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IL PLURILINGUISMO COME RISORSA

Parte prima - Coordinate teoriche e politiche linguistiche educative


Capitolo 1 - Il bi/plurilinguismo: un’introduzione
Inizialmente il bi/plurilinguismo era associato a fenomeni di schizofrenia, crisi d’identità e confusione
mentale. Peal e Lambert (1962) mostrano che il bi/plurilinguismo non è uno svantaggio.

1.1. Evoluzione del concetto di bi/plurilinguismo: una sintesi


MacNamara: bilingue è colui che ha un minimo di competenza in una lingua ulteriore a quella materna
(anche solo in una delle quattro skills).
Diebold: anticipa la “competenza parziale”, affermando che bilingue è colui che capisce ma non può
interagire in L2.
Titone: bilingue è colui che non deve tradurre in L1 per produrre in L2.
Beatens Beardsmore: colui che ha acquisito pari competenze in L1 ed L2. Si parla di continuum
linguistico, anticipando gli studi di “bilinguismo dinamico” (translanguaging).

1.2. Definire il bi/plurilinguismo: alcune prospettive disciplinari. Hamers e Blanc (2000) notano come le
definizioni precedenti si siano soffermate solo su un unico aspetto di bilinguismo, cioè la padronanza e le
competenze, ignorando le dimensioni extralinguistiche.
Gosjean fa notare che il problema è che un bilingue è stato spesso erroneamente considerato come la
somma di due monolingui.
Li Wei (2000) prende in considerazione il livello culturale, psicologico, sociologico e comunicativo.
Mackey: è necessario andare oltre la sfera linguistica.

1.3. Bilinguismi e plurilinguismi: principali classificazioni. La neuroscienza, il cui maggior esponente


italiano Franco Fabbro, si p occupata del fenomeno del bi/plurilinguismo. Un soggetto è bilingue se
conosce 2 lingue, 2 dialetti o una lingua e un dialetto. Le due lingue sono sempre presenti nella mente
del soggetto, ma non creano confusione poiché non interferiscono tra loro. Questo principio di
inibizione viene studiato da Green e ad esso è associato quello della soglia di attivazione (Activation
Threshold Hypotesis): l’attivazione sarà tanto più spontanea tanto più frequente sarà l’utilizzo della
lingua in questione.
Bilinguismo o plurilinguismo non vanno però confusi con diglossia, cioè la comprensione di più lingue o
varietà diverse di lingua socio-funzionalmente differenziate. Nei contesti diglossici la varietà della lingua
si divide per prestigio: elevato o basso.

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La dilalìa si differenzia dalla diglossia perché il codice A è usato, almeno da una parte della comunità,
anche nel parlato convenzionale usuale, e perché, pur essendo chiara la distinzione funzionale di ambiti
di spettanza A e B rispettivamente, vi sono impieghi e domini in cui vengono usati di fatto ed è normale
usare, sia l’una che l’altra varietà, se alternativamente o congiuntamente.
1.3.1. Il fattore età. VI è un luogo comune secondo il quale il bilinguismo è influenzato dal fattore
età, per cui si può avere un bilinguismo precoce (infanzia), precoce simultaneo (acquisizione
contemporanea di due lingue), precoce consecutivo (le due lingue vengono apprese a scuola), o tardivo
(dopo la pubertà). In realtà, non esiste una correlazione diretta tra la variabile età e la capacità di
apprendimento di una L2.
1.3.2. Interdipendenza linguistica e ruolo del transfer. Il bilinguismo bilanciato implica una
competenza elevata in entrambe le lingue in tutti i domini, mentre quello dominante prevede l’uso
prevalente di una lingua rispetto all’altra, che non riesce però a coprire tutti i domini. A seconda
dell’ambiente o della necessità, la lingua più debole può diventare dominante, e viceversa.
1.3.3. L’organizzazione cognitiva delle lingue. Weinreich distinse tra bilinguismo coordinato (la
L2 viene appresa in un contesto differente dalla famiglia) e composito (la L2 viene appresa in famiglia,
come nel caso delle famiglie di immigrati). Nel bilinguismo subordinato un soggetto pensa prima in
lingua dominante per poi tradurre in L2.
L’apprendimento della L2 è influenzato dal livello di proficiency e la loro vicinanza tipologica: più le
lingue sono vicine, maggiore sarà la possibilità per l’apprendente di trasferire risorse già a disposizione
nel proprio repertorio linguistico.
Jim Cummins approfondisce il rapporto tra le competenze linguistiche in L1/L2 e l’importante ruolo del
transfer nell’acquisizione di L2. L’ipotesi dell’interdipendenza linguistica viene chiarita attraverso la
metafora dell’iceberg: mentre al di sopra della superficie le punte dell’iceberg (le lingue note), sono
riconoscibili e apparentemente separate, sotto la superficie – nella mente dell’apprendente − le due
lingue operano attraverso lo stesso sistema centrale di processazione. Questa competenza, la CUP
(Common Underlying Proficiency), faciliterebbe i processi di transfer, ovvero il passaggio di nozioni e
saperi linguistici da una lingua all’altra.
1.3.4. Uso funzionale delle abilità linguistiche. Si può comprendere una lingua ma non essere in
grado di parlarla? Si ha una distinzione tra bilinguismo ricettivo (o passivo) e bilinguismo produttivo (o
attivo). Quello passivo spesso si trasforma in “latente, dato che col tempo la lingua può andare perduta,
ma il fatto che non sia più “attivo” non significa che non abbia più importanza nell’acquisizione
linguistica.
1.3.5 Valore sociale e rappresentazioni delle lingue. Qual è lo status delle lingue coinvolte nel
plurilinguismo? Quali sono i rapporti di potere tra di esse? Nei soggetti in cui l’acquisizione di una

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seconda lingua avviene successivamente a quella della L1 (bilinguismo consecutivo), la L2 va
necessariamente a modificare, oltre che l’organizzazione mentale delle conoscenze pregresse, anche lo
status e il mantenimento della L1. In base a queste considerazioni, Lambert distingue fra bilinguismo
additivo (le due lingue vengono sviluppate e mantenute parallelamente) e bilinguismo sottrattivo (una
delle due lingue va gradualmente perduta a causa dell’uso crescente dell’altra): quest’ultimo è il caso
della seconda generazione provenienti da famiglie migranti. Se l’ambiente circostante (familiare, sociale,
scolastico) attribuisce sufficiente valore ad entrambe le lingue, è possibile che il soggetto trarrà i massimi
benefici dalla sua esperienza bilingue e che L1 fungerà da supporto all’acquisizione di L2 e viceversa.
Fishman distinse tra ‘bilinguismo popolare’ (folk bilingualism), tipico dei membri di una comunità
linguistica minoritaria che si trovano a dover apprendere la L2, lingua dominante della comunità
ospitante e, quindi, dotata di alto prestigio nel contesto dato, e ‘bilinguismo elitario’ (élite bilingualism),
legato ad uno status di prestigio della L2, generalmente una lingua straniera ricercata soprattutto dai
ceti medio-alti come valore aggiunto nella formazione linguistica dei propri figli.

