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2021-22
prof. Laura Bafile - Università di Ferrara
La quarta domanda che ci siamo posti a proposito del linguaggio riguarda la diversità che si osserva
confrontando tra loro le lingue del mondo.
Il linguaggio, come abbiamo visto, è un sistema biologico e naturale, una capacità comune a tutti
gli individui. Però, a differenza di altre facoltà e caratteristiche naturali proprie della specie umana,
che si sviluppano e assumono forme sostanzialmente uguali in tutti gli individui, la facoltà di
linguaggio si manifesta nella capacità di acquisire e di usare le lingue naturali, che sono diverse le
une dalle altre. La ricerca linguistica ha mostrato in modo chiaro che pur essendo diverse, le lingue
rispondono tutte ad alcuni principi essenziali e fondamentali. Un obiettivo della ricerca linguistica è
proprio quello di individuare le caratteristiche universali delle lingue, accanto a quello, altrettanto
necessario, di descriverne la diversità.
Le lingue non sono omogeneamente distribuite nelle diverse aree del mondo. Secondo Ethnologue
(2019), in Europa si parlano 287 lingue, in Africa 2.144 e in Asia 2.294. Il paese con il più alto indice
di diversità linguistica è la Papua Nuova Guinea, in Oceania, dove su una superficie che supera di
circa un terzo quella dell’Italia e una popolazione che supera di poco i 4 milioni, si parlano 840 lingue;
all’altro capo della graduatoria c’è la Corea del nord, dove circa 23 milioni di abitanti parlano una
sola lingua.
Si stima, purtroppo, che delle oltre 7.000 lingue del mondo, solo circa la metà godano di “buona
salute”, mentre le altre sono in pericolo perché stanno perdendo parlanti. Una parte di queste ultime
sono destinate a estinguersi nel giro di una o due generazioni, o sono già pressoché morte. Ciò è
causato dal fatto che in alcune aree del mondo le lingue delle culture dominanti, con milioni di
parlanti, si vanno estendendo a scapito delle lingue locali, che perdono i propri parlanti. Occorre
precisare che le situazioni di contatto tra popolazioni di lingue diverse non portano ineluttabilmente
alla morte di una delle due lingue; al contrario, in questi casi si creano normalmente condizioni di
plurilinguismo, in cui le persone sono in grado di parlare una o più lingue oltre alla propria lingua di
origine. Spesso però, i processi economici che portano le popolazioni alla necessità di usare le lingue
di grande diffusione internazionale portano con sé anche un predominio culturale di un gruppo
linguistico sull’altro. La lingua del gruppo dominante tende perciò ad imporsi, con la conseguenza
che delle lingue locali vengono usate sempre meno, si indeboliscono e in certi casi scompaiono. E’
per questa ragione che è importante e utile fare ricerca sulle lingue a rischio di estinzione e mettere
in atto politiche per difenderne l’esistenza.
Nicole Marinaro
Vi siete mai chiesti quante lingue esistono al mondo? Il sito Ethnologue stima che le lingue
parlate oggi siano più di 7000, ma in realtà non esiste una risposta definitiva. La cifra oscilla
costantemente, tanto per le difficoltà legate alla catalogazione, quanto per la natura delle lingue
stesse, entità dinamiche e soggette a continui cambiamenti. La caduta in disuso di alcune lingue
non costituisce certo una novità, ma il dato che oggi risulta allarmante è la velocità con cui
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migliaia di idiomi si stanno estinguendo: secondo diversi studiosi, almeno la metà delle lingue
parlate nel mondo si sarà spenta entro la fine del XXI secolo. Che cosa sta succedendo?
Un dato dal quale partire è il grande squilibrio tra il numero di parlanti delle lingue del mondo:
sempre secondo Ethnologue, si stima che siano solo 200 le lingue parlate come idioma nativo
dall’88% della popolazione mondiale. Alle altre migliaia di lingue non rimane quindi che una base
demografica ristretta, in alcuni casi minima, e per quanto la correlazione non sia automatica, il
numero esiguo di parlanti rappresenta in ogni caso un fattore indicativo di una possibile
situazione di rischio.
Ma a cosa è dovuta una simile disparità? Non certo a una qualità intrinseca agli idiomi stessi, dal
momento che non esistono lingue migliori o peggiori di altre; il destino di una lingua dipende,
invece, da fattori prettamente sociali, politici ed economici. Le lingue non sono entità
indipendenti, ma prodotti sociali che vivono nella mente e nella voce dei loro parlanti. La loro
fortuna o sfortuna, quindi, è legata dalle vicende del gruppo umano che le utilizza: l’esempio più
intuitivo è quello della morte improvvisa di una lingua in seguito a un genocidio o a una
catastrofe naturale.
Una lingua, però, può sparire anche se le persone che la parlavano rimangono in vita, ma non la
trasmettono più ai propri discendenti: in questo caso, si parla di language shift, intendendo con
questo termine il processo graduale per cui una comunità di parlanti arriva a sostituire la propria
lingua con un’altra. Questo cambiamento è spesso frutto di un’imposizione esterna, come nel
caso dell’assimilazione coatta di una minoranza da parte di uno stato centrale, o della conquista
militare di un territorio abitato da una popolazione indigena. Tristemente famoso è, ad esempio,
il caso delle boarding school nordamericane, collegi che decine di migliaia di bambini
amerindiani, sottratti alle loro famiglie, vennero costretti a frequentare, al fine di una completa
assimilazione alla cultura dominante: l’intenzione era quella di “uccidere l’indiano per salvare
l’uomo”. Un altro esempio è la lunga storia di oppressione della minoranza curda da parte dello
stato turco.
Casi, come questo, di veri e propri genocidi culturali, si collocano all’estremo più violento di uno
spettro di possibili politiche, messe in atto da stati o regioni in tutto il mondo, e che attraverso
una discriminazione attiva o passiva producono effetti deleteri sulle lingue parlate da gruppi
umani spesso emarginati e minoritari. La costante, in questo ventaglio di possibilità, è costituita
dal fatto che il language shift – inteso come fenomeno collettivo – sia la conseguenza di una
qualche forma di imposizione violenta, per quanto non sempre esplicita ed evidente: la rinuncia
alla propria lingua e cultura, insomma, non è quasi mai frutto di una libera scelta.
