamo sicuri che
sia in grado poi di sostenere l’esame col commissario esterno? L’idea era, se faccio storia in CLIL
devo abbassare l’asticella. In realtà, le ricerche a livello europeo vanno in una direzione abbastanza
preoccupante perché dicono: a parità di condizioni, determinate condizioni, tenuto conto di alcuni
accorgimenti, non c’è un peggioramento, però non dicono neanche che migliorano le competenze
disciplinari, quindi capite che c’è qualcosa che non funziona nell’implementazione del CLIL.
Abbiamo tra le mani uno strumento importantissimo, soprattutto linguisticamente parlando, e stanno
venendo fuori tutta una serie di limitazioni (non sono in Italia).

Questa è la ricerca di dottorato, nasce sostanzialmente all’interno dei lavori del Consiglio di Europa
partendo dalla piattaforma online e dietro a ciascuna di queste voci trovate documenti,
materiali,progetti, anche attività di classe. Il progetto è Lingue per l’Educazione, al centro c’è la
lingua di scolarizzazione, la L1, il Centro europeo di Lingue moderne si sta spostando verso la L1 ed
è stata la vera rivoluzione nelle politiche linguistiche, mettere al centro del curricolo la riflessione
sulla L1 e poi anche sulle altre lingue.

Io sono partita dalla lingua nelle discipline sia nella lingua di scolarizzazione che nelle lingue
straniere. Sono stati coinvolti quattro docenti di fisica, due di loro insegnano fisica in inglese, uno in
tedesco e uno in francese. Perché la fisica? Io mi sarei sentita più a mio agio ad entrare in una classe
di storia, la mia fisica risaliva ai miei anni del liceo. Uno dei due miei tutor, una la Prof.ssa Barni e
un altro Jean Claude de la Code che mi disse scegli una disciplina che non conosci perché questo ti
permette di prendere le distanze da quello che sta avvenendo in classe e di studiare i fenomeni, di
isolare i fenomeni linguistici che ti interessano. Mi accorsi , in questo rapporto di monitoraggio del
MIUR, che la fisica era una delle discipline in aumento nella scelta dei docenti mentre scendeva la
filosofia e anche perché a Milano, ero tutor nei corsi di perfezionamento che mi misero con i colleghi
di matematica e di fisica e quando venivano e presentavano la loro relazione finale, mi accorgevo che
pur potendo fare CLIL in matematica, sceglievano tutti fisica. E alla mia domanda “ma perché non la
matematica?” la risposta era quasi sempre “perché nella matematica c’è poca lingua”. È un punto
chiave per lavorare con i colleghi di disciplina, anche nella matematica c’è tanta lingua, è la lingua
della matematica. Questa non consapevolezza del ruolo che la lingua svolge nell’apprendimento è il
tema grosso, prima ancora delle competenze linguistiche dei nostri colleghi. Questo è il corpus, io
sono entrata nelle classi di questi quattro colleghi, o videoregistrato le loro lezioni, a ciascuno di loro
ho chiesto di poter registrare un intero modulo, non mi serviva una lezione, poi ho scelto le prime tre
lezioni quindi tutto il corpus è costituito oggi dalla trascrizione delle prime tre ore di lezione, in
italiano e in CLIL, quindi io andavo in classe e assistevo alle lezioni di fisica in italiano e ho assistito
alle lezioni di fisica in CLIL. La durata più o meno è la stessa e poi con ciascuno di loro ho fatto delle
interviste, registrate e trascritte.

Per l’analisi del corpus ho utilizzato soprattutto dalla linguistica tutta l’area della linguistica sistemico
funzionale, l’analisi del discorso e ovviamente le ricerche CLIL, in particolare del gruppo di Graz
che ho citato prima, mentre da questo gruppo di ricerca che fa capo all’Università di Sidney, ho preso
gli strumenti per l’analisi della fisica da un punto di vista linguistico. Ieri ho scoperto che in Australia
la revisione dei curricula è stata affidata a dei linguisti quindi l’idea è che c’è prima questa lingua
trasversale, Frances Christie parla proprio di lingua come hidden curriculum, quindi che la parte
nascosta del curriculum è la lingua, a me piace la metafora della lingua come fiume carsico, c’è ed è
presente ma non la vediamo. Ho dovuto utilizzare gli studi di Sidney per leggere la fisica da un punto
di vista linguistico, perché negli studi europei non lo trovavo e da lì sono nate le mie domande di
ricerca.

Ecco alcuni dei punti emersi, legati alle interviste dei quattro colleghi rispetto al ruolo della lingua
nelle loro lezioni, risposte da cui emerge la consapevolezza che loro hanno rispetto alla lingua nella
disciplina:

1. una collega che insegna fisica in inglese dice che se imparano il lessico è la cosa più
importante. Quindi apprendimento della disciplina = apprendimento del lessico della
disciplina.

2. in un altro collega ritroviamo una forte consapevolezza del ruolo della lingua, sottolinea
alcuni aspetti: in CLIL serve più tempo, questa è una delle obiezioni che i colleghi di disciplina
hanno “fare CLIL mi porta via tempo”. Lui che insegnava fisica allo scientifico e al
linguistico, nella stessa scuola, diceva che al linguistico me lo posso permettere, allo
scientifico no perché se mi esce fisica all’esame di Stato, questi hanno bisogno di aver fatto il
programma. C’è quest’idea che la lingua straniera aiuti ad una comprensione più profonda dei
concetti chiave e soprattutto lui che aveva una competenza linguistica in inglese molto alta,
utilizzava le due lingue. Dei quattro docenti era quello che ricorreva anche all’uso
dell’italiano e lo motiva nell’intervista: se io devo affrontare una descrizione dei fenomeni,
posso farlo in inglese, perché la descrizione ha sostanzialmente una sua linearità, se devo
invece introdurre un ragionamento logico, io lo faccio in italiano. Questo collega dice che non
ce la fanno a seguire un ragionamento logico tutto in lingua straniera, quindi anziché farla in
lingua e ripeterlo in italiano, meglio farlo in italiano, se lo faccio in lingua, lo ripeto in italiano.
Se si lavorasse solo in inglese la comprensione sarebbe sicuramente un po’ inferiore oppure
si dovrebbe dedicare tantissimo tempo, lavorando con tutte e due le lingue, le due cose si
salvaguardano. Qui abbiamo il plurilinguismo: una lingua non butta via l’altra ma utilizza le
due lingue, le lingue presenti. Mentre, l’idea che noi abbiamo, anche da insegnanti di lingua
straniera, non usiamo mai la L1, non si deve usare mai, quante volte lo sentiamo dire. Molte
volte nelle scuole elementari si cerca per i bambini un insegnante madrelingua che magari è
una persona che sì è madrelingua ma che non ha mai insegnato una lingua, ormai è prassi
comune che i genitori si autotassano per avere l’insegnante madrelingua e poi la scuola deve
fare i bandi e vince chi fa l’offerta più bassa, e spesso sono ragazzi che vogliono arrotondare
lo stipendio quindi non c’è un docente formato per l¡insegnamento con i bambini che ha tutta
una sua particolarità. Questo è un elemento che rischia davvero di segnare generazioni di
studenti.
3. Un insegnante di fisica in tedesco, anche lei sottolinea che ci vuole molto più tempo e lavorare
di più sui concetti che rimangono di più. Sostiene che i concetti appresi in L1 siano più labili,
se li dimenticano prima, lei dice che io ho come l’impressione che le cose che faccio in tedesco
restino di più delle cose che faccio in italiano. Questa collega alla domanda su come
strutturassero il percorso CLIL, lei dice che lavorava su alcuni aspetti linguistici in CLIL, però
non in in italiano con cui io spiego, comprendono e si fanno gli esercizi, dato che è la loro
lingua. Il fatto che io spieghi in italiano in una classe la cui L1 è italiano, è automatico che dia
come risultato: comprensione ed esercizi. Io dico sempre che andavo a lezione e chiedevo ai
miei colleghi quale fosse l’argomento e me lo mettevo a studiare, entrando nelle classi di fisica
in italiano, io mi siedevo e registravo la lezione, dopo un quarto d’ora non seguivo più. Stessi
volti che vedevo nei ragazzi, che secondo me capitava lo stesso a loro, cioè, l’insegnante
spiegava in italiano ma ognuno si faceva i fatti suoi. Io uscivo da queste lezioni di italiano,
dopo aver preso nota sui quadernini e in tantissime di queste pagine ho scritto “io non ho
capito niente”, non capivo manco di che argomento stesse parlando ed era la mia lingua.
Mentre, uscivo dalle lezioni CLIL, e quantomeno riuscivo a dire i vari passaggi di quello che
era avvenuto quindi vuol dire che qualcosa in CLIL succedeva, che non avveniva nelle lezioni
in italiano. Questa cosa mi ha segnato tantissimo: la lingua svolge un ruolo come strumento
di comunicazione e come sistema di regole. Io notavo che i nostri colleghi di lingue di
disciplina intervenivano correggendo la s di terza persona in inglese, dicendo, io non ne tengo
conto ma mi dà fastidio l’errore, ma questa pratica che stronca l’apprendimento.

Io volevo entrare per capire quali fossero le dimensioni linguistiche poi mi sono accorta che in una
lezione di fisica ci sono i grafici, le formule matematiche, la rappresentazione visiva e, in parecchie
delle classi, c’era un passaggio di laboratorio. Io di questa parte non mi sono occupata, però questa
parte è piena di lingua, io mi sono occupata di questa parte, del discorso della lingua come discorso
accademico, didattico e quotidiano, nelle due lingue: di scolarizzazione e nella lingua straniera nelle
lezioni CLIL, questo è stato oggetto della mia attenzione. Io dico sempre che questa è una ricerca a
metà perché tutta la parte sotto avrebbe comunque dovuto essere presa in considerazione e poi l’altra
cosa che è saltata fuori come risorsa linguistica erano i repertori degli studenti: io ho visto studenti
L1 non italiani che facevano dei passaggi dicendo, ad esempio, sui numeri “in arabo si farebbe questa
cosa”. Questo l’ho studiato dal punto di vista della formulazione, riformulare vuol dire provo a dire,
a formulare, il concetto utilizzando parole diverse, con queste due funzioni messe in evidenza dagli
studi di Gagliot: la riformulazione serve per chiarire ma soprattutto serve per aiutare la costruzione
del concetto, la concettualizzazione, l’apprendimento.

Una studentessa del liceo di Roma che in una lezione di fisica in italiano stavano studiando questa
slide sui campi magnetici e, in particolare, su questa non coincidenza tra campo geografico e
magnetico, quindi la distinzione tra polo nord e polo sud geografico che non corrisponde al polo nord
e polo sud magnetico. Nella slide vi è una rappresentazione visiva. Vi è una trascrizione di pezzo di
lezione: la Prof spiega che da un punto di vista geografico è un polo nord e dal punto di vista
magnetico è un polo sud, qui inizia la discussione tra i ragazzi, e poi la studentessa brillante dice: “il
polo nord viene attirato dal polo sud della busso perché i poli opposti si attraggono (lei spiega ai
compagni ciò che la Prof aveva lasciato nella nebbia) quindi il sud magnetico…" si ferma e poi dice
“...lo so ma è difficile da dire”. Questa ragazza aveva capito il concetto ma non ha la L1 per dirlo,
essendo una lezione di fisica in italiano. Questo dice tanto sul ruolo della lingua nell’apprendimento
delle discipline, non basta essere L1 italiano per capire e raccontare la fisica, io devo avere la lingua
della fisica, oltre al concetto. Questo è il punto chiave di tutto il discorso che ci siamo fatti all’inizio
sul successo o l'insuccesso scolastico dei bambini, studenti, non necessariamente studenti non
italofoni. Questa era una studentessa italiana, brillantissima. Forse perché c’è quest’idea che abbiamo
visto anche prima, dei nostri colleghi, che non è necessario lavorare sulla lingua della fisica in italiano
ma intanto è la loro lingua.

Che cosa succede in CLIL? Nella tabella ho indicato quante volte i colleghi riformulavano, ovvero
riformulare il discorso accademico utilizzando una lingua quotidiana, utilizzando un esempio, un
aneddoto; “+” vuol dire ripetizioni, quando il collega ripete il concetto esattamente con le stesse
parole, senza riformulare. Vediamo il confronto tra italiano e CLIL: in italiano le riformulazioni sono
molte, addirittura gli ultimi due colleghi in italiano non hanno casi di ripetizioni, non ripetono mai la
stessa frase con le stesse parole. In CLIL, il numero delle ripetizioni, della frase ripetuta esattamente
nello stesso modo, prevale rispetto al numero delle riformulazioni, tranne in un caso: nel collega di
Bologna che ha un livello linguistico in inglese in C2.

Perché tante riformulazioni? Il volume complementare del quadro ha introdotto queste nuove parti,
questi nuovi descrittori, alcuni sono legati alla mediazione, nelle attività di mediazione trovate testo,
concetti, poi loro hanno inserito la comunicazione. Tra le strategie, nell’ultima colonna, c’è le
strategie per semplificare il testo e le strategie per spiegare un nuovo concetto. Qui c’è la
riformulazione, adattare la lingua. Il quadro PEC nuovo, per ciascuna di queste voci, ha elaborato le
famose griglie (il volume complementare ha complessificato in maniera esemplare le griglie). Le
strategie per la spiegazione di un nuovo concetto, qui trova posto il discorso sulle riformulazioni e io
mi sono accorta che nei descrittori del quadro, la capacità di riformulare presuppone una competenza
linguistica alta. I colleghi che ho intervistato, volenterosi e bravissimi, ma la loro competenza
linguistica sicuramente non era così elevata. Forse è questa la spiegazione per cui di fronte a questi
studenti che li guardavano un po’ persi, ripetevano continuamente in CLIL la frase senza
riformularla.

Riflessioni finali:

• uno dei problemi che secondo me ha il CLIL nella sua implementazione sono le competenze
del docente di disciplina: a lingua della disciplina è cult, questi colleghi devono fare le
certificazioni linguistiche in cui non c’è, però, la lingua disciplinare.

• secondo problema grosso, forse questo è più un discorso a livello linguistico, è l’obiettivo: se
lo scopo è linguistico allora perché affidarlo a docenti di disciplina? Tanto vale lasciarlo a
docenti di lingua, che almeno qualche danno in meno lo facciamo. Se l’obiettivo del CLIL
non è linguistico allora dobbiamo dircelo, dobbiamo cambiar qualcosa e anche il problema
con quali lingue: il CLIL, è scritto in alcuni testi di alcuni studiosi a livello europeo, dicono
chiaramente che sta portando l’inglese, si studia inglese attraverso il CLIL e quindi si toglie
l’inglese come lingua straniera e si mettono altre lingue, magari fosse così, però mi aspetterei
che l’inglese venisse utilizzato da docenti di disciplina con le competenze linguistiche
necessarie perché altrimenti facciamo un danno anche all’inglese.

• l’importanza del plurilinguismo: gli studenti davanti a noi non sono monolingui e il lavoro
sulle loro risorse dovrebbe essere fondamentale. I generi discorsivi propri delle discipline poi,
sul piano cognitivo: che cosa significa leggere la fisica? E la storia? Quest’attenzione alle
caratteristiche proprie delle discipline da un punto di vista linguistico ma anche da un punto
di vista dello sviluppo cognitivo degli apprendenti.

10° LEZIONE - 24/03/2022


SBOBINATRICE: Maria Grazia Falsitta
REVISIONATRICE: Anna Gonnelli

Parlando del QCER, in questo documento di politica educativa, viene definita e resa pertinente per la
prima volta la differenziazione tra i concetti di multilinguismo e plurilinguismo.

Come vedremo, nell’evoluzione di questo documento, il concetto sarà fondamentale perché porterà
alla definizione di una specifica abilità linguistica di mediazione che permetterà di gestire
un’educazione al plurilinguismo. La scorsa volta, si è parlato del documento di colei che aveva scritto
il Framework insieme a Brian North, cioè Enrica Piccardo, relativamente a questa nuova abilità di
mediazione.

• Qual è la differenza plurilinguismo e multilinguismo?

E’ una differenza importante: è un grande cambio di prospettiva per l’educazione linguistica.

I due termini si differenziano dall’utilizzo di un suffisso diverso: multi- = quello più utilizzato nella
letteratura, anche nell’articolo di De Mauro si parla quasi sempre di questo, e pluri- = come dice
Piccardo, la questione terminologica è importante, ma lo è anche ciò che sta dietro questa differenza.
Non è che il termine “plurilinguismo” non fosse mai stato usato, era stato usato da un articolo di De
Mauro nel ‘75, in altre produzioni scientifiche sia francesi che svizzere, ma che nel QCER trova una
sua applicazione precisa al contesto di educazione linguistica.

Piccardo dice che contano di più un’immagine che tante parole, facendoci vedere le insegne della
farmacia a Toronto e della lavagna di un venditore ambulante a Zurigo per esemplificare la distinzione
tra i concetti. Nella prima, il rapporto fra le lingue era di vicinanza e traduzione, in tutte le lingue era
ripetuta ciò che veniva venduto (ricette ecc), invece nella lavagna a Zurigo, la caratteristica che la
differenziava dall’insegna precedente era la mescolanza e soprattutto la co-costruzione del senso= il
senso dell’insegna, si comprendeva appieno solo se si mettevano in relazione tutte le lingue presenti
nell’insegna che la componevano. Insomma, il senso si co-costruiva dalla relazione delle varie parti
che componevano quella insegna. Questa è esattamente la differenza tra multilinguismo e
plurilinguismo.

Il Framework dice di smettere di pensare alle lingue come se fossero degli oggetti chiusi, che non
hanno rapporti gli uni con gli altri, e che si trovano nella conoscenza di ciascuno di noi come se
fossero separati. Come disse la Minardi nella lezione precedente, anche l’insegnamento linguistico
nelle scuole è chiuso nelle singole ore di lezione: chi fa italiano fa italiano, chi fa inglese fa inglese e
così via senza tenere conto della fondamentale importanza e della trasversalità della competenza
linguistica nella lingua della scuola (per noi è l’italiano) per tutte le altre materie. Tutte le altre
discipline scolastiche sono veicolate attraverso la lingua e una riflessione sulla lingua sarebbe
fondamentale in tutte le discipline.

Questa nuova, ma non nuovissima, visione dell’educazione linguistica del QCER, per esempio nelle
tesi Giscel, un documento del 1975, si dicevano già le stesse cose ovvero che bisogna mettere in
collegamento tutte le componenti del repertorio linguistico di cui ciascuno studente è portatore, ed è
partendo da quelle che si può costruire e incrementare la competenza linguistica dei nostri studenti.
Questo significa anche non condannare l’uso dei dialetti o l’uso delle altre varietà linguistiche ma
considerarle e partire da ciò che gli studenti conoscono per incrementare il loro patrimonio linguistico.
• Qual è l’approccio del QCER?

Esso è definito nei primi capitoli, dicendo che si basa su un approccio orientato all’azione: [utenti
apprendenti di una lingua]

Il Quadro definisce gli utenti di una lingua sempre come degli apprendenti: user/learner è una
dicotomia espressa sempre insieme, mai si trova il termine “apprendente” da solo. Questo definisce
già da subito l’idea di approccio orientato all’azione. Gli apprendenti sono ANCHE utenti di una
lingua, perché la lingua è fatta di usi non solo di forme e strutture. Concetto ribadito dal testo di De
Mauro precedentemente analizzato. Gli utenti/apprendenti sono i membri di una società che hanno
compiti da portare a termine, non esclusivamente attraverso l'utilizzo della lingua, in un particolare
insieme di circostanze, ambienti specifici e all’interno di un determinato campo d’azione.

• Che significa allora apprendere e usare una lingua?

Significa portare a termine dei compiti comunicativi attraverso l’utilizzo delle risorse linguistiche a
disposizione, che possono essere pure di altri codici (la prossemica, il codice gestuale, il codice
iconico come le figure). Attraverso queste risorse che noi utilizziamo tutte insieme, dobbiamo portare
a termine dei compiti comunicativi. Questi compiti sono differenziati a seconda dei contesti delle
circostanze e degli ambienti in cui ci troviamo. E’ esattamente il concetto di spazio linguistico di De
Mauro.

• Che cosa significa imparare una lingua o accrescere una competenza linguistica?

Significa rendere i propri studenti/utenti di quella lingua mobili, capaci di muoversi all’interno di uno
spazio che è di comunicazione, regolato da alcuni parametri dati da tutti quei concetti che stiamo
utilizzando (contesto, ambiente, canale) questo è l’approccio che il QCER ha nei confronti
dell’apprendimento delle lingue. I descrittori di competenza e i livelli espressi, hanno come attacco
l’espressione “Can do” perché l’apprendere e usare una lingua significa imparare a fare cose essa,
differenziate a seconda dei diversi contesti d’uso. Il Quadro dice che ci sono 4 mega-domini d’uso: il
dominio privato/quotidiano/familiare, quello pubblico ovvero del rapporto con le istituzioni, quello
lavorativo (che riguarda la nostra professione e cioè ciò che succede fuori dall’ambiente familiare) e
quello educativo (ciò che succede all’interno dei contesti d’educazione).

Questi 4 mega-domini sono ulteriormente suddivisi in contesti d’uso e nel Quadro vedremo che nella
maggior parte delle pagine sono contenuti dei descrittori di competenza. Anche questi sono suddivisi
per livello, perché ad un certo livello si sapranno fare delle cose ed esse saranno relative a determinati
domini. Per es.: i domini di base della competenza vedranno una gestione limitata ai contesti familiari;
è poi con l’avanzare della competenza che si amplificano i contesti d’uso e diventa più complesso
l’uso della lingua (cioè la competenza linguistica).

Il Quadro dice che per svolgere i compiti comunicativi si utilizzano risorse linguistiche che
provengono dal patrimonio linguistico a disposizione (e risorse che vengono anche da altri codici che
possediamo). Esattamente come nel caso dell’insegna a Zurigo, il senso è dato dalla relazione e dal
rapporto di tutte le componenti di quella insegna. Questa è per il QCER la differenza tra
multilinguismo e plurilinguismo. Per niente facile da realizzare nella pratica. Questa è infatti solo una
proposta teorica su cui il Quadro si basa.
Beacco, il quale si è a lungo occupato per il Consiglio d'Europa di costruzione, di progetti di
educazione plurilingue, definisce la competenza plurilingue come l’abilità di usare un repertorio
plurale di competenze linguistiche e culturali con l’obiettivo di raggiungere i bisogni di
comunicazione e interagire con persone che provengono da altri background e contesti e mentre lo si
fa, bisogna arricchire il repertorio= l’insegnante che fa CLIL e che usa anche l’italiano, o che magari
fa ricorso a schemi, tabelle… Si usano tutti gli strumenti che possiamo avere a disposizione per
incrementare il repertorio plurilingue. E’ un repertorio dinamico ed in continuo sviluppo.

Dall’articolo di Piccardo: “la scelta è stata quella di usare due termini per mettere in luce la
distinzione fra due differenti prospettive. Usare il prefisso multi- per focalizzarsi sulla moltiplicazione
delle singolarità (la farmacia di Toronto= moltiplicazione di singolarità) ripetute ciascuna in una delle
lingue che vengono utilizzate aggiungendo una serie di elementi come i numeri in una moltiplicazione
o le persone in una moltitudine. Mentre si usa il termine pluri- in una maniera più olistica, con l’idea
di dare valore e costruire sulla pluralità (co-costruzione del senso).”

Da Beacco: “il repertorio consiste di risorse che gli apprendenti individuali hanno acquisito in tutte
le lingue che conoscono e che hanno appreso, che sono legate anche alle culture cui quelle lingue
sono associate.”

Nelle lezioni precedenti abbiamo detto che la lingua non è soltanto sistema di comunicazione, ma
cultura e nel Quadro si trovano proprio lingua e cultura come sinonimi. La prospettiva plurilingue è
incentrata sull’apprendente e sullo sviluppo del suo repertorio individuale e plurilingue e non su ogni
specifica lingua che deve essere appresa. Se davvero vogliamo fare educazione al plurilinguismo
dobbiamo mobilizzare (cioè mettere in movimento) tutte le risorse che ciascun apprendente ha a
disposizione.

Piccardo continua dicendo che i plurilingui hanno una competenza specifica, complessa e composita,
un repertorio linguistico che non consiste nella somma della lingue o delle parti di queste ma in risorse
che ciascun individuo ha acquisito e attraverso le lingue e culture che ha incontrato nella sua personale
traiettoria.

Il compito dell’insegnante a questo punto diventa parecchio più complesso, una cosa è fare la
lezioncina in classe e rimanere legati solo all’insegnamento di una lingua come se non avesse niente
a che fare con tutto il resto… Ci sono già dei progetti, delle offerte con insegnamenti di questo tipo
come quella dell’intercomprensione delle lingue romanze. Le lingue, che partono da una base
comune, in alcuni progetti didattici vengono presentate tutte e grazie alle risorse del patrimonio di
ciascuno e grazie ad un'attenzione forte alla mediazione, alla competenza metalinguistica
all’osservazione metalinguistica, è possibile passare da una lingua ad un’altra. Ci sono dei bei progetti
sulla lettura e sull’intercomprensione delle lingue romanze che partono dalle somiglianze e dalle
differenze mettendo in luce le differenze tra le lingue. Il compito dell'insegnante non è semplificato
ma appunto complessificato, perché deve essere in grado di gestire anche dal punto di vista
metalinguistico, codici diversi.

Allora se ritorniamo a quanto si dice nell’articolo di De Mauro, si abbraccia una nuova visione
(“embracing a new vision”). Si passa dal the language myth (monolitismo linguistico) cioè
considerare le lingue come fixed codes (codici chiusi) un repertorio di unità linguistiche ben
identificabili, ciascuna delle quali che si correla ad una forma con un significante e alcuni significati
(un inventario di forme) con un rapporto biunivoco come nei codici matematici, ad una più integrata
(integrational) che le lingue sono costrutti aperti e incompleti. Essi derivano da questa capacità che
abbiamo (first order activity) of making and interpreting linguistic signs. C’è una facoltà di linguaggio
che ci permette di produrre e interpretare grazie alle nostre capacità fonatorie, cerebrali e nervose, di
produrre e ricevere segni che si concretizzano in una second order cultural construct. Ovvero è un
costrutto culturale di second'ordine sempre aperto e incompleto che si può modificare continuamente.
In questa visione del Quadro si ha quello che praticamente aveva già detto De Mauro nel 2007 quando
parlava di crisi del monolitismo linguistico, una crisi che riguarda non solo la rappresentazione delle
lingue nei singoli stati, o la capacità di ciascuno di noi di mettere in moto le risorse a disposizione per
creare il senso, ma che riguarda l’idea stessa di lingua, non più la lingua come un sistema chiuso,
bloccato. Il dibattito linguistico su questo tema è tuttora aperto, perché questo è quello che pensano i
linguisti più attenti agli usi e al contesto sociale, ma per esempio la linguistica generativa continua a
vedere la lingua come qualcosa in cui si deve spiegare tutto, dove ci sono regole e magari le eccezioni,
ma quello che conta sono le regole, le strutture e le forme che vengono messe insieme dalle regole.

C’è tutta una parte della linguistica che nasce, si sviluppa con tutte le teorie socio-linguistiche che
pensa che la lingua sia soprattutto uso: esistono le forme e le strutture ma che essa sia un gioco in cui
le regole cambiano nel mentre che si sta giocando. Il cambiamento delle regole è dato dall’uso perché
la lingua è un prodotto naturale cognitivo, la nostra capacità di produrre sensi è data dalle nostre
capacità cognitive. Ma la lingua è un prodotto culturale, un dispositivo che sta tra natura e cultura.
Nel Quadro c’è tutto questo. Se l’idea è quella di una visione integrata della lingua allora si deve
uscire da questa visione lineare e quindi le lingue non sono una collezione di etichette intercambiabili
che sono applicate agli oggetti e ai concetti (ricordare l’esempio di Trabant e la pecora). Il rapporto
non è biunivoco e lineare. Questo significa che gli individui che sono coinvolti in un'attività
intersoggettiva (che si svolge tra soggetti diversi) chiamata language sono in costante bisogno di
mediare, in modi diversi e a livelli differenti. Jakobson la chiamava “traduzione”: cioè tutte le volte
che andiamo a comprendere qualche enunciato, questa stessa comprensione è una traduzione. Essa
non è semplicemente pensata come traduzione fra lingue diverse, ma che può avvenire anche
all’interno della stessa lingua. Il nostro atto di comprensione è un'interpretazione di ciò che l’altro ha
voluto dire. Ed ecco che da questo si sviluppa questa abilità, che sarà fondamentale nella seconda
versione del QCER, che è l’abilità di mediare fra componenti diverse di un repertorio linguistico.
Quindi Piccardo dice di fare attenzione, perché anche nell’educazione linguistica, l’apprendimento e
l’uso di una lingua è un’attività semiotica non lineare in cui la mediazione è cruciale.

E che cos’è la mediazione se non competenza metalinguistica? Cioè la possibilità di riflettere sulla
lingua attraverso gli strumenti stessi che la lingua ci mette a disposizione. La classe e tutti gli altri
spazi sociali, sono spazi di conoscenza collettiva, di shared understanding (comprensione condivisa)
e per questo sono gli ambienti naturali della mediazione. Senza la mediazione non riusciremmo a
comprenderci, sia che si utilizzino lingue diverse sia che si utilizzino le stesse. La riformulazione è
un atto di mediazione: per riformulare una frase bisogna avere una certa competenza linguistica, non
si tratta di ripetere gli stessi concetti ma quella che Jakobson definisce come traduzione, ovvero
interpretazione.

Se si passa dall’idea di lingua come un repertorio di forme e strutture che hanno un rapporto lineare,
di corrispondenza biunivoca tra un segno e un significato (Trabant: il nome “pecora” varia da lingua
a lingua ma sempre una pecora è. Si mettono delle etichette diverse allo stesso referente ma poi il
rapporto tra il referente e l’etichetta è di tipo biunivoco) a pensare alla lingua come un dispositivo
che sta tra la natura e la cultura e che quindi si realizza concretamente in maniera differenziata a
seconda dei contesti culturali/storici/contestuali, allora abbiamo bisogno di una abilità che è quella
che Jakobson indicava come abilità di traduzione e che nel Quadro viene denominata come abilità di
mediazione che ci serve per comprendere, per interpretare e perché appunto non esiste un rapporto
biunivoco tra un’etichetta e un concetto. Per es. quando si traduce un testo da una lingua all’altra, la
traduzione non è un percorso lineare. Se la lingua fosse un sistema chiuso di forme e di strutture non
avremmo neanche bisogno di mediare perché sarebbe tutto semplice. Ma non è così perché le lingue
ritagliano porzioni di realtà diverse a seconda del contesto in cui ci si trova. In contesti abbiamo
bisogno di utilizzare alcuni concetti mentre in altri no. Ed è qui che la mediazione è fondamentale,
altrimenti rischieremmo di non capirci.

Tutto questo si ritrova nelle due versioni del QCER, la prima versione del 2001 in cui erano già
contenute le 4 abilità di comunicazione: la ricezione, la produzione, l’interazione e la mediazione.
L’abilità della mediazione era già presente nella parte teorica del Quadro (che è la stessa per entrambe
le versioni), c’era già l’idea della co-costruzione del significato, dell’apprendente come social agent,
dell’action-oriented approach, delle competenze plurilingui e pluriculturali, ma mancavano i
descrittori della mediazione. Essa era solo enunciata.

Nella seconda versione del Quadro si inseriscono nuove scale e nuovi esempi di domini e soprattutto
i descrittori della mediazione. Il concetto di mediazione riguarda tutte le abilità, è fondamentale per
tutte, sia in ricezione che in produzione, attività scritte e orali o di mediazione rendono possibile la
comunicazione tra persone che per qualsiasi motivo non sono in grado di comunicare direttamente.
La traduzione, l’interpretariato, la parafrasi, il riassunto, il resoconto, consentono la ri-formulazione
del testo originale rendendolo accessibile a una terza persona che non potrebbe accedervi direttamente
(perché magari non ha le competenze per poterlo fare) e allora le attività linguistiche di mediazione
e riformulazione di un testo occupano un posto importante nel normale funzionamento linguistico
della nostra società. Questo si ritrova nell’articolo di De Mauro come competenza metalinguistica, la
mediazione che si esplica attraverso la competenza metalinguistica. Essa spazia dal domandare “che
cosa hai detto? / puoi ripetere? / mi riformuli?” fino al massimo grado che è rappresentato dai
dizionari e dalle grammatiche. E’ un’abilità che ci serve continuamente e ci accompagna
quotidianamente.

Il QCER nella sua versione iniziale (solo teorica) prima e nella versione seconda (anche nella parte
operativa) poi, è il primo documento in cui si prova non solo a definire ma a mettere in scale di
competenza l’abilità di mediazione, cioè che cosa si deve fare mediando ai diversi livelli di
competenza. Di fondamentale importanza soprattutto quando si mettono insieme lingue diverse e
quando si cerca di insegnare lingue diverse. Di questo deve essere anche consapevole un insegnante
che ha bisogno della mediazione per poter portare avanti il suo percorso didattico.

Parte della lezione della prof.ssa Minardi:

Per quanto riguarda la competenza della mediazione:

Nelle scuole c’è scarsissima attenzione al rapporto tra il codice linguistico e altri codici: spesso i
manuali sono ricchissimi di immagini/grafici/documenti, che dovrebbero aiutare a co-costruire il
senso, ma magari questi grafici rendono ancora più complicata la comprensione di ciò che viene
formulato dal libro.

Non sempre qualcosa reso semplice a livello linguistico lo è anche a livello di comprensione, questo
perché si possono comprimere concetti complessi in poche frasi.

Per quanto concerne le altre discipline come la Fisica, l’uso della lavagna e dei grafici usati dai docenti
durante la spiegazione, rientra nel discorso della mediazione tra un codice e un altro. E’ un lavoro di
mediazione continuo anche a livello della L1, non è un problema solo di chi fa CLIL.
Anche per la lettura di un manuale di storia o di fisica ci si deve basare su un repertorio plurilingue,
perché c’è la lingua e anche tanti apparati iconografici che dovrebbero aiutare alla co-costruzione del
senso, ma molto spesso questo non succede perché le varie risorse a nostra disposizione non vengono
fatte dialogare. Nei libri di lettura per bambini le immagini sono culturalmente legate al contesto
linguistico e culturale di una lingua: i bambini stranieri hanno spesso difficoltà a capire le immagini.
Condizione fondamentale è quindi che le risorse collaborino l’una con l’altra per mediare il senso
insieme.

Per quanto riguarda il CLIL:

Si ha l’impressione che i fenomeni fisici vengono compresi meglio nella lingua in cui si insegna la
disciplina, mentre in italiano sono più labili. Forse perché effettivamente sul concetto in inglese c’è
un grosso lavoro (glossari, frasi con parti evidenziate) quasi linguistico che aiuta a ripetere e rivedere
e tornare più volte sullo stesso concetto. Se costruito in questo modo CLIL aiuta alla
concettualizzazione e comprensione, il problema che ci si pone è quello della produzione: come è
possibile migliorare la lingua anche in uscita? Sembra che nelle presentazioni finali in PPT degli
apprendenti non ci fosse concettualizzazione. La ricerca europea afferma che c’è un miglioramento
delle capacità di comprensione scritte, nella lettura e ascolto, ma non per quanto riguarda la
produzione in lingua straniera.

11° LEZIONE - 25/03/2022


SBOBINATRICE: Giada Isca e Anna Gonnelli
REVISIONATRICE: Giada Isca e Anna Gonnelli

(QCER= quadro comune europeo di riferimento)

Ieri abbiamo visto la proposta che mette in pratica l’approccio del QCER e che può rendere operativo
il concetto di plurilinguismo che sta alla base della proposta del QCER.

Abbiamo detto che il quadro approfondisce nella seconda versione questa nuova abilità di
comunicazione che denomina con il termine ‘’mediazione’’ che, sia in ricezione, che in produzione
e interazione, è fondamentale per comunicare e per co-costruire il senso delle attività di
comunicazione che si vogliono realizzare tra persone.

La mediazione diventa il fulcro della comunicazione, che poi si attua attraverso la traduzione,
l’interpretariato, la parafrasi e il riassunto che consentono la riformulazione del testo originario
affinché sia accessibile a una terza persona che magari non condivide la stessa competenza
linguistico-comunicativa. Questo concetto di comunicazione = mediazione vale per ogni attività di
apprendimento (poiché ogni attività di apprendimento si svolge attraverso la mediazione). Questo
vale per l’apprendimento di lingue straniere - ogni attività di apprendimento si svolge attraverso la
mediazione, perché quando impariamo la lingua abbiamo bisogno di continue spiegazioni e di fare
ricorso a codici diversi da quello di una lingua, che ci aiutano nella comprensione e nella interazione
con gli altri.
Queste attività linguistiche di mediazione comunque occupano un posto fondamentale, perché mentre
si parla si usa continuamente la mediazione e la competenza metalinguistica per cercare di farsi capire,
per chiedere se il nostro interlocutore ha capito, se ha domande o se dobbiamo riformulare il testo.
(es. chiedendo ‘’hai capito?’’, ‘’ci sono domande?’’)

Nella mediazione abbiamo il soggetto sociale (è così che viene denominato l’apprendente di una
lingua) – ‘’social agent’’, viene chiamato così perché è una persona che mentre apprende una lingua
usa quella lingua e attraverso la lingua deve svolgere dei compiti di comunicazione. Secondo il
QCER, questo user learner/apprendente agisce come un agente sociale che crea ponti
intralinguistici (nella lingua) e interlinguistici (nelle lingue). (Jakobson invece parlava di
traduzione: ogni atto di comunicazione è un atto di traduzione). Quindi, il soggetto sociale costruisce
ponti e aiuta a trasferire il senso, talvolta attraverso la stessa lingua che utilizza il suo interlocutore,
talvolta da una lingua a un’altra lingua, utilizzando tutti i codici a disposizione nel suo repertorio.
Il focus del QCER sta quindi nel ruolo della lingua in processi come:

• creare spazio e condizione per la comunicazione/apprendimento

• collaborare alla costruzione di nuovi significati

• incoraggiare gli altri a costruire e comprendere nuovi significati e a trasmettere nuove


informazioni in un modo appropriato

Questo avrà un peso notevole, o dovrebbe avere un peso notevole nei processi di apprendimento,
soprattutto nell’analisi dello sviluppo dei processi di apprendimento, perché il focus non sta nella
forma e nell’errore, ma sta nell’appropriatezza, cioè nell’adeguatezza rispetto al contesto in cui si
attua la comunicazione. Esattamente quello che De Mauro diceva quando si parlava di movimento
all’interno di uno spazio linguistico.

Il QCER sembra che inventi espressioni novità (come il concetto di plurilinguismo, di adeguatezza
linguistica) ma in realtà non fa altro che riprendere e sistematizzare concetti che erano già presenti
nel campo ampio della linguistica e della sociolinguistica, e dà una strutturazione forte a questi
concetti per applicarli nel campo della mediazione.

Enrica Piccardo nel video afferma che la mediazione rappresenta una ‘’holistic, ecological view of
language use and learning’’ – il termine ecologico si riferisce all’ecologia dell’uso linguistico, cioè
un uso linguistico in contesti di comunicazione, nell’ambiente di comunicazione.

Attraverso la mediazione gli apprendenti/utenti/agenti sociali devono:

• creare spazio plurilingue e pluriculturale (lingua e cultura non sono mai separati) per
l’apprendimento, e ridurre blocchi e tensioni affettive. Se ci si può servire della mediazione,
cioè della capacità metalinguistica, per riformulare, si possono usare anche codici diversi

• ridurre i blocchi e le tensioni usando codici diversi.


(esempio: un docente clil che può spiegare un concetto in italiano, perché non può esprimerle
in una lingua che non possiede totalmente né lui e né i suoi studenti)

• costruire i ponti verso il nuovo e vero l’altro

• co-costruire il significato

• trasmettere informazioni (semplificando, elaborando e adattando).


E questa è l’idea di mediazione.
La competenza plurilingue implica la capacità di utilizzare un repertorio interdipendente, non
equilibrato, plurilinguistico e flessibile per:
- passare da una lingua o da un dialetto (o da una varietà di lingua o di dialetto) all'altra/o
- esprimersi in una lingua (o in una varietà di lingua o di dialetto) e comprendere una persona che
parla un'altra lingua;
- ricorrere alla propria conoscenza di differenti lingue (o di varietà di lingua o di dialetto) per
comprendere un testo;
- riconoscere sotto una nuova forma parole che appartengono ad un repertorio internazionale comune;
- mediare tra individui che non hanno alcuna lingua (o varietà di lingua o dialetto) in comune o che
ne hanno solo qualche nozione;
- mettere n gioco tutto il proprio repertorio linguistico, sperimentando forme alternative di
espressione;
- sfruttare i fattori paralinguistici (gli altri codici a nostra disposizione) – mimica, gesti, espressioni
del volto ecc.

Questo è un uso ecologico della lingua, un uso della lingua che si serve di tutte le risorse a
disposizione per produrre senso e per interpretare il senso degli atti di comunicazione.

Ciò ci fa capire la complessità delle operazioni che stanno dietro alla descrizione operativa della
mediazione, per sapere insegnare una lingua è necessario saperla descrivere. Il QCER è proprio uno
sforzo di descrizione linguistica che parte da una teoria linguistica che dice che la lingua è uso. Cosa
troveremo nella seconda versione del QCER? Troveremo tutti i descrittori della mediazione suddivisi
nei vari livelli di apprendimento, nelle varie tappe dello sviluppo dell’apprendimento. Troveremo le
attività di mediazione (attività per mediare concetti e comunicarli). Cosa vuol dire mediare un testo?
Vuol dire spiegare dati che si mettono in un discorso, processare un testo nell’orale o nello scritto,
tradurre un testo scritto nel parlato e nello scritto. Quindi hanno cominciato a fare un inventario di
tutte le attività possibili di mediazione che riguardano testi e concetti. Hanno cominciato a descrivere
le strategie di mediazione – quali strategie si mettono in atto per mediare? Da questa tabella poi sono
stati ricavati dei descrittori, ci sono per esempio due attività che riguardano la mediazione di
significato, cioè collaborare alla costruzione di significato. Vengono descritte le progressive modalità
di mettere in pratica la possibilità di collaborare alla costruzione del significato (da A1 a C2).
Il lavoro che è stato fatto è enorme, abbastanza arbitrario e fatto a tavolino con altri studiosi, magari
succederà com’è successo con il QCER nella sua prima versione che conteneva solo i descrittori della
lettura, dell’ascolto, del parlato, dell’interazione, della traduzione scritta e orale - cioè i descrittori
proposti sono stati sperimentati e nei 10 anni di sperimentazione sono stati un po’ modificati per
sistemare ciò che non funzionava. Ugualmente succederà per la mediazione. Sono una quantità ampia
di descrittori, è stato fatto un grande lavoro.

La questione è: con una visione di questo tipo, il ruolo dell'insegnante e quello che deve saper fare,
diventa più complesso. Perché era più semplice verificare se forme ed espressioni erano presenti nel
patrimonio linguistico degli studenti. (Molto spesso, anche fare clil o insegnare una lingua straniera,
lo si faceva attraverso l’apprendimento mnemonico di liste di parole)
Abbracciare la prospettiva di mediazione ci permette di passare dall’idea di una lingua come un
sistema chiuso di forme e strutture a un’entità di lingua come processo, qualcosa di aperto,
continuamente modificabile e implementabile. È stato coniata una forma progressiva, cioè dall’idea
di language, che dà l’impressione di un’idea fissa, all’idea di languaging, un’idea di movimento
progressivo.

Come si lega la mediazione con il concetto di plurilinguismo? Si lega perché il plurilinguismo si


riferisce al processo dinamico e creativo di languaging, che si attua attraverso i confini di varietà
linguistiche. Cioè se la lingua è un processo, in questo processo grazie alla mediazione possiamo
passare i confini tra una lingua e un'altra, un codice e un altro. Questa è la proposta del quadro comune
europeo di riferimento. Per la messa in atto di questa proposta ce ne vuole, ‘’fra il dire e il fare c’è di
mezzo il mare’’.

Dietro a questa scelta si apre una retorica che riguarda l’apprendimento: la mediazione è una lente a
una visione plurilingue che rompe il mito della purezza delle lingue e delle culture.

