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Linguistica
CAPITOLO 1
La linguistica è quel ramo delle scienze umane che si occupa dello studio della lingua. In
particolar modo, lo studio si divide in: linguistica generale, che si occupa delle
sfaccettature che interessano la struttura della lingua, e la linguistica storica, che invece
ne analizza l’evoluzione. La linguistica tiene conto principalmente delle lingue storico
naturali, ossia, quelle lingue che nascono durante l’evoluzione della storia e che vengono
parlate ora o nel passato dagli uomini. Tutte le lingue storico naturali sono specchio del
linguaggio verbale umano.Nel linguaggio verbale umano, inoltre, non si pone la differenza
fra lingua e dialetto, entrambe sono considerate sullo stesso piano perchè permettono ad
una comunità di comunicare. La loro differenza sta principalmente in una concezione
storico-sociale che vede il dialetto una forma verbale meno prestigiosa. Per discutere di
lingua è necessario anticipare la nozione di segno. Il segno non è altro che quell’elemento
che all’interno di un contesto si usa per indicare qualcos’altro (è il qualcosa che comunica
qualcos’altro). Cosa significa comunicare? Si può considerare una spiegazione molto larga
del termine, quindi come un mero passaggio di informazione, oppure, si può considerare
una spiegazione più ristretta che vede la comunicazione come frutto dell’intenzionalità,
ossia, la volontà da parte dell’emittente di passare una determinata informazione. Possiamo
definire tre categorie di comunicazione:
● in senso stretto= quando l’emittente e il ricevente sono intenzionali;
● passaggio di informazione= quando l’emittente non è intenzionale ma il ricevente sì;
● formulazione di inferenze= non vi è un emittente, ma c’è un ricevente che interpreta
l’informazione data;
Dal primo tipo all’ultimo, sia l’intenzionalità che il messaggio che si vuole mandare diventano
sempre più deboli e vaghi, fino a doversi appoggiare ad una interpretazione senza alcun
presupposto specifico.
Oltre ai vari tipi di comunicazione, esistono vari tipi di segni:
● indice= naturale, non intenzionale (es. starnuto);
● codice= naturale, intenzionale (es.sbadiglio);
● icona= non naturale, intenzionale (es. icone del computer), collegate tramite la
somiglianza;
● simboli= motivati culturalmente,intenzionali (es. nero per i funerali);
● segni in senso stretto= non motivati, posti su convenzione ed intenzionali (es.
messaggi linguistici, suono della linea occupata).
In questo caso, a legare il segno al suo significato vero e proprio ( il qualcosa al
qualcos’altro), c’è la motivazione, che nella successione dei vari casi va ad indebolirsi
sempre di più. L’insieme delle corrispondenze fra “qualcosa” e “qualcos’altro” è detto
codice, che ci permette di interpretare anche i segni. Tutti i sistemi linguistici sono di codici.
Che caratteristiche hanno i codici?
● Arbitrarietà= consiste nell’assenza di una motivazione naturale fra l’essenza di
una cosa e il segno attribuitogli. In particolar modo, si considerino il significante e il
significato di questo segno. Il significante “Gatto” non ha una connessione logica con
l’animale, ma ciò non vuol dire che non siano minimamente legati fra loro. In effetti, il
legame si viene a formare con l’associazione convenzionale fra questi due
elementi. Se non ci fosse l’arbitrarietà tutte le lingue del mondo, bene o male, si
assomiglierebbero tutte, ma non è così, anzi. Ci saranno molti studiosi linguisti che
approfondiranno questo tema, fra cui Soussuire, e Hjelmslev che progetta il
cosiddetto triangolo semiotico e , soprattutto, distribuisce il concetto di arbitrarietà
per tramandare la tradizione letteraria, per l’imposizione delle leggi e quindi per le
principali funzioni istituzionali,etc.;
● Linearità e discretezza= sono due aspetti fondamentali della lingua. In primis, la
linearità consiste nell’inserimento nell’ordine corretto dei costituenti del messaggio
per consolidarne il senso (es. dire Gianni chiama Maria e Maria chiama Gianni sono
due cose fondamentalmente diverse). Oltre all’ordine del messaggio, è importante
anche considerare la discretezza dei suoi costituenti, ossia, la differenza fra le unità
della lingua. Dire “pollo” e dire “bollo”, ad esempio, sono due cose distinte, per
quanto simili, e devono rimanere tali. Anche l’intensità con cui andiamo a
sottolineare un significante, non varia il suo senso. A prescindere da queste forme, il
messaggio che si vuole inviare rimane assoluto;
● Onnipotenza semantica, plurifunzionalità e riflessività= con onnipotenza semantica
si intende la capacità che ha il linguaggio di riuscire a trattare di qualsiasi cosa,
qualsiasi contenuto. In ciò rientra ulteriormente la caratteristica della
plurifunzionalità, ossia, il fatto che la lingua adempie a funzioni diverse fra cui:
espressione di pensiero, di informazioni, rapporti sociali, di sentimenti, risolvimento di
problemi, etc. Inoltre, lo studioso Jakobson, ne identifica altre sei: funzione emotiva
dell’emittente, funzione metalinguistica del codice, funzione referenziale del
referente, funzione conativa del ricevente, funzione fatica del canale, funzione
poetica del messaggio. In questo scenario, si inserisce anche un’ulteriore
caratteristica,che è quella della riflessività, ossia, la capacità della lingua di parlare
di sè stessa.
● Produttività e ricorsività= con produttività si va a sottolineare il fatto che la lingua
costituisce costantemente nuove parole, messaggi oppure associare informazioni già
esistenti a un qualcosa di nuovo. Ciò è reso possibile, come abbiamo già visto,
tramite la doppia articolazione. Il processo di creazione di nuovi elementi avviene
tramite la ricorsività, ossia, l’applicazione dello stesso procedimento per un numero
teoricamente illimitato di volte (es. atto>attuazione>attuale>attualizzabile);
● Distanziamento e libertà da stimoli= il messaggio rivolto al ricevente può trattare
eventualmente di eventi o elementi che si muovono su una linea temporale
piuttosto ampia. Si può parlare di qualcosa avvenuto nel presente, nel passato o
che avverrà nel futuro. Ciò però non significa che il parlante sia forzatamente
costretto a reagire da determinati stimoli esterni per esprimere un messaggio, anzi.
