Sei sulla pagina 1di 27

lOMoARcPSD|25115661

Linguistica

Linguistica Generale (Università degli Studi di Salerno)

Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)
lOMoARcPSD|25115661

CAPITOLO 1

La linguistica è quel ramo delle scienze umane che si occupa dello studio della lingua. In
particolar modo, lo studio si divide in: linguistica generale, che si occupa delle
sfaccettature che interessano la struttura della lingua, e la linguistica storica, che invece
ne analizza l’evoluzione. La linguistica tiene conto principalmente delle lingue storico
naturali, ossia, quelle lingue che nascono durante l’evoluzione della storia e che vengono
parlate ora o nel passato dagli uomini. Tutte le lingue storico naturali sono specchio del
linguaggio verbale umano.Nel linguaggio verbale umano, inoltre, non si pone la differenza
fra lingua e dialetto, entrambe sono considerate sullo stesso piano perchè permettono ad
una comunità di comunicare. La loro differenza sta principalmente in una concezione
storico-sociale che vede il dialetto una forma verbale meno prestigiosa. Per discutere di
lingua è necessario anticipare la nozione di segno. Il segno non è altro che quell’elemento
che all’interno di un contesto si usa per indicare qualcos’altro (è il qualcosa che comunica
qualcos’altro). Cosa significa comunicare? Si può considerare una spiegazione molto larga
del termine, quindi come un mero passaggio di informazione, oppure, si può considerare
una spiegazione più ristretta che vede la comunicazione come frutto dell’intenzionalità,
ossia, la volontà da parte dell’emittente di passare una determinata informazione. Possiamo
definire tre categorie di comunicazione:
● in senso stretto= quando l’emittente e il ricevente sono intenzionali;
● passaggio di informazione= quando l’emittente non è intenzionale ma il ricevente sì;
● formulazione di inferenze= non vi è un emittente, ma c’è un ricevente che interpreta
l’informazione data;
Dal primo tipo all’ultimo, sia l’intenzionalità che il messaggio che si vuole mandare diventano
sempre più deboli e vaghi, fino a doversi appoggiare ad una interpretazione senza alcun
presupposto specifico.
Oltre ai vari tipi di comunicazione, esistono vari tipi di segni:
● indice= naturale, non intenzionale (es. starnuto);
● codice= naturale, intenzionale (es.sbadiglio);
● icona= non naturale, intenzionale (es. icone del computer), collegate tramite la
somiglianza;
● simboli= motivati culturalmente,intenzionali (es. nero per i funerali);
● segni in senso stretto= non motivati, posti su convenzione ed intenzionali (es.
messaggi linguistici, suono della linea occupata).
In questo caso, a legare il segno al suo significato vero e proprio ( il qualcosa al
qualcos’altro), c’è la motivazione, che nella successione dei vari casi va ad indebolirsi
sempre di più. L’insieme delle corrispondenze fra “qualcosa” e “qualcos’altro” è detto
codice, che ci permette di interpretare anche i segni. Tutti i sistemi linguistici sono di codici.
Che caratteristiche hanno i codici?
● Arbitrarietà= consiste nell’assenza di una motivazione naturale fra l’essenza di
una cosa e il segno attribuitogli. In particolar modo, si considerino il significante e il
significato di questo segno. Il significante “Gatto” non ha una connessione logica con
l’animale, ma ciò non vuol dire che non siano minimamente legati fra loro. In effetti, il
legame si viene a formare con l’associazione convenzionale fra questi due
elementi. Se non ci fosse l’arbitrarietà tutte le lingue del mondo, bene o male, si
assomiglierebbero tutte, ma non è così, anzi. Ci saranno molti studiosi linguisti che
approfondiranno questo tema, fra cui Soussuire, e Hjelmslev che progetta il
cosiddetto triangolo semiotico e , soprattutto, distribuisce il concetto di arbitrarietà

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

su quattro livelli diversi, che tengono conto di quattro rapporti diversi:


1. rapporto fra segno e referente: è arbitrario il rapporto fra il segno e il suo
corrispondente nella realtà esterna;
2. rapporto fra significante e significato: è arbitrario il rapporto fra il
significante e il significato (es. gatto non corrisponde secondo alcun principio
all’animale);
3. rapporto tra forma e sostanza del significato: è arbitrario il rapporto fra
forma e sostanza del significato. La lingua ritaglia il significato in un numero di
unità e di entità che più le fa comodo (es. bosco/legno/legna);
4. rapporto tra forma e sostanza del significante: come nel caso precedente,
ogni lingua si ritaglia un proprio modo per la scelta dei suoni pertinenti, che
distinguono delle unità da altre.
Esistono delle eccezioni all’interno dell’arbitrarietà. Sono ad esempio le onomatopee (che
richiamano un determinato suono tramite il loro significante, come ad es. sussurro
rimbombare, etc.), oppure gli ideofoni (che invece sono parole che designano espressioni
imitative o descrittive di fenomeni naturali o azioni, come ad es. boom, zac, gluglu, etc.).
Bisogna prendere in considerazione che una base motivazionale l’hanno anche il principio
di iconismo (che vede la formazione del plurale indicata dall’aggiunta di più materiale fonico
all’interno della base del singolare, es. child/children in inglese), o anche il fonosimbolismo
(molti suoni di natura vengono associati a determinati significati, ad es. la “i” viene associata
molto spesso a qualcosa di piccolo, come ad es. “piccino”, “minimo”,”little”, etc.);
● Biplanarità= i segni sono costituiti da due piani: il significante, che è quello
fisicamente percepibile ai sensi, e il significato che costituisce invece il concetto
astratto che si ricollega al significante. Si può dire, dunque, che un codice è l’insieme
delle corrispondenze fra questi due elementi;
● Doppia articolazione= il significante di un segno è articolato su due livelli. Quello di
prima articolazione che è scomponibile in unità, dette morfemi, ancora non private
del loro significato (es. gatt-o). Quello di seconda articolazione, invece, divide il
significante in unità ancor più piccole, dette fonemi che però non portano con loro
alcun significato(es. n/o/n/n/a).Il sistema di doppia articolazione è un’esclusiva del
linguaggio verbale umano. Mette in luce un sistema, quello linguistico, fondato
sull’economicità, quindi fondato su un numero limitato di elementi, che
combinandosi possono formare un numero illimitato di unità dotate di significato. Di
conseguenza, si può parlare anche di combinatorietà.
● Trasponibilità del mezzo= il significante può esser realizzato tramite due tipologie di
mezzo: quello fonico-acustico, e quello grafico-visivo. Il canale fonico-acustico,
apparte per svariate ragioni come quello più importante. Il parlato, in effetti, ha una
priorità ben distinta rispetto allo scritto. Ha una priorità antropologica, in quanto
non tutte le lingue hanno una forma scritta, ma tutte sono parlate, una ontogenetica,
in quanto tutti imparano prima a parlare e poi a scrivere, una filogenetica, in quanto
gli uomini impareranno prima a parlare e poi dopo molti anni a scrivere, anche al
livello storico. Nel parlato ci sono anche numerosi vantaggi funzionali rispetto allo
scritto: finché vi è presenza di aria, in qualunque circostanza, si può comunicare; si
può accompagnare ad altre azioni;la ricezione del messaggio avviene subito dopo la
sua emissione; avviene con più rapidità rispetto allo scritto; un messaggio può
essere trasmesso anche ad un gruppo di interlocutori; lascia libero il canale anche ad
altri messaggi;non c’è bisogno di un’elevata energia per poter parlare. Nella società
moderna tuttavia, anche lo scritto impiega un ruolo importante. In effetti, si utilizza

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

per tramandare la tradizione letteraria, per l’imposizione delle leggi e quindi per le
principali funzioni istituzionali,etc.;
● Linearità e discretezza= sono due aspetti fondamentali della lingua. In primis, la
linearità consiste nell’inserimento nell’ordine corretto dei costituenti del messaggio
per consolidarne il senso (es. dire Gianni chiama Maria e Maria chiama Gianni sono
due cose fondamentalmente diverse). Oltre all’ordine del messaggio, è importante
anche considerare la discretezza dei suoi costituenti, ossia, la differenza fra le unità
della lingua. Dire “pollo” e dire “bollo”, ad esempio, sono due cose distinte, per
quanto simili, e devono rimanere tali. Anche l’intensità con cui andiamo a
sottolineare un significante, non varia il suo senso. A prescindere da queste forme, il
messaggio che si vuole inviare rimane assoluto;
● Onnipotenza semantica, plurifunzionalità e riflessività= con onnipotenza semantica
si intende la capacità che ha il linguaggio di riuscire a trattare di qualsiasi cosa,
qualsiasi contenuto. In ciò rientra ulteriormente la caratteristica della
plurifunzionalità, ossia, il fatto che la lingua adempie a funzioni diverse fra cui:
espressione di pensiero, di informazioni, rapporti sociali, di sentimenti, risolvimento di
problemi, etc. Inoltre, lo studioso Jakobson, ne identifica altre sei: funzione emotiva
dell’emittente, funzione metalinguistica del codice, funzione referenziale del
referente, funzione conativa del ricevente, funzione fatica del canale, funzione
poetica del messaggio. In questo scenario, si inserisce anche un’ulteriore
caratteristica,che è quella della riflessività, ossia, la capacità della lingua di parlare
di sè stessa.
● Produttività e ricorsività= con produttività si va a sottolineare il fatto che la lingua
costituisce costantemente nuove parole, messaggi oppure associare informazioni già
esistenti a un qualcosa di nuovo. Ciò è reso possibile, come abbiamo già visto,
tramite la doppia articolazione. Il processo di creazione di nuovi elementi avviene
tramite la ricorsività, ossia, l’applicazione dello stesso procedimento per un numero
teoricamente illimitato di volte (es. atto>attuazione>attuale>attualizzabile);
● Distanziamento e libertà da stimoli= il messaggio rivolto al ricevente può trattare
eventualmente di eventi o elementi che si muovono su una linea temporale
piuttosto ampia. Si può parlare di qualcosa avvenuto nel presente, nel passato o
che avverrà nel futuro. Ciò però non significa che il parlante sia forzatamente
costretto a reagire da determinati stimoli esterni per esprimere un messaggio, anzi.
Esiste la libertà da stimoli proprio per questa ragione. Possiamo comunicare
qualcosa anche senza dipendere da un'evenienza esterna. Ciò ci distingue
nettamente dagli animali.
● Trasmissibilità culturale= attraverso la trasmissione di generazione in generazione
della lingua, siamo capaci effettivamente di apprenderla e di trasmetterla a nostra
volta successivamente. Non è soltanto la storia a permetterci di creare la lingua, ma
in essa vi è una parte innata, propria dell’uomo,detta “facoltà di linguaggio”, e
una componente ambientale-culturale. L’interazione fra queste due componenti,
mette in atto il processo di apprendimento della lingua che parte dall’infanzia,
procede verso la prepubertà linguistica e continua fino all’età di 11-12 anni di vita;
● Complessità sintattica= la lingua è costruita anche su delle precise strutture
gerarchiche, regolate dalla sintassi. Fra questi elementi vi sono: l’ordine dei
costituenti, le dipendenze fra questi, le incassature, la ricorsività, la possibile
discontinuità che c’è fra i vari elementi del messaggio;
● L’equivocità= la lingua costituisce un codice molto equivoco, principalmente

