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LA SCOPERTA DELLA LINGUA ITALIANA

1.Alcune nozioni base


La linguistica è la scienza che studia il linguaggio umano nella totalità delle sue
manifestazioni.
Attraverso il linguaggio si manifesta il pensiero e il pensiero si forma e si articola
grazie al linguaggio verbale. Cervello e linguaggio sono legati.
Nei primissimi anni di vita è assolutamente necessario che i bambini siano circondati
da adulti che comunicano, che parlano.
Federico II di Svevia (1194- 1250), imperatore, uomo illuminato, poliglotta e molto
interessato alla lingua, ordinò un esperimento: fece in modo che dei neonati fossero
affidati a balie che erano incaricate di allevarli nell’assoluto silenzio. Si ipotizzava
che così i bambini avrebbero cominciato a parlare nella lingua originaria (quella
donata da Dio all’umanità, si ipotizzava fosse latino, greco o ebraico). In realtà tutti i
bambini morirono; l’esperimento ci rivela l’importanza della comunicazione.

Nascita della lingua storica (o diacronica)


Fin dall’origine gli uomini si sono interrogati sull’origine del linguaggio; tuttavia la
linguistica come scienza modernamente intesa nasce in tempi recenti (tra XVII e XIX
sec.) e all’inizio si occupava della comparazione delle lingue indoeuropee: lo scopo
era stabilire parentele tra le lingue, definire famiglie, ciascuna riconducibile a una
lingua madre. All’inizio dell’Ottocento, grazie ad alcuni studiosi (Rask, Schlegel e
Bopp) fu messo a punto il criterio per riconoscere le parentele tra le lingue: si trattava
di individuare relazioni sistematiche tra i suoni delle lingue esaminate, anche molto
lontane tra loro nello spazio e nel tempo, che permettessero di risalire a una forma
comune di riferimento.
Latino frater, inglese brother, greco prater, russo brat.
Si apriva così la stagione della linguistica storica che ha fissato criteri scientifici di
confronto tra le lingue, dimostrando che queste cambiano (glottologia).

Ferdinand de Saussure e la linguistica generale


Il linguista Ferdinand de Saussure è stato il primo a riconoscere che le lingue possono
essere descritte e studiate su due piani differenti:
- diacronico (storico) che mostra i cambiamenti di una lingua in un arco di
tempo
- sincronico (descrittivo) che rileva le regole di funzionamento nel singolo
momento preso in esame
Per questa vicinanza ai parlanti il piano sincronico è ritenuto prioritario da Saussure.
Per Saussure il concetto di linguaggio si concretizza nello svolgersi della
comunicazione, che è l’unica forma reale in cu ilo si può analizzare.
Saussure per primo ha impostato gli studi sul linguaggio su due versanti:
- la langue astratta, di natura sociale e indipendente dalle realizzazioni
individuali
- la parole, di natura psicofisica, che ha per oggetto gli effettivi comportamenti
linguistici individuali
I due termini “langue” e “parole”, in traduzione “lingua” e “parola”, sono accostati in
una schematizzazione a scopo didattico ai concetti di competenza ed esecuzione.
La langue è l’insieme astratto di risorse depositate nella mente a cui fa riferimento
ogni parlante e scrivente, che permette di ricondurre ogni atto di parole, parte
concreta di ogni singola produzione linguistica.
A livello di langue operano i rapporti che Saussure chiama associativi/ paradigmatici:
si tratta di quelle relazioni basate su associazioni mentali tra le unità del sistema
linguistico.
Sul piano lineare della lingua intercorrono invece rapporti sintagmatici che
presiedono alla combinazione morfosintattica degli elementi nelle frasi: ad esempio
nella frase “il bambino sorride” “il” e “sorride” sono in rapporto sintagmatico con
“bambino”.
Relazioni sintagmatiche: relazioni in presenza che un segno linguistico ha con altri
segni che occorrono insieme a lui.
Relazioni associative/ paradigmatiche: relazioni in assenza che un segno linguistico
ha con altri segni capaci di occorrere al suo posto.
I due piani agiscono contemporaneamente: una volta scelta la parola “bambino” tra le
possibili alternative (infante, fanciullo…) ci saranno dei limiti di scelta sia per
l’articolo che precede che per il verbo che segue, e questo si aa livello paradigmatico
che sintagmatico: tra gli articoli disponibili gli unici possibili restano “il” e “un” , e il
verbo, sul piano paradigmatico, dovrà essere scelto tra quelli con un significato
compatibile, mentre sul piano sintagmatico dovrà essere coniugato alla persona
corretta.
Il concetto di sistema (système, tradotto con struttura da cui strutturalismo, come si
chiamerà il movimento che avrà alla base le sue idee) costituisce la novità più
incisiva del pensiero di Saussure: la lingua è una struttura, un insieme di elementi;
“tutto si tiene” diventerà il motto, quasi il manifesto, dello strutturalismo, a
significare che il senso è dato dal sistema nel suo insieme e non dai singoli elementi,
tutti dipendono gli uni dagli altri.

Noam Chomsky e il generativismo


Chomsky individua un meccanismo interno, innato negli esseri umani, che li rende
predisposti all’acquisizione del linguaggio. Sulla base di stimoli limitati, questo
dispositivo interno presiede alla capacità di ogni bambino di generare (da qui il nome
di grammatica generativa) automaticamente frasi.

Nella lingua esistono solo differenze


Parlando di Saussure abbiamo introdotto il concetto di sistema, quella costruzione
che si regge su ogni singolo elemento nella sua combinazione con tutti gli altri. In
questo sistema ogni entità trova la sua definizione nella differenziazione e
opposizione con le altre;
Come in un'orchestra, non si può togliere o aggiungere niente senza modificare il
risultato finale.
Nella lingua si possono individuare dei sottosistemi, dei settori come la fonetica,
fonologia, morfologia, sintassi e lessico che funzionano al loro interno come sistemi e
che danno vita al sistema lingua.

Il segno linguistico in Saussure


Il significante è la parte concreta, il suono, o meglio, l’immagine acustica che
richiama un concetto astratto.
Il significato è il contenuto, il concetto esterno alla lingua associato al significante.
Il significato (concetto astratto di ciascuna identità) ci permette di ricondurre a quello
stesso significato le sue diverse manifestazioni reali, i cosiddetti referenti.
Il segno linguistico è una qualsiasi sequenza che esprime un’unità di significato: una
parola, o una unità lessicale superiore come “ferro da stiro”.
Una favola o una poesia possono essere considerati segni in quanto racchiudono e
trasmettono un significato unitario, anche se tali segni si possono scomporre a loro
volta in altri segni.
Nel segno linguistico il legame tra significato e significante è arbitrario, ovvero non
deve la propria forma alla natura di ciò che designa, infatti lo stesso concetto può
essere espresso con segni linguistici completamente diversi nelle diverse lingue.
Tra le eccezioni a tale arbitrarietà troviamo le onomatopee/ fonosimboli, quelle
parole che riescono a riprodurre li suono dei loro referenti.
Per i bambini che imparano a parlare, il riconoscimento dei segni linguistici e la
produzione delle parole sono il risultato di un processo che prevede varie operazioni:
ogni parola deve essere isolata dal flusso parlato in cui è inserita, deve essere
riconosciuta, e una volta individuato il suono, bisogna trovare il modo di articolarlo,
inoltre il dato acustico va associato a un significato.
Associare al suono l’oggetto concreto o l’immagine corrispondente aiuta quindi li
bambino perché gli fornisce dati di esperienza che lasciano nella memoria tracce
recuperabili al ripetersi dello stesso suono.
Diversamente dai segni, nei simboli, significato e significante hanno un legame
motivato, non arbitrario, solitamente di natura culturale (le candeline a indicare li
compleanno).
Ancora più esplicite sono le icone, segni che rimandano alla cosa attraverso la loro
somiglianza con essa (la cornetta disegnata sul tasto di chiamata dei cellulari).
O ancora gli indici, ovvero segni che manifestano la cosa per relazione di causa-
effetto (fumo in lontananza dice che c’è un fuoco).

