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TEORIA DELLA TRADUZIONE

1. VISIONE INTRODUTTIVA D’INSIEME


1. Traducibilità delle lingue: la diatriba tra universalisti e relativisti

Il concetto di traduzione è stato interpretato in modi diversi come azione paradossale e impossibile o come
procedimento algoritmico riducibile al linguaggio logico formale per programmare calcolatori elettronici.
All'origine di queste due posizioni estreme si trovano anche motivazioni ideologico filosofiche estranee alla
linguistica. Questa diatriba la possiamo dividere in linguisti universalisti e relativisti. Questa diatriba ha un
rapporto diretto con il postulato ontologico della traduzione, ovvero con l'idea che la traduzione possa
esistere in quanto tale a prescindere dal proprio pensiero, si può convenire che la traduzione tra lingue
diverse può esistere se e solo se:

 La diversità delle lingue compensata da un funzionamento universale dovuto a facoltà cognitive e psico
emozionali comuni a tutta la specie umana;
 Le specificità superficiale delle lingue intacca in modo non rilevante le differenze nel modo in cui parlanti
lingue diverse pensano, concettualizzano la realtà e comunicano;
 Le specificità culturali riflesse da una singola lingua possono essere espresse, trasmesse, comprese e
apprese da umani che appartengono a un'altra linguocultura.

Questo termine nato in ambito relativista mette in luce la relazione tra lingua e cultura. Questa relazione
è innegabile ma non implicava affatto che la diversa mentalità di un gruppo culturale dovesse essere
condizionata dalla lingua, bensì che la lingua fosse in parte condizionata dalla cultura. Certamente, se la
cultura ha un diretto rapporto con l’ambiente, è chiaro che la lingua rispecchia le specificità geografiche,
gastronomiche, rituali e storiche del popolo che la usa. Gli umani, infatti, parlano di ciò che conoscono e
di ciò che è per loro più rilevante.

Al contrario, se essere nativi di una lingua particolare rendesse a priori parlanti diversi nel loro modo di
concepire la realtà e di reagire all' input esterni, la traduzione risulterebbe impossibile per definizione; il
bilinguismo, infatti, sarebbe una condizione schizofrenica: cambiando lingua uno stesso parlante bilingue
modificherebbe la propria visione del mondo e, secondo il relativismo estremo, anche alcune capacità
cognitive sarebbe un'altra persona. Secondo questa ipotesi non ci sarebbe alcuna reale possibilità di
trasmettere a nativi di lingue diverse uno stesso messaggio. Molti linguisti ritengono che le lingue siano
diverse a livello superficiale, ma accomunate da una struttura profonda detta anche grammatica
universale che le rende paritariamente in grado di esprimere, con strumenti diversi, i pensieri, i
sentimenti, le esperienze che, potenzialmente, possono condividere esseri umani di tutto il pianeta. Essi
sono gli universalisti che si oppongono alla teoria del relativismo linguistico, una teoria nata alla metà del
900 grazie a Edward Sapir e Benjamin Whorf e pertanto parliamo di “ipotesi Sapir-Whorf”. Secondo
questa ipotesi le modalità e i limiti del pensiero umano sono a qualche significativo livello, condizionati
dalla lingua nativa. Questa posizione e emersa grazie lo studio sulla lingua hopi, parlata da un'esigua
popolazione indigena nordamericana è molto diversa dalle lingue europee, non solo per le strutture, ma
per il mondo di catalogare lo spazio e il tempo. L'idea era che le parole così come i vincoli grammaticali
influissero sulla visione del mondo degli indiani hopi punto non si trattava solo di rimarcare l'innegabile
è inscindibile rapporto tra lingua e cultura, affermando che la cultura hop aveva dei riflessi sulla lingua
hopi, ma si ipotizzava che la lingua hopi condizionasse i nativi hopi parlare di certe cose, prestando più o
meno attenzione cognitiva a certi elementi della realtà rispetto, per esempio, ai nativi della lingua inglese.
Non solo l'ambiente la cultura si rifletterebbero sulla lingua, ma lingua modificherebbe il modo di vedere
la realtà circostante e il pensiero astratto dei parlanti. Quindi questo pensiero assume che gli utenti di
lingue diverse usano differenti rappresentazioni concettuali mentre quello anti-whorfiano implica che
utenti di lingue diverse usano lo stesso sistema di rappresentazione concettuale. altri invece rifiutano
l'idea che la lingua funzioni in modo cognitivamente analogo per tutti gli umani, sostengono il mito del
relativismo percettivo. Secondo questa teoria, i popoli che hanno più parole per le gradazioni dei colori,
le distinguono meglio di chi non ha parole specifiche; ad esempio, chi ha parole per le gradazioni del blu
come il celeste l'azzurro, vede meglio l'azzurro. Alcuni studiosi hanno rivisitato l’idea di sapir-Whorf,
consentendo di studiare le differenze socioculturali senza rinnegare la sostanziale universalità del
funzionamento della psiche umana. Si può immaginare che esista un pensiero cosciente, concettuale,
che necessiti per esprimersi di una lingua naturale secondo un rapporto inter-relazionale. L’idea che chi
è stato plasmato da una lingua non possa recepire fino in fondo la realtà concettuale di chi è nativo di
un’altra lingua equivale, come si è detto, a negare la possibilità di essere realmente bilingui, e quindi, di
poter tradurre da una lingua all’altra. Per Lingua naturale intendiamo tutte le lingue parlate dagli umani
spontaneamente e non create artificialmente, comprese le lingue dei segni, che hanno le stesse capacità
comunicative delle lingue vocali, lo stesso grado di complessità, ricorsività e produttività, pur utilizzando
il canale visivo invece dell’udito. Invece, il termine bilingue, si intende qualunque persona possa condurre
una vita, piena in tutti i suoi aspetti, in due lingue diverse senza rilevanti differenze, a prescindere che il
bilinguismo sia precoce o tardivo.

Se assumiamo modo rigido l'idea di Slobin, secondo cui, “acquisendo una lingua nativa, un bambino
impara modi particolari di pensare per parlare”, chi non è nativo della stessa linguocultura di quel
bambino non può per principio accedere la sua comprensione del mondo in modalità native-like. questa
diatriba è stata riassunta da John Mcwhorter. Nel suo libro The Language Hoax, illustra con parole
particolarmente efficaci e pacate, due cose molto importanti:

 Sempre più spesso, in che dalla stampa, vengono diffusi dati non attendibili e leggende
pseudoscientifiche che fanno scalpore, ma sono falsi;
 Esistono un relativismo e un universalismo molto seri in grado di stimolarsi a vicenda, cioè di partire dagli
aspetti condivisi da tutti gli umani e da tutte le lingue per poi studiarne le differenze.

Quanto riguarda il relativismo, questo autore sottolinea la differenza tra “whorfismo popolare” e “neo-
whorfismo accademico”. mentre il primo non è scientifico il secondo e nutrito da un reale interesse scientifico
per la comprensione della mente umana. Entrambe le posizioni vorrebbero porsi l'idea che vi siano culture
superiori (le nostre) rispetto ad altre inferiori, mostrando che la diversità delle lingue culture è un baluardo
contro l'egemonia culturale e la globalizzazione di impronta occidentale. Secondo questa visione comune, gli
universalisti sarebbero ostili all’egualitarismo, e quindi attaccherebbero le posizioni relativiste. di
conseguenza, evidenziare le differenze tra le lingue implicherebbe fare autocritica mostrando che le culture
inferiori siano invece migliori di noi. I relativisti popolari credono che il fatto che una lingua abbia o non abbia
certe forme grammaticali rivelerebbe uno specifico modo di parlanti lui rapportarsi agli altri o all'ambiente
circostante. il mito della diversità può rivelare un esorta di malcelato elitarismo: anche dicendo che loro sono
migliori di noi perché non sono come noi, stiamo sottolineando proprio il fatto che chi non appartiene alla
nostra cultura è diverso, sostenendo che i diversi sono migliori in quanto sono più primitivi, lontani dal nostro
imperialismo occidentale. In sostanza, le parole di una lingua sono influenzate e talvolta direttamente dettate
dalla cultura in cui nascono e vengono usate, malalingua, pur riflettendo la cultura non la cria. Viceversa, il
relativismo diffuso in forme iper-semplificate afferma che la lingua favorisce alcuni pensieri rispetto ad altri,
ma ciò non è argomentabile scientificamente perché le strutture linguistiche la cultura non hanno punti in
comune, ne li hanno la grammatica e la struttura del pensiero umano. tuttavia, se invertiamo il problema,
possiamo partire dal fatto che la traduzione esiste proprio per suffragare un moderato assunto universalista.
Infatti, se esiste al mondo anche una sola traduzione che rispecchia una sostanziale retroversibilità (permette
quindi di ri-convertire la traduzione in un testo analogo a quello di partenza, e un bilinguismo del traduttore
sufficiente a recepire il testo di partenza, esiste anche una capacità universale di ogni lingua naturale di
adattarsi ad esprimere qualsiasi cosa un umano abbia espresso in un’altra lingua. L’universalità non riguarda
né le strutture, né le parole, né la loro posizione nella frase, ma il fatto che ogni lingua, con i propri strumenti
può veicolare qualsiasi messaggio venga in mente a un umano. Proprio la traducibilità in interlinguistica ha
portato a dubitare del relativismo estremo; Infatti, anche se una lingua non a singoli termini per chiamare
qualcosa trova sempre il modo per farlo. Per esempio, l’italiano la parola suocera, L'inglese invece usa tre
parole: mother in law; Il russo non ha un lessema per suocera ma due, ossia distingue tra suocera da parte di
marito e suocera da parte di moglie. Chi parla alle tre lingue non se ne accorge perché quel che dice non lo
fa la lingua ma lo fa il contesto. Il contesto e quasi sempre sufficiente a dare informazioni. Gli universali
guardano il funzionamento della lingua in generale, il fatto che tutti possano parlare di suocere, di viaggi, di
gioia e di dolore. A livello linguistico parliamo di: che possono essere implicazionali quando un tratto
linguistico ne implica un altro o non implicazionali quando un tratto è comune a tutte le lingue; E le tendenze
universali.

2. Il concetto di “traduzione” e di “retroversibilità”

Il termine traduzione indica il processo di ri-codificazione di qualsiasi sistema di segni in un altro sistema di
segni, tale per cui i segni convertiti dal primo sistema nel secondo sistema possano, essere riconvertiti nel
primo sistema. Per esempio, possiamo tradurre le note di uno spartito, i quali segni possono essere ri-
convertiti in note; possiamo tradurre i grafemi di un alfabeto in quelli di un altro. Tuttavia, in questi casi
specifici, esistono termini meno generici, come conversione, codifica, traslitterazione. Nelle lingue
indeuropee contemporanee, il termine traduzione, si usa per eccellenza e per default a indicare due concetti:

 Il processo di ri-codificazione di un testo in lingua naturale in un testo in una lingua naturale diversa;
 Il prodotto di questo processo, cioè il testo tradotto ovvero un testo secondario trasformato in altra
lingua da un testo primario.
Per quanto riguarda i segni linguistici, possiamo riferirci alla traduzione secondo la tripartizione di
Jakobson:

 Traduzione endolinguistica, intralinguistica o riformulazione, ovvero la conversione dei segni di una


lingua naturale in segni diversi della stessa lingua; si dice la stessa cosa con parole diverse;
 Traduzione interlinguistica, traduzione vera e propria, ovvero conversione dei segni di una lingua naturale
nei segni di un’altra lingua naturale;
 Traduzione intersemiotica, trasmutazione o trasposizione, passaggio da un codice linguistico ad un altro,
ad esempio, il passaggio da un testo scritto a quello cinematografico. Qui però, vi è una limitazione,
perché si dimentica che lo stesso passaggio può avvenire tra due codici non linguistici: dall’immagine alla
musica per esempio.

In realtà la traduzione intralinguistica non è altro che una qualsiasi traduzione. Le riformulazioni nella
stessa lingua danno sempre informazioni diverse: ad esempio, indicano una differente relazione o
distanza tra emittente e destinatario, oppure una diversa modalità d’uso nel contesto. Questa
discrepanza riguarda il registro linguistico della comunicazione. Un cambio di registro e una
riformulazione e non una traduzione; in senso lato, si può chiedere di tradurre nella stessa lingua un
discorso tecnico che non sia compreso. Anche la traduzione Inter semiotica non è propriamente una
traduzione dato che manca la possibilità di retroversione, la quale è un criterio fondamentale. processo
di ricodificazione interlinguistica e binario. Dire EXIT= USCITA consente non solo di dire che USCITA=
EXIT, ma anche di sapere quale sarà X sia nel caso X=EXIT, sia nel caso USCITA=X. Principio della
traduzione interlinguistica è invece chiaro: dato un enunciato di partenza, la sua traduzione in altra lingua
se riconvertito nell'enunciato di partenza. Se la retroversione non funziona, si tratta sempre di traduzioni
carenti sul piano professionale o di false traduzioni o di traduzioni creative. Ma anche in quest'ultimo
caso, per esempio, nella traduzione della poesia, la riconoscibilità dei testi, dei versi, deve essere
garantita al lettore bilingue. Leggendo Dante in russo, ad esempio, devo poter individuare il verso
dantesco cui si riferisce la traduzione. Quando traduciamo un enunciato stereotipico da una lingua di
partenza una lingua di arrivo, la probabilità di ripristinare l'enunciato di partenza da quello di arrivo e
tanto più alta, quanto più il traduttore riconosce la stereotipia e sa come valutare il contesto per scegliere
tra gli le varie opzioni. in un certo senso, tradurre significa saper scegliere quale tra le opzioni possibili sia
la soluzione traducente e creare un'opzione ex novo quando non sembra esisterne una già pronta. sei
traduttore diversi danno varianti diversi, questo potrebbe significare che:

 La traduzione che garantisce retroversione impossibile per principio;


 L'enunciato tradotto diversamente contiene informazioni più generiche, dettagliate o ambigue rispetto
agli strumenti di cui dispone l'altra lingua;
 Gli esecutori dell'operazione di traduzione non hanno lo stesso livello di competenze eh si sono verificati
da parte di alcuni piumino rilevanti imperizie nella selezione tra le opzioni esistenti.

Quanto riguarda il punto uno che potessimo dimostrarlo dovremmo negare che chi ha letto in qualsiasi
traduzione qualsivoglia libro di filosofia, politica, storia, avvia davvero l'equilibro quella autore; quasi tutti i
sovietici avrebbero citato per decenni Marx sai in realta averlo mai letto. Comunque sia, se esiste anche una
sola traduzione che dimostri un alto grado di retroversibilità, il punto uno è invalidato. Il punto 2 3 considera
la ritroversibilità livello difficilmente raggiungibile, quasi impossibile. Quasi Impossibile non significa
impossibile. la complessità della traduzione interlinguistica deriva dalla complessità dei dati che ogni
enunciato linguistico esprime grazie alle varianti possibili di una invariante. Un traduttore professionista che
disponga del contesto in cui sono espressi enunciati di partenza sceglierà l'opzione che corrisponde alla
variante di registro, alla distanza tra i parlanti, al luogo. Il traduttore in esperto non presterà attenzione a
come in variante viene espressa e all'informazione che quella specifica variante esprime sul contesto e sugli
interlocutori. Il come viene formulata la stessa invariante riguarda lo stato emotivo del parlante e la relazione
tra il parlante e all'interlocutore. E una grande difficoltà. La traduzione da una lingua ad un'altra e una delle
operazioni più complesse dell'universo.

3. Teoria della traduzione: la nascita di un campo di ricerca.

Dall’antichità e per secoli ci sono stati molti studi riguardanti le difficoltà della traduzione. Ad oggi esse sono
state ridotte e isolate tra di loro. La teoria della traduzione nasce, alle soglie del medioevo in stretta
connessione con la traduzione della Bibbia, ma la sua organizzazione come disciplina che regola la
professione è connessa al ruolo del multilinguismo/multiculturalismo dell’URSS. Essa nasce quindi in Unione
Sovietica assieme allo stato socialista che comprendeva un territorio immenso, costituito da persone che
parlavano lingue diverse. Nel 1918 lo scrittore russo Maksim Gors’kij avviò un progetto che portava ai popoli
dell’URSS, il patrimonio della letteratura di tutto il mondo, partendo dalle traduzioni in russo. Si cercava di
estendere il concetto di “letteratura mondiale” alle numerose lingue e culture dei diversi gruppi etnici che
popolavano le neonate Repubbliche sovietiche: si andava alla scoperta dei capolavori dei popoli estranei alla
dominante cultura occidentale. Si cercò anche di uniformare il lavoro tra i traduttori dando una dispensa di
istruzioni: Principi della traduzione letteraria di Cukovskij che è stata il primo nucleo del manuale: un’arte
eccelsa. Principi della traduzione letteraria. La prima monografia dal titolo Teoria e pratica della traduzione
viene pubblicata nel 1929 in Ucraina da Finkel, linguista, professore universitario e traduttore. La teoria della
traduzione è uno dei campi che prevedono di convertire conoscenze esplicite (dichiarative9 in abilità implicite
(procedurali); qualsiasi regola e istruzione dall’alto è ben poco utile se non viene occupata da strategie dal
basso, apprese mediante esperienza. Nella realtà operativa dell’esperienza, infatti, le regole astratte vengono
riviste, integrate, ampliate o ridotte. In tutte le professioni basate sul binomio conoscenza/abilità, funziona
la cooperazione tra iintuizione e deduzione, fra know how e know how to do. Per tradurre servono
competenze, ma anche addestramento, applicazione delle nozioni apprese. All’inizio degli anni 30, Trojanskij,
un ingegnere sovietico, con straordinarie intuizioni linguistiche aveva progettato e brevettato una macchina
per eseguire contemporaneamente traduzioni in più coppie di lingue. Le sue intuizioni restano ad oggi il
primo documento storico di un progetto di traduzione supportato da una macchina e anche la prima teoria
sulla “grammatica universale” illustrata 20 anni prima di Chomsky e la sua scuola. Durante l’epoca sovietica,
in Russia e nei Paesi dell’est europeo vi è stata una grande produzione di studi sulla traduzione: una più
storiografica e letteraria che chiamiamo teoria della traduzione mentre l’altra che si basa su studi linguistico-
formali e che chiamiamo traduttologia. A partire dagli anni 50 invece si è sviluppata la teoria
dell’interpretazione che oggi chiamiamo Interpreting studies.

4. Denominazioni, campi d’indagine e lacune epistemologiche.

In generale, la questione del nome da attribuire a una disciplina è spesso dibattuta. In effetti, i termini diversi
che ancora oggi vengono usati per indicare i campi di ricerca sulla traduzione alludono a una diversa posizione
ideologica degli studiosi, talvolta a oggetti di ricerca differenti e scopi diversi. Per esempio, uno studioso di
traduzione può definirsi:

 Teorico della traduzione (posizione neutra e ampia);


 Storico della teoria (puramente storica)
 Teorico dell’interpretazione (posizione orientata alla traduzione orale);
 Traduttologo (orientata alla linguistica e ai processi traduttivi);
 Esponente dei Translation Studies (posizione orientata agli studi culturali, cioè ai prodotti della
traduzione).
 Terminologo (posizione orientata alla terminologia)
 Specialista della traduzione assistita (posizione orientata all’uso e allo sviluppo di applicazioni
elettroniche di supporto per i traduttori).
L’espressione teoria della traduzione resta in uso come iperonimo cioè l’etichetta più ampia e neutra che non
implica esclusioni o predilezioni: infatti include anche gli studi che esprimono idee contrarie alla teorizzazione
della traduzione. Le altre denominazioni invece sono iponime. Essa è divisa in due aree: uno si dedica ai
prodotti della traduzione, l’altra ai processi. L’area che studia i prodotti comprende:

 Storia della traduzione


 La storia del pensiero sulla traduzione
 Gli studi socioculturali sulla traduzione

Invece, l’area che studia i processi comprende settori connessi alle scienze sperimentali, formali e applicate:

 La linguistica teorica e applicata e i vari sottosettori;


 Le scienze cognitive incluse le neuroscienze;
 La traduzione automatica (linguistica applicata all’informatica)
 Traduzione assistita.

Queste due aree godono dell’interazione reciproca e di un approccio interdisciplinare. Oggi però i vari
sottosettori disciplinari che si occupano di traduzione sono spesso autarchici e non dialogici. Da un lato
abbiamo un’eccessiva messe di intenti e prospettive, dall’altro una incomunicabilità tra studiosi.

5. Verso il dialogo scientifico


5.1 problemi epistemologici

la teoria della traduzione essendo una disciplina molto giovane non ha mai affrontato il dibattito
epistemologico, cioè la discussione relativa alla natura e studiabilità del proprio oggetto di ricerca, alle
proprie finalità e alla condivisione delle premesse e dei termini utilizzati. Le fondamenta epistemologiche
sono molto importanti. Spesso si ignora o si trascura l’importanza di un modello teorico unitario, oppure, si
ignorano o trascurano i vincoli che renderebbero il modello “scientifico”, sia condivisibile che applicabile. Nel
suo libro Consilience, l’entomologo e teorico della biologia E.O Wilson lanciava un appello agli umanisti,
invitandoli a perseguire nel loro lavoro accademico i criteri che potevano rendere più agevole il processo di
ri-unificazione del sapere mettendo fine alla contrapposizione tra scienze umane e sperimentali. Wilson
affermava che le 4 qualità che conferiscono a qualsiasi teoria il carattere di scientificità sono:
 parsimonia/economicità, cioè sforzo di ridurre al minimo il contenuto della teoria;
 generalità, che prevede che la teoria sia valida per tutti gli elementi che rientrano nell’ambito dello studio
(per esempio una teoria sulla traduzione non deve prevedere eccezioni tra tipologie e formati testuali e
nemmeno tra coppie di lingue):
 coincidenza/coerenza interdisciplinare (quanto afferma una teoria non può contraddire quanto afferma
una teoria invalsa in un’altra disciplina)
 capacità di previsione sperimentale, ovvero la capacità della teoria di prevedere di essere sottoposta a
prove di falsificazione.

Queste qualità sono prerogative necessarie e sufficienti a rendere scientifico qualsiasi modello teorico.
Scientifico significa che deve essere comprensibile alla comunità scientifica e sottoponibile al controllo, cioè
applicabile. È scientifico solo se si basa su dati che non sono contraddetti da altri studi. Nel caso della
traduzione, un modello teorico deve rendere più semplice ul nostro modo di descrivere il processo traduttivo
per quanto sia realmente complesso. “Ridurre” la complessità della descrizione non significa negarla o
trascurarla ma offrire la possibilità agli studiosi di affrontarla, capirla, e tentare di invalidarla. La prima tappa
è formulare un insieme di concetti, oggetti, termini per indicare oggetti e concetti. Essi devono essere
descrivibili mediante termini condivisi dalla comunità dei ricercatori. Solo individuando una base
epistemologica che definisca postulati e finalità, che applichi metodologie condivisibili da parte dei
ricercatori, la teoria della traduzione può inserirsi in quella “terza cultura” che non oppone barriere al dialogo
tra le scienze e che si oppone alla separazione del sapere in umanistico e scientifico. La teoria che non si
confronta con le sue applicazioni rischia di diventare autoreferenziale e fine a se stessa. Viceversa, le “le
scienze pratiche sono tendenzialmente scienze interdisciplinari” perché “si fondano su più scienze teoriche
e altre pratiche e ne traggono le implicazioni più utili per la soluzione dei problemi”. Quindi, la coerenza
epistemologica non esige identità di opinioni e di dati ma la ricerca di un accordo preliminare proprio per
discutere opinioni e dati divergenti virgola e individuare un punto di riferimento basato su definizioni comuni.
il fatto di utilizzare termini condivisi è l'unica condizione per non dover ogni volta ricominciare la discussione
da zero. Le parole specifiche, convenzionali, di un settore scientifico o professionale vengono chiamate
termini. nessun termine può essere considerato definitivo o corretto o scorretto. L'importanza delle
definizioni è inversamente proporzionale al livello di avanzamento di una scienza. Quando le cose sono
assodate e chiare a tutti, i termini sono meno importanti perché sono ben chiari i concetti a cui si riferiscono.
quando invece ti ha fare con fenomeni poco studiati, le definizioni hanno un ruolo fondamentale. Le cose si
complicano nel caso delle discipline ibride che attingono a più settori, per esempio la teoria della traduzione
fa riferimento alla linguistica. In questo caso la comunicazione fallisce tra studiosi che usano termini diversi
perché considerano i temi e i problemi da diversi punti di vista. Per questo serve che i termini utilizzati siano
associati a definizioni esplicite e che l'introduzione di nuovi termini sia motivata da una modifica del concetto
a cui si riferiscono. Purtroppo, ad oggi la maggior parte degli autori fa ricorso non ha definizioni ma a formule
tautologiche: per esempio si dice che una cosa è scorretta in quanto infedele senza definire in modo chiaro
e condivisibile cosa sarebbe infedele a cosa.

5.2 Dalla pseudo-terminologia al metodo funzionale

I termini utilizzati nella teoria della traduzione sono parole della lingua standard che rispondono ai postulati
ideologico metafisici che connotano la genesi della disciplina. Parole come fedeltà, originale, libertà, sono
pseudo termini utilizzati come se fossero termini chiari e univoci. Essi non sono circoscrivibili ha un concetto
chiaro e condivisibile. Essi debordano contemporaneamente in categorie contraddittorie e sono basati su
concetti metafisici non utilizzabili in un dibattito scientifico. Secondo Dennett uno pseudo termine si basa su
ganci appesi al cielo, cioè ha idee prive di supporto nella realtà nota. Questo uso di parole ha contribuito a
creare confusione: la traduttologia si è gradualmente costruita su segni ambigui privi di effettiva
referenzialità all'effettiva attività traduttiva. Per esempio, il termine originale o il termine fedele. il termine
fedele, mutuato dalla religione, e altrettanto contraddittorio. Infatti, un testo non può essere fedele a
qualcosa senza essere infedele a qualcos'altro: se fedele agli etimi e ai morfemi non lo è alla sintassi, se è
fedele al genere, alle lettere, al numero delle parole, non è fedele alla pragmatica. Con il termine fedeltà, in
realtà, si vuole intendere il calco, cioè l'atto di riprodurre è una struttura morfologica o sintattica, un
significato dizionaristico o un etimo, una serie di suoni o la lunghezza di un verso ecc. Esso è un buon termine
perché implica la specificazione. Se si calca una cosa molto probabilmente non si calca l’altra, per esempio,
se dovessimo tradurre l'espressione fraseologica inglese “Out of sight, out of mind”, quale sarebbe la
traduzione fedele? In un vecchio aneddoto viene dato da tradurre in cinese queta frase a un computer e
viene richiesta la retroversione in inglese. Il prodotto è “invisible mad”. Il pc non è stato fedele ma molto
infedele, ha ignorato l’elemento fraseologico che rendeva l’enunciato indivisibile. La prima cosa che emerge
dalla ricerca teorica è il fatto che la “fedeltà” è la “libertà” che si prende qualcuno che non sa tradurre: è la
soluzione privilegiata dei dilettanti e dei computer di vecchia generazione. La traduzione “fedele” non è una
traduzione, ma un modo per convertire un enunciato chiaro in uno che non si capisce. Le lingue naturali
possono esprimere tutto, ma lo fanno con elementi asimmetrici poiché ogni lingua ha il proprio lessico,
morfologia, sintassi e contesto. Se cambia il contesto, un’invariante assume forme linguistiche diverse. Per
una stessa invariante ci sono tante varianti quanti sono i contesti della comunicazione. La stessa
contraddizione vale per il termine “libera” perché parrebbe una non-traduzione. Bisogna anche tener conto
delle regole delle opzioni che consentono di selezionare i traducenti grazie alla marcatezza delle varianti tra
cui scegliere. Jurij Lotman affermò che, se in un testo cambiano le parole, non si ottiene “una variante di
contenuto” ma “un nuovo contenuto”: quindi, qualsiasi linguista può verificare che “non esistono sinonimi”.
L’equivalenza di un testo tradotto non è altro che la capacità di recepire e ricodificare tutte le informazioni
contenute in ogni unità traduttiva minima del TP: tradurre è scegliere l’opzione che in quel contesto userebbe
un parlante dell’altra lingua seppur in modo asimmetrico. Il traduttore ha il compito di isolare i singoli
enunciati e tradurli in modo coerente al contesto di ogni variabile. La serie di enunciati forma l’unità
traduttiva minima, ossia un enunciato non scomponibile nelle sue parti; è una “formula linguistica”
indivisibile formata da “parole e stringhe di parole che vanno computate senza ricorrere al livello inferiore
della loro struttura”. La formulaicità è l’aspetto fondamentale della lingua che fa fallire qualsiasi calco. Al
traduttore servono concetti chiari riconducibili a definizioni discrete.

5.3. traduzione “orientata” o “traduzione” totale

Il promotore di questa distinzione è stato, nel 1813, il critico e letterato romantico tedesco Schleiermacher.
la sua idea era c'è il traduttore potesse e dovesse scegliere tra due direzioni della traduzione che avrebbero
portato a due traduzioni completamente diverse: o il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e di
nuovo incontro il lettore o lascia il più possibile in pace lettore egli muove incontro lo scrittore. La sua
posizione è stata riformulata come opposizione tra traduzione source oriented e target oriented. anche
ammettendo che due testi completamente diversi tra di loro siano entrambi traduzioni dello stesso TP,
l’ipotesi di un'opzione di orientamento implicherebbe che il traduttore conosca le intenzioni dell'autore,
escluda a priori la possibilità che un lettore del TA possa accedere al testo come un lettore del TP, possa
produrre due TA diversi che sarebbero traduzioni. Un traduttore non può sapere quali fossero le intenzioni
dell’autore, né prevedere chi siano i suoi destinatari e come leggeranno il testo. Nemmeno l’autore stesso
conosce tutte le intenzioni, ad esempio non conosce la sua creatività incosciente. Un traduttore, quindi, non
può far altro che orientare la traduzione verso sé stesso e le sue congetture. Per questo è stata proposta
l’idea della traduzione self-oriented cioè progettata, prodotta e criticata dal traduttore come interprete-
scrittore. Ogni testo è un oggetto materiale che innesca diverse reazioni e ha un potenziale legato a quello
che fisicamente il testo contiene. Le caratteristiche di un testo consentono al potenziale comunicativo di
attivarsi. Esse definiscono lo stile. Tradurre, metaforicamente, è un atto “chimico”, dettato da sofisticate
competenze. Il suo buon esito dipende dalle abilità di una mente bilingue. Il bilinguismo è un prerequisito
necessario. La traduzione è un tipo di scrittura iper-vincolata. Quanto più bravo è il traduttore, tanto meno
si vedrà la sua fatica. Secondo la teoria Skopostheorie, la traduzoone risponde all’idea che il TA funzioni come
il TP nella cultura di partenza. Se una traduzione funziona in parte, vuol dire che se perfezionata, può
funzionare totalmente. Questo però succede in pochi casi. La teoria va sempre seguita dall’esperienza.

6. Le legittime “pretese” della teoria

6.1. dopo Babele

I vari saggi sulla traduzione hanno costituito e costituiscono un apporto irrinunciabile allo sviluppo e
maturazione della disciplina. Qualsiasi ricerca sulla traduzione presenta oggi limiti inevitabili. La
consapevolezza delle lacune epistemologiche e il loro superamento sono il primo passo per superare anche
la tradizionale diffidenza dei detrattori della teoria che si è sviluppata tra alcuni letterati restii ad accettare il
contributo di discipline a loro estranee. Manferlotti si chiedeva quale fosse la ricaduta della riflessione teorica
sull’attività del traduttore letterario e rispondeva: nessuno. La ragione è che esistono traduzioni, i cui autori
non hanno “avvertito il bisogno di compulsare Cicerone o Mounin”. Chiunque può fare qualsiasi cosa senza
tecnica o riflessione, ma non si può non chiedersi quanto meglio l’avrebbe fatta con la dovuta preparazione.
Il più noto contributo sulla traduzione è After Babel del 1975 scritto da Steiner (intellettuale e saggista).
Questo saggio è la ricostruzione storica dell’attività traduttiva occidentale e delle posizioni teoretiche ad essa
connesse. Steiner propone una quadripartizione:

 1) focalizzazione empirica immediata, caratterizzata da analisi e dichiarazioni embrionali; partendo da


Cicerone e Orazio fino all’Essay on Translation di Tyler del 1792.
 2) è il testo di tyler che dà avvio a questa seconda fase di stadio di teoria e indagine ermetica che
dominerà fino al XX secolo;
 3) il terzo periodo inizia negli anni 40. È la fase del sogno computazionale. Si cerca di trovare in tempi
brevi una strada per realizzare la traduzione meccanica (prima) e computazionale (poi), numerose équipe
di ricercatori cercavano algoritmi e pattern strutturali che rendessero ri-codificabili tra loro le lingue
naturali con regole semplici. Per evitare gli aspetti soggettivi della letteratura, alcuni tra i più noti
formalisti invitavano a sezionare i testi senza considerare la complessità della psiche umana, aspetto che
oggi parrebbe il generatore primario dell’arte. Questa fase ha trovato un grande contributo nelle scuole
traduttologiche slave.
 4) reazione al pensiero forte, formalistico, scientifico dominante fino agli anni 60, che i sostenitori della
neo-ermeneutica criticavano come nuova metafisica.

Steiner è diventato un riferimento per chiunque fosse critico verso la linguistica e considerasse pretensiosi i
tentativi di rendere più scientifico lo studio della traduzione. Ha rafforzato i preconcetti delle “scienze
umane” sancendo lo scisma tra gli studi linguistici sui processi e gli studi culturali sui testi. Oggi il traduttore
è visto non come professionista dotato di conoscenze teoriche e tecniche ma come un demiurgo al centro di
un’operazione non definibile, il cui talento deriva da un’ispirazione. Si deduce così che la traduzione letteraria
non può essere oggetto di studi scientifici, mentre quella non letteraria non merita l’attenzione degli studiosi
dei testi perché rappresenta un paradosso. Il buon traduttore è spinto da una sorta di vocazione, mentre il
cattivo traduttore è un impostore. È un’idea che risale a Bruni. Invitava a evitare “la colpa imperdonabile”
che “una persona priva di cultura e di gusto si accosti al lavoro di traduzione”. Da un lato, è un’opinione
condivisibile, dall’altro invece rimette i requisiti del traduttore ai concetti di “gusto” e “cultura” senza
definirli. Secondo la concezione umanistica, il concetto di “gusto” rientra tra le qualità che caratterizzano
un’indefinita élite. Il gusto artistico è un senso composito che riguarda la capacità di distinguere input
sensoriali secondo categorie condivise da un’élite culturalmente preparata. Bruni affermava che un
traduttore deve ricreare nel TA lo stile e l’andamento ritmico del TP, ma non alludeva al grado di bilinguismo
necessario per l’operazione. Nel cervello umano, ogni forma di gusto viene esercitata a livello macro-
cognitivo dell’esperienza, cioè dell’addestramento. Bruni è giunto alla conclusione che teorizzare la
traduzione fosse prematuro o impossibile in assoluto. La principale ragione di questo scetticismo teoretico
era per lui una diffidenza generale per la linguistica e il desiderio di lasciarla fuori da un ambito, quello della
traduzione. Steiner riconosceva l’importanza della linguistica, ma le ambizioni di questa scienza gli
sembravano pretenziose: da qui la convinzione che è la traduzione non solo non richiedesse dimestichezza
con la linguistica ma che non richiedesse competenze assoggettabili né ad apprendimento né a definizioni
discrete. Steiner affermava che la traduzione non è una scienza esatta ma un'arte e che in quanto arte esatta
è estranea alla logica; la logica buccina e successiva al fatto. in realtà, la logica non è posteriore al fatto ma
governa per lo più in modo rigoroso le computazioni inconsce.

6.2 l’errore di Cartesio

Nel cervello umano, le operazioni logico avvengono a livello inconscio. Il cervello segue la sua logica inconscia,
capace di seguire computazioni di grande complessità, che lasciano la sensazione di essere stati ispirati da
una fonte esterna: infatti, la coscienza può non registrare la computazione ma solo una parte. Questo spiega
la traduzione geniale di una poesia, che sembra essere nata dall’ispirazione ma che in realtà deriva da
computazioni inconsce della mente che ha processato molti dati. Le computazioni inconsce, ripetute tante
volte, possono trasformarsi in procedure e prodursi in modo più o meno automatizzato. Efim Etkind, noto
traduttore, ammettendo che “la pratica estetica ha superato la riflessione teorica” voleva intendere che,
quando si tratta di una creatività artistica complessa, non c’è spazio per l’analisi scientifica. Si può superare
quest’idea ammettendo che il nostro cervello sa eseguire inconsciamente operazioni linguistiche da rendere
la loro formalizzazione ardua; che una teoria della traduzione deve essere fondata tanto sullo studio di
prodotti culturali quanto sul funzionamento cognitivo del processo traduttivo. Una siffatta teoria, che
considera entrambe le cose e descrittiva come ogni scienza empirica che si basa su conoscenze ed esperienze.
La definizione di arte esatta tendi ad affermare che la traduzione non è assoggettabile a studio rigoroso
(perché è arte), supponendo però uno standard fisso di esecuzione (perché è esatta). per uscire da questo
paradosso bisogna mettere che è un mestiere a regola d'arte cioè attinente a tecniche strategie chi sono
classificabili, studiabili, migliorabili. Definendo la traduzione un'arte esatta, Steiner non definisce il termine
arte non è il concetto di esattezza. Attribuisce al misterico concetto di arte l'impossibilità di definire in modo
più formale il processo traduttivo. Steiner trascura l'indagine di tipo estetico psicologico e quella linguistica
e psico linguistica. Parole come intuizione e ispirazione censurano la “dangerous idea” e la mente biologico
umana faccia cose fenomenali e controintuitive di cui sappiamo ancora poco pronto una completa
padronanza dei fenomeni della mente umana e probabilmente al di là delle capacità della nostra specie ma
questo non significa che non le si possa studiare. Processo scientifico impone di mettere in discussione le
nostre credenze. L’idea che esista una mente/anima estranea al mondo fisico e alle sue leggi (come voleva
Cartesio) viene oggi difesa spada tratta come fosse la sola salvezza dalla prepotenza tecnocratica della
scienza. In realtà, prepotente è la natura umana. Come testimonia tutta la storia della scienza il fatto che è
un'ipotesi sia di difficile dimostrazione oh sì in contrasto con le nostre credenze non vuol dire che sia errata
o indimostrabile. Le grandi rivoluzioni scientifiche hanno spesso scosso l'umanità proprio perché
comportavano uno sforzo mentale maggiore di quello richiesto dal senso comune dominante. Un conto è
dire che non tutto immediatamente conoscibile attraverso il metodo scientifico, altro il dire che il metodo
scientifico depriva la conoscenza della sua anima. L'errore di Cartesio è proprio la separazione tra corpo e
mente: alla materia del corpo e la stoffa della mente. la materia del corpo mossa meccanicamente mentre la
mente non divisibile. La ricerca nell'ambito della letteratura e della traduzione è nata con i limiti del
conservatorismo cartesiano. Per questo si è accolto il fallimento della traduzione meccanica e
computazionale. È comprensibile in quanto i primi successi hanno allontanato l'idea che l'homo sapiens
protesse essere una macchina pensante. Il mistero è preferibile alla dimostrazione dell'inconsistenza del
nostro antropocentrismo metafisico. Uno dei compiti della traduttologia è quello di diffondere l'idea che i
teorici della traduzione assumano un atteggiamento più orientato al metodo scientifico. Una teoria della
traduzione che non voglia emarginarsi dalla ricerca scientifica dovrebbe indagare l'attività traduttiva come
insieme di operazioni complesse basate su processi orientati a criteri e parametri. Il fine ultimo della teoria è
quello di far rientrare questi processi nel quadro psico cognitivo delle attività mentali umane, di individuare
ciò che accomuna e ciò che distingue tutti i processi traduttivo al di là della sensazione di impossibilità o di
mistero che incutono. Ad oggi invece la traduzione ha insistito sull’ aneddotismo individualista cercando di
suddividere e differenziare tipologia mal definite, alimentando l’assioma del mistero e dando la sensazione
che lo scettismo nei confronti del metodo scientifico sia giustificato. Infatti, ad oggi permane questo dualismo
dannoso. Nel 1991 Carlo carina scriveva che chi traduce deve essere un letterato non solo escludendo dal
supposto non mestiere della traduzione chiunque traduca la non letteratura, ma negando che esistano
competenze professionali nella formazione dei traduttori. Questo ad oggi ha una serie di conseguenze in
campo teorico didattico e professionale. La contrapposizione tra letterati e linguisti può essere vista come il
tentativo di contrapporre su base ideologica i creatori (letterati) ai costruttori (linguisti).

7. La tendenza alle opposizioni binarie

7.1 traduzione e interpretazione

le contrapposizioni binarie hanno caratterizzato la teoria della traduzione fin dai suoi soldi medievali. Molto
importante è la contrapposizione tra traduzione iscritta e interpretazione orale che ha condotto i vari studiosi
a pensarle come due attività molto diverse. Schleiermacher Nel suo saggio del 1813 proponeva di basare
l'approccio teorico sulla contrapposizione tra traduzioni scritta della scienza e dell'arte e traduzione orale
della quotidianità come se un traduttore non interpretasse e un interprete non traducesse. Questa
contrapposizione presenta due problemi epistemologici: non è epistemologicamente motivabile partire dalle
differenze prima di vedere che cosa renda la traduzione scritta, parlata o segnata, il risultato di un analogo
processo psico cognitivo; in secondo luogo, quello di semplificare la differenziazione al punto da considerare
la traduzione orale fuori dalla teoria essendo una questione meccanica risolvibile da chiunque possieda una
mediocre conoscenza delle due lingue tale per cui se si evita all'errore manifesto c'è poca differenza tra una
conoscenza migliore e una peggiore. Il primo problema è stato superato. Ad oggi l'interpretazione orale ha
ottenuto anche a livello universitario un legittimo status di disciplina accademica. Morelli osservava come
alcuni professionisti continuassero a ignorare l'esistenza degli Interpreting Studies come materia accademica,
rivendicando il carattere meramente pratico dell'interpretazione. Dagli anni 50 del secolo scorso sono
apparse le prime pubblicazioni scientifiche dedicate alla teoria dell'interpretazione che ha contribuito a
volgere l'attenzione degli studiosi alla psicolinguistica, alla neuro linguistica e alle scienze cognitive. Il secondo
problema è ancora attuale. Schleiermacher si era sbagliato nel negare l'evidenza che traduzione
interpretazione condividono la stessa complessità. Se ci si basa sul senso comune, può davvero sembrare che
il cervello faccia cose diverse se traduce oralmente o se invece la traduzione viene scritta. Non è così. Basti
pensare che chi scrive una traduzione, prima di scriverla l'ha già pensata; scriverla servi solo a registrarla.
Inoltre, gli interpreti di conferenza traducono spesso testi scritti che hanno le caratteristiche del registro
formale. gli interpreti virgola non possono non avere dimestichezza con la lingua di registro alto, tipica dei
testi scritti. Viceversa, altrettanto esperti di lingua orale sono i traduttori di narrativa cioè testi che
contengono molti dialoghi orali. la storia della teoria della traduzione fa rispecchiare difficoltà che incontra
una nuova disciplina scientifica nell’intaccare stereotipi che appartengono sia al senso comune che agli
esperti di ambiti affini ma che sono estranei.

7.2. le tipologie testuali

La contrapposizione tra oralità e scrittura si basa sull’idea che ai testi si dividano in varie tipologie, diverse e
contrapposte. Le tipologie testuali si distinguerebbero secondo criteri discreti come testi denotati vi e testi
connotativi. I primi sarebbero i testi a base terminologica che richiederebbero la traduzione specializzata
mentre secondi sono i testi letterati o espressivi. Molti specialisti negano che l'aggettivo specializzata possa
essere tributato alla traduzione letteraria, cosa contestabile sul piano logico, poiché qualsiasi testo richiede
una specializzazione. La separazione tra traduzione specializzata e letterarie e la posizione del nostro
ministero. I termini delle lingue professionali sono sempre convenzionali e instabili questo vuol dire che si
evolvono. Ciò è dovuto alla propensione dell’individui e di gruppi umani ristretti a creare nuovi nomi ogni
volta che cambia un concetto o la sua valutazione sociale. Anche la propensione alla creatività linguistica e
alla creazione di parole nuove è onomasiologica. infatti, questa disciplina che studia il modo di chiamare i
concetti con nomi specifici. Le mutazioni onomasiologiche sono gradite a nuove scoperte OA motivi di
correttezza politica OA una maggiore consapevolezza scientifica. I termini nascono, vengono selezionati e
cadono in disuso secondo le stesse leggi che governo il successo di tutte le parole e persino delle espressioni
fraseologiche. Nel Manuale del traduttore di Osimo chi afferma che lo scopo della terminologia è quello di
trovare una singola parola per ogni oggetto e concetto in modo tale da escludere ogni connotazione a favore
di una denotazione pura. Nelle micro-lingue i termini avrebbero uno e un solo significato denotativo
codificato e inequivocabile. Pulitano afferma che la terminologia ha la funzione di eliminare ogni forma di
ambiguità intra linguistica e interlinguistica e di trasmettere conoscenza. Scarpa a sua volta presente una
contrapposizione tra approccio cognitivo irrazionale della traduzione specializzata e testo letterario,
supportata dall’assioma che sia impossibile capire del tutto un testo letterario e trasporre tutto quello che si
è capito in un'altra lingua facendo sì che il lettore della traduzione abbia le stesse possibilità di
comprensione/incomprensione E interpretazione presente nell'originale. In realtà i testi che traduciamo sono
tutti fatti di lingua naturale la quale si forma, si diffonde e si canonizza seguendo sempre lo stesso insieme di
regolarità. I testi artistici come la narrativa o la poesia sono più difficilmente formalizza bili ma sono sempre
altamente informativi a patto che si definisca il termine informazione. Se l'informazione è un insieme di input
che modificano lo stato del sistema, i testi narrativi possono modificare la cognizione umana, apportando
modifiche allo stato del sistema. è proprio radicata l'idea che è i testi creativi abbiano aiutato lo sviluppo
delle abilità cognitive, per esempio, la capacità di narrare ha facilitato la sopravvivenza trasmissione di
informazioni conoscenze sul mondo. Chi ha pratica dei testi letterari sa che è difficile trovare un testo non
narrativo del tutto privo terminologia. Qualsiasi criterio si proponga per la suddivisione delle tipologie
testuali, si avrà un esito contraddittorio. Ogni testo anche quello che sembra più convenzionale ha una
componente di ibridità e ogni destinatario del testo, a seconda del contesto, delle conoscenze e delle
aspettative individuali, può attribuire il dominio a una tipologia e a una funzione. Dal punto di vista teorico
nessun testo può essere catalogato per genere, tipologia o funzione senza imbattersi in ostacoli logici e in
contro esempi concreti punto è impossibile stabilire una distinzione assoluta e valida tra letteratura e
trattatistica, tra poesia e prosa. Non possiamo offrire alcun assoluto criterio testuale per distinguere prosa e
poesia neppure l'incolonnamento a centro pagina. Quindi evidente c'è il pregiudizio del senso comune
secondo cui la poesia può tradurla solo un poeta e un'affermazione priva di logica. Infatti, non si è poeti per
professione non lo sa si è nemmeno titolo di studio. Molti credono che il poeta sia una persona soggetta a
ispirazione, intendendo una dote più o meno connessa con lo spirito. In realtà, la parola ispirazione rivela
solo l'incapacità di spiegare il funzionamento delle abilità computazionali inconsce. Ogni ordinamento e
tassonomia tipologica legata al l'essenza materiale formale del testo è, a livello teorico, attaccabile. È il
consenso, la prassi a consentirci di stabilire cosa sia poesia, letteratura ecc. La stessa convenzione riguarda
le professioni. Solo all'interno di una teoria unitaria si può riuscire a valutare in modo sufficientemente
oggettivo le differenze di registro e stile per perseguire quel l'equivalenza che Lotman chiama pragmatica
sarebbe definirsi in alternativa, funzionale.

Capitolo 2. la riflessione sulla traduzione: un approccio storico-critico

1. Il dominio del pensiero binario: la “bi-teoria”

La traduzione esiste da quando esistono le lingue naturali; infatti, è un fenomeno altrettanto naturale: dal
punto di vista evolutivo, per la sopravvivenza degli individui e dei gruppi, la traduzione poteva consentire di
comunicare con i vicini, di allearsi o di negoziare. Le forme di traduzione esistono fin dall'antichità più remota
anche se solo la scrittura ha consentito che arrivassero a noi testimonianze di testi bilingui nessuno e la
stampa ha permesso che le traduzioni circolassero massivamente, diventando la prima tappa della
globalizzazione della cultura. Diversamente dalla storia delle traduzioni, la storia della teoria è stata
parzialmente ricostruita pronto nella cultura cosiddetta occidentale sia il pensiero teorico sulla traduzione,
sia la sua ricostruzione storica hanno avuto come origine e come riferimento privilegiato il dibattito sulla
traduzione della Bibbia. La moderna traduttologia occidentale è stata fondata, alla metà del ventesimo secolo
da Nida, linguista americano assunto nel 1943 dalla Bible Society allo scopo di aggiornare e conformare il
processo traduttivo della Bibbia a standard di qualità. Prima del 900 la riflessione sulla traduzione delle
scritture non era mai stata compresa in un modello universale basato sulla natura delle lingue naturali ma
avanzata per postulare la specificità della traduzione biblica. La teoria della traduzione ha ignorato il
postulato scientifico di generalità, fondandosi su presupposti fideistici e metafisici e stabilendo una scissione
tra il testo sacro e gli altri testi. Per questo vi sono due correnti: la prima è stata inaugurata da San Girolamo
nel quarto secolo d.C. Ed era legata la traduzione latino di testi che oggi chiamiamo Bibbia che punto la
seconda invece posteriore al decimo secolo riguardava la traduzione in latino di testi scientifici, i quali anno
molta importanza in campo umanistico. In realtà il dibattito sulla traduzione in campo umanistico nasce dalla
riflessione sui testi sacri della religione e della poesia punto ancora oggi i testi alti della letteratura sono
recepiti come una versione laica di testi religiosi. Ancora oggi, i testi scientifici non sono inclusi nei testi alti
così come quelli tecnici perché non rappresentativi del mysterium caratterizzava la complessità nella parola
di Dio. I testi religiosi venivano considerati testi di serie A punto i testi di riferimento delle tre religioni
monoteiste rappresentano la divisione tra verità divina e verità umana. In una cultura monoteistica basata
su un'idea esclusiva di creazione di rivelazione virgola di fronte a testi che si credeva o si ipotizzava
contenessero la parola di Dio, ci si poneva di fronte a vari dilemmi. Le tre grandi religioni monoteiste hanno
un rapporto diverso rispetto ai propri testi sacri, ha la lingua in cui sono scritti, al loro ruolo nella vita
quotidiana dei credenti, alla possibilità che qualcuno dotato di alcune caratteristiche specifiche possa tradurli
in un'altra lingua. Anzi, diverge proprio la posizione delle tre religioni nei confronti della possibilità e
legittimità della traduzione. Ogni religione monoteista considera il proprio testo, un testo sacro diverso dagli
altri. Sulla base di questa contrapposizione, la teoria della traduzione ha assunto una struttura binaria cioè
una bi-teoria la quale è stata proiettata anche sui traduttori. Iniziatore della B teoria è stato San Girolamo,
autore della più nota versione Latina della Bibbia. In un suo famoso libro ha introdotto il binomio
fedeltà/libertà che avrebbe connotato la batteria nei secoli. Il saggio era una lettera al suo amico Pam
machiko in cui difendeva il suo operato di traduttore di un’epistola del vescovo Epifanio al vescovo Giovanni
di Gerusalemme: parto di essere un falsario per i suoi delitti di traduzione, si giustificava rifacendosi alla
concezione di Cicerone e Orazio. Come diceva anche Cicerone, rendere il testo parola per parola avrebbe
significato privarlo della forza e della proprietà di vocaboli, restituendo ai lettori il numero delle parole ma
non il loro peso. Tuttavia, Gerolamo pensava che il criterio della libertà non potesse essere applicato alle
sacre scritture in quanto l'ordine delle sue parole racchiude un mistero. Quindi, se nelle traduzioni secolare
era meglio essere oratore piuttosto che l'interprete, questo non valeva per la Bibbia, la quale si sottraeva alle
regole generali. La B teoria si è sviluppata anche durante l'umanesimo: i testi della cultura greca avevano
assunto i ruoli di testi alti, quindi assunsero una propria sacralità. Questo valse anche per la cultura francese
che valorizzò l'idea binaria e tradurre in francese fosse una forma di nobilitazione del testo. Il romanticismo
invece propone il primato della letteralità. Nel 900 questa binaria contrapposizione romantica si consolida,
credendo che la poesia sia più spirituale dell’astrofisica e che il testo letterario sia più nobile rispetto agli altri
testi. la contrapposizione consacrata da Cartesio, stata contro argomentata scientificamente. Damasio,
famoso neuro scienziato ha definito questa contrapposizione: l'errore di Cartesio. Non esiste, una res cogitans
separata da una res extensa. Eppure, nelle scienze umane è diffusa l’idea che esista una spiritualità svincolata
dal mondo fisico. Nell’ultimo ventennio del XX qualcosa è cambiato. La traduzione si è affermata come attività
intellettuale, materia di ambito accademico di eguale dignità. Proprio per scalfire i pregiudizi serve analizzare
l'idea che alcuni testi siano ontologicamente superiori agli altri; È indispensabile ricordare che, proprio tra i
testi considerati sacri dalle religioni dai letterati virgola non ci sono testi originali e che i cubisti lavoravano
su coppie di gente che non era conscia di scrivere la sacra scrittura. Il processo di ricostruzione di un originale
perduto si basa su tecniche di calcolo, applicate a tutte le copie del testo pervenuto. Dato che queste copie
contengono delle discrepanze, possono essere proprio le traduzioni di copie anteriori perdute ad aiutare a
classificare i manoscritti, a derimere le controversie e supportare le ipotesi punto per questo serve
sottolineare il lavoro del filologo che collega la critica testuale a quella traduttiva punto per fare ipotesi
sull'autenticità e affidabilità dei manoscritti, servono competenze simili a quelle impiegate da chi traduce:
 Autori che hanno lasciato varianti diverse dello stesso testo
 Lo stesso testo scritto in due lingue diverse
 Stampe di un testo di cui noi sia conservata la versione d’autore
 un manoscritto unico e autoriale, con correzioni e indicazioni ambigue o non di certa paternità.

La filologia serve per studiare la teoria della traduzione. Si basa su competenze necessarie del traduttore. È
il campo di studi umanistici che più si avvicina alle discipline sperimentali. È basata su regole che
comprendono i metodi di congettura atti a ricostruire i testi perduti; quindi, sono le sole regole disponibili
per stabilire quale versione di un testo manoscritto va ad assunta come TP per progettare una traduzione.

2. Filologia e traduzione

Il termine filologia qui indica l'attività di analisi linguistico testuale atta a ricostruire interpretare ed editare
ai testi manoscritti e dattiloscritti. Il filologo cerca di ricomporre un testo di cui la tradizione ha lasciato vari
esemplari, nessuno dei quali e il testo autografo, ossia l'originale dell'autore. Queste copie possono derivare
da uno stesso testo capostipite che si chiama archetipo oppure possono appartenere a testi di redazione
diversa. Il filologo opera una valutazione critica delle fonti e delle testimonianze scritte che vengono
collezionate e ricomposte in una edizione critica che mette insieme le soluzioni più affidabili presentate da
ogni manoscritto. Per definire i procedimenti di un'edizione critica di un testo perduto si parla di ecdotica.
Tra le competenze dei filologi rientra anche la capacità di decifrazione e di decrittazione (rilevamento della
chiave per rendere comprensibili testi consapevolmente crittografati). le scelte del filologo sono soggettive
e arbitrarie: sono fondate su criteri specifici, consapevoli e convenzionali. Il filologo cerca tutti i manoscritti
che riesce a trovare di un determinato testo creando una gerarchia, ossia un albero genealogico ho chiamato
stemma. Lo stemma indica in quale ordine cronologico questo testo sia stato copiato da quale altro testo e
quali manoscritto intermedi risultano mancanti. La filologia ha un rapporto stretto con la traduzione perché
l'analisi del filologo comprende anche le varianti tradotte in altra lingua di testi manoscritti studiati; infatti,
alcune traduzioni potrebbero rifarsi a copie perdute più antiche rispetto ai testimoni che ci sono pervenuti.
Filologi e traduttori lavorano tanto meglio quanto più privilegiano la materialità del testo rispetto alle illazioni
su dati esterni e non ricostruibili. La componente progettuale della traduzione trova nella filologia un modello
epistemologico fondato sul mestiere: sulla ricerca, computazione e esercizio. Entrambi lavorano in base a
congetture cioè calcoli probabilistici indispensabili quando mancano alcuni dati ho il tempo per computarli.
Il traduttore, grazie alla filologia può lavorare secondo questo schema:

 Congettura 1: Se i dati disponibili del TP sono ambigui, ti valutano le ipotesi e le ambiguità;


 Valutazione di tutte le informazioni di una frase del TP;
 Ipotesi sul modo in cui l'avrebbe scritta l'autore se la lingua nativa fosse stata quella di arrivo;
 Ipotesi sul modo in cui destinatari del TA lo recepiranno, valutando che debba essere analogo al modo in
cui destinatari di partenza, coevi dell'autore, recepivano il TP.

nel caso di ambiguità, c'è il testo è contemporaneo al traduttore, si considera che la mia vita sia un artificio
del TP e lo si riproduce allo stesso grado nel TA. c'è un testo invece è distanza si chiede se l'ambiguità è dovuta
allo slittamento semantico del lessico o alle mutazioni sintattiche occorse nel tempo o se si tratta di un
artificio specifico. Per nessun tipo di testo, le ambiguità hanno implicato congetture più difficili di quanto sia
accaduto con i testi sacri dai credenti delle rispettive religioni.

3. I testi “sacri” e la “parola di Dio”

Il testo sacro, inteso come “parola di Dio”, rivelata agli uomini, è legato alle tradizioni monoteiste che hanno
cucinato un dito in pensiero umano porto della cultura con l’ignoto. L’AT, i Vangeli, il Corano, si presentano
come mediazione di un messaggio divino dal valore profetico che hai il duplice compito di rivelare la verità,
fornire norme di comportamento e trasmettere narrazioni che supportino l'idea di un rapporto privilegiato
di Dio con un gruppo circoscritto di creature umane. I testi vengono presentati ai fedeli secondo un postulato
di Auctoritas: viene detto loro che il testo sacro è parola di Dio in quanto Dio stesso, direttamente o
indirettamente, né l'autore. Chi dubita dell'origine divina del testo sacro della propria cultura viene guardato
con diffidenza. Se davvero si crede che un testo contenga la verità divina, qualora le scoperte scientifiche
contraddicano le affermazioni di quel testo, al fedele può essere imposto di disconoscere il valore della
scienza oggi separare la logica argomentativa e la fede. Per la contraddizione tra verità assoluta della religione
e verità relativa della scienza, ci sono una serie di soluzioni. Ad esempio, si può negare il contributo della
scienza pur di non intaccare il significato letterale del testo sacro; un'altra possibilità è quella di indagare con
i mezzi della filologia testi sacri, ipotizzando che vi siano significati nascosti, ma accessibili, che possono
rivelare nuove informazioni sulla parola di Dio. Una terza strada e attribuire ha il testo sacro un valore
metaforico, simbolico, che indichi un percorso etico forte e stabile, suscettibile di essere interpretato
secondo parametri nuovi in epoche diverse. Un'ulteriore possibilità è quella di supporre che un preciso testo
sacro offra modelli esoterici, nascondendo un codice min Guastalla assimilati come ci sei solo una stretta
cerchia di accoliti in grado di decifrarlo. Nonostante ciò, i testi sacri delle religioni rivelate presentano
problemi di tipo filologico. Ebraismo, cristianesimo e Islam dispongono solo di copie dei rispettivi testi sacri,
copie che sono spesso posteriori di secoli rispetto ai testi originari. La mancanza degli originali rende la
traduzione dei testi sacri problematica, ma è problematica anche l'inclusione o esclusioni dei testi o di alcune
copie dei testi dal canone attestatosi nella tradizione di ogni singola religione. La questione su un testo
tradotto sia affidabile sul piano della fede e la discussione sulla legittimità stessa della traduzione, resta
aperta. In ambito cristiano, tradurre la Bibbia è possibile e legittimo: la verità della Bibbia può essere
preservata e trasmessa all'umanità in qualsiasi idioma. Nel caso del Corano, domina la convinzione opposta:
se il testo arabo è così complesso di evocare molte associazioni, rimandi e interpretazioni, e se questa
ricchezza è legata alla specifica forma della parola originaria in arabo, la traduzione non può conservare il
retaggio interpretativo del testo arabo punto per chi assuma l'ottica della sacralità sostanziale formale del
testo sacro, la traduzione può essere vista come processo di dissacrazione e di dissidenza religiosa o di azione
demoniaca; infatti prima un traduttore poteva essere giustiziato solo per aver reso in particolare modo una
frase del testo. Queste considerazioni spiegano perché la traduzione del testo sacro si sia prestata divenire il
terreno ideale per riflettere sulla responsabilità del traduttore e per chiedersi chi fossi affidabile come
traduttore anche i traduttori dovevano essere affidabili nel ricreare la parola divina in una lingua laica, oltre
alle competenze bilingui, dovevano dimostrare di essere buoni fedeli.

3.1. Testo biblico e traduzione nell’ebraismo

La società occidentale, giudaico cristiana, ha un legame privilegiato con la Bibbia perché l'antico testamento
è un testo sacro sia per l'ebraismo che per il cristianesimo. Nell'ebraismo però il testo sacro per eccellenza è
la Torah, che comprende solo i primi 5 libri dell'antico testamento. Essa viene Letta e studiata dagli ebrei
osservanti in lingua ebraica e con dedizione quasi quotidiana. Il suo ebraico viene definito lingua Santa ed è
assunto come lingua liturgica. L'antico testamento ebraico e riferimento principale di alcune note teorie della
traduzione ma anche perché la scrittura ebraica in cui sono state tradite le copie manoscritte del Pentateuco
presenta alcune caratteristiche delle scritture semitiche che inficiano l'idea che possa esistere una verità
assoluta dell'originale. Allo stesso tempo esse dimostrano l'impossibilità di leggere comprendere i
manoscritti antichi senza la procedura filologica delle congetture. Quello ebraico, è un alfabeto consonantico,
cioè trascrive per lo più i suoni delle consonanti cioè costituiscono la radice della parola. I suoni delle vocali
esistono ma venivano messi nella scrittura e anche oggi sono quasi sempre assenti come negli SMS. Gli autori
delle copie manoscritte oltre a non annotare le vocali, non utilizzavano le maiuscole virgola non
distinguevano tra fricativa sorda alveolare e posta a volare e non separavano tra di loro le singole parole. Nel
tempo, i filologi hanno operato congetture sulla precisa separazione delle parole e sulla combinazione delle
vocali. La vocalizzazione mediante puntuazione risale circa al settimo secolo d.C.; le vocali sono state scelte
su congetture. Scelta condivisa ma non univoca che può variare su larga scala se cambiano anche poche
interpretazioni. Gli interventi ecdotici sull’antico testamento hanno portato a esiti interpretativi diversi,
dando vita all'idea che anche se si disponesse del testo originale perduto, sarebbe impossibile leggerlo senza
congetture, secondo un'interpretazione del tutto oggettiva. Questa consapevolezza implica che, pur con gli
indubbia deferenza per le canoniche interpretazioni rabbiniche del passato, Chiunque abbia il diritto di e il
dovere di studiare la Torah, cercando nuove conferme o nuove combinazioni di parole e significati. Di
conseguenza, vi è l'impossibilità oggettiva di proporre una traduzione della Torah che sia oggettiva, definitiva
e statica. L'ebraico della torah e sacro i nonni sua lettera, mai precetti che il testo sacro contiene sono
applicati nella vita quotidiana in base a delle congetture. La versione masoretica del testo ebraico può essere
tradotta, ma la traduzione non ha valore per lo studio dei testi come pratica di devozione filologico religiosa,
perché la traduzione sarebbe un testo definitivo, mentre la torah non lo è. è importante considerare che
l'ebraismo non è dedito a diffondere la propria religione tra i non ebrei. Esso non cerca di moltiplicare i fedeli
ma di rendere più osservanti e biblicamente dotti gli ebrei meno religiosi. Il messaggio antico testamentario,
infatti, annuncia che il messia verrà quando il popolo ebraico si comporterà in modo retto. L'obiettivo infatti
era rendere la torah accessibile almeno dotti ebrei. Ciò deriva dall'esilio babilonese, quando si traduceva in
aramaico la torah per gli ebrei che non comprendevano più l'ebraico in quanto la loro lingua era diventata
l'aramaico. Queste traduzioni di servizio servivano solo per seguire le funzioni sinagogali molte in ebraico. La
traduzione non sostituiva il testo della torah ebraica.

3.2. La bibbia e la sua traduzione nel cristianesimo

Anche in ambito cristiano, l'ebraico dell'antico testamento è stato considerato una lingua fondamentale per
lo studio delle scritture seppur la sua sacralità sia stata messa in ombra. Innanzitutto, in non ebrei vedevano
nell’ebraico la lingua di un singolo popolo; in secondo luogo, gli ebrei erano stati accusati di deicidio e parte
della diffidenza si era riflessa sulla loro lingua. Inoltre, il crisma di lingua sacra era stato rivendicato dal greco
e poi esteso al latino. Anche il nuovo testamento presenta una confusa situazione filologica. L'intera Bibbia è
stata ricostruita secondo canoni che sono stati il risultato di un processo, ma la differenza tra canone ebraico
e cristiano è quello che ha permesso di marcare le differenze che consentono ai diversi popoli del libro vi
sentirsi il popolo del libro. La sostanziale differenza tra ebraismo e cristianesimo nel rapporto con le scritture
e le loro traduzioni dipende dall'approccio al proselitismo. Il cristianesimo si fonda sul proselitismo,
coerentemente all'idea che il messia sia già arrivato e sia Gesù di Nazareth e che la sua buona novella sia resa
accessibile a tutti. La missione di evangelizzazione è necessariamente connessa alla divulgazione e ricezione
della Bibbia che va portata ai popoli che non la conoscono. La traduzione era la soluzione ideale per la
conversione di milioni di persone. Con l'estensione a tutti i popoli del patto divino, veniva gradualmente
affermato il diritto di tutte le lingue a farsi strumento della parola di Dio il processo di diffusione della Bibbia
tradotta ha raggiunto un picco nella metà del ventesimo secolo con la Fondazione delle Società Bibliche
Unite, le quali dovevano muovere incontro la Bibbia al lettore, organizzando il lavoro e fornendo i traduttori
un supporto sempre più coerente a standard verificati di alta qualità. La teorizzazione della traduzione della
Bibbia in ambito cristiano risaliva a San Girolamo, il quale considerava che la Bibbia non potesse essere
tradotta secondo il principio funzionale di Cicerone, ma richiedeva una particolare attenzione alle strutture.
Nella prima metà del sedicesimo secolo la sua concezione venne ribaltata grazie a Martin Lutero nel 1534. il
suo approccio alla traduzione è stato così rivoluzionario da poterlo considerare una tappa significativa dello
scontro ideologico con Roma. Secondo l'utero, per la dottrina cristiana, bisognava dare assoluta priorità al
criterio della credibilità linguistica e testuale. Le sue considerazioni rispecchiano le moderne teorie
semiotiche che mirano agli aspetti comunicativi della traduzione, annullando per la prima volta il postulato
binario della contrapposizione tra testi alti e bassi. Per questo viene definito funzionalista. Osservava per
esempio, come il saluto dell'angelo a Maria “Ave Maria piena di grazia”, fosse innaturale. Nel tedesco vivo
invece, sarebbe stato “Dio ti saluta, cara Maria”. secondo Lutero, un traduttore che lavorasse al meglio delle
sue possibilità avrebbe reso un servigio a chi non avesse saputo “far di meglio”; nessuno sarebbe stato
obbligato a leggere la sua traduzione e a nessuno si sarebbe vietato di fare una traduzione migliore. in realtà
però, Lutero non separava il piano funzionale da quello fideistico. Passava a elencare le doti intrinseche,
secondo lui necessarie a un traduttore degno di accedere ai testi sacri. Il traduttore avrebbe dovuto avere un
cuore Pio, cristiano, dotto eccetera. I traduttori ebrei, ad esempio non avrebbero potuto comunque essere
affidabili perché non avevano molta venerazione per Cristo. L'idea non veniva argomentati in modo razionale
rigoroso ma supportata da animosità. Di conseguenza l'utero ripropose una nuova modalità binaria: invece
di applicarla al metodo traduttivo, la applicava al traduttore. primi tentativi di impostare la traduzione della
Bibbia secondo un approccio laico, sistematico e rigoroso si sarebbero avuti nella seconda metà del
ventesimo secolo grazie a Eugene Nida. il suo studio si focalizzava sulla traduzione come realizzazione di
corrispondenze pragmatiche, su quello che veniva definito l'uso effettivo della lingua. Argomentava una
separazione tra sacralità del testo e attività interlinguistica, invitando a ricondurre l'attività della traduzione
biblica agli sviluppi contemporanei nel campo della linguistica, antropologia e psicologia. Ha contribuito a
sensibilizzare i traduttori al mestiere e allacci zare il processo di traduzione multilingua della Bibbia,
individuando nella traduzione lo strumento principale del proselitismo e dell’acculturazione. Purtroppo, i suoi
sforzi di linguista sono stati correlati ai dogmi della fede. L'evidenza del dominio del piano metafisico su quello
logico epidemiologico si manifesta dal volume firmato da Alberto Ablondi, dove si fa riferimento a ciò che
dice Lutero. i traduttori devono essere umili per farsi guidare dallo Spirito Santo. Ciò inficia a priori qualsiasi
ambizione scientifica e dialogica. I linguisti non possono accettare l'idea che un'analisi teorica si fondi sul
postulato non falsificabile che i testi biblici siano di origine divina per l'incarnazione della parola di Dio.
Chiunque ha il diritto di considerare qualsiasi testo opera divina e di auspicare in traduzione l'intervento dello
Spirito Santo; tuttavia, se si assume come promessa che la Bibbia sia parola di Dio scritta nel linguaggio degli
uomini allora ci si sottrae al dibattito scientifico e alla negoziazione e falsificabilità. Nida, era consapevole che
tradurre la Bibbia implicasse una responsabilità particolare a prescindere dal fatto che il traduttore credessi
o meno che la Bibbia fosse parola di Dio, ma spostava il concetto di sacralità dall'ineffabile ontologia del testo
al suo ruolo storico sociale: la sacralità di qualsiasi testo riguarda il modo in cui quel testo verrà recepito dalla
maggior parte dei destinatari della traduzione. Le due cose sono diverse: la prima implica una ispirazione
elettiva la seconda invece, straordinarie competenze professionali. Si è detto infatti virgola che l'originale da
cui è stata tradotta la Bibbia non è mai stato l'originaria parola di Dio e che quindi le interpretazioni sono
frutto di congetture soggettive umane. Ogni forma di manipolazione di un testo è soggetta ai limiti umani.
Tutte le interpretazioni sono umane e restano tali anche se, per fattori storici, ideologici, politici, assurgono
al ruolo di testo sacro e vengono canonizzate. Coerente, è la posizione dell'islam virgola che non contempla
l'uso esegetico, religioso e liturgico della traduzione del Corano, poiché il sole il testo in arabo è considerato
parola di Allah.

3.3. Il corano come testo sacro e la sua intraducibilità

Anche nella cultura islamica, il dibattito sulla traduzione è legato all'ambito religioso; tuttavia, se il
cristianesimo porta la Bibbia al credente, al contrario, l'islam, Ride di portare il credente al Corano. Il
proselitismo islamico si basa sulla diffusione del testo coranico in arabo e sulla diffusione dell’arabo coranico
stesso. Il ruolo speciale dell’arabo rispetto alle altre lingue è attestato, come rileva Grandi, dell'esistenza di
due verbi differenti per intendere le operazioni di traduzione verso l'arabo dal greco e dall'arabo stesso
virgola ed entrambe le operazioni sono intese come interpretazioni dubbiose o incerte. La sacralità del testo
coranico è considerata inscindibile dalla sacralità della lingua prescelta da Allah e dal suo profeta; quindi, il
Corano è assoggettato al dogma di inimitabilità. L'universalismo della religione islamica è collegato al
l'universalità della lingua araba che resta patrimonio Comune dell’intera comunità dei credenti, la umma. la
lingua coranica si attesta come tramite fondamentale del credo islamico: se davvero Allah è l'autore del testo
sacro ed è Allah ad aver scelto proprio quella lingua, è coerente la scelta di diffondere la lingua stessa in
ambito religioso e di preservarla da ogni corruzione o manipolazione da parte degli umani. Come per la
traduzione biblica, resta aperta la discussione riguardante l’originale, cioè l’affidabilità delle copie in base alle
quali vengono redatte le versioni arabe. Le interpretazioni del Corano rappresentano una questione spinosa.
Le varie traduzioni del Corano non sostituiscono il testo sacro in arabo ma spiegano il suo contenuto. Per
questo vi è una coerenza tra religione e filologia. Il corano è un central text religioso in termini materiali, fisici,
linguistici. Ogni copia deve essere in arabo e ogni traduzione non deve essere una mera parafrasi. L’islamico
Tarif Khalidi ha dichiarato durante un’intervista che oggi la diatriba è superata. La traduzione rende il Corano
accessibile a molti fedeli. Si può affermare che la relazione tra sacralità materiale della lingua e quella del
testo della rivelazione è stata recisa solo nel cristianesimo, laddove i fedeli di ebraismo e islam cercano di
accedere al testo sacro originario che è scritto nella lingua prescelta dal rispettivo Dio unico.

3.4. Il dialogo scientifico e la dinamica linguo-testuale

nella traduzione di qualsiasi testo considerato sacro, l'ossequio alla lettera del testo contraddice l'esigenza
che la traduzione sia opera di professionisti e che debba funzionare come funzionava il TP, perduto,
dell’autore. Teorico il traduttore importante valutare che un testo possa essere considerato sacro da qualsiasi
punto di vista; Ma nel momento in cui si procede alla riflessione al mestiere, qualsiasi intento sistematizzante
formalizzante deve prescindere dall'assioma metafisico dell'ispirazione per confrontarsi con i dati del testo e
della sua storia se parliamo di traduzione in termini razionali e scientifici, i concetti di fedeltà virgola di
ispirazione di originale sono privi di senso. Dal punto di vista dialogico bisogna chiarire qual è la propria
modalità di approccio e giungere a un patologico con l'interlocutore. Non può esistere dialogo senza il
confronto e la condivisione degli strumenti del pensiero e senza riferimenti comuni. sei postulati sono solo
metafisici ti resta fuori dall'agire scientifico: se si vuole parlare in termini di fede di ispirazione religiosa, si
sostituisce alla razionalità il dogma della fede. Queste osservazioni ci fanno comprendere per quale motivo
l'atteggiamento dei teorici delle traduzioni le loro conclusioni siano vagliate in base al loro rapporto con la
fede e con la ragione. Infatti, il principio secondo il quale l'impossibilità che un metatesto in un'altra lingua
sia equivalente al TP, è basato sul postulato che originalità corrisponda a verità estetica o spirituale. Bisogna
anche ricordare che ogni testo varia non solo per lettori di culture diverse ma anche all'interno della stessa
linguocultura. La mera appartenenza a una linguocultura può influire in qualche misura, ma non determina
mai l'individualità, le conoscenze, il gusto di un individuo. Uno stesso individuo recepisce in modo diverso lo
stesso testo in lingua nativa, notando e valutando elementi del testo in modo diverso. L'esperienza modifica
i nostri circuiti celebrali “che vengono rimodellati più e più volte nel corso dell’esistenza, secondo
cambiamenti che l'organismo subisce”. inoltre, le lingue stesse sono diverse per ogni parlante, anche nativo
e dato che mutano con grande rapidità, diventano sempre più strane, a volte incomprensibili anche per i
nativi stessi. L'assenza di una riflessione che sia basata sui fondamenti della filologia e della epistemologia è
la motivazione che può indurre a: la possibilità di rendere scientifico il pensiero sulla traduzione, la possibilità
di tradurre qualsiasi testo e lo stato si di mestiere della traduzione che è un'arte che si impara esercitandosi.

