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17/02/2022

Ci occupiamo di lingue, una riflessione sia in tema di politiche sulle lingue, quali politiche gli stati mettono in
atto sulle lingue, quale ideologie sono veicolate, come queste politiche si riflettono sul contesto formativo.
Tre temi: il bilinguismo, il multilinguismo, il plurilinguismo.

Nella prima parte ci occupiamo delle definizioni. Perché doppia accezione con plurilinguismo e
multilinguismo? Sono sempre di più usati come termini. Se vogliamo parlare di educazione linguistica, un
tema da affrontare è questo. Il tema della gestione delle società multiculturali, che può portare ad una
visione di politiche linguistiche che favoriscono l’inclusione o l’esclusione. Perché la implicazioni a livello
fisiologico? Vedremo il grado di naturalezza del bilinguismo nel soggetto.

Nella seconda parte vedremo come all’interno delle politiche linguistiche in Europa e in Italia sono state
applicate politiche che favoriscano i tre temi.

Le ultime lezioni saranno dedicate a un tema di politica linguistica in Italia. Quando si parla di lingua, di
conoscenza, competenze in una lingua ci sono delle implicazioni molto forti, che incidono profondamente
sulla nostra vita sociale, sulla possibilità di gestione dei contesti di interazione sociale. Le implicazioni
dell’apprendimento e della conoscenza di una lingua sono fortissime. Un grande studioso e operatore nel
campo dell’educazione linguistica è Don Milani. Diceva “è la lingua che ci fa uguali”, ci permette di avere le
stesse opportunità all’interno di una società. Proprio perché sia chiaro questo ci occuperemo di come le
lingue sono usate all’interno di un contesto sociale e culturale, quale è quello di un museo. Il tema delle
lingue rientra nel tema più grande della partecipazione alla vita sociale e democratica di un Paese.

La prospettiva con cui analizzeremo i tre temi è di considerarli non come un ostacolo ma come una risorsa,
vedremo in che modo possono essere considerati una risorsa.

Il nostro obiettivo è vedere che il multilinguismo e il bilinguismo sono fenomeni naturali che esistono da
milioni di anni in ogni parte del mondo. L’Europa era arrivata ad essere un’entità sovranazionale di 28 Paesi,
da quando è diventata operativa la BREXIT l’Europa è rimasta di 27 Paesi. Il motto dell’Unione Europa
“unity in diversity”. È un’indicazione forte anche di politica linguistica, è un sovrastato unitario ma
l’obiettivo è quello di mantenere la diversità, di rispettare la diversità. Unità sì, ma fatta di tante diversità. Il
motto degli USA è ex pluribus unum, da più fare una cosa sola. Dal punto di vista linguistico siamo in una
dimensione opposta: gli USA sono una nazione creata con l’apporto di tante pluralità, ma l’obiettivo è
creare un’unicità.

L’EU stabilisce tante lingue ufficiali, 24 lingue. La realtà è così semplice? I confini non sono così netti, c’è
sovrapposizione, soprattutto nelle aree di confine. Ogni Stato ha una sola lingua? No. Ci sono le lingue di
minoranza di antico insediamento, ad esempio. Alcune hanno avuto un vero e proprio riconoscimento e
sono tutelate da leggi. Un altro fattore di diversità è dato dai dialetti. Il plurilinguismo/multilinguismo nel
nostro Paese è una realtà.

Nel mondo ci sono fra 6 e 7 mila lingue, divise in 189 Stati indipendenti. Ora siamo a 7117 lingue usate. Le
lingue essendo esseri viventi nascono e muoiono. Una lingua è destinata a morire se non ci sono più
parlanti. Una lingua è usata in un’ampia gamma di contesti di comunicazione, usata fra tutti i generi e le
età, abbastanza stabile per essere compresa nell’intera area in cui è usata. Lingua parlata significa lingua
usata dai parlanti, l’inglese è la lingua più parlata nel mondo, il cinese mandarino ha la maggioranza di
parlanti nativi. L’italiano è la ventisettesima lingua più parlata al mondo, 20 anni fa era diciannovesima.
Sono aumentati in altri Paesi il numero di parlanti, le nostre comunità di parlanti all’estero stanno
diminuendo, le terze/quarte generazioni non parlano più l’italiano.

Uno Stato non corrisponde ad una lingua. Ci sono Stati con tante lingue, questo implica la naturalità del
possesso e della gestione di più lingue per ciascuno di noi. Significa che ciascun parlante usa una delle tante
lingue o la situazione è più complessa? La seconda, un bambino che va a scuola può arrivarci con un
bagaglio linguistico di 3-4 lingue. Il multilinguismo è qualcosa di naturale, sia a livello spaziale dei territori,
sia a livello dei singoli individui. Non dobbiamo aver paura perché non esiste un ostacolo dal punto di vista
biologico, il nostro cervello è capace di gestire tante lingue, il possesso di una non è ostacolo al possesso di
altre. L’unico ostacolo è la nostra capacità di memoria.

Perché vanno sempre giustificate, sostenute? Paradossalmente quella che sembra la condizione normale di
ciascuno di noi è quella di essere monolingue. Se la condizione di multilingue è naturale, perché la
dobbiamo giustificare?

18/02/2022

Il multilinguismo e il bilinguismo sono fenomeni naturali che esistono da milioni di anni in ogni parte del
mondo da quando le persone sono entrate in contatto fra di loro. La diversità linguistica è naturale perché
le lingue sono qualcosa di vivo, sono delle forme di vita che mutano a seconda dei contesti e a seconda di
quanto i parlanti le utilizzano. Ethnolog censisce le lingue del mondo, in questi anni ce ne sono poco più di
7mila perché la definizione di lingua che usa è legata ad alcuni parametri, come la varietà di domini di usi di
una lingua, il fatto che venga usato fra le varie età e che sia forte nell’area in cui è usata. Le lingue si
concentrano nelle zone maggiormente abitate, non c’è diversità linguistica dove è impossibile vivere.
Lingua, Stato e nazione non è una cosa che si riscontra nei fatti. Ci sono Paesi in cui convivono fino a 800
lingue, come in Sud Africa, dove ci sono 17 lingue ufficiali, più i vari dialetti. Non dobbiamo avere paura
perché essendo le lingue forme di vita, in quanto tali nascono e muoiono, oltre a modificarsi
continuamente. Sono entità modellate dal nostro mondo che cambia rapidamente, cambiando
velocemente il contesto è chiaro che anche le lingue cambiano. Si calcola che questo sia un tempo fragile,
in cui la fragilità di molte lingue è presente. Il 40% delle lingue sono ora in pericolo, perché ci sono meno di
mille parlanti che comunemente la parlano. All’opposto il fenomeno della globalizzazione e quindi il fatto
che ci sia una molto più spiccata mobilità, ci sia un mercato globale, ha portato alla prevalenza di alcune
lingue rispetto ad altre. Ci sono 23 lingue usate da più di metà della popolazione mondiale. L’UNESCO
dedica molta della sua azione a salvaguardare le lingue, delle 7mila lingue, 2500 sono a rischio.

Perché il monolinguismo non è oggetto di uno stesso dibattito a livello culturale e a livello scientifico,
rispetto al multilinguismo? Il multilinguismo è incoraggiato, ma non sempre. La Germania è un Paese in cui
la presenza di immigrati risale a molti decenni prima di quello che è successo in Italia, dove le prime ondate
grandi sono arrivate negli anni 90, dopo il crollo del muro di Berlino. C’è lo sgretolamento del blocco dei
Paesi dell’Est, gli immigrati provenivano dall’Albania, cercavano quello che i nostri migranti avevano trovato
in America. Negli anni 90 ci siamo accorti dei migranti, l’emigrazione verso Paesi più industrializzati è data
da più lungo tempo, eppure anche in questi Paesi è forte la tesi per cui il multilinguismo sarebbe di
impedimento a una buona integrazione. Si mette l’accento sul tema linguistico come elemento di
integrazione e si dice che le lingue di origine costituiscono un impedimento che passa anche dalla lingua,
più tedesco e meno lingua d’origine. Il multilinguismo e il bilinguismo possono essere dannosi per lo
sviluppo e l’integrazione. Se è naturale, perché si dice sia un ostacolo? Esiste un bilinguismo/multilinguismo
che è più utile di altri. Apprendere le lingue di una minoranza non serve, invece c’è un multilinguismo che è
rappresentato dalla competenza di quelle lingue di prestigio che funziona. Cominciano ad emergere alcune
forti contraddizioni.

Il prestigio di cui godono alcune lingue determinano scelte nel contesto educativo. Questo fa capire come
sono cambiate le cose. Pensiamo alla lingua cinese, prima a nessuno sarebbe venuto in mente di imparare il
cinese. Negli anni la situazione è cambiata, l’apertura ai mercati della Cina e le politiche linguistiche che la
Cina ha messo in atto stanno rapidamente cambiando la situazione. Vediamo un survey fatto su abitanti
dell’Europa selezionati a cui sono state fatte delle domande sulle loro competenze linguistiche e le loro
attitudini nei confronti delle lingue. È emerso che in 7 anni (2005-2012) la capacità di parlare inglese [la
domanda era “quali lingue pensi di parlare abbastanza bene in modo da essere capace di conversare con un
madrelingua?”] è aumentata. Lingue che prima erano ritenute meno utili stanno diventando utili, il russo, il
tedesco, il francese sono diminuite. Il multilinguismo con l’inglese è quello più frequente in Europa. Se poi si
vedono le attitudini nei confronti di una lingua, quali sono le motivazioni più forti per l’apprendimento di
una lingua? To be able to work in another country, to use at work. È considerate un bagaglio da mettere nel
portfolio di ciascuno. Perché l’inglese è ritenuto così importante? Perché si ritiene sia la lingua che
permetta di lavorare nel proprio Paese e all’estero. L’utilità diventa il motore della conoscenza linguistica.
Infatti, se si chiede “pensando a lingue diverse dalla propria lingua madre, quali lingue pensi siano più utili
per il tuo sviluppo personale?”, il 67% dice che la lingua più utile sia l’inglese. Vediamo un eurobaromether,
il campione è di soli studenti, si verifica quanto e che attitudine hanno gli studenti per la european
education area, l’area di educazione europea, il cui programma principale è l’Erasmus, testimone che si è
sviluppato un sistema educativo che permette la mobilità fra gli studenti. Uno degli obiettivi dell’EU è stato
di aprire un’area e permettere agli studenti di muoversi liberamente e avere titoli di studio comparabili fra
un Paese e l’altro. Cosa dicono gli studenti europei alla domanda “in quali lingue vi piacerebbe
incrementare la vostra conoscenza”? Hanno risposto quasi tutti, ad eccezione di Malta perché lì si parla già,
dell’UK e dell’Irlanda, che la lingua da imparare sarebbe l’inglese. Questo prestigio da lingua più utile per il
futuro di ciascuno è presente in quasi tutti i paesi d’Europa. “Tutte le lingue dell’Europa dovrebbero essere
trattate allo stesso modo?”, che continuino ad essere usate come lingue ufficiali dell’EU. Si tratta di giustizia
linguistica. Sarebbe “secondo voi alcune lingue che non servono dovrebbero essere lasciate da parte o
no?”. La risposta maggiore è che si è totalmente d’accordo o tendere ad essere d’accordo. Non tutti i Paesi
rispondono allo stesso modo. L’84% in Italia dice che le lingue devono essere trattate allo stesso modo. C’è
una qualche diffidenza in alcuni Paesi per il multilinguismo e questo viene ancora di più confermato dalle
risposte alla domanda “tutti dovrebbero essere in grado di parlare una lingua comune?”. Multilinguismo ok,
ma non sempre e non tutte le combinazioni.

Le indagini si suddividono in indagini censuarie e campionarie. Nelle survey si prende un campione, nelle
census si prende il censimento, indagine in cui si intervistano tutti gli abitanti di un determinato Paese. Ogni
10 anni si fa il censimento, si fa ogni 10 anni perché cambiano le persone di riferimento e perché è
costosissimo. Il campione deve essere rappresentativo dell’Universo della popolazione, non potendo
accedere a tutti, se si vuole fare un’indagine vasta. L’idea dell’importanza di una lingua è l’attitudine che
hanno le singole persone, il dibattito scientifico è polarizzato: monolinguismo o multilinguismo di utilità e al
polo opposto tutte le lingue sono uguali, tutte vanno trattate allo stesso modo. In media, tutta l’apertura
nei confronti delle lingue non c’è, anzi si dice “sarebbe bene che tutti gli europei parlassero una lingua
comune”.

Un motivo addotto per dire “non si possono mantenere tutte le lingue” sono i costi. Quando nel 1958
l’Europa è stata costruita, le lingue erano solo 4, l’italiano, il francese, il tedesco e il neerlandese. Poi le
lingue sono aumentate e tutto è diventato più complesso. Ci sono 24 lingue ufficiali, di lavoro e di
legislazione primaria, dei trattati e degli atti di adesione: in Eu si lavora, si legifera, si fanno i trattati e gli atti
di adesione in 24 lingue diverse. Al Parlamento ognuno può parlare la propria lingua. L’Unione è l’unità
sovranazionale che comprende tutti i Paesi, al suo interno ci sono degli organismi che regolano il suo
ordinamento, il Parlamento è eletto da ciascuno di noi, che ha potere legislativo, contiene i rappresentanti
di tutti i Paesi, in misura percentuale rispetto alla grandezza del Paese. La Commissione è il Consiglio dei
ministri, i commissari sono quelli che costruiscono le misure che portano avanti l’EU. C’è poi un altro
organismo, il Consiglio europeo, la riunione dei ministri dei vari Paesi. Alla Commissione ci sono funzionari
che lavorano tutti i giorni, ci sono tre lingue procedurali, per il lavoro quotidiano. Con 24 lingue ufficiali
sono possibili 552 combinazioni linguistiche, ci dovranno essere traduttori e interpreti che partendo da una
lingua sapranno tradurre in altre 23 lingue. Spesso si dice che un motivo per cui si favorisce il
multilinguismo, ma rappresenta un problema, sono i costi, i documenti che devono essere tradotti
richiedono un grande lavoro. Uno studioso, Gazzola, ha fatto una tesi sulla relazione fra i costi economici e
quelli politici del multilinguismo. Ha calcolato che i vantaggi politici del multilinguismo sono talmente ampi
che coprono i costi economici. Il fatto che ciascuno possa usare la propria lingua è talmente importante che
i vantaggi sono più forti dei costi. Infatti, dalla comunicazione che viene dal Parlamento il multilinguismo
costa solo l’1%. Come dimostra Gazzola il multilinguismo produce vantaggi talmente forti da coprire i costi.
Ad esempio, si è sviluppata all’interno degli uffici della Commissione una divisione che si occupa di
intelligenza artificiale che si occupa di traduzione, la maggioranza dei documenti vengono tradotti in modo
automatico, perchè lo studio sull’applicazione dell’intelligenza artificiale alla traduzione sta portando
davvero a risultati promettenti.

Si il multilinguismo, ma per alcuni aspetti no. Se è una condizione naturale, perché c’è sempre bisogno di
giustificarlo, di promuoverlo? C’è un caso che lega il multilinguismo alla maledizione. La torre di Babele dice
che gli uomini volevano sfidare Dio, costruendo una torre alta come il cielo, Dio li punisce attraverso la
maledizione delle lingue, fa parlare a ciascuno di loro lingue diverse, così che non si capiscono. Perché c’è
sempre questa idea negativa? Ce la portiamo dietro da millenni, la diversità linguistica è una punizione, una
maledizione, non ci si capisce, quindi si entra in conflitto. Non capendosi, la torre non andava avanti, si
smise di costruirla. Questa idea della diversità è qualcosa che ci portiamo dietro talmente tanto che invece
l’idea della Pentecoste, il momento in cui Gesù da agli apostoli la fiammella, il multilinguismo, la capacità di
predicare con lingue diverse è qualcosa che è meno conosciuta.

24/02/2022

Se multilinguismo e plurilinguismo sono fenomeni naturali, perché tutte le volte che ne parliamo dobbiamo
giustificare? Dobbiamo andare a scrivere delle norme, delle leggi che promuovano il multilinguismo o il
plurilinguismo? È stato visto più come un ostacolo che come una risorsa. C’è un bilinguismo buono e uno
cattivo. Contro il multilinguismo e il plurilinguismo si scatena l’idea del costo. Anche nell’immaginario
collettivo l’idea di multilinguismo è considerata una maledizione. Episodi biblici della Genesi della torre di
Babele e la Pentecoste mettono in risalto l’idea di multilinguismo come maledizione. La sfida nei confronti
della divinità porta alla perdita di un’unica lingua, porta alla non intercomprensione. Vedovelli mette in luce
il tema dell’italiano nei confronti della sfida di Babele, sono anni in cui l’arrivo degli immigrati fa sì che oltre
alle minoranze di antico insediamento, il polo del plurilinguismo si arricchisse di un’altra dimensione, quella
che portano nel nostro Paese a livello sociale, educativo le lingue dei migranti. È una domanda di politica
linguistica, “Che cosa saremo noi?”, “Che cosa sarà l’Italia?”. Fra la Babele, la presenza di molte lingue
considerate come ostacolo e la Pentecoste, molte lingue come dono, si gioca il destino linguistico della
nostra civiltà, che si caratterizza attraverso le sue scelte e obiettivi. Babele è momento di conflitto e
peccato, supera l’innocenza, possibilità di parlare una stessa lingua, esenti da una problematicità. Le lingue
diventano una punizione, diventa più complessa la loro gestione. Babele rappresenta l’analogo linguistico
del peccato originario, si origina il conflitto, l’intercompresione. L’altro, lo straniero, portatore di un’altra
lingua, è potenziale portatore di conflitto, perché non si hanno gli stessi mezzi condivisi di costruzione del
senso. Quindi Babele diventa l’innesco della paura della diversità nel nostro immaginario. Ci si immagina
che l’altro ci faccia paura. La ricomposizione della comprensione data dalla Pentecoste negli Atti degli
Apostoli attraverso il dono del Signore, si ricompone quella frattura che portava alla perdita del senso, si
riconquista il senso. È per questo che Vedovelli conclude dicendo che il destino della nostra civiltà si pone
fra il polo dell’idea di Babele e l’idea della Pentecoste.

Se la condizione di multilinguismo è una condizione naturale sia a livello di società, di territorio, di


individuo, allora perché è invece diventato nei secoli il monolinguismo la forma meno marcata, normale?
Come nasce il monolinguismo? Come nasce questa politica di spinta verso il monolinguismo? Si pensava
che il multilinguismo fosse ostacolo alla comprensione di una lingua. È un concetto ideologico, frutto di
un’ideologia, deriva da fatti storici in cui serviva rafforzare questo concetto, che diventa utile per motivi
politici ed economici. I due fondamentali momenti storici in cui si consolida il monolinguismo sono il
colonialismo e la fondazione di uno Stato-nazione. L’idea di monolinguismo funziona sulla base di due
principi, che le lingue abbiano confini precisi, netti, invalicabili e che rappresenti lo stato normale, la forma
non marcata di ogni individuo. Le prime colonie nascono dopo la scoperta dell’America, le grandi potenze
europee ed in particolare la Spagna vanno a conquistare l’America centrale e del Sud, per creare le proprie
colonie all’estero. Uno degli obiettivi principali era convertire gli indigeni, per fargli leggere la Bibbia serviva
un sistema di descrizione linguistica per tradurla da una lingua all’altra. La Spagna si consolida come Stato-
nazione, espelle gli arabi e viene scritta una grammatica della lingua castigliana, per costruire lo spagnolo
come lingua dello stato. L’imposizione della lingua castigliana porta alla necessità di scrivere una
grammatica e lo rendano standardizzato. Da qui quando iniziano a costruirsi anche gli altri stati, si
costruirono secondo il principio che era una lingua, uno stato, un popolo. Questa tri unità incrementò
questa lotta nei confronti del multilinguismo e il perseguimento dell’omogeneità culturale e linguistico. Ai
confini geografici dovevano corrispondere delle chiare differenze linguistiche, siamo nel 500. Nell’800 ci
sarà il consolidamento degli altri stati, anche qui ci troviamo questa mentalità, tuttora presente. Il retaggio
di questa mentalità si ritrova a livello di comportamento degli individui sia nelle norme all’interno di un
quadro portato avanti da vari stati. Ogni stato dichiarò l’ufficialità della propria lingua. l’altra faccia della
medaglia riguarda ciò che non rientra in uno schema di questo tipo, ogni forma di permeabilità dei confini.
Il confine è l’omologo del confine che delimita uno stato-nazione, si distingue tra buono e cattivo uso, tra
dialetti e lingue ufficiali.

Il concetto di multilinguismo come forma da evitare nasce in questo momento. Deve rispettare i confini
linguistici, non devono esserci mescolamenti tra lingue diverse. Le lingue sono sistemi chiusi. Il
multilinguismo buono è quello in cui le lingue stanno una accanto all’altra. Quello cattivo è quello in cui c’è
mescolamento, si trova tra vari strati della popolazione, specie coloro che sono analfabetizzati. Si fortifica
l’idea di un bilinguismo cattivo, gli studi di Tabouret-Keller portano all’idea di ritardo cognitivo e fallimento
scolastico a causa del bilinguismo. Ad esempio, quando si aprono le scuole medie in Italia, molti bambini
che parlano in dialetto vengono esclusi. C’è il bilinguismo buono è quello della conoscenza di più lingue
nazionali, da porre l’uno accanto all’altra, che non devono mischiarsi. È bilinguismo d’élite, serve ai colti,
coloro che lavorano negli scambi internazionali. Tutto questo ha un momento in cui il multilinguismo
riprende una sua importanza dagli anni 60 quando l’indipendenza delle colonie e i movimenti democratici
per i diritti civili, la democratizzazione dell’accesso all’istruzione, si ha una rinascita del multilinguismo.

Uno stato, una nazione, un popolo. Siamo nella prima metà del diciannovesimo secolo, periodo in cui
prevale il nazionalismo, corrente del romanticismo in corso. In quel tempo gli intellettuali tedeschi
descrivevano il popolo germanico come eredi degli antichi greci e romani, quindi in grado di guidare altri
popoli. Nasce l’idea che la Germania debba riconfigurarsi, riunificare per formare un unico stato tedesco. In
quegli anni, nel 1807 in particolare, Fichte tiene delle lezioni che sono intitolate “discorsi sulla nazione
tedesca”, si rivolge al popolo tedesco con l’idea di ricostruire uno stato e giustifica il perché lo stato tedesco
deve essere quello che ha il compito di guidare altri popoli e lo giustifica con la lingua, che rappresenta la
differenza che contraddistingue il popolo tedesco dagli altri popoli, la sua lingua non è stata contaminata da
altre. La lingua è il fattore fondamentale per l’identità di un popolo. Il mantenimento dell’identità nel corso
dei secoli esige che questa lingua non subisca cambiamenti, mescolamenti, come è successo alla lingua dei
Galli. La tri unità si consolida e nel caso tedesco è la lingua che produce la differenza con gli altri popoli. C’è
bisogno di una lingua comune ma non a svantaggio di tutte le altre differenze. È quello che è successo in
Italia, il possesso di un dialetto rappresentava un problema per l’apprendimento dell’italiano.
L’indipendenza linguistica è una conquista che si ottiene spesso con spargimento di sangue. Il possedere
come stato una lingua è un processo necessario per capirci, partecipare alla vita sociale, politica e culturale
di un paese. La spinta verso l’acquisizione di strumenti per far sì che ognuno di noi sia cittadino di uno stato
è importante. Il monolinguismo funziona se vediamo le lingue come dei monoliti, blocchi chiusi, con confini
invalicabili. Ma non è così, le lingue sono in mutamento, è il contesto sociale che produce cambiamenti.
L’atteggiamento nei confronti del monolinguismo è cambiato negli anni. La spinta forte di politica linguistica
da parte dell’UE per favorire il multilinguismo, non più visto come nemico, ma come una fonte di
arricchimento.