Esiste la libertà da stimoli proprio per questa ragione. Possiamo comunicare
qualcosa anche senza dipendere da un'evenienza esterna. Ciò ci distingue
nettamente dagli animali.
● Trasmissibilità culturale= attraverso la trasmissione di generazione in generazione
della lingua, siamo capaci effettivamente di apprenderla e di trasmetterla a nostra
volta successivamente. Non è soltanto la storia a permetterci di creare la lingua, ma
in essa vi è una parte innata, propria dell’uomo,detta “facoltà di linguaggio”, e
una componente ambientale-culturale. L’interazione fra queste due componenti,
mette in atto il processo di apprendimento della lingua che parte dall’infanzia,
procede verso la prepubertà linguistica e continua fino all’età di 11-12 anni di vita;
● Complessità sintattica= la lingua è costruita anche su delle precise strutture
gerarchiche, regolate dalla sintassi. Fra questi elementi vi sono: l’ordine dei
costituenti, le dipendenze fra questi, le incassature, la ricorsività, la possibile
discontinuità che c’è fra i vari elementi del messaggio;
● L’equivocità= la lingua costituisce un codice molto equivoco, principalmente
-azion. Nella maggior parte dei casi però vi è “fare affidamento”, ma non
“affidazione”, o “cambiamento “ ma non “cambiazione”, e così via. La norma, si basa
quindi principalmente sulla volontà comune, e non è detto che tutte le possibilità
linguistiche possano avvenire nel concreto;
● asse paradigmatico e sintagmatico= nel momento in cui dobbiamo creare un
linguaggio, dobbiamo selezionare gli svariati elementi che devono comporlo,
riprendendoli dall’asse paradigmatico, dove vi sono tutti gli elementi combinatori
che posso utilizzare per formare il mio messaggio e fra cui dovrò scegliere. Nel
momento in cui io avrò selezionato questi elementi, questi vengono proiettati
sull’asse sintagmatico che ne formula la coerenza e l’ordine. L’asse paradigmatico
riguarda quindi le relazioni al livello del sistema, mentre quello sintagmatico al
livello delle strutture che realizzano il sistema.Il primo fornisce il serbatoio dove
poter attingere le singole unità linguistiche, mentre il secondo fa sì che queste
rispettino le regole della lingua.
CAPITOLO 2
Abbiamo capito che una delle basi del sistema linguistico, il significante, si manifesta
principalmente tramite il canale fonico-acustico. E’ dunque nostro compito spiegare
come i suoni che noi produciamo e sentiamo vengono prodotti. Di questo si occupa la
fonetica, che studia i suoni alla base del linguaggio e il loro modo di articolazione e la loro
produzione fisica. Ci sono tre tipi di fonetica: articolatoria, che studia il modo in cui i suoi
vengono articolati, acustica, che studia i suoni in base alla loro consistenza fisica e alla loro
modalità di trasmissione, uditiva, che studia i suoni in base al modo in cui vengono ricevuti.
In particolar modo ci soffermeremo sulla fonetica articolatoria. Per poter parlare
dell’articolazione dei suoni è necessario fare un piccolo abbozzo anatomico rispetto al
nostro apparato fonatorio.I suoni vengono prodotti normalmente tramite l’espirazione
dell’aria dai polmoni, si attua quindi un processo egressivo: l’aria muovendosi dai polmoni
passa attraverso i bronchi e la trachea, raggiungendo la laringe, dove inizia il “tratto
vocale”, e l’aria raggiunge le corde vocali, inserite all’interno della glottide. Le corde vocali
durante la fonazione sono in tensione e contratte e all’interno delle “rime vocali” (lo
spazio fra le corde) può risultare completamente ostruito o parzialmente libero. Le corde
vocali si muovono in cicli rapidissimi in costante alternanza con la chiusura e apertura
delle rime vocali. Questo processo che si ripete in ripetizione è detto “meccanismo
laringeo”. In questo senso si crea una frequenza detta “frequenza fondamentale”. Dalla
laringe, l’aria passa alla faringe e poi successivamente nella cavità orale, nella quale sono
presenti gli organi mobili o fissi (lingua, denti, labbra etc.), abbiamo la parte superiore della
faringe che corrisponde al palato che poi si dilunga nel “velo del palato”, che si prolunga
nella ugola. Retrostante i denti ci sono gli alveoli. Anche la cavità nasale può partecipare a
questo processo. Un modo di classificare i vari suoni è rispetto al luogo in cui il suono
viene articolato, in base al modo di articolazione e la mobilità dei singoli organi e come
essi partecipano al processo di produzione. In questo senso possiamo costituire una prima
suddivisione di suoni, quelli prodotti senza l’ostacolo che si interpone al flusso di aria,
dunque parliamo delle vocali, e di quei suoni il cui flusso d’aria è interrotto, ossia, le
consonanti. In merito a ciò, un suono può ulteriormente essere definito sordo, se non le
corde vocali non vibrano, cosa che invece accade per i suoni sonori. Le vocali sono tutte
sonore, mentre le consonanti sono sia sorde che sonore.
Partiamo dalle consonanti:
pertinentizzarne alcuni attribuendogli valore distintivo. Nel momento in cui succede ciò si
parla di fonemi. Ad interessarsi dei fonemi è la fonologia che studia l’organizzazione e il
cambiamento dei suoni nel sistema linguistico. Ad esempio la parola /’mare/ è formata da
quattro fonemi /m/a/r/e/.A differenza della trascrizione fonetica che riproduce nel minimo
dettaglio la pronuncia di un determinato suono, la trascrizione fonematica riproduce solo
le caratteristiche essenziali della realizzazione fonica. Inoltre, i vari fonemi sono
riconosciuti per opposizione tramite il processo di scoperta e di confronto della prova di
commutazione (/’mare/, /’pare/, /’kare/, etc.). Riassumendo, il fonema è l’unità di seconda
articolazione del sistema linguistico a cui è definito un preciso valore distintivo tale da
apporre una parola di una lingua all’altra. Foni che realizzano diversamente un fonema
sono detti allofoni (es. /’mare/ e /’maere/). Nel momento in cui tra una parola ed un’altra c’è
un solo fono a distinguerle, si parla di coppia minima (es. /’mare/ e /’pare/). Per dimostrare
che un fono è un fonema in una data lingua bisogna trovare delle coppie minime che lo
oppongono ad un altro fonema.