Lo spazio linguistico
Il nostro agire linguistico si realizza attraverso una serie di condizioni e scelte che si
possono collocare su più dimensioni.
Gli scambi comunicativi avvengono in una “architettura della lingua” (Eugenio
Coseriu) costituita da più varietà, che potremmo definire come le diverse
attualizzazioni della lingua in una comunità di parlanti.
Ogni lingua quanto più è diffusa nello spazio e nel tempo, tanto più presenta una
serie di differenze, dovute a variabili, dette assi di variazione.
Attingere alle diverse varietà permette a ogni parlante di una stessa lingua di
esprimere la stessa cosa in modi differenti; quindi avere a disposizione uno spazio
linguistico il più ampio possibile, garantisce una maggiore libertà di espressione.
Il processo di estensione di questo spazio attraversa tutto l’arco della vita, le
competenze lessicali possono continuare ad accrescersi sempre, ma è fondamentale
che questa tendenza ad allargare i confini delle proprie capacità linguistiche sia
stimolata e guidata fin dalla prima infanzia.
Lo schema attuale utile a descrivere l’impianto dell’italiano contemporaneo ha alla
base le seguenti 3 dimensioni di variazione:
- Diatopia: (dia, attraverso, topos, luogo) in cui le variazioni si realizzano al
variare dello spazio geografico e in cui sono collocati i diversi italiani
regionali, ovvero le diverse realizzazioni dell’italiano che rendono
riconoscibile la provenienza di ciascun parlante della penisola. I tratti più
immediatamente visibili riguardano la fonetica, l’intonazione, la cadenza, il
lessico.
- Diastratia: (dia, attraverso, stratum, steso) in cui le variazioni si realizzano al
variare degli strati sociali di appartenenza dei parlanti; vi troviamo agli estremi
l’italiano colto e l’italiano popolare, ma la stratificazione tiene conto anche
dell’appartenenza alle diverse categorie sociali, età, sesso…
- Diafasia: (dia, attraverso, phemi, dire) in cui le variazioni si realizzano al
variare della situazione comunicativa. Italiano scritto formale e italiano parlato
informale rappresentano gli estremi.
Un precedente schema teneva distinto l’asse diamesico (mesos, mezzo), quello sul
quale si snodano le variazioni dovute al variare del mezzo utilizzato per trasmettere il
messaggio.
La variabile diamesica è quella legata al mezzo materiale in cui avviene la
comunicazione.
A queste tre dimensioni si deve aggiungere quella della diacronia, che fa da sfondo
allo schema appena descritto, in cui si considerano i cambiamenti degli usi linguistici
in archi temporali più o meno estesi e nei contesti sociali in cui si sono prodotti e da
cui sono stati influenzati. Questa dimensione è quella che si attraversa quando si
studia la storia di una lingua.
La variabile diacronica è quella legata al tempo; il passare del tempo determina
inevitabilmente un mutamento nell’uso linguistico. Alcune differenze si rilevano già
nell’uso linguistico dei giovani rispetto a quello degli anziani.
Ogni bambino è immerso fin dalla nascita nello spazio linguistico; con l’ingresso
nella scuola dell’infanzia e poi alla primaria, questa esperienza inconsapevole deve
essere guidata verso una progressiva sistematizzazione; sensibilizzare i bambini alle
differenze di registro e far distinguere ad esempio la varietà confidenziale e informale
è uno dei compiti più impegnativi per i maestri.
SLIDE
Una lingua è un sistema nel quale coesistono diverse possibilità di variabilità. Sullo
sfondo c’è sempre il fattore tempo (varietà diacroniche), mentre ci si muove sempre
su quattro assi:
- Varietà diatopiche
- Varietà diastratiche
- Varietà diafasiche
- Varietà diamesiche

L’italiano nell’uso medio o neostandard, una varietà molto estesa nel panorama
dell’italiano contemporaneo
Nell’uso attuale della lingua italiana sono state individuate 5 varietà che si
distinguono dalle altre:
- Italiano standard: regolato sulla norma grammaticale (quello della tradizione
scritta)
- Italiano dell’uso medio: usato nella comunicazione parlata spontanea delle
persone colte e adatto anche alle scritture più agili (giornalismo, narrativa…)
- Italiano regionale: che risente in varia misura dei tratti provenienti dai dialetti
delle singole regioni
- Italiano popolare: che rappresenta il modo approssimativo di servirsi
dell’italiano da parte delle persone con bassa istruzione
- Italiano degli immigrati: rappresentano delle varietà di contatto con le lingue
degli immigrati
Quella più diffusa è quella che Sabatini ha definito italiano dell’uso medio; vediamo i
fenomeni principali di questa varietà:
- Tratti fonetici: tendenza a realizzare vocali aperte o chiuse seguendo la propria
pronuncia regionale, utilizzo della s sonora anche dove richiesta sorda (casa,
pisa), tendenza a non censurare i tratti della propria pronuncia regionale
- Tratti morfosintattici: lui/ lei al posto di egli/ella/esso/essa, gli come forma
dativale per loro
Lo schema della comunicazione
Ogni volta che utilizziamo la lingua significa che abbiamo deciso di comunicare
qualcosa a qualcuno. Si tratta di un processo automatico che risponde a uno schema
fisso in cui sono coinvolti sei fattori (modello Jakobson):
- Contesto
- Mittente
- Destinatario
- Messaggio
- Codice (insieme dei segni)
- Canale
Il mittente può formulare il messaggio in modo da trasmettere il suo stato d’animo
(funzione emotiva), per attirare l’attenzione del destinatario (f. conativa), per
rimarcare un fatto in sé (f. referenziale), per verificare se il contatto tra mittente e
destinatario è aperto e funzionante (f. fatica), per parlare attraverso la lingua della
lingua stessa (f. metalinguistica), e f. poetica riguarda il messaggio nella sua forma
linguistica.

Acquisizione e apprendimento del linguaggio


Con acquisizione ci si riferisce alla facoltà di imparare in modo naturale una lingua,
quindi alla progressiva conquista della prima lingua; l’apprendimento è invece un
processo guidato.
Lingua, cervello e movimento
Il cervello umano ancora oggi è abbastanza misterioso. Per la localizzazione delle
principali funzioni linguistiche nel nostro cervello si deve partire dalle scoperte di
due scienziati, Broca e Wenicke.
Il primo studiò un soggetto che aveva perduto la capacità di produrre parole (riusciva
ad emettere solo la sequenza tan) e nel 1861 riuscì ad individuare una degenerazione
della terza circonvoluzione del lobo frontale sinistro, Area di Broca.
Nel 1874 Wernicke analizzando un altro tipo di disturbo linguistico caratterizzato da
un parlato fluido ma privo di senso logico e da difficoltà di comprensione riuscì a
circoscrivere l’Area di Wernicke.
Si scoprì così la dominanza dell’emisfero sinistro per le funzioni linguistiche, anche
se, in caso di lesioni, c’è sempre la possibilità che uno dei due emisferi supplisca ad
alcune funzioni dell’altro.
Negli ultimi decenni si sono molto ampliate le conoscenze sulle relazioni tra cervello
e linguaggio, grazie allo sviluppo di tre ambiti di ricerca:
- Le tecniche di neuroimmagine, che permettono di osservare la distribuzione
delle attività del cervello
- La scoperta dei neuroni specchio (Rizzolatti), i quali mettono in relazione le
aree prettamente linguistiche e quelle che regolano il movimento del corpo.
- Indagini sulle basi genetiche del linguaggio
Lo sviluppo linguistico umano è il risultato di una complicata interazione tra fattori
genetici, ambientali, biologici e cognitivi.
La teoria dei neuroni specchio, in particolare, va a confermare l’importanza del corpo
come innesco dei processi mentali e dello sviluppo linguistico.
Sincronia interattiva: micromovimenti che i bambini di poche settimane producono
con il corpo solo in risposta al linguaggio umano.
Imparare a parlare implica imitazione e ripetizione e si avvicina molto a quello che
accade nella memorizzazione degli atti motori.
Sono i simboli che ci permettono di pensare, di svolgere attività di astrazione. In
condizioni normali tale processo avviene inconsapevolmente: solo dai 4 anni di età i
bambini sviluppano la consapevolezza delle sillabe e dai 5/6 anni dei singoli suoni
(maggiore astrazione). Gli adulti educatori è importante che favoriscano questo
passaggio dall’implicito all’esplicito.
Teoria dei neuroni specchio: importanza del corpo come innesco dei processi
mentali, e in particolare dello sviluppo linguistico, capovolgendo la concezione più
diffusa nella maggior parte delle culture per cui le attività intellettive si collocano a
un livello superiore rispetto a quelle motorie.
Inoltre, il verificarsi di questa “simulazione interna” di azioni svolte da altri, gioca
un ruolo determinante nella capacità di “entrare nella mente degli altri”, di
costruire quindi legami di empatia e partecipazione alle emozioni altrui.
Standardizzazione- slide
La standardizzazione di una lingua è il risultato di un processo storico che prevede
più fasi:
- Selezione: a partire dalle diverse varietà presenti in uno spazio linguistico si
può elaborare per ibridazione e mescolanza una koinè oppure si può scegliere
una sola tra le varietà concorrenti; per l’italiano si è presa questa seconda
strada e la scelta è caduta sul fiorentino del Trecento.
- Codificazione: le regole della varietà scelta vengono esplicitate attraverso
grammatiche (norma esplicita) e/o diffuse attraverso l’imitazione di modelli
condivisi (norma implicita); per l'italiano questo processo ha preso avvio con le
prime grammatiche realizzate nel Cinquecento e con l’imitazione dell’uso di
alcuni autori.
- Diffusione: ovvero l'allargamento della varietà individuata a una più ampia
base di utenti: ciò può avvenire attraverso dominio politico-militare o, come
nel caso dell’italiano, a causa del prestigio culturale
- Estensione delle funzioni: cioè la possibilità di servirsi della varietà standard in
tutti gli usi, orali e scritti. Per gli usi scritti questo processo è stato compiuto
dall’italiano tra il Cinquecento e l’Ottocento, mentre per la lingua orale il
percorso si è avviato con l’unità d’Italia ma non può dirsi ancora del tutto
compiuto, almeno per le abitudini di pronuncia.

2.Dal noto al nuovo: suoni e lettere dell’italiano


Gli insegnanti hanno il compito di guidare ciascun bambino alla scoperta del
funzionamento della lingua. Dal momento in cui inizia il processo di
alfabetizzazione, quando si impara a leggere e scrivere, è come se si dimenticasse che
c’è stata una fase della nostra vita in cui la scrittura non ci riguardava; è pertanto
difficile per gli insegnanti pensare alla lingua come esclusiva sonorità a prescindere
dalla sua forma scritta, ma è la strada da percorrere insieme agli allievi.
Si tratta di guidare i bambini alla scoperta dei suoni; per poter svolgere questo
compito gli insegnanti devono muoversi con estrema disinvoltura tra i suoni distintivi
dell’italiano (fonemi) e non confonderli con le lettere dell’alfabeto (grafemi) che
utilizziamo convenzionalmente per rappresentarli.