La decisione dei genitori di non trasmettere la propria lingua ai figli – uno degli indicatori più
significativi del rischio di estinzione – è dovuta, per lo più, al fatto che i parlanti arrivino a
considerarla inutile, se non dannosa, per il loro futuro. Si tratta, quindi, di una strategia di
sopravvivenza volta a far fronte a pressioni esterne: la propria lingua potrebbe, ad esempio,
essere il segno distintivo di una minoranza fortemente discriminata; potrebbe essere ignorata
ed esclusa dal sistema educativo e dalle istituzioni; potrebbe essere considerata un relitto
antiquato, inadatto al mondo moderno, una zavorra inutile che ostacola il tentativo di sfuggire
a situazioni di povertà ed emarginazione.
Il graduale passaggio, generazione dopo generazione, a lingue percepite come dominanti e più
utili rispetto alla propria è quindi un risultato delle pressioni sociali, politiche ed economiche
della globalizzazione. Se ne possono trovare esempi in tutto il mondo: per citarne solo alcuni, i
Sami, una popolazione indigena che vive nel territorio degli attuali stati scandinavi, sono spinti
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Come osservano Nettle & Romaine (2001), se questi problemi sono in stretta correlazione, la
buona notizia è che anche le soluzioni lo sono.
La cartina in Figura 1, che mette a confronto la distribuzione nel mondo della diversità biologica
(A) e della diversità linguistica (B), ne suggerisce l’interdipendenza: si può osservare, infatti, che
entrambe sono prevalentemente concentrate nelle stesse aree, cioè nelle zone tropicali.
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Gli stessi fattori naturali che favoriscono la diversità biologica influenzano anche la diversità
linguistica: in entrambi i casi, ad esempio, l’isolamento – rispettivamente riproduttivo e
comunicativo – gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di una grande varietà di specie e di
lingue. Uno sviluppo sostenibile, che protegga la ricchezza degli ecosistemi del mondo
(soprattutto delle sue zone più povere), porta quindi a preservare anche le lingue e le culture
che in quelle nicchie ecologiche sono nate e si sono sviluppate per secoli. Al contempo, diversi
autori sottolineano come siano proprio questi gruppi umani i più adatti e qualificati a prendersi
cura dell’ambiente naturale in cui vivono, essendone grandi conoscitori; ambiente che, come è
risaputo, rappresenta un tesoro inestimabile per tutti noi.
Il mantenimento della propria lingua non è un diritto fondamentale dell’uomo solo a livello
astratto e teorico, ma ha una ricaduta concreta sulla vita e sulla salute dei parlanti. Recenti studi,
condotti ad esempio in Australia, hanno dimostrato la correlazione tra il mantenimento o la
rivitalizzazione della propria identità culturale – di cui l’idioma rappresenta, naturalmente, un
elemento fondamentale – e una migliore salute fisica e mentale, con cali significativi dei tassi di
abuso di alcol e droghe, di suicidi e di violenza domestica.
Uno dei possibili ruoli di un linguista può consistere proprio nel documentare e registrare lingue
a rischio di estinzione. Si tratta di un compito di grande rilevanza, dal momento che, nella grande
maggioranza dei casi, queste lingue non hanno una forma scritta, e svanirebbero nel nulla con
la morte degli ultimi parlanti. L’importanza di questo lavoro non deriva solamente da ragioni
etiche: ciascuno di questi idiomi, infatti, rappresenta un deposito di sapere biologico, storico e
culturale di valore inestimabile. Millenni di conoscenza scientifica, accumulata attraverso uno
stretto rapporto con il proprio ecosistema naturale, sono codificati nelle parole che ne
descrivono stagioni, cicli di vita, piante e animali.
Ad esempio, come spiegano Nettle & Romaine (2001), una tendenza comune a molte lingue del
Pacifico è il fatto che nelle parole usate per classificare pesci e pratiche di pesca sia
‘impacchettata’ la dettagliata conoscenza dell’ambiente e dei cicli lunari. La denominazione di
determinati giorni del mese suggerisce la probabilità di pesca proficua intorno alle notti di luna
nuova: per esempio, a Namoluk, un atollo delle Isole Caroline, la notte precedente alla luna
nuova è chiamata Otolol, che significa ‘sciamare’, in riferimento ai pesci. Harrison (2007)
sottolinea che, per quanto sia possibile tentare una traduzione, sostituire le parole di una lingua
con quelle di un’altra porta inevitabilmente alla perdita di almeno una parte della conoscenza
implicita che si nasconde dietro queste tassonomie.
Spesso, quindi, questo sapere muore insieme alle lingue, senza che sia neppure possibile
stimare l’entità del danno che ne deriva. Ogni lingua descrive e narra il mondo in un modo unico
e peculiare; ogni voce che si spegne, ogni mito, racconto o canzone non più tramandati, sono
quindi tasselli perduti per sempre dal mosaico della diversità umana.
Possiamo concludere, quindi, che ogni lingua è degna di essere preservata e protetta. In questo
senso, le ricerche dei linguisti che le documentano possono fornire – attraverso la produzione
di grammatiche e materiali didattici, ma anche contribuendo a riaffermarne il valore culturale –
un aiuto prezioso alle comunità che decidano di mantenere in vita e continuare a trasmettere il
proprio idioma.
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Per approfondire
ABS (Australian Bureau of Statistics). 2009. National Aboriginal and Torres Strait Islander Social
Survey (NATSISS), 2008.
Eberhard, David M., Gary F. Simons & Charles D. Fennig (eds.). 2020. Ethnologue: Languages of
the world. Twenty-third edition. Dallas, Texas: SIL International.
Gorenflo, J. Larry, Suzanne Romaine, Russell A. Mittermeier & Kristen Walker-Painemilla. 2012.
Co-occurrence of linguistic and biological diversity in biodiversity hotspots and high biodiversity
wilderness areas. Proceedings of the National Academy of Sciences. May 22, 2012.
Hagege, Claude. 2002. Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio
dell’umanità. Milano: Feltrinelli.
Harrison, K. David. 2007. When languages die: The extinction of the world’s languages and the
erosion of human knowledge. Oxford: Oxford University Press.
Nettle, Daniel & Suzanne Romaine. 2001. Voci del silenzio. Sulle tracce delle lingue in via di
estinzione. Roma: Carocci.
UNESCO (United Nation Educational, Scientific and Cultural Organization). 2001. UNESCO
Universal Declaration on Cultural Diversity: Adopted by the General Conference, 31st session,
Paris, 15 October to 3 November 2001. Paris: UNESCO.
Di seguito, alcuni siti di interesse dove trovare informazioni, progetti, archivi e risorse.
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lingue, attraverso le loro lingue madri, latino e germanico, discendono da una lingua comune
preistorica e quindi non documentata, che è stata denominata indoeuropeo.