3.5. La traduzione tra ideologia e religione

La traduzione dei testi sacri, hanno contribuito a mettere in contatto culture lontanissime tra loro,
diffondendo messaggi che hanno portato al mondo idee nuove, talvolta di pace e di consolazione,
superstizione e intolleranza. La traduzione dei testi sacri è stato il passo verso una globalizzazione ideologica.
L’ideologia, la fede, l’estetica e la stilistica, sono dei fattori coinvolti nei meccanismi di selezione dei testi da
tradurre. La decisione su quali testi verranno tradotti dipende dai giudizi e pregiudizi dei gruppi dominanti
che controllano le decisioni. Le traduzioni mirate alla conversione, alla dissidenza religiosa, sono soggette a
un controllo sul traduttore e il suo lavoro. L’epoca umanistico-rinascimentale aveva dimostrato come le
traduzioni avessero assunto il ruolo di strumento sociale, politico e ideologico. Questo era stato possibile
dopo l'invenzione della stampa: la divulgazione massiva dei testi aveva creato le premesse perché si potesse
organizzare l'attività traduttiva riconoscendole una primaria funzione sociale. La traduzione rendeva la figura
del traduttore per simile a un'attivista rivoluzionario che è al servitore di un testo o di un autore. L'impatto
ideologico culturale dei testi riguarda anche le differenze tra gruppi di individui che si distinguono dagli altri
in base a fattori come il ceto e il sesso. Per quanto riguarda la traduzione biblica, la critica di ambito
femminista considera i modelli dei testi sacri uno strumento di espressione dell’ideologia maschile che
domina in quasi tutte le società umane. La traduzione fatta in ottica femminista e l'occasione di risposta
critica una fedeltà intesa come esercizio del potere maschilista. lo scopo principale di questa posizione e di
contrastare l'idea di un traduttore asettico, privo di ideologia. la critica femminista ha approfondito la
correlazione tra cultura di massa, cultura individuale e ideologia. Questo stesso dibattito si svolge in ambito
omosessuale. Il potere seduttivo dei grandi testi dipende anche dalla loro costruzione formale e incisività
retorica punto e noto che uno stesso argomento può risultare più o meno efficace a seconda delle sue
caratteristiche stilistiche, della sua formulazione e presentazione. Alcuni slogan, ad esempio, hanno un
impatto psichico sorprendente. I testi sono come dei programmi. Quanto più testo è suadente per energia,
ritmo, coesione tanto fa più presa sulla memoria. La sua efficacia è dovuta alla sua struttura tautologica,
autoaffermativa, cui sembra essere predisposto il pensiero umano. Ad oggi è insensato discutere sulla
traducibilità, poiché da secoli non si fa che tradurre testi e quei testi agiscono quanto gli originali e spesso
molto di più. Invece che chiederci se i testi siano traducibili è opportuno discutere sul rapporto tra
incompetenza e professionalità, tra soggettività e oggettività, tra ideologia e conoscenza, tra norma e
creatività. La storia della teoria, dimostra che il pensiero sulla traduzione è rimasto per secoli dualistico e
vincolato a preconcetti ideologico culturali. La logica argomentativa è sempre stata secondaria rispetto al
pregiudizio.

4. Metafisica, estetismo, irrazionalismo: il retaggio storico da superare


4.1. Il culto dell”originale” e lo “spirito dell’Autore”
Il legame che ha collegato la traduzione alla religione e all'estetica metafisica è un retaggio teorico
importante che permette di superare i limiti che hanno condizionato la teoria della traduzione. Il concetto di
parola di Dio è connesso a quello di originale senza però che esso sia stato mai spiegato. Il pensiero sulla
traduzione ha saltato la riflessione sul termine principale e più citato dell'operazione che voleva teorizzare.
Il discorso relativo alla sacralità del testo religioso sia esteso anche ai testi letterari, assurti a ruolo di testi di
culto cioè a originali da preservare mediante fedeltà. Nei secoli, il pensiero sulla traduzione ha riguardato la
supposta fedeltà al supposto originale, recepito come sede di parole sacre anche dall'arte. Alcuni venerati
classici della letteratura hanno assunto una sorta di sacralità che solo apparentemente è più laica dei testi
religiosi. Nella cultura occidentale ci sono dei testi rappresentativi che sono portatori di un valore speciale
che li rende superiori ad altri testi. La possibilità di un testo di diventare oggetto di un culto quasi religioso è
tanto più alta, quanto più il testo, è diventato rappresentativo di un modello letterario ma soprattutto di una
cultura nel suo insieme, cioè quando diventa un modello etico estetico riconducibile a un autore nei confronti
di cui sia devozione a volte maniacale. Fin dal sesto e quinto secolo a.C., era nata attorno all'opera omerica
una tradizione esegetica non dissimile, in termini di ossequio all'originale, da quella biblica. La questione
omerica aveva acuito la devozione per i testi omerici producendo traduzioni in un greco più recenti e dei testi
di Omero per coloro che non potessero leggere nell'antico originale. Montanari, ha evidenziato i due
principali parametri e inducono alla traduzione intralinguistica di un testo di culto: parametro diastratico
(legato al prestigio di un'opera o di una cultura linguistica) e quello diacronico (legato al trascorrere del
tempo). Questi sono due fattori interconnessi. Il fatto di rafforzare l'identità culturale attraverso miti e
oggetti mitizzati è una costante culturale che si riflette sul linguaggio quotidiano. Pensiamo quindi ha una
propensione antropologica dei gruppi culturali a eleggersi cult texts il cui prestigio raggiunga forme di vera e
propria differenza. Quest'ultima è connessa un bisogno di riferimenti mitologici probabilmente innati. Questo
bisogno di tributare al testo un valore assoluto indotto a tacere il fatto che è l'originale non c'è. In realtà non
c'è nulla in un testo che lo renda oggettivamente migliore di un altro: la superiorità di un testo rispetto agli
altri è contingente e dipende da variabili storico culturali e chi sono veicolate da opinion makers. Per questo
si è sostenuto che il traduttore è gerarchicamente, qualitativamente è ontologicamente inferiore all'autore
dell'originale e che quindi, la traduzione sia a priori difettosa. Questo assioma è stato proiettato sulla teoria,
producendo una diffidenza verso la possibilità di studiare e formalizzare il processo traduttivo e di fondare
una critica della traduzione. Il postulato dell’imperfezione costitutiva della traduzione, si basa sull'unico
postulato che il TP sia perfetto, stabile e portatore dello spirito dell'autore; quindi, il traduttore sarebbe uno
scrittore fallito. Il concetto di spirito dell'autore e stato centrale nell'ambito della cultura inglese. I pensatori
britannici ponevano al centro della riflessione uno spirito che connotava di un'aura metafisica il connubio
testo-autore. Lefevere ha proposto una sintesi delle idee di Dryden, secondo cui le tipologie traduttive
potevano rientrare nella tripartizione: metafrasi, parafrasi e imitazione. Dryden stesso Privilegiava la
parafrasi, in quanto aurea mediocritas tra la pesantezza dell’interlineare e l'eccessiva autonomia
dell’imitazione. Limitazione che arroga il diritto di sacrificare lo spirito dell'autore, il quale non dovrebbe
andare perduto. Pope, Rivalutava in letteralismo in nome di una ritrovata autorevolezza dell'autore
dell'originale, indicati come superiori al traduttore e alla traduzione. Secondo l'idea umanistica, la gerarchia
veniva stabilita da un riconoscimento della supremazia dello spirito dell'antichità rispetto alla
contemporaneità. I pensatori Inglesi avrebbero sancito l'idea che il traduttore dovessi avere un modesto
ruolo di sudditanza all'autore. si opponevano alla pratica francese delle “belle infedeli” e come va la lingua e
carni francesi come valore di riferimento, e che vedeva nelle traduzioni francesi i veri originali.

4.2. Il modello francese delle “belles infidèles”

A partire dal Rinascimento, il numero delle traduzioni profane aumentò moltissimo; si diffusero dizionari
bilingui e poliglotti e molti traduttori pensatori cominciarono a vedere la traduzione come un'attività laica
cui spettasse lo status di arte mestiere basato su regole dell'arte. I teorici rinascimentali davano priorità alla
buona conoscenza di entrambe le lingue di lavoro, alla comprensione del TP, all'autonomia estetica del
traduttore rispetto alle esigenze e canoni della cultura di arrivo. Tra i più minuti i sostenitori di questa
posizione, detrattori del vincolo della fedeltà, ricordiamo Etienne Dolet. Considerato il padre della
traduttologia francese, fu uno dei martiri della traduzione, bruciato sul rogo dell'inquisizione per aver
tradotto in modo inappropriato un dialogo di Platone. Per le autorità ecclesiastiche, aveva aggiunto
un'espressione, assente nel testo greco virgola che negava l'esistenza dell'anima. In un saggio del 1540, Dolet,
aveva sintetizzato le sue intuizioni sull’asimmetria delle lingue e sulle regole e guidavano il buon traduttore.
Riteneva che il traduttore dovesse impegnarsi a tutelare lei sito estetico della traduzione e considerava repo
riprovevole qualsiasi calco del TP. Proponeva 5 principi della traduzione a regola d'arte:
 Comprendere bene il senso e l'intenzione dell'autore dell'originale, concedendosi la libertà di chiarire i
passaggi oscuri.
 possedere una conoscenza perfetta della lingua di partenza e della lingua d'arrivo.
 Evitare di tradurre parola per parola.
 utilizzare espressioni d'uso comune
 selezionare organizzare le parole in modo appropriato per ottenere l'atto tonalità ottimale.

Questa posizione fu ripresa anche da George Chapman, traduttore di Omero in inglese. Si poneva la
funzionalità del testo come finalità dell'atto traduttivo, ponendo l'estetica del testo tradotto al di sopra della
sua precisione: il lato estetico della traduzione finiva con il sovrapporsi a quello della funzionalità. Dolet,
restava ancorato ai concetti di originale e di senso e al parametro dell'intenzione dell'autore. L'estetismo era
coerente alla rivalutazione rinascimentale del l'estetica classica, che poneva il bello il culo questo è all'apice
della ricerca artistica. A partire dal diciassettesimo secolo, la rivolta contro il letteralismo portava, In Francia,
al trionfo delle traduzioni cosiddette “belles infidèles”. Il testo tradotto doveva contribuire ad arricchire la
cultura di arrivo secondo i principi di un estetismo naturale. Non era un caso che le traduzioni estetizzanti
avessero preso piede proprio in Francia: le belle infedeli nascevano dall'intento nobilitante di francesizzare i
testi originari, di renderli più belli, secondo il gusto francese. La traduzione quindi si sottraeva al ruolo servile,
ma creava un infausto precedente: l'estetismo in traduzione sarebbe stato recepito come spavalda libertà di
riscrivere il testo a piacimento, assecondando il gusto dei destinatari contemporanei. I letterati francesi
propugnavano, sul modello ciceroniano, uno schema verticale. Si privilegiava una traduzione che fosse
elegante e che non offendesse la delicatezza della lingua francese. In realtà, queste erano pseudo traduzioni:
erano operazioni di spinta omologazione alla cultura di arrivo che allontanavano la traduzione dal concetto
di Ars come mestiere per avvicinarla al concetto di arte come estetica. Quello che Meschonnic chiamava
ideologia estetizzante si sarebbe radicata nella pratica traduttiva francese del diciottesimo secolo,
contribuendo a trasferire l'idea della sacralità dall'ambito della fede a quello dell'arte. Il traduttore doveva in
libertà abdicare alle corrispondenze Inter linguistiche. Questa posizione, ribalta vi termini del dualismo
teorico e enfatizzandone il ruolo: quindi una traduzione bella era necessariamente infedele. Il modello
francese ebbe successo in Russia. Qui la traduzione era soprattutto legata allo sforzo di agevolare lo sviluppo
delle giovani lettere russe e della stessa lingua letteraria russa. Per questo, tra il diciottesimo e
diciannovesimo secolo, l'attività traduttiva venne recepita come attività letteraria creativa. Attraverso
traduzioni creative belle e infedeli, La Russia creò traduzioni libere dai vincoli linguistici. Anche in Inghilterra
si diffuse il modello francese ma per i teorici inglesi, opporsi alla tradizione delle belle infedeli divenne un
modo obbligato per opporsi alla Gallofilia dominante in Europa. Dal 600, teorici traduttori cominciarono a
riguardare il concetto di fedeltà all'originale per rispettare il senso sacro e inviolabile dell'autore. L'estetismo
francese fu superato dal romanticismo tedesco che cercava di quadrare il cerchio tra fedeltà e libertà,
ricadendo in una nuova forma di dualismo spirituale. Il pensiero romantico tedesco restituiva in veste nuova
le lacune epistemologiche del passato. I retaggi metafisico-religiosi riprendevano vita, nutriti da una
riflessione filosofica intrisa di un idealismo apparentemente laico.

4.3. Il romanticismo tedesco e il ritorno allo “spirito dell’originale”

I critici e i filosofi del romanticismo tedesco si interrogavano sul ruolo della storia, della lingua, delle lettere
nell'evoluzione del destino umano. Goethe propugnava la supremazia della versione interlineare (letterale):
solo l'aderenza al testo originario sarebbe stata in grado di rendere la traduzione identica all'originale,
evitando che e divenisse un surrogato dell'originale. Sanciva in modo chiaro la superiorità del TP. Come i suoi
contemporanei, combatteva il modello francese virgola che è omologa va le traduzioni alla cultura di arrivo,
avanzando il moderno concetto di ibridazione culturale: calcando il testo straniero, il traduttore avrebbe
potuto educare il gusto della folla a una terza entità, rinunciando in parte all'originalità della sua nazione e
accogliendo l'estraneità. Si trattava di un'intuizione recepita come estraniamento della traduzione e mera
ibridazione della cultura d'arrivo. i protagonisti del romanticismo tedesco sono stati Humboldt e
Schleiermacher. Nel 1816, venne pubblicata l'introduzione alla traduzione di Agamennone di Eschilo di
Humboldt e Sui diversi metodi del tradurre di Schleiermacher. Questi due saggi furono un gran punto di
riferimento per tutte le correnti della teoria letteraria della traduzione del 900. Dal saggio di Schleiermacher,
Emerge il duplice intento paradossale che caratterizza buona parte della teoria: da un lato, quello di creare
tipologie per regolamentare la traduzione; dall'altro, quello di dimostrare che la traduzione è un'operazione
non assoggettabile a schematizzazioni. Si parte dal fatto che la comunicazione umana è difficile anche
all'interno della stessa comunità linguistica e che le forme di una stessa lingua e il senso loro attribuito dai
singoli parlanti non sono riconducibili a un codice unitario. Inoltre, per ogni persona varia la ricezione
individuale di uno stesso testo com'è il tempo. Propose anche la distinta lezione tra l'attività del
DOLMETSCHER, interprete dell'attività quotidiana e dell’UBERSETZER, il vero traduttore che operava nel
campo della scienza e dell'arte. Mentre all'ambito dell'arte della scienza si addice la scrittura, negli altri ambiti
si sarebbe avuta solo una registrazione di un'interpretazione orale; quindi, il traduttore va equiparato al
l'interprete. Il legame tra lingua, pensiero e cultura, richiedeva che il traduttore dei testi dell'arte della scienza
avesse una dimestichezza con la lingua e la cultura di partenza. In quest'ottica il rapporto dell’UBERSETZER
con la propria cultura era fondamentale ma in realtà poter progettare i suoi obiettivi e calcolare i mezzi
necessari al loro conseguimento era impossibile. Lo stesso autore affermava che era impossibile creare tra il
proprio lettore e il TA, un rapporto analogo a quello esistente tra il TP il suo lettore coevo dato che, la lingua
del TP non concorda mai nessun punto con la straniera. Ciò è rappresentato secondo il dualismo che solo i
testi dove si manifestasse lo spirito poiché testi bassi erano basati su corrispondenze quasi perfette. Di
conseguenza nasce il binario tra parafrasi e rifacimento: la prima e meccanica ed è limitata ai testi della
scienza, mentre per l'arte sia imitazione o rifacimento che sostituisce lo spirito dell'originale con l'estraneo.
Inoltre, pensava che nulla potesse essere inventato in una lingua e che il traduttore avesse problemi con i
termini e i referenti assenti nella cultura di arrivo; in realtà proprio le traduzioni costituiscono un ambito di
sviluppo onomasiologico per qualsiasi lingua arrivo; quindi, si possono creare neologismi e parole. Il suo
dualismo teorico si può riassumere così: o il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e li muove
incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace lettore egli muove incontro lo scrittore. secondo l'autore si
possono opporre due considerazioni pragmatiche:

 dosare i due metodi possibile questo è quello che fa oggi un professionista, soprattutto contesti
complessi e con la traduzione biblica;
 Quali che siano i parametri seguiti da un traduttore, sono sempre solo proiezioni del suo mondo mentale
e circoscritto; attualizzare o storicizzare, avvicinare o allontanare, omologare o straniare sono operazioni
che il traduttore misura e verifica su sé stesso, secondo un processo che avviene solo nella sua mente.

riflette anche sul rapporto pensiero-linguaggio e sul rapporto tra parlante e lingua nativa. Il suo pregiudizio
era quello di negare la possibilità che un individuo potesse essere una stessa cosa in due lingue diverse: il
pensiero umano sarebbe stato direttamente modellato sulla lingua che è racchiudeva lo spirito della nazione.
Humboldt invece, partiva balla postulato e la poesia di Eschilo fosse intraducibile per sua peculiare natura
senza spiegare in cosa essa consistesse, ma solo elencando degli aggettivi riferiti alla lingua lo stile che
risultavano ambigui. Pensava che le diverse lingue sono in rapporto di sinonimia, seppur inteso come
corrispondenza imperfetta in quanto nessuna parola di una lingua è uguale a una di un'altra; ognuna esprime
il concetto un po’ diversamente. questa premessa lo portava sostenere che è una traduzione e tanto più
deviante canti tu quanto tenta di essere fedele. Misurava la sinonimia secondo la corrispondenza parola-
parola senza fare il passo successivo; Tra le lingue esiste sempre una sinonimia praticamente perfetta, ma
solo se si considera il rapporto parola locuzione o locuzione-locuzione. questo lo induceva a teorizzare un
mistico rapporto tramite lo spirito che avrebbe unito i suoni ai concetti dove questi avessero contenuto gli
oggetti della realtà disciolti in idee. univa riflessioni empiriche e verificabili ad affermazioni tipiche del
dualismo di matrice cartesiana. Ad esempio, l'idea che è la stranezza della traduzione tendesse a oscurare
l'estraneità, motivo per cui il traduttore avrebbe dovuto scrivere come lo scrittore avrebbe scritto nella lingua
del traduttore. Un'altra intuizione è che la qualità della traduzione dipenda da una prima felice ispirazione.
Oggi i dati parrebbero avallare quest'idea: i traduttori tendono a produrre un testo scritto già molto simile a
quello definitivo e le eccessive revisioni possono rovinare la prima felice ispirazione: talvolta è meglio
rivedere la traduzione dopo un certo periodo piuttosto che continuare a modellarla. Parla anche di culture
makers: i lettori sono storditi dall’arbitrio dei poeti e poco abituati a metro usati non tanto spesso. Le libertà
che il traduttore può assumersi sono uno strumento in direzione del contatto tra estraneità, inteso come
ibridità culturale. Quindi, le traduzioni possono esercitare un influsso cognitivo sui destinatari. conclude
dicendo che la traduzione e il prodotto non solo di un'epoca, ma della ricezione del singolo traduttore nella
sua individuale relazione con la cultura di arrivo. Ha spianato la strada all'idea che qualsiasi testo sia di fatto
un'originale, in quanto il TP e imparentato all'insieme dei testi precedenti di cui l'autore è diventato
ricettacolo. Aggiunse che ogni TP è almeno in parte un'imitazione.

4.4. La deriva irrazionalista postmoderna

Sul fronte irrazionalista post-moderno sono due i filosofi importanti: Walter Benjamin e José Ortega y Gasset.
Dai pensatori romantici hanno ereditato l'idea dell'impossibilità di far comunicare perfettamente due lingue
è quella di una superiorità ontologica del testo artistico rispetto agli altri testi. Hanno contribuito a esasperare
le tendenze metafisiche romantiche in direzione di un drastico postmodernismo inteso come reazione alle
illusioni positivistiche e scientiste della modernità. il saggio di Benjamin si apriva con una serie di assunti
provocatori e innovativi che avrebbero fornito una base speculativa al pensiero debole e alla più estrema
teoria della ricezione. molto importante è la riflessione sui destinatari di un'opera d'arte che secondo
Benjamin non sarebbe rivolta mai ad alcun destinatario; quindi, ipotizzare un lettore ideale sarebbe nocivo.
Secondo Benjamin, la questione della traducibilità andava rivista ponendosi due quesiti:

 Se l’opera possa trovare mai un traduttore adeguato


 se l'opera consente una traduzione e quindi secondo l'autore, la esiga.
proponeva di affrontare il problema della vitalità delle opere d'arte su base esplicitamente dualistica
contrapponendo la storia alla natura. La sopravvivenza delle opere sarebbe equivalsa alla sua gloria e solo la
gloria avrebbe dato traduzioni. in realtà, numerose traduzioni contribuiscono alla gloria delle opere in lingua
di partenza e talvolta la creano. Benjamin criticava la teoria tradizionale della traduzione basata sull’affinità
delle lingue, ritenendo impossibile definire il concetto di esattezza nel processo di trasmissione di forme e
significati. Questo concetto non poteva riguardare la riproduzione del reale che non potrà mai essere
obiettiva. Di conseguenza, emergeva l'idea della dinamica del senso cioè della maturazione postuma delle
parole fissate. Si alludeva al processo di mutazione di valori e delle componenti di un testo in base al tempo
trascorso introducendo la concezione di ricezione testuale. La stessa lingua materna del traduttore era
recepita come mutevole. Vi era una contrapposizione tautologica tra il poeta, colui che scriveva un originale,
e il traduttore, con lui che non era poeta perché non scriveva originali. questa opposizione contraddice l'idea
stessa di maturazione postuma delle parole: non si spiega perché il mutamento cronologico della lingua non
possa avvenire nel caso della poesia, né si spiega, perché le traduzioni dovrebbero invecchiare più dei TP.
l'idea che le lingue si evolvano verticalmente dal basso verso l'alto era già stata espressa in precedenza. Che
le lingue evolvano e non involvano è già un'affermazione pregiudiziale, ma che è un'evoluzione debba essere
sacra è un giudizio arbitrario. Si pensa che concepisca il compito del traduttore in termini sacrali dei traduttori
della parola di Dio. Per Benjamin, la traduzione, non nasconde la sua tendenza a uno stadio definitivo e
decisivo di ogni formazione linguistica. In essa, non originale trapassa una zona superiore più pura della lingua
a cui a lungo andare non può vivere. Da qui l'idea secondo cui sottraendo ha una traduzione tutto
comunicabile, il lavoro del traduttore sarebbe comunque intatto. l'afflato metafisico lo porta ad affermare
che la lingua della verità, la quale è la lingua vera, è nascosta nelle traduzioni. Anche le considerazioni sulla
fedeltà nella traduzione della parola singola si limitavano ad acuire un ermetismo espressivo e concettuale.
la conclusione del saggio, secondo cui la versione interlineare del testo sacro è l'archetipo ideale di ogni
traduzione, appare un calco della posizione goethiana. Benjamin ribaltava le proprie idee, affermando che la
“grande opera dei traduttori2 dei romantici “implicava il sentimento dell’essenza e della dignità di questa
forma“cioè della traduzione. Il compito del traduttore avrebbe dovuto essere distinto da quello del poeta,
poiché la traduzione sarebbe stata fuori della foresta del linguaggio, facendo entrare l’originale: le traduzioni
sarebbero più leggere e intraducibili. La velocità di diffusione delle scoperte scientifiche sempre più
inquietanti mise a dura prova le capacità reattive umane. Il disagio psicologico di fronte allo spostamento dei
riferimenti etici e reali portò a contrastare l’arroganza e l’autoreferenzialità del pensiero scientista. Da qui
nasce la risposta dell’irrazionalismo cui principale ideologo fu Ortega y Gasset. Era un irrazionalismo
gnoseologico. Partendo dal postulato dell’impossibilità di qualsiasi compito comunicativo umano, fondava il
suo pensiero sul titolo stesso del suo saggio: “Miseria e splendore della traduzione”. Secondo lui, tutto ciò
che l’uomo fa è utopistico; in primis la conoscenza. La traduzione, quindi, era destinata al fallimento poiché
era un compito smisurato per l’uomo. Il traduttore era un incapace, a differenza di un “autore”, di divenire
ribelle. Questa affermazione confondeva la prassi traduttiva con l'essenza ontologica delle singole persone.
La posizione secondo cui la traduzione sarebbe un'impresa utopica era conseguenza dell'impossibilità della
comunicazione umana, idea che assumeva le connotazioni di un marcato decustrozionismo : nessun umano
avrebbe potuto esprimere il proprio pensiero e i limiti del linguaggio umano parevano tali da rendere utopica
la comprensione reciproca. La separazione tra estetica e filosofia, da un lato, e matematica dall'altro era un
pregiudizio. Il fatto che la matematica e la fisica siano a priori meno importanti di qualcosa è una convinzione
soggettiva che Ortega non argomentava. Affermava che è brutta la traduzione e la scienza. Definiva la lingua
un ostacolo all'intelligenza umana. Mirava a denunciare le false certezze della scienza e del linguaggio: le
ragioni per cui linguaggio, scienza primitiva, sarebbe causa del fallimento della scienza era da rinvenirsi
nell'incapacità dell'uomo di parlare sul serio. La lingua sarebbe da intendersi come specchio delle errate
intuizioni umane che trasforma il pensiero in pura facezia. La sopravvalutazione del silenzio e dell'assenza
era accompagnata dal pensatore spagnolo ha un'esaltazione del potere della lingua madre rispetto alla lingua
straniera. nel generalizzare la tristezza di parlare una lingua straniera utilizzava i suoi successi con la lingua
francese. Resta l'idea i testi scientifici possano considerarsi una traduzione dello scienziato dalla lingua vera
in una pseudo lingua formata da termini tecnici, da vocaboli linguisticamente artificiosi che lui stesso ha
bisogno di definire. L'idea dell'autore che traduce se stesso passando da una lingua a una terminologia e un
suggerimento per affrontare le modalità di formazione del linguaggio tecnico, e accademico scientifico, dal
punto di vista dei meccanismi onomasiologici i dei tecnoletti. Si evince si evince una sovrapposizione dei
concetti di scientismo e scienza. Così, il passaggio dalla miseria allo splendore della traduzione era più
contraddittorio che paradossale: il filosofo riconosceva che l'attività traduttiva offrisse servigi alla cultura e
che fosse necessario a tesserne le Lodi qualora la traduzione applicasse la norma dello straniamento. Il saggio
di questo autore e un contributo alla mistica della traduzione. L'irrazionalismo post-moderno si fonda su delle
contraddizioni: nel momento stesso in cui li irrazionali sti negavano il ruolo del linguaggio e della
comunicazione, se ne servivano per diffondere il proprio pensiero, accusando la scienza di fondarsi
sull’equivocità del linguaggio. Il postmodernismo ha contribuito a esasperare la separazione tra illuministi,
che credevano si potesse sapere tutto, e i postmodernisti più radicali che credevano che non si potesse
sapere tutto. Un quadro di insieme della cultura umana è ancora così lontano. accettando il confronto con le
altre discipline, si avrà la possibilità di scoprire di più su ciò che accomuna le lingue naturali e su quel
dispositivo mentale per tradurre di cui sembra essere dotato ogni uomo.

5. Contro la formalizzazione: i Translation studies

Ai primi del 900, con Saussure, nasceva la linguistica accademica, gli studi sulla traduzione si allontanavano
sempre più dall’attenzione alla lingua per ripiegare sull’irrazionalismo antiscientifico, sull’utopismo e il
misticismo letterario. Proprio in Russia, si sono mossi i primi passi per una teoria della traduzione sempre più
attenta agli aspetti linguistici. Gor’kij, aveva richiamato l’attenzione sul processo traduttivo, creando le
premesse per immaginare un collegamento tra lingua e letteratura. Il legame con la linguistica e la ricerca di
procedure era più consono allo sviluppo di una teoria unificata che avrebbe portato a dei progressi. a metà
degli anni 40 il ruolo della lingua nel processo traduttivo divenne evidente quando Nida intraprese il suo
percorso di ricerca per regolamentare le procedure di traduzione della Bibbia. Nel decennio successivo si
assisteva a una crescita degli studi dedicati alla linguistica della traduzione, senza che si attenuasse la
contrapposizione tra teorie letterarie e teorie linguistiche. le prime si richiamavano alla tradizione filosofica
tedesca e alla supremazia del testo letterario, mentre le seconde ambivano alla scientificità della disciplina,
considerando i testi letterari 1 3 tanti ambiti dell'indagine linguistico testuale. Dei primi anni 70, la scuola
tedesca cercava di sviluppare la prospettiva linguistica a dispetto delle resistenze dei letterati, consapevoli
delle difficoltà di infrangere i pregiudizi della frequente lingua fobia umanistica. L'avversità per gli studi
linguistici era un pretesto per sottrarsi a un campo di studi nuovo e complesso. A sancire il distacco dei
letterati dagli studi linguistici sono stati i Translation Studies, una famosa scuola occidentale di ricerca sulla
traduzione fondata da un gruppo di giovani studiosi di traduzione letteraria del 1968. La sua esponente è
Susan Bassnett. lo scopo era quello di separare gli studi sui prodotti della traduzione dagli studi sui processi.
L'approccio dei TS hai limitato le proprie ricerche all'ambito socioculturale. Scambiavano la raccolta di dati
sui processi produttivi per prescrizioni. Le scuole linguistiche cercavano di porre dei limiti all'arbitrio dei
traduttori perché appariva chiaro che l'assenza di regole fosse una forma non evidente di rigidità: nessuno
dei linguisti voleva imporre norme. Il concetto di equivalenza su cui si basava la ricerca scientifica era visto
come inutile e autoritario: la traduzione si sarebbe dovuta studiare in chiave descrittiva, come fenomeno
culturale e non per individuare delle norme o modelli; Ciò portava ad una prescrizione in negativo cioè una
proscrizione. La spaccatura tra linguisti e letterati rifletteva la differenza tra chi cercava le regole e chi evitava
di cercarle. A partire dagli anni 30, si era sviluppato un filone di ricerche sulla traduzione meccanica chi vive
ignorato il fatto che la lingua umana esistesse solo nella realtà comunicativa e che qualsiasi complessità
testuale non avrebbe potuto essere studiata senza unire le competenze di chi conosce processi per produrre
i testi con quelle di coloro che studiano i testi stessi, la loro origine e la loro storia. Ancora oggi, i sistemi
elettronici di traduzione riflettono questo limite. Si può affermare che è la separatezza programmatica tra
studi sui prodotti e studi sui processi non aveva e non ha alcuna ragione di esistere. Qualsiasi cosa studiata
fuori da uno schema di insieme, rende qualsiasi risultato più astratto e fine a se stesso.
Capitolo 3. La traduttologia scientifica: interdisciplinarietà e formalizzazione

1. Il sogno meccanico

Prima che Turing ideasse il test di Turing, cui ancora si riferisce per indicare quando una macchina sia in grado
di fornire un risultato un comportamento attribuibile a un essere umano, nacque nei primi decenni del
ventesimo secolo l'ambizione di creare una macchina in grado di eseguire traduzioni al posto dell'essere
umano. Questa idea nasce dalla scarsa conoscenza della linguistica teorica e testuale, e della complessità
della comunicazione umana punto il pioniere della tradizione meccanica era un ingegnere inventore che
sarebbe morto nel 1950. Si tratta di Trojanskij. aveva lavorato al progetto tanto affascinante quanto originale
di una macchina in grado di effettuare traduzioni da una lingua naturale all'altra con la sola assistenza di due
umani monolingui. A Parigi qualcun altro stava creando lo stesso progetto. Questi progetti superavano il
concetto di dizionario meccanico; presentavano un vero e proprio con genio per tradurre testi, partendo
dall'elaborazione delle asimmetrie sintattiche. La macchina sarebbe stata vantaggiosa da: di vista connessi al
mondo dell'unione sovietica: Da un lato, nell’enorme paese multilingue non era possibile reperire traduttori
bilingue per la maggior parte delle potenziali coppie di lingue; Dall'altro, il progetto prevedeva che si potesse
seguire traduzione di un medesimo testo contemporaneamente in lingue diverse, velocizzando un processo
altrimenti lungo e oneroso. Si postulava che la traduzione interlinguistica potesse essere così asettica e
meccanica da realizzarsi mediante la conversione logica di codici algoritmici. Lo studioso aveva intuito come
le lingue fossero accomunate da una struttura logica comune: di fatto aveva anticipato l'idea di Chomsky. Nel
1959, L'Accademia delle scienze dell’URSS pubblicò i suoi manoscritti divisi in: materiali linguistici e materiali
tecnici. Per capire meglio il suo pensiero bisogna considerare il fatto che il sogno meccanico si fondava sulla
linguistica formale contrastiva: sarebbe stato impossibile, trovare una chiave per formalizzare le strutture e
in essi intra strutturali delle lingue naturali senza formulare ipotesi chiari sul substrato logico che l
accomunava punto il grande merito delle linguistica formale era stato di indagare le regole generali di
formazione ed evoluzione dei codici linguistici, coerenti a criterio di grammaticalità. Il suo limite era quello di
non andare al di là della struttura logica di codici, trascurando gli aspetti pragmatici, psico linguistici della
comunicazione verbale. L'ultimo progetto era basato sul postulato cioè le lingue fossero accomunate da una
struttura logica comune che poteva fungere da codice intermedio tra una lingua naturale e l'altra. Ideò
un'unica forma di analisi logica. Essa si contrapponeva alla forma nazional grammaticale cioè alla veste che
la forma logica assumeva in una data lingua naturale. Prima della macchina, quindi, erano necessari due
monolingui nativi: il primo avrebbe dovuto trasformare il testo nazional grammaticale A in un testo in forma
logica A1; la macchina avrebbe provveduto a convertire A1 in B1. questa operazione era a carico della
macchina: i simboli logici sarebbero stati riassemblati in costituenti di arrivo secondo l'ordine previsto dalla
lingua B. la terza fase sarebbe stata carico belle secondo monolingue chi avrebbe convertito il testo B1 nel
testo nazionale grammaticale B. questo studioso influì tu l'evoluzione degli studi cioè etici sulla traduzione
automatica. La paternità della machine translation va riconosciuta Agli Stati Uniti la nascita dell'intelligenza
artificiale si colloca negli anni 40. In quel periodo, avviene il grande salto dai congegni meccanici alle macchine
computazionali; ciò consentiva di eliminare l'intervento umano nell'esecuzione delle singole operazioni. La
paternità del computer va riconosciuto all'americano Neumann, ideatore della prima macchina in grado di
memorizzare un programma che memorizzasse dati e gli elaborasse. Convertendo i numeri in dati simbolici,
il calcolatore era divenuto intelligenza autonoma capace di commutare informazioni da un codice all'altro. Il
problema della traduzione interlinguistica si presentava come un caso particolare di commutazione non
distante dai problemi di decrittografia. Fu Turing che automatizzò il processo decrittazione elettronica del
codice segreto dei tedeschi contribuendo a sconfiggerli e a sviluppare l'intelligenza artificiale. Ci furono molti
progetti e convegni sia in America cioè in Russia sulla traduzione automatica. Kuznecov Notava come la
ricerca fosse orientata alla traduzione scritta eccome un solo articolo della miscellanea affrontasse il
problema della traduzione orale: nell'ambito della traduzione orale, il livello della teoria era embrionale.
evidenziava il problema dell'arbitrio terminologico che i traduttori russi avevano cercato di arginare. Panov
già nel 1955 aveva realizzato in Russia il primo esperimento di traduzione automatica: si trattava di un testo
di matematica da trasformare dall'inglese in russo. I risultati che si ottennero rivelarono che gli obiettivi erano
troppo ambiziosi; infatti, molti pensavano che si fosse verificato il paradosso di Bar-Hillel, che considerava la
traduzione automatica impossibile per definizione a causa dell'incapacità delle macchine di discriminare la
semantica. questo studioso aveva compreso che alla base del fallimento c'era stata una riduttiva concezione
delle lingue naturali come asettiche strutture logiche ed era giunto a condividere le stesse perplessità di
filosofi romantici e degli irrazionalisti. Nel 1966, un rapporto dell’Automatic Language ProcessingAdvisory
Commitee, Decreto il fallimento dell’era romantica della traduzione automatica. La ricerca si indirizzò verso
mete meno ambiziose procedendo verso un riduzionismo, cioè perseguendo obiettivi parziali e di basso
profilo: traduzioni facili di alta qualità o traduzioni complesse di qualità inferiore. La traduzione automatica
si fondava sul concetto di langue, la lingua normativa astratta, mentre nei testi umani abbondava la parole,
la produzione degli individui. Le difficoltà della traduzione da parte dell'IA erano: difficoltà di ridurre a routine
automatica quello che è per gli umani era semplice e naturale; seppur era molto lenta, gestiva i dati grazie
alla flessibilità e alle capacità analogiche. Nel complesso, la storia della traduzione automatica riflette
un’oscillazione tra due estremi: quello dello scetticismo espresso dal paradosso di Bar-Hillel, e quello di uno
ottimismo ingiustificato di Bel’skaja, A cui si deve il concetto di algoritmo linguistico che ancora negli anni 70
continuava a pensare che fosse imminente la formalizzazione di tutte le componenti della lingua e che
pertanto la traduzione automatica sarebbe stata applicabile a qualsiasi testo. Il fallimento della traduzione
automatica dimostrava che gli algoritmi linguistici erano più complessi del previsto e che non potevano creare
un'intelligenza artificiale. Questo ha dato vita a due filoni: il primo era quello della linguistica computazionale
che è intermedia va tra sogno meccanico e negazionismo romantico, ossia la traduzione assistita. L'idea di
una collaborazione tra traduttori umani e in macchina implicava di guardare computer come strumenti utili
da affiancare ai professionisti umani grazie alle banche dati che le macchine potevano memorizzare, i
corpora. I corpora paralleli avrebbero sostituito il dizionario lessicale e i corpora monolingui si sarebbero
potuti usare per confrontare le lingue tra di loro. Le memorie di traduzione avrebbero consentito di
individuare frasi, frammenti e porzioni del testo corrispondenti, creando degli archivi da consultare. Il
secondo filone di studi era quello della traduttologia dedica allo studio di processi tradotti e alla loro
classificazione formale. Essa cercava di formalizzare i processi traduttivi e le gerarchie procedurali, attraverso
le tassonomie e classificazioni, senza rinunciare all'approccio olistico del tradizionale ambito umanistico. tra
i traduttologi vi erano linguisti interessati alla traduzione e traduttori interessati alla linguistica.

2. La traduttologia linguistica

A metà degli anni 50 fino agli anni 90 gli studi di campo linguistico hanno avuto successo. Il loro scopo era
quello di intaccare l'opinione secondo cui il traduttore dovesse essere un buon letterato con conoscenze
della propria lingua. Le teorie universalistiche avevano indicato la possibilità di trovare anche irregolarità
procedurali nel processo di traduzione che avrebbero reso più professionale la pratica traduttiva. Si cercava
di superare l'anarchia del soggettivismo dominante. I traduttologi erano convinti che fosse possibile
comprendere e descrivere anche le procedure creative seguite dai traduttori letterari che affrontavano
processi decisionali commisurati a criteri linguistici. Ma l’idea che la lingua e la linguistica dovessero essere
fondamentali nello studio della traduzione, è stata osteggiata e ostracizzata per anni. Meschonic, teorico
francese, affermava che una teoria linguistica fosse necessaria perché la traduzione cessasse “di far si che
nella traduzione non venga ignorato alcun fattore linguistico e culturale rilevante”. Per quasi un secolo si è
insistito su un fatto inconfutabile: per studiare la traduzione, non si può escludere lo studio dei meccanismi
che governano le lingue naturali. Si ha la sensazione che queste ripetizioni siano inutili: chi lo sa, non ha
bisogno di sentirselo dire, chi non vuole saperlo, non lo accetta. Un cospicuo numero di persone che si
occupano di traduzione, continua a mettere in dubbio la legittimità di questa disciplina come scientifica.

2.1. Tra Est e Ovest

La traduttologia europea ha mostrato grande vitalità. In essa ritroviamo 2 filoni:


 Quello occidentale, sviluppatosi soprattutto in Germania
 Quello slavo, che si deve ai pionieri dell’Europa orientale che scrivevano in russo, polacco, slavo ecc.
Solo pochi teorici occidentali avevano un parziale accesso diretto o indiretto alle ricerche sviluppate dalle
scuole di Mosca, Varsavia, Praga ecc: da un lato, alcuni importanti contributi slavi erano stati tradotti in
tedesco; dall'altro, alcuni studiosi europei che conoscevano una o più lingue slave, ma scrivevano in lingue
occidentali, facevano da ponte tra i due mondi separati dalla Cortina di ferro. Tra questi, vi erano gli esponenti
della scuola di Lipsia che scrivevano in tedesco ma che conoscevano il russo e le teorie sviluppate oltrecortina,
sia molti russi emigrati in Europa e negli Stati Uniti come Jakobson. era uno slavista, formalista e strutturalista
russo che si occupava di filologia, letteratura, semiotica, psicologia, linguistica e neuro linguistica. Il suo
intento per le afasie disturbi del linguaggio dimostrava quanto fosse logico per uno studioso della lingua e
dei testi provare curiosità scientifica per i meccanismi cerebrali del linguaggio. È ricordato per il saggio del
1959: aspetti linguistici della traduzione. Esso proponeva intuizioni di rilevanza teorica; per esempio, l’idea
che le difficoltà dovute alle asimmetrie tra lingue fossero a loro volta asimmetriche, ovvero che tradurre da
una lingua X a una lingua Y potesse risultare più facile o difficile rispetto al processo inverso. Postulava che le
lingue differissero per ciò che devono esprimere e non per ciò che possono esprimere; solo la poesia sarebbe
stata un limite alla traducibilità e avrebbe richiesto una trasposizione creatrice. La fama di Levy invece, si
deve a un saggio del 1967, pubblicato in inglese: Translation as a Decision process. sosteneva e il processo di
traduzione forse un problema decisionale gerarchico è riconducibile alla capacità di optare per soluzioni
coerenti: una volta presa la prima decisione, con la propria scelta, il traduttore avrebbe stabilito un numero
di mosse successive secondo un gioco a informazione completata. Spiegava le modalità per calcolare le
variabili e tracciare i criteri di un modello generativo: ogni scelta ne generava altre. Se cresce la complessità
del testo, crescono le conoscenze del traduttore. Il merito di questi due studiosi è quello di essere rimasti
ancorati al procedimento scientifico immuni da riferimenti metafisici.

2.2. Eugene Nida, il traduttologo americano


il suo lavoro era il primo tentativo in Occidente di costruire una teoria ampia e pragmatica, basata sia sulla
linguistica che sulla pratica professionale. Si sforzava di proporre un metodo generalizzabile anche agli altri
testi. Aveva intuito che le lingue dovessero essere accomunate da una struttura profonda e che proprio
questo costituisse il fondamento di una teoria scientifica della traduzione. Nel 1964 ha pubblicato Toward a
Science of Translating, il primo trattato occidentale di traduttologia. Riteneva che è la grammatica di ogni
lingua fosse assoggettata a meccanismi trasformazionali prevedibili e formalizzabili, e teorizzava la possibilità
di verificare l'affidabilità di una traduzione mediante il criterio della retroversione. Lo studioso americano sì
rifaceva al non meglio specificato parametro dello spirito dell'autore, riflettendo la stessa dipendenza dei
suoi predecessori dai pregiudizi metafisici; la sua teoria dell’equivalenza dinamica era inficiata delle menti
fideistici più di quanto si attenesse ai principi scientifici. Genzler rilevava come la metodologia suggerita da
Nida fosse commisurata a traduttori che si occupavano di propaganda religiosa e proselitismo. Resta l'unico
vero traduttologo americano. La teoria della traduzione americana e stata e resta appannaggio dei letterati
e degli storici della teoria.

2.3. La traduttologia sovietica

In Russia, la traduttologia risale al 1962. Il saggio di Rezvin e Rozencvejg costituiva un punto di svolta per la
scuola russa è ancora oggi si presenta come un manifesto della traduttologia intesa come scienza della
traduzione. Scopo della teoria, secondo Fedorov, era a generalizzare le deduzioni tratte dall'analisi di singoli
casi traduttivo e suggerire ai professionisti modelli di risoluzione dei problemi concreti. I primi due studiosi
citati osservavano che nei lavori di Fedorov, la questione del fondamento di una teoria linguistica della
traduzione era impostata senza sufficiente chiarezza e spiegavano in che cosa consistesse la teoria linguistica
della traduzione. Si trattava di un'elaborazione dei criteri di valutazione: un modello teorico mirato alla
descrizione del processo di traduzione basato sui principi di deduzione. I due linguisti parlavano di
interpretazione, quando il traduttore si rapportava alla realtà che era descritta nel messaggio attraverso la
lingua naturale, e di traduzione, quando il traduttore si rapportava alla lingua e ricodificava il messaggio in
lingua d'arrivo senza rapportarsi alla realtà. Dal punto di vista epistemologico era nuovo l'approccio tecnico
dell'articolo e l'uso di termini definiti come quello di unità traduttiva. Sveicer, aveva pubblicato un paio di
libri importanti. Nel suo volume tradotto con il titolo teoria della traduzione, ti vedeva il tentativo di
coniugare le ambizioni scientifiche con le propensioni romantiche in coesione ideale con i colleghi tedeschi.
La traduzione costituisce un processo multiforme determinato da una quantità di fattori linguistici ed extra
linguistici come il sistema e le norme delle due lingue, due culture, due situazioni comunicative: la situazione
concreta, la tipologia funzionale del testo di partenza, le norme traduttive. Aveva definito la traduzione come
oggetto di studio della linguistica e aveva fornito un quadro coerente di istruzioni professionali utili anche ai
traduttori tecnici; tra i suoi limiti vi era la mancanza di premesse epistemologiche chiare. la traduttologia
sovietica mirava ad offrire ai professionisti degli schemi modellati sui concetti di tipologia e funzione,
ipotizzando che è la traduzione comportasse una perdita. Quando parlava di processo produttivo intendeva
la pratica. Il processo della traduzione si svolge su una serie di opzioni. Durante la prima tappa il traduttore
si trova dinanzi alla scelta della strategia. La teoria sovietica aveva creato le basi per un approccio
interdisciplinare. Tuttavia, a causa del declino della ricerca scientifica successivo allo scioglimento dell’URSS,
le ricerche si sarebbero concentrate sui case studies, adagiandosi sui traguardi del passato.

2.4. La traduttologia tedesca

La scuola di traduttologia tedesca, Dell Est e dell'ovest è stata produttiva. se gli studiosi occidentali
utilizzavano il termine Ubersetzungwissenschaft, Scienza della traduzione, la scuola di Lipsia, aveva
inaugurato il termine tecnico di Translation/Traslatologie; secondo i teorici di Lipsia, la traduzione era un atto
linguistico che consiste in un processo di decodificazione-ricodificazione. Wilss e Kade Hanno inaugurato la
traduttologia Della Germania dell'ovest e dell'est. Condividevano una diffidenza per il relativismo linguistico,
opponendosi al principio romantico dell’intraducibilità. Secondo il primo, il presupposto teorico della
traducibilità era garantito dagli universali linguistici; tuttavia, entrambi criticavano il disinteresse che
linguistica di Chomsky riservava alla pragmatica e alla psicolinguistica e, come i traduttologi russi,
consideravano la linguistica strutturale insufficiente spiegare i processi traduttivi. I traduttologi tedeschi
tentavano di costruire tassonomie utili a differenziare l'approccio del traduttore a testi diversi, ma
utilizzavano il modo confuso alcuni termini fondamentali come la confusione tra i termini equivalenza e
invarianza. La parola chiave della Ubersetzungwissenschaft sul piano normativo è “equivalenza”. All’inizio è
stato usato il termine “invarianza”, poi sostituito da equivalenza. Si erano create diverse categorie di
equivalenza che rendevano i modelli frammentari. La traduttologia tedesca è stata criticata dal tre punti di
vista: quello drastico dei post moderni rappresentato da Apel che metteva in dubbio la legittimità della
traduzione come disciplina; quello di Genzler, che imputava ai traduttologi tedeschi affermazioni sulla natura
della lingua troppo riduttive e non supportate da dati; quello dell' ermeneutica tedesca che considerava
ingenua l'illusione di stabilire una corrispondenza tra i testi senza tener conto dei fattori extra testuali legati
alla ricezione. la virata della traduttologia linguistica ha contribuito a sviluppare l'approccio funzionale su cui
si sarebbe basata la Skopostheorie, un modello che passava a un funzionalismo estremo. Questo modello
partiva da una concezione di equivalenza non schematica: criterio dell'equivalenza era lo scopo dell'atto
traduttivo che assurgeva all'apice della gerarchia decisionale del traduttore. Lo scopo poteva variare a
seconda del punto di vista. L'importanza della teoria consisteva nel delegittimare istruzioni valide sempre
comunque, per qualsiasi testo; la teoria tedesca si conciliava con i TS: eliminando la fase linguistico
contrastiva, essa si limitava a suggerire al traduttore una coerenza rispetto al progetto ma perorando
l'impossibilità di un modello unitario.

2.5. La traduttologia in Francia, Inghilterra, Italia

In Francia, l'unico celebre contributo dedicato alla traduttologia linguistica, è la monografia di Vinay e
Darbelnet, Stylistique comparée du français et de l’anglais. Merito dell'opera era l'utilizzo di termini come
equivalenza, calco, unità traduttiva. Il contributo della Francia agli studi sulla lingua e traduzione è ben più
significativo nel campo dell'interpretazione e in quello dei corpora e della terminologia. alla fine del
ventesimo secolo leggeri francesi sulla traduzione si dividevano in corrente ermeneutica e corrente etico
letteraria. Ladmiral, nel volume Traduire théorème pour la traduction, Non considerava alcun problema
linguistico, limitando il suo interesse alla semiotica che considerava una linguistica delle connotazioni.
Pensava che la traduttologia non avrebbe portato a scoperte o rivelazioni, ma avrebbe aperto finestre sulla
pratica traduttiva; diceva che la teoria non avrebbe potuto apportare sapere supplementare ma solo dei
concetti grazie ai quali descrivere la pratica. Secondo Scotto, sarebbe stato In Francia il solo Antoine Berman
che, considerava la traduzione una scrittura autonoma, negando il fondamento stesso delle teorie
linguistiche. I suoi scritti paiono assimilabili al postmodernismo, che con le sue allergie alla scienza ha pesato
sulla cultura francese nella seconda metà del 900. Si deve proprio ha un cultore francese il miglior saggio
italiano di traduttologia linguistica del 900. con il volume analisi linguistica e traduzione, Enrico arcaini forniva
il contributo allo sviluppo delle ricerche traduttologia che nel nostro paese. In Italia, la traduttologia
linguistica era stata surclassata da studi sulla traduzione letteraria in chiave filosofica o cultorologico
descrittiva. In Inghilterra si parlava di Catford. nel 1985, con un suo volume, ha promosso In Europa il ruolo
della linguistica negli studi sulla traduzione avanzando la differenziazione tra criterio linguistico e funzionale.
E stato il primo traduttologo a porre le basi per costruire un modello teorico generalizzato che valesse per
tutti i testi. Il libro evidenziava il ruolo fondamentale dei concetti di equivalenza e di corrispondenza formale,
nonché l'attenzione ai diversi aspetti della lingua e alle varietà linguistiche. Interessante e la parte dedicata
ai limiti della traducibilità dove evidenziava l'errore di differenziare il traducibile dall’intraducibile. Gli
sembrava utile distinguere tra pertinenza linguistica e pertinenza funzionale. In seguito, si parla di Newmark,
il quale entrava di conciliare l'approccio linguistico con quello dei TS. il suo merito era quello di aver dedicato
molte pagine alla traduzione dei nomi propri ignorando l'onomastica e gli studi sui realia (nomi propri): infatti,
la sua opera è caratterizzata da difetti epistemologici. Fino alla fine del ventesimo secolo ha dominato una
diffidenza per la traduttologia. I traduttologi erano disprezzati dai letterati perché troppo linguisti; dall'altro,
erano disprezzati dai generati visti come dilettanti della linguistica che si occupavano di una disciplina di
dubbia dignità che nulla poteva avere a che spartire con la linguistica.

3. Algoritmi ed euristiche: le strategie del “problem solving”


3.1. La metafora computer/cervello

Sorprende che è l'ipotesi che esista un dispositivo innato per l'acquisizione delle lingue naturali non sia stata
estesa all'ipotesi che esista un dispositivo innato per la traduzione (Translation Advice). Infatti, i bambini
bilingui sono in grado di tradurre frasi semplici da una delle due lingue all'altra e spesso lo fanno in modo
spontaneo e seguendo un istinto funzionale. Le operazioni affrontate dai traduttori spontanei, sono
computazioni estremamente sofisticate che affrontano tutti gli esseri umani per passare dal dialetto familiare
alla lingua usata a scuola, da un registro all'altro e così via. Non esistono studi scientifici che invalidi non
l'ipotesi che ogni umano di lingue sia in grado di tradurre attraverso delle procedure Inter linguistiche al fine
a quelle intra linguistiche e non esistono nemmeno studi che dimostrino che i processi traduttivi non
rientrano nella categoria dei processi decisionali che richiedono il problem solving. Non è possibile studiare i
processi traduttivo umani fuori da un modello psico cognitivo della mente-cervello. alcuni scienziati credono
che la mente vada studiata come una sorta di facoltà emergente del sistema neuro cerebrale, capace di
eseguire diversi procedimenti logici o pseudo logici che costituiscono un insieme di programmi in funzione
parallela. la metafora bella computazione elettronica applicata la mente umana può rivelarsi tanto utile
quanto la metafora del cervello umano è stata cruciale per il decollo dell'intelligenza artificiale. Il processo
traduttivo può essere rappresentato nei termini di una computazione mirata la commutazione di un testo da
un codice all'altro che si avvale di un hardware biologico per effettuare operazioni elettrochimiche attraverso
i neuroni. La competenza traduttiva potrebbe essere vista come l'addestramento di un insieme di reti neurali,
programmate l'esercizio per questo specifico compito. Qualsiasi persona alla nascita ha in dotazione un
dispositivo in grado di acquisire una lingua nativa e una lingua seconda; ed esercitarsi a convertire testi
dall'una all'altra lingua; questa commutazione si avvale di una serie di circuiti primari e secondari che usano
chunk di informazione registrati nella memoria a lungo termine. quindi, tutti abbiamo in dotazione un codice
biologico che ci rende animali traduttivi; i primati, sono dotati di facoltà di decodificazione elementari, basate
su riflessi condizionati innati o sull’imitazione. Quindi, un traduttore, è un individuo che sfrutta le potenzialità
comuni a tutta la specie, formando ed esercitando circuiti cerebrali sempre più sofisticati, automatizzando lì
e trasformando le conoscenze esplicite in abilità implicite. Altri invece, rifiutano l'analogia cervello computer.
Considerano impossibile districare con il metodo scientifico una complessità che parrebbe andare oltre le
capacità della scienza e delle facoltà umane. Altri negano che la mente umana sia l'esito di un processo fisico,
biologico e materiale. La mente come immateriale ed esterna alle leggi del mondo fisico, e vedono le attività
mentali come ontologicamente i superiori e insondabili delle attività fisiche. Quindi un poeta non saprebbe
scrivere versi perché ha imparato a farlo ma perché ispirato da qualcosa. Il vero traduttore di poesia non
sarebbe un professionista ma un ispirato. Questa posizione è estranea allo scambio dialogico della
comunicazione scientifica. In realtà virgola non solo non c'è nulla di mentale dell'uomo che non sia fisico ma
neppure l'intuizione è mai metafisica. Non si può non assumere che i processi traduttivi implichino facoltà
species-specific, competenze pregresse e l'addestramento a un'attività neurale paragonabile a quello
dell'apprendimento artistico, del ragionamento matematico e dell'intelligenza sportiva. non pare che
esistano per qualsiasi sistema intelligente humalike infiniti modi di problem solving. Esistono due categorie
di strategie per risolvere i problemi: gli algoritmi e le euristiche. Esse possono fondersi o alternarsi e
prevedere gradi differenti di determinismo o di soluzione aperta, possono applicarsi bottom up o top down,
ma rispecchiano queste due modalità. la traduzione non può fare eccezione e non c'è nulla di male a vedere
nel cervello umano una centralina che esegue calcoli.

3.2. Algoritmi ed euristiche: definizioni

La mente umana per risolvere qualsiasi problema, si avvale di conoscenze esplicite o di procedure implicite
che consentono alle conoscenze di trasformarsi in schemi affidabili per ottenere risultati ottimali in breve
tempo o di entrambe. prima di esercitarsi in una procedura, si possono ricevere istruzioni preesistenti o
ricavarle secondo il metodo per tentativi ed errori o combinare i due metodi. il metodo per tentativi ed errori
non è mai casuale. Anche chi dà priorità alla pratica è avvantaggiato da istruzioni già pronte che evitano i
tentativi del tutto inutili o dannosi. Per addestrare alle procedure si devono distinguere due casi:

 le situazioni prevedibili, applicabili in modo ripetitivo secondo strategie sistematiche di risoluzione del
problema dette algoritmi.
 le situazioni nuove, assoggettabili a strategie intuitive e soggettive dette euristiche.

gli algoritmi sono programmi che soddisfano le condizioni di completezza, non ambiguità e coerenza. Ci sono
algoritmi topdown e botton up: per il primo, si parla di algoritmo euclideo, che consente con la regola
generale di individuare uno specifico massimo comun divisore di due cifre note, ma si potrebbe anche citare
una ricetta comprensiva di ogni mossa che porti ha un esito perfetto. La strategia dal basso è quella che
consente di risalire a una premessa teorica generale dai dati particolari. ogni programma di un computer è
un algoritmo che viene ripetuto e seguendo uno schema: se P, allora Q. Questo schema consente di effettuare
una ricerca per verificare se l'opzione considerata è uguale o diversa da P. l'algoritmo è un programma, un
sistema di calcolo o di regole che permette di giungere a una soluzione secondo lo schema logico. Finché i
dati non cambiano e si dispone del tempo per acquisire applicare l'algoritmo, si ha la certezza di avere una
regola completa e coerente. Per esempio se il problema Y= Y= come andare a casa più velocemente dall’uni;
se y e se piove, allora Itinerario A>esci 20 min prima. L’applicazione Itinerario A risponde a un algoritmo
deterministico. L'itinerario A Sarà composto da una serie di sub routine fisse. Se una di queste non è
applicabile perché i dati sono cambiati o possono continuare a cambiare allora l'algoritmo è inapplicabile e il
sistema intelligente non riesce a decidere. Si deve cercare una nuova strategia che dovrà essere più veloce e
che sarà un’euristica e si applicherà per risolvere Y quando non si può applicare l'algoritmo o una sua
subroutine. il concetto di euristica è una strategia che considera le soluzioni più promettenti ignorando quelle
poco probabili. È una scorciatoia: si selezionano i dati della ricerca riducendo costi e tempi della ricerca e
della soluzione. Esse sarebbero in realtà, forme di algoritmi non deterministici. L'euristica e una strategia di
ricerca ad hoc bella soluzione di un problema che tiene conto di parametri generali di interpretazioni in parte
soggettive ma prevede routine subroutine riconducibili ad algoritmi non deterministici. Un’euristica può
essere formalizzabile e prevedibile come un algoritmo. Almeno per ora, l'uomo è superiore all'intelligenza
artificiale. più abile a semplificare le routine di ricerca euristica, abilità fondamentale per la nostra esistenza.

3.3. I pattern della traduzione

Si cercava un algoritmo e mostrasse quali passi si dovessero intraprendere per ottenere una traduzione da
un TP a TA. ottenuto quello e perfezionatolo si sarebbe trovato l’algoritmo universale della traduzione. In
realtà, si erano trascurati di fattori come: la pragmatica comunicativa, l'interrelazione che collega la lingua
alle emozioni alle motivazioni, ai 5 sensi e il fatto che la coscienza interpreti messaggi in modo sfasato rispetto
all'inconscio. Senza lo stimolo delle emozioni, il pensiero irrazionale rallenta fino a disintegrarsi punto i
processi di codifica in parole di un messaggio, di decodifica e di ricodifica in un'altra lingua constano di una
serie di operazioni numerose e complicate, consce e inconsce. Per selezionare l'opzione vincente, ossia quella
equivalente servono: un criterio di equivalenza e un numero di dati compatibile con le limitate facoltà di
calcolo della mente umana. Se il criterio di equivalenza è parziale, l'operazione fallirà; se il criterio è generale,
l'operazione riuscirà. Un modello teorico generale per la soluzione di problemi può utilizzare insieme sia
algoritmi, sia istruzioni probabilistiche per affrontare variabili situazionali nuove. Se le operazioni sono
routinarie, si aspettano pochi imprevisti. Le operazioni sono complesse proprio quando, con l'aumentare del
tasso di correlazioni tra i parametri, aumenta la probabilità di imprevisti. In tutti i casi, il traduttore dovrebbe
seguire un modello teorico che fornisca:

 istruzioni generali, complete e coerenti, comprensive dei calcoli delle variabili e probabili e improbabili.
 istruzioni su come affrontare le situazioni nuove invasi vincoli di tempo e alle soluzioni possibili.
Ovviamente ci sono più tecniche. la tecnica migliore è la più recente virgola che si avvale di dati aggiornati e
di strumenti all'avanguardia. Per la traduzione, lo strumento fondamentale è il cervello umano; per questa
ragione, il ruolo della routine e dell'esercizio è fondamentale. Un domani, forse, il sistema decisionale umano
che permette di tradurre potrà essere sostituito da un meccanismo di tipo digitale che non preveda ambiguità
ricordando che si ha sempre bisogno di una interpretazione. Le ricerche sulla soluzione di problemi da parte
del cervello umano si sono concentrate sull’euristica piuttosto che sugli algoritmi però, nel caso dei processi
traduttivi, la computazione ti troverebbe all'incrocio tra determinismo algoritmico e non determinismo
euristico. Non si può costruire un modello teorico della traduzione senza criterio di equivalenza: solo in base
a questo criterio si può tentare una formalizzazione di routine a schema si/no, che preveda euristiche di
ripiego per le situazioni nuove e creative. Il processo traduttivo è un procedimento di inibizione delle opzioni
scartate. Il traduttore seleziona prima una rosa di opzioni e poi le considera una a una fino a quando non
trova l'opzione giusta. Più il traduttore è esperto, meno sono le opzioni candidate alla soluzione: l'abilità
procedurale implica la capacità inconscia di propendere subito per l'opzione migliore senza pre attivare
troppe opzioni concorrenti. Un simile apparato di controllo, di attivazione di link, lascia intendere che il
sistema procedurale sia connesso allo stato psico fisico del traduttore. Quando si traduce è possibile giungere
a risultati complessi senza che la coscienza registri alcuni dei passaggi più significativi del processo di
soluzione. Poiché, per applicare una routine, non si deve scendere sotto una certa velocità operativa. La
coscienza procede con una lentezza rispetto alle procedure automatiche. Le procedure sono veloci se evitano
che i singoli passaggi della computazione si presentino per intero alla coscienza; quindi, il traduttore
addestrato percepisce la soluzione come intuitiva. I processi traduttivi utilizzano vari micro-passaggi neurali
che agiscono tra il livello cosciente e quello semicosciente. Abbiamo scarsa o nulla consapevolezza di eventi
che la nostra memoria implicita provoca o registra: la coscienza parrebbe un epifenomeno. I pattern sono
schemi che possono essere copiati da un medium all'altro e questa azione è ciò che chiamiamo traduzione.
questo concetto non si applica solo ai geni ma anche ai testi letterari. Le strutture che governano la lingua,
la pragmatica d'uso, E il singolo testo che si va a tradurre, offrono riferimenti attraverso cui orientarsi per
cercare le strategie, le tecniche, le procedure di soluzione del problema= converti da una lingua all'altra.
Indagare le interrelazioni tra elaborazione inconscia ed elaborazione consapevole serve per:

 formulare ipotesi sui meccanismi che consentono la traduzione


 valutare le complessive implicazioni cognitive
 riformulare i compiti della didattica della traduzione.

un modello teorico per la traduzione prevede una strategia algoritmica quando:

 il testo è univoco
 il testo è volutamente ambiguo

i processi traduttivi, pongono problemi decisionali, organizzati secondo un ordine gerarchico che Jakobson
chiama dominante testuale. Il processo di traduzione è una tipica tipologia del problem solving che si avvale
di strategie atte a trovare la soluzione ottimale, la quale va definita secondo criteri di equivalenza che variano
per ogni modello teorico. Se si vogliono scomporre, analizzare e formalizzare le tappe di risoluzione di un
problema, serve utilizzare il bottom up:

 le conoscenze che abbiamo impiegato


 il modo in cui queste conoscenze sono rappresentate nella nostra mente e nella nostra memoria
 i processi mediante i quali, siamo riusciti ad attivare le conoscenze pertinenti alla soluzione del compito
 i processi che hanno portato alla risoluzione del problema.

per quanto riguarda la traduzione possiamo prendere in esempio le fiabe: sono ambientate in uno spazio-
tempo mitologico, fuori da vincoli nazionali, storici, geografici; sono per lo più rivolte a bambini che
gradiscono la omologazione alla lingua italiana. Per esempio: Scrooge McDuck= Uncle scrooge= Paperon de
Paperoni=Zio Paperoni. In questo caso si perde il riferimento di vecchio e tirchio protagonista del canto di
Natale di Dickens. Nel complesso se nella cultura di partenza il nome crea un pattern ricchezza+ tirchieria, il
nome italiano invece, allude il suolo alla ricchezza perdendo quindi la tirchieria. Abbiamo quindi due
procedimenti:

 se: TP= fiction per infanzia, allora, TA, ricrea nome parlante efficace in lingua di arrivo
 se TP= fiction realistica, allora TA, lascia il nome del testo di partenza.

le strategie possono essere applicate con parziale o totale inconsapevolezza delle varie opzioni oppure con
la precisa adesione a una strategia derivata da un modello teorico. La strategia più facile è quella del
dilettante totale, quando le soluzioni risultano semplicemente arbitrarie, slegate da modelli teorici; quindi

 se V unità TP, allora per corrispondente unità TA, fai quel che ti pare.

Se il traduttore applica una strategia restrittiva con procedure che portino una forma di equivalenza, le
subroutine saranno formalizzabili secondo un algoritmo più complesso. più si aggiungono condizioni alla
routine, più si complica la formalizzazione dell’algoritmo. La velocità procedurale del processo traduttivo è
tanto migliore, quanto più è costante. Il processo che comporta la tappa cerco è un meccanismo biologico e
effettua la preselezione, esamina i candidati e consente solo da alcuni di presentarsi all'esame finale; poi
abbiamo la verifica e la conferma. Questo procedimento è così rapido da essere semi consapevole, ma nel
caso dell’interpretazione simultanea e così rapido da non raggiungere la consapevolezza. Si è detto
inizialmente che, per applicare strategie algoritmiche, serve disporre tutti i dati relativi al problema e del
tempo necessario alla computazione. Più un TP è complesso, più le due modalità si alternano. Un traduttore
competente sa quando è in modalità algoritmica e quando invece sta applicando una strategia euristica. Se
mancano dei dati, l'euristica impone di convalidare unità di arrivo che presenta alcuni segni di corrispondenza
con quella di partenza. Esistono due tipologie di soluzione migliore possibile:
 migliore possibile hic et nunc
 migliore possibile in assoluto.
In ogni traduzione professionale, c’è sempre un numero di entrambe le tipologie di soluzioni migliori possibili:
nei testi letterari, quelle migliori in assoluto dovrebbero essere mutuate dai traduttori successivi dello stesso
testo, il cui compito dovrebbe essere quello di trasformare nella tipologia 2 le soluzioni della tipologia 1. va
rilevato e in traduzione per trovare una soluzione e poterla convalidare serve una correlazione cerco-trovo-
verifico-convalido che implichi che quello che si sta cercando venga riconosciuto. riconoscere qualcosa, oh
non lo si è conosciuto prima oh si procede in base ai dati disponibili. applicato alla lingua di regola il
riconoscimento e tanto più affidabile se il traduttore riconosce l'unità linguistica o la parola che sta cercando
perché è già l'ha incontrata: non la ricorda, ma se la vede, la riconosce. Qualsiasi traduttore professionista
conosci la differenza tra una soluzione nota e dimenticata. Altmann Ben illustra quanti dati in memoria
vengano coinvolti nel processo di attivazione-inibizione che produce il significato. la conoscenza di qualcosa
riguarda svariati parti del cervello come gli input visivi, uditivi, tattili, olfattivi e gustativi. nella memoria
biologica ci forma un'immagine mentale che coinvolge i 5 sensi e altri dati collegati alla biografia soggettiva.
il significato vai inteso come sintesi dell'insieme di diverse associazioni. alla macchina invece, manca la
memoria affettiva. Per esempio, non dispone di un significato di pudding che possa equivalere alla
comprensione della parola di un essere umano. quantomeno un dizionario cartaceo.

3.4. I cluster del significato

Quando il cervello umano deve tradurre una frase dal pensiero in lingua naturale, da un registro all’altro di
una stessa lingua, si comporta come una centrale ipercomplessa che gestisce una banca dati, suddivisa in
moduli neuronali (cluster) collegati tra loro. Questi moduli sono addestrati a valutare le opzioni di output
attivando altri cluster interconnessi che non sono solo relativi alla lingua. Le interconnessioni tra cluster
formano reti associative che in parte sono accessibili alla coscienza. Un cervello biologico funziona come un
computer parallelo. Il processo di decodificazione di un TP e di ri-codificazione di un TA è lentissimo rispetto
a una macchina, ma sufficientemente veloce da consentire una traduzione simultanea. Ogni input verbale
“accende e spegne” parallelamente un numero di link nell’ipertesto neuronale: alcuni link sono condivisi da
tutti i parlanti, altri derivano dall’esperienza soggettiva e dalle acquisite competenze implicite ed esplicite.
Per esempio, l’input della parola pagoda può innescare nel mio cervello di bilingue italiano-russo che gestisce
anche inglese, tedesco, polacco che conosce determinate persone, ama determinati frutti, e ha visto dei film:
sono solo alcuni link interconnessi a immagini, suoni, associazioni mnestiche a persone, eventi, che possono
esercitare un priming, cioè pre-attivare a livello inconscio elementi del circuito associativo. In pochi secondi,
concetti, immagini, parole, vengono attivate o pre-attivate. Man mano che qualcuno parla, nel cervello di chi
ascolta si accendono e spengono migliaia di sinapsi. Se le accensioni di due o più neuroni sono frequenti, il
collegamento è registrato dalla memoria a lungo termine, e, se la ripetizione è costante, la memoria esplicita
si può trasformare in memoria procedurale, implicita. Le proprietà memetiche del linguaggio fanno sì che
espressioni nuove, ripetute continuamente, diventino abituali e perdano la loro marcatezza pragmatica.
Entrano nell’uso comune e nella memoria a lungo termine dei parlanti: come le espressioni italiane
“arrivederci” e “a presto” soppiantate da calchi dall’inglese, ad oggi utilizzate molto dai giovani.

4. Memetica, linguaggio, traduzione


4.1. Formulaicità e stereotipia

Chi si occupa di traduzione si occupa anche di messaggi contenuti nel testo che vengono diffusi, contagiando
nuove persone e nuovi popoli. Il contagio è possibile grazie alla predisposizione del cervello umano a recepire,
memorizzare e riprodurre quello che ha sentito, e a farlo tanto più efficacemente, quanto più i suoni sono
strutturati secondo il ritmo, rima, consonanza e dissonanza. nel caso delle lingue naturali, si sa che esiste tra
gli accostamenti dei suoni delle parole e il significato, un nesso diretto. La preferenza per certe formule
linguistiche convive con l'istinto innovativo: il dispositivo umano del linguaggio ama imitare formule esistenti,
ama crearne di nuove e sa fare entrambe le cose. È fondamentale comprendere che l'informazione su cui si
fonda ogni cultura non può essere sospesa nell'aria. Deve essere codificata in qualche oggetto materiale. C'è
stato un enorme contributo da parte dell'informatica che ci ha portato riconoscere che tutti i saperi si
materiano in un supporto. con informazione intendiamo un input che e raggiunge un sistema intelligente e
lo modifica. In lingua naturale, vengono codificate sequenze diverse di parole per esprimere script che hanno
il potere di moltiplicarsi e contagiare i cervelli. Come i virus biologici, quelli verbali possono creare danni
parassitari strutturali al pensiero, pure o possono limitarsi a un contagio che avviene a orecchio, senza
modificare le strutture cognitive. In questo caso, le persone usano una formula invece di un'altra perché la
sentono di più; più sentono la formula, più la usano, più la diffondono, più la sentono. I virus verbali agiscono:
creando associazioni innocue come ambarabàciccìcoccò o disponendo al pregiudizio: fuma come un rabbino.
la manipolazione si registra livello cognitivo e attivo se crea credenze, degli indicatori interni naturali che
sono divenuti rappresentazioni con la funzione di controllare un determinato comportamento.

4.2. I “memi” e il dibattito epistemologico sulla “memetica”

La memetica studia la replicazione della cultura secondo un modello evoluzionistico. essa studia i memi cioè
le unità minime di replicazione, trasmissione e riproduzione della cultura e dell'informazione. È modellata
sulla teoria del “gene egoista” dell’evoluzionista Dawkins. Il termine meme è stato divulgato in The Selfish
Gene, libro del 1976. L’etimologia della parola era stata ispirata a Dawkins sia dalla radice greca “mime”
(imitazione) sia dalla parola francese “meme” e dalla consonanza con gene. Se il gene è il replicatore
biologico, il meme è il replicatore culturale. Esso ha un memotipo e un femotipo (forma fisica del meme nel
mondo), collegata nelle reti neuronali di un cervello a una struttura di significato. la propagazione del meme
dipende dalla sua struttura e dall'ambiente che determina la virulenza epidemica. La parola meme è stata un
metameme. Dennett, mostrava la versatilità e l'utilità del modello Dawkins per impostare una nuova ricerca
culturologica interdisciplinare. la coscienza umana sarebbe un grande complesso di memi. secondo Balkin, i
memi che compongono la mente umana possiedono le persone più di quanto le persone possiedano le idee.
le lingue naturali sarebbero un ottimale canale di diffusione memetica. Ipotizzava che il meme fosse connesso
all'idea di significato nel senso che la struttura sarebbe in funzione del significato. la memetica si presenta
come modello teorico per lo studio della stereotipia testuale, come quadro di interazione tra la mente e le
informazioni esterne. Blackmore ha fornito il primo manuale di memetica, in cui proponeva di considerare i
memi li strumenti con cui pensiamo e ne analizzava il funzionamento in organizzazioni complesse, i
memeplex, che, come i geni, si uniscono in sequenze. I complessi di memi spiegherebbero il successo delle
idee e la diffusione epidemiologica di comportamenti umani che non rientrano nella mera propensione
all'imitazione. Alcuni volumi sulla memetica denotano una estraneità alla riflessione epistemologica. Dawkins
veniva criticato per aver affrontato il tema della trasmissione culturale senza aver tenuto conto delle ricerche
antropologiche. Bloch esprimeva il suo scetticismo sul fatto che la trasmissione della cultura potesse essere
ricondotta a una trasmissione di bits. affermava e il passaggio di informazione che avviene nella
comunicazione culturale richiedeva un atto di ricreazione da parte del destinatario. L'idea di ridurre l'uomo
alla somma di una quantità di geni più una quantità di memi, equivaleva a considerare uno scoiattolo una
collezione di nocciole. Il problema sarebbe stato quello di considerare meccanismi inconsci che portavano
alle inferenze prima e alle azione poi, attraverso il processo che avrebbe innescato la sensazione del
l'intuizione. Plotkin criticava l'idea e il cervello fosse un dispositivo di mutazione selettiva mentre in realtà la
trasmissione culturale sarebbe dipesa da un processo profondo di costruzione e integrazione identitaria. Con
te invitava a non confondere ciò che era stato appreso socialmente per trasmissione con ciò che era risultato
dall'esperienza personale soggettiva. Lakan e Smee mettevano in dubbio l'esistenza stessa dei meme e la loro
utilità come strumento di ricerca scientifica ammettendo che erano utili a individuare gli elementi
socialmente appresi. La memetica trascurava la suscettibilità dei destinatari poiché portatori di rendere
potenti i memi indipendentemente dalla loro struttura. La memetica poteva giovare alla ricerca solo se
coerente agli studi sulla coevoluzione gene-culture. Aunger rilevava l'importanza di rinvenire un modello
fisico di replicazione memetica che potesse definire il communication problem. ha affrontato il problema
della fisicità dei memi, partendo dal postulato dell'informatica secondo cui non esiste informazione senza
rappresentazione fisica. introduce quindi, il concetto di neuromeme: struttura cerebrale super molecolare
capace di replicarsi grazie a stimoli specifici, i memi; solo specifiche tipologie di put sarebbero in grado di
contagiare i neuroni e fare assumere loro la struttura di replicante. uno degli studi più importanti sulla
contaminazione lingua culturale è Cultural software di Balkin. come stava alla concezione che i memi si replica
ssero in forma identica, trascurando il fattore-mutazione. le mutazioni culturali non solo supererebbero
quelle biologiche ma sarebbero l'essenza stessa della trasmissione memetica: la cultura sarebbe un sistema
evolutivo equilibrato, conservatore e mutevole. considerava la differenza tra evoluzione culturale e biologica
sarebbe stata da ricercare nelle mutazioni dei simboli che esprimono i giudizi e le credenze. anche l'ideologia
acquista significato in base al contesto d'uso, in quanto diventa significante quando è contestualizzata. le
strutture narrative, gli espedienti retorici, sarebbero forme pervasive del pensiero umano predisposte a
essere immagazzinate nella memoria creando quella struttura di aspettative che rafforza la rete di
conoscenze con cui un individuo confronta un input esterno per accettarlo o rifiutarlo.