I fonemi sono la più piccola unità linguistica che abbiamo incontrato fino a questo momento.
Non possono essere scomposti in elementi ancor più piccoli, ma possono essere
catalogati in base alle loro caratteristiche (es. /t/ è una occlusiva dentale sorda). Ogni
fonema, infatti, è formato da un vero e proprio fascio di proprietà articolatorie, che possono
essere indicati da un “+” o un “-”. Queste proprietà sono dette tratti distintivi:
● sillabico: fonemi che possono costituire nucleo di sillaba;
● consonantico: fonemi prodotti con un blocco dell’aria durante il suo flusso con
vibrazione delle corde vocali; (p, b, f,v,m,n,t,d,ts,dz,s,z,k,g,tsh,dg,sh,gn,l, gl,r);
● sonorante: passaggio dell’aria libero con vibrazione delle corde vocali(m,n,gn,l,gl,r,
j,w);
● sonoro: fonemi prodotti solo con la vibrazione delle corde vocali (i sonoranti, insieme
a b,v,d,dz,z,g,dg);
● continuo: il fonema può essere protratto nel tempo finchè c’è aria nella cavità
orale(f,v,s,z,dg,l,gl,j,w)
● nasale: il flusso d’aria procede nella cavità nasale con un abbassamento del velo del
palato(m,n,gn);
● rilascio rit: fonemi realizzati in un primo momento tramite un il trattenimento dell’aria
nella cavità orale e poi successivamente il suo rilascio(ts,dz,tsh,dg);
● laterale: fonemi prodotti dal passaggio laterale dell’aria all’interno della cavità orale
(l,gl);
● arretrato: fonemi realizzati tramite l’arretramento della lingua rispetto alla sua
posizione neutra (k,g,w);
● anteriore: fonemi prodotti nella zona alveolare o in un luogo anteriore a
questa(p,b,f,v,tsh,dg,ts,dz,s,z,sh,n,l,r);
● coronale: fonemi prodotti con la parte anteriore della lingua sollevata rispetto all
posizione neutra (t,d,ts,dz,s,z,tsh,dg,sh,n,l,j)
● vocali arrotondate: con le labbra procheile (o, o aperta, u);
● vocali alte: prodotte con la parte anteriore della lingua sollevata ( i,u);
● vocali basse: prodotte con la parte anteriore della lingua abbassata (e aperta, a, o
aperta);
In ogni lingua il numero di fonemi varia. In italiano abbiamo in tutto 30 fonemi, 28, se non
consideriamo quelli approssimanti. Ne contiamo 45 se consideriamo le consonanti lunghe,
in quanto andremo ad aggiungere per 15 tipi di fonemi le rispettive forme allungate. In ogni
regione italiana, ovviamente, ci sono le proprie distinzioni alla base della pronuncia,
CAPITOLO 3
La morfologia si occupa dello studio delle parole e della loro struttura in base alle unità di
prima articolazione. Definire la parola non è un qualcosa di semplice da fare. Se volessimo
dare una definizione alla parola che in qualche modo rispecchi il nostro corso di studi allora
dovremmo appellarla come un insieme di morfemi su base lessicale che va a definire
autonomamente un segno linguistico separabile dagli altri se inserita all’interno di un
messaggio . Esistono poi vari criteri per categorizzare e distinguere una parola:
1. i morfemi presentano un ordine rigido e non modificabile (es. io ho gatt-o, ma non
o-gatt);
2. vi sono i cosiddetti confini di parola, quindi quelle pause che intercorrono fra una
parola e l’altra in un discorso;
3. vi è una separabilità anche nello scritto;
4. foneticamente, la pronuncia di una parola non è interrotta ma presenta degli accenti
primari.
Se proviamo a scomporre le parole in pezzi più piccoli, di prima articolazione, otterremo dei
morfemi(es. “dentale”> dent- “organo della masticazione”, al-”relativo a”, e- “uno solo”). La
parola dentale come abbiamo visto è formata da tre morfemi che però possono essere
ritrovati anche in altre parole come: “dente”, “stradale”, “pelle”, etc. Ciò accade perchè i vari
morfemi possono essere divisi e ricombinati con altri per formare delle nuove parole. Un
procedimento che si attua per scomporre una parola in morfemi è la prova di
commutazione, ossia, confrontare una parola con altre simili per identificare poi
singolarmente i morfemi d’interesse. Dunque, riassumendo, il morfema è un’unità di prima
articolazione, la più piccola unità della parola, che è portatrice di significato. Un sinonimo di
morfema è monema, con cui si designano in generale tutte le unità di prima articolazione.
Questo è suddivisibile in due classi: semantemi, quando sono elementi lessicali, morfemi
quando sono elementi grammaticali. Questa divisione però genera molti equivoci. Un’altra
distinzione da fare è quella fra morfema, morfo e allomorfo (come ritroviamo anche per il
fono, fonema e allofono). Il morfo non è altro che la realizzazione nella forma del
morfema, è la sua forma astratta che poi si concretizza nel morfema (es. io non dirò mai “il
morfema del singolare è e-”, ma “il morfema del singolare si realizza tramite il morfo e-”).
L’allomorfo, invece, è una variante di un determinato morfema e rappresenta tutte le
forme in cui un morfema potrebbe presentarsi e che possiamo riconoscere poiché non
mutano il significato della parola in cui vengono inseriti (es. il verbo “venire” possiamo
ritrovarlo sotto diverse forme come “vengo”, “verrò”, “venni”,”vieni”, etc., quindi il morfema
ven- (che è quello basilare del verbo venire) presenta quattro allomorfi). La causa dei
fenomeni di allomorfia è da ritrovare nello scorrere del tempo in senso diacronico e
nell’evoluzione della lingua dal latino all’italiano. Per parlare però di allomorfia, abbiamo
sempre bisogno di una somiglianza fonetica tra i morfi che realizzano quel morfema. Ciò
vale sia se analizziamo una parola rispetto alla sua evoluzione diacronica, che sincronica.