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

perchè ci sono corrispondenze plurivoche a determinate elementi, per non parlare


delle corrispondenze plurivoche riguardanti significati e significanti.
La lingua è solo una facoltà umana? Da un punto di vista fisico, sì. L’uomo in effetti ha le pre
condizioni adatte per permettere questa tipologia di fenomeno a livello esattamente
anatomico e neurofisiologico. Infatti, l’uomo ha la massa cerebrale di volume necessario
per permettere il giusto funzionamento dei neuroni che servono a questo processo e ha
anche a disposizione un canale fonatorio detto “a due canne”( il cavo orale e la laringe).
L’uomo ha la predisposizione cognitiva a memorizzare determinati elementi e
successivamente, tramite l’evoluzione, ad utilizzarli come mezzo di comunicazione. Si sono
svolte molte ricerche anche nel mondo animale, analizzando i vari modi in cui questi
comunicano. Abbiamo la danza delle api, oppure l’emissione di feromoni, i richiami degli
uccelli. Sono stati fatti anche molti esperimenti per tentare di inculcare il linguaggio verbale
umano all’interno di una comunità animale. Il tentativo è stato da subito scartato, poichè era
impossibile far memorizzare così tanti suoni ad un animale. Si è però tentato di avere un
approccio principalmente mimetico in modo tale che gli animali, maggiormente
scimpanzè e gorilla, potessero imparare ad associare un elemento ad un altro. Anche questi
tentativi non sono riusciti propriamente. Dopo anni di addestramento, nessuno degli
animali comunicava per propria necessità, ma semplicemente per ricevere una
ricompensa. Dunque, in conclusione, sì, quella del linguaggio, come sosteneva anche
Chomsky, è una capacità per lo più innata ed esclusiva dell’uomo. Inoltre, la neuro-
linguistica sperimentale, ha dimostrato che ci sono delle aree del cervello predisposte
esclusivamente alla comunicazione e che interessano principalmente la terza
circonvoluzione del lobo frontale dell’emisfero sinistro, nota anche come “area di Brac”.
Altri principi da tenere bene a mente sono:
● diacronia e sincronia= sono due modi di guardare la lingua dal punto di vista
temporale. Se si vuole analizzare la lingua in modo diacronico, allora descriveremo
la sua evoluzione sull’asse temporale, mentre se vogliamo farlo dal punto di vista
sincronico, potremmo dire che si recide un taglio sull’asse temporale e si prende in
considerazione la lingua in un preciso momento storico. Se volessi fare l’etimologia
di una parola, ad esempio, si tratterebbe di uno studio diacronico, mentre se volessi
stimare il significato delle parole di oggi in un determinato contesto allora dovrei fare
uno studio sincronico. Entrambe queste forme sono molto significative per l’analisi
linguistica. La diacronia ci permette di scoprire la storia dietro una parola, mentre la
sincronia ci permette di attualizzarla ad un determinato contesto. Inoltre, la sincronia
si applica anche all’ambito educativo, in quanto il bambino che impara si focalizza
sulla lingua presente, non interessandosi della trafila che l’ha portata lì.
● langue e parole= con questa coppia si presenta l’opposizione fra l’astrattezza e la
concretezza del sistema linguistico. Oltre a langue e parole, altri linguisti hanno
associato questa opposizione ad altre terminologie, come ad esempio, il sistema e
l’uso di Hjelmslev o la competenza e l’esecuzione di Chomsky. In tutti questi tre casi,
la prima parola è quella che desume una capacità naturale di saper produrre un
messaggio tramite delle conoscenze per lo più mentali e astratte. Mentre i
secondi termini, si riferiscono all’uso concreto di queste conoscenze per la
composizione di un messaggio verbale in una lingua. Cosieur, noto linguista,
pone inoltre, fra langue e parole, un terzo elemento: la norma. La norma fa da filtro a
questi due elementi, mostrando le possibilità che si faccia uso di determinati elementi
da una comunità in uno specifico momento storico. Per esempio, nella lingua italiana,
molte parole nascono dai verbi con l’appoggio di due determinati suffissi: -ament e

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

-azion. Nella maggior parte dei casi però vi è “fare affidamento”, ma non
“affidazione”, o “cambiamento “ ma non “cambiazione”, e così via. La norma, si basa
quindi principalmente sulla volontà comune, e non è detto che tutte le possibilità
linguistiche possano avvenire nel concreto;
● asse paradigmatico e sintagmatico= nel momento in cui dobbiamo creare un
linguaggio, dobbiamo selezionare gli svariati elementi che devono comporlo,
riprendendoli dall’asse paradigmatico, dove vi sono tutti gli elementi combinatori
che posso utilizzare per formare il mio messaggio e fra cui dovrò scegliere. Nel
momento in cui io avrò selezionato questi elementi, questi vengono proiettati
sull’asse sintagmatico che ne formula la coerenza e l’ordine. L’asse paradigmatico
riguarda quindi le relazioni al livello del sistema, mentre quello sintagmatico al
livello delle strutture che realizzano il sistema.Il primo fornisce il serbatoio dove
poter attingere le singole unità linguistiche, mentre il secondo fa sì che queste
rispettino le regole della lingua.

CAPITOLO 2

Abbiamo capito che una delle basi del sistema linguistico, il significante, si manifesta
principalmente tramite il canale fonico-acustico. E’ dunque nostro compito spiegare
come i suoni che noi produciamo e sentiamo vengono prodotti. Di questo si occupa la
fonetica, che studia i suoni alla base del linguaggio e il loro modo di articolazione e la loro
produzione fisica. Ci sono tre tipi di fonetica: articolatoria, che studia il modo in cui i suoi
vengono articolati, acustica, che studia i suoni in base alla loro consistenza fisica e alla loro
modalità di trasmissione, uditiva, che studia i suoni in base al modo in cui vengono ricevuti.
In particolar modo ci soffermeremo sulla fonetica articolatoria. Per poter parlare
dell’articolazione dei suoni è necessario fare un piccolo abbozzo anatomico rispetto al
nostro apparato fonatorio.I suoni vengono prodotti normalmente tramite l’espirazione
dell’aria dai polmoni, si attua quindi un processo egressivo: l’aria muovendosi dai polmoni
passa attraverso i bronchi e la trachea, raggiungendo la laringe, dove inizia il “tratto
vocale”, e l’aria raggiunge le corde vocali, inserite all’interno della glottide. Le corde vocali
durante la fonazione sono in tensione e contratte e all’interno delle “rime vocali” (lo
spazio fra le corde) può risultare completamente ostruito o parzialmente libero. Le corde
vocali si muovono in cicli rapidissimi in costante alternanza con la chiusura e apertura
delle rime vocali. Questo processo che si ripete in ripetizione è detto “meccanismo
laringeo”. In questo senso si crea una frequenza detta “frequenza fondamentale”. Dalla
laringe, l’aria passa alla faringe e poi successivamente nella cavità orale, nella quale sono
presenti gli organi mobili o fissi (lingua, denti, labbra etc.), abbiamo la parte superiore della
faringe che corrisponde al palato che poi si dilunga nel “velo del palato”, che si prolunga
nella ugola. Retrostante i denti ci sono gli alveoli. Anche la cavità nasale può partecipare a
questo processo. Un modo di classificare i vari suoni è rispetto al luogo in cui il suono
viene articolato, in base al modo di articolazione e la mobilità dei singoli organi e come
essi partecipano al processo di produzione. In questo senso possiamo costituire una prima
suddivisione di suoni, quelli prodotti senza l’ostacolo che si interpone al flusso di aria,
dunque parliamo delle vocali, e di quei suoni il cui flusso d’aria è interrotto, ossia, le
consonanti. In merito a ciò, un suono può ulteriormente essere definito sordo, se non le
corde vocali non vibrano, cosa che invece accade per i suoni sonori. Le vocali sono tutte
sonore, mentre le consonanti sono sia sorde che sonore.
Partiamo dalle consonanti:

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

● occlusive=c’è una chiusura totale del passaggio dell’aria;


● fricative= il passaggio è parzialmente bloccato e ciò causa frizione fra i vari organi
articolatori;
● approssimanti=bisogna distinguere questo tipo di consonanti dalle fricative, in quanto
in questo caso gli organi articolatori non riescono a compiere la frizione;
● affricate= presentano una frase occlusiva ed una fricativa fuse insieme;
● laterali= la lingua si interpone al flusso di aria che è costretta a passare lateralmente
rispetto alla cavità orale;
● vibranti= c’è un contatto veloce fra la lingua e un altro organo fonatorio;
● nasali= c’è un passaggio di aria anche attraverso la cavità nasale;
Due parametri importanti da tenere in considerazione sono sicuramente la “forza” con cui
vengono prodotte queste consonanti, quindi la tensione muscolare che si impiega per
articolarle, e l’ “aspirazione”, ossia la durata di rilascio e il trattenimento dell’aria all’interno
dell’apparato fonatorio.
Oltre al modo di articolazione è importante anche il luogo di articolazione:
● bilabiali= prodotto con il contatto fra le due labbra;
● labiodentali= con il contatto fra il labbro inferiore e l’arcata dentale superiore;
● dentali= prodotte esclusivamente a livello dei denti;
● alveolari= prodotte con il contatto con gli alveoli;
● palatali= suono costituito al livello del palato;
● velari= la lingua si scontra con il velo del palato;
● uvulari= prodotti al livello dell’ugola con la lingua;
● faringali= prodotti nella parte posteriore della faringe, alla radice della lingua;
● glottidali= prodotti direttamente dalla glottide.
Da citare poi sono le consonanti retroflesse che vengono articolate flettendo all’indietro la
lingua come nella pronuncia di “tre” o alla pronuncia siciliana di “madre” o “beddu”.
Passiamo ora alle vocali, che possono essere catalogate in base alla loro posizione rispetto
alla lingua:
● anteriori;
● centrali;
● posteriori;
In base all’altezza che assume la lingua:
● alte;
● medio alte;
● medio basse;
● basse;
In base all’arrotondamento o meno delle labbra.
In questo caso a rappresentare i seguenti valori c’è il cosiddetto trapezio vocalico. Inoltre,
esistono anche le vocali nasali, prodotte con il passaggio dell’aria all’interno della cavità
nasale. Nell’intermezzo fra la produzione di una vocale e di una consonante, ci sono le
approssimanti, dette semivocali o semiconsonanti. Comunque, in ogni caso bisognerebbe
distinguere le semivocali e le semiconsonanti, in quanto queste ultime sono più marcate
rispetto alle seconde e possono essere apice di sillaba, cosa che per le semivocali non
accade. Le semivocali, inoltre, possono costituire dittongo o trittongo.
Ora che abbiamo analizzato i suoni, sappiamo che la maggior parte di questi possono
essere potenzialmente utilizzati nella lingua parlata. In questo caso, non si parla più di
suoni ma di foni, ossia la realizzazione concreta di un suono realizzato in una certa
circostanza da un parlante. Nella gamma di foni producibili, una determinata lingua può

