Si noti che, mentre gli indici hanno valore universale, i segni sono dipendenti dalla tradizione culturale.
Alla categoria dei segni appartengono anche i segni linguistici (le parole e le frasi), prodotti intenzionalmente per
comunicare ed essenzialmente arbitrari. Tutti insieme, i segni linguistici formano il codice lingua, il quale ha
diverse proprietà:
-BIPLANARITÁ: si intende che ogni segno ha due facce, il significante (piano percepibile del segno) e il
significato (l’informazione veicolata dalla faccia percepibile). Un codice quindi è un insieme di corrispondenze tra
significanti e significati.
-ARBITRARIETÁ: si intende la convenzionalità del rapporto tra significante, significato e il referente esterno cui
essi si riferiscono. Vi sono 4 tipi di arbitrarietà:
1. Arbitrarietà tra segno e referente: il segno nella sua interezza (significante + significato) non è legato
naturalmente al referente. Tra concreto e il segno (unità di significante e significato) gatto non vi è
somiglianza, non vi è un rapporto necessario, nessuno ci obbliga a chiamare quell’animale in questo modo.
3. Arbitrarietà nell’organizzazione interna del significato tra forma e sostanza del significato, in cui si
istituiscono rapporti non determinati dalla natura, ma ritagliati secondo organizzazioni proprie di ciascuna lingua.
L’esempio classico è nell’ambito semantico del bosco e affini come diverse lingue suddividono i segni: in italiano
bosco legno legna, in Francese bois “bosco-legno-legna” Tedesco Wald “bosco” Holz “legno-legna” Italiano
andare Tedesco gehen “andare a piedi” fahren “andare con mezzo”
4. Arbitrarietà nell’organizzazione interna del significante tra forma e sostanza del significante:
parallelamente al caso precedente, anche per il lato del significante le lingue organizzano la scelta del
materiale fonico (la strutturazione formale dei fonemi) ognuna a modo suo. Pertanto, in alcune lingue un
insieme di suoni sarà pertinente, cioè distinguerà parole diverse, mentre in altre lingue non avrà questo
potere. Questo può avvenire anche all’interno di una stessa lingua per classi di suoni situati in posizioni
diverse.
Rappresentano delle eccezioni gli ideofoni (brrrr, ciufciuf, splash…), espressioni imitative o interiezioni
descrittive che designano fenomeni naturali o azioni, e le onomatopee, parole che riproducono o richiamano nel
loro significante caratteri fisici di ciò che viene designato.
Il processo di significazione, ovvero l’attribuzione significante-significato può aver luogo solamente in un dato
contesto culturale, cioè un segno può assurgere a significante solamente se, nel contesto culturale in cui si
trova questa, associazione viene sviluppata “spontaneamente” nel tempo. Lo schema generico del processo di
significazione è rappresentato dal Triangolo Semiotico, che descrive il legame semantico tra significante,
significato e referente.
-DOPPIA ARTICOLAZIONE: il significante di un segno linguistico è articolato a due livelli nettamente diversi.
A un primo livello è organizzato e scomponibile in unità che sono ancora portatrici di significato e che
vengono riutilizzate, con lo stesso significato, per formare altri segni (prima articolazione). Tali pezzi, che
costituiscono le unità minime di prima articolazione, si chiamano 'morfemi' e, non essendo ulteriormente
scomponibili in pezzi che rechino ancora un proprio significato, costituiscono i segni più piccoli.
Ad esempio, la parola gatto è scomponibile in due 'pezzi' più piccoli, gatt- e -o, che recano ciascuno un proprio
significato (rispettivamente "felino domestico" e "uno solo/singolare") e che sono suscettibili di comparire col
medesimo significato in altre parole (gatt-i, gatt-e, gatt-ino, s-gatt-are, ecc.; top-o, libr-o, cucchiai-o, bell- o, ecc.).
A un secondo livello (seconda articolazione), i morfemi sono a loro volta scomponibili in unità più piccole che
non sono più portatrici di significato autonomo, ma sono meri pezzi di significante che combinandosi insieme in
successione danno luogo alle entità di prima articolazione.
Ad esempio, il morfema gatt- è scomponibile nei suoni g, a, t, t; tali elementi, che non sono più segni in
quanto non hanno un significato, sono chiamati 'fonemi' e costituiscono le unità minime di seconda
articolazione.
La doppia articolazione consente alla lingua una grande economicità di funzionamento: con un numero
limitato (in genere poche decine) di unità di seconda articolazione, prive di significato, si può costruire un
numero grandissimo (teoricamente illimitato) di unità dotate di significato. È quindi molto importante nella
strutturazione della lingua il principio di combinatorietà: la lingua funziona, fondamentalmente, combinando unità
minori, possedute in un inventario limitato, per formare un numero definito di unità maggiori (segni).
-TRASPONIBILITÁ DI MEZZO: indica la possibilità del referente di trasmettere un significante qualsiasi sia
attraverso il mezzo aria sotto forma di onde sonore percepite dall'uomo, il canale fonico-acustico, sia
attraverso il mezzo luce, il canale visivo-grafico.
Ha una priorità il canale orale rispetto a quello scritto; il parlato, infatti, sembra avere una priorità
antropologica (se per ogni lingua con forma scritta esiste anche una forma parlata, non è sempre vero il
contrario. Esiste, infatti, un gran numero di lingue che possiedono soltanto la fonia e mancano della grafia),
ontogenetica (relativa al fatto che gli individui imparano prima a parlare e in un secondo momento a
scrivere, anche se non tutti quelli che parlano sono anche in grado di scrivere) e filogenetica (indica
l'anteriorità dello sviluppo del parlato rispetto allo scritto nella storia della specie umana).
Inoltre, il canale fonico-acustico e l'uso del parlato presentano effettivamente dei vantaggi biologici rispetto al
canale visivo e all'uso dello scritto: il parlare…
● è possibile in qualsiasi circostanza, purché vi sia presenza di aria, anche in presenza di ostacoli, a
visibilità limitata, a distanza;
● è modulabile, più rapido dello scrivere ed ammette più recettori;
● non ostacola altre attività, può essere utilizzato in concomitanza con molte attività fisiche e
intellettive;
● permette di individuare la fonte di emittenza del messaggio;
● consente la recezione contemporaneamente alla produzione del messaggio;
● è di rapida dissolvenza ma lascia libero il passaggio ad altri messaggi;
● è concomitante con la respirazione per cui non richiede eccessivo spreco di energia.
Nelle società odierne, però, il canale visivo ha un'importanza fondamentale in quanto ha validità giuridica e un
largo uso nella legislatura, nell'insegnamento, nella tradizione culturale, letteraria e del sapere scientifico. In questo
caso si parla di priorità sociale del mezzo scritto: la forma scritta, infatti, è sintomo di lingua evoluta.
-LINEARITÁ: il segno linguistico viene prodotto, si realizza e si sviluppa in successione nel tempo e nello spazio.
Per comprendere il messaggio occorre, perciò, che gli elementi siano attualizzati linearmente uno dopo
l'altro.
-DISCRETEZZA: si riferisce all'assoluta differenza fra gli elementi: le unità della lingua non sono continue ma
separate e ben distinte tra loro (si percepisce soprattutto per le classi di suono, es. pollo e bollo sono parole con
significati nettamente differenti che variano proprio per la presenza di un fonema, /b/, al posto di un altro,
/p/).
Un'importante conseguenza della discretezza è che non è possibile intensificare il significante per
intensificare il significato allo stesso modo in cui si fa con le grida: nella lingua il significato non varia al variare
del significante.
-ONNIPOTENZA SEMANTICA: secondo cui è possibile dare un'espressione a qualsiasi contenuto, cioè è
possibile formulare e, dunque, tradurre in lingua un messaggio formulato in qualsiasi altro codice. Però,
poiché risulta difficilmente provabile che con la lingua si possa dire veramente tutto e che ogni messaggio
possa essere tradotto in un messaggio linguistico, per cautela, si preferisce parlare di plurifunzionalità,
ovvero la possibilità della lingua di ricoprire diverse funzioni. Tra esse le più rilevanti sono:
- dare una forma esterna al pensiero mentale;
- fungere da strumento di comunicazione, trasmettere informazioni;
- creare e regolare attività cooperative e rapporti sociali;
- manifestare, esternare i propri sentimenti e stati d'animo;
- risolvere problemi;
- creare mondi possibili.
Inoltre, secondo il modello di Jakobson, il linguaggio verbale è caratterizzato da sei funzioni centrali che
differiscono in base alla tipologia del messaggio che si intende trasmettere:
- funzione emotiva per esprimere emozioni o sensazioni del parlante (es. Che bella serata!)