Le coppie minime
I componenti minimi di una lingua sono i suoi distintivi, fonemi, unità prive di
significato proprio ma che componendosi, formano unità più consistenti dotate di
significato.
Anche se un bambino di 4 anni non sa niente dei fonemi dell’italiano, si accorge
comunque che c’è qualcosa di strano in frasi come “mangia una vetta di pane”.
Vetta/fetta parte/carte sono coppie minime, ovvero coppie di parole in cui, al variare
di un solo fonema cambia li significato.
Tecnicamente questo procedimento si chiama prova di commutazione ed è li modo
attraverso cui è stato possibile individuare quella trentina di suoni che compone il
repertorio fonologico dell’italiano.
Far giocare i bambini con le coppie minime è un ottimo sistema per farli soffermare
su quello che ascoltano e dicono.
Per lavorare con le coppie minime è utile sapere che ci sono alcune coppie di fonemi
molto produttive, altre per cui invece è difficile trovare coppie oppositive; ad esempio
i fonemi /t/ e /d/ distinguono molte coppie di parole (tata-data turo-duro tonto-tondo
prete-prede…). L’opposizione tra /e/ ed /è/ e quella tra /o/ e /ò/ distinguono poche
coppie di parole (pèsca-pésca vènti-vénti fosse-fòsse…)
Esempi coppie minime: CANE-pane-tane-chine, PERO-pelo-peso-cielo, ALLA-ella-
adda-ascia-anna-aia-ama, PESTARE-pescare-postare-restare, PORTO-morto-parto-
posto (corto no perché cambia anche la o), FIERO-pieno-fiero, MITO-muso-muro-
moto-mito, VIRARE-tirare-virale-mirare. Sciame-fame, pino-piglio, pegno-pelo,
ceto-veto. NON sono coppie minime: cielo-velo (perché cambia c-v e è-è), ciao-miao
(ci/a/o e m/i/a/o).
Fonetica: si occupa dei soni linguistici da un punto di vista concreto, i suoni
fisicamente diversi tra loro (foni).
Fonologia: studia i suoni da un punto di vista astratto e relazionale (fonemi); le
regole della fonologia permettono di individuare il repertorio di suoni di ciascuna
lingua e le loro relazioni con i segni grafici che li rappresentano; oggetto della
fonologia sono i suoni distintivi di una lingua (fonemi), capaci di opporsi in coppie
minime.
La fonetica si occupa dei suoni linguistici (foni) da un punto di vista concreto (tutti
quelli che il nostro apparato fonatorio può produrre); la fonologia studia i suoni da
un punto di vista astratto e relazionale (fonemi); le regole della fonologia
permettono di individuare il repertorio di suoni di ciascuna lingua e le loro relazioni
con i segni grafici che li rappresentano.
Lettere o simboli compresi tra le barrette oblique rappresentano i fonemi, tra le
parentesi quadre i foni, e tra le parentesi angolate i grafemi.
Come si producono i suoni: l’apparato fonatorio
Il nostro organismo è in grado di produrre i suoni articolati grazie a quello che viene
definito apparato fonatorio.
All’origine della fonazione c’è un flusso d’aria che dai polmoni, attraverso i bronchi
e la trachea, risale lungo la laringe, fino a uscire dalla bocca o dal naso.
Nella laringe il flusso d’aria può essere modificato dalle corde vocali, due
ispessimenti membranosi mobili che possono assumere posizioni opposte, tese e
accostate, o completamente aperte e aderenti alla parete della laringe.
Se il flusso d’aria incontra le corde vocali tese, si produce una vibrazione che
determina i suoni sonori, in caso contrario suoni sordi.
Superate le corde vocali il flusso prosegue lungo la faringe, da cui l’aria può essere
incanalata o nella cavità orale o in quella nasale, la direzione cambia a seconda della
posizione del velo palatino. In questo modo si determinano i suoni orali e nasali.
È all’interno della bocca che l’aria incontra il maggior numero di organi (palato,
lingua, alveoli, denti, labbra,) coinvolti nell’articolazione dei suoni.
La lingua svolge un ruolo centrale, sono i movimenti di questa a determinare molti
dei tratti distintivi dei fonemi.

I suoni dell’italiano. Vocali, consonanti, semiconsonanti e semivocali


Alcuni riconoscono 28 fonemi (21 consonanti e 7 vocali), mentre la maggioranza
fissa il numero a 30, aggiungendo due suoni semiconsonantici, altri ancora
aggiungono le doppie (palla-pala).
Qui vedremo il repertorio di 30.
Le vocali
- Sono tutti suoni sonori
- Prevedono l’emissione libera e continua del flusso d’aria
- È possibile prolungarne il suono fino a che c’è fiato
- Possiamo distinguere il sistema vocalico tonico (accentate, 7) da quello atono
(non accentate, 5)
Triangolo vocalico:
- Una vocale centrale prodotta con apertura massima /a/
- Tre vocali palatali
- Tre vocali posteriori
Due vocali contigue in sillabe diverse formano uno iato; per evitare lo iato, la vocale
finale di parola cade spesso davanti a parola iniziante in vocale (la epoca> l’epoca):
elisione.
Le consonanti
I suoni consonantici si producono con ostacoli o interferenze sul flusso d’aria; 21
fonemi (escluse le doppie).
Le consonanti possono essere classificate sulla base di:
- Modo di articolazione
- Luogo di articolazione
- Caratteristica del fono di essere sordo o sonoro, orale o nasale
Secondo il modo di articolazione, che corrisponde al tipo di modificazione a cui è
sottoposto il flusso d’aria, si distinguono le consonanti:
- Occlusive: (orali e nasali) prevedono una momentanea ma completa chiusura
del canale e non consentono di prolungare il suono emesso
- Fricative: (costrittive, vibranti, laterali) prodotte da un restringimento del
canale in cui passa il flusso d’aria, il suono può essere prolungato finché non
sia uscita tutta l’aria
- Affricate: hanno articolazione composta da due momenti, uno occlusivo e uno
fricativo
Secondo il luogo di articolazione, possiamo avere suoni consonantici bilabiali,
labiodentali, dentali, alveolari, prepalatali (o palatoalveolari), palatali e velari.
Semiconsonanti e semivocali
Per completare il quadro dei fonemi dell’italiano restano da descrivere solo le due
semiconsonanti. La /j/ (la i di ieri) e la /w/ (la u di uovo). Dal punto di vista
articolatorio si tratta delle due vocali “i” e “u” pronunciate con un restringimento del
canale orale.
Le semiconsonanti non possono essere mai accentate; questi due foni possono
comparire solo prima o dopo una vocale appartenente alla stessa sillaba, con la
quale costituiscono un dittongo; il dittongo è detto ascendente quando la
semiconsonante precede la vocale (ieri, uomo) e discendente quando la segue (voi,
causa).
Le semiconsonanti si trovano esclusivamente nei dittonghi: questi sono combinazioni
di una semiconsonante (sempre atona) e di una vocale (che può essere tonica o
atona). Sono dittonghi ia, ie, io, iu (ad es. nelle parole piano, vieni, piove, piuma) e
uà, uè, ui, uo (in guardo, guerra, guida, buono).
I dittonghi nei quali la semiconsonante precede la vocale si chiamano ascendenti.
Quelli nei quali si trova invece prima la vocale, si chiamano discendenti: sono ai, ei,
oi, au, eu (ad es. in sai, sei, noi, causa, reuma). La i e la u dei dittonghi discendenti
sono più vicine alle pure vocali e vengono perciò chiamate anche semivocali.
Oltre ai dittonghi ci sono anche i trittonghi, costituiti da due semiconsonanti e una
vocale (aiuole).
Lo studio delle lettere dell’alfabeto (grafemi) e delle altre notazioni usate nello
scritto è chiamato grafematica.

Sillaba, accento e fonemi fonetici di giuntura


La sillaba è un’unità costituita da un fonema o da un gruppo di fonemi organizzati
intorno ad un nucleo e che si pronuncia senza pause al suo interno.
Ogni sillaba deve contenere una vocale al suo interno e non più di una, che ne
costituisce il nucleo. La vocale può essere preceduta da una consonante (attacco) ed
eventualmente seguita da un’altra consonante (coda). Dittonghi (ia, ie, ua…) e i
trittonghi (qua, tuoi…) sono indivisibili.
Monosillabi: parole di una sola sillaba
Polisillabi: costituite da più sillabe (bisillabi, trisillabi, quadrisillabi…)
Quando la sillaba termina con la vocale si definisce aperta o libera; se ha una coda
consonantica di dice chiusa o implicata.
In italiano ogni parola di più di una sillaba ha una vocale più intensa, emessa con più
forza, su cui cade appunto l’accento fonico: sono tronche sia tale vocale sia la sillaba
che la contiene, mentre le altre sono sillabe atone.
Nella maggior parte delle parole italiane cade sulla penultima sillaba (parole piane),
ma può trovarsi anche sulla terzultima (sdrucciole) o sull’ultima (tronche).
I fonemi fonetici di giuntura più frequenti:
- Elisione: consiste nella caduta della vocale atona finale di una parola davanti
alla vocale iniziale della parola successiva (nello scritto va segnalato
l’apostrofo)
- Troncamento: consiste nella caduta di un elemento finale atono dovuta alla
fusione tra due parole consecutive (bel, gran, qual…)
- Raddoppiamento: consiste nel rafforzamento della consonante iniziale di una
parola quando sia preceduta da alcune parole terminanti in vocale (sarà fatto>
saràffatto)
Siamo sicuri che l’italiano si scrive sempre come si pronuncia?
I fonemi italiani sono 30, oltre alle doppie, mentre il nostro alfabeto è formato da 21
simboli (oltre a j, k, w, x, y) di cui uno (h) muto.
- Uno stesso grafema serve a rappresentare più fonemi
- Occorre più di un grafema per rappresentare un unico fonema
- Uno stesso fonema può essere reso con grafie diverse