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

pertinentizzarne alcuni attribuendogli valore distintivo. Nel momento in cui succede ciò si
parla di fonemi. Ad interessarsi dei fonemi è la fonologia che studia l’organizzazione e il
cambiamento dei suoni nel sistema linguistico. Ad esempio la parola /’mare/ è formata da
quattro fonemi /m/a/r/e/.A differenza della trascrizione fonetica che riproduce nel minimo
dettaglio la pronuncia di un determinato suono, la trascrizione fonematica riproduce solo
le caratteristiche essenziali della realizzazione fonica. Inoltre, i vari fonemi sono
riconosciuti per opposizione tramite il processo di scoperta e di confronto della prova di
commutazione (/’mare/, /’pare/, /’kare/, etc.). Riassumendo, il fonema è l’unità di seconda
articolazione del sistema linguistico a cui è definito un preciso valore distintivo tale da
apporre una parola di una lingua all’altra. Foni che realizzano diversamente un fonema
sono detti allofoni (es. /’mare/ e /’maere/). Nel momento in cui tra una parola ed un’altra c’è
un solo fono a distinguerle, si parla di coppia minima (es. /’mare/ e /’pare/). Per dimostrare
che un fono è un fonema in una data lingua bisogna trovare delle coppie minime che lo
oppongono ad un altro fonema.
I fonemi sono la più piccola unità linguistica che abbiamo incontrato fino a questo momento.
Non possono essere scomposti in elementi ancor più piccoli, ma possono essere
catalogati in base alle loro caratteristiche (es. /t/ è una occlusiva dentale sorda). Ogni
fonema, infatti, è formato da un vero e proprio fascio di proprietà articolatorie, che possono
essere indicati da un “+” o un “-”. Queste proprietà sono dette tratti distintivi:
● sillabico: fonemi che possono costituire nucleo di sillaba;
● consonantico: fonemi prodotti con un blocco dell’aria durante il suo flusso con
vibrazione delle corde vocali; (p, b, f,v,m,n,t,d,ts,dz,s,z,k,g,tsh,dg,sh,gn,l, gl,r);
● sonorante: passaggio dell’aria libero con vibrazione delle corde vocali(m,n,gn,l,gl,r,
j,w);
● sonoro: fonemi prodotti solo con la vibrazione delle corde vocali (i sonoranti, insieme
a b,v,d,dz,z,g,dg);
● continuo: il fonema può essere protratto nel tempo finchè c’è aria nella cavità
orale(f,v,s,z,dg,l,gl,j,w)
● nasale: il flusso d’aria procede nella cavità nasale con un abbassamento del velo del
palato(m,n,gn);
● rilascio rit: fonemi realizzati in un primo momento tramite un il trattenimento dell’aria
nella cavità orale e poi successivamente il suo rilascio(ts,dz,tsh,dg);
● laterale: fonemi prodotti dal passaggio laterale dell’aria all’interno della cavità orale
(l,gl);
● arretrato: fonemi realizzati tramite l’arretramento della lingua rispetto alla sua
posizione neutra (k,g,w);
● anteriore: fonemi prodotti nella zona alveolare o in un luogo anteriore a
questa(p,b,f,v,tsh,dg,ts,dz,s,z,sh,n,l,r);
● coronale: fonemi prodotti con la parte anteriore della lingua sollevata rispetto all
posizione neutra (t,d,ts,dz,s,z,tsh,dg,sh,n,l,j)
● vocali arrotondate: con le labbra procheile (o, o aperta, u);
● vocali alte: prodotte con la parte anteriore della lingua sollevata ( i,u);
● vocali basse: prodotte con la parte anteriore della lingua abbassata (e aperta, a, o
aperta);
In ogni lingua il numero di fonemi varia. In italiano abbiamo in tutto 30 fonemi, 28, se non
consideriamo quelli approssimanti. Ne contiamo 45 se consideriamo le consonanti lunghe,
in quanto andremo ad aggiungere per 15 tipi di fonemi le rispettive forme allungate. In ogni
regione italiana, ovviamente, ci sono le proprie distinzioni alla base della pronuncia,

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

soprattutto fra le coppie /s/-/z/,/w/-/u/,/ts/-/dz/ e /j/-/i/. Queste variazioni, dipendono dalle


cadenze dialettali che non rientrano talvolta nell’italiano standard. Ci sono ulteriormente per
le vocali delle differenze di apertura. Un altro fenomeno da considerare è quello del
raddoppiamento. In molte circostanze, la consonante di una parola si allunga se preceduta
da determinate parole che ne permettono il fenomeno (es. dove vai? a r’ro:ma).
Le combinazioni minime di fonemi, creano la sillaba che altro non è se un “mattoncino”
della lingua parlata. In italiano la maggior parte delle sillabe è costituita da una vocale, che
funge da nucleo, attorno alla quale si aggregano le consonanti.Vi sono però determinate
combinazioni che una sillaba può assumere, rispetto alla posizione delle consonanti e delle
vocali: CV (es. ma-no), V( a-pe),VC (al-to), CCV (sco-pa), CVC (can-to), CCCV (stra-no). I
costituenti della sillaba sono: l’attacco, che precede la vocale, detta nucleo, che è
eventualmente succeduta da una coda, dunque, un ulteriore consonante. L’insieme del
nucleo e della coda è detta rima. La rima determina il “peso” della sillaba. Se una sillaba
possiede la rima allora è pesante, se è il contrario allora è leggera. Un’altra interessante
combinazione è quella che si ritrova nei dittonghi (es. auto), formati da una vocale e una
approssimante (se l’appros. precede la vocale abbiamo un dittongo ascendente, se è il
contrario abbiamo un dittongo discendente). Oppure quella del trittongo, formato da due
approssimanti e una vocale (aiuola).
Una catena di sillabe è regolata da una serie di fenomeni soprasegmentali detti “fatti
prosodici”, che concernono più nello specifico elementi melodici e ritmici della
composizione della parola e delle sillabe.
Partiamo dall’accento. L’accento rappresenta la forza e l’intensità che presentano
determinate sillabe (toniche) piuttosto che altre(atone). L’accento, inteso come tratto
prosodico, non deve esser confuso con quello grafico, che viene aggiunto principalmente
sulle parole tronche e che non ha la stessa valenza. L’accento all’interno delle varie lingue
può presentarsi come fisso o libero, a seconda della posizione che assume. Ad esempio, in
francese, l’accento cade sempre sull’ultima sillaba della parola e quindi è fisso. Al contrario,
in italiano, l’accento cambia la sua posizione in modo libero. In base a dove cade l’accento
abbiamo vari tipi di parole:
● tronche: l’accento cade sull’ultima sillaba (città);
● piane: cade sulla penultima sillaba;
● sdrucciola: se cade sulla terzultima;
● bisdrucciola: cade sulla quartultima.
Abbiamo anche casi di parole trisdrucciole, ma solo quando siamo in presenza di parole
composte da pronomi ciclici, come ad es. fabbricamelo. Importante è anche considerare la
durata delle sillabe. In molte lingue, la durata delle sillabe è uguale, come in inglese, al
contrario, in italiano si parla di isocronismo sillabico, ossia che le sillabe su cui cade
l’accento hanno una durata più lunga rispetto alle altre.
Un altro importante tratto prosodico è il tono che si interessa principalmente della variazione
di frequenza della pronuncia delle sillabe. Ci sono molte lingue che distinguono le parole le
une dalle altre, esclusivamente attraverso il tono che si va a dare alle varie sillabe. Queste
sono dette “lingue tonali”, come ad esempio il cinese mandarino. Un altro fattore associato
al tono, è l’intonazione, che altro non è che una sequenza di vari toni di un gruppo tonico
all’interno di un enunciato. In molti casi è proprio l’intonazione a fornirci una prima
informazione riguardo ciò che si sta dicendo. Infatti l’intonazione assume determinati valori:
quello interrogativo, che ha una curva tonica più alta, dichiarativo, che presenta una
traiettoria costante, e uno esclamativo in cui la curva tonica cede verso il basso.
Infine abbiamo la lunghezza. Con lunghezza intendiamo la più o meno brevità o estensione

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

di un fono o di una sillaba all’interno di una catena di elementi. Il concetto di lunghezza è


molto relativo e non si può effettivamente constatare con certezza o creare dei fenomeni
specifici di riferimento.

CAPITOLO 3

La morfologia si occupa dello studio delle parole e della loro struttura in base alle unità di
prima articolazione. Definire la parola non è un qualcosa di semplice da fare. Se volessimo
dare una definizione alla parola che in qualche modo rispecchi il nostro corso di studi allora
dovremmo appellarla come un insieme di morfemi su base lessicale che va a definire
autonomamente un segno linguistico separabile dagli altri se inserita all’interno di un
messaggio . Esistono poi vari criteri per categorizzare e distinguere una parola:
1. i morfemi presentano un ordine rigido e non modificabile (es. io ho gatt-o, ma non
o-gatt);
2. vi sono i cosiddetti confini di parola, quindi quelle pause che intercorrono fra una
parola e l’altra in un discorso;
3. vi è una separabilità anche nello scritto;
4. foneticamente, la pronuncia di una parola non è interrotta ma presenta degli accenti
primari.
Se proviamo a scomporre le parole in pezzi più piccoli, di prima articolazione, otterremo dei
morfemi(es. “dentale”> dent- “organo della masticazione”, al-”relativo a”, e- “uno solo”). La
parola dentale come abbiamo visto è formata da tre morfemi che però possono essere
ritrovati anche in altre parole come: “dente”, “stradale”, “pelle”, etc. Ciò accade perchè i vari
morfemi possono essere divisi e ricombinati con altri per formare delle nuove parole. Un
procedimento che si attua per scomporre una parola in morfemi è la prova di
commutazione, ossia, confrontare una parola con altre simili per identificare poi
singolarmente i morfemi d’interesse. Dunque, riassumendo, il morfema è un’unità di prima
articolazione, la più piccola unità della parola, che è portatrice di significato. Un sinonimo di
morfema è monema, con cui si designano in generale tutte le unità di prima articolazione.
Questo è suddivisibile in due classi: semantemi, quando sono elementi lessicali, morfemi
quando sono elementi grammaticali. Questa divisione però genera molti equivoci. Un’altra
distinzione da fare è quella fra morfema, morfo e allomorfo (come ritroviamo anche per il
fono, fonema e allofono). Il morfo non è altro che la realizzazione nella forma del
morfema, è la sua forma astratta che poi si concretizza nel morfema (es. io non dirò mai “il
morfema del singolare è e-”, ma “il morfema del singolare si realizza tramite il morfo e-”).
L’allomorfo, invece, è una variante di un determinato morfema e rappresenta tutte le
forme in cui un morfema potrebbe presentarsi e che possiamo riconoscere poiché non
mutano il significato della parola in cui vengono inseriti (es. il verbo “venire” possiamo
ritrovarlo sotto diverse forme come “vengo”, “verrò”, “venni”,”vieni”, etc., quindi il morfema
ven- (che è quello basilare del verbo venire) presenta quattro allomorfi). La causa dei
fenomeni di allomorfia è da ritrovare nello scorrere del tempo in senso diacronico e
nell’evoluzione della lingua dal latino all’italiano. Per parlare però di allomorfia, abbiamo
sempre bisogno di una somiglianza fonetica tra i morfi che realizzano quel morfema. Ciò
vale sia se analizziamo una parola rispetto alla sua evoluzione diacronica, che sincronica.
Non è da escludere che un morfema possa venir sostituito da uno completamente diverso
che però conserva il suo significato originale (es. “acqua”>”idrico”;
“cavallo”>”equino”;”fegato>”epatico”). Questo fenomeno è detto suppletivismo.
La combinazione dei morfemi in parole è un processo molto complesso e che richiede una