- funzione metalinguistica per specificare aspetti del codice (es. Gianni è il soggetto della frase Gianni
gioca a calcio)
- funzione referenziale per dare informazioni circa la realtà esterna (es. Esistono animali erbivori)
- funzione conativa per stimolare la partecipazione del ricevente ottenendo da lui una certa
partecipazione (es. Chiudi la porta!)
- funzione fàtica per sottolineare il canale di comunicazione e/o il contatto fisico o psicologico fra i
parlanti (es. Ehi? Pronto? ci sei?)
- funzione poetica per enfatizzare le potenzialità insite nel messaggio e i caratteri interni del
significante e del significato (es. Nel mezzo del cammin di nostra vita..).
-RIFLESSIVITÁ: indica la possibilità di usare la lingua per parlare della lingua stessa: la lingua viene così usata
come metalingua.
-PRODUTTIVITÁ: la facoltà della lingua di parlare di cose nuove, talvolta anche inesistenti, di nuove esperienze e di
messaggi mai prodotti prima. Essa è permessa dalla doppia articolazione, che prevede la combinazione di unità
minime, formanti un sistema chiuso, in unità sempre maggiori e in numero infinito, ed è stata denominata
anche creatività regolare: una produttività infinita basata su un numero limitato di regole applicabili
ricorsivamente.
-RICORSIVITÁ: consiste nella possibilità di applicare lo stesso procedimento un numero illimitato di volte per
ottenere segni sempre nuovi. Pur illimitata, ciò che la limita è l'utilizzo che i parlanti ne fanno. Oltre un certo
grado di lunghezza e complessità, il segno non sarebbe più memorizzabile ed economicamente maneggiabile.
Dunque, possiamo affermare che sono i parlanti a limitare il sistema infinito utilizzabile.
-DISTANZIAMENTO: è la possibilità di parlare di cose, eventi e persone lontane dal momento e dal luogo in cui
si svolge l'interazione comunicativa. A differenza degli animali che, per esprimere il loro bisogno di cibo,
utilizzano il proprio verso senza riuscire a comunicare che il giorno prima avevano fame, con la lingua di solito gli
individui parlano di cose lontane dallo spazio e dal tempo in cui essi sono inseriti. Consiste, dunque, nella
possibilità di parlare dell'esperienza in assenza di essa, pertanto esso finisce per coincidere con la libertà da stimoli
ovvero la capacità dei parlanti di emettere messaggi in base all'elaborazione concettuale della realtà esterna. La
lingua, quindi, è indipendente dalla situazione immediata.
-COMPLESSITÀ SINTATTICA: riguarda l'alta complessità strutturale delle catene linguistiche che spesso
presentano rapporti di forte concatenazione tra gli elementi disposti linearmente. Gli elementi o parti del
segno non sono disposti casualmente, ma costituiscono una fitta trama che si evidenzia nella sintassi.
Fra gli aspetti che hanno rilevanza nella complessità sintattica vi sono: l'ordine lineare degli elementi di una frase,
che permette di evitare le possibili ambiguità di significato; le dipendenze tra gli elementi, che evidenziano i
rapporti gerarchici che essi hanno; le incassature di alcuni elementi all'interno di altri per indicare particolari
legami e i rispettivi livelli in cui si trovano le diverse parti della catena linguistica; la ricorsività, che
conferisce una particolare complessità interna; le parti del discorso, che danno informazioni sulla sua
strutturazione interna; la discontinuità tra elementi uniti dal punto di vista semantico e sintattico ma non
adiacenti linearmente;
-EQUIVOCITÁ: consiste in una mancata corrispondenza biunivoca tra significante e significato. Nel linguaggio verbale
umano si parla di corrispondenze doppiamente plurivoche: ad un significante può corrispondere una vasta gamma
di significati.
Con l’opposizione tra langue e parole (sistema ed uso, competenza ed esecuzione) si intende quella tra il sapere
astratto inconscio comune a tutti i parlanti di una lingua e l’atto linguistico individuale. Tra le due entità
Coseriu pone la norma, una sorta di filtro che specifica le possibilità del sistema attualizzate nell’uso dei parlanti
di una lingua in un certo momento storico.
La competenza linguistica è l’insieme delle conoscenze mentali, di regole interiorizzate insite nel codice
lingua, che costituiscono la nostra capacità di produrre messaggi in una certa lingua.
Morfologia
Studia la forma, cioè la struttura, delle parole in quanto combinazioni di MORFEMI, i più piccoli pezzi di
significante di una lingua ad avere un significato.
La forma concreta che assume un morfema, si chiama MORFO. Il morfo può essere:
● libero: può comparire da solo e quindi può costituire da sé una parola; (si tratta in generale degli
articoli, le particelle, qualche avverbio, ad esempio: adesso, quando, il, si (in italiano), dog (in
inglese…)
● legato: che abbia bisogno di legarsi ad altro morfo (libero o legato anch'esso) per formare una parola (ad
esempio: nazion-, -t-, -al-, -i, uom-, -ini, il gerundio italiano -ndo…)
I morfemi si possono classificare in base alla loro funzione in lessicali e grammaticali. All’interno di questi
ultimi si distingue ulteriormente tra derivazionali e flessionali.
Quando i lessemi e i morfemi di una lingua non si susseguono in successione lineare ma si compenetrano in una
struttura a incastro senza che si possa isolarli nettamente di parla di morfologia non concatenativa.
Un esempio di morfologia non concatenativa si ritrova in arabo, in cui la nozione lessicale veicolata da una radice
triconsonantica viene concretizzata con inserzioni vocaliche, oppure in napoletano:
es. nirǝ (nero-neri) – nérǝ (nera-nere): in questo caso non si può distinguere tra lessema e morfema Vi sono
Vi sono morfemi che rappresentano una radice lessicale e si comportano come prefissi, attaccandosi ad
un’altra radice per modificarne il significato. Essi sono detti prefissoidi (esistono anche i suffissoidi) e spesso
provengono da parole delle lingue classiche.
DERIVATIVA: riguarda la formazione delle parole da basi lessicali, mediante l’aggiunta di morfemi derivativi o
affissi.
base lessicale: forma che ha un significato lessicale che non dipende dal contesto
morfema flessivo: forma che esprime le funzioni grammaticali e riceve, in parte, il significato dal contesto in cui si
trova
Le parole si possono classificare in 9 classi, cosiddette parti del discorso, cui sono assegnate in base a tre criteri:
semantico, morfologico e sintattico. Tuttavia, vi sono parole difficili da classificare. Ad esempio, alcune parole che
appartengono a classi chiuse (articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni) ma che non possono essere identificati
con morfemi grammaticali (e in alcuni casi possono essere ulteriormente scomposte, come nel caso dell’articolo
“l-o”). Esse sono dette parole funzionali.
I morfemi derivazionali mutano il significato della base a cui si applicano, modificandone la classe di
appartenenza, la funzione semantica e il senso.
Per rappresentare una trascrizione morfematica la forma dei morfemi si scrive tra graffe, indicando sotto con
glosse opportune il loro significato e valore. Ad esempio:
ANALISI IN COSTITUENTI
Scompone la frase nei suoi elementi costituenti: FONI E FONEMI (fonetica e fonologia), MORFEMI
(morfologia), SINTAGMI E PAROLE (sintassi). L’analisi è organizzata su più (sotto)livelli, fino al livello ultimo,
quello delle parole; i costituenti individuati per ogni livello sono i costituenti immediati del livello superiore.
Come indicatori sintagmatici si utilizzano i diagrammi ad albero. Per rappresentare l’albero di una parola è
necessario individuare la base e i relativi affissi che le sono stati uniti per trasformarla, ad esempio:
riappropriazione
N riappropriazion - e
N riappropri – azion -
Vri - appropriare
V ap - propriare
VV VV A A
Per costruire l’albero di una frase essa viene scomposta nei suoi costituenti immediati, che possono essere
individuati mediante il confronto con frasi più semplici dalla struttura analoga. Ad ogni nodo corrisponde un
livello di ramificazione; la ramificazione è binaria, ossia ad ogni livello si individuano due costituenti. Tramite la
rappresentazione ad albero è possibile rappresentare le strutture sillabiche, la morfologia di una parola e i sintagmi
di una frase.
Le strutture sintattiche sono organizzate gerarchicamente: in un albero ogni elemento sul ramo di destra di un nodo
modifica o è in relazione diretta con quello alla sua sinistra sotto lo stesso nodo (costituente fratello).
NOTA BENE: nel caso di rappresentazioni complesse: la scritta COMP indica la posizione frasale di F1 in cui
si trova la congiunzione subordinante o l’elemento che introduce frasi subordinate (come le
preposizioni di, a, da, per… nelle frasi dipendenti implicite col verbo all’infinito, oppure al posto di
quando/che…).