Non è da escludere che un morfema possa venir sostituito da uno completamente diverso
che però conserva il suo significato originale (es. “acqua”>”idrico”;
“cavallo”>”equino”;”fegato>”epatico”). Questo fenomeno è detto suppletivismo.
La combinazione dei morfemi in parole è un processo molto complesso e che richiede una
che danno forma alla parola, non modificandone la radice lessicale e che si accostano solo
alle parti variabili del discorso che accettano di accogliere la flessione e che quindi
assumono un determinato valore grammaticale, che la flessione va modificare e a esplicitare
tramite delle apposite categorie grammaticali, ossia, vengono marcati da essa. Abbiamo
delle categorie grammaticali che interessano principalmente il nome ed altre che si
occupano del verbo. Incominciamo dal nome:
● il genere= associare alla parola un genere che sia femminile, maschile oppure, per
alcune lingue, il neutro (come in latino o anche in inglese);
● il numero= oltre al genere si deve associare anche il numero che può essere
singolare, plurale( ci sono parole esclusivamente plurali dette pluralia tantum). In
altre lingue esiste anche il duale o anche il triale.
● il caso= in alcune lingue il caso è quell’elemento che specifica la funzione sintattica
della parola.E’ ancora presente in tedesco, in russo e greco. In italiano sono rimasti
alcuni strascichi ma niente di relativamente concreto. In base alla lingua che si
prende in considerazione, il numero dei casi può variare;
● reggenze= descrive il modo in cui un verbo assegna il caso al complemento che
viene da lui retto(es. il verbo utor in latino regge un complemento in ablativo). Ciò
vale anche per determinate preposizioni che si accomunano solo con determinati
casi (es. cum+ablativo);
● i gradi dell’aggettivo= possono essere comparativo o superlativo. Per il superlativo,
l’italiano affida la flessione a -issim (es. bellissimo). Mentre per altre lingue ci sono
suffissi precisi come ad esempio l’-ior, in latino o l’-er in inglese e tedesco.
● molti altre lingue marcano con morfemi appositi la “definitezza” e il “possesso”,
come l’arabo o il turco.
Per quanto riguarda il verbo:
● il modo= la modalità con la quale il parlante esprime il contenuto, che può essere:
assertiva (es. il treno parte), dubitativa(es. il treno partirà?), epistemica(es. il treno
dovrebbe esser partito), deontica (es. il treno deve assolutamente partire),
evidenziale (es. il treno è partito l’ho visto io).
● il tempo= il momento in cui viene detto qualcosa ( presente, passato e futuro);
● aspetto= la maniera in cui viene presentata l’azione in base al processo espressivo
del verbo. C’è l’aspetto perfettivo, che rappresenta un’azione compiuta, ed
imperfettivo, un’azione che è ancora in conseguimento;
● l’azionalità= come si sviluppa temporalmente l’azione. Ci sono verbi telici, che hanno
una fine, e verbi atelici, che non presentano fine.
● diatesi=determina l’azione in base al soggetto che la compie;
● persona= è il soggetto che compie l’azione. In italiano ce ne sono tre singolari e tre
plurali;
Anche le parole possono essere riportate all’interno di specifiche categorie in base al
significato da loro espresso. Ce ne sono nove: nome, aggettivo, verbo, articolo,
preposizione, congiunzione, avverbio, interiezione e ideofoni, che però sono una classe
particolarmente dubbia, poiché esprimono molti elementi di una comunicazione non verbale.
Ci sono tre criteri per associare una parola ad una categoria:
1. criterio semantico= il significato che viene dato a quella parola;
2. criterio morfologico= la relazione che interviene fra le varie categorie morfologiche;
3. criterio sintattico=dipende dal contesto in cui la parola viene inserita.
Ovviamente, le categorie che si creano permettono l’inclusione di eccezioni. Infatti, sia i
nomi (che designano qualcosa nella realtà esterna) che i verbi (che vanno ad indicare e
CAPITOLO 4
La sintassi è quel livello di analisi che si occupa della combinazione delle parole in frasi.
Il concetto di frase, come quello di parola, è molto complicato da descrivere, perciò
definiremo frase tutto ciò che contiene una predicazione, dunque, un’affermazione riguardo
qualcosa, una attribuzione di una qualità, proprietà, etc. Poiché solitamente il valore
affermativo della frase è dato dal verbo, si pensa che non possano esistere frasi senza di
esso, ma al contrario esistono le cosiddette frasi nominali, che esprimono comunque una
predicazione e sono allo stesso modo autosufficienti. Le parole, talvolta, si combinano in
maniera anche più complessa formando le proposizioni. Per analizzare una frase, bisogna
in primis capire gli elementi che la costituiscono e come questi si pongono all’interno di essa.