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

particolare attenzione. Partendo dai morfemi stessi, possiamo decidere di analizzarli e


classificarli sotto due punti di vista differenti: funzionale, in base alla funzione svolta dal
morfema, o posizionale, in base alla sua posizione.
Partiamo dai morfemi funzionali. Una prima suddivisione che dobbiamo fare è fra morfemi
lessicali che rappresentano l’informazione concreta e sono una classe aperta (es. dent- in
“dentale”), a cui si accostano i morfemi grammaticali che si dividono in: derivazionali (che
servono a formare nuove parole tramite l’attacco con il morfema lessicale, ad es, al- in
“dentale”), e flessionali (che rappresentano le forme in cui la parola può comparire, es. e- in
“dentale”).I morfemi lessicali, rispetto ai grammaticali, sono una classe aperta, quindi
sempre in continuo rinnovamento e arricchimento. I morfemi grammaticali sono, invece,
una classe chiusa quindi non propensi a modifiche o nuove aggiunte. L’importanza dei
morfemi grammaticali è però evidente. Infatti, posso sempre intuire parte del significato della
parola tramite questi, anche se non conosco quello che è esplicitato dai morfemi lessicali.
Eppure la distinzione fra morfemi lessicali e grammaticali non è sempre chiara. Per questo,
nascono le parole funzionali, dette vuote, come articoli, pronomi, preposizioni,
congiunzioni, che formano una classe grammaticale chiusa ma che non possono essere
considerati morfemi grammaticali a pieno titolo. In questo caso subentra un ulteriore
suddivisione che potrebbe essere utile, ossia, quella tra: morfemi liberi (più o meno tutti i
lessicali), e quelli legati (circa i grammaticali), che non possono comparire in isolamento.
Questa suddivisione, però è valida per lingue come l’inglese, ma non per l’italiano, nel quale
anche i morfemi lessicali molto spesso sono morfemi legati. Due grandi processi della
morfologia sono, inoltre, la derivazione, con cui si creano parole nuove, e la flessione,
con cui si creano nuove forme di una parola già esistente.La derivazione agisce prima
della flessione: prima costruiamo la parola e poi applichiamo le flessioni. Ciò molto spesso
porta a una maggior distanza fra i morfemi flessionali e quelli derivazionali che sono posti
subito dopo la radice. Inoltre, se la derivazione non è obbligatoria, la flessione lo è.
Consideriamo ora i morfemi posizionali. La classificazione si basa sulla posizione che
assume il morfema grammaticale in base a quello lessicale o alla radice. In questo contesto,
in cui valutiamo un morfema grammaticale in base alla sua posizione, possiamo
genericamente definirlo come “affisso”, ossia, un morfema grammaticale unito ad una
radice. Esistono diversi tipi di affissi:
● prefissi: quelli prima della radice(es. in-utile);
● suffissi: posti dopo la radice (es. cambi-ament-o); Nel caso di “cambiamento” oltre al
suffisso con valore derivazionale, abbiamo anche quello con valore flessivo. In
questo caso parleremo di desinenze;
● infissi: quando sono inseriti all’interno della parola (es. cuor-ic-ino)
● circonfissi: posti prima e dopo la radice (es. in tedesco il participio passato di “dire”
ge- -sag- -t).
● transfissi: sono presenti solo in alcune lingue e consistono nella discontinuità fra
l’affisso e la radice. Un esempio è l’arabo che forma le parole da una radice
triconsonantica nel quale poi si inseriscono dei morfemi grammaticali.
Abbiamo altri tipi di morfemi:
● sostitutivi: vanno a sostituire un fono con un altro (es. foot> feet in inglese);
● morfema zero: nessuna distinzione fra due morfemi anche se c’è una chiara
variazione grammaticale ( es. sheep al SG/ sheep al PL);
● morfemi soprasegmentali: che variano principalmente per motivi quali tono e accento
(es. record “registrazione” e record “registrare”).
● reduplicazione: è un processo morfologico. In questo caso un esempio di

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

reduplicazione lo ritroviamo nell’indonesiano dove il singolare “anak” (bambino) al


plurale diventa “anak anak”;
● morfemi cumulativi: portano con loro più di un significato o valore (es. se dicessi
“buone”, non sto esprimendo solo una qualità, ma anche verso chi è diretta questa
qualità, ossia, verso un numero di elementi femminili).
● amalgama: è la fusione di due morfemi che risultano fondamentalmente indivisibili
(es. au in francese formato a “a” + “le”);
Andiamo ora a focalizzarci su i principali morfemi derivazionali, che permettono la
creazione di nuove parole rispetto alla base dove vengono applicati, modificandola e
andando a variarne il senso. Si applica attraverso i morfemi derivazionali un processo
infinito di creazione di parole, tanto da arrivare a crearne delle vere e proprie famiglie,
che hanno una radice comune. Prima di addentrarci nella spiegazione a catalogazione dei
morfemi derivazionali, bisogna avanzare un discorso su uno specifico argomento che
interessa la lingua italiana e in particolar modo i suoi verbi e forme deverbali( parole
derivate da verbi). In particolar modo, sorge il problema della vocale tematica. La vocale
tematica, presente nelle desinenze dei verbi, può essere considerata sia parte di un unico
morfema( in quanto ne specifica la coniugazione di appartenenza), sia esser ripresa come
un morfema vuoto a sé stante (es. mangi-are o mangi-a-re). Nel corso dei nostri studi
considereremo valide entrambe queste disposizioni. Procediamo ora con l’analisi dei
morfemi derivazionali:
● prefissoidi= sono morfemi che fungono che da prefissi attaccandosi ad una radice
lessicale per modificarne il significato (es. sociolinguistica). Fra i prefissi più comuni
troviamo: in-, s-, ad-, con-, a-, ri-, anti-;
● suffissoidi= si comportano come suffissi (es. socio -logia; crono -metro). Fra i suffissi
più comuni abbiamo: -zion, -ment,-ità, -os, -al, -evol, -es,-ic, -ist;
● parole composte= unire due parole per formarne una (es. asciugamano,
portacenere, lavavetro);
● unità lessicali plurisemantiche= non devono essere confuse con le parole composte.
Sono più unità fisse che non rispecchiano la somma dei significati della varie parole,
comportandosi, invece, come parole uniche (es. gatto delle nevi, che è un mezzo per
muoversi sulla neve);
● unità lessicali bimembri= sono quelle unità lessicali associate, ma non unite nello
scritto, ma solo nel contesto (es. parola chiave, ufficio concorsi).
● sigle ed acronimi= sono elementi formati dalle lettere iniziali delle parole piene che le
costituiscono (es. TG, SMS, FS, Nato, etc.);
● parole macedonia= parole che essendo nella loro composizione troppo lunghe
vengono associate e fuse per accorciarle (es. apericena, cantautore, etc.);
● suffissi alterativi= si vanno a creare parole con valore valutativo (es. stradone,
stradaccia, ragazzaccio, gattino,etc.);
● conversione= è un processo che tenta di capire l’origine di una coppia parola che
non possiede alcun suffisso ma che ha la stessa radice. Nel caso in cui la coppia in
questione fosse un nome è un verbo, molto probabilmente la radice in questione
deriva dal verbo in quanto il nome designa l’atto indicato dal verbo (se non esiste il
verbo non esiste il nome, per intenderci, ad es. lavorare>lavoro, fiorire>fiore, etc,).
Nel caso in cui la coppia fosse composta da un aggettivo e un verbo, allora la base
molto probabilmente sarà l’aggettivo, in quanto il verbo ne va ad esprimere l’azione
di assumere quella determinata qualità.
Ora procediamo verso l’analisi dei morfemi flessionali. I morfemi flessionali, sono quelli

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

che danno forma alla parola, non modificandone la radice lessicale e che si accostano solo
alle parti variabili del discorso che accettano di accogliere la flessione e che quindi
assumono un determinato valore grammaticale, che la flessione va modificare e a esplicitare
tramite delle apposite categorie grammaticali, ossia, vengono marcati da essa. Abbiamo
delle categorie grammaticali che interessano principalmente il nome ed altre che si
occupano del verbo. Incominciamo dal nome:
● il genere= associare alla parola un genere che sia femminile, maschile oppure, per
alcune lingue, il neutro (come in latino o anche in inglese);
● il numero= oltre al genere si deve associare anche il numero che può essere
singolare, plurale( ci sono parole esclusivamente plurali dette pluralia tantum). In
altre lingue esiste anche il duale o anche il triale.
● il caso= in alcune lingue il caso è quell’elemento che specifica la funzione sintattica
della parola.E’ ancora presente in tedesco, in russo e greco. In italiano sono rimasti
alcuni strascichi ma niente di relativamente concreto. In base alla lingua che si
prende in considerazione, il numero dei casi può variare;
● reggenze= descrive il modo in cui un verbo assegna il caso al complemento che
viene da lui retto(es. il verbo utor in latino regge un complemento in ablativo). Ciò
vale anche per determinate preposizioni che si accomunano solo con determinati
casi (es. cum+ablativo);
● i gradi dell’aggettivo= possono essere comparativo o superlativo. Per il superlativo,
l’italiano affida la flessione a -issim (es. bellissimo). Mentre per altre lingue ci sono
suffissi precisi come ad esempio l’-ior, in latino o l’-er in inglese e tedesco.
● molti altre lingue marcano con morfemi appositi la “definitezza” e il “possesso”,
come l’arabo o il turco.
Per quanto riguarda il verbo:
● il modo= la modalità con la quale il parlante esprime il contenuto, che può essere:
assertiva (es. il treno parte), dubitativa(es. il treno partirà?), epistemica(es. il treno
dovrebbe esser partito), deontica (es. il treno deve assolutamente partire),
evidenziale (es. il treno è partito l’ho visto io).
● il tempo= il momento in cui viene detto qualcosa ( presente, passato e futuro);
● aspetto= la maniera in cui viene presentata l’azione in base al processo espressivo
del verbo. C’è l’aspetto perfettivo, che rappresenta un’azione compiuta, ed
imperfettivo, un’azione che è ancora in conseguimento;
● l’azionalità= come si sviluppa temporalmente l’azione. Ci sono verbi telici, che hanno
una fine, e verbi atelici, che non presentano fine.
● diatesi=determina l’azione in base al soggetto che la compie;
● persona= è il soggetto che compie l’azione. In italiano ce ne sono tre singolari e tre
plurali;
Anche le parole possono essere riportate all’interno di specifiche categorie in base al
significato da loro espresso. Ce ne sono nove: nome, aggettivo, verbo, articolo,
preposizione, congiunzione, avverbio, interiezione e ideofoni, che però sono una classe
particolarmente dubbia, poiché esprimono molti elementi di una comunicazione non verbale.
Ci sono tre criteri per associare una parola ad una categoria:
1. criterio semantico= il significato che viene dato a quella parola;
2. criterio morfologico= la relazione che interviene fra le varie categorie morfologiche;
3. criterio sintattico=dipende dal contesto in cui la parola viene inserita.
Ovviamente, le categorie che si creano permettono l’inclusione di eccezioni. Infatti, sia i
nomi (che designano qualcosa nella realtà esterna) che i verbi (che vanno ad indicare e

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

codificare la realtà tramite predicazioni in prospettiva dinamica) in lingua cinese possono


assumere valore scambievole, nel senso che molte parole possono funzionare sia da verbi
che nomi. Molte preposizioni articolate possono fungere anche da articoli partitivi (es.
prendo del pane, sono arrivati degli studenti), esprimendo una quantità indefinita. Un’altra
importante distinzione è quella fra categorie grammaticali paradigmatiche e
sintagmatiche. Le paradigmatiche sono le categorie analizzate fino a questo momento,
ossia che considerano la parola in modo isolato, mentre quelle sintagmatiche prevedono la
parola all’interno di un messaggio e quindi intervengono in questo caso le funzioni sintattiche
(soggetto, predicato, complemento, etc.). La stessa distinzione si fa tra due tipologie di
flessioni: inerente, che considera la marcatura di una parola isolata; contestuale, che
considera la marcatura di una parola in base al suo inserimento all’interno di un messaggio
ed in base alla gerarchia sintattica degli elementi che ne fanno parte. In questo senso vige il
concetto dell’accordo, secondo il quale tutte le categorie flessionali prendono, all’interno di
un costrutto, la marcatura dell’elemento da cui dipendono (es. i gatti miagolano, una bella
torta). Abbiamo poi il concetto di concordanza che invece si applica principalmente con i
verbi e gli elementi nominali ai quali si riferiscono.