Tuttavia, anche se i ricercatori, gli studi di linguistica, sull’educazione, l’antropologia, la sociologia, sul
cervello e sull’apprendimento delle lingue hanno messo in luce che non esiste un bilinguismo buono e uno
cattivo, si è cominciato a cercare di trovare altri quadri di analisi, ma l’idea di gestire il bilinguismo è rimasta
intatta. Non sarebbe meglio usare una sola lingua? L’idea di lingua unica è qualcosa di possibile? Ci sono
stati tentativi? E perché non hanno funzionato? Perché un altro assioma che lega a quella di monolinguismo
è che le lingue siano solo uno strumento di comunicazione. Ma le lingue sono solo uno strumento? O sono
qualcosa di più profondo?

25/02/2022

Philip van Parijs  Abbiamo bisogno di una lingua franca per sviluppare e realizzare soluzioni per i problemi
comuni a livello europeo. Se le società vogliono abbandonare le loro lingue, che lo facciano, non c’è male
con il suicidio linguistico. Wilhelm von Humboldt vede che la funzione primaria delle lingue non è la
comunicazione, ma formare il pensare. Le lingue diverse sono allora formazioni diverse del linguaggio. Il
pensare non dipende dal linguaggio soltanto ma è determinato da ogni singola lingua. La loro diversità non
è una diversità di suoni e segni, ma delle stesse visioni del mondo. Le lingue non sono ideologie diverse, ma
è qualcosa di molto più primitivo. Sono semantiche diverse. Le lingue sono un mezzo per presentare le
verità, non quelle già conosciute ma per scoprire quelle sconosciute. Lui pensa contro Aristotele, che
pensava si raccontasse la verità già conosciuta, noi formiamo concetti delle cose nella mente e per
comunicare questi concetti usiamo i segni. Il concetto e la parola si formano insieme, al centro c’è il mondo
e poi i segni formano concetti diversi, questo è quello che Humboldt chiama formare concetti prima
sconosciuti. Nella semantica delle lingue c’è qualcosa di diverso. Per la molteplicità delle lingue cresce la
ricchezza del mondo e la molteplicità di quello che conosciamo di esso. L’apprendimento di una lingua è
l’acquisizione di un nuovo punto di vista nella visione del mondo. Concezione diversa di quella degli
scienziati sociali. Qui è la semantica che è al centro, quando spariscono le lingue sparisce la ricchezza del
mondo.

La contrapposizione tra multilinguismo e il monolinguismo nasce da motivi ideologici in precisi momenti


storici, che hanno a che fare con la formazione delle colonie e la necessità di evangelizzare le colonie e si ha
una forte rivalutazione della lingua come rappresentativa di uno stato, di una nazione. Questa idea dopo i
mutamenti storici, la fine delle grandi guerre, l’inizio della decolonizzazione di molti paesi, permane ancora
o no? Nonostante tutto questo movimento per promuovere il plurilinguismo, permane da prospettive
diverse l’idea dell’importanza di utilizzo di una sola lingua.

Van Parijs scrive un libro, molto recente (2011), parte da un presupposto diverso, la lingua è uno strumento
fondamentale per l’esercizio dei propri diritti. Il tema di questo libro è quello di capire come realizzare la
giustizia linguistica per l’EU e il mondo. È una prospettiva socialista, politicamente diversa, lui dice quello
che a me interessa è che a tutte le persone del mondo sia data la stessa possibilità di esercitare i propri
diritti attraverso la lingua. Propone la disseminazione della competenza in un’unica lingua franca, usata da
tutti. Se vogliamo che ci sia giustizia, allora è necessaria una modalità di comunicare e di mobilitarci per il
raggiungimento della giustizia con una lingua franca, comune. C’è in questo volume l’orrore per la torre di
Babele, per la diversità e le diverse lingue sono un ostacolo, sogno del Paradiso monolingue. Dice se le
lingue muoiono poco male, vuol dire che sono lingue che non servono, inutili. Posizioni nazionalistiche
hanno favorito un’esaltazione del monolinguismo, ma ci sono posizioni, come quella di van Parijs, forti. C’è
un piccolo problema, considera la lingua come strumento, unico scopo è quello di comunicare. Siamo sicuri
che la giustizia linguistica si raggiunge con l’uso di una sola lingua? Con l’inglese come lingua franca si
ripropone l’ingiustizia in 3 dimensioni: i parlanti nativi sono avvantaggiati; i parlanti nativi hanno migliori e
ampie opportunità; il privilegio dato in maniera sistematica implica non dare rispetto alle altre lingue;
quindi, non essere giusti nei confronti di chi si indentifica in queste lingue. Grin e Gazzola si domandando
che significa giustizia linguistica? Mettono in luce l’idea delle lingue come portatrici di cultura, non sono
solo strumenti di comunicazione, ma sono qualcosa di più profondo.

Von Humboldt fra il 700 e l’800 comincia a riflettere e a riprendere la visione di Aristotele del rapporto fra
lingua e realtà e comincia a pensare che la lingua sia un organo formativo del pensiero. La lingua da forma
al nostro pensare, non è solo uno strumento di comunicazione. Il pensiero umano è determinato dal
linguaggio. Il pensiero umano è determinato da ogni singola lingua. la diversità delle lingue sta nelle stesse
visioni del mondo. Ci fa vedere la contrapposizione fra la visione aristotelica che individuava un rapporto
lineare tra concetto e parola e un concetto che si rivede uguale in tutte le lingue. Aristotele spiega la
differenza di segni come qualcosa che non tocca il rapporto fra cosa e concetto. Humboldt mette in dubbio
questo rapporto come un rapporto fisso, non è così, è una questione di relazioni. Fa l’esempio sia di forme
e strutture di una lingua. Una differenziazione a livello delle forme e della struttura della lingua. Un
concetto semplice è un concetto che tutti possono pensare sia universale, eppure la modalità di
rappresentazione è diversa in ogni lingua, come esempio del 99. Una lingua ritaglia porzioni diverse di una
realtà, che possono non coincidere da lingua a lingua. Il linguaggio non è un prodotto ma un’attività
creatrice, qualcosa di dinamico. La visione di Humboldt si contrappone a qualsiasi visione naturalistica. De
Saussure arriverà col concetto di arbitrarietà, non c’è nessun legame di necessità fra un concetto e un
segno, il legame è costruito tramite motivazioni sociali di una determinata comunità. La lingua non è uno
strumento del pensiero, è la lingua che lo media, lo aiuta a formarsi e condiziona il suo sviluppo. Il
linguaggio forma il pensiero, dalla reciproca dipendenza della parola, le lingue sono un mezzo per scoprire
verità prima sconosciute. Siamo nel 1820.

Il cerchio della lingua attorno all’individuo  il cerchio della lingua attorno all’individuo, i segni sono
sempre in relazione l’uno con l’altro. Il cerchio non è invalicabile, permeabilità dei confini linguistici. Uscire
da una lingua può significare entrare in un’altra lingua e questa è un’operazione sempre possibile. Grazie
alla molteplicità delle lingue cresce la ricchezza. La scelta di un’unica lingua è ingiusta e non può neanche
durare nel tempo, perché le lingue sono dinamiche, aperte. È la massa parlante che modifica la lingua.
L’idea che una lingua comune possa rappresentare uno strumento di giustizia linguistica è fuorviante.

03/03/2022

Von Humboldt  la lingua non si concretizza nel rapporto diretto fra la cosa, il concetto e la parola, come
pensava Aristotele, rimane immutato il rapporto fra la cosa e il concetto, cambiano le rappresentazioni
verbali. La lingua è l’organo formativo del pensiero, questo rapporto che sembrava immutabile fra la cosa e
il concetto, in realtà non lo è, è mediato da tanti fattori storici, di contesto, culturali, che fanno sì che il
rapporto fra i segni diversi non sia identico tra le lingue. Pensare che si possa adottare come caratteristica
di tutti gli individui il monolinguismo è una cosa inadeguata e poi impossibile, perché le lingue, essendo
qualcosa di dinamico, mutano continuamente per adattarsi ai bisogni comunicativi degli individui e delle
comunità. Grazie alla molteplicità delle lingue cresce la ricchezza, si ampliano i punti di vista e le modalità
con cui ci si può approcciare al mondo. Si entra in un cerchio di relazioni diverso da quello della nostra
lingua.

Multilinguismo può diventare sinonimo, anziché di difficoltà, maledizione, di qualcosa di positivo. Esamina
le lingue presenti nelle scuole di Londra, frequentate da bambini di origini diverse, si fa un censimento di
quelle che sono le lingue parlate, si scopre che ce ne sono centinaia. La cosa interessante che ribalta ciò che
abbiamo detto finora è il titolo del volume, Capitale Multilingue. Gioca su due diverse accezioni della parola
capitale. Londra come capitale di uno stato, multilingue perché sono presenti molte lingue nella città.
L’altra accezione è l’idea del capitale, della ricchezza anche economica che è portata dal fatto che le lingue
presenti siano molte. Il volume è corredato da cartine. È stata fatta un’indagine con un questionario, è
emersa la densità di uso delle lingue nei vari quartieri della città. All’interno del volume c’è un capitolo
scritto da un economista, c’è un vantaggio nel fatto che si parlino diverse lingue, anche vantaggio
economico. Il fatto che ci siano lingue diverse nella città rende tutto diverso, per gli scambi comunicativi è
sempre possibile trovare qualcuno che parli quella lingua.

De Mauro dice il monolitismo è in crisi profonda. Unica, solida, ben definita nello spazio, non permeabile 
monolitismo. Teorizza la crisi del monolitismo linguistico. Se ci accorgiamo e siamo consapevoli di questa
crisi le conseguenze saranno una apertura agli spazi e alle funzioni delle lingue meno diffuse, il pensare alla
lingua come un monolite o al pensare all’importanza del monolitismo chiude lo spazio all’importanza del
multilinguismo. Diamo maggiore spazio a lingue meno diffuse, diamo importanza ai diritti linguistici umani.
Il diritto linguistico è di riconoscere e permettere a ciascun individuo di utilizzare la propria lingua, non solo
riconoscere e non discriminare, ma in alcune norme ci sono principi di tutela, quindi anche difesa delle
lingue minoritarie.

Lo ritroviamo in due articoli della nostra costituzione, art 3 e art 6, inseriscono un’affermazione dei diritti
linguistici. La lingua non può costituire un fattore di discriminazione fra i cittadini italiani, c’è il pieno
riconoscimento della diversità linguistica. Nell’art 6 si va oltre, stabilisce la tutela delle lingue, non solo si
afferma la diversità, ma si attribuisce come compito allo stato di tutelare le minoranze linguistiche. La
costituzione italiana (1947) di 139 articoli è fatta di una prima parte, 12 articoli, in cui sono contenuti i
principi fondamentali, su cui si basa il nostro vivere democratico. Nella nostra costituzione non c’è un
articolo che dica che l’italiano sia la lingua ufficiale. È una costituzione che sancisce una grande apertura nei
confronti delle lingue. La questione linguistica non è mai una questione neutra. Sempre in quegli anni anche
altre organizzazioni come l’ONU in due documenti sia nella Carta delle Nazioni Unite (1945) sia nella
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), dicono questo. La lingua è uno di quei fattori a cui non
si può attribuire una discriminazione. C’è pieno riconoscimento della diversità delle lingue. A differenza
della costituzione italiana, l’Onu non dice niente della tutela, lasciata nelle mani dei singoli stati.
Ugualmente, il Consiglio d’Europa, nato dopo la Seconda guerra mondiale, che si trova a Strasburgo, città al
confine, intrinsecamente plurale. Ha l’obiettivo di cooperazione e azione sociale, culturale, educativa, si
occupa del welfare dell’EU, fornisce suggerimenti per la migliore gestione degli stati. La convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950, ratificata in Italia nel
1955). L’art 1 parla di divieto generale di discriminazione, c’è il riconoscimento della comunità, della lingua
e l’appartenenza a una minoranza. Anche qui c’è una presa d’atto che esistono lingue diverse, minoranze,
comunità con lingue diverse, si dice che non ci deve essere discriminazione, ma manca poi l’azione. Un
diritto linguistico è quando si va in tribunale o in prigione di trovare una persona che parli la propria lingua.
i diritti linguistici nascono e si sviluppano con un approccio individualistico, non di dimensione collettiva di
godimento dei diritti da parte delle persone che appartengono alle minoranze. Patto internazionale di New
York relativo ai diritti civili e politici (1966), art 27, emerge l’idea di tutela positiva, sottende la pretesa da
parte dei componenti delle minoranze di fare qualcosa perché si possa usare la propria lingua, uno dei
fattori della propria identità, è un primo passo avanti. Questa tutela positiva si ritrova nella convenzione per
la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, sì diritto al riconoscimento, ma anche mantenimento
della propria identità. Unesco, Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale
(2003), art 2, all’interno del patrimonio culturale immateriale: tradizione, espressione orali, ivi compreso il
linguaggio. Si crea e si mette in chiaro il legame indissolubile fra la cultura, i diritti culturali, l’identità, la
diversità linguistica e culturale e si considerano questi concetti come indispensabili per la relazione della
democrazia, la pace, la sicurezza, il multilinguismo. Il mantenimento della diversità è condizione per la vita
democratica e la coesione sociale. Ecco perché De Mauro parla di diritti linguistici. Se continuiamo a
considerare la lingua come un monolite, automaticamente non rispettiamo i diritti degli individui.
De Mauro parte dallo spiegare la definizione di linguistico, ha almeno tre accezioni diverse: relativo alla
facoltà di linguaggio, relativo alle lingue storico-naturali, relativo alla linguistica. Perché fa questa
precisazione? Se noi dimostriamo che il monolitismo linguistico è in crisi profonda e irreversibile, lo
dimostreremo in tutti e tre i sensi di linguistico, vedremo che è in crisi relativamente al language,
relativamente alle langue, relativamente alla visione stessa teorica di lingua. Nelle prime pagine del testo
opera un’analisi che abbiamo già operato. Dice che a livello statuale e a livello politico non ha più senso
parlare di monolinguismo perché la realtà di tutti gli stati del mondo è una realtà multilingue. La realtà degli
stati del mondo non è monolingue, esiste un solo stato in cui il monolinguismo è prevalente, l’Islanda. C’è
un fattore geografico che impedisce la mobilità, la lingua sta nella bocca di chi la parla. L’Islanda era una
comunità piccola, con pochi contatti con l’esterno, la compattezza linguistica non si trova da altre parti. In
generale, tutti gli stati del mondo sono stati in cui convivono lingue diverse. La tri unità lingua-stato-popolo
è stata importante per l’indipendenza politica e per far sì che ci fosse una partecipazione fra cittadini. È
aumentata la percentuale di persone che dichiarano di parlare solo italiano in famiglia, se prima era il 25%,
adesso è il 46%. Il condividere una lingua comune per convivere non significa negare l’importanza di altre
lingue. È importante promuovere l’alfabetizzazione, ma non si deve negare l’esistenza delle altre lingue.
Declina la rappresentazione monolitica delle popolazioni che si raccolgono in ciascuno degli stati del
mondo. Accanto a movimenti che hanno avuto come obiettivo il riconoscimento legislativo e politico di
quelle identità, c’è stata la richiesta di legittimità delle lingue che prima erano relegate oppure erano
totalmente nascoste e represse. Le battaglie fra le lingue a livello politico ci sono ancora. A livello statuale
non ha senso parlare di monolitismo linguistico. In crisi non solo il monolitismo, ma si fa sempre più
attenzione ai fenomeni di contatto linguistico. Ci siamo accorti che quello che emerge è che non solo gli
stati ma anche gli ambienti sociali, le masse parlanti sono caratterizzate dalla compresenza di lingue
diverse. Ciascuno di noi può far ricorso a un repertorio linguistico plurimo. Non è solo innaturale negli stati,
ma anche a livello di usi di ciascuno di noi il monolinguismo. Si stima che il 46% della popolazione usi
l’italiano in famiglia, questo significa che in famiglia vengono usate anche altre lingue. Il nostro repertorio
linguistico non si ferma ad una sola lingua, ma è più ampio. Il sia italiano sia dialetto è stabile, non ha avuto
un declino negli anni dall’87 fino al 2015. Emerge un’altra cosa, mentre nel 1987 solo lo 0,6% parlava
un’altra lingua, adesso il 7% parla un’altra lingua. le possibilità di uso sono possibilità che spaziano
all’interno di un repertorio diversificato. È quello che De Mauro chiama spazio linguistico, i repertori che noi
possiamo usare sono regolati da alcuni parametri che sono costituiti dalle lingue, dalle varietà, dai registri,
che caratterizzano gli usi di ciascuno di noi. È il contesto d’uso che caratterizza i nostri usi linguistici. C’è
l’idea di dinamicità, di apertura e movimento all’interno di repertori compositi. Spazio perché ci sono degli
assi che lo caratterizzano. Il canale, parlato a voce è diverso da quello scritto. La capacità ci ciascuno di noi è
quella di muoversi in uno spazio linguistico ampio e diversificato. È un uso regolato da parametri, legati
all’ambito spaziale e geografico delle parole. È anche il canale che le parole percorrono. Anche dal punto di
vista degli usi linguistici ci siamo accorti che la lingua non è un monolitico.

04/03/2022

De Mauro vuole decostruire il concetto di monolitismo. La prima dimensione che va a decostruire è la


normalità del monolitismo a livello territoriale. Ci dimostra come la delimitazione così netta fra lingue, i
confini linguistici che sono aderenti ai confini di una lezione, sono costruzioni che nascono nel 500 e si
sviluppa nel 600, quando si iniziano a contare le lingue. Se facciamo questa operazione, se vogliamo usare
come criterio per la definizione di lingua il fatto che le lingue abbiamo una tradizione scritta, vediamo che
non c’è mai una corrispondenza uno a uno, in quasi tutti i paesi del mondo ci sono più di una lingua.
emblematico è l’esempio dell’Italia, che è più linguisticamente diverso all’interno dell’EU. Questo non
significa che non serva una lingua comune in uno stato, se una lingua è accompagnata da un’eduzione
linguistica che permette a tutti i cittadini e permette a tutti di partecipare attivamente, in quel caso è
necessario il volere di una lingua comune. Nel nostro paese sono bassi i livelli di alfabetizzazione. La gran
parte della popolazione non sa leggere e scrivere, studenti della scuola o persone che sono uscite dal
sistema scolastico (alfabetismo di ritorno). Quello che è preoccupante è il fatto che molte persone soffrono
di quello che viene definito l’analfabetismo funzionale, incapacità di raggiungere degli obiettivi in
determinati contesti di comunicazione. Il possesso di una lingua comune e il pieno possesso di gestione di
una lingua comune sono fondamentali. Questo non significa condannare tutte le altre e farle morire, il
nostro cervello è costruito per gestire le diversità. Non esiste nemmeno sul piano degli usi. L’idea che ogni
parlante deve aderire ad una lingua vista come un monolite, non sta. Ogni parlante è in grado di utilizzare
gli strumenti linguistici a propria disposizione, repertorio molto articolato, anche nella semplice descrizione
di una lingua abbiamo la possibilità di usare piani linguistici diversi a seconda dell’interlocutore che
abbiamo di fronte, a seconda del canale che usiamo. Lo spazio linguistico non è un caos, è molto articolato
e vasto, è regolato da alcuni parametri. La competenza linguistica si definisce attraverso la competenza di
usare piani linguistici in base alla situazione in cui ci troviamo. De Mauro decostruisce il monolitismo sul
piano teorico, se è così è l’idea stessa di una lingua che dobbiamo modificare.

L’idea del monolinguismo è una costruzione che funziona solo se si danno due condizioni: il monolinguismo
è lo stato normale, la forma non marcata e che si debba spiegare il multilinguismo; la lingua sono sistemi
autonomi e stagni, non permeabili, fermi, bloccati. La lingua includa le potenzialità di un calcolo ma sia più
di un calcolo. Una lingua è un sistema, la lingua è fatta da forme che si tengono insieme attraverso le
regole, vale per qualunque codice semiologico. Ma la lingua è qualcosa di più, include le potenzialità di un
calcolo, ma è più di un calcolo. Un calcolo è un codice semiologico, fatto di segni articolati di un numero
illimitato, ordinabili in modi infiniti e con sinonimia. Da un numero limitato di segni di base siamo in grado
di costruire un numero infinito di segni articolati. Sono ordinabili in modo infinito. Hanno in sé la
caratteristica della sinonimia. Le proprietà di un calcolo sono: essere costituito da segni compositi, di
numero infinito potenzialmente, articolati in blocchi di morfi o monemi sia grammaticali sia lessicali,
collegabili in blocchi sintagmatici di più o meno riconoscibile funzione sintattica entro frasi; i significanti dei
suoi morfi sono composti da un numero ridotto di segmenti minimi, privi di significato, i fonemi, che si
raggruppano in sillabe. La potenza di un calcolo o di una lingua è quella di partire da un numero ridotto. Il
calcolo ha un rapporto di sinonimia con una relazione biunivoca, c’è una corrispondenza diretta tra
significato e significante. La lingua non funziona sempre così, la lingua può violare le regole. 5 +3 = 8
funziona in qualsiasi contesto di comunicazione, in qualsiasi luogo.

Se si prende una lingua, De Mauro dice che il modo in cui i segni vengono utilizzati e la langue si trasforma
in parole è un’operazione molto complessa, variabile, la sinonimia non funziona in modo biunivoco. La
relazione funziona se insieme al segno si tengono presente altri dati di contesto. Per capire ci vogliono tutta
una serie di informazioni, come la vocalità o la grafia dell’enunciazione. Le forme dei segni sono
fondamentali. Le forme che precedono o seguono l’enunciato, il cotesto verbale. Il contesto semiotico non
verbale che accompagna l’enunciazione, l’insieme di segni di altri codici. Il contesto situazionale, è il tipo di
contesto in cui ci si trova che da senso a quello che si dice. È fondamentale il sotteso, l’infra-testo,
l’implicita allusione ad altri testi. Comprendere è tradurre. Ogni parlante adora un livello di lingua diverso.
Una traduzione che non è da una lingua all’altra, ma all’interno di una stessa tradizione linguistica.

La lingua è un calcolo particolare. Il bambino ascolta, seleziona i fonemi utili per la sua lingua. Comincia
anche a fare ipotesi sul funzionamento di una lingua, ascoltando ed imitando. Non c’è niente di passivo in
tutto questo. Inoltre, nel campo semantico ci sono aspetti che è difficile ricondurre al calcolo. In ogni lingua
c’è il carattere radicalmente peculiare di ogni lingua, ciascuna legata a un particolare contesto epocale e
storico-culturale. Spesso le lingue sono definite come lingue storico-culturali, che fanno parte della nostra
natura. La lingua è un sistema dinamico, aperto, che cambia, è un’identità diacronica. Il carattere
relazionale dei significati dei morfi, che appaiono definiti e definibili non tanto per i referenti che possono
avere (le cose), quanto per le mutue relazioni che contraggono gli altri significati di altri morfi coesistenti
nella stessa lingua.

I calcoli sono dei sistemi di segni molto complessi. Perché un calcolo sia posseduto e si possa comprendere
bisogna conoscere i suoi segni base e bisogna saperne le regole. La lingua funziona anche se non
conosciamo tutte le sue forme. Uno degli studiosi che si accorgono di questa proprietà delle lingue,
l’austriaco Wittgenstein, scrive la sua prima opera che ha un titolo latino, in cui descrive la lingua come se
fosse un calcolo. Ripensa alla sua posizione col passare degli anni e De Mauro dice che visse esperienze per
lui decisive per riflettere sul funzionamento della lingua. Una di queste è che andò ad insegnare in un
paesino sulle Alpi, si trovò davanti dei bambini che parlavano un tedesco povero. C’è qualcosa nelle lingue
che le fa essere più di un calcolo. I vocaboli che ciascuno di noi conosce e sa usare sono per altri ignoti. Se la
lingua fosse un calcolo una cosa del genere non dovrebbe succedere, conoscere modelli di base diversi.