1.4. Valorizzare il plurilinguismo: benefici e qualche falso mito. Dal punto di vista cognitivo, valorizzare
il bi/plurilinguismo significa dare visibilità e potenziare la capacità dell’apprendente di saper riflettere sul
funzionamento e sulla struttura della lingua, ovvero di fare leva sulla sua consapevolezza metalinguistica
(language awareness). I soggetti plurilingui hanno una maggiore consapevolezza della natura del
linguaggio e una maggiore flessibilità mentale dovuta alla conoscenza di più lingue. La conoscenza e
l’apprendimento di più lingue sviluppa una maggiore capacità di distinguere tra la forma e il significato
delle parole, consentendo di intuire come ad esempio il concetto di ‘libro’ (significato) possa essere
associato a più parole in diverse lingue (significante). Questa maggiore disponibilità di significanti
aumenta la capacità di riflessione sul linguaggio e sui vari sistemi linguistici, stimolandone l’acquisizione.
Un altro potenziale beneficio del bi/plurilinguismo è quello legato all’attenzione selettiva, ovvero alla
maggiore capacità di concentrarsi su un determinato oggetto di interesse e di rielaborare le informazioni
rilevanti senza farsi distrarre da informazioni accessorie o dati inutili. L’attenzione selettiva e
l’indipendenza dal campo contribuiscono ad una spiccata capacità di problem-solving.
La conoscenza di più lingue, inoltre, aumenta la flessibilità e l’originalità del pensiero: i parlanti
bi/plurilingui imparano più precocemente a cogliere le necessità comunicative dell’interlocutore, a
cambiare lingua o registro per adattarsi ai suoi bisogni, sviluppando così una maggiore empatia
comunicativa.

Capitolo 2 - Plurilinguismo e educazione linguistica

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Una visione del repertorio plurilingue degli studenti può costituire un vantaggio e una risorsa di
apprendimento. Con la cosiddetta ‘svolta plurilingue’, i documenti di politica linguistica dell’Unione
Europea e, ancor più, quelli prodotti dal Consiglio d’Europa hanno largamente promosso l’adozione di
una prospettiva plurilingue nell’insegnamento/apprendimento delle lingue, a partire dal Quadro
comune europeo di riferimento (2001).
Il termine plurilinguismo si riferisce alla capacità dei parlanti di usare più di una lingua e considera le
lingue dal punto di vista di coloro che le parlano e di coloro che le apprendono, mentre multilinguismo,
rimanda alla presenza di più lingue in una determinata area geografica, indipendentemente dai loro
parlanti: così, il fatto che due o più lingue siano presenti in un’area geografica non implica
automaticamente che i suoi abitanti siano in grado di usare più di una di queste lingue.
Conteh e Meier (2014) e May (2014) parlano di “svolta plurilingue” (multilingual turn), fondata sulla
consapevolezza che apprendenti ed insegnanti portano in classe diversi saperi e risorse linguistiche che
rappresentano una sfida, ma anche una grande opportunità nell’apprendimento linguistico ed oltre.
Tutto ciò si intreccia con la storia di altre ‘svolte’ plurilingui in ambiti di ricerca affini come la
sociolinguistica e, soprattutto, il campo di studi noto come critical applied linguistics. Tra i suoi fondatori
spicca la figura di Alastair Pennycook, che mise in evidenza la reciproca influenza tra la dimensione
educativa e quella sociale. Di conseguenza, la didattica delle lingue riconosce l’importante ruolo delle
famiglie e delle comunità nella costruzione degli apprendimenti degli alunni.
Il plurilinguismo stesso viene concepito come una sorta di lingua franca in cui le lingue sono
strettamente interconnesse.
Si passa così da una visione che vede nel bi/plurilinguismo un deficit ad una di valorizzazione del
fenomeno. L’importante implicazione che ne deriva è che le lingue non sono realtà fisse e monolitiche,
ma appartengono a tutti i parlanti e non solo agli autoctoni.
Il focus degli studi dell’insegnamento linguistico si sposta così dal modello ideale del native speaker alla
nozione più complessa e fluida di “voce” e all’idea di lingua come pratica sociale che si ritroverà anche
nel Quadro comune europeo attraverso la nozione di “agente sociale”. Secondo questa prospettiva, per
esprimere la propria identità il locutore/attore plurilingue deve crearsi una sua ‘voce’ personale in
ciascuna delle lingue note, attraverso le sue diverse lingue e in tutto il suo repertorio linguistico: essa è
al contempo l’espressione della sua stessa identità e una prospettiva sul mondo e gli permette di agire
come soggetto plurilingue e pluriculturale.

2.2 Il multi-/plurilinguismo nelle politiche linguistiche europee: competenze chiave

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A partire dagli anni ’50 ci sono stati molti progetti ed i programmi europei che hanno promosso
l’apprendimento di più lingue e la valorizzazione della diversità linguistica e culturale dell’Unione
Europea, e dal 2000 in particolare le istituzioni europee si impegnano per una sempre maggiore
diffusione del multilinguismo. La diversità linguistica e culturale costituisce infatti un elemento
costitutivo dell’Unione Europea e della sua identità fin dal Trattato di Roma (2005), nel quale il principio
dell’“unità nella diversità” viene assunto come suo valore fondante, in antitesi al modello del melting
pot statunitense in cui le differenze si fondono. Anche dal punto di vista sociale e culturale la posizione
dell’Europa a favore del multilinguismo è chiara, in quanto le competenze linguistiche aumentano le
possibilità di lavorare, studiare e viaggiare in tutta Europa e permettono la comunicazione interculturale.
Le politiche linguistiche europee a favore dello sviluppo del multilinguismo hanno investito molto sulla
formazione e sull’educazione linguistica, articolandosi attorno a due assi principali:
 l’avvicinamento precoce alla diversità linguistica e culturale attraverso l’inserimento delle LS nei
curricula fin dalla scuola dell’infanzia e la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti, la
ricerca e la diffusione di metodologie e tecnologie didattiche;
 l’educazione permanente, che coinvolge l’intera persona facendo in modo che ogni sua
esperienza possa fungere da fonte di educazione, come ben compendiato nelle espressioni
Lifelong Learning e Lifewide Learning; formazione e istruzione lungo tutto l’arco della vita
costituiscono un requisito fondamentale per esercitare una cittadinanza attiva e democratica
che, in una società multilingue e multiculturale, richiede necessariamente competenze
linguistiche e interculturali.
Le istituzioni europee si sono occupate anche della tutela delle lingue minoritarie e regionali, dei dialetti,
delle comunità alloglotte nei Paesi membri e della promozione della diversità linguistica e dell’aumento
delle competenze in lingue straniere europee e non, perseguiti attraverso una crescente diversificazione
dell’offerta linguistica delle istituzioni formative, il sostegno alla mobilità internazionale di studenti e
docenti, e così via1.
Nel 2018, il Consiglio dell’Unione ha emanato delle nuove Raccomandazioni relative alle competenze
chiave all’apprendimento permanente, tra cui quella alfabetica funzionale e quella multilinguistica
La prima competenza chiave (“competenza alfabetica funzionale”) è connessa alla seconda
(“competenza multilinguistica”): entrambe rappresentano la necessità di sviluppare le principali abilità
linguistiche (comprensione e produzione orale, comprensione e produzione scritta) in una varietà di
contesti sociali e culturali. Allo stesso modo ci si concentra sulle competenze interculturali.