Del latino, benché sia una lingua morta in quanto da secoli non ha parlanti nativi, abbiamo una
conoscenza vasta perché ci è arrivata una ampissima quantità e varietà di testi scritti. Al contrario,
l’indoeuropeo non è una lingua direttamente conosciuta, perché non ne esistono attestazioni scritte; è
piuttosto una lingua “ricostruita”, nel senso che i linguisti, basandosi sulle lingue conosciute che
discendono dall’indoeuropeo e lavorando sulle corrispondenze, hanno fatto delle ipotesi sul
vocabolario e sulle possibili caratteristiche fonologiche e grammaticali di questa sconosciuta lingua
madre.
L’idea che lingue diverse, e geograficamente distanti, come il latino e il sanscrito (parlato in India
nel I millennio a.C.) potessero avere un’origine comune nacque dall’osservazione che molte parole
delle due lingue si assomigliavano. A partire dai primi decenni dell’Ottocento, questa osservazione
fu approfondita e sviluppata attraverso un confronto sistematico detto metodo comparativo, che svelò
le relazioni genealogiche tra un insieme di lingue, passate e attuali, dell’Europa e dell’Asia,
dimostrando che tutte quante derivano da una stessa lingua madre.
Un piccolo esempio di comparazione è quello tra le denominazioni di ‘notte’ in alcune lingue
indoeuropee attuali e morte (queste ultime indicate dall’asterisco):
(1) gallese inglese tedesco portoghese latino* greco* albanese russo sanscrito*
nos night Nacht noit nox nyx natë noč nakt
Nella classificazione genealogica delle lingue del mondo cioè quella che considera i rapporti di
parentela, si definisce famiglia l’insieme più grande di lingue che sono apparentate. Quella
indoeuropea è, appunto, una famiglia. Si ipotizza, sulla base di prove anche di tipo storico e
archeologico, che i discendenti dei parlanti della lingua madre abbiano formato gruppi e preso strade
diverse, distribuendosi in tutta l’area linguistica indoeuropea. Ne deriva che la famiglia linguistica
indoeuropea è suddivisa in gruppi, ciascuno formato da lingue che presentano più forti somiglianze
lessicali, fonologiche e grammaticali. Alcuni gruppi si sono estinti, come quello delle lingue
anatoliche a cui apparteneva l’ittita, o il gruppo italico, a cui appartenevano il latino e altre lingue,
come l’osco e l’umbro, parlate in Italia prima che il latino prendesse il sopravvento.
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Indoiranico Curdo Farsi (Iran); Pashto (Afghanistan); Hindi Bengali Marathi Urdu (India)
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Nella Figura 7 sono riportate le lingue europee attuali. Si noti che le lingue ugrofinniche (parlate
in Finlandia, Estonia, Ungheria), caucasiche (come il georgiano e il ceceno) e il basco non sono
lingue indoeuropee.
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riconosciute dalla Legge 482 del 1999 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche
storiche” che dà attuazione all’articolo 6 della Costituzione italiana. Si tratta prevalentemente di
lingue parlate nelle zone alpine di confine (tedesco e altre varietà affini; francese, francoprovenzale,
e occitano; sloveno e croato sul confine orientale; le lingue retoromanze ladino e friulano), ma ci
sono isole linguistiche in altre zone del territorio nazionale, in cui si parla l’albanese, il greco (Italia
centro-meridionale), il catalano (Alghero). Anche il sardo è considerato una lingua ai sensi della
Legge 482.
A parte il caso delle minoranze, il panorama linguuistico nazionale presenta una notevole varietà.
Oltre all’italiano, si parlano numerosi altri idiomi chiamati “dialetti” e che, per le ragioni
menzionate sopra, sono lingue vere e proprie.
I dialetti italiani non sono forme corrotte dell’italiano, e non derivano dall’italiano. Esattamente
come l’italiano e altre lingue romanze, i dialetti italiani sono continuatori del latino, e sono sistemi
con una propria grammatica e un lessico esattamente come tutte le lingue del mondo. Vicende di tipo
culturale e storico hanno assegnato alla lingua di Firenze lo status di lingua dell’Italia, e l’italiano
attuale è infatti un continuatore del fiorentino del Trecento; ma dal punto di vista linguistico e
strutturale, il fiorentino non aveva nessuna particolare caratteristica che lo distinguesse o lo rendesse
in qualsiasi senso “migliore” rispetto a tutti gli altri idiomi continuatori del latino che si parlavano in
Italia.
Attualmente l’italiano è parlato dalla maggior parte della popolazione, anche se una parte degli
italiani ancora oggi conosce e parla il dialetto; si tratta di persone bilingui. Pochissime invece sono le
persone esclusivamente dialettofone. Il bilinguismo italiano-dialetto è una condizione
particolarmente favorevole, perché permette alle persone di accedere alla cultura e alla vita sociale
della nazione, ma anche alla cultura e alla memoria locale, e per questo, come per altre lingue in
pericolo, è importante che i dialetti siano conosciuti e continuino ad essere parlati attraverso le
generazioni.
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un italiano che noi attualmente, magari con qualche difficoltà, possiamo comprendere, molti elementi
(vocabolario, forme verbali, strutture di frase) sono diversi nelle due opere; e anche se l’opera di
Manzoni è molto più vicina all’italiano attuale, è possibile osservare ancora alcune differenze rispetto
alla lingua che parliamo oggi.
Il cambiamento diacronico non è graduale e costante nel tempo, e nello stesso lasso di tempo
possono prodursi cambiamenti limitati o cambiamenti più radicali, per effetto dei quali ci troviamo
di fronte non più a stadi di una lingua, ma a lingue diverse: è il caso dell’inglese contemporaneo
rispetto all’Inglese Medio (Middle English) parlato all’epoca di Chaucer (XIV secolo), che non
sarebbe comprensibile per un parlante inglese di oggi; oppure dell’italiano rispetto al latino.
Sempre dalla prospettiva esterna alla mente dei parlanti, esiste anche una variazione sincronica,
cioè osservata in un certo punto del tempo. Sincronicamente, una lingua può variare sulla dimensione
dello spazio geografico, quando si osservano differenze a seconda che una lingua sia parlata in una
zona o in un’altra all’interno della sua area di diffusione. Un caso di variazione sincronica geografica,
anche detta diatopica, sono le varietà di italiano che si osservano sul territorio nazionale, ad esempio
l’italiano parlato a Milano e l’italiano parlato a Napoli (ma non i rispettivi dialetti che, come abbiamo
precisato, sono lingue diverse). La variazione sincronica può anche essere di tipo sociolinguistico
(variazione diastratica): in questo caso la dimensione pertinente è quella delle variabili correlate alla
posizione socioculturale dei parlanti: nello stesso luogo e nello stesso tempo, parlanti appartenenti a
strati socio-culturali diversi possono parlare varietà diverse di una lingua.