L’intonazione
L’intonazione è l’insieme di alcuni parametri del nostro modo di parlare che
possono essere misurati con particolari strumenti (tono, durata, intensità, ritmo). In
italiano l’intonazione non è stata regolata, fa parte dei tratti distintivi del linguaggio
delle varie regioni.
Il profilo intonativo è rappresentabile da una curva che registra i movimenti del tono
ascendente e discendente.
Affermazione: “ha mangiato tutto” ---_
Domanda chiusa si/no e domanda aperta: “hai mangiato tutto?” “cosa hai
mangiato?” __/

La scrittura a mano e l’insegnamento delle abilità grafico-scrittorie


Il bambino fin dai 2 anni riesce a tenere in mano una matita; il gesto manuale della
scrittura ha bisogno di tempo, lentezza, concentrazione, e coinvolge mano, dita,
sistema muscolare e sistema nervoso centrale

L’accento
Le vocali, oltre ad essere il perno su cui si appoggia l’intera sillaba, sono anche
portatrici dell’accento. Ci riferiamo qui all’accento che si avverte comunque nella
pronuncia delle parole e che si chiama accento fònico, e non al segno grafico che si
mette solo in alcuni casi e si chiama accento grafico.
La vocale su cui cade l’accento si chiama vocale tònica. Le altre vocali della stessa
parola si chiamano àtone (ossia ‘senza accento’). Ciò che riguarda la vocale
riguarda in realtà l’intera sillaba che la contiene, e perciò diciamo che nelle parole
polisillabiche esistono sillabe toniche e sillabe atone.
Nella pronuncia di parole lunghe o composte si ravvisa un accento primario (il
secondo) e un accento secondario (il primo): précipitóso, vélocizzàre, càpostazióne,
móntacàrichi.
In italiano l’accento ha funzione fonematica o distintiva, serve cioè anche a
distinguere le parole. Si prenda ad esempio la triade càpitano, capitàno, capitanò.
Le parole monosillabiche possono essere toniche (sì, né…) o atone (mi, gli…); tra i
monosillabi tonici prendono l’accento grafico solo quelli che nella scrittura possono
confondersi con altri monosillabi.

3.Storie ascoltate, storie lette, storie scritte


Lettura dell’adulto e il fascino della voce
Il luogo di incontro tra emittente e ricevente è il testo ma, perché tale incontro si
realizzi pienamente, deve stringersi quel patto tra testo e lettore che chiamiamo
comprensione e che si articola su due livelli:
- Linguistico semantico: che consente di delineare una prima traccia di senso
(quello referenziale/ letterale) attraverso il confronto interno al testo tra gli
elementi che lo compongono
- Di significazione: che costituisce il vero spazio di condivisione tra un testo e
ogni suo singolo lettore; il lettore seleziona nel testo le informazioni per lui più
rilevanti e le fonde con alcune delle conoscenze già possedute
Per favorire l’incontro di questi due mondi di conoscenze è fondamentale la scelta dei
testi da proporre ai piccoli lettori.
Piani che si sovrappongono nei testi narrativi attraverso i quali gli insegnanti devono
guidare i bambini alla ricerca di una comprensione del senso:
- Piano della storia: filo degli eventi
- Piano della lingua con la comprensione del testo che scaturisce dall’incontro
dei significati delle parole
- Piano del senso: significato che ciascun lettore ricostruisce

Il testo
Il testo è un’unità fondamentale della comunicazione linguistica, si definisce per la
sua natura funzionale e semantica.
Un testo è un’unità complessa di significazione che deve rispondere a determiate
caratteristiche:
- Coesione= accordo grammaticale, sintattico e lessicale tra le varie parti che
lo compongono.
- Coerenza= l’organizzazione logica dei contenuti (causa-effetto, successione
temporale…).
- Situazionalità= peso rivestito dal contesto nella produzione dei significati del
testo.
- Intenzionalità= volontà dell’autore di comunicare qualcosa.
- Finalità= gli scopi (impliciti o espliciti) culturali, emozionali o di altra natura
che il testo persegue nei confronti del destinatario o dell’emittente stesso.
- Informatività= grado di imprevedibilità dei contenuti trasmessi dal testo.
- Intertestualità= proiezione del singolo testo all’interno della rete di testi con i
quali si pone in relazione.
Testi orali e testi scritti
La principale differenza tra un testo scritto e uno parlato sta nel “materiale” di cui è
costituito: grafico-visivo per il primo e fonico-acustico per il secondo.
I testi parlati sono momentanei, elaborati e recepiti in tempo reale, legati alla
situazione comunicativa e non correggibili.
I testi scritti sono durevoli, richiedono un maggior tempo di elaborazione, sono
autoportanti e possono essere corretti.
Questi tratti generali hanno inevitabili ricadute sulla lingua impiegata; nei testi parlati
infatti si attuano semplificazioni, esitazioni, ridondanze e un lessico più generico.

Coerenza e coesione
Ogni testo deve rispondere a due principi basilari:
- Coesione: assicura che il filo del discorso scorra in maniera fluida
- Coerenza: riguarda la sfera del senso che deve risultare logico e comprensibile
Una buona coesione è assicurata dall’azione di alcuni dispositivi grammaticali:
- Accordo morfologico (plurali, singolari, maschile, femminile)
- Connettivi (servono a legare le diversi parti di un testo)
- Elementi di ripresa (sinonimi, pronomi)
- Ellissi (omissione di un elemento o di una parte del testo, un sottointeso che il
lettore può recuperare nella sua memoria perché già letto o ascoltato
precedentemente nel testo stesso)
La coerenza è una proprietà relativa al significato complessivo del testo: è essenziale
che si mantenga una certa stabilità e continuità di significato.

Tipi di testi scritti


Nella realtà nessun testo è totalmente e perfettamente solo di un certo tipo, nella
maggioranza dei casi sono testi misti in cui, semmai, si può notare una prevalenza.
Classificazione secondo Werlich (appunti):
- Descrittivo
- Narrativo
- Espositivo
- Argomentativo
- Regolativo
Classificazione secondo Francesco Sabatini, la quale fa perno sul margine di libertà
interpretativa che lo scrivente decide di lasciare ai destinatari del suo testo:
- Testi rigidi e molto vincolanti: prevedono un’interpretazione univoca, uso di
termini tecnici (codici, leggi, regolamenti…)
- Testi semirigidi e mediamente vincolanti: presentano al lettore conoscenze
nuove attraverso spiegazioni, esempi, immagini con didascalie; forma
linguistica più sciolta e agevole (manuali di studio, saggi, articoli di giornale)
- Testi elastici e poco vincolanti: testi letterari in prosa o poesia; tutti i generi in
cui l’autore esprime liberamente pensieri e stati d’animo legati alle sue
esperienze di vita, forte soggettività, forma linguistica flessibile; (racconti,
romanzi, poemi…)

Parlato: diverse tipologie


- Parlato spontaneo: in situazione, conversazione informale, amichevole.
- Parlato non spontaneo: programmato prima, come il parlato-letto o il parlato-
recitato.
- Parlato dialogico: conversazione, interrogazione, intervista, lezione partecipata,
ecc.
- Parlato monologico: lezione, discorso pubblico, conferenza.
Dislocazione a sinistra: anticipazione (a sinistra, quindi all’inizio della frase)
dell’oggetto o di complementi indiretti ripresi poi da un pronome. Es.: “la birra non la
posso bere”; “il letto lo devo ancora rifare”; “del convegno non me ne avevi parlato”.
Dislocazione a destra: spostamento a destra (quindi alla fine della frase)
dell’elemento in risalto. Es.: “l’hai preso tu il pane?”; “… c’erano i risultati delle
corse. Non che ci giocassi, … alle corse…”.

La punteggiatura
La punteggiatura ha principalmente funzioni sintattiche e testuali, contribuisce alla
chiarezza e alla comprensibilità dei testi scritti; 3 principali funzioni:
- Parosodico-intonazionale: indica il ritmo del discorso
- Logico-sintattica: danno visibilità alla struttura del testo delimitando blocchi di
testo e frasi in sequenza logica e connesse sintatticamente
- Stilistica o testuale: chi scrive piega le regole della punteggiatura per lasciare
un segno personale

Dalla letteratura alla scrittura, non solo creativa…


Le proprietà fondamentali del sistema della scrittura:
- Funzione: l’obiettivo per cui viene scritto
- Destinatari/o: individuare il potenziale pubblico
- Supporto: alcuni tipi di testo sono strettamente connessi con il supporto che li
veicola (libri, giornali, volantini, cartelli…)
- Nesso tra titolo e contenuto: titolo deve essere il più possibile trasparente e
parlante
- Lunghezza e formato
- Autore
- Formule fisse: ci sono alcune formule che caratterizzano tipi testuali differenti
(c’era una volta, cara Claudia…), segnali che rivelano il tipo di testo
- Lessico: anche le parole scelte funzionano da spia per il riconoscimento del
tipo di testo
4. Dal testo alla frase
Il modello valenziale
Il modello, teorizzato dal linguista francese Lucien Tesnière, presenta una descrizione
della frase che pone al centro il verbo, inteso come motore (perché è l’unico
elemento in grado di legare a sé altri elementi, questa capacità si chiama valenza)
che attiva altri fattori della frase. Il concetto di valenza è tratto dalla chimica dove
ciascun elemento è caratterizzato da un numero, la valenza appunto, corrispondente al
numero di atomi in grado di legarsi ad altri elementi per formare una molecola. Così
come gli atomi formano legami, il verbo ha la capacità di combinarsi con altri
elementi linguistici e di legarli a sé per formare una frase.
L’unità sintattica elementare, frase nucleare, si compone di verbo e degli altri
elementi strettamente necessari a completarne il significato, gli argomenti.
Questo modello è stato tradotto in chiave didattica in Italia da Francesco Sabatini.
Il verbo è come se accendesse l’immagine di una scena, una sorta di rappresentazione
teatrale; proprio questa potenzialità rende il verbo adatto come elemento centrale per
condurre i bambini alla scoperta dei meccanismi sintattici. Metafora teatrale
verbo/regista.
Nel modello valenziale la frase assume la forma dei grafici radiali Sabatini.
La grammatica valenziale si fonda su due principi
- considera decisamente come unità di osservazione la frase;
- individua nel verbo l’elemento centrale costitutivo della frase.
Modello valenziale e generativismo le due teorie hanno alcuni concetti in comune:
- Preminenza alla sintassi nell’analisi linguistica
- Centralità del verbo
- Distinzione tra elementi obbligatori e facoltativi
- Concetto di trasformazione
Differenza fondamentale tra le due teorie: Il generativismo mantiene il modello
binario soggetto-predicato e il diagramma ad albero, pur partendo da un unico
elemento che è la frase, si articola sempre in due costituenti immediati, soggetto
(sintagma nominale) e predicato (sintagma verbale).