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Tutto ciò, però, in un certo senso mette in ombra la presenza delle lingue materne ed etniche degli immigrati residenti in
Europa. Finché l’educazione dei migranti si concentrerà solo sulla conoscenza della lingua del Paese ospitante e trascurerà di
considerare i repertori plurilingui dei migranti come una risorsa, le politiche di integrazione non saranno mai del tutto
efficienti.

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A tale riguardo, le Raccomandazioni fanno espresso riferimento al QCER e al suo volume integrativo
noto come Companion Volume (Consiglio d’Europa, 2018), che al Quadro ha aggiunto nuovi descrittori
relativi alla mediazione, all’interazione online e un ulteriore livello linguistico (Pre-A1).
Lingua e cultura di origine (LO), lingua e cultura straniera (LS), lingua e cultura del Paese di arrivo (L2)
sono – o dovrebbero poter diventare − parti costitutive di pari dignità di una più ampia “competenza
multilinguistica”.

2.3 La competenza plurilingue e pluriculturale: dal Quadro Comune al Companion Volume


Il concetto di plurilinguismo trova diffusione grazie al Quadro, in cui è descritto come la capacità che una
persona, in quanto soggetto sociale, ha di usare le lingue per comunicare e partecipare a interazioni
interculturali, in quanto padroneggia, a livelli diversi, competenze in più lingue ed esperienze in più
culture. L’aspetto ‘plurilingue’ è strettamente legato, come si è visto, a quello ‘pluriculturale’. Questa
definizione mette in evidenza anche l’importanza delle ‘competenze parziali’, ovvero competenze di
diverso livello e in differenti domini (personale, educativo, pubblico, professionale) in una o più lingue 2.
Il parlante di riferimento dell’insegnamento linguistico non è più solo un ipotetico parlante nativo, ma
l’apprendente stesso in quanto “agente sociale” che, a seconda del contesto e dell’interlocutore,
seleziona dal proprio repertorio linguistico le risorse più idonee alla situazione data.
Solo recentemente la competenza plurilingue e pluriculturale ha trovato una descrizione dettagliata nel
Companion Volume, il quale presenta 52 nuovi descrittori relativi ad essa che ribadiscono l’importanza di
far leva sulle conoscenze pregresse dell’apprendente nello sviluppare ulteriori competenze linguistico-
comunicative. Con alcune eccezioni per i livelli più alti (C1-C2) e più bassi (Pre-A1), questi descrittori di
competenza sono forniti per tutti i livelli linguistici ed organizzati in 3 sottocompetenze.
a) la capacità di fare ricorso al proprio repertorio pluriculturale (building on pluricultural
repertoire), in cui sono inclusi descrittori e nozioni relativi alla competenza interculturale, come,
la disponibilità ad offrire e chiedere chiarimenti per evitare fraintendimenti.
b) la comprensione plurilingue (plurilingual comprehension), che fa riferimento alla capacità di
usare le proprie conoscenze e competenze in una o più lingue come risorse per la comprensione
di testi in ulteriori lingue e raggiungere così i propri scopi comunicativi.
c) la capacità di fare ricorso al proprio repertorio plurilingue (building on plurilingual repertoire),
che include descrittori come la capacità di adattarsi alla situazione e di prevedere quando e in
che misura l’uso di più lingue è utile ed appropriato e quella di adeguare la propria produzione
linguistica in base alle competenze linguistiche degli interlocutori.

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Secondo la teoria della multicompetenza di Vivian Cook (2002), ogni lingua che viene appresa cambia l’assetto preesistente.

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Con il Companion Volume la prospettiva delle politiche linguistiche educative europee è ancora più
netta: da una visione ‘verticale’ o monoglossica del bi/plurilinguismo, basata sull’apprendimento
separato di più lingue e al raggiungimento di performance linguistiche sul modello del native speaker, si
passa ad una visione più ‘orizzontale’ e democratica o eteroglossica, in cui viene valorizzata anche la
capacità di mettere in relazione le diverse lingue-culture conosciute o le loro varietà per una
comunicazione e un apprendimento efficaci.

2.4 L’educazione plurilingue e interculturale nel contesto europeo: alcuni quadri di riferimento
Nel Quadro non si parlava che vagamente del ruolo della lingua di scolarizzazione con cui è impartita
l’educazione a partire dai primi anni scolastici, che non sempre coincide con la lingua ‘materna’.
Il progetto del Consiglio d’Europa “Lingue nell’educazione, Lingue per l’educazione” (Languages in
Education, Languages for Education) si proponeva di unificare le politiche linguistiche educative europee
in una sola piattaforma. Il Documento Europeo di Riferimento per le Lingue dell’Educazione (DERLE) ha
riportato al centro del dibattito quanto scritto nel capitolo 8 del QCER sul rapporto tra competenza
plurilingue e costruzione curricolare, proponendo un curriculum plurilingue in cui tutte le lingue
dell’educazione possano trovare una propria collocazione.
2.4.1 Le lingue dell’educazione. Il DERLE esplora anche il concetto di “lingue dell’educazione”.
Tutte le lingue presenti nel contesto scolastico (nazionali/ufficiali, straniere, regionali, minoritarie, ecc.)
compartecipano allo sviluppo delle competenze plurilingui e interculturali funzionali all’esercizio della
cittadinanza. Al centro di tutto c’è la lingua di scolarizzazione (language of schooling), in genere la lingua
ufficiale o ‘nazionale’ di un determinato Paese, vista sia come materia scolastica e disciplina
d’insegnamento al pari di altre (“lingua come materia”) che come lingua veicolare degli apprendimenti
disciplinari nelle altre materie (“lingua/e delle altre materie”) e dunque trasversale al curriculum.
Nel DERLE la lingua di scolarizzazione e, di conseguenza, della socializzazione, è vista anche come un
mezzo linguistico di trasmissione dei valori e delle norme della comunità (nazionale, regionale o
minoritaria) in questione.
2.4.2 Il curriculum plurilingue. La Guida per i curricula (2016) indica gli orientamenti e le azioni
da compiere per realizzare l’EPI (educazione plurilingue e interculturale) nei curricula scolastici,
proponendo due prospettive o possibilità di integrazione e, per ognuna di esse, due ambiti di attuazione
che facilitano la convergenza tra lingue.
1. L’evoluzione del curriculum verso una migliore sinergia degli apprendimenti, che presuppone a
sua volta un migliore coordinamento tra insegnamenti delle LS e classiche e la ricerca di coerenza
ed economia tra i diversi insegnamenti;