10/03/2022

Il monolitismo linguistico è un concetto che non funziona e non ha mai funzionato dal punto di vista della
realtà, non funziona nemmeno nella possibilità dei singoli parlanti di usare quelle risorse linguistiche che
hanno a disposizione, non funziona sul piano delle concrete realizzazioni. De Mauro dice forse si deve
ripensare l’idea stessa di lingua, non è possibile considerarla un sistema di forme che sia chiuso, immobile,
statico, come è per sua natura un monolite. La lingua condivide le proprietà di altri codici, come i calcoli,
che rappresentano bene l’idea di monolitismo, la lingua va oltre, possiede delle caratteristiche che fanno sì
che superi la costruzione di un calcolo. È sì costituita da segni compositi, articolati in blocchi di morfi, sono
caratteristiche che condivide con altri codici, ma non funziona solo così, perché esiste la sinonimia nella
lingua ma la comprensione non è di tipo lineare come in calcolo, ma si attua attraverso l’integrazione con
altri dato. Jackobson dice che ogni atto di comprensione è un atto di traduzione e interpretazione in un
tentativo di comprensione, è una traduzione all’interno della stessa lingua per capire ciò che l’interlocutore
vuole dire attraverso quelle determinato locuzioni. All’interno della lingua ci sono fattori difficilmente
riconducibili al calcolo. Un’altra caratteristica che la distingue è che sia un sistema aperto. Il carattere
relazionale dei significati dei morfi che sono definiti non tanto per le cose a cui si riferiscono ma per il
rapporto con altri segni all’interno del sistema. Un’altra caratteristica è il fatto che il sistema ha un numero
enorme di segni e non è detto che tutti debbono essere conosciuti affinché il sistema funzioni per ogni
parlante. La lingua ci permette di andare oltre, per esempio, siamo in grado di usare il codice linguistico pur
non conoscendo tutte le parole che lo compongono, di questa massa di parole ciascuno di noi ne può
conoscere una quantità maggiore o minore e porzioni diversificate, quello che ci permette di gestire il
codice linguistico è possedere quel nucleo ridotto che costituisce il vocabolario di base, il resto può essere
sconosciuto. Le parole che ciascuno di noi conosce sono diversificate. In una lingua convivono degli aspetti
sistemici e di composizionalità, delle regole di composizione dei segni che sono calcolabili, tipici di un
sistema come quello di un calcolo. Accanto a questi ci sono aspetti che contraddicono la natura di sistema e
di calcolo di una lingua. È un sistema che possiede delle regole e delle regole che contraddicono il sistema
stesso, non si trova in nessun altro codice. La lingua deve essere in grado di rispondere a un contesto che
cambia continuamente, si deve continuamente rinnovare, pur rimanendo legata ai suoi principi.

Come entrano nuove parole in una lingua? Possono essere dei prestiti e col tempo diventano parte del
sistema. Oppure ci possono essere dei neologismi, si possono inventare parole nuove che partono da una
base di italiano, composti e modificati. La lingua ha anche un’altra possibilità, la dilatabilità semantica dei
suoi segni, si possono usare le stesse parole per dire cose nuove. Le parole che hanno un numero più ampio
di accezioni, a volte anche in contrasto le une con le altre, hanno un uso maggiore. Quindi questa proprietà
che contraddice l’esistenza di un codice chiuso. Essendo lingua patria, impossibilità di raccontare un piano
dell’esperienza sconosciuto, la lingua usa tutti i mezzi a disposizione per allargare il vocabolario. Una lingua
deve essere semanticamente onniformativa, deve essere in rado di dare forma linguistica a concetti nuovi.
Siamo noi che ci adattiamo al contesto che ci circonda e la lingua deve e può rispondere alle nostre
esigenze. Emerge un’altra importante proprietà della lingua, la metalinguisticità riflessiva, funziona da
argine e da spiegazione per questa continua dilatazione dei limiti del dicibile. È quella capacità di parlare di
sé stessa attraverso sé stessa, è una proprietà che si usa a gradi diversi. È grazie alla possibilità di
dilatazione e la possibilità di porre argine a questa possibilità con la chiarificazione linguistica che possiamo
capirci e possiamo incrementare il patrimonio linguistico a nostra disposizione.

In tutte le dimensioni in cui è andato a studiarlo, il monolitismo come sistema chiuso, bloccato non
funziona. Allora, questo fatto, secondo De Mauro (mettendo in crisi il monolitismo si dà una nuova
possibilità ai singoli parlanti, alle lingue e ai diritti linguistici), riconosce che il multilinguismo è la condizione
naturale di ogni paese e di ogni parlante, mette in luce come il monolitismo sia una costruzione ideologica.
L’idea del monolinguismo non è mai stata una realtà in nessun paese. Non solo la tutela della lingua del
singolo ma la comunità intera in cui si è formato e vive. Non nasconde che i problemi attuativi sono
rilevanti, mettere in atto la tutela positiva nei confronti delle singole lingue e dare incarico ai singoli paesi di
coltivare il multilinguismo pone problemi non irrilevanti, anche perché presuppone un’azione educativa
anche molto diversa. Questa sensibilità e consapevolezza della possibilità di gestire lingue diverse dovrebbe
essere legata con azioni che si svolgono nel contesto educativo, non solo in quello sociale. È un problema
educativo non insuperabile. Si deve far comprendere che la lingua non è un sistema bloccato, ma esistono
varietà, registri, altre lingue per creare consapevolezza. Partendo dalle conoscenze di ciascuno studente si
deve partire per accrescere il loro patrimonio linguistico, si può permettere agli alunni di ampliare la loro
capacità di movimento all’interno dello spazio linguistico. Far dimenticare, cancellare il patrimonio
linguistico con cui i bambini arrivano a scuola è un grande problema e rischia di spedire tra coloro che
smettono di seguire la scuola tra coloro che ancora e non solo sono legati agli standard della lingua di
scolarizzazione. In questo modo si possono rivalutare le lingue minoritarie, dall’altra far valere i diritti
linguistici di ciascuno e delle diverse comunità.

11/03/2022

Quest’idea di monolinguismo, della chiusura ad un’unica lingua è un’idea che regge? Su quali piani
quest’idea regge, ha delle fondamenta? Abbiamo analizzato i tre piani su cui De Mauro ci dice vediamo
insieme che questa idea non funziona. Sulpiano della rappresentazione della realtà dei singoli territori del
mondo che non sono ma stati monolingui, semmai c’è stata una politica linguistica che ha spinto al
monolinguismo, nella realtà dei fatti i vari territori non sono mai stati monolingui. A livello dei singoli
parlanti ognuno di noi ha possibilità di muoversi in uno spazio linguistico composito, può usare a proprio
piacimento e a seconda dei contesti in cui si trova a interagire con gli altri quel patrimonio linguistico a
disposizione, patrimonio differenziato. Non funziona nella rappresentazione dei singoli stati, negli usi che
ciascuno di noi può fare e De Mauro dice che questo concetto di lingua come sistema chiuso, bloccato non
può funzionare perché la lingua è sì un sistema di forme e di regole, ma non è solo questo, possiede delle
proprietà che la fanno andare aldilà di un semplice calcolo, si possono introdurre nuove forme e strutture
senza che ci sia l’impossibilità di comprendere. Un argine forte a questa infinita possibilità di ampliare il
lessico della lingua attraverso i vari meccanismo che la lingua offre è dato dalla metalinguisticità della
lingua, che permette di usare la lingua per parlare di sé stessa. Possiamo aprire la strada a una tutela della
diversità linguistica e possiamo far sì che ciascuno di noi possa far valere i propri diritti linguistici e far sì che
non venga stigmatizzato il patrimonio linguistico di cui ciascun alunno è portatore, ma occorre partire da
quello per poi permettere un ampliamento degli usi linguistici.

In quali documenti di politiche linguistiche si riflette sui temi del multilinguismo o del plurilinguismo? Dal
sito del Consiglio d’Europa, una pagina che si occupa dei principi fondanti dell’educazione plurilingue e
interculturale. All’interno dei documenti del consiglio viene fatta questa distinzione fra multilinguismo e
plurilinguismo. Unity in diversity, ciascuno stato vede riconosciuta la propria diversità. C’è legame
indissolubile tra lingua e cultura, mai separate. Il consiglio abbraccia un’idea di lingua non semplicemente
come strumento di comunicazione ma come una forma di vita, una forma culturale. Se si riconosce la
diversità non ci si può fermare al riconoscimento ma si deve mettere in atto i diritti di usare quel sistema. Il
diritto a usare le loro varietà linguistiche per comunicare, per interagire, la lingua non è solo strumento di
comunicazione, ma idea di interagire fra persone diverse. Si enfatizza il fatto che l’apprendimento
linguistico e delle altre lingue sia fondamentale per il cittadino europeo. Una delle caratteristiche possedute
dal cittadino europeo deve essere non limitarsi al proprio patrimonio linguistico, ma andare a prendere più
lingue, può essere la lingua di scolarizzazione, le L1, le lingue che appartengono a comunità linguistiche
diverse dalla propria. La lingua viene legata alla cultura. Il fatto che l’apprendimento non termini mai, ma si
debba apprendere anche soli dopo l’apprendimento scolastico, si introduce il life long learning. Poi l’ultimo
principio è quello della centralità del dialogo fra le persone che dipende dalle lingue. La lingua è un fattore
fondamentale perché si possa sviluppare il dialogo fra le persone, gli stati, le comunità. L’esperienza
dell’altro attraverso le culture è la precondizione della comprensione interculturale e l’accettazione e la
condivisione della diversità. Le politiche linguistiche si pongono su un piano di grande apertura, si pongono
sul piano del fondamentale riconoscimento dell’importanza della conoscenza delle lingue. Sono le lingue
portatrici di culture e formatrici di culture che permettono di accettare gli altri e di dialogare con loro.
Lingua è cultura. Ogni apprendimento linguistico è un apprendimento culturale.

Differenza tra multilinguismo e plurilinguismo. Si trova nei documenti di politica linguistica del consiglio
d’Europa, non si trova in documenti teorici. Il documento in cui si trova per la prima volta una definizione,
un documento che è importantissimo, non va sposato interamente o non deve essere esente da critiche,
ma nel campo dell’educazione linguistica costituisce uno spartiacque ed è il QCER. Documento frutto di un
lungo percorso di politiche linguistiche del consiglio d’Europa, vede la sua pubblicazione fra la fine degli
anni 90 e l’inizio degli anni 2000, ha come obiettivo quello di promozione quello del plurilinguismo. Si
compone di due parti, la prima è teorica, si spiega l’approccio usato, le basi teoriche su cui si basa, la
seconda parte presenta quello che è l’aspetto più conosciuto, della suddivisione della competenza in livelli
che vengono poi suddivisi e descritti sulla base di vari descrittori linguistici.

Se si prende il QCER all’inizio di questo documento si trova la definizione e la differenziazione fra


plurilinguismo e multilinguismo. In anni recenti il concetto di plurilinguismo è cresciuto di importanza
nell’approccio del consiglio all’insegnamento scolastico. Il multilinguismo è la conoscenza di un numero di
lingue o la coesistenza di più lingue in una determinata comunità. Il multilinguismo si ottiene diversificando
le lingue offerte in un sistema educativo o in una scuola o incoraggiando gli studenti ad apprendere più di
una lingua o riducendo il ruolo dell’inglese a livello internazionale. È considerare le lingue come sistemi
chiusi uno accanto all’altro che possono essere aggiunte nella competenza di ciascuno di noi oppure
possono coesistere in un determinato territorio. Si può promuovere aggiungendo una lingua in più
nell’offerta formativa di una scuola, stimolando ad apprendere più di una lingua. Secondo gli estensori del
QCER, secondo le politiche linguistiche del consiglio, in altri documenti questa differenza non esiste. L’idea
che sta alla base è di dire che le lingue non possono essere considerate qualcosa di chiuso impermeabile, se
facciamo così pensiamo al multilinguismo. Plurilinguismo è un’altra cosa. L’esperienza di lingua espande, si
muove, è mobile in uno spazio che comprende sia le lingue parlate a casa, quindi le varietà, sia la lingua
della società in senso più ampio, sia le lingue parlate da altri. C’è un continuum di apprendimento e di
capacità di movimento all’interno di questo spazio. Non mantiene queste lingue e culture in compartimenti
mentali separati ma piuttosto costruisce una competenza comunicativa alla quale contribuiscono tutte le
esperienze di lingua e nella quale le lingue interagiscono l’una con l’altra.

Revisione del QCER, scritto da Enrica Piccardo e Brian North. Esiste una prima versione del QCER del 2001,
dopo che questo documento è stato usato per tanti anni, nel 2018 è uscita una nuova versione. Il primo
documento nella sua seconda parte era stato scritto da North, nella seconda edizione si è aggiunta
Piccardo. È una riflessione che ha cercato di approfondire il tema del plurilinguismo, del rapporto fra le
diverse lingue, il tema della mediazione come abilità che serve a mantenere il rapporto fra lingue diverse.
Esempio Toronto  nell’insegna della farmacia ogni lingua ha il suo spazio separato dalle altre,
plurilinguismo. Nella seconda insegna il senso, il significato si costruisce attraverso l’interazione di lingue
diverse, multilinguismo. Nell’insegna della farmacia ogni lingua costituisce il senso per sé, da sola ed è
riferita a quella determinata comunità di parlanti. L’approccio è diverso, vede il multilinguismo come
un’aggiunta di elementi e quindi una moltiplicazione di cose singole, aggiungendo insieme una serie di
elementi e il plurilinguismo come un network, una rete di connessioni multiple con interrelazioni
dinamiche. Si parla di competenza plurilingue quando una persona non tiene queste lingue e culture in
compartimenti mentali separati ma costruisce una competenza comunicativa nella quale tutte le esperienze
contribuiscono e le lingue sono in relazione e interagiscono l’una con l’altra. Un’efficacia comunicativa, un
parlante può servirsi di quelle porzioni del proprio spazio linguistico che gli servono per comunicare col
proprio interlocutore.

Lo scopo dell’educazione linguistica è profondamente modificato, non è l’idea di raggiungere la


competenza avendo come modello il parlante nativo, ma lo scopo è di sviluppare un repertorio linguistico
in cui tutte le abilità linguistiche hanno uno spazio. La capacità di contare su nuove conoscenze al di fuori
della scuola deve essere centrale, l’apprendimento delle lingue deve essere un life long learning. La
responsabilità degli insegnanti deve essere orientata allo sviluppo della consapevolezza nei propri studenti
del rapporto continuo che si può creare e di quanto le lingue possono interagire le une con le altre. Tutto
questo sta alla base della politica linguistica e educativa del consiglio d’Europa. Quali lingue sono? Le lingue
apprese a scuola, quelle riconosciute ma non insegnate, quelle presenti a scuola ma non riconosciute e
insegnate. Sviluppare la consapevolezza della pluralità delle risorse che possono avere un ruolo all’interno
dei contesti educativi, le lingue di scolarizzazione, ma anche le lingue straniere. Questo è fondamentale sia
quando le lingue sono insegante come una disciplina, ma riguarda anche la presenza delle lingue nelle altre
discipline. L’attenzione alla lingua nella scuola si concentra nell’ora di italiano, come se il compito di
sviluppare la competenza linguistica riguardasse solo il docente di italiano. Ancora nei sistemi educativi c’è
idea di multilinguismo come lingue una accanto all’altra. Se davvero la competenza da sviluppare sarà una
competenza plurilingue, la formazione degli insegnanti dovrà profondamente cambiare.

La distinzione fra multilinguismo e plurilinguismo nasce da un bisogno di riflessione che viene riferito dalla
stessa Piccardo dal fatto che c’è una crescente diversità. Nasce dalla crisi del monolinguismo, il fatto che dal
punto di vista della realtà e teorico questa idea di monolinguismo non regga più; quindi, anche nel contesto
educativo si devono trovare delle strade per avvicinarsi a questi temi in maniera diversa.

23/03/2022

Che cos’è il CLIL? Uno dei problemi è la definizione di CLIL. È nell’immaginario di tutti l’insegnamento di una
disciplina non linguistica in una L2 o LS. Si usa il termine approccio, è un approccio duale, in cui una lingua
aggiuntiva è usata per apprendere e insegnare il contenuto e la lingua. CLIL sta per Content and Language
Integrated Learning. Lingua e contenuto dovrebbero andare di pari passo. Anche in L1 come faccio a
dimostrare di aver imparato un argomento? Ho bisogno della lingua. Il CLIL nasce in EU, occorre distinguere
due livelli, da una parte c’è l’Unione Europea, dall’altra c’è il Consiglio d’Europa, che raggruppa 46 paesi.
Intendo che nasce all’interno delle direzioni collegate al settore educativo a Strasburgo, ma dico Unione
Europea, dei 26 paesi. L’UE pensa al CLIL con un intento politico ed educativo, lancia il CLIL nel 94 quando
lascia una serie di azioni sulle lingue, pensando alla mobilità dei lavoratori, alle lingue nel mercato
dell’economia. Pensa alle lingue sull’idea che per favorire la mobilità i lavoratori dovessero avere un’alta
abilità linguistica. Il QCER nasce pensando al lavoratore adulto in mobilità. Poi c’è nel 94 questa spinta
educativa che veniva dal Canada, dove il CLIL era già diffuso con un altro acronimo e con molte differenze
rispetto al CLIL, CBI che ha dato vita all’EMI in ambito universitario. L’idea è migliorare l’apprendimento
delle lingue. Sempre in quegli anni il Libro bianco parla delle lingue per promuovere la conoscenza di tre
lingue comunitarie, L1 e due lingue straniere. In questa visione appare questa idea, siamo nel 95. Come
nelle scuole europee la prima lingua straniera appresa diventi la lingua di apprendimento nella scuola
secondaria. Sostanzialmente il CLIL nasce con un obiettivo linguistico, per migliorare le competenze
linguistiche degli studenti. Nel 2004-2006 l’UE lancia il piano d’azione per le lingue, il CLIL occupa uno
spazio importante. Questo CLIL serve per realizzare gli obiettivi dell’UE in termini di apprendimento delle
lingue. L’idea è se impari la lingua attraverso una materia (storia, fisica…), usi subito la lingua, non hai
bisogno di fare prima la lingua e poi applicarla ad altri settori di apprendimento. C’è un altro aspetto che è
andato crescendo, il CLIL mette i giovani in contatto con le lingue senza chiedere più ore di lezione. Il CLIL è
stato usato nelle politiche dei singoli paesi per giustificare un minor numero di ore di lingua. il CLIL nasce
con un intento nobile, sono i singoli paesi che lo hanno impoverito. Per fare il CLIL servono docenti
madrelingua secondo il piano d’azione. Nasce una seconda fase grazie al Consiglio d’Europa. Da una parte
l’UE con i lavoratori, l’economia, dall’altra i diritti umani, la democrazia e gli stati di diritto. Incominciano
alcuni studiosi ad accorgersi che la sfida è la I di integrazione. Il CLIL dovrebbe essere questa cosa qui,
l’integrazione, nascono dei gruppi di lavoro attorno alla didattica del CLIL. Il primo strumento, Do Coyle,
dice che occorre tenere presenti le quattro c. Contenuto, non si parte dalla lingua, ma dai contenuti della
disciplina non linguistica oggetto di insegnamento. Comunicazione, quali aspetti linguistici mi servono per
insegnare. Quando scelgo i contenuti, scelgo anche quali aspetti di quella lingua insegno. Cultura,
cognizione. Per poter arrivare a livelli alti si deve procedere per singoli step, si vede bene quando si
analizzano i materiali didattici per il CLIL. La cognizione ci abitua a dire che prima di arrivare al valutare ci
sono degli step. Il secondo aspetto importante è il trittico delle lingue. Quando si elabora un lavoro CLIL
bisogna tenere tre fuochi linguistici: la lingua dell’apprendimento, la lingua per l’apprendimento,
l’apprendimento della lingua per le attività didattiche. La fase attuale del CLIL, Coyle e Mayer, è il CLIL che
vorrei. Abbandonata l’utopia che serva per migliorare le competenze, lo utilizziamo per migliorare
l’apprendimento. La L di CLIL in Italia la decliniamo come content e language, in altri paesi content e
languages, in cui c’è dentro la L1. Un’idea che abbiamo è che fare CLIL sia usare la L2 dall’inizio alla fine. il
CLIL che vorrei è la guida per l’elaborazione dei curricula. Dice una cosa forse ovvia, la centralità della lingua
nell’apprendimento, la lingua non è una disciplina come tutte le altre, è trasversale. la trasversalità della
lingua è lo strumento che abbiamo per la valorizzazione del plurilinguismo. La lingua costituisce il
fondamento più affidabile nel successo degli apprendimenti disciplinare. Il CLIL ci sposta dal fuoco sulle
differenze tra lingue verso una lingua trasversale alle lingue, questo è il volto concreto della teoria di
plurilinguismo che troviamo nei documenti europei. La scuola va in un’altra direzione, le discipline sono
separate le une dalle altre. Nel 2017 Euridice, un punto di riferimento interessante perché pubblica rapporti
annuali su vari aspetti dei sistemi scolastici europei, pubblica un rapporto su key findings in language
education. Per quanto riguarda il CLIL dice che il CLIL migliora le competenze linguistiche degli studenti. In
Italia il CLIL dovrebbe essere obbligatorio, nella realtà è una delle tante riforme disattese. Viene introdotto
nel 2003 per legge, con il DPR del 2010 diventa obbligatorio nella scuola secondaria di secondo grado. La
legge dice CLIL obbligatorio all’ultimo anno delle scuole di secondo grado, tutti i licei e tutti gli istituti tecnici
hanno questo obbligo. Che cosa significa lingua all’ultimo anno di un liceo? In tutti i licei, tranne il
linguistico, si fa una lingua sola. Di fatto, il CLIL serve per migliorare le competenze linguistiche in inglese.
C’era CLIL in Italia? Si, ce n’era tanto. L’obbligo di legge però riguarda solo le superiori. Siamo l’unico paese
d’EU in cui il CLIL è obbligatorio. Gli obbiettivi sono valorizzazione e potenziamento delle competenze
linguistiche. Nel 2015 la legge 107 ribadisce che il CLIL serve a migliorare le competenze linguistiche. Il CLIL
ha un difetto che è normativo, si parla solo di lingue europee. Chi è il docente CLIL? Docente di disciplina
non linguistica, che sia abilitato a insegnare la sua disciplina e che abbia competenza C1 di quella lingua.
Non è mai stata realizzata perché non c’era tempo di formare docenti. Esce un nuovo regolamento in cui si
usano docenti che già lavoravano a scuola che potevano frequentare corsi di formazione con il possesso di
una certificazione di livello B1/C1. Il docente di livello B2 può essere direttamente inserito
nell’insegnamento, a condizione che stia frequentando il corso universitario. Inizia la stagione infinita delle
norme transitorie, a cavallo tra il 2013 e il 2015. Nella scuola è il dirigente che decide quali insegnanti
possono fare il CLIL. La norma transitoria dice che anche un docente che abbia un livello B1 purché stiano
frequentando un corso, possono fare il CLIL. A seconda di alcune linee di pensiero si sviluppano definizioni
di CLIL diverse. Qual è il ruolo della lingua nell’apprendimento? Le pratiche di classe. Nei lavori di ricerca
c’era tanto lavoro di confronto tra quello che accade in una classe di lingua straniera e quello che accade in
una classe CLIL. In Italia il docente CLIL è docente di disciplina che svolge il 50% del lavoro in lingua L1. Cosa
cambia quando insegno in L1 e quando la insegno attraverso in una lingua ancora in apprendimento?
Profilo del docente CLIL, ogni paese ha preso una strada diversa. Molte ricerche avevano voluto
concentrarsi sul miglioramento delle competenze linguistiche degli studenti. In Germania fanno CLIL gli
studenti migliori. Il fatto stesso di avere un’ora di una materia in inglese aumenta di un’ora l’esposizione
alla lingua, il ché comunque permette un miglioramento. Cosa succede alle competenze disciplinari? Scelgo
di fare in CLIL le parti più semplici, perché c’è l’idea che il CLIL li obblighi ad abbassare l’asticella. Le ricerche
a livello europeo vanno in una direzione preoccupante: a parità di condizioni, non c’è un peggioramento.
Però non dice che c’è miglioramento, c’è qualcosa che non funziona. Riformulare serve per chiarire ma
anche per la costruzione del concetto. Perché è interessante questa cosa? C’è l’idea che non bisogna
lavorare sulla lingua della disciplina tanto è L1. Uno dei problemi del CLIL sono le competenze del docente,
la lingua della disciplina è CALP. Secondo problema è l’obiettivo, perché facciamo CLIL? se lo scopo è
linguistico perché affidarlo a docenti di disciplina? Con quali lingue? Il CLIL è scritto che sta portando
l’inglese a diventare la lingua CLIL per eccellenza. L’importanza del plurilinguismo, gli studenti non sono
monolingui. Sul piano cognitivo, cosa significa leggere, scrivere, pensare la disciplina?