La mediazione che gli individui fanno quando il plurilinguismo apre la possibilità di nuove posizioni
e di rapporto tra le lingue, di comunicazione e di nuove visioni del mondo. Quindi si apre una enorme
retorica sull’importanza del plurilinguismo e della mediazione. Il plurilinguismo dà la forza agli
individui di vedere possibilità dove altri vedono barriere. Si apre quindi una retorica teorica che il
plurilinguismo può dare a chi apprende una lingua, il plurilinguismo aiuta le persone a
concettualizzare le differenze che sono l’aspetto che nutre le nostre società che sono sempre più
diverse. L’idea è quella di un abbraccio tra individui, le loro lingue e le loro culture, che dal punto di
vista teorico sarebbe importantissima, ma poi vediamo invece che nella realtà tutto ciò non succede.
Per esempio: tra le richieste della Russia per la tregua, al terzo posto (quindi tra le importanti) c’è la
richiesta che venga inserita nella scuola la lingua russa. Quindi la questione linguistica è pesante
perché ha a che fare con l’identità e i nazionalismi, e possiamo trovare il nazionalismo anche
all’interno delle democrazie, il monolinguismo non è tipico solo dell’assolutismo o di un regime
dispotico. Per esempio, il paese in cui c’erano leggi aperte sulle lingue, sul plurilinguismo e sulla
presenza a scuola delle lingue era la ex Jugoslavia, che non era un regime democratico. Ma dato che
era un paese fatto e costituito da etnie diverse era importante avere delle politiche linguistiche
avanzate. Altro esempio è l’impero austro-ungarico, aveva delle politiche linguistiche molto
avanzate.

Cosa è successo invece in Ucraina? Alla rivendicazione dell’indipendenza si è accompagnato un


rifiuto di ciò che era prima, e quindi la lingua russa è stata bandita. Se si girava per Kiev che era stata
fino al ‘91 una repubblica dell’URSS, non si trovava nulla scritto in russo per le strade.

Quindi la questione linguistica è fondamentale, perché bisogna evitare che anche le lingue siano
troppo legate all’idea di identità e a spinte nazionalistiche di chiusura che avvengono in regimi
democratici.

Nella costituzione italiana per esempio non c’è un articolo che afferma che l’italiano sia la lingua
ufficiale dello stato, questo è un bene. La costituzione italiana è nata proprio per rifiutare il
nazionalismo e la chiusura nei confronti degli altri, è fondamentale perché soprattutto in società che
diventano sempre più diverse non ci sia una chiusura legata alla lingua. Questo non significa che le
lingue non vadano imparate, ma non si deve punire e nascondere le identità linguistiche e i repertori
con cui gli immigrati arrivano nel nostro paese.

Se si mette la mediazione al centro della costruzione e ricostruzione della conoscenza:

• si rendono gli apprendenti consapevoli della complessa natura delle lingue e


dell'apprendimento linguistico (si sposta il focus dalla lingua come identità alla lingua come
processo)

• si tiene presente dei recettori linguistici degli apprendenti (si dà la possibilità agli apprendenti
di attraverso il riconoscimento delle loro traiettorie di accrescere la loro conoscenza)

• si amplia lo scopo dell’educazione anche linguistica con l’obiettivo di integrare nel sociale
tutti attraverso la lingua (attraverso l'educazione, il riconoscimento e la valorizzazione passa
l'integrazione sociale di ciò che è diverso).
Qualsiasi disciplina deve fare i conti con la lingua. L’obiettivo è facilitare l’integrazione sociale,
perché attraverso la lingua e l’educazione passa l’integrazione sociale, attraverso un riconoscimento
e la valorizzazione di ciò che è diverso, e non con la chiusura e la paura della diversità.

“Multilingualism language policy in the EU today: a paradigm shift in language education” -


Bessie Dendrinos

Bessie Dendrinos è una studiosa greca. in questo articolo si interroga sulle conseguenze effettive di
tutte le proposte fatte a livello europeo sul multilinguismo (diverso da plurilinguismo - parola che si
trova esclusivamente nelle proposte del Consiglio d'Europa e quindi nel QCER)

Tutte queste politiche sul multilinguismo a cosa portano? Portano ad una totale rivoluzione.

Dendrinos inizia questo articolo con una rassegna di tutte le risoluzioni, le raccomandazioni, i report
che l’Unione Europea pubblica e promuove, ma anche con i piani di azione che sostiene con risorse
per la promozione del multilinguismo. Li analizza uno per uno, partendo proprio dal trattato
dell’Unione Europea in cui si dice che tutte le lingue europee hanno lo stesso valore. Il motto
dell’unione è ‘’unity in diversity’’, le politiche linguistiche dell’Europa dicono che la diversità
linguistica è un valore che va mantenuto. Mentre al contrario il motto degli USA è ‘’ex pluribus
unum’’, cioè ha politiche linguistiche che mirano all’acquisizione dell’inglese come lingua di tutti nel
quale riconoscersi come nazione.

Quindi Dendrinos analizza tutti questi documenti europei e mette in luce l’impatto sull’educazione.
Questo perché bisogna tenere a mente che il Parlamento Europeo può promulgare leggi, ma
nell'ambito dell’educazione non si parla mai di “legge” ma di “raccomandazioni”. Allora perché non
trasformano una raccomandazione europea sulle lingue in legge? Perché l’istruzione non rientra
fra le materie che tengono insieme l’Unione Europea: sui temi dell’istruzione ogni singolo stato
che compone l’Unione opera in regime di sussidiarietà. Ciò significa che a legiferare sono i singoli
stati che devono tenere conto delle risoluzioni dell’Unione, ma l’Unione non può legiferare su materie
di istruzione perché su questa materia è stato deciso che la sovranità rimane nelle mani dei singoli
stati.

Anche per risolvere questioni sociali la commissione continua a produrre raccomandazioni perché
uno dei temi rilevanti nelle società attuali riguarda l’integrazione dei migranti nelle società. Quindi
La commissione europea sta attenta a creare MLC (multilingual classroom spaces = spazi di classi
multilingue) che possono avere una varietà ampia di lingue e culture.

Il focus non è più solamente il successo scolastico ma anche:

• dare sostegno agli studenti per i problemi che potrebbero incontrare con la nuova realtà

• lo sviluppo e il mantenimento del patrimonio linguistico di partenza (punto importantissimo,


nei sistemi di istruzione il mantenimento della L1 è vista come una barriera all’apprendimento
della nuova lingua)

Bisogna aiutare i bambini ad apprendere la lingua della scuola per raggiungere il successo scolastico,
dare loro sostegno per i problemi che potrebbero incontrare avendo a che fare con una nuova realtà,
e far sì che il patrimonio linguistico di partenza non venga abbandonato ma sviluppato e mantenuto.
Tuttavia non tutti gli stati europei lo fanno, per esempio la scuola italiana fa pochissimo per il
mantenimento della L1 dei bambini, anzi nell’immaginario di molti insegnanti la L1 danneggia,
rappresenta una barriera all’apprendimento della lingua della scolarizzazione, concetto molto
sbagliato. Il bilinguismo e avere un cervello bilingue porta dei vantaggi.

Per questo Dendrinos parla di cambiamento della mentalità, perché addirittura si continua a ritenere
che avere due lingue sia una cosa che porta svantaggi, cosa che non è assolutamente vera ed è anche
stato dimostrato dalla ricerca scientifica. Tuttavia, nella realtà si fa pochissimo per combattere questo
pensiero errato.

(Slide – riassunto dell’articolo)


Quali sono le sfide? Sono quelle di sviluppare meccanismi di supporto per i bambini migranti:
- per apprendere la lingua dell’istruzione a scuola così che la possano usare in modo competente ed
adeguato
- insegnare loro ad usare i diversi codici che stanno intorno alla lingua della scolarizzazione. Quindi
acquisire una alfabetizzazione nei vari codici che servono a scuola.
- mantenere la lingua madre o le lingue madri (non è detto che sia una), e sviluppare alfabetizzazione
in queste lingue.
- favorire l’apprendimento di altre lingue europee. Perché il possesso di altri codici favorisce la
gestione di nuovi codici, perché il nostro cervello è fatto per questo, noi siamo naturalmente
multilingue.

Facilitare l’apprendimento delle lingue europee dominanti:


- utilizzare il QCER, far sì che l’educazione e l’apprendimento degli insegnanti vada in questa
direzione.
- fare ricerche sul multilinguismo
- finanziare progetti per le lingue e il multilinguismo attraverso Erasmus+ (che è un programma
dell’UE, che non è limitato alla mobilità universitaria ma comprende anche progetti finanziati
attraverso questa misura della commissione europea.
- sostenere studi che aiutino a costruire linee guide per la formazione e per l’educazione.

Quindi, una cosa è avere la proposta del quadro e le politiche europee, un’altra è mettere in pratica
tutto questo, cioè rispondere a ciascuna di queste sfide. C’è ancora molto da fare, soprattutto nella
formazione degli insegnanti che non sono preparati a cogliere queste sfide perché la mentalità, gli
stereotipi che circolano attorno le lingue sono molto radicati.

Nell’articolo Dendrinos si chiede, qual è questo paradigma che va modificato? Vanno modificate
tante cose, anche dal punto di vista della definizione degli obiettivi di apprendimento.

Obiettivo: arrivare alla competenza del parlante nativo ideale dove però ogni lingua è tenuta ognuna
separata dall'altra (come uno sviluppo di monolinguismo paralleli fra loro).

L’enfasi è ancora sull’apprendimento della lingua target come se fosse un sistema fisso di strutture,
semantico e pragmatico. Il focus è ancora sulla frase e sul vocabolario, anziché essere sul testo. Cosa
manca ancora? Manca una riflessione sull’efficacia comunicativa. Dalla correttezza grammaticale
si passa al concetto di efficacia comunicativa. È un cambio di paradigma forte, ciò significa che
l’errore non è sempre detto che sia un errore, ma potrebbe essere una fase di avvicinamento al
possesso della regola.

Es. quando un bambino piccolo dice ‘’io ando’’, va considerato come errore? È una riflessione
metalinguistica, perché sta applicando una regola (mangiare-> mangio; andare-> ando). Quindi non
va considerato come errore.
La linguistica acquisizionale ha messo in luce le tappe di avvicinamento verso la lingua target, che si
svolgono con regolarità. L’idea è quella di passare dal concetto di errore a quello di efficacia
comunicativa attraverso l’uso di testi multimodali, cioè testi che utilizzano codici diversi. I testi
multimodali sono quelli maggiormente utilizzati, (come per esempio l’uso dei video di tik tok per
apprendere la lingua) quindi l’utilizzo di risorse linguistiche di codici a nostra disposizione.
L’alfabetizzazione si sviluppa in ciascuna lingua in modo separato, non ci si preoccupa della
multiliteracy e delle competenze plurilingue.

É difficile che ci siano politiche linguistiche a livello di scuola e università, o anche a livello
nazionale. Se si pensa che nel nostro paese più della metà della popolazione non riesce a leggere un
testo, vuol dire che i passi avanti che si sono fatti negli anni (dal 2,5% di persone che parlavano
italiano) non sono ancora sufficienti.

L’insegnamento delle lingue e la valutazione è ancora monolingue.

Tutto ciò vuol dire che se si vogliono mettere in atto le politiche per il multilinguismo e plurilinguismo
dei documenti europei, c’è tantissima strada da fare, e non è detto che si possano realizzare dato che
c’è persino chi afferma che le politiche linguistiche europee siano delle utopie. Quindi, belle sulla
carta, ma difficili da realizzare. Si dovrebbe abbandonare il paradigma monolingue nell’educazione,
perché la società non è monolinguista, e si dovrebbe mettere al centro dell’educazione il fatto che
l’interazione si svolge non solo attraverso una lingua ma attraverso le semiotiche, cioè attraverso i
codici che noi abbiamo a disposizione. Si deve far sì che le scuole europee da istituzioni monolingue
diventino multilingue, dove una lingua singola non domina il curriculum, ma dove molte lingue e la
multimodalità entra in gioco e sono usate come risorse per la costruzione del significato.

Dendrinos è molto realista, se vogliamo che le politiche europee si mettano in atto, questo è quello
che possiamo fare, siamo pronti per farlo?

Bisogna mettere in atto nuove pratiche pedagogiche per lo sviluppo della competenza plurilingue del
bambino associata con l’intercomprensione, il translanguaging (cioè accettare che diventi pratica
comune il passaggio da una lingua a un’altra) e la mediazione (senza il quale il passaggio da una
lingua a un’altra sarebbe fattore di incomprensibilità). Così si può arrivare alla co-costruzione del
significato e alla comprensione.

Secondo Dendrinos è possibile un nuovo paradigma pedagogico, che è la sfida più grande.

• Un’educazione linguistica che prepara gli apprendenti a usare le lingue che stanno
apprendendo come meccanismi per la formazione di significati, così da incrementare la
quantità e la qualità della loro comunicazione con i parlanti di altre lingue. (Quindi permettere
ai ragazzi di usare tutto il repertorio a loro disposizione per costruire il significato)

• Una pedagogia linguistica che sia orientata a sviluppare negli apprendenti le competenze per
operare al confine tra lingue diverse, che non è un code switching, ma un processo continuo,
in modo da trovare la loro strada negli eventi di comunicazione.

• Una pedagogia linguistica che li formi a usare la conoscenza socioculturale e le abilità


sviluppate facendo un uso massimo delle loro strategie comunicative, le loro abilità di
multiliteracy e di gestire la multimodalità dei testi, la loro conoscenza translinguistica e
transculturale.

La sfida è quindi aperta e grande. La complessità del lavoro dell’educatore è maggiore rispetto a
quella di insegnare liste di forme, strutture e parole, e considerare le lingue come se fossero una
accanto all’altra senza che ci sia permeabilità.
Questa è la sfida maggiore che non è detto che abbia successo, perché per molti la politica plurilingue
dell’Unione è un’utopia. Perché ci sono molti che sostengono l’uso dell’inglese come lingua franca,
anche se ci sono altre lingue che però non vengono considerate per la comunicazione tra persone che
parlano lingue diverse. Si va dal polo dell’utopia a quello della fattibilità, c’è una complessità di
fattori nel mezzo che Dendrinos ci ha chiarito.

Applicare appieno le politiche linguistiche europee e le proposte del consiglio di Europa significa
cambiare e modificare una prospettiva, cosa che per ora da un punto di vista teorico e operativo, c’è
strada da fare.

12° LEZIONE - 31/03/2022

SBOBINATRICE: Giada Isca e Anna Gonnelli


REVISIONATRICE: Federica Lazzaroli
(Sondaggio per capire che idea abbiamo sulla definizione del termine bilinguismo).

Abbiamo parlato tanto dal punto di vista delle politiche e teorie educative, dei concetti di
multilinguismo e plurilinguismo. Ora bisogna definibili: il primo tema da definire è il concetto di
bilinguismo.

Il sondaggio proposto è servito per capire cosa pensiamo che voglia dire bilingue..

Si è finalmente capito che è il monolinguismo la costruzione artificiale, e che ciascuno di noi è


naturalmente multi o plurilingue. La grandissima sfida che deve interessare le politiche europee è
quello di capire come all’interno dei percorsi educativi si può promuovere il plurilinguismo, come
formare gli insegnanti e far sì che smettano di pensare alle lingue come sistemi chiusi che sono
costruiti con forme e strutture, e che invece pensino e riflettano su quanto le competenze linguistiche
siano fondamentali sia per la gestione dell’ora di italiano e lingua sia per le altre materie.

Definizione di bilinguismo

Come è evoluta nel tempo la definizione di bilinguismo?

Se si pensa a ciò che è stato detto fino a ora sul concetto di multilinguismo e plurilinguismo, è evidente
che anche l’idea dell’essere bilingue si è modificata nel tempo.

La prima definizione è la definizione più antica fra quelle presenti, e appartiene a un pedagogista e
linguista americano, Bloomfield, che nel 1933 dice ‘’nell’estremo caso dell’apprendimento delle
lingue straniere, il parlante diventa così competente da essere indistinguibile dai parlanti nativi che si
trovano intorno a lui. Nei casi in cui questo apprendimento perfetto della lingua straniera non è
accompagnata dalla perdita della lingua nativa, il risultato di questo è il bilinguismo’’ - secondo
Bloomfield l’essere bilingue significava ‘’avere un controllo nativo di due lingue’’.

Il focus sta sulla competenza raggiunta. Esiste un percorso di apprendimento, esiste un obiettivo da
raggiungere che è la nativelike proficiency, cioè la competenza di un parlante nativo. Se notiamo
l’aggettivazione che usa Bloomfield ci accorgeremo di parole come ‘’perfect’’, cioè il
raggiungimento della perfezione, se sei bilingue conosci entrambe le lingue in maniera perfetta, come
appunto un parlante nativo. Focus sull’apprendimento del sistema.
Un’altra cosa che Bloomfield mette in luce è il modo in cui chiama l’apprendente, ossia lo chiama
speaker, cioè il focus di Bloomfield è su una competenza di produzione orale. Chi è bilingue deve
parlare in modo che non sia distinguibile da quello del parlante nativo.

Una definizione come questa oggi non è più accettabile, tuttavia è una definizione che è presente
nell’immaginario collettivo. Il sondaggio fatto è servito per capire quanto i concetti siano penetrati
anche nel nostro immaginario e come caratterizzano le definizioni che diamo.

Un altro linguista, Mackey, nel ‘62 dice qualcosa di diverso: ‘’noi possiamo considerare il
bilinguismo come l’uso in maniera alternata di due lingue’’. Si sposta l’attenzione sull’uso più che
sul sistema. ‘’Il bilinguismo è un modello di comportamento di pratiche linguistiche che si modificano
vicendevolmente e che variano in grado, funzione, alternanza e interferenza, che sono le 4
caratteristiche attraverso le quali è possibile definire un bilingue.

Cosa cambia dalla definizione di Bloomfiled? A parte l’enfasi sull’uso e sul sistema, cosa dice di
diverso Mackey rispetto a Bloomfield? I gradi. Secondo Bloomflield esiste un parlante nativo ideale
a cui si deve conformare il parlato dell’apprendente e l’apprendente si può definire bilingue solo se
ha raggiunto quella determinata competenza che è uguale a quella del nativo. Praticamente, il
bilinguismo è un concetto binario: sei bilingue se parli entrambe le lingue come un parlante nativo,
se non parli come un parlante nativo non lo sei.

Invece, nelle considerazioni di Mackey emerge il grado, cioè il bilinguismo non è un concetto univoco
e chiuso, ma esistono vari gradi di bilinguismo. Qual è la matrice che ci aiuta a definire il bilinguismo?
Sono il grado, la funzione, gli usi linguistici. Per quali funzioni si usa una lingua invece che un’altra?
L’alternanza e quanta interferenza c’è tra una lingua e un’altra.

Mackey conclude che è nei termini di queste 4 caratteristiche che il bilinguismo può essere descritto.
C’è quindi una gamma. Mentre nella prima definizione c’è un solo bilinguismo, nella seconda
abbiamo una gamma diversa di bilinguismo. Quindi c’è un passo avanti.

Altro linguista di quegli anni è Diebold che offre un’altra definizione ‘’io offro una definizione
modificata di abilità minima bilingue, cioè il contatto con modelli possibili in una seconda lingua e
la abilità di usarli nell’ambiente del linguaggio nativo. La definizione non è normativa rispetto alla
distanza di corrispondenza tra il modello e la replica e può includere competenze alfabetiche come le
cosiddette passive knowledge’’ (concetto che un altro linguista, Baetens Beardsmore, individua nel
bilinguismo ricettivo).

In cosa si differenzia la terza definizione rispetto alla seconda? Dice nuovamente che non c’è un
modello e una replica, cioè non esiste il modello del parlante nativo e comportamenti linguistici
finalizzati esclusivamente a replicare quel modello, anche per Diebold ci sono diversi modelli
utilizzabili di una lingua seconda. Non è molto distante dalla definizione di Mackey, ma aggiunge
una cosa interessante, cioè pone una differenza tra le abilità: si può essere bilingui in una abilità, ma
si può non esserlo in un’altra abilità. Dice che si può avere un bilinguismo produttivo, ma si può avere
anche un bilinguismo ricettivo.

Bloomfield aveva posto l’attenzione sullo speaking e le attività di produzione, Mackey non aveva
posto in luce la diversità di possibilità, invece Diebold lo fa.

L’ultima definizione viene da uno dei più grandi studiosi viventi di bilinguismo, Grosjean.

È una definizione del 2008, Grosjean è uno degli studiosi che maggiormente si sono occupati di
studiare il bilinguismo e che dà una nuova definizione, che è semplice ma diversa dalle altre: mette
accanto il bilinguismo con il multilinguismo, e aggiunge una cosa molto interessante che sposta
l’attenzione sull’uso regolare di due lingue, ma anche una lingua e un dialetto.

‘’Bilingualism is the regular use of two or more languages (or dialects), and bilinguals are those
people who use two ore more languages (or dialects) in their everyday lives’’.

Secondo Grosjean il bilinguismo non è solo un bilinguismo che riguarda quelle entità che sono
definite lingue, ma riguarda anche le varietà linguistiche di queste lingue. Si può definire bilingue
anche una persona che regolarmente utilizza una lingua e un dialetto. Questo è un tema su cui ancora
il dibattito è aperto in linguistica. La scelta di Grosjean è quella di dire che anche una varietà
linguistica diversa è come se fosse una lingua, marca il passaggio da una varietà all’altra.

In pratica chi possiede un dialetto può essere considerato un bilingue.

Queste 4 definizioni mettono in luce anche il percorso che a livello teorico è stato fatto, è il percorso
che abbiamo fatto con l’articolo di De Mauro, cioè se si considerano le lingue come dei sistemi chiusi
fatti di forme e strutture, chiaro che il bilingue deve arrivare alla perfezione.

Invece negli anni questa definizione si è modificata, ha assunto delle accezioni diverse sfumate (infatti
si parla di grado di bilinguismo) fino ad arrivare alla definizione di Grosjean che privilegia l’uso
regolare di due lingue o anche di due dialetti. È un percorso che nelle teorie linguistiche si sta facendo
verso la definizione stessa di lingua.

Come abbiamo detto varie volte, sui temi del bilinguismo bisogna sfatare dei miti.

Nella lezione di oggi e di domani ci occuperemo di sfatare stereotipi legati al concetto di bilinguismo
nella società, nella scuola e nell’immaginario collettivo.

Ci riferiamo agli studi fatti da 3 studiose Garraffa, Sorace, Vender che hanno scritto questo piccolo
libro (che è uno dei testi a scelta per i non frequentanti)

Questo testo mette in luce tanti aspetti e dà una carrellata sulle ricerche scientifiche attuali sui temi
del bilinguismo. Oggi siamo in possesso da poco tempo della strumentazione informatica che ci
permette di cominciare a vedere come funziona il nostro cervello. La strumentazione tecnologica
(come ad esempio risonanze magnetiche) ci fanno vedere quali sono le aree del nostro cervello che
si attivano quando usiamo il linguaggio, ci danno informazioni che prima non potevamo avere. Anche
gli studi sul bilinguismo sono studi che dal punto di vista scientifico e tecnologico sono abbastanza
recenti. C’è molta strada da percorrere.

In questo librettino il tema è quello di sfatare i miti. La definizione che Grosjean ha dato e che queste
autrici adottano è quella di pratica regolare di uso di due lingue. Quindi il focus è sull’uso e non sul
livello di competenza raggiunta, che nei casi più estremi è identificato con il parlante ideale nativo,
ammesso che questo parlante nativo ideale esista per davvero, perché ciascuno di noi usa la lingua e
le parole che conosce, quindi il parlante nativo ideale è un linguistica o un grammatico. Ciò che ci
interessa è che c’è uno slittamento di focalizzazione, dalla competenza alle pratiche di uso. Infatti,
oggi si dice che è bilingue anche chi ha una lingua dominante e un’altra che viene usata solo in
specifiche circostanze. Per essere bilingue bisogna quindi usare le due lingue in maniera regolare, ma
non deve essere una competenza bilanciata, si può usare una lingua in alcune circostanze e nei contesti
in cui usi una determinata lingua (riferimento alla definizione di Mackey sui gradi e funzioni).

Bisogna sempre tener presente che ‘’parlare più di una lingua offre un’apertura mentale alle capacità
comunicative e cognitive anche se non ne siamo parlanti nativi ‘’.
Questo cambio di focus mette in luce anche un’altra questione, perché un tempo si pensava che
potessero diventare bilingue solo le persone che avevano acquisito le due lingue sin da piccoli, che la
condizione principale per l’essere bilingue doveva essere un’acquisizione simultanea o consecutiva
ma precoce. Diverse classificazioni di bilinguismo:

Se il bilinguismo si ottiene da 0 a 1 anno di vita, quindi i bambini sono esposti a entrambi gli input
nei due anni di vita, lo si chiama bilinguismo simultaneo, cioè si nasce e cresce con due lingue.

Oppure si chiama bilinguismo consecutivo precoce quel bilinguismo che porta all’acquisizione di
una prima lingua ma sempre in età molto giovane in cui si entra contatto anche con la seconda lingua.
Il bilinguismo consecutivo precoce si dovrebbe realizzare fino ai 5 anni, dopo i 5 anni si chiama
bilinguismo consecutivo tardivo.

Precoce perché si riferisce all’età, simultaneo perché si è esposti da subito a due codici diversi; il
bilinguismo consecutivo precoce è quel bilinguismo che arriva in tenera età, ma nel momento in cui
la L1 è stata appresa, per questo è consecutiva, perché non si impara insieme all’altra lingua. Questo
può essere il caso di molti bambini arrivati nei paesi di immigrazione quando erano molto piccoli, e
quindi la pratica di due lingue diverse, anche se la L1 era già acquisita, li ha portati a un bilinguismo
consecutivo precoce.

Perché abbiamo messo questo taglio degli anni? – che succede nel nostro cervello?

Il cervello dei bambini è molto plastico e nella fascia d’età compresa fra i 5 e i 10 anni si ha nel
cervello umano la cosiddetta lateralizzazione delle funzioni: le aree cerebrali si specializzano per
determinate funzioni. Nel caso dell'apprendimento delle lingue durante questa età si alzano alcune
soglie critiche che non permettono l'acquisizione perfetta di alcuni piani della lingua.

La soglia che si alza per prima è quella della pronuncia in quanto l’apparato fonatorio e cerebrale
sono fatti per recepire e produrre una quantità infinita di suoni che si realizzano in modo diverso a
seconda delle lingue (es: nella lingua cinese ci sono molte sillabe che per un orecchio non allenato
sembrano uguali pur essendo diverse). Durante la lateralizzazione delle funzioni, i bambini ascoltano,
riproducono e selezionano i suoni che si sentono di più e quindi si specializzano e utilizzano nel
tempo questioni e tratti pertinenti del sistema fonetico maggiormente utilizzati dalla lingua. Il caso
limite a dimostrazione è la leggenda di Tarzan, uomo che non parla mai perché non ha mai sentito
parlare ed il suo cervello non ha esempi di linguaggio umano su cui poter fare riferimento ma solo
quello animale.

Intorno agli 8 - 10 anni quindi il nostro cervello alza le sue soglie di apprendimento e più si ha
conoscenza della propria lingua più si è stimolati a conoscere più parole. Ci sono studi ad esempio
che mettono in luce quanto la competenza metalinguistica acquisita nella L1 aiuti a prendere ad
apprendere anche la L2 o L3 o L4. In questo caso si parla di bilinguismo adulto
tardivo. Analizzeremo il caso di una scrittrice indiana naturalizzata statunitense che si innamora
della lingua italiana ed arriverà ad abbandonare la sua lingua principale l’inglese per scrivere in
italiano. Questo a dimostrazione del fatto che è possibile diventare bilingui anche da adulti anche se
con maggiori complicazioni. I bambini infatti hanno una mente più elastica e assorbono con maggiore
facilità ciò che ascoltano per poi riprodurlo.

Quindi non esiste un unico tipo di bilinguismo. Ci sono molti stereotipi che circondano l’idea di
bilinguismo, uno fra tutti il concetto - soprattutto molto diffuso nel campo dell’insegnamento - che
per imparare bene una lingua si debba prima dimenticare la lingua di origine. Molte insegnanti
infatti, soprattutto nelle scuole elementari, suggeriscono ai genitori dei bambini di non parlare la
propria lingua d’origine a casa per evitare che il bambino possa fare confusione e non impari
l’italiano. Si instaura così una battaglia fra lingue del tutto inutile ed infondata: noi non stiamo
parlando di utilità di una lingua ma di uno sviluppo cognitivo e educativo del bambino in cui la
ricerca ha dimostrato che i bambini bilingui sono perfettamente in grado di gestire le lingue. Il
bambino è infatti in grado di capire quale lingua usare in quali circostanze ed il suo essere bilingue
lo porta ad avere contemporaneamente gli strumenti per spiegare diversi concetti a seconda del
contesto in cui si trova.

La capacità di gestire due lingue è una capacità naturale. Studi dimostrano come il bambino, già
dentro la pancia della madre, riesca a comprendere due lingue diverse. E questo processo continua e
si sviluppa dalla nascita. Se ad esempio il bambino succhia il latte della mamma tranquillo vuol dire
che non ha nessun tipo nessun tipo di problemi e se il neonato sente la mamma che parla la L1 avrà
il massimo al massimo gradimento. Se sente l'estraneo parlare la L1 il gradimento sarà minore perché
è condizionato dal sentire una voce a lui estranea. Ma se invece è la mamma a parlare un'altra lingua
il neonato comincia a notare qualcosa di diverso e quindi sposta la sua attenzione. Noi esseri umani
siamo quindi pronti a riconoscere e a gestire lingue diverse. C’è tutta una branca della semiotica che
si occupa di studiare i linguaggi, intesi come sistemi di segni e non i comportamenti. Ci sono
addirittura alcuni che dicono che le api hanno anche una metalinguistica perché possono in qualche
modo attraverso il tipo di volo comunicare fra loro. Quindi il cervello umano è perfettamente in grado
di gestire diversi infiniti tipi di codici tutti i giorni, e proprio per questo motivo è sbagliato pensare
che due lingue non possano coesistere e che una vada dimenticata per favorire l’apprendimento di
un’altra.

C'è un punto però su cui si deve fare attenzione: i bambini bilingue non devono essere paragonati ai
monolingue nelle loro lingue. Questa è una riflessione che di nuovo ha fatto questo grandissimo
studioso di bilinguismo Grosjean: l’attenzione, soprattutto nelle prime fasi dell'apprendimento, non
deve essere un paragone diretto tra il bambino bilingue e il bambino monolingue. Ad esempio, il
bambino monolingue a 4 anni conosce 800 parole nella propria lingua; il bambino bilingue ne
conoscerà invece 400 in una lingua e 400 in un’altra. Il paragone non è possibile perché i due bambini
stanno seguendo percorsi diversi e nella giovane età, il bambino bilingue sta facendo una fatica colto
maggiore. Erroneamente la carenza di un bilingue viene identificata come una carenza cognitiva (e
gli insegnanti consigliano di andare da un logopedista): è invece necessario tenere sempre a mente la
condizione linguistica di partenza, sia del singolo studente ma anche della storia del nostro paese. Ad
esempio, nel momento storico in cui la scuola diventa obbligatoria fino al termine della scuola media,
i bambini che entrano a scuola elementare - magari provenienti dalla campagna - non avevano mai
sentito l’italiano e le loro difficoltà linguistiche vengono scambiate come deficit cognitivo e quindi
lasciati perdere. Questo problema si verifica ancora oggi, nel momento in cui in molti ambienti
dell’istruzione i problemi intesi come difficoltà cognitive sono semplicemente difficoltà legate alla
conoscenza della lingua italiana.

Il funzionamento del cervello bilingue è diverso da quello di monolingue: si vede che nel cervello
dei bilingue vengono attivate aree con funzioni diverse e questo comporta quindi una diversità dal
punto di vista del funzionamento cerebrale e che quindi rende impossibile un paragone.

I bambini bilingui hanno una maggiore conoscenza spontanea di come funziona il linguaggio: I
bambini bilingue sono in grado di sviluppare fin da subito una competenza metalinguistica più solida.
Per esempio hanno una maggiore adattabilità nella costruzione del rapporto tra significante e
significato perché vedono subito che non esiste un rapporto biunivoco in tutte in tutte le lingue e
cominciano così a porsi subito dei problemi e a costruirsi regole di funzionamento in base a sistemi
diversi.
Domanda: Ma questa diffidenza verso il bilinguismo potrebbe essere dovuto anche un po'
l'atteggiamento della scuola? Perché per esempio ho avuto esperienza di insegnamento, ho fatto
supplenza in una scuola elementare e c'erano dei bambini appena arrivati albanesi che venivano
affiancati da altri bambini che già avevano competenza sviluppata sia italiano che ovviamente in
albanese.

Il bilinguismo presente nelle scuole è chiaro che può essere un vantaggio, ma non viene sfruttato
come si dovrebbe. Infatti nel caso appena descritto si mettono accanto ai nuovi arrivati i bambini
albanesi che sanno di più l'italiano perché insegnano loro di più la lingua italiana facendo così
percepire ai nuovi arrivati la maggiore importanza e utilità dell'italiano rispetto alla loro L1. Questo
atteggiamento è comune in tantissimi insegnanti perché nessuno ha mai detto loro che invece le cose
funzionano in modo in modo diverso. Una volta ero a Firenze a fare un corso di aggiornamento e
l’ingresso massiccio di bambini stranieri negli anni 90 era un fatto totalmente nuovo e totalmente
inaspettato soprattutto per gli insegnanti delle scuole medie. Un insegnante all'inizio del questo corso
disse che per insegnare correttamente l’italiano ai bambini stranieri bisognava impedire che loro
tornassero a casa il fine settimana perchè “se vanno a casa il sabato e la domenica parlano la loro
lingua e dimenticano tutto quello che noi abbiamo insegnato loro durante la settimana”. Torna quindi
la mentalità ricorrente di mettere in competizione le lingue fra di loro anche se la ricerca scientifica
oggi ci può dimostrare che non è così.

Domanda 2: Volevo fare infatti una riflessione a riguardo. Io sono pugliese però ho vissuto fin da
quando ero piccola a Milano e mi ricordo proprio che questa differenza è anche tra dialetti dell'Italia,
cioè tra varietà linguistiche dell'italiano. I miei genitori hanno fatto di tutto per educarmi a non
parlare il dialetto, a non saperlo scrivere e comprendere tanto che ho dovuto apprendere da sola con
il tempo solo perché volevo io ricordarmelo. Insomma tante cose che compromettono un
l'apprendimento dell'italiano corretto riguardano anche, secondo la norma comune, il problema che
c'è tra i bambini che vengono non solo da altri paesi ma addirittura all'interno dell'Italia stessa e io
ho vissuto la la mia adolescenza la mia infanzia proprio con questa questa cosa di dover eliminare
le mie origini al fine di apprendere un italiano corretto. Questo ha portato in me anche una sorta di
perdita dell’identità perchè ora che vivo giù mi chiamano “quella di Milano” e quando sono a
Milano mi chiamano “quella di giù”: non sono mai riuscita ad avere una parlata che riuscisse a
definire di dove io fossi veramente.

La sua testimonianza è importantissima e la ringrazio perché appunto puoi dire consolida che la scuola
italiana è una scuola che sta trattando considerando in questo modo le lingue diverse dall'italiano a
favore di un processo di italianizzazione della penisola. Il dialetto viene visto come un elemento che
poteva danneggiare l'acquisizione e soprattutto la piena padronanza della lingua italiana. Adesso è
ancora più importante riflettere su questo perché siamo abituati a considerare che o parli dialetto o
parli italiano. Questo è un problema che ha riguardato nel corso degli anni moltissimo la lingua
italiana: basti pensare che noi abbiamo 80 milioni di immigrati e decine di discendenti di Italia e nel
mondo che non parlano italiano perché è stato detto loro di smettere di parlarlo. Questo comporta che
le generazioni dei nostri emigrati cioè i figli dei figli dei figli di coloro che sono immigrati e che
magari hanno avuto successo in un determinato paese che oggi cercano di riappropriarsi delle proprie
dei rappresentanti delle proprie radici e quindi di ritornare a parlare anche l'italiano che ormai hanno
perso a partire dall’unità d’Italia.

13° LEZIONE - 1/04/2022


SBOBINATRICE: Federica Lazzaroli
REVISIONATRICE: Sofia Lo Ciacio

Riprendiamo la nostra riflessione sui temi del bilinguismo: la prima cosa che vorrei vedere con voi
stamattina, riguarda le vostre risposte al piccolo sondaggio (piccolo perché hanno risposto solo 27
studenti). L’81,5% di voi ha dichiarato di essere bilingue, prima di aver definito che cos’è il
bilinguismo, e solo il 18,5% ha dichiarato invece di non esserlo.

Definizione di bilinguismo: un fenomeno naturale che consiste nella capacità di gestire e adottare
diversi sistemi linguistici. Presenza nel proprio repertorio di due lingue. Qui c’è cosa interessante: la
condizione di assimilazione di due lingue – Cosa prevale qui? -> L’idea che la competenza nelle due
lingue sia equilibrata e ci sia la capacità di usarle con naturalezza. Quindi da una parte c’è questa idea
di equilibrio naturale tra le due lingue. In quella successiva troviamo l’idea di madrelingua: è bilingue
chi conosce entrambe le lingue come un parlante nativo. Quale definizione ci ricorda questa? -> La
definizione di Bloomfield.

In quella successiva troviamo un livello di competenza abbastanza alto, cioè si comincia anche a
smontare questa idea della competenza nativa. Quella successiva: due lingue apprese
simultaneamente, qui sembra che il focus sia sulla simultaneità dell’apprendimento di due lingue,
oppure, dopo dice chi di voi ha dato questa risposta, chiunque abbia un grado minimo di competenza
in più di una lingua: si ampia la definizione. Ancora, sapersi esprimere fluentemente e saper
comprendere le due lingue in egual modo, averne quasi la padronanza completa. Si passa dall'idea di
competenza madrelingua acquisita fra le due lingue in maniera simultanea, fino all’idea di una
competenza che non è quasi nativa ma che deve prevalere l’uso. Anche nelle vostre opinioni si ritrova
un'ampia gamma di definizioni di bilinguismo che sono date nel tempo. Interessante da notare è l’idea
di padronanza e simultaneità nell’apprendimento rimangono in molte delle vostre risposte. Quando
poi siete andati a rispondere alla domanda successiva: “ritieni di essere bilingue?” L’81% ha risposto
si e nelle spiegazioni, avete detto che la vostra lingua madre è l’italiano, che conoscete perfettamente
anche il dialetto napoletano e da qui è emerso il fatto che il dialetto è una lingua e quindi nel caso del
parlante dialettale è un parlante che ha una L1 che è un dialetto e una L2 che è l’italiano. Viene
aggiunto anche il fatto di saper utilizzare altre lingue come: cinese, inglese e spagnolo. Un’altra di
voi fa questa interessante premessa e dice che, avendo studiato a lungo e a fondo la lingua inglese, si
ritiene bilingue perché lo studio che può essere uno studio ne simultaneo, e consecutivo precoce ma
uno studio che si è effettuato più avanti nel tempo, può essere appunto bilingue. Chi scrive questo
aggiunge che è condizionata da entrambe nei processi di costruzione del senso e del pensiero, c’è una
consapevolezza del fatto che entrambe le lingue possano concorrere alla costruzione del senso. Nella
risposta successiva viene detta una cosa interessante -> oltre aver acquisito una tale familiarità con
l’inglese da ritrovarmi spesso a usarlo per pensare, quindi anche un uso come si dice tecnicamente
endolingusitico, cioè un uso che non è esterno, ma è un uso che si fa della lingua per costruire il
pensiero, come molti italiani possiedono due lingue materne: in questa risposta non si capisce se il
bilinguismo è dato dal fatto di possedere dialetto e italiano, o se concorre a questo anche l’inglese.
Quale riflessione possiamo fare? Queste definizioni ci mettono in luce quanto questo concetto sia
vago e che non abbia confini ben definiti e questo amplia ancora il dibattito linguistico. Ci sono degli
studiosi, dei linguisti che dicono che le lingue non esistono, perché le lingue sono dei costrutti
artificiali e che non ha senso pensare di separarle le une dalle altre, ma quello che ha senso è, studiare
come ciascuna di loro possono intrecciarsi e interagire nella costruzione del senso.

Settore del Translanguaging: il poter passare da una lingua ad un’altra. Questo è il settore che viene
studiato per la maggiore negli studi linguistici. Negli studi linguistici si va da una radicalizzazione ad
un’altra. Si va da radicalizzazione del concetto di lingua come quello ad esempio che deriva da tutti
gli studi Chomsky, ovvero che la lingua è un sistema chiuso, fatto da regole e che tutte le regole si
possono in qualche modo spiegare e ciò non rientra nella regola è l’eccezione. Da qui si va al polo
opposto, all’altra radicalizzazione, dove alcuni studiosi dicono che non ha senso contare le lingue,
ma quello che ha senso è vedere, analizzare l’interazione tra i diversi sistemi.

Coloro che hanno risposto No è un po’ più rigido nelle proprie posizioni: una/o non si ritiene bilingue
perché non possiede una padronanza completa. Qui emerge l’idea che per essere bilingue occorre
avere una competenza quasi nativa. Le categorie sono vaghe: c’è chi si considera bilingue perché
parla il siciliano e l’altra che dice che non è bilingue perché la seconda lingua che conosco è il
siciliano. Nel dibattito scientifico c’è una vaghezza nella definizione e nella categorizzazione, quindi
ad un’appartenenza ad una categoria o ad un’altra. Questo emerge anche nelle vostre risposte. Una
vostra collega dice un’altra cosa interessante perché ci sono dei linguisti che definiscono i dialetti
come se fossero lingue e altri che invece li definiscono come varietà di una lingua e quindi questa già
ambiguità di definizione si riflette poi nel concetto di bilinguismo. Non c’è definizione ufficiale, non
c’è accordo continuano ad esserci queste diverse prese di posizione e diversi definizioni sia di lingua
come sistema aperto o chiuso, si va da un polo ad un altro. La definizione di bilinguismo non risponde
a criteri che sono fissi. Quello che prevale adesso è l’analisi dell’uso linguistico, non si dice più che
bisogna avere una competenza totale in entrambe le lingue e non si dice più che le devi aver apprese
tutte e due da bambino, ma invece c’è questa idea che si possa diventare bilingue anche
successivamente.

Il concetto di bilinguismo è tipicamente eurocentrico, con una visione europea, invece la possibilità
di movimento e utilizzo di lingue, varietà diverse in culture che non sono europee, dove non c’è stata
questa grande costruzione ideologica dello Stato-Lingua, non hanno questi problemi, nel senso che il
loro passaggio da una lingua ad un’altra è una cosa assolutamente naturale. Abbiamo visto da
Ethnologue e sul testo di De Mauro quei paesi dove ci sono 200/300/400 lingue diverse che non
stanno ognuno separata dall’altra in un determinato territorio, ma si ritrovano anche nello stesso
territorio lingue diverse che sono la lingua della famiglia: se pensiamo ad un bambino indiano che
cresce con la lingua della famiglia che potrebbe non essere la stessa lingua, e quindi non appartenente
allo stesso registro, della lingua del villaggio, della città in cui vivono. Considerando che poi vanno
a scuola e utilizzano una delle lingue ufficiali del paese, ma utilizzano tantissimo anche l’inglese
perché l’istruzione ancora viene impartita in lingua inglese. Questa idea della confusione e delle
difficoltà è un’idea che ci siamo fatti noi occidentali, perché ci sono delle culture e contesti sociali in
cui il movimento fra lingue diverse è la normalità. Consideriamo anche la possibilità di un bambino
indiano con la mamma che proviene da un villaggio e il papà che ne viene da un altro, questo da un
possibilità di muoversi all’interno di una gamma di varietà linguistiche che è davvero ampia. L’idea
di bilinguismo e categorizzazione del bilinguismo è tipico di una visione occidentale della scienza e
della conoscenza> il retaggio ottocentesco del nazionalismo di dire che se sei un popolo, l’elemento
che nel quale ti riconosce e che ti rende diverso dagli altri è la tua lingua. Il nazionalismo utilizza la
lingua a propri fini è chiaro in tanti contesti: la rivendicazione della lingua è stata una dei primi passi
nelle rivendicazioni se pensiamo al Basco e al Catalano: quando la Catalogna e le regioni Basche
hanno avuto una parte di indipendenza rispetto allo stato spagnolo, hanno chiesto di poter utilizzare
la loro lingua nei documenti ufficiali, nelle insegne dei negozi e strade e nella scuola dove ora c’è
un’educazione bilingue. Il nazionalismo sia basco che catalano portato agli estremi vorrebbe proibire
l’utilizzo del castigliano, quindi la lingua non è mai neutrale, ma viene utilizzata per rivendicare
l’identità.