Un SINTAGMA è la minima combinazione di parole che funzioni da unità strutturale della frase. Il sintagma ha
una testa, un elemento che può stare da solo (un nome, verbo, preposizione, avverbio…). La testa impone
all’intero sintagma il proprio comportamento sintattico ed è l’elemento che dà nome al singolo tipo di
sintagma. I tipi più importanti sono: sintagmi nominali (SN), sintagmi verbali (SV), sintagmi preposizionali
(SPrep che sono esocentrici, ossia non si possono ridurre a sola testa), sintagmi aggettivali (SAgg), sintagmi
avverbiali (SAvv). In sintassi generativa vi sono anche teste funzionali, cioè costruite su categorie
morfologiche.
La struttura di una frase è determinata dal verbo. Infatti, ogni predicato stabilisce il numero delle valenze o
argomenti che richiede. I verbi possono essere: monovalenti (camminare), bivalenti (interrogare), trivalenti (dare),
tetravalenti (spostare), zerovalenti (verbi metereologici). Le valenze sono rappresentate dai sintagmi nominali o
preposizionali oppure possono essere omesse.
La coppia di termini "tema" e "rema" (rispettivamente dal greco θῆμα, thema, "ciò che viene posto", e
ῥῆμα, rhema, "parola") serve a distinguere, all’interno di un enunciato, quanto si riferisce a ciò di cui si parla
(tema) da quanto su di esso viene detto (rema). Sulla base di questa distinzione, si identifica e analizza quella che
si suole definire "struttura tematica" dell'enunciato.
Un enunciato contiene tipicamente (ma non necessariamente) informazioni di due tipi: una parte indica
qualcosa che parlante e ascoltatore sapevano già, cioè un’informazione data (perché riscontrabile nella situazione
in cui si comunica o fa parte delle conoscenze condivise dei partecipanti alla comunicazione (la cosiddetta
enciclopedia) o è esplicitamente menzionata nel contesto linguistico precedente), un’altra indica qualcosa che non
sapevano ancora: propone un’informazione nuova.
LA TEORIA GENERATIVA
La grammatica generativa è nata negli USA verso la fine degli anni 50 per opera di A.N. Chomsky, segnando
l’inizio di un sostanziale rinnovamento degli studi linguistici. Il punto di partenza delle tesi chomskiane è la
critica all’impostazione metodologica tipicamente descrittiva e classificatoria che non permette di spiegare
importanti fatti linguistici, quali l’ambiguità e l’omonimia di costruzione.
Una grammatica generativa è un insieme di regole che "specificano" o "generano" in modo ricorsivo (cioè per
mezzo di un sistema di riscrittura) le formule ben formate di un linguaggio. L’obiettivo di questo approccio è
creare una grammatica universale in grado di predire in maniera esplicita e formalizzata le frasi possibili di una
lingua. Per arrivare al concetto di grammatica universale, però, si deve prima definire la Teoria della
competenza.
In grammatica generativa, la competenza è costituita dall'insieme di conoscenze che permettono ad un
parlante nativo di produrre messaggi verbali nella propria lingua. Più precisamente, la competenza è:
●interna alla mente umana;
●inconscia (implicita): un parlante nativo riesce, basandosi solamente su un'intuizione, a giudicare se una
produzione linguistica sia accettabile nella propria lingua.
●individuale: è l'insieme di conoscenze che possiede un singolo parlante; la comprensione fra più
parlanti è quindi possibile solo quando le competenze individuali di ciascuna persona sono simili;
●innata: l'essere umano è predisposto, grazie a particolari condizioni anatomiche e neurofisiologiche, ad
acquisire il linguaggio verbale; la capacità di parlare è, in primo luogo, trasmessa biologicamente,
solamente dopo si ha l'evoluzione di tale capacità data dalla componente culturale-ambientale.
Lo scopo della grammatica generativa è costruire una teoria della competenza, ossia esplicitare mediante regole e
princìpi la conoscenza inconscia che il parlante nativo ha della propria lingua. Il primo passo per questo è
capire quali frasi siano grammaticali (ossia corrette) e quali no in una lingua secondo il parlante nativo (cioè
in base alla sua competenza inconscia).
La Teoria dei principi e dei parametri si fonda sull’assunto che la conoscenza sintattica di un individuo sia
modellata mediante due meccanismi formali:
● Un insieme finito di principi fondamentali comuni a tutte le lingue; per esempio, il fatto che ogni
frase debba avere un soggetto, anche se non pronunciato
● Un insieme finito di parametri che determinano la variabilità sintattica fra le lingue; per esempio, un
parametro binario che determina se il soggetto di una frase debba essere pronunciato (il cosiddetto
Parametro del pro-drop).
Poiché le lingue condividono alcuni principi universali ma differiscono rispetto ad alcuni parametri, l'obiettivo
della linguistica è individuare tutti i principi e i parametri universali comuni al linguaggio umano (detti
Grammatica universale). Per questo, ogni tentativo di spiegare la sintassi di una lingua specifica utilizzando un
principio o un parametro è verificato sulla base delle prove disponibili in altre lingue. In questo modo, gli
strumenti teorici della linguistica generativa vanno continuamente raffinandosi, con l'obiettivo di spiegare la
maggiore quantità possibile di variazione sintattica fra le lingue.
Fonetica
Studia la componente fisica della comunicazione linguistica e verbale. Si divide in articolatoria (studia i suoni
come prodotti dell’apparato fonico), acustica (li studia come onde sonore) e uditiva (li studia come suoni
ricevuti).
Il meccanismo di fonazione avviene durante la fase di espirazione, quando le corde vocali si contraggono o si
tendono riducendo/bloccando il passaggio dell’aria (meccanismo laringeo).
Ad esempio, se l’aria viene ostacolata totalmente vengono prodotte delle consonanti occlusive (p,b,m,n,k…) se
viene ostacolata parzialmente vengono prodotte delle fricative (f,v,z,s,l…) da cui si distinguono le
approssimanti (semivocali/semiconsonanti). L’articolazione di una consonante affricata, invece, inizia come
un’occlusiva e termina come una fricativa.
Oltre a distinguersi per modo (occlusive, fricative…), le consonanti si dividono per luogo di articolazione
(labiali, dentali, velari…) e tratto (sorde o sonore). Le consonanti bilabiali sono quelle articolate nel luogo più
avanzato dell’apparato fonatorio. Le labiodentali sono prodotte fra le labbra e i denti anteriori. Il modo di
articolazione laterale è caratterizzato dal passaggio dell’aria ai lati della lingua.
Se l’aria non incontra ostacolo vengono prodotti dei suoni vocalici. Le vocali sono classificate in base alla
posizione della lingua avanti/indietro (anteriori, posteriori, centrali) e su/giù (alte o chiuse, medie, basse o aperte).
Le vocali sono sempre sonore.
Ogni suono producibile dall’apparato fonatorio umano è un FONO, unità minima in fonetica. Quando un fono ha
valore distintivo si dice FONEMA, unità minima della fonologia. Foni diversi che non hanno valore distintivo si
dicono “allofoni”; allofoni di un fonema condizionati dal contesto fonotattico, dunque prevedibili, si dicono
varianti combinatorie. Una coppia di parole che si distinguono per un solo fonema si dice “coppia minima”
(esempi: posta/pasto, svia/spia).
Un fonema è un fascio di proprietà articolatorie, per questo dagli anni 60 si è formulato un certo numero,
chiuso e limitato, di proprietà (tratti distintivi) che, opportunamente combinate, permetterebbero di dar conto
di tutti i fonemi nelle lingue del mondo. I tratti distintivi sono impiegati nelle regole fonologiche. Una regola
descrive quale segmento cambia, in che modo cambia e in che contesto.
esempio: A B/_C significa che A diventa, o è realizzato come, B nel contesto seguito da C. A è
l’elemento che subisce il cambiamento
B è il risultato del cambiamento
Minime combinazioni di fonemi danno luogo alle SILLABE, costruite attorno ad una vocale (attacco, vocale che
fa da nucleo, coda). Sillabe senza coda sono dette aperte, sillabe con la coda sono dette chiuse. La coda determina
anche il “peso della sillaba”: sillabe con la coda sono dette pesanti.
I fenomeni della catena parlata sono detti prosodici o soprasegmentali. Tra di essi vi sono l’accento, il tono,
l’intonazione e la lunghezza, intesa come estensione temporale con cui i foni e le sillabe sono prodotti.