4.3. Lingua, memi e traduzione

L’ideatore della Skopostheorie, Vermeer, sosteneva che le traduzioni potevano essere viste come veicoli
transculturali di memi. Nella memosfera si svolgerebbero la competizione e la selezione naturale tra i memi,
la cui prerogativa sarebbe di avere successo, diffondendosi a una velocità ben superiore a quella dei geni. La
relazione tra mimetica e traduzione è stata studiata anche da Chesterman convinto che la teoria della
traduzione sia una branca della memoria. Secondo Sperber, B è una replica di A se B è causato da A, se B è
simile ad A, se il processo che genera B ottiene da A l’informazione che rende B simile ad A; secondo Toury,
un testo B è la traduzione di A, se esiste un TP, se esiste un processo di trasposizione, se TP e TA risultano
correlati. Gli studiosi di metrica non sono stati attenti alla correlazione tra teoria dei memi e formulaicità
linguistica: un meme verbale è un'unità minima di fonemi, lessico e morfosintassi, prosodia e ritmo. Essa
studia la forma linguistica delle formule di successo, la traduttologia studierebbe la trasformazione dei memi
da una lingua all'altra. I fraseologismi, i modi di dire e i proverbi sono considerati memi linguistici, formule e
hanno vinto la competizione tra le alternative concorrenti: esistono varie espressioni in ogni lingua per
esprimere l’invariante l'italiano colloquiale me ne frego, ma c'è solo un equivalente in ogni lingua che abbia
lo stesso stile, funzione, occorrenza lo stesso tipo di persone e situazioni. il valore dell'impatto memetico di
ogni espressione linguistica è un parametro per misurare la corrispondenza interlinguistica. È memetico lo
slang dei giovani che cercano sempre di marcare con formule verbali la differenza tra la propria generazione
e quelle precedenti. È memetico l'uso idiomatico degli slogan pubblicitari. I memi linguistici sono invenzioni
vincenti che mettono le radici e proliferano.

Capitolo 4. Il bilinguismo, la mente interlinguistica e i processi traduttivi umani.

1. La prospettiva neurolinguistica
1.1. La lateralizzazione del linguaggio

L'encefalo è la centralina il sistema nervoso composto da tronco encefalico, cervelletto e cervello, a loro volta
formati dai neuroni e le cellule della glia. I neuroni conservano ed elaborano i dati in entrata e in uscita e
mutano la propria struttura in base alla frequenza con cui vengono attivati co-attivati con altri neuroni. sono
dotati di un nucleo, da un assone, da culi partono ramificazioni chiamate dendriti attraverso cui il neurone
riceve trasmette informazioni mediante processi elettrochimici che si concentrano nello spazio sinaptico e
che permettono la conversazione cellule nervose. Il telencefalo, parte anteriore dell’encefalo, è costituito da
due emisferi collegati dal corpo calloso costituito da fibre nervose che garantiscono che e le informazioni
ricevute da entrambi gli emisferi convergano in un continuum mentale coerente. gli emisferi sono la sede
della corteccia cerebrale e sono composti da quattro lobi. nella sub corteccia ci sono le strutture piu antiche
si regolano funzioni importanti non direttamente controllate dal pensiero cosciente: talamo, ipotalamo,
gangli della base, amigdala. Gli emisferi sono collegati a queste strutture sotto-coricali da circuiti cortico-
sottocorticali. Si è sempre pensato che l’emisfero sinistro sia più logico e orientato al dettaglio al contrario di
quello destro. Questo si deve di Wernicke e Broca su pazienti affetti da disturbi del linguaggio: gli esami
autoptici post nortem avevano dimostrato in questi pazienti una correlazione tra i loro specifici sintomi e le
lesioni in due aree dell’emisfero sinistro, l’area di Wernicke e di broca. Esse erano la sede della comprensione
e produzione del linguaggio. Una lesione in un’area non comprometteva l’altra, né le sue funzioni. Hickok
conclude che nessun danno a qualsiasi punto dell’emisfero sinistro causa deficit importanti ai suoni,
fondamento del linguaggio verbale. I deficit si hanno solo in presenza di danni bilaterali. Saussure aveva
proposto la distinzione tra langue (insieme condiviso delle regole e del lessico) e parole (realizzazione
soggettiva degli enunciati) e quella tra signifiant (significante o suono della parola) e signifié (significato o
referente semantico). Così si è contribuito a considerare linguistiche solo le funzioni localizzate nell’emisfero
sinistro, come la fonetica, morfologia, la sintassi, lessico. Se questi fossero davvero i soli elementi linguistici,
l’emisfero sinistro sarebbe davvero l’emisfero linguistico e quello destro sede delle funzioni extra-
linguistiche. Molti studi hanno messo in discussione questa stretta localizzazionistica dimostrando che la
produzione/comprensione della lingua non si limita all0emisfero sinistro, ma coinvolge anche quello destro
e le aree sottocorticali. L’ipotesi di una drastica lateralizzazione del linguaggio era stata messa in discussione
dagli studi di Freud sulle afasie che evidenziavano il ruolo associativo del linguaggio complesso, la sua essenza
metaforica e il ruolo degli emisferi. Queste intuizioni sono state riprese in Russia da Lurija che ipotizzava che
l’attivazione delle funzioni cognitive, dipendesse dalla cooperazione di innumerevoli aree cerebrali ed
elaborava un modello modulare del linguaggio, secondo cui le diverse funzioni sarebbero state organizzate
in una rete di circuiti cerebrali. Ci sono funzioni del linguaggio verbale processate dall’emisfero destro, come
quella prosodica, intonazionale e metaforica, indispensabili a un funzionamento efficiente della
comunicazione verbale e cruciali nell’acquisizione della L1. Per questo, non possiamo definirle extra-
linguistiche, sarebbe contraddittorio. Altamann analizza la frase inglese “Time flies like an arrow”,
interpretabile a seconda dell’intonazione. Una mutazione intonazionale può trasformare una frase nel suo
contrario. Basta un solo esempio per dimostrare che a volte non basta il contesto, anche conoscendolo, non
si può interpretare il ruolo morfosintattico dei costituenti dell’enunciato. Le lingue parlate utilizzano le
intonazioni secondo algoritmi complessi e precisi; anche le ambiguità intonazionali possono essere
formalizzate come le ambiguità lessicali o sintattiche. Sacks aveva descritto alcuni pazienti afasici che
avevano perduto le abilità linguistiche tipiche dell’emisfero sinistro, ma riuscivano a cogliere aspetti
fondamentali da incapacità di riconoscere le intonazioni. Le argomentazioni favorevoli alla lateralizzazione
sono costruite così: siccome noi chiamiamo linguaggio solo quello che viene processato dall’emisfero sinistro,
allora quello che fa l’emisfero destro e il resto del cervello è extra-linguistico; quindi, gli aspetti pragmatici
sono definiti extra linguistici ma in realtà sono fondamentali per la comunicazione umana. La pragmatica è il
livello più complesso della produzione/comprensione del linguaggio umano: non c’è pragmatica senza
grammatica, senza lessico, senza prosodia e senza ortoepia; dall’altro, la comunicazione linguistica senza
abilità pragmatiche non è humanlike.

1.2. I circuiti della memoria e l’apprendimento

Non esiste una singola memoria linguistica né una memoria globale. la parola memoria è un lessema
polisemico usato sia come termine neuro scientifico, sia come un concetto vago e astratto: indica i ricordi e
la capacità ricordare. anche le persone con cattiva memoria ricordano molte cose: cose che sanno, cose che
non sanno di sapere e cose che sanno fare senza sapere come le fanno. Il termine memoria indica processi
elettrochimici che consentono il richiamo dei dati o delle procedure apprese, e per richiamo si può intendere
l'espressione della risposta comportamentale modificata in qualche tempo successivo all' apprendimento
iniziale. Molti ricordi immagazzinati nelle memorie umane accomunano gruppi e sottogruppi di persone che
condividono l'esperienza di stimoli condivisi che innescano ricordi simili: tra questi, ci sono quelli linguistici e
costituiscono oggetti mnestici non solo complessi ma anche mutevoli. Anche se vi è una soggettività, esiste
una base universale dei significati, cioè delle associazioni tra parole, oggetti sensazioni e valori. Gli umani
catalogano parole e concetti in base a esperienze dirette e indirette che sono condivise a livello universale o
parziale Come il concetto di regalo o cibo. Per quanto riguarda il significato, esso è la sintesi di uno schema
associativo che si attiva quando il cervello è stimolato da un determinato innesco. Tuttavia, gli esseri umani
non hanno bisogno di fare sempre esperienza diretta e conoscere qualcosa poiché condividono un'enorme
quantità di esperienze indirette; noi non memorizziamo solo quello che abbiamo vissuto in prima persona
ma anche le esperienze altrui trasmesse tramite narrazione orale, letteratura, pittura e così via. Vi è una
predisposizione innata umana a trasmettere le esperienze agli altri e ogni ricordo è a suo modo vero. La lingua
é uno dei veicoli che consentono alle esperienze dirette di divenire esperienza in diretta di altri e a
modificarne le azioni. Le rappresentazioni interne al cervello sono all'origine dell'evoluzione culturale; ciò
vale anche per le memorie esterne che conservano le rappresentazioni linguistiche delle esperienze e del
pensiero individuale. Ogni cervello umano è mappato a livello individuale dall'esperienza diretta e indiretta,
ma i meccanismi riguardanti i processi di interazione tra esperienza e neurofisiologia sono universali. Non
tutti i ricordi hanno la stessa probabilità di sopravvivere e di essere riattivati. Le parole sono inneschi che
vengono memorizzati meglio se i concetti cui sono legati sono emotivamente e socialmente rilevanti. ricordi
umani più longevi e resistenti sono conformi ai giudizi di valore positivi dell'ambiente culturale circostante.
Lo sviluppo anomalo di abilità mnestiche necessita di addestramento. È l'apprendimento che produce delle
drastiche variazioni nelle mappe corticali. È grazie allenamento che si producono variazioni a livello genico
fanno memorizzare nozioni e procedure. I geni rispondono alle stimolazioni ambientali tra cui
l'apprendimento. Esso implica la comparsa di nuove sinapsi, la sparizione di sinapsi preesistenti, modificando
la struttura genica dei neuroni e condizionando la produzione di sostanze chimiche indispensabile la
formazione di nuovi circuiti neurali. lo studio sulla perdita di tipo di memoria e non di un altro ha permesso
di comprendere che non esiste una memoria unica ma modalità diverse di conservazione e richiamo dei
ricordi. un tipo di memoria può essere conservato qualora se ne perda un altro. Prima distinzione: memoria
implicita (inconscia) e esplicita (cosciente); alcune memorie coinvolgono le strutture sottocorticali. solo una
parte di ricordi è accessibile al controllo della coscienza. alcune forme di apprendimento utilizzano sia la
memoria esplicita sia quella implicita, ma la ripetizione consente di trasformare i dati consapevoli in
procedure. la memoria implicita procedurale agisce grazie alle ripetizioni. Per esempio, non pensiamo in
quale punto della frase mettere il sostantivo o il verbo quando parliamo, lo facciamo in automatico. invece,
la memoria dichiarativa è il meccanismo che permette di conservare i ricordi rendendoli accessibili alla
coscienza. Per trasformare il sapere in saper fare bisogna conoscere quali ripetizioni facilitino gli automatismi
procedurali. In seguito, abbiamo la memoria a lungo termine e la memoria a breve termine. La memoria e
innescata da stimoli sensoriali impliciti o espliciti, da stimoli somatici dell'organismo, dalle emozioni. La
memoria di lavoro consente di ricordare un numero di telefono appena udito finché non lo si è annotato, ma
per immetterlo nella memoria a lungo termine serve ripeterlo di continuo. Grazie a questa ripetizione
abbiamo il potenziamento dei circuiti neuronali e la mappatura lungo termine del ricordo. Ci sono evidenze
che memoria esplicita e implicita siano elaborate e immagazzinate in diverse regioni del cervello: quella
esplicita di lavoro è immagazzinata nella corteccia prefrontale ma la sua conversione avviene nell’ippocampo;
La memoria procedurale immagazzinata nel cervelletto, nello striato e nell'amigdala. in generale, apprendere
significa ricordare. Esistono due macro-tipologie di apprendimento: quello non associativo è innescato da
uno stimolo preciso, registrato a livello implicito e non implica la costruzione di schemi mentali complessi.
tra le modalità di questo tipo ricordiamo l’abituazione: assuefazione graduale a uno stimolo ricorrente,
quando non sentiamo i rumori cui siamo abituati o smettiamo di sentire l'acqua fredda del mare dopo un
tuffo. La modalità antitetica è la sensibilizzazione; se l’abituazione è l'indebolimento di una risposta, la
sensibilizzazione e il rafforzamento. Poi abbiamo l'apprendimento associativo a lungo termine: l’associazione
determina una rete di concetti ordinati: richiamando un elemento della rete, ti attiva la rete intera: grazie
alle associazioni mnestiche, un’intera cultura può essere evocata con un solo sostantivo. Qui rientra il classico
condizionamento pavloviano: l'associazione di uno stimolo condizionato che prima era neutro si associa a
uno stimolo incondizionato e innesca un'azione riflessa. il ricordo e l'apprendimento migliorano quando le
nuove informazioni sono collegate in schemi che si appoggiano a strutture memorizzate. Nell'addestramento
al bilinguismo se gli enunciati della L2 si associano nel contesto reale quelli noti della L1, si ottiene una
memorizzazione più rapida e più stabile. l'apprendimento necessita di un filtro per selezionare gli stimoli più
importanti: quindi sia un'attenzione involontaria. sei la pensione cosciente supporta la memorizzazione
esplicita, l'attenzione involontaria supporta quella implicita. L’apprendimento implica tanto la selezione delle
mappe utili, quanto la de-selezione delle mappe inutili presenti nel nostro cervello; apprendere significa
eliminare selettivamente. le forme dei verbi irregolari sopravvivono solo perché si tratta sempre dei verbi più
usati. molto importante è lo stato di eccitazione e della motivazione. l'eccitazione e un profondo
coinvolgimento emotivo che acuisce la percezione: se è positiva, facilita il ricordo; se troppa, agisce
negativamente e ci genera l'ansia che ostacola i ricordi. la motivazione, invece, e l'attività neurale che ci
instrada in direzione dei nostri obiettivi. le emozioni agiscono come fattori motivanti di supporto allo stato
attentivo.

1.3. Acquisizione e apprendimento della lingua

Vi è una differenza tra acquisizione delle procedure e apprendimento delle regole che sottostanno alle
procedure: l'acquisizione avviene bottom up, grazie alla ripetizione e alla introiezione dei pattern linguistici
nelle memorie implicite; l'apprendimento invece utilizza top down la memorizzazione esplicita delle regole
che vengono studiate. un bambino monolingue prima acquisisce la L1 e dopo a scuola a prenderli sue regole
che sa già applicare; l'adulto invece parte dall'apprendimento topdown delle regole, usando la memoria
dichiarativa che poi cerca di acquisire le procedure. le memorie implicite sono le uniche di cui dispongono i
bambini fino agli 8-10 mesi, e fino ai tre anni, restano dominanti; l'impossibilità di apprendimento esplicito
aiuta i bambini ad acquisire la lingua nativa grazie all'imitazione è un dispositivo linguistico che permette di
inferire inconsciamente le regole grammaticali generali da una quantità di esempi particolari. il primo stadio
di acquisizione quello prosodico: il bambino sente la voce umana come un adulto ascolta una canzone in una
lingua che non conosce. grazie al ritmo e ai picchi intonazionali, il bambino impara a riconoscere la lingua
della madre quando è ancora in gestazione. I meccanismi che stimolano la ripetizione sono molto importanti
per qualsiasi teoria sull'origine del linguaggio umano, acquisizione, apprendimento delle lingue e
mantenimento del bilinguismo. Secondo Vygotskij e Lurija, i bambini non fanno che ripetere ad alta voce
quello che sentono dai loro genitori. La ripetizione avrebbe anche il vantaggio cognitivo di rinforzare il ricordo
del divieto, sarebbe utile socialmente sul piano evolutivo. senza ripetizione non si rinforzano le abilità
fonatorie, intonazionali e lessicali. non si è ancora stabilite te linguaggio umano è un meccanismo
filogeneticamente indipendente o è il risultato di una specializzazione evolutiva di compiti motori. la prima
ipotesi considera secondarie la ripetizione e l'imitazione; la seconda le ritiene fondamentali. Cardona ritorna
sui pregiudizi come Quello che esista una predisposizione naturale alle lingue: qualunque umano con un
cervello funzionante è naturalmente ad accontentare le lingue. Non tutti i docenti di L2 comprendano e
acquisire le procedure implica esercitare le memorie mediante ripetizione per tempi lunghi e con continuità.
Credono che i bambini imparino senza faticare mentre in realtà sprecano molte energie. impiegano molto
più tempo a memorizzare lessemi procedure della L1 più di quanto ne serva a uno studente di L2, ma il
bambino viene sempre gratificato. qualsiasi procedura linguistica richiede l'addestramento della memoria
procedurale implicita perché la pratica porta alla perfezione.

1.4. Il cervello bilingue: apprendimento e acquisizione della L2

Il dibattito sulla rappresentazione cerebrale del bilinguismo è stato influenzato dall'assioma della
lateralizzazione del linguaggio e dai pregiudizi sulla facilità di acquisizione delle lingue nell'infanzia. È noto
che i bambini acquisiscano spontaneamente una L1, quella dell'ambiente che gli accudisce: privato di
questa possibilità, non riesce più ad acquisire una L1 nativelike, puoi imparare a esprimersi solo in modo
difettoso. Si è pensato che, il parametro per classificare la tipologia di bilinguismo dovesse essere l'età in
cui un individuo entra in contatto con la L2. si distingue bilinguismo precoce, che inizialmente coordinato
e bilanciato, bilinguismo tardivo, che è subordinato, in quanto la L1 è dominante sulla L2. non si misura
cosa sa fare un lingue con le due lingue, ma quando è entrato in contatto con la L2. Si differenzia a priori
chi acquisisce parallelamente L1 e L2 da chi entra in contatto con la L2 a distanza di anni dalla nascita.
Esisterebbe una soglia critica oltre la quale non sarebbe più possibile acquisire una L2 in modalità
nativelike. La soglia sarebbe collocata in un arco di tempo che varia, dai 3 anni alla prima adolescenza.
L’età è il piu importante parametro di valutazione e classificazione del bilinguismo tra i neurolinguisti. Un
bilinguismo perfettamente bilanciato nello stesso periodo non esiste mai. L’ipotesi della soglia critica è
contro-argomentabile in base a 3 considerazioni:

 In età adulta si può acquisire una L2 in modalità nativelike


 per alcuni bilingui tardivi, la L2 può diventare dominante
 spesso figli di migranti o i ragazzi adottati all'estero, perdono la L1, e dopo qualche anno ti ritrovano a
parlarla come stranieri o a non capirla nemmeno più.

il fenomeno di perdita della lingua è attrition: può riguardare sia la L1, sia la L2, e a volte entrambe. È causata
dalla mancanza di esercizio dovuta a forti concause sociopsicologiche, familiari, culturali: quella
fondamentale è il disvalore della L1 rispetto alla L2. Per esempio, per un ragazzino adottato, la L2 parlata
durante l'adolescenza nel paese nuovo tende a cancellare la L1. I primi sintomi dell’attrition della L1 nei
bilingui si manifestano sotto forma di confusione tra le due lingue. Se l’abilità di passare in modo controllato
da una lingua all’altra è una prerogativa dei bilingui, la commutazione incontrollata è un segnale di confusione
tra i due sistemi: nello switching incontrollato viene meno la capacità di tenere le lingue separate, ovvero di
etichettarle. Questo capita ai bilingui che vivono in un ambiente in cui L1 e L2 vengono confuse e che si
disabituano a prestare attenzione al tagging. Il fenomeno è dovuto in buona parte all’incapacità di rispettare
una correlazione tra lingua e luogo, e tra lingua e persona. La confusione si manifesta sia come switching
incontrollato, sia come code-mixing; nel secondo caso, si perde la capacità di tenere separate L1 e L2 che si
mescolano tra di loro: di solito il mixing inconsapevole fa si che le regole sintattiche e i morfemi della L1
vengano applicati al lessico della L2. Secondo Scotton, il bilinguismo sarebbe “l’abilità di usare due o più
lingue in modo sufficiente da gestire una circoscritta conversazione causale”. Meglio ancora, si può definire
“bilingue” una persona cui è praticamente indifferente in quale delle due lingue vivere qualsiasi situazione.
L’idea è che i canali dell’apprendimento e quelli dell’acquisizione non sono del tutto scollegati. Se la L2 è
studiata prevalentemente in modo dichiarativo, tende a essere rappresentata per lo più in aree corticali; solo
se la L2 è stata introiettata in modo procedurale, interessa anche le strutture sottocorticali. Tuttavia, a chi
entra in contatto con la L2 mediante apprendimento adulto non solo non è preclusa l’acquisizione, ma può
essere facilitata dalla riflessione. Nel bilinguismo adulto si può agire in modo sinergico. Un adulto abituato
dalla scuola studiare le lingue tenderà a privilegiare la memoria dichiarativa e a opporre una certa resistenza
all' addestramento procedurale; al tempo stesso, per rendergli le abilità della L2 molto simili a quelle della
L1, vanno riprodotte situazioni il più possibile simili all'acquisizione della L1. per far ciò si dovrebbe partire
dalla comprensione passiva, sensibilizzando alle variazioni prosodiche, e lasciando la scrittura come compito
ultimo. la lettura e un mezzo importantissimo per accelerare il processo acquisizionale degli adulti. Per
ottimizzare l'impatto della lettura sulle competenze orali, è utile che qualsiasi esercizio in L2 venga svolto ad
alta voce, addestrando l'apparato fono articolatorio, la pronuncia e l'intonazione. addestrare le procedure
mediante imitazione e ripetizione è una condizione necessaria per far sì che la L2 sia computata dal cervello
in modo sempre più simile alla L1. Secondo l'ipotesi della convergenza, man mano che la competenza
operativa in L2 aumenta è un soggetto riesce a fare in L2 quello che sa già fare nella prima lingua, i circuiti
cerebrali dedicate alle due lingue tendono a sovrapporsi: quanto più la grammatica e introiettata, quanto più
si sovrappongono i sistemi neurali della L1 e della L2, tanto è piu alto il livello di bilinguismo tardivo. questa
ipotesi è coerente con l'idea che tra un cervello di lingue e uno monolingue ci siano poche differenze
funzionali e strutturali; e se sarebbero sottoinsiemi del sistema del linguaggio. il bilinguismo offre a
qualunque monolingue la possibilità di acquisire un'altra lingua: è l’interazione con l'ambiente a favorire la
potenzialità di un individuo a diventare bilingue. prima inizia l'esercizio, più è facile che le procedure siano
introiettate dallo studio delle nozioni esplicite; anche in età adulta chiunque può imparare a suonare uno
strumento, a usare una lingua in modo qualitativamente prossimo alla L1. nessuna acquisizione è stabile e
definitiva se non si mantiene un esercizio costante per tutta la vita.
2. Proposta teorica sui processi traduttivi umani
2.1. L’ipotesi del Translation Device
Un bilingue non specificamente addestrato può scoprirsi incapace di svolgere anche il più semplice esercizio
di traduzione simultanea; l'assenza di esercizio e la mancanza di preparazione teorica gli impediscono:

 di richiamare alla memoria il traducente nel tempo a disposizione, cioè pochi secondi.
 di applicare un preciso criterio di selezione se più traducenti-output si attivano in risposta al l'input della
lingua di partenza
 di sovrapporre l'emissione della traduzione in uscita all'ascolto del testo in entrata.

le osservazioni empiriche, i dati e così via, suggeriscono esista un TD, che rende ogni essere umano bilingue
in grado di:

 di passare da una delle due lingue all’altra;


 di mantenere separate le due lingue;
 di convertire i messaggi da una lingua all'altra in modalità nativelike.

Sono i disturbi del linguaggio in pazienti bilingui a offrire una rappresentazione dell'autonomia dei processi
traduttivi rispetto alla comprensione e produzione di una lingua. I sintomi di diverse forme di anomalie
traduttive comprendono:
 impossibilità a tradurre nelle due direzioni pur potendo parlare le due lingue
 traduzione spontanea: impulso incontrollato a tradurre tutto quanto viene detto
 traduzione senza comprensione: il paziente non comprende il testo da tradurre, ma lo traduce con
efficacia
 traduzione paradossale: il paziente può tradurre solo in una delle due lingue, quella in cui non riesce più
a parlare spontaneamente.

Quando, un cervello bilingue è pienamente funzionante, dispone di un TD che consente di tradurre da una
lingua all’altra potendole capire e parlare entrambe e tenendole distinte tra loro. Tuttavia, i compiti del TD,
non sono limitati al cervello bilingue, ma riguardano qualsiasi cervello monolingue: il TD lo rende capace di
traduzione intralinguistica. Esso è un’ipotesi che riguarda e accomuna le traduzioni intralinguistiche e
interlinguistiche. Per diventare fluenti monolingui, quanto fluenti bilingui, serve un esercizio prolungato per
saper usare formule diverse che dicono la stessa cosa in contesti diversi. Si assuma che il contesto sia una
correlazione di fattori precisi. La capacità di variare le formule in base al contesto cosi definito richiede un
addestramento sia ai bambini di L1 sia ai principianti in L2. I bambini non si preoccupano di sbagliare variante.
L’addestramento alle varianti contestuali parrebbe quasi identico nell’acquisizione della L1 e della L2 in età
adulta. Il TD darebbe agli umani la facoltà sia di riformulare in un altro sotto codice della stessa lingua, sia di
tradurre da una all’altra lingua naturale. L’abilità di tradurre può essere addestrata in qualsiasi essere umano
ed è di livello professionale solo se si trasforma in abilità procedurale. L’attivazione e il rinforzo del TD
avvengono o esercitando la memorizzazione di procedure con un addestratore, sia con l’esercizio personale,
sia in condizioni spontanee. Per l’addestramento sono indicate la traduzione simultanea o consecutiva in
ascolto e la traduzione a vista: sono esercizi che rendono più rapido il richiamo e il rinforzo di corrispondenze
tra le due lingue. Mano mano che un bilingue si esercita a tradurre, si formano e rinforzano nuove connessioni
neuronali: l’associazione di ogni variante della L1 a quella della L2 è facilitata dall’esercizio. Il compito di
addestramento alla traduzione è di rinforzare il TD velocizzando gli automatismi degli apprendenti-traduttori.
Se collegate all’esercizio procedurale, le conoscenze dichiarative possono facilitare il ricorso alle strategie
euristiche necessarie in situazioni nuove. Più il traduttore ha tempo a disposizione, più ha la possibilità di
riflettere sulle proprie opzioni, quando il margine di correzione è limitato, proprio la capacità di analizzare a
posteriori la causa degli errori aiuta a non commetterli più. Consideriamo che:
 addestrandosi a riformulare nella L1, si migliorano le abilità a tradurre da una lingua all’altra
 traducendo da una L2 in L1, migliorano le abilità nel tradurre da qualsiasi altra L3
 sebbene l’addestramento alla traduzione L2-L1 non corrisponda in modo diretto a quello contrario, in
realtà lo facilita: esercitarsi nella traduzione passiva ha una ripercussione positiva sulle abilità in
traduzione attiva e viceversa.

La traduzione verso la lingua più debole è sempre meno nativelike, ma si velocizza comunque in proporzione
all’esercizio in direzione opposta. La traduttologia teorica cerca di trovare un modello generalizzabile che
spieghi quando una traduzione funziona, quali requisiti siano richiesta al traduttore, le tecniche, i parametri
ecc.

2.2. generalità

La generalita è una condizione fondamentale per un modello teorico rigoroso. Quello che accomuna gli
elementi della traduttologia è essere un messaggio in lingua naturale. un modello teorico sulla traduzione
deve partire dal massimo livello di generalizzazione e al suo interno comprendere le particolarità dei singoli
casi. La prima ambizione del modello teorico è quella di comprendere bottom up cosa accomuni tutte le
traduzioni che funzionano, in modo da risalire a un principio generale di equivalenza comune a:

 le tipologie testuali
 tutte le coppie di lingue
 i formati testuali

un modello teorico stabilisce quali parametri e strategia segua sempre un traduttore per riuscire in modo
ottimale:

 suddividere un testo in unità traduttive minime


 selezionare in un tempo breve una e una sola tra le opzioni traduttive considerate nella sua mente
 inibire le altre opzioni

il primo compito di un traduttore e di procedere a suddividere le porzioni di testo in unità traduttive minime
compatibili con la memoria di lavoro mentre il secondo è quello di selezionare un traducente per ogni unità
considerata, deselezionando gli altri. Il modello proposto è un primo tentativo il cui concetto principale è
quello di equivalenza. per poter definire due testi equivalenti, bisogna negoziare una definizione del concetto
stesso di equivalenza. Esiste un'equivalenza parziale ma serve trovare un'equivalenza traduttiva che soddisfi
il testo a prescindere dalle lingue di lavoro e dal formato; serve un'equivalenza generale che comprenda
alcuni o tutti i livelli di equivalenza parziale e che sia misurabile al più alto livello complessivo del messaggio.

2.3. Sull’inquietante concetto di equivalenza (tra matematica e lingua naturale)

Le analogie tra matematica e traduzione suono più frequenti di quanto si pensi, l'approssimazione esiste in
entrambi i casi ma, l'entropia in traduzione è inferiore. anche per i matematici esistono, concetti di invarianza
e variante: lo stesso teorema può avere una dimostrazione algebrica e una geometrica che dicono la stessa
cosa, ma in modo diverso, cioè con due linguaggi diversi. Hofstadter utilizza il termine traduzione per
intendere la riformulazione matematica che ha con quella verbale molto in comune. il simbolo di uguaglianza
può indicare sia equivalenza, sia uguaglianza, sia identità. un numero è identico solo a se stesso, così come
pure un messaggio; un numero può essere uguale alla somma di due numeri, come la parola ragazzino può
essere uguale ma non identica alla somma di due parole in un'altra lingua; con la lingua e opportuno parlare
di equivalenza proprio perché è un criterio più elastico e più consono all'aspetto funzionale. è difficile
convincere gli studiosi che è la retroversibilità in traduzione è frequente e molto infrequente in matematica.
in entrambi i casi, è questione di codici, contesti e regole. In traduzione c’è meno entropia, quindi la
retroversibilità è funzionante. Se ci chiediamo quale sia la stessa cosa di due enunciati linguistici, vediamo
che le cose sono un po’ diverse rispetto alla matematica, perché il contesto è parte stessa della
comunicazione. Anche in matematica 8/16 è una variante di ½, Ma l'informazione è quasi la stessa
indipendentemente dal contesto. l'informazione di un enunciato linguistico, è un risultato, cioè un insieme
di informazioni codificabili. se ogni variante dentro una stessa lingua cambia le informazioni, le stesse
informazioni possono essere ri-codificate. non si avrà di sicuro identità e nemmeno uguaglianza, ma si può
ottenere un'equivalenza da trasmettere le informazioni dell'unità di partenza e solo quelle. Ovviamente, in
minima parte, ci sarà una diversa ricezione di un messaggio tra un destinatario e l'altro.

2.4. Invariante, variante

Sia per la traduzione interlinguistica, sia per il procedimento di monolingue per riformulare gli enunciati in
sottocodici diversi della stessa lingua, si tratta di riformulare unità traduttiva minima senza cambiare il nucleo
di informazione dell'enunciato, cioè invariante. data una stessa invariante la si può codificare in forme
diverse, dette varianti o variabili. mutando la variante, muta l'informazione complessiva. la variante è
determinata da tre fattori codificati nel messaggio:

 caratteristiche diastratiche e diatopiche del parlante


 generale stato psico emotivo del parlante
 atteggiamento del parlante nei confronti dell'interlocutore.

ogni variante ha codificate le informazioni su alcuni o tutti questi fattori. nella riformulazione intra linguistica,
l'informazione complessiva cambia sempre. al mutare della variante, cambia sempre l'informazione
complessiva: non esistono, né possono esistere, sinonimi all'interno della stessa lingua, ma solo quasi
sinonimi. nella traduzione interlinguistica è possibile trovare un traducente lingua di arrivo che contenga la
stessa informazione complessiva, cioè la stessa invariante+ variante. in questo solo caso si può parlare di
equivalenza funzionale. la comunicazione funziona perché l'interlocutore, non solo comprende l’invariante,
ma anche l'informazione supplementare espressa dalla variante. Solo un eccellente bilinguismo consente a
un traduttore di sentire in L2 anche la minima differenza tra le varianti, di recepire le informazioni trasmesse
dal TP. bilinguismo e competenze teoriche sono due condizioni necessarie per un buon processo traduttivo,
ma sono sufficienti solo se concomitanti. L’invariante essere chiamato il cosa e la variante il come. quando
parliamo, registriamo il come in modalità automatica, prestando attenzione al cosa. quando il come
disattendendo le aspettative, puoi diventare più importante del cosa viene detto. basta cambiare una
preposizione e può cambiare il significato fraseologico di un enunciato.

2.5. L’orecchio interno

È ipotizzabile che il TD, meccanismo di decodificazione dei messaggi di cui è dotato un cervello umano,
possieda uno strumento a registrare ogni input linguistico e a valutarlo: viene chiamato orecchio interno. se
il come corrisponde alle attese, l'interlocutore non presta attenzione alla variante; se invece, uno dei livelli
del come disattende le aspettative, l’enunciato innesca l'attenzione dell'interlocutore che rileva
un'informazione supplementare, Cioè ottiene dati nuovi sull’invariante e sul parlante. la valutazione implicita
e simultanea dell'orecchio interno è una comparazione tra aspettative e contesto. l'orecchio interno è il
dispositivo che misura la f-marcatezza, e sollecita o inibisce l'attenzione al come è stata formulata un
invariante: si tratta di un circuito mentale di controllo della congruenza contestuale degli enunciati-messaggi.
l'orecchio interno non è ancora stato individuato a livello neuro funzionale. Quello relativo alla L1 viene
esercitato fin dalla nascita; man mano che crescono la competenza e la sensibilità linguistica di un parlante,
può raggiungere diversi livelli di sofisticatezza. l'orecchio interno di ogni parlante suggerisce se un enunciato
è frequente e attendibile in quel preciso contesto. Un elemento fuori posto può essere involontario o
volontario, creativo ho sbagliato. le persone si aspettano che il come corrisponda alle aspettative contestuali,
quando le aspettative sono disattese, l'effetto può essere positivo se il parlante gioca consapevolmente e
creativamente con la lingua. per la traduzione, l'orecchio interno entra in azione due volte: prima, per
valutare l'input, puoi per verificare l'output; come se il traduttore selezionasse i traducenti in base alla
scommessa che avrebbe scelto quella e solo quella variante. La creatività linguistica fa si che gli autori
giochino con le parole, ad esempio, manipolando le formule. per esempio, i titoli sono un'anomalia in ambito
traduttologico, visto che spesso sono stati stabiliti dagli editori e non dei traduttori, ma proprio per questo,
grazie alla loro funzione, sono una palestra per addestrarsi e problemi della traduzione funzionale.

2.6. Marcatezza funzionale e f-equivalenza

Il termine marcatezza è di solito riferito alla struttura sintattica di un enunciato a bassa concorrenza; è
marcata una struttura poco usata, meno frequente rispetto alla struttura non marcata. L’uso generico del
termine considera il criterio statistico ma non quello relativo al contesto; in realtà, un enunciato frequente
in un contesto non lo è in un altro. Se, invece, si computa il criterio statistico in base ai dati contestuali, ci si
rende conto che la marcatezza che ne deriva è un parametro più complesso e completo, cioè correlato a tutti
gli elementi della lingua. La f-marcatezza rappresenta il livello complessivo, più alto della comunicazione
linguistica ed è un parametro universale per misurare per il grado di competenza linguistica di un parlante e
l’equivalenza di due testi in lingue diverse. È un parametro fondamentale della traduzione, utile a tradurre e
a valutare le traduzioni. Infatti, un alto grado di bilinguismo consente di:

 Recepire la f-marcatezza dell’enunciato di partenza in L2


 Di trovare un equivalente funzionale in L1 basato sul rapporto COSA/COME è detto.

L’equivalenza funzionale misura, pertanto, la corrispondenza della f-marcatezza tra unità del TP e unità del
TA rispetto all’informazione dell’invariante e variante. L’orecchio interno consente di recepire la f-marcatezza
a livello subliminale. Un aspirante traduttore si esercita a valutare la f-marcatezza, è in grado di automatizzare
il processo di ricerca e valutazione della f-equivalenza. Il modello teorico afferma che un testo in L1 è
equifunzionale a un testo in L2 se conserva la stessa combinazione di informazione sul COSA e COME. Se varie
unità tradotte non corrispondono allo stesso livello di f-marcatezza delle unità di partenza, il complessivo
equilibrio di informazione si altera, creando un TA il cui potenziale funzionale è diverso nel suo complesso.
Grazie alla f-marcatezza si può misurare la f-equivalenza di qualsiasi copia di testi paralleli, di cui uno è
traduzione dell’altro. È la funzionalità contestuale che permette a un traduttore di:

 Selezionare, l’unico sinonimo che contiene la stessa informazione complessiva dell’unità di partenza
 Di escludere i quasi sinonimi che aggiungono o sottraggono è parte dell’informazione.

La traduzione può essere vista come un processo di selezione di sinonimi equifunzionali. Idealmente, una
perfetta taratura della f-marcatezza di ogni unità dovrebbe garantire una sostanziale retroversibilità:
ritraducendo il TA in lingua di partenza, si dovrebbe ottenere il TP. La retroversibilità, non è sempre garantita:
o perché il TA non rispetta la f-equivalenza, o perché, anche nel caso di un traduttore professionista, la
minima componente soggettiva del tuo orecchio interno crea sempre un fenomeno di entropia. Mentre
l'informazione invariante è fissa, la variante può essere rappresentata giunta piano cartesiano che indichi in
ordinate la distanza gerarchica tra parlante interlocutore e in ascissa l'affettività: dove parametri si
combinano in un preciso punto p che indica la dose di autorità, paternalismo, cameratismo o neutralità. Il
punto 0, indica un’astratta neutralità. si potrebbe affermare chi è meno un testo è espressivo, meno sono
marcate le unità traduttive che contiene, maggiore è la f-equivalenza della retroversione. Tuttavia, non è una
regola rigida; infatti, la neutralità e sempre recepita dagli umani come distanza. essa può non innescare una
risposta neutrale: chi non è abituato lo recepisce come autoritario. in sintesi, gli enunciati collocabili al punto
zero sono davvero pochi. nel punto di massima gerarchia e di minima affettività sia l'autoritarismo che
esprime la posizione di distanza e superiorità espressa dal parlante; in quello di massima gerarchia e di alta
affettività, sia il paternalismo che esprime una posizione di superiorità ma con affettività; il punto di minima
gerarchia e massima affettività si ha il cameratismo. Rispetto ai quattro estremi, nel mezzo, si trova la gamma
delle due sature intermedie. Per ogni punto del piano cartesiano della lingua di partenza esiste un punto e
uno solo che corrisponde alla stessa f-marcatezza sul piano cartesiano della lingua di arrivo. Se tutti gli
enunciati di un TA hanno la stessa f-marcatezza dei relativi enunciati del TP, i due testi sono f-equivalenti e
nel processo di retroversibilità l’entropia è minima. Se due varianti della stessa cosa, nella stessa lingua, non
possono mai essere la stessa cosa, in due lingue diverse possono esserlo, dipende dall’addestramento del
traduttore. La f-marcatezza è un parametro universale che può misurare l’alto grado di neutralità di un testo
tecnico e la massima creatività di un testo espressivo. Bisogna ricordare che chiunque abbia scritto il TP ha
seguito un processo di selezione delle unità testuali non dissimile da quello della traduzione. La scrittura non
è così diversa dalla ri-scrittura: per ogni enunciato, l’autore sceglie le parole e la combinazione; la selezione
non è mai causale. Questo implica che ogni autore di qualsiasi TP ha scelto di non usare le altre varianti e in
traduzione il compito principale è non usare le varianti che l’autore avrebbe scartato.

2.7. Esemplificazione

L’incipit del romanzo breve di Dovlatov La valigia è utile per illustrare l’applicazione del parametro della f-
marcatezza: all’ufficio per l’espatrio quella stronza viene a dirmi. Quale fosse il traducente f-equivalente lo
suggerisce la f-marcatezza dell’enunciato di partenza: V OVIRe eta suka mne i govorit. Questa frase può
essere usata come micromanuale di traduttologia. Dovlatov suggeriva nel lettore la sensazione di riprendere,
una conversazione interrotta poco prima; al tempo stesso, questo effetto cameratesco era dato dalla ricerca
dell’inflessione tranchant che caratterizzava la sua generazione di intellettuali sovietici, ossessionati dai
suoni, laconicità ecc. L’autore selezionava la struttura secondo lui perfetta, ossia credibile. Le numerose
computazioni che riguardano una sola unità traduttiva minima richiedono più tempo per essere formalizzate
in modalità dichiarativa; solo un traduttore addestrato svolge l’operazione in modalità procedurale, implicita
e può fermarsi a riflettere e spiegare il criterio che ha seguito: l’orecchio interno di un traduttore bilingue
può misurare le marcatezze a una grande velocità. Di solito, la prima soluzione, quella intuitiva, è la migliore.
Per questo, un professionista è sempre, almeno in parte, un traduttore simultaneo.

Capitolo 5. Il progetto, le strategie, le tecniche


1. Il progetto
1.1. Riflessione, gerarchia decisionale, automatismo

Il traduttore è responsabile di ciò che viene detto. un progetto può rivelarsi difettoso, ma la consapevolezza
del senso di responsabilità che lo generano aiutano a ridurre i rischi di fallimento. per il progetto bisogna
valutare i rischi è la correlazione tra tempo e risorse disponibili; qualsiasi progetto deve essere realizzabile
coerente rispetto ai vincoli esterni. lo scopo di un progetto traduttivo è di calcolare quali strategie tecniche
possano consentire più facilmente di riprodurre in lingua di arrivo le f-marcatezze di un TP, Valutando quale
sia la dominante testuale irrinunciabile e più rilevante. Serve considerare da quale delle due lingue si traduca
nell’altra una determinata tipologia testuale: anche le asimmetrie funzionano in modo asimmetrico. La
progettazione della gerarchia su cui si basa il progetto decisionale e le strategie dipende dalle due lingue del
TP e del TA, dai fattori esterni, dalla tipologia testuale correlata alla tipologia linguistica contrastiva. Secondo
Damasio qualsiasi umano deve conoscere:

 La situazione che richiede una decisione


 Le differenti possibili scelte di azione
 Le conseguenze delle scelte

Per la traduzione, un buon processo di necessita anche di una buona competenza nella L1, dimestichezza con
la tipologia testuale. Ogni traduzione professionale ha un committente, il progetto è condizionato
dall’esterno. Il committente e il destinatario della traduzione non coincidono; capitano clienti che non
comprendono il livello di difficoltà delle operazioni traduttive e altri che neppure sospettano che la
traduzione si avvalga di competenze; ci sono clienti che pretendono di insegnare al traduttore il mestiere e
altri che vorrebbero che il professionista fosse un po’ meno professionale. Il traduttore opera una serie di
opzioni concatenate e interdipendenti. Il progetto cambia se il committente è:

 Un editore che vuole pubblicarlo in volume e i destinatari sono lettori


 Un regista che vuole realizzare in scena il testo straniero e richiede i copioni tradotti
 Un regista che vuole far recitare il TP in lingua di partenza utilizzando un sopratitolaggio
 Uno storico del teatro interessato a conoscere quel testo teatrale di cui non capisce la lingua

Si pensa ad esempio, che l’interprete non abbia tempo sufficiente né per progettare, né per controllare che
la propria prestazione corrisponda al progetto. In realtà però, un interprete professionista deve aver studiato
a lungo e esercitato le strategie da applicare proprio perché non ha tempo di fare calcoli in progress. Scopo
della progettazione è di dotarsi di un modello procedurale euristico che renda prevedibile la combinazione
delle varianti. C’è sempre una preparazione e una strategia. L’addestramento continuativo cui sono
sottoposti gli aspiranti interpreti consente di sviluppare anche la capacità di decidere in modalità automatica
quali informazioni del TP debbano avere la precedenza su altre secondo il contesto e lo Skopos. Il progetto è
il momento della consapevolezza, la sua applicazione si avvantaggia di una rapidità procedurale. Anche nella
traduzione creativa si agisce in modalità procedurale; per tradurre i giochi di parole, i proverbi, il traduttore
deve disporre di un modello progettuale da seguire ed è avvantaggiato se lavora in modalità procedurale
anche se a volte richiede più tempo e energie poiché vi è difficoltà.

1.2. Attualizzazione e storicizzazione

A volte può esserci una distanza temporale, tra il momento in cui è stato scritto il TP e l’epoca del traduttore
e dei destinatari del TA. Se la distanza è rilevante, allora va considerata come il fattore più importante. Le
traduzioni orali vengono svolte per lo più in sincronia. Nella traduzione per l’editoria, la questione della
discronia tra TP e TA si pone frequentemente: i libri vengono spesso tradotti o ritradotti a distanza di anni,
decenni, secoli. Il divario sul piano linguoculturale dipende anche dalla qualità degli eventi intercorsi che
possono aver provocato cambiamenti di linguoculturali. Il traduttore deve stabilire se attualizzare o
storicizzare il TA. Il traduttore potrebbe decidere che il TA debba innescare nei destinatari la stessa
sensazione di distanza che il TP suscita in lui e nei lettori di lingua di partenza a lui contemporanei, o potrebbe
considerare il fatto che gli autori scrivono testi perché li leggano in primis i loro contemporanei: nessuno
scrive per essere letto dai posteri. Attualizzare significa tradurre il TP in TA in modo tale che il TA sia recepito
dal lettore di arrivo contemporaneo del traduttore così come il TP era recepito dal lettore di partenza coevo
dell’autore, ovvero eliminare la distanza temporale. Storicizzare significa tradurre il TP in un TA in modo tale
che il TA sia recepito dal lettore di arrivo contemporaneo del traduttore cosi come il TP è recepito dal lettore
di partenza coevo del traduttore, quindi marcare la distanza temporale tra TP e TA che esiste per cause
esterne all’opera stessa. È importante distinguere la distanza temporale dovuta al solo tempo trascorso dagli
stilemi di storicizzazione che sono parte integrante del TP. Qui la storicizzazione è obbligata. Questo si verifica
quando:

 Nel TP sono impiegati artifici che falsificano la datazione del testo stesso, ponendo fittiziamente la voce
narrante e/o l’autore in un’epoca diversa da quella reale, per simulare che l’autore stesso appartenga a
un’altra epoca come nei Canti di Ossian di James MacPherson e i Promessi sposi.
 Le vicende narrate nel testo di partenza si svolgano in un'epoca lontana e la lingua dei personaggi suoni
deliberatamente storicizzata nel TP. Ciò che succede nel Nome della rosa di Eco: Interi passi di un
romanzo possono essere scritti in una lingua non più parlata come il latino e questo potrebbe creare un
problema teorico di traduzione
 solo uno o alcuni personaggi del TP usino una lingua più datata di altri, perché le vicende narrate si
svolgono su piani cronologici differenti.

in questi casi, la storicizzazione è inevitabile per mantenere l’equifunzionalità rispetto al TP; Cioè una perfetta
corrispondenza fra la strategia del TP e quella del TA. Negli altri casi, introduzione bisognerebbe attualizzare;
si dovrebbe adottare un'attualizzazione ibridata che non trascuri del tutto la distanza temporale che influisce
sulla ricezione del TP stesso da parte dei contemporanei. qualora l'epoca del TP sia la stessa in cui si svolgono
gli eventi narrati, possono essere storicizzati alcuni singoli elementi e marchino in modo delicato la distanza
culturale. ad esempio, traducendo in italiano da lingue come il francese, dove la forma di cortesia è il voi, ho
da lingue in cui la forma di cortesia è l'unica forma allo q ti va usata con tutti, si può progettare l'uso del voi
per i TP anteriori al XX secolo e l’uso del Lei per i TP recenti o contemporanei al traduttore.

1.3. Omologazione, straniamento, estraniamento

È importante che è la somma di tutte le informazioni, implicite e esplicite, contenute in ognuna delle unità
del TP, siano ricodificate nel TA. per questo, esistono delle tecniche di traduzione che devono essere usate
in modalità e quantità diversa a seconda del singolo progetto. Esse consentono di ovviare a qualsiasi
problema lessicale, fonologico culturale tra la lingua del TP e quella del TA. grazie ad esse è possibile
mantenere simmetrico il potenziale di innesco di TP e TA. le tecniche si dividono in: esplicitazione,
condensazione, compensazione, spostamento. possono dilatarsi o chiamarsi in un altro modo ma elencarne
altre sarebbe ridondante e in queste sole quattro categorie può rientrare qualsiasi tipo di intervento sul TA
attuato allo scopo di ottenere una sostanziale f-equivalenza con il TP.

2.1. Esplicitazione

Essa comporta la conversione di un frammento del TP in uno parallelo del TA che sia è ugualmente
informativo. può riguardare una o tutte le caratteristiche di un elemento, a seconda della loro importanza
nel contesto. È spesso indispensabile nel caso degli onimi, cioè dei termini dell’onomastica: nomi di persona,
luoghi, di strade piazze, ecc. se, esempio, nel TP viene nominata la via centrale di una città, il cui nome si
prevede non inneschi alcuna informazione nella mente del lettore di arrivo, il traduttore aggiunge sulla
centralissima (nota, principale) via X. Si può esplicitare, completando la componente di un nome,
specificando a quale oggetto si riferisca un nome di edificio o un toponimo, sciogliendo un acronimo ecc.
Sta al traduttore decidere in quali casi un’esplicitazione sia indispensabile. nel caso di informazioni che il
destinatario del TP Comprende immediatamente, ma che risulterebbero incomprensibili al destinatario ed e
arrivo perché opache o ambigue, l'esplicitazione risolve il problema. Essa ha lo scopo di:

 Trasferire nel TA livello esplicito l'informazione implicita al destinatario del TP


 farlo in modo del tutto non invasivo
 selezionare solo le informazioni implicite rilevanti nel contesto
 formulare le informazioni esplicitate coerentemente allo stile del testo.

A seconda delle necessità, esiste una esplicitazione di secondo grado che non deve essere ridondante. È la
tecnica più diffusa, ha un ruolo fondamentale. permette di evitare le note del traduttore che sono delle
interruzioni del testo assenti nel testo di partenza. È come se fossimo interrotti mentre guardiamo un film
per ricevere delle spiegazioni. in un testo letterario accade la stessa cosa. di colpo, la nota del traduttore
costringe il lettore a staccare lo sguardo, ad uscire dal testo e dal patto narrativo, ad inibire la modalità
procedurale della lettura e ad entrare in un altro testo con una funzione diversa. Così facendo, il traduttore
crea un piccolo testo estraneo, separandolo dal corpo di partenza. mentre l'esplicitazione ben dosata
mantiene l'invisibilità del traduttore e non disturba la ricezione del lettore del testo di partenza, le note del
traduttore finiscono il potenziale artistico del testo. Se il traduttore pensa che sia utile informare il lettore
delle strategie o tecniche impiegate, deve farlo al di fuori del TA con una nota del traduttore posposta. Essa
non disturba la lettura ma la funzione di informare sul lettore interessato e solo post factum dei dettagli di
progettazione e lavorazione del TA.

2.2. Condensazione

È opposta all’esplicitazione. Mira a condensare due termini o concetti in uno solo; un aggettivo e sostantivo
diventano un solo sostantivo; due aggettivi ne diventano uno; un sostantivo del TP può diventare implicito
grazie alla traduzione di un altro sostantivo nel TA. Essa può essere una scelta stilistica o obbligata. È
indispensabile dove sia vincolante il numero delle parole o sillabe, per esempio nelle didascalie delle icone
elettroniche o nei testi in versi. È una tecnica molto usata nel sottotitolaggio, doppiaggio, interpretazione di
conferenza e di trattativa, quando è indispensabile trasmettere le stesse informazioni con un numero ridotto
di parole. Condensa parole il cui potenziale informativo sia comunque deducibile dalle altre parole presenti
nel TA. La condensazione è indispensabile nella traduzione dei testi di canzoni progettati per essere cantati
in altra lingua. Per esempio, nella ballata di Bob Dylan, Fabrizio de André, nella terza strofa, al posto di 3 soon,
riporta solo un “presto”; eppure, la stessa cadenza ritmico-anaforica del TP resta altamente equifunzionale
nel TA grazie alla rima tronca grammaticale e alla duplice iterazione del nome Maddalena.

2.3. compensazione

Si usa quando, in caso di asimmetria tra le due lingue, non si riesca a ottenere l’equifunzionalità tra due unità
corrispondenti TP/TA. Il diverso potenziale espressivo di un elemento in un segmento del TP viene
compensato da un altro elemento nel TA. Si usa così:

 all’interno della stessa unità traduttiva si compensa l’informazione trasmessa da un costituente mediante
quella trasmessa da un altro costituente.
 In presenza di una battuta divertente, o di un gioco di parole efficace nel TP meno efficiente nel TA, il
traduttore compensa l’asimmetria variando in modo speculare la f-marcatezza di un’altra unità. L’esito
complessivo è qualitativamente e quantitativamente equifunzionale nei due testi, ma in segmenti diversi.
Vige la proprietà commutativa. La maggior ironia del TA compensa la frase precedente del TA che nel TP
suonava complessivamente più ironica.

2.4. Spostamento

È la tecnica con cui uno o più elementi di un enunciato vengono ri-collocati nel TA in posizione diversa rispetto
a quella del TP. Può implicare l’anticipazione di una parola o la sua posticipazione. Per esempio, in poesia è
frequente anticipare o posticipare un verso intero per vincoli di rima. In prosa invece, è usato sotto forma di
inversione sintattica per motivi eufonici, prosodici o idiomatici, nonché per evitare stilemi asimmetrici
rispetto al TP. Per le strategie e tecniche di traduzione vale il principio dell’ibridazione e dosatura. Le 4
tecniche insieme coprono l’intero ambito degli interventi di adeguamento del TP alla f-marcatezza del TA.

3. Il progetto e il cult text

I cult text sono dei testi che per diffusione, affezione e rappresentatività, hanno un ruolo fondamentale per
la cultura di partenza e per il gruppo di riferimento. Rientrano canzoni, romanzi, poesie che hanno un
potenziale evocativo, basato su meccanismi identitari. Un gruppo di persone, distinto per età, strato sociale,
predilezioni culturali, nazionalità, si identifica con l’opera cult perché la sente rappresentativa della propria
identità culturale e/o nazionale. Hanno un potenziale memetico superiore, si diffondono e si attecchiscono
nella memoria delle persone, come elemento coesivo di una collettività. È importante, che il traduttore,
nell’attuare il progetto e la traduzione, consideri attentamente il grado di rappresentatività del TP: più è
rappresentativo, più c’è il rischio di compromettere tutto ciò che rappresenta. Per tradurre questi testi, si
parte dalle specifiche asimmetrie tra lingue, canoni culturali e metrici. Il metro canonico di una poesia di una
cultura in una data epoca non corrisponde quasi mai a quello di un’altra cultura nella stessa epoca.
L’accostamento di certi suoni può essere inatteso in una lingua, ma ricorrente nell’altra. Anche a livello
culturale, le asimmetrie possono inficiare l’effetto del TA: un potenziale associativo del TP che evoca con
delicatezza il mondo dell’infanzia può trasformarsi in una metafora stucchevole in LA, oppure in un’immagine
troppo straniata rispetto a quello originaria. Per la progettazione di una traduzione di un cult text, la
valutazione della gerarchia decisionale che consenta di salvaguardare il potenziale rappresentativo dell’opera
influisce sulla capacità di dosare sia le strategie, sia le tecniche di traduzione. Pensiamo a EVGENIJ ONEGIN
di Puskin, simbolo della Russia, il più grande rappresentante delle lettere russe; a lui si deve il consolidamento
della lingua letteraria russa tanto che i russi lo definiscono “il nostro tutto”. Ha scritto un poema definito da
lui stesso “romanzo in versi”. In Italia il poema non è molto conosciuto. Alcuni tentativi di riproporre al
pubblico italiano questo capolavoro rispecchiano una parziale consapevolezza della responsabilità da parte
dei traduttori; si tratta di coloro che hanno optato per un compromesso, proponendo un’interlineare in prosa
per rendere accessibile la fabula (trama) dell’Onegin. Ad esempio, questo è stato il progetto di Bazzarelli.
Mentre, il corifeo della slavistica italiana Ettore Lo Gatto aveva tentato una rischiosa traduzione in versi, il
suo TA non ha convinto che si trattasse del più celebrato capolavoro della poesia russa. Quella più diffusa è
quella di Giudici che dichiarava di aver affrontato il poema tramite spirito d’avventura e curiosità senza
conoscere la lingua russa. Si sa che dietro ciò si nasconde il postulato che, per tradurre poesia, non serva
conoscere la lingua di partenza, ma solo essere poeta. La sua traduzione è un pedissequo calco semantico.
Poi c’è quella di Pia Piera che propone una versione a calco in versi che poso si distingue da quella di un buon
programma di traduzione. In realtà, si sa che è impossibile tradurre ad esempio, Shakespeare, senza
conoscere l’inglese. Ovviamente, servono delle competenze, che nel caso dell’Onegin sono:

 Conoscenza virtuosistica, sincronica, diacronica della lingua russa: del russo discorsivo, del russo della
poesia puskiniana e di quello degli altri russi.
 La conoscenza del valore culturale dell’opera, del suo ruolo e della sua critica
 Conoscenza della metrica contrastiva russo/italiano e la capacità di provare il senso di scanzonata serietà
e di malinconica irrisione.
 La conoscenza dei canoni di arrivo pe attualizzare un testo che è impossibile storicizzare
 Forte motivazione
 Esperienza di traduzione poetica così ampia e apprezzata dagli esperti da motivare la sfida.

L’unica procedura per tentare ri-scrivere un testo cult in altra lingua è quella di provare e riprovare, valutando
consenso e dissenso, assenso e pubblicando piccoli frammenti di testo per un pubblico esperto e ristretto.

4. Gli strumenti

Anna Riccio, sottolinea che ad oggi la rete che ha rivoluzionato la ricerca e l’interpretazione dei dati. Internet
ha offerto nuove possibilità di reperire informazioni complesse velocemente. Si può accedere a tantissime
informazioni correlate tra di loro. Il problema riguarda la qualità di quest’ultime. Ci sono troppe informazioni
e a volte non si sa quale considerare affidabile. Prima si studiava e leggeva sui libri, verificando le fonti e
facendo una selezione. Essendo maggiori le informazioni e essendo accelerata la comunicazione, è
aumentata l’inaffidabilità delle fonti. Il traduttore cerca le informazioni e deve saperle riconoscere. Non è
scontato che questi strumenti comportino per forza un miglioramento. Il traduttore ha anche la
responsabilità di diventare un operatore memetico, un tramite di diffusione e canonizzazione di alcuni
termini settoriali nella sua L1. Oggi, a causa proprio dell’accelerazione del contagio culturale, bisogna
prestare più attenzione alla coerenza diacronica, diatopica, diastratica di qualsiasi enunciato. Oggi, parole
come approcciare, realizzare, scannerizzare sono diventati familiari all’orecchio del traduttore. Oggi deve
avere un contatto costante con la comunicazione quotidiana nelle sue lingue di lavoro, tramite libri, articoli,
conversazione. Oggi ci sono anche i corpora elettronici che hanno rivoluzionato la traduzione specializzata e
commerciale, ma sono utili anche nell’interpretazione di conferenza e trattativa. Essi però, o sono a circuito
chiuso o sono di difficile consultazione.

4.1. I dizionari

I dizionari bilingui solo a volte sono utili. Se un traduttore non comprende un enunciato o una parola, è
insensato usare il dizionario bilingue; è una situazione non auspicabile. Da un lato. Esso è un requisito
fondamentale per qualsiasi traduttore, che però dovrebbe ricorrere a dizionari monolingui. Dall’latro, nel
momento in cui non conosce un termine, è meno raccomandabile che vada a cercarlo in un repertorio
lessicografico che non conosce e che, quindi non può riconoscere tra diversi elenchi non contestualizzati. Se
il traduttore non ha mai visto, nè sentito una parola, se il suo orecchio interno non sa valutare né la sua
occorrenza statistica, nel contesto in cui è usata, non ha possibilità di trovare il suo traducente se non tirando
a indovinare o accettando per buono l'unico traducente suggerito. Si può affermare che qualsiasi
professionista esperto che usi in L1, e in L2, parole, termini che non ha mai usato prima lo faccia solo dopo
aver eseguito controlli incrociati nei dizionari monolingui o nei corpora. Il dizionario bilingue è utile quando
si verifica un’anomia, cioè quando il traduttore non riesce a richiamare alla memoria a breve termine una
parola in L1/L2 che sa di conoscere bene, ma che ha dimenticato in quel momento e che quindi, può
riconoscere tra i traducenti proposti dal dizionario. In tutti gli altri casi, il monolingue è più affidabile. La
sindrome del dizionario bilingue è il primo segnale dell’inesperienza di un traduttore. Il continuo ricorso ad
esso indica una scarsa riserva lessicale soggettiva e un procedimento scarsamente professionale. Esso è uno
strumento subdolo che incita all’associazione arbitraria tra un segno della L1 e uno ignoto della L2. Il danno
maggiore si manifesta proprio nell’esercitazione di traduzione della L2. La traduzione di quelle che chiamiamo
lingue morte, potrebbe sembrare differente ma in realtà i traduttori dei testi antichi possono avvalersi di
un’esperienza passiva di testi scritti, i quali, sono spesso ricchi di dialoghi e di oralità trascritta. Anche
traducendo da lingue pervenuteci solo in forma scritta, si può ottenere, pur a livello passivo, una conoscenza
procedurale paragonabile all’acquisizione delle lingue parlate, basata su un orecchio interno che consente a
un latinista esperto di sentire quale latino sia compatibile con la lingua di Catullo e quella di Lucrezio. Quindi,
è evidente che per tradurre è indispensabile un sofisticato bilinguismo. I numerosi di corpora elettronici di
testi antichi oggi disponibili rendono la pratica traduttive delle lingue antiche, simile a quelle delle moderne.
Anche i glossari terminologici risultano essere molto utili per la traduzione specializzata di testi professionali.
Essi hanno una funziona molto più specialistica rispetto a quella dei dizionari bilingui settoriali; essi vengono
aggiornati continuamente. Oggi vengono molto utilizzati i CAT che creano enormi memorie di traduzione.
Oggi la rete rende possibile accedere a glossari, dizionari, enciclopedie ma anche applicazioni. Tra l’altro, i
traduttori possono consultarsi in tempo reale con altri traduttori grazie ai forum e blog.

4.2. I corpora

Essi sono l’insieme dei testi che costituiscono l’oggetto della ricerca, contrapposti ai testi critici che si
utilizzano come commento. Il termine ha avuto successo grazie ai corpus linguistics. Secondo Riccio, essi sono
una raccolta sistematica, coerente di testi autentici, selezionati e organizzati secondo espliciti criteri
linguistici e non linguistici, disponibile anche in formato digitale manipolabile da un calcolatore. Esso deve
essere consultato come campione rappresentativo di una lingua o di una sua varietà, in tutti i suoi aspetti per
soddisfare gli obiettivi di questa analisi. Si dividono in:

 Generali (rappresentano la lingua in ogni sua varietà)


 Specialistici (distinti per varietà testuali)

Seconda suddivisione: scritti, parlati, misti, nonché diacronici e sincronici. Essi possono essere monolingui o
bi/multilingui. Entrambe le tipologie possono essere comparabili o paralleli. I primi sono testi della stessa
tipologia che non costituiscono o comprendono traduzioni. Quelli paralleli sono costituiti da gruppi di testi
uniti alle loro traduzioni in una o più lingue, a seconda che siano bilingui, trilingui o multilingui. A loro volta,
possono essere unidirezionali oppure bidirezionali. Essi presentano una finestra di dialogo in cui inserire la
stringa di un testo ricercata, attraverso dei filtri si possono ottimizzare le risposte; dal corpus interrogato si
ottiene l’elenco completo di tutte le occorrenze e di tutte le concordanze di quella stringa in migliaia di pagine
di testo. Possono essere usati per stabilire se alcuni lessemi o parole vengano usati in modo diverso nella
lingua standard e in quella delle traduzioni, ad esempio per l’inglese, comparando il Translational English
corpus con il British National corpus. Utilizzando, invece, i corpora paralleli, si può ottenere un altro
riferimento delle corrispondenze bilingui standard. La costituzione di un corpus implica una grande fatica per
la raccolta dati, per la durata del tempo di lavoro, per l’alto impiego di forze e soldi; implica scelte teoriche
di diverso livello e deve attenersi a regole che consentano l’affidabilità del corpus stesso. Secondo Cresti e
Panunzi, una difficoltà riguarda i testi orali. Il problema deriva dal fatto che il flusso della lingua orale non ha
limiti programmati, non è suddivisibile in testi veri e propri, ma viene trattato secondo schemi concettuali
che trasformano un insieme di parole sonorizzate in un prodotto approssimativo. La rivoluzione elettronica
li ha resi uno strumento indispensabile per chi lavora con testi ad alta prevedibilità e stereotipia. Utilizzando
i corpora elettronici nella pratica traduttiva, ci si convince che questo strumento sia utile se e solo se
supportato dai corpora di confronti mentali del traduttore che consentono di operare le scelte incrociando
la f-marcatezza. Il dizionario mentale funziona come ipertesto biologico che forma una mappa mentale
bilingue. Essi è vero che sono meno soggettivi, ma sono meno versatili: è la sinergia con il corpus mentale del
traduttore che può rendere versatile il corpus elettronico. Ecco perché esiste la traduzione assistita, in cui
banche dati e corpora elettronici sono solo strumenti, la scelta spetta al traduttore. Ci sono anche
applicazioni che sono programmi in grado di compattare corpora diversi in un mega corpus parallelo: per
ogni unità traduttiva, la macchina predispone una scelta e il traduttore può selezionarla o sceglierne un’altra.
Solo la mente umana può eliminare ciò che il cordancer include o esclude. Maggiore è la competenza del
traduttore, maggiore è la sua capacità di operare in modalità assistita. Esistono corpora di confronto per la
letteratura e anche per la poesia che sono preziosi per l’analisi dei testi e per lo studio storico-critico della
traduzione, ma il loro uso non è iterabile per principio, visto che, se si utilizzano strutture identiche, la
scrittura creativa diventa plagio.

Capitolo 6. La professione e il mercato

1. Una visione d’insieme


1.1. Il panorama professionale

Dopo il secondo dopoguerra, l’attività traduttiva ha avuto un grande sviluppo. Solo a partire dagli anni 80 del
secolo scorso, la maggior competenza dei professionisti immessi sul mercato ha contribuito a sensibilizzare i
clienti, i committenti e i destinatari a considerare la differenza tra dilettantismo e competenza professionale.
Oggi vi sono diverse tipologie di traduzione:

 Traduzione per l’editoria


 Specializzata
 Specializzata assistita
 Di dialoghi cinetelevisivi
 Per il turismo
 A vista
 Di applicazioni elettroniche
 La localizzazione: i localizzatori sono coloro che traducono e adattano il prodotto alle caratteristiche
linguistiche, culturali ma anche legali, di consumo, religiose ecc del mercato di destinazione.
 Interpretazione di conferenza
 Di trattativa
 In ambito sociale
 Simultanea di audiovisivi.

Ogni tipologia impone delle conoscenze specifiche e un addestramento particolare. Un traduttore può
diventare cosi abile e richiesto in un singolo settore professionale da esercitare la professione di traduttore
o di interprete solo in quell’ambito. La maggior parte dei giovani traduttori professionisti, si trova a
sperimentare tipologie diverse di traduzione, accompagnate spesso da altre attività di sostentamento. Per
questo è importante sviluppare nei futuri traduttori la capacità di adattarsi a settori diversi e a nuove lingue,
diventando elastici. L’elasticità è richiesta anche a chi raggiunga i massimi livelli professionali presso le grandi
istituzioni internazionali. Esistono i free lance e coloro che lavorano nelle aziende e imprese, devono svolgere
mansioni allargate. La versatilità è una sorta di specializzazione. I problemi legati al ruolo sociale della
traduzione dipendono dall’evoluzione interrelata di riflessione teorico-epistemologica, legislazione e prassi
professionale.
 Primo punto: la teoria della traduzione avrebbe il compito di supportare il ruolo socio-economico della
traduzione. Ha il compito di provvedere a:
- Ricostruzione di un quadro generale del funzionamento del patronato che governa il polisistema
culturale.
- Descrizione dei rapporti tra opera tradotta, ideologia e cultura
- Studio dei nessi esistenti tra opzione, progetto, prodotto e canone
 Secondo e terzo punto: la correlazione tra legislazione e evoluzione della prassi professionale è
strettissima perché le leggi influiscono sulla qualità e sul prestigio della professione, cosi come i
mutamenti della prassi professionale influiscono sulla legislazione. I prodotti sulla traduzione sono
tutelati in Italia da un testo di legge che risale al 1941 e che protegge i diritti d’autore dei traduttori
(Legge, 22/04/1941 n. 633, G.U. 16/07/1941). Ad oggi vi sono al suo interno molti articoli a tutela dei
dialoghisti cinematografici e televisivi, nonché di chi crei corpora e banche dati elettronici, compresi i
testi letterari pubblicati in rete. Eppure, il diritto d’autore dei traduttori, nella prassi, funziona in modo
diverso rispetto a quello degli scrittori: l’autore delle traduzioni è quasi sempre costretto a cedere del
tutto i propri diritti all’editore o a ottenere percentuali di vendita insignificanti. Megale presenta la realtà
giuridica in modalità consapevolmente asettica, definendo l’invalso rapporto dei traduttori letterari con
le case editrici come “rapporto di libera collaborazione esterna”, laddove si parlerebbe di forzata
sudditanza.
1.2. Le associazioni e la regolamentazione della professione

Le ragioni dello scarso prestigio professionale dei traduttori e delle loro poche possibilità di negoziare con i
clienti sono dovute all’assenza di un albo riconosciuto ufficialmente dallo Stato. Solo un’associazione
riconosciuta dal Ministero, potrebbe impedire che si definissero traduttori o interpreti persone prive di un
percorso di studi professionalmente coerente. Nell’ambito dell’interpretazione vi è una reale valorizzazione
professionale. Le associazioni professionali sono anche molto severe e loro tariffe dignitose; eppure, anche
in questo campo ci sono pseudo-interpreti disposti a lavorare a cifre inferiori. I prezzi delle libere professioni
sono molto alti perché implicano, a tutela dei clienti, conoscenze e abilità che richiedono un periodo di
istruzione e addestramento e il superamento si selezioni da parte dello stato. Quindi, il traduttore è in balia
delle onde, visto che sul mercato è pieno di traduttori. È il cliente che stabilisce la tariffa del professionista e
gliela comunica quando richiede la prestazione. La situazione dei traduttori è peggiore anche rispetto agli
artigiani e commercianti, perché il cliente non può stabilire il prezzo; può cercare una parte dove il prodotto
costi meno, ma non può deciderlo. Se non ci sono vincoli giuridici, se non ci sono limiti legati alle tariffe, si
trova sempre qualcuno che si reputi un traduttore. Esistono associazioni come:

- FIT= Fédération International des Traducteurs


- AIIC= Association Internationale des Interprètes de Conférence
- ATA= American Translators association
- Asetrad
- AITI= Associazione Italiana Traduttori e Interpreti fondata nel 1950 che raggruppa traduttori
editoriali, traduttori tecnico-scientifici, interpreti di conferenza. L’ammissione avviene sulla base
della documentazione dei titoli e dell’esperienza professionale, inoltre i soci ordinari devono
sostenere una prova di idoneità che simula un reale contesto lavorativo. Se almeno l’iscrizione a
un’associazione riconosciuta fosse vincolante, si eviterebbe l’incongruenza tra il numero degli iscritti
alla principale associazione professionale italiana e il numero dei traduttori in Italia, superiore. Gli
scopi dell’associazione sono:
 Promuovere iniziative legislative volte al riconoscimento di uno stato giuridico del traduttore e
interprete come professionista;
 Attestare le competenze professionali dei propri associati;
 Promuovere l’immagine e la consapevolezza del ruolo sociale, culturale ed economico dei
traduttori e interpreti presso la committenza e le istituzioni,
 Promuovere l’aggiornamento e la formazione continua dei traduttori e degli interpreti e il
rispetto della deontologia professionale;
 Garantire il rispetto delle migliori condizioni e prestazioni di lavoro, autonomo e dipendente, dei
traduttori e degli interpreti, anche tramite l’elaborazione di contratti tipo;
 Promuovere la raccolta e la diffusione di informazioni riguardanti la professione,
 Elaborare e diffondere raccomandazioni, norme e standard sulle migliori prassi professionali;
 Favorire l’accesso alla professione attraverso forme di tutoraggio con l’acquisizione di
comportamenti e mentalità professionali
 Promuovere l’attuazione dei più idonei percorsi formativi per le diverse figure professionali nel
campo della traduzione e dell’interpretazione;
 Promuovere iniziative legislative affinché nei tribunali italiani i servizi di interpretazione e
traduzione nei procedimenti penali vengano garantiti da traduttori e interpreti qualificati e
professionali, in conformità alle normative internazionali in materia, in primis la Direttiva
2010/64/UE.

Finché non si realizzerà tutto questo, sul nostro mercato continuerà a operare un numero di traduttori dieci
volte superiore a coloro che si sono sottoposti almeno a una prova di idoneità. In tutte le libere professioni,
c’è sempre stato un momento storico in cui si è dovuto affrontare lo scontento di alcuni per garantire a tutti,
destinatari, professionisti, garanzie deontologiche rigorose. Se si vogliono prestazioni serie è bene controllare
l’accesso alle professioni specialistiche.