La variazione linguistica in uno stesso individuo. E’ esperienza comune che, in situazioni
relazionali diverse, utilizziamo varietà diverse della nostra lingua, più o meno formali, più o meno
accurate, più o meno familiari. Ogni parlante cioè sceglie un registro di lingua adattandolo alla
situazione comunicativa (variazione diafasica). In certi casi, il passaggio da una situazione all’altra
sconfina nel passaggio da una lingua all’altra, come quando i parlanti italiani scelgono di parlare il
loro dialetto nelle situazioni familiari e l’italiano nelle situazioni più formali. Non raramente si
verifica anche la mescolanza linguistica (spesso indicata con le espressioni inglesi code-switching e
code-mixing), quando in una stessa conversazione usiamo sia l’italiano che il dialetto.
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morfosintattiche) e che anche il lessico, pur essendo un sistema in parte convenzionale e influenzato
da condizionamenti storico-culturali, funziona però in base a principi comuni a tutte le lingue.
Lo studio del linguaggio nelle sue proprietà più astratte e generali, insieme all’abbondante quantità
di dati raccolti grazie alla ricerca svolta sulle singole lingue, anche dalla prospettiva della variazione
interlinguistica, hanno dimostrato che nonostante la grande diversità culturale che può esistere tra le
popolazioni del mondo, tutte le lingue naturali sono basate su principi dello stesso tipo, senza che vi
sia alcuna correlazione con il progresso tecnologico e culturale: la grammatica delle società moderne
non è in alcun modo più complessa, sofisticata o evoluta della grammatica di lingue parlate da
popolazioni antiche o preistoriche; le lingue di società tecnologicamente avanzate non sono nella loro
essenza diverse dalle lingue usate in società basate su economie rurali o preistoriche. Le lingue
cambiano, non si evolvono. Questo stato di cose è espresso dal Principio di uniformità del
linguaggio, che afferma che tutte le lingue, in quanto espressione della stessa facoltà propria della
mente umana, condividono le stesse proprietà fondamentali.
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ARBITRARIETÀ. La capacità di usare una lingua è la capacità di associare suoni a significati, sia
nella produzione che nella comprensione. Tenendo conto che le lingue possono essere anche scritte,
e tenendo conto delle lingue dei segni, modifichiamo leggermente la precedente formulazione:
‘associare espressioni a significati’.
L’essenza del linguaggio sta dunque in questa associazione dell’espressione, detta anche
significante, con il significato; tale associazione costituisce il segno linguistico. Le parole, quindi,
sono segni linguistici, in cui si uniscono la forma fonologica (la sequenza di suoni, o di movimenti
delle mani, nel caso delle lingue dei segni) e il significato (il contenuto concettuale).
Il rapporto tra significante e significato è arbitrario, cioè non risponde a nessuna necessità, nel
senso che non vi è nessun aspetto del significato che determini la forma del significante, e viceversa:
nessun aspetto del significato ‘libro’, ad esempio, determina la forma del significante, cioè la
sequenza di suoni [libro]. Infatti uno stesso significato è espresso da forme diverse in lingue diverse.
DISCRETEZZA: Il linguaggio è un sistema basato sulla discretezza. Questo significa che le unità
linguistiche si distinguono le une dalle altre perché hanno limiti precisi. La discretezza caratterizza i
sistemi linguistici in tutte le loro componenti.
Per quanto riguarda il livello dei suoni, consideriamo ad esempio i due segmenti della coppia [p]
e [b], due suoni molto simili che differiscono solo per una caratteristica, detta sonorità (torneremo su
questo punto parlando di fonologia). Dal punto di vista fonetico, nella realtà fisica, non esistono solo
i due segmenti [p] e [b], ma un’ampia serie di suoni intermedi che costituiscono un continuum ai cui
estremi stanno un suono “totalmente p” e un suono “totalmente b”; in mezzo si collocano tanti suoni
possibili, che vengono effettivamente pronunciati, che passano gradatamente dall’essere “più p che
b” all’essere “più b che p”. Per il linguaggio, però, la differenza che conta è solo quella tra [b] e [p],
che distingue tra loro due parole come bari e pari, e questa generalmente è anche la sola differenza
di cui, come parlanti, siamo consapevoli. Quindi, anche se la realtà fonetica è continua, le unità
linguistiche sono unità discrete.
Anche la sintassi utilizza unità discrete, che sono le parole. Una frase può essere fatta di 5 parole,
oppure di 6 parole, non può essere fatta di 5 parole e mezza.
I sistemi discreti nel mondo naturale sono meno frequenti dei sistemi continui. Un esempio noto
di sistema continuo si trova nell’ambito della comunicazione animale: è il linguaggio delle api.
Modificando le caratteristiche del volo, (cambiando l’orientamento, aumentando o diminuendo
l’ampiezza dei movimenti) le api possono apportare cambiamenti alle informazioni che vogliono
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trasmettere riguardo alla direzione e alla distanza della fonte di cibo. Ad esempio, con una traiettoria
di volo sopra all’alveare più ampia o più stretta informano le altre api che la fonte di cibo è a una
distanza maggiore o minore. Le caratteristiche del segnale non sono del tutto prestabilite, come invece
accade con le unità discrete del linguaggio, cioè i suoni e le parole: piccoli cambiamenti permettono
di trasmettere significati leggermente diversi. Per le api, una traiettoria di volo un po’ più ampia
significa che la fonte di cibo è un po’ più lontana: una trasmissione di significati di questo genere è
impossibile nel linguaggio umano.
COMBINATORIETÀ. Le frasi sono costruite attraverso la combinazione di unità, per formare unità
di dimensione maggiore.
Partendo dal livello delle unità più piccole, i suoni, osserviamo che ogni lingua ne possiede un
numero limitato, nella maggior parte dei casi tra 20 e 40. Questi si combinano e formano gruppi dotati
di significato (i morfemi) che a loro volta formano le parole. Con poche decine di suoni formiamo
migliaia di morfemi, con questi formiamo decine di migliaia di parole, e con queste un numero
potenzialmente illimitato di frasi diverse. Grazie alla combinatorietà, il linguaggio è produttivo, cioè
capace di produrre infinite espressioni con insiemi finiti di unità, ed è creativo, nel senso che permette
di creare frasi che non sono mai state pronunciate prima.