Ieri abbiamo iniziato a sfatare questi miti sul bilinguismo quindi abbiamo parlato dell’uso piuttosto
che della competenza nativa, che sono in grado di gestire più lingue, che non devono essere paragonati
ai monolingue nelle loro lingue e che il funzionamento del cervello bilingue è diverso da quello dei
monolingui. Abbiamo detto che i bambini bilingui sviluppano una maggiore metalingusiticità che li
aiuta a fare ipotesi e avere una maggiore flessibilità cognitiva e avere strategie di apprendimento più
efficaci. Un’altra grandissima studiosa “Stock?” che si è occupata tantissimo di bilinguismo si è
accorta che i bambini bilingui imparano a leggere prima perché per primi riflettono sul rapporto tra
fonemi e grafemi, una capacità cognitiva che si sviluppa più velocemente. Inoltre abbiamo detto che
i bambini bilingui non presentano ritardi nell’acquisizione lessico, ma dopo 24/30 mesi i bambini
bilingue non sono in grado di produrre lingua, allora è il caso di preoccuparsi: potrebbe essere una
questione di lingua, ma anche questione di disturbi del linguaggio. Si considera un certo ritardo nella
produzione linguistica da parte dei bambini bilingui come un ritardo/disturbo cognitivo, nella
ricezione e produzione linguistica cosa che molto spesso non è. Si tratta solo che i bambini bilingui
iniziano come i bambini monolingue a produrre parole intorno ai 12/13 mesi e hanno delle tappe di
sviluppo che sono paragonabili, soprattutto a livello di comprensione. La produzione a livello
lessicale a tre anni è di 800/900 parole nelle due lingue come il monolingue in una sola lingua.
Gestisce due sistemi diversi e non si può pensare che a tre anni conosca 800 parole in una lingua e
800 parole nell’altre. Di sicuro ne conoscerà un po’ di più ma sono divise tra le due lingue. Il lessico
più ricco sarà nella lingua dominante, ovvero quella utilizzata più di frequente, ci sono maggiori
possibilità di avere una maggiore esposizione all’input lingusitico.

Cosa si può consigliare ai genitori? Come mi devo comportare con i miei figli nella gestione
linguistica? Molto interessante è quello che “Rodjan?” ha analizzato cioè il principio di
complementarità, cioè il fatto che le due lingue sono complementari e vengono utilizzati per scopi
diversi, che non significa dire che il tedesco è la lingua della mamma e l’italiano quella del babbo.
Ma bisogna far capire a questi bambini che le due lingue sono ugualmente importanti, ma ci sono dei
contesti in cui si usa una e dei contesti in cui si può usare un’altra. Non c’è l’idea di una lingua che
prevale sull’altra, ma c’è idea di complementarità. Sempre riguardo ai vantaggi la ricerca scientifica
ci ha detto che i bambini sono più avvantaggiati in aspetti generali della cognizione, per
esempio: aspetti del controllo esecutivo sui meccanismi dell’attenzione, cioè sono più capaci di
controllare quello che stanno facendo. La motivazione può essere che le due lingue sono sempre attive
nel cervello e quindi quest’idea del controllo dei meccanismi esecutivi, è perché loro, avendo due
lingue sono pronti ad inibire l’uso di una o dell’altra. Questa capacità di mettere da parte una lingua
e usarne un’altra è una capacità che ha un impatto positivo sul controllo esecutivo, perché sanno
controllare quello che stanno facendo anche al di la degli usi linguistici. Questo migliora il controllo
e la capacità multitasking o successione di compiti, avendo sempre due lingue hanno la capacità sa
gestire situazioni diverse e compiti multipli nello stesso momento. La presenza di due lingue aiuta
questa duttilità ma anche al controllo delle azioni che si stanno compiendo. Altro mito è che non
esistono bilinguismi più utili di altri per lo sviluppo cognitivo, cioè non deve essere l’utilità per far
mantenere ai bambini il bilinguismo, non si può pensare che il bambino che è bilingue in inglese e in
italiano si sviluppi cognitivamente meglio di un altro, che invece è bilingue in arabo e italiano, è la
stessa identica cosa per quanto riguarda lo sviluppo delle capacità cognitive. Naturalmente il
bilinguismo di élite gode di un prestigio sociale, invece il fatto di essere una lingua che è considerata
di minore importanza provoca sentimenti negativi e strategie di nascondimento.

Monterotondo Mentana sono due comuni intorno alla capitale e sono due comuni in cui una gran
parte degli immigrati in città, scelgono di risiedere perché le case costano meno rispetto alla capitale.
Questo ha determinato che le scuole di queste due comuni, dalla metà degli anni 90 sono state piene
di bambini che provenivano da famiglie di origine immigrata. Li abbiamo potuto notare
l’atteggiamento di questi bambini nei confronti delle lingue di origine. C’erano soprattutto i bambini
di origine albanese che, se noi gli chiedevamo qual è la tua lingua, loro dicevano subito l’italiano,
perché c’erano delle strategie di nascondimento della lingua d’origine legate ad un sentimento di
negatività nei confronti del possesso della lingua albanese. La stessa cosa è successa con i nostri
immigranti, che sono arrivati addirittura a cambiarsi il cognome per non farsi riconoscere come
italiani, perché l’italianità oltre che a essere una lingua diversa, portava con se anche un concetto di
povertà, analfabetismo ma anche malaffare e mafia, quindi tante famiglie avevano scelto di
modificare il nome come tanti attori di origine italiana. Non dobbiamo pensare a quello che succede
ora, dove l’italianità non è percepita con questo sentimento negativo, al contrario, quando il sindaco
di New York, Wilhelm De Blasio, è stato eletto, la prima cosa che ha fatto è stato rivolgersi alla
comunità italiana, cosa che 150 anni fa non sarebbe successa. Questo sentimento nei confronti delle
lingue è una cosa che accomuna tante lingue. La comunità cinese che tende in modo forte al
mantenimento del cinese, ha un’altra attitudine nei confronti della propria lingua. Negli anni 90
venivano mandati dai nonni in Cina perché non perdessero la lingua. Ci sono tanti fattori che
concorrono a queste attitudini, ad esempio l’immigrato italiano in America non voleva tornare, aveva
dei sentimenti negativi nei confronti della madre patria che l’aveva costretto ad andare via, quindi la
prospettiva non era quella del ritorno, ma quella della piena integrazione soprattutto per i figli
all’interno della nuova società. L’immigrato italiano che emigrava in Germania, cosa che succedeva
dopo la seconda guerra mondiale (in America è successo molto prima > le grandi masse sono emigrate
subito dopo l’unità d’Italia dopo il 1860). L’emigrato in Germania o in Belgio pensava di tornare e
quindi l’atteggiamento nei confronti della lingua era diverso anche per i figli, perché avevano questa
idea che loro stessi o i figli potessero tornare a vivere in Italia e quindi l’atteggiamento nei confronti
del mantenimento della lingua era diverso. Quello che voi dovete avere chiaro è che dal punto di vista
dello sviluppo delle capacità cognitive, non esistono bilinguismi più o meno formativi, ma tutti i
bilinguismi portano gli stessi vantaggi. Anche se ci sono ci sono studiosi che dicono se si conoscono
due lingue allora la terza lingua sarà più facile conoscerla, ma dal punto di vista empirico non ci sono
dati molto chiari, si tratta di un tema che andrebbe moltissimo studiato. Un altro vantaggio è che
hanno la capacità di vedere dal punto di vista degli altri. Abbiamo detto che conoscere più lingue
significa vedere il mondo con delle lenti diverse, perché le lingue non sono le stesso sistema trasposto
da una lingua ad un’altra. Il bilingue ha la capacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri e di
immedesimarsi meglio e non vedere le cose da un’unica prospettiva, quello che in termini tecnici si
chiama decentramento cognitivo, cioè la capacità di analizzare una situazione da angolature diverse
che sono rese possibili dal possesso di più lingue. Inoltre praticare più lingue ogni giorno genera un
miglioramento nelle attività quotidiane. Apprendere le lingue fa bene anche da adulti, infatti è stato
fatto uno studio da uno studioso, che si chiama Bach che, insieme ad altri studiosi, hanno sottoposto
degli adulti ad un corso intensivo di gaelico, quindi in Irlanda, mentre ad altri adulti è stato fatto fare
un corso di cucina o di storia: è stato visto che, facendo un test a distanza di tre settimane, quelli che
avevano imparato un ‘altra lingua erano più attenti quindi c’era un miglioramento delle capacità
attentive. Anche imparare una lingua da anziani fa bene, così come fa bene partecipare alla vita
culturale di una società, ma non ci sono tanti studi che lo dimostrano, questo è ancora un campo aperto
e non esiste letteratura sull’apprendimento delle lingue come fattore per un invecchiamento sano. C’è
ancora tanto da studiare su questo e sicuramente la risposta individuale è un fattore davvero
determinante, cioè come ciascuno di noi risponde all’apprendimento delle lingue.

Ci spostiamo verso una parte più applicativa degli studi e ci riferiremo ai lavori che sono stati fatti in
un centro che si chiama “Bilingualism matters” > il bilinguismo conta, sere, che è un centro che è
nato all’università di Edimburgo, grazie alla studiosa Antonella Sorace, che è una delle tre autrici di
quel libro sul cervello bilingue. Lei è italiana, di origine sarda, che è andata a vivere in Scozia, e le
era stato impedito di usare la lingua sarda dai genitori. Si sposa con uno scozzese con cui ha due figli
e si ritrova con il problema di che fare dell’italiano, del sardo, dell’inglese e dello scozzese. Comincia
a occuparsi di tematiche di bilinguismo sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista di
promozione del bilinguismo nella società. Dobbiamo considerare che nelle scuole inglesi, per il fatto
di conoscere la lingua inglese, le lingue straniere si studiano pochissimo perché non sono ritenute
utili. C’è questa idea che se sai l’inglese non hai necessità di conoscere altre lingue, perché sono gli
altri parlare l’inglese con te, in quanto l’inglese ha l’egemonia linguistica mondiale. All’inizio di
questa settimana, chiamata dal ministero dell’educazione irlandese, perché in Irlanda che è una
nazione bilingue e anche l’istruzione può essere impartita in inglese e in gaelico, ma non si insegnano
le lingue nelle scuole e la stragrande maggioranza dei bambini, a parte progetti speciali, non sono
esposti a lingue diverse da queste due. Sono già bilingue però non percepiscono da subito
l’importanza di apprendere altre lingue. Abbiamo quindi fatto una giornata di studio per far capire al
ministro dell’educazione irlandese che invece, apprendere le lingue è qualcosa di importante, però ci
sono tanti paesi in cui non si studiano le lingue, come in America dove non si studiano lingue
straniere. Il Canada è invece è un paese bilingue e quindi c’è una maggiore sensibilità nei confronti
delle lingue.

Da questa situazione Antonella Sorace ha costituito questo centro con l’obbiettivo di sensibilizzare
le famiglie bilingue che non facciamo perdere ai propri figli le lingue di origine. Ha lavorato alla
scrittura di linee guida sulla promozione del bilinguismo costruendo anche una politica per il
bilinguismo. Qui a Siena abbiamo una sede distaccata nella nostra università di questo centro che si
chiama “bilinguismo conta – nuovi cittadini” rivolto a sensibilizzare le famiglie che sono immigrate
in Italia e che decidono di non mantenere la lingua. La domanda è: “perché promuovere il
bilinguismo?” perché può avere uno effetto cognitivo per lo sviluppo del pensiero e diviene più
sensibile e creativo, quindi sviluppa la creatività. I bambini educati in un ambiente bilingue spesso
riescono a riconoscere il valore delle altre culture e differenze culturali. Questa è una competenza
molto ricercata se si vuol combattere i nazionalismi e l’unicità della lingua legata ad una certa identità
e quindi atteggiamento inclusivi. La conoscenza di più lingue aiuta i bambini a sentirsi a loro agio in
ambienti differenti e li induce a una naturale flessibilità. Come vedete, sotto ognuna di queste prese
di posizione, c’è ricerca scientifica, questo accade per davvero. Il plurilinguismo può avere un effetto
positivo del pensiero che diviene più flessibile e creativo. I bambini multilingue mostrano maggiore
flessibilità cognitiva, abilità nel risolvere i problemi e capacità di pensiero elevato, il modo intuitivo
e naturale con cui i bambini imparano le lingue, può stimolarli ad una più approfondita ed ampia
passione per l’apprendimento in generale, cioè se impari le lingue, non solo risolvi i problemi, ma
puoi essere stimolato a apprendere di più e quindi uno sviluppo delle abilità cognitive.
L’apprendimento delle lingue migliora la capacità di comunicazione in generale, perché hai due o più
sistemi dai quali attingere per comunicare. Lasciare che i bambini siano come sono includendo il loro
vantaggio linguistico e culturale, li aiuta a sviluppare una naturale fiducia in se stessi. Questo è emerso
da quello che diceva una vostra collega: “con questa idea di separazione tra le lingue io non mi sento
ne pugliese ne italiana”. Se invece le fosse stato detto da subito che è normale avere due varietà
linguistiche diverse, allora si sarebbe sviluppata molto di più una fiducia in se stessi. Questo è un
problema molto importante per i bambini immigrati, questo fatto di dover abbandonare la propria
lingua significa anche considerare negativa la propria identità di partenza e questo ha un impatto
profondissimo sullo sviluppo psicologico dei bambini, che subisce delle conseguenze abbandonare,
rinunciare tutto quello che riguarda la lingua e la cultura d’origine.

Non dobbiamo mai dimenticare che i contesti socio familiari sono contesti molto diversi, ci sono
bambini che crescono con il dialetto, ci sono bambini che in casa non hanno nemmeno un libro e non
hanno nemmeno le persone che li possono seguire e che nei bambini italiani non c’è questa grande
attenzione, sia ai repertori linguistici di partenza, sia alle condizioni socio culturali; l’obiettivo è
quello di portare tutti al raggiungimento degli stessi obiettivi, ma tutti partono da situazioni diverse
ed è che chiaro che il raggiungimento degli stessi obiettivi sarà impossibile, così come lo sarà per il
bambino arabo che sa poco d’italiano e che si trova a leggere testi difficili anche per bambini italiani
come Dante.

Ci sono sistemi scolastici come quello svedese che sono all’avanguardia che sono da tanto tempo che
per i quali la questione delle lingue e del plurilinguismo è una questione centrale e quindi offrono ora
in più di svedese, perché lo svedese è importante, ma offrono ugualmente ore nelle lingue di origine,
c’è un’attenzione al mantenimento delle lingue d’origine, perché si percepisce come fondamentale,
un atteggiamento aperto nei confronti delle lingue ed un investimento forte da parte dello stato e del
sistema educativo sull’apprendimento linguistico. Se mettiamo a paragone la competenza linguistica
vostra in inglese quando uscite dal liceo e la competenza linguistica che hanno gli svedesi, quando
escono dal liceo, non c’è paragone. Tullio De Mauro diceva che si arrovellava perché, quando in Italia
si dice di conoscere la lingua ad un livello scolastico, significa non saperla per niente. Se questa cosa
la si dice in Svezia significa dire che hai una competenza quasi nativa. L’atteggiamento nei confronti
delle lingue che è diverso e che porta ad investire nella propria lingua, nell’inglese ma anche nelle
lingue d’origine dei bambini, da parte delle singole scuole.

Ci sono tanti stereotipi, perché è chiaro che in primo momento, grazie alle strategie di
intercomprensione, avere lingue che provengono dallo stesso ceppo linguistico come le lingue
romanze o le lingue germaniche, sicuramente può essere un vantaggio, ma non è un vantaggio che
porta avanti anche perché se pensiamo ai momenti più avanzati della competenza linguistica, allora
anche in quei casi, appartenere a due lingue simili, si può rivelare come un handicap perché sei portato
a trasferire nella lingua seconda, tutto il bagaglio della tua L1.

*fine interventi e digressioni prof. e ripresa spiegazione*

Il plurilinguismo promuove nuovi stati d’animo e prospettive globali quindi i bambini bilingue hanno
un’ampia visione del mondo.

I migranti non contribuiscono soltanto con la loro lingua madre ma apportano i tratti culturali nella
loro lingua, quindi questo legame inscindibile fra una lingua e una cultura e quindi un arricchimento
che può avvantaggiare i bambini che stanno intorno. Nelle scuole elementari il bambino è aperto e
curioso e non ha paura della diversità e quindi trovavamo i bambini italiani in questa scuola di
Monterotondo Mentana, che dicevano che conoscevano l’italiano ma anche il rumeno in quanto
conoscevano 20 parolacce. C’è proprio questa attenzione alla lingua degli altri, magari su temi che
erano per loro motivanti come le parolacce. Quando la stessa domanda si faceva invece al ragazzo
della scuola superiore, rispondeva che gli serviva solo l’inglese e non ci sono altre lingue che possono
essere utili, perché l’abbiamo fatto crescere con questo legame con le lingue e la loro utilità.

Bambini multilingui e figli di migranti possono considerarsi un ponte che congiunge il patrimonio
della storia delle loro diverse culture e edifica nuove storie e tradizioni e l’apprezzamento della
diversità.

14° LEZIONE - 7/04/2022


SBOBINATRICE: Sofia Lo Ciacio
REVISIONATRICE: Aurora Muscia

ESAME SCRITTO: 22 giugno – 20 luglio

ESAME ORALE: 24 giugno – 22 luglio

Date provvisorie esame.

8 aprile: lezione dalle 10 alle 11.45 ma in aula magna, perché ci sarà il convegno sui temi del
plurilinguismo e multilinguismo nell’alta formazione. Ci sarà un grande esperto di politiche
linguistiche Joe Lo Bianco, che ci parlerà dell’Australia sui temi delle politiche linguistiche. Nella
mail che ci ha inviato ci ha indicato anche altri momenti di questo convegno che sarebbero utili alla
nostra formazione ma non sono obbligatori. Li ha scelti perché se qualcuno di noi è interessato, può
partecipare. Non saranno argomenti dell’esame, ovviamente. Lei proverà a registrare e poi le
caricherà sulla piattaforma. Non sono obbligatori, non ci chiederà le cose all’esame. L’unico
obbligatorio è quello di domani, 8 aprile.

Altra cosa importante: sovrapposizione orario del venerdì con le lezioni di Vedovelli. In questo caso,
la docente, registra le lezioni e chiede di inviarle le email dal momento che non può caricare le
registrazioni in piattaforma perché non c’è spazio sufficiente. Chi vuole il link le scrive e lei condivide
la lezione registrata.

Oggi facciamo una lezione più movimentata del solito; faremo due cose insieme: per prima cosa un
piccolo riassunto sui temi del bilinguismo e poi vedremo insieme un video che contiene una
riflessione di quella scrittrice americana, bengalese di cui abbiamo parlato Jhumpa Lahiri, sui temi
dell’apprendimento e del bilinguismo da adulti. È una relazione molto interessante che lei fa, mette
in luce le motivazioni per il passaggio da una lingua all’altra e mette in luce il fatto che si possa
diventare bilingui anche da adulti e come lo si possa diventare.

Nelle nostre lezioni precedenti abbiamo detto che sul bilinguismo ci sono tanti stereotipi da sfatare;
stereotipi che riguardano i comportamenti delle famiglie, stereotipi che poi condizionano i
comportamenti all’interno della scuola. Abbiamo visto insieme quali sono i fondamenti scientifici,
invece, relativi ai vantaggi del bilinguismo e ci siamo soffermati su ciascuno dei punti che ci sono
serviti per sfatare questi stereotipi. Sfatare questi con un metodo, con l’evidenza scientifica che mette
in luce ciò che lo stereotipo porta avanti.

Se dei genitori ci venissero a chiedere: ma io sono in una famiglia in cui qualcuno la mia compagna
parla un’altra lingua, che cosa devo fare? Quali consigli daremo? Ecco alcune domande che i genitori
potrebbero fare:

1. Non creiamo confusione nella testa dei bambini? La risposta è NO. I bambini imparano
rapidamente le differenze di parlare tra donna e uomo e imparano subito a riconoscere una lingua
dall’altra. UN tempo si pensava che essere esposti fosse uno svantaggio, ma non è così. È chiaro che
dobbiamo sempre tenere in considerazione che c’è un rallentamento nei tempi ma poi, i vantaggi
successivi, sono oltre che linguistici anche cognitivi.

2. Ma i bambini non confondono le lingue? È chiaro che la gestione di due sistemi, rispetto ad uno,
crei delle maggiori difficoltà. Anche se possono verificarsi fenomeni di code-switching fra una lingua
e un’altra, spesso i bimbi sono consapevoli di questo passaggio e questa consapevolezza è evidente
perché a volta usano altre parole perché magari non conoscono la parola in una delle due lingue, ma
in molti casi c’è proprio una consapevolezza dell’uso perché certe cose vogliono dirle in una lingua,
altre vogliono dirlo in un’altra. Non si deve avere paura del code-switching perché è normale.

Intervento: un ragazzo si è ritrovato con un caso di una donna giapponese che era preoccupata
perché i figli parlavano in italiano con i nonni giapponesi. La cosa importante è far chiarire bene
ai ragazzi il ruolo delle varie lingue ed avere un'esposizione equilibrata a ciascuno di esse. È
chiaro che se le bambine sono fortemente esposte e maggiormente esposte alla lingua italiana e
se quindi la mamma non riesce a trasmettere loro l’importanza di mantenere la sua L1, queste
bimbe possono avere anche un rifiuto dell’apprendimento del giapponese e questo rifiuto si
manifesta con comportamenti sociali; quindi in questo caso nel rifiuto dell’uso del giapponese
con i nonni. È molto importante che i genitori siano pienamente consapevoli anche su cosa fare,
perché si rischia di avere poi comportamenti sbagliati che possono portare poi i ragazzi a non
volere accettare il fatto di potere crescere bilingui. Sono molte le responsabilità dei genitori ma
anche della scuola. La prof non conosce il caso, ogni caso è diverso dall’altro ma la responsabilità
del genitore nel non mettere in competizione le più lingue è fondamentale. Potrebbe anche essere
che un genitori usi una lingua e un genitori usi l’altra, quello che bisogna far capire è che entrambe
le lingue siano importanti.

3. Come facciamo ad insegnare due lingue? Le cose più importanti sono l’esposizione e la necessità.
Esporre in modo equilibrato i bambini ad entrambe le lingue, che non significa parlare lo stesso
numero di ore in una o in un’altra MA magari legare la lingua ad alcune necessità e contesti d’uso.
Se un bambino viene esposto ad una lingua fin dalla nascita e sente che è necessario usare questa
lingua per interagire con il mondo a sé, la imparerà. Allo stesso modo, se viene esposto a due lingue
e ha bisogno di usarle entrambe per comunicare con la gente attorno a sé, le imparerà entrambe.
Invece molto spesso succede che uno dei genitori, e in particolare il genitore che ha una lingua diversa
da quella che viene parlata nel paese in cui si vive, tende a parlare la lingua del paese invece che
continuare a parlare la propria. È chiaro che, se i bambini sentono parlare, nella stragrande
maggioranza delle volte, la mamma o il papà in una lingua che è diversa dalla loro ma è quella del
paese, percepiscono che la lingua del paese è più importante per la mamma o il babbo e quindi sarà
anche più importante per loro.

4. È davvero possibile che i bambini imparino entrambe le lingue semplicemente con


l’esposizione? NO. Ci vuole una grande consapevolezza da parte dei genitori, devono essere questi
ultimi a farglielo capire. Nella maggior parte dei casi una delle due lingue è più importante dell’altra.
Il trucco è quello di immergere i bambini in situazioni in cui solo la lingua “Meno importante” viene
usata, cioè legare una lingua a contesti d’uso e in quei contesti sarà utilizzata SOLO quella lingua.
Es. con i nonni, con la tata, con un gruppo di pari. È molto difficile crescere dei bimbi bilingui; le
lingue si imparano in modo naturale sì, ma ci vogliono conoscere sia da parte dei genitori che della
scuola e ci vogliono conoscenze e una consapevolezza tale da trasmettere ai bambini l’importanza
della necessità delle due diverse lingue. Non è una cosa banale, anche perché nel caso dei fenomeni
migratori quello che prevale è la voglia di integrazione, e spesso questa voglia è legata a questioni
linguistiche, quindi si tende a far dimenticare la lingua delle origini delle famiglie.

5. Non sarebbe meglio insegnare una lingua alla volta? NO. Se si ha la fortuna di vivere in un
ambiente bilingue, bisogna coglierne i frutti. Se si introduce dopo una lingua, i bambini percepiscono
questa come la lingua meno importante e quindi la possono mettere da parte. Prima si inizia, meglio
è. Non c’è un limite di età perché un bambino inizi ad essere esposto ad una seconda lingua; anche
appena nato si può immediatamente parlare in due lingue diverse. Pensiamo come invece questa
esposizione tardiva ad una seconda lingua abbia dominato le pratiche di comportamento di intere
famiglie, perché non si possedevano sufficiente conoscenze scientifiche che invece ci hanno messo
in luce che non c’è nessun problema. Ricordiamoci sempre che la nostra condizione naturale è quella
di essere multilingui, perché siamo capaci di gestire più lingue.

Il centro che ha costruito la docente Sorace a Edimburgo serve a parlare, a trasferire quelle che sono
le conoscenze scientifiche e a divulgare queste a livello delle famiglie, a livello della scuola e a livello
sociale. Quello che manca è questo legame, è come se ci fosse un muro. Ci sono delle pratiche di
comportamento sbagliate e ci sono invece le ricerche scientifiche che mettono in luce le evidenze che
fanno capire come il bilinguismo sia perfettamente gestibile dalla nascita. Manca un’informazione
nelle famiglie e nelle scuole, ma quello che si trova la Sorace a fare serve a questo, a diffondere.

1. È meglio parlare ognuno la propria lingua? Molti esperti suggeriscono il metodo “un genitore-una
lingua”. Attenzione: può avere successo oppure no. Ha successo se c’è consapevolezza del
comportamento da tenere da parte dei genitori. Quindi un primo problema può essere l’equilibrio: se
i bimbi ricevono la lingua “meno importante” da un genitore, l’esposizione può essere insufficiente.
Specialmente se entrambi i genitori capiscono la lingua “più importante”, i bambini potrebbero avere
l’impressione di non avere bisogno di quella “meno importante”. È esattamente il caso dei bambini
giapponesi (vedi sopra) i bambini avranno capito “sì, c’è una lingua più importante. Perché devo
sforzarmi a parlarne un’altra solo per parlare con i nonni?”. Tante famiglie cinesi emigrano, fanno
figli in un altro paese e li rimandano a casa almeno per un anno, affinché non smettano di apprendere
la lingua cinese. È un po’ un trauma ma lo fanno per l’apprendimento, così i bambini continuano a
mantenere la prima lingua. È essenziale trovare altre fonti di esposizione e altri modi di creare un
senso di necessità: per esempio ci sono tantissime possibilità con l’utilizzo di Netflix (cartoni nella
seconda lingua), ci sono i libri, ci sono biblioteche con scaffali multilingui; gli stimoli possono essere
tanti. È facile? No, non lo è. (Es. un cugino della prof ha una moglie francese e tre figli: l’ultimo figlio
che è stato più di tutti in Italia, non vuole imparare l’italiano. Ha capito che c’è stato un trasferimento,
che forse lui avrebbe preferito rimanere dove ha passato i primi 3 anni di vita e ora non vuole imparare
l’italiano). È molto complesso, ma per risolvere occorre consapevolezza di quelle che sono le
possibilità e le potenzialità dell’apprendimento di entrambe le lingue e non come tanti genitori fanno
che pensano che se il bimbo non impara la seconda lingua o impara poco bene la lingua, abbia dei
disturbi e allora cominciano con gli psicologi o i logopedisti. Perché? Manca l’informazione nelle
famiglie e nella scuola. Nella scuola, in particolare, ci sono vari atteggiamenti sbagliati.

Un altro problema è quello di mantenere la situazione naturale. Imporre regole esplicite come per
esempio parlare alcuni giorni una lingua o l’altra, può essere difficile e contribuisce a creare un
atteggiamento negativo.

Un altro problema ancora è l’esclusione. Se uno dei due genitori non parla la lingua dell’altro, i
bambini capiranno che ogni volta che parlano con un genitore, escludono l’altro. Questo potrebbe
rendere il bambino riluttante a parlare una lingua di uno dei genitori quando questi sono entrambi
presenti. I casi sono tanti, vanno studiati, analizzati e attualizzati. L’esclusione è una cosa
importantissima: qualche anno fa è stato fatto uno studio in Veneto per andare ad analizzare il
comportamento di adolescenti italiani nei confronti dei loro compagni di scuola che venivano da
famiglia di origini immigrate e avevano un'altra lingua e cultura. Questi ragazzi di origini straniere
venivano qui e volevano imparare l’italiano per interagire con i coetanei italiani; i ragazzi italiani, per
escludere, hanno ricominciato a parare i dialetti veneti. L’esclusione, in quel caso, si otteneva
attraverso l’utilizzo di una lingua che questi non sentivano come una lingua loro, perché non la
trovavano da nessuna parte. Le questioni linguistiche non sono mai neutre. Ad esempio, Quando
eravamo piccoli, magari, inventavamo delle lingue per non farci capire dai genitori; questa stessa idea
di costruirsi un ambiente a cui possono partecipare alcuni ed escludere l’altro, è una cosa che tutti
abbiamo fatto. È chiaro che bisogna stare molto attenti a ciò che si fa in famiglia. Un’altra questione
importante riguarda il modo in cui, tanti bambini che provengono da lingue diverse, crescono e i ruoli
che questi assumono. In alcune famiglie i bimbi sono gli unici che conoscono bene l’italiano perché
vanno a scuola in Italia e percependo l’importanza della lingua diventano mediatori delle famiglie. È
capitato tante volte di vedere il bambino che diventa mediatore dei genitori durante l’incontro con i
docenti: il bimbo traduce ai genitori. Questo è un dramma per la costruzione dei ruoli sociali. Anche
su questo vedremo un video, su come ridare forza alle famiglie e far capire che devono imparare
l’italiano perché è importante per loro ma non devono nascondere la loro lingua. Ci arriveremo nelle
prossime lezioni.

2. Il ruolo di eventuali fratelli e sorelle è molto importante. Sempre studi, ricerche, hanno messo in
luce che il fratello più grande che ha imparato prima la lingua del paese, per esempio, parli con il
piccolo la lingua del paese. Bisogna stare molto attenti. Sono stati mandati molti questionari nelle
scuole ed è emerso molto questo fatto; cioè che il fratello o la sorella maggiore tendono a parlare con
il piccolo la lingua che ritengono più importante. Bisogna mettere in atto delle strategie per far sì che
il maggiore aiuti nel promuovere anche la lingua meno importante.

3. Mescolamento fra le lingue alcuni pensano sia una tragedia. Invece bisogna far capire che è normale
in situazioni in cui tutti le parlano entrambi; è una normalità e non deve far paura. Anche qui si deve
spingere i bambini a far capire che ci sono dei contesti in cui si parla una lingua e dei contesti in cui
se ne parla un’altra. È facile? No. Ma si deve fare.

Queste erano le domande più frequenti da parte della famiglie a cui abbiamo dato qualche risposta,
MA vanno sempre analizzati situazioni e contesti. Va capito quali sono stati i comportamenti delle
famiglie e come questi comportamenti possano essere in qualche modo indirizzati. Queste domande,
i genitori, dovrebbero farsele anche davanti ai dialetti. Se pensiamo alla situazione italiana, è una
situazione che ha avuto una spinta fortissima dell'italianizzazione e al non utilizzare più i dialetti né
in contesto scolastico né in contesto familiare. Queste domande, i genitori, non se le fanno più perché
hanno tolto dalle prospettive l’utilizzo del dialetto. Ma questa cosa continua molto fra i giovani e
soprattutto è possibile che ci sia una qualche ripresa, soprattutto nei giovani. Abbiamo visto le
statistiche sull’utilizzo alternato delle lingue: uno potrebbe pensare che se il dialetto e legato solo agli
anziani, dovrebbe avere una ricaduta nell’uso; si vede invece che l’uso alternato di lingua e dialetto
continua a permanere. Evidentemente, i giovani, ricominciano a sentire e percepire l’importanza del
dialetto. C’è stata invece la generazione che è andata a scuola negli anni ’60, che queste domande
non se l’è nemmeno poste. Soprattutto se appartenevano a dei ceti sociali più avvantaggiati, non
hanno fatto apprendere il dialetto perché non hanno esposto i bambini al dialetto. Ad esempio, 10
anni fa, veniva spesso detto “Non devi parlare il dialetto” o “non devi costringere i nonni a parlare
dialetto con te”. Il dialetto era visto come una caratteristica di una condizione sociale, economica,
culturale che doveva essere superata. Forse ora i genitori hanno ripreso a farsi queste domande sul
dialetto, ma una volta non se le facevano.

Abbiamo parlato del ruolo della scuola: COSA SI PUÒ FARE A SCUOLA? Bisogna capire
innanzitutto quali lingue sono presenti nelle classi. Molto spesso nemmeno si sa, l’insegnante non se
ne preoccupa di queste cose. Tutto il resto non deve essere considerato. Ricordiamo l’articolo di De
Mauro quando diceva che bisognasse partire dal repertorio dei bambini; un repertorio in cui possono
rientrare i dialetti ma anche le lingue parlate a casa dalle famiglie. Abbiamo visto un’indagine sulla
città di Londra: studiosi hanno mappato la città per le lingue presenti. L’indagine era stata fatta nelle
scuole, si chiedeva ai bimbi quali lingue usassero a casa. Ricordiamo anche che il rapporto fra
cittadinanza e lingua non è biunivoco; ci sono paesi in cui sono 3/400 lingue differenti e quindi la
domanda sorge spontanea, se vogliamo davvero andare a capire quali sono le lingue presenti.

Ci sono anche dei censimenti in cui c’è una domanda sulle lingue; nel censimento italiano purtroppo
non c’è anche se gli studiosi hanno provato a farla inserire ma inserire una domanda costa un sacco
di tempo ed elaborazione, quindi fino ad ora non ci si è riusciti. Ma ci sono censimenti, tipo quello
australiano, in cui viene chiesto quali siano le lingue parlate a casa.

COSA FARE A SCUOLA?

1. Raccogliere le informazioni riguardanti bambini e famiglie, sia attraverso l’elaborazione di un


questionario ma anche tramite colloquio con i genitori;

2. Sviluppare un percorso formativo che miri al mantenimento e alla valorizzazione della L1. Non è
semplice ma ci sono sistemi scolastici, per esempio quello svedese, in cui troviamo una grandissima
offerta di lingue. Un altro sistema in cui vengono messe in rilevanza le lingue è, per esempio, quello
australiano, in particolare nello stato del Victoria. È stato scritta una politica linguistica che mira al
mantenimento di quelle che in Australia vengono identificate come “Community languages” cioè le
lingue delle comunità immigrate. Infatti, se si vanno a vedere le scuole elementari, troviamo decine
e decine di migliaia di bambini di origine italiana che continuano ad imparare la lingua a scuola; la
scuola offre, grazie anche all’appoggio delle strutture delle comunità immigrate, la possibilità di
mantenere questa lingua. In Italia ci sono scuole che offrono alcune lingue, altre che non offrono
proprio nulla.
3. Incoraggiare i genitori a mantenere la L1, parlare con i genitori. L’insegnante a scuola dovrebbe
rendersi consapevole al suo interno e poi collaborare con le famiglie. (Vedremo un esperimento).
Collaborare e dialogare con le famiglie può essere un compito difficile soprattutto se queste ultime
sono convinte che la soluzione più efficace per l’apprendimento della L2 sia parlarvi anche in contesto
familiare. Quindi bisogna dire ai genitori di non comportarsi così; al contrario, è dimostrato che gli
alunni che hanno una forte base di L1 hanno anche delle migliori prestazioni scolastiche perché sono
abituati a gestire codici diversi; quindi trasferiscono questa abilità e competenza metalinguistica in
altri codici. Lo abbiamo visto: sono più creativi, più attenti, sono in grado di svolgere più compiti
contemporaneamente. Quello che dicono gli insegnanti ai genitori però è molto spesso “smettete di
parlare la L1 a casa, perché è un danno per l’apprendimento della lingua della scolarizzazione”.

4. Portare le lingue di origine in classe. Come si può fare? Vedremo un video a riguardo. Si possono
introdurre i differenti sistemi di scrittura oppure incoraggiare l’uso della L1 con i compagni che
condividono quella lingua. In molte classi si utilizza quello che viene chiamato dai ricercatori il
panorama linguistico delle classi per rendere consapevoli sin da subito dell'esistenza di altre lingue e
di altri sistemi di scrittura. Anche questo non è per nulla facile. Un esempio lo vediamo nelle slides
con la scheda operativa: viene proposto di organizzare momenti/ laboratori di apprendimento di una
L1 presente in classe o nella scuola, chiedendo la collaborazione degli studenti o delle famiglie così
da scoprire nuovi sistemi, nuovi alfabeti. Ci sono molti esempi ma isolati e non continui; ciò che deve
cambiare è la mentalità sui temi del bilinguismo e del multilinguismo. Ci sono dirigenti, insegnanti
che capiscono l’importanza delle lingue che fanno sperimentazioni di questo tipo ma sono, appunto,
sperimentazioni. Non c’è un sistema strutturato in cui è la scuola ad offrire programmi di
insegnamento di lingue di comunità presenti nel paese. Consideriamo anche che quando lo Stato ha
meno soldi e la scuola riceve meno finanziamenti, i primi corsi che vengono tagliati sono quelli di
lingue, quindi c’è anche questa questione da tenere presente. Poi bisognerebbe anche fare una scheda
operativa su quali siano le lingue presenti nella classe, un cartellone con le info raccolte. Sono piccoli
esempi, questi, che potrebbero essere utili se mai dovessimo ritrovarci in situazioni simili. Si potrebbe
anche dare visibilità alla diversità linguistica e culturale mediante cartelli di saluto e benvenuto, i
nomi scritti nella lingua di origine, mostrare gli alfabeti e i numeri differenti, giochi, canzoni, storie
in lingue diverse, libri bilingui di fiabe e racconti, quaderni e libri di testo utilizzati dagli alunni nel
Paese di origine.

La prof sta analizzando dei materiali didattici per l’insegnamento della L1, cioè come nei vari paesi
europei si insegna la L1, cioè se l’atteggiamento dell’insegnamento del francese in Francia,
dell’inglese in Inghilterra, del turco in Turchia, mette in luce una visione di una lingua come un
sistema chiuso di forme e di strutture, oppure se cominciano a passare anche nei materiali didattici
questa idea dell’apertura e della ricchezza del multilinguismo. Cosa è stato trovato? Per esempio,
sono stati studiati i manuali di italiano per le scuole superiori in Siria in cui c’è l’arabo e basta, non
si fa nemmeno un grande riferimento ai dialetti arabi; lo stesso accade in Cina, c’è una grandissima
chiusura. Anche in Francia c’è una chiusura e c’è molta attenzione alla lingua francese e alla
correttezza della lingua francese; gli unici materiali che ci hanno fatto vedere un modo diverso di
insegnare anche la L1, sono quelli svedesi. Sono materiali bellissimi che mettono immediatamente in
luce che in Svezia, esistono tante altre lingue, oltre allo svedese, che il code-switching non è un
problema da sanzionare, che le regole possono cambiare nel tempo: c’è un’apertura che noi ci
sogniamo nemmeno. Se ricordiamo i materiali didattici di primaria e secondaria, c’è una grandissima
attenzione alla regola, e più che a lavorare sul testo a lavorare sulla correttezza della frase. Volendo
fare, quindi, si può fare ma c’è tanto ancora su cui lavorare.

Domanda in classe: stiamo parlando di contesti multiculturali come l’Australia, la Francia.. ma


prendendo in considerazione realtà più piccole come il Trentino, scuole limitate e piccole, se un
docente si trova un alunno, uno studente con una L1 di cui non ha conoscenza come, ad esempio, uno
studente che proviene dall’India, allora anche il docente avrebbe bisogno di una formazione per
avvicinarsi a questo contesto? Come dovrebbe comportarsi non avendo conoscenze relative a questa
lingua e cultura?

Altra domanda: quanti docenti sono pronti ad affrontare questo tipo di problema?

Questa è un’obiezione che spesso viene fatta; come fa, una docente, a conoscere tutte le lingue? Il
punto non è questo; il punto è essere convinti dell’importanza di far crescere i bambini bilingui o
multilingui. Poi l’insegnante non è che deve sapere tutte le lingue MA deve essere in grado, e questo
dovrebbe essere sempre presente nella formazione dell’insegnante, deve essere in grado di capire
l’importanza a livello linguistico, cognitivo, psicologico, identitario di far crescere i bambini in
maniera bilingui. I danni che si possono fare facendo nascondere o dimenticare una lingua o una parte
dell’identità sono molto gravi. Vedremo un film in cui si mettono in luce alcuni esempi di modalità
pratiche che si possono adottare nella scuola per aumentare la consapevolezza dell’importanza della
diversità linguistica. Questo non significa pretendere che tutti gli insegnanti conoscano tutte le lingue,
ma pretendere che siano consapevoli che crescere multilingui non sia un problema. Purtroppo noi
dobbiamo lavorare molto su questa questione qui, con la scuola e con la società. Gli esempi che sono
stati portati dai nostri colleghi, ci mettono in luce queste difficoltà, queste problematiche presenti
soprattutto nella scuola.

Concludendo: abbiamo detto che ci sono diversi fattori che hanno consentito di andare oltre il rigido
abito monolingue dell’insegnamento linguistico in ambito scolastico e di promuovere pari
opportunità alle lingue nella pratica didattica. È importante la pari opportunità, il dire “tutte le lingue
sono importanti”. In un quadro decisamente complesso, almeno cinque fenomeni hanno rivestito un
ruolo di primo piano nel cambiamento di prospettiva:

1. La progressiva focalizzazione sull’apprendente nella didattica delle lingue: il QCER parla di un


approccio orientato allo studente e ai suoi bisogni e all’azione comunicativa degli studenti nei contesti
di uso della lingua. Non si insegna a tutti il presente indicativo o il condizionale; la lingua è USO.
Deve servire a fare qualcosa.

2. Il processo di elaborazione dei documenti relativi alla politica linguistica dell’Unione Europea ha
posto in evidenza il plurilinguismo, di cui il bilinguismo non rappresenta un caso particolare.

3. L’espandersi di una realtà multilingue e multiculturale, sempre più diffusa anche nelle aule
scolastiche. Ora è tutto molto più semplice con le opportunità che la rete ci offre.

4. L’ampliarsi degli orizzonti geografici, la maggiore facilità delle comunicazioni che favoriscono e
richiedono più ampia disponibilità e più articolate competenze per parlare la lingua dell’altro. Ora è
tutto molto più semplice con le opportunità che la rete ci offre; quando la prof andava in Argentina a
fare i corsi di aggiornamento, aveva una valigia solo di giornali e libri perché lì non arrivava niente.
I docenti erano costretti a fare lezioni con materiali molto vecchi e non aggiornati; loro erano felici
di riceverli. Ora è cambiato tutto, si trova di tutto sui social, su internet; la possibilità è davvero ampia:
si possono far mantenere rapporti con i coetanei che vivono nel paese in cui la loro lingua è parlata.

5. La necessità di sviluppare curricoli più flessibili e modelli di insegnamento più efficaci nell’ottica
dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita.

Adesso vediamo una testimonianza importantissima.

Jhumpa Lahiri è una scrittrice di origine indiana, abbastanza famosa anche perché ha vinto il premio
Pulitzer. Una scrittrice che ha vinto il Pulitzer in America, scrivendo in inglese; una scrittrice all’apice
del successo, i suoi libri sono conosciuti in tutto l’ambiente anglofono. Il Pulitzer è il premio più
importante per uno scrittore americano. Lei viene in Italia, si innamora della lingua e della cultura
italiana e decide di imparare a parlare e a scrivere in italiano; da lì comincia a scrivere in italiano. Per
uno scrittore è una scelta di vita spaventosa: pensiamo al bacino di destinatari di un romanzo scritto
in inglese e al bacino di destinatari di un romanzo scritto in italiano. È anche una questione
economica.

La testimonianza è nel link di seguito e sull’e-learning si trova la trascrizione della lectio magistralis.

https://www.youtube.com/watch?v=-o43_nWuf9M

La prof ci chiede “si può diventare bilingui da adulti? Cosa ci ha colpito del video?” Facciamo prima
di tutto un’analisi linguistica: quello che colpisce è l’utilizzo di un lessico, un lessico estremamente
ricercato. Utilizza delle parole che a noi sembrano un po’ stridere; ci consiglia di leggere il libro “In
altre parole” di Jhumpa Lahiri.

Intervento: mostra come le persone non siano naturalmente propense a vedere il multilinguismo
come una buona cosa. Anche il fatto che tutti le chiedessero perché avesse scelto di scrivere in un’altra
lingua e lo vedessero come un tradimento. Questa cosa dava fastidio, di come le persone dessero
sempre per scontato che lei non parlasse in italiano e magari la trattavano in modo diverso; lei però
ha sempre cercato di dimostrare alle persone come sia una ricchezza infinita l’avere, il possedere, il
sentirsi parte di tutte le lingue.

Ad un certo punto, la scrittrice, riferisce una cosa che gli altri le chiedono: “Perché non hai imparato
una lingua indiana che è una lingua che ti assomiglia?” Ci rendiamo conto di come gli stereotipi
possano crescere? Lei deve allora, eventualmente, imparare la lingua che è più simile a lei perché è
la lingua della sua famiglia. Le chiedono poi “perché l’italiano? E perché hai voluto affrontare
l’apprendimento dell’italiano nell’abilità che è la più complessa da raggiungere? Perché proprio la
scrittura creativa?”