24/03/2022

Nel QCER di politica educativa viene definito e reso pertinente per la prima volta in un documento di
politica educativa il concetto di plurilinguismo. Nell’evoluzione di questo documento questo concetto è
fondamentale perché porterà alla definizione di una specifica abilità linguistica, la mediazione, che
permetterà di gestire un’educazione al plurilinguismo. Questa studiosa, una di coloro che hanno scritto il
framework, ha scritto questa parte relativa a questa nuova abilità di mediazione. Qual è la differenza tra
multilinguismo e plurilinguismo? È un grande cambio di prospettiva. Il termine si differenzia dall’utilizzo di
un prefisso differente. Multi è quello più utilizzato. Si inizia ad usare il nuovo prefisso. Piccardo dice che la
questione terminologica è importante, ma lo è ancora di più cosa c’è dietro. Pluri era stato usato da De
Mauro già nel 75. Ma nel QCER trova una sua collocazione nel contesto preciso. Piccardo dice che conta di
più un’immagine che tante parole. Ci ha fatto vedere le insegne della farmacia a Toronto e la lavagna di un
venditore di cibo a Zurigo. Nelle prime vetrine il rapporto tra le lingue era di vicinanza e traduzione, era
ripetuta ciò che veniva venduto in quel negozio in tutte le lingue. Nella lavagna di Zurigo la caratteristica la
differenziava dall’insegna precedente? La mescolanza, la co-costruzione del senso, il senso dell’insegna era
un senso che si comprendeva a pieno solo se si mettevano in relazione tutte le lingue presenti nell’insegna.
Il senso si co-costruiva dalla relazione delle varie parti che componevano l’insegna. Questa è la differenza
tra pluri e multilinguismo. Non si devono pensare le lingue come oggetti chiusi che non hanno rapporti fra
loro, come se fossero separate le une dalle altre. Non si tiene conto della trasversalità della competenza
linguistica. Non è una visione nuovissima, le tesi GISCEL del 75 dicevano già le stesse cose. Bisogna mettere
in collegamento tutte le parti del repertorio linguistico degli studenti, così si implementa la competenza.
Questo significa anche non condannare l’uso dei dialetti e delle altre varietà linguistiche, ma partire da
quelle per incrementare il loro patrimonio linguistico. L’approccio del QCER è definito come “si basa su un
approccio orientato all’azione”. Gli utenti apprendenti una lingua, il fatto che li definisca sempre utenti, che
sono anche utenti; quindi, la lingua è fatta di usi. Gli utenti sono membri di una società che hanno compiti
da portare a termine non esclusivamente attraverso l’utilizzo della lingua in un particolare insieme di
circostanze in ambienti specifici e all’interno di un determinato campo di azione. Usare una lingua significa
portare a termine dei compiti comunicativi attraverso l’uso di risorse linguistiche che abbiamo a
disposizione, che possono essere anche di altri codici a nostra disposizione. Attraverso queste risorse che
mobilitiamo dobbiamo portare a termine dei compiti comunicativi differenziati, a seconda dei contesti,
delle circostanze e degli ambienti in cui ci troviamo. È il concetto di spazio linguistico di De Mauro. Che
significa accrescere una competenza nelle lingue? Significa prendere i propri studenti/utenti capaci di
muoversi all’interno di uno spazio, che è uno spazio di comunicazione, regolato da alcuni parametri che
sono dati dal contesto, dall’ambiente, dal canale che stiamo utilizzando. I descrittori di competenza, i livelli
dei descrittori di competenza, come iniziano? Apprendere, usare una lingua significa imparare a fare cose
con le lingue. Il QCER dice ci sono quattro domini d’uso, quello quotidiano, quello lavorativo, quello
educativo. Questi quattro mega domini sono ulteriormente suddivisi in contesti d’uso. Nella stragrande
maggioranza delle pagine sono contenute descrittori di competenza che sono suddivisi per livello. Il QCER
dice che per svolgere questi compiti comunicativi si utilizzano risorse linguistiche, che vengono dal
patrimonio linguistico a disposizione e da altri codici che possediamo. Il senso è dato dal rapporto di tutte le
componenti del patrimonio. Questa è la differenza tra multi e plurilinguismo. Per niente facile da realizzare.
La competenza plurilingue come la definisce Beacco, è l’abilità di usare un repertorio plurale di competenze
linguistiche e culturali con l’obiettivo di raggiungere i bisogni di comunicazione con persone che
provengono da altri contesti. Si usano tutti gli strumenti per incrementare il repertorio plurilingue. È un
repertorio dinamico ed in continuo sviluppo. Per Piccardo si usa il termine multi per focalizzarsi sulla
moltiplicazione delle singolarità, mentre si usa pluri in una maniera più olistica, con l’idea di dare valore e
costruire sulla pluralità. Per Beacco il repertorio consiste delle risorse che gli individui hanno acquisito in
tutte le lingue che conoscono e che sono correlate alle culture associate a quelle determinate lingue. La
prospettiva plurilingue è centrata sull’apprendente e sul loro repertorio e non su ciascuna specifica lingua
che deve essere appresa. Dobbiamo mettere in movimento tutte le risorse che ciascun apprendente ha a
disposizione. Piccardo dice che i plurilingui hanno una competenza specifica, complessa e composita, un
repertorio linguistico che non consiste nella somma delle lingue, ma nelle risorse che ciascun individuo ha
acquisito attraverso le lingue e le culture con cui è entrato in contatto. L’intercomprensione delle lingue
romanze è un insegnamento di questo genere. In alcuni progetti didattici vengono presentate tutte e grazie
alle risorse che ciascuno ha nel suo patrimonio e un’attenzione forte alla mediazione, è possibile passare da
una lingua all’altra. Si parte dalle somiglianze e le differenze. Qualcosa si può fare, il compito
dell’insegnante è molto complesso perché deve gestire codici diversi. Si abbraccia una nuova prospettiva. Si
passa dal language myth, considerare le lingue come codici chiusi e fissi, un repertorio di unità linguistiche
che sono ben identificabili ciascuna correlata ad una forma, un inventario di forme, ad una visione
integrational, integrata che vede le lingue come costrutti aperti e incompleti, che derivano dalla capacità di
fare e interpretare segni linguistici. C’è una facoltà di linguaggio che ci permette di produrre e interpretare
segni che poi si concretizzano in un costrutto culturale di secondo ordine che è sempre aperto e
incompleto. Crisi del monolitismo linguistico, che non riguarda solo la capacità di mobilitare le risorse a
disposizione per creare il senso, ma che riguarda l’idea stessa di lingua. Non più un sistema chiuso. C’è una
parte della linguistica che pensa che la lingua sia soprattutto uso, un gioco in cui le regole si cambiano
mentre si gioca, il cambiamento è dato dall’uso. La lingua è un prodotto naturale cognitivo, perché la nostra
capacità di dare sensi è data dalle nostre capacità cognitive, ma è un prodotto culturale, sta fra natura e
cultura. Nel QCER ritroviamo tutto questo. Se l’idea è quella di una visione integrata della lingua, allora si
deve uscire da questa visione lineare. Le lingue non sono una collezione di etichette intercambiabili
applicate agli oggetti e ai concetti. Le parole non sono etichette da dare alle cose. Il rapporto non è
biunivoco e lineare. Gli individui coinvolti in un’attività intersoggettiva, chiamata language, sono in costante
bisogno di mediare a livelli differenti. Jackobson la chiamava traduzione, ogni volta che comprendiamo un
enunciato, questa comprensione è una traduzione, anche all’interno della stessa lingua, è un
interpretazione di ciò che l’altro ha voluto dire. Da questo si sviluppa questa abilità fondamentale nelle
seconda versione del QCER, l’abilità di mediazione, di mediare fra componenti diverse di un repertorio
linguistico. Anche nell’educazione linguistica, l’uso della lingua è un’attività semiotica in cui la mediazione è
cruciale, ovvero la possibilità di riflettere sugli strumenti stessi che la lingua ci mette a disposizione. La
classe e gli altri spazi sociali sono di conoscenza collettiva, di comprensione condivisa, sono gli ambienti
naturali della mediazione, senza cui non riusciamo a comprenderci, anche se si usano le stesse lingue. Per
riformulare una frase bisogna avere una certa capacità linguistica. Se si passa dall’idea di lingua come un
repertorio di forme e strutture che hanno un rapporto lineare, di corrispondenza. Se mettiamo da parte la
visione di lingua come calcolo, ma pesiamo alla lingua come dispositivo che sta fra natura e cultura e che si
realizza concretamente in maniera differenziata a seconda dei contesti, allora abbiamo bisogno di un’abilità
che è quell’abilità che Jackobson indicava come traduzione, mediazione, che serve per comprendere e
interpretare perché non esiste rapporto biunivoco tra etichetta e concetto. Se la lingua fosse un sistema
chiuso e se le lingue fossero rappresentabili attraverso un rapporto biunivoco tra le etichette, non avremmo
bisogno di tradurre. Le lingue ritagliano porzioni di realtà diverse a seconda del contesto in cui ci troviamo e
in alcuni contesti abbiamo bisogno di usare dei concetti e in altri no. L’abilità di mediazione è
fondamentale, rischieremmo di non capirci. Tutto questo lo ritroviamo nelle due versioni del QCER, prima
versione del 2001, si passa dalle quattro abilità ai quattro modi di comunicazione, ricezione, produzione,
interazione e mediazione già nella prima versione. Questo modo di comunicazione era già presente nella
parte teorica, uguale per le due versioni. L’apprendente come social agent, un action oriented approach,
mancavano i descrittori della mediazione, era solo enunciata. Nella seconda versione si aggiorna, si
inseriscono nuove scale e nuovi esempi di domini, si inseriscono i descrittori della mediazione. L’approccio
innovativo del QCER consiste nel vedere gli apprendenti come utenti della lingua e attori sociali, e di
conseguenza nel considerare la lingua come veicolo di comunicazione piuttosto che come materia da
studiare. Si introduce un concetto di mediazione, riguarda tutte le abilità, è fondamentale. Sia in ricezione
sia in produzione, attività scritte e/o orali di mediazione rendono possibile la comunicazione tra persone
che, per un qualsiasi motivo, non sono in grado di comunicare direttamente. La traduzione e
l’interpretariato, la parafrasi, il riassunto e il resoconto consentono la (ri)formulazione del testo originario
rendendolo accessibile a una terza persona che non potrebbe accedervi direttamente. La attività
linguistiche di mediazione – (ri)formulazione di un testo – occupano un posto importante nel normale
funzionamento linguistico delle nostre società. Questo lo abbiamo trovato nel testo di De Mauro come
competenza metalinguistica. La mediazione si esplica attraverso la competenza metalinguistica, che va dal
semplicemente domandare “puoi ripetere?”, fino alla competenza di massimo grado, rappresentata dai
dizionari e le grammatiche. Tutto questo ci accompagna nel nostro quotidiano. Il QCER nella sua versione
seconda è il primo documento in cui si prova a definire e mettere in scale di competenze la mediazione. Di
questo deve essere fortemente consapevole un insegnante.

Le dimensioni linguistiche delle discipline, imparare una disciplina significa imparare anche la lingua di
quella disciplina.

25/03/2022

Il QCER approfondisce nella sua seconda versione questa nuova modalità di comunicazione che denomina
con il termine mediazione, sia in ricezione sia in produzione sia in interazione è fondamentale per
comunicare e co-costruire il senso delle attività di comunicazione che si vogliono realizzare tra persone. La
mediazione diventa il fulcro della comunicazione, che poi si attua attraverso la traduzione, l’interpretariato,
che consentono la riformulazione del testo originario che diventa accessibile a una terza persona che
magari non condivide la stessa competenza linguistico-comunicativa. Questo vale per l’apprendimento di
lingua straniere, ogni attività di apprendimento si svolge attraverso la mediazione. Quindi, queste attività
linguistiche di mediazione occupano, come dice il QCER, un posto fondamentale. Continuamento uso la
competenza metalinguistica per cercare di farmi capire e chiedere se devo riformulare. Secondo il QCER
nella mediazione il soggetto sociale (chiamato così perché è una persona che mentre apprende una lingua
usa quella lingua, attraverso quella lingua deve svolgere dei compiti di comunicazione) crea ponti
intralinguistici e interlinguistici. Secondo Jackobson ogni atto comunicativo è un atto di traduzione. L’agente
sociale aiuta a trasferire il senso utilizzando la stessa lingua che usa il suo interlocutore, talvolta da una
lingua a un’altra utilizzando i codici che ha a disposizione nel suo repertorio. Il focus sta nel ruolo della
lingua in processi come creare spazio e condizione per la comunicazione e/o l’apprendimento, collaborare
alla costruzione di nuovi significati, incoraggiare gli altri a capire o costruire nuovi significati, trasmettere
nuove informazioni in un modo appropriato. Questo ha un grande peso nei processi di apprendimento,
nell’analisi dei processi di apprendimento il focus non sta nell’errore ma nell’appropriatezza,
nell’adeguatezza rispetto al contesto in cui si attua la comunicazione. Il QCER sembra che inventi tante
espressioni, novità, non fa altro che riprendere e sistematizzare concetti già presenti nel campo della
linguistica e della sociolinguistica per applicarli nel campo della mediazione. La mediazione rappresenta una
holistic ecological view of language use or learning. Si usa il termine ecologico, l’ecologia dell’uso
linguistico, un uso di contesti di comunicazione. Attraverso la mediazione gli apprendenti devono creare, si
devono misurare con spazi plurilingui e pluriculturali, sempre accanto il tema di lingua e cultura. Ridurre
blocchi e tensioni affettive, si può fare utilizzando codici diversi. Costruire ponti verso il nuovo e verso
l’altro. Co-costruire il significato. Trasmettere informazioni. Questa è l’idea di mediazione. La competenza
plurilingue implica la capacità di utilizzare un repertorio interdipendente, non equilibrato, plurilinguistico e
flessibile per:

► passare da una lingua o da un dialetto (o da una varietà di lingua o di dialetto) all’altra/o;

► esprimersi in una lingua (o in una varietà di lingua o di dialetto) e comprendere una persona che parla
un’altra lingua;

► ricorrere alla propria conoscenza di differenti lingue (o di varietà di lingua o di dialetto) per comprendere
un testo;

► riconoscere sotto una nuova forma parole che appartengono ad un repertorio internazionale comune;

► mediare tra individui che non hanno alcuna lingua (o varietà di lingua o di dialetto) in comune o che ne
hanno solo qualche nozione;

► mettere in gioco tutto il proprio repertorio linguistico, sperimentando forme alternative di espressione;

► sfruttare i fattori paralinguistici (mimica, gesti, espressioni del volto ecc.).

Questo è un uso ecologico della lingua, un uso che si serve di tutte le risorse a disposizione per produrre
senso e interpretare il senso degli atti di comunicazione. Il QCER è uno sforzo di descrizione linguistica che
parte da una teoria linguistica che dice che la lingua è uso. Nella seconda lezione del QCER si trovano tutti i
descrittori della mediazione suddivisi nelle varie tappe dello sviluppo dell’apprendimento. Troviamo le
attività di mediazione, quelle di mediare un testo e di mediare una comunicazione. Questa è la proposta del
QCER, un altro studioso avrebbe potuto trovare attività diverse. Che cosa significa mediare un testo?
Significa spiegare i dati che si mettono in un discorso, processare un testo nell’orale e nello scritto… Si è
fatto un inventario delle attività di mediazione. Poi si è descritte le strategie di mediazione. Da questa
tabella sono stati ricavati dei descrittori. Sono stati aggiunti i descrittori (A1, A2…). Vengono descritte le
differenti e le progressive modalità di mettere in pratica di collaborare alla costruzione di un significato. È
un lavoro arbitrario, gli studiosi si sono messi a un tavolino e hanno scalato questi descrittori. Sono una
qualità ampia di descrittori, è stato fatto un grande lavoro. La questione è che con una visione di questo
tipo, quello che l’insegnante deve sapere fare si complessifica parecchio. Abbracciare la prospettiva di
mediazione permette di passare dall’idea di lingua come entità chiusa di forme e strutture a un’entità di
lingua come processo, qualcosa di aperto, continuamente modificabile e implementabile. È stata coniata
una forma progressiva, dall’idea di language all’idea di languaging, idea di movimento progressivo. Come si
lega al plurilinguismo? Il plurilinguismo si riferisce al processo dinamico e creativo di languaging che si attua
attraverso i confini di varietà linguistiche. Se la lingua è un processo, in questo processo grazie alla
mediazione possiamo passare da una lingua ad un’altra. Questa è la proposta del QCER. Dietro a questa
scelta si apre una retorica che riguarda l’apprendimento. La mediazione è una lente alla visione plurilingue
che rompe il mito della purezza della lingua e della cultura. La mediazione che gli individui fanno quando il
plurilinguismo apre la possibilità di nuove posizione tra le lingue, comunicazioni e visioni del mondo. Si apre
una retorica sull’importanza della mediazione. Il plurilinguismo dà la forza agli individui di vedere possibilità
dove altri vedono barriere. Si apre la retorica teorica che il plurilinguismo può portare alle persone che
stanno apprendendo una lingua, aiuta le persone a concettualizzare le differenze che sono l’aspetto che
nutre le nostre società che sono sempre più diverse. L’idea di un abbraccio fra gli individui, le loro lingue e
le loro culture, sarebbe una cosa bellissima a livello teorico, nella realtà non succede. La questione
linguistica è una questione di identità. Il paese in cui c’erano delle leggi aperte sulle lingue e sul
plurilinguismo e sulla presenza delle lingue a scuola era la ex-Jugoslavia, siccome era un paese costituito da
etnie diverse, era importante avere politiche linguistiche avanzate. Quando si fa retorica sul plurilinguismo,
da una parte occorre farla per evitare che le lingue siano troppo legate all’idea di nazionalità, quindi vittima
di politiche linguistiche, spesso di paesi democratici. Questo non significa che le lingue non vadano
imparate da parte di chi arriva in Italia, ma non si deve punire i repertori linguistici con cui gli immigrati
arrivano nel nostro paese. Se si mette la mediazione al centro della costruzione, o meglio della co-
costruzione, della conoscenza, si rendono gli apprendenti consapevoli della complessa natura delle lingue e
dell’apprendimento. Si agisce sul piano teorico, si tiene presente la natura plurale dei repertori linguistici
degli apprendenti. Si dà la possibilità attraverso il riconoscimento delle loro traiettorie di accrescere la
conoscenza, ma soprattutto ampliare lo scopo della educazione anche linguistica. Riguarda tutta
l’educazione. Qualsiasi disciplina deve fare i conti con la lingua. L’obiettivo è facilitare l’interazione sociale,
attraverso la lingua passa l’integrazione sociale. Dendrinos si interroga e dice tutte le proposte fatte a livello
europeo sul multilinguismo (plurilinguismo si trova solo nelle proposte del Consiglio e quindi nel QCER,
quando l’UE attraverso la Commissione costruisce le misure da mettere in atto le chiama misure di
plurilinguismo) che portano nell’educazione? Una rivoluzione, una totale rivoluzione. Inizia con una
rassegna di tutte le risoluzioni, le raccomandazioni, i report che l’EU pubblica e promuove, i piani di azione
che sostiene con risorse. Nel trattato dell’EU si dice che tutte le lingue hanno lo stesso valore. Le politiche
linguistiche fatte negli USA mirano all’acquisizione dell’inglese come lingua di tutti. L’EU dice unity in
diversity, la diversità linguistica va mantenuta. Dendrinos mette in luce l’impatto sull’educazione. Perché
quando si parla di educazione si parla di report, risoluzioni…? Perché non si trasformano in legge? Perché
l’istruzione non rientra tra le materie che tengono insieme l’EU, sui temi dell’istruzione ogni singolo stato
opera in regime di sussidiarietà, a legiferare sono i singoli stati che devono tenere conto delle
raccomandazioni, le risoluzioni dell’EU, ma l’EU non può legiferare in materia, la sovranità rimane in mano
agli stati. Però anche per risolvere questioni sociali la Commissione continua a produrre raccomandazioni
per questioni sociali perché uno temi rilevanti è l’integrazione dei migranti nelle società, quindi, l’EU sta
molto attenta a creare multilingual classroom spaces, che possono avere una varietà molto ampia di
cultural e linguistic variation. La diversità linguistica in classe va coltivata secondo l’EU, si deve aiutare ad
apprendere la lingua della scuola. Il focus sta nell’apprendimento della lingua della scuola, non la mother
tongue, per raggiungere il successo scolastico, ma dare loro sostegno per i problemi che potrebbero
incontrare e poi per far sì che il patrimonio linguistico di partenza non venga abbandonato ma venga
sviluppato e mantenuto. Per molti insegnanti la L1 rappresenta una barriera per l’apprendimento. Questo è
un paradigm shift, si deve cambiare la mentalità, perché si continua a ritenere che l’avere due lingue sia
una cosa che porta svantaggio. Insegnare loro ad usare i diversi codici che stanno intorno alla lingua di
scolarizzazione. Acquisire un’alfabetizzazione nei vari codici che servono a scuola. Mantenere la lingua
madre o le lingue madri. Favorire che apprendano altre lingue europee. Il fatto di possedere vari codici
favorisce la gestione di nuovi codici, siamo naturalmente multilingui. Facilitare l’apprendimento delle
lingue, utilizzare il QCER e poi far sì che l’educazione vada in questa direzione, è una sfida, ancora c’è da
fare moltissimo in questa direzione. C’è bisogno di ricerca e di studiare su questi temi. Finanziare progetti
per lingue e multilinguismo attraverso Erasmus plus. Supportare gli studi a riguardo. Una cosa è avere il
QCER e le politiche europee, un’altra è mettere in pratica tutto questo, che significa rispondere a ciascuna
di queste sfide. Le sfide sono grandissime perché c’è ancora molto da fare, specialmente nella formazione
degli insegnanti, gli stereotipi intorno alle lingue sono ancora radicati. Il paradigma qual è? Vanno
modificate tante cose. L’obiettivo finale di ogni apprendimento ancora è quello di arrivare a una
competenza del parlante nativo, ogni lingua è tenuta separata l’una dall’altra. L’enfasi è sull’apprendimento
della lingua target come se fosse un sistema fisso di strutture di lessico e di pragmatica. Il focus è ancora
sulla frase più che sul testo. Nel QCER l’attenzione è sul testo. Manca ancora una riflessione sull’efficacia
comunicativa. È un cambio di paradigma molto forte, l’errore non è sempre detto che sia un errore, ma
potrebbe essere una fase di avvicinamento al possesso della regola. Passare dal concetto di errore al
concetto di efficacia comunicativa anche attraverso testi multimediali, che usano codici diversi.
L’alfabetizzazione si sviluppa in ciascuna lingua in modo separato, non ci si occupa delle competenze
plurilingue. È difficile che ci siano politiche linguistiche a livello di scuole, università. Si fa tutto questo
parlare del multilinguismo, poi però si valuta la competenza in una lingua sola. Abbandonare il paradigma
monolingue nell’educazione. Al centro delle discipline si deve mettere il fatto che l’interazione si sviluppa
attraverso la semiotica, i codici che abbiamo a disposizione. Le scuole europee devono diventare
multilingue, dove molte lingue e la multimodalità entra in gioco e sono usate per la costruzione del
significato. Se vogliamo che le politiche europee si mettano in atto, questo c’è da fare. Mettere in atto
nuove pratiche pedagogiche associate con l’intercomprensione, possibilità di studiare le lingue tutte
insieme mettendo in luce le differenze e le somiglianze, il translanguaging, che diventi comune passare da
una lingua all’altra, la mediazione, senza cui il passaggio da una lingua ad un’altra crea incomprensione.
Secondo Dendrinos la sfida più grande è la sfida di un nuovo paradigma pedagogico. Una pedagogia
linguistica, educazione linguistica che prepara ad usare le lingue. Così si incrementa la quantità e la qualità
della comunicazione con i parlanti di altre lingue, questo significa permettere di usare tutto il repertorio a
disposizione per costruire il significato. Una pedagogia linguistica che sia orientata a sviluppare le
competenze per operare al confine tra lingue diverse, translanguaging, non è code-switching, è un processo
continuo. Trovare la loro strada negli eventi di comunicazione. Una pedagogia linguistica che li formi ad
usare la conoscenza socioculturale facendo uso massimo delle loro abilità di multiliteracy, di gestire la
multimodalità dei testi, e la loro conoscenza translinguistica e transculturale. La sfida è aperta ed è
grandissima. La complessità del ruolo dell’operatore è maggiore rispetto a quello di insegnare liste di forme
e strutture. Questa è la sfida maggiore.