La combinatorietà della sintassi è di tipo ricorsivo, in quanto è determinata da una regola di
combinazione che si applica una prima volta e poi può applicarsi ancora al proprio risultato,
potenzialmente all’infinito. La procedura ricorsiva fondamentale è un’operazione che ‘combina un
oggetto x e un oggetto y, e ottiene un nuovo oggetto z’.
Ad esempio, per costruire una frase come Lucia scrive una lettera la regola di combinazione deve
applicarsi diverse volte:
una+lettera [una lettera]
scrive+[una lettera] [scrive una lettera]
Lucia+[scrive una lettera] [Lucia scrive una lettera]
Quelli che seguono sono altri due esempi di combinazione ricorsiva. Nel primo esempio, nella
frase “La copertina è verde”, al gruppo nominale la copertina vengono aggiunti a destra, attraverso
operazioni consecutive, gruppi di preposizione+nome.
(1a) La copertina è verde
(1b) La copertina del fascicolo è verde
(1c) La copertina del fascicolo della rivista è verde
(1d) La copertina del fascicolo della rivista di linguistica è verde
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Nel secondo esempio, attraverso operazioni di combinazione, la frase semplice viene “incassata”,
cioè inserita in una frase più grande che la contiene.
(2) Il treno è partito → Hai visto che il treno è partito → Hai detto che hai visto che il treno è
partito...
Questo è già falsificato se la frase è appena un po’ più complessa. Nel seguente esempio, per avere
lo stesso cambiamento di significato non basta invertire la sequenza delle parole, devo individuare
quali sono i costituenti della frase e invertirne la sequenza:
La dipendenza dalla struttura diventa palese nel caso delle frasi ambigue, cioè frasi che
presentano una certa sequenza di parole ma hanno due possibili significati. Frasi strutturalmente
ambigue, come quelle che seguono in (5), evidenziano che la sequenza lineare non è sufficiente a
determinare il significato, perché esso dipende anche dalla struttura della frase stessa. Nel seguente
esempio, il costituente [con il binocolo] può avere relazioni diverse con resto della frase,
determinando in tal modo la possibilità di due diverse interpretazioni, una in cui [con il binocolo]
“modifica”, cioè si riferisce a [il marinaio] e una in cui invece si riferisce a [Gianni guarda]:
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Ci sono altre prove del fatto che i rapporti fra parole non sono determinati semplicemente da criteri
sequenziali, di adiacenza o “vicinanza”. I seguenti esempi riguardano il fenomeno dell’accordo tra
soggetto e verbo in italiano. La sottolineatura indica che l’accordo sussiste tra parole adiacenti, ma
anche da parole distanti tra loro, e indipendentemente dall’ordine sequenziale:
Il nome che determina l’accordo è quello che è il soggetto della frase, cioè è quello che è in uno
specifico rapporto strutturale con il verbo, e non semplicemente il nome che precede il verbo.
L’asterisco in (6d) indica che la frase non è grammaticale, perché il verbo partire è accordato con il
nome adiacente cugini, che è il soggetto della frase relativa, anziché con la ragazza, che è il soggetto
della frase principale di cui partono fa parte.
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6. LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
Il linguaggio è lo strumento essenziale della comunicazione umana. Non è l’unico strumento, si
può comunicare anche in altri modi, ma è indubbio che la comunicazione per gli esseri umani è
principalmente comunicazione linguistica. Alcune caratteristiche del linguaggio lo rendono uno
strumento di comunicazione estremamente potente, duttile ed efficace. Pensiamo ad esempio alla
combinatorietà (vedi par. 5), che ci permette di costruire enunciati che non abbiamo sentito prima
(questa è la creatività del linguaggio) e di esprimere i concetti e i significati, anche molto complessi,
elaborati attraverso il pensiero. Questa possibilità non è stata osservata nei sistemi di comunicazione
di specie animali, che in generale funzionano utilizzando segnali che fanno parte di un repertorio già
esistente e limitato. Indubbiamente, il fatto che la specie umana ha potuto usare la facoltà di
linguaggio per comunicare ha influito in modo molto significativo sullo sviluppo dell’umanità e sul
suo rapporto con l’ambiente naturale.
Questo non significa che linguaggio e comunicazione siano la stessa cosa, che costituiscano un
unico sistema, che saper parlare significhi saper comunicare. Molti dati dimostrano che è un errore
identificare la facoltà di linguaggio con una sua finalità, cioè la comunicazione. Gli argomenti che ci
portano a separare i due sistemi sono di tre tipi:
i) la comunicazione è la principale funzione del linguaggio, ma non è l’unica. Il linguaggio ci
serve anche per formulare i pensieri ancora prima di esprimerli (e talvolta, se le frasi costruite nella
mente non vengono tradotte in suoni, senza esprimerli);
ii) alcune delle proprietà fondamentali del linguaggio sono caratteristiche non ottimali ai fini
comunicativi;
iii) per comunicare non basta conoscere una lingua: la competenza linguistica è necessaria ma
non sufficiente.
Linguaggio e comunicazione, dunque, non sono la stessa cosa: da un lato il linguaggio esiste
indipendentemente dalla comunicazione ed ha sue specifiche caratteristiche, dall’altro la
comunicazione linguistica richiede abilità ulteriori oltre alla competenza linguistica.
Consideriamo il punto ii) del precedente elenco.
Una delle proprietà essenziali del linguaggio, ma non ottimale per la comunicazione, è la
ricorsività sintattica, quella che permette di costruire frasi illimitatamente lunghe (vedi par. 5). Una
ricorsività molto limitata permette di costruire frasi complesse, e quindi consente di comunicare
concetti complessi; ma la ricorsività della sintassi è in sé illimitata, e questa infinità non risponde alle
necessità della comunicazione, anzi le contrasta. L’efficacia comunicativa, infatti, impone forti limiti
alla lunghezza degli enunciati: Enunciati molto lunghi o dalla struttura sintattica troppo complessa
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richiedono troppa memoria a breve termine e troppo tempo (parliamo di millisecondi) per essere
“processati” dall’ascoltatore.
Un’altra caratteristica del linguaggio che non lo rende ottimale ai fini della comunicazione è il
fatto che esso può produrre espressioni ambigue. L’ambiguità è tollerata nel linguaggio, ma è evidente
che non è utile alla comunicazione, perché costringe l’ascoltatore a svolgere un lavoro supplementare
di disambiguazione per poter arrivare alla comprensione dell’enunciato.