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2. l’EPI come finalità esplicita del curricolo sia per le lingue straniere e classiche che per la lingua
di scolarizzazione, base stessa dell’EPI.
La proposta curricolare della Guida è basata su due dimensioni connesse tra loro, caratterizzate dalla
ricerca di coerenza o continuità nei curricula di ogni ordine e grado scolastico:
- una dimensione orizzontale, intesa come coerenza sincronica, per livello e per anno, cioè come ricerca
di trasversalità tra le lingue e le altre discipline in termini di obiettivi, contenuti, metodi, materiali e
modalità di valutazione;
- una dimensione verticale, ossia la continuità a livello diacronico e, quindi, l’avanzamento nello sviluppo
di competenze lungo il percorso scolastico ed oltre (lifelong learning).
L’«economia curricolare» è l’organizzazione coerente delle parti che costituiscono l’intero curriculum
relativo alle lingue. A tal proposito vi è una suddivisione delle lingue coinvolte nel curriculum scolastico
tra le lingue come discipline linguistiche (DL), le discipline “non linguistiche” (DNL) e tra DL e DNL.
Quest’ultima area di razionalizzazione è caratterizzata dalla trasversalità linguistico-cognitiva.
Occorre quindi modificare i curricula scolastici in base ad attività plurilingui che promuovano gli scambi
tra insegnanti e tra studenti, e che incoraggino questi ultimi a familiarizzare anche con altre lingue oltre
a insegnate a scuola.
2.4.3 Competenze e risorse dell’apprendente. Le competenze globali individuate dal CARAP
(ossia la “consapevolezza dei fenomeni linguistici”) si dividono in sottocompetenze. Si tratta nello
specifico dell’approccio interculturale, dell’éveil aux langues, della didattica integrata delle lingue e
dell’intercomprensione tra lingue affini.
Le competenze globali dell’apprendente secondo il CARAP
Secondo il CARAP, le competenze globali dell’apprendente valgono per ogni lingua e cultura e riguardano i
rapporti tra le due entità. Tali competenze, inoltre, sono alla base di varie forme di sapere, saper fare e saper
essere (le cosiddette “risorse interne” dell’apprendente.
C1. Competenza nel gestire la comunicazione linguistica e culturale in un contesto di alterità
 Competenza di: risoluzione dei conflitti/ostacoli/malintesi, negoziazione, mediazione e adattamento
C2. Competenza di costruzione e ampliamento di un repertorio linguistico e culturale plurale
 Competenza: nel trarre vantaggio dalle proprie esperienze interlinguistiche e interculturali e nell’attivare
processi di apprendimento più controllati in contesti di alterità
C3. Competenza di decentramento
C4. Competenza nel dar senso a elementi linguistici e/o culturali non familiari
C5. Competenza di distanziamento
C6. Competenza nell’analisi critica della situazione e delle attività (comunicative e/o di apprendimento) in cui si
è impegnati
C7. Competenza nel riconoscimento dell’alterità

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In aggiunta a queste competenze, l’apprendente deve poter sviluppare tre livelli di “risorse interne”:
 knowledge [K]: conoscenze dichiarative (sapere) = fattori personali relativi agli atteggiamenti, alle
motivazioni, ai valori e all’identità del discente;
 attitudes [A]: atteggiamenti (saper essere) = “saper osservare/analizzare”, “saper
identificare/situare”, “saper parlare delle lingue e delle culture”, ecc.;
 skills [S]: abilità procedurali (saper fare).
Il REFIC (Référentiel de compétences de communication plurilingue en intercompréhension) ha realizzato
il progetto Miriadi per una migliore comprensione delle competenze di comunicazione in un contesto di
apprendimento/insegnamento attraverso l’intercomprensione. Il quadro offre una guida per la
programmazione di percorsi formativi e una base per la valutazione delle competenze acquisite
attraverso l’intercomprensione ed è accompagnato da un altro referenziale, il REFDIC (Référentiel de
compétences en didactique de l’intercompréhension), che descrive le competenze didattiche del docente
che intenda proporre un percorso formativo di questo tipo nelle proprie classi. Entrambi i quadri si
rivolgono agli insegnanti e ai loro formatori, ma mentre il REFIC riguarda i saperi, i saper fare, gli
atteggiamenti e le strategie più efficaci che un insegnante o un formatore di insegnanti può mettere in
atto in classe e che deve egli stesso poter sviluppare, il REFDIC si focalizza su quanto è necessario
all’insegnante/formatore per inserire la didattica dell’intercomprensione nella propria pratica
professionale.
Il REFIC declina i descrittori in cinque dimensioni, di cui le prime due sono di tipo procedurale e
metalinguistico e le altre tre di natura comunicativa: 1. il soggetto e l’apprendimento plurilingue; 2. le
lingue e le culture; 3. la comprensione della lettura; 4. la comprensione orale; 5. l’interazione
plurilingue. I descrittori di competenza sono invece organizzati su tre livelli di progressione:
sensibilizzazione (degli studenti circa il loro repertorio linguistico e culturale), pratica e
perfezionamento.

2.5 Educazione linguistica e plurilinguismo: la prospettiva italiana


L’immigrazione in Italia è caratterizzata da una forte diversificazione dei Paesi di origine dei migranti, che
portano con sé moltissime lingue ufficiali e non, presenti nei ricchi repertori plurilingui dei “nuovi”
italiani. Vedovelli distingue il plurilinguismo come tratto endogeno italiano dal neoplurilingualismo, o
plurilinguismo esogeno in quanto indotto dalle lingue immigrate che si sono aggiunte al già ricco
paesaggio multilingue del Paese.
2.5.1 L’educazione linguistica in Italia: un concetto precursore. Le origini della storia
dell’educazione linguistica in Italia risalgono alla seconda metà dell’Ottocento, quando il filologo