Lei risponde perché aveva bisogno della sua libertà, aveva bisogno di una lingua che non le era
imposta per legami familiari, che non le era imposta dal fatto che avesse vissuto in un altro paese ma
aveva bisogno di una lingua con cui si potesse sentire libera. Allora, appunto, abbiamo potuto
ascoltare sia dal punto di vista della pronuncia, a volte si sente che c’è qualche problema ma magari
tanti italiani parlassero come lei.

La prossima settimana ci concentreremo sulle metafore per capire il percorso di accesso e di sviluppo,
anche raccontato da una persona che non condivide con noi lo stesso apparato concettuale; è
interessante capire qual è il punto di vista di chi non è linguista ma che lo fa per imparare a scrivere.
Però qui abbiamo visto che è importante mantenere il bilinguismo a scuola, bisogna insegnare,
bisogna rendere consapevoli, trasmettere le conoscenze della ricerca scientifica; si può diventare
bilingui da adulti? Certo, lo si può diventare anche da adulti. Basta non avere paura di accedere a
lingue e culture diverse. la prossima volta ci concentreremo sulle metafore.

15° LEZIONE - 8/04/2022


SBOBINATRICE: Aurora Muscia
REVISIONATRICE: Alessia Pucci

Language(s) and the construction of knowledge in European HE


Antonella Sorace:

Sono state fatte alcune ricerche secondo la quale alcune persone hanno una maggiore capacità ad
apprendere una seconda lingua anche da adulti; la lingua nativa in questo caso viene definita più
aperta al cambiamento, questi soggetti utilizzano dunque la lingua nativa per ricercare parole o
espressioni che si vogliono comunicare. Per esempio, si è notato che in alcune comunità urbane o
suburbane dell’Europa ci sono bambini che utilizzano una lingua dominante solo all’interno di un
gruppo o fuori con i propri coetanei, acquisendo la lingua dominante solo attraverso i processi di
gruppo. Da questi esempi si nota come il cambiamento è dato grazie alle situazioni di contatto
linguistico. I cambiamenti linguistici sono interamente naturali, prevedibili e non comportano uno
svantaggio per le altre lingue o per la lingua madre. Inoltre, l’integrazione linguistica grazie
all’apprendimento di una nuova, permette di arricchire la prima, anche se spesso le comunità tendono
a preservare la lingua dominante. Da questi presupposti possiamo dunque affermare che i pregiudizi
verso le lingue minoritarie sono infondati, dato che la nostra società è una società multilinguistica, e
questo concetto si deve preservare e mantenere.

Raphael Berthele:

I concetti esposti da Antonella Sorace fanno parte del primo sviluppo di un pensiero plurilinguista e
multilinguista, rivolto dunque maggiormente a livello dell’insegnamento e dell’apprendimento di
un'altra lingua.

Già in passato molti linguisti erano già consapevoli della variabilità delle lingue, un grande esempio
lo può dare Chomsky. Molte di queste ipotesi, dunque, sono abbastanza vecchie. Dalle recenti
scoperte però possiamo notare che non tutte le lingue si possono tramandare attraverso
l’insegnamento, ad esempio in Svizzera si sono sviluppati programmi di insegnamento multilingue,
ma non si può mai arrivare ad insegnare una varietà così vasta di lingue, cosa dovrebbe fare allora il
docente per promuovere il multilinguismo?

Per valutare questo, spesso si cerca di analizzare il comportamento dei bilingui per capire quali sono
i riscontri positivi o negativi, ma si può constatare che non si può avere un riscontro positivo senza
uno negativo. Le lingue, dunque, sono solo costruzioni sociali, rappresentano le tradizioni e le
interazioni sociali, dunque, a mio parere bisogna sbarazzarsi dei nomi per definirli, perché non
necessitano di una definizione, dato che sono tradizioni culturali. Di fondo il parlante nativo si può
ritenere un razzista e le norme che definiscono le lingue sono norme razziste.

Da questi presupposti quindi, invece di classificare e dare un nome a tutte le lingue si dovrebbe invece
approfondire le variabilità del linguaggio e distinguere o meglio riconoscere semplicemente che ci
sono lingue più conosciute ed altre meno conosciute. Il linguaggio dunque è prototipico. Bisogna
sviluppare una nuova concezione della lingua, per esempio bisognerebbe non separare le lingue, un
esempio sono i vari corsi dedicati all’apprendimento di una lingua, che di base classifica e divide i
vari livelli e le lingue in generale. Bisogna dunque integrare le varie lingue così da sviluppare un
vero e proprio nuovo multilinguismo.

Per approfondimenti → Vedere registrazione - conferenza Melbourne University.

16° LEZIONE - 13/04/2022


SBOBINATRICE: Anna Uez e Aurora Muscia
REVISIONATRICE: Alessia Pucci

*Simposio sul multilinguismo* → ne riparliamo tra qualche settimana quando affronteremo più
direttamente il tema di come i principi e le teorie enunciate sul multilinguismo e su ciò che è stato
detto di esso in Europa (sovvenzioni, convenzioni, quadro Europeo, ecc per promuovere e finanziare
il multi e plurilinguismo) andremo a vedere come sono stati applicati in vari contesti sociali come la
scuola e l’università.

Oggi riprendiamo quello che avevamo iniziato l’altra volta: la riflessione sul BILINGUISMO e in
particolare sulla POSSIBILITA’ DI DIVENTARE BILINGUE IN UN’ ETA’ NON PRECOCE.
Tramite l’autrice Jhumpa Lahiri, stiamo vedendo il punto di vista diverso, non quello di uno studioso
che da sempre si è occupato di bilinguismo quindi lo conosce sia nei meccanismi di apprendimento e
sa come si muove, come funziona in tutta la nostra attività cerebrale durante l’apprendimento; e non
si tratta nemmeno del punto di vista di chi ha potuto osservarlo sul campo, come ad esempio con i
bambini. Noi vediamo il punto di vista di una scrittrice che ha deliberatamente scelto di sentirsi a casa
in una lingua diversa dalle lingue che facevano parte del suo repertorio linguistico. RICORDIAMO:
Lei ha origini indiane, è nata in Inghilterra e trasferita poi negli Stati Uniti; è quindi nata e cresciuta
in un ambiente completamente anglofono. La scelta è stata ancor più coraggiosa perché ha scelto di
apprendere e usare per la sua professione una lingua di nicchia, non certo una delle grandi lingue del
mondo, ma una lingua che dal punto di vista professionale le impediva di avere un accesso
numericamente più ampio di destinatari dei suoi romanzi. Scrivere in italiano è tutt’altra cosa che
scrivere in una lingua che è conosciuta in tutto il mondo, e non solo parlata come L1.

E’ sicuramente una scelta coraggiosa, tanto che lei ha detto di esser stata costretta a superare tanti
stereotipi che circondavano questa sua scelta, come quando le chiedono: “Perché non hai scelto una
lingua indiana che più si addice alla tua figura?”, come se una lingua si addicesse ai tratti e alle
caratteristiche somatiche di una persona.

Lei sostiene di aver scelto la libertà, perché utilizzare questa lingua, di cui lei tramite una metafora
forse eccessiva dice di esserne innamorata, ha costituito per lei un elemento di libertà. Continuando
ad ascoltarla, andiamo a vedere come il processo di apprendimento di una lingua può essere visto e
analizzato da una prospettiva diversa. Ritroveremo tanti temi di cui abbiamo già trattato nelle nostre
lezioni. Lei ricorre all’utilizzo di 3 metafore, dicendo che per lei imparare una nuova lingua ha
significato compiere 3 azioni e le identifica attraverso 3 metafore.

Lei dice ad un certo punto che è stata la lettura di alcune autrici che le ha permesso di spiegare a se
stessa le motivazioni e le azioni che stavano dietro all’apprendimento di una nuova lingua.

PRIMA METAFORA → Jhumpa Lahiri trae questa metafora dagli scritti di Lalla Romano, una
scrittrice italiana del ‘900, che scrisse un libro dal titolo “METAMORFOSI”, fortemente simbolico
per la nostra autrice. Lahiri dice che già dal titolo è riuscita a trovare qualcosa che descrivesse il suo
passaggio di stato: lei imparando una lingua sta compiendo un grande cambiamento. Lalla Romano
usa l’espressione metamorfosi nel suo titolo perché in quel momento stava passando da un mezzo di
espressione ad un altro, cioè da essere una pittrice stava diventando una scrittrice. Jhumpa dice che
anch’essa sta facendo un passaggio da un mezzo di espressione ad un altro, ovvero da una lingua ad
un’altra. Poi, all’interno di questo volume, lei trova un racconto dal titolo “Le porte” e che parla di
un sogno che è vissuto cercando di passare da una porta ad un'altra, mentre si cerca di evitare che le
porte si chiudano prima del passaggio. Lei dice che questa metafora descrive pienamente il percorso
che lei ha fatto per appropriarsi il più possibile della lingua italiana.
Lahiri dice delle cose che sono raccontate in modo letterario ma ripetono chiaramente quella che è
la fatica dell’apprendimento di una lingua.

Innanzitutto lei dice che è un movimento ASINTOTICO. Ciò significa che è un percorso che si
avvicina sempre senza mai però arrivare al punto in cui si pensa di dover arrivare. Apprendere una
lingua è qualcosa che è sempre in movimento ma non ha un fine, non si giunge mai al punto. Al
convegno della settimana scorsa si è parlato a lungo del parlante nativo ideale, ma è ideale proprio
perché non esiste. Abbiamo poi parlato di lessico, dicendo che il lessico di una lingua cresce, aumenta
e non tutti possiamo conoscere tutto. Io conosco alcune parole che un altro conosce, sebbene entrambi
possiamo essere parlanti nativi.

Con dei termini e delle metafore letterarie Jhumpa Lahiri mette in luce questo fatto per cui la lingua
sia come costituita da dei cerchi concentrici che si ampliano continuamente ma non trovano mai una
fine, abbiamo parlato di variabilità e incrementabilità del lessico e dell’imprevedibile mutamento
delle accezioni delle parole; sono tutti termini più tecnici che però mettono in luce ciò che dice:
imparare una lingua è un movimento asintotico, ovvero non si arriva mai dove si crede di dover
arrivare.

Lei continua e dice ugualmente che il suo apprendimento della lingua è stato come aver cercato di
aprire delle porte molto complesse e difficili da aprire. La porta della comprensione si è aperta molto
più facilmente, poi la porta della produzione orale e poi, dice lei, è andata molto più oltre perché ha
cercato di aprire la porta della lingua scritta, come strumento da utilizzare al massimo. Lei dice di
aver poi continuato ad aprire altre porte, che sono poi le stesse porte che gli hanno fatto aprire gli
altri, ovvero quelli a cui lei ha chiesto di rileggere i suoi scritti.

Questa è mediazione, metalinguisticità, lei ci racconta ciò di cui noi abbiamo parlato in tutte queste
lezioni. Prosegue Lahiri dicendo che la porta può essere considerata sotto una doppia angolazione:
come barriera ma anche come ingresso. Noi sappiamo bene, e gli studi lo dimostrano, che
l’approssimarsi ad una lingua si muove esattamente per barriere e poi per ingressi, per stadi e per
passi di avvicinamento.

E’ interessante ascoltare come una scrittrice che diventa bilingue da adulta vive questo percorso e lo
vive in maniera pienamente consapevole, perché percepisce e cerca di descrivere quei percorsi e
quelle tappe che la ricerca scientifica ha messo a punto sull’apprendimento.

*Riflessione* → Lei ad un certo punto parla della “lingua nostra che non è la mia”, nel senso che è
qualcosa di condiviso ma che non sente pienamente suo. Inoltre alla fine lei dice che “l’italiano è una
lingua inclusiva”. Questo è un aggettivo che descrive una percezione della lingua italiana condivisa
da tantissime persone che vi si avvicinano, che essa sia una lingua che non ti respinge ma che ti
accoglie. Tanti la considerano la lingua della mediazione e della pace, che favorisce il rapporto con
gli altri.

SECONDA METAFORA → Jhumpa Lahiri prende in analisi il libro di Lalla Romano intitolato
“Diario ultimo”, scritto dalla Romano quando era quasi cieca, infatti il testo è quasi illeggibile. È un
testo intimo, frammentario che ha la necessità di esprimersi attraverso le parole e visioni frammentate.
Lahiri, come la Romano, scrive con mano incerta quando scrive in italiano; questo descrive
perfettamente il suo percorso di apprendimento dell’italiano perché Lahiri ritiene che non
conoscendolo a fondo ne possieda una visione parziale, ma allo stesso tempo rappresenta uno stimolo
perché la rende più attenta alla scrittura e alla scelta degli strumenti e dei mezzi con cui vuole
esprimersi. Lahiri afferma che nella sua lingua madre lei attua un comportamento cieco poiché
conoscendola bene non tende ad aumentare la sua conoscenza, dato che la conoscenza di essa è
scontata. Lahiri infatti, esce dalla cecità grazie all'apprendimento dell’italiano perché attraverso la
conoscenza di una nuova lingua può vedere il mondo con occhi diversi. Le parole di una lingua sono
strettamente legate a una storia e nei margini si trovano le maggiori possibilità di espressione. Per
Lalla la cecità era una sofferenza anche fisica mentre per lei no, anzi può rappresentare il trampolino
di lancio per migliorare e apprendere sempre di più. La scrittrice, infatti, ha deciso di utilizzare
l’italiano per sperimentare nuovi occhi.

TERZA METAFORA → Lahiri approfondisce il termine “innescare”, termine utilizzato da


Ferrante nel romanzo “La figlia oscura”. Questa metafora è abbastanza potente perché approfondisce
il cambiamento tra una lingua e un’altra, definito anche come “innesto”. Il romanzo narra di una
donna che abbandona i figli e si accorge di come per lei i propri figli rappresentino un innesto. La
scrittrice, leggendo il romanzo e analizzando il termine innesto, confrontandolo con il termine inglese,
rivela come di fondo sia un termine botanico, che indica il processo attraverso il quale si ottengono
frutti migliori; da un innesto, infatti, possono nascere dei fiori, ma allo stesso tempo questo può
indicare anche l’incastro, il collegamento o la trasformazione di qualcosa. La scrittrice prende questo
termine perché rappresenta di fondo l’apprendimento di una nuova lingua come l’italiano, da un lato
però teme anche lei, come la madre di Ferrante, che il frutto sia un innesto sbagliato perché attraverso
l’innesto possiamo rifiutare le nostre origini. La cosa più importante, afferma, è che innestarsi in una
nuova lingua significa entrare in un altro mondo. Questo riprende la permeabilità della lingua dato
che la lingua non ha confini e si rinnova nel contatto; attraverso la sua scrittura lei porterà qualcosa
attraverso questo innesto. Attraverso l’apporto creativo si crea qualcosa, quindi le lingue possono
mutare, le lingue entrano in contatto e si condizionano l’una con l’altra.

***

17° LEZIONE - 21/04/2022

SBOBINATRICE: Alessia Pucci


REVISIONATRICE: Elvira Trebisondi

Bilinguismo, multilinguismo, plurilinguismo: politiche per l’educazione


linguistica in Italia e in Europa (seconda parte del corso).
Le politiche linguistiche ed educative in Europa e in Italia.
Vedremo come le politiche linguistiche ed educative (che mirano alla promozione del multilinguismo
e del plurilinguismo) sono state applicate e, in particolare, ci soffermeremo su come vengono
applicate nel nostro paese. Le politiche educative e linguistiche non rappresentano una materia in cui
l’Unione Europea può legiferare, ma su queste materie opera in regime di sussidiarietà: può dare
indicazioni che provengono sia dall’Unione Europea (e in particolare dal Consiglio e dal Parlamento
Europeo) che dal Consiglio d’Europa.

La lezione di oggi si basa su una ricerca del 2012 che si intitola Language Rich Europe (= un’ Europa
ricca di lingue); aveva come sottotitolo "il multilinguismo per le società coese", ovvero società in cui
la compattezza sociale era importante e che attraverso il multilinguismo potevano diventare più
ricche. È evidente la duplice natura del multilinguismo: attraverso la diversità linguistica, la
valorizzazione e la promozione delle lingue degli altri si arriva a una maggiore coesione sociale e a
una maggiore stabilità nelle società; dall’altra parte si valorizzano le lingue come strumenti per poter
prosperare e vivere meglio, anche nel senso di poter utilizzare quel valore economico che il
multilinguismo può portare.

Il progetto era finanziato dalla direzione generale educazione e cultura della Commissione Europea
ed era un progetto guidato dal British Council (organismo che ha come obiettivo la promozione e il
sostegno della lingua e della cultura inglese). Questo progetto è precedente alla Brexit, infatti ad oggi
la Gran Bretagna come coordinatore non gode più del sostegno dei fondi europei. Il progetto era
gestito dal British Council e supervisionato da un comitato di direzione formato da vari rappresentanti
UE, da vari Istituti di Cultura nazionali e da varie organizzazioni; aveva come partner scientifico,
come guida per le scelte scientifiche il Centro per gli Studi delle Società Multiculturali che si trova
all’interno dell’Università di Tilburg (Olanda) ed è denominato Centro Babylon.

Quello che ci interessa di questo progetto non sono tanto i risultati ottenuti, ma il modo in cui è stato
costruito e il modo in cui sono stati definiti degli indicatori che sono basati su risoluzioni,
convenzioni, raccomandazioni dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa, con l’obiettivo di
analizzare le politiche linguistiche europee. Sono stati analizzati tutti i documenti (risoluzioni,
convenzioni, raccomandazioni, report, studi) che l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa hanno
pubblicato nel corso degli anni a partire dal 2000; a partire da questi documenti sono state tratte le
indicazioni più importanti che l’UE e il Consiglio d’Europa hanno dato in quegli anni sul tema del
multilinguismo e dell’educazione linguistica. Una volta analizzati questi documenti, sulla base delle
indicazioni ricavate, siamo andati a vedere come, in 24 paesi europei, queste indicazioni venivano
messe in pratica; tutto questo è stato fatto attraverso l’utilizzo di un questionario.

Qual era l’obiettivo di questo progetto? Era di costruire uno strumento che potesse aiutare i paesi ad
autovalutarsi in riferimento alle indicazioni europee. Quali sono gli stati che maggiormente o in modo
minore hanno applicato le indicazioni europee? L’obiettivo quindi era quello di verificare e, allo
stesso tempo, permettere a stati e regioni di avere uno strumento per vedere dove poter fare di più e
dove era stato fatto un buon lavoro.

Obiettivi generali: facilitare scambio di buone pratiche. Se in alcuni stati o regioni i temi del dialogo
interculturale, dell’inclusione sociale erano stati ben sviluppati, queste buone pratiche potevano
servire da esempio anche per altri paesi; si poteva arrivare a una cooperazione europea nello sviluppo
di politiche linguistiche nei diversi contesti scolastici ed educativi e anche all’interno della società.
L’obiettivo era anche quello di fornire alle istituzioni nei vari stati membri una maggiore conoscenza
e consapevolezza di quelle che sono le indicazioni europee per la promozione dell’apprendimento
linguistico e della diversità linguistica in tutta Europa.

Quello che interessa di questa ricerca non sono i risultati (che spesso non sono attendibili perché al
questionario non sono sempre state date risposte oneste), ma è il metodo utilizzato perché è un metodo
che, se davvero al questionario fossero state date risposte più franche, avrebbe portato a dei risultati
che rappresentavano bene la situazione in Europa.

Che cosa è stato fatto in questo progetto? Sono stati selezionati tutti i documenti dell’Unione Europea
e del Consiglio d’Europa che avevano come oggetto il tema del multilinguismo e della promozione,
dell’uso e dell’apprendimento delle lingue. Dalla lettura di questi documenti sono state estratte quelle
che sono le indicazioni sulle lingue.

Ovviamente questa ricerca si ferma al 2011/2012, ma negli anni successivi sono stati prodotti altri
documenti in tema di lingue; ad esempio, nel 2017 si ha una delibera del Parlamento Europeo in cui
si dichiara che l’UE ha inserito l’apprendimento delle lingue tra le sue priorità più urgenti.
Uno degli obiettivi della politica linguistica dell’UE è che ogni cittadino abbia la padronanza di altre
due lingue oltre alla propria lingua madre.

Il concetto di lingua madre è piuttosto vago dal momento che in Europa la diversità linguistica è
diventata sempre di più un dato di fatto; è evidente che la lingua madre potrebbe non essere una sola.
Negli anni successivi l’UE ha evidenziato che la lingua che è fondamentale apprendere per ciascuno
è la lingua della scolarizzazione, alla quale si aggiungono altre due lingue. L’idea dell’Europa è che
un cittadino si possa definire come alfabetizzato se conosce almeno 3 lingue. Perché si è modificata
la definizione di "lingua madre" in "lingua della scolarizzazione"? Prima di tutto perché il primo è un
termine che potrebbe non riflettere la realtà. Una questione che è diventata sempre più ingente da
gestire è quella della presenza di bambini provenienti da contesti familiari di origine straniera,
bambini nati nel paese in cui stanno andando a scuola ma provenienti da un contesto diverso. Nei più
recenti documenti alla definizione di "mother tongue + 2" adesso si preferisce utilizzare "schooling
language + 2"; di queste due lingue in più, per quanto riguarda i bambini di provenienza immigrata,
una è la lingua madre di provenienza.

In un meeting che si è svolto a Bruxelles nel 2018 Kristina Cunningham, che allora era il funzionario
più alto in grado per la Commissione Europea e si occupava di promozione della diversità linguistica
e dell’apprendimento linguistico, disse che l’Europa si stava impegnando a fornire strumenti ai
bambini di origine immigrata per apprendere la lingua della scolarizzazione perché potessero
utilizzarla a pieno ma insieme alle loro "home language(s)", le lingue che sono parlate nelle loro case.

Home language = la lingua o le lingue parlate in casa. Possono essere anche più di una, e potrebbero
non essere una delle lingue madri. La situazione linguistica è talmente complessa che il concetto di
"mother tongue" era un concetto che non riusciva a definire la situazione.

Gli obiettivi che riferiva la Cunningham come obiettivi europei erano quindi: supporto alla lingua
della scolarizzazione, mantenimento delle lingue madri e apprendimento di altre lingue europee.
Comunque, l’attenzione dell’Europa nella costruzione di politiche linguistiche (che poi
corrispondono a finanziamenti agli stati membri per il raggiungimento degli obiettivi) è sempre stata
quella verso la dichiarazione dell’importanza della diversità linguistica e la promozione
dell’apprendimento e della conoscenza di almeno 3 lingue (lingua della scolarizzazione più altre due
lingue).

Ci sono tantissimi documenti europei che si occupano di politiche linguistiche. Provando a estrapolare
dai documenti europei di quali temi l’Europa si era occupata e su quali settori aveva dato indicazioni
sulle politiche linguistiche sono emersi vari domini di ricerca: l’Europa da indicazioni sulle lingue
nell’istruzione prescolare (è importante che già dalla scuola dell’infanzia vengano introdotte delle
lingue), in quella primaria, secondaria, in quella degli adulti; ci sono risoluzioni che riguardano i
media audiovisivi e la stampa; ci sono indicazioni che riguardano i servizi e i luoghi pubblici e altre
ancora che riguardano le imprese. C’è poi un metadominio che riguarda le lingue dei documenti
ufficiali e nelle varie banche dati: che cosa si dice relativamente alle lingue nei documenti ufficiali
dei singoli stati europei. Il panorama di analisi e suggerimenti che l’Europa ha dato e continua a dare
in tema di lingue è molto vasto e riguarda vari settori e aspetti della nostra vita sociale.

Di quali lingue si è occupato questo progetto? Quali provvedimenti erano stati presi dai singoli stati
europei su varie tipologie di lingue? Prima fra tutte la lingua nazionale: che cosa dicono i documenti
e le varie costituzioni dei paesi europei riguardo alle lingue nazionali? Si è poi visto come vengono
trattate le lingue straniere nei vari stati: sono quelle lingue che non sono apprese in casa, ma quelle
lingue che sono insegnate a scuola o usate come lingue di comunicazione più ampia nei settori non
educativi. È stato analizzato il modo in cui venivano trattate le lingue regionali o minoritarie, cioè
quelle lingue che sono storicamente utilizzate nell’ambito di un territorio preciso di uno stato, da
cittadini di quello stato che però costituiscono un gruppo che è numericamente inferiore al resto della
popolazione dello stato stesso. Le lingue regionali o minoritarie dette di antico insediamento. Infine
è stato analizzato come sono state trattate le lingue immigrate, cioè tutte quelle lingue che sono entrate
nei vari paesi europei a seguito dei processi migratori, e in particolare di quei processi migratori che
si sono intensificati nei paesi europei soprattutto a partire dalla fine degli anni ottanta/inizio novanta
con la caduta del muro di Berlino. Nel progetto è stato visto come lingue nazionali, straniere,
regionali, minoritarie o immigrate vengono considerate nei vari domini che sono stati individuati.

Ai primi 4 domini si è potuto dare una risposta su dati disponibili a livello pubblico e provenienti da
fonti ufficiali. Dal punto di vista della metodologia della ricerca si chiamano "dati secondari", ovvero
dati che si possono trarre da politiche e pratiche comuni a livello nazionale e regionale.

Per quanto riguarda i domini da 5 a 8 i dati sono stati raccolti su tre città per ogni paese; ad esempio
per l’Italia sono state scelte Roma (in quanto capitale), Milano (il cuore dello sviluppo imprenditoriale
italiano) e Trieste (perché in questa città vive una delle minoranze di antico insediamento, ovvero
quella che parla la lingua slovena).

Perché sono state scelte le città?

Prima di tutto perché il multilinguismo è più diffuso nelle aree urbane: i nuovi arrivati vanno
soprattutto nelle città perché è lì che si trovano le maggiori occasioni di lavoro. Nelle città vengono
rafforzate le dinamiche che cercano di rispondere alla diversità linguistica. Nelle città c’è maggior
presenza di persone che parlano lingue diverse anche per una maggiore presenza di turismo. Altro
motivo per scegliere le città è che vi si trovano le grandi istituzioni di istruzione superiore e di
formazione di alto livello (dominio 5): si è visto cosa succede in tema di lingue nelle Università. Poi,
pensando al dominio n. 6 che riguarda i media, è chiaro che in città è più facile trovare stampa
internazionale, cinema e stazioni televisive.

Gli amministratori delle città devono pianificare le politiche locali in materia di multilinguismo
(dominio 7); in una città come Siena l’offerta degli amministratori dovrebbe essere un’offerta
plurilingue. Altro motivo è che la sede di molte imprese si trova nelle città (dominio 8). Le città sono
state scelte proprio perché erano i luoghi che davano una maggiore possibilità di risposte rispetto alle
domande che venivano poste.

Per il primo dominio, e in particolare per quanto riguarda l’Italia, si è andati a vedere in quali
documenti italiani si parla di lingua o lingue. La Costituzione italiana pone una grandissima
attenzione sulla lingua, tanto che le parole con cui è scritta appartengono per più del 90% al
vocabolario di base (quella parte di lessico conosciuta da tutti coloro che hanno frequentato la scuola);
questo proprio perché doveva essere un documento compreso da un numero più alto possibile di
cittadini italiani. Leggendola, si nota che la costituzione non dice niente riguardo all’ufficialità della
lingua italiana; l’ufficialità della lingua italiana è sancita solo da alcune sentenze della Corte
Costituzionale italiana. Menziona la parola "lingue" tre volte ma solo per proteggere altre lingue. Non
è mai presente il sintagma "lingua italiana".
Nella Costituzione si parla di "lingua" all’articolo 3 («Art 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale
e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali.»), in cui si dice che la differenza di lingua non deve essere
un ostacolo all’uguaglianza tra i cittadini.

Nell’articolo 6: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.» Le minoranze
sono considerate importanti, e più che all’italiano ci si riferisce alle lingue degli altri. La stessa cosa
si ritrova all’articolo 111 della Costituzione che parla del giusto processo e dice che la legge assicura
che una persona accusata di reato sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua
impiegata nel processo.

Tutte le volte in cui compare la parola lingua nella Costituzione italiana, compare più come tutela
delle lingue degli altri invece che come tutela della lingua italiana.

Perché i padri costituenti hanno scelto questa linea in tema di lingue? È una scelta motivata da
questioni storiche e politiche: è una reazione agli eventi che avevano interessato l’Italia nei decenni
precedenti. Due studiosi, Costa e Salvati, dicono che la Costituzione:

«è una risposta ragionata e meditata a esigenze e aspettative che attraversavano l’intera storia otto-
novecentesca: nasce dalla volontà di lasciarsi alle spalle il totalitarismo sconfitto e di costruire un
nuovo ordine politico-sociale finalmente libero dalla paura e dal bisogno, capace di onorare le
promesse che, negli anni della guerra, avevano alimentato la resistenza al fascismo e al
nazionalsocialismo».

Ruolo della scuola

La riforma Gentile nella scuola (R.D. 1 ottobre 1923) sanciva l’obbligo dell’uso dell’italiano come
unica lingua di istruzione in tutte le scuole del regno, quindi la lingua comune fu vista come elemento
di coesione nazionale; nella riforma gentile si lasciò possibilità, in aree in cui erano presenti
minoranze linguistiche, di studio di lingua locale con ore aggiuntive. Nel 1925, con il ministro Fedele,
si abolì completamente l’insegnamento delle lingue minoritarie.

Alla fine degli anni ’30 la xenofobia linguistica arrivò a livello altissimo: venne vietato ai genitori di
dare nomi stranieri a bambini con cittadinanza italiana; tra il 1939/1940 ci fu il progetto di
italianizzare cognomi stranieri di persone che da generazioni erano in Italia; si cambiarono alcuni
nomi di paesi o città e anche alcuni nomi di via. Si voleva una lingua comune.

La Costituzione italiana, che nasce dopo la guerra e dopo la liberazione, tiene chiaramente conto di
tutti questi avvenimenti e si vuole opporre al ventennio fascista che era stato dominato da un
nazionalismo basato anche sull’utilizzo di un’unica lingua come strumento di identità; l’Italia è
sempre stato un paese caratterizzato da diversità linguistica e culturale. Quella ricercata negli anni
del fascismo è una comunità immaginata e costruita perché l’Italia non ha mai avuto una sola lingua,
è sempre stato un paese profondamente plurilingue. La Costituzione non è legata al nazionalismo ed
è per il pluralismo, non assegna alla lingua il carattere identitario che invece la tradizione gli
attribuisce.
Molto spesso, anche in tempi recenti, ci sono alcune proposte che chiedono che sia inserito nella
Costituzione italiana un articolo che dice che la lingua italiana è la lingua dello stato. Le posizioni su
questo tema sono posizioni anche trasversali: chiaramente c’è una parte politica che vorrebbe
l’introduzione di questo articolo, ma in generale anche molti intellettuali progressisti chiedono
l’introduzione di questo articolo. I valori e soprattutto l’apertura e l’attenzione che la Costituzione ha
riguardo alle lingue va mantenuta, sia per un motivo storico, sia perché in questo momento, un
momento di grande attenzione delle istituzioni alla diversità linguistica sarebbe anacronistico inserire
oggi un articolo che tratta di questo tema.

18° LEZIONE - 22/04/2022


SBOBINATRICE: Elvira Trebisondi
REVISIONATORE: Michele Visconti

ella diversità linguistica anche per migliorare la mobilità e la competitività.

Il multilinguismo andrebbe coltivato sin dalla più tenera età perché sappiamo bene che porta
dei grandi vantaggi: i bambini bilingui o multilingui presentano una maggiore flessibilità e
adattabilità a contesti diversi, hanno una maggiore flessibilità cognitiva, una maggiore abilità a
risolvere i problemi, hanno una spiccata capacità di pensiEUROPE 4 FUTURE – Lingue e
cittadinanza, politiche e pratiche
La giornata di oggi riguarda il tema “Lingue e cittadinanza, politiche e pratiche”. L'Europa, dopo
avere in qualche modo elaborato fin dal Maggio scorso una serie di documenti tecnici che sono
organizzati in quattro panel principali, in particolare sta approfondendo con la popolazione e non più
soltanto con i tecnici le raccomandazioni che sono state espresse e appunto vengono validate su un
piano collettivo e popolare. Ad esempio il panel europeo numero 2, panel europeo dei cittadini, si
intitola “democrazia europea, valori e diritti, stato di diritto e sicurezza” e siamo sicuramente
nell'ambito di questo panel, nonché per il diritto al multilinguismo invece del panel numero
1;laddove invece ci fossimo orientati di più a valorizzare le attività connesse con le mobilità e con la
presenza di persone non di origine italiana sul nostro territorio, quindi temi di migrazioni, diaspore e
ecc. sul panel numero 4. E’ un'occasione abbastanza interessante perché ovviamente ha permesso di
sviluppare un dibattito molto ampio a cui stanno prendendo parte anche direttamente le università in
cui l'opinione che viene espressa viene direttamente trasmessa attraverso il sito sulla conferenza sul
futuro dell'Europa.

Intervento prof.ssa Barni sulle politiche riguardanti il multilinguismo: il monolinguismo non


rappresenta la realtà delle cose e non rappresenta nemmeno la competenza delle persone, cioè il
monolinguismo è una ideologia che è stata prodotta in particolari contesti storici e politici e il
multilinguismo è invece lo stato naturale di ognuno di noi e quindi è importantissimo che il
multilinguismo venga conservato e coltivato fin da bambini proprio perché ciascuno di noi è in grado
di gestirlo ed è appunto ancora più importante farlo adesso perché siamo in Europa e perché
l'espandersi di una realtà multilingue e multiculturale soprattutto nell’Europa è sempre più diffuso sia
nelle aule scolastiche che nella società. L’ampliarsi degli orizzonti geografici, la globalizzazione, il
mercato globale, la maggiore facilità delle comunicazioni favoriscono e richiedono una più ampia
disponibilità e competenze più articolate anche linguistiche come patrimonio del cittadino
globale. Su questo dobbiamo dire che l'Europa, attraverso tutte le sue e istituzioni ed in particolare
la commissione europea ma anche altre istituzioni come il Consiglio d'Europa, promuovono
l'apprendimento delle lingue e quindi sostengono la diversità linguistica in tutta Europa. Sappiamo
bene che il motto dell'Unione Europea “uniti nella diversità” rappresenta un contributo
importantissimo e mette in luce il fatto che la diversità linguistica e quindi quello che la diversità
linguistica e l'apprendimento delle lingue apportano al progetto europeo. Quindi parlare di lingue,
parlare di multilinguismo in una conferenza che si occupa del futuro dell’Europa è davvero
importantissimo perché l'Europa è un Paese multilingue, perché ciascuno di noi sa gestire questo
multilinguismo e quindi è fondamentale la sua promozione. Inoltre bisogna considerare che le lingue
uniscono le persone, rendono accessibili gli altri Paesi e soprattutto rendono accessibili le culture
degli altri Paesi. Sappiamo bene che le lingue sono forme di vita e sono quei dispositivi che danno
forma alle diverse culture e quindi rafforzano la comprensione interculturale. Quando si parla di
coesione sociale è fondamentale parlare anche di lingue e di apprendimento linguistico e poi
sappiamo bene, e l'Europa ce lo ricorda sempre in molti suoi documenti, che le competenze
linguistiche sono fondamentali per migliorare l'occupabilità e la mobilità e quindi possiamo dire che
il multilinguismo in un certo senso migliora anche la competitività dell'economia dell'Unione
Europea. Ci sono vari studi che mettono in luce quanto per colpa delle scarse competenze linguistiche
le imprese possono perdere dei contratti internazionali e la mobilità delle competenze e dei talenti
viene ostacolata. C’è ancora molto da fare, l'Europa ha dettato i principi anche molto profondi dal
punto di vista teorico ma è chiaro che poi tutti i singoli Stati questi principi li dovranno mettere in
atto. Non sempre c'è questa grande attenzione a quanto invece le competenze linguistiche siano
fondamentali per la crescita individuale e sociale, per la coesione sociale, per non aver paura dero
creativo e naturalmente hanno delle capacità di comunicazione più forte e sono più pronti
all'apprendimento di altre lingue e anche di altre discipline. E’ bene che vengono sfatati tutti quei
pregiudizi che stanno intorno al tema del multilinguismo e che emergano invece i vantaggi e sono
vantaggi sia a livello individuale perché permettono un migliore accesso al mercato del lavoro e in
alcuni Paesi permettono anche delle retribuzioni più alte e poi a livello individuale bisogna dire che
l'apprendimento delle lingue permette anche un miglioramento nell'invecchiamento, cioè è una delle
competenze che si vedevano coltivare nell'arco di tutta la vita e che fanno bene ad invecchiare. A
livello sociale producono un maggior riconoscimento del valore delle altre culture e la capacità di
accoglierne anche le differenze e questa capacità di accogliere differenze e di essere in grado di
mediare fra culture diverse è una capacità molto molto ricercata se ci guardiamo intorno e vediamo
quanto anche la questione linguistica sia fondamentale per la ricostruzione dei conflitti. Le lingue,
infatti, permettono la costruzione di ponti che congiungono il patrimonio e la storia delle diverse
culture e quindi l'apertura a prospettive globali.

Favorire il multilinguismo favorisce appunto una prospettiva di analisi delle questioni diversificate
perché le lingue non sono esclusivamente strumenti di comunicazione, ma sono dei dispositivi che ci
permettono di vedere la realtà da angolature diverse e quindi in una iniziativa che si occupa di
cominciare a fare proposte per il futuro dell'Europa il tema del multilinguismo, il tema del
mantenimento della diversità linguistica è sicuramente un tema centrale.

Domande

1) L’inclusività delle lingue orientali, del Medio Oriente, dell’Africa nelle politiche europee.

E’ vero c'è un uno squilibrio da questo punto di vista e non un'attenzione ancora sufficiente
alle lingue appunto extra europee rispetto a quanto invece poi pesano nelle relazioni; pensiamo
al ruolo per esempio delle competenze commerciali che sono competenze comuni a livello
europeo, dunque servono molte più intersezioni con mondi e non solo da parte di una ristretta
diciamo élite di funzionari specializzati, ma da un insieme più ampio. Qualche programma
c'è, qualche attenzione c'è, ma vanno assolutamente incrementati e bisogna anche evitare uno
squilibrio adi opportunità per cui diciamo senza alcune lingue molte strade vengono precluse.

2) L’opinione rispetto alla revisione del trattato di Maastricht

In tanti documenti europei c'è già uno sguardo oltre, cioè c'è questo superamento dell'idea del
diverso soprattutto come paura o al massimo come come folklore, basti pensare che per
esempio in tante scuole il tema dell'intercultura è stato interpretato purtroppo semplicemente
come una scena tipica o una merenda fatta con cibi diversi. Si è dato alla presenza di persone
con lingue e con culture diverse un valore fortemente folklorico. In tanti documenti che si
occupano anche di insegnamento delle lingue, pensiamo al quadro comune europeo, lo
sguardo è molto diverso e c'è un'attenzione fortissima a allegare la cultura con la lingua,
considerare lingue e culture come lo sono in realtà, come sinonimi e quindi a considerare non
semplicemente il multilinguismo ma a valorizzare il plurilinguismo cioè alla capacità di
potersi muovere all'interno di patrimoni linguistici compositi da parte degli studenti e da parte
degli utenti. Come poi tutto questo possa essere messo in pratica rimane molto molto
complicato anche perché come dice il trattato di Maastricht ci vuole un'istruzione di qualità
ma la responsabilità di questa istruzione di qualità è lasciata ai singoli Stati quindi molto
spesso molto spesso ci sono delle differenze moltissimo fortissime appunto di sensibilità e di
politiche sull'educazione da parte dei singoli Stati.

3) Cosa possono fare insieme linguisti ed antropologi per riaffermare un tema per cui la diversità
linguistica non sia una penalizzazione ma invece una ricchezza?

Bisogna lavorare sull'educazione perché questi sono stereotipi che nascono purtroppo
all'interno della scuola, sembra che il termine “etnia” abbia sostituito proprio perché
considerato più elevato il termine “razza”; prima si parlava di razza, ora naturalmente di razza
non si può più parlare fortunatamente e si usa il termine etnia, ma sotto c'è la stessa idea cioè
permane la stessa idea di differenza. Bisogna dire che come esiste un'unica, quella umana,
ugualmente esiste un'unica etnia che è quella umana. Su questo bisogna sicuramente lavorare
molto così come bisogna lavorare molto sul tema del bilinguismo di élite, cioè il fatto che sei
bilingue e il tuo bilinguismo è valorizzato solo se è un bilinguismo che al suo interno ha una
lingua di prestigio. Non bisogna condannare queste lingue, ma metterne in luce l'importanza
per lo sviluppo cognitivo di ciascun bambino sarebbe fondamentale. Invece lo stereotipo che
ancora permane è quello che se si conosce l'inglese o il francese va bene, ma se conosci l'indi
e l'urdu non va bene perché appunto non sono lingue di valore e questo è profondamente
sbagliato perché è chiaro che il bambino che è più abituato a vivere in un ambiente multilingue
sarà quello che avrà meno difficoltà ad apprendere altre lingue e altre discipline

4) Come mettere in pratica la valorizzazione del plurilinguismo

Nessuno nega l'importanza dell'inglese, cioè conoscere l'inglese è sicuramente un primo passo
fondamentale e anche se la Gran Bretagna non è più nella nell'Unione Europea, l'inglese è una
lingua che soprattutto in alcuni settori è utilizzata fortemente. Anche solo il settore della
ricerca, la ricerca ormai nel mondo parla inglese, se vuoi che gli altri ti leggano devi scrivere
in inglese. Il tema è che questa attenzione forte sull'inglese non andare a detrimento delle altre
lingue, ciascuno di noi è naturalmente multilingue quindi se impari l'inglese questo non
significa che hai occupato tutta la parte del tuo cervello o della tua memoria dedicata alle
lingue e non ce ne possono entrare altre. All'interno della scuola viene poi emerge anche da
parte dei genitori la volontà di far studiare ai figli solo l'inglese perché solo in inglese è utile
come se appunto studiando l'inglese non si potessero studiare anche molte altre lingue. In
realtà il nostro cervello si è formato per conoscere e saper gestire più codici.

19° LEZIONE - 27/04/2022

SBOBINATORE: Michele Visconti


REVISIONATORE: Diego Vitello

Nell’ultima lezione, abbiamo iniziato la seconda parte del corso, il cui obiettivo è quello di vedere
cosa dice l’Europa sul multilinguismo e sul plurilinguismo, di vedere come le indicazioni europee, la
politica di apertura e di promozione nei documenti del Consiglio e le indicazioni siano state
considerate e poi implementate nelle politiche linguistiche e nelle pratiche in modo concreto nel
nostro Paese. Per fare questa riflessione e questa analisi, ci siamo serviti dell’impianto metodologico
messo in atto dal progetto europeo che aveva l’obiettivo di vedere come le politiche linguistiche
europee erano implementate nel singolo Paese europeo. Ci interessa l’impianto metodologico (che
metodo è stato utilizzato): sono stati analizzati tutti i documenti dell’UE e del Consiglio riferiti a
multilinguismo e plurilinguismo, e da questi sono stati tratti alcuni indicatori, poi messi a confronto
con quelle che sono le politiche europee, per vedere l’atteggiamento dei singoli Stati, nei confronti di
(1) L1 (ufficiale, nazionale, standard), (2) di minoranza di antico insediamento, (3) di lingue straniere
e (4) lingue immigrate.

Bisogna scegliere dove, in quali settori, andare ad analizzare le politiche dei singoli Stati: i
macrodomini, i macrosettori della vita sociale selezionati per andare a vedere come le lingue vengono
trattate sono 8. L’ultima volta abbiamo cominciato ad analizzare il primo: il metadominio linguistico
(meta- perché le lingue nei documenti fondanti di uno Stato e nelle banche dati rappresentano la
cornice dalla quale, poi, tutte le altre indicazioni avranno origine: è un dominio ombrello che sta al di
sopra degli altri).

Abbiamo visto che, nella Costituzione Italiana, non c’è mai presente il fatto che l’italiano sia lingua
ufficiale o nazionale dello Stato, e non si sa se è un bene o un male. Non è un caso, comunque, che
manchi: seppur abbiano lavorato in poco tempo, i Padri Costituenti non si sono dimenticati, bensì non
hanno voluto specificatamente inserire un articolo che dichiarava ufficiale la lingua italiana (è
dichiarata dalla Corte Istituzionale), si dà per implicito. In più, seppur non venga menzionata come
lingua ufficiale/nazionale, la lingua è sempre menzionata in difesa di lingue altre: si parla di lingua
quando la si vuole indicare come uno dei tratti che non devono determinare differenze tra i cittadini
italiani, a prescindere dalla loro lingua. Troviamo le lingue anche nell’articolo 6, in cui si tutela, si
riconosce, e si affida allo Stato la tutela delle minoranze linguistiche, e nell’articolo 111, in cui si
afferma che, se una persona è accusata e deve subire un processo, ha diritto a comprendere e deve
essere assistita da una persona che parla la sua lingua.

