Sei sulla pagina 1di 108

Linguistica generale 29/09/2022

Valerio Pisaniello

INTRODUZIONE AL CORSO

14-25-27-28 ottobre, settimana 7-11 novembre, 1 dicembre si perdono lezioni

6 lezioni a partire da novembre di tutorato dove si faranno esercizi

BIBLIOGRAFIA

1.Appunti delle lezioni e materiali caricati su Moodle

2.Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica, Giorgio Graffi, Scalise, Terza edizione, Il Mulino, 2013 (capitoli
I-VIII) > ha la copertina blu

INTRODUZIONE ALLA LINGUISTICA

Riassunto lezione: Introduzione alla linguistica; la linguistica come scienza; linguistica e grammatica; il linguaggio
umano e le sue caratteristiche (discretezza, doppia articolazione, ricorsività, dipendenza dalla struttura); il linguaggio e
le lingue.

LINGUISTICA: studio scientifico del linguaggio umano. Essa studia la lingua viva e non quella standard.

Esistono diversi tipi di ‘linguaggio’ come quello umano, animale, dei media, dei fiori etc., così definiti in quanto sistemi
di comunicazione che servono a trasmettere informazioni da un emittente a un ricevente. Se la funzione di tutti questi
linguaggi è la stessa (la comunicazione), non lo è la loro struttura, cioè essi non sono costruiti in base agli stessi
principi. Accezione di linguaggio: sistema di comunicazione.

Il linguaggio umano

Il linguaggio umano non ha come scopo la comunicazione, è ambiguo poiché è pieno di frasi che possono avere
significati differenti. Comprende una serie di strutture ed elementi superflui per una comunicazione efficace.

Ad esempio legami grammaticali tra parole, subordinazione e coordinazione non sono necessarie per una
comunicazione efficace. Quindi il linguaggio umano non è nato per comunicare, bensì è un modo di organizzare il
pensiero.

Linguaggio umano e animale

Linguaggio animale: es. la ‘danza’ delle api. Attraverso questa particolare danza, l’ape bottinatrice è in grado di
comunicare alle operaie dove si trovano i giacimenti di cibo: attraverso i movimenti dell’addome comunica la direzione
in cui è presente il cibo, mentre attraverso la velocità dei movimenti comunica la sua distanza (più veloce = più vicino).

Linguaggio umano: anch’esso ha una struttura altamente specifica e sostanzialmente differente da quella degli altri
linguaggi, è tipicamente apprendibile solo per l’essere umano, difatti neanche le specie più vicine all’uomo possono
farlo, ad esempio le scimmie (se non in maniera estremamente superficiale).

La linguistica come scienza

Linguistica come scienza> formazione di ipotesi generali attraverso un procedimento induttivo, cioè da un fenomeno si
trova una formula che li spiega.

La linguistica si fonda sul metodo scientifico, i cui principi sono:


1. la formulazione di ipotesi generali in grado di rendere conto di numerosi fatti particolari;
2. la formulazione di tali ipotesi in modo chiaro, ossia mediante una precisa terminologia tecnica (linguaggio univoco),
e verbale, vale a dire che le osservazioni fatte su determinati fenomeni devono poter essere ripetute da altri
(falsificabili, ossia dimostrabili).
Es. gli articoli determinativi che sono allomorfi, ovvero le diverse forme che un morfema assume e che non
determinano cambiamenti nel suo significato.
Grammatica normativa e linguistica descrittiva

La grammatica è normativa, ossia pone delle regole su come ci si debba esprimere, mentre la linguistica è descrittiva,
cioè analizza e osserva tutti i fenomeni, i dati reali e non si concentra sugli standard linguistici dati dalla grammatica e
precedentemente creati. Infatti le lingue non coincidono con lo standard posto dai grammatici. Quindi per riassumere:
in quanto scienza, la linguistica non è una disciplina normativa si occupa di descrivere e spiegare ciò che si dice,
riconducendola a leggi generali.

CARATTERISTICHE PROPRIE DEL LINGUAGGIO UMANO

1. Discretezza> ‘discreto’ ovvero distinto, i suoi elementi sono perciò formati da unità distinte l’una dalle altre. I suoi
elementi hanno limiti ben precisi e sono pertanto chiaramente distinguibili dagli altri.

Es. i suoni [t] e [d] sono ben distinti sia per il parlante che per l’ascoltatore, i quali percepiscono uno stacco netto e non
un un’entità intermedia tra i due. Invece il linguaggio animale è continuo come la ‘danza’ delle api che non ha stacchi
netti poiché è basata sulla velocità dei movimenti che è una dimensione non discreta.

2. Doppia articolazione> enunciata dal linguista André Martinet nel 1960. Significa che il linguaggio può essere
scomposto su due diversi livelli di articolazione. A un primo livello di articolazione una parola può essere scomposta in
diverse unità minime che sono ancora dotate di un significato, i morfemi.

Es. la parola ‘gatto’ è scomponibile a livello lessicale grazie al morfema gatt- che porta il significato di ‘felino, animale
domestico’, e a livello grammaticale dato dal morfema –o che veicola le informazioni inerenti al sesso e al numero.
Mentre il secondo livello di articolazione è dato da fonemi, cioè unità minime prive di significato, aventi valore
distintivo. ES. il fonema [g] di gatto è un’occlusiva velare sonora

Esso si basa sul principio di economia, perciò consente di ottenere il massimo risultato senza uno sforzo troppo
grande. Quindi attraverso un numero molto limitato –solitamente poche decine- di unità minime (fonemi) prive di
significato, è possibile formare un numero infinito di unità dotate di significato.