2. I paradossi della traduzione editoriale


2.1. Il caso e la necessità

lo status giuridico del traduttore e i fattori ideologico-economici a determinare le tariffe personali, la tipologia
dei testi pubblicati, la gerarchia delle lingue e delle culture di maggior successo. Oggi, il quadro relativo al
traduttore è svantaggioso. Se ancora esiste un minimo prestigio sociale nel tradurre opere di poesia o
narrativa, la scarsa gratificazione che ne deriva non compensa la frustrazione di miseria del lavoro. Nel mondo
editoriale, il traduttore è considerato alla stregua di “un manovale delle lingue”, beneficato dall’editore per
il solo fatto di aver ottenuto una proposta di traduzione, nel caso in cui, la proposta sia avanzata all’editoria
dal traduttore, costui viene beneficato dal fatto stesso di essere stato preso in considerazione. Altro
paradosso: il massimo prestigio e rispetto professionale in qualità di traduttori per l’editoria lo ottengono
persone che non sono traduttori e che a volte non hanno nemmeno una preparazione. Il paradosso più grave
deriva dal fatto che gli editori possono commissionare la traduzione di qualsiasi testo, anche dei classici della
letteratura, basta che venga definito traduzione. Il criterio adottato per commissionarla è il vantaggio
economico momentaneo. Anche qui, paradosso: nella traduzione per l’editoria, non c’è alcuna correlazione
tra il livello delle tariffe e la qualità delle prestazioni; un buon traduttore può lavorare per pochi soldi mentre
un dilettante può ottenere un prezzo più alto. Se si lavora per guadagnare, la traduzione letteraria è
svantaggiosa perché implica ricerche di carattere storico ed enciclopedico molto faticose computate nella
remunerazione. Per la traduzione editoriale la prassi prevede contratti capestro, i cui termini sono gestiti
dagli editori, spesso su moduli prestampati con un margine minimo di intervento della controparte. Il
traduttore viene costretto dall’editore a cedere per 20 anni i diritti sulla sua traduzione e a rinunciare a
qualsiasi ulteriore guadagno. I contratti editoriali che prevedono le royalties ( percentuali di guadagno sulle
copie vendute) sono ancora più svantaggiosi: il traduttore percepisce alla consegna del lavoro, un compenso
minimo, una tantum, più basso delle tariffe usuale, per scoprire che è un anticipo sulle royalties che
comunque, sono inferiori alle previsioni. Il traduttore, potrebbe servirsi della consulenza di un legale ma lo
stesso sarebbe svantaggioso: se il legale trovasse irregolarità nel contratto, l’editore non accetterebbe
modifiche sostanziali e, se non le trovasse, il traduttore dovrebbe pagare comunque al legale una parcella
pari a una percentuale dell’ipotetico guadagno. Oggi vi è una nuova formula: le case editrici non pagano nulla
per la traduzione, ma riconoscono tutti i diritti al traduttore: per ogni progetto, editore e traduttore,
investono le proprie risorse. Questa formula implica che si traducano solo opere straniere che non ricadano
nel campo di applicazioni dei diritti dell’autore, quelle cui i traduttori siano morti da almeno 70 anni. Se
l’opera fosse contemporanea, anche il traduttore dovrebbe condividere con l’editore l’oneroso acquisto dei
diritti dell’autore straniero. I traduttori preferiscono sottostare al regime imposto dagli editori che prevede
spesso tariffe orarie inferiori a quelle dei braccianti. Anche in questo caso, la legislazione esiste e tutelerebbe
il traduttore, se non fosse che, il traduttore è indotto, a rinunciare ai propri diritti. Se il nome di un traduttore
è associato a quello di un autore celebre o di un editore noto, il traduttore stesso verrà citato più spesso in
cataloghi, recensioni e così via. Molto raramente, i traduttori scelgono cosa tradurre. Se un traduttore vuole
proporre un’opera da tradurre, deve svolgere indagini di mercato con limitati mezzi a disposizione e deve
rinvenire a un’opera del presente o del passato che non sia stata ancora tradotta oppure un’opera che sia
bene ritradurre. Comunque, dovrebbe essere un TP che possa avere successo e/o apportare prestigio
all’editore. Nessun normale traduttore ha autorità sufficiente per condizionare le scelte editoriali. Se l’autore
proposto dal traduttore è noto all’estero, di solito è già stato acquisito da qualche editore, il quale si rivolgerà
a qualsiasi traduttore. Per pubblicare una traduzione è indispensabile avere fortuna, conoscere un editore o
essere una persona nota. La fortuna riguarda la possibilità di trovare l’opera giusta al momento giusto e la
persona giusta che aiuti a contattare l’editore giusto. Se si ha fortuna, se la proposta viene accettata, la
qualità professionale della traduzione diviene, un fattore secondario. Il rapporto tra mondo editoriale e
attività traduttiva è regolato da criteri professionali, fattori extra professionali e dalla fortuna, secondo il
principio per cui “la fortuna aiuta gli audaci”.

2.2. La valutazione delle traduzioni in prospettiva

La qualità delle traduzioni editoriali nel nostro Paese è cresciuta in modo esponenziale grazie ai vari corsi
universitari. Solo parzialmente, si può acquisire qualsiasi professione all’università, ma si può apprendere
tutto quello che serve a maturare professionalmente. Prima la traduzione era considerata un’attività extra-
professionale, praticata da gente benestante per diletto o da giovani studiosi. Ad oggi, non è più cosi. Il nome
del traduttore compare spesso sulla copertina del libro o in quarta copertina ed è comunque sempre
stampato nel frontespizio interno. L’attività di ricerca ha dato visibilità alla traduzione e le è stato dato un
nuovo prestigio. Oggi si riscontra un logico rapporto di causa-effetto tra la qualità delle traduzioni e le
attese/pretese dei lettori: più aumenta la generale qualità delle traduzioni, più il pubblico si abitua a un più
alto livello professionale. Questo determinerà che gli editori siano più interessati a investire in traduzioni
altamente professionali. Oggi, la professionalità è migliore rispetto a qualche decennio fa. La sensibilizzazione
alla complessità della professione ha contribuito alla crescita del senso di responsabilità dei traduttori e al
rigore delle traduzioni. Finora, la critica delle traduzioni è stata assente dalla stampa italiana, se non sotto
forma di recensione generica su un nuovo libro, di generico encomio per il per il lavoro di un amico, o di
personale polemica contro qualche collega. I problemi connessi alla critica della traduzione sono legati a
problemi relazionali: qualsiasi aspirante critico della traduzione incontra una serie di deterrenti che generano
un sistema di autocensura: se si facessero regolari rubriche di critica in rete o su giornali, il critico si
troverebbe a recensire traduzioni di maestri, amici ecc. se la sua critica fosse troppo severa, potrebbe
danneggiarlo. Per decenni è prevalsa l’idea che anche per le traduzioni fosse legittimo qualsiasi giudizio, salvo
poi ammettere che la critica letteraria avesse diritto alle proprie autorità e che a loro si dovesse allineare il
giudizio dei lettori meno competenti. Solonovic affermava che i giudizi dei teorici e dei pratici della traduzione
sullo stesso esito traduttivo a volte non coincidono. Il fatto è che un traduttore, giudicando il lavoro di un
collega o il proprio lavoro, si basa su dati empirici. Il giudizio negativo su una traduzione è più obiettivo se
viene da chi conosce in pratica i segreti del mestiere e sa quali elementi di un determinato testo di partenza
possono essere riprodotti nel testo di arrivo e quali no. Secondo Gideon Tury, sarebbe arbitrario “qualsiasi
tentativo di definire una determinata relazione tra un’entità linguistica di partenza e una di arrivo”. Se cosi
fosse, nessuna qualità della traduzione e dell’interpretazione potrebbe mai essere studiata, migliorata,
valutata: la qualità delle prestazioni professionali è un requisito irrinunciabile perché una professione sia
definita tale. Secondo Popovic esiste la critica modellata sulla critica letteraria, applicata direttamente al TP,
e quella che non ne tiene proprio conto, perché si riferiva al polisistema nazionale di arrivo. La critica della
traduzione editoriale dovrebbe essere una sintesi dei due approcci. Essa può esistere solo sulla base di un
modello teorico; è proprio questo il postulato irrinunciabile del rigore critico ed è la ragione per cui la
falsificabilità è alla base del dialogo scientifico: un modello può essere falsificato proprio se viene applicato.
Chiunque intervenga in veste di critico del mestiere-traduzione non può che partire dal rapporto tra progetto,
strategie e tecniche traduttive, valutarne la coerenza rispetto alla dominante e allo Skopos: ogni TP viene
creato per assolvere funzioni diverse, compatibili o incompatibili tra loro. La qualità di un TA è alta perché
sostituisce all’arbitrio del giudizio soggettivo un sistema di valori condiviso dai professionisti. Il critico della
traduzione dovrebbe essere un esperto di traduzioni, non necessariamente un traduttore.

3. La traduzione specializzata

È la traduzione scritta di testi commerciali, scientifici, tecnici, giuridici, basati su terminologia specialistica e
stilemi specifici. I suoi committenti possono essere privati cittadini, aziende, comitati congressuali, pubbliche
istituzioni. Per le istituzioni sono coinvolti moltissimi traduttori e interpreti che per l’UE sono personale
permanente. Infatti, ad ogni abitante europeo è garantito l’accesso alla legislazione dell’UE e ai principali
documenti politici nella lingua ufficiale del proprio Paese; inoltre, chiunque ha il diritto di scrivere agli organi
dell’UE nella propria lingua e a ottenere risposta nella stessa lingua. In italia, si lavora principalmente con le
lingue europee, in primis l’inglese, ma vi sono vari settori che richiedono traduttori da e verso lingue di Paesi
esterni alla UE. Qualsiasi traduttore specializzato deve disporre di competenze di base relative alla specialità
su cui deve intervenire anche senza essere uno specialista. Si può condividere l’idea che un traduttore
specializzato non possa sostituirsi allo specialista perché non ha le conoscenze specifiche di quella lingua. Del
resto, nessuno specialista o scienziato può avere dimestichezza con un’intera scienza perché le discipline
sono ormai sottosettori scientifici che si incrociano e moltiplicano sempre più. Al massimo, il traduttore può
essere uno specialista di traduttologia. Gli viene richiesto di:

- Conoscere le strutture ricorrenti dei testi specialistici


- Conoscere e implementare la terminologia specialistica
- Saper usare con coerenza pragmatica i connettori che stabiliscono le correlazioni tra gli enunciati.
Ogni lingua è diversa, ma, esistono alcune regolarità che permettono a un traduttore che si addestri nel
singolo ambito di una lingua di implementare le proprie abilità in modo trasversale anche in altri ambiti e
nelle altre sue lingue di lavoro. Un traduttore che abbia esperienza in un certo settore con una particolare
coppia di lingue è facilitato a diventare traduttore in quello stesso settore qualora introduca una lingua
nuova, così come è avvantaggiato se introduce per le sue lingue, un nuovo ambito di specializzazione. Ciò è
molto evidente traducendo verso la L1. Nella prassi professionale, quando il neoprofessionista accede al
mercato, può perfezionare via via la sua preparazione terminologica e fraseologica ogni volta che gli viene
affidato un lavoro specifico. Il committente deve trasmettere al traduttore i dettagli tematici, materiali o
informazioni necessarie a documentarsi al meglio prima di intraprendere il lavoro. Importante è la familiarità
con le strutture e i termini delle lingue settoriali, chiamate microlingue o LSP. Di fatto, la complessità e la
diversificazione dei testi specialistici, impone ai traduttori commerciali, tecnici e scientifici di conoscere i
fondamenti della terminologia, riconosciuta a tutti gli effetti come una disciplina a sé stante, imparentata
con linguistica e traduttologia. L’idea che i termini siano più artificiali delle parole e siano inequivocabilmente
denotativi è contro-argomentabile dal punto di vista epistemologico, logico, materiale e statistico: es. la
migrazione, creativa e metaforica, dei termini da una lingua settoriale all’altra, come screwdriver= cacciavite,
che dal campo della meccanica, è stato mutuato nel glossario dei coktail; si pensi anche al numero di parole
create artificialmente come termini, ma oggi “ridotte” a “parole” non specialistiche. I termini possono essere
presenti in tutte le tipologie testuali, per cui non possono costituire l’elemento distintivo dei testi
specializzati. Si può affermare che:

- In tutte le lingue umane, le microlingue condividono stabilità e instabilità


- Con tutti i linguaggi umani, le microlingue condividono la creatività, intesa come violazione di
regolarità e stereotipi.
- La creatività linguistica implica un certo grado di connotazione, in quanto rende l’unità verbale
speciale rispetto all’uso atteso
- Le microlingue sono discrete e oggettive solo nei limiti in cui è stato canonizzato un processo
onomasiologico soggettivo e non sono ancora subentrate mutazioni.
- La terminologia e le definizioni dei termini non sono mai ideology-free.

Tutti i testi riflettono 2 qualità paradossali. Sono conformi a un canone e tendono parzialmente a
differenziarsi per aggiungere informazioni nuove che concorreranno alla creazione di nuovi canoni. Quindi:

- Tutti i testi sono artificiali e hanno qualcosa in comune


- L’attribuzione di una tipologia testuale non è possibile senza stabilire prima il contesto esterno
- Una denotazione completa, perfetta e definitiva di un termine in qualsiasi testo umano non esiste e
non può esistere
- Il come qualcosa è detto va considerato informativo tanto quanto il cosa viene detto
- La correlazione come/cosa agisce sempre in tutte le tipologie testuali
- Tutte le lingue naturali sono formulaiche e seguono un percorso che va sempre dalla creatività al
canone
- La funzione essenziale dei canoni è quella di essere applicati o violati
- La violazione dei canoni avviene in tutte le tipologie testuali
- Il messaggio agisce sia a livello implicito, sia esplicito ed entrambi i livelli possono coincidere o no a
prescindere dalla tipologia testuale.

Nel caso della traduzione specializzata, i criteri distintivi sono 2:

- La funzione dominante, determinata dallo Skopos, cioè dal contesto professionale


- La presenza di stilemi atti a rendere le unità di testo il più possibile non marcate, vicino al punto 0
indicato sul piano cartesiano della f- marcatezza; tra gli stilemi, abbiamo anche: l’uso
dell’impersonale, l’assenza di articoli e aggettivi superflui, nominalizzazione ecc.

Inoltre, alcune lingue utilizzano la paratassi, mentre altre, come l’italiano, prediligono l’ipotassi. Tra gli
automatismi del traduttore specializzato, ricordiamo i meccanismi di conversione stilistica; infatti, lo stile del
testo tecnico e di quello scientifico è formalizzabile. Nella comunicazione commerciale, le modalità con cui
viene espressa la cortesia, possono essere asimmetriche e in traduzioni non professionali, creare malintesi.
Oggi, la trasmissione elettronica ha spersonalizzato le consegne, ha accresciuto il senso di alienazione del
traduttore, isolato dal mondo, immesso in una rete globale. Oggi, la traduzione specializzata impone al
professionista elasticità mentale e procedurale riguardo sia ai sotto-settori specializzati, alle tempistiche
richieste dal mercato e alla nuova mentalità dell’imprenditoria globale. Un traduttore deve avere acquisito
dimestichezza con gli strumenti della traduzione specializzata e saperli utilizzare in modalità assistita,
mettendo a disposizione di altri il proprio lavoro. La traduzione specializzata è particolarmente complessa
proprio per il ruolo centrale di questi strumenti. Il traduttore deve cercare di far quadrare il cerchio. Le
memorie di traduzione consentono di lavorare in team, svolgendo anche grandi lavori in tempi brevi,
accrescono anche il senso di spersonalizzazione del lavoro. Esse codificano l’origine delle entrate e rendono
accessibile a tutti gli utenti il nome o il codice del traduttore: i più abili possono farsi notale e ottenere la
fiducia e il rispetto dei colleghi. L’insieme delle memorie e delle banche dati terminologiche impiegate nella
traduzione assistita si chiamano CAT TOOLS. Un aspetto interessante è quello del computo dei compensi
frammentati che vedono variare la percentuale della tariffa globale secondo i match value= contatori di
corrispondenze. La traduzione assistita facilita apparentemente il compito, ma paradossalmente, usa tanto
meglio le memorie di traduzione proprio chi potrebbe farne a meno.

4. L’interpretazione
La traduzione orale ottiene lo status di interpretazione nel XX secolo, durante il processo di Norimberga dove
c’erano traduttori, ufficiali, che non avevano un addestramento conforme ma anche abilità diverse. A partire
dagli anni 60 del XX secolo, esiste l’ambito degli interpreti di conferenza di cui ci sono 3 tipologie diverse:

- Interpretazione simultanea
- Consecutiva
- Chuchotage

Esse divergono anche per le abilità. La meno faticosa è quella simultanea. Serve un’aula debitamente
attrezzata con delle cabine che ospitino due interpreti ciascuna; ogni cabina ha doppia postazione, che
comprende sedia, tavolo, cuffie per ricevere il messaggio di input, una consolle con microfono per l’output e
di pulsanti che consentano di accendere e spegnere il microfono o di isolarlo per una pausa. Ogni cabina si
occupa di una coppia di lingue. Solo in rari casi, l’eccellenza della L2 di un interprete può consentirgli di
lavorare in retour, dalla L1 alla L2. Se le coppie di lingue sono troppe, si può attuare il relais, ovvero la
staffetta: una sola cabina traduce il discorso del relatore nella lingua comune a tutte le altre cabine; questo
consente di ridurre il numero delle cabine e i costi del servizio. Ogni simultaneista dovrebbe lavorare per un
massimo di 20-30 min. consecutivi. La prestazione non deve superare le 7 ore giornaliere. Il simultaneista
traduce in modalità passiva e solo eccezionalmente in modalità attiva; ciò determina un addestramento
costante unidirezionale che impone un virtuosismo nella traduzione passiva. Inoltre, la sua prestazione
avviene con un intervallo, décalage. Il cervello dell’interprete si concentra sull’equivalenza funzionale
dell’output. È possibile produrre un’eccellente traduzione simultanea ricordando solo in piccola parte ciò che
si è detto. La traduzione simultanea consente di comprendere e di tradurre ogni singola unità, pur senza
essere affatto in grado di ripetere tutto l’intervento del relatore e neppure ampie frazioni: l’interprete
comprende le singole frasi, non necessariamente tutti i concetti. Il consecutivista invece, sta in piedi o seduto
a breve distanza dal relatore osservando direttamente il pubblico e completamente esposto alla vista di tutti,
non ha le cuffie e ascolta il relatore, intervenendo a tradurre a intervalli più o meno regolari con l’uso del
microfono: in modalità consecutiva si traducono più unità insieme. Il relatore parla da 3 a 8 minuti, cede la
parola al traduttore che opera in consecutiva. L’interprete prende degli appunti che si basano su alcuni
principi: si annotano parole, simboli, segni speciali, si marcano la negazione e l’enfasi. Ogni interprete adotta
una variante ad hoc. La sua bravura consiste anche nel trovare un equilibrio tra codifica e decodifica dei segni.
Lo chuchotage è una tipologia anomala di simultanea in assenza di cabina che è più disagevole per tutti.
L’interprete si posiziona dietro a due, massimo 3 destinatari della traduzione ed esegue la simultanea
sottovoce. È molto difficile per l’apparato fonatorio, crea fastidio in platea e avviene in un ambiente
insonorizzato. L’input e l’output sono disturbati. L’interpretazione di trattativa è diversa: l’interprete lavora
da solo e opera in modalità attiva e passiva. Deve passare automaticamente da una lingua all’altra, evitare le
interferenze indesiderate, controllare in modo pedissequo sguardo e gestualità, operando una mediazione
interculturale. Per esempio, se vi è un momento di aggressività, cerca di smussare i toni o invece di tradurre
le parolacce, dice che vi è disapprovazione forte. Il trattativista svolge una discussione efficace e cerca di far
raggiungere un accordo tra le parti. Non viene assunto da entrambi le parti, ma da una sola, per questo cerca
di adeguarsi il più possibile allo stile di conversazione del cliente. L’interprete prende appunti, limitati, a cifre
e nomi propri, e cerca di tradurre il prima possibile: se la memoria di lavoro non è troppo sollecitata, è
possibile ricordare tutto e tradurre ogni dettaglio. In seguito, vi è la mediazione interculturale definita come
“interpretazione in ambito sociale”. Essa, definita anche community interpreting, ha un ruolo fondamentale
in società interetniche, anche per esempio per facilitare la comunicazione nei commissariati. Il mediatore
interculturale fa da tramite quando il confronto tra diverse realtà culturali rischia di sfociare in uno stallo
comunicativo o in un conflitto; in questo caso vengono richieste al traduttore competenze di carattere socio-
psicologico. La prassi mostra che le difficoltà comunicative sono linguoculturale. La qualità in interpretazione
è molto più apprezzata dai destinatari e dai committenti. Tuttavia, non esiste ancora un modello unitario di
riferimento e i criteri di valutazione della qualità sono scandagliati in un quadro analitico troppo ampio e
ridondante.
5. La traduzione per lo spettacolo
5.1. La traduzione dei testi audiovisivi
Questo tipo di traduzione è di straordinaria complessità perché unisce aspetti della traduzione orale al lavoro
su testo scritto. La traduzione multimediale costringe i traduttori a misurarsi con vincoli numerosi e complessi
da sembrare insuperabili, ma grazie all’approccio funzionale e competenze specifiche, il doppiaggio ha
raggiunto livelli di funzionalità e credibilità. In Italia, il livello delle traduzioni è altissimo. È vero che ci sono
ancora i prodotti tradotti a calco, che hanno creato il doppiaggese, cioè la lingua inesistente, di matrice
anglofona, dei calchi traduttivi, che ha plasmato l’italiano contemporaneo, diffondendo alcune routines
traduttive. La traduzione per il doppiaggio cinematografico ha costituito un modello funzionale applicabile
agli ambiti creativi, compresa la traduzione letteraria. Si è visto che, non solo il film tradotto e doppiato può
funzionare come il TP funziona nel film originario, ma si è anche visto che, in certi casi, può funzionare meglio,
cioè avere più successo. Quando è molto professionale, il doppiaggio lascia soddisfatti persino i bambini che
sono il pubblico più esigente: se un cartone è doppiato male, al bimbo non interessa nulla quanto sia famoso
l’autore dei dialoghi o il direttore del doppiaggio. Se è realizzato in ogni sua tappa da professionisti, il
doppiaggio funziona così bene da far completamente dimenticare allo spettatore che il film è stato girato in
un’altra lingua. Per il cinema, le traduzioni più diffuse sono:

- Il doppiaggio
- Sottotitolaggio o sottotitolazione
- La voce in sovrapposizione, ovvero l’inserimento di una voice over.

L’idea della sonorizzazione dei film risale alla fine del XIX secolo, ma è dagli anni 20 del XX secolo che iniziano
le ricerche di tecniche per realizzare i film in altre lingue. Negli anni 20, si consolida il doppiaggio vero e
proprio. Secondo Paolinelli e Di Fortunato, il doppiaggio può essere considerato un archivio per lo studio
dell’evoluzione della lingua parlata lungo tutto il 900. I dati sul doppiaggio sono uno specchio realistico delle
predilezioni culturali degli italiani o, delle predilezioni derivate dall’interazione tra mercato, ideologia e
abitudine. Il doppiaggio si divide in 4 fasi:

- La traduzione dei dialoghi, fatta dai dialoghisti


- L’adattamento di questa prima traduzione da parte di un adattatore che rimodella i dialoghi tradotti
secondo le esigenze di recitazione e le rende compatibili con le inquadrature, con la posizione delle
labbra degli attori sullo schermo, con i picchi espressivi dei volti.
- L’intervento del direttore del doppiaggio che è il regista che guida la recitazione degli attori
doppiatori. Il direttore segue la recitazione degli attori nello studio di doppiaggio, un luogo apposito
in cui sono disponibili attrezzature standard. Il direttore dispone anche di un aiuto a assistente alla
direzione che può esprimere suggerimenti per apportare modifiche ai dialoghi.
- La sincronizzazione con i macchinari ad alta tecnologia che perfezionano la sincronia di voci e
immagini, in quanto gli attori per quanto esperti, partono sempre con un po’ di ritardo.

La legge n.633 del 1941 tutela anche i diritti del dialoghista e dell’adattatore, e prevede che le prestazioni
dell’adattatore siano riconosciute come opere dell’ingegno, protette dalla regolamentazione del diritto
d’autore e esenti dall’imposta sul valore aggiunto. Per quanto riguarda la lingua di partenza, se la lingua e
anglo-americana, i problemi sono ridotti: il direttore stesso è competente in prima persona; le case
produttrici americane, trasmettono agli operatori non anglofoni dei vari Paesi le trascrizioni dei dialoghi con
le informazioni più ostiche per i traduttori: caratteristiche diatopiche, diastratiche, dialettali, idiolettiche ecc.

Cosi, chi traduce un film americano può essere informato sulle marcatezze del TP e sui realia, può venire a
sapere, che un epiteto è diffuso in una certa zona degli USA o che una pronuncia identifica la variante
afroamericana dell’inglese. Questo è inimmaginabile nel caso di film iraniani, polacchi o giapponesi, la prassi
traduttiva è diversa rispetto ai film anglo-americani, richiede più tempo, a volte a scapito dell’esecuzione in
studio. Il prezzo del doppiaggio viene pagato direttamente allo studio che provvede agli onorari di dialoghisti,
operatori e attori. Il sottotitolaggio invece, è poco diffuso in Italia. La sua nascita risale all’epoca del film
muto. I sottotitoli non possono trasmettere tutte le informazioni, né possono trasmettere gli aspetti
fondamentali della recitazione. La miglior scuola di sottotitolaggio è quella della Danimarca, cui si deve, il
primo film sottotitolato ma anche i primi corsi universitari per preparare i sottotitolatori. Il traduttore deve
riuscire a ricostruire le informazioni contenute nell’enunciato di riferimento. Se il sottotitolaggio viene fatto
per il piccolo schermo, lo spazio per i sottotitoli si riduce ancora. La difficoltà risiede nella capacità di operare
una selezione delle informazioni per trasformare un messaggio orale in scritto. Si tratta di una tecnica di
riduzione che comprende regole come la condensazione, esplicitazione e eliminazione totale. Uno dei limiti
è che nei dialoghi di un audiovisivo, sono presenti tutti gli elementi del parlato: intonazione, accenti locali o
stranieri, aspetti del dialetto, dell’etnoletto, cioè elementi che danno informazioni sulla provenienza e sul
ceto sociale del parlante; nei sottotitoli, si deve ricorrere alla compensazione. La pratica del sottotitolaggio e
utile al training dei traduttori in quanto aiuta ad affinare lo switching tra parlato e scritto in un contesto
comunicativo funzionale, stimolando anche le abilità tecniche e le competenze teoriche. La competenza
specifica è data anche dalla conoscenza delle modalità di realizzazione tecnica del sottotitolaggio che aiutano
il traduttore a valutare meglio le proprie opzioni. Per il voice over: è una sovrapposizione di una voce in lingua
di arrivo ai dialoghi di partenza, i quali, non vengono eliminati, ma solo trasmessi a volume ridotto. Per
eseguirlo, si traducono i dialoghi e si adattano in modo sommario alle immagini, e una singola voce legge
tutte le battute. Le regole di lettura sono precise: poca enfasi e dominante monotonia tonale. Questa pratica
è molto diffusa nell’ex Unione Sovietica e nei Paesi dell’Est. In epoca sovietica, la tradizione del doppiaggio
era eccellente ma non c’erano mezzi per i dialoghisti e i doppiatori professionisti, e quindi, il sottotitolaggio
non era la soluzione perché non ottemperava alle esigenze del pubblico dei serial televisivi, più incline ad
apprezzare la voice over che si è rivelata una soluzione economica e veloce per la traduzione in serie e il
pubblico si è abituato velocemente. Questo metodo ha anche il vantaggio di preservare il TP con le relative
intonazioni. Esiste anche la traduzione simultanea dei film: l’interprete è chiamato a fondere in un’unica
prestazione la mansione di dialoghista, adattatore e attore, ovvero a fare la vice over di un testo creato da
lui stesso estemporaneamente.

5.2. La traduzione dei testi teatrali

Per quanto riguarda la traduzione delle opere teatrali, si lavora solitamente con margini di tempi ridotti.
L’opera teatrale richiede una particolare preparazione culturale da parte del traduttore, che deve avere
dimestichezza con il teatro in generale, con i canoni di recitazione e di ricezione del singolo autore e con il
sistema delle citazioni. Ci sono 2 tipologie e collocazioni diverse della traduzione teatrale:

- Il testo tradotto è finalizzato alla rappresentazione: è uno strumento per il regista che lo manipola
- Il testo è destinato alla pubblicazione e gode di una sua autonomia, rispondendo alle regole del
mercato editoriale. La traduzione può essere progettata per la sola lettura o anche per la
rappresentazione.

La pubblicazione di una traduzione teatrale può riguardare il testo linguistico-effettivamente recitato sul
palcoscenico, oppure la versione italiana di un’opera cui, si è ispirato un regista, apportando le sue modifiche
per realizzare i copioni. In questo 2 caso, il regista può coinvolgere il traduttore e avvalersi della sua
collaborazione, oppure può limitarsi a chiedere all’editore l’autorizzazione all’utilizzo per la messa in scena.

5.3. La traduzione dei testi cantati


- Il microtesto mudicale semi-fisso, chiamato maschera o mascherina, che può essere eseguito con
varianti strumentali, tonali, armoniche.
- Microtesto linguistico, dividibile in: 1) testo scritto; 2) testo canoro.
La canzone di per sé è una fusione di entrambi. I testi delle canzoni sono come poesie cui manchi qualcosa.
Al traduttore di canzoni, possono essere richieste prestazioni diverse:
- Un’interlineare in prosa, da utilizzare come riferimento sulla copertina di un disco o come
sottotitolazione a scorrimento durante l’esecuzione di un testo cantato;
- Un’interlineare che andrà poi rielaborata da un paroliere
- La creazione di un testo in lingua d’arrivo che sostituisca il TP musicato per essere eseguito da un
particolare artista.

Il traduttore varierà il progetto a seconda che si tratti: di tradurre il microtesto linguistico per la pubblicazione
stampa, per la recitazione o per il sottotitolaggio, oppure di tradurre il microtesto linguistico per l’esecuzione
canora, ovvero costruendo il TA direttamente sulla mascherina musicale. In questo caso, potremmo parlare
di adattamento, ma alcune canzoni sono traduzioni che funzionano come testi talmente equivalenti da lasciar
supporre una retroversione molto simile al TP. Ricordiamo che il caso A e caso B costituiscono 2 operazioni
traduttive diverse, tali per cui: A= la traduzione può avere una sua indipendente ragion d’essere, cioè il TP
può essere considerato un macrotesto scritto che prescinde dal microtesto musicale; B= la traduzione, o
adattamento, non può essere affrontata prescindendo dalla fase A. Le due traduzioni vanno distinte rispetto
alla committenza, destinatari, competenze e abilità del traduttore. Differenze:

- Nel caso a, per quanto si costituisca metricamente, il TA è emancipato dal vincolo metrico-musicale
predefinito, mentre nel caso b dovrà essere adattato alle esigenze metrico-ritmiche della
mascherina.

Si può sostenere che la melodia e il ritmo abbiano un ruolo cruciale nella ricezione del macrotesto-canzone
da parte dei destinatari e che stabilire un confine preciso tra canzone d’autore e canzonetta sia un’impresa
epistemologica. Chi traduce con lo spettacolo ha a che fare con difficoltà eccezionali e con la dipendenza del
mercato dai canoni e dai gusti dei destinatari. Quando vengono tradotte le canzoni, il senso di dissacrazione
può derivare da una voce diversa di quanto derivi da parole diverse.

6. Etica e deontologia

Pour une éthique du traducteur di Pym, costituisce il primo dettagliato studio sull’etica della traduzione. La
monografia lasciava intendere che si trattasse di una riflessione epistemologica sui concetti di etica e
deontologia, ma cosi non era. Considerava la questione etica la valutazione dello sforzo profuso nella
traduzione, individuando il fine ultimo della professione nell’investimento sociale del traduttore come
mediatore nella cooperazione tra culture dominanti e dominate. Suggeriva la sovrapposizione dell’etica della
traduzione alla sociologia della traduzione. Gli interessava individuare un concetto trasversale di guadagno
collegato alla professione del traduttore che definisse l’etica come cooperazione economica. L’etica riguarda
una sfera separata che può essere anche in contrapposizione con la cooperazione professionale. La
deontologia comprende l’insieme delle regole morali soggettive che ogni essere umano si dà in base a valori
condivisi ma comunque individuali. Per questa ragione, si può creare un’aporia. La deontologia impone ai
professionisti di applicare la legislazione vigente in materia, mettendo in pratica al meglio le proprie abilità
professionali e le regole dell’arte e contenendo i propri onorari e i tempi di esecuzione delle prestazioni entro
i limiti stabiliti dal regolamento dell’associazione professionale riconosciuta. Secondo Da Re, l’etica non è
riducibile alla deontologia professionale proprio perché quest’ultima non è fondata sull’etica “che
comprende anche le motivazioni, gli atteggiamenti personali”. In ambito traduttivo, il problema etico nasce
proprio quando la cooperazione porta a violare i principi morali soggettivi del traduttore. Per esempio, un
traduttore della Gestapo poteva essere molto efficace nel cooperare alla distruzione di civili innocui e indifesi,
semplicemente per paura e non per una convinzione etica o deontologica. L’adesione alle norme
professionali previste dalla deontologia suggerisce a qualsiasi traduttore di avvantaggiare con il proprio
lavoro il committente, ma la complessa struttura etica personale può indurre a posporre la deontologia
all’etica; il traduttore della Gestapo può rifiutarsi di tradurre o sabotare la traduzione, manipolandola. I
conflitti tra i dettami convenzionali della professione e la percezione del proprio ruolo di agente morale sono
frequenti. Nel caso di un nuovo Mein Kampf, o si sceglie di rifiutare di tradurre o di manipolare la traduzione,
adottando tecniche di traduzione che manipolino la traduzione in modo tale da moderare i toni e i contenuti
dell’opera per fomentare meno odio. Potrebbe risultare che la scelta di manipolare il TA per impedire danni
al prossimo sia più etica della decisione di far affidare il compito ad altri. È doveroso distinguere tra la
deontologia professionale e il diritto etico di un traduttore di opporsi a una cooperazione che ritiene
immorale secondo il suo soggettivo sistema di valori. Solo un’adeguata riflessione, unita all’esperienza e al
buon senso, può aiutare buoni compromessi tra norme deontologiche e norme etiche. Non è infrequente
che un interprete o traduttore sia chiamato da un cliente a gestire una trattativa o a tradurre documenti e
che percepisca o venga a sapere che il proprio cliente sta cercando di imbrogliare la controparte. Se il
traduttore eseguirà al meglio il suo lavoro, contribuirà al fallimento o a una perdita economica per la
controparte; se il traduttore metterà in guardia la controparte, verrà meno a un dovere deontologico nei
confronti del cliente, quello del segreto professionale. In questo caso, il conflitto sarebbe addirittura duplice,
in quanto la legge dello Stato prevede di violare il segreto professionale se si viene a conoscenza che si stia
per commettere un reato. Dal punto di vista delle neuroscienze e sociobiologia, il senso etico risponderebbe
alla percezione interiore del senso di giustizia soggettivo e all’intenzionalità individuale che chiamiamo libero
arbitrio. L’etica avrebbe a che fare con la natura biologica dell’essere umano. L’esistenza del libero arbitrio
pare una condizione indispensabile per parlare di etica e, non a caso il problema è connesso a doppio filo al
dibattito sulla coscienza e sull’autocoscienza. Il problema di questa differenza sembra sfociare in una
riflessione filosofica che costringe a speculazioni irte di difficoltà concettuali. È possibile che il libero arbitrio
sia solo un effetto speciale e non una realtà fisica. Se invece, esiste, allora siamo intelligenze morali, in grado
di scegliere intenzionalmente se onorare o violare norme. Noi umani percepiamo l’esistenza di un
meccanismo che ci permette di decidere in base alla volontà: se anche il meccanismo non esistesse, e fosse
solo un effetto speciale, non potremmo lo stesso non comportarci come se fossimo liberi. Il traduttore può
essere responsabile nella misura in cui è addestrato a esserlo. Una teoria etica della traduzione non offre
soluzioni pronte e universali, ma aiuta a capire quanto sia difficile reperire criteri cui ricondurre la propria
responsabilità civile, individuale e professionale. L’etica è anche una questione sociale che implica la
possibilità di affrancarsi dai dettami imposti dai clienti e dal mercato, di essere un po’ meno sfruttati e un po’
meno mercenari.
TEORIA E TECNICA DELLA TRADUZIONE (Diadori)

PARTE PRIMA – Dall’analisi alle strategie traduttive

L'effetto della riflessione sulla traduzione nell'ambito dei Translation Studies degli anni Ottanta e Novanta del
secolo scorso ha accentuato un approccio descrittivo e non normativo ai fenomeni del tradurre (focalizzato
sia sul processo che sul prodotto), mettendo in risalto il carattere di negoziazione legato ad ogni tipo di
traduzione. L'idea di “fedeltà” al prototesto lascia spazio ora al concetto di “lealtà” verso l'autore e a quello
di “rispetto” per le esigenze dei destinatari; si dà più risalto alle problematiche traduttive e alle soluzioni.
Tradurre da professionisti comporta l'adesione a un progetto traduttivo consapevole: da una parte ogni
testo presenta specifici problemi interpretativi, dall'altra è evidente che tutti i tipi di traduzione implicano
perdita/aggiunta o distorsione di informazione, anche se questi fenomeni possono essere attutiti o
accentuati dalla competenza del traduttore. Indipendentemente dal genere testuale, il traduttore rispecchia
anche le caratteristiche del suo tempo e le sue strategie traduttive risentiranno del modo in cui i suoi
destinatari considerano ciò che è diverso (interessante e prestigioso oppure minaccioso e potenzialmente
sovversivo). Le strategie traduttive a disposizione del traduttore sono dunque il mezzo che permette di
risolvere le questioni più pratiche del processo traduttivo, negoziando il trattamento di ciò che è
culturalmente estraneo ai destinatari. La consapevolezza traduttiva è legata alla capacità di operare delle
scelte in relazione ad una serie di variabili, in modo da adottare l'opzione che permette di realizzare la
traduzione più adeguata. La scelta di una strategia o di un'altra dipende in primo luogo dall'analisi del testo,
dall'individuazione delle coordinate del prototesto: capire il messaggio, contestualizzarlo a livello temporale,
spaziale e psicologico, individuare gli elementi fondamentali sono operazioni fondamentali e preliminari al
trattamento traduttivo di qualsiasi testo (scritto o orale). Chesterman afferma che una traduzione è
fondamentalmente una ipotesi su un testo: questa ipotesi va sottoposta a verifiche, a raffinamenti e talvolta
a revisioni; in questo consiste il lavoro del traduttore consapevole.
Per «unità traduttiva» si intende l'unità minima (a livello lessicale, frasale o testuale) su cui agisce il
traduttore nel passaggio dal prototesto al metatesto (es. there are easy to follow instructions on the large
self-service touch screen ticket machines  la parola “instructions” può essere trattata come una unità
traduttiva; “machines” va trattata invece considerandola insieme alle parole che la precedono, dal momento
che ne vengono indicate delle specifiche caratteristiche; ci appare come unità traduttiva in questo caso
l’intera stringa “the large self-service touch screen ticket machines”). Nel corso dell’attività traduttiva, diverse
parti del discorso possono risultare anche simultaneamente come unità traduttive, in quanto è anche
necessario considerare il testo nel suo complesso (come “unità di pensiero”) per poter arrivare alla
riformulazione del periodo e dunque alla traduzione più adatta al genere testuale specifico e alle sue
convenzioni. L’unità traduttiva è dunque un concetto da intendere in maniera molto flessibile, visto che le
chiavi di interpretazione possono essere fornite dall'insieme del testo e/o da una o più parti,
contemporaneamente o in diversi momenti del processo di traduzione.
Una traduzione si realizza attraverso tre fasi fondamentali: l'analisi del prototesto ai fini della decodifica e
della comprensione, il trasferimento mentale del messaggio, a livello di nuclei informativi, la ristrutturazione
del messaggio nella lingua del metatesto, in base ai destinatari a cui si rivolge. Il processo di traduzione non è
mai lineare, perciò sarebbe più giusto parlare di un processo ciclico (o circolare): ha inizio con la definizione
delle funzioni del prototesto da parte dell’autore, a cui fa seguito l’analisi del prototesto e delle sue
coordinate da parte del traduttore; egli isola gli elementi rilevanti per la traduzione e li trasferisce in un
metatesto che (nella fase di ristrutturazione) dovrebbe “funzionare” nella cultura di arrivo così come il
prototesto funzionava nella cultura di partenza. Ogni nuovo riconoscimento comporta una revisione delle
conoscenze precedenti, che vengono o confermate o corrette. Nella fase dell’analisi il traduttore esplora il
prototesto sia a livello di lingua che di nuclei informativi. Nessun traduttore può esimersi da un'analisi
sociolinguistica del prototesto e delle sue coordinate contestuali (si pensi all'importanza che riveste ad
esempio il registro formale o informale determinato dall'argomento, dal luogo e dai rapporti reciproci degli
interlocutori). Ogni lingua può essere descritta secondo 5 fondamentali assi di variazione sociolinguistica: la
variazione diacronica - variabile «tempo» (trasformazioni che la lingua subisce nel corso del tempo); la
variazione diatopica - variabile «spazio» (il mutare della lingua a livello geografico); la variazione diamesica -
variabile «canale comunicativo» (distingue linguisticamente i testi scritti, parlati e trasmessi attraverso altri
canali); la variazione diafasica - variabile «situazione comunicativa» (ruoli reciproci degli interlocutori,
argomento, funzioni comunicative e distingue il registro aulico, formale, informale, i linguaggi settoriali ecc.);
la variazione diastratica - variabile «caratteristiche del parlante» (strato sociale a cui appartiene il parlante,
cultura, età…). L'insieme degli assi di variazione definisce lo spazio linguistico, cioè tutte le possibilità di
espressione a disposizione della comunità dei parlanti. Un altro livello di analisi riguarda la tipologia testuale
e il genere testuale a cui appartiene il prototesto. Si possono tenere in considerazione gli aspetti funzionali di
un testo (distinguendo i testi narrativi, descrittivi, argomentativi, espositivi, regolativi) oppure partire da
criteri pragmatici (maggiore o minore esplicitezza/rigidità, distinguendo i testi molto, mediamente o poco
vincolanti). La capacità di interpretare e produrre un testo rappresenta la competenza testuale. Ogni testo,
per essere definito tale, deve collocarsi nel contesto situazionale in cui ha avuto origine: in quanto
«messaggio», viene infatti prodotto da un «emittente» che si rivolge a un «destinatario» e utilizza un
determinato «codice» (verbale, non verbale, sonoro, grafico ecc.) e un determinato «canale» (scritto, orale).
La forma del messaggio (che si realizza nei tipi di testo), l'evento comunicativo, i ruoli reciproci degli
interlocutori e lo scopo che spinge l'emittente a produrre il proprio messaggio sono altre variabili contestuali
fondamentali da analizzare anche in prospettiva traduttiva. Jakobson individua 6 funzioni comunicative: la
funzione personale (orientata verso l'emittente – es. nell’atto di presentarsi); la funzione interpersonale (per
stabilire un contatto fra emittente e destinatario – es. il saluto); la funzione regolativo-strumentale (orientata
verso il destinatario, mira a determinare i suoi comportamenti – es. pubblicità); la funzione referenziale
(orientata verso il contesto, ha come obiettivo quello informativo); la funzione poetico-immaginativa
(incentrata sul messaggio – es. effetti ritmici, rime, allitterazioni); la funzione metalinguistica (orientata verso
il codice stesso – es. quando si danno spiegazioni sulla lingua). Christiane Nord fornisce un “modello di analisi
funzionalista” del prototesto che precede e affianca il processo traduttivo secondo un percorso ciclico,
tenendo conto del tipo e del genere testuale a cui esso appartiene nella cultura in cui è stato prodotto, ma
considerando anche altri fattori sia esterni che interni al testo. Questo modello di analisi rende esplicite
molte delle operazioni mentali che il traduttore professionista compie quasi automaticamente e non
prevede un percorso univoco ma si basa sulla ciclicità con cui il traduttore deve affrontare l'analisi dei fattori
esterni e interni al prototesto, sulla base delle conoscenze via via acquisite. Il procedimento più adeguato,
secondo Nord, partirà dall'analisi dei fattori esterni al testo per poi arrivare a quelli interni al testo. Bisognerà
quindi prima verificare questi punti riferiti a fattori esterni al testo: chi è l’emittente (traducendo un libretto
di istruzioni ad esempio il committente è la ditta produttrice mentre l’estensore è un dipendente
dell’azienda o un tecnico esterno. Le due figure possono anche coincidere ad es. testo letterario); quali sono
le intenzioni comunicative (intenzione dal punto di vista dell’emittente, mentre funzione del testo dal punto
di vista dell’accoppiamento tra intenzione e tipo di testo, in una prospettiva dall’esterno); chi è il
destinatario-modello (il traduttore isolerà gli elementi specifici dei destinatari del prototesto e li trasferirà
nella cultura del metatesto per andare incontro ai nuovi destinatari oppure per imporre loro una prospettiva
diversa); qual è il canale comunicativo (comunicazione orale, scritta, scritta per essere letta o recitata); qual è
il luogo della produzione del prototesto e di ricezione del metatesto (le coordinate spaziali possono cambiare
secondo il punto di vista e nella traduzione vanno considerati per la loro rilevanza anche culturale e politica
oltre che linguistica); fattore tempo (le coordinate temporali permettono di disambiguare espressioni e
riferimenti a fatti o persone legate a certi periodi storici ecc. La traduzione dei testi del passato ad esempio si
confronta continuamente con le problematiche della distanza temporale tra destinatari); quale occasione
comunicativa (stile, registro, intenzioni dell’emittente, simboli e codici sono spesso determinati
dall’occasione comunicativa); funzioni comunicative (riconoscere la funzione dominante del testo (es.
espositivo-informativo) è fondamentale per il traduttore che può così orientarsi verso una traduzione
adeguata). Si procederà poi all’analisi di fattori interni al testo: l’argomento del prototesto (può essere
lasciato sottinteso se l’emittente e i destinatari condividono lo stesso orizzonte culturale oppure può essere
esplicitato); il contenuto (si deduce dai riferimenti alla realtà extralinguistica); preconoscenze presupposte nei
destinatari del prototesto (dati del mondo che il prototesto presuppone siano noti ai destinatari: la distanza
fra i destinatari del prototesto e quelli del metatesto in relazione allo sfondo culturale determina la maggiore
o minore necessità di intervenire con aggiunte e cancellazioni); struttura e suddivisione del prototesto
(l’analisi della macrostruttura del testo permette di scoprire se ci sono parti che devono essere trattate
diversamente, se il testo è suddiviso in capitoli e paragrafi da mantenere o riorganizzare ecc.; a livello di
microstruttura si esamina la suddivisione in periodi, la messa in rilievo delle parti costitutive del discorso, il
ricorso a segnali discorsivi ecc.); presenza di elementi non verbali significativi (per integrare, chiarire o
rafforzare ciò che viene detto, e variano secondo il canale comunicativo: apparato iconico paratestuale –
immagini, foto, tabelle – o gesti e movimenti del corpo se a livello orale); caratteristiche linguistiche e
stilistiche (lessico, sintassi, tratti soprasegmentali; il lessico è influenzato da fattori esterni ed interni al testo
mentre la sintassi riguarda la costruzione del periodo che spesso differisce da cultura a cultura per forma e
lunghezza delle frasi. I tratti soprasegmentali sono tipici dell’oralità – modulazione, intensità della voce, tono
– ma possono emergere anche nello scritto grazie ad esempio a convenzioni grafiche).

Alla fase di analisi fa seguito la fase di elaborazione mentale del prototesto da parte del traduttore, prima che
questo prenda forma nel metatesto. Durante il «trasferimento» si realizza, nel caso della traduzione scritta,
quella profonda compenetrazione del testo da parte del lettore/traduttore che va sotto il nome di «circolo
ermeneutico», attraverso un continuo rimando fra le ipotesi interpretative e la ricerca nel testo di conferme
o smentite a tali ipotesi.

La ristrutturazione indica la fase in cui il metatesto prende corpo. Può realizzarsi in un momento successivo a
quello dell'analisi/trasferimento, come accade nell'interpretazione consecutiva, oppure può rappresentare
un percorso parzialmente parallelo rispetto alle due fasi precedentemente descritte, come accade nelle
continue rielaborazioni e revisioni della traduzione scritta, quando non vi siano eccessivi limiti di tempo.
Oppure le tre fasi possono pressoché coincidere, come accade nell'interpretazione simultanea. La
ristrutturazione deve garantire che l’impatto della traduzione sui suoi destinatari sia quello che era stato
previsto dal prototesto.

Un filone di studi linguistici si occupa degli effetti delle strategie traduttive sulla lingua usata nelle traduzioni,
di cui sono state individuate caratteristiche intrinseche e formali ricorrenti. Essa è una lingua: più
standardizzata; con minore variazione, maggiore coesione ed esplicitezza rispetto alla lingua d'uso; con alta
frequenza di calchi, interferenze e forestierismi. Inoltre, essa mostrerebbe strutture frasali più semplici,
presenza di glosse e spiegazioni e interferenze. Dal confronto fra testi tradotti e testi nativi paragonabili
emergono delle significative differenze e soprattutto dei tratti che accomunano le traduzioni. Questo non
implica che siano fenomeni universali, si tratta piuttosto di comportamenti traduttivi ricorrenti.
Recentemente anche l'italiano delle traduzioni è stato oggetto di analisi linguistiche. Secondo gli studiosi, gli
aspetti sintattici e semantico-pragmatici dell'italiano in traduzione sono in parte diversi dalle produzioni
spontanee nella stessa lingua: vi è una tendenza conservatrice che mantiene certe caratteristiche linguistiche
che tendono invece a scomparire dallo standard e dall'uso nativo spontaneo, causata dal desiderio di
produrre un testo chiaro e comprensibile per i destinatari; notiamo quindi un uso sovrabbondante del
congiuntivo; maggiore varietà lessicale rispetto al prototesto; maggiore coerenza e esplicitazione del
messaggio. Fenomeni innovativi dovuti all'interferenza della lingua del prototesto sono invece:
l'esplicitazione e la ripetizione del soggetto quando non sarebbe necessario; la posizione marcata del
soggetto e dell’aggettivo; la struttura sintattica meno variata rispetto ai testi nativi; le ripetizioni.

1.2 PROBLEMATICHE: dopo aver ottenuto dal committente tutte le informazioni sul testo da tradurre, il
traduttore professionista potrà procedere all'analisi dei fattori esterni e interni al testo, elaborando una
gerarchia funzionale delle problematiche traduttive, in modo da decidere l'approccio traduttivo da adottare,
gli elementi da adattare al contesto culturale in cui andrà a inserirsi il metatesto; la gestione dei problemi di
tipo linguistico. Vi sono alcuni fenomeni linguistici che comportano delle scelte traduttive particolari:
- anisomorfismo: fenomeno per cui due lingue differenti danno forma linguistica diversa agli stessi concetti,
di modo che due segni con un ambito d’uso assai simile presentano spesso significati non perfettamente
sovrapponibili (es. house – home  casa; bosco – legno  wood). L'ammissione che non esistano due lingue
naturali perfettamente sovrapponibili spinge a adottare un atteggiamento pessimistico e a vedere ampi spazi
di «intraducibilità». D'altra parte l'esistenza dei dizionari bilingui dà l'illusione di una perfetta corrispondenza
fra lingua diverse. In realtà, l'atteggiamento da assumere nel tradurre si colloca a metà, tenendo conto
soprattutto del grande potere di «negoziazione» che ha il traduttore. Gli studi hanno messo a fuoco i vari
punti di contatto e di dissimmetria fra coppie di lingue: la diversa segmentazione della realtà che determina
un diverso grado di polisemia delle parole; la diversa posizione dei costituenti nella frase; il diverso modo di
esprimere l’aspetto del verbo – durativo, momentaneo, conclusivo; la possibilità o impossibilità di trovare un
lemma corrispondente per ogni parola. È naturale che l’operazione concreta del tradurre si confronterà
continuamente con la necessità di riordinare, parafrasare e riformulare.

- connotazione: se accettiamo come presupposto che la traduzione comporti oltre al confronto tra due
sistemi linguistici anche il confronto fra due culture differenti, dobbiamo considerare oltre al valore
denotativo anche quello connotativo che la lingua può esprimere. Nella realizzazione del metatesto il
traduttore deve infatti tener conto del fatto che i significati delle parole possono andare anche al di là del
loro senso letterale. La denotazione indica il significato primario e relativamente fisso, mentre la
connotazione indica un significato aggiuntivo che può variare a seconda del contesto o della cultura.
Possiamo trovare dei casi problematici di questo tipo nell’uso delle pronunce straniere: spesso un
personaggio di fiction viene caratterizzato dalla sua pronuncia straniera in relazione agli stereotipi a cui
questa è associata nella cultura in cui l’opera è stata prodotta; se invece un prototesto letterario contiene
dei tratti di lingua substandard per caratterizzare lo stile narrativo dell'autore o la lingua di certi personaggi,
il traduttore può decidere di rinunciare a riprodurre questo tipo di connotazione (adottando la lingua
standard) oppure può utilizzare anche nel metatesto una varietà che permetta di trasmettere una
connotazione simile a quella dell'originale. (es. film Gone with the wind  ritratto culturale del periodo della
guerra di secessione americana; i neri si esprimono in un vero e proprio dialetto, verosimilmente quello degli
schiavi afroamericani della Georgia; la versione italiana allo scopo di rendere conto della differenza
linguistica e culturale tra padroni e schiavi usa una lingua artificiosa, forzatamente sgrammaticata).
- neologismi e devianza dalla norma linguistica: si tratta di un caso frequente nella traduzione saggistica, in cui
nuovi concetti vengono spesso associati dall'autore a parole di sua invenzione. Quando il trasferimento da
una lingua all'altra è più problematico si tende a tradurre indicando fra parentesi come glossa il termine
originale; altre volte, specialmente quando le innovazioni terminologiche si servono di strategie di
neoconiazione già diffuse nel linguaggio internazionale (per esempio in italiano con il prefisso trans-), la
traduzione si limita ad un calco. Nei testi tecnico-scientifici il neologismo tende ad essere mantenuto
inalterato anche nel metatesto (specialmente se si tratta di una lingua a grande diffusione come l’inglese);
anche i neologismi del linguaggio giovanile spesso utilizzati nella letteratura rivolta a questo tipo di lettori,
richiedono che il traduttore si aggiorni costantemente. Un caso particolare di neologismo è l'hapax, cioè la
parola che compare un'unica volta nell'opera di un autore o in un singolo testo e non viene successivamente
mai più attestata. Il traduttore che incontri questo tipo di neologismi può decidere di ricrearli a sua volta nel
metatesto oppure di tradurli con una parola già esistente, rinunciando così alla carica di innovatività che li
caratterizza. Ľhapax è un fenomeno presente in letteratura in ogni fase di forte creatività linguistica e Dante
ne è forse l'esempio più illustre, se consideriamo che molti dei neologismi che introduce sono entrati a far
parte dell'italiano. Per quanto riguarda invece la devianza linguistica, tracce scritte di errori linguistici sono
state tramandate ai margini della norma da letterati e non letterati: parole volgari e espressive usate da
Dante, il realismo e la deformazione della lingua del teatro, le sgrammaticature di Verga, Svevo, i linguaggi
giovanili e le nuove tendenze. Non sono rari i casi di traduttori che hanno deciso di recuperare o creare altre
«malelingue» per plasmare il metatesto, quando si sono convinti che si trattasse di una dominante da non
neutralizzare. Si pensi per esempio alla devianza linguistica usata come elemento di comicità, attraverso qui
pro quo lessicali, doppi sensi, storpiature, o attraverso giochi fonici, intarsi di dialetti e lingue straniere.
Ovviamente non ci si comporterà allo stesso modo nel caso di un oratore che parli con un forte accento
regionale o usi frasi mal costruite e un lessico poco adeguato a causa della propria scarsa cultura: l'interprete
in questo caso eviterà di produrre un metatesto altrettanto scorretto; l'obiettivo primario è che il messaggio
venga compreso dagli interlocutori. Ben diverso è il trattamento della varietà substandard nel testo letterario
o nelle opere cinematografiche, specialmente quando questa connoti un personaggio o rappresenti la cifra
stilistica dell'autore. Anche il refuso può essere utilizzato come artificio stilistico in letteratura, creando non
pochi problemi ai traduttori. Ultimo esempio di devianza linguistica nel prototesto è il caso della pronuncia
infantile. Trattandosi di un elemento fondamentale per caratterizzare l'ingenuità del bambino, i traduttori
riproducono lo stesso fenomeno.

- giochi di parole: (puns) rappresentano una delle sfide traduttive più intriganti, visto che è nella loro
soluzione che si mettono in gioco le competenze del traduttore come “autore del metatesto”. Vi sono 8
diverse tecniche per risolvere la presunta intraducibilità dei giochi di parole: sostituzione del pun con un pun
diverso nel metatesto; traduzione del pun in una frase che non contiene giochi di parole; sostituzione con un
artificio retorico che si basa su un gioco di parole – allitterazione, ripetizione, ironia; eliminazione del pun;
traduzione letterale; introduzione di un pun in un punto che nel prototesto non conteneva giochi di parole –
compensazione; introduzione nel metatesto di un pun non motivato; spiegazione del pun nel paratesto –
note o introduzione. Un ambito in cui il pun deve essere trattato con particolare cura è quello del testo
teatrale, visto l’effetto che dovrebbe suscitare nel pubblico presente. Ma i giochi di parole non sono solo un
artificio letterario: ci sono culture che usano il gioco di parole più frequentemente di altre nella
comunicazione informale, oltre che nei generi testuali più o meno umoristici (es. il verlan, un modo del
linguaggio giovanile di coniare parole nuove basato sull'inversione delle sillabe).

- il testo mescidato: se il prototesto è caratterizzato dalla compresenza di più codici linguistici si può parlare
di «testo mescidato». La mescolanza linguistica può avvenire a livello di parola o di frase: nel primo caso si
tratta di fenomeni di code-mixing, con frequente inserimento nel testo monolingue di parole in una o più
lingue diverse; nel secondo caso si tratta di fenomeni di code-switching, con l'alternanza di parti di testo
(scritto) o di battute (nel dialogo) in lingue diverse. In traduzione questo mistilinguismo può essere
mantenuto o può perdersi, appiattendosi nel monolinguismo del metatetsto, secondo la strategia traduttiva
adottata. Un traduttore dovrebbe riconoscere e trattare di conseguenza quelle parole che ormai si sono
affermate come forestierismi (es. linguaggio giornalistico o tecnico-scientifico): oggi non dovremmo
preoccuparci di trovare termini settoriali italiani equivalenti ad esempio, visto che ormai questi vocaboli si
sono affermati senza adattamenti. La presenza di più varietà della stessa lingua o di più lingue nello stesso
testo (mediante il passaggio da una lingua all'altra, senza indicarne i confini) è quello che viene definito
«commutazione di codici» (o code-switching). Sempre più spesso in anni recenti vengono pubblicate opere
che usano il plurilinguismo come forma di rappresentazione della realtà, vista la crescente
internazionalizzazione della società e l’esistenza di contesti in cui la comunicazione non avviene più di regola
usando un solo codice. Anche nel teatro e nel cinema il testo può presentare questo fenomeno, sia per
riprodurre un contesto comunicativo plurilingue, sia per ampliare le opportunità stilistico-funzionali (es.
alternanza tra italiano e tedesco nel film La vita è bella)

1.3 STRATEGIE: adottare una strategia comunicativa significa considerare la cooperazione fra traduttore,
destinatario e autore. Per adottare un'opzione traduttiva rispetto ad un'altra il traduttore seleziona fra le
strategie traduttive possibili quelle più adeguate in relazione alle coordinate del testo, alle esigenze dei nuovi
destinatari, alle norme imposte dall'editore o dal committente. Significa tener conto anche delle opzioni
metodologiche che sono a disposizione del traduttore in base alle coordinate individuate; queste scelte
costituiscono il reticolo di operazioni che determina complessivamente la strategia traduttiva che il
traduttore decide di applicare. Può trattarsi di strategie che mirano alla comprensione del testo; strategie
globali o locali (per affrontare un testo nel suo insieme o per risolvere un singolo problema); strategie
specifiche per la traduzione orale, scritta o basata su supporti tecnologici; strategie per risolvere le
problematiche traduttive o per migliorare l'efficacia del processo traduttivo; strategie che mirano
all'apprendimento della traduzione stessa (nell'ambito della formazione). Possiamo distinguere 3 livelli di
intervento che possono rientrare in quella che può essere definita una strategia traduttiva: la scelta
dell’approccio (l’atteggiamento generale con cui affrontare il testo); la scelta del metodo (che permette di
realizzare meglio l’approccio scelto); la scelta delle tecniche (che rispecchiano meglio il metodo scelto
secondo i singoli casi da affrontare).

L’approccio traduttivo dipende dall’analisi del prototesto. I fattori più importanti sono lo scopo del prototesto
e il destinatario del metatesto. Possiamo considerare delle opzioni di fondo: priorità alla forma/priorità al
contenuto; connotazione/neutralizzazione; straniamento/addomesticamento; priorità al prototesto/priorità
al destinatario; visibilità/invisibilità del traduttore.

Da sempre si è dibattuto sulla possibilità (o impossibilità) di separare forma e contenuto, specialmente per
quanto riguarda il testo letterario. Holmes individua quattro tecniche traduttive che, a partire da una poesia,
permettono di realizzare una sua traduzione in versi: traduzione mimetica (la forma del verso della poesia
originale è simile alla forma del verso della metapoesia); traduzione analogica (la forma del verso della
poesia originale e la forma del verso della metapoesia ricoprono la medesima funzione nelle loro rispettive
tradizioni poetico-letterarie di arrivo); traduzione organica (contenuto e forma si combinano e portano a
scelte di contenuto per la metapoesia a cui viene poi adeguata la forma); traduzione estranea (la metapoesia
è calata in una forma non presupposta dalla poesia originaria e il contenuto della metapoesia trae spunto
dalla poesia originale ma non va a determinare la forma della metapoesia, che a sua volta acquista
indipendenza dalla forma della poesia originale). Le prime due soluzioni possono essere considerate tecniche
ascrivibili all'approccio traduttivo orientato alla forma, perché il traduttore cerca nella lingua di arrivo una
forma che sia «equivalente» a quella della poesia di partenza. La prima può realizzarsi in un metodo
traduttivo diretto (stessa forma del verso nel prototesto e nel metatesto), mentre la seconda usa un metodo
obliquo (la forma del verso del prototesto viene resa con una forma diversa, ma corrispondente allo stesso
genere poetico, in modo che il metatesto possa inserirsi in una corrente letteraria funzionalmente
corrispondente nella cultura di arrivo). La terza soluzione è ispirata all'approccio che privilegia il contenuto (in
questo caso il risultato è una metapoesia che utilizza una versificazione diversa dall'originale).

Mantenere le caratteristiche di stile o di lingua che connotano il prototesto rappresenta un'altra scelta di
fondo che comporta poi l'adeguamento di tutti gli interventi del processo traduttivo. In questo caso
l'approccio sarà quello della «connotazione». Se invece la resa per esempio delle varietà di registri, degli
idioletti dei personaggi, ecc. risulta troppo complessa o se queste caratteristiche non si reputano
fondamentali, l'approccio da seguire sarà quello della «neutralizzazione»: il traduttore opterà quindi per l'uso
della lingua standard, rinunciando a riprodurre le varietà del prototesto.

In riferimento alla traduzione di un testo lontano a livello di tempo e di spazio, sono possibili due approccio
opposti: lo «straniamento», che prevede il mantenimento dei riferimenti temporali e spaziali, e
l'«addomesticamento», che si realizza attraverso la sostituzione di equivalenti culturali della cultura
ricevente, sia a livello di tempo che di spazio. Esiste però anche un approccio intermedio, che tende a
rendere neutri i riferimenti tempo-spaziali del prototesto: l’«universalizzazione».

Riprendendo il modello di Newmark che distingue la traduzione semantica e la traduzione comunicativa,


possiamo dire che nel primo caso si può riconoscere un approccio che dà la priorità al prototesto, nel
secondo un approccio antitetico che dà la priorità ai destinatari del metatesto. Anche nella distinzione fra
«decentramento» e «annessione» si rispecchia, da un punto di vista diverso, la stessa dicotomia: con il
decentramento (che dà priorità al prototesto) si instaura un rapporto tra due testi che comporta una presa
di posizione da parte del traduttore a favore della cultura del prototesto; con l'annessione (che dà priorità al
destinatario) si opera come se il testo di partenza fosse scritto nella lingua di arrivo, senza tener conto delle
differenze di epoca, cultura e struttura linguistica: la traduzione sarà un'operazione al servizio dei destinatari.
Un caso in cui la priorità viene sicuramente data ai destinatari è quello del doppiaggio di un'opera
cinematografica (è molto spesso una forma di adattamento più che una traduzione). Anche Christiane Nord
distingue due atteggiamenti opposti nell'affrontare l'operazione del tradurre, a seconda dello scopo per cui
la traduzione viene realizzata: la traduzione a scopo documentaristico è orientata al prototesto nella misura
in cui cerca di renderlo accessibile al lettore mediante note, spiegazioni ecc; la traduzione a scopo
strumentale è orientata al destinatario nella misura in cui intende offrirgli un testo che possa essere
percepito come un originale realizzato nella sua lingua per uno specifico scopo comunicativo.

Negli anni Novanta del secolo scorso la questione dell'atto traduttivo si arricchisce di una nuova prospettiva:
quella dell'opportunità di manifestare o meno l'intervento del traduttore. Venuti denuncia infatti le pressioni
degli editori che per ragioni commerciali pretendono un «addomesticamento» del testo letterario che di
fatto rende il traduttore «invisibile». Venuti mette in luce anche i diversi approcci traduttivi che possono
essere adottati consapevolmente e non subiti (ad es. priorità alla forma, connotazione, straniamento e
priorità al prototesto portano alla visibilità del traduttore; priorità al contenuto, neutralizzazione,
addomesticamento, priorità al destinatario portano all’invisibilità del traduttore).

Ogni metodo traduttivo si realizza attraverso una serie di tecniche traduttive, ciascuna delle quali viene scelta
dal traduttore per risolvere le problematiche emerse dall'interpretazione del testo. Jean-Paul Vinay e Jean
Darbelnet hanno elaborato una descrizione di metodi e tecniche oer la traduzione, nonché primo tentativo
di dare risposta alla necessità di raccogliere in una serie di categorie le scelte operative a disposizione del
traduttore. Essi individuano due metodi per affrontare una traduzione: traduzione diretta (che si realizza
mediante le tecniche del prestito, del calco – trasposizione letterale da una lingua all’altra es. week end; fine
settimana – e della traduzione letterale); traduzione obliqua (mediante le tecniche della trasposizione –
cambiamenti morfosintattici richiesti dalla lingua di arrivo – della modulazione – variazioni dovute a un
cambiamento semantico o di un punto di vista – dell’equivalenza – uso di mezzi stilistici diversi come nel
caso delle frasi idiomatiche che hanno un equivalente nella lingua del metatesto – e dell’adattamento –
dovuti a riferimenti culturali che non esistono nella cultura a cui è destinato il metatesto). Quello preferibile
secondo gli studiosi è il metodo diretto, che in certi casi però non è applicabile: solo in questo caso essi
suggeriscono di ricorrere al metodo obliquio. Queste tecniche si applicano a tutti e 3 i livelli in cui si articola
la lingua (lessico, strutture grammaticali e messaggio); nel caso del messaggio gli autori aggiungono
un’ulteriore tecnica che si collega al fenomeno della perdita di significato, ovvero la compensazione – con cui
viene recuperato nel metatesto utilizzando metodi diversi. Un caso particolare di operazione di
decodifica/ricodifica scritta consiste nella trascrizione di un termine oppure nella sua traslitterazione.
All'inizio degli anni Ottanta del XX secolo il traduttologo canadese Jean Delisle mette a fuoco la differenza fra
i procedimenti traduttivi finalizzati all'apprendimento della seconda lingua («traduzione scolastica») e quelli
finalizzati alla produzione di un testo («traduzione professionale»), illustrando cinque tecniche traduttive,
dalla più autonoma a quella più ancorata al prototesto: traduzione libera (dà più importanza al contenuto del
testo); traduzione idiomatica (metatesto conforme alle convenzioni della lingua di arrivo e con il modo
spontaneo di esprimersi della cultura di arrivo); traduzione letterale (metatesto che mantiene le
caratteristiche formali del prototesto, ma adattandosi alle regole grammaticali della lingua di arrivo);
traduzione parola per parola; traduzione calco (il traduttore trasporta gli elementi del testo di partenza al
testo d'arrivo in modo tale da segnalare i loro aspetti semantici, etimologici e temporali). A integrazione delle
categorie precedentemente individuate vi sono altre tecniche quali la nota (che dà visibilità all’operazione
traduttiva), il glossario (ad esempio per raccogliere i vocaboli problematici), la spiegazione (per chiarire un
riferimento evitando l’uso di una nota), l’aggiunta (di una parte del testo che non sia una spiegazione),
omissione (di una parte del testo), riformulazione (il testo viene rielaborato in maniera sintatticamente
diversa), e l’esplicitazione (introduce informazioni aggiuntive esplicitando gli impliciti che nel prototesto
potevano essere derivati dal contesto, dalla situazione, dalle conoscenze del lettore ecc.).
Possiamo distinguere 8 procedimenti traduttivi antitetici che possono applicarsi al trattamento del lessico:
- equazione vs sostituzione (nel primo caso il traduttore fa ampio uso di calchi e prestiti, mentre nel secondo
tende a sostituire gli elementi estranei con parole di colorito locale a livello semnatico);
- divergenza vs convergenza (nel primo caso si manifesta il rapporto “uno-tanti” cioè quando una data stringa
di testo ha diversi possibili traducenti nell’altra lingua; la convergenza è la strategia opposta);
- amplificazione vs riduzione (aggiunta o eliminazione di parti del testo orginale che portano o eliminano
informazioni di contenuto; es. aggiunta per far sì che il metatesto diventi più comprensibile al lettore,
riduzione nel caso di informazioni che non si possono trasmettere o che risulterebbero incomprensibili o
ridondanti);
- diffusione vs condensamento (espansione o restrizione formale del testo dal punto di vista linguistico; il
primo può essere adottato nel doppiaggio per riempire un vuoto linguistico e risolvere il problema della
sincronizzazione labiale, mentre il secondo è caratteristico della traduzione per i sottotitoli che devono
rendere in forma sintetica il contenuto del testo sonoro);
- riordinamento (adattamento alle regole sintattiche della lingua del metatesto – es. black and white 
bianco e nero)

Ogni approccio traduttivo si realizza in uno o più metodi traduttivi: se l'idea di fondo con cui un traduttore si
accinge alla traduzione del prototesto consiste per esempio nell'adeguamento ai propri destinatari piuttosto
che nel privilegiare la resa fedele del prototesto, si preferirà il metodo della traduzione obliqua o il metodo
della sostituzione di elementi estranei con altri locali; viceversa, se l'approccio prescelto consiste nel dare
visibilità al traduttore o nel portare il lettore verso il prototesto, si preferirà il metodo della traduzione
diretta, che agisce in maniera meno invasiva, per esempio attraverso il prestito o la traduzione parola per
parola. Quando invece le caratteristiche del metatesto lo consentono, il traduttore può agire ampliando o
restringendo la quantità di informazioni da trasferire nel metatesto.

Con il metodo dell’espansione, il metatesto viene ad ampliarsi a livello di forma o contenuto; le tecniche che
permettono di realizzare il metodo della traduzione mediante espansione sono la divergenza, la diffusione
formale e l’amplificazione di contenuto; con il metodo della compressione invece il metatesto si restringe a
livello di forma e contenuto e le tecniche sono la convergenza, il condensamento formale, la riduzione del
contenuto e la cancellazione.

1.4 ETICA: qualsiasi progetto traduttivo non può prescindere dal considerare, oltre alle strategie da
impiegare, anche i margini di libertà di cui dispone il traduttore e le funzioni sociali che il metatesto andrà a
svolgere. Alcune delle questioni relative a questo aspetto riguardano le responsabilità del traduttore.
Possiamo distinguere due tipi di etica in traduzione: nel primo caso si tratta di una «responsabilità testuale»,
nel secondo caso si tratta di una «responsabilità interpersonale». Se consideriamo la traduzione come
servizio, il traduttore ha una responsabilità testuale che riguarda la qualità del testo che produce. Le sue
scelte saranno quindi moralmente legate al rispetto di un rapporto «etico» con le parole del testo. Se
consideriamo invece l'etica basata sulla professione del traduttore, questa riguarda la responsabilità
interpersonale, ovvero i rapporti che questi intrattiene con il mondo esterno al testo e con l'autore, il
committente, i destinatari traduzione, i colleghi, ecc.). Si tratta qui di una responsabilità nei confronti delle
persone, con cui il traduttore è tenuto a mantenere rapporti moralmente corretti. Le questioni di
responsabilità interpersonale riguardano anche i diritti e i doveri del traduttore dal punto di vista «esterno»:
da una parte la tutela del suo diritto di autore e dall’altra le sue responsabilità civili. Le responsabilità del
traduttore si trovano espresse nei codici deontologici elaborati da varie associazioni di categoria: ad esempio
ricordiamo l’Associazione Italiana Traduttori e Interpreti che individua alcuni doveri di fondo, come lealtà e
correttezza, diligenza, segretezza e riservatezza, competenza, aggiornamento professionale, importanza di
non manifestare la propria ideologia politica; ma anche la responsabilità verso i committenti e il rapporto di
fiducia che deve instaurarsi tra le due parti. La responsabilità del traduttore è quindi una questione
prettamente morale. Il traduttore è una figura essenziale perché è attraverso la sua opera che possono
essere trasmessi stereotipi culturali o, al contrario, possono essere criticate alcune maniere di guardare ciò
che sta fuori dei nostri confini. Per questo Venuti si batte per dare visibilità all'intervento del traduttore
editoriale, nonostante le pressioni dagli editori. Dando per scontato che la traduzione letteraria è una forma
di «riscrittura», emergono chiaramente le responsabilità del traduttore sull'evoluzione del canone stilistico
della cultura ricevente: il traduttore, secondo Venuti, ha dunque il dovere etico di mostrare la sua presenza
attraverso l’approccio traduttivo dello straniamento come forma di dissidenza e di resistenza alle idiologie
dominanti, anche a costo di sacrificare in parte la scorrevolezza nella sua opera. L'ideologia della cultura
dominante infatti interferisce fortemente sull'attività del traduttore: sotto i regimi dittatoriali la traduzione di
ogni tipo è stata pesantemente soggetta a censure e imposizioni; i traduttori e gli interpreti sono parte
integrante del sistema bellico, a cui partecipano direttamente, sia che contrastino il regime, sia che
contribuiscano a far circolare le idee. Non bisogna dimenticare quindi che la traduzione detiene un forte
potere nella costruzione delle identità nazionali, nella discriminazione etnica, nel colonialismo, nel
terrorismo, nelle guerre. Ideologia e etica traduttiva sono temi ricorrenti quando si parla di traduzione in
ambito postcoloniale. Secondo la filosofa Spivak infatti, per poter cancellare tutte le allusioni e i costrutti
semantici di una data parola bisogna decostruirla, ovvero ri-consegnare dignità alle parole finora connotate
negativamente e porre fine così agli scandali di traduzione. Forme di censura moralizzatrice in traduzione
emergono anche quando non si è sotto una vera e propria dittatura: attraverso ad esempio adattamenti e
cancellazioni di temi o immagini tabù per la cultura di arrivo, commissionati dall’editore per rendere il
prodotto adatto ai nuovi pubblici.

PARTE SECONDA – Testi e contesti per la mediazione scritta, orale e trasmessa

Tradurre è un atto concreto che nasce dall'interpretazione di un testo in base alle sue coordinate contestuali
e si realizza attraverso la negoziazione delle opzioni traduttive per permettere la trasmissione del messaggio
a destinatari di lingua e cultura diversa rispetto a quelli per i quali era stato originariamente realizzato. Un
testo è da intendersi dunque come una unità di comunicazione, strutturata in un insieme di enunciati,
prodotta da un emittente per un destinatario in una data situazione comunicativa, utilizzando un
determinato canale e un determinato codice; un testo è una occorrenza comunicativa che soddisfa sette
condizioni di testualità. Quando una di queste condizioni non è soddisfatta, il testo non ha più valore
comunicativo. Tali condizioni di testualità sono: la coesione (il modo in cui le componenti del testo sono
collegate fra loro); la coerenza (gli anelli di congiunzione fra i concetti sottesi al testo); l'intenzionalità (il fine
comunicativo che l'emittente vuole raggiungere); l'accettabilità (il sistema di attese del destinatario);
l'informatività (la misura in cui gli elementi testuali noti o sconosciuti ai destinatari); la situazionalità (i fattori
che rendono un testo rilevante per la situazione comunicativa in cui compare); l'intertestualità (i fattori che
fanno dipendere l'utilizzazione di un testo dalla conoscenza di altri testi).