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D’Ovidio usò questa espressione nell’ambito dei dibattiti linguistici e pedagogici emersi in seguito alle
diverse condizioni sociali, culturali e scolastiche dell’Italia unificata. Il termine continuò ad apparire negli
studi e nelle proposte di Lombardo Radice nel primo Novecento su temi come la valorizzazione del
repertorio linguistico dell’apprendente.
Nel 1979, con i nuovi programmi della scuola media unica, il concetto di educazione linguistica trova la
sua prima menzione ufficiale ed applicazione. Inizialmente l’espressione veniva utilizzata con due
accezioni diverse legate ai due grandi gruppi di studiosi che se ne sono occupati: da un lato essa è vista
come l’insegnamento dell’italiano nella sua dimensione scolastica e sociale (De Mauro e gruppo
GISCEL3), dall’altro si riferisce alla proposta di Titone (1961) di “educazione linguistica integrata” che
include l’apprendimento-insegnamento delle lingue (materna, nazionale, seconde, straniere, classiche) e
dei linguaggi non verbali, di cui sono esponenti gli studiosi di didattica delle lingue straniere.
Si ebbero così numerose iniziative nate dalla necessità di progredire in ambito pedagogico e di rifondare
l’insegnamento linguistico.
In questo contesto di rinnovamento il GISCEL, fondato in seno alla Società di Linguistica Italiana, elaborò
le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica. Le prime quattro tesi auspicavano la fondazione di
un nuovo progetto di educazione linguistica efficace, fondato sulla centralità del linguaggio verbale e
dell’apprendente. Nelle tesi 5-7 il documento si concentrava sui limiti della didattica linguistica
tradizionale considerata oscura, anacronistica e poco efficace. Nelle tesi successive si individuavano i
principi dell’EL democratica, per dedicarsi poi alla formazione dei docenti e al necessario rinnovamento
della scuola. Le Dieci Tesi furono le prime a mettere in luce - soprattutto nell’ottava tesi - il bisogno di
dare visibilità e tenere conto delle “lingue” di tutti gli alunni, in quanto la scuola doveva avere come
obiettivo il rispetto e la tutela di tutte le varietà linguistiche. Le Dieci Tesi proponevano insomma un
modello di educazione plurilinguistica.
I nuovi programmi per la scuola media unica del 1979 accolsero diverse sollecitazioni proposte dalle
Dieci Tesi4, anche per le lingue straniere.
2.5.2 L’educazione plurilingue nelle politiche educative italiane. La Via italiana per la scuola
interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri (2007), un documento redatto dall’Osservatorio
nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura, rappresentò un importante passo
in avanti nell’approccio alla diversità linguistico-culturale e al plurilinguismo nella scuola italiana. Con lo
scopo di proporre un modello nazionale di integrazione degli alunni stranieri, il documento insisteva
sulla necessità di valorizzare il plurilinguismo sia come tratto comune della scuola (plurilinguismo di
sistema) che come ricchezza della persona, (plurilinguismo individuale), in modo da rappresentare
un’opportunità per tutti gli alunni e non solo per quelli stranieri. L’edizione aggiornata del 2018 include

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Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica.
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Molto simili alle proposte promosse dal Consiglio d’Europa.

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un invito alla realizzazione di una scuola al passo con la complessità della moderna società globale. In
entrambe le versioni è possibile ritrovare vari concetti chiave dell’EPI e dell’educazione linguistica
democratica.
L’apprendimento di più lingue consente all’alunno di decentrarsi dal proprio sistema linguistico-culturale
per prendere coscienza dell’esistenza di diverse varietà di mezzi espressivi nelle varie lingue, concepite
come strumenti di comunicazione, espressione e pensiero.
Per sottolineare l’importanza delle pratiche di inclusione degli alunni immigrati, l’Osservatorio nazionale
per l’integrazione degli studenti stranieri e per l’intercultura ha elaborato il documento Diversi da chi?
Raccomandazioni per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura (2015) per una migliore
realizzazione dei percorsi formativi per delle scuole sempre più eterogenee, sottolineando l’importanza
del sostegno dell’apprendimento dell’italiano L2 e del coinvolgimento delle famiglie 5.
L’integrazione scolastica dei bambini e dei ragazzi con origini migratorie è stata in questi anni una sorta
di “compensazione”, carente, lacunosa e poco attenta alle LO. La diversità linguistica è un’opportunità di
arricchimento sia per i parlanti plurilingue che per gli autoctoni, che possono così precocemente
sperimentare la varietà dei codici e crescere più aperti al mondo e alle sue lingue.
Nonostante tutto, però, anche questo documento si fa portavoce di una prospettiva alquanto riduttiva in
cui, in particolare, si contrappone al “parlante plurilingue” (straniero) viene contrapposto l’alunno
“autoctono” (locale), come se quest’ultimo non fosse a sua volta portatore di altre lingue e varietà: tale
categorizzazione è carente e pericolosa, in quanto vede il plurilinguismo come appannaggio solo di
alcuni e non di altri.

Parte seconda - Verso una didattica plurilingue: approcci, esperienze,


contesti
Capitolo 3 - L’éveil aux langues per educare alla diversità linguistico-culturale

3.1 Dalla Language Awareness all’éveil aux langues


L’éveil aux langues6 è uno tra i primi approcci plurali diffusi in ambito scolastico, soprattutto nei contesti
della scuola dell’infanzia e primaria di area francofona. L’alunno è incoraggiato a confrontare le lingue
del proprio repertorio con quelle studiate e riflette sulla natura delle lingue e del linguaggio. L’EAL altro
non è che l’applicazione dei principi del movimento Language Awareness, fondato negli anni ’80

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L’integrazione scolastica dei bambini e dei ragazzi con origini migratorie è stata in questi anni una sorta di “compensazione”,
carente, lacunosa e poco attenta alle LO. La diversità linguistica è un’opportunità di arricchimento sia per i parlanti plurilingue
che per gli autoctoni, che possono così precocemente sperimentare la varietà dei codici e crescere più aperti al mondo e alle
sue lingue.
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Detto anche Sensibilizzazione alle lingue e alle culture, Consapevolezza dei fenomeni linguistici o Awakening to Languages

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dall’inglese Eric Hawkins con lo scopo di far riflettere sui fenomeni linguistici attraverso la comparazione
delle lingue studiate, il tutto mettendo in luce il ruolo trasversale della lingua nel curriculum scolastico
(“bridging subject”). Questo approccio è al centro di due progetti europei: Evlang (1997-2001), acronimo
di Éveil aux Langues à l’école primaire, e Jaling (2000-2004), acronimo di Janua Linguarum, volto ad
attuare le condizioni necessarie per un efficace inserimento curricolare dell’EAL.
Questo approccio ha portato a un atteggiamento positivo verso le lingue straniere e a una maggiore
motivazione verso l’apprendimento linguistico anche di lingue non studiate a scuola.
L’EAL ha un carattere interdisciplinare e riunisce diverse dimensioni a cui corrispondono vari obiettivi:
- una dimensione linguistica e cognitiva (l’obiettivo è la comprensione dei fenomeni linguistici, del
funzionamento delle lingue e dei linguaggi e della loro trasversalità rispetto alle discipline “non
linguistiche”);
- una dimensione sociolinguistica (ci si concentra sulla diversità linguistica e sulle relazioni gerarchiche
esistenti tra le lingue e le loro varietà nei contesti plurilingui);
- una dimensione psicologica (volta ad agevolare il decentramento dell’alunno rispetto alla propria
lingua o alla lingua di scolarizzazione, quando questa è diversa dalla prima);
- una dimensione emotiva (si guarda anche allo sviluppo di un atteggiamento positivo nei confronti della
diversità linguistico-culturale).