Sul punto iii), la ricerca condotta riguardo al funzionamento della comunicazione linguistica, ha
dimostrato che per saper comunicare non basta sapere una lingua. Per comunicare, gli esseri umani
mettono in atto delle abilità mentali che non fanno parte del linguaggio. La conoscenza di una lingua
è necessaria per la comunicazione linguistica, ma non è sufficiente; occorre anche un’altra capacità,
basata su principi e regole proprie, che si chiama pragmatica.
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Contraddicendo questo modello, lo studio della comunicazione linguistica ha mostrato che se, da
una parte, le operazioni linguistiche che ci permettono di formare e comprendere le frasi (codifica e
decodifica) sono un elemento indispensabile del processo comunicativo, dall’altra nella
comunicazione avviene anche un passaggio di informazione che non è codificata, cioè non fa parte
del significato delle espressioni pronunciate, ma si affianca e si aggiunge a tale significato. In altri
termini, il significato che il parlante intende trasmettere, (in breve il significato del parlante) in molti
casi non è codificato interamente, e una parte di esso resta non esplicitata. Perché l’informazione non
codificata venga comunque trasmessa dal parlante all’ascoltatore, chi ascolta deve inferire il
contenuto non codificato. Fare inferenze è un’attività (non sempre consapevole) che fa naturalmente
parte della comunicazione umana; ciò significa che quando comunichiamo ci aspettiamo di dover
mettere in atto dei processi mentali per poter scoprire, ovvero inferire, il significato nascosto nelle
frasi che ascoltiamo. Nella comunicazione facciamo continuamente inferenze, anche nelle
conversazioni quotidiane e più banali.
Per fare un esempio concreto, immaginiamo che in una famiglia si svolga il seguente dialogo:
La replica della madre non contiene la risposta alla domanda del padre; in altri termini, la risposta
non è esplicitamente e direttamente codificata. Quello che la madre dice, però, contiene gli elementi
che permettono di capire l’intero significato che lei intende comunicare, cioè ‘Sì, Gianni è andato in
motorino’; ma per arrivare a questo risultato, il padre deve fare un’inferenza (Se il casco non c’è è
perché Gianni lo ha preso per andare in motorino). La madre, a sua volta, fa una domanda - Perché
(me lo chiedi)?- a cui il padre replica senza esplicitare direttamente ciò che intende ‘Te lo chiedo
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perché penso che potrebbe piovere, e se piove chi va in motorino si bagna, quindi speriamo che non
piova’; anche nella replica del padre il significato che si intende comunicare non è codificato
interamente, e la sua comprensione richiede un’inferenza da parte di chi ascolta.
La capacità di fare inferenze fa parte delle caratteristiche proprie della mente umana e, per quanto
è possibile sapere, non esiste nella comunicazione degli animali. Per fare inferenze utilizziamo dati e
informazioni in parte contenuti negli enunciati che ascoltiamo, in parte ricavabili dal contesto
situazionale o da nostre conoscenze di altro tipo. Tornando allo scambio in (7), i parlanti utilizzano
conoscenze comuni (in parte ovvie) quali “per andare in motorino bisogna indossare il casco”; “in
motorino non ci si può riparare dalla pioggia”, sulla base delle quali fanno le inferenze che
garantiscono la riuscita dell’atto comunicativo.
La capacità di trovare ed elaborare le informazioni utili è quindi essenziale per il funzionamento
della comunicazione; tale capacità è una caratteristica naturale, potremmo dire “istintiva” della mente
umana, e viene definita ricerca della pertinenza. Con questo concetto si indica il fatto che la mente
tende per sua natura a individuare tra gli stimoli disponibili quelli più pertinenti alla comunicazione
in atto.
Per i partecipanti a un atto comunicativo, uno stimolo può provenire dall’esterno, qualcosa che
sentono o vedono nell’ambiente, ma può anche essere uno stimolo di provenienza interna, cioè
qualcosa che sanno, pensano o ricordano. Ciascuno degli stimoli disponibili può apparire più o meno
pertinente. Ci appare pertinente se ci permette di arrivare a conclusioni che ci interessano, anche
utilizzando informazioni che già abbiamo (dati noti, conoscenze riguardo al mondo). Le conclusioni
interessanti sono quelle che servono, ad esempio, a toglierci un dubbio, a confermare un sospetto o a
correggere un’informazione sbagliata.
La ricerca di pertinenza è un fattore essenziale del processo comunicativo. L’atto comunicativo di
per sé crea aspettative di pertinenza nei partecipanti. Questo è vero in due sensi. Da una parte,
l’ascoltatore cerca elementi pertinenti che permettano di inferire il contenuto che non è codificato
(non è realizzato linguisticamente) nell’enunciato, e ottenere così l’intero significato che il parlante
intendeva trasmettere (chiamiamolo significato del parlante). Dall’altra parte, il parlante, con il
semplice atto di produrre un enunciato, indica la sua volontà che quell’enunciato sia considerato
pertinente. Chi parla non sempre riesce ad essere pertinente, ma ha sempre l’intenzione di esserlo, e
tutti i partecipanti a una conversazione si aspettano che gli altri siano pertinenti: l’atto stesso di parlare
porta con sé una presunzione di pertinenza.
La mente umana considera uno stimolo tanto più pertinente quanto più interessante è la
conclusione che ne possiamo trarre. Oltre a questo, la mente umana è portata anche a valutare uno
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stimolo come più pertinente se questo è meno complesso da elaborare. Riprendendo l’esempio in
(7), immaginiamo che la madre possa dare una di tre risposte alternative:
Tutte e tre le risposte danno all’interlocutore informazione utile, ma è chiaro che la b) è la più
pertinente. E’ più pertinente della a), perché è più precisa, e quindi più interessante: la risposta a) non
esclude che Gianni sia andato a piedi o con altri mezzi. La risposta b) è più pertinente della c) perché
è molto più facile da elaborare, pur essendo equivalente nel significato. L’input più pertinente è quello
che permette più facilmente al padre di formarsi un’idea sulla situazione.
Nella comunicazione, gli umani tendono naturalmente a selezionare gli stimoli esterni
potenzialmente pertinenti e la nostra memoria tende automaticamente ad attivare i ricordi pertinenti.
La ricerca di pertinenza stimola la nostra capacità di fare inferenze, quindi ad elaborare gli stimoli
pertinenti nel modo più produttivo.