Una classificazione del testo di tipo «funzionalista» è quella proposta da Werlich, secondo il quale bisogna
considerare 3 variabili fondamentali: lo scopo, il destinatario e le circostanze in cui avviene lo scambio
comunicativo. Lo scopo è la variabile fondamentale. Egli individua quindi 5 tipi testuali: il testo narrativo
(mette a fuoco le azioni e la loro percezione lungo l'asse temporale); il testo descrittivo (mette a fuoco gli
oggetti e i fenomeni visti in un contesto spaziale); il testo argomentativo (mette a fuoco le relazioni fra
concetti in base a giudizi e motivazioni; il testo espositivo o «informativo» (mette a fuoco la comprensione
dei concetti attraverso l'analisi e la sintesi e ha lo scopo di arricchire le conoscenze del destinatario su un
determinato problema; il testo regolativo (mette a fuoco il comportamento futuro dell'emittente e dei suoi
destinatari, cercando di influenzarlo – ad esempio per far rispettare delle regole – e richiede che il
destinatario riconosca l'autorità dell'emittente). Tuttavia, nella realtà è difficile trovare un tipo testuale
«puro», visto che in uno stesso testo più funzioni possono anche coesistere. Ogni tipo di testo può realizzarsi
in una serie di generi testuali, cioè configurazioni testuali tipiche e riconoscibili all'interno di ogni
lingua/cultura, ritenute per convenzione appropriate a una determinata occasione sociale e caratterizzate da
forme e funzioni culturalmente specifiche.
Un'altra classificazione dei testi è quella «pragmatica» di Sabatini, che propone di catalogarli in base al loro
grado di rigidità/esplicitezza, oltre che alla funzione per cui sono stati prodotti. Alla base di questo modello
sta la convinzione che un testo vada interpretato alla luce delle intenzioni comunicative dell'autore e della
cultura in cui è stato creato. Sabatini suddivide i testi in 3 categorie fondamentali: testi con discorso molto
vincolante (hanno anche un grado massimo di esplicitezza e rigidità e sono detti infatti anche «testi chiusi» -
es. i testi settoriali); testi con discorso mediamente vincolante (es. i testi espositivi, divulgativi); testi con
discorso poco vincolante (hanno anche un grado minimo di esplicitezza e rigidità e sono detti infatti anche
«testi aperti» - es. i testi letterari in prosa e poesia). La diversa esplicitezza e rigidità di un testo dipende dalla
struttura del testo, dalla coerenza logica, dall'uso dei legamenti, dall'uso della punteggiatura e dalla struttura
del paratesto. Mary Snell-Hornby invece fonda il suo approccio integrato su un quadro teorico che ha lo
scopo di abbracciare tutti i tipi traduttivi, individuati secondo una serie di assi di variazione. Il primo asse
comprende 3 macroaree: la traduzione letteraria, la traduzione generalista e la traduzione specializzata.
Ciascuna di queste aree non va considerata come un settore chiuso, bensì come un ambito dai confini
sfumati che vanno dalla massima «apertura» interpretativa alla massima «chiusura interpretativa». Ma
partire solo da criteri di tipologia testuale non basta: i contesti stessi in cui si realizza una traduzione sono
spesso particolarmente rilevanti e determinano specifiche problematiche da risolvere nel processo
traduttivo. Testi e contesti si intersecano dunque in una serie di combinazioni possibili.

Una tassonomia di tipologie traduttive, basata sui diversi canali comunicativi, permette di tenere conto di
queste variabili: le variabili diamesiche della lingua (scritta, orale e trasmessa); la loro combinazione con altri
codici comunicativi oltre a quello verbale (le immagini - codice iconico - e la musica - codice melodico); la
rilevanza del contesto comunicativo sulla realizzazione e sull'esito stesso della traduzione. In base a questi tre
parametri possiamo distinguere così tre macrotipi testuali in funzione traduttologica: la traduzione scritta (i
testi tradotti per essere letti); la traduzione multimediale (i testi tradotti che raggiungono il destinatario
attraverso il canale verbale e/o sonoro-visivo – es. fumetto); la traduzione orale e trasmessa (testi tradotti
oralmente nell'interazione in presenza o a distanza – es. interpretazione simultanea). I generi testuali che
interessano la traduzione possono essere categorizzati anche in base ai diversi gradi di asimmetria
comunicativa fra autore e traduttore. Il massimo grado di asimmetria, che comporta anche la scelta di
strategie traduttive orientate verso il testo di partenza, riguarda ad esempio il testo sacro; anche il testo
letterario (narrativo, poetico, teatrale) pone il traduttore di fronte al compito di misurarsi con l’autore verso
cui nutre un rispetto tanto maggiore quanto più grande è la sua fama: via via che si riduce il divario fra
autore e traduttore emergono forme di negoziazione sotto forma di opzioni traduttive (dalla rielaborazione
autonoma del testo fonte alla traduzione che abbellisce il testo di partenza in funzione dei propri lettori).
Diverso è il caso del testo tecnico-settoriale, in cui l’asimmetria riguarda piuttosto le competenze
specialistiche sulla materia, e le strategie traduttive riguardano piuttosto la dimensione testuale e quella più
prettamente lessicale, tipica dei linguaggi tecnico-specialistici. Un rapporto più paritario fra emittente e
traduttore emerge nella traduzione di trattativa e di comunità: qui la mediazione consiste nel giungere ad un
accordo e la traduzione rappresenta solo una componente fra le alte, di natura anche psicologica se non
addirittura di contenuto (non è raro il caso dell'interprete che partecipa in maniera attiva all'elaborazione
collaborativa del discorso). Infine, la traduzione audiovisiva (per il doppiaggio o per i sottotitoli), la traduzione
del testo cantato e la traduzione del testo in Rete vedono spesso un vero e proprio ribaltamento dei ruoli:
dato che in questi casi il destinatario del metatesto è il fulcro di tutta l'operazione traduttiva e che lo scopo
primario è quello di ottenere un messaggio vincente per un nuovo pubblico, la traduzione sconfina
nell'adattamento e diventa vera riscrittura.

- Il testo sacro: si intende il libro direttamente ispirato da Dio o dal fondatore di un movimento religioso, di
cui esprime il pensiero, talvolta raccolto di prima mano dai fedeli. Il testo sacro è per definizione un testo
scritto che nel caso delle grandi religioni risale a epoche remote ed è stato tramandato di generazione in
generazione: ricordiamo la Bibbia ebraica, quella cristiana, il Corano, i 3 Canoni della religione buddista ecc.
Esistono poi i testi religiosi che trattano di temi legati alla fede e che sono prodotti da persone più o meno
competenti di temi sacri: in questo caso si tratta di testi “specialistici” che ben poco hanno a che vedere con
le problematiche relative alla traduzione delle Sacre Scritture. Il testo religioso è piuttosto un testo settoriale
che tratta di argomenti sacri ed è legato ad una terminologia rigorosamente codificata. La traduzione del
testo sacro è stata uno dei punti di riferimento delle teorie e della pratica della traduzione attraverso i secoli,
in particolare per quanto riguarda le grandi religioni che si sono diffuse presso popoli di lingue e culture
diverse rispetto a quella che le aveva generate. In Oriente la traduzione del testo sacro era tradizionalmente
improntata ad una esigenza pratica di divulgazione della religione buddista. L'adattamento del testo era
funzionale agli scopi, il traduttore doveva tener conto dei suoi interlocutori e poteva adattare il testo sacro
senza preoccuparsi eccessivamente della fedeltà all'originale. Diversamente, in ambito mussulmano, la
parola divina espressa nel Corano è considerata sacra al punto da essere indissolubilmente legata alla lingua
in cui è espressa (arabo classico): dunque, è per principio intraducibile. Tuttavia, visto che i mussulmani nel
mondo sono solo in minima parte arabofoni, quest'opera è stata comunque tradotta nei secoli in molte
lingue. In Occidente, invece, la traduzione della Bibbia nell'ambito delle religioni ebraica e cristiana, presenta
una realtà basata sul rispetto devoto e assoluto per l'originale, e solo in secondo luogo alla sua
comprensibilità in funzione dei destinatari. Il concetto di «fedeltà» alla Parola Divina ha tenuto a lungo i
traduttori ancorati alla necessità di allontanarsi solo il minimo indispensabile dalla forma dell'originale. La
traduzione della Bibbia ha rappresentato sempre una sfida per i traduttori: le differenze interlinguistiche
formali emergono nel passaggio dal sistema linguistico del prototesto a quello del metatesto quando, per
mantenere «la più vicina equivalenza naturale», è necessario cambiare la classe di parole, le categorie
grammaticali, la disposizione delle parole; le differenze interculturali e diacroniche emergono invece in
relazione all'epoca e al luogo in cui vissero gli autori o ispiratori della Sacra Scrittura: si possono infatti
verificare casi in cui le informazioni nel prototesto sono assenti, implicite, ambigue (quindi da esplicitare nel
metatesto) o esplicite (da trattare diversamente nel metatesto per evitare una eccessiva ridondanza.
L’esegesi del testo biblico, cioè l’interpretazione di un brano alla luce della cultura biblica e del contesto
comunicativo in cui è stato prodotto, permette di approfondire certi casi. Un altro caso di difficoltà riguarda
la traduzione del lessico generico, basato sul riconoscimento di caratteristiche comuni che non sempre
hanno lo stesso tipo di corrispondenza fra una lingua-cultura e un'altra (ad es. è più facile tradurre il lessico
dell'Apocalisse, concreto e specifico anche se pieno di simboli oscuri nel significato, rispetto al lessico
generico che abbonda nel Vangelo). Difficoltà nella traduzione del lessico si incontrano nella Bibbia quando:
un termine non esiste nella lingua di arrivo, ma la sua funzione viene svolta da un altro; il termine esiste
anche nella lingua di arrivo, ma con funzione diversa; il termine non esiste nella lingua di arrivo e non ne
esiste neppure un altro che svolga la stessa funzione, obbligando alla tecnica del prestito. Un'area altrettanto
problematica nella traduzione della Bibbia riguarda le metafore e le espressioni idiomatiche, tutte
fortemente legate al contesto in cui furono elaborate e difficilmente esportabili. In questi casi la traduzione
da sola non basta e sono necessari dei chiarimenti legati al contesto in cui è nata la metafora stessa. Con il
concilio Vaticano II (1965), che ha promosso l'uso delle lingue locali nelle celebrazioni liturgiche, è stato dato
un impulso ulteriore alla traduzione: da quel momento proliferano le traduzioni liturgiche in lingua
«vernacolare» e vengono anche riviste le preghiere liturgiche alla luce delle nuove norme in materia di
traduzione emanate dalla Chiesa (“il lessico prescelto per una traduzione liturgica deve essere al contempo
di facile comprensione per la persona ordinaria ed espressivo della dignità dell'originale, un linguaggio
finalizzato alla lode e al culto che esprima reverenza e gratitudine per la gloria di Dio. […] la lingua liturgica
può divergere dal parlato ordinario, ma rifletterne allo stesso tempo gli elementi migliori; sviluppando in un
determinato contesto culturale un volgare dignitoso, atto ad essere destinato al culto”). Il modo di
rapportarsi al testo sacro quindi è diverso nelle varie società e nelle varie religioni. In ambito cristiano,
differiscono fortemente le competenze richieste al traduttore biblico a seconda che sia di area cattolica o
protestante: all'interno del mondo protestante vengono fatti studi su un metodo di interpretazione che
evidenzia la natura umana della Bibbia, la quale viene interpretata alla luce del contesto storico, sociale,
culturale nel quale operavano gli scrittori biblici. Fondamentale appare dunque la contestualizzazione del
messaggio; anche nel mondo cattolico, nonostante una maggiore rigidità dovuta al controllo della Chiesa,
studi biblici hanno in alcuni casi evidenziato l'esistenza di contraddizioni e errori traduttivi. Infatti secondo il
Concilio Vaticano II la Bibbia non è un trattato di storia, scienza o geografia, ma è un testo che ha come fine
la salvezza della persona: questa sola è la verità che la Bibbia intende trasmettere e che va in essa cercata.
Negli anni Cinquanta-Settanta del XX secolo, nel dibattito sulle teorie della traduzione si innesta un'ulteriore
questione legata al testo sacro: Nida intende la traduzione della Bibbia e dei Vangeli come una
manifestazione dello scopo di evangelizzazione della Chiesa. La forma è secondaria rispetto all'obiettivo,
perciò è da preferire l'approccio attualizzante (il testo viene spostato verso il lettore e non viceversa); al
contrario Meschonnic pensa a un traduttore del testo sacro che, non avendo come obiettivo la diffusione
della dottrina cristiana, deve essere capace di garantire un accesso filologico all'originale (storicizzazione). Il
testo sacro oggi viene tradotto da gruppi di specialisti biblisti che lavorano tenendo conto di vari fattori: i
progressi fatti dalla ricerca biblica, sempre più attenta ai testi originali; l'apporto delle scienze ausiliari come
la linguistica o l'antropologia culturale; l'evoluzione della lingua e i fenomeni sociali a livello sociolinguistico;
la necessità di far comprendere il testo anche a parlanti non di madrelingua.
- il testo narrativo: i fenomeni letterari si possono dividere in due classi principali: le opere letterarie (poesia,
narrativa, teatro); la critica letteraria (gli scritti su opere prodotte da altri, che utilizzano un «linguaggio
secondario»). Nel primo caso si tratta di opere letterarie in senso stretto, caratterizzate dalla creatività dei
singoli autori, dalle convenzioni stilistiche dei generi letterari a cui appartengono; nel secondo caso si tratta
invece di testi specialistici della critica letteraria, codificati a livello di terminologia tecnica. La differenza
fondamentale riguarda le caratteristiche intrinseche legate alla loro diversa testualità: il testo letterario è un
«testo aperto», cioè «poco vincolante», nel senso che le interpretazioni possibili sono lasciate al lettore,
mentre il testo della critica letteraria è un «testo chiuso», cioè «molto vincolante», in quanto tende ad una
maggiore univocità interpretativa. In realtà i confini fra generi letterari (specialmente quelli fra prosa e
poesia) sono talvolta piuttosto vaghi e il testo letterario si caratterizza piuttosto per il ritmo o per le scelte
stilistiche e lessicali. Bisogna sottolineare l’importanza di conoscere le coordinate spaziali e temporali del
testo, cioè il «cronòtopo», nel quale sono incluse anche le coordinate culturali e psicologiche di un testo: in
un testo letterario narrativo infatti si possono riconoscere il cronotopo dell'intreccio (cioè la lingua della
narrazione e del narratore); il cronotopo psicologico (che riguarda l'«aura espressiva dei personaggi»); il
cronotopo metafisico (che riguarda il lessico dell'autore). Per illustrare le coordinate del contesto
indispensabili per procedere a qualsiasi attività di traduzione, Christiane Nord utilizza invece una serie di
domande che il traduttore dovrebbe porsi sul prototesto prima di procedere alla realizzazione del metatesto:
chi? (la personalità dell’autore), a chi? (le caratteristiche del destinatario-modello), a quale scopo? (la
traduzione dovrebbe preservare l’intenzione dell’autore, ma è inevitabile che la funzione del testo subisca
cambiamenti quando viene proiettato in una cultura diversa), dove e quando? (le coordinate spazio-
temporali), come? (il canale di trasmissione), perché? (le motivazioni che hanno spinto l’autore a scrivere il
prototesto). Il procedimento traduttivo inizia sempre come un'operazione intersemiotica: mentre leggiamo,
le parole vengono trasformate in materiale mentale, fino a quando questo si «ristruttura» nel metatesto. La
lettura è già una prima interpretazione, perciò possiamo affermare che non traduciamo testi, ma
produciamo solo interpretazioni di questi. Il trattamento del testo letterario è stato oggetto nel corso dei
secoli di intense discussioni in cui le teorie traduttive si sono contrapposte; possiamo riconoscere due
atteggiamenti ben documentati nella traduzione letteraria scritta: la traduzione artistica (come adattamento
dei testi letterari di altre culture, da rimaneggiare secondo l'estro del traduttore); la traduzione letterale (di
cui il traduttore dovrà solo cercare di riprodurre «fedelmente» gli aspetti stilistici e di contenuto). Vi sono
dunque diversi approcci traduttivi, determinati dalla necessità di scegliere se e come attualizzare o
storicizzare un prototesto realizzato in un'epoca lontana; neutralizzare o connotare se il prototesto utilizza un
linguaggio substandard (es. dialetto); dare visibilità all'intervento del traduttore. Le preoccupazioni
fondamentali del traduttore letterario invece riguardano l'interpretazione del prototesto, la riscrittura del
metatesto e la ricezione del testo tradotto da parte dei lettori. Secondo Anton Popović (1975) le scelte
traduttive sono determinate anche dai rapporti di forza fra la cultura del prototesto e la cultura alla quale è
destinato il metatesto, ovvero: la preponderanza della diffusione e della forza internazionale della cultura del
prototesto; preponderanza della diffusione e della forza internazionale della cultura del metatesto; parità
della diffusione e della forza internazionale delle due culture. Un altro problema specifico della traduzione
letteraria concerne la necessità per il traduttore di riconoscere il genere letterario a cui appartiene il
prototesto e di decodificare i riferimenti culturali impliciti destinati a un lettore-modello che condivide con
l'autore una serie di preconoscenze. Il traduttore può decidere quindi di inserire una nota esplicativa in cui
chiarisce i riferimenti culturali, sostituire il richiamo con un'espressione equivalente nella lingua di arrivo
(strategia dell'attualizzazione e dell'«invisibilità del traduttore»), tradurre alla lettera senza spiegazioni
aggiuntive (conseguente possibile effetto straniante sui lettori).

Un testo letterario con caratteristiche peculiari è quello che si rivolge ai bambini. Bisogna considerare prima
di tutto le caratteristiche dei destinatari, individuati in base all’età nonché ai temi e al linguaggio più
adeguato. Possiamo considerare tre fasce di destinatari: prima infanzia (0-4 anni); bambini (5-12 anni);
adolescenti (13-18 anni). Si tratta spesso di testi che abbinano la parola scritta alle immagini e danno
particolare rilievo al ritmo della voce, avvicinandosi per molti aspetti ad altri testi multimediali. Il dialogo è
una caratteristica tipica di questi testi, il quale può anche imitare il parlato infantile e il baby-talk. Chi scrive
testi per bambini, specialmente nel caso della prima infanzia, tiene conto del fatto che verranno letti ad alta
voce e punta quindi a trasferire nella scrittura quei tratti dell'oralità che possano renderne gradevole
l'ascolto (dalle onomatopee, ai giochi di parole ecc). Le immagini sono un'altra componente fondamentale.
Fra i tipi testuali la narrazione e la descrizione sono quelli più rappresentati, che si servono di particolari
canoni stilistici (es. «atemporalità» nelle fiabe italiane). Le rime e le espressioni fisse sono un ulteriore tratto
peculiare che conferisce un particolare ritmo alla narrazione, oltre a facilitare la memorizzazione;
specialmente nelle fiabe tradizionali si nota una tipica fissità degli schemi ricorrenti che rende simili fiabe
nate in tempi e luoghi lontani: l'atmosfera irreale, la natura eccezionale dei personaggi, l'intreccio ecc. Ogni
cultura dispone di una serie di testi di culto specifici per l'infanzia, sia di tradizione locale, sia a diffusione
internazionale. A quest'ultimo gruppo vanno annoverate ad esempio le favole di animali scritte in greco da
Esopo o le fiabe tedesche dei fratelli Grimm. A livello locale più ristretto esistono filastrocche, fiabe,
leggende che costituiscono una sorta di collante generazionale. In Italia non esiste un corpus di testi per la
prima infanzia che possa dirsi tipicamente italiano, solo tra il 1880 e il 1920 la letteratura italiana per
l’infanzia ha avuto una straordinaria fioritura (ricordiamo Le avvenuture di Pinocchio di Collodi o Cuore di
Edmondo De Amicis). La letteratura per l'infanzia prosegue il suo corso nell'Italia del Novecento con una
caratteristica che la contraddistingue fino ai nostri giorni: il rispetto degli usi corretti della lingua anche in
epoche in cui la narrativa nazionale è più propensa al plurilinguismo e allo sperimentalismo. Nonostante
questa lunga tradizione, le ultime generazioni di bambini e ragazzi italiani nati intorno alla metà degli anni
Novanta del secolo scorso, hanno affiancato (e spesso sostituito) la lettura precoce di questi testi con quella
dei più recenti successi editoriali internazionali: i bambini italiani, come quelli di altri Paesi, sono nati e
cresciuti dunque su testi tradotti e la lingua nazionale su cui si sono formati è stata quella dei traduttori. La
narrativa per l'infanzia è da sempre soggetta a interventi particolarmente invasivi, con drastiche riduzioni,
manipolazioni e adattamenti realizzate in funzione dei destinatari. Questo tipo di testi inoltre presenta
particolari difficoltà traduttive: fra le caratteristiche interne al testo possiamo ricordare i nomi di personaggi
e di luoghi inventati che necessitino di traduzioni o adattamenti in quanto segnali di connotazione; i realia
che rimandano al mondo del bambino, che difficilmente potranno essere lasciati inalterati se il destinatario
del metatesto fa riferimento ad un contesto diverso; gli impliciti culturali, le metafore e i richiami
intertestuali che alludono alle esperienze dei destinatari del prototesto e che vanno rapportate
all'enciclopedia del mondo dei nuovi destinatari; l’umorismo spesso associato ai giochi di parole, alle rime, ai
neologismi ecc. che rispecchiano la funzione ludica del linguaggio tipica dell'infanzia; la dimensione visiva
spesso associata a quella verbale, che trasmette messaggi su cui il traduttore non può intervenire e che
vanno armonizzati; la dimensione orale di fondo che costringe il traduttore a tener conto delle convenzioni
della cultura ricevente; le formule fisse e la testualità tipica dei generi letterari per l'infanzia che rispecchiano
canoni narrativi diversi da cultura a cultura. Esistono anche altre caratteristiche esterne che rendono questi
testi problematici per i traduttori: le esigenze dei destinatari primari divisi in fasce di età, ognuna delle quali
è caratterizzata da particolari gusti, conoscenze e competenze; le esigenze dei destinatari secondari, cioè gli
adulti che valutano e selezionano i libri; le esigenze dell'editore che commissiona il lavoro di traduzione.
Quando il progetto traduttivo si rivolge a un pubblico di bambini e ragazzi, il traduttore adotta in primo luogo
l'approccio che dà la priorità al destinatario, tende a rendersi invisibile realizzando una traduzione scorrevole,
ispirata al principio dell'addomesticamento piuttosto che a quello dello straniamento. Solo attraverso scelte
traduttive ispirate all'adattamento, infatti, si possono sciogliere i nodi dovuti alla necessità di considerare al
tempo stesso il lettore adulto e il lettore bambino, nonché i diversi contesti e le varie modalità di fruizione.

Un altro tipo di testo narrativo che presenta particolari problematiche per i traduttori è quello della
letteratura postcoloniale e della letteratura dei migranti: riconoscere i segnali di tali identità e riprodurli (se
possibile) in traduzione rappresenta spesso una sfida particolarmente ardua. Il prototesto in questi casi è
infatti il luogo privilegiato in cui tali segnali di identità composite si manifestano con vigore, dando luogo ad
una forma di testo «meticcio». La letteratura postcoloniale comprende le opere scritte in inglese, francese,
portoghese, spagnolo da scrittori nati e cresciuti nelle ex colonie; è una forma estetica caratterizzata
dall'ibridismo linguistico e dall'intertestualità. Essa è spesso intrisa di resistenza ideologica, politica e
culturale, e ha il fine ultimo di ricostruire una comunità autoctona frantumata dalla storia coloniale; dal
punto di vista sociolinguistico è chiaro che gli scrittori postcoloniali riflettono nelle loro opere un uso ibridato
e substandard delle lingue di colonizzazione. Le vicende storiche e sociali dei Paesi coloniali influiscono infatti
sulla stessa lingua trasformandola. La scelta della lingua in cui esprimersi è di massima importanza per
l'autore postcoloniale, che ne fa spesso un uso «non neutro». Uno degli effetti più importanti dell'incontro
fra lingue e culture diverse nell'epoca coloniale è stato quello di generare una realtà linguistica molto
variegata dando vita a molteplici lingue creole, ovvero lingue composte nate dal contatto fra elementi
linguistici completamente eterogenei. Per questo, anche se scrivono e si esprimono nella lingua imposta
dagli imperi europei durante la colonizzazione, tendono però a manipolarla nel tentativo di reinventarla per
meglio descrivere la propria realtà, trasformandola in una lingua meticcia. Tradurre la letteratura
postcoloniale è dunque un’operazione particolarmente delicata. Gli ibridismi linguistici non caratterizzano
solo le società postcoloniali: ne sono intrise anche le letterature dei migranti, con una serie di specifiche
connotazioni linguistiche, culturali e identitarie. L'ibridismo linguistico e culturale è una caratteristica
intrinseca di questa condizione di «gente di frontiera», ma molti altri luoghi del mondo sono segnati da
questa condizione di marginalità. In certi Paesi il fenomeno delle letterature di scrittori migranti che si
servono di una lingua diversa dalla propria madrelingua è ormai una realtà ben presente, in altri Paesi invece
questa realtà non è ancora emersa in tutta la sua rilevanza a causa di una immigrazione più recente. In Italia,
per esempio, solo da poco sono nate le prime case editrici dedicate alle letterature immigrate. Le parole
chiave per sintetizzare alcune delle caratteristiche che accomunano i fenomeni della letteratura
postcoloniale e migrante sono: plurilinguismo, marginalità, diversità. Lo scrittore che non intende appiattirsi
sulla cultura del Paese ospitante in cui non si riconosce totalmente o che addirittura la rifiuta in quanto
«oppressore» ne usa comunque la lingua ma in maniera riconoscibile e autonoma: proprio attraverso la
lingua farà sentire la sua estraneità. Nella traduzione della letteratura postcoloniale gli aspetti letterari si
intrecciano con quelli linguistici e sociali e in tutto ciò il traduttore ha un ruolo cardine, in quanto emergono
problemi e scelte traduttive specifiche che mettono alla prova le strategie a disposizione. Anche la
traduzione della letteratura migrante pone altri problemi, ad esempio come riprodurre la condizione di
marginalità anche linguistica vissuta dagli emigrati nel Paese di accoglienza. Il traduttore si troverà di fronte a
scelte traduttive che riguardano l'individuazione e l'interpretazione dei neologismi e delle forme standard e
substandard del prototesto; poi si tratterà di rappresentare la diversità senza caratterizzarla
qualitativamente; evitare per quanto possibile i «falsi» grammaticali nella lingua del metatesto; tener conto
della varietà linguistica dell’originale e valutare se si tratta di una dominante che intende esprimere
localismo o rifiuto di standard legati all lingua e alla cultura del prototesto; valutare le scelte in base al
contesto socioculturale in cui si inserisce il metatesto in relazione al proprio lettore. Il traduttore letterario è
dunque un mediatore fra due testi e due culture; è anche un fine conoscitore della letteratura a cui
appartiene il prototesto e di quella in cui andrà a inserirsi la propria traduzione. Non solo: dovrà conoscere a
fondo l’autore ma anche gli studi critici, e dovrà avere competenze che rimandano alla linguistica, all'analisi e
interpretazione del testo letterario e alla letteratura comparata oltre che alla traduttologia. A differenza di
quanto accade per la traduzione del testo settoriale o audiovisivo, è fondamentale che il testo letterario sia
tradotto da un unico traduttore, che si faccia carico di tutto il sistema di rimandi intratestuali
consapevolmente adottato. Deve trattarsi di una persona dotata di buone doti di scrittore nella lingua in cui
traduce, deve avere una sensibilità linguistica e artistica, determinata da una parte dalla sua capacità di
interpretazione e dall’altra dalla sua familiarità con la lingua e cultura in cui il metatesto verrà ad inserirsi.
Oltre alle competenze professionali si aggiunge poi una competenza psicologica e esperenziale, che
permette di decidere personalmente a quale lettore modello fare riferimento e di conseguenza orientare a
questo la realizzazione del metatesto.
- il testo poetico: ha una struttura molto complessa, le cui componenti, sebbene isolabili (fonologia, ritmo,
rima, ordine delle parole) acquisiscono significato solo nel loro rapporto con gli altri elementi del testo
stesso. Testo aperto per eccellenza, intrinsecamente legato al processo interpretativo del lettore, il testo
poetico è però anche un «atto di discorso» con un emittente (cioè la «persona poetica» che è sempre
«altra» rispetto alla persona storica e biografica dell'autore), uno o più destinatari, un canale (quello scritto)
e un codice (lingua in versi). Secondo Lotman, «la complessa struttura artistica permette di trasmettere un
volume di informazione che sarebbe assolutamente impossibile trasmettere con i mezzi della struttura
linguistica normale»: tutto questo mette in risalto la sfida traduttiva che si presenta ogni volta che un testo
poetico viene ricreato in un'altra lingua, per un'altra cultura. Holmes osserva che oltre alle opere letterarie
(narrative, poetiche e teatrali) e alla critica letteraria, esistono anche altri generi «metaletterari» relativi alla
poesia: il saggio critico redatto nella stessa lingua della poesia, il saggio critico in un'altra lingua, la traduzione
in prosa, la traduzione in versi (metapoesia), l'imitazione, la poesia sulla poesia e la poesia ispirata alla
poesia. La metapoesia è il punto di incontro di relazioni convergenti che provengono da due diverse
direzioni: la tradizione poetica della lingua di partenza e la tradizione poetica della lingua di arrivo. Il
problema fondamentale è la scelta della forma in versi più appropriata per la metapoesia, fra le seguenti:
mimetica, analogica, organica, estranea. Le prime due soluzioni sono derivate dalla forma, perché il
traduttore cerca nella lingua di arrivo una forma «equivalente» a quella della poesia originale. La terza è
derivata dal contenuto, mentre la quarta è deviante sia dal contenuto che dalla forma dell'originale. La
traduzione mimetica è adatta quando ci si rivolge a un pubblico molto aperto ad accogliere nuovi generi;
essa infatti provoca nel lettore una sensazione di estraneità dando la consapevolezza di leggere un testo
lontano dalla propria tradizione poetica; la traduzione analogica è ispirata all’approccio
dell’addomesticamento e permette di neutralizzare la poesia e di assorbirla nella propria tradizione poetica:
il traduttore deve valutare l’effetto che la poesia originale ha nella sua cultura e scegliere la forma che
provoca lo stesso effetto sul pubblico della lingua d’arrivo; la traduzione organica prende come punto di
partenza il contenuto della poesia e il materiale semantico, a cui la forma della metapoesia deve essere
subordinata; la traduzione estranea infine è caratterizzata da una maggiore libertà nel trasferire il significato
della poesia alla metapoesia, con un minimo adattamento alla propria cultura formale: è la metapoesia che
più si avvicina alla traduzione per imitazione. Lefevere propone 7 strategie di traduzione poetica: fonemica
(legata al suono dell'originale, più che al significato); letterale (attenta al contenuto semantico a scapito del
valore letterario); metrica (che conserva la metrica originale, a scapito del significato e della sintassi); in prosa
(attenta al significato con perdita del suono poetico); rimata (che cerca di riprodurre ritmometrico e rima);
con verso libero (che permette talvolta una maggiore accuratezza e «fedeltà» all'originale); interpretazione
(che mira a conservare il senso cambiando la forma, oppure si ispira all'originale ma senza ripeterne il senso
e la forma («imitazione»). Quando si traduce un testo poetico, l'enfasi può essere posta su un elemento o un
altro, anche se meglio sarebbe considerare la poesia come un insieme organico. Il dilemma traduttivo
consiste nella scelta tra le tecniche che permettono di realizzare una di queste opzioni: creare un testo che
dia la possibilità al lettore di accedere all'originale; creare un testo poetico ispirato all'originale; adottare una
prospettiva «olistica» ricreando una metapoesia che colga e restituisca l'originale come un tutto unico.
Un'opinione molto diffusa, oltre a quella che la poesia sia intrinsecamente «intraducibile», riguarda la figura
stessa del traduttore che a detta di molti può essere solo un poeta. Non così la pensano i traduttori e gli
studiosi che sostengono invece l'importanza della traduzione di servizio, più attenta all'interpretazione
dell'originale e ad un rapporto meno paritario fra l'autore e il traduttore. Se si abbandona il concetto di
traduzione poetica come riproduzione dell'originale e si considera il metatesto come una creazione unica, la
traduzione poetica è allora sicuramente possibile: “bisogna considerare la traduzione letteraria come un
processo, che vede fiorire non originale e copia ma due testi forniti entrambi di dignità artistica”.

- il testo teatrale: la presenza del pubblico e la recitazione da parte degli attori di un dialogo scritto o di un
canovaccio contenente una traccia per l'improvvisazione costituiscono i tratti peculiari della
rappresentazione teatrale, che rimanda a più linguaggi oltre a quello verbale, con l’intervento di altre
componenti quali scenografia, costumi, musica, luci ecc. Il testo teatrale (o «drammaturgico») tiene conto
per quanto possibile della situazione in cui avverrà la rappresentazione, introducendo elementi di rottura
dell’illusione scenica e di dialogo con il pubblico. Il testo teatrale rimanda alla rappresentazione scenica
secondo tre tipi di relazione possibile: quando il testo esiste a priori e la sua rappresentazione orale richiede
l’interpretazione degli attori; quando il testo scritto non ha dialoghi o monologhi ma consiste in un
canovaccio con una serie di indicazioni per l’interpretazione sulla scena; quando la scrittura avviene a
posteriori attraverso la trascrizione dei dialoghi realizzati nell’improvvisazione. Naturalmente la lingua
cambia, a seconda che si tratti di un dialogo a priori o a posteriori, mentre nel caso del canovaccio il
materiale verbale prende forma nella rappresentazione grazie all'interpretazione degli attori. Il teatro scritto
a priori viene rappresentato mia viene anche letto e tradotto come opera letteraria (es. opere dei
commediografi greci a cui tutta la tradizione teatrale successiva ha fatto e continua a fare riferimento); più
estemporanea è la tradizione del teatro di improvvisazione (es. teatro dei burattini, la “commedia dell’arte”
ecc). La lingua del testo teatrale è per definizione strettamente legata all'oralità, sia che si tratti di un testo
scritto imitando l'interazione faccia a faccia, sia che si basi sulla trascrizione della lingua orale. Rispetto al
parlato reale, il parlato teatrale tende ad essere più drammatico (dato che raggiunge il suo scopo
comunicativo solo se riesce a catturare l’interesse degli spettatori), mostra un’influenza più diretta delle
condizioni pragmatiche sulla testualità (es. vi è uno stretto legame con la situazione, perciò è caratterizzato
da forte frammentarietà si serve di segnali discorsivi per organizzare il testo e gestire l’interazione) e ricorre
spesso ad allusioni, equivoci, sottintesi e altri fattori di ambiguità semantica, dovuti ad esigenze di
concentrazione espressiva. Il teatro è la forma letteraria meno adatta all'esportazione, che penetra nelle
culture straniere più lentamente proprio a causa della stretta interdipendenza fra testo, lingua, contesto
sociale e contesto reale della rappresentazione scenica. Tradurlo è un’operazione complessa e proprio
tenendo conto di questa complessità Bassnett distingue 5 strategie per la traduzione del testo teatrale:
considerandolo come un testo letterario, destinato alla lettura individuale; tenendo conto del contesto
culturale in cui ha avuto origine; facendo attenzione alla possibilità da parte degli attori di rappresentare il
dialogo sulla scena, cioè alla sua «recitabilità»; ricreando il verso del dramma originale in forme poetiche
alternative; collaborando con il regista e/o con gli attori per rivedere e adattare la traduzioin funzione di una
specifica messa in scena. Quest’ultima è la cosiddetta traduzione cooperativa, la quale oltre a considerare
l’opera teatrale come un’opera aperta – passabile di tante interpretazioni – presenta un’identità collettiva
che vede l’intervento del commediografo, dello scenografo, dei tecnici del suono, degli attori ecc. La
specificità della traduzione per il teatro resta comunque quella della «recitabilità» o performability, e
dell'effetto sul pubblico in sala (ma solo quando sia finalizzata alla messa in scena). In questo caso il testo
teatrale viene tradotto pensando a un contesto e a un gruppo di destinatari preciso e proprio per questo ha
una durata limitata, dovendo mettersi in sintonia con un determinato pubblico da un punto di vista sia
linguistico che culturale. È importante che il traduttore tenga conto della recitazione degli attori, dei
movimenti possibili sul palco, della pronuncia delle battute, dei limiti umani dell’emissione di fiato ecc.
L’obiettivo – condiviso dal regista dell’opera – è il suo successo presso un pubblico diverso da quello per il
quale essa era stata scritta. Indicazioni concrete sul concetto di “recitabilità” sono fornite dai tratti tipici
dell’oralità descritti da Trifone a proposito del teatro italiano: la deissi (fenomeno peculiare dell'interazione
in presenza, è spesso presente nel testo teatrale, specialmente quella con forte implicazione gestuale e
suggerisce il ricorso a movimenti drammatici sulla scena); le pause e le interruzioni (caratteristiche della
testualità frammentata del parlato, compaiono nei testi teatrali scritti laddove l'autore intenda dare
maggiore naturalezza al dialogo); i segnali discorsivi (es. interiezioni, congiunzioni, avverbi, locuzioni e
formule con diversi ruoli comunicativi – rispetto al parlato spontaneo, si nota una maggiore frequenza di
questi fenomeni all’interno del testo teatrale, il quale è orientato a privilegiare la funzione emotiva del
linguaggio). Come nel caso della traduzione letteraria in prosa e in poesia, il testo letterario teatrale richiede
al traduttore altissime competenze linguistiche nelle due lingue in contatto, una eccellente sensibilità
letteraria e profonde conoscenze di stilistica e di letteratura comparata in relazione all'autore del testo, alle
tradizioni teatrali della cultura in cui l'opera è nata e di quella in cui si inserirà la sua traduzione. È
indispensabile che il traduttore abbia una grande familiarità con le strutture dell'interazione orale, con le
caratteristiche verbali e non verbali della comunicazione faccia a faccia, sia degli usi contemporanei delle due
lingue e culture a cui appartengono il prototesto e il metatesto. Infine, il traduttore dovrà conoscere le
tecniche di interpretazione teatrale, dal momento che il prototesto nasce proprio per essere portato sulla
scena, e dovrà avere una particolare sensibilità musicale, che gli permetta di valutare l'accentazione delle
parole nella frase in funzione della loro «recitabilità».

- i fumetti: quando il testo scritto è associato alle immagini statiche il messaggio arriva al destinatario
attraverso il duplice canale verbale e iconico, creando un reticolo polisemico la cui complessità viene
accentuata quando vi sia anche il ricorso ai riferimenti culturali, al linguaggio dell'oralità e all'umorismo. Il
mercato editoriale dei fumetti è esploso nel secondo Dopoguerra e ha trovato terreno fertile negli Stati Uniti,
ma anche in Italia (primo Paese al mondo quanto a numero di pubblicazioni Disney) esiste una buona
tradizione fumettistica. Il fumetto è una storia in immagini, accompagnata da dialoghi e didascalie. I disegni
sono disposti di solito in strisce orizzontali che in Occidente si leggono da sinistra a destra, con le parole dei
personaggi scritte nelle nuvolette che occupano parte dello spazio. Possono rappresentare situazioni fuori
dal tempo oppure essere fortemente ancorati all'attualità, con molti riferimenti culturali e con largo uso di
impliciti. Nel fumetto il messaggio è veicolato dalle parole e dalle immagini, e talvolta le stesse stringhe di
testo acquisiscono valenza visiva (es. in base alla posizione o alla grandezza dei caratteri); nei fumetti il
meccanismo del gioco di parole si basa spesso sulla lettura divergente di una struttura linguistica che attiva
due interpretazioni possibili, una legata all'immagine, l'altra derivante dal testo scritto (si può parlare in
questi casi di «pun visivi»). Un ruolo particolare è rivestito dalle onomatopee: servono a dare movimento alle
immagini e a dare vivacità al dialogo. Facendo parte dell'apparato iconico, le onomatopee si prestano ad
essere mantenute in traduzione: è così che si sono affermate nell'italiano dei fumetti alcune caratteristiche
onomatopee inglesi, vista la grande quantità di traduzioni dall'inglese che hanno forgiato anche la lingua di
questo genere testuale. I destinatari dei fumetti non sono solo bambini o adolescenti, ma anche giovani e
adulti appassionati di questo genere: in particolare, negli ultimi 20 anni si sono affermati altri generi testuali
a fumetti destinati specificamente ad adulti, ovvero il «graphic novel» (o romanzo a fumetti) e il «graphic
journalism», che nasce dalla commistione tra fumetto, fotografia d'autore e arte grafica. Oggi il mercato
editoriale del fumetto è in continua espansione, perciò si capisce come l'intervento dei traduttori sia
cruciale, visto che la componente verbale va di pari passo con quella iconica e può contribuire in positivo o in
negativo al successo di questi prodotti culturali. La traduzione di fumetti è una forma di traduzione
subordinata al mezzo (come il doppiaggio o il sottotitolaggio). Come per i sottotitoli, la traduzione dei fumetti
deve rispettare i limiti di spazio imposti dalle nuvolette e dall'impaginazione grafica che possono essere solo
parzialmente modificati. Come nel doppiaggio, la comunicazione visiva ha il sopravvento su quella verbale e
le soluzioni linguistiche dipende dal sottotesto visivo. I fumetti destinati a adolescenti e giovani adulti
giocano spesso sia con le immagini che con le parole: in questi casi il traduttore deve scegliere se tradurre il
senso e spiegare in nota il motivo dell'immagine, evitare la nota e lasciare che l'immagine resti ambigua
oppure tradurre semplicemente le espressioni in questione ignorando i doppi sensi e le immagini. Anche per
quanto riguarda le onomatopee la traduzione comporta sempre delle difficoltà, dato che si tratta di
trascrizioni di suoni interpretati secondo la sensibilità culturale di appartenenza dell’autore e dei suoi
destinatari. Per la traduzione dei fumetti esistono delle precise indicazioni editoriali, visto che ogni casa
editrice adotta una propria strategia: alcune preferiscono lasciare i rumori originali e riportare accanto la loro
traduzione; altre forniscono ai traduttori degli elenchi in cui ognirumore ha un preciso corrispondente,
riducendo notevolmente la gamma di espressioni onomatopeiche presenti nei fumetti di altre culture. Di
riferimenti culturali si alimentano sia il graphic journalism sia alcuni tipi di fumetti, specialmente quelli rivolti
ad adulti o quelli ambientati in un particolare contesto storico o socio-politico. In questo caso si possono
applicare soluzioni traduttive orientate all'adattamento culturale per far fronte al problema degli elementi
difficilmente riconoscibili da parte di un pubblico diverso. Come abbiamo visto, il lavoro del traduttore di
fumetti ha alcune caratteristiche comuni a quelle del traduttore letterario e teatrale e altre comuni a quelle
del traduttore per il doppiaggio e i sottotitoli. Come il traduttore letterario, il traduttore di fumetti lavora in
un relativo isolamento, ricevendo un incarico da un editore che lo impegna a rispettare certe indicazioni
dell'editore. Deve dar prova di un'ottima padronanza della lingua anche dal punto di vista sociolinguistico,
gestendo le variabili che compaiono nel prototesto. Come il traduttore per il teatro, egli si occupa di dialoghi
che devono concretizzarsi nella mente del lettore richiamando anche i suoni e i movimenti che le immagini
suggeriscono: la lingua sarà quindi più vicina possibile all'oralità. Come il traduttore di sottotitoli, deve
rispettare dei limiti di spazio: frequente il ricorso a tecniche traduttive ispirate al metodo della compressione
quando questo si renda necessario nel passaggio da una lingua all'altra. Come il traduttore per il doppiaggio
infine deve restituire un dialogo che sia compatibile con le immagini, sciogliendo gli eventuali nodi dovuti a
giochi di parole collegati ai messaggi visivi a cui il lettore è esposto simultaneamente e colmando le eventuali
lacune che potrebbero impedire la comprensione ai nuovi destinatari. Una questione di cui il traduttore di
fumetti deve tener conto è anche il fatto che i suoi destinatari possano appartenere alle categorie più
disparate, impedendogli di individuare un lettore modello a cui rivolgersi.

- il testo cantato: rappresenta un genere testuale fondamentalmente binario, che si avvale del codice verbale
e di quello musicale: una volta creato un nesso fra i due è impossibile separare il testo dalla melodia, ed essi
si legano indissolubilmente anche all'interpretazione canora specialmente quando si tratta di testi di opere
classiche, di canzoni di cantautori ecc. Nonostante questo legame inscindibile, la traduzione del testo cantato
è sempre esistita. I testi cantati sono accomunati da due caratteristiche fondamentali: in primo luogo si
avvalgono della combinazione di parole e musica, con tutta la potenza evocativa che essa può esercitare sui
destinatari; se ulteriormente aiutato dalla rima, dalle allitterazioni, dalla ripetizione e dal ritmo, il testo
cantato risulta inoltre facile da memorizzare. In secondo luogo nel testo cantato possono concretizzarsi varie
tipologie testuali (descrittiva, narrativa, argomentativa, o espositiva e regolativa), spesso articolate anche in
forma di dialogo narrativo a più voci. Diverso invece è il tipo di lingua usata, a seconda dei generi: aulico e
letterario nei testi di musica lirica, con influssi dell’oralità e dei linguaggi giovanili nei testi delle canzoni di
musica leggera, semplice e colloquiale nelle canzoni dell’infanzia. Se consideriamo chi sono gli autori e gli
interpreti dei testi notiamo ulteriori differenze. Nell'opera lirica l'autore della musica e l'autore del testo
sono di solito due figure separate, sono sempre nominati nello spartito e hanno avuto nei secoli ruoli di
prestigio diverso. Una figura di rilievo è anche il cantante/interprete, che contribuisce in gran parte al
successo di una data opera. L'opera di musica moderna può essere realizzata e interpretata dalla stessa
persona (come nel caso dei cantautori), oppure può vedere la collaborazione del musicista, del paroliere e
dell'interprete. Se nasce prima il testo, questo dovrà essere scritto pensando alla sua «cantabilità»;
viceversa, se prima il compositore ha creato la melodia, il paroliere si adatterà a questa abbinando le sillabe
e gli accenti al ritmo. Le ninnenanne e le filastrocche per bambini nascono invece in genere nella tradizione
orale autoctona: in italiano esistono tante tradizioni popolari quante sono le regioni d'Italia, essendo più
recente l'uso di parlare ai bambini in italiano e non in dialetto; ben diverso è il caso delle canzoni inserite nei
cartoni animati: si tratta di forme di scrittura creativa analoghe a quelle di musica leggera, ma in cui i nomi
del musicista, del paroliere e dell'interprete vengono di solito tenuti in sordina (es. Walt Disney). Infine
ricordiamo il canto natalizio che, nato nella tradizione locale, viene tradotto e adottato da altri gruppi
linguistico-sociali, radicandosi nelle tradizioni locali sia come canzone infantile, sia come testo liturgico
caratteristico del Natale, o come semplice occasione di festività.
Il testo cantato è stato spesso paragonato al testo poetico, a cui è accomunato per il legame inscindibile fra
contenuto verbale e forma ritmico-melodica. A proposito della canzone moderna d'autore, possiamo
individuare quattro casi determinati dalla funzione svolta dal metatesto, che possono valere per qualsiasi
tipo di traduzione di un testo cantato: la traduzione interlineare (di tipo «informativo»), dalla sua variante più
rigida (ricca di calchi) a quella più flessibile (che si attiene al significato del prototesto, pur adattandosi
sintatticamente); questa traduzione non tiene conto dell'esecuzione musicale e privilegia l'aspetto
denotativo-referenziale delle singole componenti del testo; la traduzione di titoli e versi autonomi, estrapolati
dal loro contesto; la traduzione poetica, che privilegia il valore estetico del testo: qui il traduttore deve
«ricreare un testo scritto in grado di essere recepito come messaggio estetico», con la libertà di intervenire;
la traduzione per l'esecuzione canora, in cui il testo di arrivo non può essere più il prodotto esclusivo di un
traduttore ma dev'essere l'opera ri-creata di un paroliere.

Tradurre l’opera lirica: nel XVII secolo si afferma in Italia una nuova forma di spettacolo: il «dramma per
musica», e un nuovo stile: il «recitar cantando», che trova le sue origini nella poesia musicata, nel teatro
quattro-cinquecentesco e ma anche nella tragedia greca. In questa prima fase, caratterizzata da opere
raffinate destinate alle corti, il testo verbale prevale su quello musicale; poi nel Settecento gradualmente
prevale la musica, si separano le opere serie da quelle comiche e si afferma un terzo stile semiserio (il
«melodramma»), caratterizzato da elementi aulici e popolari. Il Settecento è il secolo d'oro del melodramma
italiano, in cui il rapporto fra parole e musica arriva ad un momento di piena maturazione. Il ribaltamento dei
ruoli fra musica e testo verbale si verifica però solo nell'Ottocento. I compositori sono figure di eccezionale
fama, mentre secondario è il ruolo del librettista che si specializza nella realizzazione di testi che usano un
linguaggio artificiale, molto lontano dalla lingua comune. Solo alla fine dell'Ottocento migliora la qualità dei
librettisti, più orientati verso una lingua media e contemporanea. Dall'inizio del Seicento, l'opera parla
italiano nel mondo e si afferma fuori d'Italia creando numerose occasioni di traduzioni. Nell'Ottocento, in
Europa cominciano a nascere le produzioni operistiche in lingua locale: ad esempio si afferma un nuovo tipo
di spettacolo in francese e in tedesco, l'operetta, che mescola recitazione, canto e danza. Nel Novecento
l'opera lirica italiana cambia: non è più per un pubblico vasto e popolare come era avvenuto con il
melodramma, ma diventa di élite. I libretti si allontanano dalla forma poetica, si mettono in musica opere
letterarie già esistenti e i compositori realizzano anche i propri testi; emergono nuove forme artistiche che
integrano parole e musica: oltre all'operetta, si afferma lo spettacolo di varietà (o «rivista») e il musical
theatre, nato negli Stati Uniti fra l'Ottocento e il Novecento. Come era avvenuto in passato per l'italiano del
melodramma, oggi è l'inglese la lingua di prestigio associata a questo tipo di spettacolo, che continua ad
offrire occasione di traduzioni in altre lingue, sia delle parti recitative che delle parti cantate.

Tradurre la canzone di musica leggera: gli anni d’oro per la traduzione delle canzoni di musica leggera sono
stati invece gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. All'epoca era ancora lontana l'invasione mondiale di
musica leggera in lingua inglese: piuttosto, le case discografiche tendevano a «localizzare» un successo
traducendone i testi e promuovendolo anche attraverso l'interpretazione di cantanti locali; la canzone così
tradotta viene da allora definita una cover e questo fenomeno si diffuse in tutta Europa dando vita a
innumerevoli adattamenti e traduzioni. L’italia fu uno dei maggiori centri di realizzazione di cover: in molti
casi gli adattamenti venivano fatti da parolieri di successo che mantenevano gli stessi temi e le stesse
immagini della canzone originale (nei limiti delle possibilità); è soprattutto negli anni Sessanta che si
esportano nel mondo molte cover di successi italiani – es. Lucio Battisti (Il mio canto libero, tradotta in varie
lingue). Negli anni Settanta si fanno strada invece i successi inglesi sul mercato internazionale, e si passa
quindi adesso alle traduzioni di canzoni d’autore: come nel cinema e nella letteratura, anche nelle canzoni
possono emergere casi di mescidanza linguistica, che rispecchiano i contatti internazionali e il prestigio di
lingue e culture in grande espansione. Il plurilinguismo è un fenomeno che emerge spesso nel panorama
canoro internazionale (es. Manu Chao, che arriva a mescolare anche fino a 5 lingue).

Tradurre le canzoni per l’infanzia: tipiche canzoni per l’infanzia sono le ninnananne e le filastrocche per
bambini; ne esistono in ogni regione e spesso alcune si diffondono fino a diventare patrimonio di un'intera
nazione. Un progetto finanziato dall'Unione Europea raccoglie ninnananne in sette lingue europee con le
relative traduzioni. Si tratta di traduzioni che servono per trasmettere il contenuto del brano e non per
essere cantate. Molte filastrocche per bambini, però, esistono anche in più lingue e sono cantate da
generazioni di bambini di culture diverse (es. Fra’ Martino). Un settore molto importante per quanto
riguarda la traduzione è quello delle canzoni dei cartoni animati di Walt Disney. Difficilmente, infatti, un
bambino potrebbe accogliere con piacere l'alternanza di recitativi nella sua madrelingua e canzoni in una
lingua incomprensibile, che male si presterebbe alla memorizzazione dei ritornelli e alla loro ripetizione.

Tradurre il canto natalizio: rappresenta un caso particolare, con elementi in comune con la traduzione
dell’opera (es. canti tradizionali destinati alla rappresentanzione corale in chiesa o sul palco), con la cover
(es. canzoni di musica leggera di argomento natalizio), e con la canzone per bambini (esiste un repertorio su
questo tema che i bambini ascoltano, memorizzano e cantano fin dalla prima infanzia).

Quando la traduzione del testo cantato è destinata alla lettura, l'intervento del traduttore può limitarsi ad
una traduzione interlineare in prosa; una traduzione letterale del prototesto è anche quella che viene
realizzata dal traduttore prima di passarla al paroliere, che la rielaborerà in funzione del suo adattamento
alla melodia. Più complesso, invece, è il caso della traduzione per l'esecuzione canora, che comporta il
rispetto in primo luogo della forma del prototesto: raramente si possono usare tecniche tipiche del metodo
diretto (prestito, calco, traduzione letterale) poiché dovendo rispettare i limiti imposti dagli accenti e dalla
lunghezza delle sillabe, il traduttore non può fare altro che adattare il contenuto alle caratteristiche della
melodia. Le competenze necessarie sono quelle di un traduttore di poesia dotato però di un particolare
orecchio musicale. A partire dall'interpretazione del prototesto e dalla sua preliminare ristrutturazione
nell'altra lingua, saranno le sue competenze ritmico-musicali che permetteranno di procedere
successivamente alla sovrapposizione fra il testo tradotto e la struttura melodica, in modo da realizzare un
testo cantabile. La brevità e la struttura in versi, con frequente uso della rima e delle allitterazioni, esigono
inoltre una grande familiarità con le strutture poetiche della cultura in cui andrà ad inserirsi il metatesto, al
pari di una profonda conoscenza del genere musicale. Come nel caso della traduzione per l'esecuzione
teatrale, le scelte traduttive saranno determinate quindi dal suono che le parole vanno ad assumere nel
momento della loro esecuzione canora: se per il teatro si parla di recitabilità, qui si dovrà tener conto della
cantabilità. La traduzione del testo cantato, come quella per il teatro e per il cinema, rientra nella categoria
più generale della traduzione per lo spettacolo e come tale deve tener conto in primo luogo dei destinatari a
cui si rivolge, lasciando quindi al traduttore ampi margini per adattamenti. Il traduttore si inserisce infatti in
un processo complesso in cui intervengono molte figure professionali che trasformeranno il testo tradotto in
un prodotto commerciale nuovo. Le traduzioni dei testi cantati permettono di creare nuovi “memi”
linguistico-melodici, nuove forme di intertestualità e di ibridismi musicali, con effetti ad ampio raggio sulle
tradizioni locali: la responsabilità del traduttore è dunque fuori dubbio.

- il testo audiovisivo: un testo si definisce audiovisivo se è costituito da una combinazione di componenti


semiotiche: quella verbale, quella visiva, quella sonora; può raggiungere il pubblico grazie a tecnologie
diverse (la televisione, il DVD, Internet), impegnandolo a livello polisensoriale nella decodifica dei messaggi
che lo coinvolgono contemporaneamente attraverso la vista e l'udito. La relazione che intercorre tra le
parole e le immagini in movimento comporta gradi diversi di complessità semiotica del messaggio e quindi di
comprensibilità. I messaggi più semplici sono quelli caratterizzati da ridondanza (se il contenuto trasmesso
dalle parole coincide con quello veicolato dalle immagini) o complementarietà (se il messaggio visivo e quello
verbale si completano vicendevolmente). Più complessi invece quelli in cui si realizzi un rapporto parallelo (se
le immagini risultano indipendenti o scarsamente correlate con il significato trasmesso dalle parole) o
contrario (se le immagini contraddicono il messaggio verbale stesso). Anche la colonna sonora e i rumori di
sottofondo possono contribuire alla connotazione della sequenza, indirizzando le aspettative del pubblico
(es. musiche che creano suspence). Il tipo di lingua che si incontra è difficilmente associabile a specifiche
caratteristiche, visto che dipende dal genere di filmato, dall'epoca e dal luogo di produzione. In generale
possiamo affermare che sono presenti: la lingua scritta (es. i sottotitoli); la lingua orale sotto forma di parlato
spontaneo (es. nei talkshow), parlato letto ad alta voce (es. documentari), parlato-recitato (nei film). Il parlato
filmico offre una campionatura delle varietà sociolinguistiche tipiche del luogo e dell'epoca in cui è stato
realizzato. Se si tratta di un film di produzione italiana, per esempio, la lingua potrà essere caratterizzata da
una variazione diacronica (italiano del passato e del presente); variazione diatopica (es. varietà regionali);
variazione diafasica (in base al contesto, alla situazione, al rapporto tra gli interlocutori); variazione
diastratica (es. linguaggi settoriali, gerghi, italiano popolare). Si potranno infine isolare anche modelli di
italiano scritto (es. didascalie) o trasmesso (televisivo, radiofonico ecc.), in modo da mettere a fuoco i tratti
linguistici dipendenti dal mezzo di comunicazione (variazione diamesica). Da una parte si noterà la tendenza
alla naturalezza e alla mimesi del parlato, dall'altra l'esigenza scenica spingerà verso scelte linguistiche con
funzione espressiva. Quando un documento audiovisivo viene adattato per raggiungere un pubblico diverso,
si parla di traduzione multimediale (per il cinema, per la televisione o per la scena) o più in generale di
traduzione audiovisiva. Le problematiche legate alla comunicazione audiovisiva si intrecciano con quelle della
trasposizione linguistica e culturale e della traduzione multimediale. Esistono varie modalità di traduzione e
tra quelle più diffuse ricordiamo il doppiaggio, l’oversound, l’interpretazione per il cinema e per lo
spettacolo, i sottotitoli e i sopratitoli.

Il doppiaggio (dubbing) consiste nella sostituzione su traccia sonora del parlato filmico originale con le
battute recitate da altri attori in un'altra lingua. Dagli anni Ottanta del XX secolo si sono intensificati su
questo argomento gli studi di linguisti, sociolinguisti e traduttologi, che hanno affrontato i problemi di
adattamento e traduzione dei dialoghi originali. Uno dei primi saggi sul tema è stato pubblicato nel 1982
decretando l'ingresso di questo genere linguistico fra le varietà dell'italiano «trasmesso». Il doppiaggio in
Italia ha una lunga tradizione che risale all'inizio del Novecento e si rafforza negli anni Trenta del XX secolo a
causa della censura operata dal regime fascista. Il doppiaggio di film stranieri in italiano si inaugura nel 1929
sia per l'impossibilità di utilizzare i sottotitoli a causa dell'alto tasso di analfabetismo fra gli spettatori, sia per
le leggi fasciste che dal 1934 vietarono la proiezione di film in lingua straniera. Da allora fino agli anni
Settanta il doppiaggio in italiano si è ispirato al criterio di naturalezza espressiva e massima comprensibilità
attraverso il ricorso ad un italiano sorvegliato, di registro medio, uniforme tanto da annullare l'eventuale
plurilinguismo. Questa lingua dimessa e neutra è stata uno dei maggiori modelli di italianizzazione per gli
spettatori ed ha poi registrato una graduale emancipazione dagli usi più aulici a quelli più colloquiali. Dagli
anni Settanta però il doppiaggio in Italia comincia ad abbandonare il rigido monolinguismo tradizionale e ad
introdurre alcune delle libere soluzioni in uso nella produzione nazionale per evidenziare le caratterizzazioni
psicologiche presenti nelle versioni cinematografiche originali. Un film, per essere doppiato in un'altra lingua,
ha bisogno di una équipe di specialisti: traduttori e adattatori-dialoghisti, che si occupano dei dialoghi;
doppiatori e direttore del doppiaggio, che intervengono nella fase di recitazione. Si tratta di un'operazione
commerciale molto complessa in cui è fondamentale tener conto dell'effetto che la nuova versione avrà sui
nuovi destinatari, con interventi anche molto invasivi rispetto alle battute originali. La traduzione darà la
priorità ai destinatari e si servirà di tecniche specifiche, con adattamenti sia linguistici che culturali. Le
tecniche traduttive più frequenti nel doppiaggio sono: l'uso di espressioni più colorite di quelle originali;
l'inserimento di parti di testo assenti nell'originale, se compatibile con la sincronizzazione labiale; le
spiegazioni su aspetti culturali; l'eliminazione di espressioni ridondanti che sarebbero incomprensibili al
nuovo pubblico.
Per alcuni generi televisivi (es. documentari) si usa un'altra modalità traduttiva: l’oversound (o voice-over),
con la voce dello speaker che si sovrappone al sonoro originale ma senza eliminarlo completamente.
L'operazione traduttiva diventa così molto più visibile, con interventi di adattamento alla nuova cultura meno
liberi e creativi rispetto al doppiaggio. La traduzione dei dialoghi non viene recitata ma letta secondo regole
precise (es. poca enfasi): l'effetto è molto straniante, anche perché lo speaker è di solito sempre lo stesso
indipendentemente dal tipo di voce o di personaggio (oppure si alternano due attori, uno per le voci
femminili e uno per quelle maschili). Inoltre risulta particolarmente evidente allo spettatore che si tratta
della traduzione di un testo scritto letto ad alta voce, visto che manca l'interpretazione che caratterizza il
doppiaggio.

In molti Paesi i film vengono trasmessi in lingua originale con le battute tradotte che scorrono sulla parte
inferiore dello schermo: si tratta di un procedimento (sottotitoli) che permette di gustare il film originale
anche nella sua dimensione sonora e favorisce la conoscenza delle lingue straniere. Qui le persone
sviluppano una particolare abitudine a leggere i sottotitoli, a osservare le immagini in movimento e
contemporaneamente a mettere tutto questo in relazione con i messaggi sonori provenienti dalle battute in
lingua originale. La realizzazione dei sottotitoli consiste dunque nella traduzione delle battute del dialogo in
formato scritto: nel passaggio da un codice sonoro a un codice visivo, il traduttore dovrà operare pesanti
adattamenti a causa dei limiti imposti dallo spazio disponibile sullo schermo; i sottotitoli infatti devono essere
di norma più brevi delle battute (ogni riga ammette pochi caratteri e può restare sullo schermo da un
minimo di un secondo e mezzo a un massimo di sei-sette secondi). I sottotitoli non sono tuttavia una
traduzione interlineare, ma piuttosto una sintesi delle battute, tradotte adottando principalmente il metodo
della compressione. Il traduttore deve riuscire, riducendo il numero delle parole, a ricostruire il messaggio
originale, tenendo conto del fatto che lo spettatore è impegnato in un'attività cognitiva complessa che
comprende contemporaneamente la lettura dei sottotitoli, la decodifica delle immagini, la decodifica del
sonoro non verbale e la decodifica del sonoro verbale (tono di voce, timbro, tratti intonativi). Si nota anche
una forte tendenza alla normalizzazione (l'uso di espressioni meno gergali o colorite, con forti appiattimenti):
una spiegazione di questo fenomeno può essere dovuta al fatto che le deviazioni dalla norma potrebbero
creare difficoltà di lettura e comprensione in un destinatario costretto a concentrarsi contemporaneamente
su diversi input. Emerge che l'approccio comunemente adottato per la traduzione in sottotitoli dà la priorità
al destinatario, lasciando molto spazio agli adattamenti; le tecniche traduttive attestate invece
comprendono: l'aggiunta di spiegazioni; il cambiamento di qualche elemento della frase; la traduzione
letterale; la riproduzione di alcuni tratti della lingua di partenza; l'imitazione di suoni che sono insoliti per
entrambe le lingue; l'uso di mezzi linguistici diversi per mantenere lo stesso effetto; la sintesi senza perdite di
significato; l'eliminazione di una parte contenente significati non essenziali; l'eliminazione totale di una parte
con perdita di significati.

Infine, a teatro si usa la sopratitolazione quando il testo viene proiettato su uno schermo sopra il palco, in
modo che il pubblico possa vedere la scena e allo stesso tempo capire le battute o il testo cantato.
Particolarmente usato nel caso delle rappresentazioni teatrali di opere liriche, difficilmente traducibili
soprattutto nelle parti cantate, questo tipo di traduzione viene adottato talvolta anche per i musical.
Rispetto ai forti adattamenti culturali realizzati nel doppiaggio, i sopratitoli mostrano una maggiore fedeltà al
metatesto, anche perché qui non c'è alcun tentativo di sostituirsi al prototesto. Rispetto ai sottotitoli
(fondamentali per comprendere l'intreccio del film), i sopratitoli sono subordinati alla fruizione del testo
cantato e infatti spesso riproducono il sonoro originale sotto forma di trascrizione e non in traduzione.

Il traduttore del testo audiovisivo deve avere competenze nella comprensione orale nella lingua del
prototesto e deve essere in grado di interpretare i riferimenti e gli impliciti culturali, le connotazioni
associate alla pronuncia, al tono e al timbro di voce dei personaggi, le varietà sociolinguistiche, e
naturalmente le varie componenti pragmatiche del discorso. Una volta individuati i destinatari del metatesto,
il traduttore procederà ai dovuti adattamenti, secondo l'approccio dell'addomesticamento: quello che conta
è l'effetto che il suo metatesto avrà sul nuovo pubblico. Nel caso del doppiaggio, la sua abilità di scrittura
creativa dovrà essere assimilabile a quella di uno sceneggiatore, visto che deve realizzare i dialoghi del
copione su cui si baserà il successivo intervento dell'adattatore-dialoghista e dei doppiatori. Dovrà tener
conto di varie restrizioni a cui deve sottostare il suo operato (poiché anche in questo caso si tratta di una
«medium-constrained translation») quali la combinazione con le immagini originali, la decodifica simultanea
di messaggi iconici e verbali, lo spazio limitato e la sincronizzazione con il sonoro originale, il tempo di
recitazione delle battute e la sincronizzazione labiale nel doppiaggio. Nel caso dello specialista in traduzione
per i sottotitoli e per i sopratitoli, la competenza fondamentale sarà quella di riconoscere nel prototesto i
nuclei informativi e sintetizzarli eliminando le parti del dialogo che non si ritengono essenziali, trasferendo
nello scritto anche quegli elementi sonori non verbali che il doppiaggio affida all'interpretazione vocale. La
traduzione per il doppiaggio o per l'oversound non può essere realizzata da un solo traduttore ma è affidata
ad una équipe di professionisti sotto la guida del direttore del doppiaggio (il «traduttore di audiovisivi», a cui
viene affidata la traduzione dell'opera originale; l'«adattatore-dialoghista» che riceve la traduzione e ne
completa la trasposizione e l'adattamento).

- il testo settoriale: si definiscono «settoriali» tutti quei testi «non fiction» che toccano un argomento
specifico e che sono caratterizzati da un certo livello di esperienza e di specializzazione dell'autore del
prototesto. L'argomento settoriale e il livello di specializzazione variabile (dall'altamente specialistico al
divulgativo) collocano questo tipo di testi fra le varietà sociolinguistiche definite «diafasiche», che vengono
cioè influenzate dal contesto d'uso, dai temi della comunicazione e dalle competenze e dai ruoli degli
interlocutori. L'argomento riguarda la dimensione orizzontale e identifica per esempio fra le discipline
scientifiche i testi ascrivibili alle scienze fisiche (dette anche «scienze dure» - es. fisica, matematica, chimica,
medicina ecc.) e alle scienze umane (dette anche «scienze morbide» - es. diritto, economia, sociologia,
linguistica ecc.). Il livello di specializzazione, invece, riguarda la dimensione verticale e identifica i testi
altamente specialistici (es. realizzati da esperti per esperti del settore, che danno per scontate molte
conoscenze); didattici (es. destinati a chi ha già delle preconoscenze della disciplina ma sta procedendo nello
studio); divulgativi (es. destinati a un pubblico di persone interessate all'argomento ma non esperte del
settore). Useremo la definizione «testi settoriali» per indicare sia quei testi orali e scritti più specialistici e
codificati (es. testi di argomento tecnico-scientifico), sia quelli che riguardano specifici argomenti e contesti
d'uso ma con un minor grado di specializzazione e codificazione. Parleremo dunque di traduzione settoriale,
in riferimento a tutti questi argomenti, che si esprimono in testi altamente specialistici, didattici o divulgativi.
A differenza del testo letterario (testo «aperto» per eccellenza o «poco vincolante») il testo settoriale tende
ad essere un testo «chiuso», in cui non c'è molto spazio per le ipotesi interpretative, mentre risultano
fondamentali le questioni di terminologia. Testi settoriali altamente vincolanti sono i testi scientifici
specialistici, i testi normativi, i testi tecnico-operativi (es. istruzioni), tutti caratterizzati da precisione,
impersonalità, non emotività, concisione e soprattutto monoreferenzialità lessicale, con l'uso di un lessico
specialistico che tende ad una corrispondenza biunivoca fra significato e significante, evitando sinonimi,
parafrasi e connotazioni aggiuntive. Testi settoriali mediamente vincolanti sono i testi espositivi, (es. manuali
di studio, saggi critici, articoli divulgativi) rivolti a un lettore modello non specialista. Il lessico è la
componente più studiata dei testi settoriali e la scelta del lessico e la decisione di usare glosse o parafrasi
dipende dalle presunte conoscenze del destinatario a cui si rivolge l'autore. Le caratteristiche lessicali tipiche
del testo settoriale sono: la monoreferenzialità cioè la biunivocità che vi è tra un termine e il suo significato
(possono anche attingere alla lingua comune attribuendo un significato specifico a parole usate anche in
ambito non specialistico); l’assenza di sinonimia e l’alto livello di standardizzazione che caratterizzano
soprattutto i testi tecnico-scientifici (monoreferenzialità dei termini anche grazie all’uso di suffissi che hanno
assunto valori precisi a seguito di contatti internazionali); l’assenza di connotazione dato che si tratta di testi
con valore prevalentemente denotativo, senza ricorso ad alcuna emotività. A seconda degli ambiti però i
testi settoriali possono mostrare anche caratteristiche lessicali opposte: precisione vs ambiguità (il testo
tecnico-scientifico tende ad evitare l'ambiguità, con uso di termini che individuano referenti precisi, assenza
di metafore e connotazione; altri testi settoriali come la critica d'arte possono invece ricorrere di frequente a
sinonimi e metafore); sinteticità vs esaustività (certi linguaggi settoriali es. tecnico-scientifici tendono alla
sinteticità e alla ricerca della forma più breve possibile, altri invece es. linguaggio giuridico puntano piuttosto
all'esaustività, anche a costo di ridondanze); stabilità vs innovatività semantica (certi settori sono
caratterizzati da una certa stabilità semantica per evitare ambiguità e problemi di decodifica es. il linguaggio
giuridico, altri invece sono più dinamici, con frequente introduzione di neologismi e forestierismi). In italiano
i testi settoriali si avvalgono di strumenti morfosintattici caratteristici: stile nominale (per impostare il
discorso all'insegna della concisione e della massima densità lessicale); forme passive e impersonali (quando
è utile spersonalizzare e oggettivizzare); uso dei modi e dei tempi verbali più ristretto rispetto alla lingua
comune; semplificazione della struttura del periodo (criteri di compattezza, concisione, semplicità e
chiarezza, es. andamento paratattico, periodi lineari, frasi brevi). I tipici caratteri testuali che qualificano un
testo settoriale dunque sono: la sinteticità espressiva e l'omissione di certi elementi (maggior compattezza);
la coesione testuale ad esempio mediante il meccanismo lessicale della ripetizione o l’organizzazione
tematica lineare; la progressione tematica (massima coerenza e chiarezza); la testualità tipica dei diversi
generi testuali (elaborati secondo una determinata struttura convenzionale – es. il discorso argomentativo
nel testo di ambito economico). Il testo settoriale è dunque caratterizzato da una doppia valenza: formale
(precise caratteristiche lessicali, morfologiche e sintattiche) e comunicativa (che fa riferimento a realtà
concrete del contesto a cui appartiene).
Il traduttore di testi settoriali ha a che fare con testi tendenzialmente «chiusi» che ammettono poche o
nessuna variabile interpretativa. Si tratta di un approccio alla traduzione molto vincolato e l'obiettivo del
traduttore non è quello della fedeltà alla forma del testo originale, bensì la riproduzione integrale delle
informazioni dell'originale e il loro adeguamento alle norme della lingua/cultura di arrivo, tenendo conto del
lessico specialistico e delle caratteristiche tipiche dei diversi generi testuali. Una volta individuato il settore di
riferimento e il livello di specializzazione, si tratterà di mettere a fuoco la funzione e il destinatario-modello
del prototesto, per poi selezionare il destinatario modello del metatesto a cui saranno rapportate tutte le
scelte traduttive. I destinatari a cui può rivolgersi il traduttore possono essere distinti tra destinatari «vicini»
(conoscono o hanno intenzione di conoscere la cultura della lingua di partenza), «lontani» (non conoscono e
non hanno intenzione di conoscere la cultura della lingua di partenza, ma sono interessati solamente ad
informarsi in maniera generica) e «autodeterminanti» (utilizzano la propria terminologia e la impongono al
traduttore allo scopo di mantenere la coerenza terminologica es. casa editrice, ditta ecc). Oggi ai traduttori
professionisti vengono richieste traduzioni di una grande varietà di testi settoriali scritti: testi tecnico-
scientifici realizzati da esperti del settore per la circolazione fra esperti; testi didattici, destinati a chi deve
apprendere la disciplina; testi divulgativi legati a specifiche aree semantiche e ambiti settoriali; documenti
ufficiali (per esempio i testi degli organismi internazionali come la Commissione Europea); testi aziendali, per
presentare l'azienda o per illustrare i propri prodotti; relazioni, contratti, perizie in ambito aziendale,
sanitario, burocratico ecc.; dépliants, opuscoli nei contesti in cui ci si rivolge a turisti; siti Internet relativi a
argomenti specifici. Altrettanto ampia è la gamma di ambiti settoriali nelle attività di interpretazione
settoriale, che generalmente sono svolte proprio per permettere la comunicazione tra specialisti (es. settori
della medicina, tecnico-scientifico, giurisprudenza, umanistico e artistico); testi settoriali compaiono anche
nell’attività dei mediatori linguistici e culturali in contesto migratorio che operano in ambito sanitario,
educativo, lavorativo, giuridico e burocratico. Le macroaree individuate per quanto riguarda le
specializzazioni sono il settore politico-istituzionale, il settore economico, il settore scientifico ed il settore
tecnico. Un elemento fondamentale da tenere presente è la funzione del testo che in questi casi è quasi
sempre la trasmissione precisa di un contenuto informativo chiaramente comprensibile. Le scelte del
traduttore saranno dunque orientate al destinatario ma, a differenza di altre forme di addomesticamento, in
questo caso non sono possibili adattamenti troppo invasivi poiché il livello di informatività del testo va
mantenuto nella sua interezza.
Per quanto riguarda l’ambito tecnico-scientifico, i testi sono caratterizzati da massima monoreferozialità
lessicale, assenza di sinonimi, assenza di connotazione, precisione, sinteticità. La terminologia ha valore
prescrittivo, in quanto il traduttore deve attenersi a norme stabilite. Un caso a parte, fra i testi ad alta
specializzazione, è rappresentato dal testo di ambito giuridico. Leggi, documenti ufficiali, atti legali, seppur
caratterizzati da rigorosa monorefernzialità lessicale, hanno tratti distintivi opposti rispetto a quelli finora
evidenziati: spesso i problemi terminologici nascono dal fatto che non vi sono equivalenti, quindi non si
tratta di individuare un termine corrispondente, quanto piuttosto di esplicitare le differenze dal punto di
vista del contenuto; il tono del discorso nei testi giuridici è di solito freddo e impersonale, ma in alcuni casi si
manifesta una forte enfasi emotiva; raramente si usano sigle e abbreviazioni e a livello sintattico è vietata
l'omissione delle parti del discorso; i periodi sono lunghi e complessi; il timore dell'ambiguità porta all'uso di
un linguaggio ridondante e poco funzionale alla comunicazione. Per quanto riguarda invece la traduzione
settoriale in ambito didattico, essa copre un settore specifico dell'editoria universitaria, mentre la traduzione
settoriale in ambito divulgativo interessa vari generi di pubblicazioni a stampa (saggistica, testi giornalistici
ecc) e traduzioni per lo spettacolo. La traduzione saggistica, in particolare corrisponde in buona parte ai testi
«mediamente vincolanti»: essa in parte condivide le caratteristiche del testo tecnico scientifico (uso di una
terminologia legata al settore disciplinare, richiami intertestuali, anche se con un minore grado di
specializzazione) e in parte è paragonabile alla complessità della traduzione del testo letterario, in cui una
funzione dominante è quella estetica. L'argomentazione è mediamente rigorosa, costruita con uno stile più
ricercato e meno criptico del testo tecnico-scientifico, per adattarsi meglio anche ad un pubblico di non
specialisti. Ricordiamo infine l’ambito turistico, in cui la traduzione settoriale è ampiamente rappresentata
dalle guide turistiche a stampa, dagli opuscoli ecc. Particolarmente importanti sono qui, oltre ai tecnicismi,
anche le forme retoriche del bello scrivere e i paradigmi del linguaggio pubblicitario. Per quanto riguarda
invece il settore politico-amministrativo, legato alle attività degli enti locali e delle organizzazioni
internazionali (es. ONU, UNESCO, UNICEF…), ricordiamo con particolare interesse il fenomeno delle
traduzioni realizzate in seno all’Unione Europea. Questi testi possono essere sicuramente definiti settoriali,
anche se più problematica è la distinzione fra testi tecnico-scientifici e politico-amministrativi, visto che ogni
tematica affrontata viene sempre ricondotta a questioni legate alle scelte politiche e amministrative
dell'Unione Europea. Bisogna considerare inoltre la peculiarità della lingua usata nei documenti europei
plurilingui (il cosiddetto «eurocratese» o «euroletto»), osservando anche la specificità dell'italiano nel
contatto con i linguaggi settoriali di altri Paesi membri per quanto riguarda la neutralizzazione delle
metafore, il linguaggio colloquiale, le espressioni brusche o politicamente inopportune. Per quanto riguarda
infine l’ambito aziendale, ricordiamo i testi relativi ai prodotti di un’azienda, quelli di tipo amministrativo
destinati ai rapporti con altre aziende internazionali e quelli propagandistici. Il manuale di istruzioni (relativo
quindi al prodotto di un'azienda) è un testo di tipo regolativo, il cui scopo comunicativo primario è quello di
guidare l'utente nelle operazioni di costruzione o uso di un oggetto; è necessario quindi assicurare la
massima coerenza e coesione del metatesto, facendo attenzione a come gestire la polisemia e la sinonimia.
Anche la garanzia di un prodotto è un testo che l'azienda elabora in più lingue per rendere espliciti i termini
dei reclami e i tempi di durata riferiti al prodotto acquistato (in questo caso i tecnicismi appartengono sia
all'area semantica legata al prodotto, sia all'ambito giuridico-amministrativo). Diverso è il caso delle
informazioni sul prodotto stampate sul contenitore: questi brevi testi hanno una duplice funzione, da una
parte forniscono in sintesi le notizie essenziali sul prodotto, dall'altra ne esaltano i pregi e rispondono quindi
ad uno scopo fondamentalmente pubblicitario. Ai testi propagandistici appartengono in primo luogo i
messaggi pubblicitari, ma anche i dépliants che danno notizia di offerte di prodotti e servizi. Qui abbondano
gli artifici retorici e i mezzi espressivi, visto che la funzione estetica è essenziale per attrarre il pubblico. Un
tipo particolare di messaggio pubblicitario è il publiredazionale, cioè un trafiletto che pubblicizza l’azienda in
uno stile giornalistico e che viene pubblicato a pagamento in una particolare sezione di quotidiani e periodici.
Infine, ricordiamo i testi di tipo amministrativo destinati ai rapporti con altre aziende internazionali, che
comprendono per esempio i contratti redatti nella lingua dei partner stranieri. Il traduttore del testo
settoriale deve aver maturato prima di tutto esperienza, poiché dall’esperienza dipende una certa familiarità
con l’ambiente e con i testi. Inoltre, egli sta diventando sempre più spesso un vero esperto della
comunicazione settoriale, a cui viene chiesto non solo di tradurre ma anche di fungere da consulente
aziendale. Secondariamente, in alcuni settori la competenza linguistico-traduttiva e informatica va affiancata
a quella di revisore di traduzioni automatiche, con il vantaggio di accelerare i tempi di traduzione ed evitare
gli errori tipici della traduzione automatica. Sono richieste competenze diverse a seconda dei vari settori: per
quanto riguarda il settore medico ad esempio, con il tempo il traduttore sviluppa delle competenze
terminologiche e contenutistiche molto approfondite, pertanto non è necessaria una vera e propria
conoscenza della disciplina a livello professionale; per quanto riguarda l’ambito giuridico, invece, il
traduttore deve necessariamente avere una buona competenza della materia, tale da permettergli di
confrontare i due sistemi giuridici; al traduttore di saggistica invece sono richieste competenze
terminologiche tipiche della traduzione settoriale ma anche stilistiche tipiche della traduzione letteraria, una
vasta cultura generale e una buona cultura specifica; il traduttore settoriale infine deve avere una buona
conoscenza di strumenti informatici di ausilio alla traduzione, in particolare dei corpora paralleli che aiutano
ad identificare i tratti tipici di un certo genere testuale attraverso la consultazione di testi realizzati sullo
stesso argomento e con funzione simile, ma in contesti linguistico-culturali diversi.