31/03/2022

Siamo in un mondo in cui ciascuno di noi è multi o plurilingue. La sfida che deve interessare le politiche
europee come si può promuovere, come si possono formare gli insegnanti affinché smettano di pensare
alle lingue come sistemi chiusi che sono costruiti con forme e strutture; invece, pensino e riflettano su
quanto le competenze linguistiche siano fondamentali per la gestione dell’ora di lingua e tutte le altre
materie.

Come è evoluta nel tempo la definizione di bilinguismo? È evidente che anche l’idea dell’essere bilingue è
modificato nel tempo. La prima definizione è quella più antica, appartiene a un pedagogista e linguista
americano, Bloomfield. L’essere bilingue significava avere un controllo nativo di due lingue. Il focus sta sulla
competenza raggiunta. Esiste un percorso di apprendimento, un obbiettivo da raggiungere, la nativelike
proficiency, la competenza di un parlante nativo. Dice perfect, l’obiettivo è il raggiungimento di questa
perfezione. Focus sull’apprendimento del sistema. Mette in luce la competenza di produzione orale. È
chiaro che una definizione come questa oggi non è più accettabile. Ma è una definizione che
nell’immaginario collettivo è penetrata. Un altro linguista, Mackey, comincia a dire qualcosa di diverso.
Possiamo considerare il bilinguismo come l’uso alternato di due lingue da uno stesso individuo. Si sposta
qualcosa subito, l’attenzione si sposta sull’uso, più che sul sistema. Il bilinguismo è un modello di
comportamento di pratiche linguistiche che si modifica e varia. Secondo Bloomfield esiste un parlante
nativo ideale a cui si deve conformare il parlato dell’apprendente, deve raggiungere una competenza
nativelike. Nelle considerazioni di Mackey emerge il grado, il bilinguismo non è un concetto univoco,
delimitato, ma esistono diversi gradi. Qual è la matrice che ci aiuta a definire il bilinguismo? Il grado, la
funzione (gli usi linguistici, per quali funzioni si usa una lingua), l’alternanza, l’interferenza. Nella prima
definizione c’è un bilinguismo, nella seconda c’è una gamma di bilinguismo. Diebold offre un’altra
definizione. Dice di nuovo che non c’è un modello e una replica. Ci sono diversi modelli utilizzabili per una
lingua seconda. Aggiunge una cosa interessante: pone una differenza fra le abilità, si può essere bilingui in
un’abilità, non bilingui in un’altra. Si può avere un bilinguismo reattivo e uno ricettivo. Mackey non aveva
messo in luce questa abilità, Diebold lo fa. L’ultima definizione viene da uno dei più grandi studiosi di
bilinguismo, Grosjean, maggiormente si è occupato di studiare il bilinguismo. Mette accanto il bilinguismo e
il multilinguismo. Si sposta l’attenzione sull’uso, essere bilingui significa usare in maniera regolare due
lingue, anche una lingua e un dialetto. Non è solo un bilinguismo che riguarda quelle entità che sono
definite lingue, ma riguarda anche le varietà linguistiche di queste lingue. La scelta è quella di dire che
anche una varietà linguistica diversa è come se fosse una lingua. se si considerano le lingue come sistemi
chiusi, il bilingue deve arrivare alla perfezione. Invece, negli anni questa definizione si è modificata ha
assunto delle accezioni diverse.

Sui temi del bilinguismo bisogna sfatare dei miti. Tutta la strumentazione tecnologica che fanno vedere
quali sono le aree del nostro cervello che si attivano quando usiamo una lingua ci danno informazioni che
prima non potevamo avere. In questo libro (Il cervello bilingue di Garaffa, Sorace e Vender) il tema è sfatare
i miti. La definizione che Grosjean ha dato e le autrici adottano è quella di pratica di uso regolare di una
lingua. Il focus è sull’uso non sul grado di competenza raggiunto. Oggi si dice che è bilingue anche chi ha
una lingua dominante. Per essere bilingue devi usare in maniera regolare queste due lingue, ma non deve
essere un uso bilanciato, si può usare (ritorna Mackey) in un’occasione una, in un’altra la seconda. Questo
cambio di focus mette in luce un’altra questione, perché un tempo si pensava che bilingui potessero
diventare solo quelle persone che avevano acquisito quelle due lingue fin da piccoli, la condizione era
un’acquisizione precoce. Se il bilinguismo si ottiene da 0 a un anno di vita, i bimbi sono esposti alle due
lingue fin dalla nascita, si chiama bilinguismo simultaneo. Si chiama consecutivo precoce, porta
all’acquisizione di una seconda lingua in un’età giovane, dopo l’anno, fino ai 5 anni, quando poi si chiama
bilinguismo consecutivo tardivo. Perché abbiamo messo questo taglio dagli 8-9 anni? il cervello da bambini
è plastico, malleabile, intorno agli 8-9 anni si lateralizzano le funzioni, le aree celebrali si specializzano per
determinate funzioni. Le funzioni del nostro cervello si è lateralizzato e no ha più plasticità, i bambini
ascoltano e selezionano quei suoni che sentono di più, si specializzano e usano quei suoni come tratti
pertinenti della lingua che maggiormente utilizzano. Se i bambini non vengono da subito esposti a una
lingua non parlano. Dagli 8-9 anni si alzano le soglie critiche, che non riguardano tutte le aree del sistema
linguistico. Si può parlare anche di bilinguismo adulto tardivo. Si può diventare bilingui anche da adulti. Ci
vorrà più fatica, i bambini sono più flessibili.

Le tre autrici mettono in luce altri stereotipi. Si dice che si debba dimenticare la lingua madre per impararne
un’altra. Si instaura una battaglia fra lingua, non stiamo parlando di utilità, ma di sviluppo cognitivo ed
educativo del bambino. La ricerca ha dimostrato che i bambini sono in grado di gestire due o più lingue.
Spesso è stato interpretato come segnale di confusione, ma non lo è. Il bambino è in grado di capire quale
lingua usare in determinate circostanze. Ci sono studi come quello di Mehler, psicologo, che ha messo in
luce che i neonati ma forse anche nel ventre sono in grado di riconoscere due lingue diverse. Lo ha visto da
una scala di gradimento della suzione. Se il bambino sente la mamma che parla la L1 c’è un alto grado di
gradimento. Se la mamma parla una L2 la sua attenzione è sviata, se c’è un estraneo che parla una L2
l’attenzione è ancora più sviata, succhia meno latte. [La zoosemiotica si occupa di studiare i sistemi di segni,
i codici, le lingue che gli animali possiedono. Questi studiosi stanno scoprendo un sacco di cose. Ci sono
alcuni che dicono che le api hanno una facoltà metalinguistica, attraverso il tipo di volo possono spiegare un
segno che hanno realizzato e le altre api no]. I bambini bilingui non devono essere paragonati ai
monolingue nelle loro lingue. Grosjean dice che l’attenzione non deve portare a un paragone fra il bambino
bilingue e quello monolingue. Il funzionamento del cervello bilingue è diverso da quello dei monolingue.
Nel cervello dei bilingui vengono attivate aree con funzioni diverse. Non si può paragonare il bilingue con il
monolingue. Altro mito sfatato: i bambini bilingui hanno una maggiore conoscenza spontanea di come
funziona il linguaggio. I bambini bilingui sono in grado di sviluppare una competenza metalinguistica più
solida. Vedono subito che fra il significante e il significato non esiste un rapporto biunivoco. Cominciano a
porsi dei problemi e delle ipotesi.

01/04/2022

Secondo alcuni studiosi le lingue non esistono, sono delle costruzioni. Oggi si fa avanti l’idea di
translanguaging. Tutti i linguisti si sono accorti che il contatto fra due lingue porta i parlanti ad operare delle
operazioni di transfer linguistico da una lingua ad un’altra; quindi, sono nati i concetti di code switching e
code mixing. Tutto questo si può realizzare attraverso un mixing, quando manca o si ritiene più opportuno
usare una parola di un’altra lingua, si fa code switching o code mixing. Gli studiosi di translanguaging hanno
una visione più radicale, dicono che switching e mixing non sono eccezioni, ma è la normalità, è una
condizione normale nell’uso linguistico. Non c’è una definizione universale, non c’è un accordo, continuano
ad esserci diverse definizioni di lingua come sistema chiuso o costruzione arbitraria, si va da un polo ad un
altro, quindi la definizione di bilinguismo non risponde a dei criteri fissi, quello che prevale ora è l’analisi
dell’uso. Non si dice più che si debbano imparare le lingue fin dalla nascita, esiste il bilinguismo tardivo.
Questo concetto di bilinguismo è tipicamente eurocentrico, invece la possibilità di movimento e utilizzo di
lingue e varietà diverse in culture non europee non hanno questi problemi, il loro passaggio da una lingua
ad un’altra è naturale. Che il nazionalismo sia un nazionalismo che usa la lingua a propri fini è chiarissimo.
Infatti, la rivendicazione della lingua è stata una dei primi passi. La lingua non è mai una questione neutra,
ma viene usata per rivendicare l’identità.

I bambini bilingui imparano a leggere prima perché riflettono sul rapporto morfemi e grafemi. I bambini
bilingui non presentano ritardi nell’acquisizione del lessico. Dopo 24-36 non sono in grado di produrre
lingua è chiaro che lì ci si deve preoccupare. Correntemente si considera un certo ritardo nella produzione
linguistica come un ritardo cognitivo, cosa che molto spesso non è. I bambini bilingui iniziano a produrre
parole intorno ai 12 mesi, hanno tappe di sviluppo paragonabili. La produzione lessicale è come quella di un
monolingue. Il lessico più ricco sarà nella lingua dominante, quella usata più frequentemente. Quello che
Grosjean ha analizzato, le due lingua sono complementari, le due lingue sono usate con scopi diversi,
principio di complementarità. Le due lingue sono uguali, si usano in contesti diversi. La ricerca scientifica ci
ha detto che sono più avvantaggiati, sono più capaci di controllare ciò che stanno facendo, perché le due
lingue sono sempre attive nel cervello. L’idea di controllo è perché avendo due lingue sono pronte ad ibirne
una e usarne un’altra, questo ha impatto positivo sul controllo linguistico. Sono capaci di gestire situazioni
diverse e compiti multipli nello stesso momento. Non esistono bilinguismi più utili di altri per lo sviluppo
cognitivo, non deve essere l’utilità a far mantenere le due lingue. Esiste l’élite bilinguism, collegato al
prestigio sociale e alla fortuna, e il folk bilinguism, che provoca strategie di nascondimento. Monterotondo
e Mentana sono due comuni in cui gran parte degli immigrati scelgono di risiedere per lavorare a Roma.
Questo ha determinato che le scuole siano piene di bambini che provenivano da famiglie di origine
immigrata. Lì si è notato l’atteggiamento dei bambini nei confronti delle lingue d’origine. Quelli di origine
albanese dicevano che la loro lingua è quella italiana, strategie di nascondimento. I nostri immigrati
all’estero facevano lo stesso, spesso cambiavano il loro nome. Dal punto di vista dello sviluppo delle
capacità cognitive, tutti i bilinguismi portano gli stessi vantaggi. Ci sono studiosi che dicono che se si
conoscono due lingue, la terza sarà più facile da apprendere, ma su questo non ci sono evidenze
scientifiche. I bambini bilingui hanno la capacità di vedere dal punto di vista degli altri. Si immedesima nella
visione degli altri, decentramento cognitivo, capacità di analizzare la situazione da angolature diverse rese
possibili dal possesso di più lingue. Praticare più lingue genera un miglioramento delle attività quotidiane.
Imparare le lingua fa bene da adulti. Si dice che imparare le lingue da anziani faccia bene come fa bene
partecipare alla vita culturale di una società, non ci sono tanti studi che lo dimostrano. La risposta
individuale è un fattore determinante.

Bilingualism matters  Sorace sarda va a vivere in Scozia, a Edimburgo, le era stato impedito di usare il
sardo dai genitori. Si sposa con uno scozzese, fa dei figli e si ritrova col problema di cosa fare. Comincia ad
occuparsi di tematiche di bilinguismo, dal punto di vista di promozione del bilinguismo. Ha costituito questo
centro con l’obbiettivo di sensibilizzare le famiglie bilingue, costruendo una politica per il bilinguismo.
Perché promuovere il bilinguismo? Il pensiero diventa più sensibile e creativo, quindi creatività. I bambini
riescono a riconoscere il valore delle altre culture e ad accoglierne le differenze, quindi atteggiamento
inclusivo. La conoscenza di più lingue aiuta i bambini a sentirsi a proprio agio in ambienti differenti, quindi
flessibilità. I bambini mostrano maggiore flessibilità cognitiva, migliore abilità nel risolvere problemi e
capacità di pensiero elevato. Si è stimolati ad apprendere di più, sviluppo abilità cognitive. L’apprendimento
delle lingue migliora le capacità di comunicazione in generale, quindi migliori capacità di comunicazioni.
Lasciare che i bambini siano come sono li aiuta a sviluppare maggiore fiducia in sé stessi. Ampia visione del
mondo. I migranti non contribuiscono solo con la loro lingua madre ma apportano i tratti culturali, quindi
arricchimento. Innocenza prebabelica, i bambini non hanno paura della diversità. Bambini multilingue
possono considerarsi un ponte che congiunge il patrimonio delle loro culture ad altre, quindi
apprezzamento delle diversità.

07/04/2022

22 giugno scritto, 24 giugno orale  primo appello.

20 luglio scritto, 22 luglio orale  secondo appello.

Sul bilinguismo ci sono tanti stereotipi da sfatare, che riguardano i comportamenti delle famiglie e delle
scuole. Abbiamo visto quali sono i fondamenti scientifici relativi ai vantaggi del bilinguismo. Ci siamo
soffermati su ciascuno dei punti che ci sono serviti per sfatare gli stereotipi. Ciò che porta avanti lo
stereotipo non è portato avanti nei fatti, nell’evidenza. La paura del genitore è rischiare di creare
confusione nei bambini, la risposta deve essere no, i bambini imparano rapidamente le differenze di parlare
tra uomini e donne, nelle prime ore di vita le differenze tra una lingua e un’altra. Un tempo si pensava che
fosse uno svantaggio essere esposti, ma non è così, ci può essere un certo rallentamento, ma i vantaggi
successivi sono anche cognitivi. I bambini non confondo le due lingue? È chiaro che la gestione di due
sistemi rispetto ad uno crea maggiori difficoltà. Anche se si verificano fenomeni di code-switching, i bambini
sono consapevoli di questo passaggio e questa consapevolezza è evidente perché a volte usano altre parole
perché non conoscono la parola nell’altra lingua, ma spesso c’è consapevolezza nell’uso, vogliono usare
quella determinata lingua. La cosa importante è far chiarire il ruolo delle varie lingue e un’esposizione
equilibrata alle due lingue. La responsabilità del genitore nel non mettere in contrapposizione le due lingue
è fondamentale. Come facciamo a insegnare due lingue? Le cose più importanti sono l’esposizione e la
necessità. Non vuol dire parlare le stesse ore entrambe le lingue, ma legarle ad una necessità. Se i bambini
sentono parlare la mamma o il papà in una lingua diversa dalla loro ma è quella del paese, percepiscono
che è più importante, lo sarà anche per loro. È possibile che i bambini parlino le due lingue solo con
l’esposizione? Serve grande consapevolezza dei genitori, no. Il trucco è legare la lingua a contesti d’uso,
immergere i bambini in situazioni in cui solo la lingua meno importante viene usata, così da non mescolare
le due lingue o usare solo l’altra. I genitori devono trasmettere l’importanza e la necessità, non è una cosa
banale, perché nei casi migratori quello che prevale è la voglia di integrazione, legata con questioni
linguistiche, si tende a far dimenticare le lingue d’origine. Non sarebbe meglio introdurre dopo la seconda
lingua? No, i bambini possono percepire che la seconda lingua sia meno importante. Prima si inizia meglio
è, non c’è un limite di età perché un bambino inizi ad essere esposto a una seconda lingua. La nostra
posizione naturale è essere multilingue, siamo capaci di gestire più lingue. È meglio parlare ciascuno la
propria lingua? Molti esperti suggeriscono il metodo un genitore una lingua. Può avere successo o no, un
primo problema può essere l’equilibrio. Se i bambini ricevono la lingua meno importante solo da un
genitore, l’esposizione a questa lingua può essere insufficiente. Specialmente se entrambi i genitori
capiscono la lingua più importante, i bambini potrebbero avere l’impressione di non avere bisogno di quella
meno importante. È essenziale trovare altre fonti di esposizione e altri modi di creare un senso di necessità.
Un altro problema è quello di mantenere la situazione naturale. Imporre regole esplicite può essere molto
difficile e contribuire a creare un atteggiamento negativo. Ancora un altro problema è l’esclusione. Se uno
dei genitori non parla la lingua dell’altro, i bambini capiranno che ogni volta che parlano con genitore,
escludono l’altro. Questo potrebbe rendere il bambino riluttante a parlare la lingua di uno dei genitori. Una
famiglia bilingue ha più probabilità di successo se entrambi i genitori riescono per lo meno a capire
entrambe le lingue. Le questioni linguistiche non sono mai neutre. Il modo in cui tanti bambini crescono e i
ruoli che assumono, tanti bambini che conoscono bene l’italiano perché percepiscono l’importanza e
devono per necessità, diventano mediatori dei genitori. Qual è il ruolo di fratelli e sorelle? Sempre studi,
ricerche hanno messo in luce che il fratello più grande parla con il piccolo la lingua del paese. In questi casi
bisogna anticipare una strategia adatta alle proprie esigenze, magari assicurandosi proprio l’aiuto del primo
figlio nel promuovere la lingua meno importante. Mescolamento tra le lingue, è normale in situazione in cui
tutti le parlano entrambe. Ciò significa che i bambini ne stiano dimenticando una o che non sappiano più la
differenza fra una lingua e l’altra. Anche qui, far capire in quali contesti usare una e in quali l’altra.

Ruolo della scuola. Che si può fare a scuola? Bisogna capire quali lingue sono presenti in classe.
L’insegnante non se ne preoccupa. Il primo passo è scoprire quanto più possibile rispetto alle lingue e
culture delle famiglie attraverso un colloquio con i genitori dello studente e l’elaborazione di un
questionario. Entrambe le modalità devono mirare a identificare abitudini e scelte rispetto al repertorio
linguistico. Sviluppare un percorso formativo che miri al mantenimento e alla valorizzazione della L1. Per
niente facile. L’educazione linguistica in un curriculum bilingue/plurilingue si pone il duplice obiettivo di
sensibilizzare l’apprendente ad una pluralità di idiomi, ai loro legami reciproci così come al loro diversificarsi
e di consolidare la sua consapevolezza relativamente alla propria conoscenza delle lingue. Incoraggiare i
genitori a mantenere la L1. Collaborare e dialogare con le famiglie rispetto al tema della L1 può
rappresentare una dura sfida soprattutto se queste ultime sono convinte che la soluzione più efficace sia
parlarla anche nel contesto familiare. Al contrario, risulta necessario parlare a casa nella L1 affinché si possa
portare avanti il progetto dello sviluppo di una competenza bilingue. I genitori dovrebbero comunicare
nella lingua che più padroneggiano. Portare le lingue d’origine in classe. Se gli studenti non condividono la
stessa lingua sarà necessario proporre un curriculum plurilingue che incoraggi l’uso delle L1 con i compagni
che condividano quella lingua. Quello che deve cambiare è la mentalità sui temi del
bilinguismo/plurilinguismo. Come nei vari paesi europei si insegna la L1? Se mette in luce una visione di una
lingua come un sistema chiuso oppure se cominciano a passare anche nei materiali didattici questa idea
dell’apertura e della ricchezza del multilinguismo. In Svezia c’è un’apertura che noi ce la sogniamo. Come fa
l’insegnante a conoscere tutte le lingue che ci sono in classe? Il punto non è questo, ma l’importanza di far
crescere il bambino bilingue. Deve essere in grado di capire l’importanza a livello identitario, psicologico, di
far crescere i bambini in maniera bilingue. Diversi fattori hanno consentito di andare oltre il rigido abito
monolingue dell’insegnamento linguistico in ambito scolastico e di promuovere pari opportunità. La
progressiva focalizzazione sull’apprendente. Il processo di elaborazione dei documenti relativi alla politica
linguistica dell’EU. L’espandersi di una realtà multilingue e multiculturale. L’ampliarsi degli orizzonti
geografici, la maggiore facilità delle comunicazioni che favoriscono e richiedono più ampia disponibilità e
più articolate competenze per parlare la lingua dell’altro. La necessità di sviluppare curricoli più flessibili e
modelli di insegnamento più efficaci, nell’ottica dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita.

Autrice straniera che scrive in italiano  Uso di un lessico ricercato. “Perché non una lingua che più ti
assomiglia?”, essendo lei di origine indiana. “Scrivo in italiano per sentirmi libera, avevo bisogno di una
lingua che non mi fosse stata imposta”.