CAPITOLO 4
La sintassi è quel livello di analisi che si occupa della combinazione delle parole in frasi.
Il concetto di frase, come quello di parola, è molto complicato da descrivere, perciò
definiremo frase tutto ciò che contiene una predicazione, dunque, un’affermazione riguardo
qualcosa, una attribuzione di una qualità, proprietà, etc. Poiché solitamente il valore
affermativo della frase è dato dal verbo, si pensa che non possano esistere frasi senza di
esso, ma al contrario esistono le cosiddette frasi nominali, che esprimono comunque una
predicazione e sono allo stesso modo autosufficienti. Le parole, talvolta, si combinano in
maniera anche più complessa formando le proposizioni. Per analizzare una frase, bisogna
in primis capire gli elementi che la costituiscono e come questi si pongono all’interno di essa.
Ad un livello elementare, abbiamo l’analisi dei costituenti che va a scomporre la frase nei
suoi vari pezzi e li analizza uno per uno, applicando dei tagli fra le varie frasi che individuano
i suoi costituenti. Per applicare i tagli ci si basa sulla prova di commutazione fra una parola e
l’altra, confrontandole poi con altre frasi e procedendo in questo modo fino alla conclusione
del processo. Un altro metodo, è quello degli alberi etichettati che mette meglio in risalto la
struttura della frase con tutti i suoi elementi, attraverso una suddivisione gerarchica dei
rapporti fra questi. Da ogni albero si diramano dei nodi che rappresentano i vari livelli e
sottolivelli dell’analisi, accompagnato dall’apposito simbolo(es. SN= sintagma nominale;
SV=sintagma verbale;N=nome; etc.). Molto spesso agli articoli, può essere affiancata una
categoria detta “Determinante” (art. det.) che racchiude articoli, aggettivi dimostrativi e altri
elementi che vengono associati alla stessa categoria in base alla loro distribuzione, ossia, al
fatto che vengono inseriti sempre prima di un nome. Il criterio della distribuzione, è
fondamentale per capire come determinati elementi si accostano o possono essere trovati
vicino ad altri. Per distinguere le varie parti del discorso nel momento in cui non è possibile
preoccuparsi di ramificare, si può procedere tramite le parentesi, ad esempio: “Mio cugino
ha una macchina nuova”> ((((((mio))(cugino))(ha))(comprato))(una))(macchina))
(nuova)))))).Nel caso in cui una frase non abbia il soggetto, si deve comunque riportare
l’indicatore sintagmatico (es.”corro”> SN=Ø; SV= corro). La presenza degli indicatori
sintagmatici in ogni frase permette di sfatare anche quelle ambiguità che ricorrono spesso
all’interno di esse e che vanno a generare più significati, cambiando anche dal punto di vista
grammaticale la frase: (es.”Sono invitate tutte le ragazze e le signore con il cappellino”, che

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

pu essere interpretata in due modi).


Abbiamo visto come le frasi possano essere scomposte su vari livelli. Il più importante è
sicuramente quello dei sintagmi. Il sintagma altro non è che un gruppo di parole che si pone
come unità della struttura della frase. In ogni sintagma vi è la “testa”, ossia quella parola o
gruppo di parole che rappresenta il minimo elemento di costituzione del sintagma, senza il
quale si andrebbe a perdere la natura del sintagma stesso. Quando la testa del sintagma è
un nome allora si parla del sintagma nominale. Il nome (N) può essere sostituito anche da
una pronome (PRO).
Ai sintagmi che abbiamo analizzato fino ad ora vengono associati diversi valori, per
l’interpretazione semantica della frase. Infatti, influiscono diversi principi complessi che
interagiscono fra loro per determinare a seconda del messaggio da riportare uno specifico
ordine dei costituenti di una frase. Vi sono tre ordini di principi che vengono ricondotti al
funzionamento della sintassi:
● funzioni sintattiche= il ruolo che svolgono i vari sintagmi all’interno della frase che
in generale corrispondono ad un soggetto(è chi tradizionalmente fa l’azione), un
predicato verbale(l’azione che viene compiuta) e al complemento oggetto( chi
subisce l’azione). I complementi, in verità, sono numerosi. Nel caso dell’italiano, le
funzioni sintattiche sono marcate morfologicamente tramite la morfologia d’accordo
(es. il soggetto si riconosce poiché è ricollegato direttamente al verbo). Lo stesso
accade per i complementi che sono introdotti da specifiche preposizioni, a differenza
delle lingue con morfologia a caso che sono marcate sia dal caso stesso, che da
determinate preposizioni.
● schemi valenti= le funzioni sintattiche vengono assegnate tramite gli schemi valenti,
che ci danno un quadro minimo della strutturazione della frase. Gli schemi valenti
sono principi che associamo principalmente ai verbi. Il verbo è alla base della
struttura sintattica di una frase, è anche il primo elemento a cui pensiamo nel
momento in cui dobbiamo formarne una. E’ anche quell’elemento che ci descrive
gran parte di essa tramite le sue “valenze”. Ogni verbo, dunque, presenta un certo
schema valenziale. Un verbo può essere monovalente (quindi descrivere un
argomento come “camminare” o “piangere”), bivalente ( es. lodare, interrogare
siccome qualcuno può essere o venire interrogato o lodato) o trivalente (es. dare,
spedire). Abbiamo verbi zerovalenti come quelli meteorologici o anche tetravalenti
(con quattro valente, es. spostare, tradurre e vendere). I verbi possono costituire un
elemento nucleare della frase anche senza esprimere totalmente le sue valenze.La
prima valenza a cui il verbo si riferisce è sicuramente il soggetto. Tutti i verbi, tranne
quelli metereologici, hanno almeno un soggetto, dunque una valenza. La seconda, è
il complemento oggetto. In molti casi all’interno delle frasi ci sono elementi che non
fanno parte dello schema valente che sono i cosiddetti “circostanziali”, elementi
aggiuntivi che però forniscono informazioni comunque importanti dal punto di vista
comunicativo;
● ruoli semantici= in questo caso si tiene in considerazione come il referente di ogni
sintagma partecipa all’evento rappresentato nella frase. Dobbiamo osservare il tutto
non con occhio sintattico o grammaticale, ma come una sorta di messa in scena
dove ognuno ha il proprio ruolo da svolgere. Non ci sono delle categorie ben
specifiche, a parte per quelle che designano gli elementi fondamentali:
1. agente= colui che compie l’azione in modo attivo;
2. paziente=colui che subisce l’azione in modo passivo (es. Gianni mangia una
mela, la mela è paziente), ciò che nella grammatica viene definito tema;

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

3. sperimentatore= colui che sperimenta un determinato processo psicologico o


un sentimento (es. A Lucia piacciono i gelati);
4. beneficiario= colui che beneficia dell’azione (es. Gianni regala un libro a
Luisa),
5. strumento= un mezzo con cui viene compiuta un’azione(es. Gianni taglia la
mela col coltello);
6. destinazione= un luogo in cui si ha intenzione di dirigersi (es. Gianni partirà
per le vacanze);
7. località= specifica un’ entità in cui sono situati l’azione, lo stato e il processo
(es. Gianni si trova a Parigi);
8. provenienza= un’entità dalla quale si origina un ulteriore processo d’azione
(es. Luisa preleva dal bancomat);
9. dimensione= indica una determinata estensione nel tempo, nello spazio della
massa (es. Luisa pesa 70 kg);
Anche i verbi assumono ruoli semantici specifici come quello di processo, azione e stato.
Fra i ruoli semantici e le funzioni sintattiche vige un rapporto costante, infatti, per fare un
esempio, possiamo dire che nella maggior parte dei casi il paziente corrisponde al soggetto
della frase. In una frase passiva, però, l’agente diventa complemento d’agente, mentre il
paziente diventa soggetto (es. Paolo è picchiato da Gianna). I verbi possono essere resi
passivi solo se transitivi, mentre gli intransitivi, no. Quest’ultimi hanno la caratteristica di
essere retti dall’ausiliare essere (verbi inaccusativi) o avere(inergativi).
A questo punto possiamo fare una sorta di schema di meccanismo attraverso il quale
vengono alla superficie le frasi:
● fase a= seconda dell’evento a cui vogliamo far riferimento, a cui fare un’affermazione
o altro, scegliamo un determinato lessico che fa parte della conoscenza che abbiamo
della nostra lingua e un determinato predicato verbale con la sua valenza.
● fase b= nel momento in cui si crea lo schema valenziale che esplica la nostra idea
attraverso i vari argomenti riconosciuti lo tramutiamo in ruoli semantici;
● fase c= i ruoli semantici si proiettano sulle funzioni sintattiche.
Da questo processo si origina la frase che poi viene esplicitata. Questa è dunque una
struttura superficiale, mentre quella che consiste in a,b e c è quella profonda, astratta.
Non dobbiamo dimenticarci un altro elemento cardine che riguarda le frasi, ossia,
l’organizzazione pragmatico-informativa, che si basa principalmente su come il parlante
durante l’atto comunicativo vuole avvalorare queste predicazioni. Esistono cinque tipi di
frasi: dichiarative, interrogative, esclamative, iussative( che esprimono un ordine),
ottative (desiderio). Un’altra distinzione da fare riguarda il tema e il rema. Tema è
l’argomento di cui si parla, mentre il rema è la predicazione che viene fatta a riguardo, ciò
che si dice riguardo al tema (es. Luisa va a Milano, “Luisa” è tema, “va a Milano” è rema). A
tema/rema, si oppone un altro duo: dato e nuovo. Il dato è ciò che è noto all’interno della
frase, mentre il nuovo è l’informazione nuova che vi si aggiunge. Spesso corrispondono a
tema/rema, ma altre volte non è così. Fatto sta, che riprendono due concetti diversi rispetto
a tema/rema. Infatti, dato/nuovo, si focalizzano principalmente sull’informazione che si sta
dando se è conosciuta(dato) o meno(nuovo), mentre tema e rema si focalizzano su ciò di
cui si sta parlando. Dunque in una frase non marcata molti elementi possono rievocare
costituenti simili. Ad esempio soggetto, agente e tema possono corrispondere. Le lingue,
però talvolta possono avere delle disposizioni che possono variare l’ordine “normale” dei
costituenti, uno di questi, in italiano, è la dislocazione a sinistra, che manda l’oggetto a
tema e il soggetto a rema (es. il topo lo insegue il gatto). Funzione simile ce l’ha la

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

costruzione passiva, dove però l’agente diventa il complemento oggetto, mentre il paziente
diventa soggetto (es. il topo è inseguito dal gatto).Abbiamo anche la dislocazione a destra
che inverte tema e rema (es. lo vuole un caffè?) e la frase scissa che divide in due la frase
portando all’inizio il verbo essere e facendo poi proseguire la frase (es. è il gatto che insegue
il topo). Con la frase scissa si mette in risalto l’informazione essenziale della frase, detta
focus. Il focus solitamente corrisponde al rema.
La nostra analisi delle frasi, però, non si esaurisce a questo punto. Abbiamo un ulteriore
concetto da analizzare: la sintassi del periodo, che si interessa sulla relazione che
subentra tra frasi diverse. Una prima distinzione è quella tra frasi coordinate, che
mantengono la propria autonomia e vengono solo accostate, e quelle subordinate, che
invece sono dipendenti l’una dall’altra. In entrambi i casi, le frasi si rapportano tramite gli
elementi connettivi, che nel caso della coordinate sono congiunzioni come e, o ma, etc,
oppure tramite giustapposizioni di proposizioni (es. Gianni legge e Maria scrive), mentre le
subordinate sono realizzate con congiunzioni come che, benché, affinchè, perchè, etc. o
da modi verbali all’infinito preceduti da una preposizione (es. Gianni mi aveva detto di
andare…).Esistono vari tipologie di frasi subordinate:
● avverbiali: cambiano il senso completo della frase (es. esco, benchè piova)
● completive: che costituiscono un costituente nominale maggiore e che riempiono la
valenza del predicato verbale (es. sembra, che faccia bel tempo);
● relative: modificano solo un costituente nominale della frase e hanno sempre un
nome come testa (es. non ho più visto lo studente a cui ho dato il libro).
Un livello che si sopraeleva a quello della frase è quello del testo. Il testo è un insieme di più
frasi. Molto importante da constatare è il contesto in cui viene inserito questo testo. Con
contesto si intende la comunicazione verbale che precede o segue il contesto, oppure la
situazione specifica in cui la combinazione di frasi è prodotta. Entriamo nell’ottica della
linguistica testuale che ci presenta svariati fenomeni particolari:
● anafora= quando per individuare un elemento bisogna fare affidamento al contesto
che lo precede. Es. “Maria si affacciò dalla finestra perché sentì il cane abbaiare.Lo
vide tutto infuriato”. Non riusciremo mai a capire quel “lo” a cosa si riferisce se non
avessimo la frase precedente che ce lo indica. Il fenomeno opposto è la catafora;
● deissi= quando i pronomi( come quello precedente) dipendono esclusivamente dal
contesto in cui sono posti. Esistono tre tipi di deissi:
1. personale: quando ci si riferisce all’interlocutore e quindi si usano pronomi
personali o possessivi;
2. spaziali: che fanno riferimento all’estensione dimensionale e locale del
contesto e si usano in questo caso pronomi dimostrativi, avverbi di luogo o
verbi come andare, venire, etc. possono essere, inoltre, suddivisibili in
prossimali, quando si riferiscono a qualcosa che è vicino, distali che indicano
qualcosa in lontananza;
3. temporale: quando ci si riferisce a un determinato periodo temporale. Sono
utilizzati principalmente avverbi come oggi, domani, ieri, etc. oppure
espressioni come “fra due anni”, “dieci mesi”, etc.
4. sociale: è un’aggiunta e serve per rappresentare i rapporti fra i partecipanti
all’interazione.
● ellissi=omissione di parti fondamentali della frase, che non la rendono
sintatticamente completa. Si ritrova principalmente nei casi di domanda-risposta (es
A: dove vai? B: a casa).
● segnali discorsivi= sono quegli elementi che sintatticamente non sono facoltativi e

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

che danno maggior coesione al testo come ad esempio allora, insomma, infine,sai,
etc.