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personali). Le espressioni deittiche sono quelle per le quali abbiamo bisogno di informazione
contestuale per sapere compiutamente a che cosa si riferiscono.
Ad esempio, nel seguente scambio:
A capisce il significato codificato ‘il gatto è vicino ad B’ e inferisce sulla base di dati contestuali
(sa o capisce che B è in cucina) il significato ‘il gatto è in cucina’. Dunque, il significato del parlante,
solo parzialmente codificato, della frase “È qui” è ‘Il gatto è in cucina’. L’ascoltatore lo inferisce
utilizzando l’informazione contestuale di cui è a conoscenza, cioè che il parlante si trova in cucina.
Se non avesse questa informazione, non potrebbe inferire il significato globale. La stessa frase “È
qui” può avere in una circostanza diversa un significato diverso; ad esempio, in una conversazione
telefonica come la seguente:
(10) A: “Gianni non è ancora tornato a casa, per caso tu sai dov’è?”
B: “E’ qui”
La risposta di B può voler dire ‘Tuo figlio è a casa mia’. In realtà, i significati possibili di una
risposta come quella di B, che contiene un deittico, sono tanti quanti sono i contesti in cui può essere
pronunciata, cioè illimitati.
Un altro esempio di significato codificato che non comunica l’intero significato del parlante è
quello della congiunzione coordinativa e. Il significato linguistico di e è semplicemente quello
coordinativo, che accomuna all’interno del discorso due unità (parole, parti di frasi o frasi intere) che
descrivono oggetti, proprietà, eventi, eccetera. Significati più specifici della congiunzione devono
essere inferiti in base ad altri dati. Questo può essere osservato nei seguenti esempi, in cui la
congiunzione e esprime, rispettivamente, significati di relazione nello spazio, o di sequenzialità
temporale o di connessione strumentale:
(11) “Gianni è andato in cucina e si è fatto un caffè” (in cucina dove ha fatto il caffè)
“Gianni ha chiuso il portone e si è incamminato verso l’ufficio” (prima ha chiuso e poi si è
mosso)
“Gianni ha venduto la moto e ha regalato un anello alla fidanzata” (con i soldi della moto ha
comprato l’anello)
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Il significato linguistico può essere insufficiente anche nel caso di parole “piene”, cioè quelle che,
a differenza dei deittici, codificano concetti che possono riferirsi a entità extralinguistiche. In effetti,
non dobbiamo pensare al significato come una proprietà univoca delle parole. Il significato è piuttosto
una proprietà essenziale, che risulta di volta in volta adeguata a denotare determinate caratteristiche
degli oggetti. Ad esempio, anche se tutti conosciamo il significato di bottiglia, la parola può essere
usata per riferirsi a vari oggetti, anche molto diversi tra loro, tutti però accomunati da una stessa
proprietà essenziale. Non c’è una relazione completa e rigidamente stabilita tra parole e oggetti del
mondo esterno.
In molti casi, poi, è il significato stesso delle parole ad essere vago. Se pensiamo a coppie di parole
come tazza/ciotola, torrente/fiume, albero/arbusto, ci rendiamo conto che il significato di ciascuna
parola non è nettamente distinguibile da quello dell’altra. Inoltre, parole che denotano qualità, come
alto, caldo, piano, acquistano significati ben diversi a seconda del contesto in cui sono usate: un tè è
caldo a 80-100°, l’acqua del mare d’estate è calda per farci il bagno se è intorno a 24° e il ferro è
caldo per essere forgiato a circa 800°. Il significato di certe parole astratte, come democrazia, libertà,
dolore, è difficilmente circoscrivibile, e può cambiare con il passare del tempo o al cambiare delle
situazioni a cui ci si riferisce.
Questo però non significa che i parlanti di una lingua non conoscano bene e non abbiano intuizioni
sicure sul significato delle parole. Piuttosto, la natura stessa del significato linguistico è tale che esso
può essere completamente elaborato e compreso solo in base al contesto della frase e anche grazie
all’utilizzo di informazioni non linguistiche che sono disponibili nel contesto comunicativo (input
esterni) o preesistenti nella mente dei partecipanti alla comunicazione (input interni). L’utilizzo delle
informazioni non linguistiche è un’operazione di inferenza.
Prendiamo ora brevemente in esame la seconda delle due ragioni che rendono necessaria
l’inferenza, menzionate all’inizio del paragrafo, cioè il caso in cui il parlante comunica una parte del
messaggio non direttamente. Quelli che seguono sono altri esempi di enunciati in cui il significato
della risposta è solo in parte codificato:
Informazione necessaria, parte della “conoscenza del mondo” (A ipotizza (o sa) che B possiede
questa conoscenza): “Juventus e Fiorentina sono squadre di calcio (e non, ad esempio, di rugby)”.
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Nel suo enunciato B lascia non codificata una parte del significato “(No, perché) non seguo il
calcio”; A lo inferisce sulla base di un’ipotesi basata sulla conoscenza del mondo, “chi non segue il
calcio non guarda le partite di calcio”.
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In alcuni casi, il parlante intenzionalmente fa un uso non letterale del significato linguistico
dell’enunciato che produce, cioè codifica un significato volendo trasmetterne uno del tutto diverso, e
volendo dare a ciò che dice un carattere ironico. Nei seguenti scambi, il significato letterale della
replica è l’opposto del significato che si intende trasmmettere, e l’enunciato ha valore ironico:
In questo ultimo caso, la prima parte della risposta è ironica. La seconda parte è iperbolica (crollare
è usato in un significato non letterale) ma contiene anche un significato indiretto che rinforza il
significato della prima parte ‘La casa non è crollata ma ci è mancato poco’.
Questi esempi evidenziano che, anche nel caso di un uso non letterale del significato codificato, la
comprensione del significato del parlante è resa possibile dal fatto che l’ascoltatore, utilizzando
informazioni di vario tipo (tra cui la competenza pragmatica circa gli usi non letterali del significato),
mette in atto processi di inferenza che integrano e completano il significato effettivamente codificato.
Riassumendo, perché la comunicazione possa funzionare è necessario che i partecipanti all’atto
comunicativo condividano una stessa lingua, ma non è sufficiente. Occorre che essi condividano
anche gli stessi principi pragmatici, i quali costituiscono una competenza diversa e autonoma rispetto
alla competenza linguistica.
Il linguaggio non è la comunicazione, e la sola competenza linguistica non basta ai fini
comunicativi.