13/04/2022

Jhumpa Lahiri, scrittrice che ha deliberatamente scelto di sentirsi a casa in una lingua diversa dalle lingue
che facevano parte del suo repertorio linguistico. La scelta è stata ancora più coraggiosa, perché ha scelto di
apprendere una lingua di nicchia, non una delle grandi lingue del mondo, ma una lingua che dal punto di
vista professionale le impediva di avere un accesso a un ampio numero di destinatari dei suoi romanzi. Ha
dovuto superare molti stereotipi, utilizzare questa lingua di cui si è innamorata ha costituito per lei un
elemento di libertà. Il processo di apprendimento di una lingua può essere analizzato da una prospettiva
diversa. Ricorre all’uso di tre metafore, per me imparare una nuova lingua ha significato compiere queste
tre azioni, che identifica attraverso tre metafore. Lei dice che è stata la lettura di alcune autrici che le ha
permesso di spiegare a sé stessa le motivazioni dietro all’apprendimento di una nuova lingua. La prima
metafora la trae dagli scritti di Lalla Romano, che scrive un libro che ha un titolo simbolico, Metamorfosi,
già dal titolo ha trovato qualcosa che descrivesse il suo passaggio di stato: imparando una lingua sta
compiendo un cambiamento. Il titolo di Romano è il passaggio di espressione, da pittrice diventa scrittrice,
dice Jhumpa anche io faccio il passaggio da un mezzo di espressione ad un altro. Trova un racconto, le
porte, che racconta di un sogno, vissuto passando da una porta ad un’altra evitando che le porte si
chiudano prima, è una metafora che descrive quel percorso che io ho fatto per appropriarmi della lingua
italiana. Racconta la fatica dell’apprendimento della lingua, è un movimento asintotico, è un percorso che si
avvicina senza mai arrivare al punto in cui si pensa di dover arrivare, è sempre qualcosa che non ha un fine.
Mette in luce questo fatto che la lingua sia costituita da dei cerchi che non hanno mai un momento di fine.
Ugualmente il mio apprendimento della lingua è stato come cercare di aprire delle porte complesse da
aprire. Una porta per utilizzare la lingua come strumento al massimo creativo. Altre porte sono quelle che
mi hanno fatto aprire gli altri. Si può considerare come barriera, ma anche come ingresso. L’approssimarsi
della lingua si muove per barriere e poi per ingressi, per passi di avvicinamento. Come una scrittrice che
diventa bilingue da grande vive questo percorso, lo vive in maniera consapevole. Lei dice la lingua nostra
che non è la mia, è un qualcosa di condiviso che non sento mio. Dice l’italiano è una lingua inclusiva, è un
aggettivo che descrive una percezione della lingua che è condivisa da tante persone che si avvicinano alla
nostra lingua, è una lingua che non ti respinge, ti accoglie. La lingua italiana porta su di sé una tradizione
fortissima, lingua e cultura sono sinonimi, è profondamente intrecciata alla nostra lingua una tradizione e
una produzione che favorisce l’attrattività della nostra lingua. La seconda metafora è tratta dalla lettura di
Romano. Jhumpa ci ha descritto la seconda metafora, che prende dall’ultimo libro di Romano, Diario
ultimo, scritto quando era quasi ormai cieca. La cecità è un’altra metafora che descrive bene il mio percorso
di apprendimento dell’italiano. Scrivere in una nuova lingua è quasi cecità, perché si ha una visione parziale.
Questo non impedisce il pensare, anzi è uno stimolo, ci rende più attenti anche alla scrittura, alla scelta
degli strumenti, dei mezzi con cui ci vogliamo esprimere. Anzi, quando io scrivo nella mia lingua, l’inglese,
ho un’altra cecità che mi permette di stare ad occhi chiusi. Penso di conoscere talmente bene la mia lingua
che scrivo senza riflettere. Invece, nella pigrizia e nella cecità io sono spinta a cercare sempre di vedere
meglio. Esco da una cecità perché posso vedere il mondo attraverso degli occhi diversi. Le parole sono
strettamente legate al contesto, ad una storia, quindi bisogna andare nei margini, dove si trovano le
maggiori disponibilità di espressione. L’ultima metafora è la più potente, quella dell’innesto, provare a
imparare un’altra lingua si può metaforicamente rappresentare attraverso l’idea di innesto. La donna del
racconto riconosce l’innesto ma non le piace come si è realizzato. Dice che dall’innesto nasce qualcosa di
ibrido, è un incastro, ma innestarsi in una nuova lingua significa che la lingua diventa una parte del nostro
corpo, nascono nuovi pensieri, nasce un nuovo idioma. Si ritrova quella riflessione sulla permeabilità di una
lingua, che non ha confini netti, decisi, ma ha margini permeabili. Dice che una lingua si rinnova nel
contatto, sa bene che attraverso la sua scrittura, grado più alto di contatto linguistico, lei porterà qualcosa a
questa nuova lingua, che si rinnova. È una bellissima considerazione. La percepisce perché l’ha
direttamente sperimentata. Questo movimento continuo delle lingue, quest’idea che la possibilità di
apprenderne una o due, possibilità di rendere evidente che attraverso il contatto, l’apporto creativo, che si
ha nel contatto fra lingue diverse, si crea qualcosa, le lingue possono cambiare, possono mutarsi negli usi
individuali, che possono entrare nella forma della lingua. Non dobbiamo avere paura, anche una scrittrice
che esamina quello che ha provato nella sua vita, ci deve portare a dire che non dobbiamo avere paura
della diversità, non dobbiamo considerare la diversità e allontanarla, alzare barriere, ma anzi aprire delle
porte. Chi le vive sulla propria persona, il multilinguismo, si rende conto delle grandi possibilità offerte
attraverso di esse.

21/04/2022

22 giugno alle 09:00, 45/50 minuti online, test a scelta multipla di 21 domande. Rispondere correttamente
ad almeno 14 domande per accedere all’orale, 24 giugno esame orale alle 09:00 online, 13:00 in presenza.
20 luglio alle 09:00 test scritto, 22 luglio esame orale alle 09:00 online, 13:00 in presenza. Il voto dello
scritto si mantiene per le 7 sessioni previste.

Come le politiche linguistiche ed educative, soprattutto a partire da quelle europee, che mirano alla
promozione del multilinguismo e all’apprendimento e utilizzo di più lingue, sono state applicate e ci
soffermiamo su come vengono applicate nel nostro paese. Le politiche linguistiche ed educative non
rappresentano una materia in cui l’unione europea può legiferare, opera in regime di sussidiarietà, nel
senso che può dare delle indicazioni che provengono dall’UE, in particolare dal Consiglio Europeo e dal
Parlamento Europeo.

Si basa su una ricerca del 2012, Language Rich Europe e aveva come sottotitolo Il multilinguismo per le
società coese, in cui la coesione sociale era importante, ma anche società che attraverso il multilinguismo
potevano prosperare. È evidente già dal titolo la duplice natura del multilinguismo, attraverso la diversità
linguistica, la promozione delle lingue si arriva a una maggiore coesione e stabilità nelle società, si
valorizzano le lingue come strumenti per poter vivere meglio, anche nel senso di poter utilizzare quel valore
economico che il multilinguismo può portare. Questo progetto era finanziato dalla direzione generale della
Commissione Europea, guidato dal British Council, organismo che ha come obiettivo la promozione e il
sostegno della lingua e della cultura inglese, è un ente dell’UK che ha delle sedi in tutti paesi del mondo per
promuovere il paese, la lingua, la cultura. È precedente alla Brexit, ad oggi l’UK non può più essere
coordinatore dei fondi europei. Questo progetto era supervisionato da un comitato di direzione formato da
vari rappresentanti, vari istituti e organizzazioni e aveva come partner scientifico un centro importante che
si trova nell’Università di Tilburg in Olanda. Obiettivo di analizzare le politiche linguistiche europee, sono
stati analizzati tutti i documenti, tutte le risoluzioni, le convenzioni, i report, che l’UE ha promulgato o
pubblicato a partire dal 2000 e da questi documenti sono state tratte, tirate fuori le indicazioni più
importanti che l’UE ha dato in quegli anni sul tema del multilinguismo e dell’educazione linguistica. Sulla
base delle indicazioni rilevati, si è visto cosa praticamente in 24 paesi si è messo in pratica. Si è fatto
attraverso l’utilizzo di un questionario. L’obiettivo di questo progetto era costruire uno strumento che
potesse aiutare ad autovalutarsi, dire in base alle indicazioni che l’Europa sta dando come si pone il paese
x? Quali sono quegli stati che maggiormente hanno applicato le indicazioni europee? L’obiettivo era
verificare e permettere ai paesi di avere uno strumento per dire in questo settore devo fare di più, in
quest’altro ho raggiunto tutti gli obiettivi. Gli obiettivi generali erano facilitare gli scambi di buone pratiche.
Si poteva arrivare ad una cooperazione europea, ma l’obiettivo era anche di fornire alle istituzioni nei vari
stati membri una maggiore conoscenza e una maggiore consapevolezza delle indicazioni europee. L’idea
era di vedere non per fare una classifica dei bravi e dei non bravi, ma di vedere come le indicazioni europee
sono state accolte nei vari paesi europei, così possiamo trarre delle indicazioni che possono servire ai paesi
che sono rimasti indietro a migliorarsi. Naturalmente in alcuni casi quest’idea di verifica dell’operato fatto
non è stata molto gradita, spesso non sono state riportate delle informazioni che rispondevano alla verità.
Che cosa si è fatto? Si è selezionato tutti i documenti dell’EU e del Consiglio che avevano come oggetto il
tema del multilinguismo a partire dagli anni 2000. Sono stati selezionati quelli che hanno a che fare con la
lingua e le politiche linguistiche. Dalla lettura di questi documenti si è estratto quelle che sono le indicazioni
sulle lingue. Questa ricerca si ferma al 2011-12, questo non significa che negli anni successivi non siano stati
prodotti altri documenti in tema di lingue. Nel 2017 abbiamo European Parliament Fact Sheet on the
European Union, l’UE ha inserito l’apprendimento delle lingue tra le sue priorità. Il consiglio che l’EU fa in
tema di apprendimento delle lingue è che oltre alla propria lingua madre si debbano conoscere altre due
lingue. Il concetto di lingua madre è un concetto piuttosto vago, perché sappiamo che dal momento che in
Europa la diversità linguistica è diventata un dato di fatto, è evidente che la lingua madre potrebbe essere
non una. Negli anni successivi l’UE ha modificato, come nella consultazione del 2018, evidenziato che la
lingua fondamentale apprendere è la lingua di scolarizzazione, a cui si aggiungono altre due lingue. La
sostanza poco cambia, l’idea è che un cittadino si possa definire alfabetizzato se conosce almeno tre lingue.
Perché si è modificata questa definizione di lingua madre in lingua di scolarizzazione? Ci si riferisce agli
immigrati. Una questione sempre più urgente da gestire è quella della presenza di bambini provenienti da
contesti familiari di origine straniera. In questo meeting del 2018 Cunningham, funzionario d’alto grado che
si occupava dell’apprendimento linguistico e la promozione, disse che l’EU forniva strumenti per
apprendere la lingua della scolarizzazione perché potessero in modo pieno utilizzarla, insieme alle loro
lingue che sono parlate nelle loro case. È scomparso l’uso di lingua madre, si usa home language, la lingua o
le lingue parlate in casa. La condizione linguistica è talmente complessa che il concetto di mother language
non riusciva a pieno a descrivere la situazione. Gli obiettivi di Cunningham erano supporto alla lingua della
scolarizzazione, il mantenimento delle lingue madri (è sempre ambiguo come vengono dette le cose) e poi
l’apprendimento di altre lingue europee. L’attenzione dell’EU nella costruzione di politiche linguistiche che
corrispondono a finanziamenti, verso non solo la dichiarazione dell’importanza della diversità linguistica,
ma la promozione della conoscenza di almeno tre lingue. Ci sono tantissimi documenti europei che si
occupano di politiche linguistiche. Provando ad estrapolare dai documenti europei su quali temi l’EU si era
occupata e su quali settori aveva dato indicazioni sulle politiche linguistiche, sono emersi vari domini di
ricerca. L’EU dà indicazioni sulle lingue nell’istruzione prescolare, già dalla scuola dell’infanzia vengano
introdotte delle lingue. Ci sono alcune risoluzioni che riguardano i media audiovisivi e la stampa, ci sono
delle indicazioni che riguardano i servizi e i luoghi pubblici, altri che riguardano le imprese. I domini su cui le
imprese hanno espresso indicazioni sono queste. Il panorama di analisi e suggerimenti che l’EU ha dato e
continua a dare in tema di lingue è un panorama molto vasto e riguarda vari settori della nostra vita sociale.
Di quali lingue ci siamo occupati? Siamo andati a vedere come erano stati trattati, quali provvedimenti
erano stati presi su vari tipologie di lingue, prime fra tutte le lingue nazionali. Poi si è visto come nei vari
stati vengono trattate le lingue straniere, quelle lingue insegnate a scuola o usate come lingue di
comunicazione nei settori non educativi. Poi ci siamo occupati di analizzare come venivano trattate le lingue
regionali o minoritarie di antico insediamento. Infine, si è analizzato come vengono trattate le lingue
immigrate, quelle lingue che sono entrate con a seguito dei processi migratori, in particolare quei processi
che si sono intensificati nei paesi europei, soprattutto a partire dalla fine degli anni 80, con la caduta del
muro di Berlino. Ai primi quattro domini si è potuto dare una risposta con dati di dominio pubblico, dati
secondari, che si traggono dalle politiche e pratiche che sono comuni. Per quanto riguarda l’istruzione
superiore, le lingue nei servizi pubblici, nelle imprese abbiamo raccolto dei dati primari, su tre città per ogni
paese. Le tre città per l’Italia sono Roma, Milano perché è il cuore dell’imprenditoria italiana, Trieste, città
di confine, dove vive una di queste minoranze di antico insediamento, che utilizza lo sloveno. Perché
abbiamo scelto nella parte di raccolta dei dati primari di andare a vedere le città? Per vari motivi. Il
multilinguismo è più diffuso nelle aree urbane, i nuovi arrivati si concentrano nelle città, dove si trovano le
maggiori occasioni di lavoro. Le grandi istituzioni di istruzioni superiore si trovano nelle città. Pensando a
vedere come le lingue sono trattate nei media, in città è più facile trovarli. Gli amministratori delle città
devono pianificare politiche locali in materia di multilinguismo. Le città sono sedi di imprese. Le città danno
una maggiore possibilità di dare risposte maggiori alle domande costruite.

Il primo dominio di cui ci siamo occupati è vedere come le lingue nazionali o le minoritarie o le immigrate
sono trattate nei documenti ufficiali o nelle banche dati. La costituzione italiana pone una grandissima
attenzione sulla lingua, talmente che le parole della costituzione appartengono più del 90% al vocabolario
di base, perché doveva essere un documento compreso dal numero più alto possibile di cittadini italiani.
Lessico che è conosciuto da tutti coloro che hanno seguito e frequentato la scuola. Leggendo la costituzione
ci siamo accorti che non dice niente sull’italiano come lingua ufficiale, l’ufficialità è sancita da alcune
sentenze della Corte d’appello. Menziona la parola lingua 3 volte, ma sempre per proteggere altre lingue,
non è presente il sintagma lingua italiana. Art. 3 (distinzioni di lingua), art. 6 (minoranze linguistiche), art.
111 (parla del giusto processo, la legge assicura che la persona sia assistita da un interprete se non parla la
lingua usata per il processo). La parola lingua compare come tutela della lingua altrui. Perché la costituzione
ha fatto questa scelta? Questa scelta non è una scelta casuale, ma motivata da questioni storiche e
politiche. La chiave fondamentale della nostra costituzione è di fare un passo avanti e arrivare alla
costruzione di una società pienamente democratica, in questo rientra la riflessione sulle lingue. Rientra una
reazione rispetto all’atteggiamento che il regime precedente aveva tenuto in tema di lingue. Nella riforma
Gentile venne lasciata la possibilità di studio della lingua minore locale, siamo nel 23. Nel 25 fu abolito
l’insegnamento delle lingue minoritarie. Negli anni 30 la xenofobia linguistica arrivò ad un livello altissimo,
venne imposto ai genitori di non poter dare nomi stranieri a bambini di cittadinanza italiana, fra il 39-40 ci
fu un processo di italianizzazione dei cognomi francesi. C’era bisogno di una lingua che cementasse la
coesione nazionale. La costituzione che nasce alla fine della guerra che di questo tiene conto è chiaro, si
vuole opporre a un ventennio fascista, basato sull’utilizzo della lingua italiana come strumento d’identità.
L’Italia è sempre stato un paese caratterizzato da diversità linguistica e culturale. La costruzione artificiale
era di pensare all’idea di un’unica lingua per un paese da sempre profondamente plurilingue. La nostra
costituzione non è legata al monolinguismo, non assegna alla lingua il carattere identitario che la tradizione
gli attribuiva. Le posizioni su questo tema sono posizioni trasversali, è chiaro che c’è una parte politica che
vorrebbe l’introduzione di questo articolo. La prof è contraria perché l’apertura che la costituzione lascia va
mantenuta per motivi storici e in questo momento di grande attenzione alla diversità, sarebbe
anacronistico inserire un articolo su questo tema.

22/04/2022

Il monolinguismo non rappresenta la realtà delle cose, nemmeno la competenza delle persone. È
un’ideologia prodotta in particolari contesti storici e politici. Il multilinguismo è lo stato naturale di ognuno
di noi. Ciascuno di noi è in grado di gestirlo. È ancora più importante farlo perché siamo in Europa,
l’espandersi di una realtà multiculturale è sempre più diffuso. L’Europa attraverso le sue istituzioni e in
particolare la Commissione Europea promuove l’apprendimento delle lingue e sostiene la diversità
linguistica. Il motto dell’EU, uniti nelle diversità, è un contributo importante e mette in luce quello che le
diversità apportano al progetto. Ciascuno di noi sa gestire il multilinguismo e quindi è fondamentale la sua
promozione. Le lingue sono dispositivi che creano, danno forma alle diverse culture, rafforzano la
dimensione interculturale. Quando si parla di coesione sociale, è fondamentale parlare di lingue. È
fondamentale che le competenze linguistiche migliorano la competitività dell’UE in ambito economico. C’è
ancora molto da fare, l’EU ha dettato i principi, i singoli stati dovranno mettere in atto questi principi. Non
sempre c’è questa attenzione alla crescita sociale, alla coesione sociale, al miglioramento della
competitività. Il multilinguismo andrebbe coltivato sin dalla più tenera età, sappiamo che porta dei grandi
vantaggi, i bambini sono più pronti all’apprendimento di altre lingue e altre discipline. È bene che vengano
sfatati tutti quei pregiudizi che stanno alla base. L’apprendimento delle lingue permette un miglioramento
nell’invecchiamento, è una delle competenze life long, che fanno bene ad invecchiare. La capacità di
accogliere le differenze è molto ricercata, se vediamo quanto la questione linguistica è fondamentale per la
risoluzione dei conflitti. Nei documenti europei c’è sempre grande attenzione sulle lingue, bisognerebbe
che ci fosse ancora di più. Le lingue sono dei dispostivi che ci permettono di vedere la realtà da angolature
diverse. In un’iniziativa che si occupa di fare proposte per il futuro, il tema del mantenimento della diversità
linguistica è un tema centrale.

La lingua è uno strumento per i conflitti. Una possibilità reciproca tra operatori e migranti è un discorso di
diritto, nell’accesso alla pratica.

Art. 126 e 127 del trattato di Maastricht, il tema di un’identità europea è portabile? L’intercultura si è
limitata per molti anni a constatare le differenze ad una logica folklorica. Questo porta ad una revisione del
trattato o meno?

In tanti documenti europei c’è già uno sguardo oltre, questo superamento dell’idea del diverso come paura
o come folklore. In tanti documenti che si occupano di insegnamento delle lingue lo sguardo è diverso, c’è
attenzione a legare la cultura alla lingua. Come tutto questo possa essere messo in pratica rimane
complicato. Come dice il trattato di Maastricht si promuove un’istruzione di qualità, ma si lascia agli stati la
responsabilità di ciò.

Si parla di etnia, se ne fa un uso spropositato, cosa possono fare insieme linguisti e antropologi?

Possiamo lavorare sull’educazione tantissimo, sono stereotipi che nascono all’interno della scuola. Il
termine etnia ha sostituito il termine razza, sotto c’è la stessa idea di differenza. Bisogna dire che esiste
un’unica razza, un’unica etnia, quello che ci rende diversi è la cultura. Bisogna lavorare molto su questo e
sul tema del bilinguismo d’élite. Le occasioni ce le avremmo, perché nella scuola italiana abbiamo tanti
bambini con lingue diverse, metterne in luce l’importanza sarebbe fondamentale. Uno stereotipo che
permane è quale sia la lingua seconda che si conosce. Il bambino abituato a vivere in un mondo bilingue
sarà più vantaggiato nell’istruzione.

27/04/2022

L’obiettivo stabilito è vedere cosa dice l’EU sui temi del multi e plurilinguismo. Le indicazioni che
provengono dall’EU, che è una politica di promozione del plurilinguismo, soprattutto nei documenti del
Consiglio, come sono state implementate e considerate nelle politiche linguistiche e nelle pratiche. Cosa si
fa per la promozione del multi e plurilinguismo. Progetto europeo che aveva come obiettivo vedere come le
politiche europee erano implementate nei singoli paesi. Che metodo è stato utilizzato? Sono stati analizzati
tutti i documenti dell’EU e del Consiglio e si è estrapolati degli indicatori, messi a confronto con le politiche
europee. Si vede cosa fanno gli stati nei confronti della L1, per le lingue di minoranza di antico
insediamento, per le lingue straniere e le lingue immigrate. Bisogna selezionare dove, in quali settori,
analizzare le politiche dei singoli stati. Sono 8 i macrosettori, i macro-domini della vita sociale che sono stati
selezionati per vedere come le lingue sono trattate e abbiamo iniziato ad analizzare il primo, dominio
linguistico è un meta dominio, perché le lingue nei documenti ufficiali e nelle banche dati rappresentano la
cornice da cui tutte le altre indicazioni avranno origine, è un dominio ombrello che sta al di sopra di tutti gli
altri. Nella costituzione non c’è mai indicazione che l’italiano sia lingua ufficiale. Il fatto che non sia presente
questa indicazione non è un caso. È implicito che lo sia, ma non è mai esplicitato. Non solo non è presente
ma la lingua è sempre menzionata in difesa di lingue altre. Si parla della lingua per indicare la lingua come
uno dei tratti che non devono creare differenze tra gli italiani. Se ne parla nell’art. 6 che tutela e affida allo
stato non solo il riconoscimento ma la tutela delle minoranze. Nell’art.111 chi è processato ha diritto a
qualcuno che faccia da interprete. Nel ventennio precedente alla costituzione, che ha portato alla Seconda
guerra mondiale, c’era stata una forte promozione della lingua italiana, di una scolarizzazione forte. Non è
un male, il problema è che si fece a scapito di tutte le altre lingue e le altre varietà che da secoli
dominavano la nostra penisola. La costituzione essendo che nasce per garantire la libertà, non poteva
contenere un articolo sulla lingua. È un bene, soprattutto adesso che tante nuove lingue sono entrate nel
nostro paese. Non è tutte le volte una strumentalizzazione politica da parte di chi vede nella lingua un
riconoscimento d’identità, ma ci sono anche altri costituzionalisti che chiedono la presenza di un articolo
sulla lingua perché pensano che una presenza nella costituzione potrebbe garantire una maggiore tutela.

L’art. 6 dice che la repubblica tutela le minoranze linguistiche. Se si parla di minoranze c’è un implicito
rimando al fatto che c’è una lingua di maggioranza. È un articolo che riconosce lingue diverse dall’italiano.
Con la riforma Gentile e poi dopo l’unica lingua che è stata protetta era stato il tedesco. Dal 45 in poi
iniziarono le tutele delle altre lingue. Le prime minoranze tutelate furono quelle di frontiera, il francese
nella zona della Val d’Aosta, il tedesco e lo sloveno. Anche in Italia c’è stato un periodo in cui la minoranza
tedesca era attiva in fatto di azioni e manifestazioni con la volontà di separarsi dall’Italia. Si considerano
come fenomeni folkloristici. A seguito della promulgazione della costituzione, che dà principi generali, poi
con le leggi si mettono in atto, ci fu la legge 402 del 1999. È solo la legge del 99 che dà attuazione all’art.6, si
dovette scegliere quali minoranze. Fu un periodo politicamente combattuto per il riconoscimento delle
minoranze. Dopo grandi dibattiti, furono scelte 12 minoranze. Furono scelte quelle che avevano un preciso
legame col territorio, di antico insediamento. Mette insieme idiomi che non hanno lo stesso livello di
standardizzazione, diceva Toso. Alcune sono prive di un codice linguistico di riferimento, altri ce l’hanno
solo in teoria, altre sono lingue regionali. Restano fuori soprattutto due importanti minoranze, rom e sinti,
perché a queste due comunità non fu riconosciuta la stanzialità. Tante decisioni vengono prese per motivi
politici, nel 99 non furono prese in considerazione le nuove minoranze, le lingue che continuavano ad
entrare a partire dalla seconda metà degli anni 70 dal flusso di migrazione che aveva visto un incremento
fortissimo. La tutela proposta in Italia è in contrasto o no con quello che dice l’EU? La carta europea delle
lingue regionali o minoritarie del 92 ha un’apertura maggiore. Nel 95 nella convezione-quadro per la
protezione delle minoranze nazionali si tagliano fuori dialetti e lingue immigrate. La legge del 92 è stata solo
firmata ma non ratificata. Non è entrata nel patrimonio normativo del nostro paese. Siamo in linea con
l’EU. La costituzione parla di tutela, quindi realizzazione di azioni che promuovono il loro utilizzo in diversi
contesti e vengono tutelate secondo un catalogo di criteri linguistici che variano da regione a regione. Sono
le regioni in cui le minoranze insistono che decidono. Non c’è uniformità di trattamento. Ci sono delle
norme che hanno come oggetto l’italiano come lingua ufficiale? Abbiamo dei provvedimenti, 3 norme, che
riguardano l’uso della lingua italiana da parte di coloro che vengono a vivere nel nostro paese. Nel 2010 è
stato introdotto un test di italiano per gli immigrati che chiedono un permesso di soggiorno a lungo
termine, deve conoscere il livello A2 del QCER. Nel 2011 quando è scattata l’infrastruttura dell’accordo di
integrazione, che l’immigrato stipula con lo stato, uno dei requisiti è la conoscenza della lingua italiana. Da
notare che la lingua per la prima volta è considerata indicatore di volontà di integrazione. Nel 2018 è stato
reso obbligatorio il possesso di un livello di italiano almeno al B2 del QCER per ottenere la cittadinanza
italiana. Non è una novità, molti paesi richiedono la conoscenza della lingua. La differenza la fa la capacità
di offrire la lingua, di dare la possibilità per chi arriva di imparare la lingua e offrire dei corsi di lingua
italiana.