Che cos’è una frase?


Bisogna distinguere la frase dall’enunciato.
Un enunciato necessita di un contesto per avere senso, non ha bisogno di essere una
frase compiuta, basta che sia conforme alla situazione (“si grazie volentieri”)
La frase è invece un’astrazione grammaticale, significativa a prescindere da qualsiasi
contesto.

Frase minima, nucleare, semplice e complessa


Frase nucleare: la completezza di una frase è data dalla saturazione delle valenze del
verbo, cioè dalla presenza di tutti e solo gli elementi che il verbo richiede per
esprimere compiutamente il suo significato, ovvero soggetto e argomenti. Ad
esempio “percorrere” è necessario indicare chi e cosa percorre, “il bus percorre una
strada periferica”. Nella pratica scolastica questo tipo di frase è chiamato frase
minima, termine ripreso dal linguista Andrè Martinet, indica una frase composta da
predicato e soggetto, senza tener conto degli argomenti necessari a completare il
significato.
La frase nucleare può prevedere altri verbi che funzionano come argomenti “Marta ha
scelto di cambiare”
Frase semplice: poggia su un unico perno verbale
Frase complessa: una frase semplice è autoportante e può funzionare da frase
reggente di altre frasi dipendenti, formando così una frase complessa; alcuni linguisti
chiamano periodo questo tipo di frase, mentre tradizionalmente con periodo ci si
riferisce a un insieme di frasi collegate anche per coordinazione.
Si definisce frase singola la frase fondata su un solo nucleo (un verbo centrale con i
suoi argomenti), al quale si aggreghino poi eventuali circostanti ed espansioni

Ogni verbo ha le sue valenze


Ogni forma verbale concentra in sé molte informazioni:
- Il significato, che accende nella nostra mente l’immagine di un evento
- Le indicazioni di modo, tempo, aspetto, che ci permettono di tracciare le
coordinate fondamentali entro le quali collocare tale evento.
Chiamiamo valenza la capacità del verbo, in base al suo significato, di richiamare a
sé gli elementi necessari e sufficienti a costruire una frase di senso compiuto. Tali
elementi si chiamano argomenti e ogni verbo richiede un numero diverso di
argomenti per saturare (cioè riempire, completare) la sua valenza.
Si distinguono:
- Verbi zerovalenti: verbi metereologici, impersonali, che quindi non prevedono
neanche l’argomento soggetto e sono in grado di formare frasi di senso
compiuto anche da soli (piove, nevica)
- Verbi monovalenti: prevedono un argomento, il soggetto (nascere, ridere,
piangere, tossire), necessario per completarne il significato
- Verbi bivalenti: verbi che implicano 2 argomenti (uno è sempre il soggetto). I
verbi bivalenti si dividono a loro volta in due gruppi, in base alla struttura
argomentale che attivano:
a. nel primo gruppo rientrano i verbi transitivi (mangiare, scrivere,
leggere), in cui il secondo argomento è legato al verbo tramite reggenza .
diretta (Marco mangia un grissino)
b. nel secondo gruppo troviamo verbi come abitare, appartenere, giovare,
piacere, il secondo argomento è legato al verbo tramite reggenza indiretta
(Giulio abita a Milano)
- Verbi trivalenti: la struttura argomentale di questi verbi è a tre elementi, il
soggetto e due argomenti; possiamo distinguere 2 casi:
a. con un primo argomento a reggenza diretta e il secondo indiretta, verbi che
rimandano al concetto di passaggio di qualcosa, dal soggetto a un altro
attante (dare, prestare, regalare) (Chiara dà le chiavi a Luca)
b. con tutti e due gli argomenti a reggenza indiretta (andare, passare, scorrere)
(il treno va da Roma a Firenze)
- Verbi tetravalenti: verbi che richiamano il concetto di trasferimento, del
passaggio di qualcosa da qualcuno a qualcun altro (o da un luogo a un altro).
(trasferire, tradurre, trasportare) Prevedono 4 argomenti con il primo soggetto,
uno diretto e gli altri due indiretti (e il soggetto); in presenza di argomenti
indiretti (introdotti da preposizione) si distinguono 2 casi:
_la preposizione è stabilita dal verbo: appartenere>a,
preoccuparsi>di...
_la preposizione può variare ed essere costituito da più elementi: vivo
A Firenze, vivo nelle vicinanze di Firenze

Transitivi e intransitivi (verbi predicativi)


La presenza dell’argomento diretto di solito rende il verbo passivabile e se il verbo
funziona alla prova del passaggio alla forma passiva, allora esso è transitivo,
altrimenti è intransitivo.
Luca mangia la pasta> la pasta è mangiata da Luca
L’oggetto diretto della frase diventa soggetto, il soggetto passa alla funzione di
agente.
Transitivi: sia quelli che reggono 1 solo oggetto diretto, sia quelli che reggono 1
diretto e 1 indiretto.
Intransitivi: verbi impersonali, di movimento, ammettono 1/2 argomenti indiretti
(andare, venire).
Intransitivi propriamente detti: hanno ausiliare avere e si comportano come i
transitivi rispetto alla posizione del soggetto (Maria ha passeggiato)
Altri intransitivi: prendono ausiliare essere re mettono il soggetto dopo il verbo nella
posizione propria dell’oggetto (è caduta una tegola).
Ci sono verbi che richiedono un elemento obbligatorio, i verbi di misura (costare,
pesare, valere, misurare…), seguiti sempre da un’espressione che indica quantità.
C’è poi un verbo transitivo a tutti gli effetti che non ha la forma passiva, il verbo
avere, che pur reggendo un argomento diretto, non sostiene la prova di passaggio al
passivo: “Lucia ha una macchina” non può diventare “una macchina è avuta da
Lucia”.
Transitivi > intransitivi: quando sono usati in senso assoluto, cioè senza l’oggetto
Intransitivi > transitivi: quando sono accompagnati da un oggetto interno (vivere
una vita serena, dormire sonni tranquilli, correre una bella gara)

Lo stesso verbo, diverso numero di valenze


I verbi, mutando di significato, possono modificare la loro struttura, e quindi il
numero di valenze.
Si può avere riduzione del numero di valenze:
- Uso assoluto del verbo: “Luca mangia la pasta” si vuole indicare l’azione di
mangiare qualcosa, “Luca mangia” si vuole dire che Luca in quel momento è
impegnato a mangiare o che solitamente è una persona con appetito. Da
bivalenti a monovalenti.
- Con il cambiamento di ausiliare: “cambiare”, “iniziare” con ausiliare avere
diventano monovalenti con l’ausiliare essere, “ho cambiato casa” “il tempo è
cambiato”.
Si può inoltre avere l’aumento del numero delle valenze:
- Verbi che da zerovalenti diventano monovalenti
- Verbi tipicamente monovalenti (vivere, correre) che diventano bivalenti e
reggono un argomento diretto; ad esempio il verbo andare a seconda del
significato può essere monovalente (nel senso di procedere “il lavoro va”),
bivalente (nel senso di dirigersi verso “vado al cinema”), o trivalente (nel senso
di coprire un tratto di strada “il treno va da Firenze a Roma”)

Verbi predicativi
Sono definiti predicativi o lessicali quei verbi dotati di significato pieno che, insieme
ai propri argomenti, sono sufficienti a predicare qualcosa, a far accendere una scena
mentale, si suddividono in transitivi e intransitivi.
Gli intransitivi sono verbi di movimento come camminare, passeggiare, nuotare, che
hanno come ausiliare il verbo avere; ci sono altri verbi, sempre intransitivi, detti
inaccusativi, come arrivare e cadere, che hanno invece ausiliare essere e ammettono
lo spostamento del soggetto dopo il verbo.
Alcuni verbi predicativi bivalenti possono richiedere un argomento oggetto diretto
“arricchito”, il predicativo dell’oggetto, che aggiunge un requisito o una qualità
all’argomento oggetto e rende la frase pienamente compiuta; sono i verbi appellativi
(chiamare), estimativi (credere), elettivi (scegliere), effettivi (fare). Tali verbi, a
seconda del significato che assumono, modificano la loro struttura: “Marco chiama
Elena” “Marco chiama Elena principessa”

Il verbo essere e i verbi copulativi


I verbi copulativi hanno un significato che si completa solo in presenza di un nome o
un aggettivo, riferito al soggetto, con cui formano il predicato nominale.
Il verbo copulativo per eccellenza è il verbo essere, e la copula tiene legati due
elementi, il soggetto e la parte nominale: Rita è allegra.
Il verbo essere può essere anche predicativo a tutti gli effetti, quando viene usato per
significare stare, trovarsi, “Mario è a casa”.
Altri verbi copulativi sono: sembrare, parere, diventare, risultare, che richiedono
sempre un elemento nominale riferito al soggetto che ne completi il significato: Rita
sembra/pare/diventa/risulta allegra.
Tale elemento nominale si chiama predicativo del soggetto.