- il testo in Rete: uno degli ambiti in cui la richiesta di traduzioni è in crescita esponenziale è la Rete, un
grande contenitore di messaggi la cui caratteristica è quella di permettere all’utente una navigazione
ipertestuale attraverso presentazioni graficamente adeguate alle dimensioni dello schermo. La svolta della
globalizzazione risale agli anni Ottanta del XX secolo, ma gli effetti su larga scala sono diventati palesi solo
negli anni successivi al 2000: da allora le tecnologie dell'informazione e della comunicazione sono ormai
parte integrante delle società in cui si articola il mondo globale. Le caratteristiche dei testi che circolano
online sono determinate in buona parte dalle potenzialità del mezzo stesso, che permette di combinare
messaggi scritti, sonori e visivi e offre l'opportunità di comunicare sia in sincrono che in differita. Si tratta
dunque di un caso tipico di variazione diamesica, in cui la lingua è «trasmessa» e si adatta al canale
comunicativo in tutti i suoi aspetti. Uno dei primi fenomeni della testualità via internet osservati dai linguisti
è stato quello delle chat, che hanno continuato ad assumere forme diverse ma con alcuni tratti tipici dello
scritto e altri dell’interazione faccia a faccia (es. poca attenzione all’ortografia, abbreviazioni, immagini,
simboli grafici per esprimere emozioni ecc). Anche la corrispondenza via email ha assunto sempre più
importanza sostituendo in gran parte la corrispondenza scritta tradizionale, con caratteristiche proprie e
regole di comportamento condivise (es. brevità, maggiore informalità ecc). Esiste poi il settore aziendale:
ogni azienda si serve oggi della Rete per creare una propria vetrina sul mondo attraverso siti internet
plurilingui. La Rete è diventata anche un enorme database, dove è possibile reperire attraverso i motori di
ricerca qualsiasi informazione. La lingua più utilizzata è oggi l'inglese ma sono presenti anche le lingue locali
vista la tendenza di ogni gruppo linguistico-culturale ad affermare la propria presenza. Tre tipi di testi sono
particolarmente interessanti in questo settore: Wikipedia, l'enciclopedia gratuita e plurilingue realizzata e
aggiornata su basi volontarie (non tutte le lingue sono presenti con lo stesso numero di voci: quelle in inglese
sono le più numerose e quelle proposte in più di una lingua presentano in traduzione una versione
sintetizzata), i siti di informazione che offrono aggiornamenti in tempo reale sulle notizie di attualità (es.
Euronews, un canale televisivo paneuropeo che propone le notizie dal sito web con la possibilità di
selezionare la lingua desiderata – anche in questo caso si tratta di adattamenti) e i siti aziendali, attraverso i
quali le aziende promuovono le proprie attività e i propri prodotti. I tipi di testi più rappresentati in Rete sono
dunque quelli espositivi, narrativi e descrittivi dei siti di informazione e delle banche dati enciclopediche,
mentre i siti aziendali usano fondamentalmente testi con funzione regolativa. Il linguaggio può essere quindi
ora tecnico-settoriale (con forestierismi, neologismi e tecnicismi), ora retorico-poetico (con le strategie
comunicative della pubblicità). Fra le caratteristiche che accomunano tutti i testi in Rete ricordiamo il loro
adattamento allo schermo, la combinazione di elementi verbali e iconico-grafici, il registro mediamente
formale (es. nei siti informativi e commerciali), la possibilità di lettura ipertestuale tramite link. La traduzione
di testi online viene definita «localizzazione». Il concetto è nato in ambito economico-produttivo e si riferisce
in maniera generale all'adattamento di un prodotto ad altri mercati, ad altre nazioni e culture. Tradurre per
la Rete comporta il rispetto di norme relative al formato (testi brevi, leggibili in una sola schermata), alla
lingua (di media formalità, comprensibile a un pubblico più ampio possibile), e alla cultura. Tecniche
traduttive ricorrenti in Rete sono l'adattamento, la riduzione e la cancellazione. Le prime forme di
localizzazione risalgono agli anni Ottanta del XX secolo, quando le industrie informatiche capirono che per
vendere i propri software dovevano rivolgersi agli utenti nella loro lingua. Le aziende si accorgono anche che
per il successo di un prodotto è necessario che la localizzazione non avvenga a posteriori, ma che tutto il
progetto di marketing venga prima pensato in un’ottica internazionale e poi localizzato. Con
internazionalizzazione, quindi, si indica in ambito informatico il processo per generalizzare un prodotto in
modo da poter trattare più lingue e convenzioni culturali. Da allora i prodotti tendono ad essere presentati in
maniera neutra, senza connotazioni culturali; la localizzazione viene dopo e consiste quindi nell'adattamento
del prodotto in funzione del concreto utilizzo da parte di utenti appartenenti a specifici mercati. Per avere
visibilità è indispensabile che l'azienda realizzi il proprio sito nella lingua locale, in una lingua a grande
diffusione e nella lingua dei clienti a cui l'azienda si rivolge. I traduttori sono quindi molto richiesti: la
localizzazione di prodotti informatici consiste nel tradurre l'interfaccia utente di un software, la guida on line
e la documentazione sul prodotto; la localizzazione di siti web invece comprende oltre alla traduzione dei
testi scritti anche l'adeguamento del contenuto alla cultura dei destinatari. Egli ha a che fare con aspetti
promozionali, commerciali e legali di un prodotto e deve tener conto della lingua, della cultura e delle
aspettative del pubblico a cui si rivolge. I servizi di traduzione vengono di solito affidati a agenzie di
traduzione e la realizzazione di un sito plurilingue è frutto di un lavoro di équipe che avviene secondo una
serie di fasi: analisi e pianificazione del progetto (materiali, risorse umane, attrezzature); pianificazione e
gestione della fornitura (costituzione del gruppo di lavoro, analisi tecnica e terminologica del materiale);
produzione (traduzione, gestione degli aggiornamenti forniti dal cliente in corso d'opera e testing);
assicurazione di qualità (effettuata da un esperto di quality managing); consegna e chiusura del progetto
dopo verifiche a campione sul prodotto. Le competenze di un localizzatore di siti web, quindi, comprendono
abilità linguistiche, culturali, tecnologiche e professionali. Avendo a che fare spesso con argomenti di ambito
settoriale, deve affrontare la questione della terminologia e deve disporre anche di una particolare
sensibilità per la mediazione linguistico-culturale e per gli aspetti pragmatici della comunicazione
interculturale; deve anche mostrare particolari doti nella scrittura creativa, visto che i testi di cui si occupa
sono fondamentalmente promozionali. Inoltre, non possono mancare al localizzatore le competenze
informatiche indispensabili per capire l'ambiente in cui andranno inseriti e saranno utilizzati i testi tradotti,
così come la capacità organizzativa e gestionale e la capacità di aggiornarsi e stare al passo con le innovazioni
tecnologiche.

- l’interpretazione: può avvenire in diversi contesti - nell'interpretazione di conferenza, in quella aziendale e in


quella in contesto migratorio i testi con cui gli interpreti hanno a che fare sono orali e di argomento
settoriale; nell'interpretazione per lo spettacolo l'interprete viene a far parte egli stesso della produzione di
quei testi audiovisivi.
Interpretazione di conferenza: l'interpretazione consecutiva, simultanea e sussurrata sono tre interventi
traduttivi orali molto diversi, richiesti in occasione di eventi congressuali in cui esistano delle barriere
linguistiche. L'interpretazione, in cui la persona bilingue fisicamente presente all'evento funge da «ponte» fra
persone di lingue e culture diverse è sicuramente la forma più antica di mediazione linguistica. Oggi
l'interpretazione consecutiva è richiesta nei congressi in cui un oratore si rivolge al pubblico in una lingua
sconosciuta alla maggioranza delle persone presenti: in questo caso la comunicazione avviene alternando un
breve intervento dell'oratore in una data lingua e l'intervento rigorosamente più sintetico dell'interprete
consecutivista. Le competenze dell'interprete consecutivista sono in parte diverse da quelle del
simultaneista: oltre ad avere eccellenti competenze di comprensione e produzione orale nelle lingue
utilizzate, dovrebbe avere buona capacità di sintesi, ottime capacità logico-concettuali (il suo discorso dovrà
essere coerente e coeso) e soprattutto una buona capacità oratoria (facendo attenzione al tono di voce,
all'intonazione, alla postura). Dal punto di vista linguistico-comunicativo le sue competenze fondamentali
sono la comprensione dei nuclei informativi, la capacità di adattare anche i riferimenti culturali e la presa di
note durante il discorso dell'oratore. Esistono anche situazioni in cui prendere note non è possibile: la
memoria è dunque un'altra delle doti essenziali. Anche la dimensione pragmatica è fondamentale. Il primo
compito del consecutivista è quello di interpretare l'evento della conferenza alla luce delle convenzioni
culturali che lo caratterizzano per poi ricostruire, in base a queste coordinate pragmatiche, l'intenzione
comunicativa dell'oratore e trasmetterla in forma sintetica al pubblico. Quando un congresso o una
conferenza si svolgono in una sala dotata di cabine, l'interpretazione simultanea è la soluzione ideale per
permettere a chi lo desideri fra il pubblico di ascoltare gli interventi in una delle lingue offerte in traduzione.
Questo tipo di servizio è preferito quando il pubblico in sala è composito e quando è necessario evitare di
prolungare i tempi delle relazioni. Oggi in un congresso si offrono di solito una o più lingue in traduzione
simultanea, il simultaneista lavora in una cabina insonorizzata, vede il relatore e il pubblico, sente in cuffia il
relatore e traduce simultaneamente parlando al microfono; chi tra il pubblico ha scelto di utilizzare la
traduzione, indossa una cuffia e può così guardare il relatore e sentire il suo discorso tradotto. Il
simultaneista deve a sua volta sentire e vedere quello che accade in sala: le sue competenze traduttive sono
integrate anche dalla sua capacità di fare inferenze dal contesto e dai messaggi non verbali inviati sia
dall’oratore che dalla platea. Le competenze traduttive dell'interprete simultaneista sono frutto di un intenso
allenamento: tenere desta l'attenzione sul canale ricettivo orale, mentre al tempo stesso si produce
oralmente un discorso in un'altra lingua comporta infatti che vengano contemporaneamente attivati e
disattivati determinati circuiti neuronali, tenendo al tempo stesso allertata la capacità di riconoscere i propri
eventuali errori per porvi rimedio. Si parla in questo caso di “attenzione divisa”. Si può supporre l'esistenza di
quattro sottosistemi neurofunzionali coinvolti nei compiti di interpretazione: il sistema neurofunzionale
responsabile della comprensione e della produzione verbale nella L1; il sistema responsabile della
comprensione e della produzione verbale nella L2; il sistema responsabile della traduzione da L1 a L2; il
sistema responsabile della traduzione da L2 a L1. Nell'interpretazione simultanea il fattore tempo è
essenziale: esiste un impercettibile ritardo del parlato dell'interprete simultaneista rispetto a quello
dell'oratore, corrispondente a poche parole; questo scarto iniziale permette all'interprete di usare una sorta
di «memoria tampone a breve termine» nella quale vengono immagazzinate le informazioni in attesa di
essere elaborate e tradotte. Non avendo il tempo materiale per considerare il periodare dell’oratore nel suo
complesso, l’interprete si basa sulla testualità del discorso che si sviluppa via via, anche a rischio di risultare
contorto o frammentario. Quando durante un congresso solo uno dei partecipanti non capisce la lingua in
cui si svolge l'incontro, si può ricorrere all’interpretazione sussurrata. In questo caso interprete si avvicina al
destinatario e gli bisbiglia la traduzione nell’orecchio mentre contemporaneamente ascolta il discorso che si
svolge in un’altra lingua; non ha il tempo di prendere appunti e rielaborare il proprio discorso, come accade
nell'interpretazione consecutiva e per questo essa è un'operazione particolarmente stressante, poco
accurata nei dettagli; adatta specialmente ai contesti meno formali in cui sia necessario solo sintetizzare il
contenuto dell'argomento.
L’interpretazione per lo spettacolo: un esempio è l’interpretazione simultanea per il cinema, realizzata per il
pubblico in sala. In altri casi il simultaneista viene ascoltato in cuffia da un tecnico, incaricato di scrivere
contemporaneamente le battute che compaiono sullo schermo: si parla in questo caso di sottotitolazione
simultanea per il cinema. Nel caso dell’interpretazione televisiva (es. nei talkshow) l’interprete diventa
spesso co-narratore in quanto ha un potere interazionale particolarmente elevato: egli può colmare una
lacuna culturale, può usare l’intonazione o la mimica per esprimere o accentuare un tono ironico, può
attenuare o rafforzare le parole dell’ospite. Le competenze richieste sono dunque in parte le stesse degli
interpreti consecutivisti, a cui si aggiungono doti telegeniche e anche una particolare capacità di
comunicazione in pubblico: una interpretazione semanticamente impeccabile va in secondo piano rispetto a
una interpretazione che catturi il pubblico televisivo.
L’interpretazione aziendale: l’interpretazione che assicura la comprensione per piccoli gruppi di persone in
contesto aziendale è definita interpretazione di trattativa. A differenza dell'interpretazione consecutiva e
simultanea, il ruolo dell'interprete di trattativa è caratterizzato da un alto livello di interattività, da un
maggiore coinvolgimento e da un più elevato potere interazionale. L'interprete rappresenta infatti l'azienda
che gli ha commissionato l'incarico e come tale deve contribuire per portare a buon fine la trattativa, pur
garantendo a entrambe le parti un'interpretazione eticamente corretta. L'interpretazione di trattativa ha di
solito come scopo la condivisione di un progetto o la firma di un contratto o di un accordo. Il contesto in cui
si realizza è formale o mediamente formale. Le competenze richieste all'interprete di trattativa sono
molteplici: non si tratta solo di tradurre oralmente, ma anche di preparare traduzioni scritte dei documenti
preliminari agli incontri; non basta che l'interprete si concentri sulla resa adeguata dei testi, ma egli agisce
spesso anche da consulente e da mediatore interculturale. L'interprete telefonico è una figura professionale
(free-lance o incardinata in una azienda) che viene richiesta quando qualcuno deve comunicare
telefonicamente con un interlocutore di cui non parla la lingua. Se si tratta di una comunicazione telefonica
in contemporanea, l'interprete traduce ogni breve intervento dei due interlocutori e, grazie al sistema
telefonico «vivavoce», tutti e tre i partecipanti possono sentire ogni parte della conversazione. La tecnologia
permette anche di utilizzare questa forma di interpretazione a distanza usando il sistema di videoconferenza:
in questo modo si può ricreare il contesto dell'interpretazione simultanea o consecutiva, sebbene né
l'interprete né gli interlocutori si trovino fisicamente vicini. Le competenze richieste all'interprete telefonico
sono legate ad una spiccata capacità di comprensione e produzione orale e a particolari doti fonetico-
intonative e di dizione: non si può rischiare infatti che ci siano problemi di comprensione dato che tutta
l’interazione avviene a distanza.
L’interpretazione in contesto migratorio: oltre al traduttore e all’interprete, vi è anche la figura del
mediatore interculturale. Per interprete di comunità si intende una figura professionale che opera in contesti
di immigrazione (es. presso ospedali, carceri, scuole, luoghi di lavoro, sedi amministrative) in cui la presenza
di persone di lingue e culture diverse comporti problemi di comunicazione. Il tipo di intervento
dell'interprete in contesto migratorio viene definito «mediazione dialogica», visto che si attua di solito
all'interno di interazioni triadiche, in cui due interlocutori di lingue diverse comunicano con l'aiuto di una
persona che ha il compito di tradurre e di aiutarli a comprendersi. Di solito il mediatore interviene sul
contributo dei partecipanti, riducendolo, espandendolo, mitigandone alcuni aspetti, chiedendo chiarimenti
ecc. Si instaura così la cosiddetta «interazione triadica», cioè uno scambio comunicativo a tre poli (il
rappresentante della comunità locale; il rappresentante della comunità immigrata; il mediatore linguistico-
culturale). Questi, intervenendo in prima persona nello scambio, ha anche il compito di ridurre l'asimmetria
di ruoli che caratterizza l'interazione (es. fra immigrato e funzionario pubblico). Le competenze
dell'interprete di comunità comprendono una buona padronanza a livello orale delle due lingue in contatto,
una buona conoscenza del patrimonio culturale degli interlocutori, la predisposizione ad affrontare varie
situazioni comunicative, l'attitudine all'ascolto, alla soluzione dei conflitti e non ultima la capacità di empatia.
Basandosi principalmente sulla capacità di instaurare rapporti umani, questo lavoro chiede apertura mentale
e flessibilità. Inoltre, per ogni situazione comunicativa interculturale l’interprete deve tener conto di alcune
variabili linguistiche e culturali, quali il luogo di provenienza, la gestione del tempo, l’argomento, il ruolo dei
partecipanti, i codici non verbali, gli scopi dichiarati e non dichiarati, gli atteggiamenti psicologici.
L’interpretazione in contesto giudiziario: sia durante i procedimenti giudiziari in tribunale, sia nelle inchieste
preliminari in cui sono impegnate le forze di polizia, può essere necessario l'intervento di professionisti della
mediazione linguistica. Sia che traducano per le società o per gli organi giudiziari e amministrativi, l'ambito in
cui si muovono è sempre quello del diritto e della giustizia. La loro è una figura professionale di grande
importanza sociale, come dimostra una direttiva del Parlamento europeo sul diritto all'interpretazione e alla
traduzione nei procedimenti penali (bisogna garantire agli indagati o agli imputati che non sono in grado di
comprendere la lingua l’assistenza di un interprete).
L’interpretazione in contesto bellico: gli interpreti di guerra sono una delle categorie a più alto rischio dato
che per definizione mettono in contatto le parti avverse di un conflitto in corso. A fronte di un compenso
economico, gli interpreti di guerra mettono in gioco la loro vita, rischiando di essere presi in ostaggio o di
subire le conseguenze di domande imprudenti nel corso delle interviste a cui sono chiamati a collaborare
come mediatori. Oltre alle questioni etiche e al rischio che caratterizza questo tipo di professione, c'è da dire
che spesso si tratta di persone che non hanno alle spalle nessun tipo di formazione professionale, essendo
assunte con mansioni di autisti, accompagnatori, assistenti, prima ancora che di traduttori, per il solo fatto di
conoscere la lingua del posto e quella del proprio committente. Eppure i loro interventi di interpretazione
dialogica comportano competenze interlinguistiche e interculturali molto elevate, se non altro per il tipo di
distanza tipologica e culturale che esiste spesso fra gli interlocutori. A parte qualche convegno che ha
cercato di dare visibilità all'interprete di guerra, non sono molti gli studi che si concentrano sul loro operato,
mentre si sente con urgenza la necessità di affermare la loro estraneità rispetto ai conflitti e di garantire loro
la tutela personale e giuridica, sia durante che dopo la conclusione del contesto bellico in cui hanno operato.

PARTE TERZA – Dalla formazione al mondo del lavoro

Fin dalla prima infanzia possono emergere i segnali di particolari predisposizioni all’apprendimento delle
lingue (es. uso ludico della lingua attraverso rime, giochi di parole); l’ambiente può accentuare queste
caratteristiche come accade nelle famiglie bilingui o nelle scuole che impartiscono un’educazione bilingue.
Già dalla prima infanzia il bambino che sviluppo un bilinguismo precoce è capace di confrontare due sistemi
linguistici, notando somiglianze e differenze e scegliendo la lingua adatta al contesto. Ma le competenze
nelle varie abilità in una lingua straniera non comportano automaticamente la capacità di tradurre. La
competenza traduttiva presuppone che il soggetto abbia raggiunto già un’elevata competenza nelle due
lingue; abbia familiarità non solo con i sistemi linguistici standard ma anche con le loro varietà, nonché con la
realtà culturale; abbia sviluppato a livello cognitivo la capacità di passare mentalmente da un codice all’altro
attraverso l’analisi del prototesto, il trasferimento mentale del messaggio e la ristrutturazione del messaggio
nel metatesto; abbia reso quasi automatica tale abilità cognitiva attraverso la pratica traduttiva, in modo da
concentrare gli sforzi mentali sulle singole problematiche del trasferimento. La predisposizione per le lingue
può indirizzare un adolescente verso la scelta di una scuola superiore a indirizzo linguistico; successivamente,
per chi opta per proseguire a livello universitario, la riforma del sistema universitario europeo ha introdotto
una laurea triennale di primo livello seguita da una laurea magistrale di due anni. In italia, tra le lauree
triennali orientate alla formazione nell’ambito della traduzione ricordiamo la classe di laurea della
Mediazione linguistica o le Scuole Superiori per Mediatori Linguistici che equivalgono ad un percorso
universitario di primo livello. Tra le lauree magistrali ricordiamo Traduzione Specialistica e Interpretariato,
Scienze Linguistiche e Comunicazione Interculturale e Lingue moderne per la Cooperazione internazionale.
Esistono anche percorsi formativi professionalizzanti, accademici e non accademici, sia post diploma che
post laurea. Uno di questi è il master, che in Italia indica un percorso di studi professionalizzante di un anno a
cui si accede dopo la laurea triennale o magistrale. Non costituiscono offerte formative permanenti dato che
la loro attivazione viene decisa di volta in volta all’inizio di ogni anno accademico e spesso vengono realizzati
in collaborazione con enti esterni. Per chi ha intrapreso da poco la professione di traduttore e ha firmato un
contratto di traduzione con un editore, esiste la possibilità di usufruire di borse di studio presso una delle
residenze per traduttori a livello europeo (es. Germania, Belgio, Roma “Casa delle traduzioni” luogo di ricerca
e lavoro, di incontro e di scambio per traduttori di ogni Paese).
II passaggio dalla formazione alla professione nel campo della traduzione è caratterizzato in primo luogo da
una serie di esperienze di tirocinio, che vengono promosse già all'interno dei percorsi di laurea attraverso
specifiche convenzioni con aziende. È in questa fase che uno studente mette in relazione gli apprendimenti
teorici con le realtà lavorative. Una volta terminato un percorso di studio iniziale, hanno inizio le prime
esperienze lavorative autonome, sempre tenendo conto che la società contemporanea è ormai orientata
verso l'educazione permanente che prevede un'alternanza fra lavoro e percorsi formativi brevi e
professionalizzanti sia per aggiornarsi sia per riorientare se necessario la propria carriera. Le agenzie e i
potenziali clienti tendono a preferire chi ha già un bagaglio di attività certificate nel settore: un modo per
risolvere questo problema può essere quello di cominciare con esperienze di traduzione non professionale.
Un sito web specificamente dedicato a questo è Babels che ha lo scopo di coprire attraverso interventi di
volontariato i bisogni di traduzione in ambito sociale a livello internazionale. Esperienze di traduzione di
questo tipo possono poi essere incluse nel curriculum, ma soprattutto permettono di rendersi conto di
aspetti anche pratici del mestiere. Un altro ambito di traduzione non professionale in crescita è quello del
sottotitolaggio amatoriale attraverso siti web. L’obiettivo è quello di entrare nel momento giusto nel mondo
del lavoro retribuito, scegliendo quei settori più adeguati alla propria preparazione. La professione di
traduttore o interprete si realizza in primo luogo nel settore privato, sia che si tratti di traduzioni scritte per
l'editoria, sia che si tratti di lavori di per il settore aziendale. La forma più comune di lavoro per un traduttore
o interprete libero professionista (free-lance) è l'incarico ottenuto direttamente da un'azienda o da un
soggetto privato. Per ampliare la propria attività, il traduttore si rivolge di solito a un'agenzia di traduzione,
che agisce da intermediario per servizi di traduzione di documentazione tecnica; realizzazione e traduzione
editoriale di cataloghi, manuali, ecc.; traduzione di documentazione commerciale e legale; traduzione di siti
web; localizzazione di prodotti informatici; assistenza e interpretariato per trattative, convegni, ecc. Nel caso
di servizi di traduzione scritta è di prassi la richiesta di una traduzione di prova. Una volta ottenuto l’incarico
il traduttore sarà affiancato dal project manager (che valuta le competenze) e dal revisore (un traduttore
esperto che si occupa di rileggere il testo). Diverso è il caso dell’editoria: dovrà realizzare una traduzione di
prova che verrà sottoposta a un redattore della casa editrice prima di ricevere l’incarico. Successivamente, il
traduttore e l’editore sottoscrivono un contratto che definisce sia le scadenze della consegna sia il
compenso. Sebbene la traduzione sia considerata un’opera intellettuale e quindi protetta teoricamente
come qualsiasi altra opera creativa, di regola il traduttore pattuisce un compenso forfettario o a cartella con
l’editore e solo in casi eccezionali può concordare una percentuale sulle vendite. Un altro settore è quello
burocratico e giuridico-amministrativo presso enti pubblici o privati (es. studi legali, banche, amministrazioni
pubbliche locali). Lavorare nel settore del doppiaggio e dei sottotitoli è un’altra delle possibilità offerte dalla
tecnologia: si può intraprendere la carriera di traduttori di audiovisivi dopo aver seguito un corso specifico in
una scuola di doppiaggio, entrando a far parte dell' équipe di collaboratori composta dal traduttore,
dall'adattatore dialoghista, dai doppiatori e dai tecnici del suono, sotto la direzione del direttore del
doppiaggio oppure si può lavorare come traduttori free-lance di sottotitoli, collaborando con le case di
produzione cinematografica o con le agenzie di traduzione per la realizzazione di DVD con sottotitoli.
L'attività di mediatore linguistico-culturale in contesto migratorio è un altro degli sbocchi professionali per gli
esperti di traduzione. In Italia fino alla fine degli anni Novanta si trattava di attività svolte da immigrati
bilingui all'interno della propria comunità; dal 2000 in poi sono molti anche i giovani italiani plurilingui che si
stanno inserendo in questo settore lavorativo. Sebbene siano molto richiesti, i mediatori linguistico-culturali
in Italia non hanno ancora un albo professionale a cui iscriversi e solo a livello locale esistono in certe regioni
delle norme specifiche che li identificano come figure professionali sociali (così come per le altre professioni
linguistiche). Di traduttori e interpreti professionisti hanno bisogno organismi internazionali come l’ONU,
l’UNICEF, l’OCSE ecc. poiché le attività istituzionali avvengono fra persone di lingue diverse. Innumerevoli
sono anche le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) fra cui rientrano le organizzazioni non
governative (ONG), che concentrano le proprie attività nella cooperazione e lo sviluppo e quindi, dovendo
intervenire in varie parti del mondo, non possono fare a meno di traduttori e interpreti. Particolarmente
significativo è il caso dell'Unione Europea che ha fatto del plurilinguismo e del mantenimento della diversità
linguistica e culturale il proprio principio fondante. Nonostante il ruolo primario dell'inglese e,
secondariamente, anche del francese e del tedesco come lingue «di lavoro», è evidente che il continuo
ingresso di nuovi Paesi nell'Unione Europea, insieme alla necessità di garantire il plurilinguismo comporta il
ricorso a un numero crescente di traduttori impegnati stabilmente in qualità di funzionari incardinati nei vari
uffici o temporaneamente (in qualità di free-lance). Il reclutamento dei traduttori e degli interpreti
dell'Unione Europea avviene mediante concorso e riguarda vari tipi di figure: personale a tempo
indeterminato (staff translators), a tempo determinato (temporary staff), contrattisti (contractors) e
tirocinanti (trainees). Internet ha radicalmente cambiato le professioni legate alla traduzione
all’interpretariato: sia i contatti con le agenzie di traduzione che con i clienti ormai avvengono online, così
come i servizi di traduzione della Commissione europea affidati a traduttori free-lance si basano sull’uso di
internet. Uno degli influssi della società globale sulle professioni collegate ai saperi traduttivi consiste nel
loro progressivo ampliamento e sconfinamento in settori continui: i traduttori sono chiamati infatti a
svolgere una serie di lavori polivalenti che implicano il possesso di competenze linguistiche anche nei settori
della vendita, logistica, pubbliche relazioni, marketing, turismo, ecc.
All’inizio della carriera non è raro che sia necessario mostrare grandi doti di flessibilità, una caratteristica che,
insieme alla curiosità intellettuale, è riscontrabile nella maggioranza dei soggetti plurilingui che hanno
intrapreso una formazione accademica come traduttori: si esplorano settori lavorativi diversi, si affiancano
alle attività traduttive altre di genere diverso, come l'insegnamento delle lingue straniere o le attività di
segretariato, accoglienza e organizzazione congressuale. Una volta concluso il proprio percorso formativo di
base, il sostegno e i consigli dei pari possono risultare preziosi. Per questo può essere di aiuto iscriversi a una
mailing list di traduttori, in modo da confrontarsi con colleghi più esperti. Una volta intrapresa la carriera in
un particolare settore, ci si può iscrivere invece a una delle associazioni di categoria a livello sia internazionale
che nazionale: in Italia l’AITI – Associazione Italiana Traduttori e Interpreti – si batte da anni per il
riconoscimento di questa categoria di professionisti che per legge viene equiparata ai cosiddetti
«parasubordinati» e costretta a versare un contributo molto più alto rispetto a quello richiesto invece ai
liberi professionisti iscritti all'albo. Essere preparati alla variabilità significa considerare che le professioni
legate alla traduzione possono essere a tempo pieno o part-time; a tempo determinato, indeterminato o a
contratto; ancorate ad un luogo fisico oppure caratterizzate da grande mobilità; totalmente dedicate alle
attività di traduzione oppure di tipo misto, in cui tali attività si alternano con altri tipi di incarichi. Affidabilità,
coinvolgimento e etica professionale sono altre componenti fondamentali di una carriera di successo nel
campo della traduzione, senza le quali anche le più spiccate doti e competenze possono rivelarsi insufficienti
a garantire l’impegno a lungo termine che richiede questo tipo di attività lavorative.

Alla fine degli anni Ottanta del XX secolo, il computer e internet hanno cambiato il modo di lavorare dei
traduttori e hanno introdotto un nuovo tipo di professionalità; ma i sussidi che più di altri hanno trasformato
l’attività del traduttore sono i programmi di traduzione automatica, le banche dati elettroniche, le memorie
di traduzione e le reti di contatti online. In primo luogo, i tipi di testi più adatti alla traduzione automatica
sono quelli settoriali, in cui sia minimo il ruolo della polisemia, della connotazione e quindi della possibilità di
più interpretazioni. Il fatto che esistano termini e frasi che si ripetono costituisce un ulteriore vantaggio, visto
che il programma può immediatamente riconoscerli e proporre la stessa traduzione ogni volta. In certi ambiti
di comunicazione tecnico-scientifica il traduttore automatico si rivela molto utile per velocizzare i tempi.
Nonostante le evidenti inadeguatezze dunque, in certi settori la traduzione automatica continua ad essere
molto importante: è attualmente usata nell'ambito dei servizi di traduzione dell'Unione Europea che hanno a
che fare quotidianamente con enormi quantità di documenti di argomento settoriale e che lasciano in molti
casi ai traduttori la sola funzione di revisori di testi in modo da ridurre i costi e velocizzare il lavoro. Una
svolta dovuta alle nuove tecnologie informatiche è stata determinata dalla possibilità di consultare in
maniera rapida e affidabile vari tipi di banche dati gestite da software: oggi qualsiasi traduttore può
consultare in tempo reale dizionari elettronici, enciclopedie ecc. Le banche dati terminologiche hanno in
buona parte sostituito i dizionari tecnici, risolvendo molte difficoltà nella traduzione settoriale, specialmente
quando si tratta di banche dati continuamente aggiornate. A partire dagli anni Novanta del XX secolo la
linguistica dei corpora ha messo a frutto gli strumenti tecnologici capaci di immagazzinare e analizzare
quantità sempre più ampie di dati, sia orali che scritti: i corpora permettono di individuare collocazioni, di
stabilire il campo semantico e la frequenza, di scoprire il significato di un termine in un preciso contesto; i
corpora di testi bilingui sono ancora più utili, perché permettono di analizzare le strategie traduttive adottate
(parallel corpora) e possono anche raccogliere una stessa tipologia testuale in due lingue, con testi
confrontabili ma che non sono esattamente traduzioni (comparable corpora). Uno strumento informatico
che ha dato il via negli anni Novanta del secolo scorso a quella che può essere definita la «traduzione
interattiva», va sotto il nome di memorie di traduzione (Translation Memories - TM), che permette di
archiviare via via i testi tradotti dall'utente, recuperando, mentre continua a tradurre, quei passi che
contengono elementi linguistici già incontrati precedentemente. In questo modo si evita di tradurre due
volte la stessa frase in modo diverso (specialmente nelle traduzioni tecniche, ricche di formule ripetitive) e si
possono controllare le soluzioni traduttive già adottate in punti simili del testo. Possiamo distinguere le TM
che possono richiamare solo unità traduttive isolate, senza riferirle al contesto; le TM basate su corpora
testuali, che permettono di archiviare e richiamare il testo intero in cui compare l'espressione che l'utente si
trova a tradurre; le TM che si collocano a metà strada fra i due tipi precedenti, visto che permettono di
visualizzare sia il segmento analogo a quello che il traduttore ha appena incontrato nel testo su cui sta
lavorando, sia il testo completo a cui il segmento appartiene. Infine, importanti per il lavoro del traduttore
professionista sono anche le reti di contatti che si formano attraverso l’uso sociale della Rete internet: via
internet si ricevono testi e si inviano traduzioni; attraverso i motori di ricerca egli può recuperare in tempi
brevissimi l’origine di citazioni o rimandi culturali; può cercare e offrire consulenza ad altri colleghi; si
possono creare comunità virtuali come le varie associazioni di traduttori; si possono creare opportunità
formative e occasioni di incontro.

Parlare di «qualità» in riferimento alla traduzione implica riconoscere che l'atto del tradurre può prevedere
l'intervento di un soggetto estraneo, il cui compito è quello di stabilire in base a precisi parametri la qualità di
un prodotto. Per rispondere alla preoccupazione dei committenti che si servono della traduzione per
immettere sul mercato un nuovo prodotto, sono stati introdotti rigorosi controlli di qualità che cercano di
coniugare principi teorici con le esigenze concrete del mercato. La valutazione della traduzione e
dell'interpretazione rientra nella prassi sia della formazione, sia del mondo del lavoro, due ambiti in cui sono
molto diverse le modalità di controllo, i fini e le figure professionali che assumono il ruolo di valutatori. Nella
scuola la figura del valutatore coincide con quella del destinatario della traduzione stessa: lo studente
traduce infatti per il proprio docente e lo fa tenendo conto essenzialmente della rispondenza di quanto
traduce con le problematiche lessicali, morfologiche e sintattiche affrontate; la sua attenzione non è tanto
focalizzata sulle coordinate esterne e interne al testo, quanto piuttosto sul confronto fra i due sistemi
linguistici in contatto, escludendo quasi totalmente la componente pragmatica e culturale. A livello
universitario, la qualità della traduzione viene solitamente basata sull’esatta corrispondenza fra testo di
partenza e testo di arrivo, privilegiando un metodo traduttivo diretto e in particolare la tecnica della
traduzione letterale. Nel caso della traduzione scritta destinata al mercato editoriale, la valutazione viene
affidata a una figura interna alla casa editrice (non necessariamente un traduttore esperto) e si basa
unicamente sulla scorrevolezza del metatesto e sulle caratteristiche linguistiche che si ipotizza possano
attrarre i lettori. Essa è essenzialmente focalizzata dunque sul prodotto e sul suo effetto sui lettori. Ancora
diverso è il caso della qualità dei servizi di traduzione offerti dalle agenzie di traduzione, a cui si rivolge la
maggior parte delle aziende. Proprio in relazione all'esigenza di queste agenzie di ottenere un
riconoscimento dei servizi offerti, sono nate varie iniziative che ruotano intorno ai concetti di «standard di
qualità» e di «certificazione di qualità», che rappresentano gli strumenti richiesti a garanzia dei servizi, fra cui
rientrano anche le traduzioni. Gli standard di qualità si riferiscono a un documento accreditato da un
organismo autorevole, che definisca le regole, le linee guida o i criteri che si applicano a una attività; una
certificazione di qualità invece è un processo che conferma che un ente o una persona corrisponde ai
requisiti richiesti da un determinato standard. Il controllo di qualità delle traduzioni è dunque
essenzialmente affidato ad alcune figure professionali che intervengono prima nella selezione del personale
e poi nella revisione e recensione della traduzione: il project manager (che attribuisce gli incarichi e controlla
lo svolgimento del lavoro); il revisore (un traduttore esperto del settore che ha il compito di rivedere la
traduzione confrontandola con il prototesto); il recensore (un esperto della materia che ha il compito di proof reader
rileggere solo il metatesto per verificare la sua adeguatezza in relazione alle convenzioni della cultura
ricevente). In pratica, gli strumenti concreti di controllo sono: la verifica delle competenze del traduttore sulla
base delle sue certificazioni e della sua esperienza; la prassi di affidare la revisione del testo tradotto a un
revisore e a un recensore.

La questione della qualità è strettamente correlata al problema dell'errore che in una traduzione può
compromettere la credibilità dell'agenzia di traduzione che si è fatta garante del prodotto. Alcune delle
cause principali sono: scarsa conoscenza della lingua del metatesto e della cultura in cui verrà inserito; scarsa
conoscenza dell'argomento; scarsa familiarità con le modalità di traduzione richieste dal contesto;
interferenza fra la lingua del prototesto a quella del metatesto; errata interpretazione del prototesto;
stanchezza o disattenzione. Gli errori da scarsa conoscenza della lingua del metatesto o dell'argomento si
trovano meno raramente di quanto si pensi anche nelle traduzioni che circolano sotto forma scritta o nei casi
di interpretazione orale. Gli errori da scarsa conoscenza dell’argomento emergono talvolta nella traduzione
dei testi settoriali e di saggistica, mostrando carenze nelle competenze culturali ed enciclopediche del
traduttore; gli errori di interferenza sono tra i più frequenti e possono essere attribuiti oltre che a scarse
competenze del traduttore, a trascuratezza e stanchezza, visti i ritmi di lavoro (es. eventually –
“eventualmente” invece di “alla fine”). Gli errori da errata interpretazione del prototesto possono emergere
specialmente nei testi aperti come il testo poetico o narrativo, ricchi di parole polisemiche, metafore e
riferimenti culturali. Per quanto riguarda gli errori delle traduzioni automatiche infine, dipendono in buona
parte dal programma stesso e dal tipo di testo: la figura del revisore è dunque indispensabile.

Per quanto riguarda le competenze di un traduttore professionista, esse fanno riferimento a diversi fattori: la
dimensione del testo (es. capacità di tradurre testi ampi e articolati); la varietà di argomenti; la rapidità di
esecuzione; la flessibilità; l’appropriatezza; l’accuratezza; l’autonomia. Le competenze di un
traduttore/interprete quindi si possono associare ai quattro parametri di fondo introdotti dal QCER a
proposito dell'acquisizione della seconda lingua: il sapere; il sapere fare; il saper essere; il saper apprendere.
Il sapere traduttivo si riferisce alle conoscenze linguistiche a livello molto elevato delle due lingue e delle due
culture in contatto, ma anche alla conoscenza dell'argomento del testo, della disciplina, del mondo
dell'autore e del contesto di origine o di arrivo. Il saper fare si riferisce alle abilità specifiche legate alla
pratica traduttiva (includono le competenze informatiche, la capacità di scrittura creativa, le capacità
oratorie, la capacità di svolgere contemporaneamente compiti diversi in lingue diverse). A tutto questo si
aggiungano di volta in volta altre abilità che rimandano al saper essere (curiosità, onestà intellettuale,
empatia) e al saper apprendere (capacità di orientarsi nelle fonti, imparare dai propri errori ecc).
PAROLE NELLA MENTE, PAROLE PER PARLARE (Cardona)

1. Il lessico di una lingua

Dare un nome alle cose, agli eventi o ai vissuti è un modo per “appropriarsi” di essi; l'atto del nominare
consente di avvicinare le cose, di familiarizzare con esse, le rende disponibili all'uso. Le parole di una lingua
svolgono molteplici funzioni giacché ci sono diversi modi in cui il nostro pensiero, per mezzo del linguaggio,
concettualizza la realtà. Inoltre, ciò che chiamiamo parola varia per struttura fonologica e grafemica sia
all'interno di una stessa lingua che fra le diverse lingue. Una parola può riferirsi a un'idea astratta, un'altra a
qualcosa di concreto, un'altra può essere polisemica e può assumere diversi significati a seconda del
contesto in cui viene usata dai parlanti. Le parole, poi, si legano le une alle altre formando delle unità lessicali
complesse che possono intrattenere diversi rapporti semantici con la realtà a cui rinviano: pensiamo agli usi
figurativi della lingua, ai significati metaforici, ai modi di dire.

Il lessico è suscettibile di continue trasformazioni giacché la lingua è una struttura storico-sociale in divenire.
Le parole che fanno parte di un lessico possono essere lessemi (variabili ad esempio nelle desinenze a
seconda delle esigenze del contesto), singoli morfo-lessicali invariabili ma congiungibili a morfi grammaticali
(le parole radice) o a morfi sia grammaticali che formanti (le parole tema), o unità di forma invariabile. Si
denomina allora lessico l'insieme aperto, indefinito, dei lessemi di una lingua. La lessicologia si occupa dello
studio dei vari aspetti del lessico, mentre la lessicografia ha il compito di studiare i metodi e le tecniche per
comporre vocabolari e dizionari. Soprattutto in funzione di una scelta metodologica glottodidattica orientata
all'insegnamento/apprendimento di un'adeguata competenza lessicale, il dizionario non contiene tutto il
lessico di una lingua, bensì è soltanto una rappresentazione di esso. Il lessico è soggetto a continue
trasformazioni giacché alcune parole invecchiano, altre “nascono”, altre ancora si arricchiscono di significati.
Pertanto, anche il dizionario che raccoglie il numero più elevato di voci necessita di aggiornamenti. Inoltre, il
dizionario è strutturato in modo artificiale rispetto al modo in cui il lessico si organizza nella nostra mente. In
esso le parole sono presentate in ordine alfabetico ma non rispecchia affatto il modo in cui il lessico si
struttura nella nostra mente. Questa incongruenza è uno dei motivi per cui leggere la spiegazione di un
significato in un dizionario spesso non è sufficiente per memorizzare in modo duraturo un certo input
linguistico. Affinché una parola venga elaborata profondamente e inviata così alla memoria semantica che è
parte della nostra memoria a lungo termine, è necessario che quella determinata parola entri nelle reti di
relazioni semantiche del nostro lessico mentale. Si intende invece per vocabolario l'insieme delle parole
utilizzate in modo caratterizzante da un singolo parlante (idioletto) o da un gruppo di parlanti, o di un
vocabolario usato per trattare un certo tema o per costruire un discorso più specifico. Ogni genere di
vocabolario è parte del lessico e sono parte del lessico anche tutte le regole che permettono la formazione di
altri vocaboli: ne fanno parte quindi sia parole attestate sia parole potenzialmente formabili, così come
accoppiamenti di vocaboli. Tra le parole contenute in un lessico si possono distinguere parole lessicali e
parole grammaticali. Le parole lessicali, dette anche piene, sono in grado di veicolare significato in modo del
tutto autonomo, talvolta anche se si presentano isolate: si tratta di nomi, aggettivi, avverbi. Le parole
grammaticali invece da sole non possono veicolare significato (se non in modo parziale) e sono perciò
chiamate parole vuote; sono anche definite “parole funzionali” in quanto svolgono una funzione
grammaticale in associazione ad altre parole. Appartengono a questa categoria gli articoli, le preposizioni, i
pronomi, le congiunzioni. Se le parole lessicali di una lingua costituiscono una classe aperta (in essa si
possono aggiungere un numero indefinito di nuove parole) la classe delle parole grammaticali di una certa
lingua è circoscritta ad un numero finito. Vi possono essere solo delle oscillazioni nella loro applicazione alla
varietà delle lingue: per quanto riguarda “the” ad esempio sappiamo solo che svolge la funzione di articolo
determinativo, mentre di “il” sappiamo già che la parola a cui esso si associa non può che essere un nome
maschile singolare; “il” è una parola funzionale meno vuota di “the”. Le parole grammaticali hanno una
frequenza maggiore nella lingua, pertanto la capacità di individuarle è uno degli obiettivi principali della
competenza lessicale nell’apprendimento della lingua.
Le parole di un testo possono essere suddivise in “types” o forme grafiche, ovvero quante parole diverse ci
sono in questo componimento, e “tokens” ossia le occorrenze ( quindi il totale di parole che compongono un
testo, anche le parole uguali che si ripetono al suo interno). Il rapporto tra il numero di types e quello dei
tokens - che si ottiene dividendo il primo per il secondo - ci restituisce la misura della varietà lessicale di un
testo. Quanto più è elevato il numero di types, tanto più il lettore dovrà sforzarsi di comprendere un testo.
Sta però all’insegnante scegliere se le parole che si rifanno allo stesso lessema debbano essere classificate
come tokens o meno (es. vado, vai, va, andiamo, andate ecc). Il rapporto tra types e tokens è legato alla
lunghezza del testo e un basso valore di questo rapporto indica una certa ridondanza lessicale nel testo,
mentre un valore alto vuol dire che il testo si presenta poco ripetitivo dal punto di vista lessicale. La quantità
di parole che deve apprendere uno studente di lingua straniera dipende ovviamente dal livello di
competenza che si assume come riferimento, da quali mete culturali e obiettivi comunicativi lo studente si
prefigge di raggiungere.

Dobbiamo a questo punto distinguere fra un vocabolario produttivo che è quello che ciascun parlante è in
grado di produrre quando parla, scrive o pensa in una lingua e un vocabolario ricettivo che comprende invece
le parole che riusciamo a capire durante l'ascolto o la lettura ma non riusciamo a usare nelle fasi produttive
della lingua. In generale, il vocabolario ricettivo è più esteso del vocabolario produttivo; cercare di
trasformare il lessico ricettivo in lessico produttivo è un obiettivo importante al fine di espandere la
conoscenza linguistica. Una parola però può non appartenere in modo rigido ed esclusivo al vocabolario
produttivo o a quello ricettivo di uno studente, quanto piuttosto può collocarsi in uno dei gradi intermedi. Gli
studiosi hanno proposto quattro livelli: imitazione, riproduzione, comprensione e produzione. Al primo livello
non è necessario che si attivino i significati degli input linguistici, mentre invece nel caso della riproduzione
dovrebbe esserci un processo di assimilazione, ossia un processo di presa di coscienza di quanto si sta
ripetendo. Si tratta di un processo che favorisce la memorizzazione degli input. Senza un processo di
riproduzione consapevole del senso di quel che si sta dicendo, la riproduzione viene a coincidere con
l'imitazione. Per quanto riguarda le parole del vocabolario ricettivo uno studente deve essere in grado di
riconoscere una parola dal punto di vista fonologico durante l’ascolto, riconoscerne la correttezza
ortografica, riconoscere il valore semantico in base al contesto, riconoscere le potenziali collocazioni e le
parti di una parola; per attivare invece il vocabolario produttivo lo studente deve saper pronunciare e
scrivere correttamente una parola, usarla in maniera appropriata nei giusti contesti, combinarla
correttamente secondo le regole della collocazione e sceglierle in base al grado di adeguatezza al registro
comunicativo. La lingua che lo studente sviluppa man mano che accresce la propria competenza è chiamata
interlingua. Occorre tenere presente che ciascuno studente ha una propria sfera emotivo-affettiva che
influisce sulla capacità di apprendimento di una lingua; quando si apprende una lingua straniera è probabile
che si tenti inconsapevolmente di ricreare il proprio vocabolario nella lingua che si sta apprendendo e, in
generale, è possibile che uno studente riesca ad acquisire più facilmente alcune parole simili a quelle che è
solito usare nella lingua madre immettendole rapidamente nel suo vocabolario produttivo. È anche possibile
che il suo vocabolario venga stimolato dal principio di utilità per cui uno studente riuscirà a imparare prima le
parole della lingua straniera utili a soddisfare le proprie esigenze pratiche. Può anche succedere che si
riescano ad acquisire prima gli input linguistici ricevuti più frequentemente o, ancora, quelli più facili da
pronunciare o quelli meno affini alla propria lingua madre, giacché soprattutto all’inizio le parole della lingua
straniera fonologicamente simili a quelle della lingua madre possono generare interferenza e confusione. È
invece più facile apprendere le parole che non presentano troppa discrepanza tra forma scritta e forma
orale: quelle che si pronunciano in misura considerevolmente diversa rispetto a come si scrivono tendono a
essere memorizzate con più difficoltà. Nei primi stadi d'apprendimento di una lingua anche la lunghezza
delle parole può essere determinante: tendenzialmente le parole corte si memorizzano più facilmente.

È impossibile dunque determinare in modo chiaro e definitivo quali parole verranno acquisite prima: la
capacità di costituire un vocabolario ricettivo e di trasformarlo in vocabolario produttivo dipende
indubbiamente dalle scelte da parte dell'insegnante di metodologie e materiali didattici adeguati
all'apprendimento del lessico, ma, in modo variabile, dipende anche dalle contingenze di vita e dalle
disposizioni emotivo-affettive di ciascun studente.
Il campo della linguistica che tratta in modo specifico del significato si chiama semantica. Nel 1883 il linguista
francese Bréal propose di chiamare semantica un campo di studi focalizzato sull'indagine del significato, con
un'attenzione particolare al suo diversificarsi nelle diverse lingue (e all'interno di una stessa lingua) e al
mutamento del significato delle parole. Lo studio del significato incrocia diverse discipline ma in prospettiva
glottodidattica quella che ci interessa è quella della linguistica, la quale si occupa dell'intera organizzazione
dei rapporti di significato all'interno di una lingua storica e di come i significati vengono usati nei concreti atti
linguistici (cioè le combinazioni linguistiche volontariamente create dai parlanti). Nel considerare un segno
linguistico verbale si distingue una parte materiale, ossia la forma grafemica o fonologica, detta significante,
e una parte immateriale, concettuale, che veicola informazioni, chiamata significato. Il rapporto tra una parte
e l'altra è principalmente frutto di convenzioni sociali. Vi sono però due concezioni del significato: denotativo
e connotativo. Per significato denotativo si intende ciò che in senso oggettivo il segno rappresenta, ossia la
relazione oggettiva di un significante con un referente della realtà esterna, mentre con l'espressione
significato connotativo ci riferiamo a una relazione semantica soggettiva, connessa alle sensazioni del
soggetto parlante e alle sue personali associazioni (ad esempio, il significato denotativo della parola “cane” è
"animale domestico dall'olfatto finissimo” invece un significato connotativo potrebbe essere: "animale
fedele, molto socievole”). La lingua è quindi un sistema organizzato di segni e ogni segno assume il proprio
significato secondo relazioni sintagmatiche (come le collocazioni) e paradigmatiche (quali polisemia,
sinonimia, antonimia, iperonimia e iponimia) con altri segni della stessa struttura linguistica. In breve, tra le
parole di una lingua si possono instaurare dunque relazioni di tipo sintagmatico quando una parola entra in
relazione con quelle che la precedono o la seguono, oppure relazioni di tipo paradigmatico quando una
parola entra in relazione con una parola che potrebbe sostituirla.

Collocazioni: ogni parola tende a stabilire dei rapporti privilegiati con le parole che la seguono e la precedono
formando così dei chunks, delle unità informative in cui una parola richiama un'altra. Si tratta di rapporti che
possono variare nelle diverse lingue e questa variabilità è ciò che rende impossibile eseguire una traduzione
letterale di una lingua in un'altra (es. una forte pioggia  non strong rain ma heavy rain). In ogni lingua
inoltre si costituiscono delle co-occorrenze socialmente accettate e abitualmente riattualizzate dai parlanti
che si configurano come sintagmi lessicali piuttosto fissi che devono essere correttamente appresi dai
parlanti stranieri in modo da raggiungere una buona fluenza linguistica. Occorre dunque quanto più possibile
puntare sull’acquisizione diretta del lessico della lingua target.

Omonimia e polisemia: fra le relazioni di significato che possiamo riscontrare tra uno o più lessemi c'è quella
di omonimia nel caso di lessemi che hanno lo stesso significante, ma diverso significato. Nella lingua italiana
gli omonimi si distinguono in omografi e omofoni: gli omografi sono le parole che si scrivono allo stesso
modo, ma si pronunciano diversamente ("subíto" e "subito”); parliamo invece di omofoni nel caso di parole
che si pronunciano anche allo stesso modo ("partito” verbo partire e "partito" associazione politica).
Dall'omonimia deve essere distinta la polisemia: nel caso dell'omonimia non ci sono rapporti di parentela e
derivazione fra i significati rappresentati dallo stesso significante, mentre nella polisemia i vari significati
sono in qualche modo e misura correlati tra loro (es. “ala” di un uccello, di un aereo, di un edificio…). I diversi
significati associati a una parola polisemica variano quando si passa da una lingua a un'altra e la polisemia
può pertanto costituire un fattore di difficoltà nell'apprendimento del lessico.

Sinonimia: quando fra due parole sussiste un rapporto di somiglianza semantica parliamo di sinonimia. Si
tratta di parole con significante diverso, ma significato simile (bello/affascinante) o uguale (padre/babbo). La
sostituzione di una parola simile con un'altra comporta spesso un cambio di sfumatura del significato e può
non risultare appropriata in certi contesti e in certi registri comunicativi. Emerge quindi che una sinonimia
perfetta o assoluta è estremamente rara. Abbiamo casi di sinonimia parziale (“vivere” e “abitare”) ma nella
maggior pare dei casi abbiamo a che fare con una sinonima relativa o contestuale e quindi funzionale a ciò
che in una certa situazione socio-pragmatica si vuole esprimere. Pertanto, è importante introdurre il lessico
agli studenti sempre in specifici contesti d'uso, in modo da stimolare la riflessione sulla sinonimia.
Antonimia: quando fra due parole sussiste un rapporto di incompatibilità semantica parliamo di antonimia. Si
considerano antonimi due lessemi che hanno un significato opposto. I rapporti di antonimia si differenziano
in base alla loro appartenenza a categorie che esprimono proprietà fisiche (alto/basso) qualitative
(buono/cattivo), spaziali (sopra/sotto), estetiche (bello/brutto) o proprietà che si escludono l'un l'altra
(giorno/notte). Ci possono essere degli antonimi specifici di una lingua in termini culturali come "nord”
opposto a "sud” non nel senso geografico, ma nel senso di una contrapposizione di grado socioeconomico.
Quest'ultimo rapporto oppositivo risulta capovolto in ordine di grado se ci si sposta in Germania e ciò
dimostra come questi rapporti semantici oppositivi siano relativi e possano variare da lingua a lingua
generando incomprensioni o fraintendimenti. Presentare una coppia di opposti agli studenti può favorire la
memorizzazione delle due parole.

Iperonimi e iponimi: iperonimi e iponimi si definiscono reciprocamente. Un iperonimo appartiene a una


categoria semantica più estesa entro la quale si iscrive un iponimo che rispetto all'iperonimo ha un
significato più specifico. Per cui “animale” è iperonimo di "cane” che è quindi un iponimo. Ma fra "animale" e
"cane” possiamo indicare un iponimo intermedio che è "mammifero" così come possiamo continuare ad
estendere la catena degli iponimi, ad esempio, con la parola "bassotto". La parola “animale” è iperonima
anche di “gatto” che condivide con cane il tratto semantico “mammifero”, ma non quello “siamese”.
All'interno di una certa categoria semantica (iperonimo) troviamo un ordine gerarchico rispetto agli iponimi
e a rete tra gli iponimi nella misura in cui aumentano i tratti semantici di ciascun iponimo e fra di essi si
stabiliscono degli incroci: alcuni tratti appartengono ad alcuni iponimi, ma non ad altri e così via. Il rapporto
tra iperonimi e iponimi permette di rilevare una struttura organizzativa di tipo associativo tra gli elementi del
lessico di una lingua.

La competenza lessicale si struttura in una serie di sotto-competenze che devono essere sviluppate
attraverso tecniche e strategie didattiche che tengano conto del contesto educativo e delle specifiche
condizioni emotivo-affettive degli studenti: competenza linguistica (conoscenza dell’ortografia, della
pronuncia, delle caratteristiche morfosintattiche), discorsiva (conoscenza dei rapporti logico-semantici tra le
unità lessicali, quindi co-occorrenze e collocazioni e delle regole di coesione all’interno del testo),
referenziale (conoscenza del mondo e enciclopedia per attivare il lessico corrispondente a determinati
domini di esperienza), socioculturale (scelte del registro in base al contesto comunicativo – valore culturale,
affettivo e connotativo delle parole in relazione ai paradigmi culturali di una determinata comunità
linguistica), strategica (capacità di utilizzare strategie per risolvere problemi di comunicazione).

2. Le parole nella mente

Per quanto gli esseri umani nascano dotati delle basi naturali per acquisire una lingua, è solo all'interno di un
contesto comunicativo pragmatico-sociale, interazionale, affettivo e relazionale, che riescono ad acquisire
una o più lingue storiche. È dunque un processo complesso e l'organizzazione del lessico mentale che ne
risulta si configura in modo altrettanto complesso. Definire cosa sia il lessico mentale è impossibile nella
misura in cui qualsiasi definizione si rivela inadeguata o incompleta, per queste ragioni gli studiosi hanno
proposto una definizione aperta che non incapsula il lessico mentale come un’entità con precisi confini, ma
lo inquadra come un’attività che può essere esercitata consciamente o inconsciamente. Il lessico mentale,
descrivendolo in termini psicolinguistici, è come un insieme di rappresentazioni (cioè di oggetti mentali che
corrispondono a elementi della realtà) e di processi che si applicano a queste rappresentazioni operando su
di esse, trasformandole o mettendole in relazione fra loro. I nuovi elementi che vengono introdotti nel
lessico mentale entrano evidentemente in connessione con gli elementi già presenti. Quando riconosciamo
una parola come appartenente al lessico di una lingua che abbiamo imparato o che stiamo apprendendo, si
attivano una serie di competenze come quella che ci permette di riconoscere la forma della parola o quella
che ci consente di riconoscerne gli aspetti morfosintattici, siamo in grado di categorizzarla dal punto di vista
grammaticale e possiamo attribuirle un significato sulla base di quelle che sono le nostre conoscenze del
mondo, depositate nella nostra memoria a lungo termine. La memoria semantica è la parte della memoria a
lungo termine che raccoglie tutto il sapere che accumuliamo, tutta l'enciclopedia delle nostre conoscenze.
Essa codifica le rappresentazioni delle parole che vengono riattivate nel momento in cui ci troviamo a
decodificare gli input a esse corrispondenti. Quando riconosciamo un input, non si attiva semplicemente la
rappresentazione a esso corrispondente, bensì si avvia un processo di elaborazione concettuale attraverso il
quale l'input viene confrontato e integrato con altri input presenti nella memoria, si attiva l’intera
enciclopedia delle conoscenze. Sono stati elaborati diversi modelli che descrivono la struttura e il
funzionamento del lessico mentale. Quest'ultimo, di certo, si attiva immediatamente quando riceviamo input
linguistici o produciamo output linguistici. Esso è in grado sia di conservare a lungo le informazioni sulle
parole che raccoglie sia di riorganizzarsi di volta in volta in base ai nuovi input. Quando si apprende una
lingua straniera si vengono evidentemente a creare delle nuove rappresentazioni lessicali nella nostra
mente. È chiaro che, dal punto di vista del lessico di una o più lingue straniere, potrebbero entrare in gioco
diverse variabili come, ad esempio, la somiglianza formale (grafemica o fonemica) oppure semantica tra la L1
e la lingua target: è possibile che i due lessici vengano immagazzinati in due sistemi differenti che però sono
in grado di relazionarsi tra loro nella misura in cui entrambi si connettono allo stesso unico sistema
concettuale. Il modo e la misura in cui questi due sistemi entrano in contatto dipendono molto da fattori
quali le modalità d'apprendimento del lessico della L2 e il livello di competenza lessicale raggiunto nella L2. È
stato dimostrato che il lessico della L1 viene generalmente memorizzato con le parole ad alta frequenza
d'uso - in base a rapporti semantici di tipo paradigmatico; le associazioni di tipo sintagmatico vengono
preferite per memorizzare il lessico a bassa frequenza d'uso. Per memorizzare il lessico della L2, invece, la
tipologia di associazioni appare molto più variabile e tende a basarsi su rapporti semantici di carattere
contestuale, ovvero si tendono ad associare parole usate nella stessa situazione comunicativa o in situazioni
simili.

Per la rappresentazione dell'associazione degli aspetti formali delle parole con quelli semantici,
dell'organizzazione dei rapporti delle parole nella mente e delle modalità d'accesso e d'uscita del lessico,
sono stati elaborati dalle scienze cognitive diversi modelli volti a descrivere il funzionamento del lessico
mentale.

Il (secondo*) modello logogen di Morton: esso prevede un'elaborazione in parallelo dell'input: è costituito da
un sistema cognitivo che include informazioni di tipo semantico e sintattico ed è collegato a due sistemi detti
logogen, i quali sono separati; uno è deputato all'analisi degli aspetti uditivi dell'input e l'altro a quella degli
aspetti visivi (*nel primo modello Morton aveva ipotizzato un unico meccanismo di elaborazione degli input
visivi e uditivi). I due sistemi accumulano le informazioni su ogni stimolo che ricevono e le immettono al
sistema cognitivo; da quest'ultimo attingono le informazioni necessarie per riconoscere un input quando
questo è fra quelli che sono già stati archiviati. I logogen operano in parallelo e sono poi connessi con un
sistema d'uscita degli input che si attiva quando si producono le parole in modo scritto o orale. Il
riconoscimento di una parola da parte del logogen avviene secondo variabili quali la frequenza d'uso d'una
parola, la sua lunghezza, la sua concretezza, ecc. Secondo Morton le parole con maggiore frequenza d'uso
sarebbero quelle più attive e dunque maggiormente disponibili nelle ricerche successive. Ciò suggerisce, dal
punto di vista glottodidattico, che occorre favorire il più possibile l'esposizione alle parole di una lingua,
perché quanto più alta è la frequenza di esposizione a esse, tanto più basso sarà il livello di soglia per
l'attivazione dei sistemi logogen. Sarà quindi più facile riconoscere e produrre le parole a cui si viene esposti
maggiormente.

Il modello di ricerca seriale di Forster: secondo il modello elaborato da Forster, il lessico consiste in un unico
grande archivio centrale che raccoglie tutte le informazioni necessarie per comprendere e produrre le
parole. Le operazioni di processazione degli input lessicali avvengono attraverso una serie ordinata di
operazioni che permettono il passaggio sequenziale a diversi gradi di elaborazione. L'accesso all'archivio
centrale avviene attraverso tre archivi periferici: ortografico, fonologico e sintattico/semantico. Le
informazioni ricevute dal magazzino centrale vengono trasmesse al magazzino delle conoscenze – la
cosiddetta enciclopedia – che ciascun individuo accumula nel corso della propria vita. L'attivazione degli
archivi periferici dipende dal tipo di input che la mente riceve (lettura – ortografico; ascolto – fonologico;
produzione di un discorso o di un testo – sintattico/semantico). Nel modello Forster ciascun archivio
d'accesso opera autonomamente, non c'è dunque alcuna forma di interconnessione; indipendentemente
dalla forma (ortografica o fonologica) in cui si presenta un input, le informazioni confluiranno tutte insieme
nell'archivio centrale dove si depositerà un'unica rappresentazione dell'input. Ogni ingresso attraverso un
archivio periferico associato a un ingresso nell'archivio centrale è organizzato in bin, dei raggruppamenti di
parole o aree lessicali basate su relazioni di somiglianza tra le parole o sul loro grado di frequenza. Se la
parola viene individuata si accede allora all'archivio centrale e in tal modo si ottengono tutte le informazioni
relative a essa contenute nel lessico mentale.
Il modello di Levelt: il modello psicolinguistico di Levelt non si limita ad illustrare i processi di comprensione,
bensì anche quelli di produzione. Si tratta di un modello strutturato secondo un percorso discendente
(produzione/riconoscimento) e uno ascendente (comprensione/ricostruzione), nei quali sono inclusi:
elementi dichiarativi (cosa conoscere) – che riguardano la conoscenza del mondo (enciclopedia del parlante)
e le conoscenze lessicali di natura fonologica, morfologica, grammaticale e semantica – ed elementi
procedurali (come conoscere) che si riferiscono ai diversi livelli di codifica e di elaborazione dell’input. Si
genera il messaggio preverbale, il quale viene codificato sul piano grammaticale e su quello fonologico:
entrambe queste codifiche secondo Levelt sono su base lessicale, come su base lessicale è l'operazione
parallela corrispondente nel percorso ascendente. Il sistema di articolazione si occupa della produzione di
quanto predisposto sul piano fonetico interno, mentre il sistema di codifica uditivo del percorso ascendente
di comprensione del messaggio, è deputato all'analisi delle stringhe fonetiche. Il sistema di comprensione
riceve le stringhe fonetiche e assegna loro un valore semantico e grammaticale grazie a un'elaborazione di
tipo lessicale degli elementi dell'enunciato. Nel modello di Levelt il lessico assume una collocazione centrale:
il processo di codifica ed elaborazione grammaticale e fonologica, sia nel flusso di produzione che in quello di
comprensione, avviene grazie all'attivazione delle conoscenze lessicali di carattere morfologico, fonologico,
grammaticale e semantico.

Il modello neuropsicologico del lessico: Semenza ha presentato un modello cognitivo del lessico più recente,
nel quale la differenziazione tra un sistema d’entrata e uno d’uscita lessicale è basta su assunzioni
neuropsicologiche. Questo modello del lessico pone al centro il sistema concettuale semantico (che
corrisponde alla memoria semantica), al quale si connettono un lessico fonologico d'entrata (prodotto dalla
codifica dello stimolo acustico) e un lessico ortografico d'entrata (prodotto dalla codifica dello stimolo
verbale visivo) nonché un lessico fonologico d'uscita (che viene poi articolato) e un lessico ortografico
d'uscita (che viene elaborato in scrittura). Tutte le componenti di questo modello fanno parte della memoria
a lungo termine. Vi sono quindi un processo di comprensione dell’input uditivo e di produzione dell’output
vocale, e un processo di comprensione dello stimolo visivo e quello della produzione scritta. Il buffer è
un’area di immagazzinamento dei dati che attendono di essere elaborati ed è assimilabile al meccanismo di
funzionamento della memoria a breve termine. Questo modello include anche una via extraverbale
indispensabile nella processazione di immagini e figure; nella memoria strutturale canonica vengono raccolte
le rappresentazioni visive degli stimoli processati.

La teoria modulare: per quanto riguarda la rappresentazione del lessico mentale, all'interno delle scienze
cognitive si sono affermate due linee teoriche: la teoria modulare fondata da Fodor e il connessionismo
formulato da Hopfield. La teoria modulare prevede che i processi mentali umani si costituiscano in moduli
distinti, e ritiene che ci sia un isomorfismo tra l'organizzazione funzionale della mente e la struttura
neurologica del cervello. In questa prospettiva il lessico mentale si configurerebbe come un modulo mentale
specifico a cui corrispondono precise connessioni neurali. Secondo la teoria modulare elaborata da Fodor,
dunque, la mente sarebbe strutturata in sistemi di input che processano in modo meccanico (a prescindere
dalla coscienza del soggetto) gli stimoli sensoriali, e in sistemi centrali che ricevono le rappresentazioni
trasmesse dai sistemi di input e ne dispongono per svolgere funzioni cognitive superiori. Seguendo un
percorso bottom-up, dal basso verso l'alto, i sistemi di input si attivano indipendentemente dai sistemi
centrali ogni volta che ricevono un input da processare.

Il connessionismo: si contrappone al modularismo. Mette innanzitutto in discussione l'idea che ci sia


isomorfismo tra funzione cognitiva e struttura neurale, sostenendo piuttosto che più comparti neurologici
corrispondano a un modulo cognitivo dando vita ad una rete. Pertanto, più che strutturarsi in moduli e in
diversi lessici, la mente si struttura in reti di connessioni con differenti profili d'attivazione in base alla
funzione cognitiva da svolgere. Secondo il paradigma connessionista dunque, la struttura cognitiva è
caratterizzata da un'interconnessione neurale degli elementi che si attivano e operano in parallelo. Queste
reti neurali si modificano in base all'esperienza e all'apprendimento: qualora questi modelli si rivelino
inadeguati o insufficienti, le connessioni neurali si riconfigurano per fornire risposte adeguate ai nuovi
stimoli.

Ciò suggerisce che quando si apprende una lingua straniera avvengono degli aggiustamenti delle reti neurali
e questi aggiustamenti sono favoriti dalla frequenza con cui gli apprendenti vengono esposti agli input
linguistici e dalle modalità con cui avviene l’esposizione. Per cui al centro dell’apprendimento del lessico di
una nuova lingua ci sono una ristrutturazione e uno sviluppo concettuale, ovvero lo sviluppo di nuove
rappresentazioni che consentono ai parlanti apprendenti di mappare nuove parole. La discussione circa i
modelli di rappresentazione del lessico mentale bilingue è principalmente incentrata su due modelli: il
Revised Hierachical Model e il Distributed Feature Model. Secondo il primo modello, la traduzione dalla L2
alla L1 è più veloce di quella dalla L1 alla L2 specie nei principianti, per i quali l’accesso concettuale avviene
attraverso gli equivalenti nella L1. Le associazioni lessicali dalla L2 alla L1 quindi sono più forti. Con lo
sviluppo della competenza in L2, i legami tra le parole e i concetti si fanno più stretti e gli studenti
cominciano a fare affidamento a collegamenti diretti che prescindono dalla mediazione concettuale nella
lingua madre. Il Distributed Feature Model invece, rappresenta le differenze tra le lingue basandosi sulla
rilevazione di una rapidità maggiore dei bilingui nel tradurre parole concrete e affini rispetto alla traduzione
delle parole astratte. Ciò dimostrerebbe che la rappresentazione delle parole concrete e affini è
maggiormente condivisa dalle diverse lingue rispetto a quella delle parole astratte. Il Modified Hierarchical
Model, una versione aggiornata del modello gerarchico, pur mantenendo il progressivo sviluppo dalla
mediazione lessicale a quella concettuale nell'apprendimento L2, presenta importanti cambiamenti:
l’archivio concettuale è costituito da rappresentazioni distinte di una lingua che vengono riconosciute
attraverso l’attivazione di processi che prevedono l’interazione tra la mente e l’ambiente, e l'apprendimento
del lessico L2 viene visto come un processo graduale che avviene nella memoria implicita e che conduce alla
produzione linguistica spontanea, non mediata da processi metalinguistici di conoscenza esplicita.