3.2 Diffusione e contesti di applicazione dell’éveil aux langues


Il riconoscimento istituzionale dell’EAL varia seconda dei contesti e dei Paesi in cui è stato attuato. È
però ancora poco noto e diffuso nel sistema scolastico italiano, ma i suoi principi fondamentali ne fanno
parte da alcuni anni, come in Val D’Aosta, dove è implementato nei curricula scolastici bilingui
attraverso dei percorsi ludici. Gli scopi di altri progetti simili includono la volontà di stimolare e
approfondire l’interesse verso la diversità linguistica e culturale, creando atteggiamenti positivi verso le
lingue presenti nel repertorio linguistico proprio ed altrui.

Capitolo 4 - La didattica integrata delle lingue: il transfer come potenziale di


apprendimento
4.1 Sviluppo e caratteristiche della didattica integrata delle lingue
La didattica integrata delle lingue (DIL) si sviluppò agli inizi del 2000 con l’intento di stimolare l’alunno a
stabilire dei collegamenti tra le lingue apprese in un contesto scolastico.
Eddy Roulet rese operativa la cosiddetta “pedagogia integrata delle lingue materna e seconde”, mentre
Danièle Bailly e Christiane Luc proposero in Francia una versione più pratica dell’approccio per

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sottolineare la trasferibilità delle competenze apprese in L1 nell’apprendimento di una lingua straniera.
I vari metodi di questo approccio includono la didattica delle lingue terziarie, in cui la L2 funge da
transfer-bridge (una sorta di lingua-ponte) sul piano delle competenze linguistiche: al contempo, le
abilità già acquisite nell’apprendimento della L2 vengono consolidate e aiutano nella comparazione tra
L1, L2 e L3.

4.2 Dalla DIL al curricolo plurilingue


Nel 2008 la rivista multilingue Babylonia pubblicò un numero monografico sullo sviluppo dell’approccio
DIL e di alcune sue applicazioni nelle scuole svizzere. Secondo la proposta di Wokusch, essa può essere
considerata un approccio olistico che racchiude in parte gli altri approcci plurali, in base a sei principi
fondamentali:
1. Curriculum diversificato e coordinato (coerenza verticale) = riguarda l’elaborazione e la
condivisione di competenze specifiche per ogni lingua insegnata al termine di ciascun grado
scolastico e il coordinamento dei piani di studio in funzione dei profili di competenza attesi.
2. Sviluppo di competenze funzionali efficaci in ciascuna delle lingue insegnate = introduce forme
di insegnamento che privilegiano l’uso della lingua in contesti significativi e reali, come la
didattica basata su specifici contenuti o l’insegnamento di discipline non linguistiche attraverso la
lingua straniera, il che agevola il contatto diretto con altre lingue-culture (“pedagogia dei
contatti”).
3. Coerenza e continuità delle modalità didattiche proposte agli studenti = riguarda l’adozione di
modalità didattiche tra loro coerenti per l’insegnamento di aspetti specifici della lingua (es.
lessico, grammatica, ecc.), come la struttura del lessico (es. famiglie di parole, principi di
derivazione, ecc.). Implica l’uso di una terminologia comune tra gli insegnanti di lingue e
l’adozione di tecniche di verifica e griglie di valutazione comuni.
4. Risveglio alle lingue - diversità linguistica e culturale - dimensione (inter)culturale = prevede la
promozione della diversità linguistica e culturale attraverso l’EAL alla scuola primaria e
secondaria, lo sviluppo di un atteggiamento di curiosità verso le lingue-culture da parte del
discente per potenziarne la competenza socioculturale e pragmatica, il confronto tra le lingue
della scuola, le lingue-culture di origine degli alunni e le lingue-culture straniere insegnate.
5. Valorizzazione del potenziale di transfer = si occupa delle strategie di comunicazione e di
apprendimento promosse attraverso tutte le lingue insegnate e riguarda la sensibilizzazione al
funzionamento generale delle lingue, affinché gli apprendenti imparino a riflettere sul paragone
tra le varie lingue e a usufruire di tale riflessione nello studio di altre lingue.

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6. Sviluppo di strategie di comunicazione e di apprendimento efficaci: = promuove l’autonomia di
apprendimento e il ricorso a materiali autentici nelle lingue affini a quelle insegnate al fine di
agevolare lo sviluppo di capacità di intercomprensione; impiega modalità didattiche di tipo
intercomprensivo, ossia baste sul riconoscimento di somiglianze lessicali e morfologiche tra le
lingue di una stessa famiglia linguistica.
Per realizzare il curriculum plurilingue, la DIL opera in base a due principi fondamentali che operano sul
piano sia cognitivo sia didattico:
- il principio dell’anticipazione, che riguarda l’ordine di acquisizione delle lingue;
- il principio di retroazione, che si riferisce a come, sul piano cognitivo, l’apprendimento di
un’altra lingua ristrutturi le conoscenze già acquisite.
Il compito degli insegnanti di lingue sarebbe quindi lo sviluppo, negli apprendenti, una “competenza
strategica trasversale” affinché il transfer di conoscenze, competenze e strategie da una lingua all’altra
diventi sempre più automatico e spontaneo. A tal proposito sono state individuate tre diverse modalità
(o livelli progressivi) basate sui principi di Wokusch:
1) un livello minimo o preliminare sarà votato alla creazione di una “cultura” comune tra i
docenti di lingue, prevedendo per esempio lo scambio reciproco di informazioni;
2) un livello intermedio si occuperà di un lavoro di programmazione congiunto su determinate
aree specifiche del curriculum, di cui verranno definiti obiettivi, contenuti, metodi di
insegnamento e procedure di valutazione almeno in parte comuni;
3) un livello avanzato di DIL avrà come scopo la realizzazione di un vero e proprio curriculum
integrato delle lingue, nell’ambito del quale gli insegnanti hanno il compito di:
- integrare gli obiettivi in sequenze didattiche comuni;
- sfruttare e consolidare la trasferibilità delle strategie e delle acquisizioni linguistiche e
pragmatiche;
- raccordare le modalità di valutazione in modo ancora più preciso;
- promuovere l’uso di più lingue in classe, valorizzando l’alternanza linguistica;
- creare occasioni di confronto interlinguistico.

4.3 Didattica integrata e insegnamento bi/plurilingue


Tutti questi approcci sono volti all’acquisizione parallela e integrata delle lingue e delle discipline
coinvolte, ma si differenziano per l’equilibrio tra l’acquisizione delle competenze linguistiche e
l’acquisizione del contenuto disciplinare.