I verbi pronominali
Partiamo dal fatto che a quasi tutti i verbi si può aggiungere un pronome personale
atono (mi, ti, ci vi, si) e ottenere la forma pronominale (lavarsi, vestirsi).
Alcuni però hanno solo questa forma pronominale (ammalarsi, indignarsi). Tenuto
conto che esso può trovarsi prima del verbo o dopo.
In prospettiva valenziale sarà quindi sufficiente che la forma verbale pronominale sia
considerata nel suo insieme, senza preoccuparsi troppo dello statuto grammaticale del
pronome (è argomento del verbo? Che tipo di argomento?) e andando invece a
individuare come argomenti gli altri elementi che circondano la forma verbale: ad
esempio in “Luisa si trucca” il verbo si completa con un solo argomento (soggetto).
Monovalenti> verbi riflessivi reciproci
Bivalenti> pronominali intransitivi

I verbi accompagnatori o di supporto


Categorie di tali verbi:
- Ausiliari: essere e avere, servono per formare i tempi composti dei verbi, e solo
il verbo essere, la diatesi passiva; le forme composte con gli ausiliari sono
sempre un unico verbo
- Modali (o servili): dovere, potere, sapere, volere, precisano modalità e
atteggiamento del soggetto rispetto all’azione/evento espressi dal verbo
accompagnato. “Mario dovrebbe/potrebbe/vorrebbe mangiare”
- Aspettuali (o fraseologici): possono aggiungere un’informazione relativa
all’imminenza di un’azione (stare per, essere sul punto di), all’inizio (iniziare
a), al suo svolgimento (continuare a) o alla sua conclusione (finire di)
- Causativi: fare, lasciare, precedono altri verbi all’infinito e hanno la funzione
di permettere che qualcuno o qualcosa provochi l’evento espresso dal verbo
principale
- Polirematici: alcune forme verbali possono presentarsi con una parte verbale
legata indissolubilmente a un’espressione nominale (andare nel pallone); tali
espressioni formano il verbo della frase

Oltre la frase nucleare


Ogni frase può essere arricchita con elementi che aggiungono informazioni e che si
distinguono in due categorie:
- Circostanti del nucleo: che si collegano sintatticamente a uno dei costituenti
del nucleo e funzionano come modificatori, cioè precisano caratteristiche
dell’elemento a cui sono legati
- Espansioni: che si riferiscono invece al nucleo nel suo insieme
I circostanti del nucleo
I circostanti funzionano come modificatori del nome o del verbo con i quali formano
gruppi denominati sintagmi.
Circostanti del nome: un nome interno al nucleo può essere arricchito e formare un
sintagma con l’aggiunta di elementi diversi: aggettivi (Mario legge libri interessanti),
espressioni nominali (mio fratello Mario), o espressioni preposizionali (libri di
storia).
Circostanti del verbo: nei sintagmi verbali i circostanti precisano il modo in cui
avviene l’azione o l’evento descritto dal verbo (legge volentieri) e formano un
tutt’uno con il verbo stesso. Anche le indicazioni di misura (pesare 2kg, distare 3 km)
sono dei circostanti del verbo e non suoi argomenti.
“Mario legge libri” farse nucleare
“mio fratello (circostante nominale) Mario legge interessanti (aggettivo) libri di storia
(sintagma preposizionale)”
I circostanti infine possono essere costituiti da frasi relative in cui il pronome relativo
(che) è legato sintatticamente a un elemento del nucleo (i libri che hanno
illustrazioni).
Il Sintagma nominale, eccetto il nome proprio, è contraddistinto:
- Dalla presenza di un determinante del nome (articoli, numerali, possessivi,
dimostrativi…) accordato al nome
- Dall’eventuale presenza di modificatori (aggettivi, apposizioni), accordati al
nome.
Il gruppo del nome può essere preceduto da una preposizione e allora si parla di
sintagma preposizionale. Questo è il gruppo che nella grammatica tradizionale
rappresenta i complementi: il limite dell’analisi logica è quello di privilegiare il
significato rispetto alla funzione, così i complementi non vengono distinti sulla base
dell’elemento al quale si agganciano.

Le espansioni
Tutti gli elementi, perlopiù avverbiali, che arricchiscono la frase con informazioni
relative al tempo, al luogo, alle cause, alla modalità, si chiamano espansioni: si tratta
di avverbi o locuzioni avverbiali ben integrate nella frase, con cui però non hanno
legami sintattici o morfologici né punti di attacco ben precisi. “d’estate, in vacanza,
mio fratello Mario, di fronte al mare, legge interessanti libri di storia”.
Le espansioni si trasformano
Le espansioni sono anche trasformabili in frasi dipendenti dotate dello stesso valore
informativo. “quando è estate, poiché è in vacanza, mio fratello Mario, stando di
fronte al mare, legge interessanti libri di storia”.
5. Orientarsi nell’universo delle parole
Il lessico è l’insieme potenzialmente infinito delle parole di una lingua, è un insieme
aperto, dinamico, che si trasforma continuamente; nel lessico si possono individuare
sottogruppi di parole capaci di creare tra loro reti di significato che fanno parte di un
campo semantico comune a cui sono riconducibili.
La capacità di ricordare, applicare e gestire una certa quantità di parole, è quella che
chiamiamo competenza lessicale. Tale competenza è attiva sempre: durante tutto
l’arco della vita possiamo continuare a imparare parole nuove, ma è nei primi anni di
vita che si pongono le basi e si acquisiscono quei processi di analisi e riflessione
lessicale che favoriscono l’apprendimento e la memorizzazione di nuovi elementi.

I primi mattoni sono le parole


Le parole sono i primi mattoni che i bambini imparano, memorizzano e iniziano a
utilizzare.
Attribuire nomi alle cose è una prerogativa dell’essere umano, ogni volta che si
presenta un’esperienza nuova abbiamo bisogno di un nuovo tassello linguistico per
pensarla, parlarne e rappresentarla.

La nozione di parola
Ogni parola ha almeno due facce, quella fisica di sequenza di fonemi (e la
conseguente grafica con sequenza di grafemi) e quella concettuale, relativa al
significato che veicola.
Quando ancora non si sa leggere e scrivere, l’individuazione di una parola passa dal
significato; quando ascoltiamo un discorso in una lingua sconosciuta non sappiamo
neanche dove collocare i confini di parola perché non riusciamo sempre ad isolare le
unità dotate di significato. Con l’apprendimento della scrittura la parola diventa
l’entità grafica compresa tra due spazi bianchi, ma non sempre quello che è contenuto
tra due spazi isola un significato: “dimmelo”> “di’ questa cosa a me”; o viceversa
non sempre basta quello che è contenuto tra 2 spazi bianchi: “ferro da stiro”.
Queste sono definite parole polirematiche, ovvero elementi lessicali formati da più di
una parola che possono appartenere a diverse categorie dotati di una particolare
coesione interna, e il significato è dato dall’insieme di tutti i componenti.
Si definiscono polirematiche, o unità lessicali superiori, combinazioni formate da più
parole, tra loro separate nella grafia, ma che semanticamente costituiscono un unico
lessema.
Parole e relazioni di significato
Il significato è qualcosa di multidimensionale e si compone dell’informazione
lessicale e della conoscenza enciclopedica personale.
Le parole contenuto/piene/lessicale sono parole che rimandano a oggetti, cose
concrete nella realtà (nomi, verbi, aggettivi…), parole dense di significato, significato
riconducibile a un referente.
Le parole funzione/vuote/grammaticali hanno un significato grammaticale e servono
a creare legami tra gli elementi delle frasi.
L’acquisizione e l’ampliamento del lessico segue percorsi semantici e quindi è
opportuno proporre ai bambini riflessioni che li guidino alla scoperta delle relazioni
di significato tra le parole. Una prima scoperta è sicuramente la polisemia, la
proprietà per cui la gran parte delle parole che usiamo può assumere più di un
significato (penna, banco…). La classe più polisemica è quella dei verbi.
Ci sono però anche parole, o meglio termini, monosemici, che hanno un solo
significato specifico. Si tratta di parole di ambiti specialistici in cui l’ambiguità
rappresenta un rischio della comunicazione tra esperti.
Un altro percorso è quello dei campi semantici a cui far afferire più parole: è una
modalità che aiuta a mettere ordine nella varietà e molteplicità delle parole seguendo
la strada del significato. Possiamo paragonare un campo semantico a un insieme di
contenitori ad esempio il campo semantico del giardino, avremo contenitori come le
piante, gli animali, i giochi; in questo caso abbiamo un tipo di relazione che lega una
parola di significato più esteso e generico detta iperonimo, e parole dal significato più
ristretto e specifico, dette iponimi.
I sinonimi sono parole intercambiabili in determinati contesti; i sinonimi perfetti non
esistono. I sinonimi per eccellenza sono tra e fra, si è soliti a scegliere l’uno o l’altro
a seconda del contesto fonetico in cui si trovano per evitare ripetizione di suoni.
I geosinonimi sono parole regionali con lo stesso significato ma forma diversa a
seconda dell’area territoriale in cui si usano.
L’antonimia è invece la relazione che si instaura tra parole di significato contrario:
lento-veloce. Il contrario non va confuso con il contraddittorio che corrisponde
invece alla negazione: veloce- non veloce.