3. Il Lexical approach

Per molti anni è prevalsa una visione dicotomica della lingua: da una parte la grammatica (le regole),
dall'altra le parole (l'uso), dove la prima godeva della quasi totale attenzione nel percorso didattico. Tuttavia,
nel corso degli anni Settanta, avviene un profondo cambiamento sia a livello glottodidattico che psico-
pedagogico. La mente non è più una scatola nera di cui è impossibile conoscerne i processi, ma proprio
questi ultimi (la memoria, la percezione, l'attenzione, ecc.) divengono gli aspetti privilegiati della ricerca in
ambito psicologico. La mente è attiva e le strategie attraverso cui essa apprende sono il fondamento di una
nuova visione glottodidattica. L'allievo è al centro del processo di apprendimento ed al paradigma
Presentazione/Esercitazione/Produzione (l’insegnante presentava una regola agli allievi, i quali erano tenuti
ad apprenderla attraverso la pratica; si procedeva poi alla produzione linguistica nella quale ciò che contava
era comprovare la capacità di applicare la regola, mentre il contenuto ed il contesto erano di secondaria
importanza) si sostituisce il percorso Osserva/Ipotizza/Sperimenta, che diverrà una delle basi
epistemologiche del Lexical approach di Lewis. A partire da un input linguistico sarà l'allievo, attraverso
strategie di osservazione e di verifica a creare ipotesi sul funzionamento del sistema lingua, sperimentando
le nuove conoscenze all'interno di atti linguistici il cui scopo è raggiungere un obiettivo comunicativo.
L'allievo deve essere in grado di comunicare il proprio pensiero, non solo dimostrare la propria competenza
morfosintattica. Eppure, malgrado tali profonde innovazioni, la ricerca sul lessico è rimasta latitante fino agli
anni Ottanta del secolo scorso. È solo a partire dagli anni Novanta che in ambito anglosassone si propone un
approccio dichiaratamente incentrato sul lessico e non più sulla progressione grammaticale, ovvero il Lexical
approach. Certo non sono mancate voci di studiosi che sottolineavano fin dagli anni Ottanta l'importanza del
lessico, tuttavia non si osservano in quegli anni particolari cambiamenti negli orientamenti metodologici. Il
Lexical approach riguarda sia il “cosa” insegnare, ossia i contenuti, sia “il come” ossia il percorso
metodologico, ma soprattutto riflette sui "perché”, ossia sui fondamenti epistemologici stessi che stanno alla
base dell'impianto teorico di un approccio. Il Lexical approach dunque rappresenta la prima proposta
didattica organica ed articolata incentrata sul lessico. Per Lewis si tratta di riconsiderare la lingua come un
organismo unitario, in una visione di lessico-grammatica in cui il focus si sposta al lessico.

In apertura di The Lexical approach Lewis propone un decalogo di aspetti metodologici e linguistici che
presenta nella sostanza tutti i principi fondanti dell'approccio. La lingua è un organismo unitario che non può
essere scomposto nelle sue parti in modo atomistico, e tale organismo è costituito di unità lessicali
complesse, da segmenti organizzati, da raggruppamenti strutturati di parole (che Lewis definisce chunks) che
impongono il superamento della dicotomia tra lessico e grammatica a favore di una concezione della lingua
intesa come lessico grammaticalizzato. Sostiene l’importanza di una didattica attenta ai naturali processi
psicolinguistici di apprendimento e di memorizzazione del linguaggio, la quale dovrebbe interrogarsi di più
sulla metodologia di insegnamento: cercando di rispettare il normale funzionamento della mente si
dovrebbe favorire un percorso didattico più “ecologico” che garantisca un'acquisizione più stabile e profonda
della lingua straniera. Possiamo dunque collocare il Lexical approach all'interno della visione comunicativa
della lingua dimostrando particolare attenzione per la dimensione sociolinguistica e pragmatica legata alla
comunicazione e all'interazione linguistica in contesti comunicativi significativi. Non basta conoscere la lingua
e saperne manipolare le strutture per produrre delle frasi corrette sul piano morfosintattico, ma è necessario
sviluppare una competenza d'uso in contesti significativi. Widdowson descrive questo aspetto nella
dicotomia tra i termini usage e use. Il primo descrive norme indipendenti dal contesto che indicano se una
frase è accettabile o meno in una certa lingua, mentre il secondo termine rimanda all'appropriatezza di una
frase rispetto al contesto e dunque al valore pragmatico dell'atto comunicativo. Il Lexical approach si colloca
in questa seconda dimensione della lingua, ossia nella dimensione funzionale socio-pragmatica propria di
un'ottica metodologica di impostazione comunicativa. Si tratta dunque di stabilire un continuum tra un
significato de-contestualizzato e il valore comunicativo contestualizzato. Come osserva Lewis, sono i bisogni
linguistici e le necessità comunicative a spingere l'individuo a sviluppare e migliorare la propria competenza
linguistica e non il contrario. Gli aspetti linguistici richiedono però anche delle opzioni metodologiche
coerenti. È stato osservato come la lingua sia costruita in gran parte da multi-word chunks, di conseguenza
gran parte dell'attività didattica sarà incentrata nello sviluppo di una competenza metalinguistica che
consenta all'allievo di riconoscere, memorizzare e utilizzare in fase produttiva tali chunks; una
programmazione didattica incentrata sulla progressione grammaticale sarà caratterizzata da una
progressione dal più semplice al più difficile, mentre nel caso del Lexical approach essa sarà piuttosto dal più
utile al meno utile e dal più frequente al meno frequente.

Le collocazioni (o chunks di due o più parole) sono estremamente comuni nelle lingue e spesso differiscono
da una lingua all'altra presentando dunque un certo grado di difficoltà per gli studenti. La formazione delle
collocazioni rientra nella dimensione paradigmatica della lingua, poiché hanno principalmente un'origine
semantica e d'uso. Per il Lexical approach le collocazioni rappresentano una parte importante della lingua
che non solo non può essere ignorata, ma va posta al centro del percorso didattico. All'interno delle abilità
ricettive, il Lexical approach (almeno nelle fasi iniziali di apprendimento) dà ampio rilievo all'ascolto, attività
ricettiva considerata tutt'altro che passiva, anzi determinante nelle fasi iniziali. Il percorso metodologico non
si basa sull’insegnamento della grammatica ma sulla riflessione sulla lingua: il percorso didattico è incentrato
sull'allievo che riflette sul fenomeno linguistico, lo osserva e crea ipotesi sui possibili meccanismi che lo
presiedono; bisogna che vi siano sufficienti "indizi” per poter ipotizzare la regola e dunque l'unità minima per
le attività didattiche è il testo con i suoi meccanismi di coesione e coerenza e non le singole frasi da
trasformare, come nella tradizione incentrata sulla grammatica. Siamo dunque di fronte a due diversi
percorsi di ragionamento: deduttivo ed induttivo; il Lexical approach propende per un percorso induttivo,
basato su un processo di scoperta e non di applicazione. Infine, il Lexical approach privilegia una didattica
task oriented piuttosto che incentrata sugli esercizi della didattica tradizionale: la lingua deve essere usata
per raggiungere determinati obiettivi, per realizzare un determinato compito ed in questo caso si osserva
maggiormente il processo e non tanto il prodotto.

Lewis individua quattro categorie fondamentali di unità lessicali: words e polywords, collocations,
institutionalised utterances, sentence frames or heads. Le prime due categorie riguardano il significato
referenziale, mentre le altre due il significato pragmatico.

Words e polywords: si tratta delle parole assunte come unità indipendenti. In genere, quando si pensa
all'insegnamento del lessico negli approcci tradizionali ci si riferisce all'insegnamento di queste singole
parole, il Lexical approach invece opererebbe individuando il chunk. Per polywords invece si intendono
locuzioni composte in genere da due, tre parole (es. “dal punto di vista di”). Si tratta di espressioni che
ricorrono con certa frequenza, ma che in genere la didattica tradizionale non ha preso in considerazione in
modo sistematico. Le polywords sono un esempio di lessico grammaticalizzato: sono espressioni fisse da
assumere come semplici unità lessicali.

Le collocazioni: si tratta di coppie di parole che si attraggono in modo particolare e che ricorrono con alta
frequenza dando vita a co-occorrenze, più o meno fisse, sul piano sintagmatico. Abbiamo già osservato come
nelle varie lingue non sempre esiste corrispondenza tra le possibili collocazioni e dunque esse possono
costituire una difficoltà per gli allievi. Nel Lexical approach le collocazioni svolgono un ruolo centrale sia per
sviluppare la riflessione metalinguistica, sia perché possano essere apprese come singole unità lessicali:
apprendere la lingua straniera attraverso tali strutture le renderebbe in seguito più facilmente recuperabili.

Frasi istituzionalizzate: rientrano in questa categoria chunks di uso pragmatico che appartengono al codice
orale. Possono essere costituiti anche da intere frasi che possiamo assumere come singole unità ed essere
apprese come tali. Molte di queste espressioni fisse sono frasi di cortesia che sono entrate a far parte della
routine; il Lexical approach si focalizza sulle espressioni semifisse che si inquadrano in una struttura
pragmatica o funzionale (es. “ho l’impressione che”/“se fossi in te”)

Espressioni per strutturare il testo: si tratta di forme istituzionalizzate che appartengono al codice scritto e
che si utilizzano per strutturare e decodificare testi di una certa lunghezza, ma possono essere anche
presenti nella lingua parlata (es. nel linguaggio accademico). Le categorie lessicali indicate da Lewis e i
chunks che le compongono, hanno alla base le regole di formazione delle parole presenti in una determinata
lingua. Per sviluppare la consapevolezza sull'organizzazione di tali chunks può essere utile riflettere, dal
punto di vista metalinguistico, sui meccanismi di formazione delle parole nel lessico di una lingua:

- neologismi: la neologia è un fenomeno insito nella natura stessa della lingua, nella costante necessità
dell'uomo di descrivere per mezzo di essa il mondo e i cambiamenti tecnico-scientifici, sociali e culturali che
si succedono costantemente imponendo nuove necessità comunicative. A volte un neologismo entra
definitivamente nel lessico fino a divenire una parola o una locuzione insostituibile. Vi sono neologismi
combinatori e semantici: i primi derivano essenzialmente da processi di suffissazione e derivazione, oppure
sono costituiti da sintagmi che si formano attraverso l'unione di due o più parole; i secondi invece sono
costituiti da lemmi già esistenti nella lingua che variano la loro valenza polisemica assumendo di volta in volta
nuovi significati.
- derivazione: la formazione di parole nuove può avvenire attraverso la derivazione, ossia attraverso un
processo di affissazione. Gli affissi si definiscono prefissi, suffissi ed infissi in base alla posizione che
assumono. Le nuove formazioni che derivano da un nome si chiamano denominali (senato - senatore); quelle
che derivano da un aggettivo deaggettivali (possibile - impossibile); quelle che derivano da un verbo
deverbali (partire - partenza). All'interno delle regole derivative si può includere anche l'alterazione,
attraverso suffissi accrescitivi, diminutivi, vezzeggiativi e spregiativi.

- composizione: consiste nel processo di combinazione di due o più parole che, messe assieme, assumono un
significato diverso dalle parole che le compongono. Le parole che si uniscono possiedono una loro
autonomia semantica, mentre gli affissi non possono essere isolati come unità lessicali indipendenti. Le
parole possono inoltre dar forma ad unità lessicali polirematiche formate da due parole che non si uniscono
fra di loro. È il caso di parole frasi quali temperatura ambiente, divano letto. Tali unità lessicali vengono
definite parole frasi in quanto sostituiscono un'intera frase. Nella società attuale queste espressioni sono
molto usate per la loro concisione e immediatezza.

- composti dotti: sono invece unità lessicali in cui almeno uno dei costituenti è di origine classica, greca o
latina. Questi elementi svolgono nella formazione della parola composta un ruolo simile a quello dei prefissi
e dei suffissi, assumendo il nome di prefissoidi e suffissoidi; consentono una internazionalizzazione del
termine scientifico, che spesso è presente in modo simile in lingue diverse.

- forestierismi: si possono raggruppare in due distinte categorie, prestiti e i calchi. Il prestito si realizza
quando all'interno di una lingua si usano elementi linguistici o lemmi appartenenti ad altre lingue. Spesso ciò
avviene sulla base del prestigio che una certa lingua assume in determinate epoche storiche o per necessità
comunicative. I prestiti possono essere acclimatati o non acclimatati (in base al grado in cui essi sono entrati
definitivamente a far parte del patrimonio lessicale di una lingua), adattati o non adattati (nel caso in cui
siano stati adeguati o meno alle strutture grafemiche o fonetiche della lingua ricevente, ad es. “bistecca”
dall'inglese beefsteak). I calchi sono una particolare categoria di forestierismi costituita da termini che
vengono tradotti con lemmi già esistenti nella lingua che li adotta, ai quali tuttavia viene attribuito un
significato diverso. Vi sono calchi semantici (riguardano un'estensione del significato di una parola già
esistente indotta da un modello straniero, es. realizzare - to realize), calchi strutturali o di traduzione (si
realizzano quando una parola o locuzione di una lingua vengono tradotti letteralmente utilizzando parole già
esistenti nella lingua ricevente, ad es. weekend - fine settimana) e calchi parziali (quei calchi in cui solo una
parte è presa in prestito da un'altra lingua, ad es. volo charter).

Nella rappresentazione classica del funzionamento della memoria, l'informazione elaborata


temporaneamente dalla memoria a breve termine viene trasferita (attraverso la ripetizione) nella memoria a
lungo termine; secondo tale modello più l'item permane nella memoria a breve termine e più vi sono
garanzie di un suo trasferimento in quella a lungo termine. Craick e Lockart hanno proposto un modello
diverso basato su una visione funzionale, avanzando l'ipotesi della profondità di codifica. In questa
prospettiva, il processo di elaborazione dell'informazione avviene lungo un continuum e sarebbe distribuito
secondo un percorso dai livelli più superficiali di codifica (analisi di tratti sensoriali) verso un'elaborazione
profonda dell'input a livello semantico, a più alto grado associativo. Un'elaborazione più profonda dà origine
ad un ricordo più stabile, perché più connesso a livello di reti semantiche. La ripetizione non è dunque
sufficiente: in altri termini il ripasso di mantenimento è un sistema di conservazione che non presenta le
caratteristiche dell'apprendimento, in quanto ha solo la funzione di attivare una rappresentazione già
esistente in memoria, mentre il ripasso elaborativo presiede alla riorganizzazione del sapere. Dal punto di
vista della didattica delle lingue questo implica che quanto maggiore sarà l'attenzione alle caratteristiche
semantiche del materiale linguistico tanto più stabile sarà il suo apprendimento. Affinché ciò si realizzi,
diviene fondamentale considerare il testo come l'unità minima di significato: solo nel testo sono presenti
tutti gli elementi linguistici ed extralinguistici che concorrono alla sua comprensione profonda. Da questi dati
emergono alcuni punti di convergenza tra la proposta metodologica del Lexical approach e i processi della
memoria. I chunks lessicali, che il Lexical Approach pone al centro della propria proposta metodologica,
sembrano rispecchiare perfettamente l'attività di chunking della memoria a breve termine. Predisporre
attività didattiche che favoriscano l'apprendimento di unità lessicali strutturate rappresenta una
metodologia che rispetta il normale funzionamento della memoria umana. Un altro interessante punto di
convergenza riguarda la lunghezza dei chunks e lo span della memoria a breve termine. I nuovi chunks che gli
allievi formano a partire dalle unità lessicali già acquisite e memorizzate, possiedono una struttura linguistica
perfettamente coerente con l'ampiezza dello span della memoria a breve termine e di conseguenza possono
essere memorizzati in modo naturale. Una metodologia basata sull'osservazione e la formulazione di ipotesi
sul funzionamento del sistema lingua, come quella proposta dal Lexical approach, consente una maggiore
facilità di memorizzazione stabile dell'input e rappresenta la procedura più idonea per comprendere la
formazione e la struttura dei chunks lessicali.

Applicazioni pratiche del Lexical approach: la prima tecnica consiste nel riconoscere ed associare nell’ordine
corretto le coppie di parole, per poi riutilizzarle all’interno di alcuni mini-dialoghi; è utile predisporre tecniche
che aiutino gli allievi a riflettere sulle relazioni di alta frequenza tra parole, quindi un altro tipo di attività può
riguardare il riconoscimento di collocazioni presentate in una lista; per quanto riguarda le espressioni fisse e
semi-fisse si può far individuare le unità lessicali corrette e poi chiedere agli allievi di individuare una
espressione corrispondente nella lingua madre, oppure di riproporle all’interno di nuovi contesti; si possono
utilizzare tecniche enigmistiche o di incastro, dove si richiede di inserire un chunk sulla base di frasi da
completare o di ricostruire un dialogo; si può utilizzare la procedura cloze che prevede di completare un
testo nel quale sono stati cancellati alcuni chunks lessicali di vario tipo.

4. La lettura e lo sviluppo del lessico


Dai gesti, al linguaggio, alla scrittura e alla lettura, fino alle odierne forme di comunicazione del mondo
digitale e informatizzato, la specie umana non ha smesso di sviluppare la propria dimensione comunicativa,
attraverso tappe epocali e rivoluzioni culturali che hanno richiesto al cervello lunghi periodi di adattamento.
Fortunatamente, la mente possiede la straordinaria capacità di modellarsi sulla base dell'esperienza.
All'origine della capacità di modificare e adattare le proprie funzioni e di creare nuovi collegamenti vi è infatti
la plasticità cerebrale ossia “le variazioni dell'organizzazione nervosa che sono alla base delle diverse forme di
modifica del comportamento, sia di lunga che di breve durata”. Leggere è quindi una conquista culturale che
ha richiesto al cervello un lungo percorso di adattamento ed è un apprendimento consapevole e a volte
faticoso. Non esistono moduli o circuiti cerebrali innati per la lettura che si attivano quando il bambino inizia
a farne pratica. Su queste basi è stato sviluppato il modello definito riciclaggio neuronale: il cervello di fronte
a nuove sfide, in mancanza di circuiti specifici geneticamente determinati, utilizza circuiti preesistenti
adattandoli alle nuove esigenze e riconvertendoli ad un nuovo uso. La scrittura si è sviluppata in un
determinato modo perché tale era consentito dai vincoli biologici e il modello universale della lettura che ne
è derivato ha cambiato per sempre la struttura del nostro cervello. Sono quindi i vincoli biologici consentiti
dall’evoluzione del nostro cervello che hanno reso possibili determinati sviluppi della scrittura: in altre parole
è la scrittura ad essersi adattata al nostro cervello. Ne consegue che la teoria del riciclaggio neuronale
confuta l'idea del relativismo culturale in base al quale «le capacità di apprendimento dell'uomo sono così
grandi che le variazioni culturali sono potenzialmente limitate». Inoltre, l'ipotesi del riciclaggio neuronale si
oppone al concetto neo-comportamentista del cervello come tabula rasa, in cui le scoperte culturali (come
scrittura e lettura) si apprenderebbero attraverso stimoli esterni reiterati. Il cervello è da subito in grado di
apprendere grazie alla sua plasticità: un esempio di ciò è dato dalla regione occipito-temporale sinistra.
Questa regione, nel corso del tempo, si è specializzata nel riconoscimento degli oggetti. È dunque un'area
importante del complesso sistema visivo. Tale area rappresentava dunque uno “spazio ideale” per il cervello
per adattarsi all'invenzione culturale della scrittura e della lettura. Ciò spiega come in ogni cultura e in ogni
lingua sia sempre la medesima area ad essere interessata nel riconoscimento delle parole. È possibile
dunque far riferimento ad un sistema universale di lettura. Tale sistema coinvolge praticamente tutte le aree
dell'encefalo (dalle aree della percezione visiva, le aree associative, le aree parietali e temporali deputate alle
diverse dimensioni del linguaggio e le aree prefrontali dove ha sede la memoria di lavoro). Nel tempo il
cervello ha creato tra queste aree collegamenti necessari alla lettura, nuove vie nervose che consentono la
trasmissione di dati in tempi rapidissimi. Tuttavia, il cervello ha anche adattato alcuni circuiti in funzione di
specifiche caratteristiche delle lingue. Il cervello ha dunque imparato a leggere utilizzando dei circuiti
preesistenti e destinati ad altre funzioni creando nuovi collegamenti tra essi: un percorso molto articolato
ma talmente funzionale e rapido da dare l’impressione che la lettura sia un’attività di riconoscimento
immediato. Il sistema alfabetico (con un repertorio tra le venti e le trenta lettere) rappresenta la forma di
scrittura più economica ed efficiente. Il percorso della lettura inizia dall'organo periferico della visione,
l'occhio. Tuttavia, solo una piccola porzione di esso, una zona della retina denominata fovea, possiede le
cellule fotoricettrici in grado di cogliere i particolari delle parole. Ciò comporta due conseguenze: in primo
luogo, essendo un’area molto ristretta (occupa il 15% del campo visivo) la visione del testo risulta limitata da
una finestra percettiva molto piccola e di conseguenza siamo obbligati a rapidi spostamenti degli occhi per
poter procedere nella lettura. Tali spostamenti, definiti movimenti saccadici, sono dell'ordine di circa 250
millesimi di secondo.
Il processo di lettura, dunque, si basa su brevi fissazioni in cui vengono estratte informazioni e movimenti
saccadici che spostano il centro della visione su una nuova porzione di testo. È interessante notare che lo
span di percezione visiva distribuisce le lettere in modo asimmetrico rispetto al centro della visione. Ciò
dipende dalla direzione della lettura in una certa lingua. Le lingue che leggono da sinistra verso destra, hanno
una maggiore percezione di lettere a destra, mentre invece il fenomeno è esattamente opposto per lingue
come l'arabo che leggono in direzione contraria. Dunque, lo span di percezione visiva si adatta alle modalità
di lettura di una determinata lingua. Il livello successivo procede per due vie probabilmente parallele. Da un
lato avviene la conversione grafema-fonema, e dunque si accede ad una via definita fonologica, mentre
contemporaneamente si attiva la via lessicale per attribuire un significato. La durata delle fissazioni varia a
seconda del tempo che il lettore impiega nel codificare le diverse parole. È importante tener presente che
quando si legge in una lingua straniera i tempi di lettura tendono ad allungarsi, non a causa dell'aumento del
numero delle fissazioni, ma della loro durata. Ciò significa che gli allievi leggono più lentamente i testi in
lingua straniera perché impiegano maggiore tempo nei processi di comprensione del significato della parola
scritta. Quando una parola è nota o è frequente la via lessicale può essere sufficiente al recupero del suo
significato, mentre di fronte alla parola nuova la via fonologica diviene fondamentale. In lingue trasparenti
(come l'italiano o il tedesco) in cui il rapporto grafema/fonema è prevalentemente costante, le informazioni
accedono più rapidamente alle aree temporali per la successiva elaborazione, mentre le lingue in cui tale
rapporto è opaco (come l'inglese) l'elaborazione fonetica richiede un tempo leggermente maggiore. A
questo punto la parola è pronta per essere elaborata da complesse reti semantiche che la pongono in
rapporto con il lessico mentale e ne determinano il significato. Queste complesse operazioni di elaborazione
del significato implicano l'attivazione dei più alti processi cognitivi e spesso coinvolgono aree appartenenti ad
entrambi gli emisferi nell'elaborazione di concetti astratti.

Vi sono quindi delle differenze nei processi di lettura tra L1 e L2. Una prima distinzione riguarda, ad esempio,
il rapporto tra il riconoscimento visivo della parola e il sistema di scrittura a cui essa appartiene: a seconda
che esso sia morfo-fonologico (come l'inglese), sillabico puro (giapponese) o morfo-sillabico (come la
scrittura cinese, nella quale i caratteri veicolano sia elementi fonologici che di significato). Anche il sistema
morfologico differisce molto a seconda del tipo di lingua. Ad esempio, le lingue cosiddette isolanti o
analitiche come il cinese prevedono che una parola sia formata da un solo morfema e dunque non sia
scomponibile in unità più piccole. In questo caso, dunque, è fondamentale la posizione che la parola assume
all'interno della frase. Lingue agglutinanti, come ad esempio il giapponese, esprimono le categorie
grammaticali attraverso un sistema di affissazione che lega più morfemi ad una radice invariabile. La
struttura della parola, in questo caso, prevede una catena di morfemi che svolgono un'unica funzione. Le
lingue flessive o fusive hanno, invece, una struttura morfologica complessa con morfemi che possono
contenere più di una informazione grammaticale (come l'italiano). Nel caso di lingue polisintetiche invece la
complessità deriva dal numero di morfemi come nel caso delle lingue agglutinanti, ma mentre queste ultime
possiedono solo una radice, nelle lingue polisintetiche le radici possono essere diverse, e dunque una parola
può rappresentare un'intera frase. Sul piano neuroanatomico però qualsiasi tipo di lingua è analizzata
sempre dalle stesse aree cerebrali; vi possono essere diverse intensità di attivazione delle diverse aree
deputate alla lettura e vie nervose coinvolte in modo maggiore o minore a seconda del sistema ortografico,
ma tali diversità si basano comunque sullo stesso sistema neurofisiologico di lettura universale. Anche
all'interno della stessa lingua si può realizzare un grado diverso di attivazione della via fonologica e della via
lessicale. Le parole irregolari o sconosciute, come nel caso di molte parole in L2, vengono prima elaborate
dal sistema uditivo, e dunque vengono prima pronunciate, e successivamente viene loro attribuito un
significato. Nel caso invece di parole già note o regolari si attiva direttamente o contemporaneamente la via
fonologica e l'accesso lessicale.

Abbiamo osservato che i sistemi alfabetici regolari prevedono una corrispondenza grafema/fonema e che la
conversione grafema/fonema è una delle tappe essenziali del processo di lettura. Tuttavia, tale rapporto non
è univoco: la corrispondenza varia in ordine al grado di trasparenza o opacità del sistema ortografico. Il
sistema inglese è un esempio di ortografia opaca (il suono /i/ può essere rappresentato in diverse forme
grafiche come recent, seal, peel ecc.) mentre in italiano il rapporto tra lettera e suono è molto più regolare e
biunivoco e dunque esso è un esempio di sistema ortografico trasparente. È chiaro che il grado di opacità
della lingua rappresenta un primo ostacolo per colui che si accinge ad apprenderla e richiede una didattica
adeguata a preparare l'allievo a sviluppare l'abilità di lettura. Un'interessante conseguenza dal punto di vista
psicolinguistico e glottodidattico riguarda il maggior impatto della frequenza della parola nell'accesso
lessicale. Coloro che apprendono una lingua prevalentemente trasparente non incontrano particolari
problemi nel pronunciare parole che non conoscono o di scarsa frequenza, mentre nelle lingue opache ciò
richiede molto più tempo con un maggior carico del ciclo fonologico e del circuito articolatorio della
memoria di lavoro. Un'altra differenza riguarda il ruolo della memoria visiva, ad esempio in lingue non
alfabetiche come il cinese o il giapponese. In queste lingue (come in lingue particolarmente opache) l'analisi
visiva dell'input ortografico è molto più importante. In questo caso, oltre al ciclo fonologico, diviene
importante il ruolo del taccuino visuo-spaziale della memoria di lavoro. Anche la distanza linguistica tra la
lingua madre e la L2 rappresenta un importante fattore nello sviluppo della lettura in L2. L'educazione
linguistica, dunque, deve tener conto da un lato delle caratteristiche universali dei processi di lettura e
dall'altro delle caratteristiche intrinseche ad una certa lingua. Queste caratteristiche universali possono
essere sintetizzate in 5 punti: l'architettura del sistema cognitivo (ogni lettore integra processi di
riconoscimento, processi della memoria di lavoro e della memoria a lungo termine sulla base della coerenza
interpretativa e sui principi cognitivi generali di apprendimento), relazione tra scritto e parlato (ogni tipo di
ortografia attiva i processi della lingua parlata e la codifica fonologica è comune a tutte le lingue), il transfer
nella lettura (la lettura è facilitata quando il transfer è positivo e i tratti della L1 sono trasferibili in quelli della
L2), consapevolezza metalinguistica (leggere in qualsiasi lingua richiede che il lettore abbia consapevolezza
fonologica, ortografica, morfologica, sintattica e discorsiva), tratti comuni nell'interpretazione del testo (il
significato di un testo si costruisce in ogni lingua su un modello di comprensione fortemente relazionato alle
conoscenze pregresse del lettore e al suo grado culturale e sociale.

La psicolinguistica ha elaborato molti modelli per rappresentare i processi di lettura: modelli che riguardano i
processi di riconoscimento delle parole, modelli incentrati sul ruolo della memoria di lavoro e modelli sui
processi di inferenza. L'abilità di lettura e comprensione di un testo si basa su un certo numero di processi
coordinati a vari livelli, che procedono dal riconoscimento della parola, alla codifica e al suo accesso lessicale,
fino all'attribuzione di un valore semantico in relazione al significato contestuale e alla conoscenze
previamente acquisite dal lettore; queste conoscenze, organizzate in schemi o script, consentono a loro volta
di attivare meccanismi di predizione e inferenza su quanto verrà letto. Alcuni di questi modelli hanno dato
maggior enfasi alle informazioni provenienti “dal basso”, ossia da processi che stanno alla base della lettura.
Secondo questi modelli la maggior parte dell'informazione scorre in modo passivo durante la codifica
dell'input. In sostanza, la lettura avviene attraverso una serie di stadi, che si susseguono secondo un ordine
fisso dal livello sensoriale alla comprensione. Al primo stadio le informazioni colte nel periodo di fissazione
restano disponibili nella memoria visiva (iconica), mentre il lettore procede ad una fissazione successiva.
L'input immagazzinato viene in seguito analizzato nella memoria a breve termine, dove il sistema di
comprensione attribuisce significato all'enunciato; il ruolo dell'inferenza è praticamente assente. I processi
bottom-up presuppongono infatti l'analisi di ogni lettera e la conseguente creazione di unità corrispondenti
alle rappresentazioni del lessico mentale. In questa prospettiva la parola viene riconosciuta in modo isolato e
le informazioni contestuali non concorrono a definirne il significato.

Diversamente, nei cosiddetti modelli top-down la caratteristica fondamentale risiede nel controllo ad ogni
livello del flusso dell'informazione da parte delle facoltà mentali superiori del sistema cognitivo. In questo
tipo di modelli le informazioni contestuali e l'enciclopedia svolgono un ruolo essenziale, in quanto
consentono al lettore di formulare delle ipotesi su quanto sta per leggere, contribuendo alla costruzione di
un significato soggettivo e personale. Nei modelli top-down oltre alle competenze linguistiche svolgono un
ruolo fondamentale le conoscenze già acquisite sul mondo e l'esperienza personale. L'abilità di lettura e di
comprensione risiede, infatti, nell'individuare le informazioni contestuali sufficienti a creare ipotesi corrette.

I modelli definiti interattivi (botton-up/top-down) definiscono la lettura come un processo distribuito su


diversi livelli che vanno dal riconoscimento dei grafemi fino agli schemi che organizzano la conoscenza. In
questa tipologia di modelli il flusso di informazione si sviluppa in entrambi i sensi. È stato proposto anche un
modello definito interactive compensatory in cui i vari livelli interagiscono compensando reciprocamente le
eventuali carenze. Sulla base di questo modello, se un lettore ha difficoltà nel riconoscimento automatico di
una parola può ricorrere ai processi di inferenza e utilizzare le indicazioni contestuali. Il processo di lettura e
comprensione è il risultato di un'interazione bidirezionale, che prevede il coinvolgimento sia delle facoltà
cognitive di ordine superiore sia del processo di codifica dell'input sensoriale. La parola viene percepita e,
una volta codificata a livello fonetico, si attiva il processo inferenziale. Se la fase di codifica avviene
correttamente, la rappresentazione lessicale può essere elaborata dai processi cognitivi superiori, che
mettono in relazione il significato dell’item con gli altri significati depositati nella memoria semantica. Questo
processo associativo favorisce la codifica dell'item successivo in ordine ai principi di coerenza e coesione
dell'enunciato. Secondo il modello interattivo di Just e Carpenter, la memoria a lungo termine contiene sia le
informazioni di tipo dichiarativo (enciclopedia, schemi e script) sia le conoscenze procedurali necessarie per
realizzare il processo di lettura. La memoria di lavoro inoltre svolge un ruolo fondamentale, elaborando la
rappresentazione fonologica dell'input; il funzionamento della memoria di lavoro è strettamente correlato
alle differenze individuali nel processo di lettura e comprensione, perché lo span (la capacità di contenere un
certo numero di informazioni) è limitato e dipende dalla velocità di articolazione. Un lettore più abile è in
grado, pertanto, di integrare più elementi nella memoria di lavoro. L’input in entrata viene codificato
inizialmente in base ai suoi tratti fisici, quindi viene attivata la rappresentazione corrispondente nel lessico
mentale che viene trasferita nella memoria di lavoro. La rappresentazione fonologica attiva il significato della
parola: nel caso si incontri una parola sconosciuta, il lettore deve costruire una nuova rappresentazione da
associare alle caratteristiche sintattiche e semantiche del concetto, attivato sulla base dell'inferenza
attraverso il contesto. Mentre coloro che possiedono competenze avanzate tendono ad utilizzare un
percorso interattivo, gli allievi di livello meno avanzato sono poco sensibili agli apporti del contesto e
tendono ad utilizzare maggiormente strategie di tipo bottom-up. Da un punto di vista glottodidattico, ciò
implica la necessità di proporre testi la cui densità lessicale consenta l’attivazione sia di processi top-down sia
di quelli bottom-up.
Nella seconda metà del secolo scorso sono stati elaborati modelli cognitivi che si rifanno ai principi del
connessionismo. Negli anni Cinquanta Selfridge aveva elaborato un modello basato su sistemi di
elaborazione in parallelo. Il modello prese il nome di Pandemonio perché la teoria di fondo prevedeva
l'esistenza di unità di detezione organizzate gerarchicamente in continuo confronto tra di loro. Queste unità
sono raccolte nel lessico mentale e vengono rappresentate come migliaia di demoni in competizione tra loro
per la rappresentazione dell’input. La metafora del Pandemonio illustra bene l'idea di un sistema nervoso
basato su elaborazioni parallele di raggruppamenti di neuroni e di reti neurali che vengono via via attivati o
inibiti. Sulla base di questo modello sono stati elaborati nell'ambito della psicologia cognitiva vari modelli,
importanti perché si fondano sull’elaborazione in parallelo dell’informazione: questo sistema consente di
disambiguare rapidamente l’informazione ed ha fornito una base importante per successivi modelli
connessionisti sempre più complessi, nel tentativo di elaborare sistemi di lettura vicini alle modalità di
elaborazione del sistema nervoso.

Le recenti tecniche di neuroimaging sono oggi in grado di fornirci importanti informazioni sulle aree cerebrali
coinvolte nei processi inferenziali. Vi sono due diverse fasi che caratterizzano tale processo. In primo luogo, il
lettore deve creare l'inferenza e successivamente la deve integrare coerentemente nel processo di
comprensione del testo. Secondo studi, le inferenze vengono create nella corteccia dorso-laterale
prefrontale e successivamente integrate attraverso il coinvolgimento di aree dell'emisfero destro. È
interessante notare che prendendo in considerazione tre livelli di relazioni causali tra due eventi - ad
esempio due frasi molto correlate, moderatamente correlate o molto distanti - si nota che il lettore ricorda
maggiormente quelle moderatamente correlate. Ciò probabilmente dipende dal fatto che egli crea maggiori
inferenze in presenza di frasi moderatamente correlate e attiva entrambi gli emisferi (poco correlate 
difficoltà di inferenze e minor coinvolgimento dell’emisfero destro; altamente correlate  nessun processo
inferenziale). I processi di inferenza rappresentano dunque una componente importante dei processi di
comprensione del testo.

Secondo Sternberg e Powell la comprensione di nuove parole all'interno di un determinato contesto implica
tre processi fondamentali: codifica selettiva, combinazione selettiva, comparazione selettiva. La codifica
selettiva permette di selezionare rispetto al lessico sconosciuto le informazioni rilevanti da quelle che non lo
sono. La seconda fase, la combinazione selettiva, ha il compito di mettere in relazione fra loro le informazioni
disponibili sulla parola sconosciuta mediante l'organizzazione degli indizi, al fine di ipotizzare un significato
possibile. Il terzo processo, la comparazione selettiva, consente di mettere in relazione il nuovo significato
appreso con le informazioni già depositate nella memoria a lungo termine. Infine, da un punto di vista
glottodidattico, è fondamentale anche la motivazione intrinseca a continuare ad esempio la lettura di un
romanzo, poiché essa garantirà l’attivazione dei processi attentivi e la possibilità di imparare e ricordare
senza eccessivo sforzo le parole sconosciute. I tre processi fin qui esposti non si attivano in modo casuale, ma
si basano su una serie di indici presenti nel testo in cui è compresa la parola sconosciuta. Sternberg
suggerisce una serie di otto indici contestuali, generalmente presenti anche se in grado variabile: indici
temporali (quando e con che frequenza ricorre la parola); indici spaziali (le collocazioni nello spazio della
parola e le eventuali altre collocazioni in cui essa potrebbe essere inserita); indici di valore (le qualità più o
meno positive che la parola assume nel contesto); indici che descrivono lo stato (le caratteristiche o
proprietà relative alla parola); indici che descrivono la dimensione funzionale (i possibili fini, scopi, usi e
azioni della parola); indici causali (le possibili cause o condizioni inerenti alla parola); indici di appartenenza a
una classe (es. iponimia, iperonimia rispetto ad altre parole).

Sternberg indica anche sei variabili che possono influire sensibilmente su tali processi: numero di occorrenze
della parola sconosciuta; varietà di contesti in cui la parola può comparire; importanza della parola
sconosciuta per la comprensione del contesto in cui è inserita; aiuto che si può trarre dal contesto
immediato (la frase, il periodo); densità di parole sconosciute nel testo; utilità delle conoscenze pregresse.
Incontrare la parola sconosciuta più volte in un testo consente di relazionarla ad un maggior numero di
informazioni di diversa natura, aumentando conseguentemente le possibilità di comprendere il significato;
se varia la tipologia di input variano anche le informazioni contestuali e aumentano, in tal modo, le possibilità
sia di comprensione che di memorizzazione.

Ovviamente, molto dipende dal tipo di testo e dall'obiettivo che l'apprendente si pone nell'affrontarlo: il
lettore può dunque porsi l'obiettivo di una lettura analitica (skanning) e focalizzare la sua attenzione su tutti
gli items lessicali, oppure accontentarsi di una comprensione globale (skimming) che richiede strategie di
lettura diverse. La possibilità di comprendere le parole sconosciute è inoltre strettamente collegata alla
percentuale di unità lessicali ignote presenti nel testo. Il problema della densità lessicale è infatti
particolarmente importante per l'apprendimento del lessico di una lingua straniera. Infine, l'ultima variabile
determinante riguarda le conoscenze generali che il lettore già possiede: è estremamente importante
nell'apprendimento del lessico di una lingua straniera, in quanto molte informazioni di carattere
socioculturale e pragmatico presenti in un testo, che possono considerarsi scontate per un parlante nativo,
potrebbero risultare poco comprensibili a colui che non appartiene alla comunità culturale di cui sta
apprendendo la lingua. Inferire nuovi significati è una prerogativa del sistema cognitivo e della capacità
dell'uomo di comprendere il mondo. I processi inferenziali mettono in relazione le nostre conoscenze del
mondo e la nostra memoria in rapporto al nostro agire. Spesso ricorriamo a reti di concetti organizzati sulla
base dell'esperienza che ci consentono di inferire importanti informazioni. In tal senso il processo
inferenziale non appartiene solo alla lettura o alla comprensione del testo, ma è parte integrante del sistema
cognitivo attraverso il quale interpretiamo e agiamo nel mondo. Nel caso specifico della comprensione del
testo in L2 vi sono delle variabili importanti da considerare per utilizzare i processi inferenziali: le
informazioni che aiutano a disambiguare il significato dovrebbero trovarsi preferibilmente nel contesto
immediato; un contesto insufficiente, assenza di elementi ridondanti, eccessiva difficoltà lessicale
complessiva inficiano le possibilità di inferenza; gli studenti cercano di scoprire il significato anche attraverso
l'analisi degli elementi grafemici e morfologici. La semplice esposizione al testo potrebbe non essere
sufficiente per garantire l'apprendimento spontaneo di molte parole: ciò che risulta maggiormente
importante è insegnare come imparare dal testo, come sviluppare i processi inferenziali. Vi sono dunque
alcuni fattori fondamentali che determinano il successo dei processi di inferenza. In primo luogo, le
caratteristiche del testo; in secondo luogo il grado di conoscenza che il lettore possiede circa l'argomento
oggetto del testo ed il livello di competenza lessicale raggiunto; infine le scelte metodologiche e didattiche
che possono orientare l'allievo a sviluppare maggiormente percorsi con modalità integrata (top-
down/bottom-up). L'attività inferenziale è una componente essenziale del processo di lettura sia nella L1 che
nella L2. In quest'ultimo ambito, tuttavia, affinché l'inferenza possa aver luogo è importante che nel testo
siano presenti determinati requisiti. Un ulteriore aspetto riguarda la ritenzione dell'inferenza. È importante
infatti che l’inferenza si trasformi in un ricordo stabile nella memoria a lungo termine e assuma le
caratteristiche di lessico produttivo. A tal fine è utile stabilire il rapporto esistente tra l'attività inferenziale e
la ritenzione del significato inferito. Una parola può essere inferita facilmente quando è inserita in un
contesto ricco di informazioni utilizzabili o di elementi ridondanti, ma in tal modo l'allievo attiva solo
parzialmente i processi di codifica e quindi si produce una traccia mnestica meno stabile, mentre il significato
di una parola diviene più stabile nella memoria a lungo termine quando è il frutto di un'elaborazione più
complessa. In sintesi, possiamo concludere che i processi di inferenza e il ricorso agli indizi contestuali, pur
costituendo una attività imprescindibile della lettura e pur essendo alla base della possibilità di acquisizione
di molto lessico, se assunta come unica procedura presenta alcuni inconvenienti. Può verificarsi che il lettore
in L2 abbia gravi carenze nel riconoscere la forma delle parole; è possibile che egli non sia in grado di
ricorrere agli indizi contestuali perché il suo livello lessicale non lo consente; può accadere che il singolo
testo non contenga sufficienti elementi affinché sia possibile ricorrere al guessing e all'inferenza con
successo. Un ulteriore elemento di difficoltà è rappresentato dal retroterra culturale, dall'enciclopedia e
dalle conoscenze specifiche sull'argomento in possesso del lettore. Inoltre, concentrare l'attenzione sul solo
riconoscimento formale della parola condurrebbe ad un apprendimento di lemmi assunti singolarmente, con
il rischio di apprenderne solo il significato principale venendo meno la possibilità di relazionare i significati
delle parole con lo specifico contesto in cui si trovano.
Lo sviluppo dell'abilità di lettura rappresenta senza dubbio una componente fondamentale per lo sviluppo
della competenza lessicale; è possibile affermare che l'accrescimento del lessico è una condizione
fondamentale per progredire nell'abilità di lettura e nella reading comprehension e che tale progresso è, a
sua volta, determinante per l'espansione lessicale. La stretta relazione tra l'abilità di lettura e la competenza
lessicale è riscontrabile sia nell'acquisizione della L1 che della L2; inoltre, molto lessico viene appreso in
modo incidentale attraverso la lettura, attraverso ripetute e graduali esposizioni. Ma cosa significa conoscere
una parola? La lingua ci consente di descrivere il mondo extralinguistico che ci circonda, ma ci consente
anche di comunicare pensieri, idee, atteggiamenti, emozioni. Per far questo i concetti si organizzano nel
lessico mentale in rappresentazioni linguistiche complesse che intrattengono fra di esse relazioni articolate
di varia natura (morfosintattica, lessicale, semantica, ecc.) al fine di rendere la lingua funzionale alla
comunicazione. Conoscere una parola significa allora non solo conoscerne il significato denotato, ma
significa saperla collocare all'interno dei rapporti che essa intrattiene con il sistema linguistico di cui è parte.
Un'unità lessicale non vive da sola, isolata rispetto alle altre parole, ma si colloca nel lessico mentale sulla
base di caratteristiche specifiche che la definiscono. Conoscere una parola nel quadro delle abilità
linguistiche ricettive e produttive, significa saperne identificare alcuni aspetti che sono alla base della
competenza lessicale e che Nation sintetizza in: forma, posizione, funzione e significato. Una parola si
presenta con una certa forma che ne costituisce il significante, la sua parte concreta (fonemi e grafemi);
assume all’interno della frase una certa posizione sulla base del proprio ruolo grammaticale e sintattico; la
funzione ovvero la frequenza e l’appropriatezza della parola in funzione del contesto in cui si realizza la
comunicazione; e il significato che riguarda il ruolo e la rete di relazioni che un lemma intrattiene all’interno
del corpus lessicale (ciò significa conoscere i rapporti di polisemia, sinonimia, antonimia, iponimia,
iperonimia). Sotto il profilo metodologico è importante dedicare tempo ai rapporti di significato in quanto
consentono di creare delle associazioni che favoriscono l'integrazione stabile di nuove parole nelle reti
semantiche della memoria a lungo termine. Forma, posizione, funzione e significato sono dunque gli
elementi che concorrono alla conoscenza di una parola e costituiscono la premessa necessaria allo sviluppo
della competenza lessicale che si articola in cinque sotto-competenze: competenza linguistica (inerente alla
forma e alla posizione delle parole), discorsiva, referenziale, socioculturale (aspetti relativi alla funzione e al
significato), strategica (rispetto all’abilità di lettura fa riferimento ad esempio all’utilizzo di informazioni
contestuali per inferire parole sconosciute, oppure tentare di indovinarne il significato). – VEDI FINE
CAPITOLO 1 PER DEFINIZIONI DELLE COMPETENZE –

L'apprendimento di una unità lessicale prevede diversi gradi di conoscenza del significato di una parola. È
possibile, infatti, che essa sia conosciuta solo parzialmente, che se ne conoscano solo alcuni significati ed
alcuni usi. Può trattarsi di un lemma che appartiene al lessico ricettivo (o passivo) e non al lessico produttivo
(o attivo) del lettore, oppure può trattarsi di una parola che per effetto di similarità tra L1 e L2 si crede di
conoscere, ma in realtà appartiene alla categoria di parole che presentano una deceptive transparence. I
“falsi amici” sono un esempio classico di parole che si pensa di riconoscere, ma di cui, di fatto, si ignora il
reale significato. Un altro problema può essere rappresentato dalle forme idiomatiche. In generale gli idioms
si definiscono come espressioni il cui significato non è dato dalla somma delle parole che le compongono. Un
fattore determinante per l'espansione lessicale è senz'altro rappresentato dal numero di esposizioni a una
determinata porzione di lessico a cui lo studente è esposto. Molte ricerche hanno cercato di stabilire quale
sia il numero minimo di esposizioni necessario per poter acquisire una parola in modo stabile. È stato rilevato
che sotto la soglia delle sei esposizioni i significati delle parole target erano ricordati dal 50% degli allievi,
mentre oltre le sei esposizioni la percentuale aumentava sensibilmente (93%). Ovviamente, le esposizioni
sono tanto più significative quanto più le parole compaiono all'interno di input variati e motivanti. Inoltre, il
numero di esposizioni è legato alla competenza metalinguistica e al grado di competenza lessicale raggiunta
dallo studente. Nelle fasi iniziali di apprendimento può essere necessario un numero di esposizioni superiore
a sei, mentre con il progredire del livello e con il consolidarsi di un patrimonio lessicale più ampio le
esposizioni necessarie possono diminuire. Per poter attivare in L2 i normali processi di lettura utilizzati nella
L1 è necessario possedere un livello di competenza lessicale sufficiente al riconoscimento automatico di una
certa percentuale di parole: anche per l'abilità di lettura risulta fondamentale la conoscenza di un lessico di
base di circa 3000 famiglie di parole che tradotte in singole unità lessicali corrisponderebbero a circa 5000
parole; questa è la soglia minima di patrimonio lessicale che consente di attivare nella L2 processi di lettura
simili alla L1. Esse consentono la copertura di circa il 90-95% di un testo. Anche in questo caso vanno prese in
considerazione alcune variabili che possono incidere su questa percentuale, come ad esempio il genere e
tipo di testo, la sua lunghezza e il grado di coerenza e coesione.

5. I corpora

I corpora sono delle ampie raccolte di testi o porzioni di testi archiviati in formato elettronico, alle quali
vengono correlati degli strumenti informatici che ne permettono la consultazione in base a specifiche
funzioni di ricerca linguistica. La linguistica dei corpora è il settore della linguistica computazionale che
persegue l'obiettivo di ricavare più informazioni possibili e di svariata natura da grandi quantità di testi
archiviati. Negli anni Sessanta i corpora furono progettati e creati per studiare il lessico dal punto di vista
quantitativo utilizzando l'elaborazione automatica dei dati. Lo sviluppo dei software a essi correlati ha reso
poi disponibile un'elaborazione qualitativa, rapida, sempre più articolata e sofisticata, delle porzioni di lingua
in cui sono prodotti i testi archiviati. È ormai diffuso trovare infatti i corpora annotati, ovvero corpora
attraverso i quali è possibile cercare le parole distinguendo la funzione che esse svolgono nel discorso,
oppure fare riferimento a parole lemmatizzate (pertanto, se si interroga il corpus di riferimento a proposito
dell'infinito di un verbo si ottengono tutte le forme flesse di quel determinato verbo); infine, i corpora
annotati forniscono una serie di metadata, ossia informazioni sull'intero corpus, e informazioni specifiche
relative a ciascun esito della nostra ricerca, circa la parte di testo in cui occorre la parola che abbiamo
cercato. Un semplice database di testi, a differenza di un corpus, per quanto possa essere vasto non assolve
da sé il compito di fornire informazioni sulla lingua, non fornisce dati sulla frequenza d'uso delle parole, sulla
struttura delle loro occorrenze, sui sintagmi ricorrenti, sulle variazioni di significato delle parole in base ai
contesti comunicativi in cui esse ricorrono. I corpora, rinviando a chunks lessicali, a unità linguistiche
composite (lexical items), e a frasi lessicali (lexical phrasis) si presentano come un valido supporto alla
didattica delle lingue in quanto favoriscono l'acquisizione di patterns linguistici in contesti d'uso appropriati.
Permettono di apprendere l'uso delle parole superando la separazione tra lessico e grammatica. Occorre che
l'apprendimento del lessico di una lingua straniera avvenga attraverso l'esposizione intensa e ripetuta
all'interazione linguistica e attraverso il ricorso a materiale testuale autentico, basato su contesti d'uso
effettivi delle parole. Da questo punto di vista, i corpora si candidano come uno strumento utile a sviluppare
le competenze metalinguistiche necessarie per affrontare le specificità lessicali di una lingua (in quanto
mettono in evidenza come si comportano le parole nell'uso della lingua) e a facilitare la memorizzazione del
lessico grazie alla presentazione di esso negli aspetti compositi, fraseologici e idiomatici che lo costituiscono
(collocazioni e co-occorrenze). I dati che si ricavano dall'analisi dei corpora sono tuttavia dati da elaborare, in
quanto sono dati che vanno contestualizzati nell’interazione orale: essi provengono da materiale linguistico
autentico ma grezzo, e devono dunque essere adattati alle esigenze didattiche specifiche. I corpora
forniscono descrizioni dell’uso effettivo di una lingua, rilevando tendenze generali su basi statistiche: più un
corpus è vario, più aspetti di quella determinata lingua permette di rilevare; esso inoltre permette di
osservare come si comporta il lessico nei vari registri d’uso delle parole, in base alle diverse variabili
sociolinguistiche. Gli strumenti di consultazione standard permettono di ricercare le parole per sequenze di
lettere, a volte sostituendo per esempio le desinenze con un carattere jolly in modo da poter trovare tutte le
occorrenze riferite alla radice di una parola primitiva (es. se cerco "color*” i risultati della ricerca
includeranno non solo le occorrenze del sostantivo “colore” al singolare e al plurale, ma anche quelle
dell'aggettivo “colorato” e del verbo “colorare" in tutte le flessioni del caso). Le informazioni che riceviamo in
risposta alla ricerca linguistica attraverso i corpora concernono la frequenza di occorrenza delle parole
cercate, le concordanze delle parole con contesti d'uso trovati nel corpus e le co-occorrenze, ovvero le altre
parole che statisticamente, sulla base del corpus di riferimento, occorrono insieme a una certa parola
ricercata.

Per ciascuna lingua sono ormai disponibili raccolte di diverse tipologie testuali (da database testuali di
carattere piuttosto generale, abbastanza ampi, a database più specialistici che comprendono una quantità di
testi più limitata). È possibile fare una distinzione tra le diverse tipologie di corpora:

corpus di riferimento di una lingua: si propone come campione rappresentativo di una lingua nei suoi diversi
aspetti e pertanto raccoglie testi di vario genere e tipologie, testi scritti o trascrizioni di lingua parlata, testi
con parole di registro formale e di registro informale, testi letterari e testi giornalistici. Quanto più varie sono
le tipologie testuali incluse nel corpus tanto più esso sarà in grado di offrirsi come osservatorio generale di
una certa lingua. Da questo genere di corpora possiamo quindi ricavare dati generali circa il comportamento
delle parole di una lingua;

corpora specialistici: includono solo testi di un certo tipo; possono essere i testi di un settore specifico (es. i
corpora del linguaggio medico) e possono anche raccogliere esclusivamente i testi di un autore o quelli di un
certo periodo storico. Possono essere corpora basati solo sulla lingua parlata. Data la loro specificità,
risultano particolarmente utili per indagare gli aspetti microlinguistici, gli aspetti linguistici caratterizzanti un
lessico di settore, per ricavare il lessico di base di una lingua in riferimento a un certo campo specialistico.
Forniscono dunque indicazioni specifiche sul lessico di una lingua usata in un certo settore;
corpora di apprendimento: raccolgono materiale proveniente da apprendenti o da contesti di apprendimento
linguistico. I corpora di apprendimento si offrono a linguisti, docenti e studenti. Essi si distinguono in learner
corpora e teacher corpora. I learner corpora sono costituiti dal materiale testuale scritto e/o orale prodotto
dagli apprendenti di lingue seconde o straniere. I learner corpora sono poi importanti per i docenti in quanto
permettono a quelli meno esperti di formarsi sulle varietà di apprendimento linguistico, mentre a quelli
esperti forniscono materiale da cui attingere informazioni in funzione didattica, ad esempio, per la
preparazione di esercitazioni e test. Infine, i learner corpora sono uno strumento utile anche per gli studenti
che possono ricorrere a essi per osservare gli errori più comuni commessi dagli apprendenti della lingua che
stanno acquisendo, sviluppando così una competenza metalinguistica che permetterà loro di autocorreggersi
e di evitare di incorrere in quel genere di errore. I teacher corpora, invece, contengono testi usati come
materiale didattico dagli insegnanti di lingua straniera (manuali, letture, trascrizioni di testi, esercizi
somministrati agli studenti). Si tratta quindi di materiale a cui lo studente è stato esposto che può essere
riutilizzato da altri studenti per affinare lo sviluppo della competenza metalinguistica oppure può servire agli
insegnanti come base per programmi dei corsi di lingua.

In funzione delle esigenze, i diversi corpora possono essere comparati. In tal modo si può condurre
un'indagine linguistica oppositiva rilevando differenze nelle collocazioni e nelle co-occorrenze, divergenze
semantiche e sintattiche o, al contrario, effettuare un'analisi linguistica sulle corrispondenze e convergenze
tra le lingue dei corpora comparati. Una comparazione tra learner corpora e teacher corpora riferiti
all'apprendimento di una certa lingua può fornire dati utili per misurare l'adeguatezza del materiale didattico
a cui viene esposto lo studente rispetto ai risultati d'apprendimento osservati nella sua produzione scritta e
orale. Si parla di corpora paralleli quando si comparano corpora allineati e sincronici, cioè dello stesso
periodo storico, di lingue diverse. Questo confronto torna utile nelle attività di traduzione giacché permette
di osservare le diverse traduzioni di una certa stringa di parole o di una frase all'interno di contesti effettivi
d'uso delle lingue dei corpora allineati. La comparazione tra corpora può essere effettuata anche tra corpora
diacronici, ovvero tra raccolte di testi appartenenti a diversi periodi storici: in tal modo si possono rilevare le
variazioni lessicali di una lingua, i cambi linguistici, i mutamenti intervenuti nei modi di scrivere e parlare. Si
possono condurre così specifiche analisi etimologiche, ma anche analisi più generali di carattere socio-
pragmatico.
Il primo corpus di riferimento della lingua italiana è quello su cui è basato il LIF (Lessico di frequenza della
lingua italiana contemporanea) pubblicato nel 1971. Si tratta di un corpus composto da testi di romanzi, testi
teatrali, testi tratti dalle sceneggiature dei film, articoli di giornale e stralci di sussidiari. Esso comprende circa
500.000 parole ed è stato utilizzato da De Mauro per stilare la lista dei lemmi del suo Vocabolario di base
della lingua italiana del 1987. I corpus più rappresentativi della lingua italiana attualmente disponibili online
sono il Corpus e Lessico di Frequenza dell'Italiano Scritto (CoLFIS) e il Corpus di Italiano Scritto
Contemporaneo (CORIS). Il CoLFIS è un corpus lemmatizzato e annotato di oltre 3 milioni di parole la cui
composizione si basa sui dati ISTAT sulle tendenze di lettura degli italiani: i testi che contiene provengono
perciò da periodici, quotidiani e libri di diverso genere. II CORIS invece è un corpus più ampio che include
circa 100 milioni di parole ed è un corpus piuttosto variegato costituito per lo più da testi giornalistici e
narrativi, ma anche accademici e giuridico-amministrativi, considerati rappresentativi dell'italiano
contemporaneo. La versione del CORIS che viene periodicamente aggiornata in modo da monitorare
l'evoluzione della lingua si chiama CODIS. Va detto però che le interfaccia si presentano in un linguaggio
troppo tecnico e prevedono la selezione di opzioni che non sono facilmente comprensibili. Vi è inoltre il
corpus del quotidiano La Repubblica che non nasce come corpus di riferimento della lingua italiana, in
quanto raccoglie esclusivamente i testi di Repubblica, ma viste le dimensioni che lo caratterizzano ed
essendo un corpus annotato si pone comunque come un campione rappresentativo della lingua italiana.
Inoltre, si presenta con un'interfaccia abbastanza chiara e intuitiva e ha pertanto il vantaggio di risultare
accessibile a un vasto pubblico. Il corpus della lingua italiana attualmente più ampio è però it-WAC, il quale,
frutto di una raccolta automatica di testi dal web, include circa un miliardo e mezzo di parole. È un corpus
annotato e consultabile sulla piattaforma Sketch Engine: essa offre l'analisi di corpora di numerose lingue
oltre a quella italiana e include corpora di diverso tipo, anche di carattere specialistico. È un software che
permette di ottenere word sketches, ovvero riassunti che mostrano il comportamento grammaticale delle
parole in termini di collocazioni e combinazioni delle parole cercate; consente anche di ricavare liste di
frequenza e di indagare i sinonimi di una parola visualizzando le differenze d'uso delle parole simili. Sul sito
BADIP (Banca Dati dell'Italiano Parlato) è consultabile liberamente il corpus su cui si basa il Lessico di
Frequenza dell'Italiano Parlato (LIP). Si tratta di un corpus annotato che contiene trascrizioni di registrazioni
provenienti da quattro diverse città italiane (Milano, Firenze, Roma e Napoli), include circa 500.000 parole ed
è uno dei corpus più utilizzati per la ricerca linguistica. È possibile formulare una ricerca selezionando i testi
sia sulla base della provenienza sia secondo il genere testuale. Considerando la forte variabilità linguistica
che si manifesta soprattutto nel parlato, l'importanza di disporre di strumenti che permettono l'analisi della
dimensione parlata della lingua è stata ormai acquisita. Il corpus di italiano parlato CLIPS (più ricco e vario) è
caratterizzato da una duplice stratificazione, diatopica e diafasica: la variazione diatopica, ovvero quella su
base geografica, è stata campionata attraverso un'indagine sociolinguistica preliminare che ha interessato
l'intero territorio nazionale dall'Università di Lecce attraverso dei punti di raccolta dei materiali provenienti
da diverse città italiane; mentre la variazione diafasica, ossia la variazione di stile e registro legata al variare
delle situazioni comunicative dei parlanti, è stata rappresentata ricorrendo a diversi tipi di materiale (parlato
radiotelevisivo, notiziari, interviste, talk shows, dialoghi, parlato telefonico). Tra i corpora specialistici in
lingua italiana accessibili online possiamo ricordare il Corpus dell'italiano antico dell'Opera del Vocabolario
Italiano: si tratta di un corpus che raccoglie testi italiani antichi in volgare e comprende circa 22 milioni di
parole.

Per quanto riguarda i corpora di apprendimento in lingua italiana il portale VALICO (Varietà di
apprendimento della lingua italiana: corpus online) offre un corpus annotato ad accesso libero e gratuito,
che raccoglie testi di apprendenti di italiano come lingua seconda e comprende circa 570.000 parole. Si
tratta di un portale che si propone come uno strumento per la ricerca linguistica e glottodidattica.
L'interrogazione del corpus è in grado di mostrare le variazioni di scrittura tra apprendenti con età e lingua
madre differenti; offrire spunti metodologici e didattici agli insegnanti; fornire materiale grezzo da elaborare;
rendere visibili dati sui comportamenti delle parole nei contesti d'uso della lingua e informazioni sugli errori
comuni degli apprendenti; proporre ai linguisti un osservatorio per lo studio della variazione dell'italiano e
delle problematiche di apprendimento dell'italiano come lingua straniera. II CEXIS, invece, è un corpus
parallelo che raccoglie testi originali in italiano e inglese, bilingue e bidirezionale. Contiene traduzioni
dall'inglese all'italiano e dall'italiano all'inglese pubblicate tra il 1975 e il 2000, una collezione di testi di
fiction suddivisi in due sub-corpora: fiction per adulti e per bambini.

Dunque, perché usare i corpora nell’insegnamento del lessico? Le parole di una lingua non sono egualmente
importanti in ogni fase dell'apprendimento di una lingua straniera. Perciò possiamo dividere il lessico in
quattro livelli: parole d'alta frequenza, lessico intellettuale, lessico tecnico e parole a bassa frequenza.
L'importanza del lessico varia anche a seconda degli obiettivi specifici dell'apprendimento. Per quanto
riguarda la lingua inglese, se l'insegnante vuole sapere quali sono le parole più usate in inglese e quindi quali
parole è necessario insegnare per prime, può ricavare questi dati consultando il British International Corpus
(BIC); se il tipo di task proposto dall'insegnante o l'obiettivo che intende raggiungere lo studente verte
maggiormente sulla lingua parlata, si può accedere al CANCODE (Cambridge and Nottingham Corpus of
Discorse English), un corpus basato sulle frequenze d'uso dell'inglese parlato. Se invece è richiesto
apprendere o confrontarsi con un lessico di tipo specialistico, si può ricorrere ai corpora specialistici. Se
consideriamo i corpora di apprendimento, la riflessione sugli errori più frequenti degli apprendenti è
vantaggiosa sia per l'autoapprendimento degli studenti che per l'autoformazione degli insegnanti e permette
a questi ultimi di costruire dei test basati su problemi reali e specifici degli apprendenti di una certa lingua
madre. Inoltre, dato che i dati sulla frequenza d'uso delle parole ricavati dai corpora non saranno solo di tipo
quantitativo ma anche di tipo qualitativo, acquisiremo informazioni quali ad esempio il grado di polisemia di
queste parole ad alta frequenza d'uso. Tra le altre informazioni importanti dal punto di vista glottodidattico
che possiamo ottenere con la ricerca attraverso i corpora annoveriamo quelle sulle collocazioni e sulle
concordanze. Le collocazioni sono un fenomeno diffuso nella lingua e difficile da inquadrare e trasmettere
agli studenti attraverso una regola precisa, soprattutto perché sono spesso di natura paradigmatica e
dipendono dall'uso. I corpora permettono non solo di visualizzare le collocazioni e memorizzarle nei diversi
contesti d'uso in cui occorrono, bensì anche di prendere coscienza della loro frequenza. Il motivo principale
per cui non si ricorre spesso ai corpora è il pregiudizio che il loro uso richieda complesse conoscenze
tecniche: si potrebbe perciò prima far familiarizzare gli studenti con i corpora attraverso strumenti più
conosciuti come dizionari online e motori di ricerca, per poi passare ai software e quindi ad una dimensione
più tecnica. Il passaggio ai software che permettono l'accesso a corpora composti da materiale autentico e
annotato è un'occasione importante per avvertire gli studenti del rischio insito nell'assunzione del web come
corpus: il materiale con cui si entra in contatto sul web presenta spesso errori grammaticali e ortografici che
un apprendente, specie ai primi livelli di apprendimento linguistico, non è in grado di riconoscere. Egli rischia
così di acquisire forme linguistiche sbagliate. Gli studi sull'uso dei corpora come metodologia didattica sono
soliti distinguere tra un uso indiretto e un uso diretto dei corpora: si parla di uso indiretto quando insegnanti
e studiosi ricavano dai corpora materiali quali testi ed esercitazioni da utilizzare in classe; quando sono
invece gli studenti a ricorrere ai corpora si parla di uso diretto e si tratta di un uso personalizzabile da ciascun
studente secondo esigenze d'apprendimento personali. È inoltre necessario che gli studenti abbiano già
sviluppato una competenza linguistica di livello medio per essere in grado di interpretare correttamente i
dati ottenuti dalla ricerca e di riutilizzare quanto ricavato in modo appropriato.

6. Idioms e metafore nella linguistica cognitiva

ESPRESSIONI IDIOMATICHE

Con il superamento della dicotomia tra lessico e grammatica, a poco a poco anche il linguaggio figurato ed in
particolare gli idioms e le metafore sono diventate oggetto di ricerca in ambito glottodidattico, grazie anche
alle nuove teorie sul linguaggio figurato che dagli anni Ottanta divengono centrali nell'ambito della linguistica
cognitiva. Tuttavia, spesso le espressioni idiomatiche vengono considerate nel loro insieme (senza
considerarne le varie tipologie, la frequenza d'uso, ecc.) più come un aspetto destinato a colui che deve
perfezionare la lingua e, dunque, da affrontare solo ai livelli più avanzati del percorso di apprendimento.
Eppure, numerosi studi pubblicati negli ultimi decenni soprattutto in ambito psicolinguistico confermano
l'importante ruolo del linguaggio figurato non solo in ambiti specifici (es. il linguaggio poetico-immaginativo)
ma anche all'interno della lingua quotidiana. Uno degli aspetti più evidenti del linguaggio figurato infatti è la
sua pervasività nella comunicazione quotidiana. Gli studiosi hanno dimostrato che in un minuto di
conversazione si producono mediamente-cinque-sei espressioni figurate. Mentre tra parlanti della stessa
comunità linguistica il ricorso a costrutti figurati non presenta un problema, quando ci si trova ad interagire
in lingue altre dalla propria lingua madre l'abilità di comprendere e produrre enunciati di carattere figurato
rappresenta una sfida difficile a causa della natura complessa che sta alla base del linguaggio figurato. Non
usiamo una metafora in sostituzione di un significato letterale, magari per renderlo più incisivo o
apprezzabile poeticamente, ma ricorriamo all'attività metaforizzante della mente per descrivere concetti
astratti che altrimenti non sapremmo rappresentare e tradurre linguisticamente.

È alquanto diffusa una definizione piuttosto generale in base alla quale gli idioms sono espressioni il cui
significato non dipende dalla somma dei significati dei loro componenti. Dunque, il significato di tali enunciati
non è riconducibile ad una analisi sintattica o semantica, ma piuttosto ad un significato condiviso all'interno
di una determinata comunità linguistica che si è andato cristallizzando nel tempo e nell'uso. Un'espressione
idiomatica si connota dunque come un'unità lessicale e come tale viene riconosciuta, recuperata e
memorizzata nel lessico mentale di un individuo. Tuttavia, diverse scuole di pensiero hanno prodotto diversi
modelli interpretativi. Alcuni di essi includono praticamente tutte le espressioni fisse e cristallizzate di una
lingua (locuzioni, clichés, proverbi, unità polisemiche, collocazioni…): qualsiasi enunciato il cui significato non
è riconducibile alla sua struttura è dunque considerato un'espressione idiomatica. In un'ottica interlinguistica
si potrebbe dire che ha valore idiomatico ciò che non è esattamente traducibile in un'altra lingua. In altri
modelli, caratterizzati da una visione più restrittiva, si intende per idiom solo un tipo di espressione fissa
semanticamente opaca. Per Weinrich possono essere definite idioms quelle espressioni che risultano
ambigue in quanto presentano sia un significato letterale che idiomatico. In questo caso, dunque, l'analisi
verte sulla complessa distinzione tra una forma idiomatica e una collocazione. Una definizione che riassume i
tratti fondamentali descrive l’espressione idiomatica come una locuzione polilessicale il cui significato non
deriva dalla somma dei significati dei suoi componenti e la cui struttura possiede un certo grado di flessibilità o
cristallizzazione.

Gli studi in ambito psicolinguistico sullo sviluppo del linguaggio nel bambino hanno spesso offerto
fondamentali spunti di riflessione nel campo dell’educazione linguistica. Con la definizione figurative
competence Levorato definisce l'abilità di comprensione e produzione di metafore, forme idiomatiche e, più
in generale, l'uso figurato e traslato del linguaggio supportato dallo sviluppo di una consapevolezza
metalinguistica, che consente di comprendere cosa l'interlocutore voglia trasmettere realmente, quale sia la
vera intenzione comunicativa al di là di quanto viene letteralmente espresso. Nello sviluppo linguistico-
cognitivo del bambino la competenza per il linguaggio figurato cresce attraverso un processo graduale di
acquisizione che si accompagna parallelamente allo sviluppo dei processi cognitivi cha stanno alla base delle
strategie di comprensione. Secondo Levorato la competenza per il linguaggio figurato è il frutto di una serie
di abilità linguistiche gradualmente acquisite: il processo di formazione della competenza ha inizio verso i 4-5
anni e si sviluppa successivamente attraverso un percorso articolato in cinque diversi livelli. Dopo una prima
fase in cui l'oggetto e la parola che lo definisce non sono separati e costituiscono una entità unica (livello 0),
il bambino inizia a separare la parola dal referente ponendo in relazione un nome ad un significato, iniziando
dunque a sviluppare la funzione simbolica del linguaggio. In questa prima fase le strategie di comprensione
dell'enunciato sono limitate all'analisi letterale. Nella seconda fase, verso i 7-8 anni, il bambino è in grado di
abbandonare l'analisi strettamente referenziale e letterale del testo iniziando a sfruttare le strategie
inferenziali per arrivare ad una comprensione coerente del testo. Si tratta di un passaggio cruciale in cui
gioca un ruolo fondamentale la componente semantica. La terza fase, verso i 9-10 anni, corrisponde alla
scoperta e alla conseguente consapevolezza che una frase può non avere necessariamente o
obbligatoriamente un significato letterale. Da un lato in questa fase l'attenzione si concentra più sul
contenuto che sulla forma, focalizzandosi più sulla ricerca del significato che sulla stretta denotazione del
significante, dall'altro il linguaggio figurato diviene un'opzione per raggiungere i propri obiettivi comunicativi
e comprendere le intenzioni comunicative dell'interlocutore. Nella quarta fase il bambino è in grado di
riconoscere ed utilizzare espressioni idiomatiche, ma gioca ora un ruolo fondamentale il grado di familiarità:
il bambino utilizza le forme idiomatiche come unità lessicali fisse assumendole senza riflettere sulle parti che
le compongono. La consapevolezza metalinguistica è raggiunta infatti solo nella quinta fase, nella quale
compare la capacità di interpretare il significato dell'espressione idiomatica sulla base delle conoscenze
acquisite e dei processi di inferenza. In questa fase il significato della forma idiomatica viene riconosciuto
sulla base degli elementi che la compongono ed è possibile attivare i processi di inferenza che consentono
una corretta interpretazione degli obiettivi comunicativi. Possiamo dunque osservare che l'acquisizione del
linguaggio figurato avviene gradualmente attraverso un percorso distribuito su vari livelli; da una fase in cui
esso ha una funzione totalmente concreta e referenziale ad un'ultima fase in cui esso, grazie al
consolidamento della competenza metalinguistica, si arricchisce di tutte le sfumature connotative relative al
contesto, alle funzioni socio-pragmatiche e agli intenti comunicativi dei parlanti. I bambini sembrano
comprendere più facilmente espressioni idiomatiche che si riferiscono ad azioni concrete piuttosto che a
stati d'animo ed emozioni e tra queste ultime è più facile l'acquisizione di espressioni che si riferiscono a
emozioni primarie.
Nel lessico di una lingua esistono diverse tipologie di unità lessicali più o meno fisse a cui corrisponde un
grado diverso di idiomaticità. E il caso dei molti morfemi cristallizzati che non risultano da una libera
combinazione, ma sono già presenti nella lingua e si comportano come singole unità di significato. Si tratta
delle unità lessicali che vengono definite sintemi in opposizione ai sintagmi la cui combinazione è frutto della
scelta del parlante. Diversi gradi di idiomaticità sono presenti nelle collocazioni (es. in italiano si dice
“maglione marrone” e non “castano” poiché l’espressione si è consolidata in questo modo all’interno della
comunità linguistica) ma spesso le restrizioni lessicali presenti nelle collocazioni non sono così strette come
nelle espressioni idiomatiche e consentono un certo grado di sostituzione. Inoltre, diversamente dalle
espressioni idiomatiche, i termini che costituiscono una collocazione mantengono lo stesso significato anche
quando essi vengono assunti al di fuori dalla collocazione stessa.
Gli aspetti delle espressioni idiomatiche sono:
cristallizzazione e flessibilità – la peculiare coesione interna delle espressioni idiomatiche consente un certo
grado di flessibilità lessicale e sintattica che può avvenire principalmente con l'inserimento o la sostituzione
di un termine oppure con variazioni sintattiche (es. “fare quattro passi” consente la variazione “fare due
passi” ma la sostituzione di qualsiasi altro numero farebbe perdere il significato idiomatico), mentre altre
frasi sono completamente fisse. Esistono dunque espressioni idiomatiche assolutamente congelate, che non
accettano alcun tipo di modificazione al loro interno, ed altre più elastiche che in diverso grado consentono
alcune variazioni. Fraser le ha suddivise in 6 livelli: completely frozen (grado 0), adjunction, insertion,
permutation, extraction, reconstitution, unrestricted.

opacità e trasparenza – le espressioni idiomatiche sono caratterizzate da vari gradi di opacità semantica, che
ne determina il livello di idiomaticità e le differenzia dalle espressioni letterali, semanticamente trasparenti.
Vi sono espressioni parzialmente opache come i binomi irreversibili (es. sotto sopra) o locuzioni complesse
(suo malgrado) fino a espressioni totalmente opache (essere al verde, essere in gamba). Il grado di non
modificabilità e di cristallizzazione di un'espressione idiomatica sarebbe, inoltre, da mettere in relazione con
il tempo di conservazione di tale espressione nella lingua. Quando una nuova espressione ne entra a far
parte essa possiede una certa flessibilità sintattica che tende a scomparire con il tempo rendendo
l'espressione idiomatica sempre più cristallizzata. Il modo in cui le espressioni idiomatiche vengono
rappresentate nella mente è strettamente correlato al modo di comprenderle e codificarle. Delle diverse
ipotesi di rappresentazione delle forme idiomatiche elaborate dalla psicolinguistica ne prendiamo in
considerazione quattro: la lista idiomatica, la codifica simultanea, l'accesso diretto, la configurazione.
la lista idiomatica: questa ipotesi si basa sul presupposto che vi siano diverse modalità di elaborazione per le
espressioni letterali e per quelle idiomatiche. Secondo Bobrow e Bell, queste ultime sarebbero processate
come unità lessicali, come singoli item depositati nel lessico mentale in modo indipendente, in una lista di
espressioni idiomatiche separate dal resto del lessico. Questo modello suggerisce che, in fase di codifica, il
soggetto che percepisce una frase idiomatica prima tenti di processarla a livello letterale e solo dopo il
fallimento orienti la ricerca del significato verso la parte specializzata del suo lessico mentale per trovare
un'interpretazione soddisfacente. Di conseguenza, l'elaborazione del significato delle espressioni idiomatiche
richiederebbe più tempo di quelle letterali;

la codifica simultanea: anche detta rappresentazione lessicale, propone una processazione parallela
dell'analisi letterale e idiomatica; la codifica delle espressioni idiomatiche non richiederebbe dunque maggior
tempo di quelle letterali. Inoltre, le forme idiomatiche sarebbero immagazzinate come item lessicali normali
all'interno del lessico mentale e non in una sua parte specifica. In tal modo, quando si analizza la prima
parola di una frase, si attiverebbero sia il significato letterale che quello figurato, ma la disambiguazione
avverrebbe immediatamente in base al contesto;

l’accesso diretto: il significato idiomatico viene recuperato interamente dal lessico mentale fin dall'inizio della
frase ed è codificato più rapidamente di quello letterale. In base a questa ipotesi, non solo i significati
letterale e idiomatico non sarebbero processati in parallelo, ma sarebbe proprio il significato figurato ad
imporsi sull'altro, grazie all’alto grado di convenzionalità d'uso delle espressioni idiomatiche. Questo modello
rappresenta in sostanza il rovesciamento dell'ipotesi della lista idiomatica;
la configurazione: le frasi idiomatiche non sarebbero raggruppate nel lessico mentale come singole unità
lessicali, pur possedendo un loro elemento centrale, una idiomatic key, costituita da un tratto semantico
particolare o anche da alcune specificità grammaticali. Esse vengono inizialmente codificate ed analizzate
come una frase qualsiasi attraverso un processo di analisi letterale, ma quando compare l'elemento
caratterizzante, la idiomatic key, emerge la configurazione completa e si attiva il significato idiomatico, che si
impone su quello letterale. Il tempo di elaborazione della frase idiomatica rispetto a quella letterale non
varia in funzione della sua convenzionalità, ma in base alla collocazione della idiomatic key all'interno della
frase: essa determina quindi il momento in cui un’espressione idiomatica diventa tale durante il processo di
ascolto o lettura (es. Gianni dice di essere al verde; ha preso baracca e burattini e se n’è andato).