SEMANTICA
Il livello di analisi linguistica che studia il significato. Il significato è l’informazione veicolata da un segno o
elemento linguistico; per l’appunto con “significato” intendiamo quello linguistico, diverso dal cosiddetto
“senso” che è il significato contestuale, a sua volta diverso dall’“enciclopedia”, il sapere in senso generale sul
mondo.
Esistono diversi tipi di significato: quello DENOTATIVO costituisce la parte “oggettiva” del significato di una
parola, condivisa dai membri di una comunità linguistica; quello CONNOTATIVO raggruppa gli aspetti che
hanno carattere di “attributo”, ossia le proprietà che possono aggiungersi al significato di base (denotativo).
Inoltre, si distingue tra il significato sociale (che una parola assume nel rapporto tra i parlanti) e quello
propriamente linguistico (della parola intesa come rappresentazione mentale) all’interno del quale si divide tra:
● lessicale: quello delle parole piene, i termini che rappresentano oggetti concreti o astratti e fatti del
mondo esterno (esempi: gatto, buono, mangiare, idea…)
● grammaticale: quello delle parole vuote, i termini interni al mondo linguistico (esempi: benché,
relativo, io, anche…)
L’unità minima di analisi della semantica è il lessema, la parola considerata per il suo significato. L’insieme dei
lessemi di una lingua costituisce il suo lessico, la componente più esposta ad influenze esterne (prestiti, calchi…)
Ciascun lessema è caratterizzato da una certa intensione ed estensione: l’intensione è l’insieme delle
proprietà che costituiscono il concetto designato da un termine, l’estensione è l’insieme degli individui
(oggetti) cui il termine si può applicare.
CAMPO>SFERA>FAMIGLIA>GERARCHIA SEMANTICA: l’insieme dei lessemi che hanno uno stesso iperonimo
immediato costituisce un campo semantico, i lessemi che hanno in comune il riferimento a un certo ambito
semantico formano una sfera semantica, i lessemi che derivano dalla stessa radice formano una famiglia.
Spostamenti di significato possono avvenire per:
1. Analisi componenziale
L’ipotesi di fondo dell’approccio componenziale è che è possibile analizzare il significato delle parole in unità
semantiche più piccole, dette tratti o componenti semantici. Si applicano al lessico i metodi sviluppati
dagli strutturalisti in ambito fonologico: come i fonemi sono descritti in termini di opposizioni di
tratti fonologici astratti, così il significato può essere descritto come una configurazione di tratti semantici
che emergono per via oppositiva (per confronto tra lessemi).
2. Analisi prototipica
è un sistema di categorizzazione graduata, in base al quale alcuni membri di una categoria
semantica occupano una posizione più centrale di altri.
Vi sono dei principi regolativi che governano la conversazione secondo logica e pertinenza, necessarie quanto il
rispetto del principio di cooperazione fra i parlanti. Grice individua quattro tipi di massime per cooperare alla
conversazione mediante enunciati, ordinate recuperando le quattro categorie filosofiche kantiane di quantità,
qualità, relazione e modo:
● quantità, “non essere reticente o ridondante”: non ci si aspetta che un parlante dia un'informazione
sovrabbondante o che dica troppo poco, egli fornirà l'informazione necessaria, né più né meno.
● qualità, “sii sincero, e fornisci informazione veritiera secondo quanto sai”: il parlante non dirà ciò che
ritiene falso o ciò di cui non ha prove sufficienti
● relazione, “sii pertinente”: il parlante cercherà di essere pertinente all'argomento della conversazione
● modo, “evita l'ambiguità”: il parlante adotterà parole che gli permettano di non risultare ambiguo o
oscuro
AMBIGUITÁ: un’espressione è ambigua quando può prendere convenzionalmente due o più significati
Le massime costituiscono delle norme comportamentali in genere seguite dal parlante, ma violate in
determinati casi. La violazione di una o più massime genera “implicature conversazionali”, che tuttavia
trasmettono il significato voluto.
Un tipo particolare di significato implicito è la presupposizione: la parte del significato di una frase che rimane
vera o valida negando la frase. Esistono dei verbi, detti fattivi, che veicolano automaticamente la
presupposizione di verità della preposizione che reggono: sapere, confessare, rimpiangere…
Le presupposizioni sono ancorate alla forma linguistica, sono agganciate alla proposizione che viene
formulata, diversamente sono le interferenze, fondate per lo più sulla nostra conoscenza del mondo.
Fermo restando che il mutamento interessa ogni livello della lingua, quello più percepito avviene a livello
fonetico-fonologico: a livello fonetico il mutamento riguarda la produzione concreta dei foni, vale a dire il
modo in cui i suoni vengono articolati, in quale punto dell’apparato fonatorio, con quali organi; a livello
fonologico il mutamento riguarda il numero dei fonemi o le opposizioni distintive.
lat. [kanˈta:re] > it. [kanˈta:re] (identici) Ma: lat. /kanˈta:re/ > it. /kanˈtare/ (diversi!)
Il fonema è l’unità fonica più piccola che, pur non avendo di per sé un suo significato, permette di distinguere tra
significati diversi. Le coppie che si distinguono per un solo punto della sequenza si dicono coppie minime. I
diversi modi, determinati dal contesto, di realizzare uno stesso fonema si dicono varianti combinatorie o
allofoni di quel fonema. Quando le varianti di fonema sono determinate dal contesto si dice che esse
presentano distribuzione complementare.
Poiché i fonemi o gli allofoni non sono pronunciati sempre allo stesso modo, è possibile che nel corso del
tempo le singole realizzazioni si allontanino lentamente dalla pronuncia “standard”; in realtà, possiamo dire che
non è la sostanza fonica di un suono a cambiare, ma vengono sostituiti dei tratti fonematici con altri
pertinenti ad una determinata lingua.
La metafonesi
La metafonesi è un mutamento di timbro della vocale radicale per influsso di suoni presenti nella sillaba
successiva. Essa riguarda solo le vocali accentate medie, che per effetto di vocali alte, spesso in finale di
parola, si modificano di un grado passando a medio-alte oppure dittongano.
La metafonesi è presente in molti dialetti in Italia, ma non nel toscano, e in alcune lingue germaniche.
Osservando il grado positivo, il comparativo e il superlativo degli aggettivi “alto” e “bello” negli atti successivi di
antico alto tedesco, medio alto tedesco e tedesco moderno, si nota che in tutte le forme dell’antico tedesco
compare -o laddove c’è un contrasto tra la vocale posteriore -o: e la vocale arrotondata -ö: nel medio e nel
moderno tedesco. L’anteriorizzazione è avvenuta ogni volta che nella sillaba seguente si trovava -i, perciò
possiamo presumere che l’antico alto tedesco -o: possedesse entrambi gli allofoni: -o: davanti alle vocali diverse
da -i, ö: davanti ad -i della sillaba seguente. Questa innovazione deve essere stata antica, giacché il medio-tedesco
presenta già vocali differenti e soprattutto non distingue più le vocali delle sillabe seguenti (che quando
corrispondevano ad -i erano responsabili del mutamento).
In turco ci sono otto vocali nelle radici, che si distinguono secondo tre tratti binari:
[+alto]
[+ anteriore] [-anteriore]
[+arrotond.] [-arrotond.] [+arrotond.] [-arrotond.]
ü i u ı
[-alto]
[+ anteriore] [-anteriore]
[+arrotond.] [-arrotond.] [+arrotond.] [-arrotond.]
ö e o a
- i suffissi con vocale alta si armonizzano (= assimilano) alla vocale della radice (o comunque alla vocale
precedente) secondo entrambi i tratti di anteriorità e arrotondamento
→ quattro varianti: -im /-üm /-um /-ım ‘mio’
göz-üm ‘occhio’, ev-im ‘casa’, yol-um ‘via’, yaş-ım ‘età’
- quelli con vocale bassa si armonizzano solo rispetto al tratto di anteriorità
→ due varianti: -ler /-lar ‘PLURALE’
göz-ler ‘occhi’, ev-ler ‘case’, yol-lar ‘vie’, yaş-lar ‘età (pl.)
DISSIMILAZIONE: può avvenire tra vocali, come la dittongazione delle lingue romanze di vocali toniche latine in
sillabe aperte (es. piede < pedem, buono < bonum), oppure tra consonanti, ad es. lat. peregrinus > pellegrino.
Anche la LEGGE DI GRASSMANN può essere considerata un caso di dissimilazione: in greco e indiano antico, se si
trovano due consonanti aspirate in due sillabe successive, la prima sillaba perde l’aspirazione (es. nel perfetto
dell’ai. *bhabhuva > babhuva)
METATESI: lo spostamento di materiale fonico in un altro punto della catena, ad es. ita. pioppo< ploppu<
popplu< populu lat.