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Benché questi approcci varino per quanto riguarda il numero delle discipline del curriculum e al tipo di
esposizione alla lingua da insegnare ed al suo uso, essi condividono il ruolo della lingua, che da semplice
“lingua come materia” diventa “lingua delle altre materie” con tratti ben delineati:
- formalità = si usa uno stile più formale, soprattutto nel testo scritto;
- specificità = si riferisce a precisi campi semantici e usa termini specifici per designare i concetti;
- astrattezza = opta per termini più astratti in riferimento alla collocazione di verbi ed avverbi (per
esempio, “subisce un incremento esponenziale” invece di “cresce più velocemente”);
- esplicitezza = usa una lingua più esplicita e dettagliata in base alla forma del discorso;
- coesione = idee e frasi sono strettamente legate tra loro tramite pronomi, subordinazione,
ripresa di termini e così via;
- coerenza = è più coerente e orientata allo scopo per quanto riguarda la struttura del testo e del
discorso.
Affinché un insegnamento bi/plurilingue possa considerarsi anche “plurale”, dunque, le lingue coinvolte
devono essere compresenti, in modo che ciascuna possa fungere da specchio dell’altra per collaborare
al potenziamento delle abilità metalinguistiche del discente.

4.4 Pratiche didattiche e contesti di applicazione della DIL


In Italia, la DIL è stata applicata soprattutto nel campo dell’insegnamento del tedesco come L3, in cui le
conoscenze pregresse in lingua inglese aiutano nell’apprendimento del tedesco come lingua terziaria,
che risulta così più ‘raggiungibile’ sul piano cognitivo. Al di là di quest’applicazione, però, non ha avuto
una grande diffusione.
Il livello più avanzato della DIL può essere una sfida importante per la scuola secondaria italiana, dove la
progettazione comune di attività e percorsi tra docenti di diversa disciplina non sempre è facile da
realizzare, anche se aiuterebbe nello sviluppo delle abilità metalinguistiche e a valorizzare le strategie di
transfer tra le lingue del curriculum.

Capitolo 5 - L’intercomprensione tra lingue affini come approccio didattico


5.1 L’intercomprensione tra lingue affini: una definizione
L’intercomprensione tra lingue affini (IC) - in cui il prefisso inter- mette in evidenza il rapporto di
reciprocità tra le lingue coinvolte - è sia un approccio plurale che una pratica comunicativa sociale, una
forma di comunicazione plurilingue spontanea in cui ogni interlocutore si esprime nella propria lingua,
impegnandosi a farsi comprendere e sforzandosi di comprendere la lingua degli altri. La prima comparsa
del termine si ebbe a inizio ‘900 in un lavoro del dialettologo francese Ronjat a proposito del rapporto
tra provenzale e franco-pronvenzale, per poi riapparire nei progetti europei sulla didattica dell’IC (la saga

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“Gala”) negli anni ‘90.
L’IC prevede un lavoro parallelo su due o più lingue appartenenti alla stessa famiglia.

5.2 Intercomprensione e abilità di ricezione


Lo scopo dell’IC è facilitare la comprensione di lingue mai studiate prima sulla base delle affinità tra le
lingue già note e la/e lingua/e obiettivo. Quando la famiglia o gruppo linguistico è lo stesso della L1
dell’apprendente (ad es. il gruppo delle lingue romanze per gli italofoni), il processo di IC sarà
particolarmente efficace, poiché si fa leva su ciò che si conosce già bene, la L1. In alcuni casi è però
possibile comprendere anche una lingua né imparentata né vicina grazie agli indizi extralinguistici, la
propria conoscenza del mondo e tutto ciò che permette di attivare l’expenctancy grammar.
Come altri approcci plurali, la didattica dell’IC è fondata lavoro parallelo su più lingue: tale principio della
simultaneità la distingue l’IC da approcci più diffusi o singoli in cui l’apprendimento/insegnamento di
una lingua viene affrontato separatamente da quello di altre lingue.
Nell’IC non si ha confusione né sovraccarico; si potenziano le abilità di comprensione scritta e attraverso
la lettura e l’analisi comparata di più lingue si attiva il processo di memorizzazione delle ‘nuove’ lingue.
Un’altra importante caratteristica della didattica dell’IC è il principio di immersione: lo studente viene
‘immerso’ nelle lingue senza un precedente apprendimento esplicito di buona parte di esse. La
comprensione è possibile non solo grazie alle affinità, ma anche alle strategie e competenze maturate
come lettore e apprendente di LS.
Al principio di immersione fa da sfondo l’assunto dell’autenticità: i testi utilizzati non sono graduati o
semplificati come negli approcci ‘singoli’, ma sono tratti dalla vita reale senza ulteriori modifiche.
Dato che si basa sull’uso di materiali autentici e sullo sfruttamento delle conoscenze pregresse, l’IC
permette di partire sin da subito da un livello relativamente elevato, soprattutto per l’abilità di lettura
(A2-B1), facendo in modo che l’apprendente possa raggiungere in breve tempo (20-30 ore) un livello B1-
B2 del QCER nell’abilità di ricezione scritta. Dal momento, poi, che l’abilità di lettura condiziona e
promuove quella dell’ascolto, entrambe possono a loro volta influire sullo sviluppo delle altre abilità
linguistiche.

5.3 Dall’intercomprensione all’intercomunicazione


Nella sempre più tecnologica società odierna è stato osservato che nelle interazioni in IC a distanza sono
presenti molte tracce dell’oralità che, come in altri contesti di comunicazione mediata dal computer
(CMC), rendono la scrittura nei forum una dimensione sospesa tra la varietà orale e quella scritta. Pur

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avvenendo attraverso il canale scritto, l’IC in interazione a distanza non è dunque un’attività utile allo
sviluppo della sola ricezione scritta, ma può anche essere un utile ponte verso l’oralità.
L’IC interattiva online è particolarmente efficace quando ogni interlocutore usa delle strategie di
semplificazione e facilitazione orientate allo specifico repertorio linguistico dell’interlocutore, che
rendono la propria produzione linguistica più accessibile all’altro: questo processo è detto
“interproduzione” ed è un’anticipazione dell’“intercomunicazione” tipica della pratica dell’IC.

5.4 Progetti, pratiche e contesti d’insegnamento dell’IC


Il portale Web MIRIADI (Mutualisation et innovation pour un réseau de l’intercompréhension à distance),
nato dell’omonimo progetto europeo (2012-2015), ha permesso la continuazione e la stabilizzazione dei
corsi di IC online già promossi dalle piattaforme Galanet (per studenti) e Galapro (per formatori).
Come altri approcci plurali, l’IC può essere tenuta non solo nelle ore di “lingua come
disciplina”, ma anche durante l’insegnamento delle discipline non linguistiche, integrandosi al metodo
CLIL.