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Al di fuori della linguistica, il significato più comune della parola grammatica è quello di un
testo in cui sono descritte le forme e le strutture insieme alle regole da applicare per produrre frasi
corrette in una data lingua; in molti casi questi testi sono rivolti ad apprendenti della lingua stessa
come seconda lingua.
In linguistica il termine grammatica indica invece l’insieme di principi e regole che i parlanti
di una lingua mettono in atto, perlopiù inconsapevolmente, per produrre e comprendere gli
enunciati. Si tratta quindi della competenza linguistica, una conoscenza che sta nella mente dei
parlanti; per indicare questa competenza si usa anche l’espressione grammatica mentale. I
linguisti usano la parola grammatica anche per indicare la descrizione di questo sistema mentale;
la grammatica del polacco, quindi, è la descrizione delle conoscenze che formano la competenza
linguistica dei parlanti nativi del polacco.
La grammatica è quindi un sistema basato sulla facoltà di linguaggio e costruito nella mente
dei parlanti attraverso l’acquisizione. I parlanti di una data lingua mettono in atto tale sistema per
produrre e comprendere frasi di quella lingua. Quasi tutte le informazioni necessarie per il
linguaggio sono usate in modo inconsapevole: in modo istintivo, senza sforzi consapevoli, siamo
capaci di produrre e comprendere infinite espressioni nella nostra lingua, e di distinguere le
espressioni possibili (dette grammaticali) anche se non le abbiamo mai sentite prima, da quelle
non possibili perché violano regole della grammatica (dette agrammaticali o non grammaticali).
La competenza linguistica consiste di un insieme complesso di abilità: l’abilità di combinare
le parole per formare frasi (sintassi), l’abilità di “tradurre” le costruzioni sintattiche in suoni,
(fonologia), e l’abilità di “tradurre” le costruzioni sintattiche in significati (semantica). Sintassi,
fonologia e semantica sono moduli della grammatica. Ciascuno di essi risponde a principi e regole
proprie, e in questo senso si tratta di componenti autonome, che interagiscono per il
funzionamento del linguaggio.
La competenza di una lingua richiede ovviamente anche la conoscenza lessicale. Le parole
sono le unità del lessico, e sono i “mattoni” che la sintassi mette insieme per costruire le frasi.
Possiamo rappresentare la struttura della grammatica come nella Figura 7.
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Tutto ciò che è incluso nel cerchio fa parte del linguaggio. Ciò che ne è al di fuori appartiene
ad altri sistemi della mente e del corpo umano, che non sono specificamente linguistici, ma sono
in relazione con il linguaggio: da una parte il sistema dei concetti, cioè il pensiero, dall’altra il
sistema motorio e il sistema percettivo, che sono usati dagli esseri umani per una serie molto
ampia e varia di attività, e sono indispensabili nel linguaggio per produrre i suoni e per percepirli.
Sebbene i suoni siano la forma prioritaria e più frequente dell’espressione linguistica, il
linguaggio può anche utilizzare segni diversi dai suoni, segni che vengono percepiti attraverso il
canale visivo anziché attraverso quello uditivo: questo accade nella lingua scritta, o nelle lingue
dei segni utilizzate dalle persone sorde. Utilizzando il termine suono in un senso più ampio,
possiamo quindi considerare il linguaggio come un’interfaccia tra il pensiero e i suoni.
Il modulo della semantica si occupa del significato. Noi mettiamo in atto la nostra
competenza semantica quando elaboriamo il significato delle singole parole, ed anche il
significato della frase nel suo insieme. Questa elaborazione è necessaria sia quando produciamo
frasi sia quando le percepiamo e le dobbiamo interpretare, cioè ne dobbiamo capire il significato.
Per questa operazione la semantica deve accedere al lessico, dove sono contenute (memorizzate)
le parole, che sono associazioni di una forma sonora con un significato. La semantica si rapporta
col sistema concettuale, cioè col pensiero, che è esterno al linguaggio.
Il modulo della fonologia si occupa dei suoni, del modo in cui una certa lingua utilizza i suoni
per differenziare tra loro le parole e quindi per esprimere significati. Il parlante/ascoltatore deve
conoscere le regole della propria lingua che riguardano i suoni e il modo in cui i suoni possono
combinarsi per formare parole ed enunciati. La fonologia accede al lessico perché per pronunciare
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una parola o una serie di parole dobbiamo conoscere la loro forma sonora. La fonologia si rapporta
con il sistema percettivo e con il sistema motorio che sono esterni al linguaggio, che ci permettono
di udire e articolare i suoni linguistici.
La sintassi è il modulo che combina le parole e costruisce frasi. Per costruire frasi il parlante
prende le parole dal lessico; per interpretare le frasi percepite l’ascoltatore riconosce le parole e
si riferisce al lessico per trovarne il significato. Per fare questo la sintassi cerca informazioni nel
lessico. Inoltre interagisce con la semantica, che traduce il prodotto della combinazione sintattica
in significato, e interagisce con la fonologia, che traduce il prodotto della combinazione sintattica
in suoni. Il parlante/ascoltatore deve mettere in azione le tre diverse competenze, oltre a quella
lessicale, per produrre frasi e per comprenderle.
Il lessico è il vocabolario mentale, il magazzino in cui sono memorizzate le parole. A
differenza degli altri tre moduli, che utilizzano memoria a breve termine, cioè quella necessaria
al processo momentaneo di elaborazione linguistica di una frase, il lessico utilizza la memoria a
lungo termine: le parole che abbiamo imparato restano (quasi) tutte stabilmente nella nostra
memoria. Inoltre il lessico è un insieme aperto, che può essere ingrandito in ogni momento della
vita di una persona, mentre lo stesso non accade per gli altri moduli.
La competenza lessicale comprende anche la capacità di formare parole e di analizzarne di
loro la struttura interna; questa competenza si chiama morfologia. La morfologia lessicale è quello
che permette a un parlante di mettere in collegamento tra loro parole come opera, operare,
operativo; e su questa base anche di comprendere il significato della parola operatività anche se,
magari, non l’ha mai trovata prima. La competenza morfologica è anche necessaria alla sintassi,
in quanto in certi casi è necessario adattare le parole alle necessità della frase, cambiando la loro
forma a seconda del rapporto che una parola ha con altre parole della frase. Ad esempio, la regola
dell’accordo fa sì che in italiano la forma del verbo debba adattarsi al soggetto per quanto riguarda
il numero e la persona, per cui dobbiamo dire Il gatto salt-a ma I gatti salt-ano e Tu salt-i.
La morfologia, quindi, appartiene tanto al lessico quanto alla sintassi.
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