L’indebolimento delle vocali è caratteristico della fonologia latina, in cui si nota particolarmente che:
COALESCENA/SCISSIONE: la fusione o scissione di due elementi distinti, ad esempio lat. vinea > vigna e la
dittongazione italiana per cui abbiamo lieve e buono dal lat. “leve” e “bonu”.
Un esempio di coalescenza è il seguente: pi[sk]e - pi[sc]e > pi[çç]e, in sardo, in cui la sibilante sorda [s] e
l’occlusiva mediopalatale [c] si fondono in un terzo elemento distinto che mantiene però una o più
caratteristiche degli elementi di partenza, ossia [çç].
Il mutamento fonologico
Riguarda il numero dei fonemi e le opposizioni distintive, comprende:
2. le occlusive sonore indoeuropee *b, *d, *g e *gʷ diventano in germanico le occlusive sorde *p, *t,
*k e *kʷ; così, per esempio, dall’indoeuropeo *déḱm̥t ‘dieci’ viene il gotico taihun (cfr. invece
l’irlandese deich);
3. le occlusive sonore aspirate indoeuropee *bʰ, *dʰ, *gʰ e *gʷʰ diventano in germanico le occlusive
sonore *b, *d, *g e *gʷ; così, per esempio, dall’indoeuropeo *gʰóstis ‘straniero, ospite’ viene l’alto
tedesco antico gast (cfr. invece il latino hostis).
La legge di Grimm non è l’unica forma di rotazione consonantica che conosciamo. Grimm identificò anche la
cosiddetta SECONDA ROTAZIONE CONSONANTICA (zweite Lautverschiebung) (V-VIII sec. d.C.), la quale investe
esclusivamente i dialetti alto-tedeschi, così chiamati perché parlati nella zona montuosa nel sud della
Germania (cioè in Germania meridionale, Svizzera e Austria). In realtà non si tratta di una vera e propria
"rotazione" incondizionata, essa muta le occlusive germaniche che si trasformano in antico-alto-tedesco mutando
il modo di articolazione, ma mantenendo il luogo di articolazione:
● occlusive sorde germ. > affricate sorde in aat. se sono all’inizio di parola o dopo consonante
> fricative sorde doppie aat. dopo vocale (si semplificano dopo vocale lunga o dittongo, o
in posizione finale)
/p/ /pf/ ingl. pound ted. Pfund ingl. apple ted. Apfel
/t/ /ts/ ingl. ten ted. zehn ingl. heart ted. Herz
/k/ /kx/ ingl. corn ted.sup. chorn
/p/ /ff/ ingl. open ted. offen ingl. sleep ted. schlafen
/t/ /ss/ ingl. water ted. Wasser ingl. out ted. aus
/k/ /hh/ ingl. make ted. machen
● occlusive sonore germ. > occlusive sorde aat. (evoluzione dentale: in tutti i dialetti evoluzione labiale e
velare: solo nel ted. sup)
● /θ/ germ. > /ð/ > /d/, come accade rispetto a ingl. that ted. das
L’ANALOGIA
Tende a conformare gli elementi asimmetrici ad un modello simmetrico (per questo le forme asimmetriche, cioè
quelle su cui l’analogia non ha avuto effetto, sono solitamente più antiche rispetto a quelle simmetriche).
L’analogia NON è un mutamento fonetico, infatti non avviene “automaticamente” in un dato contesto
fonetico, ma ha bisogno di un modello (“pressione paradigmatica”):
es. lat. nĕgō / nĕgātis > it. ant. niego / negate è un mutamento fonetico: lat. ĕ > it. [jɛ] / ' $ infatti anche
pĕdem>piede, hĕri>ieri ecc.
MA: it. ant. io niego >> it. mod. io nego non è un mutamento fonetico, non c’è nessuna regola it. ant [jɛ] > it.
mod. [e], altrimenti dovremmo avere anche *pede, *eri ecc. → niego è sostituito da nego per livellamento
analogico (riduzione di allomorfia) sul modello di negare, negate ecc. (altre forme del paradigma).
Nell’analogia si riconoscono due processi sistematici:
Un esempio di estensione si vede anche in greco per l’accusativo singolare: originariamente nell’indoeuropeo
l’accusativo singolare aveva una nasale bilabiale in due allomorfi, di cui uno sonante, che nella maggior parte delle
lingue IE sviluppò una vocale d’appoggio. In greco la nasale sonante ebbe come esito -a, con il risultato che i
paradigmi presentarono due allomorfi, -a e -n, per l’accusativo singolare. Dal I secolo d.C. è attestata la creazione
di forme analogiche di -an in luogo di -a per la terza declinazione con l’estensione dell’allomorfo - n ai contesti in
cui si sarebbe dovuto trovare l’allomorfo -a.
L’analogia si rifà ad un modello: leggo/leggi, reggo/reggi, friggo/friggi, dove l’allomorfia con alternanza
[g]/[dʒ] è motivata foneticamente: lat. [g] > it. [dʒ]/ [i,e]
Si parla di analogia sintagmatica quando il modello non si trova nel paradigma, ma nella ricorrenza
sequenziale delle due forme:
lat. sursum > it. ant. suso > it. mod sù lat. deorsum > it. ant. **gioso? >> it. ant. giuso > it. mod. giù **suso e
gioso >> suso e giuso
GRAMMATICALIZZAZIONE
Avviene quando un elemento lessicale perde gradualmente il suo significato proprio e, in certi contesti,
assume funzione grammaticale (diventando un prefisso/suffisso produttivo, un esempio immediato sono gli
avverbi in -mente).
Attraverso di essa un lessema si trasforma da:
1) lessico > parola grammaticale
- Negazione: Fr. Un petit pas, mais pas pour l’humanité
- Ausiliari:
Gianni viene a Torino
Il debito pubblico è venuto crescendo progressivamente dagli anni Settanta ad oggi La
cattedrale venne costruita in trent’anni
Preposizioni: fr. chez < lat. casa, it. tranne < traine ‘togline’
2) lessico > flessione
dormir-ò, dormir-anno
3) lessico > derivazione
it. devota-mente
ingl. color-ful ingl. cross-wise, ted. kreuz-weise ‘trasversalmente’; cfr. ingl. wise, ted. Weise ‘maniera’
Residui di queste varianti si vedono ancora nell’italiano moderno: non farlo! / non lo fare!
Vi sono anche mutamenti che riguardano l’ordine dei costituenti: prendendo ad esempio l’italiano antico
vediamo:
ch’egli avea il maleficio commesso
ed ha’mi la cosa molte volte ridetta
Mutamenti in corso:
1)†réclame, †dépliant, †corriera
†traversone >> cross, ma †penalty >> rigore
2) io taccio, lui tace, noi .................
3) prevarrà in futuro, come.........prevalso finora, un atteggiamento di estrema prudenza.
4a) mi piacerebbe una volta andare alle Maldive piuttosto che alle Seychelles vs.
4b) non ti piacerebbe andare una volta alle Maldive piuttosto che a Pietra Ligure?
IL METODO COMPARATIVO
In linguistica è il procedimento di analisi e ricostruzione delle lingue attraverso l’accostamento e il confronto di
vari elementi, sia all’interno di un medesimo idioma sia tra idiomi differenti. In linguistica storica è una
tecnica applicata dai linguisti per dimostrare le relazioni genetiche tra le lingue, in quella comparativa è uno
strumento per determinare regolarità o assenza di determinati fenomeni evolutivi nello stesso idioma.
Esso…
Ha avuto particolare rilievo nel campo dell’indoeuropeistica, consentendo tramite la comparazione fonetica,
lessicale e grammatica delle lingue indoeuropee una approssimativa ricostruzione della lingua madre
indoeuropea. Tra gli esiti del metodo comparativo vi sono il “modello dell’albero genealogico” e la “teoria
delle onde”.
Si dovrà attendere l'opera di uno dei suoi allievi, J. Schmidt, per una puntuale critica al modello dell'albero
genealogico e la proposta di un modello di ricostruzione più dinamico e meglio rispondente alle mutanti
istanze filosofiche e scientifiche.
Egli elaborò la teoria delle onde (Wellentheorie) per render conto da un lato dell'estrema fluidità con cui le
innovazioni si diffondono spazialmente, dall'altro dell'indubitabile maggiore affinità che unisce lingue parlate su
territori limitrofi rispetto a lingue che si trovano ormai a grandi distanze geografiche. In altre parole, il
passaggio da una varietà linguistica all'altra avviene in forma continua; la trasformazione di questa sorta di piano
inclinato, su cui le onde innovative si propagano in una scala con salti bruschi da una varietà all'altra, è data da
specifici eventi storici e politici, spesso verificantisi nella storia delle singole comunità: quando una tribù
conquista una certa supremazia sulle altre, la varietà linguistica da essa parlata soppianta le varietà limitrofe,
rompendo la continuità territoriale che normalmente caratterizza la differenziazione linguistica.