CAPITOLO 5
Alla base della semantica troviamo il significato. Definire il significato è molto più
complesso. Abbiamo individuato il significante, che è la sua parte concreta, mentre il
significato è qualcosa di molto più astratto, che ricade nel mentale e nell’ideale. Non a caso
all’interno di questo contesto si associano molte altre discipline come la filosofia, la
psicologia, etc. Anche di cosa tratta il significato è complicato da spiegare. Abbiamo due
teorie preponderanti: una filosofica, che vede alla base del significato una successione di
operazioni astratte che vanno a generare nella mente un’idea di realtà; una di carattere
cognitivista che, invece, tenta di basare il significato sull’esperienza percettiva-sensoriale
dell’uomo. Definire il significato è dunque un processo molto complesso. Se volessimo
avvicinarci ad una concezione linguistica del significato, dovremmo considerarlo sotto due
punti di vista differenti:
● concettuale= il significato è rappresentato da un’immagine mentale, un concetti, che
trova la sua ulteriore rappresentazione nella realtà circostante;
● operazionale= attestare il significato come qualcosa di strettamente legato ad un
contesto da cui può desumere il suo reale utilizzo;
Su queste impostazioni ci sono molte discussioni aperte, molti dibattiti e soprattutto si tiene
conto delle numerose limitazioni che possiedono entrambi questi sistemi. In vista di ciò, è
preferibile dare una definizione generale di significato come “un elemento che veicola
un’informazione tramite i segni o degli elementi linguistici”. Poiché questa definizione
risulta abbastanza generica, bisogna andare a distinguere tipi diversi di significato:
● denotativo= è quello inteso nel senso oggettivo, che corrisponde al valore di
identificazione della realtà esterna;
● connotativo= è quello a carattere soggettivo, che si connette all’ambito delle
sensazioni che vengono trasmesse dalla realtà;
● linguistico= che si basa sull’analisi dell’elemento in corrispondenza del suo valore
linguistico (tu/lei, sono pronomi personali);
● sociale= come questo elemento viene concepito dalla comunità(tu/lei, sono allocutivi
che esprimono una situazione di confidenza o di formalità);
● lessicale=che rappresentano “oggetti” concreti o astratti ,entità, etc. del mondo
esterno (parole piene);
● grammaticale= che rappresentano concetti e rapporti interni al sistema linguistico
(es. di “relativo a”), che sono per altro parole vuote;
Il significato va ben distinto da quella che definiamo “enciclopedia”. L’enciclopedia, si
occupa di una conoscenza generale e dei suoi attributi, mentre il significato fa parte del
sapere come tale, fa parte della lingua e non identificato con la conoscenza del mondo
esterno. Stabilire un confine fra queste due parti è molto difficile ma necessario, infatti, se
attribuissimo il valore di conoscenza generica al significato, allora la semantica dovrebbe
occuparsi di tutto il mondo, cosa che non è logicamente possibile, né consona a questo
campo. Un’altra distinzione che ci tocca fare è quella fra senso e significato. Il senso, è un
significato contestuale che deriva dalla situazione in cui io affermo un determinato
termine(es. finestra, si può intendere sia come l’apertura nel muro, sia come la finestra
aperta sul desktop di un computer). In questo ambito possiamo introdurre anche l’elemento
dei nomi propri, elementi che designano un individuo nello specifico e nell’ambito logico
non hanno intensione ma solo estensione. Intensione consiste nell’insieme delle

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

caratteristiche che costituiscono un determinato elemento che viene esplicato da un


determinato termine (es. canilità, intende quelle caratteristiche che possono essere attribuite
all’intera classe canina) ,mentre per estensione si intende l’insieme degli individui a cui il
termine si può applicare (es. Antonio, che ammette più referenti ma ognuno di loro è un hic
et nunc, perchè non sono tutti uguali fra loro, e io mi riferirò ad un Antonio in particolare).
Alla base della semantica c’è il lessema, il corrispondente della parola in base al suo
significato. L’insieme dei lessemi di una lingua ne forma il lessico. Questo viene studiato sia
dalla “lessicologia” che dalla “lessicografia”, la prima si occupa dell’analisi dei vari aspetti
del lessico, mentre la seconda della costruzione dei vocabolari. Il lessico è una parte
fondamentale del sistema linguistico, senza di esso non riusciremo a parlare e a
comunicare, ma dall’altra parte, è uno dei fattori di analisi più superficiali e caotici. E’ la
fascia più visibile del sistema linguistico, dunque, è anche quello più variabile e in costante
mutamento, è molto ampia e soprattutto priva di una organizzazione ben fatta. E’ impossibile
enumerare tutti i lessemi che si sono riconosciuti durante la successione delle epoche.
Constatiamo che il GRANDIT, uno dei vocabolari italiani più affidabili, costa di circa 270.000
unità. Ovviamente, dobbiamo anche dire che di queste, un parlante colto ne sa circa 40-
50.000 unità, ma con l’italiano base si riducono a 7000, con parole ad frequenza e bassa
frequenza.
Abbiamo visto quanto sia numeroso ed eterogeneo il lessico. La semantica, si occupa
proprio di cercare di mettere in ordine questo caotico insieme, in base alle relazioni
semantiche fra i vari lessemi:
● omonimia= quando due lessemi condividono lo stesso significante, ma hanno
significato diverso(es. “riso”, da ridere, “riso” dal cereale). Se questa differenza è
data da un segno grafico o da un fattore di pronuncia, si ha l’omografia(es. “pesca”,
da pescare o dal frutto);
● polisemia= quando più significati condividono uno stesso significante(es. corno come
quello che si suona, o come quello di cui alcuni animali sono dotati, etc.)
● sinonimia= quando c’è un significato simile fra più lessemi(es. urlare/gridare,
veloce/rapido). Poichè esistono numero sfumature di significato che dipendono dal
contesto a da determinate forme di significato, si parla di “quasi sinonimi”;
● iponimia= quando il significato di un lessema è incluso in uno più generico(es.
armadio/mobile, mela/frutto) nel momento in cui il rapporto fra i due lessemi non è
diretto, ma si impone un ulteriore lessema a cui si può far corrispondere il significato
della parola (es. gatto/animale, ma può essere anche gatto/felino), allora si crea una
catena iponimica (es. gatto-felino-mammifero-animale) che può essere estesa fin
dove si vuole;
● meronimia=quando un lessema specifica un elemento di un insieme (es. testa/corpo,
mani/corpo, etc.)
● solidarietà semantica= nel momento in cui è presente una combinazione obbligatoria
o preferenziale di lessemi (es. leccare/lingua, miagolare/gatto, etc.)
● collocazione= nel momento in cui la combinazione cooccorre all’interno di un
discorso (es. bandire/concorso, porta/scorrevole), si parla, dunque, di pure
convenzioni linguistiche non ben definite dal sistema stesso;
● antinomia= quando ci sono più lessemi che designano l’uno il contrario dell’alto( es.
alto/basso, buono/cattivo);
● complementarietà= due lessemi che si escludono a vicenda, spartiscono uno stesso
spazio semantico in due posizioni opposte(es. vivo/morto, maschio/femmina);
● inversione= due lessemi che nella loro applicazione semantica si dirigono in due

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

direzioni differenti (es. vendere/comprare, sotto/sopra);


● campo semantico= è un insieme di lessemi che ricoprono un determinato spazio
semantico, che rappresentano le partizioni di un determinata sostanza di
significato(es. vecchio, giovane, anziano, nuovo, antico, etc.)
● sfera semantica=è più generica del campo semantico, si designa un insieme di
lessemi che hanno in comune il riferimento ad una data area semantica (es. campo,
aratro, semina, fieno, contadino, etc.)
● famiglia semantica= parole che hanno la stessa radice;
● gerarchia semantica= un insieme di lessemi che è sottoposto ad una determinata
gerarchia (es. ore, minuti, secondi, attimi, etc.);
Fino a questo momento, abbiamo parlato di legami principalmente denotativi (quindi per
oggettività), ma abbiamo anche legami concettuali: la metafora (es. Gianni è un coniglio) o la
metonimia (es. ho bevuto due bottiglie di liquore).
Ora che abbiamo analizzato i lessemi dall’esterno, proviamo a farlo dall’interno.Riusciamo a
fare ciò tramite l’analisi componenziale,attraverso la quale scomponiamo il significato dei
lessemi comparandoli gli uni fra gli altri, in modo simile a quello dei tratti distintivi fra i
fonemi. Ogni lessema può essere sintetizzato tramite determinate proprietà dette “tratti
semantici”. Nel caso di una metafora, quel determinato tratto viene annullato. Con un
numero relativo di tratti si tenta, dunque, di distinguere questi lemmi. Talvolta i tratti
semantici presentano dei rapporti di implicazione( es. “umano”>
“maschio/femmina”,”adulto”, “animale”, “vivente”>”animato”,
“penetrabile”>”enumerabile”,”concreto”).I tratti sono binari solitamente, dunque, ammettono
due valori (+ e -), ma alcune volte possono presentarne anche tre, e dunque essere non
binari(es. abbiamo tre livelli differenti di penetrabilità, per le materie solide, liquide e
gassose). Oltre che ai nomi questo stesso processo può essere applicato ai verbi.
Prendiamo ad esempio il verbo “uccidere”, che sintetizziamo con “X, causa, Y, diventa,
-VIVENTE, ossia, “Qualcuno X, fa che Y diventi un non vivente”. Questo metodo, se è molto
utile per elementi prettamente concreti, risulta al contrario molto problematico nel momento
in cui si approccia all’ambito dell’astratto.
In contrapposizione a questa visione dell’analisi del significato, si è andato a formare quello
dei prototipi.Il prototipo è un tipo di analisi di significato che si basa principalmente
sull’associazione di un immagine mentale ad un concetto. In questo senso si parte dal
punto focale, per poi proseguire verso le aree periferiche del concetto(es. piccione>
“uccello”,”alato”,”con piume”, “vola”, “piccole dimensioni”).Tutti i tratti, in questo senso, sono
importanti per comprendere la totalità del concetto, ma nel momento in cui cominciamo a
descrivere la nostra immagine mentale, questi vengono posti in maniera graduale e per
importanza. Oltre alla gradualità, abbiamo anche un altro concetto da introdurre: il grado di
esemplarità( di rappresentatività), di un termine ad una determinata categoria (es. secondo
una ricerca svolta da un’indagine americana riguardo la categoria “frutto/frutta” di cui risulta
più rappresentativa la mela). Il frutto meno tipico è il fico e ancor di meno l’oliva. Questi
elementi sono più propensi all’essere al confine con un’altra categoria oppure a far parte di
entrambe. Questa tipologia di analisi è sicuramente stata utile per alleggerire la rigidità e il
limite del precedente, ma d’altro canto, si blocca proprio sul problema analizzato in
precedenza, quello dell’astrattezza.
Fino a questo momento, abbiamo ragionato a parole, a lessemi, ma ora ci tocca ampliare la
prospettiva a vere e proprie frasi. Non possiamo ridurre il significato di una frase alla somma
dei suoi lessemi. In questo caso è necessario fare una distinzione fra “frase”ed “enunciato”,
altro non è che l’utilizzo concreto di una frase in una situazione comunicativa. Per