Nel ventennio che ha portato alla Seconda Guerra Mondiale, e al passaggio tra monarchia e
repubblica, c’era stata una forte politica linguistica: ci fu una forte scolarizzazione, una forte
italianizzazione, ma tutto ciò era stato fatto a scapito delle altre varietà che da secoli popolavano la
Penisola. L’Italia è un Paese plurilingue da secoli! L’identità plurilingue dell’Italia ha portato i Padri
Costituenti a non inserire quell’indicazione: plurilinguismo, insieme al fatto di voler superare il
periodo in cui tutte le altre lingue venivano condannate. La Costituzione, nascendo per garantire
democrazia e libertà, non poteva contenere un articolo sulla lingua. È un bene? Forse sì, soprattutto
adesso, che molte lingue sono entrate nel nostro Paese. Per altri, potrebbe essere un male, però, perché
mancherebbe un riconoscimento di identità nella Costituzione (per una certa parte politica,
nazionalista); altri ancora, hanno proposto un articolo perché una presenza della lingua nella
Costituzione potrebbe tutelare e rafforzare le attività educative nei confronti della nostra lingua (di
cui siamo parecchio carenti), ma questo potrebbe punire la diversità.

L’articolo 6 della Costituzione dice che la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze
linguistiche. Se si riconoscono le minoranze, è implicito che esista una lingua di maggioranza.
L’articolo 6 è importante per il riconoscimento della diversità linguistica rispetto all’Italiano;
riconoscimento che era stato negato durante gli anni della guerra, quando le altre lingue erano
militarmente condannate, non potevano essere utilizzate nei luoghi pubblici.

Dal 1945 in poi, dalla fine della guerra, cominciarono le tutele delle altre lingue. Prima della
Costituzione, le prime minoranze tutelate furono quelle di frontiera: il francese soprattutto della Val
d’Aosta, il tedesco nell’Alto Adige e lo sloveno nel Friuli-Venezia Giulia. Anche in Italia, come nei
Paesi Baschi, c’è stato un periodo in cui la minoranza (tedesca dell’Alto Adige) era molto attiva, ha
agito con la violenza, con volontà di separarsi dall’Italia. Tutte le altre rimasero considerate come
fenomeni folkloristici, di interesse culturale.

A seguito della promulgazione della Costituzione (1947) , c’è stato un vuoto normativo per la tutela
delle minoranze linguistiche fino alla legge 482 del 1999, che dà attuazione all’articolo 6 e, in quel
momento, si doveva scegliere quali minoranze tutelare. Il 1999 fu un periodo politicamente
combattuto per il riconoscimento delle minoranze. Dopo lunghi dibattiti politici e parlamentari,
furono scelte 12 minoranze, tra quelle che avevano un preciso legame con il territorio, ovvero quelle
di antico insediamento, che si erano stabilite e stabilizzate in certi territori in maniera stanziale (cfr.
la comunità albanese in Sicilia e Calabria). Nel dibattito intervennero anche linguisti, come Fiorenzo
Toso, che diceva che, per esempio, l’occitano non ha un codice linguistico di riferimento, altri ce
l’hanno solo in teoria (albanese, greco e croato), altre sono vere e proprie lingue regionali. Il criterio
rimane quello della territorialità e stanzialità. Rimangono fuori tante minoranze, tra cui quella rom e
quella sinti, perché a queste due comunità non fu riconosciuta la stanzialità (anche se ci sono zone,
come in Abruzzo, in cui anche rom e sinti sono stanziali). Le nuove minoranze, provenienti dai grandi
flussi migratori dalla seconda metà degli anni Settanta, non furono prese in considerazione nel 1999.

La tutela proposta in Italia e la selezione delle lingue è in contrasto o no con le indicazioni europee?
La Carta Europea delle lingue regionali e minoritarie (1992) di Strasburgo apre la tutela anche alle
lingue non territoriali, e quindi ha apertura maggiore rispetto alla legge 482; ma, nel 1995, nella
Convenzione Quadro per la protezione delle minoranze nazionali vengono tagliati fuori i dialetti e le
lingue ???. Dunque, su per giù, siamo in linea con le normative europee. Importante da ricordare è
che la legge europea del 1992 fu firmata, ma non ratificata: ci siamo dichiarati d’accordo, ma non ci
sono i provvedimenti che la mettono in atto, non è entrata nel patrimonio normativo del nostro Paese.

Come vengono tutelate queste lingue? Ricordiamo che la Costituzione non solo riconosce, ma tutela:
realizza azioni che promuovono il loro utilizzo in diversi contesti, attraverso un catalogo di diritti
linguistici che varia da regione a regione. Non esiste, quindi, una tutela uniforme in tutta Italia: sono
le Regioni in cui queste minoranze insistono (come a Trieste in cui ci sono le informazioni in modalità
bilingue) che riconoscono i diritti linguistici e le risorse e le attività che decidono di introdurre per
quelle minoranze.

Ci sono nelle norme italiane provvedimenti che hanno come oggetto l’italiano come lingua
implicitamente nazionale? Sì, abbiamo tre provvedimenti che riguardano l’utilizzo della lingua
italiana da parte di coloro che vengono a vivere nel nostro Paese. Il 4 giugno 2010 è stato introdotto
per la prima volta un test di italiano per gli immigrati che vogliono/possono ottenere un permesso di
soggiorno a lungo termine, dimostrando un A2. Nel 2011, quando è scattata l’infrastruttura
dell’accordo di integrazione, ovvero l’accordo che l’immigrato stipula con lo Stato italiano italiano,
uno dei requisiti questi riguarda la lingua. L’accordo di integrazione è un accordo che va a punti (se
non commetti reati, guadagni punti; se conosci l’italiano, guadagni punti…). Più il livello di italiano
è alto, più sono i punti. Da notare è il fatto che la lingua, per la prima volta, viene considerata come
indicatore di volontà di integrazione, e questa è una questione molto rilevante. Utilizzare la lingua –
strumento di socializzazione e interazione – come barriera per l’integrazione fa paura. Per esempio,
nel test A2 di italiano, è stato scelto di non produrre un unico test per tutta Italia, ma sono i singoli
centri di educazione a produrre questi test: in alcune ricerche, le Regioni in cui c’è maggiore
attenzione ai temi del nazionalismo, si boccia di più! Il non passare vuol dire non ottenere la
possibilità di permanere nel nostro Paese: è importante imparare l’italiano, ma è offrire la lingua che
è più importante, e si fa troppo poco. Ancora più importante è il provvedimento legislativo del 2018,
che stabilisce che, per ottenere la cittadinanza italiana, bisogna essere in possesso di un livello di
italiano di almeno B2. Non è una novità: ormai, sono tanti gli Stati europei che impiegano l’utilizzo
di test di italiano per ottenere diritti civili da parte degli stranieri è una prassi consolidata: la differenza
la fa l’offrire una lingua, bisogna dare la possibilità di offrire corsi di lingua, per permettere agli
stranieri di imparare.

A questo punto, andiamo a vedere cosa succede in altri domini: nell’istruzione pre-scolare e
nell’istruzione primaria. Si tratta di un settore che vede molti bambini avere il primo contatto con la
lingua italiana e con lingue diverse dalla propria. Nella scuola dell’infanzia, e nell’istruzione primaria,
in generale, i risultati della ricerca Language Rich Europe mostrano come l’offerta didattica, la sua
organizzazione e la sua formazione e l’aggiornamento degli insegnanti nel settore delle lingue fino
possono essere migliorati. Inoltre, nella scuola si mette in evidenza un’attenzione prevalente nei
confronti della lingua inglese piuttosto che verso le altre lingue straniere, perché, al crescere del
livello scolastico, si chiude l’interesse verso le altre lingue straniere, in quanto l’inglese (“unica lingua
utile”) ormai domina su quasi tutto il contesto scolastico. Il discorso pubblico facilita moltissimo
questo grande predominio dell’inglese nel contesto educativo, come se l’aggiunta di altre lingue
sovraccaricasse cognitivamente l’apprendente, e quindi non c’è posto per loro. Nelle scuole
dell’infanzia non si insegnano lingue straniere, non c’è una norma; in ogni caso, ci possono essere
dei casi in cui vengano insegnate. Nei territori in cui ci sono lingue di minoranza/regionali
riconosciute, ci possono essere attività anche nella scuola dell’infanzia realizzate in tali lingue.

Nella scuola elementare, vediamo che non c’è attenzione alle lingue immigrate, del background dei
bambini arrivati in Italia: non c’è una previsione a livello nazionale, non c’è provvedimento a livello
nazionale (anche qui, ci possono essere casi in cui comunità linguistiche in un determinato territorio
particolarmente attive che spingono all’organizzazione di corsi, ma a livello nazionale non c’è
normativa). Come non esiste un’attenzione alle lingue immigrate, non esiste un sostegno ai nuovi
arrivati: non esiste una strutturazione, un qualcosa che dica, in tutta Italia e in tutte le scuole, che, nel
caso in cui ci siano immigrati provenienti da contesti linguistici diversi, ci debba essere una struttura
per insegnare loro l’italiano. In Paesi come Germania e Svezia c’è una struttura di sostegno uguale in
tutto il Paese, mentre in Italia è tutto lasciato nelle mani delle singole scuole, che possono organizzare
attività di sostegno e possono avvalersi del sostegno di mediatori linguistici e di insegnanti di italiano
come L2/LS. Serve un supporto strutturato, strutturale e continuo.

IL CASO DI FIRENZE: C’è stato un periodo in cui il Comune di Firenze, tra gli anni Novanta e i
Duemila, per sopperire alla carenza del sistema dell’istruzione nazionale, ha organizzato una rete di
servizi che funzionavano tutto l’anno che accoglievano, durante il boom della migrazione, moltissime
persone immigrate. I bambini potevano accedere sempre a questi corsi, che fosse a luglio o che fosse
durante l’anno scolastico, organizzati da personale altamente qualificato. Il problema di queste
iniziative è il costo e la volontà politica per portarli avanti. Per questo, dopo qualche anno, l’iniziativa
cessò di esistere. Quindi, ci sono iniziative bellissime, in alcune scuole, ma manca strutturalità. Ora
la situazione è cambiata, perché per molti bambini, l’italiano è L1, ma il bisogno di incrementare le
competenze linguistiche continua ad essere un problema molto attuale.

Domanda: MA LA CLASSE A23 A CHE SERVE, ALLORA? Con i pochissimi posti che ha, la
classe di concorso non può essere di ruolo nella scuola italiana, ma può esserlo solo nei centri di
insegnamento per adulti. C’è molto bisogno in questi centri, certo, ma chi insegna in un CPIA non
può godere di mobilità, non può insegnare nella scuola. È una legge importante, ma è ancora
azzoppata.

Da qualche anno, per quanto riguarda il monitoraggio delle abilità linguistiche, ci sono le prove
INVALSI. Le immagini nella slide sono tratte da Eurydice, una ricerca che, ogni anno, l’Europa fa
sulle caratteristiche dei sistemi di istruzione dei vari Paesi europei. Si parla di sostegno della lingua
nazionale nei confronti degli studenti neoarrivati: in Italia, non c’è una normativa centrale, nessuna
raccomandazione, per capire quanto italiano una persona immigrata conosce. In Paesi come la Svezia
e la Norvegia, invece, c’è una valutazione di tutti gli studenti immigrati neoarrivati. Questo è
importante, è segno di apertura, perché si riconosce il patrimonio d’arrivo e si spinge a costruire su
quel patrimonio.

Considerando le INVALSI, è assurdo notare che i bambini immigrati e quelli non immigrati debbano
svolgere la stessa prova. In più, se si guardano i risultati delle INVALSI, si vede che i bambini
immigrati sono in difficoltà per matematica e italiano. Una bellissima ricerca si occupa dei risultati
di matematica: il linguista Matteo Viale ha analizzato i quesiti matematici in cui gli immigrati vanno
peggio, e si tratta di quelli in cui il peso dell’italiano è molto forte. Il non capire l’italiano, la consegna,
crea problemi, ha un impatto fortissimo sui risultati matematici. Qui emerge la trasversalità della
competenza linguistica! In più, i ragazzi immigrati, in alcuni casi, nelle prove INVALSI di inglese
vanno meglio di quelli italiani: la spiegazione è semplice, non c’è una parola di italiano, e si misurano
i ragazzi con lo stesso metro!

Con le INVALSI emergono tante differenze, non solo tra Nord e Sud, ma anche tra città e aree non
urbane, caratterizzate da offerta culturale e stimoli minori, e le condizioni socio-culturali delle
famiglie. In conclusione, la padronanza della lingua italiana influisce sulla prova di italiano, e, seppur
in maniera minore, anche su quella di matematica, e l’assenza della lingua italiana nella prova di
inglese avvantaggia i ragazzi stranieri. Ovviamente, si tratta di dati medi.

Nell’istruzione primaria, le lingue regionali (LR) e le lingue minoritarie (LM) sono riconosciute e
tutelate dalle normative regionali, vengono insegnate agli studenti all’interno dell’orario scolastico
dal primo anno (cfr. legge del 1999). Per quanto riguarda le lingue straniere (LS) nell’istruzione
primaria: da qualche anno, è stato stabilito l’insegnamento della lingua inglese dal primo anno delle
elementari (6/7 anni; cfr. cartina). Mentre in altri Paesi si può scegliere la lingua straniera, la lingua
straniera obbligatoria in Italia è l’inglese. È un piccolo passo avanti aver messo una lingua straniera
dalle elementari (cfr. Irlanda e Scozia), ma rimane il problema della formazione degli insegnanti. Può
capitare un insegnante bravissimo, come può capitare un insegnante che non sa fare: la disomogeneità
crea differenze enormi e disamore da parte degli studenti nell’apprendimento delle lingue.

20° LEZIONE - 29/04/2022

SBOBINATORE: Diego Vitello


REVISIONATRICE: Emmanuela Steffè
Nelle ultime due lezioni abbiamo analizzato come le politiche linguistiche in tema di
multi\plurilinguismo vengono implementate, naturalmente si potrebbe fare una riflessione su tutti i
paesi europei ma noi ci concentriamo sull'Italia, se qualcuno di voi è interessato, questa è una
bellissima linea di tesi, sarebbe interessante andare a vedere come le politiche linguistiche di questi
paesi si comportano sui temi del plurilinguismo e del multilinguismo, è evidente che in Europa
abbiamo delle forti politiche legate a quello che l'Europa ci dice ma anche i paesi extra-europei
sarebbe molto interessante, soprattutto in paesi in cui i processi migratori sono processi che hanno
una lunga data, sto pensando per esempio all'Australia, la quale ha messo in atto da tanti anni
soprattutto in alcuni stati -come per esempio stato del Victoria- una politica linguistica che è molto
attenta alle lingue delle comunità che hanno formato l'Australia perché l'Australia, come gli Stati
Uniti, è un paese formato da gruppi di persone o anche singole persone che sono emigrate lì, quindi
l'Australia ha messo in atto delle politiche molto molto forti sul tema e ha investito molto sul tema
del mantenimento delle lingue d'origine, della valorizzazione delle lingue di origine; è proprio in
Australia che è stata creata la locuzione "community languages", cioè le lingue della comunità, che
appunto vengono offerte a tutti i bambini a partire dalla scuola dell'infanzia ed elementari. Fatto sta
che, se si vanno a prendere i dati relativi anche alle comunità italiani dei discendenti di italiani che
sono in Australia, si vede che nella scuola elementare di lì ci sono centinaia di migliaia di bambini
che studiano la lingua italiana e lo fanno perché questo fa parte di una attenzione alla politica
linguistica. Joe Lo Bianco, che ha tenuto il convegno, è uno dei più grandi linguisti ancora viventi e
soprattutto è uno studioso che sempre si è occupato di politica linguistica, di costruire delle politiche
linguistiche a livello di stati ma anche a livello di singole istituzioni (ci ha parlato della politica
linguistica a livello universitario). È chiaro che per poter fare un'azione di questo tipo ci vuole uno
stato che ti sostiene cioè che capisce che la politica linguistica è un elemento fondamentale anche
della coesione sociale. Appunto l'Australia soprattutto intorno al 1980 (ora molto meno purtroppo)
ha messo in atto una fortissima politica linguistica che appunto faceva sì che potessero essere
promosse tutte le lingue delle comunità immigrate. Allora la domanda che ci dobbiamo porre è se si
può educare al plurilinguismo e quanto sia difficile farlo: nelle prime lezioni abbiamo detto
(analizzandolo in prospettive diverse) che i bambini sono sia innocenti prebabelici, cioè non hanno
paura della diversità linguistica, sia hanno delle potenzialità fisiologiche che li rendono più
accoglienti e anche più capaci all'apprendimento delle lingue. L'innocenza prebabelica è una
questione più sociale che cognitiva cioè siamo noi adulti che installiamo questa paura della diversità
linguistica e che anche mettiamo le lingue in contrasto l'una con le altre come se l'apprendimento di
una potesse creare dei danni sull'apprendimento di un'altra lingua. Se capiterà di fare delle ricerche
sul campo, si vedrà come alla scuola primaria comincia la consapevolezza da parte dei bambini della
differenza fra le lingue (dal punto metalinguistico comincia molto prima ma dal punto di vista dei
raffronti forti, metalinguistici, è quando si incomincia a studiare il tuo sistema che ti accorgi che gli
altri sistemi sono diversi). Alle scuole elementari i bambini non hanno paura, si avvicinano ai
compagni che appunto parlano lingue diverse dalle loro e cercano di apprendere; è con il crescere del
livello scolastico che cresce la chiusura, cresce la paura e cresce l'idea che la competenza linguistica
sia esclusivamente qualcosa che deve essere utile e quindi l'utilità della competenza porta a
privilegiare un'unica lingua ma anche privilegiare la male perché non è che poi i nostri ragazzi escono
dalle scuole conoscendo perfettamente almeno la lingua inglese però nell'immaginario c'è l'idea (che
si consolida sempre di più) che l'inglese sia l'unica lingua da studiare. Naturalmente questo è un
qualcosa che ci si porta dietro fino all'università, che cosa si fa per internazionalizzare l'università? si
offrono corsi in lingua inglese come se appunto l'internazionalizzazione dovesse per forza passare
attraverso un'unica lingua. Sono temi complessi ma semplicemente forse si può fare qualcosa in più
cioè l'educazione al plurilinguismo è possibile e ci sono stati esempi in Italia (cfr. rendiconto di
quell'esperienza che il Comune di Firenze aveva fatto negli anni 2000), in questi centri di
alfabetizzazione del Comune di Firenze che erano dedicati prevalentemente all'apprendimento
dell'italiano da parte dei bambini che erano appena arrivati e che non conoscevano niente della nostra
lingua parallelamente però sostengono l'identità e l'autostima degli alunni stranieri, riconoscendo e
valorizzando le culture di provenienza; a tale scopo organizzano nelle scuole percorsi di
valorizzazione delle lingue di origine più diffusa e ospitano su richiesta corsi di mantenimento della
lingua madre organizzati dalle comunità straniere. Quindi c'era da una parte una forte attenzione
all'italiano ma dall'altra anche una comprensione, una consapevolezza della necessità di non far
perdere ai bambini la loro lingua e quindi non renderli poveri, disorientati quindi con una volontà di
reprimere la loro lingua madre ma ancora non pronti a conoscere la lingua della scolarizzazione quindi
si sono creati negli anni anche dei grossi problemi a questi bambini e alle loro famiglie. Qui c'era
questo tentativo di creare un trattamento uguale a tutte le lingue che si trovavano all'interno della
scuola. Accanto a questa attenzione nei confronti del mantenimento delle lingue, c'era anche tutta
un'attenzione legata alle famiglie cioè per esempio la guida pratica in 7 lingue per accompagnare i
figli nell'inserimento della scuola primaria che appunto era un progetto dell'assessorato alla pubblica
istruzione del comune; quindi non solo il mantenimento delle lingue ma un aiuto, un sostegno,
un'accoglienza alle famiglie che fosse anche una accoglienza linguistica. Questo è uno sforzo dettato
dalla volontà di sostenere il diritto all'istruzione quindi si parla anche di diritto all'istruzione e il diritto
all'istruzione si lega con i diritti linguistici, quindi la formazione dei bambini stranieri ma anche dalla
convinzione che se riusciamo ad accompagnare il cambiamento in atto nelle scuole, riusciamo anche
a cogliere le opportunità e le occasioni di conoscenza e di crescita collettiva suscitata dalla presenza
contemporanea di tante culture diverse cioè la diversità delle culture e, naturalmente, la diversità
ovvia delle lingue veniva sentita non come un ostacolo ma come una ricchezza che poteva arricchire
anche tutti gli altri bambini. In tale contesto, l'assessore disse: "sono convinta che una scuola aperta
al mondo, in grado di formare menti e cuori preparati a comprendere e a dialogare, sia oggi necessaria
per gestire serenamente il presente e preparare efficacemente il futuro, che sarà poi il futuro noi" cioè
un futuro in cui le scuole e la società sarà ed è una società multilingue e multiculturale.

Quindi, non è che non siano stati fatti tentativi anche in Italia, ne se sono stati fatti tanti bellissimi e
importanti ma nel nostro paese è mancata una politica linguistica a livello nazionale cioè sono
mancate delle indicazioni nazionali che appunto andassero oltre la logica dell'emergenza: se andiamo
a prendere tutti i documenti che sono stati pubblicati dalla ministero dell'istruzione negli anni che
vanno dalla metà degli anni 90, quando l'Italia ha scoperto improvvisamente e quasi traumaticamente
di essere diventata paese di immigrazione da paese di emigrazione che invece era sempre stata, cioè
noi eravamo abituati a vedere centinaia di migliaia di persone che emigravano in altri paesi, piano a
piano a partire dalla seconda metà degli anni 70 sono cominciati ad arrivare (soprattutto nelle grandi
città) per esempio i gruppi di capoverdiani a Roma che arrivavano e andavano a fare i lavori domestici
(c'è un articolo di un grandissimo sociologo, Franco Ferrarotti, Il quale per primo si accorse che
intorno alla stazione Termini a Roma sta succedendo qualcosa di strano perché cominciano a
concentrarsi, soprattutto in alcuni giorni della settimana, tante persone che sono di lingua e di
nazionalità diversa, che non sono i visitatori occasionali nel nostro paese ma sono persone che
stabilmente ci vivono e, subito dopo l'articolo di Ferrarotti, si è cominciato a chiedersi cosa avrebbe
portato questa nuova mappa demografica delle città dal punto di vista linguistico cioè arrivano
persone di nazionalità diverse che si portano lingue diverse). In tutti i documenti che sono stati scritti
soprattutto negli anni 90 dal ministero dell'istruzione c'è sempre questa logica dell'emergenza cioè ci
si è trovati di fronte a un fenomeno che era nuovo, nelle scuole sono entrati decine di migliaia di
ragazzi di lingua straniera e quindi tutto è stato affrontato con la logica dell'emergenza e non si è mai
pensato, se non camuffando l'idea che la risposta italiana fosse una risposta interculturale, che non si
capisce bene che cosa significhi perché non è che si può tutto risolvere semplicemente attraverso
piccoli progetti di intercultura, ci sarebbe voluta un massiccio intervento, un intervento che soprattutto
nascesse dalla consapevolezza che l'ingresso (soprattutto in quel periodo) dei bambini stranieri non
era un'emergenza ma stava diventando un fenomeno strutturale delle scuole, cioè il fatto che le classi
non erano più popolate solo da bambini che provenivano da contesti prevalentemente italofoni, non
era una cosa destinata a nascere e morire nel breve tempo ma era un qualcosa che si consolidava ogni
anno di più, quindi ci sarebbe stata necessità di interventi molto più strutturali e invece noi abbiamo
avuto interventi episodici, frammentari, discontinui. Si consideri ad esempio che la gran parte di
queste azioni fatte (anche ben fatte, con ricadute positive nei confronti degli alunni) non sono state
nemmeno documentate cioè la scuola, l'insegnante non è stato capace di trasformare in un progetto
fissato sulla carta (e magari anche replicabile) perché non c'era questa abitudini nelle scuole e quindi
purtroppo a casi in cui le classi cominciavano ad essere classi multilingue, multilingue, ad esperienze
di grandissimo successo, in altre scuole si ha avuto un disinteresse totale alle questioni linguistiche.
Naturalmente tutto questo è legato anche a motivi politici: se l'immigrazione viene vista come un
problema è chiaro che si cerca di orientare tutte le azioni (anche male) sui temi dell'integrazione,
integrazione significa far sì che bambini e adulti si integrassero completamente all'interno della
società italiana e integrazione significa cancellazione delle loro identità pregresse, quindi è prevalsa
la logica dell'integrazione piuttosto che quella dell'inclusione, inclusione significa invece rendersi
conto che esistono comunità diverse che vanno incluse ma questa inclusione non deve andare a
svantaggio, a danno di ciò che queste persone rappresentavano prima, non si riconosce la centralità
alle lingue e ai linguaggi, è stata poco riconosciuta e si è accresciuta questa paura della diversità che
si è accompagnata poi anche con una carenza nella formazione e nell'aggiornamento dei docenti
perché l'insegnante, che è un eroe tante volte, in quegli anni si è trovato come se fosse un soldato
all'interno di una trincea perché sono cominciati ad arrivare bambini che non parlavano l'italiano ma
questi insegnanti non avevano nessuna capacità perché nessuno aveva mai insegnato loro di diventare
maestri di lingue, lavorare con i bambini con l'italiano come L1 e lavora con l'italiano come L2 è una
professione completamente diversa. Invece, la scelta in tanti casi (anche ingiusta) è stata quella di far
entrare i bambini e ragazzi stranieri nelle classi che sono le classi relative alla loro età anagrafica, a
prescindere dalla loro competenza linguistica. Questa scelta è molto coraggiosa e anche molto
importante perché ad esempio mettere ragazzi di 12\14 anni in classi con bambini di 6\8 anni perché
non nascono la lingua si capisce bene che, dal punto di vista sia psicologico sia cognitivo, può
provocare dei danni enormi perché la lingua è uso, la lingua è interazione, è rapporto sociale quindi
mettere un bambino di 12 anni in una classe con quelli di 8 sarebbe stato un disastro per entrambi;
quindi fortunatamente la scelta è stata quella di fare inserimenti che fossero basati sull'età anagrafica.
Tuttavia, è mancato tutto quel supporto in moltissimi casi, anche se ci sono scuole in cui invece è
stato fatto tantissimo.

Gli insegnanti si sono trovati da soli a dover gestire queste situazioni complesse, già le difficoltà con
dei ragazzi italiani erano tante, se poi ci si aggiunge le difficoltà con i ragazzi stranieri, capiamo bene
che in molti casi quegli insegnanti che hanno voluto formarsi lo hanno potuto fare ma lo hanno fatto
molto spesso a livello individuale à paradigma della fotocopiatrice: se ci si chiede in quegli anni qual
è stato lo strumento didattico più utilizzato per insegnare l'italiano è stata la fotocopiatrice perché gli
insegnanti da soli si sono trovati a dover costruire dei materiali didattici per aiutare questi bambini
che appunto non conoscevano l'italiano e questo significa che c’è stato un grande spreco di risorse
umane e strumentali perché l'esperienza che magari un singolo ha fatto, è un'esperienza che non è
stata trasferita molto spesso ad altri casi; quindi si passa da casi esemplari al niente.

Molto spesso le difficoltà che ha un bambino straniero nato in Italia sono le stesse difficoltà che ha
un bambino italiano che magari proviene da una famiglia socioculturalmente non così elevata e anche
magari in cui si fa uso prevalente di altre lingue o del dialetti, quindi insomma non c'è ormai tutta
questa grande differenza, cioè questa enfatizzazione dell'italiano L2 che è stata fondamentale negli
anni 90 e primi anni 2000, ma ora bisogna affrontare la questione da una prospettiva diversa.

Ritorniamo alla domanda "si può educare al plurilinguismo?": è utile in questo contesto il racconto
di una esperienza, è un'esperienza che si è verificata in Francia e l'ho presa perché non ho trovato
altre documentazioni di esperienze così ben fatte in Italia. E' il video di una esperienza condotta in
una scuola elementare in Alsazia, una regione della Francia situata geograficamente in un luogo di
confine quindi vicina al confine con la Germania, con una comunità alsaziana che parla una lingua
che è un dialetto, una lingua dello spazio linguistico francese e, in Francia, le minoranze linguistiche
sono state per tanti anni messe da parte, non considerate cioè l'esaltazione e l'importanza della lingua
francese è stata per lunghi anni una bandiera e quindi tutto quello che non era francese doveva essere
in qualche modo cancellato, sia che fossero dialetto o minoranze presenti all'interno del paese, sia che
fossero parole di lingue straniere che entravano nella lingua francese e negli usi da parte della
popolazione francese. In questo piccolo paese cominciano ad arrivare persone con lingue e culture
diverse, quindi a scuola le maestre si accorgono di non avere più le classi che avevano una volta più,
ma utilizzano questa occasione come uno spunto di riflessione sulla diversità e sulla valorizzazione
della diversità.

Parte di video (caricato su e-learning) → Quindi non è una mentalità solo italiana, l'idea è quella di
dire "se io arrivo con la lingua turca che cosa devo fare? devo imparare francese e se continuo a
parlare il turco lo faccio a svantaggio dell'apprendimento della lingua francese" → questo è uno
stereotipo che è tuttora comune e radicato, invece la mamma più l'intelligente gli dice, prendi il
francese e poi mettitelo in tasca e chiudi la tasca quando vieni a casa ma poi riaprila, diventerà tua
comunque. Invece, una mentalità che viene dalla scuola è quella di dire chiudere col turco e parlare
solo francese.

Altra parte di video → ci sono nella scuola dei problemi di razzismo cioè arrivano i bambini stranieri
e l'accoglienza da parte degli autoctoni non è come dire delle migliori, anzi si scatenano (e siamo alle
elementari) degli episodi di razzismo. Allora l'idea di queste maestre è quella di costruire un progetto
di Language Awareness cioè di consapevolezza della presenza di lingue diverse. Educare al
plurilinguismo non richiedere che le maestre o gli insegnanti debbano conoscere le lingue di tutti i
bambini che sono all'interno della scuola, si possono fare dei progetti di language awareness, di
introiezione della presenza di lingue diverse, anche semplicemente non conoscendo le lingue degli
altri, non è che le maestre si devono mettere lì a insegnare le altre lingue. La prima attività che mettono
in atto è quella di mappare le nuove lingue presenti in questo minuscolo paesino, dalla mappatura
emerge che ci sono 20 lingue, non c'è più solo il francese o solo l'alsaziano o magari il tedesco, ma
sono entrate 20 lingue diverse. Facendo questo, quasi contemporaneamente le maestre si rivolgono a
dei ricercatori universitari per chiedere una mano.

Altra parte di video → Cominciano dall'alsaziano, la bimba che deve portare l'alsaziano a scuola e
dire una parola in alsaziano è imbarazzata perché a scuola non si può parlare una lingua di minoranza
però le maestre sono intelligenti e cominciamo dalla diversità linguistica che è la diversità dei bambini
che vivono in quel luogo. Questo per far capire loro che anche il loro repertorio non è un repertorio
omogeneo ma è un repertorio variato.

Altra parte di video à Se avessero iniziato da lingua immigrata sicuramente la comunità locale forse
non avrebbe reagito così bene ma invece hanno iniziato da una lingua di minoranza e hanno deciso
di portare all'interno delle classi le mamme dei bambini (cominciando dalle mamme alsaziane) che
per un giorno diventavano maestre di lingua e di cultura.

Altra parte di video → Si pensi a cosa significa per una famiglia straniera che le porte della scuola
sono aperte, invece la porta della scuola di solito è chiusa, entrano i bambini e la porta si chiude,
quindi si cambia totalmente prospettiva e si cambia anche prospettiva di accoglienza di queste
famiglie.

Altra parte di video → C'è l'ossessione del seguire il programma e di finirlo ma giustamente Cristine
Elò, ricercatrice alla scuola di formazione degli insegnanti all'università di Strasburgo, dice che il
programma può essere letto in modi diversi e, forse, anche mettere in pratica questa attività
sicuramente serve molto di più che svolgere e far apprendere in maniera mnemonica tante parti del
programma cioè c'è fra le pieghe di un programma c'è sempre la possibilità di essere innovativi.
Altra parte di video → I ricercatori partono da un'esperienza che è stata pensata dalle insegnanti che
dicono che bisogna far capire ai bambini che il francese non è la lingua Suprema, che non esiste solo
il francese ma che esistono anche altre lingue e culture. Naturalmente poi questa esperienza si
arricchisce nel momento in cui le insegnanti chiedono aiuto a questo gruppo di docenti che si
occupano proprio di coltivare il multilinguismo e quindi il progetto prende una dimensione molto più
forte e alla fine poi viene anche realizzato questo film, ma l'idea iniziale è l'idea delle insegnanti
stesse. In molte classi italiane è successo qualcosa del genere cioè si sono ritrovate in una situazione
che nessuno gli aveva insegnato a gestire e quindi cominciano a capire come, anche allo scopo di
evitare episodi di intolleranza e di razzismo (e quindi di inizi di una mancata integrazione e inclusione
da parte dei bambini e delle famiglie straniere), come si può iniziare a prendere una strada diversa.
L'immigrazione in Francia è un'immigrazione che ha una storia più lunga rispetto a quella in Italia e
soprattutto in Francia c'è stata dagli anni '50 una grande immigrazione da parte dei paesi che erano
colonie o ex colonie francesi, quindi tutti i paesi del Maghreb (in cui appunto il francese è una lingua
ufficiale) andavano soprattutto per lavorare, quindi l'immigrazione è un'immigrazione di più lunga
data e in molti casi, soprattutto nelle grandi città come ad esempio Parigi, la scelta è stata quella di
creare delle enclave, delle isole separate abitate dagli immigrati e infatti le "Banlieue" cioè tutti i
quartieri che sono nella cornice, per esempio a Parigi sono quartieri periferici prevalentemente abitati
da immigrati magrebini. Questi quartieri sono stati e sono luoghi di grandissimo scontro, di rivolte
perché vivere in queste quartieri significa non avere una speranza di migliorare la propria condizione.
Qui si parte da un presupposto diverso: si parte dall'idea che invece ci sia la possibilità e la necessità
di creare degli spazi di convivenza.

Altra parte di video → La mamma messicana dopo il progetto trova un lavoro. Nonostante sembri
non ci sia un legame fra le due cose, in realtà il legame è un legame fortissimo perché intanto,
soprattutto alle donne si dà la possibilità di uscire cioè andare a scuola significa uscire da casa (alla
fine degli anni 90 si facevano corsi di italiano per le donne, momento in cui c'erano tantissimi
ricongiungimenti familiari perché i progetti migratori erano progetti migratori che cominciavano a
consolidarsi quindi alla fine degli anni 90 e l'inizio degli anni 2000 si consolidavano i progetti, il
marito che era venuto qui per trovare lavoro poi portava la moglie e i figli. Gran parte delle donne
erano segregate in casa, a prescindere dal fatto che fossero musulmane o meno la loro vita era una
vita legata quasi esclusivamente all'ambiente familiare. Quindi seguire il corso è un modo per rompere
la routine quotidiana che le vedeva chiuse; è la stessa cosa che dice la mamma messicana, la quale
dice "sono tanti anni che ero qui e nessuno mi aveva mai rivolto la parola e io l'unica cosa che potevo
fare è stare in casa" quindi si perde anche una la fiducia in se stessi e invece, dopo essere uscita ed
essere andata a scuola, prova a trovare un lavoro e ad esplorare il nuovo mondo che con il processo
migratorio si era aperto davanti a lei.

Altra parte di video → Si nota l'innocenza prebabelica: i bambini fanno a gara a usare le lingue degli
altri ("lo dico io!").

Altra parte del video → Interessante anche il cambio di prospettiva del ruolo del docente, dice "ho
avuto ma non voglio essere come quei docenti che si mettono sul piedistallo e che intendono la loro
azione semplicemente come erogazione di conoscenza ai ragazzi", lei dice "io voglio far capire che
in tante situazione io sono come loro cioè non mi vergogno ad andare a cercare una parola nel
vocabolario", è importante per i ragazzi capire che l'insegnante è un essere umano e soprattutto è
molto importante che si creino delle relazioni fra loro, non perdendo comunque l'autorità perché
comunque è il ruolo istituzionale anche nella relazione comunicativa. L'insegnante non è più
l'erogatore di conoscenza ma l'insegnante diventa il mediatore, il regista delle attività all'interno della
classe. La metodologia didattica che hanno scelto le insegnanti è proprio l'idea di responsabilizzare
sia gli alunni che anche i genitori del fatto che si può crescere insieme, che ciascuno di loro ha
qualcosa da insegnare. Nelle classi delle scuole elementari in Italia succede moltissimo questo perché
non dimentichiamoci mai che noi abbiamo un sistema di istruzione (soprattutto alle scuole elementari
e dell'infanzia) in alcune regioni italiane che è davvero fortissimo, infatti tutti i bambini che escono
dalla scuola elementare hanno una grande capacità; si pensi per esempio a quando fu introdotto una
riforma molto importante della scuola elementare che è quella del modulo in cui c'era non solo l'unico
maestro nella classe ma la possibilità di avere più maestri che si occupavano anche di discipline
diverse ma che molto spesso stavano anche in compresenza gli uni con gli altri. Poi i tagli alla scuola
hanno portato purtroppo a privilegiare il modello del maestro unico ma quell'esperienza era stata
un'esperienza davvero importante. Un po’ tutti abbiamo sperimentato che il salto grande è dalla scuola
elementare alla scuola media cioè veramente c'è proprio una modalità di insegnamento
completamente diversa, non semplicemente perché è più legata alle discipline ma anche
l'atteggiamento dell'insegnante è totalmente diverso rispetto a quello delle elementari.

Altra parte di video → Un altro aspetto importantissimo è che ci si esprime con tutto il corpo,
insegnano il gesto della scrittura che nella lingua araba è un gesto completamente diverso da quello
delle lingue come l'italiano, quindi si comunica anche attraverso il gesto. Altra cosa interessante da
notare è che le mamme sono arrivate vestite come sarebbero state vestite nei loro paesi, magari nel
loro paese nemmeno si usa più essere vestite in quel modo però anche questo per far capire che la
lingua si porta dietro un bagaglio culturale, il quale si esprime con segni che non sono solo linguistici
ma per esempio sono in modo di vestire o portare i capelli.

Altra parte di video → Non si vedono le persone ma c'è una colazione, un pranzo di una famiglia e si
sentono lingue diverse, c'è una lingua e poi qualcuno dice "take some bread" e ci sono due parole
francesi. Questo per far vedere che poi nel contesto le lingue che vengono usate sono lingue che si
mischiano, che in momenti diversi si possono trovare l'una accanto all'altra naturalmente, di certo
questo non è stato costruito.

Altra parte di video → L'atteggiamento verso il monolinguismo è un atteggiamento forse


prevalentemente europeo, cioè è il nostro atteggiamento mentale nel quale siamo cresciuti (che si
debba conoscere un sola lingua e magari le altre perché sono straniere) ma in realtà ci sono paesi (e.g.
la Cina in cui spesso i bambini a 5 anni sono già trilingue, oppure l'india, oppure in Africa) in cui
vivono lingue diverse che trovano spazio quotidiano nel repertorio di ciascuno dei parlanti, quindi
per la mamma per la mamma cinese è normale trasmettere anche ai propri figli la possibilità di
utilizzare lingue diverse.

Altra parte di video → La bambina fa una riflessione metalinguistica importantissima: dice "sembra
che tutte le parole cominciano con la A in arabo" cioè si capisce come la competenza metalinguistica
(cioè la capacità di riflettere sulla lingua) sia presente naturalmente in un bambino di 5 anni.

Degno di nota è anche lo sguardo fiero della bambina marocchina che vede la mamma che fa la
maestra per un giorno, anche queste sono cose importantissime perché per bambini e famiglie
discriminati vedere la mamma che assume un ruolo all'interno della classe è fondamentale. Molto
spesso nel caso dei bambini immigrati succede che sono loro ad assumere dei ruoli che dovrebbero
essere quelli dei genitori, ad esempio nei colloqui con gli insegnanti perché i genitori non parlano la
lingua (quindi c'è proprio un ribaltamento dei ruoli), qui invece si ritorna a ruolo normale cioè la
mamma che va in classe e la mamma che può anche fare la maestra per un giorno.

Il video era per capire che progetti di consapevolezza verso l'importanza delle lingue si possono fare
anche a costo zero, con pochissima fatica e interessando tutti i bambini.

21° LEZIONE - 2/05/2022


SBOBINATRICE: Emmanuela Steffè
REVISIONATRICE: Beatrice Ciuffetelli

Seminario in inglese sul Multilinguismo con T. Marinis

Multilingualism is nothing new, it has always existent at it has evidence starting from the 3rd
millenium BC in Mesopotamia, but also in the Roman empire. People had to communicate with each
other so they would speak different languages. In England English was spoken among common
people, whilst French was used in the ruling class. Latin was common in the church.

Multiliteracy is the ability to read/write in several languages: a solider in the Roman army didn’t have
to be literate in multiple languages, but an administrator did. Multiliteracy depends on education:
does the education system offer opportunities for children to become multiliterate?

In the 21st century there has been an increase in multilingualism and multiliteracy, and there is a
reason for this. The increase in the number of multilingual citizens is due to urbanisation (migration
within countries), globalisation (migration across countries); EU policies on language learning in
schools. Also, human rights (UNESCO) and support of minority languages, like Welsh: language
rights of minorities are an integral part of well established, basic human rights widely recognised in
international law, just as are the rights of women and children. Multiliteracy is important in the 21st
century. In the past literacy was for the elite, but not anymore; literacy skills are necessary to funcion
in the 21st century: navigating through a city, reading a rent contract, reading an emplyment contract,
reading information about Covid-19. Reading gives a window to culture and is a tool for learning and
developing skills which could also lead to emplyment.

According to the Community Languages Report of 2005, in the UK 702,000 children in England
speak at least 300 different languages between them. According to the School Census: in primary
school in England, 21% of pupils have English as an Additional Language.In secondary schools the
figure stands at 17.1% (School Census, Academic Year 2019/20). However these statistics are not
very accurate.

There is also a heritage language aspect. Children who have English as an Additional Language
acquire the home language as a Heritage Language. A language qualifies as a heritage language if it
is a language spoken in the home or is otherwise readily available to young children, and crucially
this language is not a dominant language of the large (national) society. Thus, the majority is English,
minority is heritage language. However there is limited or no support of heritage languages in schools
due to lack of resources, lack of understanding about their importance, a misconception and a fear
that support of the heritage languages may be at the expense of the majority language and may affect
integration in the society, but also some schools and teachers recommend families to use English in
the home.

There is also n educational perspective, as the performance of children whose first language is not
the language of instruction has attracted particual attention. There are numerous investations on the
matter, such as the PISA studies, in which emerges that lower educational outcomes of children and
adolescents who grow up bilingually, literacy and reading comprehension is the most vulnerable thing
in these learners; moreover many failing to achieve monolingual levels even after many years of
schooling in the majority language. These reports don’t take into account the social background,
native language use and support among this group of children (from school, family). There is a socio-
economic background effect.
This leads to a topic that was debated in the 70s (Cummins, 1978; 1991): the cross-linguistic transfer
of underlying skills. The notion of a common underlying language proficiency (CUP) which
subsumes a range of skills that underlie language and literacy development.

A typical example of common underlying language proficiency: phonological and morphological


awareness: bilingualism can confer an advantage: speakers can transfer certain skills from one
language to the other language without having to learn them from scratch. For example, children who
have acquired literacy in one language can use some of the underlying skills (e.g. phonological
awareness) for the development of reading skills in another language. There is relatively limited
research in the UK on how children develop the two language side by side and if the perception above
is true. This is the context for the present study: to investigate the heritage and majority languages of
bilingual children in the UK.

What we know about bilingual childrens is that they are heterogeneous. Some may speak two
langauges from birth (simultaneous), others may begin learning a second language later in their life
(sequential, early/late, second language learners). The amount of input and use of their languages may
differ due to various factors: the status of each language (majority, minority), which language is used
in the school and wheter hey have literacy in one or both languages.

This brings to language dominance. Children are typically not balanced: the children’s language
ability depends to a large extent on the use of each language. The two languages are usually not
acquired to the same level (this is called language dominance). Language dominance is based on the
use and not proficiency.

According to previous research, growing up bilingually and acquiring two languages in their spoken
and sometimes written form influences literacy development positively. However, bilinguals do not
use both languages for the same purpose and frequency but use languages complementarly. Language
use may change over time as a function of experience, adn therefore language dominance may also
change.

An other aspect that is important in languages is orthography. The writing system may affect
children’s acquisition of word reading: each system is based on a different set of symbolic relations.
The prcess of learning to read in different writing systems may depend on the type of writing system
used in each language - alphabetic, syllabary and logographic system.

However there are some gaps in previous research. There is limited research on how the
heritage/minority language and majority language develop side by side and how schooling in a
majority language affects children’s language acquisition and literacy skills. It is unclear how they
compare to monlingual children and also how the two langauges compare to each other.