*g, *gw > j (o ǧ) [dʒ] / [e],[i] *gh, *gwh > h / [e],[i] uguali all’esito di 1)
Le labiovelari
Kw gw (semivocalica) sono articolazioni complesse piuttosto rare che si pensa fossero presenti in IE perché:
- si ritrovano in epoche antiche nelle lingue IE (soprattutto in latino, ma anche in miceneo e nelle fasi
più antiche delle lingue celtiche)
- nelle lingue in cui si sono semplificate sono diventate o solo velari o solo labiali, facendo pensare ad un
antecedente che possedesse entrambi i tratti consonantici
In latino è molti presente la sorda Kw (aqua, quis) e la sonora Gw interna di parola (lingua, inguen) più rara.
Che fine hanno fatto le labiovelari?
- la maggior parte delle lingue (tra cui il baltico, le lingue slave e indoiraniche, l’armeno) le ha
delabializzate. Successivamente, venendo a confondersi con le velari pure, si sarebbero palatalizzate in
[č] davanti ad [a] e ad [i];
- alcune lingue, tra cui il gallico, hanno fatto emergere l’elemento labiale;
- il greco miceneo (lineare B, alfabeto sillabico) le ha conservate ma semplificate nella velare [K] vicino
ad [u]; il greco dall’ottavo secolo ha avuto tre esiti diversi per labiovelare sorda, sonora e aspirata a
seconda del contesto: labiale davanti ad [a] [o], dentale davanti ad [e] [i], velare vicina ad [u].
Ipotizzando che l’IE avesse avuto all’inizio VELARI e LABIOVELARI, allora si suppone che in epoca antica le
lingue satem abbiano teso a ridurre le labiovelari a velari semplici, uniformandole alle velari pure e spingendo le
vecchie velari a mutare luogo di articolazione in [š] [s] [θ], invece, le lingue centum, le hanno conservate
fino all’epoca storica.
- moltissime lingue (indoiraniche, baltiche, slave, celtiche) le deaspirano facendole confluire nelle
occlusive sonore non aspirate
- in greco si sono assordite in sorde aspirate e poi trasformate in fricative sorde (fero,tizemi,cromos):
*bh>ph>f *dh>th>θ *gh>kh>χ
(Questo passaggio si è verificato tardi, tant’è che la grafia non è cambiata di pari passo con la pronuncia. Per
questo nel latino si conservano le grafie ph, th, ch.)
Da notare che in greco e in sanscrito funziona la LEGGE DI GRASSMANN (o legge della DISSIMILAZIONE
DELL’ASPIRATA INIZIALE): se due aspirate occorrono in sillabe contigue, per dissimilazione la prima si
deaspira (es. forme di perfetto a raddoppiamento)
- il latino trasforma *bh *dh > f e *gh > f se è vicino ad u, altrimenti > h (es. frater/ hostis)
- nelle lingue germaniche funziona la LEGGE DI GRIMM (o legge della ROTAZIONE CONSONANTICA), ma
se l’occlusiva sorda è preceduta da una fricativa, allora non diventa fricativa.
Ulteriori eccezioni sono spiegate dalla LEGGE DI VERNER: ci si domanda come mai “padre”, pater/pitar abbia
generato “fadar”/”father” con ð (fric dent sonora); BISOGNA TENERE CONTO DEL CONTESTO E
DELL’ACCENTO: il passaggio da occlusive sorde a fricative avviene se le occlusive sono tra elementi
sonori (vocali e liquide) e se non erano immediatamente precedute dall’accento I.E.
Invece in latino s- iniziale antevocalica rimane, -s- interna tra vocali invece si sonorizza in z e poi in r: ausosa
> aurora, ausis > auris: è il fenomeno noto come rotacismo, che in latino ha un forte impatto morfonologico.
L’alternanza r/s si riscontra anche all’interno di uno stesso paradigma o dello stesso gruppo di voci
etimologicamente connesse: genus< *genos (con s mantenuto perché in posizione non intervocalica) generis
<*genes-es.
Le sonanti
Osservando i numerali, ad esempio:
si nota che alcune lingue presentano come terminazione solo una vocale, altre una vocale + una nasale e le vocali
sono eterogenee (e in latino, a in greco e sanscrito, u in gotico).
Come spiegare i diversi esiti nelle varie lingue indoeuropee? Sono state formulate 3 ipotesi:
- l’elemento indoeuropeo era solo vocalico
- l’indoeuropeo presentava una sequenza vocale + nasale che si è ridotta in alcune lingue
- era un elemento nasale cui alcune lingue hanno aggiunto una vocale d’appoggio (come avviene in Sloveno Trst >
Terst)
L’ipotesi più accreditata è la terza; le corrispondenze si spiegano se facciamo derivare le diverse vocali (em; à; à;
un) da un più antico “-m”, una nasale sonante: *septṃ.
(Nel caso suddetto chi ci garantisce che la sonante fosse una -m e non una -n? E’ più semplice che si passi
dalla bilabiale ṃ alla dentale ṇ che viceversa. Dipende da una difficoltà di pronuncia della bilabiale. Se non
abbiamo altri dati diamo la precedenza alla ṃ che troviamo in latino.)
La “ṃ” non si conserva in nessuna lingua perché, dato che la condizione non marcata di suono aperto sono le
VOCALI, iniziarono a svilupparsi nelle varie lingue delle APPENDICI VOCALICHE che vanno a sostituirsi o ad
accostarsi alla nasale che, in ogni caso, perde il suo ruolo di sonante. Se la vocale di appoggio diventa
importante, la nasale cade e rimane soltanto la vocale.
In tutto, le sonanti attribuite all’indoeuropeo sono le due nasali e le due liquide. Tuttavia, con l’eccezione del
sanscrito, nessuna lingua IE conserva le sonanti della lingua-madre ma…
- la vocale d’appoggio sviluppata dal greco è la a per le nasali, le liquide rimangono come consonanti (al,
ar)
- dal latino è una o (ma le nasali sviluppano una e)
- dal gotico è la “u” (es. hund)
L’apofonia consiste in un’alternanza di vocali all’interno di una radice, che pur partecipando di un
cambiamento di ambito semantico o morfologico, non cambia il significato base della radice.
L’alternanza è qualitativa se ha la forma e/o/0 (grado normale, grado pieno, grado 0) e quantitativa se ha la forma
e/e)/o). Le lingue IE che meglio conservano il meccanismo apofonico sono il greco, dove è evidente nel sistema
verbale ad esempio: presente (leipo) aoristo (elipon) perfetto (leloipa), e il sanscrito. Tuttavia, nelle singole lingue,
le alternanze vocaliche possono risultare oscurate dalle evoluzioni fonetiche proprie di ciascuna lingua.
Una corrispondenza da spiegare è quella presentata tra lat. pater gr. pather scr. pitar cioè di una
corrispondenza tra –a- e –i- del sanscrito e delle altre lingue indoiraniche, per cui è postulata l’esistenza di
un suono indeterminato che possa evolvere nell’uno o nell’altro senso. Questo suono, presente nell’alfabeto
ebraico, è indicato col nome di shva e rappresentato come ǝ.
Il greco, però, presenta anche e breve oppure o breve laddove il latino presenta solo a breve; per questo si
ipotizza che l’IE avesse 3 ǝ con tre diverse colorazioni e che nel passaggio alle lingue IE lo ǝ si sia
evoluto:
- al grado ridotto come i tre diversi ǝ nel greco, come a nel latino, come i nelle lingue indoiraniche
- al grado normale (grado-e) fondendosi con la *e precedente, allungandola e lasciando *e lunga se lo
ǝ era ǝ1 (colorato in e), *a lunga se lo ǝ era ǝ2, *o lunga se lo ǝ era ǝ3
Poiché lo ǝ appare essere stato vocalico al grado-0, mentre al grado-e accompagnava una vocale *e vera e propria,
la storia dello shvà è stata completata con LA TEORIA DELLE LARINGALI (che ne costituirebbero il grado
zero).
La teoria delle laringali ipotizza nell’IE l'esistenza di suoni consonantici di tipo laringale completamente
scomparsi in tutte le lingue indoeuropee attestate, ma che sono stati individuati nelle lingue anatoliche, in
particolare in quella ittita. Esse sono presenti nelle lingue semitiche e possono avere sia valore vocalico che
consonantico.