Parole e categorie lessicali


La morfologia tradizionale rileva 9 categorie: nome, articolo, verbo, aggettivo,
avverbio, pronome, preposizione, congiunzione, interiezione, che vengono suddivise
in variabili e invariabili.

Nomi e verbi
Il nome ha la capacità di flettersi per numero, è di solito preceduto dall’articolo o da
un altro modificatore del nome, può essere modificato da aggettivi.
Il verbo ha la proprietà morfologica di flettersi (per modo, tempo, persona, numero),
occupa normalmente la posizione successiva a un nome, attiva legami sintattici con
gli argomenti.
Capita che una stessa parola possa rientrare in più di una categoria; ogni categoria poi
si sfrangia in varie sottocategorie.

Articoli
Sono parole funzione, si collocano sempre prima del nome a cui si riferiscono e
servono a collegarlo al proprio referente.

Parole, lessemi, lemmi


Le parole contenuto, quelle con significato pieno, sono spesso scomponibili almeno
in due parti: una base lessicale (morfema lessicale) che veicola il significato, e una
parte finale (morfema grammaticale o funzionale) che porta informazioni
grammaticali: finestr-a finestr-e studi-ano.
Il lessema è l’unita astratta del lessico che raccogli e rappresenta tutte le altre forme
possibili: “finestra” (singolare) è il lessema che raccoglie tutte le altre variabili,
“studiare” comprende tutte le voci del verbo.
Le parole sono dunque le realizzazioni grammaticali di un lessema. Nella
terminologia lessicografica si parla di lemmi: ciascun lemma corrisponde a una voce
del dizionario.
Tullio De Mauro ha individuato un nucleo di circa 7mila parole, il vocabolario di
base, indispensabile per comunicare e per procedere negli apprendimenti. All’interno
di questo nucleo si distinguono diversi strati: il vocabolario fondamentale, quello di
alta disponibilità, e di alto uso.
Il repertorio si allarga ulteriormente con la fascia del vocabolario comune, che
comprende parole di minor frequenza e di uso più sorvegliato, e l’insieme dei
vocabolari speciali.

Dove si raccolgono le parole: i dizionari, tipi e uso


Gli strumenti che raccolgono e descrivono le parole di una lingua sono i dizionari.
Dizionario sincronico o dell’uso se si privilegia l’uso contemporaneo e quindi si
fotografa il repertorio delle parole in circolazione nel momento in cui il dizionario
viene compilato; il primo dizionario italiano di questo genere è stato Il Nuovo
vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, il più completo è quello di
Tullio De Mauro, il GRADIT. In questa tipologia di dizionari si può inoltre verificare
la corretta grafia, attingere esempi d’uso e avere informazioni grammaticali.
Dal dizionario storico (o diacronico) si può ricostruire la storia di ciascuna parola,
seguendone le tracce nei testi dalle origini al momento della pubblicazione del
dizionario. Il primo dizionario storico è stato il Vocabolario degli Accademici della
Crusca, il quale ha avuto cinque edizioni, dalla prima del 1612 alla quinta interrotta
nel 1923; quello più recente e aggiornato è il GDLI. Il dizionario storico è necessario
oltre che per ripercorrere la storia delle parole e dei loro impieghi letterari, quando si
vogliano recuperare parole o significati usciti dall’uso ma ancora presenti nei testi
antichi.
Il dizionario etimologico dà informazioni sull’origine delle parole e sulla loro prima
attestazione scritta, il primo fu compilato da Gilles Mènage, Origini della lingua
italiana, oggi il più ampio e aggiornato è il DELI.
I dizionari specialistici contengono termini relativi a una disciplina o un ramo del
sapere, dizionario medico, botanico…
DOP: dizionario specifico sulla grafia e la pronuncia.
Esistono poi altri strumenti, come le tavole di nomenclatura, i dizionari concettuali
(compilati seguendo criteri semantici per cui le parole sono raggruppate per affinità),
i dizionari analogici (che mostrano una lista alfabetica di voci-chiave, ciascuna
generatrice di un campo semantico).

Scomporre e comporre le parole: i derivati


I prefissi (che si legano all’inizio della parola) e i suffissi (che si legano alla fine della
parola), aggiunti a parole esistenti, ne generano di nuove.
Prefissi e suffissi insieme vengono chiamati affissi e affissazione.
Tra i suffissi vi sono quelli che servono alla derivazione (-aio, -iere, -tore…), e quelli
per l’alterazione (-ina, -ona…).
Alcune regole:
- I prefissi non modificano la categoria lessicale della parola di partenza
(preavviso resta nome come avviso)
- I suffissi modificano spesso la categoria lessicale della parola di partenza
(possono comunque dare nomi da nomi, fiore> fioraio, o aggettivi da aggettivi,
bello> bellino):
a. Nuovi nomi possono formarsi su basi verbali, inserire> inserimento, e
aggettivali, bello> bellezza.
b. Nuovi aggettivi possono formarsi su basi nominali, legno> legnoso, e
verbali, mutare> mutevole
c. Nuovi verbi possono formarsi su basi nominali, bacio> baciare, e
aggettivali, calmo> calmare
- Prefissi e suffissi non si escludono a vicenda e possono sommarsi su una stessa
base: pre-fissa-zione
- Mentre i suffissi non sono mai autonomi, taluni prefissi sono divenuti aggettivi
o anche nomi (super, ex)
Conversione: assegnazione di una categoria grammaticale diversa a una parola
senza modificarne la forma (sapere verbo> il sapere nome).
Una particolarità del lessico italiano è la presenza di verbi detti parasintetici, i
quali, rispetto alla base nominale e aggettivale, sembrano ottenuti con l’aggiunta
contemporanea di un prefisso e del suffisso zero (imbruttire).

Unire parole: i composti


Un’altra modalità per costruire nuove parole è la composizione, ovvero l’unione di
parole intere.
Rispetto alle polirematiche, nei composti non si possono avere più di due componenti
e questi non sono separabili (chiaroscuro, sempreverde, sottosopra).
Nomi formati da due nomi (cassapanca), nome e aggettivo (cartapesta), verbo e nome
(lavastoviglie), aggettivi formati da due aggettivi (agrodolce), verbi formati da un
nome e un verbo (capovolgere).
Formazioni apposizionali: nome+ secondo elemento che determina una particolare
caratteristica del primo (parola chiave).
Formazioni copulative: tutti e due i nomi che hanno funzione testa (scrittore-regista).
Rispetto ai composti tradizionali queste sono parole staccate o unite dal trattino.
Nei composti, si segue la sequenza determinato+ determinante, tipica dell’italiano, il
secondo elemento determina cioè il significato del primo, che costituisce la testa del
composto.

La composizione neoclassica
Nell’italiano contemporaneo è molto diffuso un tipo particolare di composizione
delle parole che utilizza elementi propri de latino e soprattutto del greco, detti
confissi, combinati tra loro (cardiopatia), o uniti a parole moderne, alle quali i
confissi possono posporre (paninoteca) o anche anteporre (telecomando).
Si parla in questo caso di composizione neoclassica, perché basato appunto su
elementi delle lingue classiche. I confissi sono stati definiti anche prefissoidi e
suffisoidi a seconda della posizione.
Nella composizione neoclassica la testa è a destra.

Fenomeni di riduzione
L’italiano contemporaneo ha sviluppato una serie di meccanismi che servono a
ridurre parole già esistenti.
Abbreviazioni: prof> professore
Sigle: riducono sintagmi formati da più parole alle sole lettere iniziali di queste;
nell’uso attuale delle sigle si conferma il notevole influsso dell’inglese.
Le sigle vengono anche chiamate acronimi.
Parole macedonia: formate cioè da pezzi di varie parole.
Accorciamenti: si hanno quando parole complesse di una certa lunghezza vengono
troncate dalla parte finale (bicicletta> bici).

L’ITALIANO CONTEMPORANEO
1.La lingua italiana oggi
L’italiano e la sua diffusione
Oggi molti italiani alternano lingua e dialetto in un rapporto detto di diglossia, cioè
scelgono l’uno o l’altro codice a seconda della situazione comunicativa.
Possiamo distinguere tra dialetti settentrionali, e centromeridionali; tra quelli
settentrionali possiamo ulteriormente distinguere i gallo-italici e i dialetti veneti. Tra
quelli centromeridionali troviamo: i dialetti toscani, còrsi, mediani, (alto)meridionali
e meridionali estremi.
I dialetti settentrionali sono caratterizzati sul piano fonetico da tratti come la
sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche, l’assenza di consonanti doppie,
la tendenza alla caduta delle vocali atone.

Caratteri dell’italiano
L’italiano deriva dal latino volgare; è nato dall’elaborazione di una parlata locale,
promossa a lingua dell’uso nazionale.
L’italiano deriva infatti dal dialetto fiorentino del Trecento, dall’elaborazione
letteraria che ne fecero Dante, Petrarca e Boccaccio.
Il fiorentino riuscì dunque a imporsi sugli altri dialetti, almeno nell’uso scritto, non
grazie a un predominio politico, ma in virtù di altri fattori, come l’alto valore
letterario dei grandi scrittori del Trecento che lo usarono, il fiorire dell’Umanesimo
volgare nel Quattrocento alla corte di Lorenzo il Magnifico, certe caratteristiche che
rendevano il dialetto fiorentino meno lontano dal latino, il prestigio di Firenze in altri
campi socioculturali…
Fino all’unificazione nazionale nel 1861, l’italiano fu comunque una lingua usata
soprattutto nello scritto.
Se consideriamo la quantità di coloro che, ancora fino all’inizio del Novecento,
sapevano leggere e scrivere, certamente molto bassa, dobbiamo concludere che prima
dell’Unità l’italiano, al di fuori della Toscana, era una lingua nota a pochi; la
maggioranza usava i dialetti.
A partire dall’Unità, in seguito a vari fattori, come la progressiva alfabetizzazione
legata all’obbligo scolastico, l’emigrazione esterna e interna, l’urbanizzazione, lo
sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, l’italiano ha progressivamente
ampliato i propri ambiti d’uso.
Dopo una fase di sistematizzazione grammaticale, durata almeno fino alla fine degli
anni Cinquanta, il crescente uso anche orale dell’italiano da parte di grandi masse
popolari, ha determinato una pressione del parlato sulle strutture dello scritto,
provocando varie ristrutturazioni del sistema linguistico.