Follows with explaining the results of a new research which compares how bilingual primary school
children perform in the heritage (Greek) vs. the majority language (English) in language and reading
tasks; compare their performance in English with monolignual English children and address if there
is a relationship between their language and reading skills and language use within and outside the
home. With further explaining of the results in graphics, turns out bilingual children are better than
monolingual children. That’s nothing we would have expected to find, we were expecting to find the
opposite. Language dominance changes when children enter school. Children have better
phonological awareness and literacy skills in the dominant majority language (English) compared to
the non-dominant heritage language (Greek). Language dominance doesn’t change from Year 1 to
Year 2, adn from Year 3 to Year 4 in therms of language and literacy skills: children have better skills
in the majority compared to the heritage language in all 4 years of primary school.
A strong relationship between language use outside the home and perfomance only in the minority
language. This shows that parental effort should be directed towards the minority language because
schooling levels out differences in the majority language. To conclude, being bilingual is a strength
for literacy development in the majority language. This has some implications: supporting heritage
languages at school is not at the expense of the majority language. Furthermore, literacy development
in the heritage language may benefit literacy development in the majority language.

Aside of advantages at the cognitive level, mulitlingualism opens opportunities for people to learn,
communicate, for emplyment and so on. There is a significant role of the input: in the Global North
schooling can level out differences in home input for the majority language. Heritage languages are
thus not mainained: we need to look at input at hjome for heritage languages and how we can support
them.

22° LEZIONE - 3/05/2022

SBOBINATRICE: Beatrice Ciuffetelli

REVISIONATRICE: Nashua Laezza


Ieri sera leggevo un articolo sull’Internazionale che parla della vita di un iperpoliglotta: un signore
che fa pulitura di moquette, cresciuto in un contesto in cui non era valorizzata l’educazione; questa
sua facoltà di imparare velocemente le lingue la considerava come normalità. È chiaro che questo è
un eccesso, perché deve avere capacità di memorizzazione non indifferenti, conosce bene una
ventina di lingue, in pratica il suo spazio linguistico è costituito da più di venti lingue. È
interessante leggere perché poi quando è stato scoperto è diventato subito un caso; giornali molto
importanti si sono accorti di questa cosa e sono andati immediatamente a intervistare questo
signore. L’abbiamo detto tante volte, l’ha detto ieri sera il Professor Theo Marinis che imparare le
lingue è una cosa naturale, essere multilingue è una cosa naturale per ciascuno di noi. la lezione di
ieri è stata molto interessante perché si va ad analizzare gli effetti del bilinguismo in quel caso da
una prospettiva diversa che è quella della Linguistica acquisizionale: cioè hanno sottoposto due
gruppi di bambini che frequentavano la stessa scuola ma la differenza tra i due gruppi era nello
spazio linguistico di uno di loro di una lingua ulteriore rispetto alla lingua della scolarizzazione e
una lingua che veniva coltivata in famiglia e soprattutto attraverso un’oretta di corso il sabato
mattina e l’analisi riguardava il vedere come questi due diversi gruppi si comportavano di fronte ad
alcune questioni linguistiche come l’elisione, lo scambio di posto, la sostituzione di una lettera. A
me ha lasciato un dubbio nella ricerca: voi che impressione avete avuto? Quello che mi ha colpito
parecchio: ma se uno sa sostituire o sa togliere due lettere da una parola si può dire che conosce una
lingua? A me ciò che ha colpito è le modalità di elificazione di analisi della competenza linguistica,
mi ha lasciato in dubbio questa tipologia. Dobbiamo capire che Theo Marinis è studioso di
linguistica acquisizionale e gli studiosi di linguistica acquisizionale sono molto attenti alla lingua
come forma. Studiano i progressi che ciascun apprendente fa, fanno studi longitudinali: seguire un
apprendente, nel tempo, nel suo percorso di acquisizione di una lingua. Cosa significa il suo
percorso di acquisizione? Significa che analizzano i progressi che ogni apprendente fa, nel tempo,
acquisendo spontaneamente la lingua, cioè senza che quei processi di accelerazione dello sviluppo
della competenza linguistica che si dovrebbero realizzare all’interno di una classe abbiano luogo. Si
vede come si comporta un apprendente che sviluppa la sua competenza sull’ambiente di lavoro,
nella vita di ogni giorno, senza essere esposto a un contesto guidato di apprendimento. Di solito chi
si occupa di queste cose, non solo è attento ai processi formali ma è uno studioso che pensa che ci
siano delle tappe di sviluppo linguistico che si verificano a prescindere dall’altra lingua parlata da
quel apprendente. Si sa che ci sono quegli studiosi che si occupano dell’acquisizione delle
negazioni, quando emerge la negazione; ci sono quegli studiosi che si occupano del processo di
apprendimento del sistema verbale. L’obiettivo è quello di dimostrare che anche in un
apprendimento spontaneo che non è condizionato, andare a vedere come naturalmente, senza
condizionamenti, si sviluppano le varie forme della lingua e questi studiosi hanno visto che ci sono
quelle che vengono chiamate varietà di apprendimento di una lingua, cioè le varietà di
apprendimento funzionano come se fossero dei sistemi incompleti che mano a mano si avvicinano
alla lingua target però c’è una sequenza che è naturale ma sempre ricorrente. Di questo si occupano
gli studiosi di Linguistica acquisizionale. Molto spesso essendo legati a un’attenzione sulle forme,
operano con dei test che si basano sulla forma piuttosto che sul nucleo. Lavorano su spezzoni di una
lingua. Quello che mi ha lasciato dubbiosa è dedurre dal fatto di saper svolgere quei compiti che è
segno di progresso nel percorso di apprendimento, mi lascia un po’ di amaro in bocca. Ci sono altri
studi che mettono in luce che una variabile fondamentale nella gestione del bilinguismo è la lingua
che si possiede come L1 o la lingua che si va ad apprendere come L2. Quindi ci sono tanti studi da
fare e gli studiosi non si trovano tanto d’accordo. C’è un altro gruppo di studiosi che contestano
molto quest’idea degli universali linguistici che si ripetono in tutti processi, perché loro dicono non
è solo una questione di acquisizione naturale ma il ruolo del contesto è talmente importante che non
si può trascurare anche negli studi. Quindi per dirvi che era una lezione molto interessante e una
metodologia di ricerca molto strutturata in dei gruppi arbitrari, ma le ricerche di linguistica si fanno
così, ci sono delle ricerche di linguistica acquisizionale che si basano su un unico parlante seguito
per 3/4 anni e si è visto come è andato avanti, sono ricerche importanti ma c’è questo gap, problema
iniziale di essere basate su un numero esiguo di parlanti. Non solo esiste la linguistica
acquisizionale ma anche una applicazione della linguistica acquisizionale che si chiama didattica
acquisizionale che non è sviluppatissima però esiste e ci sono studiosi che si occupano di questo che
dice: all’interno della classe se esistono delle sequenze naturali di apprendimento all’interno della
classe queste sequenza vanno seguite, cioè se vuoi che il processo di apprendimento si acceleri
perché non seguire quelle che sono le tappe naturali di apprendimento e ci sono

studiosi e insegnanti di lingua che si occupano e lavorano con questo tipo di approccio, cioè insegno
le lingue così come queste lingue vengono apprese in modo naturale, naturalmente l’obiettivo della
classe e dell’insegnante in classe è quello di far sì che questi processi naturalmente accadono,
perché l’esposizione ad un input in una lingua diversa naturalmente diventa competenza, si
trasforma in competenza in un’altra lingua. Questi dicono: acceleriamo questo processo, lavoriamo
su quegli elementi che naturalmente e con un tempo molto lungo perché è chiaro che ci vuole tempo
se sei esposto alla lingua rispetto a come l’apprendi all’interno della classe. Ci sono approcci, come
l’approccio del quadro che sono completamente diversi; l’approccio del quadro dice sì la
competenza è anche linguistica, bisogna sicuramente vedere come si apprendono le lingue in
maniera naturale, si parla di livelli di acquisizione e di livelli di competenza linguistica però quello
che è importantissimo è prima di tutto insegnare agli studenti a sapere fare come la lingua; non è
tanto imparare prima il presente indicativo o il congiuntivo è impararli a gestire i diversi contesti,
domini e poi attività linguistiche. Ci siamo fermati ad analizzare le lingue dell’istruzione primaria,
come all’interno della scuola italiana vengono recepite le indicazioni europee che spingono verso la
valorizzazione e la promozione del plurilinguismo e abbiamo visto che nell’istruzione prescolare e
primaria pur essendoci una forte capacità da parte dei bambini di gestire il contatto fra lingue
diverse, invece, da una parte non si valorizzano le lingue e le culture di cui questi bambini sono
portatori come nel video girato nella scuola dell’Alsazia che fa comprendere che non ci vogliono
grandi sperimentazioni o infrastrutture per costruire un programma alle scuole elementari di
valorizzazione del plurilinguismo. Ormai il plurilinguismo è presente nelle classi, quindi basta
semplicemente analizzarlo e farlo percepire agli altri ragazzi, quindi non c’era in quelle classi della
diversità e non c’era quel mito, stereotipo che mantenere la propria lingua va a decremento della
lingua della scolarizzazione. Le maestre erano tranquille e i bambini venivano messi in contatto con
le lingue dei loro compagni di scuola ma ugualmente le maestre non è che dovevano conoscere tutte
le lingue di tutti i compagni di scuola. In quel momento le maestre diventavano apprendenti insieme
ai loro alunni. È un classico progetto di language awareness: non stai insegnando una nuova lingua
ma stai rendendo consapevoli i bambini che anche in un piccolo ambiente come quello della classe
esistono lingue e culture diverse e tutto questo non va a svantaggio della lingua della
scolarizzazione. Esperimento bellissimo, non è che magari non siano state fatte cose del genere in
Italia, magari ci sono scuole in cui gli insegnanti hanno fatto qualcosa di molto simile però non c’è
la capacità di documentare e non c’è stata nella scuola una continuità nella sperimentazione.
Progetti meravigliosi sono stati realizzati ma sono finiti con insegnanti che magari sono andati in
pensione, cose accidentali che invece hanno portato alla perdita di un patrimonio conoscitivo e di
esperienza didattica ed efficacia degli interventi che magari era straordinaria. La non continuità, il
lasciar tutto in mano alla scelta di dirigenti scolastici, docenti ha avuto risultati meravigliosi ma non
sempre ha avuto dei risultati anzi molto spesso ha portato a fenomeni di quasi chiusura nei confronti
della diversità. Già nella scuola primaria abbiamo visto che se si parla di lingua straniera si parla
esclusivamente di inglese. Si parla di una lingua che è ritenuta una lingua utile per il futuro dei
bambini; non che non lo sia, quello che non funziona è questa esclusività che aumenta nel percorso
scolastico portando poi gli stessi bambini a chiudersi e non avere quella curiosità nei confronti delle
lingue degli altri che hanno invece quando sono più piccoli. La lingua inglese sia nell’istruzione
secondaria che nell’istruzione superiore e nell’istruzione degli adulti diventerà la lingua dominante.
Diventerà lingua dominante e con scarso successo perché usciti da scuola, non si può dire che, dopo
13 anni di esposizione alla lingua inglese, i ragazzi sappiano la lingua inglese. Infatti vediamo che
nella scuola secondaria le lingue immigrate non sono previste, manca il sostegno strutturale in
italiano come lingua seconda. Ci sono dei progetti sulle lingue regionali e minoritarie nei luoghi in
queste lingue sono parlate e poi la lingua straniera è l’inglese con l’eccezione della scuola
secondaria di primo grado in cui è prevista una seconda lingua straniera che viene imparata solo per
i 3 anni della scuola secondaria di primo grado. Nella scuola secondaria di secondo grado dal 2010
è stato introdotto il CLIL (insegnamento di una disciplina non linguistica in lingua straniera
all’ultimo anno dei licei e degli istituti tecnici e due discipline normo linguistiche in lingua straniera
nei licei linguistici a partire dal terzo e quarto anno). Abbiamo visto con Silvia Minardi come anche
in questo caso la preparazione degli insegnanti sia fondamentale perché l’insegnamento del
contenuto in lingua è affidato all’insegnante disciplinare che quindi prima di tutto dovrebbe
conoscere bene la lingua nella quale va a insegnare e poi dovrebbe avere un po’ di rudimenti su
come funzionano le lingue e su come si insegnano perché abbiamo visto con la professoressa
Minardi che nei programmi scolastici l’insegnamento di una disciplina in una lingua diversa ha
come obiettivo primario quello di rafforzare la competenza linguistica. Ma se questa competenza la
fai rafforzare da chi non la sa fare, c’è un crash, la cosa non funziona. Con la legge 30 ottobre 2008
non son tanti anni che l’apprendimento delle lingue straniere è diventato obbligatorio fino al
termine della secondaria superiore e quello che è interessante è che in tutte le scuole d’Europa l’età
di apprendimento è un’età che diminuisce. Si tende all’inserimento di una lingua straniera nella
scuola in quasi tutti i Paesi Europei a un’età abbastanza precoce. Ci sono anche dei Paesi, come
l’Irlanda in cui non esiste in tutto il percorso scolastico che i ragazzi studino le lingue straniere
perché crescono bilingui e il gaelico e inglese sono ritenute lingue sufficienti per loro e non c’è
l’insegnamento delle lingue. Il periodo obbligatorio: l’Italia ha un periodo obbligatorio di due
lingue molto piccolo: 3 anni solamente, ci sono Paesi come la Lituania che studiano per tanto tempo
due lingue rispetto a quello che si fa in Italia. Ci sono poi tanti sistemi educativi che offrono le
lingue straniere come materie opzionali nell’istruzione primaria e/o secondaria generale, come
Francia, Spagna, Portogallo, ci sono materie a scelta, come se nella scuola ci fossero delle materie
in più a scelta, questo non succede in Italia. Tutti i Paesi scandinavi offrono lingue straniere come
materie opzionali. Lingue obbligatorie durante la scuola dell’obbligo, naturalmente l’inglese è
quella che prevale. Ci sono altri paesi in cui la lingua è a scelta da parte dello studente, non c’è
lingua obbligatoria, ma è lo studente che sceglie quale lingua apprendere. In Lituania ci sono 3
lingue obbligatorie, i bambini lì crescono imparando anche il russo, quindi c’è un multilinguismo
molto marcato. La prova di inglese degli Invalsi che prevede un testo di lettura e un test di ascolto
dà l’idea di una scuola molto diversificata perché ci sono coloro che hanno raggiunto la sufficienza
e studenti no. La stessa curva per l’italiano c’è anche per l’inglese, si vede che le regioni del Sud
per esempio vanno peggio per l’italiano e in inglese, la scuola elementare funziona bene, aumenta
in terza media la parte rossa e i livelli di ascolto in inglese peggiorano nella scuola media; ci sono
regioni in cui la maggioranza degli studenti non riesce a raggiungere la sufficienza in terza media. È
tutta colpa degli studenti? Sicuramente abbiamo l’aspetto socioculturale e socioeconomico di
partenza che ha un’influenza molto forte anche sulle competenze linguistiche ma forse ci sarà un
problema anche su come queste lingue vengano insegnate perché i bambini della scuola elementare
quando vengono sottoposti alle prove internazionali (ogni tot anni vengono organizzate delle prove
sulla competenza nella lingua di scolarizzazione e sulla competenza in matematica da grandi
organizzazioni internazionali e sono prove che hanno una difficoltà uguale in tutte le lingue e sono
test tarati in modo che abbiano tutti la stessa difficoltà e possono servire anche se basati su lingue
diverse come un metodo usuale su cui misurare la competenza dei ragazzi.) i ragazzi della scuola
elementare sono a livelli altissimi. Questa competenza, decresce drammaticamente con l’avanzare
del livello scolastico che è paradossale, si va a scuola per imparare e invece non si arriva ad
imparare. Sicuramente, ci saranno tantissimi fattori che influenzano questo ma parecchio dipende
dall’attenzione che in un Paese viene posta alla formazione dell’insegnante, al modo in cui gli
insegnanti vengono formati per poi andare a insegnare nella classe. Guardate i risultati Invalsi del
quinto anno delle superiori: sopra, troviamo l’italiano e sotto, troviamo l’inglese lettura e inglese
ascolto. Non è che ci dà un quadro di un Paese che si occupa fortemente dello sviluppo delle
competenze linguistiche dei propri futuri cittadini. Andare a vedere questi risultati ci dice che
qualcosa non funziona. Sono risultati che sono sostenuti da altre indagini internazionali sulle
competenze che hanno acquisito nelle lingue i bambini e questo ci dà l’idea di una scarsa attenzione
allo sviluppo delle competenze linguistiche, ad esempio al termine della quinta superiore e quindi
dopo 13 anni di studio dell’inglese il rosso scuro non raggiunge il B1. C’è una fascia molto ampia
che raggiunge il B1 e invece una fascia che è più o meno ampia, a seconda delle regioni, che
raggiungono una competenza a livello B2 di inglese. C’è un dato interessante: dove stanno quelli
che in inglese ottengono i risultati migliori? Stanno in regioni bilingui, i risultati migliori si
ottengono nella provincia autonoma di Bolzano, il fatto che ci sia un contesto che più aperto di altri
alle lingue, sicuramente avrà un’influenza. Poi c’è la provincia di Trento e poi il Friuli Venezia
Giulia. Forse i fattori che incidono sull’apprendimento sono tantissimi probabilmente il fatto di
vivere in un contesto naturalmente multilingue sicuramente aiuta anche nell’apprendimento di altre
lingue.

Il bilinguismo che è dato dai dialetti non viene valorizzato, tutto questo ha una forte influenza sulle
attitudini degli individui nei confronti del riconoscimento del loro bilinguismo e poi, sicuramente è
importante l’essere in un ambiente plurilingue e multilingue, ma i fattori sono talmente tanti che
non dobbiamo dimenticare il fatto che per esempio i bambini e i ragazzi che vanno a scuola nel Sud
hanno sia un numero più basso di scuole (per esempio non vanno all’asilo nido) e si è visto come il
contatto con la scolarizzazione precoce aiuti in situazioni socioculturali e socioeconomiche
complesse delle famiglie, il fatto di poter andare a scuola presto aiuta tantissimo. Noi sappiamo che
mentre in Emilia Romagna il 60% dei bambini possa andare all’asilo nido, nel Sud questo diventa
una percentuale del 10%. Quindi il contatto con la scuola si ha molto più tardi. Il fatto di essere
dialettali, di non avere aiuti in casa perché i nonni magari non sono in grado di aiutare nel fare i
compiti, il fatto di non avere libri in casa etc. i fattori sono tantissimi e sicuramente l’essere in un
luogo dove si è dialettofoni sicuramente non è di aiuto. Se vediamo i risultati del Veneto, lì sono
dialettofoni lo stesso ma le cose funzionano meglio perché ci sono altri contesti che pesano di più.

L’attenzione nei confronti della scuola in alcune regioni del Nord Italia è stata più marcata ma
anche in Toscana, Emilia Romagna… in Emilia Romagna ci sono gli asili nido che sono esempi in
tutto il mondo e studiosi da tutto il mondo vengono a studiare gli asili di Modena e Reggio Emilia,
che sono i migliori del mondo. Fattori tantissimi e purtroppo il bilinguismo dato dal dialetto viene
non favorito da fattori contestuali che sono pesantissimi; non c’è correlazione diretta tra un fattore e
l’altro, la cosa è molto complessa. Il semplicemente dire come si legge sui giornali: “ i ragazzi del
Sud non sanno le cose, mentre al Nord si” non è vero. È un dato medio ma è condizionato da fattori
che non riguardano le capacità degli studenti ma che sono molto più ampi.

È importante il mantenimento del dialetto, delle lingue ma la lingua della scolarizzazione è


fondamentale perché poi dovete vivere in uno Stato. Sapere le lingue è fondamentale perché si vive
in un mondo globalizzato perché una lingua non basta più, però la lingua del Paese non va esclusa,
riguarda la capacità di muoversi all’interno della società e quindi la capacità di capire e farsi capire.

Il primo responsabile è lo Stato che non ha mai considerato come invece dovrebbe essere
l’istruzione come la leva vera per lo sviluppo di un Paese e di una società. Anche il fatto che
all’università ci vada una percentuale molto bassa di studenti e che si laurea una percentuale ancora
più bassa e il fatto che la media delle persone che finiscono il percorso di studio universitario
italiano sia tra le più basse del mondo, questo è un disastro. C’è l’idea che studiare non serve e
prima di tutto va combattuta questa idea. Come fa un Paese a svilupparsi se non si presta fortemente
attenzione ai processi di insegnamento?

I bassi risultati del Sud non sono una questione di oggi ma è un qualcosa che ci si porta dietro ed è
condizionato da tantissimi fattori, tra cui il basso livello di scolarizzazione delle famiglie. I livelli di
istruzione che già a partire dall’Unità di Italia nel Sud non erano paragonabili a quelli del Nord, la
stragrande maggioranza del Sud era analfabeta. Quando De Mauro scrive” la storia linguistica
dell’Italia Unita” mette in luce il fatto che i processi di italianizzazione sono stati più rapidi nel
nostro Paese perché gran parte degli analfabeti che vivevano nel Sud sono emigrati. È l’Italia che si
è tolta un problema con i milioni di persone che sono emigrate in altri Paesi è chiaro che il
problema dell’analfabetismo si è ridotto di molto, quindi è un retaggio di secoli e quindi dire i
bambini delle scuole del Sud non sanno fare è una cosa non vera.

C’è un’altra questione: uno dei fattori riguarda le competenze degli insegnanti, % di insegnanti di
lingue straniere e moderne di livello secondario inferiore che sono state all’estero per motivi
professionali con il sostegno del programma di mobilità transnazionale, l’Italia sta molto in basso,
solo il 20% degli insegnanti di lingua inglese o francese sono stati in Inghilterra o in Francia o con
un programma di mobilità europeo o con un programma di mobilità nazionale. L’Italia è piccina,
praticamente non esiste un sostegno per gli insegnanti di lingua per andare a rinfrescare la loro
competenza linguistica. Ci sono Paesi invece che hanno una mobilità maggiore come la Spagna, il
Portogallo… se un insegnante è laureato in una lingua, e poi questa lingua non l’ha più praticata o
l’ha praticata a scuola solo con i suoi studenti, come si può pensare che possa continuare a
insegnarla? Per quanto riguarda l’istruzione universitaria c’è un grande dibattito in corso per cui si
pensa che l’internazionalizzazione del sistema universitario passi attraverso l’offerta dei corsi di
lingua inglese, si è adottato un trend che ormai è in tantissime università in Europa ed extra Europa
di attrarre gli studenti internazionali attraverso l’offerta di corsi in lingua inglese e c’è una polemica
perché l’istruzione passa tutta in inglese, prevalente in tutte università del mondo.

In Italia, si è sviluppata tutta questa polemica sul fatto che l’internazionalizzazione significhi invece
semplicemente offrire i corsi in lingua inglese e un altro studioso presente nel nostro simposio ha
detto guardate che mettere una lingua contro un’altra non è una politica linguistica poi c’è sempre il
dubbio che utilizzare l’inglese sia nell’interesse degli studenti perché se poi ad insegnare è un
docente che sa poco di inglese, come abbiamo visto nella lezione di Minardi che si basa soprattutto
sulla ripetizione di diapositive già pronte o video già predisposti non è tanto nell’interesse degli
studiosi, poi un problema di equità tra madrelingua, è vero che studiare in italiano sia un ostacolo
nel mercato internazionale? Ne dubito che lo sia perché gran parte degli studenti che si sono laureati
in Italia vanno all’Estero e lavorano subito e magari non hanno fatto il corso di inglese, magari
sanno l’inglese per altri motivi e hanno svolto un corso in italiano. Se si mettono in atto queste
contrapposizioni si contraddicono le politiche linguistiche verso il plurilinguismo, che sono le
politiche linguistiche europee; si va contro quello che l’Europa ha le radici e si invalida anche l’idea
che il sapere scientifico sia scientifico solo se scritto o parlato in inglese e c’è il pericolo che questa
ondata di inglese come mezzo di istruzione vada a toccare anche segmenti più bassi di studio e
quindi si dimentichi quanto è importante la competenza della lingua della scolarizzazione e nella
lingua del Paese. La cosa interessante che succede in Italia è che la gran parte degli studenti che si
scrivono ai corsi di lingua inglese sono italiani. Quindi se la scelta di offrire corsi in lingua inglese
era una scelta fatta per favorire l’internazionalizzazione, per attrarre studenti internazionali tutto
questo non è così ben riuscito e gli studenti iscritti nei corsi anglofoni, nei corsi inglesi questo sono
dei pezzi tratti da un rapporto della conferenza dei rettori delle università italiane, la quota dei
cittadini stranieri è mediamente del 6,5% a livello triennale e 15,3% nelle lauree a ciclo unico, un
po’ di più nel dottorato, però come vedete sono la stragrande maggioranza di coloro che scelgono i
corsi in lingua inglese sono studenti italiani. Se questa scelta era una scelta di
internazionalizzazione per ora è una scelta che è completamente fallita. Opportunità e opportunità:
l’Erasmus. L’Erasmus è davvero un modo per andare a sperimentare non solo la vita in un diverso
contesto sociale ma anche in diverso contesto educativo e quindi in rapporto con lingue diverse
purtroppo sono troppo pochi gli studenti che possono fare l’Erasmus ma sarebbe un’esperienza
fondamentale e che tutti gli studenti dovrebbero assolutamente poter fare e in questo modo si
promuove il plurilinguismo, facendo uscire gli studenti e facendoli vivere in un certo periodo in un
contesto sociale ed educativo diverso.

23° LEZIONE - 11/05/2022


SBOBINATRICE: Nashua Laezza

REVISIONATRICE: Mari Dilusiya Philippu Rasa


Abbiamo visto la Riflessione teorica sul plurilinguismo/multilinguismo, applicazioni delle teorie e
come le politiche linguistiche adottano queste teorie.
Adesso stiamo vedendo come le politiche linguistiche europee che promuovono il multilinguismo, il
plurilinguismo, sono politiche vaghe, non precise, soprattutto poi l’Europa non può dare indicazioni
tassative ai singoli stati, quindi sono indicazioni, però abbiamo visto poi come queste indicazioni
sono applicate nel nostro paese in un contesto fondamentale che è quello della scuola. Abbiamo visto
cosa succede nella scuola dell’infanzia, primaria. Abbiamo visto che si possono fare delle attività di
consapevolizzazione almeno dell’importanza delle lingue e della presenza di altre lingue, non è detto
che dobbiamo imparare tutte le lingue. l’importante è far superare quella paura della diversità: paura
presente soprattutto nella scuola.
Abbiamo visto cosa succede nella scuola secondaria e nell’università e ci siamo soffermati sul dire
che tutta questa grande attenzione alle lingue, allo sviluppo linguistico-comunicativo di una società:
consideriamo che l’Europa dice: “il cittadino europeo deve conoscere almeno 3 lingue (la propria o
la lingua della scolarizzazione in altri documenti e altre due lingue). siamo lontani dal raggiungimento
di quest’obbiettivi e dal costruire politiche linguistiche che siano strutturate e che durino nel tempo.
Oggi ci occupiamo di se e come il multilinguismo e plurilinguismo trovi spazio nei contesti di
comunicazione pubblica, cioè che cosa succede in Italia nei contesti di comunicazione pubblica (ossia
in tutta quell’enorme quantità di informazioni che ci arrivano dai media, stampa o che dovrebbero
essere presenti negli uffici pubblici), cioè quanto plurilinguismo, aldilà della scuola, vediamo intorno
a noi.
Ci ri-occuperemo di lingue nazionali, straniere, minoritarie, immigrate.
Quando abbiamo visto il QCER nelle sue parti iniziali in cui identifica ed espone quelli che sono gli
obiettivi che una politica linguistica europea vuole promuovere e raggiungere, avevamo detto che una
cosa importantissima era creare un contesto favorevole al plurilinguismo (contesto significa creare le
condizioni affinchè nello spazio sociale di comunicazione siano presenti e valorizzate le lingue altre
rispetto all’italiano). Ossia andiamo a vedere se nel nostro paese questo contesto favorevole al
multilinguismo c’è per quanto riguarda queste lingue.
L’offerta linguistica nei media audiovisivi, nella radio e nella tv è scarsissima, anzi bisogna ricordare
che la tv è stato uno degli strumenti più importanti per il processo di italianizzazione della penisola.
La tv era uno strumento che portava nelle case di tutti gli italiani la lingua italiana che, non era
condivisa da tutta la popolazione. De Mauro spesso scherzando ha detto ha fatto più Mike Bongiorno
(la tv è pervasiva come strumento, entra nelle case) con il suo italiano ristretto e limitato della scuola:
ha fatto in modo che tutti gli italiani lo capissero.
L’offerta di lingue altre nella tv nazionale (per ex. l’offerta dei dialetti) è molto ristretta. Una scelta
che è stata fatta da tanti anni nei media italiani domestici, nelle sale cinematografiche e nella
produzione filmica è stata quella di doppiare, cioè si è scelto di doppiare sistematicamente qualsiasi
tipo di trasmissione, serie televisiva, cartoni animati. Quindi da una parte si è creata una scuola
importantissima di doppiaggio (=fare in modo che il labiale abbia una corrispondenza con ciò che
viene pronunciato, è una cosa complessa scrivere le traduzioni filmiche). Questo fatto di aver scelto
di doppiare film o trasmissioni televisivi prodotte all’estero, non favorisce il contatto con le altre
lingue. questo non è un’operazione che fanno tutti gli stati: c’è una ricerca fatta da 2 ricercatrici
spagnole che hanno studiato nell’acquisizione di lingue straniere quale può essere il ruolo del
sottotitolaggio.
Cosa succede nei vari paesi europei? La situazione è differenziata xk ci sono diversità sia a livello
del cinema che della televisione e quindi per esempio in Svezia, Finlandia, Estonia si sottotitola il
cinema, ma non si sottotitola la televisione, in Italia, Spagna, Austria, Germania invece si sceglie di
doppiare tutto. In alcune lingue come la Francia ci sono entrambe le versioni. Bulgaria, Lituania,
Lettonia, Estonia hanno scelto la sovrapposizione delle voci.
-> Situazione diversificata in Europa.
In Italia si mantiene il doppiaggio sia alla tv che al cinema. C’è una scuola fondamentale di
doppiaggio e l’importanza acquisita da questa scuola di doppiaggio tuttora impedisce che venga
utilizzato qualche volta anche il sottotitolaggio. È chiaro che ha acquistato così tanta importanza la
scuola di doppiaggio che adesso è molto più complicato tornare indietro.
Ma perché ci occupiamo di questo? Perché è emerso da vari studi che invece il sottotitolaggio, cioè
il far ascoltare ai ragazzi/bambini, soprattutto in età giovanile quando guardano i cartoni animati, è
uno strumento educativo nell’apprendimento o nel rafforzare le competenze nelle varie lingue.
Questa Indagine della commissione europea ha messo anche in luce che ci sono delle barriere all’uso
del sottotitolaggio in alcuni paesi: barriere culturali (non siamo abituati: c’è un’abitudine consolidata
negli anni a vedere nella lingua madre) , fisiologiche (leggere i sottotitoli mentre si ascolta è uno
sforzo cognitivo maggiore, in più spesso sono scritti con caratteri piccoli) e psicologiche (ex. gli
anziani non ce l’hanno mai fatta e non ce la possono fare), parla anche di barriere economiche (la
prof. non è d’accordo, pensa costi di più doppiare: anche xk se vuoi doppiare devi avere attori
professionisti), barriere tecnologiche (prof non d’accordo), misure legislative sì (xk la questione del
sottotitolaggio è un tema normato dal p.di vista legislativo). Le grandi conclusioni che emergono da
quest’indagine è che il sottotitolaggio aiuta ad accrescere lo sviluppo della competenza nelle lingue
straniere, può aumentare la consapevolezza sulla diversità delle lingue e può fornire una motivazione
per l’apprendimento linguistico, cioè l’entrare in contatto con una lingua ed ascoltarla può svolgere
questa funzione di tenere alta la motivazione o far scoccare la motivazione per l’apprendimento e
quindi come dice la commissione, il sottotitolaggio contribuisce a creare un’ambiente che incoraggia
il multilinguismo.
La conoscenza di lingue straniere e di studi universitari incoraggiano i cittadini a scegliere il
sottotitolaggio piuttosto che il doppiaggio. Questo per quanto riguarda la tv nazionale.
Adesso, con la possibilità di avere canali come sky, netflix… che danno la possibilità di seguire sia
il doppiaggio che il sottotitolaggio, magari si aprono nuove vie, anche per tutti i canali (disney, bimbi
etc.): è possibile seguirli anche nella lingua originale.
È una scelta che pregiudica anche semplicemente l’apertura nei cfr delle altre lingue, cioè il poter far
vedere ai bimbi cartoni in una lingua diversa e soprattutto abituarli a dei suoni che non hanno sentito,
sicuramente può portare dei vantaggi. Già questa scelta fa capire che non siamo in un paese dal punto
di vista del contesto così aperto al multilinguismo.
Ex. lo sloveno, in quanto lingua di minoranza tutelata, ha una certa presenza solo a Trieste: ci sono
alcuni canali televisivi di Triste che trasmettono in sloveno.
C’è un altro caso interessante che riguarda sempre alcune serie prodotte di recente in Italia: ex. serie
del commissario Montalbano -> non è il dialetto siciliano, è una lingua inventata, ma che mette in
luce tante varietà (una tra cui è il siciliano) sia dal p.di vista lessicale che sintattico. Ci sono altre serie
che hanno portato anche il dialetto alla ribalta: Gomorra, Suburra -> hanno portato il dialetto
napoletano e romanesco a tutti, fatto sta che Gomorra è sottotitolato in italiano perchè è il dialetto che
è un fattore costitutivo, non è una scelta stilistica, ma rispecchiava la realtà della comunicazione in
quei determinati ambienti: parlano dialetto quasi tutti (rif. andamento delle curve dell’ISTAT che
dicevano: attenzione in alcuni contesti di comunicazione il dialetto c’è ancora) e il fatto di aver voluto
mantenere il dialetto in queste serie è importante perché si è voluto ricalcare quello che succede in
contesti di comunicazione reale. C’è poi un’altra lingua di cui non si è mai parlato, ma che è una vera
e propria lingua: la lingua italiana dei segni (LIS).
La LIS è entrata molto poco nella programmazione televisiva (da qualche anno ci sono a determinati
orari del giorno i telegiornali nella lingua dei segni, ma molto spesso quando ci sono le conferenze
stampa del presidente del Consiglio c’è sempre un’interprete LIS che traduce in LIS quello che viene
detto: in tanti convegni, riunioni, molto spesso c’è l’interprete della LIS. Nonostante ci fossero delle
risoluzioni del Parlamento Europeo del 1988 e più di recente nel 2016, ma fino al 19/05/2021 la LIS
non era una lingua riconosciuta in Italia. Era rimasto l’unico paese europeo in cui non c’era il
riconoscimento della LIS. Fino all’anno scorso, si susseguivano le interrogazioni parlamentari (al
Parlamento Europeo) del perché l’Italia non riconoscesse la LIS e nelle risposte naturalmente il
Parlamento rispondeva dicendo che non era materia loro, ma che era materia dello stato e che quindi
è lo stato che deve decidere.
Il fatto di essere o non essere riconosciuta è fondamentale per una lingua perché il riconoscimento si
porta dietro la tutela e l’offerta della lingua: ex. bisogna garantire che nelle scuole ci siano gli
interpreti LIS se c’è un bambino sordo. Il fatto di riconoscerla è stato importante. La cosa più bizzarra
è che non è che è stata fatta una legge apposita del riconoscimento della lingua dei segni, ma è stato
inserito un emendamento nel decreto sostegni (quei decreti che durante il covid il governo e poi il
parlamento ha approvato per garantire i sostegni a tutte quelle attività danneggiate dal covid): il 5
maggio dell’anno scorso nell’aula del senato in uno di questi decreti sostegni c’è questo emendamento
che riconosce la LIS italiana e l’inclusione delle persone con disabilità uditiva. È stato poi
definitivamente approvato dal parlamento il 19 di maggio. Questo fatto che ci sia voluto così tanto
tempo per l’approvazione della lingua dei segni è di nuovo motivato da uno scontro forte tra prese di
posizione diverse nei confronti di questa lingua.
Rif. articolo di commento al riconoscimento della lingua dei segni che riconosce la LIS e la figura
dell’interprete della lingua dei segni: fin’ora non c’era una norma che diceva: per diventare interprete
della LIS devi aver seguito un corso etc e invece con il riconoscimento della LIS è arrivato anche il
riconoscimento dell’interprete.
L’ente nazionale per i sordi (non sono muti perché usano la lingua dei segni) che è l’ente che raccoglie
tutte le associazioni che si occupano dei sordi e della sordità dice: è un giorno storico per la repubblica
italiana che riconosce la LIS, dopo tanti anni ce l’abbiamo fatta, dopo tante campagne di
sensibilizzazione per favorire il riconoscimento della lingua dei segni. Di tutt’altro parere è la
federazione italiana dei diritti delle persone sorde: parlano di delusione e amarezza.
Una parte dice vittoria, un’altra parte dice è una delusione perché la battaglia fra chi è a favore della
lingua dei segni e chi è contrario si gioca sul tema del superamento della disabilità attraverso impianti
cocleari, cioè un’operazione chirurgica che inserisce nell’orecchio xk il problema dei sordi è il fatto
che non hanno mai sentito una lingua, non hanno mai sentito un suono e quindi non saranno mai in
grado di riprodurlo. C’è quindi una parte che dice noi ci dobbiamo battere perché sia data la possibilità
a tutte le persone sorde di avere un impianto grazie alle tecnologie, gli apparati medici e dovrebbe
essere quella la strada da seguire, non quella del riconoscimento della LIS. Si stanno battendo perché
l’impianto cocleare sia inserito fra quelle che sono le prestazioni sanitarie universali (che devono
essere offerte dallo stato a tutti i cittadini). Gli estremi sono sempre estremi: la prof. crede che la LIS
sia una lingua a tutti gli effetti e quindi ritiene che coltivarla, insegnarla sia importante. Il riflettere
sulla LIS ci fa capire tante cose anche su come funziona la comunicazione con le lingue verbali, ossia
che le parole sì sono importanti, ma non sono tutto: hanno bisogno di altri codici segnici per
significare: io mi muovo, muovo le mani, vediamo come la prof. si pone nello spazio della classe. Le
parole possono non bastare per la costruzione e per l’interpretazione del senso.
Non esiste una lingua universale per tutti i sordi, ma esistono la lingua (francese, inglese, americana)
dei segni. Anche la lingua dei segni gode di quel nesso fra natura e cultura e quindi di quella
arbitrarietà di cui godono le altre lingue storico-naturali. Non esiste una lingua dei segni unica per
tutti i parlanti sordi, ma anche le lingue dei segni nascono e si sviluppano in precisi contesti culturali
e quindi godono di quelle caratteristiche delle lingue. si pensa che alcune lingue fossero già presenti
in Cina, Mesopotamia, Egitto, nelle antiche civiltà, che si può affrontare qualsiasi argomento in LIS:
la lis è una lingua e si può parlare di tutto con la LIS, non è semplicemente un codice gestuale ristretto.
Lo studio è molto interessante: è interessante anche capire che nella morfologia, lessico, sintassi ci
sono altri elementi, altri piani di descrizione di questa lingua: Il luogo dello spazio in cui si segna è
fondamentale, la configurazione che assumono entrambe le mani, l’orientamento del palmo e delle
dita e il movimento (che si potrebbe pensare sia l’unica dimensione, ma in realtà è una lingua pluri-
dimensionale e quindi assume significatività non solo il movimento che viene fatto, ma anche la
distanza dal corpo, il modo in cui ci si muove e tanti altri piani diversi che mettono in evidenza la
complessità di questa lingua. Per fortuna, questa lingua è stata riconosciuta anche nel nostro paese e
si spera vengano consolidate sia le figure dell’interprete sia dell’insegnante della LIS. È comunque
un’altra possibilità espressiva, quindi non ci sono ragioni per negarla.
Non esiste una lingua dei segni universale. È un equivoco da chiarire: si può guardare
nell’articolo:https://www.treccani.it/enciclopedia/le-lingue-dei-segni-nel-mondo %28XXl-
Secolo%29/
Articolo scritto da una delle +grandi studiose della lingua dei segni italiane: Virginia Volterra
(ricercatrice del CNL=ente di ricerca nazionale).
Ex. c’era l’istituto Pendola a Siena -> ci venivano tanti sordi a studiare, ora c’è un centro che insegna
ai sordi americani la LIS italiana.
Ci vuole un’interprete fra le diverse lingue dei segni. ETNOLOG elenca +di 100 varietà diverse della
lingua dei segni.
Uno stesso significato viene espresso in modo diverso in lingue dei segni diverse. Ci sono anche
varietà e dialetti anche all’interno dello stesso paese. La lingua si muove nella bocca di chi la usa,
negli usi linguistici, non è un sistema chiuso, si adatta al contesto e al cambiare del tempo e quindi
alle esigenze linguistiche dei diversi momenti come lo fa qualsiasi altra lingua lo fanno le diverse
lingue dei segni.
I bambini che maggiormente imparavano la lingua dei segni erano quelli plurilingui (se in classe ad
ex. avevano un bambino sordo). L’essere plurilingue aiuta a superare le barriere e anche le barriere
che sono legate a codici linguistici che hanno modalità espressive che sono diverse dalle nostre lingue.

Che cosa succede in altri spazi della comunicazione pubblica e in particolare nei servizi sanitari
(ospedali), per il turismo, d’emergenza, trasporto: ambiti indispensabili per la vita, cioè nei servizi
sanitari quali lingue sono a disposizione dei pazienti o dei familiari e abbiamo trovato una situazione
estremamente diversificata e qui si apre un’altra questione importante che è quella della traduzione:
in tanti ospedali e servizi per il turismo ci sono le traduzioni dei dépliant, brochure, delle informazioni
in lingue diverse dall’italiano, ma da una parte c’è il problema di come nella nostra lingua viene
realizzata la comunicazione pubblica (ex. via di esodo): la comunicazione pubblica in Italia usa una
lingua estremamente complessa, burocratica che non rispecchia la lingua parlata. Calvino parlava di
anti-lingua -> quando si passa da una descrizione a un resoconto scritto il brigantaio che traduce
quello che aveva detto il bottegaio lo traduce in una lingua incomprensibile.
Tradurre dei testi così complicati come i testi della comunicazione pubblica italiana diventa
un’operazione complicata e la qualità della traduzione a volte è terribile (anche xk spesso le traduzioni
sono fatte attraverso i traduttori automatici perché costa meno farlo), però sia il contesto che la
polisemia delle parole impongono la presenza di una persona e molto spesso per motivi di risparmio
ciò non viene fatto (ex. didascalie nei musei).

C’è poi un altro contesto di comunicazione sociale che è quello che da qualche anno viene identificato
come linguistic landscape -> e ci si sta spostando sempre di più verso il semiotic landscape, cioè non
solo la lingua, ma altri codici che insieme alla lingua costruiscono lo spazio di comunicazione
urbano.
Cos’è il linguistic landscape? È rappresentato dalle lingue che si trovano nelle insegne commerciali,
dei negozi e pubbliche sugli edifici istituzionali, le indicazioni/nomi delle strade/luoghi. Tutte insieme
formano il linguistic landscape di una regione o di un agglomerato urbano: definizione dei 2 +grandi
studiosi, coloro che per primi hanno posto l’attenzione su quanto sia importante studiare gli usi
linguistici esibiti nei contesti di comunicazione sociale, anche perché ci mettono in luce la visibilità
delle lingue. è chiaro che lo studio dei parametri linguistici è uno studio che si è sviluppato soprattutto
a seguito delle emigrazioni, cioè gruppi di persone/comunità si sono istallate in diverse città/paesi e
con la loro presenza non solo nei contesti di comunicazione familiare, cioè quando si va per la strada
si sentono lingue altre, ma piano piano queste lingue sono emerse anche nei panorami linguistici.
Come dicono ancora Lengermen e Buris, la presenza di lingue diverse nei panorami linguistici mette
in luce il potere e lo status delle comunità linguistiche che vivono in un determinato territorio (prof.
dubbiosa su quest’affermazione xk non solo il potere e lo status, ma soprattutto l’attitudine nei cfr di
una lingua e anche l’attitudine nei cfr dell’esibizione della propria lingua.