Si attribuiscono all’IE tre fricative articolate nella glottide o nella parte posteriore del tratto orofaringeo: *h1,
*h2, *h3, di cui si postulano i seguenti sviluppi:
*H1 > *e, *H2 > *a, *H3 > *o
*h1e > *e *h2e > *a *h3e > *o.
Esse avrebbero funto da elementi non vocalici al grado-e ma vocalici al grado-0. Quindi, ad esempio:
*dhH1
*dheH1 si azzera dopo aver allungato e colorato la vocale precedente
Esempio: data la radice IE *h2erh3 nell’esito greco * h2erh3-io-h2
La teoria delle laringali aiuta a spiegare la provenienza di certe radici indoeuropee. Ad esempio, le radici
inizianti con una vocale, originariamente avevano una laringale che ha colorato la vocale adiacente e poi è
scomparsa: *h2ent > ant; *h3ed > od
Allo stesso modo, anche le radici con vocale lunga terminanti in una laringale hanno perso la laringale e subito la
colorazione e allungamento della vocale precedente: *dheh1 >dhē;*peh 2 > pā
FAMIGLIE LINGUISTICHE
La somiglianza tra due lingue, come ad esempio tra francese e italiano, è data innanzitutto dal lessico
condiviso, o lessico in comune, ossia quella percentuale più o meno elevata di voci che danno realmente
l’idea di corrispondersi nelle due lingue.
● ereditario: la percentuale di lessico che una lingua riceve dall’immediato antecedente (lingua-
madre). Si ricorda che esistono settori lessicali tendenzialmente più stabili (numerali,
terminologia parentale, parti del corpo…). Questo strato fornisce la morfologia flessiva, cioè le
marche grammaticali, a tutto il resto del lessico.
● prestiti: le voci assunte dalle lingue con cui c’è stato un contatto. Il maggior numero dei
prestiti si ha dalla lingua di maggior prestigio verso quella meno prestigiosa. Un ruolo
importante è svolto dal greco e latino, cui hanno attinto le lingue europee occidentali per
secoli per incrementare il proprio lessico. Per la loro genesi, i cultismi presentano differenze
minime o nulle rispetto al latino.
● onomatopeico e fonosimbolico: le forme che tentano di riprodurre suoni e rumori, oppure
suggeriscono l’idea di ciò che indicano (minimo rapporto tra significante e significato)
● neoformazioni: parole nate dall’applicazione di regole sincronicamente produttive a voci di tutti
gli altri strati.
Nel confronto del lessico proveniente da due lingue, se uno scarto diventa sistematico allora è possibile che
entrambe abbiano avuto un medesimo punto di partenza, rispetto al quale una delle due, ad un certo punto, ha
preso a divergere in certe circostanze.
Ulteriore conferma di ciò può provenire dalla morfologia. Lungo un arco diacronico, i morfemi, quanto meno
quelli flessivi, sono tra gli elementi più stabili in assoluto (diversamente dal lessico che invece, rispecchiando
l’orientamento culturale dei parlanti, muta con più facilità), tendendo a conservarsi nella medesima lingua per
lunghissimi periodi. I morfemi non si trasmettono da una lingua ad un’altra, o lo fanno solo in casi
eccezionali; nel trasferimento, infatti, verrebbe a mancare il valore distintivo del morfema, il quale
tenderebbe ad essere isolato, estrapolato e riutilizzato con elementi della lingua ricevente. Pertanto,
concordanze morfologiche tra lingue diverse bastano ad indirizzare alla comune origine, anche se esse non
presentano lessico in comune.
La parentela linguistica esiste sia sul piano orizzontale (tra lingue sorelle), sia sul piano verticale (tra lingue che
sono una figlia dell’altra).
Isoglossa è un termine che la linguistica ha modellato sulla terminologia geografica preesistente; esso
designa la linea immaginaria che su una carta geolinguistica unisce i punti estremi di un territorio entro cui
esiste un certo fenomeno. Più isoglosse che coincidono nel tracciato formano un confine linguistico.
La lingua non è un organismo in sé chiuso e perfettamente omogeneo, ma più una stratificazione a diversi livelli. I
confini linguistici (fasci più o meno consistenti di isoglosse) possono risentire delle barriere naturali (mari,
deserti, catene montuose) e molto più frequentemente di quelle sociali (religiose, culturali, politiche…).
Esempio di influenze: le occlusive sorde latine nel Toscano
In prosecuzione delle occlusive sorde latine intervocaliche, nel toscano/italiano si possono avere esiti sia sordi che
sonori (scopa-povero, aceto-scodella, domenica-luogo). La duplicità è stata attribuita nell’Ottocento da
G. Isaia all’effetto sonorizzante della a accentata e in penultima sillaba che viene subito prima. Meyer-Lukbe,
invece, elabora la teoria degli accenti, in base a cui le occlusive restano sorde se ricorrono dopo la vocale
tonica in parola accentata sulla penultima sillaba, ma diventano sonore se ricorrono prima della vocale tonica con
accento sulla penultima sillaba o dopo la vocale tonica con accento sulla terzultima.
Tuttavia, vi sono casi in cui da una stessa base latina si sono avuti entrambi gli esiti, pertanto sono state
formulate altre spiegazioni:
-Clemente Merlo: considera toscano l’esito sonoro e giustifica quello sordo come una pressione colta
esercitata dal latino (dalla chiesa, dai notai…)
-Gerhard Rohlfs: considera toscano l’esito sordo e motiva quello sonoro con un influsso esercitato dalle
parlate del nord Italia, dal francese e dal provenzale.
A favore di quest’ultima ipotesi vi è la morfologia flessiva dell’italiano, la presenza di casi in cui all’esito
indigeno sordo si affianca un esito allogeno galloromanzo e sonoro (bacio-basiu, camicia-camisia…), il
notevole influsso nel Duecento-Trecento esercitato sul toscano dal provenzale e dal francese.
È possibile che l’influsso galloitalico/galloromanzo sia iniziato effettivamente con un numero più o meno
elevato di prestiti lessicali. Poi, quando i casi di doppioni hanno superato una certa soglia, l’influsso è
proseguito con l’innesco di una vera e propria nuova regola di sonorizzazione: virtualmente qualunque
occlusiva sorda toscana poteva essere sonorizzata purché in quel momento si trovasse in posizione
intervocalica (o tra vocale e r).
La lingua varia in funzione dello spazio (variante diatopica) e della stratificazione sociale dei parlanti (variante
diastratica).
Matteo Bartoli ha formulato 4 norme areali, o spaziali, che in presenza di più forme concorrenti permettono
di stabilire quale, in linea di massima, è la forma più arcaica:
Le norme del Bartoli sono norme, non hanno valenza categorica. Osservando la contrapposizione tra it. più alto/
fr. plus haut (area centrale) /sp. màs alto/rum. mai inalt (area laterale), egli ha pensato che il comparativo
latino magis altu fosse più arcaico rispetto alla forma plus altu.
In realtà, in base alla documentazione scritta, le due forme risultano coeve, ma magis altu era la forma
canonica mentre plus altu quella del popolo basso. Quindi alle zone laterali ritroviamo non la forma più
antica, ma quella di cui è più antico l’uso assunto come corretto.
Le lingue romanze sono uno dei rari casi in cui conosciamo l’antecedete diretto: il latino (lingua centum). A
questa famiglia appartengono:
- le lingue ibero-romanze: portoghese, castigliano (noto come spagnolo, lingua ufficiale della Spagna),
gallego o galiziano, catalano
- le lingue galloromanze: francese, provenzale (nel Medioevo una delle grandi lingue letterarie
d’Europa), guascone, franco-provenzale (riconosciuto solo dai linguisti)
- le lingue italoromanze: Italiano con i suoi dialetti e il corso (varietà di toscano coloniale esportato nel
Medioevo da Pisa e dalla Toscana occidentale)
- il sardo (sebbene non riconosciuto ufficialmente)
- le lingue reto-romanze: romancio, ladino, friulano
- le lingue balcano-romanze, di cui sopravvive solo il rumeno in 4 varietà principali (dacorumeno,
macedorumeno, meglenorumeno, istrorumeno); appartenenza a questo gruppo anche il dalmatico,
estintosi nel 1898.
La totalità del territorio in cui si sono sviluppate e sono ancora parlate le lingue romanze è detta ROMANIA,
suddivisa in occidentale e orientale. La linea di suddivisione corre in Italia tra La Spezia-Rimini, dividendo i
dialetti settentrionali da quelli centro-meridionali.
Una peculiarità della parte occidentale è la conservazione della -s finale latina, con conseguenze morfologiche nel
sistema verbale e nominale; peculiarità della parte orientale è la conservazione delle occlusive sorde latine in
posizione intervocalica all’interno di parola (sapone, ruota, ortica).