Ad un livello elementare, abbiamo l’analisi dei costituenti che va a scomporre la frase nei
suoi vari pezzi e li analizza uno per uno, applicando dei tagli fra le varie frasi che individuano
i suoi costituenti. Per applicare i tagli ci si basa sulla prova di commutazione fra una parola e
l’altra, confrontandole poi con altre frasi e procedendo in questo modo fino alla conclusione
del processo. Un altro metodo, è quello degli alberi etichettati che mette meglio in risalto la
struttura della frase con tutti i suoi elementi, attraverso una suddivisione gerarchica dei
rapporti fra questi. Da ogni albero si diramano dei nodi che rappresentano i vari livelli e
sottolivelli dell’analisi, accompagnato dall’apposito simbolo(es. SN= sintagma nominale;
SV=sintagma verbale;N=nome; etc.). Molto spesso agli articoli, può essere affiancata una
categoria detta “Determinante” (art. det.) che racchiude articoli, aggettivi dimostrativi e altri
elementi che vengono associati alla stessa categoria in base alla loro distribuzione, ossia, al
fatto che vengono inseriti sempre prima di un nome. Il criterio della distribuzione, è
fondamentale per capire come determinati elementi si accostano o possono essere trovati
vicino ad altri. Per distinguere le varie parti del discorso nel momento in cui non è possibile
preoccuparsi di ramificare, si può procedere tramite le parentesi, ad esempio: “Mio cugino
ha una macchina nuova”> ((((((mio))(cugino))(ha))(comprato))(una))(macchina))
(nuova)))))).Nel caso in cui una frase non abbia il soggetto, si deve comunque riportare
l’indicatore sintagmatico (es.”corro”> SN=Ø; SV= corro). La presenza degli indicatori
sintagmatici in ogni frase permette di sfatare anche quelle ambiguità che ricorrono spesso
all’interno di esse e che vanno a generare più significati, cambiando anche dal punto di vista
grammaticale la frase: (es.”Sono invitate tutte le ragazze e le signore con il cappellino”, che
costruzione passiva, dove però l’agente diventa il complemento oggetto, mentre il paziente
diventa soggetto (es. il topo è inseguito dal gatto).Abbiamo anche la dislocazione a destra
che inverte tema e rema (es. lo vuole un caffè?) e la frase scissa che divide in due la frase
portando all’inizio il verbo essere e facendo poi proseguire la frase (es. è il gatto che insegue
il topo). Con la frase scissa si mette in risalto l’informazione essenziale della frase, detta
focus. Il focus solitamente corrisponde al rema.
La nostra analisi delle frasi, però, non si esaurisce a questo punto. Abbiamo un ulteriore
concetto da analizzare: la sintassi del periodo, che si interessa sulla relazione che
subentra tra frasi diverse. Una prima distinzione è quella tra frasi coordinate, che
mantengono la propria autonomia e vengono solo accostate, e quelle subordinate, che
invece sono dipendenti l’una dall’altra. In entrambi i casi, le frasi si rapportano tramite gli
elementi connettivi, che nel caso della coordinate sono congiunzioni come e, o ma, etc,
oppure tramite giustapposizioni di proposizioni (es. Gianni legge e Maria scrive), mentre le
subordinate sono realizzate con congiunzioni come che, benché, affinchè, perchè, etc. o
da modi verbali all’infinito preceduti da una preposizione (es. Gianni mi aveva detto di
andare…).Esistono vari tipologie di frasi subordinate:
● avverbiali: cambiano il senso completo della frase (es. esco, benchè piova)
● completive: che costituiscono un costituente nominale maggiore e che riempiono la
valenza del predicato verbale (es. sembra, che faccia bel tempo);
● relative: modificano solo un costituente nominale della frase e hanno sempre un
nome come testa (es. non ho più visto lo studente a cui ho dato il libro).
Un livello che si sopraeleva a quello della frase è quello del testo. Il testo è un insieme di più
frasi. Molto importante da constatare è il contesto in cui viene inserito questo testo. Con
contesto si intende la comunicazione verbale che precede o segue il contesto, oppure la
situazione specifica in cui la combinazione di frasi è prodotta. Entriamo nell’ottica della
linguistica testuale che ci presenta svariati fenomeni particolari:
● anafora= quando per individuare un elemento bisogna fare affidamento al contesto
che lo precede. Es. “Maria si affacciò dalla finestra perché sentì il cane abbaiare.Lo
vide tutto infuriato”. Non riusciremo mai a capire quel “lo” a cosa si riferisce se non
avessimo la frase precedente che ce lo indica. Il fenomeno opposto è la catafora;
● deissi= quando i pronomi( come quello precedente) dipendono esclusivamente dal
contesto in cui sono posti. Esistono tre tipi di deissi:
1. personale: quando ci si riferisce all’interlocutore e quindi si usano pronomi
personali o possessivi;
2. spaziali: che fanno riferimento all’estensione dimensionale e locale del
contesto e si usano in questo caso pronomi dimostrativi, avverbi di luogo o
verbi come andare, venire, etc. possono essere, inoltre, suddivisibili in
prossimali, quando si riferiscono a qualcosa che è vicino, distali che indicano
qualcosa in lontananza;
3. temporale: quando ci si riferisce a un determinato periodo temporale. Sono
utilizzati principalmente avverbi come oggi, domani, ieri, etc. oppure
espressioni come “fra due anni”, “dieci mesi”, etc.
4. sociale: è un’aggiunta e serve per rappresentare i rapporti fra i partecipanti
all’interazione.
● ellissi=omissione di parti fondamentali della frase, che non la rendono
sintatticamente completa. Si ritrova principalmente nei casi di domanda-risposta (es
A: dove vai? B: a casa).
● segnali discorsivi= sono quegli elementi che sintatticamente non sono facoltativi e
che danno maggior coesione al testo come ad esempio allora, insomma, infine,sai,
etc.