La prof dice: abbiamo fatto delle campagne di analisi dei panorami linguistici urbani e qui siamo a
Roma in un quartiere multietnico (l’esquilino), accanto alla stazione: anche ciò non è causale (il fatto
che le comunità migranti si installino vicino ai luoghi da cui si può sempre arrivare o andar via
facilmente, simboli del progetto migratorio non è casuale). Abbiamo studiato insegne e annunci
pubblici: per andare per le strade del quartiere e raccogliere tutto il materiale c’è voluto +di 1
settimana xk era stra-colmo di insegne, annunci…etc -> una volta c’erano le elezioni dei
rappresentanti delle comunità al municipio, quindi tutti i manifesti elettorali, e anche tanti annunci
personali (ex.appiccicati sui muri, ai cartelli e scritti sia nella L1, ma anche scritti con una sorta
d’italiano (quell’italiano di contatto, quelle prime forme di varietà interlinguistica dell’italiano): ex.
“ragazzo rumeno cerca lavorare come barman, cameriere, guardia di corpo o altri lavoro”.

anche qui italiano di contatto: salmone fresche -> regolarizzazione.! Un po’ come il bambino che
apprende una lingua.
Come quando si parlava dell’interlingua e si diceva che comunque sono sistemi, non sono casuali,
ma c’è una sistematicità e avevamo fatto questa mappa del territorio che aveva messo in luce nelle
varie strade del quartiere quali erano le lingue più visibili e presenti nello spazio di comunicazione
sociale e tutti i pallini celesti sono il cinese: c’era una gran quantità di cinese, anche se la comunità
cinese non era la comunità +numerosa in quel quartiere.
La visibilità delle lingue nei territori è segno del potere e dello status della comunità? NO! La presenza
non è legata sempre alla visibilità xk dipende da tanti fattori, per esempio il fatto che i cinesi che
vengono in Italia si dedicano spesso alle attività commerciali e quindi hanno bisogno di mostrare le
loro lingue. le comunità +numerose a Roma a quel tempo erano rumeni e polacchi, ma essi facevano
e fanno altre attività (spesso lavorano nelle case e quindi non hanno bisogno di mostrare le loro
lingue). quindi è più legato all’attitudine e la propensione lavorativa.

Mentre tante altre lingue stanno insieme (si mostrano lingue insieme), soprattutto se si vede la Piazza
delle scoline rettangolare, si vedono lingue che stanno da sole: il cinese, cioè c’è una non volontà di
mischiarsi alle altre lingue, anche questo legato a questioni e abitudini sociali (ex. a Prato ci sono
strade invase solo dalla lingua cinese, come la via pistoiese): insieme alle lingue delle comunità
immigrate, abbiamo trovato soprattutto in questa zona (che anche è una zona di turismo: ci sono
importanti monumenti e chiese) tante lingue legate a temi giuridici: inglese, spagnolo, francese che
non sono legate solo alle comunità presenti sui territori.
Quindi abbiamo fatto tante analisi, le lingue presenti (ne abbiamo trovate +di 50) e abbiamo visto che
sul territorio c’è un continuum di lingue presenti, cioè lingue che si legano l’una con l’altra o la lingua
immigrata da sola, come spesso succedeva con la lingua cinese, ma la lingua immigrata insieme ad
altre lingue immigrate, la lingua immigrata+italiano, la lingua immigrata+italiano+altre lingue e poi
l’inglese+lingua immigrata, lingua immigrata+inglese+italiano…etc fino ad arrivare a quel
monolinguismo dato dall’italiano o dall’italiano di contatto.
Abbiamo trovato un continuum e una capacità delle lingue di mettersi insieme l’una con l’altra.
Non è vero che se una comunità sta su un territorio, la sua lingua deve emergere: no! Non è questione
di status né di potere, in alcuni casi sì, ma non in tutti.
Queste lingue non sono accettate a livello locale: già nel 2010 il quartiere e gli abitanti di quel
quartiere cominciarono a insospettirsi e non gradire la presenza di queste lingue (gli italiani che
vivevano in questo quartiere dell’esquilino): oltre al fastidio nei cfr della presenza
di altre comunità, cominciarono ad esprimere un fastidio nei cfr delle lingue degli altri. Tra la città di
Roma e la comunità cinese fu firmato un protocollo che diceva: “bisogna aumentare: non tutto
dev’essere in cinese, ma anche l’italiano dev’essere visibile”. Ciò che è successo a Roma, si ritrova
anche in altre città come Prato, in cui mentre prima c’era una grande varietà di lingue presenti nello
spazio di comunicazione, dopo questo regolamento per il commercio del 2009 del comune di Prato,
i vigili andarono a coprire le insegne che erano solo in cinese e imposero ai commercianti di mettere
nuove insegne in cui l’italiano doveva venire per primo ed essere in caratteri più grandi xk non ci
doveva essere questo senso di alienazione di vivere in uno spazio in cui dominava una lingua che era
totalmente incomprensibile agli abitanti.
Nel 2013 all’esquilino la situazione era completamente cambiata rispetto al 2003. Nel 2003 c’erano
tante lingue presenti, tanta varietà, spontaneità; nel 2013 la prof. è tornata lì e ha trovato molte meno
lingue -> in questi processi incidono anche i processi di cambiamento sociale ed economico dei
diversi quartieri (ex. l’Esquilino negli anni si è sempre + gentrificato, ossia si è imborghesito, è
diventato un quartiere di residenza per una classe sociale +elevata e ciò ha cancellato sia la presenza
delle persone, ma soprattutto la presenza delle lingue negli spazi di comunicazione sociale: non è un
caso che si verifica solo in Italia. Ci sono studi su quartieri per esempio delle periferie di Manhattan,
Brooklyn e il Bronx si stanno gentrificando e questa gentrificazione porta via anche le lingue altre
che erano presenti in questi territori. Ex. bellissimi lavori su Berlino, città che cambia continuamente,
c’è bisogno di ampliare lo spazio della città e di eliminare le periferie che diventano sempre +lontane
xk c’è bisogno di spazio e quindi si gentrifica continuamente).
La paura delle lingue è una paura che viene esercitata anche nello spazio di comunicazione urbana.

Un altro tema interessante è quello dell’utilizzo dei landscape come strumento, stimolo
all’apprendimento linguistico (ex. David Mavinoski, studioso americano che mette in luce che lo
studio dei linguistic landscape non solo è importante per l’analisi sociolinguistiche, di politiche
linguistiche, cioè quella che è stata fatta a Roma e a Prato è una politica linguistica che ha detto
bisogna smettere di usare le lingue altre negli spazi di comunicazione urbana, ma questi studi mettono
in rilievo quanto sia importante, anche linguistic landscape, per l’apprendimento linguistico, per
stimolare quella consapevolezza della diversità linguistica, la competenza interculturale e la
partecipazione civica.

Un altro settore in cui viene studiato il linguistic landscape è quello che chiamiamo le schoolscape,
cioè quali sono i panorami linguistici all’interno delle scuole, cioè come le lingue sono mostrate
all’interno delle scuole.
Ex. Alsazia: le maestre tappezzavano la classe di segni di altre lingue proprio perché rimanesse traccia
e perché i bambini si sentissero continuamente circondati da lingue altre e non vedessero la presenza
di lingue altre come una paura e una diversità da abbandonare.

Anche sugli spazi di comunicazione, sia quelli dati dai media, sia quelli degli uffici pubblici, sia
quello più spontaneo che è dato dalla comunicazione sociale, la paura delle lingue è ancora molto
presente e può costituire un’arena per lo spazio di politiche linguistiche che invece riportano verso il
monolinguismo.

24° LEZIONE - 12/05/2022 > annullata

(fatto il 18/05/2022 come ultima lezione)


SBOBINATRICE: Mari Dilusiya Philippu Rasa

REVISIONATRICE: Giada Borelli

Oggi concludiamo il nostro percorso di analisi su come le varie raccomandazioni (politica linguistica
europea) vengono implementate nel nostro paese. Abbiamo parlato di varie dimensioni come la meta
dimensione e dimensioni della vita che ci circonda prendendo come spunto i campi più importanti.
Sono come quelli della scuola ovvero come il plurilinguismo viene trattato a scuola; perché parlare
del plurilinguismo a livello didattico ed educativo è un po 'azzardato nel nostro paese. Una volta
parlato del contesto educativo, abbiamo parlato dei due contesti sociali: i media audiovisivi, quindi
prima di tutto la televisione. Abbiamo anche visto come nelle città, come nei giornali e nella stampa
ci sia poca attenzione al plurilinguismo ma abbiamo sempre posto l’accento su come le nuove
tecnologie possano facilitare il plurilinguismo come Netflix, Sky che offrono tantissimi programmi
in lingua originale. Va anche considerato che nel campo dei media e di stampa l’accesso alle
pubblicazioni in altre lingue è estremamente facilitato rispetto al passato. Quando i giornali erano
solo cartacei, solo pochissime edicole avevano giornali internazionali ma di qualche giorno prima.
Adesso invece grazie alle tecnologie, abbiamo degli strumenti per poter essere in contatto con lingue
e culture diverse. Inoltre abbiamo visto le lingue nei servizi e nei luoghi pubblici, non c’è tutta questa
attenzione alle lingue anzi molto spesso ci sono dei grandi problemi di traduzione o di non
corrispondenza delle lingue presenti in un territorio e le lingue che vengono offerte. Per esempio,
molto spesso, c’è un’azienda ospedaliera che costruisce un’informativa in dieci lingue diverse come
il cinese ma è molto probabile che ci sia la necessità di un’altra lingua che purtroppo non c’è.
Abbiamo visto come ultimo spunto di riflessione di contesti sociali di riflessioni abbiamo visto il caso
del cosiddetto linguistic landscape cioè di come le lingue sono rappresentate nei cosiddetti panorami
linguistici urbani. Ci siamo soffermati ad analizzare sia come soprattutto a partire dalla seconda metà
degli anni ‘90 e primi anni ‘00 sono modificati fortemente i panorami linguistici urbani delle nostre
città, in particolare con le ondate migratorie. Abbiamo visto come nelle città e nei quartieri erano
densamente abitate da persone provenienti da lingue e culture diverse. In questo momento è
cominciato ad emergere una nuova forma di plurilinguismo: la presenza delle lingue diverse che
possono essere visibili nello spazio urbano. La presenza di lingue non è strettamente legata alla
presenza della popolazione della comunità che parla quella lingua in quel determinato territorio. Non
c’è un rapporto di correlazione (Es: se in una città vive una forte comunità di polacchi, non è detto
che si veda prevalentemente il polacco). L’emersione delle lingue è data da tanti fattori che sono
fattori anche extra linguistici. (Pensate per esempio alla grande quantità di insegne di negozi con
nomi italiani in tantissimi città/capitali del mondo. L’altro giorno ero a Dresda, scesa dal treno la
lingua che appare di più nelle insegne dei negozi, oltre al tedesco, è l’italiano. Non è detto che questo
sia dovuto alla presenza di una comunità italiana in quel luogo.
Se invece la comunità italiana avesse una spiccata vocazione al commercio allora potrebbe essere il
caso che ci siano tante insegne in italiano. Un esempio lampante di questo è la città di Sydney. Non
ci sono mai stata ma ho letto che la città di Sydney è costellato di nomi di insegne in italiano perché
la comunità italiana si è dedicata molto all’impresa e al commercio. Ma in città come Dresda, dove
la comunità italiana è piccola, anche se si sta espandendo negli ultimi tempi, non è sicuramente
questo il motivo della presenza delle insegne italiane nei negozi; questo non implica nemmeno il fatto
che il proprietario dell’apposito negozio sia italiano. Perché secondo voi un commerciante sceglie
di mettere un’insegna in italiano? Oppure, se vogliamo ribaltare la domanda, perché un
commerciante italiano sceglie il nome dell’insegna in inglese o francese? Come dice una vostra
collega, perché all’estero il rapporto con l’Italia e l’italianità è un rapporto fortemente legato a
quelle caratteristiche positive che veicola nel mondo. Se c’è un negozio di gastronomia è possibile
che abbia un nome in italiano, se c’è un negozio di abiti ugualmente oppure quello dei mobili. Perché
queste sono le categorie merceologiche in cui compare molto di più l’italiano in quanto si ritiene che
usando l’italiano si dia un’immagine del prodotto che è presente dentro il negozio che è simbolo di
qualità. Allo stesso modo, in Italia, si sceglie inglese come sinonimo di modernità, di tecnologia.
Come abbiamo già accennato prima, non sono scelte casuali. Quindi non sempre la presenza di
insegne in lingue diverse dall’italiano rappresenta la presenza di quella comunità. Abbiamo anche
visto il caso dell'enorme quantità delle insegne cinesi a Roma, che non erano legate alla massiccia
presenze di questa comunità bensì ad una vocazione dei cinesi che erano immigrati in Italia ad aprire
negozi più o meno leciti. Attenzione quindi a non considerare mai una correlazione netta con il
contesto demografico del paese.)
Fanno parte del panorama linguistico urbano tante altre manifestazioni interessanti come cartelli,
messaggi nelle fiere, nelle grandi città soprattutto vicino alle stazioni ferroviarie perché l’emigrazione
è andata ma anche di ritorno. Quindi un luogo di ritrovo è la stazione ferroviaria. Per questo in molte
città europee vi è la presenza di multilinguismo esibito.
Un’altra cosa su cui riflettere è: questi panorami linguistici è in continuo cambiamento. Cambiano
con la demografia e cambiano anche il volto dei quartieri negli anni (per esempio se diventasse un
quartiere residenziale quelle parole e insegne in lingue diverse potrebbero non dare lustro, decoro ad
un quartiere ecc..). Quindi quello del panorama linguistico urbano diventa anche l’arena di scontro
politico. Le scelte che vengono fatte per la configurazione del quartiere, molto spesso, sono politiche.
Abbiamo visto l’accordo tra il comune di Roma e i cinesi perché non mettessero tutto questo cinese
e soprattutto perché cinese fosse scritto più piccolo rispetto all’italiano. Prima di questo accordo, in
certi quartieri, vi erano solo insegne cinesi e nulla in Italiano. Dopo questo accordo le cose sono
cambiate. Però una cosa è un accordo consenziente fatto tra la comunità cinese e la municipalità del
municipio di Roma, un’altra cosa è la delibera del consiglio comunale di Prato che aveva vietato
esibizione delle lingue diverse dall’italiano se non erano accompagnate dall’italiano. (Es: le foto che
avevamo visto insieme con i cartelli che venivano coperti perché non capire cosa c’era dentro un
negozio era percepito come un disturbo alla sicurezza della città).
L’ultimo settore che ci rimane da considerare è quello delle imprese come e se in Italia il
plurilinguismo è sentito come un tratto fondamentale per l’impresa, per presentarsi nel mondo ma
anche per l’assunzione degli addetti ai lavori. Parliamo di questo perché tanti studi, a partire dallo
studio di Michele Gazzola, che è uno studioso strano, perché è un economista appassionato di lingue.
Nasce come economista e per questo i suoi interessi sono molto legati al rapporto fra le lingue e
l’economia, poi studia anche linguistica. Gazzola scrive un articolo molto interessante (tra quelli di
molti altri studiosi come per esempio un altro studioso svizzero François Grin che abitando in un
paese intrinsecamente plurilingue come la Svizzera, è chiaro che si è posto il tema del valore
economico delle lingue. Gazzola è stato un dottorando di Grin e si è formato all’interno di questa
scuola). Grin dice che il multilinguismo porta benefici agli individui e all’economia. I vantaggi sono
legati a tutta l’economia di un paese. Infatti dice che possono generare sia differenze salariali cioè il
fatto di conoscere diverse lingue in vari paesi del mondo porta un incremento dello stipendio. Quindi
è un vantaggio importante a livello individuale. Ma tutto questo, ovvero il fatto di avere competenze
multilingue, genera un valore aggiunto nell’economia e quindi genera un incremento del PIL, l’indice
che ci dice quanto è solido e quanto cresce l’economia in un paese. Per esempio lui dice il Canada è
uno dei paesi in cui, la questione differenziali di reddito, è stata studiata più in profondità. Anche il
Canada è un paese bilingue, con una parte prevalentemente anglofona e l’altra francofona. Quindi c’è
un bilinguismo sulla carta ma che questo bilinguismo si trasformi di fatto negli individui non è sempre
così. Lui dice guardate che nel ‘00 un uomo anglofono di madre lingua, che conosce il francese come
lingua seconda in Québec, a parità di altre condizioni, guadagna in media 18% rispetto ad un
anglofono mono lingue. È un vantaggio sostanziale di quasi 20% differenziale e salariale. Le lingue
certamente portano ricchezza al livello individuale, al livello dell’economia del paese. Lui ancora
dice che è necessario diffidare nei luoghi dove dicono che l’inglese sia l’unica lingua ad essere
economicamente importante e costoso. L’inglese mette tutti sullo stesso piano. È fondamentale
l’inglese, è quasi una condizione di possedere una L1; cioè il valore aggiunto è il valore che è dato
dalle altre lingue.
Naturalmente nel tema dell’ importanza delle lingue per le imprese si è occupato a lungo anche la
commissione europea che ha stressato molto il fatto che conoscere più lingue sia fondamentale per i
rapporti economici, e quindi per la produzione e per i rapporti commerciali. La commissione ha messo
fra gli obiettivi quello di facilitare i rapporti economici tra i diversi paesi. Uno studio del 2005
(chiamato Elan ?), commissionato dall’UE, che va a studiare gli effetti sull'economia europea della
mancanza di lingue straniere nelle imprese. Ovvero è andato ad analizzare soprattutto quello che
viene chiamato SME, Small and Medium-sized enterprises, che sono le imprese più frequenti nel
panorama europeo. In Italia poi esistono pochissime grandi imprese e esiste invece una enorme
costellazione di piccole e piccolissime imprese. Se nelle imprese non ci sono persone che conoscono
le lingue, che cosa perdono oppure non ha rilevanza? Invece si sono accorti, tramite una ricerca su 29
stati europei, che il fatto di non avere competenze linguistiche all’interno delle imprese costituisce un
problema che dovrebbe convincere appunto le imprese o a selezionare personale che ha competenze
in lingue o ad investire nella loro formazione linguistica. Durante le interviste, dove si chiedeva il
valore che si dava alle lingue anni fa, non era nemmeno percepito per nulla il problema. Però più in
là andando ai risultati dice che l’analisi delle piccole e medie imprese è emersa che una significativa
quantità di affari è stata persa proprio a causa della mancanza di competenze linguistiche. Infatti
l’11% di imprese piccole ha dichiarato di aver perso un contratto proprio perché non c’era la capacità
di comunicare con chi, per esempio, doveva acquistare un prodotto. Questo mette in luce il fatto che
le lingue sono importanti, che c’è bisogno di queste competenze ma ancora tanti affari si perdono
perché non c’è la capacità di interagire con i proprio interlocutori che parlano lingue diverse. Inglese
non basta, soprattutto se si va a dettagliare, nel vivo delle questioni, è molto importante avere una
competenza nelle altre lingue. In un anno ci sono 37 business che hanno perso contratto per 8 milioni
e 13 milioni di euro, altri per 16.5 milioni e 25.3 milioni e altri ancora oltre 1 milione di euro.
Inglese può essere usato per il primo accesso al mercato ma una partnership di lungo termine che
genera la costruzione di forti relazioni ha bisogno della conoscenza fondamentale della lingua del
Target del paese con il quale si vuole andare ad avere rapporti commerciali o produttivi. Tutto questo
è più facile per le grandi imprese perché quando la Fiat aprì i suoi stabilimenti in Russia, ci
occupammo di formare i dirigenti in italiano; quando le grandi banche aprirono le filiali in Romania,
facemmo dei corsi di formazione per i funzionari delle banche in italiano. Considerate il fatto che in
Italia le lingue si conoscono poco. Quindi era più facile insegnare l’italiano a loro che ai funzionari
italiani altre lingue. Anche questa è una strategia d’impresa. È fondamentale la lingua ma bisogna
ricordare che la lingua arriva con la cultura. (Non so se ve lo raccontata, ma è un aneddoto che
racconto spesso. Il biscottaio di Prato, che va in Cina, fa assaggiare i cantucci, modifica la ricerca
del cantuccio perché è più aderente a quelli che sono gusti cinesi e quindi prende questa commessa
enorme. Arriva la nave con i container in Cina, e i biscotti non vengono mai scaricati. Perché?
Perché senza chiedere niente a nessuno, l’imprenditore di biscotti, aveva messo questi biscotti in dei
contenitori bianchi. Il bianco è il colore del lutto in Cina. Quindi neanche l’hanno fatto scaricare e
l’hanno rimandato indietro.) Abbiamo detto tante volte, la lingua e la cultura stanno insieme, sono
sinonimi e non si possono separare. Sono fondamentali per i rapporti commerciali tra paesi diversi.
Soffermiamoci su un’altra ricerca fatta sulla regione Toscana. La domanda era tutte le imprese della
Toscana di quali lingue avranno bisogno? La Toscana è una delle regioni che regge moltissimo
sull’export. Proviamo a vedere se è possibile costruire un percorso di apprendimento delle lingue
altre, almeno i primi rudimenti per l’impresa toscana. Abbiamo fatto precedere questo nostro tentativo
da una ricerca che è una mappatura geo-economico linguistica. Siamo andati a vedere il tessuto
produttivo di ogni provincia della nostra regione e l’abbiamo legato con export e con i paesi in cui
esportano le loro merci. Abbiamo legato il settore merceologico ai luoghi di esportazione. Abbiamo
visto com’era la Toscana, abbiamo fatto 36 mappe geolinguistiche per 18 lingue. Siamo andati a
vedere dove vanno ad esportare, quindi quale lingue maggiormente sarebbero utili alle imprese
toscane. Abbiamo fatto sia per l’import che per l’export.

(ricerca fatta per la lingua cinese)

In quali province della toscana si importa maggiormente dalla Cina e in quale province toscane si
esporta maggiormente. Al primo posto c’è Massa-carrara che esporta il marmo. Poi abbiamo anche
Lucca. In questo modo abbiamo potuto legare la lingua al settore merceologico: l’arabo per
l’oreficeria e quello del lapideo; il cinese per la pelletteria (per la zona tra Pisa e Firenze), e quello
per l'enologia; anche il giapponese per l’enologia ma anche al settore oleario; infine l’italiano per la
Sicurezza sui luoghi di lavoro che è fondamentale per tutte le imprese. Dalle interviste con gli operai
e con gli imprenditori, un tema che è emerso tantissimo è quello della mancanza della conoscenza
della lingua italiana che può avere un impatto fortissimo sul tema della Sicurezza sul lavoro. Come
si può vedere, ci sarebbe tanto bisogno della conoscenza delle lingue. Come accennato prima, essendo
un tessuto imprenditoriale prevalentemente formata da piccole e medie imprese è chiaro che non può
prendersi un mediatore linguistico; però ci potrebbero essere tante forme innovative anche
dell’utilizzo delle lingue, forme di cui velocemente si accorgerebbero dell’importanza come quello
del mediatore condiviso. Tutte le imprese che si occupano di vendita di oro potrebbero assumere un
mediatore che li accompagna e sicuramente sarebbe un vantaggio. Non sarebbe un problema per le
competitività delle imprese perché poi si cade nel ridicolo. Ogni tanto, se riuscissimo a fare massa
critica, come fanno tanti altri paesi, la situazione migliorerebbe facilmente.
Avevamo progettato anche un’aula mobile per andare ad insegnare le lingue nelle imprese, perché
naturalmente sarebbe stato impensabile conciliare il lavoro con la formazione.
Quali sono le conclusioni del nostro corso? Sul tema delle lingue, sul tema dell’educazione al
plurilinguismo ma anche semplicemente al rispetto della diversità, alla consapevolezza dell’esistenza
di lingue diverse c’è da fare tantissimo sia al livello individuale sia in tutti i settori della nostra vita
sociale. Il framework richiamava vari domini: dominio personale, dominio educativo, dominio
pubblico e dominio lavorativo. Noi abbiamo fatto la stessa cosa, cioè siamo andati a vedere in tutti
questi domini quali sarebbero stati i vantaggi della conoscenza di più lingue. Abbiamo visto che tutti
sarebbero importanti.

Questa sarebbe la piattaforma che l’Europa sta suggerendo, l’idea di un’educazione linguistica,
plurilingue, che riguardi tutte le lingue. Quindi al centro le lingue della scolarizzazione ma anche le
lingue degli apprendenti e le lingue che sono presenti all’interno della scuola che altrimenti
verrebbero appiattite dall’habitus monolingue che domina la scuola. Abbiamo anche visto
l’importanza delle lingue regionali e delle lingue di immigrazioe che ugualmente delle lingue
straniere sia quelle moderne che quelle antiche: studiate come materia, ma anche studiate come lingue
per veicolare altri contenuti.
Ci siamo concentrati sull’Italia, ma avremmo potuto occuparci anche di altri paesi e forse avremmo
trovato delle situazioni più avanzate rispetto a quello italiano. Ogni paese europeo implementa le
politiche su questi temi in modo differente e con più o meno attenzione al plurilinguismo.
Che cosa servirebbe? Riprendo le parole del professore Vedovelli.

È fondamentale partire dalla constatazione che ciascuno di noi è naturalmente plurilingue.


Plurilinguismo non è un’eccezione. Vedovelli dice guardate che questo habitus monolingue si lega
fortemente all’idea di una lingua con un sistema chiuso. Quindi al fatto che la sicurezza linguistica
sia data dalla norma. In un’altra ricerca che abbiamo fatto sui materiali didattici per l’insegnamento
delle lingue L1 nei paesi, che abbiamo trovato in un manuale svedese, errore non considerato come
errore, ma come un punto al processo di avvicinamento all’uso della lingua. Ovvero, si potrebbe dire
così, ma si potrebbe anche dire in un altro modo. Il pseudopurismo normativizza anche questo, le
cose possono essere dette in un modo solo e quel modo deve essere il modo perfetto che corrisponde
alla norma. Dobbiamo abbandonare questa visione della lingua e dobbiamo aprirci e se fosse
possibile con queste basi costruire un progetto della politica linguistica che va al vantaggio di tutti.

25° LEZIONE - 13/05/2022

SBOBINATRICE: Giada Borelli

REVISIONATRICE: Veronica Balestriere

Vedovelli: Non soltanto infelice relativa alla gestione dell’intero spazio simbolico, le leggi, le
assicurazioni, ecc… C’è una condizione di non felicità dei cittadini italiani rispetto agli spazi
quotidiani, sembra che non ci sia un buon senso per la comunicazione. Cominciamo a vedere se la
comunicazione museale è felice o infelice in Italia, rispetto a quella in Germania e altri paesi.

Barni: Il dialogo con gli operatori della cultura è molto complicato, nel senso i problemi linguistici
e i problemi di porsi dalla parte del ricevente sono problemi non apprezzati, da una parte c’è la
difficoltà della comunicazione pubblica e dall’altra c’è la difficoltà di abbassare la lingua a quelle
che sono le caratteristiche del ricevente. Cerchiamo di raccontare lo spazio del museo, per far sì che
riesca a cambiarti, sui giornali si pone l’enfasi sul numero di visitatori, ma non sull’esperienza
qualitativa del museo. Gran parte della felicità passa attraverso le lingue all’interno del museo. In
altri paesi, non in Italia, ci sono architetti “sensoriali” che studiano solo come costruire i percorsi;
quindi, di allestire i musei in modo che la nostra esperienza venga arricchita. Arricchita i linguaggi
verbali e non verbali.

Vedovelli: L’opera d’arte è un testo che vive in un contesto. Come interagiscono questo testo e
questo contesto?

Anna Casalino: Il museo dovrebbe evocare degli spazi di “un altro mondo”, ma purtroppo non è
sempre così. Capacità che chiunque operi nel mondo della cultura dovrebbe saper dialogare e avere
un’abilità particolare in disposizione al ricevente, purtroppo non è così. Da grande frequentatrice di
musei, molte didascalie, pannelli ecc… sono quasi esclusivamente rivolti ad élite, l’esperienza è
peggiorata col tempo.

Un grosso problema è far adattare il museo come luogo di felicità, anche per i bambini.

Gli storici dell’arte restano un mondo molto chiuso e a ridosso dei beni stessi, quindi la
salvaguardia, la tutela e la disposizione, si sono posti poco il problema del comunicare. Non la
comunicazione di un certo evento, non quello che l’ufficio stampa condivide con i giornalisti, ma
non viene fatto tutto quello dal punto di vista di un visitatore X.

La condivisione interdisciplinare di un sapere e di una questione in senso interdisciplinare

Che cos’è questo patrimonio culturale di cui si parla?

Questo patrimonio di cui si parla può essere materiale, fatto di monumenti (sculture o realizzazioni
spaziali), siti archeologici (Pompei), o immateriale. Il patrimonio culturale è anche inteso come tutte
quelle tradizioni vive dei nostri antenati, tutto ciò che fa parte delle tradizioni artigianali, il
linguaggio e la lingua ecc… In corso è un progetto di allestimento, di un museo della lingua italiana
a Firenze.

Importante è restringere il campo data la complessità del tema, abbiamo scelto il museo, è quello
che in qualche modo ci può fornire più chiavi di lettura.

La definizione del museo è ben lungi dall’essere approvata dalla comunità di riferimento,
l'argomento e il riflettere intorno al tema. Il presidente Garlandini ha fatto girare su Facebook le due
ultime definizioni di museo, dopo una votazione si è arrivati a due definizioni:

A. Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro al servizio della società e aperta al
pubblico. Conduce ricerche, raccoglie, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e
immateriale, culturale e naturale. Il museo opera in maniera professionale, etica e sostenibile ai fini
di educazione, riflessione e divertimento. Agisce e comunica in modo inclusivo, variegato e
partecipativo con il pubblico e le comunità diverse.

B. (Ancora al vaglio) Un museo è un’istituzione sociale permanente, senza scopo di lucro, al


servizio della ricerca, della raccolta, della conservazione, dell’interpretazione e dell’esposizione del
patrimonio tangibile e immateriale. Aperto al pubblico, accessibile e inclusivo, promuove diversità
e sostenibilità. I musei operano e comunicano in maniera etica e professionale, con la
partecipazione di varie comunità. Offrono al loro pubblico una varietà di esperienze educative,
divertenti, riflessioni e condivisione della conoscenza.

Da mettere in evidenza il fatto che c’è un dibattito acceso tra operatori, ed anche che nella prima
definizione c’è un’attenzione sul museo come luogo culturale, mentre nella seconda come c’è
un appunto su istituzione sociale. Nella prima il museo conduce, il museo definisce sé stesso e
quali interpretazioni, andando per macrocategorie. Nel secondo caso, il museo offre al pubblico,
siamo in ambito più teorico.

Sottolineare alcune parole chiave del museo: accessibilità (si intende il piano allegato alle
barriere architettoniche, accessibilità FISICA, TECNOLOGICA e cognitiva. Intesa soprattutto
nell’aspetto legato allo spazio, permettere a tutti i visitatori di accedere. Pensiamo ai pubblici
fragili, alle famiglie con bambini), inclusione (museo nel quale qualsiasi visitatore riesca a
sentirsi a proprio agio), partecipazione (estrema eterogeneità), ascolto (attivo, frontale).

Comunicazione, educazione, divertimento ossia non è solo dare informazioni su cosa vedere,
ma anche una forma di divertimento e forma ludica, come diceva la Montessori, se si gioca e ci
si diverte, si impara.

Il professor Vedovelli ha introdotto la lezione con la parola “felicità” in senso di atti segnici (atti
comunicativi), ma non in senso di esperienza felice nel museo (esempio che viene riportato:
rimanere tre minuti chiusi in una stanza del museo dedicato all’Olocausto, a Berlino. Non è
un’esperienza felice, ma un’esperienza piena di agonia, atto comunicativo fatto di proposito).
L’architettura è tale che incombe sul corpo, con i suoi grigi e i suoi spazi, evidente per narrare
l’Olocausto.

L’ascendere nel Palazzo del Settecento di Dresda, aveva come senso la comunicazione verticale,
vuoi vedere le opere? Devi salire molte scale, quindi ascendere. L’accessibilità oggi vuol dire
permettere a tutti gli utenti di entrare.

L’allestimento del museo è molto importante, se è accattivante ed interattivo può rendere tutto più
‘attraente’.

Galleria Barberini: incidente, persona è inciampata e ha strappato una tela del ‘600.

Siamo in un momento in cui le opportunità sono gigantesche, tanto quanto i problemi.

Il concetto di felicità è legato al fatto di entrare in comunicazione con il luogo o con lo spazio del
museo, non nel senso che fa stare bene, ma è vivere e fare proprio un messaggio che comunica il
museo, è un pieno rispetto al vuoto interiore.

Francesco Antinucci studia da sempre le sensazioni delle persone che escono dal museo. Alla
domanda “che cosa vi ricordate, che cosa vi è piaciuto?” molti visitatori che escono da un museo
non sanno rispondere.

Non esiste un solo pubblico di riferimento, ma più pubblici di riferimento, per questo motivo è
difficile far ‘parlare’ un museo a tutti.

Pensiamo alla ricchezza museale dell’Italia, ai musei civici, grandi o medio-grandi; ai borghi, non
solo a quelli più grandi e rinomati. Solo in Toscana ci sono più di 850 musei, quasi più di un museo
per ogni comune (almeno tre musei e più a testa).

I pubblici quali sono?

Comunità di eredità, gli anziani, le famiglie (in particolare quelle con i bambini che hanno bisogno
delle proprie esigenze), le scolaresche, i pubblici ‘fragili’ (tante categorie, il divertimento deve
essere preso in esame in maniera filologica, rigorosa e seria, seguendo i dati, rigore che viene dal
metodo. Rigore d’approccio) possono essere i non vedenti, ipovedenti, i sordi ecc… ma anche i
bambini con i BES (bisogni educativi speciali), disgrafici, dislessici ecc… Non ci sono didascalie
dedicate a questi pubblici. Ci sono pannelli con font adeguati? Racconti di carattere orale? Aspetti
che potrebbero creare situazioni di felicità, la quantità non è importante, ma è un modo per restituire
il museo a tutti. Il museo viene gestito dagli addetti ai lavori, ma appartiene alle persone, è un bene
dell’umanità, universale. Eppure, siamo lontani dal raggiungere tale universalità, solo il 35% degli
aventi diritto visita i musei, inclusi quei visitatori detti “forti” (che fanno più visite ai musei), ma
che sono in grado di affrontare visite lunghe e faticose (anche a livello fisico, oltre che culturale).

I pubblici non sono solo quelli in presenza, ma anche quelli a distanza i cosiddetti utenti digitali,
che sono di due tipi: quelli nel sito del museo per prendere delle informazioni, oppure sono delle
persone interessate.

I non pubblici, sono coloro che non hanno mai visitato un museo o che non possono visitarlo. I non
pubblici sono una vera sfida per gli operatori, dovrebbero cercare di coinvolgerli e di farli ritornare.

Esempio riportato: l’entrata di una mostra della Tate. Una porta a misura di adulto e accanto una
porta a misura di bambino, un modo efficace di far sentire il bambino a suo agio.

Vedovelli: la fruizione dell’opera d’arte è riconquistare gli strumenti del senso, oppure il museo è
un’isola felice per ritrovare il senso? Il museo è un processo semiotico, è un contesto dinamico,
fortemente mobile.

Anna Casalino: Varcare la soglia del museo è un contatto per sollecitare il ritrovamento di un
senso, ma sono anche un’isola felice.

Il senso di felicità, il divertimento non è quello del gioco alla PS4, ma sono quelle esperienze che ci
rendono più umani in un’epoca storica nel quale ne abbiamo bisogno.

Caso Martmuseum - Museo di arte moderna e contemporanea di Rovereto

Ci troviamo in una mostra dedicata a Canova, celebrazione di temi, impatto visivo di grande
efficacia, ma siamo in modo di relazionarci a quello che vediamo?

“Uno dei punti di forza del #MartMuseum è il fatto di essere versatile. Progettato dall’archistar
Mario Botta il museo ha grandi gallerie che ogni volta cambiano forma, per adattarsi alle idee e ai
progetti di curatori e architetti”

“Qui un paio di “exhibition view” di una delle due grandi mostre in corso dedicate a #Canova
[l’altra era dedicata a Depero]. Il rigore del bianco e nero per il primo e l’esplosione di colori per il
secondo. In entrambe vi invitiamo a smarrirvi…”

Tornando al discorso dell’incipit, che cos’è questo senso di smarrimento? Qui sono gli addetti ai
lavori a parlare di ‘smarrimento’, ma è questo ciò di cui abbiamo effettivamente bisogno? Cioè non
pensare ad un certo tipo di pubblico, ma pensare solo al pubblico di élite?

Come visitatori, vi piacerebbe smarrirsi dentro?

In molti musei, soprattutto di arte contemporanea, mancano le didascalie o sono nascoste. Però,
questo smarrimento è positivo o negativo? Gli addetti ai lavori bypassano questo problema, partono
direttamente dal fatto che i visitatori che vanno al museo, come dalle ricerche, ne ricavano delle
sensazioni e del benessere di carattere intellettuale, di identità, il benessere sociale e fisico.

Il fatto che vadano naturalmente trovati nuovi modi e nuove esperienze, ma Massimiliano Zani
definisce che questo benessere deve essere espanso ad altre persone. Tuttavia, ciò che continua a
sfuggire è che si continua a comunicare in una sola tipologia di comunità, ad un solo tipo di
pubblico. Il problema che pur ponendosi queste questioni, non viene mai posto a modifica il codice
di accesso elementare/basico.

Vedovelli: stiamo sempre più entrando nell’idea di museo come atto comunicativo, il museo è stato
inventato dagli esseri umani con un certo scopo, ad esempio una riconquista di senso. Varchiamo
una soglia per ritrovare un senso: applichiamo il modello di De Mauro e quello di Jakobson.
L’intento di coloro che hanno assistito, sta richiamando il ruolo del ricevente ed il soggetto-
ricevente, che è individuale che vive stati interni e gli effetti del messaggio sugli stati interni del
soggetto non sono prevedibili. Se si suscita meraviglia è il soggetto stesso a provare. Nella
comunicazione avviene anche la riflessione del processo intrinseco, delle caratteristiche del testo,
però qual è il testo autentico? Uno può vivere soggettivamente quello che vuole, però poi puoi
anche chiederti qual è il messaggio autentico di quell’opera? C’è una dimensione soggettiva, però
nessuno può prevedere l’effetto se non il soggetto stesso, però questo effetto può esternarlo con altri
atti comunicativi di rappresentazione ed espressione degli stati interni. Esperienza altamente
comunicativa e altamente non determinabile.

Anna Casalino: Se il museo fosse in grado di suscitare meraviglia e stupore, sia gli effetti
soggettivi e di riflessione del testo autentico, non è possibile prevedere gli effetti soggettivi ma non
è importante, quello che però per l’operatore è importante è strutturare il museo in modo che il
curatore e l’architetto vogliono comunicare, ma non è abbastanza. Il curatore è quello che dà un
senso alla contemporaneità Es: fare una mostra di Canova perché è il Bicentenario, perché voglio
ritrovare questo artista, voler rappresentare il classico ecc… Gli operatori non si pongono il voler
far scatenare gli effetti soggettivi (detti da Vedovelli) e di riflessione, poiché vi sono pubblici
molteplici. Il museo deve prevedere più modi di comunicare, (cit. le porte di Gardner), per far in
modo che più pubblici comprendano. Es: Podcast per i ragazzi di 17 anni, ecc…

26° LEZIONE - 19/05/2022


SBOBINATRICE: Veronica Balestriere
REVISIONATRICE: Chiara Sicurelli
Anna Casalino, I linguaggi della cultura, 19 maggio 2022.
Anna Casalino: Questioni interessanti emersi nella lezione precedente:
Abbiamo sottolineato su suggerimento del prof il concetto di felicità legata però all'evento
comunicativo; Il concetto di divertimento; La necessità fondamentale di agire sull'allestimento di
un'anteprima. Questo discorso sulla drammaturgia dell’allestimento è un concetto molto interessante
che sto rubando a un architetto (di cui non sono riuscita a capire il nome) Rigore esperto di allestimenti
che sta scrivendo in un nostro volume, non ancora pubblicato. Rigore vuole che questo concetto di
drammaturgia dell'allestimento sia lui ad averlo coniato; La creazione poi all'interno del museo di un
sistema che potremmo definire di un sistema di senso, dal fuori al dentro. Avevamo parlato del
concetto di soglia, avevamo parlato di questa emergenza di corrispondere da una parte a una
individualità, una soggettività che resta in qualche modo imperscrutabile, che è quella che fa parte di
ognuno di noi. Anch'io oggi mi sto relazionando con una serie di persone di studenti, di studentesse,
che restano evidentemente anche imperscrutabili. Dall'altra parte c'è una necessità, se pensiamo ai
pubblici dei musei, di riflettere su questo e anche su un limite implicito e sulla necessità di comunicare
in un museo anche nella sua autenticità.
Pare che Orlando avesse messo in evidenza questo concetto di possibilità di un museo più didascalico,
con uno sguardo più rigido (Uffizi) e un museo invece come luogo della performance estetica. Io qui
cito (si aprirebbe ancora un altro un altro contenitore) più In generale quello che dobbiamo tenere a
mente è che un museo visto non solo come un luogo-contenitore di oggetti di collezione, ma anche
un luogo in cui si possono innestare tutta una serie di processi, un luogo la cui densità che riporta i
segni, ai simboli, e allo stesso tempo però un luogo che mette in condizione di avviare dei processi
dinamici. Per esempio è la questione di cui parlava Massimo della danza legata ai musei è uno dei
temi di maggiore attualità al momento, perché il museo pur essendo già denso di suo forse è l'unica
istituzione culturale nella contemporaneità alla capacità di rapportarsi con una grande efficacia e
chiarezza anche con le altre arti. Tra queste la danza è quella che forse è la più favorita.
Io entro dentro un museo, qui siamo già in una condizione abbastanza favorevole, però
fondamentalmente un visitatore si trova in una situazione del genere. Di fronte una situazione
chiamiamo la di “grande bellezza”, però si trova in una situazione anche di smarrimento, di possibile
spaesamento. Nel senso: sono un visitatore X, cosa devo guardare? come mi devo orientare? Come
si mette in relazione il Canova con la fotografia? ecc ecc.
Vi volevo mostrare brevemente un video: https://www.mart.tn.it/mostre/canova-tra-innocenza-e-
peccato-149658
Praticamente è una sorta di corto molto breve che si può vedere solamente sul sito del Mart, quindi
presuppone un potenziale futuro visitatore che è andato sul sito, che ha preso le sue informazioni, che
aveva tempo e voglia e che si è andata a cercare anche questa comunicazione audiovisiva.
Dopodiché sempre sul sito del Mart si trova quest'altro video che è una visita guidata fatta a Natale
sempre alla mostra.
Questa è la situazione nella quale ci troviamo nel momento che entriamo al Mart e veniamo a visitare
questa mostra. In realtà al Mart stesso hanno realizzato una serie di materiali che se il visitatore avesse
avuto modo di averli a disposizione li, su un qualche altro supporto anche di tipo visivo come uno
schermo è probabile che avrebbe avuto la scaletta efficace, chiara e precisa rispetto a quello che
avrebbe poi trovato all'interno del museo.
Il teaser cosa ha fatto? C’era l’immagine, il suono, il tutto accompagnato da piccole frasi che se
andaste a ricostruirle tutte insieme ci davano il senso di questa operazione.
Interessante il video in cui parlavano i curatori organizzato per natale. Perché non pensare ad una
guida interattiva visto che non ci saranno sempre operatori a nostra disposizione, che tra l’altro
dovrebbero essere formati in modo da utilizzare un linguaggio che sia veramente efficace e chiaro
per i visitatori. Un museo dovrebbe poter funzionare anche in autonomia, anche perché tutto deve
servire a costruire o a rinsaldare un rapporto che deve essere sempre quello tra il visitatore e l'opera
d'arte, che è una relazione di tipo fisico.
Nel video con i curatori hanno realizzato il testo scritto per arrivare a quel dialogo perché la parola è
fondamentale, per arrivarci sono partiti dal titolo, il senso della mostra, il dialogo tra una bellezza
come idea di perfezione, un'idea di bellezza che poi diventa una sorta di tradimento rispetto al canone,
ovvero a Canova. Poi immediatamente scultura, fotografia e poi l'apertura con questa Amore e Psiche,
con un minimo di spiegazione, che in questo caso era la questione legata al materiale, ancora molto
concreto per avere presa su un visitatore. Una cosa è parlargli di questioni teoriche, di ideali e
bellezza, una cosa è parlare di ciò che vedi: le due anime, la bellezza sensuale. Dire queste cose e
dirle attraverso lo strumento dell'audiovisivo è sicuramente molto più efficace, rispetto a un certo tipo
di pubblico che ha bisogno di questa sorta di cassetta degli attrezzi, rispetto ad un pannello di lettura
molto densi.

Barni: Un'altra questione importante da notare riguarda il contenuto cioè questa mostra.
Ha un contenuto specifico, un tema specifico che viene veicolato con tutti i vari linguaggi a
disposizione. Nella stragrande maggioranza delle cosiddette “mostre” che vediamo in giro per l'Italia,
quello che manca è il contenuto sottostante: non c'è un'idea. La mostra viene molto spesso organizzata
semplicemente perché è uno strumento per fare soldi ed acchiappa visitatori. Il fatto di avere una
mostra con un pensiero dietro e che questo pensiero venga veicolato in maniera differente, in modo
rispondente ai vari linguaggi utilizzati mi sembra già una cosa bellissima perché comincia a costruirsi
la felicità.