L’italiano standard
Per secoli l’italiano, a causa del suo uso prevalentemente scritto, è stato una lingua
poco soggetta al mutamento, poco compatta.
Anzitutto prevedeva una netta distinzione tra poesia e prosa, l’uso scritto consentiva
inoltre un’abbondante polimorfia, cioè la coesistenza di più forme tra loro
sostanzialmente equivalenti, tra le quali lo scrittore era libero di scegliere.
Nel corso del Novecento e fino ad oggi, l’italiano da una parte ha rinunciato, anche in
poesia, agli arcaismi propri del linguaggio poetico, dall’altra ha fortemente ridotto la
polimorfia. In questo secondo caso c’è stato anzi un precedente illustre, i Promessi
Sposi, in cui Manzoni operò alcune semplificazioni che l’italiano posteriore avrebbe
accolto.
A questo complessivo processo di semplificazione corrispose anche un processo di
normativizzazione, ovvero la progressiva imposizione di regole.
Con lingua standard si intende l’uso linguistico che l’intera comunità dei parlanti
riconosce come corretto, dunque il modello di lingua proposto nelle grammatiche,
quello usato dalle persone istruite, sia nello scritto che nel parlato.
Un problema particolare dell’italiano è costituito dalla sostanziale assenza di uno
standard parlato, soprattutto sul piano fonetico; in realtà un modello di standard
parlato ci sarebbe, il cosiddetto “fiorentino emendato”, basato cioè sulla pronuncia
colta di Firenze, da cui vengono però eliminati alcuni tratti locali. Questo modello è
effettivamente utilizzato da attori, speakers, doppiatori, nei notiziari…
3.Lessico
Il concetto di lessico
Si definisce lessico il complesso delle parole di una lingua; tale definizione però non
è precisa perché l’unità fondamentale non è la parola ma il lessema.
La linguistica moderna ha elaborato il concetto di arbitrarietà del segno,
fondamentale per impostare correttamente il rapporto tra le parole e le cose che esse
indicano (referenti).
Negli studi lessicali è stata fatta un’opportuna distinzione terminologica tra il lessico,
che comprende la totalità dei lessemi di una lingua, e il vocabolario, che costituisce
una parte ben delimitata del lessico.
Nei vocabolari delle scienze i lessemi hanno esclusivamente una funzione denotativa,
servono cioè a definire in modo oggettivo, neutro; nel linguaggio comune, invece,
molti lessemi hanno una funzione connotativa, esprimendo anche valutazioni
soggettive.
Tra i lessemi possiamo distinguere le parole semantiche piene (nomi, aggettivi, verbi
e alcuni avverbi) e le parole grammaticali o funzionali o parole vuote, che servono
per legare tra loro le parole all’interno delle frasi.
Il lessico si arricchisce continuamente di nuove entrate (neologismi), ma al tempo
stesso subisce anche delle perdite, ci sono parole che dopo un certo tempo cadono in
disuso e diventano arcaismi.
I contatti con altre lingue determinano l’introduzione di prestiti.

Il lessico italiano
Il dizionario dell’italiano contemporaneo più ampio è il “Grande dizionario italiano
dell’uso” di Tullio De Mauro.
A De Mauro spetta il merito, inoltre, di aver individuato all’interno del lessico un
settore particolare, il vocabolario di base, formato da lessemi che costituiscono la
base di tutti i testi, suddiviso in tre fasce:
- Lessico fondamentale: parole funzionali che rispondono ai bisogni più naturali
e immediati (verbi, aggettivi, sostantivi…)
- Lessico di alto uso: lessemi noti a chi ha almeno un livello di istruzione medio
- Lessico di alta disponiblità: lessemi legati a oggetti ed eventi della vita
quotidiana
Altri lessemi appartengono al vocabolario comune e sono comprensibili a chi è
fornito di un’istruzione medio-alta. Il vocabolario di base e il vocabolario comune
costituiscono il vocabolario corrente.
Le voci gergali sono le parole proprie di linguaggi usati da gruppi ben definiti per
comunicare tra loro in modo da non farsi comprendere da estranei, utilizzando voci
della lingua comune o di base dialettale modificate o nel significato (secchione) o nel
significante (caramba per carabinieri).
I regionalismi sono invece lessemi usati in determinate regioni.

Le componenti del lessico italiano


Se analizziamo il lessico italiano dal punto di vista etimologico (origine), possiamo
individuare tre diverse componenti:
- Parole di origine latina
- Prestiti/forestierismi
- Neoformazioni
All’interno della componente latina vanno anzitutto individuate le parole popolari,
quelle di tradizione diretta o ininterrotta, che dal latino sono passate nella nostra
lingua. Non tutte le voci di tradizione diretta esistevano già nel latino classico; in
molti casi si tratta di parole formate nel latino volgare.
Dalle parole popolari vanno tenuti distinti i latinismi, le parole dotte, rimaste più
fedeli alla base latina.
Non di rado da una stessa base latina sono derivate due parole italiane, una popolare e
una dotta, chiamate allòtropi.
I grecismi sono stati prevalentemente introdotti in età moderna per via dotta, e sono
spesso propri del linguaggio specifico internazionale.
Sia il latino sia il greco hanno fornito all’italiano prefissi, suffissi e confissi.
I prestiti sono parole tratte da altre lingue; molti forestierismi non entrano stabilmente
nella lingua d’arrivo, ma decadono dopo un po’ di tempo.
Il prestito inoltre può consistere in un nuovo significato aggiunto a voci già esistenti,
si parla allora di prestiti semantici, tra i quali si distinguono quelli omonimici (basati
sulla somiglianza del significante) e quelli sinominici (basati sulla somiglianza del
significato).
Una parola o una locuzione straniera, infine, può entrare in un’altra lingua grazie a un
altro procedimento, detto calco, che è una specie di traduzione (possono essere
omonimici e sinonminici)
(germanismi, gallicismi, ispanismi, nipponismi, anglicismi)
L’italiano arricchisce il suo lessico anche con voci tratte dai vari dialetti parlati nella
nostra penisola; si tratta di dialettismi.
Si chiamano neologismi le parole nuove, entrate da poco nel lessico di una lingua per
indicare nuovi concetti.
I neologismi combinatori mettono insieme elementi già esistenti nella lingua, i
neologismi semantici si hanno invece quando nuoci significati si aggiungono a voci
già esistenti.

5.Morfologia flessiva
la morfologia flessiva è il livello di analisi linguistica che studia come si esprimono i
concetti di genere e numero.
La morfologia lessicale che studia la formazione delle parole mediante la derivazione
o la composizione.
L’elemento minimo dell’analisi morfologica è il morfema, la più piccola unità
linguistica dotata di significato; sulla base dell’analisi morfologica, le lingue del
mondo sono state suddivise in due grandi categorie:
- Lingue analitiche (in cui ogni significato è rappresentato da un elemento unico)
- Lingue sintetiche (che tendono ad unire in una sola parola più morfemi non
autonomi, ma legati tra loro e portatori si significati diversi)
Alle lingue sintetiche appartengono le lingue flessive, in cui normalmente una parola
è formata dalla radice lessicale e dalla desinenza che da indicazione di carattere
morfologico.
In italiano in una parola come “case” distinguiamo due morfemi: la radice cas-, che
dà il significato alla parola, e la desinenza -e, che indica che si tratta di un nome
femminile plurale.
Poi ci sono le parti invariabili del discorso (avverbi, congiunzioni, preposizioni,
interiezioni).
L’italiano presenta molti aspetti flessivi, in genere ereditati da latino, ma anche varie
caratteristiche isolanti.
Il nome
Nei nomi italiani la flessione marca la categoria del numero; il genere è invece
inerente al nome ed è immotivato.

L’aggettivo, la comparazione e l’alterazione


Gli aggettivi sono flessi secondo le categorie de genere e del numero; sugli aggettivi
è marcato morfologicamente anche il grado: comparativo, superlativo. È possibile
anche la formazione di alterati: diminutivi, vezzeggiativi, accrescitivi, peggiorativi.

Gli articoli
Tra le varie funzioni degli articoli determinativi e indeterminativi ricordiamo almeno
quella di individuare i nomi che precedono come determinati/indeterminati. Gli
articoli italiani svolgono inoltre la funzione di determinare li genere o il numero del
nome che precedono.

8.Le varietà parlate


Caratteristiche fonetiche
Aferesi: caduta ad inizio di parola di una vocale, specie prima di un nesso nasale+
consonante (‘nsomma).
Apocope: caduta della vocale posta alla fine della parola.
Metatesi: per evitare nessi vocalici o consonantici difficili da pronunciare.

Italiano regionale
Pellegrini individuo 4 componenti del repertorio linguistico degli italiani:
- Italiano letterario
- Italiano regionale (nato dall’incontro tra lingua nazionale e dialetto)
- Dialetto regionale
- Dialetto locale

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