CAPITOLO 5
Alla base della semantica troviamo il significato. Definire il significato è molto più
complesso. Abbiamo individuato il significante, che è la sua parte concreta, mentre il
significato è qualcosa di molto più astratto, che ricade nel mentale e nell’ideale. Non a caso
all’interno di questo contesto si associano molte altre discipline come la filosofia, la
psicologia, etc. Anche di cosa tratta il significato è complicato da spiegare. Abbiamo due
teorie preponderanti: una filosofica, che vede alla base del significato una successione di
operazioni astratte che vanno a generare nella mente un’idea di realtà; una di carattere
cognitivista che, invece, tenta di basare il significato sull’esperienza percettiva-sensoriale
dell’uomo. Definire il significato è dunque un processo molto complesso. Se volessimo
avvicinarci ad una concezione linguistica del significato, dovremmo considerarlo sotto due
punti di vista differenti:
● concettuale= il significato è rappresentato da un’immagine mentale, un concetti, che
trova la sua ulteriore rappresentazione nella realtà circostante;
● operazionale= attestare il significato come qualcosa di strettamente legato ad un
contesto da cui può desumere il suo reale utilizzo;
Su queste impostazioni ci sono molte discussioni aperte, molti dibattiti e soprattutto si tiene
conto delle numerose limitazioni che possiedono entrambi questi sistemi. In vista di ciò, è
preferibile dare una definizione generale di significato come “un elemento che veicola
un’informazione tramite i segni o degli elementi linguistici”. Poiché questa definizione
risulta abbastanza generica, bisogna andare a distinguere tipi diversi di significato:
● denotativo= è quello inteso nel senso oggettivo, che corrisponde al valore di
identificazione della realtà esterna;
● connotativo= è quello a carattere soggettivo, che si connette all’ambito delle
sensazioni che vengono trasmesse dalla realtà;
● linguistico= che si basa sull’analisi dell’elemento in corrispondenza del suo valore
linguistico (tu/lei, sono pronomi personali);
● sociale= come questo elemento viene concepito dalla comunità(tu/lei, sono allocutivi
che esprimono una situazione di confidenza o di formalità);
● lessicale=che rappresentano “oggetti” concreti o astratti ,entità, etc. del mondo
esterno (parole piene);
● grammaticale= che rappresentano concetti e rapporti interni al sistema linguistico
(es. di “relativo a”), che sono per altro parole vuote;
Il significato va ben distinto da quella che definiamo “enciclopedia”. L’enciclopedia, si
occupa di una conoscenza generale e dei suoi attributi, mentre il significato fa parte del
sapere come tale, fa parte della lingua e non identificato con la conoscenza del mondo
esterno. Stabilire un confine fra queste due parti è molto difficile ma necessario, infatti, se
attribuissimo il valore di conoscenza generica al significato, allora la semantica dovrebbe
occuparsi di tutto il mondo, cosa che non è logicamente possibile, né consona a questo
campo. Un’altra distinzione che ci tocca fare è quella fra senso e significato. Il senso, è un
significato contestuale che deriva dalla situazione in cui io affermo un determinato
termine(es. finestra, si può intendere sia come l’apertura nel muro, sia come la finestra
aperta sul desktop di un computer). In questo ambito possiamo introdurre anche l’elemento
dei nomi propri, elementi che designano un individuo nello specifico e nell’ambito logico
non hanno intensione ma solo estensione. Intensione consiste nell’insieme delle
CAPITOLO 6
Le lingue storico-naturali, ossia parlate da una determinata comunità, sono molte e
numerose. Gli studiosi ne contano un minimo di 2220 e un massimo di 7000. Il numero di
lingue però è molto difficile da specificare, questo perché alcune lingue sono considerate a
sé stanti, e anche perché alcune aree linguistiche non sono state approfondite a sufficienza.
L’Italia è un esempio lampante di ciò. In Italia è presente una lingua ufficiale, una grande
numero di dialetti e anche delle minoranze linguistiche (tedesco, francese, sloveno, etc.).
I dialetti, in particolar modo, sono considerabili delle lingue vere e proprie e se contiamo
anche quelli, in Italia sarebbero presenti circa 30 sistemi linguistici.
Essendo le lingue mondiali così numerose, si è cercato di dividerle in famiglie. Questa
suddivisione si basa principalmente sul lessico fondamentale (numeri, fenomeni
metereologici, parti del corpo, etc.) che hanno in comune, attraverso la loro somiglianza fra
diversi significanti, che presumibilmente dovrebbe rimandare ad una forma originale
condivisa.
Per analizzare questo concetto è utile partire dalla lingua a noi più vicina: l’italiano. L’italiano
deriva dal ramo delle lingue romanze, tutte derivanti dal latino, che include anche il
spesso possono essere molto lunghe e si formano di una radice a cui poi sono
attaccati affissi.
● lingue flessive= sono delle lingue che presentano un indice sintetico minore rispetto
a quelle agglutinanti, di circa 2:1, ma che sono molto più complesse nella loro
struttura interna. Sono formate solitamente da una radice, degli affissi che sono
solitamente morfemi cumulativi e che veicolano funzioni differenti tutti insieme.
Inoltre, sono dette anche lingue “fusive”, in quanto la distinzione dei morfemi non è
chiarissima e ciò crea molta difficoltà nello scomporre la parola. Il termine “flessivo”
indica la molta morfologia flessionale che si applica alle parole di queste lingue per
la creazione di altri significati, etc. Alcuni esempi di lingue flessive sono: il latino, il
greco, l’italiano e in parte anche il francese. All’interno delle lingue flessive vi è un
sottogruppo: le lingue introflessive, dove la flessione avviene anche all’interno della
parola;
● lingue polisintetiche= sono la tipologia di lingue più complessa, che presenta una
catena di morfemi in cui compaiono talvolta più radici. I morfemi a volte vanno a
svolgere anche funzione lessicale. La struttura della parola non è chiara, anzi, molte
parole sono paragonabili a vere e proprie frasi. L’indice di sintesi è di 4:1 o
superiore. Un esempio è il groenlandese. Anche le polisintetiche presentano un
sottogruppo: le lingue incorporanti, che all’interno di una radice verbale inseriscono
anche il complemento diretto.
Possiamo intravedere in questo modo il passaggio da lingue analitiche (che scompongono i
vari pezzi della parola es. ho mangiato), a lingue sintetiche (che “impacchettano” più
blocchi di contenuto, es. mangiai).
Un altro “tipo” in cui possono essere divise le lingue è quello sintattico e in particolar
modo, in base all’ordine dei costituenti. In ogni frase è presente un soggetto (S), un
predicato verbale (V) e un complemento oggetto o diretto (O). Esistono in totale sei ordini in
cui possiamo formulare una frase, quello più frequente è SOV, seguito da SVO e VOS.
L’italiano, ad esempio è una lingua SVO. Come mai l’ordine SOV e SVO sono i più comuni?
Si applicano in questo caso due principi: quello della precedenza, che viene data al tema,
dunque al soggetto, rispetto al rema, ciò che si dice a proposito del tema; e quello
dell’adiacenza, in questo caso fra verbo e complemento diretto che devono
necessariamente essere vicini poiché elementi contigui.