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

comprendere meglio il valore degli enunciati considereremo: i connettivi ( congiunzioni


coordinanti e subordinanti), quantificatori ( tutti. ogni, nessuno, qualche) negazione (non).
Nel momento in cui trattiamo l’enunciato, dobbiamo riproporlo anche dal punto di vista
pragmatico. Diventa in questo contesto un vero e proprio atto di agire e non più come
un’esclusiva parte del sistema linguistico. Alla base della pragmatica, infatti, vi è l’atto
linguistico che si suddivide in tre livelli diversi:
● atto locutivo: generare una frase in una determinata lingua che abbia una struttura
grammaticale, fonetica e lessicale;
● atto illocutivo: consiste nell’intenzione che c’è nell’esplicitare questa frase, che sia
esso per dare un’informazione o una descrizione,etc;
● atto perlocutivo: la sensazione che si vuole dare al destinatario di questo messaggio;
Uno degli atti più utilizzati è sicuramente quello locutivo,che si trasmette poi tramite quello
illocutivo. Partendo da ciò ad affiancare gli atti illocutivi, ci sono molto spesso dei verbi detti
“performativi”, che a seconda del contesto in cui sono utilizzati esprimono determinate
volontà. Esistono molte varietà di un atto illocutivo: se dicessi “chiuderesti la finestra?”,
sarebbe una richiesta/ordine, stessa cosa otterrei se utilizzassi il condizionale, ma al
contrario se affermassi “chiudi la finestra!” avrebbe un senso molto più simile ad
un’imposizione, più brusco. In questo caso si manifesta la "politeness", ossia la “cortesia
linguistica” basata sul principio di non imporsi sull’interlocutore,ma lasciargli delle
alternative. Nel momento in cui si compie un atto linguistico, si deve anche tener conto delle
condizioni di realizzazione per le quali questa azione potrà in qualche modo essere
portata a compimento dal destinatario. Un altro importante concetto è quello del significato
implicito, non diretto(es. A:”Vogliamo andare al cinema?”, B:”Non so, avrei un pò di mal di
testa…”). Riguardo gli atti linguistici impliciti è doveroso citare anche le massime di Grice,
filosofo, che riunì sotto quattro tipologie diverse modi in cui intendere un sapere implicito,
secondo: quantità (tot. di informazione rilasciata tanto da non essere né minima né troppa),
qualità(dare un contributo vero e verificabile), modo(esprimersi chiaramente),
relazione( essere pertinenti). Un’altra tipologia di significato implicito lo ritroviamo nella
presupposizione. La presupposizione è la parte di significato che rimane vera nel momento
in cui si nega la frase. Di solito è accompagnata da verbi fattivi(es. sapere, confessare,
rimpiangere, finire, etc.).

CAPITOLO 6
Le lingue storico-naturali, ossia parlate da una determinata comunità, sono molte e
numerose. Gli studiosi ne contano un minimo di 2220 e un massimo di 7000. Il numero di
lingue però è molto difficile da specificare, questo perché alcune lingue sono considerate a
sé stanti, e anche perché alcune aree linguistiche non sono state approfondite a sufficienza.
L’Italia è un esempio lampante di ciò. In Italia è presente una lingua ufficiale, una grande
numero di dialetti e anche delle minoranze linguistiche (tedesco, francese, sloveno, etc.).
I dialetti, in particolar modo, sono considerabili delle lingue vere e proprie e se contiamo
anche quelli, in Italia sarebbero presenti circa 30 sistemi linguistici.
Essendo le lingue mondiali così numerose, si è cercato di dividerle in famiglie. Questa
suddivisione si basa principalmente sul lessico fondamentale (numeri, fenomeni
metereologici, parti del corpo, etc.) che hanno in comune, attraverso la loro somiglianza fra
diversi significanti, che presumibilmente dovrebbe rimandare ad una forma originale
condivisa.
Per analizzare questo concetto è utile partire dalla lingua a noi più vicina: l’italiano. L’italiano
deriva dal ramo delle lingue romanze, tutte derivanti dal latino, che include anche il

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

francese, lo spagnolo, il portoghese, il catalano, etc. Questo ramo, insieme ad altri


(germanico, baltico, celtico, slavo, indo-arie e quello delle lingue isolate), forma la famiglia
indoeuropea. La “famiglia”, è il grado più elevato di parentela, che racchiude tutte le lingue
che si assomigliano tramite lo studio dei linguisti. A seconda dei vari legami, vi sono i rami
che si dividono poi in gruppi, a loro volta suddivisibili in sottogruppi (es. l’italiano fa parte del
sottogruppo delle lingue romanze, del gruppo occidentale, del ramo neolatino e della
famiglia indoeuropea).
La linguistica comparativa è riuscita a formare all’incirca diciotto famiglie linguistiche che
presumibilmente non hanno legami fra loro, più altre lingue( armeno, albanese, greco e
basco) dette isolate poiché non presentano alcun legame con nessuna delle famiglie
linguistiche designate. A queste poi andrebbero aggiunte anche ulteriori lingue come quelle
pidgin e creole. Le lingue pidgin sono quelle che non hanno una famiglia di origine
specifica, che nascono per lo più dalla mescolanza di lingue molto distanti fra loro e che non
hanno parlanti nativi, ma diventano creole nel momento in cui diventano lingue materne di
una comunità( es. giamaicano, tokpisin (Nuova Guinea), WAPE (Ghana, Nigeria e
Camerun)).
Delle lingue esistenti solo alcune possono essere considerate “grandi”, quindi con un alto
numero di parlanti e con un alto prestigio. Le qualità di una lingua vengono valutate sotto
molti aspetti, oltre quello demografico:
● il numero dei paesi in cui la lingua è ufficiale o comunque parlata;
● il valore politico, tecnico, scientifico, commerciale che gli viene attribuito;
● il valore internazionale ed economico;
● la tradizione letteraria e culturale;
● in quanti paesi questa lingua viene insegnata come lingua straniera.
In Europa, sono parlate lingue di cinque famiglie linguistiche diverse oltre a quella
indoeuropea: uraliche, altaliche, caucasiche, semitiche e una lingua isolata: il basco.
Un altro modo per classificare le lingue è quello per tipologia, che va ad analizzare le lingue
a prescindere dalla famiglia linguistica, e le avvicina per universali linguistici, ossia, quegli
elementi ricorrenti nelle lingue (es. “tutte le lingue hanno vocali e consonanti"), che essi
siano elementi concreti o empirici, l’importante è che non si contraddicono.
Quindi le lingue possono essere divise in base al loro “tipo”, ossia, in base alla loro
organizzazione strutturale. Il concetto di “tipo”, però è molto inconsistente e astratto, quindi,
non si può associare una lingua ad un specifico tipo, ma la si può associare per certi versi
ad esso.
Un primo modo di distinguere una tipologia di lingua è in base all’aspetto morfologico delle
parole della suddetta. Si distinguono quattro tipi morfologici di una lingua:
● lingue isolanti= sono lingue la cui struttura della parola è molto semplice ed ha un
indice di sintesi (numero di morfemi all’interno di una parola, che si calcola
dividendo i morfemi presenti in un dato testo per il numero delle parole) di circa 1:1.
Sono dette isolanti non solo per isolano le parole che le compongono, ma perchè ciò
influisce anche sull’aspetto morfologico-flessionale. Le parole di queste lingue non
subiscono flessione, tutto questo aspetto è affidato alla parte lessicale. Le parole
oltre ad essere monomorfemiche sono anche monosillabiche. Un esempio è il
vietnamita.
● lingue agglutinanti= sono quelle lingue generalmente complesse, le cui parole
presentano una lunga catena di morfemi e il cui indice di sintesi è di circa 3:1 o
superiore talvolta. Le lingue agglutinanti presentano morfemi univoci, con rari casi
di omonimia o allomorfia fra i vari morfemi. Un esempio è il turco. Le parole molto

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

spesso possono essere molto lunghe e si formano di una radice a cui poi sono
attaccati affissi.
● lingue flessive= sono delle lingue che presentano un indice sintetico minore rispetto
a quelle agglutinanti, di circa 2:1, ma che sono molto più complesse nella loro
struttura interna. Sono formate solitamente da una radice, degli affissi che sono
solitamente morfemi cumulativi e che veicolano funzioni differenti tutti insieme.
Inoltre, sono dette anche lingue “fusive”, in quanto la distinzione dei morfemi non è
chiarissima e ciò crea molta difficoltà nello scomporre la parola. Il termine “flessivo”
indica la molta morfologia flessionale che si applica alle parole di queste lingue per
la creazione di altri significati, etc. Alcuni esempi di lingue flessive sono: il latino, il
greco, l’italiano e in parte anche il francese. All’interno delle lingue flessive vi è un
sottogruppo: le lingue introflessive, dove la flessione avviene anche all’interno della
parola;
● lingue polisintetiche= sono la tipologia di lingue più complessa, che presenta una
catena di morfemi in cui compaiono talvolta più radici. I morfemi a volte vanno a
svolgere anche funzione lessicale. La struttura della parola non è chiara, anzi, molte
parole sono paragonabili a vere e proprie frasi. L’indice di sintesi è di 4:1 o
superiore. Un esempio è il groenlandese. Anche le polisintetiche presentano un
sottogruppo: le lingue incorporanti, che all’interno di una radice verbale inseriscono
anche il complemento diretto.
Possiamo intravedere in questo modo il passaggio da lingue analitiche (che scompongono i
vari pezzi della parola es. ho mangiato), a lingue sintetiche (che “impacchettano” più
blocchi di contenuto, es. mangiai).
Un altro “tipo” in cui possono essere divise le lingue è quello sintattico e in particolar
modo, in base all’ordine dei costituenti. In ogni frase è presente un soggetto (S), un
predicato verbale (V) e un complemento oggetto o diretto (O). Esistono in totale sei ordini in
cui possiamo formulare una frase, quello più frequente è SOV, seguito da SVO e VOS.
L’italiano, ad esempio è una lingua SVO. Come mai l’ordine SOV e SVO sono i più comuni?
Si applicano in questo caso due principi: quello della precedenza, che viene data al tema,
dunque al soggetto, rispetto al rema, ciò che si dice a proposito del tema; e quello
dell’adiacenza, in questo caso fra verbo e complemento diretto che devono
necessariamente essere vicini poiché elementi contigui.
Oltre all’ordine degli elementi fondamentali della frase subentra quello di altri elementi
aggiuntivi, che spesso è imprevedibile. Molti studiosi però sono riusciti a formulare delle
leggi che possono essere in qualche modo applicate universalmente: “le implicazioni
universali”. Inoltre, molti hanno cercato di costruire delle tipologie complesse a partire dalla
posizione di V e O:
● lingue VO: costruiscono a destra con l’ordine operando/operatore; avrebbero NA
(sint. nominale e l’agg.), NG ( sint. nominale e genitivo), Nposs., NRel., VAvv., AAvv
(avverbio dopo aggettivo), AusV. Un esempio è il turco;
● lingue OV: costruiscono a sinistra con l’ordine operatore/operando, che presenta gli
stessi casi ma all’inverso. Un esempio è il gaelico.
Come nel caso della tipologia morfologica, non sempre il modello ideale rappresenta poi
ogni singolo caso presente all’interno della lingua. Ci sono infatti, delle eccezioni e delle
incoerenze.
Abbiamo ulteriori casi di lingue che dovrebbero essere trattati con maggior approfondimento:
● lingue ergative: danno una marcatura differente di caso al soggetto in base alla
forma transitiva o intransitiva del verbo (a differenza di altre lingue che declinano in

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

casi come il latino o il greco). Le lingue ergative pongono il complemento oggetto di


una frase transitiva e il soggetto di una frase intransitiva allo stesso caso, detto
assoluto, mentre il soggetto di una frase transitiva in un altro caso, detto ergativo.
Dunque il normale sistema nominativo-accusativo, è opposto a quello assolutivo-
ergativo.
Ci sono molte lingue, inoltre, che formano la loro costituzione in base alle funzioni sintattiche
e pragmatico-informative:
● lingue “subject-prominent”;
● lingue “topic-prominent” come il cinese;
● lingue che sono sia “subject” che “ topic prominent” come il giapponese.