Possiamo individuare due diverse categorie di forme idiomatiche. La prima è costituita da espressioni il cui
significato è stabilito arbitrariamente (essere in gamba): si tratta di forme idiomatiche che vengono assunte
nella memoria semantica come singole unità lessicali e in quanto tali recuperate; sono forme che rientrano
nel modello definito Direct look-up. Al modello composizionale appartiene invece la seconda tipologia di
espressioni idiomatiche, le quali traggono origine da fatti storicamente accaduti, in seguito divenuti
esemplari di determinate situazioni (una vittoria di Pirro). In questo caso si tratta di espressioni che non
differiscono nelle caratteristiche composizionali, morfosintattiche e pragmatiche da quelle non idiomatiche.
Nel primo caso sono gli elementi linguistici non composizionali a creare difficoltà (il significato di essere in
gamba non può essere desunto dal significato delle parole); nel secondo caso, invece, deve essere noto il
significato pragmatico dell'espressione con il suo uso in contesto (possono essere chiari da un punto di vista
composizionale, ma rimanere opachi in mancanza della conoscenza del loro significato etimologico e del loro
uso pragmatico). Un ulteriore caso è rappresentato da espressioni idiomatiche anch'esse comprensibili sul
piano composizionale, ma con un significato traslato desumibile solo in base al contesto (es. rompere il
ghiaccio), per le quali esiste anche un possibile significato letterale. Le espressioni idiomatiche possono
anche essere divise per categorie sulla base del contenuto semantico: possono essere legate ad azioni
(parlare a vanvera), avvenimenti (una pioggia battente), situazioni (essere nei pasticci), persone (essere un
pagliaccio), paragoni (brutto come un debito), emozioni (rosso dalla vergogna).
Le espressioni idiomatiche hanno raramente traduzioni corrispondenti nelle varie lingue e spesso il
significato è reso da locuzioni molto diverse e questo crea seri problemi nell’ambito della L2, soprattutto in
contesti di lingua straniera in cui lo studente non ha occasione di interagire con i parlanti nativi.
L'apprendimento delle forme idiomatiche rappresenta, tuttavia, un aspetto importante della competenza
lessicale, sia per la pervasività con la quale ricorrono nel linguaggio quotidiano, sia per la comprensione di
alcuni aspetti culturali specifici che esse veicolano all'interno della lingua che le produce; costituiscono una
componente rilevante del lessico e dovrebbero essere apprese fin dall'inizio del percorso di apprendimento,
soprattutto quando quest'ultimo viene inteso in funzione dello sviluppo della competenza comunicativa
dell'allievo in un'ottica plurilinguistica e multiculturale. La presentazione delle forme idiomatiche in contesti
significativi è particolarmente importante, perché è solo attraverso il contesto che se ne può disambiguare il
significato e si possono comprendere i confini della loro idiomaticità, che non si basa su regole
morfosintattiche, ma su regole d'uso stabilitesi nel tempo. L'utilizzo di forme idiomatiche, inoltre,
rappresenta una risorsa linguistica, perché ogni individuo può esprimere con esse concetti già esistenti, ma
può anche creare all’interno del proprio idioletto nuove rappresentazioni del mondo. È importante in sede
glottodidattica stabilire dei criteri di scelta delle forme idiomatiche da utilizzare in classe: il primo criterio da
osservare riguarda la frequenza d'uso delle espressioni idiomatiche; è importante considerare se la frase
idiomatica possiede al suo interno vocaboli di bassa o rara frequenza (menare il can per l’aia/cadere dalle
nuvole); considerare il grado di trasparenza delle espressioni (essere in gamba/aprire le orecchie); nel caso di
allievi della stessa madrelingua, può essere utile considerare la similarità nella lingua madre (es. rompere il
ghiaccio/break the ice) se presente, anche se in molti casi vi è solo somiglianza parziale o letterale, ma totale
diversità del significato figurato.

Vi sono diverse strategie alle quali gli studenti ricorrono per la comprensione del loro significato. Possiamo
suddividerle in due tipologie: strategie preparatorie e strategie inferenziali. Le prime hanno principalmente il
ruolo di analizzare e consolidare le conoscenze parziali già in possesso dello studente. Il soffermarsi nella
ripetizione o il cercare di parafrasare l'espressione idiomatica possono aiutare a recuperare eventuali
informazioni già depositate nella memoria a lungo termine; si tratta di strategie volte all'attivazione dei
processi inferenziali che caratterizzano le strategie successive.

LA METAFORA

Al di fuori dell'ambito di studi sulla metafora, essa è ancora popolarmente considerata una figura retorica
d’uso speciale, ovvero un artificio del linguaggio poetico che prevede la comparazione di una cosa a un'altra
sulla base di una relazione di somiglianza: il primo termine della relazione viene a sostituirsi con quello della
seconda cosa con cui è stato messo in relazione. Nel trasferimento da un dominio semantico a un altro, la
metafora permette di compiere un passaggio dal noto all'ignoto, ovvero la nuova pertinenza semantica. Tale
passaggio procura straniamento, suscita meraviglia e accende l'interpretazione.

Molta letteratura ha attribuito ad Aristotele una concezione piuttosto classica della metafora secondo la
quale quest'ultima sarebbe sostanzialmente un fenomeno collocabile a livello della singola espressione
lessicale e si caratterizzerebbe come un espediente ornamentale di carattere puramente stilistico e quindi
privo di apporto conoscitivo. In realtà, egli sottolineò in modo innovativo la dimensione cognitiva della
metafora distinguendola dall'ornamento. La presentò, infatti, come uno degli strumenti attraverso cui si
realizza la conoscenza: l'apprendimento suscita meraviglia e la meraviglia costituisce la base del desiderio
umano di conoscere. La metafora ci permette, secondo Aristotele, di acquisire con facilità conoscenza
dischiudendoci l'ignoto, ovvero un significato nuovo. Ricoeur invece ha inteso la metafora come evento del
senso, come possibilità di ricreare sempre di nuovo il reale. Ricoeur scrive che la metafora è «la forma
costitutiva del linguaggio». A differenza di Aristotele, egli non intende la metafora come semplice operazione
di sostituzione ma è l'instaurarsi di una tensione tra due interpretazioni di un enunciato: per Ricoeur, è un
evento che si manifesta nel punto di intersezione tra diversi campi semantici; senza il carattere polisemico
delle parole, non sarebbe possibile avere metafore. Egli mostra come la metafora non riguarda una singola
parola ma l’intera frase, e la tensione che si viene a creare è una tensione tra interpretazioni contraddittorie.
Coseriu invece ha argomentato a favore della metaforizzazione come principio di formazione del linguaggio:
egli ha evidenziato come l'attività poetica dell'uomo sia costitutiva del linguaggio in generale e non solo di
quello letterario e sia pertanto essenziale tanto alla formazione della lingua d'uso corrente quanto alle
creazioni linguistiche con usi più specifici. Coseriu sostiene che la conoscenza per l'uomo è una conoscenza
metaforica. Eco ha evidenziato quanto fosse necessario pensare la metafora entro la pragmatica del testo: la
riuscita della metafora dipende dal formato socioculturale dell'enciclopedia dei parlanti che la interpretano e
ciò implica che non sia la conoscenza profonda del codice a permetterci di comprendere le metafore, bensì
siano le metafore a permetterci di comprendere profondamente il codice, illuminandone le specificità
culturali di riferimento. La metafora ci consente quindi di conoscere meglio il codice (l'enciclopedia) dei
parlanti di una certa comunità favorendo anche il dialogo interculturale. La concezione contemporanea
giunge a inquadrare la metafora come «un fenomeno essenzialmente cognitivo» in grado di produrre «una
diversa categorizzazione del mondo». Il punto di svolta nella comprensione della dimensione cognitiva della
metafora è quello del superamento della visione della metafora come fatto puramente linguistico,
intendendola piuttosto come un fatto di pensiero e azione in grado di creare similarità. Essa non è dunque
diffusa solo nel linguaggio ma anche nei nostri modi di vivere e pensare. Secondo Vico, il linguaggio non
scaturisce da ragioni, bensì da intuizioni e fantasia. La logica che è a fondamento del linguaggio non è una
logica razionale, ma è la stessa logica creativa alla base del mito e della poesia: una logica poetica. La
metafora, per Vico, nasce dalla necessità di esprimersi e la sua verità sta nell'esperienza umana particolare
che in essa trova espressione. Essa non è, dunque, un semplice espediente stilistico ma un prodotto di quella
logica poetica che sta a fondamento del linguaggio. Nietzsche, invece, è consapevole della natura metaforica
dei nostri concetti. Egli ha descritto come per esigenze comunicative ogni parola sia subito destinata a farsi
concetto in modo da adattarsi a tutti i casi simili; ogni concetto non è che il “residuo di una metafora”. Le
relazioni degli uomini con le cose si esprimono in un linguaggio che si genera sempre metaforicamente. Le
parole non contengono le essenze delle cose: esse le nominano attraverso immagini e facendo ciò le
trasformano; anche secondo Humboldt la conoscenza umana si fonda sull'analogia: l’uomo coglie
somiglianze ovunque rivolga lo sguardo e la sua relazione con la lingua è di tipo analogico nella misura in cui
egli riceve con la lingua una rappresentazione del mondo e delle emozioni che a essa lo legano. Gli elementi
che costituiscono una lingua sono collegati gli uni agli altri e le parole non offrono mai gli oggetti bensì
sempre le interpretazioni di questi. I nostri concetti regolano e strutturano il nostro pensiero e il nostro
vivere strutturando quel che percepiamo e il modo in cui ci rapportiamo agli altri secondo relazioni di tipo
metaforico. La funzione poetico-metaforica essenziale al linguaggio e costitutiva del modo di vivere
dell'uomo, permette di acquisire input, ovvero immagazzinare, organizzare e rievocare conoscenze
attraverso reti di somiglianza tra i concetti. Tali somiglianze connettono i concetti in una rete flessibile,
aperta, dipendente dalle esperienze di vita di ciascun parlante. Nessun concetto può essere definito in modo
univoco e immutabile; il linguaggio è in continua evoluzione così come sono in continua evoluzione i fatti del
mondo, le nostre conoscenze. È per questa ragione che Gramsci, sostenendo che il linguaggio è sempre
metaforico, scrive che è impossibile «togliere al linguaggio i suoi significati metaforici ed estensivi». Gramsci
ha il merito di intravedere una pervasività generativa della metafora: Il linguaggio che siamo soliti parlare è
intrinsecamente metaforico in quanto ha alla base un meccanismo metaforico, qualcosa che prima di avere a
che fare con il linguaggio concerne l'organizzazione concettuale delle nostre esperienze. Per quanto fosse
stata già intravista in passato la capacità della metafora di generare nuova conoscenza, quello che si è
chiarito solo con la svolta della teoria concettuale della metafora è che la metafora non è semplicemente un
fatto di linguaggio, bensì è alla base dell'organizzazione del sistema concettuale che deriva dalle nostre
esperienze.
La metafora è oggetto di studio di molte aree scientifiche. Per il mondo classico la metafora era concepita
come un processo di comparazione o sostituzione e aveva soprattutto una funzione retorico-stilistica di
pertinenza di poeti e oratori, priva di un reale valore cognitivo. Nella seconda metà del secolo scorso si
affermano tuttavia nuove teorie che assumono la metafora non più come mero fatto linguistico, ma viene
messa in relazione con il pensiero umano, assumendo il ruolo di strumento cognitivo. La metafora non è
quindi una deviazione della norma semantica, ma il più alto presupposto della creatività dell’uomo; è la
forma naturale e spontanea attraverso la quale si esprime la logica poetica, ossia l’abilità innata di
rappresentare l’esperienza del mondo attraverso la fantasia.

Se si assume la metafora come una forma di comparazione, è evidente che il suo significato non è desumibile
attraverso una parafrasi letterale, ma piuttosto nelle proprietà condivise che rendono possibile tale
comparazione (es. la rugiada è un velo  trasparenti, brillanti, che coprono qualcosa). La comparazione
presuppone, inoltre, che vi sia un grado di somiglianza preesistente alla metafora stessa, un fascio di
associazioni semantiche preesistenti che la metafora rivela. Tale somiglianza, tuttavia, può risiedere negli
schemi concettuali, nell'organizzazione condivisa in una comunità linguistica di determinati domini semantici
e attribuzioni culturali. La teoria della comparazione ha dunque dei limiti, che risiedono nell'identificare la
metafora come una forma di paragone basata solo su una rigida forma di confronto tra tratti semantici.

Metaforicamente parlando potremmo dire che la metafora è un viaggio nella mente. Un significato (il
viaggiatore) sale su una parola (il mezzo di trasporto) e lascia il suo dominio semantico (il luogo di
appartenenza) per recarsi (il trasferimento) presso un altro dominio semantico (la meta di arrivo).
D'altronde, Il termine metafora fonda la sua etimologia nel greco classico meta-ferein, lemma formato dal
prefisso meta (dopo, oltre) e dal verbo ferein, trasportare, dunque trasferire, spostare. La metafora dunque
è l'esito di un viaggio che un significato intraprende dalla propria sfera semantico-concettuale verso un altro
dominio, arricchendolo di un nuovo significato e di nuove possibili interpretazioni. La metafora si ritrova
tuttavia al centro dell’irrisolto dibattito su ciò che del linguaggio sia letterale e ciò che non lo sia, sulla logica
della sua struttura. Nell’ambito dell’empirismo e del positivismo ad esempio la metafora era un elemento
che rendeva ambiguo il discorso, un inganno linguistico incompatibile con il pensiero filosofico e nemico
della verità; ma è solo una minima testimonianza del dibattito che nei secoli si è sviluppato sulla possibilità
attraverso la metafora di comunicare verità oggettive o se essa non possa farlo e costituisca allora una
deviazione non desiderata rispetto alla ricerca di verità.

Dagli anni Settanta inizia però ad affermarsi una concezione che supera lo stretto ambito linguistico-
letterario, indagando la metafora sul piano cognitivo. Richards ad esempio si oppone alla concezione
aristotelica di eccezionalità della metafora. Essa è parte del linguaggio umano, pertanto egli sottolinea
l'ubiquità della metafora, la sua onnipresenza nel linguaggio come tratto distintivo. Propone una concezione
interattiva del processo metaforico: quando adoperiamo una metafora abbiamo due pensieri di cose
differenti contemporaneamente attivi e sorretti da una singola parola o frase, il cui significato risulta dalla
loro interazione. La metafora dunque non è più intesa come fenomeno strettamente linguistico, ma come
una specificità del pensiero umano. La relazione tra tenore e veicolo, definito ground, contiene l'elemento di
tensione che si produce nella metafora in conseguenza alla relazione che si stabilisce tra i domini concettuali
assunti nel loro significato letterale.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso Black elabora la concezione interattiva della metafora.
Egli sviluppa le intuizioni di Richards, distaccandosi ulteriormente dal tradizionale modello di comparazione o
sostituzione. La metafora per Black non descrive una similarità già esistente, ma ne è l'origine. In quanto tale,
essa assume un ruolo creativo. Diviene uno strumento cognitivo in grado di rappresentare nuove
connessioni, le quali iniziano ad esistere nel momento in cui le metafore le rivelano. Black parte dal
superamento di due concezioni della metafora: la concezione sostitutiva, in base alla quale è possibile
sostituire un'espressione letterale con un'espressione metaforica equivalente, e la concezione comparativa
che esprime la similitudine nel processo sostitutivo. La metafora è il frutto di una tensione tra due elementi
costituenti che Black denomina focus e cornice (frame). L'elemento focale della metafora si inserisce
all'interno di un determinato contesto: assume dunque importanza il contesto e le circostanze particolari in
cui avviene l'interazione. In tale prospettiva la metafora non è un fenomeno da analizzare sul piano
sintattico, quanto piuttosto sul piano semantico e soprattutto pragmatico, nel momento in cui il suo
significato dipende dal contesto e dalle intenzioni comunicative del parlante. Uno degli aspetti centrali della
teoria di Black è la concezione interattiva: l'interazione nasce da due pensieri contemporaneamente attivi ed
operanti insieme; l'estensione del significato è dunque il frutto dell'interazione tra i due domini concettuali
attivi nella mente. L'interlocutore ha un ruolo attivo, in quanto egli stesso crea le connessioni che
consentono la comprensione. Il ruolo attivo dell'interlocutore implica un approccio alla metafora non solo
semantico, ma pragmatico. Inoltre, nel processo di interazione dei due pensieri operanti insieme,
l'espressione metaforica non è deviante rispetto al linguaggio letterale, né può essere sostituita da un
significato letterale equivalente, perché possiede una forza creativa in grado di esprimere le idee. Possiamo
creare metafore perché il nostro universo concettuale può strutturarsi attraverso l'attività metaforizzante
della mente. In questo senso la metafora assume ora anche un valore cognitivo. La possibilità di creare
un'estensione del significato sulla base dei sistemi operanti si basa su quello che Black definisce il sistema dei
luoghi comuni associati: all'interno di una determinata cultura vi sono una rete di credenze e di opinioni
condivise, un insieme di luoghi comuni relativi che, attribuiti e proiettati sul soggetto principale, definiscono
una certa idea. Tali luoghi comuni possono anche distanziarsi dall'uso letterale o scientifico, e al limite non
essere veri, ma ciò che conta è che siano condivisi all'interno di una determinata cultura. Per Black dunque la
metafora non si basa tanto sul confronto tra due significati lessicali, quanto piuttosto sull'interazione di due
domini semantici. In tal modo l'attività metaforizzante dei sistemi operanti insieme attraverso il sistema dei
luoghi comuni organizza l'idea che possediamo del soggetto principale che viene percepito attraverso
l'espressione metaforica. Nel modello interattivo di Black la metafora è concepita come un filtro, uno
schermo attraverso cui possiamo rappresentare la nostra esperienza del mondo. L'attività metaforizzante si
basa sui luoghi comuni associati, ma grazie alla sua forza creativa essa è in grado di produrre un nuovo
complesso di implicazioni.

Il passo successivo si realizzerà negli anni Ottanta, quando Lakoff e Johnson (Metaphor we live by – metafora
e vita quotidiana) avanzeranno una proposta destinata a rinnovare ulteriormente lo status della metafora: da
strumento cognitivo, essa diviene il motore stesso, il fondamento del pensiero e dell'agire umano. Attraverso
tale organizzazione del pensiero non solo comprendiamo, ma viviamo, facciamo esperienza e agiamo; la
struttura profonda del linguaggio che determina la comprensione semantica dell'enunciato è di natura
metaforica e le espressioni che utilizziamo nell'interagire quotidiano sono coerenti all'organizzazione
metaforica che struttura concettualmente il nostro pensiero. Lakoff e Johnson hanno cercato di definire
l'organizzazione del sistema concettuale attraverso la descrizione di una serie di metafore concettuali basate
sulle corrispondenze tra due domini, un dominio origine e un dominio oggetto. Le corrispondenze proiettate
(mapping) del dominio oggetto sul dominio origine vengono descritte secondo il modello TARGET DOMAIN
AS SOURCE DOMAIN oppure TARGET DOMAIN IS SOURCE DOMAIN. Ad esempio, la metafora concettuale
“l’amore è un viaggio” va intesa come una proiezione ontologica tra due domini concettuali in cui il dominio
più concreto, il viaggio, ci consente di concettualizzare il dominio più astratto, l'amore. Il viaggio diviene
allora uno dei possibili modi convenzionali per descrivere un rapporto di coppia che non contiene quindi
nessun elemento poetico o fantasioso. Dunque, quando ci esprimiamo in modo coerente rispetto al concetto
metaforico stiamo parlando in modo letterale. Usiamo determinate espressioni metaforiche perché viviamo
quella cosa attraverso la concettualizzazione metaforica che ne è alla base. L'esistenza delle espressioni
metaforiche linguistiche è la manifestazione dell'esistenza del cross-domain mapping, della proiezione di
corrispondenze fra due domini nel nostro sistema concettuale profondo (es. un breve periodo di separazione
sarà descritto come un incidente di percorso; ma potremmo anche incontrare nuove metafore che sarebbero
immediatamente comprese se coerenti con la metafora del viaggio). Vi è un’importante differenza con il
modello interattivo: in esso infatti, il soggetto secondario (veicolo) funziona come un "filtro” che permette di
concepire in modo diverso il dominio del soggetto principale (tenore). Il soggetto principale viene “filtrato”
attraverso le proprietà del veicolo trasferite sul soggetto principale. Tuttavia, tale concezione si basa su una
tensione tra il contesto dell'asserzione metaforica, la cornice (frame) e il soggetto secondario che vi
interagisce come elemento inconsueto. L'elemento di tensione che si crea in tal modo tra i due soggetti è
secondo Black un elemento intrinseco nella natura stessa della metafora. Per Lakoff e Johnson, invece, le
metafore si basano su una rete coerente di metafore concettuali. La comprensione delle metafore non si
basa sulla soluzione del conflitto semantico interno, ma si fonda sulla coerenza intrinseca alla loro
organizzazione concettuale e alla loro sistematicità.

Grazie alla metafora possiamo comprendere concetti astratti attraverso una rete di concetti concreti che
proiettano sui primi le basi fisiche dell’esperienza cognitiva. Un esempio tipico riguarda, ad esempio il
processo di personificazione come estensione di metafore ontologiche attraverso il quale una determinata
entità assume caratteristiche e comportamenti umani. Il tempo ad esempio può essere concepito attraverso
un processo di personificazione (trascorre, passa, fugge). Possiamo percepire il tempo come un’entità che si
muove: noi andiamo verso il tempo e il tempo viene verso di noi, e attraversandoci diviene costantemente
passato alle nostre spalle. Di conseguenza immaginiamo di camminare verso il futuro, che supponiamo
davanti a noi, mentre il passato è dietro di noi. Il tempo è dunque concettualizzato anche in termini di spazio.
L'esperienza fisica davanti/dietro implica una distinzione probabilmente presente in tutte le culture del
mondo. Tuttavia, la sua concettualizzazione può esprimersi con rappresentazioni diverse. Ad esempio, per le
culture dell'altipiano andino, queste metafore non avrebbero lo stesso significato o non potrebbero esistere,
in quanto in quelle culture il passato è concepito davanti a noi in quanto è noto, mentre il futuro è dietro le
spalle perché è sconosciuto. Questi esempi dimostrano come l'esperienza fisica sensoriale e il mondo extra-
linguistico siano intrecciati con la dimensione culturale specifica di una determinata comunità linguistica. La
metafora, dunque, è coerente in quanto corrisponde all'universo concettuale profondo radicato
nell'esperienza: la metafora basata sull'esperienza implica una terza via rappresentata da una razionalità
immaginativa. L'alternativa esperienziale pone le basi della comprensione della metafora sulla
corrispondenza tra essa e il sistema concettuale attraverso il quale comprendiamo le situazioni: pensiamo
alle metafore di orientamento, che riguardano l’orientamento spaziale. Ogni soggetto possiede
consapevolezza del proprio corpo nello spazio. L'individuo fa esperienza del mondo che lo circonda perché si
percepisce altro dall'ambiente in cui interagisce. Abbiamo dei confini fisici concettualizzati metaforicamente
dal corpo come “contenitore”: in tal modo interagiamo nell'ambiente fisico attraverso categorie come su-
giù, dentro-fuori, davanti-dietro… Tali categorie si radicano nell'esperienza fisica e servono da base per un
gran numero di metafore. Quando siamo ammalati siamo costretti a stenderci mentre quando siamo in
salute siamo in piedi, in movimento, pieni di energie: perciò rappresentiamo concettualmente la salute
orientandola verso l’alto e la malattia verso il basso; quando tristi tendiamo ad avere la testa e lo sguardo
abbassati e da questo orientamento verso il basso derivano espressioni metaforiche come “mi sento giù”;
quando siamo felici manteniamo la testa alta e lo sguardo rivolto verso l'alto (orientamento che ritroviamo
nelle frasi "mi sento al settimo cielo”, “tirati su”); e ancora, la consapevolezza è su, mentre l'incoscienza è
giù: ciò deriva dalla posizione distesa che assumiamo quando dormiamo (incoscienti) di contro alla posizione
eretta che teniamo quando siamo svegli. Nuovi orizzonti di indagine si aprono quindi considerando il
concetto di embodied. In base ad esso l'esperienza fisica del mondo percepita attraverso il nostro corpo, la
conformazione biologica e lo sviluppo filogenetico del nostro cervello e del nostro corpo, non sono aspetti
secondari rispetto al sistema cognitivo ed al linguaggio; al contrario, ne costituiscono le basi. La ragione
nasce dal corpo, non lo trascende e la sua natura è metaforica e immaginativa. Su questi presupposti è
evidente come la metafora sia uno degli aspetti centrali della riflessione nell'ambito della filosofia e della
neuropsicologia cognitiva.

La teoria delle metafore concettuali introdotta da Lakoff e Johnson in Metaphors We Live By si basa
sull'analisi di metafore lessicalizzate, ovvero metafore che i parlanti non percepiscono più come tali mentre
parlando ricorrono a esse; metafore di cui abbiamo perso o non abbiamo mai avuto consapevolezza. Le
metafore ci permettono di organizzare le nostre esperienze e, dato che le esperienze differiscono da cultura
a cultura, ne consegue che anche la comprensione di un'esperienza nei termini di un'altra non è universale,
ma varia tra le diverse culture. La metafora, dunque, è uno strumento del pensiero in grado di creare nuovi
significati sfumando i confini delle categorie. In tal modo, il pensiero metaforico ci permette di comprendere
in qualche misura anche ciò che appare totalmente incomprensibile, come i sentimenti. Le metafore
funzionano come strumento di chiarimento e organizzazione coerente non solo delle esperienze altrui che,
attraverso le metafore si rendono comprensibili, bensì anche delle nostre esperienze personali passate,
presenti e future che nelle metafore divengono a noi stessi comprensibili. Inoltre, la metafora, mettendo in
luce gli aspetti particolari delle esperienze di una certa cultura permette la negoziazione del significato
necessaria per la comprensione reciproca tra persone di culture differenti, le quali possono comprendersi
grazie appunto a una negoziazione dei significati: una metafora permette di visualizzare una differenza
culturale in modo più immediato ponendola in un'immagine a portata interculturale, un modo allo stesso
tempo meno diretto di quanto possa fare l'uso referenziale del linguaggio che può suonare politicamente
scorretto.

Nel tentativo di identificare le metafore che strutturano il nostro pensare, vivere e agire, Lakoff e Johnson
cominciano con l'analizzare la metafora concettuale “La discussione è una guerra” dalla quale derivano una
serie di espressioni metaforiche d'uso quotidiano. Indica che concettualizziamo la discussione nei termini di
una guerra e ciò si riflette nel nostro modo di parlare: “vincere, difendere, distruggere, adottare strategie,
attaccare i punti deboli dell’avversario, respingere” sono tutte azioni che appartengono al concetto di guerra
(es. his criticisms were right on target  le sue critiche hanno colpito nel segno; I’ve never won an argument
with him  non ho mai avuto la meglio su di lui). Espressioni metaforiche come queste possono essere
comprese se si viene esposti al contesto in cui esse occorrono e si viene sensibilizzati rispetto a tentativi
fuorvianti di tradurre letteralmente.

Un altro esempio è la metafora concettuale “il tempo è denaro”: l'idea che il tempo sia una merce con un
valore di scambio, una merce preziosa che non può essere sprecata, una risorsa limitata che deve essere
usata con parsimonia, è parte costitutiva del nostro modo di rapportarci al tempo, della maniera in cui lo
gestiamo nella nostra vita. Quest'idea è culturalmente radicata in Occidente ed è figlia dell'avvento del
capitalismo. Che il tempo è un bene prezioso emerge dal fatto che lo dedichiamo, lo doniamo, lo regaliamo o
ne siamo destinatari e ringraziamo chi ce l’ha concesso. Come qualsiasi merce, il tempo ha un costo e un
valore, e può essere addirittura prestato (es. he’s living on borrowed time  nel senso che sta usufruendo di
qualcosa che non è suo e che deve usare in modo rispettoso; in italiano non è una espressione frequente. Es.
put aside some time  ritagliarsi del tempo).

La metafora del canale: c'è un modo comune di considerare il linguaggio e il suo funzionamento che ha
attraversato i secoli e che è frutto di un processo metaforico. Siamo soliti esprimerci circa la nostra
comunicazione per mezzo del linguaggio immaginando che le idee vengano veicolate per mezzo di
contenitori quali le espressioni linguistiche, le quali accolgono appunto i significati delle parole. La
comunicazione non è dunque altro che quel processo mediante il quale spediamo a un interlocutore i
contenuti della nostra mente per mezzo dei contenitori messi a disposizione dal linguaggio. Quest'idea si
trascina dietro una serie di implicazioni in termini di pensiero popolare ed è così ancorata al senso comune
da riflettersi in modo inconsapevole nei nostri modi di parlare. Ciò spinge Lakoff e Johnson a sostenere che la
comprensione di un concetto (la comunicazione) nei termini di un altro (il canale) messa in gioco dalla
metafora è sempre una comprensione parziale. Se fosse totale, un concetto coinciderebbe perfettamente
con un altro, e non sarebbe soltanto compreso in termini di un altro. It’s hard to get that idea across to him
 è difficile far passare questa idea/fare in modo che gli arrivi quest’idea; your reasons came through to us
 le tue ragioni mi sono giunte; you can’t simply stuff ideas into a sentence any old way  non puoi limitarti
a parlare per frasi fatte; in questo ultimo caso la metafora concettuale del canale non risulterebbe forse
subito visibile: l’idea è che ciò che deve essere veicolato, trasmesso, deve essere collocato in contenitori
adatti e non ci si deve servire in maniera poco ragionata di ovvie combinazioni di parole. Don’t force your
meaning into the wrong words  sforzati di trovare le parole giuste per esprimere le tue intenzioni; questa
frase può essere considerata un derivato della metafora concettuale del canale in quanto si basa sempre
sull’idea che le parole siano il canale attraverso il quale passano le idee, in questo caso nei termini delle
intenzioni di un parlante.

Le metafore possono essere utilizzate come strategia didattica ma devono essere anche tematizzate. La
metafora è un efficace strumento per comunicare e trasmettere i valori del singolo e di un'intera comunità
ed è in grado di influenzare il punto di vista del nostro interlocutore. Se consideriamo che le metafore
possono essere diverse da una comunità linguistica a un'altra, ci rendiamo conto che nel contesto di
apprendimento di una lingua straniera occorre fare in modo che esse non diventino un ostacolo per la
comunicazione interculturale. Ancor più perché la loro pervasività nell'uso linguistico quotidiano non
permette di trascurarne l'apprendimento. Alcuni studi hanno mostrato come lo sviluppo di una competenza
metaforica sia necessaria per l'apprendimento di una L2, ed è stato anche argomentato che la capacità del
discente di riflettere sulla metaforizzazione è essa stessa un'opportunità per arricchire l'acquisizione
lessicale. La competenza metaforica è parte della competenza pragmatica che prevede la capacità di
produrre atti linguistici, ma anche le abilità di interpretare e trasmettere significati al di là del senso letterale
delle parole. La comprensione della metaforizzazione non favorisce soltanto l'acquisizione di nuovo lessico,
ma permette anche di connettere lingue e culture diverse, di stabilire dei veri e propri ponti tra lingue e
culture. Tuttavia, occorre sapere che si potrebbe andare incontro a spiacevoli incomprensioni linguistiche
con implicazioni socioculturali: occorre divenire sensibili circa la possibilità che una metafora non valga nella
cultura di una lingua straniera e che possa addirittura trasgredire i valori di quella cultura e il ricorso a esso
potrebbe creare spiacevoli situazioni di imbarazzo e incomprensione (es. metafore di animali in diverse
culture). È importante da un punto di vista glottodidattico dunque ragionare sull’uso diretto ed indiretto di
queste espressioni, in modo che gli apprendenti imparino a riconoscere le funzioni di queste espressioni e a
usarle in modo opportuno rispetto ai contesti linguistici.
RIASSUNTI PORFIDO

1. Ermeneutica della traduzione e definizione del suo orizzonte di attesa


Per definire l’operazione traduttiva occorre prendere in considerazione la sua natura binaria di
processo (insieme di tutte le operazioni che si compiono sul testo di partenza, o prototesto, per
giungere al testo tradotto, o metatesto) e di prodotto (testo tradotto in relazione al suo testo di origine
e al suo contesto di ricezione).
L’idea stessa di traduzione coincide con un paradosso che richiama alla mente il dilemma di origine
ed effetto di ogni gesto traduttivo. Da un punto di vista meramente astratto si ritiene, infatti, che
tradurre sia un’operazione impossibile perché nessuna lingua può dire esattamente la stessa cosa in
un’altra lingua, anzi spesso lavora per la lingua e nella lingua. Questo perché durante il processo
traduttivo il senso viene necessariamente strappato alla sua unità originaria insieme alla “lettera”. La
traduzione cosiddetta letterale, meglio nota come traduzione parola per parola, è stata bandita fino
all’800, secolo delle traduzioni letterali per eccellenza. Non è un caso se nel dibattito traduttologico
recente esso sia tornato in auge sotto forma di ipotesi affascinante. Insomma, il senso senza la lettera
pare rinnegare una conquista fondamentale della linguistica e della semiotica contemporanea, ovvero
quell’unità di suono e di senso, di significato e significante che definisce il segno linguistico da
Ferdinand de Saussure in poi.
Altrettanto significativo è il dibatto apertosi attorno all’intraducibilità del testo letterario per quanto
riguarda tutte le componenti operative del linguaggio quali l’organizzazione e articolazione dei suoni,
alla base dei sistemi fonologici (vocali, consonanti, ecc,), ma anche l’organizzazione sintattica e
semantica che differenzia le lingue in base alle singole parole e soprattutto in base ai loro sistemi
lessicali e concettuali. Secondo Giovanni Gentile “sostituire una lingua all’altra significa sostituire
un sentimento all’altro dal momento che le parole sono parole del sentimento poiché come ogni
tecnica sono state fuse nel sentimento formando un tutt’uno con esso. Inoltre, ogni scrittore ha la sua
lingua e le sue parole che acquistano un senso nel contesto, che è quel singolare, unico, discorso
irripetibile”. Le parole non sono mai pure: nel percorso che le porta da chi le emette a chi le riceve si
riempiono di concezioni semantiche. Dunque, si parla di una prima forma di intraducibilità, una
specie di impossibilità di partenza, che riguarda la pluralità delle lingue e la loro radicale diversità.
Esiste anche una seconda intraducibilità che dipende dal fatto che le lingue non solo differiscono per
il modo in cui segmentano la realtà ma anche come la ricompongono sul piano del discorso. Questa
riguarda la riflessività intralinguistica ovvero la possibilità che ha il linguaggio di parlare di sé stesso,
su sé stesso, di mettersi a distanza e trattare la propria lingua alla stregua di tante altre. Tendiamo
infatti a tradurre in una stessa lingua ogni qual volta si spiega qualcosa, si modifica un pensiero o si
decifra un messaggio. Anche all’interno di una stessa comunità linguistica siamo costretti a
confrontarci con l’enigma dell’identico, di quell’introvabile senso in grado di rendere equivalenti due
versioni della stessa frase. Quella della traduzione “interna” è la faccia più nascosta della traduzione
ma non per questo meno importante di quella “esterna”. In definitiva, se è vero che il linguaggio
umano dà voce al reale, esso dà anche voce all’irreale e spesso al impossibile, all’utopico, oppure al
segreto, all’indicibile, all’incomunicabile e quindi a ciò che rimane intraducibile per antonomasia.
A queste obiezioni di principio, che sembrano negare a monte, risponde tuttavia una prassi
consolidata che vede nella traduzione il fulcro degli scambi e della comunicazione tra gli uomini, al
di là di qualsiasi barriera spaziale e temporale. L’apparente diversità delle lingue non deve farci
perdere di vista le innumerevoli corrispondenze che le uniscono in profondità e che consentono il
passaggio da una lingua all’altra. Prendere sul serio la traduzione significa intenderla come non come
una semplice tecnica di comunicazione fra un linguaggio e l’altro, bensì come un aspetto costitutivo
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dell’esistenza umana. Oggi più che mai tradurre deve voler dire uscire da sé, gettare un ponte e
portarsi sull’altra sponda, quindi aprirsi alla differenza/alterità. Ecco perché la traduzione va pensata
non solo in termini di scambio funzionale, strumentale ma come una risorsa espressiva e comunicativa
tra i diversi sistemi culturali (è nello spazio interstiziale, in cui avvengono le operazioni di
interscambio, le diverse culture si mettono in gioco con i loro codici espressivi e sistemi simbolici).
In passato le traduzioni hanno svolto un ruolo nevralgico nello sviluppo delle letterature nazionali dal
momento che hanno creato nuovi modelli di riferimento, influenzato i generi tradizionali e indotto
profondi mutamenti negli assetti culturali dei vari paesi. Dalla fine degli anni 50 in poi i cosiddetti
Cultural Studies, hanno cercato di regolare l’interpretazione dei fenomeni culturali su una realtà
divenuta più ibrida e complessa, mettendo così in discussione metodi e ideologie ritenuti inadeguati.
In questo modo tutti i mondi separati dalla frantumazione degli idiomi sono entrati in contatto tramite
la traduzione, che scontrandosi con i limiti della propria possibilità, ha riconosciuto la natura
intrinsecamente decostruzionista e dialettica che la contraddistingue. Sulla base di questi presupposti,
gli studi traduttologici contemporanei hanno trasformato l’antica dispersione linguistica in ricchezza
culturale perché, così come dimostrato da Marty e Zumthor, il pluralismo linguistico è sinonimo di
superamento di finitezza delle lingue per mettere l’accento sulla possibilità del comunicare. Se quindi
da un punto di vista pragmatico dire la stessa cosa è impossibile per via di un’inevitabile perdita o
alterazione della forma-significato nel passaggio da un sistema simbolico all’altro, è tuttavia possibile
trasformare tale perdita in elemento di forza. Questo porta all’abbandono sia dell’ormai antica
alternativa speculativa traducibilità versus intraducibilità, sia della dicotomia valutativa fedeltà versus
infedeltà a vantaggio di un’esplicitazione delle opportunità offerte dalla traduzione così diversamente
intesa.
In conclusione, la traduzione per statuto non è assoluta, immutabile, bensì fondata sulla provvisorietà,
aperta all’imperfezione e intrisa di variazioni metamorfiche. Derrida la definisce addirittura un
processo virtualmente infinito. Nel mondo contemporaneo la traduzione potrebbe assumersi il
compito di mettere in dialogo l’infinita varietà umana, di rendere disponibile una cultura collocandola
in uno spazio interstiziale fruibile da tutti allentando le dinamiche di asservimento gerarchico
(naturalizzazioni e addomesticamenti) e incrementando la polifonia e la pratica comparatistica.
Perciò, nell’abbandonare il sogno della lingua originaria o la chimera della traduzione perfetta, è
giusto riconoscere nella “distanza” la parola chiave dei nuovi studi traduttologici. Con il termine
distanza si allude allo spazio intermedio tra due lingue e due culture in cui si colloca l’essenza
dell’alterità, uno spazio nel quale si ha l’accesso ai molteplici sensi dell’altro. Se la preposizione tra
definisce un confine, definisce inoltre, un luogo di transito e d’incontro, di dinamismo. Diventa allora
possibile immaginare la traduzione come uno spazio in cui si incontrano più culture e di costruzione
di basi stabili su cui mettere insieme diversità in transizione. In linea con quanto detto fin ora, il
compito del traduttore dev’essere quello di raggiungere un’equivalenza priva di identità, che può cioè
essere soltanto inseguita, presupposta, lavorata. Così come dice Josè Saramango “la traduzione è
qualcosa che trasforma tutto in modo che nulla cambi”. Ecco perché rappresenta tutt’oggi un’impresa
rischiosa, alla continua ricerca della propria teoria e in un certo senso al paradosso.
Negli anni 90 del secolo scorso, la questione dell’atto traduttivo si è arricchita di una nuova
prospettiva: l’opportunità di mettere nella giusta luce l’intervento del traduttore anche sulla base di
un’etica traduttiva che andava affermandosi in campo editoriale. Per secoli, il testo è stato investito
di un’autorità assoluta che relegava il traduttore nella più assoluta invisibilità. Vi era un rapporto
impari tra l’autore (considerato genio creativo), non soggetto ai mutamenti linguistici, sociali e
culturali, e il traduttore (considerato un compilatore di copie) costretto ad usare un linguaggio
trasparente che riflettesse il più possibile quello dell’autore. Ad oggi la traduzione è accettata come
un atto culturale e politico autonomo. Ciononostante, affermare l’alterità del testo straniero continua
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ad essere importante, anche alla luce di un’etica della traduzione. È in questa prospettiva che Venuti
riprende il concetto romantico di traduzione “naturalizzante” ed “estraniante” proposto da Friederich
Scleiermacher, mettendo in discussione due strategie traduttive. Nel primo caso si tenta di agevolare
il compito del lettore nella lingua di arrivo, annullando le differenze culturali più complesse (=> il
testo straniero è portato in una dimensione conosciuta dal lettore che, appartenendo a una cultura
diversa da quella per la quale il testo è stato scritto, troverebbe incomprensibili). Nell’operazione di
trasferimento da una lingua all’altra verranno perciò annullate tutte le caratteristiche linguistiche e
culturali ritenute problematiche in modo da giungere alla piena scorrevolezza del metatesto,
trasformandolo in una specie di secondo originale e dissimulando/falsando l’operato del traduttore.
Questo genere di traduzione è etnocentrico e portatore dei valori della cultura dominante, mentre nel
caso opposto l’obiettivo è mantenere la distanza culturale per far conoscere al lettore la cultura
dipartenza. Nel secondo caso, inverso al primo, si introducono nel testo tradotto degli elementi
culturalmente estranianti e poco conosciuti dal lettore. Il traduttore diventa in questo caso visibile
perché la traduzione ribadisce il proprio carattere di testo altro. Lo scopo non è giungere alla
scorrevolezza ma portare in superficie le diversità, invogliare il lettore a confrontarsi con qualcosa di
dissimile da sé.
Lo studio delle metafore della traduzione è ancora a uno stadio embrionale, motivo per cui nel
2014 Francois Géal dell’Université Lumiere-Lyon 2 ha lanciato il progetto Trésor des métaphores de
la traduction (TMT), nell’intento di creare un database di definizioni figurate in una decina di lingue
maggioritarie. [PENSIERO PORFIDO PAG.31]. Per Augusto Ponzio l’opera sopravvive nella sua
discendenza anche se ciò non riguarda la vita bensì appunto la sopravvivenza. “sia per la coppia testo
originale e traduzione, sia per quella vivente e generato, qualcosa permane certamente e interviene
un rapporto di somiglianza; ma nel permanere c’è la separazione e nella somiglianza la diversità,
l’alterità irriducibile”.
Si può quindi affermare che la traduzione è il prodotto di un atto creativo risultato di una serie di
operazioni di decodifica e ricodifica a livello semantico, sintattico e pragmatico e quindi anche di
riscrittura. Non va però dimenticato che la traduzione ha anche un valore profondamente morale e
questa scelta etica, come ritiene Ricoeur, è la più difficile che ci sia. Ma soprattutto una cultura diventa
tale solo se retta da questa scelta. Questa nuova impostazione ridisegna in maniera radicale lo statuto
identitario del traduttore che diviene una figura investita da grande responsabilità di ermeneutica.
L’aspetto semantico ed epistemologico della traduzione coinvolge infatti i modi e le forme della
trasformazione dei significati nel passaggio da una lingua a un’altra, da un testo a un altro. Chi traduce
ha una responsabilità binaria in quanto investe l’una e l’altra lingua e bipolare in quanto si rivolge si
all’autore che al lettore. In conclusione, al traduttore compete la difficile sfida intellettuale di mettere
a tacere, in un certo senso, il modello autoriale, anche di ridargli voce “a distanza”. In questa
prospettiva il testo tradotto non solo assume le sembianze di un testo di confine, ma si trasforma in
un’occasione per arricchire le capacità cognitive tanto di chi lo cera quanto di chi lo analizza,
permettendo così di leggere la realtà da punti di vista potenzialmente nuovi e stimolanti.

2. Genesi della disciplina traduttologica e critica della traduzione


La traduzione vanta una lunga storia caratterizzata da momenti più o meno topici, un patrimonio
ormai secolare di metodologi e strumenti critici e un ampio panorama di scuole e orientamenti. In
anni recenti si è guadagnata spazi sempre più rilevanti all’interno dei dibattiti culturali così come si è
vista un’autonomia curriculare in seno all’accademia dove sono stati disegnati nuovi profili formativi
e professionali relativi alla mediazione linguistica e interculturale. Per un lungo periodo, la traduzione
è stata considerata una sottosezione della letteratura comparata anche se fin dal primo uso del termine
nel XIX sec., i critici non sono mai stati concordi sulla definizione di letteratura comparata, sul suo
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oggetto di studio e sul suo statuto di disciplina. Si può dire che il suo assetto è molto simile a quello
della semiotica che, considerata inizialmente una branca della linguistica, ad oggi rappresenta la
disciplina principale, della quale la linguistica costituisce una sottocategoria. Allo stesso modo, i
Translation Studies rappresentano il tronco portante della disciplina, di cui la letteratura comparata
costituisce uno dei rami principali. Caratteristica peculiare delle ricerche condotte all’interno dei TS
è stata quella di incrociare prospettive linguistiche con quelle degli studi letterari, della storia
culturale, della filosofia, dell’antropologia, ecc. In particolare, il cammino per giungere ai TS, e
quindi al moderno approccio integrato tra i diversi indirizzi, è iniziato nel primo dopoguerra e ormai
rappresenta un capitolo cruciale della storia della traduzione. Se ad oggi il processo traduttivo viene
attribuita una patente di scientificità e, in alcuni studi di avanguardia il metatesto ha valore di opera
vera e propria, è però solamente a partire dal 1972 che la traduttologia è nata come disciplina dotata
di uno statuto indipendente. Come accennato nel capitolo precedente, tradurre significa dialogare,
confrontare la propria lingua/cultura con un’altra. Più che fare teoria, si tratta di descrivere e
raccontare un’esperienza; è per questo che i TS si pongono come campo di studi interdisciplinare
privo di uno scopo pratico. Riassumendo l’evoluzione della disciplina, è possibile individuare tre
generazioni sulla base del nucleo portante delle loro ricerche: dalla parola=> prima generazione, si
passa al testo => seconda generazione, alla cultura => terza generazione.
Non va dimenticato che questo approccio teorico è fortemente radicato nell’applicazione pratica. I
due aspetti sono legati in maniera indissolubile e non sono in conflitto tra loro. Anzi, la dualità
costitutiva della disciplina erige la traduzione a pratica bifida per eccellenza dal momento che il
traduttore si muove tra due lingue, due culture, due epoche molto distanti tra loro.
Lo scopo di una teoria della traduzione è comprendere i processi sottostanti l’atto della traduzione e
non, come si crede, fornire un insieme di regole per creare la traduzione perfetta. Non si parla quindi
più in termini di ciò che “si dovrebbe” o “non dovrebbe” fare.
Grazie poi al concetto di equivalenza, l’attenzione della disciplina è passata dal microtesto al
macrotesto abbandonando le nozioni di fedeltà e letteralità. Catford, Vinay e Darbelnet ritengono che
tradurre equivale a sostituire un testo in una lingua con un testo in un’altra lingua. Quindi il lavoro
del traduttore consisterebbe nel cercare di ridurre al massimo la distanza tra le due lingue operando
dei cambianti laddove la traduzione diretta/ letterale, con il ricorso a prestiti e calchi, non funziona.
La traduzione obliqua, infatti, si avvale di trasposizioni, modulazioni, e adattamenti che risultano
necessari ogniqualvolta la traduzione diretta non è in grado di giungere a risultati soddisfacente
perché la distanza tra i due codici è parziale o nulla. Per equivalenza facciamo quindi riferimento a
considerazioni basate per lo più su una corrispondenza formale, e non funzionale, tra prototesto e
metatesto. Ci si limita però a tassonomizzare equivalenze e discrepanze tra sistemi linguistici e a
banalizzare l’operazione traduttiva riconducendola a una mera operazione sostitutiva di un elemento
da una lingua ad un’altra. Dunque, per anni la traduzione è stata considerata un processo meccanico
invece che creativo, un’operazione sussidiaria e derivata, di second’ordine. Qualunque sia
l’angolazione da cui lo si guarda, il concetto di equivalenza è ancora un cardine della riflessione
traduttologica che, nel giro di poco tempo, ha abbandonato la lingua per soffermarsi sui testi, ponendo
la sua attenzione sulle loro funzioni e sui loro aspetti pragmatici. Questo ha segnato una svolta
epocale. L’equivalenza esatta è molto rara; anche l’apparente sinonimia non la garantisce e Jakobson
dimostra come la traduzione endolinguistica sia spesso costretta a ricorrere a una combinazione di
unità del codice per interpretare appieno il significato di un singolo elemento. L’aspetto connotativo
è infatti determinante ai fini della comprensione e della resa del significato. Anche in presenza di un
traducente “trasparente”, la traduzione può aver bisogno di alcuni adattamenti atti a garantuee un
effetto equivalente nella lingua di arrivo. Dare per scontato l’equivalente di un termine impedisce di
vedere altre possibili traduzioni, oppure le eventuali sfumature di senso legate alla sua collocazione
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in un dato contesto. Ancora una volta, ciò che va tradotto è il significato globale, valutato nella sua
interezza: le parole non sono unità indipendenti e un item lessicale può assumere un significato
contestuale che non avremmo mai ipotizzato. Levy ritiene che la traduzione richieda molto di più
della conoscenza operativa di due lingue, condizione necessaria ma non sufficiente.
L’operazione che ogni “buon” traduttore deve compiere, pertanto, consiste nel ricondurre i singoli
segni linguistici a ciò che significano non in quanto tali, ma nella specifica combinazione semantica,
in contesto. E una volta accettato il principio che non può esistere uguaglianza fra due lingue, diventa
possibile affrontare anche la questione del margine di manovra concesso al traduttore durante il
processo di trasposizione. Che ruolo ha il traduttore? In realtà, il traduttore come presenza in
penombra (George Steiner), o come mendicante alle porte di una chiesa (Valéry Larbaud), rientra in
una visione essenzialmente postromantica, collegata molto più alla gerarchia fra autore, testo, lettore
e traduttore, che a un aspetto intrinseco del processo vero e proprio di traduzione.
Le moderne teorie traduttologiche, soprattutto quelle angloamericane, tendono a mettere sempre più
l’accento sul contesto di ricezione di un testo, e quindi sulla cultura di arrivo, piuttosto che sulla
volontà dell’autore del testo di partenza o sull’intentio operis così così come intesa da Eco. Esse
focalizzano l’attenzione sull’idea della traduzione come testo autonomo, con una sua esistenza e
valenza che prescinde da quella di un testo d’origine che pure ne è il presupposto. Il metro di
valutazione diventa non più il presunto valore letterario del testo di partenza, l’intenzione dell’autore
o il problema della fedeltà dell’originale, bensì il sistema letterario ella cultura che accoglie la
traduzione. Nel 1980 Toury è stato il primo ad aver elaborato una concezione della critica traduttiva
in linea con questo orientamento. Secondo questo modello, i testi tradotti costituiscono un
sottosistema all’interno del sistema della letteratura in una data lingua e sono regolati dalle
convenzioni e norme della cultura di arrivo. Benché la critica della traduzione esista almeno fin dal
XVII secolo, sotto forma di giudizi sulla qualità del testo tradotto, quasi da formare quasi un
sottogenere, essa non ha avuto lo stesso sviluppo di ciò che definiamo comunemente critica letteraria,
ovvero la critica dei testi originali. Ciò che esiste relativamente da poco, invece, sono i Descriptive
Translation Studies (DTS), che hanno per oggetto “gli universali traduttivi”, ossia quei fenomeni
linguistici alquanto ricorrenti nei testi tradotti e quasi del tutto assenti nei testi originali. Nel suo
Descriptive Translation Studies and Beyond, Toury (1995) presenta una teoria normativa della critica
traduttiva. Non si tratta di norme intese come regole da applicare in modo impersonale per svolgere
il compito di critico o di traduttore, bensì di alcune costanti che si possono riscontrare durante
l’esercizio di tali attività. Dallo studio comparato di alcune traduzioni letterarie nelle maggiori lingue
europee emerge che i traduttori sono spesso vittima di un’ottica che Chevalier e Delport definiscono
ortonimica. Essi tendono, cioè, a riprodurre una rappresentazione largamente condivisa del mondo, a
normalizzare la realtà uscita dalla penna di uno scrittore dando luogo a vere e proprie “figure di
traduzione”. Per quanto non parlino di una vera e propria tirannia della tentazione ortonimica, della
doxa, sullo spirito del traduttore, nel loro studio giungono alla conclusione che i traduttori letterari
operano innanzitutto, e principalmente, nell’interesse della lingua e della cultura in cui stano
traducendo, mettendo di fatto tra parentesi la lingua la cultura da cui è nato l’originale.
Recentemente anche l’italiano delle traduzioni è stato oggetto di analisi linguistiche. Secondo
Cardinaletti e Garzone, gli aspetti sintattici e semantico-pragmatici dell’italiano in traduzione sono
parzialmente diversi dalle produzioni spontanee nella stessa lingua, con un’evoluzione per certi
aspetti diversa da quella dell’italiano neostandard. Dall’esame di alcuni testi francesi, inglesi,
tedeschi, spagnoli e russi tradotti, le due autrici hanno evidenziato alcuni tratti ricorrenti, dovuti alla
tendenza conservatrice che mantiene in vita caratteristiche linguistiche in via di estinzione nella
lingua italiana e nell’uso spontaneo dei parlanti. Essi sono: uso sovrabbondante del congiuntivo;
maggiore varietà lessicale rispetto al prototesto; maggiore coerenza ed esplicitazione del messaggio.
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3. Didattica della traduzione e traduzione didattica
A partire dalla fine degli anni 70 si è riconosciuto il valore euristico della traduzione, cui si attribuisce
la duplice funzione di incrementare sensibilmente la consapevolezza conoscitiva di arricchire, in pari
misura, l’analisi contrastiva dei due sistemi linguistici in gioco sia a livello grammaticale sia a livello
semantico, stilistico e culturale. La traduzione impone idealmente l’attivazione di tutta una serie di
competenze miranti a potenziare le capacità cognitive, non solo perché richiede la messa a fuoco ed
elaborazione di un ingente mole di informazioni, concetti, teorie. È insomma in grado di mobilitare
l’intero spettro delle strategie di ragionamento e gestione della conoscenza normalmente
padroneggiate da un individuo. Negli anni 90, invece, la traduzione si è vista riconoscere in via
definitiva lo status di abilità linguistica a sé stante e di conseguenza non è stata più vista come un
mezzo, bensì come uno degli obiettivi cui deve tendere l’insegnamento linguistico.
Ladmiral riflette sul ruolo delle pratiche traduttive nell’apprendimento delle lingue straniere,
soffermandosi in particolar modo sulla pratica della version (traduzione scritta da L1 a L2). Egli
riconosce alla version il vantaggio di individuare nei discendenti la consapevolezza delle potenzialità
stilistico-espressive della L2 e si dichiara favorevole a una sua reintroduzione nella prassi didattica,
anche come esercizio preparatorio per gli esami universitari di Lingua e Traduzione. In linea con i
principi della didattica, elabora alcune tecniche di approccio graduale alla traduzione: dapprima il
testo in L1 viene tradotto e parafrasato in classe senza badare troppo a questioni di tipo stilistico-
formale e cercando piuttosto di discutere in chiave contrastiva alcuni fenomeni linguistici. In un
secondo momento, a casa, gli alunni lavorano individualmente alla versione scritta che il docente
correggerà il giorno dopo in classe analizzando le soluzioni proposte, argomentandone pregi e difetti
senza imporsi. Nella fase conclusiva il gruppo-classe preparerà una versione condivisa del testo con
la supervisione del docente-guida. Utilizzata intenzionalmente dal docente come strategia, la
traduzione può rivelarsi molto utile per far comprendere agli studenti che i significati delle parole (e
dunque delle frasi) non esistono a priori come dati universali e indipendenti dai significati che li
veicolano, ma sono inscindibilmente uniti da essi come le due facce della stessa entità. Lo studente
deve rendersi conto che l’area di significato di un segno della L1 non è mai perfettamente
sovrapponibile all’area di significato del segno traducente della L2, e viceversa. Egli dovrà pertanto
stabilire qual è la valenza semantica assunta da un dato segno nel particolare contesto socio-culturale
e pragmatico in cui è stato adoperato, poi, cercare l’equivalente nell’altra lingua. La traduzione viene
così a configurarsi come una strategia utile a incrementare la “metacompetenza” nell’uso di entrambe
le lingue coinvolte. In quest’ottica la traduzione, da essere uno strumento di verifica delle conoscenze
linguistiche tramite pratiche di commutazione parola per parola e sintagmi, si trasforma in una
strategia d’interpretazione, riflessione, produzione, all’occorrenza anche di valutazione della
metacompetenza comunicativa. Diventa inoltre strumento per richiamare l’attenzione degli studenti
sui diversi usi socio-pragmatici di una stessa parola nella L2, sulle differenze tra convenzioni
retoriche della lingua/cultura materna e quelle della lingua/cultura straniera.
Per quanto riguarda invece la questione del ruolo della lingua madre nell’insegnamento delle lingue
secondarie, essa è stata reintegrata dall’odierna ricerca psicolinguistica come pratica metalinguistica
e metacognitiva molto proficua. Un uso attento e ponderato della L1 nella classe di lingua straniera,
infatti, non solo ora non rappresenta un ostacolo per l’apprendimento, ma sembrerebbe facilitare
persino la comprensione degli stimoli da parte dei discendenti e la verifica della progressione
conoscitiva da parte dei docenti. La L1 ha quindi un ruolo fondamentale nell’acquisizione di una
competenza interlinguale perché risponde a un’esigenza di mediazione e negoziazione tra due sistemi
linguistici o tra una pluralità di universi semioculturali oggi ben rappresentati dalle classi
multietniche.

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Si ritiene che il miglior banco di prova per sperimentare l’acquisizione di competenze linguistico-
traduttive profonde da parte degli studenti siano la traduzione dei testi letterari anche se molti si
allontanano da questa dichiarazione forse per il timore che l’apertura alla letteratura della L2 possa
indurre i docenti più nostalgici a rispolverare una metodologia d’insegnamento imperniata più sui
modelli linguistici offerti dai grandi scrittori che non sulla norma d’uso dei parlanti nativi.
L’analisi testuale così come viene insegnata oggi, s’interessa non solo alla coerenza semantica e alla
connessione sintattica ma anche all’appropriatezza del contesto, cioè si prende in considerazione non
solo la verbale ma anche la dimensione non verbale dell’interazione, fortemente determinata dal
patrimonio etnografico e socioculturale della lingua studiata. Dunque, nell’analisi contemporanea dei
testi entrano in gioco alcuni concetti propri della semantica e della pragmalinguistica, quali le
presupposizioni, le inferenze e l’implicito. Questo è il motivo per cui la traduzione oggi non
rappresenta più soltanto un mero esercizio strutturale o di verifica ma un processo complesso,
finalizzato ad accrescere la competenza comunicativa degli studenti mediante il confronto sistematico
tra diverse situazioni d’uso di sue lingue-culture. Durante il processo di una L2 l’individuo sviluppa
contemporaneamente una seconda Weltschauung (= concezione del mondo, della vita, e della
posizione in esso occupata dall'uomo; termine frequente nella storia della filosofia e nella critica
letteraria), visto il ruolo di identificatore del mondo, operante sul piano logico-cognitivo, che riveste
la L1. Etichettiamo quindi il mondo grazie alla nostra lingua madre, ma anche la L2 contribuisce
progressivamente ad assolvere tale funzione referenziale.
Dal momento che non esistono equivalenze biunivoche tra le lingue, la traduzione offre un’occasione
per problematizzare lo studio e stimolare un ragionamento di tipo dialettico. Secondo Balboni: “se
uno studente arrivasse a rifiutarsi di tradurre per non tradire, vista la sua incompleta padronanza delle
lingua, il successo della traduzione come tecnica didattica sarebbe totale”. Da qui la necessità di un
approccio glottodidattico che prenda in considerazione l’esistenza di un’interlingua che sposti
l’attenzione del discendente sulle diverse concettualizzazioni della realtà, persino parola per parola.
Alla luce di queste considerazioni è legittimo ritenere che la traduzione sia un mestiere in gran parte
artigianale fondato sull’acquisizione di competenze e sottocompetenze tra cui quelle metacognitive
che vanno intese come la presa di coscienza, da parte dei futuri traduttori, delle varie fasi del processo
traduttivo al fine di giungere a un sapere metaoperativo sui meccanismi mentali coinvolti nel tradurre.
È pertanto utile sottoporre gli studenti di un corso di lingua, soprattutto se universitario, a una sorte
di “Think-Aloud-Protocol”, in modo da renderli coscienti del percorso interpretativo intrapreso e
interrogarli sulle ragioni delle scelte operate, stimolando la riflessione sull’esercizio traduttivo svolto
in vista di un’autonomia sempre maggiore durante il processo di autorevisione. Il ragionamento grazie
al quale il traduttore giunge alla soluzione desiderata è di tipo semiosico e ripercorre la fase della
conoscenza della realtà attraverso un concatenamento di oggetti dinamici – segni – interpretanti.
L’interprete si fa a sua volta oggetto dinamico e questo processo virtualmente illimitato si interrompe
solo nel momento in cui il traduttore s’imbatte nella soluzione che gli sembra più confacente, quello
che potremmo definire l’interpretante logico-finale. La semiotraduzione è spesso inconsapevole, nel
senso che viene praticata da qualsiasi buon traduttore in grado di svolgere il proprio mestiere in modo
pragmatico, senza ricorrere a modellazioni teoriche. A caratterizzare la semiotraduzione non è il fatto
che la ricerca della soluzione si basa sul colpo di genio perché questa deriva da un processo semiosico
disciplinato, frutto di un dialogo con sé stessi.
Il traduttore è un bilingue che riflette sulla propria condizione di parlante ed è quindi cosciente
dell’atteggiamento metalinguistico che adotta quando traduce. Se è vero che l’analisi teorica eleva i
traduttori al rango di scrittori, è altrettanto vero che i professionisti della traduzione possiedono un
bagaglio teorico, radicato nella manualità e nella quotidianità, che rimane troppo spesso inespresso e
nascosto alla routine. Esso è fatto di strategie di lettura, tecniche d’inferenza, d’identificazione e
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strutturazione dei livelli interpretativi, pratiche di scrittura, spessore ideologico delle scelte
linguistiche, gradi di intertestualità, e via discorrendo.
Compito principale della grammatica, secondo Porfido, è dunque porsi all’intersezione tra due sistemi
linguistici e due sistemi di valori culturali, così da creare una terza dimensione in cui far operare “la
propria grammatica”, che si fonda su un sistema di equivalenze di elementi formali, estremamente
connotati, appartenenti alle due lingue-culture. La prassi invalsa denota che l'insegnamento delle
lingue moderne ha subito all’università dei modelli astratti e nozionistici propri della tradizionale
didattica delle cosiddette «lingue morte», modelli che sono stati messi radicalmente in discussione,
ma che ancora dominano nelle aule. La scissione tra studio astratto e normativo della morfosintassi e
del lessico, entità svincolate dalla pragmatica del discorso, fa sì che nella mente degli studenti (e
anche dimolti docenti) si strutturi definitivamente un irrimediabile dicotomia tra conoscenza
nozionistica esplicita e competenza procedurale implicita. In particolare, l’attenzione ai
microcostituenti di un’unità linguistica (come i morfemi) preclude la comprensione “sincretica” degli
enunciati emergente dal contesto e dal discorso.
Insomma, da attività necessaria ma troppo spesso sminuita, oggi la traduzione può finalmente
trasformarsi un accattivante invito al multilinguismo e multiculturalismo consapevole, un
avvenimento alla diversità.

4. Compito del traduttore e illustrazione del suo metodo di lavoro


Dalle considerazioni emerse si evince che quello del traduttore è un compito esaltante, dal momento
che su di lui grava una grande responsabilità: rispettare, rivitalizzandola, la parola dell'Altro e
mobilitare la propria lingua attraverso l’incontro fecondo con una forma di diversità. Ciò accade
soprattutto quando egli si trova ad affrontare testi contemporanei prodotti da autori in situazioni di
multiculturalismo come quelli che trasfondono nelle loro opere la consapevolezza, spesso dolorosa,
del proprio plurilinguismo; autori che mettono in atto strategie di scrittura in cui l’ibridazione
linguistica è deliberatamente assunta come gesto di provocazione, resistenza, sopravvivenza o
testimonianza.
È opinione comune individuare due fasi nel processo traduttivo: quella di analisi del prototesto e
quella della sua trasformazione in base a una serie di procedure di commutazione del codice,
parzialmente automatizzate. In realtà sarebbe più corretto dire che una traduzione si realizza
attraverso tre fasi fondamentali: la prima di decodifica e comprensione; la seconda di trasferimento
mentale del messaggio a livello di nuclei informativi; la terza di riformulazione del messaggio nella
lingua di arrivo*. È soprattutto nel momento intermedio che si realizza quella profonda
compenetrazione del testo da parte del lettore/traduttore, denominata “circolo ermeneutico”. Trai due
poli del sistema esiste un incessante andirivieni, un moto ininterrotto in avanti e all'indietro prima che
il traduttore giunga a licenziare il testo finale. È evidente che lì dove c'è movimento, c'è anche
entropia. Tutti i tipi di traduzione, infatti, implicano perdite, aggiunte e distorsioni dell’informazione
per via dell’anisomorfismo delle lingue. La negoziazione che caratterizza ogni processo traduttivo —
processo di comunicazione e quindi fondamentalmente decisionale — consiste nella scelta ottimale
fra rinuncia, e conseguente omissione di elementi presenti nel prototesto (perdita), e adozione di una
strategia traduttiva capace di riequilibrare il residuo inserendo altri elementi nel metatesto
(compensazione). Il problema dell’intraducibilità viene così aggirato grazie alle opzioni che il
traduttore saprà sfruttare nel suo lavoro di ri-eleborazione creativa. Di solito, dopo aver formulato la
propria congettura interpretativa circa il senso del testo che ha davanti, e dopo essersi fatto un'idea
dello stile che lo caratterizza, il traduttore inizia a concentrare la propria attenzione su porzioni
limitate di testo, così da avviare la fase di traduzione propriamente detta. L'analisi testuale, che
precede sempre un’operazione traduttiva di questo genere, deve privilegiare la componente semantica
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dell’opera, ma il significato profondo di un testo viene colto appieno solo se si tengono ben presenti
le relazioni tra le varie parti di cui è composto. Una traduzione efficace terrà conto quindi sia
dell'aspetto sintattico, sia di quello semantico, senza aver paura di operare le dovute trasformazioni.
Spesso, inoltre, si trascura il peso che ha la punteggiatura sullo stile di un testo, anche se è facile
notare come essa contribuisca a pieno titolo alla resa dei suoi aspetti sintattici e dunque espressivi. Al
di là della strumentazione utilizzata, la traduzione allude sempre a una forma di trasmutazione e di
rinascita; essa, inoltre, esige lentezza. Il traduttore, dunque, deve lavorare con il bisogno di precisione
assoluta, ma con strumenti che tutto promettono tranne l'esattezza.
Tra le molteplici insidie che può presentare una traduzione (non solo letteraria), forse le più
complesse sono i riferimenti culturali, ovvero quegli aspetti linguistici che non sono immediatamente
o facilmente riproducibili in un’altra lingua perché profondamente radicati nella cultura di partenza.
Essi appartengono sia alla realtà extralinguistica – e più precisamente geografica, storica, sociale –
sia a quella più propriamente linguistica: giochi di parole, espressioni idiomatiche, battute di spirito,
proverbi. Già diversi decenni fa il testo, a maggior ragione se letterario, appariva agli occhi di Eco
come “una macchina pigra”, intessuta di una buona dose di non detto che spettava al lettore
esplicitare. L'autore, infatti, plasma il proprio messaggio non soltanto in considerazione dei contenuti
da trasmettere, ma anche operando ipotesi e congetture su conoscenze, convinzioni e aspettative dei
destinatari, creando una parvenza di “lettore ideale” iscritto nel testo stesso. L'analisi del testo, quindi,
si impone come attività assolutamente propedeutica e prioritaria, da cui dipendono tutti i passaggi
successivi. Bisogna dare il giusto peso anche ad alcuni momenti che forse si è solito trascurare, come
la fase pre-traduttiva, perché la preparazione semplifica il lavoro successivo e lo rende più proficuo.
Occorre procedere con meticolosità e pazienza lungo un percorso che parte dalle caratteristiche
macrotestuali e approda a quelle microtestuali, oppure seguire il cammino inverso, dal generale al
particolare. Qualunque sia la strada intrapresa, l'attività di ricerca pervade l’intero processo di
traduzione: all’inizio, durante la fase di analisi, comprensione e interpretazione del testo di partenza,
successivamente, durante il processo di riformulazione del messaggio attraverso la scelta dei
traducenti, e in ultimo nella revisione, così da garantire la correttezza e l'accuratezza delle scelte
effettuate nel testo finale.
Per il traduttore è di fondamentale importanza conoscere i principali strumenti di ricerca/ausilio per
la gestione delle informazioni; che siano glossari, dizionari, terminologie, thesauri, enciclopedie, testi
di riferimento, ecc, tutti sono ormai disponibili su supporto elettronico e possono essere utilizzati sia
off-line che on-line. Ma nell’esercizio della professione, dal punto di vista pragmatico, si ritiene che
soltanto la pratica possa aiutare davvero un traduttore, infatti solo immergendosi nella frase, nel
paragrafo, nel testo che deve essere trasportato in un altro contesto, il traduttore apprende a
padroneggiare meglio l’arte difficile e mentalmente impegnativa della traduzione. Si tratta di un'arte
sottile, un gioco di bilanciamenti, una cura continua del testo che solo l'esercizio aiuta a svolgere al
meglio. Dal punto di vista teorico, trovare soluzioni a casi traduttivi intricati, sviluppare abilità in
grado di trarre d'impaccio anche nei passaggi più ostici significa, a volte, impiegare anche
inconsapevolmente un metodo. All’interno di questa procedura vi è la fase di deverbalizzazione in
cui il messaggio compreso viene messo a nudo per diventare pura rappresentazione mentale, vale a
dire interamente spogliato dei suoi aspetti di codice, smaterializzato. Successivamente il testo in
traduzione viene “spostato” dal suo ambiente naturale e proiettato in un ambiente di lavoro che
coincide con la realtà mentale del traduttore dove avvengono una serie di processi, soprattutto
incontrollati, di cui è difficile dare conto giacché la verbalizzazione di processi mentali è sempre
selettiva, e quindi lacunosa. Qui interviene la capacità del traduttore di generare una serie di
possibilità alternative e di scegliere tra queste la più adatta; è davvero difficile capire come il
traduttore operi le proprie scelte a livello di macrostruttura dal momento che gli studi hanno finora
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indagato solo ciò che avviene a livello microstrutturale (il perché della preferenza per un modo,
piuttosto che per un altro di dire (quasi) la stessa cosa).
Il traduttore deve avere un bagaglio di conoscenze linguistiche e culturali ampio e sofisticato, ma la
buona riuscita di una traduzione non dipende solo da esse, bensì anche dalla sua capacità di “saper
fare” e di saper gestire in maniera efficace tali conoscenze. Homo bilinguis, il traduttore
professionista, oltre a possedere queste conoscenze, deve dar prova di avere soprattutto una grande
capacità d’interazione biculturale, ovvero di saper elaborare “soluzioni” puntuali muovendosi in
maniera dinamica e creativa tra quei due mondi ai quali si approccia. *Nel suo lavoro, dapprima il
traduttore si approccia al prototesto ed inizia a interrogarsi su come tradurre quella parola, frase, ecc
rifacendosi anche al cosiddetto “orecchio interno”, che più di ogni altro manuale o dizionario esterno
ci dice se qualcosa “suona bene” oppure no. Passa poi a consultare il dizionario bilingue, quello
monolingue e il dizionario dei sinonimi e contrari per valutare tutte le possibili sfumature di
significato e per darsi il tempo di far affiorare una proposta convincente. L’ultima fase è quella di
revisione, intesa come processo di rilettura, eventuale correzione e rifinitura del testo tradotto.
Durante questa operazione si presume che il traduttore si sia idealmente già separato dalla sua creatura
e che sia in grado di valutarne la qualità con maggiore oggettività. Siccome non è del tutto vero, a
conclusione dell’intero processo c’è sempre un momento di editing, condotto da un esperto che non
ha legami con il traduttore così da assicurare l’imparzialità dell’operazione. Esso consiste in una
revisione bilingue condotta a cavallo fra il testo di partenza e quello di arrivo, mirando a garantire
l’accuratezza della traduzione sia dal punto di vista formale che contenutistico, lavorando anche con
il traduttore per negoziare e concordare insieme una serie di soluzioni. È forse proprio a questo livello
che vengono condotte o legittimate le operazioni di normalizzazione e semplificazione, e solo una
comunicazione tra editor e traduttore potrà garantire che non si ecceda nell'addomesticamento del
testo, cancellando del tutto i segni del passaggio del traduttore. In buona sostanza, nell'ottica di una
responsabilità condivisa, l'editor assurge al rango di vero e proprio mediatore tra produzione e
ricezione, e si fa ultimo garante di un prodotto qualità. Quando però viene meno il rapporto di fiducia
tra traduttore e revisore, di solito a farne le spese è il prodotto finito che spesso tradisce la fatica dei
negoziati tra le parti. Di conseguenza, ai difetti del traduttore talvolta vanno sommati anche i vizi
degli editori, il che rappresenta un doppio pericolo per il testo, la cui seconda vita si preannuncia
piuttosto irta di difficoltà. Ad ogni modo, sono sempre più rare le case editrici che svolgono ancora
un lavoro certosino di questo genere, l’ideale “bottega”, dove i traduttori apprendono le sfumature
più sottili del loro mestiere, a causa di tempi editoriali strettissimi e di costi da riduzione in
proporzione.

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