Vedovelli: 1. Quali sono i linguaggi coinvolti nel video 1?


(Purtroppo l’audio online spesso saltava).
Linguaggio cinematografico. Linguaggio della musica: accompagna tutto il video insieme alle luci;
quando vengono fatti i primi piani e attraverso un gioco di luci vengono messi in evidenza particolari
o determinati effetti (risposta di una collega); Linguaggio verbale: All’interno del linguaggio verbale
scritto abbiamo una gestione delle parole, alcune scritte in giallo che costituiscono in qualche modo
un percorso nel percorso; Linguaggio visivo: Come è stata fatta la ripresa. Il linguaggio visivo delle
immagini: Le opere d’arte esibite e come vengono esibite (gioco luci e ombre).
2. I linguaggi sono collegati tra di loro con coerenza e coesione?
No. C’è uno scollamento, una incoerenza tra almeno due linguaggi. C'è un punto in cui si manifesta
una incoerenza tra immagine e musica. Avrebbero potuto comunque mettere un'altra canzone
esprimendo un altro tipo di sentimento, quindi non per forza è collegato con le opere d'arte. Quindi è
un testo che coinvolge più linguaggi ma non è detto che ci sia coerenza fra due di questi linguaggi. Il
rapporto più intenso è quello tra il linguaggio visivo e parole.
Quindi vediamo le parole: Anche qui non c’è una grande coerenza, perché ci sono molte funzioni
messe in luce dai vari sottotesti, dalle piccole frasi. Perchè la prima frase “Mostra dal ecc” una
funzione strumentale, poi man mano questa funzione cambia e diventa una funzione puramente
enciclopedica (nome di fotografo), non ci sta dando uno strumento per interpretare ciò che si va a
vedere nella mostra. > Difficoltà di trovare dei netti confini tra una e l’altra funzione.
Qual’è la funzione generale del testo? Non è quella di guidarci e di costruire una proposta di lettura
della mostra, di interpretazione. Il linguaggio verbale in particolare non sono semplicemente le
etichette di un contenuto, ma sono congegni che costruiscono un sapere, una relazione.
Un testo che utilizzando diversi linguaggi diventa congegno di costruzione di una nuova realtà, il
nostro modo di rapportarci e vedere delle opere, qualcosa che supera la loro esibizione.
3. Qual è il contenuto di queste mostre?
Così come esiste il piano della forma del segno linguistico, esiste un piano del contenuto. E qui è
articolato gerarchicamente. Perché c'è la statua di Amore e Psiche, c’è un bacio ma poi c’è un
contenuto di ordine superiore, il rapporto tra innocenza e peccato. E poi un contenuto ulteriore, ovvero
quello tra il modello di bellezza di Canova e quello della contemporaneità visiva, dopodiché c’è il
contenuto dell’amore.

Anna Casalino: Il video richiede una grande enciclopedia da parte del visitatore. E’ una mostra che
si rivolge a qualcuno che già sa o che è disponibile ad informarsi. Si rivolge a un pubblico lasciando
anche molto dell'implicito, ma è possibile chiudere un testo (opera aperta)?
Le possibilità di lettura di un testo sono tante quante il soggetto, e ognuno potrà leggerci quello che
vuole. E questo è uno spazio di apertura e indeterminatezza. A fronte di questa potenziale infinità
dobbiamo porre un limite ed è il tentativo di ricostruire l’autenticità del testo.
Il testo autentico è il testo che viene ricostruito come opera filologica per capire le intenzioni di quel
particolare emittente, in quel suo contesto. Una volta fatta questa ricostruzione allora noi possiamo
decidere la nostra posizione rispetto a quello che ha dipinto ecc.
Apertura, infinità e limitatezza, ma anche istanza di chiusura di questa limitatezza, ovvero la
ricostruzione filologica, interpretativa del testo autentico, di ciascuna di quelle opere oppure di quel
video.
C’è un problema: quando si parla di interdisciplinarietà c’è un problema grande di competenze e di
necessità di riflettere. Il testo trattato è messo a disposizione di tutti, in grado anche di coinvolgere
empaticamente. Siamo già ad un livello avanzato quindi, ma manca completamente la consapevolezza
di quanto potrebbe essere efficace lavorare su questi linguaggi e farli bene. Per lo meno ci sono quelle
specie di tag in giallo che forniscono parole chiave che ti orientano, ma su questioni molto diversi fra
di loro.

Vedovelli: Il testo è complesso. Ci deve spingere a riflettere. Dieci parole chiave, ciascuna delle quali
ha una funzione differente: un conto è dirmi ci sono 200 opere, un conto è dirmi che cambiano i
canoni di bellezza. La musica è sbagliata per quel tipo di funzione, perché quella musica rappresenta
uno scivolamento tra il vero tema erotico che sta sotto quelle opere e la musica. Qui abbiamo un filo
conduttore ed è l’amore, quella musica è inappropriata.
Grande difficoltà: più coinvolgiamo i linguaggi più la questione si complica.

Barni: Volevo dire due cose poi lascio subito la parola a Orlando. Sono d’accordissimo con te sul
tema della musica e soprattutto sul fatto che sul filo conduttore della mostra sia legato all’eros. Non
è casuale e non è casuale, è importante la scelta dei fotografi contemporanei che hanno scelto di far
esibire insieme al Canova, avete visto che ci sono nomi di fotografi come Helmut Newton, Robert
Mapplethorpe, Irving Penn che erano i più grandi fotografi dell’erotismo nel XX secolo, quindi questo
slittamento e mancanza di coerenza tra la musica scelta, selezionata e l’intento della nostra è evidente.
L’altra questione che volevo sollevare è che se parliamo di comunicazione e ci riferiamo a modelli di
comunicazione anche “vecchi”, antichi quasi, come quello di Jakobson, l’attenzione al destinatario
qui manca totalmente: perché l’attenzione al destinatario è generalmente carente in tutte le operazioni
culturali. Chi realizza un’operazione culturale un video, un testo che si riferisce alla musica, al teatro,
molto spesso pensa di avere come interlocutore qualcuno simile a lui, all’autore. Quindi, come vedete,
analizzando quel testo con questa prospettiva forse quell’incoerenza che tu trovavi si spiega, perché
è molto raro che appunto l’autore, il curatore, si ponga su piani diversi da quelli della propria
competenza, quindi pensa che tutti gli interlocutori siano persone che condividono con lui tutto un
universo di saperi che non sono, in realtà, condivisi. Con Anna ne abbiamo parlato tante volte, qualche
giorno fa mi ha mandato un esempio di tentativo di piegarsi a quelle che sono invece le competenze
e le aspettative, e i bisogni di un interlocutore che sicuramente non condivide le conoscenze.

Vedovelli: sono profondamente d’accordo, però tu hai detto del XX secolo. C’era un politico del XX
secolo che diceva “a pensar male si fa male però si va vicini alla verità”. Allora, facciamo questa
ipotesi pensando male: chi ha fatto quel video scegliendo quella musica abbia voluto tenere molto in
considerazione le questioni di contesto; cioè, visto che il tema di questa mostra è Eros, e dato che
Eros è un tema molto marcato, nel momento in cui lo tratto pubblicamente ad una mostra, devo
attenuarmi alla sua portata sociale. E quindi invece del boleo, probabilmente hanno voluto, penso
male, ben consapevoli di quello che era il tema, hanno voluto attenuarne poi l’impatto sociale, quindi
musichetta sdolcinata o quello che è. È una possibile ipotesi.

Barni: ma non rientra all’interno dell’attenzione del destinatario. Rientra all’interno di una attenzione
alla convenienza sociale.

Paris: Sono d’accordo in particolare sull’efficacia che un testo di questo tipo può avere. Però mi
focalizzerei su un altro punto di vista: è vero, l’opera è aperta, il testo dà diverse possibilità di lettura.
Per esempio io nella prima visione del testo le parole non le ho neanche lette, mi sono concentrato
sulle immagini, le ho lette nella seconda visione che abbiamo fatto. Però concentrandomi sulle
immagini e quindi su una tipologia di linguaggio audio-visivo, del mezzo del video, mi sembra che
venga proposta una chiave di lettura di quella mostra: c’è un continuo riproporsi di quelle che in
semiotica si chiamano rime eidetiche, delle rime tra le forme delle statue e tra le forme dei corpi
rappresentati nelle immagini, cioè mi sembra che il video si focalizzi su questo, sul richiamo continuo
tra due tipologie di rappresentazioni (le statue e le fotografie), e quindi metta in relazione in qualche
modo due linguaggi artistici e mio che questi rappresentano, cioè i corpi, e la bellezza dei corpi
rappresentati nelle statue e la bellezza dei corpi rappresentati nelle fotografie. Forse questo è un
elemento di positività del video, perché si focalizza proprio su quello che a mio avviso può essere il
senso di questa mostra: farci vedere due modalità di rappresentare l’estetica, anche erotizzata come
veniva sottolineato, dei corpi attraverso due linguaggi artistici differenti.

Vedovelli: ma il fatto è che non c’è una semplice esibizione in quei segni, c’è una costruzione di una
visione, di un modo di vedere, da un lato; dall’altro così come quel video, un testo globale, mette
assieme linguaggi differenti, ognuno con le sue forme e contenuto, questa polarità di linguaggio viene
in qualche modo ricomposta in una dimensione sintagmatica (le scene che si susseguono nel video,
una dopo l’altra, in una dimensione paradigmatica), cioè una visione che può anche farci parlare di
una gerarchizzazione dei contenuti, al cui vertice c’è l’eros, il tema della mostra, però questa è una
mia lettura. Quindi, il video di presentazione che è la cosa più semplice, quanto dura 37 secondi?, è
di una complessità interpretativa assoluta. Dobbiamo, da studios* di semiotica dobbiamo conquistarci
gli strumenti concettuali per capire i vari piani che vengono coinvolti. Un’immagine dopo l’altra? Ma
nemmeno per sogno. Ognuna è un sotto testo con piani complessi di espressione di contenuto, che si
ricompongo poi in un testo generale che, io continuo a dire, se penso bene quella musica non
c’azzecca niente, se invece penso male quella musica cerca di smontare il possibile impatto sociale
di quella mostra.

Anna Casalino: io a questo punto la prossima volta inviterei chi ha realizzato quel teaser perché
anche partire da dei micro aspetti che però sono così densi, riusciremmo a capire la comunicazione e
il retropensiero. Io sono abbastanza d’accordo con Massimo che ci sia una sorta di contraddizione:
da una parte lanci un messaggio di grande impatto, visivo ed emozionale, e poi ti ritrovi con una
comunità che potrebbe non accoglierlo favorevolmente e quindi cerchi il modo di smussarlo. Magari
poi approfondisco chi l’ha realizzato e il committente che ha voluto quel tipo di proposta. Resta
comunque il fatto che è già qualcosa di fatto bene, perché nella maggior parte dei musei una cosa del
genere non c’è neanche se la vai a cercare. Poi naturalmente restano tutte le questioni fondamentali
che sono comunque tutti progetti pensati per chi già sa.
Dunque, prima di andare avanti vi anticipo questa cosa (che avremmo visto domani) che è interessante
introdurre adesso per l’insieme tra linguaggi, il rapporto tra immagine e musica etc: vi faccio vedere
un altro video, girato in epoca covid, in pieno lockdown, e il Louvre e il Musée d’Orsay hanno
lanciato questo video.
https://www.youtube.com/watch?v=m_mHk25GjJQ
Allora, io qui, scusa Massimo, sarei curiosa io di avere un tuo commento: questo video evidentemente
aveva obiettivi completamente diversi. La parola scompare, resta la relazione tra due musei, il Louvre
da una parte, un museo di arte antica che in maniera molto descrittiva viene rappresentato dalla
ballerina di danza classica, dall’altra il Musée d’Orsay con il giovane sullo skate che rappresenta la
modernità. Mi è venuto in mente relativamente alla musica: secondo te qui c’è coerenza all’interno
del testo?

Vedovelli: secondo me sì, molto maggiore. È anche questo molto complesso però più coerente
dell’altro. Ovviamente anche qui le funzioni sono molte però vediamo gli elementi costitutivi, ad
esempio spazio e tempo. Spazio: sono gli spazi che vengono riconquistati e ricreati dai movimenti
dei due. Loro non è che si stanno semplicemente muovendo entro due musei: stanno ridefinendo lo
spazio all’interno della cornice spaziale, e tra l’altro anche all’esterno. Hai detto che è stato fatto in
tempo di pandemia? [Anna Casalino: Sì.] Tempo: quegli orologi che ci fanno vedere significa
riconquistarci il tempo; se è stato fatto durante la pandemia in qualche modo vuol dire “che passi
velocemente questa roba, che ci sia un nuovo incontro, una riconquista del nostro spazio del nostro
tempo”. Dopodiché la metafora, quello che diceva prima il buon Orlando, il rapporto tra i gesti dei
due, gli oggetti, le opere d’arte, la piramide, il senso di modernità dato dallo skate… possiamo leggere
tante cose. Secondo me è più coerente dell’altro. Domani ne riparliamo con Anna in classe.
Anna Casalino: cerco di andare più veloce perché queste slide risintetizzano cose che stiamo
dicendo. Ormai ci siamo resi conto che la contemporaneità ci dà un quadro molto complesso da una
parte, ma ci dà anche tante possibilità evidentemente per comunicare la densità stessa del museo.

Quindi, se noi dovessimo parlare di quali sono i contenuti: i contenuti che sono poi fondamentalmente
di vario genere, quindi abbiamo quelli che sono più in mente, a partire dalle brochure, dai depliant,
dai cataloghi… che costituiscono già di per sé una sorta di filiera orizzontale legata alla carta; ci sono
poi contenuti digitali, legati ai siti istituzionali, anche questi video che abbiamo visto sono
fondamentalmente legati a tutto ciò che è informazione e comunicazione che avviene più o meno
bene o male attraverso i siti, chiaramente il MART ha anche un bel sito che lo sostiene. Ricordiamoci
che i siti istituzionali dei musei sono come per qualsiasi altra istituzione (università, ministeri…) sono
ormai il primo biglietto da visita. Ci sono poi contenuti legati alla dimensione social, che qua non
riusciremo penso a vedere più di tanto, legati ai vari Facebook, Instagram, Twitter… però ci sono
contenuti che vanno ascoltati, pensiamo a tutti i contenuti supportati dalle classiche audioguide o
dallo strumento più che emergente rappresentato dal podcast. Pensiamo anche a quei contenuti che
investono le attività legate al parlato. Prima abbiamo visto i due curatori che presentavano la mostra:
non abbiamo avuto tempo di sottolineare anche la postura, i gesti, il modo proprio del corpo di stare
nello spazio mentre parlavano. Eppure, anche qui, stiamo parlando di contenuti molto importanti nel
lavoro che interessa a noi, che è quello della relazione con i pubblici, quindi contenuti che attraverso
il parlare vengono poi veicolati dai mediatori culturali, dagli educatori, le guide turistiche, ovviamente
ognuno con le proprie competenze e i propri livelli, ma in questo senso rientrano anche secondo me
i cosiddetti “incontri d’autore”, laddove per esempio il direttore o realizza video in cui si presenta
come guida d’eccezione al museo, oppure fisicamente porta i visitatori all’interno del suo spazio
narrativo, il suo museo. Anche in questo caso manca in qualche modo la consapevolezza che alla base
noi abbiamo dei contenuti anche di carattere audiovisivo, tipo quelli che abbiamo visto, film veri e
propri, cortometraggi, e quelli che possono essere “pubblicità” tra marketing e arte proprio perché
questi due video che abbiamo appena visto, bisognerebbe poi interrogarsi sul valore e sugli obiettivi
e su quelle che possono essere le potenzialità, perché nel momento in cui si realizza un film o un
cortometraggio è chiaro che stiamo parlando o di uno strumento audiovisivo o di uno strumento che
a sua volta ha la possibilità di trasformarsi in un vero e proprio discorso artistico. Lo vedremo magari
domani. A questi contenuti che abbiamo visto, si aggiungono dei contenuti che potremmo definire di
carattere transmediale, legato ai fumetti, al graphic novel, ai videogiochi… io nella slide ho aggiunto
il racconto “immersivo” di cui però non sarei nemmeno in grado di parlare perché è un grande
argomento che merita tutti gli approfondimenti del caso in separata sede, ma quello che a me preme
sottolineare è il fatto che tutti questi contenuti presuppongano l’aspetto verbale, non verbale
(gestualità), paraverbale (volume della voce, ad esempio, la velocità di elocuzione, ma anche le
esitazioni, le pausa di silenzio) e visuale, anche se suppongo che per voi sia l’ABC. Il paraverbale è
quella dimensione legata fondamentalmente a tutto ciò che io articolo attraverso la voce e che dovrei
saper veicolare volutamente per creare quegli spazi a metà tra ciò che voglio comunicare, enfatizzare,
narrare sul quale voglio che sia posto l’accento.

Vedovelli: questo vale sia per la voce che per la grafia. Come ben sapete un testo scritto a corpo 24
è ben diverso da uno scritto a corpo 6.
Anna Casalino: Grazie Massimo. Torniamo alla domanda “Quante e quali abilità legate alla
lingua usiamo nel museo? Quanti e quali livelli di comunicazione interagiscono fra di loro e con
quali strumenti e finalità?”. Adesso vorrei provare, per arrivare al punto in maniera pragmatica,
ognuno di voi dovrebbe pensare a una mostra qualsiasi, un’entrata di un museo e quello che poi è la
realtà di questo rapporto.

Di solito c’è un’entrata, con una brochure una mappa; nella prima sala ci sarà probabilmente un
grande pannello introduttivo, una mappa del tempo che ci orienta nella storia, magari cronologie
legate all’artista e al movimento, che ci mettono in relazione al contesto in cui ci troviamo; poi ci
sono le altre sale con l’esposizione vera e propria.

Vedovelli: Anna scusa, ma gli umani? L’altra volta c’era la porta chiusa, abbiamo fatto le scale e
abbiamo trovato una signora che ci ha detto “Biglietteria laggiù”, quindi lumano è stato decisivo. Poi
c’era la piantina del museo, che non abbiamo capito, e abbiamo dovuto fare ricorso all’umano e
chiedere a dei signori. Anche il posizionamento di tutti questi punti ha un senso, perché se sbagli a
rendere visibile ad esempio la biglietteria, già da quel momento si creano problemi nel visitatore;
anche le mappe, se sono fatte male e si chiede al custode. Poi certo c’è il problema delle lingue scelte,
quindi dei pubblici che tu prevedi. […divagano…] Chi organizza il museo usa soltanto poche lingue,
quelle che sa, dei suoi pubblici della sua immaginazione, non quelli reali o potenziali! Il museo quindi,
che dovrebbe essere uno dei luoghi di produzione della cultura e delle lingue e dei linguaggi, si
impoverisce. Si parla di rischio provvisorio elitario della promozione culturale.

Anna Casalino: Puoi togliere “rischio”. Il problema è proprio questo: il fatto stesso che io abbia
avuto nella slide questa disattenzione, nonostante sia molto sensibile all’argomento, come vedi io
sono talmente abituata a bypassare l’umano che non l’ho inserito nell’essere dentro al museo.
Andando avanti, supponiamo che io abbia una mappa per orientarmi, supponiamo che ci siano dei
simboli (frecce etc.) che mi facciano capire qual è il percorso che i curatori vogliono farmi seguire,
da una parte abbiamo un discorso di orientamento nello spazio con i simboli di percorrenza, dall’altra
dovrei potermi orientare attraverso i pannelli di sala, le didascalie, le audioguide che attenzione però,
costano, per cui pensiamo ad un pubblico che va lì e paga (biglietti, pranzo, audioguida…) che non
sono questioni banali rispetto a un’idea di democratizzazione e di accesso alla cultura, parlavamo
l’altra volta dell’accessibilità economica. Se poi sono, diciamo fortunata, ci sono anche QR code e
postazioni multimediali. Ho visto una mostra con mio figlio che aveva i QR code, peccato che non
funzionassero: anche questa enfasi sulla tecnologia, quando magari non hai scaricato l’app, non c’è
wi-fi, andiamoci molto cauti su questo aspetto. Le postazioni multimediali: belle, tutto quello che
volete, ma anche quelle sono pensate e realizzate con uno stile, un linguaggio, da addetti ai lavori,
quindi anche qui ci sarebbe tanto da fare.

Facciamo un esempio concreto: la mostra di Donatello a palazzo Strozzi a Firenze, a cura di Francesco
Caglioti. Vi invito a vedere è molto interessante.
Entriamo e ci troviamo davanti a una situazione del genere: pensiamo sempre al visitatore medio, si
ritrova in un contesto altro rispetto a sé. Sfido a non provare una sensazione di spaesamento. Le foto
sono un po’ volutamente brutte perché esprimono il disagio fisico che si trovava davanti ad esse.
Guardate i pannelli di sala, le luci, i materiali, l’impaginazione. L’effetto dal vivo era questo, per cui
pensiamo a chi ha delle difficoltà visive, o anche alla stupidaggine di usare questi materiali che
riflettono la luce dei faretti. Ora senza leggerlo, voi avete un’idea anche della percezione proprio
visiva: quanto è fitta la scrittura del contenuto. Pensate a un pubblico che sta in piedi, al tempo di
lettura di un pannello del genere, e a quale è la possibilità che quel contesto in mezzo alla gente, noi
riusciamo a trattenere delle informazioni che poi siano utili a rapportarci con il Donatello.

Vedovelli: funzione fatica. Rapporto mittente-ricevente: verifichiamo che il canale non si interrompa.
In quei pannelli cosa fallisce nella comunicazione? Proprio la funzione fatica, la possibilità che il
canale non ostacoli il passaggio del messaggio. In quella mostra io ho provato a spostarmi, poi c’era
tanta gente. Ma chi all’interno della mostra pensa ai pannelli di sala, come tiene in conto le esigenze
del ricevente? Secondo me in nessun modo. Era scritto piccolo. Probabilmente non possono nemmeno
aumentare il carattere per questioni di spazi, poi ho l’impressione che anche il testo ci metta del suo,
perché a volte uno si aspetta di trovare qualcosa di introduttivo, di chiarificatore, mentre chi scrive
sceglie un’altra strada. Quindi il tema di cui parlavate Monica e te, cioè la non-attenzione del ricevente
attraversa tutta la strutturazione dei centri di produzione della cultura. Cioè quando nemmeno
garantisci il canale, come puoi pensare che il tuo messaggio passi? Questo è molto grave. Cosa si
può fare?

Anna Casalino: Allora guarda, io in realtà sono partita storica dell’arte, sono approdata editor, mi
sono trovata a fare queste cose perché a un certo punto il mio livello di fastidio è diventato tale da
essere insopportabile. Un pannello di questo genere, vi dico cosa succede dietro le quinte, nel migliore
dei casi vengono realizzati uno/due giorni prima dell’inaugurazione della mostra. I curatori
ovviamente sono presi da mille altre cose, le opere che devono arrivare etc. e nessuno si preoccupa
di far sì che quello che loro hanno in mente, che è molto importante, alla fine che il pannello ci sia o
non ci sia non cambia, anzi forse sarebbe meglio che non ci fosse: sarebbe una scelta di campo dire
“io non uso nessuno strumento di mediazione. Se entri qui dentro devi avere la tua ‘cassetta degli
attrezzi’ (come la chiamo io)”. Questi non sono contenuti pensati per essere scritti nei pannelli: c’è
un curatore che scrive, poi c’è un povero grafico che deve impaginare e ha uno spazio X a
disposizione, perché non è stato fatto nessun discorso di progettazione a monte. Quando uno scrive
un libro, lo fa presupponendo tutta una serie di caratteristiche (collana, contenuti…) perché non si
può ingettare la pagina di un libro di troppo testo perché il testo deve avere una sua leggibilità, allo
stesso modo il grafico non può fare miracoli, ed esce fuori una roba del genere. In più il curatore
magari ama il materiale del pannello, ma nessuno gli ha detto che non può sceglierlo perché è
riflettente e crea un disagio.

Barni: Questa scelta mi stupisce molto. È una scelta che viene da uno spazio espositivo come palazzo
Strozzi, che è uno tra i pochissimi che ha un settore dedicato completamente alla ricerca e alla
didattica. Mi fa pensare che solo all’ultimo momento si siano potuti dedicare all’allestimento di questi
pannelli, perché in altre loro mostre c’era stata notevole attenzione anche a questi temi.
L’altro aspetto che volevo far notare, è che molto spesso da parte dei curatori c’è una chiusura totale,
vi faccio un esempio, da giovane ho lavorato con un’agenzia che organizzava esposizioni/mostre, mi
avevano chiesto di rivedere i testi delle audioguide. Le audioguide entrano nei musei negli inizi degli
anni 90, come strumento di democratizzazione della cultura perché spieghi alle persone cosa vedono,
io mi ritrovo testi di audioguide scritti da storici dell’arte, archeologi, assolutamente incomprensibili:
periodi lunghissimi, che avrebbero dovuto essere utilizzati per essere ascoltati, con una densità di
termini tecnici enorme. Io ho detto fatemi parlare con chi ha scritto questi testi che rivediamo, non
potevo scrivere io un testo da specialisti. È iniziata una battaglia furibonda, perché non c’è la
consapevolezza che ci vuole un’attenzione al destinatario. Il destinatario è l’ultimo dei problemi da
affrontare, a loro interessa scrivere un testo che sia scientificamente accettato dalla propria comunità.
Quindi ovviamente scrivevano come in un saggio.

Vedovelli: non soltanto gli storici dell’arte, io penso che chiunque parli pensando soltanto a proiettare
sé stesso sul contesto. Tutti i modelli di comunicazione (Jackobson, Saussure…) perché il ruolo
dell’emittente è un ruolo totalizzante, non esce dal suo spazio vitale di comunicazione. Questo è un
fatto di cattiva educazione linguistica, spontanea negli ambienti familiari, formale nella scuola.
Secondo me gli storici dell’arte non pensano nemmeno al resto della comunità, pensano solo a sé
stessi.
[dà compiti per semiotica]

Barni: Ecco, anche andare a vedere cosa è presente di tracce di segnali all’interno degli ambienti
dell’università rientra perfettamente negli studi di cui parlavamo ieri a lezione di Linguistic
landscape.

27° LEZIONE - 20/05/2022

SBOBINATRICE: Chiara Sicurelli


REVISIONATRICE: Nelly Ajahoung
Se parliamo di museo in particolare, o di patrimonio, è chiaro che parliamo di qualcosa che ha a che
fare con la presenza: non dimentichiamolo mai, perché presenza e distanza sono solo due aspetti
entrambi da curare, ma è evidentemente prioritario ristabilire un rapporto in presenza.
Prima la professoressa Barni stava parlando di accesso democratico: quello di cui stavamo parlando
in realtà ha alla base la convinzione profonda che in ballo non ci sono soltanto le politiche culturali
e quindi dei ragionamenti che ci possono interessare in futuro, ma dietro le politiche culturali
chiunque se ne occupi, deve pensare che dall’altra parte c’è un ricevente della quale ci dobbiamo
occupare e con la quale dobbiamo stabilire una relazione che sia autentica.
Criticare la posizione di un faretto o l’uso di un determinato font verranno viste come critiche, ma
in realtà si tratta di rendere accessibili a tutti determinate informazioni, perché l’arte e il patrimonio
sono universali, patrimonio dell’umanità e in quanto tali all’umanità vanno restituiti.

Ieri abbiamo parlato di Donatello:


Qui siamo in un contesto, quello di palazzo Strozzi, di altissimo livello.
Qui c’è stato qualche errore: spesso succede che i curatori delle mostre finiscono lunghi con
l’organizzazione della mostra stessa (le opere che devono essere montate, l’allestimento ecc.), però
anche i pannelli e le didascalie andrebbero curati a monte. Cioè, si deve progettare, scrivere, curare
questi contenuti prima in collaborazione con il curatore e con l’architetto. Questo in virtù di un
piano strategico che pone la comunicazione, l’educazione, la valorizzazione, la partecipazione e
l’ascolto sullo stesso piano, nel senso che si parte da una comunicazione: ti informo che c’è una
mostra su Donatello, poi inserisco dei pannelli dove ti spiego, poi via via questo processo diventa
un processo, se funziona la comunicazione iniziale, di educazione, nel senso che se io ricevente
capisco cioè che tu mi vuoi dire, io stess* inizierò a farmi un’idea. Prima avviene la comunicazione
e poi l’ascolto reciproco. A quel punto il pubblico si sentirà incluso e pronto a partecipare.

Valore della didascalia: bisogna fare attenzione ai tipi di contenuti che le didascalie contengono,
soprattutto perché per gli addetti ai lavori alla fine queste sono le indicazioni: autore, data di nascita,
titolo dell’opera, tecnica e collocazione. Sono elementi fondamentali ma sono una base di partenza,
elementi che interessano più l’addetto ai lavori. Dovremmo porci tutta una serie di altre questioni,
ad esempio: dove abbiamo posto questa didascalia? Sta vicino all’opera? Oppure me la devo andare
a cercare? A livello comunicativo non ha senso che la didascalia si debba andare a cercare, va posta
vicino all’opera. Oppure, mettere quattro didascalie di quattro opere tutte insieme lontano dall’opera
in modo che si turbi il nitore della parete e il rapporto visivo tra lo spettatore e l’opera d’arte; questo
però funziona per un addetto ai lavori, o se uno storico dell’arte va a vedere qualcosa che già
conosce, perché è in grado di orientarsi, è in grado di riconoscere la tecnica ecc, quindi la didascalia
diventa quasi ininfluente.
Bisogna stare attenti al posizionamento della didascalia: se è troppo bassa, o troppo alta, può essere
un problema per lo spettatore. Bisogna fare una media: tenere conto di chi è troppo alto e di chi è
troppo basso. L’impressione resta sempre quella che non c’è una valutazione complessiva rispetto a
questi elementi che invece potrebbero essere funzionali.
Da considerare il rapporto tra contenuto, grafica e font: si può parlare di qualcosa con delle
dimensioni più o meno grandi. Questo è fondamentale quando ci riferiamo ad un pannello: c’è un
numero di battute che noi possiamo scrivere affinché il contenuto sia leggibile. Quello che succede,
di fatto, è che il curatore scrive quello che secondo lui è indispensabile (e questo varia sempre
rispetto al contesto), il grafico si potrebbe trovare ad impaginare qualcosa che non ci sta; quindi, i
pannelli spesso sono dei testi muro, perché sono illeggibili. Se ci fosse stata una progettazione a
monte, se qualcuno avesse detto al curatore quanti pannelli fare, con quale stile, quali contenuti e le
dimensioni, sicuramente l’effetto finale per il pubblico e il visitatore sarebbe stato completamente
diverso.

Confronto di due opere d’arte dal Polittico del Carmine, alla mostra curata dallo storico d’arte
Francesco Caglioti: due opere di Masaccio e Filippo Lippi. Riguardo alla didascalia, mancavano
delle informazioni, sarebbe stato bello se Caglioti avesse aggiunto delle informazioni in più alle
didascalie per chi di arte medievale non si intende.
Ricapitolando, i dati necessari per una didascalia sono:
- Nome dell’autore.
- Data di nascita.
- Titolo dell’opera.
- Datazione.
- Tecnica.
- Collocazione.
Nelle didascalie di Caglioti c’erano: nomi degli autori, date di nascita, i riferimenti ai santi dipinti
messi a confronto e la collocazione delle opere. Mancavano delle informazioni interessanti.
Ad ogni modo, bisogna pensare ai pubblici per capire se i dati per una didascalia elencati pocanzi
sono abbastanza. Bisogna valutare se bastano un pannello e una didascalia, se bastano pensando ad
anziani (problemi di vista, problemi fisici), pubblici “fragili” e nativi digitali, è importante valutare
a chi rivolgersi. È impossibile rivolgersi contemporaneamente a tutti i pubblici. È importante
valutare anche i colori scelti, perché ad esempio si scelgono dei raffinati grigio su grigio perché
piacciono al curatore, sono effettivamente elegantissimi, ma potrebbero essere difficili da leggere
per determinate persone. Non bisogna scegliere dei font o dei colori solo perché sono eleganti, ma
devono corrispondere all’uso che se ne fa.
Pensiamo ai nativi digitali: dobbiamo cercare di avvicinarli al modo giusto, e non è detto che esso
sia necessariamente il digitale. Ad esempio, a Brera hanno fatto dei tentativi di didascalie di vario
genere, agli Uffizi hanno fatto una mostra sul tema dell’infanzia.
Ci deve essere una comunicazione generalizzata, sempre e comunque. Anche i bambini devono
essere messi nelle condizioni di comprendere le didascalie, con colori e grafiche adatte.

Vedovelli: Noi sappiamo che i linguaggi non sono semplicemente congegni che appiccicano
etichette alle cose, ma sono congegni formatori di identità, creano il senso. L’apparato di una
mostra non può svolgere semplicemente una funzione di etichettatura (l’apparato e le etichette sono
i pannelli, in questa visione). L’apparato di una mostra deve creare il pubblico, perché anche per
l’esperto la mostra può essere qualcosa di nuovo. Anche l’esperto al quale loro si rivolgono con
quell’apparato, comunque ha un problema di novità, non sa tutto della mostra, anche se conosce
l’artista. Quindi rientra nel potenziale non pubblico; e il non pubblico è colui che inserito in un
processo semiotico, riceve un messaggio ed è coinvolto nel processo di elaborazione del messaggio.
L’apparato deve individuare una gamma di possibili pubblici da creare, cioè far uscire dallo stato di
sorpresa. Bisogna creare aspettative, motivazioni, schemi di senso, chiavi di lettura. Giustamente,
non è possibile individuare tutti i possibili profili di pubblico, ma chi organizza la mostra deve
almeno avere in mente qualche profilo, per fare in modo che le persone possano fare una certa
esperienza di senso.

Barni: L’apparato che sta dentro il museo è evidente che deve essere fatto in modo da rispondere ai
pubblici, ma non li può creare (Vedovelli non è d’accordo). Per creare i pubblici ci vuole tutto un
lavoro precedente, perché se no le persone dentro il museo non entrano, oppure entrano con un
atteggiamento più legato alla moda di entrare al museo piuttosto che quella di uscire dal museo
dopo aver fatto un’esperienza culturale. Per creare nuovi pubblici (che siano consapevoli) c’è
bisogno di tutta un’attività a monte che il museo deve fare, tra cui collaborare con le scuole proprio
per cambiare l’approccio alla partecipazione culturale. Il museo non deve essere chiuso, non può
essere considerato inadatto ai bambini. Si possono fare delle esperienze in cui i bambini entrano e
magari con un foglio e provare a rifare qualcosa dell’opera.
È attraverso un percorso educativo lungo, profondo, che parte dall’infanzia che forse si riuscirà a
trasformare la visita al museo in un’esperienza.
Anna Casalino: La scuola di per sé va operata di risorse e gli operatori dei musei non sono neanche
ben attrezzati ad avere a che fare con quei bambini con BES, ovvero Bisogni Educativi Speciali che
si stanno moltiplicando perché forse adesso c’è più attenzione a queste cose? In ogni classe,
comunque, ce ne sono almeno 5/6. Non sono problemi particolari, nel senso che se ben seguiti sono
tutte piccole questioni di fragilità assolutamente superabili (disgrafia, disortografia, discalculia,
dislessia ecc.).
Nei musei anglosassoni o comunque di orientamento anglosassone, il dipartimento educazione è
praticamente una sorta di front office, cioè non c’è il curatore della mostra e l’architetto, prima c’è
il dipartimento educazione, e questo la dice lunga sulla questione del ribaltamento, ed
effettivamente i bambini entrano più volentieri in musei all’estero che in musei italiani.
La prof mostra questo: un pdf di poche pagine con una grafica accessibile perché è un kit per
famiglie, quindi, punta anche ad interessare i più giovani della famiglia. Va analizzato perché la
scrittura all’interno cambia: alcune parole sono in corsivo, altre in maiuscolo, per permetterne la

leggibilità.
L’uso del maiuscolo va usato con molta parsimonia, perché per l’occhio il tutto maiuscolo diventa
una lettura a divisione a quadrati; quindi, se usata per poche parole le mette in evidenza, se lo si usa
per delle frasi troppo lunghe non va bene.
Questo pdf dà delle informazioni essenziali con un linguaggio semplice, anche sul panneggio della
statua, scrivendo tra parentesi cos’è un panneggio (il modo in cui le stoffe creano pieghe e
increspature).
Molto funzionale, in questo pdf, l’utilizzo di frasi brevi e coincise, semplici. Dal punto di vista
linguistico esistono tutti degli strumenti per verificare e controllare il tipo di lingua nel quale sono
scritte le cose.

Barni: Utilizzando programmi di scrittura come Word, ci sono delle opzioni che ci dicono non solo
il numero delle dei caratteri o il numero delle parole, ma ci sono delle opzioni che vanno a calcolare
l'indice di leggibilità di quello che scriviamo. L'indice di leggibilità non è correlato direttamente con
l'indice di comprensibilità del testo, perché l'indice di comprensibilità di un testo dipende da fattori
contestuali che naturalmente sono extra-linguistici, però ci aiuta a fare un controllo.
Quindi, ci sono diciamo questi programmi che individuano l'indice di difficoltà come di difficoltà
lessicale, ad esempio con l'appartenenza o meno delle parole del testo al vocabolario di base, e
legano la difficoltà semantica con le parole le parole del vocabolario di base e la difficoltà invece
sintattica, per esempio, con la lunghezza delle frasi, quindi, più le frasi sono brevi più le parole
appartengono al brano di base che un testo è leggibile. Però non è sempre così: la leggibilità e una
proxy della comprensibilità perché molto spesso testi e frasi brevi, anche parole comuni, che però
sono usate con accezioni che non sono le accezioni comuni è chiaro che possono creare dei
problemi, però è importante sapere che ci sono questi strumenti e soprattutto si può usare facoltà
metalinguistica per andare appunto a spiegare qualcosa in parole più semplici.
Comunque, la leggibilità non è strettamente correlata alla comprensibilità, ma aiuta molto.
Anna Casalino: fondamentale quello che ha detto la Barni perché è fondamentale tenere a mente
che quello che viene spiegato si sa già.
Gli operatori culturali nell’ambito dell’archeologia o della storia dell’arte di solito non hanno una
formazione specifica su questi aspetti, che invece sono fondamentali e dovrebbero rientrare nella
formazione.
La conoscenza disciplinare di una cosa non ti rende automaticamente in grado di restituirlo agli
altri.

“Increspature” è giù un termine un po’ più complesso che forse un bambino di 10 anni non ha,
essendo utilizzato comunque in un kit per famiglie ci saranno i genitori a spiegare il significato,
dicendo ad esempio: “hai presente l’increspatura delle onde del mare?”. Ad ogni modo, meglio
fermarsi qui con il dare troppe informazioni perché altrimenti c’è il rischio di avere l’effetto
contrario. Questo vuol dire avere un controllo della scrittura e del contenuto e della comunicazione.

Barni: una spiegazione di questo tipo mette in luce alcune caratteristiche essenziali dell’opera
dell’autore, che ci aiutino ad andare al di là del solo giudizio estetico dell’autore. Di solito andiamo
al museo categorizzando un quadro nelle categorie di bellezza o bruttezza, quando dovremmo
considerare cosa un autore ha dato in più rispetto al suo predecessore, nel caso di Donatello, il
panneggio.

Questione delle audioguide: aspetto poco curato. Nell’audioguida si trovano dei contenuti pensati
per stare in un altro contesto, ovvero quello del catalogo, e con una funzione diversa, cioè parlare ad
un altro addetto ai lavori. Non vengono creati contenuti ad hoc, sia per catalogo che per pannello
che per l’audioguida i contenuti sono esattamente gli stessi. Anche la voce metallica
dell’audioguida è respingente, perfino per un addetto ai lavori. È importante considerare pause,
silenzi, lo storytelling: racconto pensato nella sua dimensione “spaziale”: io visitatore mi muovo
nello spazio del museo, passo da una sala all’altra, ma se sono bravo posso scrivere una sorta di
sceneggiatura su ciò che andrò a vedere insieme al curatore e a chi fa l’allestimento, e andrò a
curare con i contenuti scritti con pause e silenzi che mi portano da una stanza all’altra, creando
costruzioni di senso anche nella percorrenza.
Per quanto riguarda i dislessici, sarebbe utile e molto bello mettergli a disposizione un racconto
magari intercalando con la voce del curatore della mostra; possono essere inventati davvero mille
format per restituire a chi sta visitando quel contesto il senso della comunicazione. In questo caso,
usciranno dal museo felici perché sono riusciti a comprendere ciò che hanno visto.
Se si scompagina il linguaggio e non si da modo alle persone di trovare gli appigli, è normale che
queste persone proveranno disagio.

È una mostra che si è tenuta al Comune di Roma quest'anno, molto bella e molto importante,
dedicata alle donne e al corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione:
“L’invisibilità delle donne nel mondo dell’arte è un assioma di cui non si può dubitare. L’oblio ha
caratterizzato la produzione delle artiste in tutte le epoche e solo negli anni Settanta del XX secolo,
grazie a pioneristici studi, soprattutto nel mondo anglosassone, sono riapparse alla memoria artiste
come Artemisia Gentileschi, Rosalba Carriera, Frida Kahlo o Benedetta. Il divario tra la presenza di
artisti maschi in confronto alle artiste donne resta macroscopico e soprattutto inversamente
proporzionale alla visibilità del corpo femminile nella pittura e nella scultura di tutti i periodi. Per
secoli l’immagine femminile è stata l’oggetto prediletto della creatività: il nudo femminile come
forma da studiare, modello di bellezza, di erotismo o di ludibrio, mentre la modella, diventava
alternativamente, la musa ispiratrice, la fonte di ogni peccato, l’esempio di doti domestiche e di
virginale maternità… […]” questo testo è l’introduzione del catalogo e lo stesso contenuto è
diventato il pannello introduttivo della mostra.
Scritto con un linguaggio e una densità di contenuti tali che una volta letto tutto, non ci si ricorda
nulla. Il linguaggio è sicuramente bellissimo ma non è minimamente adatto alla funzione che ha. È
adatto come introduzione al catalogo. Non a caso il catalogo si compra alla fine di una mostra, dopo
che tutte le opere sono state viste (e si spera comprese), così una volta uscito dal museo ci si compra
il catalogo e lo si legge comodamente a casa.
Se si è però nel museo dentro la mostra è chiaro che si va di corsa e si vuole leggere quello che ci
interessa in quel momento per capire quello che sto vedendo. Se in un pannello mi metti la parola
“assioma”, è ovvio che è respingente.

Barni: La stragrande maggioranza dei musei italiani prende finanziamenti da musei pubblici. Qual è
la funzione pubblica di un museo, quindi? Essa deve essere quella di prendere i soldi dello stato per
restituire in termini di educazione. Art.3 della Costituzione, importantissimo: la funzione pubblica è
quella di combattere le disuguaglianze. E le disuguaglianze si combattono in questo modo.
Un museo come palazzo strozzi solo dalla regione Toscana prende quasi un milione di euro.

Anna Casalino: alla Galleria nazionale dell’arte moderna ha partecipato ad un seminario e


parlavano di questa mostra sui generi e facevano vedere l’esposizione. Un’opera era un telefono
attaccato al muro che doveva rappresentare la possibilità della donna di chiamare in caso di
violenza. Quest’opera è praticamente incomprensibile. Casalino chiede se fosse previsto qualcosa
che avrebbe aiutato a comprendere le opere il visitatore, e la risposta è stata “c’è il catalogo”.
Scomodo dover girare per la mostra con il catalogo in mano (che tra l’altro, come già detto, ha
un’altra funzione) e sfogliarlo al volo per capire che il telefono alla parete a quella determinata
funzione. Tutto questo non può essere spiegato?
È da ribadire che stiamo parlando di un museo pubblico che utilizza soldi pubblici. È quindi nel
nostro diritto uscire che abbiamo capito qualcosa.

I kit mostrati non vengono nemmeno dati al museo, vanno scaricati prima, rimangono confinati nel
loro sito internet: non c’è abbastanza valorizzazione.
Verso l’uscita, possiamo trovare cataloghi di 50/60€, assolutamente non alla portata di tutti.
Oppure, la brochure che ti guida per la mostra, invece di essere messa dal lato dell’entrata, viene
messa dal lato dell’uscita.

Visione del video: Apriamo la questione del racconto del museo attraverso l'audiovisivo. Il Museo
Nazionale Archeologico di Napoli ha realizzato serie di 5 corti, il cui regista è Lucio Fiorentino, e
sono dedicati alla relazione tra antico e presente. Affrontano diversi temi: la paura, l'amore, l’ultimo
corto è quello della perdita che forse è quello più empatico. Questi sono corti emozionali perché
sono pensati per suscitare delle emozioni e questo è un progetto che finalmente potrebbe agire.

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