Oltre all’ordine degli elementi fondamentali della frase subentra quello di altri elementi
aggiuntivi, che spesso è imprevedibile. Molti studiosi però sono riusciti a formulare delle
leggi che possono essere in qualche modo applicate universalmente: “le implicazioni
universali”. Inoltre, molti hanno cercato di costruire delle tipologie complesse a partire dalla
posizione di V e O:
● lingue VO: costruiscono a destra con l’ordine operando/operatore; avrebbero NA
(sint. nominale e l’agg.), NG ( sint. nominale e genitivo), Nposs., NRel., VAvv., AAvv
(avverbio dopo aggettivo), AusV. Un esempio è il turco;
● lingue OV: costruiscono a sinistra con l’ordine operatore/operando, che presenta gli
stessi casi ma all’inverso. Un esempio è il gaelico.
Come nel caso della tipologia morfologica, non sempre il modello ideale rappresenta poi
ogni singolo caso presente all’interno della lingua. Ci sono infatti, delle eccezioni e delle
incoerenze.
Abbiamo ulteriori casi di lingue che dovrebbero essere trattati con maggior approfondimento:
● lingue ergative: danno una marcatura differente di caso al soggetto in base alla
forma transitiva o intransitiva del verbo (a differenza di altre lingue che declinano in
CAPITOLO 7
Dobbiamo intravedere la lingua non come un blocco puramente fisso, ma anzi, come un
elemento che varia costantemente ogni attimo che passa. Per questo motivo si parla di
variazioni linguistiche. Queste variazioni possono svolgersi in diacronia, dunque, si va ad
analizzare il mutamento della lingua al livello dell’asse temporale continuativo, ovvero, come
la lingua è mutata nel tempo rispetto alle abitudini sociali e culturali della comunità. Questi
cosiddetti “mutamenti linguistici”, vengono studiati dalla linguistica storica.
C’è da dire però, che i mutamenti linguistici richiedono molto tempo per avvenire( circa una
generazione) e altrettanto tempo per essere notati, questo perché hanno un movimento
molto più lento rispetto ai mutamenti socio-culturali. Sono graduali e quindi procedono per
gradi trasformando passo per passo la lingua che si contraddistingue nei vari secoli. Nel
momento in cui ad un sistema vengono sottoposti cambiamenti multipli tali da renderlo
totalmente incomprensibile rispetto a com’era prima, ci troveremo dinanzi ad una lingua
nuova. Sarà proprio la sostanziale differenza dalla precedente a farci intuire la nascita di una
lingua del tutto originale.
Questo è il caso dell’italiano e anche delle altre lingue romanze: nate dal latino, che hanno
incominciato a subire i primi cambiamenti durante il terzo secolo d.C e l’Alto Medioevo e,
successivamente, fra il X e il IX secolo si è definita l’affermazione dei volgari, dei quali
risalgono anche molti documenti scritti, fra cui il primo, del 960 detto “Placito Capuano”,
che attestava il possedimento di determinati territori da parte di un monastero benedettino di
Montecassino.
Il meccanismo del mutamento è ciclico, in verità. Abbiamo la presenza di un’innovazione,
che viene accettata dalla società e dalla comunità linguistica, che pian piano inizia a
coesistere con l’elemento “vecchio”, per poi inevitabilmente soppiantarlo e successivamente
fissarsi all’interno del sistema. E da qui poi si ricomincia.
Le cause dei mutamenti linguistici possono essere sia interne che esterne al sistema:
● fattori esterni: mutamenti ambientali, politici, sociali, economici e culturali che vanno
a determinare questi cambiamenti, talvolta provocando anche la decadenza, se non
la morte delle lingue( le lingue muoiono quando non vi sono più parlanti);
● fattori interni: sono quei mutamenti che interessano principalmente in cambiamento
di strutture, regole, organizzazioni del sistema stesso da parte dei parlanti che
tendono a semplificare e sintetizzare la lingua;
Abbiamo parlato prima di lingue morte. Nel momento in cui una lingua muore, gli subentra
una lingua di “sostrato”, che sostituisce la precedente anche se ne riprendere determinati
elementi( come accade con i volgari ed il latino).
Abbiamo vari tipi di mutamenti su vari livelli:
● mutamenti fonetici:
1. assimilazione: due suoni differenti, diventano simili perchè uno dei due viene
assimilato dall’altro (es. noctem>notte);
2. metafonia: assimilazione di due foni non contigui fra di loro(es. nel dialetto
napoletano “nir” (“nero”)<”nigrum” lat.)
3. dissimilazione: quando un fono è diversificato dall’altro(es. “venenum”
lat.>”veleno”);
4. metatesi: quando l’ordine dei foni varia all’interno della parola(es. “fabula”
lat.>”fiaba”)
5. caduta: vi è la presenza di caduta dei foni all’interno della parola. Ciò può
determinare diversi fenomeni a seconda di dove la caduta avviene: aferesi,
all’inizio della parola (es. “apotheca” lat.>”bottega”), sincope, nel mezzo della
parola (es. “domina” lat.> “donna”), apocope, alla fine della parola (es.
“civitate” lat.>”città”)
6. aggiunta: vengono aggiunti dei foni e a seconda della loro posizione
possiamo classificarli come: protesi, all’inizio della parola (es. “statum” lat.>
“estado” spag.), epentesi se è al centro della parola( es. “baptesimum” lat.>
“battesimo”), epitesi se è alla fine (es. “cor” lat.>”cuore”).
● mutamenti fonologici:
1. fonologizzazione: un allofono assume un valore distintivo e diventa autonomo
(es. “kingere” lat.>”cingere”);
2. defonologizzazione: quando un fonema perde il suo valore distintivo
diventando un allofono ( es. lunghezza delle vocali dei casi in latino)
3. perdita: perdita di fonemi, come ad esempio la perdita di valore fonologico per
la “h”;
● mutamenti a catena:
1. rotazione consonantica: un primo esempio è la legge di Grimm che consiste
nell’evoluzione da un occlusiva sorda ad una fricativa sonora o aspirata.
Oppure un ulteriore esempio lo ritroviamo nell’evoluzione del tedesco, che
vede la variazione di p,t, k in una fricativa in posizione postvocalica, affricativa
se posta all’inizio della parola, etc.