Come vengono trattate le lingue nell’istruzione prescolare e primaria? In molti casi per molti bambini si ha il
primo contatto con lingue diverse dalla propria L1. Nella scuola dell’infanzia e nell’istruzione primaria, in
generale i risultati mettono in luce come l’offerta didattica, la sua organizzazione e la formazione e
l’aggiornamento degli insegnanti nel settore delle lingue, a partire dalla scuola dell’infanzia a quella
secondaria di secondo grado, possono essere migliorati. Nella scuola si evidenza un’attenzione prevalente
per la lingua inglese fra le lingue straniere: è la lingua che viene maggiormente insegnata e promossa a tutti
i livelli scolastici. C’è il discorso pubblico che facilita molto questo grande predominio dell’inglese,
considerato unica lingua utile, importante da apprendere. L’unica attenzione nella scuola dell’infanzia che si
ha, non si insegnano le lingue straniere, riguarda le lingue regionali e le lingue di minoranza. Nei territori in
cui ci sono queste lingue e sono riconosciute ci possono essere delle attività che anche all’interno della
scuola dell’infanzia sono organizzate in queste lingue. Non c’è nessuna attenzione per le lingue immigrate.
Queste sono risposte a livello nazionale, ma ci possono essere singoli casi. Come non esiste attenzione a
lingue immigrate non esiste sostegno ai nuovi arrivati. Non esiste qualcosa che dica in tutta Italia in tutte le
scuole se arrivano bambini da contesti diversi si deve trovare un modo per insegnare l’italiano. Se si guarda
alle statistiche oggi più del 60% di origine straniera dei bambini nella scuola italiana sono nati in Italia, per
molti di loro l’italiano è la L1. C’è bisogno di incrementare le competenze linguistiche.

La classe di concorso A23 non può essere di ruolo nella scuola, solo nei centri di educazione per gli adulti. In
pratica, c’è tanto bisogno nei centri di educazione per gli adulti. La scelta ministeriale è stata di destinare
questo ruolo solo all’educazione per adulti, non all’istruzione, fatto sta che chi insegna in un CPA non può
insegnare nella scuola. È una norma importante, ma è ancora azzoppata. Eurydice è una ricerca ogni anno
l’EU fa sulle caratteristiche dei sistemi di istruzione dei vari paesi europei. Invalsi ai risultati fa una
correzione per gli immigrati ex post, ma ex ante i test sono uguali. Le invalsi sono delle prove standardizzate
uguali per tutta Italia somministrate agli studenti, introdotti intorno agli anni 2000, sono obbligatori per
tutti gli alunni, anche se non entrano nella valutazione finale dei ragazzi. Dal 2018 è stato inserito un test
anche per la lingua inglese uguale per tutta la scuola. I dati dicono che i bambini immigrati sono più in
difficoltà in italiano e matematica. C’è una ricerca che si occupa dei risultati di matematica e Viale è andato
a vedere in quali quesiti ottengono risultati peggiori. Lo ottengono in quelle prove in cui il peso dell’italiano
è determinante, il non capire la consegna ha un impatto forte anche sulle prove di matematica. Laddove
quelle prove non sono influenzate dalla lingua, i ragazzi vanno bene. La competenza linguistica è
importante per tutte le altre materie. I ragazzi stranieri nelle prove di inglese vanno meglio degli italiani,
perché nelle prove di inglese non c’è una parola di italiano. Si dà per scontata una competenza che loro non
hanno, se applichi lo stesso metro di valutazione, gli stranieri non hanno difficoltà. Nel caso dell’inglese è
illuminante perché non è dato niente per implicito. Gli studenti stranieri raggiungono i livelli di competenza
indicati per la loro età? In terza media oltre 6 studenti stranieri su 10 non raggiungono il livello di italiano, e
in matematica sono più della metà. Ci sono differenze tra aree urbane e non urbane perché i ragazzi sono
esposti a meno input. Contano anche le condizioni socioeconomiche. I sistemi regionali del nord sono più
efficaci sui livelli di competenze acquisti dai nativi. Faticano però ad arrivare a risultati analoghi per quanto
riguarda gli studenti stranieri, soprattutto in italiano. Ci sono realtà in cui questo scarto è ancora più
elevato. La padronanza della lingua italiana influisce sui risultati della prova di lingua italiana e sulla prova di
matematica. L’assenza di italiano nel test di inglese è un vantaggio per gli stranieri. I divari con i nativi sono
più visibili nelle aree geografiche dove le competenze degli alunni sono più al nord mentre al sud c’è una
tendenza a livellare i risultati verso il basso. Le condizioni socioeconomiche più svantaggiate degli alunni
stranieri hanno un effetto sui livelli raggiunto. Gli immigrati di seconda generazione si avvantaggiano di una
maggiore conoscenza della lingua italiana, ma anche di una maggiore integrazione culturale sostenuta dei
programmi didattici e dal sistema scolastico nel suo complesso.

Nell’istruzione primaria le lingue regionali nei luoghi in cui sono riconosciute e tutelate vengono insegante a
tutti gli studenti sin dal primo anno durante l’orario scolastico. Infatti, fra i paesi europei, in Italia c’è
riferimento a lingue regionali o minoritarie. Lingue straniere nell’istruzione primaria, da qualche anno è
stato imposto l’obbligo dell’inglese dal primo anno della scuola elementare con la programmazione
all’interno dell’orario scolastico. In Italia l’unica lingua obbligatoria è l’inglese, mentre in altri paesi c’è
scelta della lingua straniera. È un piccolo passo avanti aver messo una lingua a partire dalla scuola
elementare. Ci sono paesi ancora in cui non è obbligatorio, essendo anglofoni. Il problema è quello della
formazione dell’insegnante. Non esistono nella scuola elementare insegnanti preparati ad hoc per fare
questo. È come il CLIL, c’è una corsa al ribasso. Può capitare un insegnante bravissimo ed ha una
competenza molto forte, come può capitare un altro che non lo sa fare. È questa disomogeneità che crea
diversità. Per insegnare si deve avere il livello B2 del QCER. Appena introdotta questa novità, si dovettero
riciclare insegnanti e prepararli con dei corsi, non si assunsero altri insegnanti.

29/04/2022

In EU abbiamo forti politiche legate a quello che l’EU ci dice. In paesi in cui i processi migratori sono
processi che hanno una lunga data, si mettono in atto delle politiche attenta alle lingue delle comunità che
hanno formato lo stato, come in Australia, che ha investito molto sul tema delle lingue d’origine ed è
proprio lì che è stata creata una locuzione, community languages, che vengono offerte a tutti i bambini a
partire dalla scuola dell’infanzia. Se si prendono i dati delle comunità italiane in Australia, nelle scuole
elementari ci sono centinaia di bambini che studiano italiano, questo fa parte di un’attenzione linguistica.
Joe Lo Bianco è uno dei linguisti ancora viventi, si è sempre interessato di costruire delle politiche
linguistiche, a livello di stati o di piccole istituzioni. Ci vuole uno stato che ti sostiene, che capisce che la
politica linguistica è importante. Negli anni 80 ha messo in atto un forte politica linguistica, che faceva sì si
promuovessero tutte le lingue delle comunità immigrate. La domanda che ci dobbiamo porre è si può
educare al plurilinguismo? I bambini sono sia innocenti prebabelici, non hanno paura della diversità
linguistica, sia hanno delle potenzialità fisiologiche che li rendono più accoglienti e capaci
all’apprendimento delle lingue. Siamo noi adulti che istilliamo la paura della diversità linguistica e mettiamo
le lingue in contrasto le une con le altre, come si creassero dei danni sull’apprendimento di un’altra lingua.
Alle scuole elementari è dove comincia la coscienza dell’esistenza di sistemi diversi. con l’avanzamento nel
sistema scolastico cresce l’idea che la competenza linguistica sia qualcosa che deve essere utile. Si privilegia
un’unica lingua. Questo ce lo si porta dietro fino all’università, si internazionalizza come se questa dovesse
passare per un’unica lingua. L’educazione al plurilinguismo è possibile. Nei centri di alfabetizzazione a
Firenze, dove si insegnava l’italiano ai bambini appena arrivati, sostengono l’autenticità dei bambini. C’era
una forte attenzione all’italiano, ma anche una consapevolezza della necessità di non far perdere ai bambini
la loro lingua, non renderli disorientati, con una volontà di reprimere la loro lingua madre ma ancora non
pronti a conoscere la lingua di scolarizzazione. Un trattamento equo di tutte le lingue. Accanto a questa
attenzione nei confronti del mantenimento delle lingue, c’era attenzione legata alle famiglie. Un aiuto, un
sostegno alle famiglie, che fosse anche accoglienza linguistica. Si sostiene il diritto all’istruzione, che si lega
con i diritti linguistici. La diversità delle culture e delle lingue veniva sentita come una ricchezza che poteva
arricchire anche tutti gli altri bambini. Non è che non sono stati fatti tentativi, ne sono stati fatti tanti, è
mancata una politica linguistica a livello nazionale. Sono mancate indicazioni nazionali che andassero oltre
la logica dell’emergenza. A partire dalla seconda metà degli anni 70 sono arrivati nelle grandi città flussi
importanti. Ferrarotti, sociolinguistico, per primo si accorge che attorno alla stazione Termini cominciano a
concentrarsi persone di lingua diverse, persone che stabilmente vivono nel nostro paese. Subito dopo si è
cominciato a dire allora questa nuova mappa demografica cosa comporterà? Queste persone portano con
sé lingue e culture diverse. In tutti i documenti pubblicati e scritti negli anni 90 dal MIUR c’è sempre logica
dell’emergenza. Tutto è stato affrontato con questa logica. Non si è mai pensato se non camuffando l’idea
che la risposta italiana fosse interculturale. L’ingresso dei bambini stranieri non era un’emergenza ma stava
diventando un fenomeno strutturale. Le classi non erano più solo frequentate da bambini italofoni non era
una cosa destinata a nascere e morire nel breve tempo, ma si consolidava ogni anno di più. Molte di queste
azioni fatte (anche fatte bene) non sono state nemmeno documentate. La scuola non è stata capace di
creare un progetto magari anche replicabile, quindi, a casi belli e importanti a casi di disinteresse totale alle
questioni linguistiche. Tutto questo è legato a motivi politici. Se l’immigrazione è vista come un problema si
cerca di orientare tutte le azioni sul tema dell’integrazione, del far sì che i bambini stranieri si integrassero
all’interno della società, che significa cancellazione delle loro identità pregresse. Inclusione significa invece
rendersi conto che esistono comunità diverse e l’inclusione non deve andare a svantaggio di queste
persone. L’insegnante a volte è un eroe, si è trovato come un soldato in trincea, sono arrivati bambini che
non parlavano italiano e questi insegnanti non avevano capacità di insegnare italiano. La scelta anche giusta
è stata di mettere i bambini nelle classi relative alle loro età anagrafiche. Questa scelta è molto coraggiosa e
importante, mettere bambini e ragazzi con bambini più piccoli dal punto di vista cognitivo e psicologico può
creare danni enormi. Inserimenti basati sull’età anagrafica, ma è mancato il supporto. Gli insegnanti si sono
trovati da soli a gestire situazioni complesse. Paradigma della fotocopiatrice, il materiale didattico più usato
è stata la fotocopia. Gli insegnanti hanno dovuto costruire materiali per questi bambini e ragazzi.
L’esperienza che il singolo ha fatto non è stata trasferita ad altri. Si passa da casi esemplari al niente. Si può
educare al plurilinguismo? In questo piccolo paese dell’Alsazia iniziano ad arrivare bambini con lingue e
culture diverse, le maestre usano questa occasione come uno spunto di riflessione sulla valorizzazione della
diversità. Non è una mentalità solo italiana, se arrivo con la lingua turca cosa devo fare? Devo imparare il
francese e se parlo turco lo faccio a svantaggio della lingua francese. È uno stereotipo molto radicato. Ci
sono nella scuola problemi di razzismo, l’accoglienza da parte degli autoctoni non è delle migliori. L’idea
delle maestre è costruire un progetto di language awareness, consapevolezza di presenza di lingue diverse.
Quasi contemporaneamente si rivolgono a dei ricercatori universitari. Cominciano dalla diversità linguistica
dei bambini che vivono lì, quindi dall’alsaziano. Se avessero iniziato da un’altra lingua immigrata la
comunità locale non avrebbe reagito bene. Hanno deciso di portare all’interno delle classi le mamme dei
bambini che per un giorno diventavano maestre di lingue culture. Le porte della scuola sono aperte, si
cambia prospettiva di accoglienza delle famiglie. La ricercatrice dice che il programma può essere letto in
diversi modi. C’è la possibilità fra le pieghe di un programma di essere innovativo. I ricercatori partono da
un’esperienza pensata dalle insegnanti che dicono bisogna far capire ai bambini che il francese non è la
lingua suprema, ma che esistono anche altre lingue e culture. L’idea iniziale è l’idea delle insegnanti stesse.
Si sono trovate in una situazione in cui per evitare episodi di intolleranza e razzismo come si può iniziare a
prendere una strada diversa. La scelta è stata di creare delle enclave, isole abitate da immigrati, a Parigi per
esempio. Questi quartieri sono stati e sono di scontro. Significa non avere possibilità di migliorare la propria
posizione. Qui si parte da una prospettiva diversa, creare spazi di convivenza. Entrare a scuola significa
uscire da casa per le donne. Cambio di prospettiva del ruolo del docente, voglio far capire che in tante
situazioni sono come loro, è importante per i bambini capire che l’insegnante è un essere umano, si devono
creare relazioni, senza perdere l’autorità. Quello che hanno scelto le insegnanti è di responsabilizzare i
bambini e i genitori che si può crescere insieme. Un altro aspetto importante è che ci si esprime con tutto il
corpo. Si comunica anche attraverso il gesto. La lingua si porta dietro un fortissimo bagaglio culturale, che si
esprime con segni che non sono solo linguistici. Nel contesto familiare le lingue usate sono lingue che si
mischiano. L’atteggiamento verso il monolinguismo è europeo, è il nostro atteggiamento mentale che si
debba conoscere una sola lingua, ci sono paesi in cui i bambini a 5 anni spesso sono trilingue o in paesi in
cui vivono lingue diverse che trovano spazio quotidiano nel repertorio di ciascun parlante. La capacità di
riflettere sulle lingue è presente anche nei bambini. Progetti di consapevolezza verso le lingue si possono
fare.

03/05/2022

Con Marinis si è avuto il punto di vista della linguistica acquisizionale. Si è sottoposto questi gruppi di
bambini che frequentavano la stessa scuola, la cui differenza era la presenza di una lingua ulteriore rispetto
alla lingua di scolarizzazione, coltivata in famiglia e attraverso un’oretta di corso il sabato mattina. L’analisi
riguardava vedere come questi due gruppi si comportavano di fronte a questioni linguistiche. Marinis è uno
studioso di linguistica acquisizionale, gli studiosi di linguistica acquisizionale sono studiosi che sono molto
attenti alla lingua come forma, studiano i progressi che ciascuna apprendente fa, fanno degli studi
longitudinali, seguono l’apprendente nel tempo nel suo percorso di acquisizione, analizzano i progressi che
ogni apprendente fa nel tempo acquisendo spontaneamente la lingua, senza quei processi di accelerazione
che hanno luogo in classe, piuttosto nella vita di tutti i giorni, senza essere esposto a un processo guidato. Si
è attenti ai processi formali e si pensa che ci siano delle tappe di sviluppo linguistico che si verificano a
prescindere dall’altra lingua parlata dall’apprendente. L’obiettivo è dimostrare che anche in un
apprendimento spontaneo, non condizionato, naturalmente si sviluppano le varie forme della lingua. gli
studiosi hanno visto che ci sono quelle che vengono chiamate varietà di apprendimento della lingua, che
funzionano come se fossero dei sistemi incompleti che a mano a mano si avvicinano alla lingua target. È
una sequenza naturale ma sempre ricorrente. Spesso essendo legati ad un’attenzione sulle forme operano
con dei test che si basano sulla forma piuttosto che sull’uso. Lavorano su spezzoni di lingua, dedurre dal
fatto di saper svolgere quei compiti è segno di apprendimento, lascia un po’ di amaro in bocca. Una
variabile fondamentale nella gestione del bilinguismo è la lingua che si possiede come L1 o la lingua che si
prende come L2. È vero che erano gruppi arbitrari ma le ricerche si fanno così in linguistica. Esiste anche
un’applicazione della linguistica acquisizionale, che si chiama didattica acquisizionale, che dice all’interno
della classe se esistono sequenze naturali di apprendimento, vanno seguite. Perché non seguire le tappe
naturali di apprendimento? Ci sono insegnanti di lingua che lavorano con questo tipo di approccio, insegno
le lingue come vengono apprese in modo naturale. L’esposizione ad un input in una lingua diversa diventa
intake, competenza in un’altra lingua. Quello che è importante è insegnare a saper fare con la lingua,
imparare a gestire i diversi domini, contesti.

Nell’istruzione prescolare e primaria, pur essendoci una forte capacità da parte dei bambini di gestire il
contatto fra lingua diverse, da una parte non si valorizzano le lingue e le culture di cui i bambini sono
portatori. Language awareness, si rende consapevoli i bambini che anche in un ambiente piccolo come
quello della classe esistono lingue e culture diverse. La non continuità, il lasciare tutto in mano alla scelta di
docenti, ha avuto risultati ma non sempre, può aver portato a fenomeni di quasi chiusura nei confronti
della diversità. Già nella scuola primaria se si parla di lingua straniera si parla esclusivamente di inglese,
ritenuto utile per il futuro dei bambini. Lo è, nessuno lo nega, non funziona l’esclusività, che aumenta nel
percorso scolastico, portando i bambini a chiudersi e a non avere quella curiosità nei confronti degli altri,
che hanno quando sono piccoli. I risultati, poi, non sono neanche dei migliori, non si può dire che dopo 13
anni i ragazzi sappiano la lingua inglese. Nella scuola secondaria le lingue immigrate non sono previste,
manca un sostegno strutturale per l’italiano come lingua seconda, ci sono progetti sulle lingue regionali e
minoritarie nei luoghi in cui queste lingue sono parlate, la lingua straniera è l’inglese con l’eccezione della
scuola secondaria di primo grado in cui è prevista una seconda lingua straniera, francese, spagnolo o
tedesco. Viene imparata solo per i 3 anni della scuola secondaria di primo grado, perché non si prosegue la
seconda lingua? Ha poco senso come cosa. Nella scuola secondaria di secondo grado è stato introdotto il
CLIL. La preparazione dell’insegnante è fondamentale, l’insegnamento del contenuto in lingua è riservato
all’insegnante disciplinare. Nei programmi scolastici l’insegnamento di una disciplina in una lingua diversa
ha come obiettivo rafforzare la competenza linguistica, ma la cosa non funziona. Con la legge 30 ottobre del
2008, n.169, non sono tanti anni che è obbligatorio l’insegnamento di lingua straniera fino al termine della
scuola secondaria superiore. L’età di apprendimento è un’età che diminuisce, si tende all’inserimento di
una lingua straniera a un’età abbastanza precoce. Ci sono paesi in cui non si studia nessuna lingua
straniera, come in Irlanda. Ci sono tanti sistemi educativi che offrono le lingue straniere come opzionali
nell’istruzione primaria e secondaria generale. Lingue obbligatorie nella scuola dell’obbligo, prevale
l’inglese. La prova di inglese delle INVALSI che prevede un test di lettura e di ascolto dà un’idea di scuola
molto diversificata, perché una percentuale di studenti che non hanno raggiunto la sufficienza. La stessa
curva che c’è per l’italiano c’è per la prova di inglese. Si vede che le regioni del sud vanno peggio. Anche se
non va malissimo. La scuola elementare funziona in Italia. I livelli peggiorano nella scuola media. Ci sono
regioni in cui la maggioranza non raggiunge la sufficienza. È colpa degli studenti? Il contesto socioculturale e
socioeconomico ha un impatto forte sulle competenze linguistiche, ci sarà un problema di come queste
lingue vengono insegnate. I ragazzi delle scuole elementari sono fortissimi, questa competenza decresce
con l’avanzare del percorso scolastico. Ci sono tantissimi fattori che influenzano questo, tra cui l’attenzione
che il paese dà alla formazione degli insegnanti. Al termine della quinta superiore la maggioranza non
raggiunge il B1. C’è un dato interessante, quelli che in inglese ottengono i risultati migliori sono nelle regioni
bilingui, come nella provincia autonoma di Bolzano. I fattori che incidono sono tanti, il fatto di vivere in un
contesto plurilingue aiuta nell’apprendimento di altre lingue. Il bilinguismo dato da dialetti non viene
riconosciuto, cosa che ha influenza sulle attitudini degli individui. Sicuramente è importante l’essere in un
ambiente plurilingui, ma i fattori sono talmente tanti che non dobbiamo dimenticare che per esempio i
bambini che vanno a scuola nel sud hanno un numero più basso di scuole, il contatto con la scolarizzazione
precoce aiuta anche in condizioni socioeconomiche e socioculturali particolari. Il contatto con la scuola si ha
molto più tardi. L’attenzione nei confronti della scuola è qualcosa di marcato o meno nelle diverse regioni. Il
semplicemente dire che i ragazzi al sud non sanno, quelli del nord sì, è stupido, non ha a che fare con i
ragazzi, ma da tanti fattori. La media di coloro che finiscono gli studi è tra le più basse del mondo. Va
combattuta questa idea. Uno dei fattori riguarda le competenze degli insegnanti. Solo il 20% di lingua
straniera è stata in un altro paese con un programma di mobilità transnazionale. C’è un grande dibattito in
corso sull’istruzione universitaria secondo cui l’internazionalizzazione passi per il proporre corsi in lingua.
C’è una grande polemica in questo libro della Crusca, che dice fuori l’italiano dall’università? English as a
medium for instruction, usare l’inglese per insegnare. Mettere una lingua contro l’altra non è una politica
linguistica. Dubbio che usare l’inglese sia nell’interesse degli studenti. Pone un problema di equità fra
madrelingua e non. Studiare in italiano è un ostacolo nel mercato del lavoro? Forse no. Importanza di
politiche linguistiche verso il plurilinguismo. L’inglese è usato più di frequente nel sapere scientifico, ma non
è la sola lingua. Pericolo di ampliare questa scelta anche a segmenti più bassi del percorso formativo. In
Italia la gran parte degli studenti che si iscrivono ai corsi in inglese sono italiani. Se la scelta di proporre
questi corsi era per attrarre studenti internazionali, non è riuscito. L’Erasmus è un modo per sperimentare,
non solo la vita in un diverso contesto sociale, ma anche in un contesto educativo diverso.

11/05/2022

Si possono fare delle attività di consapevolizzazione di importanza delle lingue e presenza di altre lingue.
Non dobbiamo imparare tutte le lingue, ma superare la paura della diversità.