Inoltre, si menzionano come Romania nuova tutti quei territori extraeuropei in cui sono state portate e sono
ora parlate nativamente lingue romanze (Brasile, Cile, Argentina, Messico…), e come Romania sommersa tutte
le aree comprese nei confini dell’impero romano in cui le varietà romanze regolarmente sviluppatesi sono
state sopraffatte dal sopraggiungere di altre lingue (Tirolo, Alto Adige, le coste e le isole della Dalmazia…).
Le lingue germaniche derivano dal cosiddetto germanico comune, che noi non conosciamo per mancanza di
documentazione. Tradizionalmente le dividiamo in:
- lingue germaniche settentrionali: danese, svedese, norvegese, islandese (filiazione alto-medievale del
norvegese) e feringio
- lingue germaniche occidentali: tedesco (suddiviso in alto tedesco e basso tedesco), frisone, olandese (o
nederlandese, di cui è una varietà l’afrikaans), fiammingo, inglese, yiddish (varietà dell’alto tedesco
adottata dagli ebrei ashkenaziti in fuga a partire dall’alto medioevo)
- lingue germaniche orientali: nessuna delle quali sopravvive, ma tra cui è importantissima il gotico Le
- lingue slave occidentali, scritte tutte in alfabeto latino: polacco, ceco, slovacco, sorabo (distinto in
superiore e inferiore)
- lingue slave orientali, tutte scritte in alfabeto cirillico: russo, russo bianco (o bielorusso), ucraino
- lingue slave meridionali: sloveno e croato, che usano l’alfabeto latino, serbo, macedone e bulgaro, che
usano l’alfabeto cirillico. L’antico bulgaro è la lingua slava di più antica documentazione e per molto
tempo è rimasta la sola lingua letteraria per tutti gli slavi
Le lingue celtiche derivano dal celtico comune, che era distinto in celtico continentale (estintosi tra V-VI
secolo d.C.) e insulare (che sussiste solo in parte, nelle isole britanniche). Tra quest’ultimo si distingue tra:
- lingue gaeliche o goideliche: irlandese, manx o mancio (parlato nell’isola di Man ed estinto dopo la metà
del Novecento) e scozzese (portato da migrazioni irlandesi medievali verso la Scozia)
- lingue britanniche: gallese, cornico (estinto dopo la metà del Settecento) e brettone (parlato nella Bretagna
francese in conseguenza di insediamenti medievali che venivano dalla Gran Bretagna)
Le lingue baltiche derivano dal baltico comune, oggi comprendono: lituano, lettone, antico prussiano
(estintosi nel Settecento)
Le lingue zingariche sono quelle parlate dagli zingari (dai rom). Costituiscono una famiglia di tipo indoario che in
Europa è arrivata con le migrazioni di queste popolazioni iniziate dopo il Mille e passate attraverso la Persia,
l’Armenia, l’impero bizantino e i Balcani fino ad arrivare in Europa, probabilmente dalla fine del Duecento.
Le lingue isolate:
Tra le lingue anatoliche vi sono l’Ittita (lingua centum), parlato in Anatolia tra XVII e XIII secolo e rimastoci in
testi in alfabeto cuneiforme, che insieme al greco è la lingua IE di più antica attestazione; il palaico, il luvio,
il licio, il cario, il lidio…
- le lingue iraniche, attestate dal VI secolo con l’avestico e l’antico persiano (da cui si sono sviluppati il
medio persiano e il persiano moderno (farsi), oggi lingua ufficiale dell’Iran)
- le lingue indoarie, che per l’età antica si distinguono in vedico (in cui è scritto il documento più antico, il
Rgveda), il sanscrito (lingua letteraria indiana per eccellenza), i dialetti pracriti (lingue d’uso
concrete da cui discendono le lingue dell’India moderna e tra cui si ricorda il pali)
- l’egiziano, un tempo molto importante ma oggi estinto; l’antico egizio era scritto in geroglifici; il
sistema geroglifico insieme al demotico rimasero in uso fino al V secolo d.C., quando con la
cristianizzazione si adottò la scrittura greca. Per questi documenti, che arrivano fino al 1300 circa si parla
di copto
- Le lingue semitiche, divise tra orientali (accadico) e occidentali (che comprendono l’eblaita,
l’ugaritico, l’arabo, il fenicio, l’ebraico e l’aramaico). La lingua semitica di più antica attestazione è
l’accadico, parlata dagli assiro-babilonesi e usata come lingua diplomatica negli scambi tra i diversi
imperi del Vicino Oriente Antico nel corso del II millennio (prime attestazioni in paleoaccadico,
successivamente si distinguono due varietà: babilonese e assiro). L’arabo è parlato oggi in molti paesi che
si affacciano sul Mediterraneo, accanto a varietà berbere sopravvissute parlate da alcuni gruppi, perlopiù
nomadi, come i tuareg in Marocco. L’ebraico biblico scomparve nell’uso parlato molto presto,
soppiantato dall’aramaico, ma nonostante ciò diede vita nel Medioevo ad una fiorente letteratura in
due varietà, ashkenazita e sefardita. Tra le lingue occidentali vi è anche il gruppo meridionale, che
comprende l’etiopico e il sudarabico
- lingue cuscitiche, tra cui il somalo e l’oromo
- lingue omotiche
- lingue ciadiche, tra cui l’hausa, parlato in Niger e in Nigeria
Le lingue uraloaltaiche, che in realtà presentano delle somiglianze tipologiche più che una vera e propria
parentela, solo l’unione di due famiglie:
- famiglia uralica, divisa in 2 gruppi: ugrofinnico (finlandese, estone, lappone, ungherese) e samoiedo (tra
cui il sirieno, parlato lungo il mar glaciale artico)
- famiglia altaica, divisa in 3 gruppi: turco (il turco moderno si fa risalire alla lingua parlata
nell’impero ottomano, cioè il turco osmanli), mongolo, tunguso-manciuro
In Africa vi sono:
- le lingue nigercongolesi, che costituiscono la maggior parte delle lingue parlate in africa
subsahariana. Sulla maggior parte del territorio che occupano sono parlate lingue della famiglia
bantu, famiglia dell’Africa centro-orientale, di cui la più diffusa è lo swahili (attualmente scritta in
alfabeto latino, ma nei testi più antichi scritta a caratteri arabi). Essa è nata dal contatto con varietà
arabe, come si intravede dal lessico e dalla fonologia.
- le lingue nilotiche
- le lingue nilo-sahariane
- le lingue khoisan
Inoltre, la situazione africana è caratterizzata anche dalla concorrenza tra lingue e indigene e lingue coloniali, cioè
francese e inglese. Soprattutto nell’Africa occidentale, dove fu fiorente la tratta degli schiavi, si sono
sviluppate lingue creole.
- il cinese: attualmente la lingua più parlata al mondo, che ha 5 grandi aree dialettali di cui la più
consistente è il mandarino. Purtroppo, pur avendo attestazione antichissima, la sua ricostruzione è molto
difficile poiché essa impiega un sistema di scrittura ideografico
- gruppo tibetobirmano, di cui la lingua attestata più antica è il tibetano
- il giapponese, ha adottato il sistema di scrittura cinese
- il coreano, forse imparentato alla lontana con il gruppo altaico
Le lingue australiane e dell’area pacifica presentano un’estrema differenziazione e nessuna ha tradizione scritta;
molte sono oggi a rischio estinzione. I nove decimi delle lingue australiane vengono fatte rientrare nel cosiddetto
gruppo pamanyugan.
- la famiglia austronesiana, cui appartengono le lingue parlate sulle isole del pacifico, è divisa in 2
gruppi: melanesiano, le cui lingue sono quelle che derivano dalle più antiche popolazioni giunte e,
probabilmente, provenienti da Formosa, e malaypolinesiano. Tra le lingue polinesiane, che sono di
provenienza asiatica vi sono maori, hawaiano, tahitiano, samoano e tongano.
- utoazteco: maya (diviso in varietà), nahuatl (lingua degli antichi aztechi), quechua (lingua dell’impero
inca, attualmente diffuso in Perù)
- famiglie linguistiche del nord: eschimo-aleutino, na-denè (comprendente il gruppo atapasco)
- Le lingue dravidiche, anticamente parlate in tutta l’india poi spinte a sud dalle popolazioni indoarie,
comprendono oggi le lingue parlate nella parte meridionale del subcontinente Indiano
- gruppo thai: asiatico, comprendente il thailandese
- hurrico
- urarteo
- sumerico
- basco: dal punto di vista lessicale appare influenzato dal latino, si pensa abbia origini molto antiche e
faccia parte di una famiglia linguistica estintasi che un tempo doveva comprendere larga parte
d’Europa