● mutamenti morfologici:
1. perdita della flessione dei casi come in latino e la successiva caduta del
genere neutro con una conseguente lascito del maschile e del femmeinile;
2. l’analogia: estensione di una forma verso un modello non propriamente
adatto ma più incline ad un modello normale e frequente (es. “velle” lat.>”vol-
ere”)
3. rianalisi: un esempio è la perdita del valore lessicale del verbo lat. “habeo”,
con l’affiancamento del passato prossimo. Inizialmente in latino, in una
potenziale frase quale “Hebeo epistulam scriptam”, non era inteso come “Ho
scritto una lettera”, ma come “Ho (sott. fra le mani) una lettera scritta”. Con il
tempo e con la conseguente perdita per “habeo”del suo valore lessicale,
diventerà, effettivamente, “Ho scritto una lettera”, fino ai giorni odierni, in cui il
verbo avere ha un principale valore grammaticale.
4. grammaticalizzazione: il valore grammaticale che assume “habeo”, avviene
anche per il sostantivo “mens”, che andava ad indicare l’intelletto e la mente
di un individuo, ben presto andrà ad affiancarsi ad altri elementi come “sana”
o “lenta” fino a diventare un formativo di parola;
● mutamenti sintattici:
1. principalmente si parla dell’ordine compositorio scelto, che nel caso del latino
era SOV o semplicemente OV, mentre nel caso della maggior parte delle
lingue romanze è SVO.
● mutamenti semantici:
1. arricchimento del lessico: tramite la formulazione di nuove parole, da altre
preesistenti o prese in prestito da altre lingue;
2. perdita di lessico: fenomeno inverso che vede la perdita di lemmi, come ad
esempio “cuncutus” o “os” in latino o anche “donzello”;
3. fenomeni di paretimologia: quando una parola viene modificata rispetto alla
sua composizione originale per esser resa più”trasparente” e comprensibile
(es. lat.”cubare”> covare);
4. estensione del significato di un lemma: quando una determinata parola che
era specifica assume un significato molto più generale, quindi lo amplia (es:
lat.”domina”, padrona di casa> “donna”);
5. riduzione del significato di un lemma: quando da un significato generale si
passa ad uno più specifico( es. lat. “domus”, casa> “duomo”)
6. tabuizzazione: in un determinato contesto una parola viene “censurata” e al
suo posto ne viene utilizzata un’altra, detta eufemismo, con un senso meno
diretto;
● mutamento dei campi semantici: varia la concezione del campo semantico, come
ad esempio, nel caso dei colori, che in latino venivano percepiti secondo la loro
brillantezza ( es. lat. “albus”/”candidus” o “ater”/”niger”);
● mutamenti pragmatici:
1. modifica dei modi di allocuzione: si passa dal tu/voi lat., al “tu” confidenziale e
al “voi” formale, al “tu” informale, “voi” di cortesia”, “lei” formale, all’odierno
“tu” informale
Le variazioni della lingua si svolgono anche in sincronia, quindi analizzando un preciso
momento storico, influenzato da determinate situazioni a livello culturale, politico o sociale.
Inoltre, a farsi carico di questo preciso metodo di studio è la sociolinguistica. La
sociolinguistica si occupa delle variabili linguistiche che cooccorono all’interno di una
comunità. Con variabili linguistiche si intendono quelle unità del sistema, che non lo mutano
o lo cambiano in termini di valore, che si presentano in correlazioni a fenomeni
extralinguistici. Queste variabili dipendono dalla dimensione in cui si vanno a considerare, in
particolar modo, ne abbiamo quattro:
● varietà diatopiche:
1. italiani regionali: determinati fonemi che vengono pronunciati in modo
differente rispetto al luogo di appartenenza (es. Napoli e Palermo tendono a
sottolineare il fonema “sck”, sckopa, sckarafaggio, et.)
2. geosinonimi: parole che sono intese in modo differente rispetto a dove le si
pronunciano (es. “melone” Napoli, “cocomero”, zone settentrionali);
3. regionalismi semantici: determinate parole che hanno assunto uno specifico
significato in una data area geografica (es. “tovaglia” in Sicilia è
l’asciugamano);
4. regionalismo morfologici e sintattici: a volte in determinate aree geografiche
variano l’utilizzo dei suffissi rispetto alla lingua standard (es. a Roma si usa “-
aro”, mentre in lingua standard è “-aio”) e anche la posizione e l’ordinamento
delle varie parti del discorso sono diverse (es. “oggi a casa sono” oppure “il
giornale vuoi?” in forma più colloquiale);
● varietà diastratiche:
1. a livello fonetico vi sono semplicemente delle modifiche date dall’influenza del
dialetto( es. a Roma “birra” è “bira”, mentre “madre”, in Sicilia è “madtre”);
2. a livello morfologico vi sono molte generalizzazioni per gli articoli ( i amici, un
sbaglio), dei verbi (dissimo al posto di dicemmo), comparativi (più bene), o
alcune convenzioni grammaticali (nessuni amici). Queste forme sono per lo
più presenti in un strato sociale “basso”, incolto, e proprio per questo viene
detto italiano popolare;
● varietà diafasiche:
1. registro: in considerazione del contesto in cui avviene la comunicazione, vi è
un registro più alto e formale, o più basso e più informale; in base al registro
varia ovviamente anche l’utilizzo delle parole utilizzate. Attraverso delle
coppie ne faremo degli esempi: regalare/donare; tirare fuori/estrarre, etc;
2. sottocodici: dipendono dall’argomento che si sta affrontando. Se sto
discutendo di argomenti medici utilizzerò termini come “stetoscopio”,
“laparoscopia”, “gastrite”, etc., e così variano di argomento in argomento;
● varietà diamesiche:
1. dipendono sempre dal contesto ma si dividono in base al canale e al mezzo
di comunicazione.
2. il primo è quello scritto-grafico, che è più formale, utilizzato per documenti,
articoli, testi ufficiali, etc.;
3. il secondo è quello parlato-uditivo, che è più informale e colloquiale nelle sue
sfumature (ad es. “ehi molla ‘sta borsa!” è tipicamente parlato, più che esser
scritto);
4. ciò non toglie che con lo sviluppo di nuove tecnologie( SMS, social network,
etc.), questi due mezzi si stanno sovrapponendo man mano l’uno all’altro.