Come e se il multilinguismo trovi spazio nei contesti di comunicazione. Che cosa succede in Italia nei
contesti di comunicazione pubblica, intendiamo tutta l’enorme quantità di informazioni che arrivano, per
esempio, dai media, dalla stampa, dagli uffici pubblici. Quanto plurilinguismo vediamo intorno a noi, oltre
alla scuola. Il QCER nelle parti iniziali in cui identifica gli obiettivi che una politica linguistica europea vuole
promuovere e raggiungere, una cosa importante è creare un contesto favorevole al plurilinguismo.
Contesto significa creare le condizioni affinché nello spazio sociale di comunicazione siano presenti le lingue
altre rispetto all’italiano. L’offerta linguistica offerta dai media e dalla televisione è scarsissima. La tv era
uno strumento che portava nelle case degli italiani la lingua italiana, non condivisa da tutta la popolazione.
De Mauro ha detto che ha fatto di più Mike Buongiorno con il suo italiano ristretto della scuola. La tv ha
permesso l’italianizzazione. L’offerta di lingue altre nella tv nazionale è molto ristretta, anche se ci sono dei
casi interessanti. Una scelta che è stata fatta da tanti anni dai media italiani è stata di doppiare
sistematicamente qualsiasi tipo di trasmissione, serie televisiva, cartone. Si è creata una scuola
importantissima di doppiaggio. Questa scelta non favorisce il contatto con le altre lingue. Non è
un’operazione che fanno tutti gli stati. Questi studiosi hanno fatto un’analisi su cosa succede nei paesi
europei. Ci sono diversità a livello del cinema e a livello della televisione. In Italia è stato scelto di doppiare
tutto. La Spagna, l’Italia, l’Austria e la Germania hanno scelto di doppiare. Ci sono paesi, come la Francia, in
cui si va in entrambe le direzioni. In alcuni paesi si usa il voice over. Una scuola fondamentale di doppiaggio
e un’importanza acquisita da questa scuola che tuttora impedisce che venga utilizzato anche il sottotitolato.
Perché ci occupiamo di questo? È emerso che il sottotitolaggio, il far ascoltare ai bambini e ai ragazzi è uno
strumento educativo nell’apprendimento o nel rafforzare le competenze nelle varie lingue. Questa indagine
ha messo in luce che ci sono barriere all’uso del sottotitolaggio. Queste barriere impediscono di scegliere il
sottotitolaggio. Ci possono essere barriere fisiologiche e psicologiche, leggere mentre si ascolta è uno sforzo
cognitivo importante. Si parla di barriere economiche. Le grandi conclusioni che emergono è che il
sottotitolaggio aiuta ad accrescere la competenza nelle lingue straniere, chi è esposto al sottotitolaggio
subisce un acceleramento dello sviluppo della conoscenza. Il sottotitolaggio può aumentare la
consapevolezza e può fornire una motivazione per l’apprendimento delle lingue. Entrare in contatto con
una lingua può tenere alta la motivazione o far scoccare la motivazione. Il sottotitolaggio crea un ambiente
che incoraggia il multilinguismo. La conoscenza di lingue straniere incoraggia a scegliere il sottotitolato
piuttosto che il doppiaggio. Questo per quanto riguarda la televisione nazionale. Adesso si aprono nuove
possibilità, questo è uno studio del 2011, non ne sono stati fatti altri. Ora con la possibilità di avere canali
come Sky, Netflix danno la possibilità di seguire sia con il doppiaggio che il sottotitolaggio, si aprono nuove
vie, nuove strade. Il campo dell’evoluzione linguistica è un tema. È una scelta che pregiudica l’apertura nei
confronti delle altre lingue. È una scelta che fa capire non siamo in un paese così aperto al multilinguismo.
C’è un caso interessante sul quale fare attenzione, riguarda alcune serie prodotte in Italia. Il commissario
Montalbano, non è dialetto siciliano, è una lingua totalmente inventata, ma mette in luce tante varietà, una
varietà che è quella siciliana. Ci sono due serie che hanno portato il dialetto alla ribalta, Gomorra e Suburra,
dialetto romanesco e napoletano aperto a tutti. Gomorra è sottotitolato, rispecchia la realtà della
comunicazione in quei determinati ambienti. Il fatto di aver mantenuto il dialetto rimarca cosa succede in
contesti di comunicazione reale. C’è un’altra lingua, la lingua italiana dei segni, LIS. Entrata molto poco nella
programmazione televisiva. La LIS nonostante ci fossero delle risoluzioni del parlamento europeo del 1988
era fino all’anno scorso non riconosciuta in Italia. Il fatto di essere riconosciuta è fondamentale perché il
riconoscimento si porta dietro la tutela e l’offerta di questa lingua. la cosa bizzarra è che non si è fatta una
legge apposita, ma è stato inserito un emendamento in un decreto sostegno, decreto che durante il Covid il
governo ha approvato per garantire sostegno alle attività colpite dalla pandemia. In uno di questi decreti
c’è questo emendamento che riconosce la LIS e l’inclusione delle persone con disabilità uditiva, poi
approvato dal parlamento il 19 maggio 2021. Il fatto che ci sia voluto tempo per l’approvazione della LIS è
motivato da uno scontro forte tra prese di posizioni diverse nei confronti della lingua. l’ente nazionale
sordi, che raccoglie tutte le associazioni che si occupano dei sordi dice che è un giorno storico per la
repubblica italiana. La federazione per i diritti delle persone sorde e per le famiglie è di tutt’altro parere,
parlano di delusione e amarezza. Perché la battaglia tra chi è a favore della LIS e chi è contrario si gioca sul
tema del superamento della disabilità attraverso impianti cocleari, operazione chirurgica che inserisce
nell’orecchio un impianto. I sordi non hanno mai sentito una lingua, non sarà mai in grado di riprodurla. C’è
chi si batte per avere un impianto grazie alle tecnologie e dovrebbe essere quella la strada da seguire, non il
riconoscimento della lingua dei segni. L’impianto cocleare dovrebbe essere dato offerto dallo stato.
Naturalmente sono sempre estremi, la LIS è una lingua a tutti gli effetti e quindi coltivarla, insegnarla sia
molto importante. Riflettere sulla lingua dei segni ci fa riflettere su come funziona la comunicazione
verbale, le parole non sono tutto, hanno bisogno di altri codici. La LIS si chiama lingua italiana dei segni, non
esiste una lingua universale per tutti i sordi. Anche la lingua dei segni gode di quel nesso fra natura e
cultura, di quell’arbitrarietà di cui godono le altre lingue storico-naturali. Sul fatto che esista un’unica lingua
dei segni è un mito da sfatare. È una lingua pluridimensionale. È un’altra possibilità espressiva, perché
negarla? Non esiste una lingua dei segni universale. Ci sono varietà e dialetti all’interno di uno stesso paese.
La lingua si muove nella bocca di chi la usa, si adatta al contesto, al cambiare del tempo, quindi alle
esigenze linguistiche di quei momenti. L’essere plurilingue aiuta a superare le barriere. Cosa succede in altri
spazi della comunicazione pubblica, nei servizi sanitari, nei servizi per il turismo e nei servizi di trasporto,
ambiti fondamentali nella vita sociale di ciascuno di noi. Quali lingue sono a disposizione negli ospedali?
Situazione estremamente diversificata. In tanti ospedali, servizi per il turismo ci sono le traduzioni dei
dépliant, delle brochure in lingue diverse, ma c’è il problema di come nella nostra lingua viene realizzata la
comunicazione pubblica. La comunicazione pubblica in Italia è una comunicazione che usa una lingua
complessa, burocratica che non rispecchia la lingua parlata. Tradurre testi del genere è un’operazione
complicata e la qualità della comunicazione a volte è terribile. Sia il contesto sia la polisemia delle parole
impongono la presenza di una persona. Molto spesso per motivi di risparmio questo non viene fatto e
vengono fuori cose non decenti. Si scrivono e si offrono dei testi che rimangono incomprensibili alla
stragrande maggioranza della popolazione. La situazione è molto variegata e anche qualitativamente bassa.
C’è poi un altro contesto di comunicazione sociale, che è quello che da qualche anno viene identificato
come linguistic landscape. Non semplicemente la lingua ma altri codici che costruiscono lo spazio di
comunicazione urbano, semiotic landscapce. Linguistic landscape sono le lingue che si trovano nelle
insegne, nelle indicazioni delle strade, nei nomi delle strade, nelle insegne dei negozi, nelle insegne
pubbliche sugli edifici istituzionali, che tutte insieme formano il linguistic landscape di un territorio o di un
agglomerato urbano. Ci mettono in luce la visibilità delle lingue. È chiaro che lo studio dei panorami
linguistici è uno studio che si è sviluppato a seguito delle migrazioni, gruppi di persone, comunità si sono
istallate e con la loro presenza non solo nei contesti di comunicazione familiare, ma piano piano queste
lingue sono emerse anche nei panorami linguistici. Come dicono Landry e Bourhis la presenza di lingue
diverse mette in luce il potere e lo status delle comunità linguistiche che vivono in un determinato
territorio. Anche l’attitudine nei confronti dell’esibizione della propria lingua conta. Mentre tante altre
lingue stanno insieme, ci sono lingue che stanno molto da sole. Insieme alle lingue delle comunità
immigrate, ci sono tante lingue legate a temi turistici. Sul territorio c’è un continuum di lingue presenti, che
si legano l’una con l’altra. O la lingua immigrata da sola o lingua immigrata insieme ad altre o lingua
immigrata con l’italiano o la lingua immigrata con l’inglese, fino ad arrivare al monolinguismo dato
dall’italiano di contatto. Capacità delle lingue di mettersi insieme l’una con l’altra. Queste lingue sono
accettate a livello locale? Mica tanto. Già nel 2010 gli abitanti del quartiere (Esquilino, Roma) cominciarono
a non gradire la presenza di queste lingue. Fu siglato un protocollo che diceva non tutto deve essere in
cinese, l’italiano deve essere visibile. Mentre nel 2003 c’erano tante lingue presenti, nel 2013 c’erano molte
meno lingue, questi processi incidono anche sui cambiamenti sociali ed economici dei quartieri. L’Esquilino
si è gentrificato, si è imborghesito, quartiere di residenza per una classe più elevata. Un altro tema
interessante che si sta sviluppando sempre di più è l’uso del linguistic landscape come strumento per
l’apprendimento linguistico. Malinowski mette in luce che lo studio del linguistic landascape è importante
per le analisi sociolinguistiche, mette in rilievo quanto sia importante per l’apprendimento linguistico, per
stimolare la consapevolezza della diversità linguistica, la partecipazione civica. Un altro settore in cui è
studiato il linguistic landscape sono i panorami linguistici nelle scuole. Anche sugli spazi di comunicazione
sia quelli dati dai media sia quelli degli edifici pubblici sia dagli spazi di comunicazione sociale la paura della
diversità linguistica è ancora molto presente e può costituire uno spazio per politiche linguistiche che
riportano al monolinguismo.

13/05/2022

Quando ci sentiamo sicuri che quello che abbiamo detto sia arrivato al destinatario? La comunicazione
museale è felice o no in Italia? L’opera d’arte è un testo che vive in un contesto.

I linguaggi della comunicazione del patrimonio culturale. Che cos’è il patrimonio culturale? Il primo articolo
della Convenzione del Patrimonio Mondiale dà la definizione di che cosa sia da considerare patrimonio
culturale e cioè un bene avente un valore eccezionale universale sul piano storico, artistico, scientifico…

C’è un patrimonio culturale materiale: monumenti, agglomerati, siti. Esiste anche il patrimonio culturale
immateriale, tutte le tradizioni vive trasmesse dai nostri antenati, tutto ciò che fa parte delle espressioni
orali.
Questo patrimonio immateriale è fondamentale nel mantenimento della diversità culturale di fronte alla
globalizzazione e la sua comprensione aiuta il dialogo interculturale e incoraggia il rispetto reciproco dei
diversi modi di vivere. La sua importanza non risiede nella manifestazione culturale in sé, bensì nella
ricchezza di conoscenza e competenze che vengono trasmesse da una generazione all’altra.

Che cos’è il museo? Un luogo d’eccellenza per la salvaguardia e la tutela del patrimonio, ma che cos’è il
museo concretamente? A. Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro al servizio della
società e aperta al pubblico. Conduce ricerche, raccoglie, conserva, interpreta ed espone il patrimonio
materiale ed immateriale, culturale e naturale. Il museo opera in maniera professionale, etica e sostenibile
ai fini di educazione, riflessione e divertimento. Agisce e comunica in modo inclusivo, variegato e
partecipativo con il pubblico e le comunità diverse. B. Un museo è un’istituzione sociale permanente, senza
scopo di lucro, al servizio della ricerca, della raccolta, della conservazione, dell’interpretazione e
dell’esposizione del patrimonio tangibile e immateriale. Aperto al pubblico, accessibile e inclusivo,
promuove diversità e sostenibilità. I musei operano e comunicano in maniera etica e professionale, con la
partecipazione di varie comunità. Offrono al loro pubblico una verità di esperienze educative, divertenti,
riflessioni e condivisione della conoscenza.

Parole chiave del museo e della società contemporanea, accessibilità, inclusione, partecipazione, ascolto.
Accessibilità significa di carattere fisico, ma anche tecnologico, cognitiva. Intesa in questo aspetto legato
allo spazio, metto in condizione tutti i visitatori di accedervi. Il piano dell’inclusione fa un passo ulteriore,
uno spazio in cui chiunque si senta a proprio agio, il che rende più facile partecipare. Accanto a queste
parole chiave, altre sono comunicazione, educazione, divertimento. Felicità sarebbe troppo, ma se
mettessimo in fila sullo stesso asse queste tre parole, già sarebbe tanto.

Altre due parole chiave sono comunità e pubblici. Sta passando l’idea che non esiste un pubblico di
riferimento, ma esistono più pubblici di riferimento. Comunità di eredità (che hanno ricevuto e si devono
occupare di un bene), anziani, boomers, famiglie, scolaresche, pubblici fragili (persone con esigenze
particolari dal punto di vista fisico, bambini con i BES), turisti, visitatori occasionali, visitatori forti.

I non pubblici sono una sfida, coloro che non hanno mai visitato un museo e che il museo non riesce a
raggiungere o a coinvolgere. Da aggiungere un altro dato sui visitatori dei musei: spesso non ricordano cosa
hanno appena visto.

Il vero valore dei musei sta nel come, perché e da chi vengono utilizzati. Mostre, oggetti, programmi, eventi
e presentazioni forniscono l’opportunità e il contesto per la creazione di valore. E oggi occorre non solo
trovare nuovi modi per fornire in modo coerente e genuino degli attuali utenti dei musei nuove esperienze,
ma allo stesso modo occorre estendere tali benefici di valore a quote sempre più ampie del pubblico, in
particolare quelli con minori vantaggi sociali ed economici, così da rendere maggiormente accessibile e
conosciuto il valore creato da quelle stesse esperienze.

18/05/2022

Come le varie raccomandazioni e la politica linguistica europea vengono implementate nel nostro paese?
Vari livelli, dimensioni, meta-dimensioni e dimensioni della vita che ci circonda ogni giorno, prendendo
come spunto i campi più importanti, come quello della scuola. Parlare di plurilinguismo dal punto di vista
didattico. Come viene affrontato l’insegnamento delle lingue?
Una volta parlato del contesto educativo, in cui le lingue si apprendono e si cerca di accelerare il
procedimento, abbiamo parlato di media audiovisivi, ponendo l’accento sulle nuove tecnologie. L’accesso
alle pubblicazioni in altre lingue è ora facilitato rispetto al passato. Abbiamo visto le lingue nei servizi e nei
luoghi pubblici, non c’è molta attenzione alle lingue. Ci sono problemi di tradizione e di non corrispondenza
tra le lingue presenti in un territorio e le lingue offerte. Ci sono anche questi problemi di corrispondenza.
Abbiamo visto anche il caso del linguistic transfer, di come le lingue sono rappresentate nei panorami
linguistici urbani, come negli anni, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni 90, sono modificati
fortemente i panorami linguistici, sono modificati con le ondate migratorie. Nelle città e negli spazi delle
città erano densamente abitate da persone provenienti da lingue diverse è emersa una nuova forma di
plurilinguismo. Attenzione, la presenza di lingue non è strettamente legata alla presenza della popolazione
della comunità che parla quella lingua in quel luogo, non c’è correlazione. L’emersione delle lingue è data
da tanti fattori, anche extralinguistici. Non sempre la presenza di insegne in lingue diverse dall’italiano
rappresenta la presenza di comunità. Non considerare mai una correlazione netta. Fanno parte del
panorama linguistico urbano anche altre manifestazioni. Questi panorami linguistici urbani cambiano, sono
in continua evoluzione con il volto del quartiere. Quella dei panorami linguistici urbani diventa un’arena di
scontro politico. Le scelte linguistiche fatte sono spesso scelte politiche. Una cosa è l’accordo consenziente,
una cosa sono i divieti e gli obblighi.

L’ultimo settore da considerare è il settore delle imprese. Come e se in Italia il plurilinguismo è sentito come
un tratto fondamentale per l’impresa per presentarsi nel mondo e l’assunzione degli addetti ai lavori. Tanti
studi a partire dallo studio di Gazzola, economista appassionato di lingue, i suoi interessi sono legati al
rapporto tra economia e lingue, studioso ibrido che si occupa di questo legame. Gazzola scrive un articolo
interessante, il valore economico delle lingue. Gazzola ci dice che il multilinguismo porta benefici agli
individui e all’economia nel suo insieme. I vantaggi sono legati a tutta l’economia di un paese. Possono
generare differenze salariali, guadagni di più se conosci più lingue. Tutto questo genera un valore aggiunto
nell’economia e nel PIL, che ci dice quanto cresce l’economia in un paese. Il Canada è uno dei paesi in cui la
differenziale di reddito è stata studiata, c’è un bilinguismo sulla carta che non sempre si trasforma in
bilinguismo di fatto. Le lingue portano ricchezza a livello individuale e a livello del paese. È necessario
diffidare dei luoghi comuni che dicono l’inglese è l’unica lingua importante o che l’inglese mette tutti sullo
stesso piano. L’inglese è quasi una condizione come lo è il possedere una L1, il valore aggiunto è dato dalle
altre lingue. Nel tema dell’importanza delle lingue si è occupata la Commissione europea che ha stressato
fortemente il fatto che conoscere più lingue sia fondamentale per i rapporti economici e commerciali. Sme,
small and medium entreprises, se in queste imprese non ci sono persone che conoscono più lingue, che
cosa perdono? Si sono accorti che su 29 stati europei il fatto di non avere competenze linguistiche
costituisce un problema che dovrebbe convincere le imprese a investire a selezionare personale con
competenze linguistiche o investire nella loro formazione. I risultati dicono che l’analisi delle piccole e
medie imprese emerge una significativa quantità di affari persa a causa della mancanza di competenze
linguistiche. L’11% delle imprese piccole ha perso un contratto perché non c’era la capacità di comunicare.
Le lingue sono importanti e c’è bisogno di competenze linguistiche, ma ancora tanti affari si perdono perché
non c’è capacità di interagire con chi parla lingue diverse. L’inglese non è sufficiente quando si entra nel
vivo delle questioni. L’inglese può essere usati per il primo accesso al mercato, ma una partnership di lungo
termine richiede la conoscenza della lingua del target country. Tutto questo è più facile per le grandi
imprese. È fondamentale la lingua ma la lingua arriva con la cultura.

Forti di questa conoscenza che veniva da ciò che la commissione europea aveva trovato, abbiamo fatto
precedere questo tentativo da un altro esercizio di ricerca, mappatura geo-economico-linguistica. Si è
legato il settore merceologico ai luoghi di esportazione. Abbiamo visto come era la Toscana, si sono fatte 36
mappe per 18 lingue. Quali sono le lingue maggiormente utili alle imprese della Toscana? Si è legata la
lingua al settore merceologico. Un tema emerso è la mancanza di conoscenza della lingua italiana da parte
degli operai, che può avere impatto sul tema della sicurezza sul lavoro. Essendo il tessuto imprenditoriale
prevalentemente formato da piccole e medie imprese, è difficile che abbia un mediatore linguistico. Le
lingue servirebbero anche nel settore dell’impresa.

Sul tema delle lingue e dell’educazione al multi/plurilinguismo, c’è da fare tantissimo in tutti i settori, sia a
livello individuale, sia a livello sociale. Idea di un’educazione plurilingue che riguardi tutte le lingue e al
centro la lingua di scolarizzazione, ma anche le lingue dell’apprendente e le lingue presenti all’interno della
scuola. Studiate come lingue per veicolare altri contenuti. Ogni paese europeo implementa le politiche su
questi temi in modo differente e con più o meno attenzione al plurilinguismo. Servirebbe un grande
progetto di politica linguistica, capace di mettere insieme le migliori forse del mondo della cultura, della
formazione, dell’economia… in grado di trasformare la variazione linguistica da presunto limite a risorsa,
facendo in modo di far sentire e vivere agli italiani il loro plurilinguismo come risorsa di cui siamo
storicamente portatori con le nostre diversità linguistiche regionali e locali. Un progetto di linguistica
politica per l’italiano e le altre lingue, per i nuovi alfabetismi, dovrà essere in grado di attivare processi dal
basso, condivisi dalla comunità linguistica e non sentiti come imposti dal basso; progetti e valori che non
ripropongano la sicurezza linguistica nei termini di uno pseudo-purismo normativizzante, ma che valorizzino
la coscienza della scelta etico-linguistica e la responsabilità individuale e collettiva di tale scelta.

19/05/2022

Il concetto di felicità legato all’evento comunicativo. Il concetto di divertimento. La necessità di agire


sull’allestimento. La creazione di un sistema di senso o di isola felice. La necessità di corrispondere a istanze
e effetti soggettivi ma anche di riflettere sulle caratteristiche del testo nel suo essere e nella sua autenticità.
Il museo didascalico con squadro rigido, il museo come luogo della performance estetica. Il museo come
processo semiotico, simbolico, dinamico.

Il museo comunica attraverso: contenuti di carta, contenuti digitali e contenuti social. I siti istituzionali sono
per i musei il primo biglietto da visita con il quale un’istituzione si presenta. Ci sono contenuti da ascoltare,
audioguide e podcast. Contenuti che investono le abilità legate al parlato: mediatori culturali, educatori,
guide turistiche, incontri d’autore. Anche in questo caso manca la consapevolezza che alla base abbiamo
dei contenuti di carattere audiovisivo: cortometraggi, film, pubblicità. A questi contenuti si aggiungono
contenuti transmediali, come il racconto immersivo. Forme di comunicazione: verbale, non verbale,
paraverbale e visuale. Il paraverbale è ciò che è legato al modo in cui si comunica (le esitazioni, le pause di
silenzio), ciò che dovrei saper veicolare.

Quante e quali di queste abilità legate alla lingua vengono usate nel museo?

Dentro al museo:

- Entrata;
- I sala;
- Altre sale ovvero l’esposizione vera e propria;
- Come mi oriento culturalmente? Pannelli di sala, didascalie, audioguide, qr code, postazioni
multimediali;
- Come mi oriento nello spazio? Segni e simboli di percorrenza.

20/05/2022

La didascalia: collocazione/distanza dall’opera; altezza; stile; informazioni; caratteristiche tecniche del


supporto; relazione tra contenuto, grafica, font. Si può parlare di qualsiasi argomento anche in dimensioni
ridotte. I pannelli spesso sono dei testi-muro. I dati della didascalia tecnica sono nome dell’autore, data di
uscita, titolo, datazione, tecnica, collocazione. Basta un pannello e una didascalia? Bastano pensando ad
anziani, pubblici fragili, nativi digitali? Occorrerebbe forse moltiplicare contenuti e contesti, tenendo conto
dei linguaggi a disposizione? I musei sono finanziati dallo stato, quindi è nostro diritto uscire da lì avendo
capito cosa si è visto. Il catalogo resta lo strumento princeps. Il curatore che racconta la mostra: lessico;
livello di conoscenze richieste allo spettatore; aspetti verbali.

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