Capitolo 6 - Il translanguaging come pratica didattica inclusiva


6.1 Gli studi sul translanguaging: un’introduzione
Negli ultimi anni molti studiosi si sono dedicati al translanguaging, un concetto che nella sua accezione
sociolinguistica si riferisce allo studio delle pratiche discorsive delle comunità bilingui e in quella
educativa indica un approccio didattico in cui gli insegnanti mettono in relazione queste pratiche con
quelle attuate nell’educazione formale. Esso si fonda quindi sulla consapevolezza che le lingue sono tra
loro interconnesse e compresenti, tanto nella mente quanto negli usi dei parlanti bi/plurilingui.
Il termine deriva dalla traduzione dell’espressione gallese trawsieithu (una pratica didattica basata
sull’alternanza tra gallese ed inglese nelle attività scolastiche, come nel passaggio dalla ricezione alla
produzione scritta), introdotta negli anni Ottanta da Cen Williams. In Galles il translanguaging assunse
presto legittimità politica ed educativa grazie all’opera del governo, che lo diffonde nelle scuole
associandolo al concetto di dual literacy (la capacità di saper parlare, leggere e scrivere con facilità in
entrambe le lingue e di sapersi muovere in modo sicuro e fluido tra esse per scopi specifici). Colin Baker
(2001) tradusse il termine in inglese e contribuì allo studio del fenomeno.
Più che sulle lingue, il translanguaging è un approccio al bilinguismo centrato sulle pratiche dei bilingui.
Con lo scopo di usare tutte le risorse linguistiche a propria disposizione, col translanguaging (che tra
l’altro aiuta molto gli approcci creativi alla comunicazione) gli studenti vengono messi in condizione di
sfruttare appieno tutte le proprie potenzialità di apprendimento.

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6.2 Dal plurilinguismo al translanguaging: una svolta epistemologica?
Il translanguaging può essere visto come affine al concetto europeo di plurilinguismo e, dal punto di
vista educativo, alla nozione di educazione plurilingue e interculturale. Negli ultimi tempi, il concetto di
plurilinguismo proposto dal Consiglio d’Europa è stato abbandonato per il suo legame con la
competitività sul mercato del lavoro e il suo essere strumento per ottenere profitto economico e
successo personale.
Il concetto di competenza plurilingue e pluriculturale afferma che le lingue non sono giustapposte o
sommate l’una all’altra nella mente dell’apprendente, ma formano un’unica metacompetenza, ovvero la
capacità di usare progressivamente diverse competenze in diverse lingue.
Proponendosi come una svolta, il translanguaging cerca di scardinare la concezione, tipica di molte
pratiche di insegnamento linguistico, delle lingue come entità isolate. A differenza dei modelli più
tradizionali di bilinguismo, esso si concentra sugli effettivi usi dei parlanti plurilingui che attingono dal
proprio repertorio adattando di volta in volta i propri usi linguistici alla specifica situazione 7.

6.3 Praticare il translanguaging: dalla progettazione didattica alle attività in classe


García, Johnson e Seltzer (2017) sottolineano l’importanza di tre dimensioni utili per usare il
translanguaging nell’insegnamento: 1. la postura dell’insegnante (stance); 2. la progettazione e
pianificazione delle attività didattiche (design); 3. la promozione del cambiamento (shifts).
A seconda dei casi, il docente può assumere due “posture”: una facilitante (scaffolding stance), fondata
sulla convinzione che la presa in carico del repertorio linguistico dell’apprendente debba fungere da
impalcatura temporanea per l’acquisizione della lingua di scolarizzazione e all’autonomia di
apprendimento, oppure una trasformativa (transformative stance), capace di implicare a più livelli lingue
diverse dalla L1, per scardinare le gerarchie linguistiche consolidate dal potere dello stato politico
attraverso la scuola. In questo modo, il translanguaging rappresenta una pedagogia trasformativa in
grado di mettere al centro i bilingui con le loro lingue e le loro identità.
Solo allora l’insegnante potrà progettare percorsi didattici e programmare attività (design),
promuovendo nell’istituzione scolastica dei cambiamenti (shifts) sia ideologici che operativi.
L’implementazione di una didattica del translanguaging è basata su tre azioni fondamentali: favorire una
gestione collaborativa/cooperativa della classe attraverso l’attività in gruppi, utilizzare una varietà di
risorse educative plurilingui e multimodali e introdurre strategie didattiche di translanguaging.
Nella fase della valutazione, infine, si possono accettare risposte anche in altre lingue comprensibili al
docente.

7
Vs code-switching (alternanza di codici di lingue diverse all’interno di uno stesso discorso).

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6.4 Diffusione e contesti di applicazione del translanguaging: l’apporto italiano
Il translanguaging è ancora poco diffuso e conosciuto in Italia, e per ora è applicato solo in progetti
sperimentali per diversi motivi, tra cui la differenza con il contesto migratorio di riferimento (quello
statunitense) e il fatto che viene data per scontata la capacità degli studenti bilingui (bambini e
adolescenti) di saper leggere e scrivere nella LO8.
Uno dei primi progetti italiani dedicati al translanguaging è il progetto del 2016 LI.LO (Lingua Italiana.
Lingua d’Origine).

Conclusioni: premesse per una “via italiana” alla didattica plurilingue


La didattica plurilingue è possibile e auspicabile nella moderna scuola multiculturale, visti i suoi
numerosi vantaggi e le dinamiche positive che genera nella classe plurilingue. Essa è fattibile però solo in
una prospettiva bottom-up, contestualizzata, attenta alle specifiche caratteristiche sociolinguistiche e
socioculturali del contesto di apprendimento e della sensibilità e disponibilità di quanti vi sono coinvolti.
Al centro di tutto vi è l’alunno, con le sue capacità e le sue necessità.
Alle funzioni fortemente educative dell’EAL, un approccio particolarmente adatto agli apprendenti più
giovani a partire dalla scuola dell’infanzia in poi, nei livelli scolastici successivi seguiranno approcci in cui
ci si concentra di più sulla riflessione metalinguistica e sul transfer intra-/interlinguistico: a tal proposito,
occorrerebbe applicare la DIL e l’IC. Il translanguaging, in quanto approccio plurilingue flessibile, può
essere impiegato già a partire dalla scuola dell’infanzia insieme all’EAL, per poi modellarsi sugli specifici
obiettivi educativi e disciplinari di ogni ordine e grado scolastico.
Una “via italiana” alla didattica plurilingue dovrebbe tener conto delle particolari caratteristiche
sociolinguistiche del nostro Paese per valorizzare tanto gli idiomi stranieri quanto quelli locali, basandosi
dunque su una ‘visione plurale del plurilinguismo’, ovvero dei plurilinguismi.
A tal proposito occorre innanzitutto includere dei moduli formativi sull’educazione plurilingue e
interculturale nei curricula accademici per la formazione dei futuri insegnanti.

8
La loro competenza è nella maggior parte dei casi di tipo orale.

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