CAPITOLO 7
Dobbiamo intravedere la lingua non come un blocco puramente fisso, ma anzi, come un
elemento che varia costantemente ogni attimo che passa. Per questo motivo si parla di
variazioni linguistiche. Queste variazioni possono svolgersi in diacronia, dunque, si va ad
analizzare il mutamento della lingua al livello dell’asse temporale continuativo, ovvero, come
la lingua è mutata nel tempo rispetto alle abitudini sociali e culturali della comunità. Questi
cosiddetti “mutamenti linguistici”, vengono studiati dalla linguistica storica.
C’è da dire però, che i mutamenti linguistici richiedono molto tempo per avvenire( circa una
generazione) e altrettanto tempo per essere notati, questo perché hanno un movimento
molto più lento rispetto ai mutamenti socio-culturali. Sono graduali e quindi procedono per
gradi trasformando passo per passo la lingua che si contraddistingue nei vari secoli. Nel
momento in cui ad un sistema vengono sottoposti cambiamenti multipli tali da renderlo
totalmente incomprensibile rispetto a com’era prima, ci troveremo dinanzi ad una lingua
nuova. Sarà proprio la sostanziale differenza dalla precedente a farci intuire la nascita di una
lingua del tutto originale.
Questo è il caso dell’italiano e anche delle altre lingue romanze: nate dal latino, che hanno
incominciato a subire i primi cambiamenti durante il terzo secolo d.C e l’Alto Medioevo e,
successivamente, fra il X e il IX secolo si è definita l’affermazione dei volgari, dei quali
risalgono anche molti documenti scritti, fra cui il primo, del 960 detto “Placito Capuano”,
che attestava il possedimento di determinati territori da parte di un monastero benedettino di
Montecassino.
Il meccanismo del mutamento è ciclico, in verità. Abbiamo la presenza di un’innovazione,
che viene accettata dalla società e dalla comunità linguistica, che pian piano inizia a
coesistere con l’elemento “vecchio”, per poi inevitabilmente soppiantarlo e successivamente
fissarsi all’interno del sistema. E da qui poi si ricomincia.
Le cause dei mutamenti linguistici possono essere sia interne che esterne al sistema:
● fattori esterni: mutamenti ambientali, politici, sociali, economici e culturali che vanno
a determinare questi cambiamenti, talvolta provocando anche la decadenza, se non
la morte delle lingue( le lingue muoiono quando non vi sono più parlanti);
● fattori interni: sono quei mutamenti che interessano principalmente in cambiamento
di strutture, regole, organizzazioni del sistema stesso da parte dei parlanti che
tendono a semplificare e sintetizzare la lingua;
Abbiamo parlato prima di lingue morte. Nel momento in cui una lingua muore, gli subentra
una lingua di “sostrato”, che sostituisce la precedente anche se ne riprendere determinati
elementi( come accade con i volgari ed il latino).
Abbiamo vari tipi di mutamenti su vari livelli:
● mutamenti fonetici:

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

1. assimilazione: due suoni differenti, diventano simili perchè uno dei due viene
assimilato dall’altro (es. noctem>notte);
2. metafonia: assimilazione di due foni non contigui fra di loro(es. nel dialetto
napoletano “nir” (“nero”)<”nigrum” lat.)
3. dissimilazione: quando un fono è diversificato dall’altro(es. “venenum”
lat.>”veleno”);
4. metatesi: quando l’ordine dei foni varia all’interno della parola(es. “fabula”
lat.>”fiaba”)
5. caduta: vi è la presenza di caduta dei foni all’interno della parola. Ciò può
determinare diversi fenomeni a seconda di dove la caduta avviene: aferesi,
all’inizio della parola (es. “apotheca” lat.>”bottega”), sincope, nel mezzo della
parola (es. “domina” lat.> “donna”), apocope, alla fine della parola (es.
“civitate” lat.>”città”)
6. aggiunta: vengono aggiunti dei foni e a seconda della loro posizione
possiamo classificarli come: protesi, all’inizio della parola (es. “statum” lat.>
“estado” spag.), epentesi se è al centro della parola( es. “baptesimum” lat.>
“battesimo”), epitesi se è alla fine (es. “cor” lat.>”cuore”).
● mutamenti fonologici:
1. fonologizzazione: un allofono assume un valore distintivo e diventa autonomo
(es. “kingere” lat.>”cingere”);
2. defonologizzazione: quando un fonema perde il suo valore distintivo
diventando un allofono ( es. lunghezza delle vocali dei casi in latino)
3. perdita: perdita di fonemi, come ad esempio la perdita di valore fonologico per
la “h”;
● mutamenti a catena:
1. rotazione consonantica: un primo esempio è la legge di Grimm che consiste
nell’evoluzione da un occlusiva sorda ad una fricativa sonora o aspirata.
Oppure un ulteriore esempio lo ritroviamo nell’evoluzione del tedesco, che
vede la variazione di p,t, k in una fricativa in posizione postvocalica, affricativa
se posta all’inizio della parola, etc.
● mutamenti morfologici:
1. perdita della flessione dei casi come in latino e la successiva caduta del
genere neutro con una conseguente lascito del maschile e del femmeinile;
2. l’analogia: estensione di una forma verso un modello non propriamente
adatto ma più incline ad un modello normale e frequente (es. “velle” lat.>”vol-
ere”)
3. rianalisi: un esempio è la perdita del valore lessicale del verbo lat. “habeo”,
con l’affiancamento del passato prossimo. Inizialmente in latino, in una
potenziale frase quale “Hebeo epistulam scriptam”, non era inteso come “Ho
scritto una lettera”, ma come “Ho (sott. fra le mani) una lettera scritta”. Con il
tempo e con la conseguente perdita per “habeo”del suo valore lessicale,
diventerà, effettivamente, “Ho scritto una lettera”, fino ai giorni odierni, in cui il
verbo avere ha un principale valore grammaticale.
4. grammaticalizzazione: il valore grammaticale che assume “habeo”, avviene
anche per il sostantivo “mens”, che andava ad indicare l’intelletto e la mente
di un individuo, ben presto andrà ad affiancarsi ad altri elementi come “sana”
o “lenta” fino a diventare un formativo di parola;
● mutamenti sintattici:

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

1. principalmente si parla dell’ordine compositorio scelto, che nel caso del latino
era SOV o semplicemente OV, mentre nel caso della maggior parte delle
lingue romanze è SVO.
● mutamenti semantici:
1. arricchimento del lessico: tramite la formulazione di nuove parole, da altre
preesistenti o prese in prestito da altre lingue;
2. perdita di lessico: fenomeno inverso che vede la perdita di lemmi, come ad
esempio “cuncutus” o “os” in latino o anche “donzello”;
3. fenomeni di paretimologia: quando una parola viene modificata rispetto alla
sua composizione originale per esser resa più”trasparente” e comprensibile
(es. lat.”cubare”> covare);
4. estensione del significato di un lemma: quando una determinata parola che
era specifica assume un significato molto più generale, quindi lo amplia (es:
lat.”domina”, padrona di casa> “donna”);
5. riduzione del significato di un lemma: quando da un significato generale si
passa ad uno più specifico( es. lat. “domus”, casa> “duomo”)
6. tabuizzazione: in un determinato contesto una parola viene “censurata” e al
suo posto ne viene utilizzata un’altra, detta eufemismo, con un senso meno
diretto;
● mutamento dei campi semantici: varia la concezione del campo semantico, come
ad esempio, nel caso dei colori, che in latino venivano percepiti secondo la loro
brillantezza ( es. lat. “albus”/”candidus” o “ater”/”niger”);
● mutamenti pragmatici:
1. modifica dei modi di allocuzione: si passa dal tu/voi lat., al “tu” confidenziale e
al “voi” formale, al “tu” informale, “voi” di cortesia”, “lei” formale, all’odierno
“tu” informale
Le variazioni della lingua si svolgono anche in sincronia, quindi analizzando un preciso
momento storico, influenzato da determinate situazioni a livello culturale, politico o sociale.
Inoltre, a farsi carico di questo preciso metodo di studio è la sociolinguistica. La
sociolinguistica si occupa delle variabili linguistiche che cooccorono all’interno di una
comunità. Con variabili linguistiche si intendono quelle unità del sistema, che non lo mutano
o lo cambiano in termini di valore, che si presentano in correlazioni a fenomeni
extralinguistici. Queste variabili dipendono dalla dimensione in cui si vanno a considerare, in
particolar modo, ne abbiamo quattro:
● varietà diatopiche:
1. italiani regionali: determinati fonemi che vengono pronunciati in modo
differente rispetto al luogo di appartenenza (es. Napoli e Palermo tendono a
sottolineare il fonema “sck”, sckopa, sckarafaggio, et.)
2. geosinonimi: parole che sono intese in modo differente rispetto a dove le si
pronunciano (es. “melone” Napoli, “cocomero”, zone settentrionali);
3. regionalismi semantici: determinate parole che hanno assunto uno specifico
significato in una data area geografica (es. “tovaglia” in Sicilia è
l’asciugamano);
4. regionalismo morfologici e sintattici: a volte in determinate aree geografiche
variano l’utilizzo dei suffissi rispetto alla lingua standard (es. a Roma si usa “-
aro”, mentre in lingua standard è “-aio”) e anche la posizione e l’ordinamento
delle varie parti del discorso sono diverse (es. “oggi a casa sono” oppure “il
giornale vuoi?” in forma più colloquiale);

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)


lOMoARcPSD|25115661

● varietà diastratiche:
1. a livello fonetico vi sono semplicemente delle modifiche date dall’influenza del
dialetto( es. a Roma “birra” è “bira”, mentre “madre”, in Sicilia è “madtre”);
2. a livello morfologico vi sono molte generalizzazioni per gli articoli ( i amici, un
sbaglio), dei verbi (dissimo al posto di dicemmo), comparativi (più bene), o
alcune convenzioni grammaticali (nessuni amici). Queste forme sono per lo
più presenti in un strato sociale “basso”, incolto, e proprio per questo viene
detto italiano popolare;
● varietà diafasiche:
1. registro: in considerazione del contesto in cui avviene la comunicazione, vi è
un registro più alto e formale, o più basso e più informale; in base al registro
varia ovviamente anche l’utilizzo delle parole utilizzate. Attraverso delle
coppie ne faremo degli esempi: regalare/donare; tirare fuori/estrarre, etc;
2. sottocodici: dipendono dall’argomento che si sta affrontando. Se sto
discutendo di argomenti medici utilizzerò termini come “stetoscopio”,
“laparoscopia”, “gastrite”, etc., e così variano di argomento in argomento;
● varietà diamesiche:
1. dipendono sempre dal contesto ma si dividono in base al canale e al mezzo
di comunicazione.
2. il primo è quello scritto-grafico, che è più formale, utilizzato per documenti,
articoli, testi ufficiali, etc.;
3. il secondo è quello parlato-uditivo, che è più informale e colloquiale nelle sue
sfumature (ad es. “ehi molla ‘sta borsa!” è tipicamente parlato, più che esser
scritto);
4. ciò non toglie che con lo sviluppo di nuove tecnologie( SMS, social network,
etc.), questi due mezzi si stanno sovrapponendo man mano l’uno all’altro.

Scaricato da Noemi Gagliardi (noemuccia.ng@gmail.com)

Potrebbero piacerti anche