3. Ricorsività> la possibilità di applicare la stessa regola. Permette di costruire frasi sempre nuove, inserendo un’altra
frase data, e poi un’altra ancora, in un processo infinito.

Es. a. Luca corre. b. I ragazzi sostengono che Luca corre. c. Marta crede che i ragazzi sostengano che Luca corre. d.
Marta crede che i ragazzi sostengano che Luca corre e salta.

4. Dipendenza dalla struttura> si trova solamente nel linguaggio umano mentre le prime tre caratteristiche
(discretezza, doppia articolazione e ricorsività) si ritrovano anche nei linguaggi informatici. Così le frasi non sono
organizzate come una semplice successione di parole, in cui la forma di una è determinata da quella immediatamente
precedente, ma sono costituite di una relazione complesse e la forma di una parola può dipendere da qualcosa che
può essere anche molto lontano (virtualmente, anche infinitamente lontano, considerando la ricorsività).

Es. Consideriamo la seguente frase: ‘La donna che i ragazzi dicono che mi ha colpito è Maria’ -> Il verbo dell’ultima
frase, ha colpito, si accorda con il nome singolare donna, piuttosto distante da esso, ed è quindi alla terza persona
singolare. Se decidessimo di accordare il verbo al nome ad esso più vicino, ragazzi, otterremmo una frase
«agrammaticale» (che non significa «scorretta», ma piuttosto «non ben formata per il parlante nativo di quella
lingua»): ‘La donna che i ragazzi dicono che mi hanno colpito è Maria’. Tali relazioni complesse non dipendono dunque
dalla semplice successione delle parole, ma sono dunque dipendenti dalla struttura, mentre i linguaggi informatici
sono solitamente indipendenti dalla struttura, ossia il valore di ogni elemento è determinato da quelli ad esso
adiacenti.

Le lingue cambiano più facilmente nel tempo, mentre le scritture tendono ad essere più conservative.

IL LINGUAGGIO E LE LINGUE

La distinzione tra ‘linguaggio’ e ‘lingue’ non si trova in tutte le lingue ad esempio in italiano e in francese esiste, mentre
in inglese e in tedesco no.

Con linguaggio si intende la capacità di ogni essere umano di sviluppare un sistema di comunicazione dotato delle
caratteristiche di discretezza, doppia articolazione, ricorsività e dipendenza dalla struttura.
Con lingua si riferisce alla realizzazione concreta del linguaggio, ossia la forma specifica che tale sistema di
comunicazione assume nelle varie comunità.

Dibattiti nella storia

Secondo Ruggero Bacone (1214-1292) la grammatica è unica e identica nella sostanza anche se varia accidentalmente
(ossia può assumere forme diverse a seconda di diversi fattori). Ciò significa che le lingue differiscono tra di loro, ma
entro li miti ben distinti nel linguaggio umano posti dalla facoltà di linguaggio. Questa supposizione entra in crisi tra
’8oo e ‘900 quando la maggior parte dei linguisti credeva che le lingue potessero differire tra loro senza alcun limite.
Nella seconda metà del Novecento diversi linguisti sono tornati ad una posizione più simile a quella di Bacone (unicità
del linguaggio e diversità delle lingue entro certi limiti).

Si possono effettivamente individuare alcuni elementi comuni a tutte le lingue (i cosiddetti universali linguistici), tra i
quali vi sono certamente la ricorsività e la dipendenza della struttura. Molti altri elementi, invece, possono differire da
lingua a lingua, per es. l’ordine delle parole. Ad oggi, dunque, l’ipotesi prevalente è che le lingue siano diverse, ma che
tale variazione non sia illimitata, bensì abbia dei limiti ben definiti: esistono cioè degli universali, comuni a tutte le
lingue, e delle proprietà variabili, che sono oggetto di studio della tipologia linguistica.

Prof. Valerio Pisaniello 30/09/2022

Ha fatto un piccolo riassunto su quello che ha fatto ieri e ha detto che il linguaggio, fino all’inizio del ‘900
non ha come scopo primario la comunicazione ma seve per esprimere il pensiero, ma il linguaggio
complica, con le sue strutture questo strumento, è poco funzionale ed è ambiguo!

Il linguaggio umano ha una struttura specifica come quello delle api (addome, velocità etc.) che può essere
appresa solo dagli esseri umani.

Si parte da una molteplicità di fenomeni e da questi si cerca una regola. Le ipotesi devono essere formulate
in modo chiaro, con un linguaggio tecnico univoco, universale, uguale per tutti per evitare ambiguità. Le
ipotesi devono essere verificabili e i dati accessibili a tutti.

C’è anche una opposizione tra linguistica e grammatica: la prima è descrittiva, si occupa di descrivere un
fenomeno linguistico senza dare dei giudizi di valore mentre la grammatica è normativa, dice ciò che si può
e non si può dire, ciò che è consigliabile, cosa utilizzare e non. Al linguista interessa descrivere e spiegare un
fenomeno, anche quelli che escono dalla codificazione grammaticale.

La lingua è in continuo mutamento, ogni giorno e questi cambiamenti ogni tanto diventano norme, per
quanto un’accademia possa cercare di mantenere una lingua, può farlo solo per lo scritto che il parlato
(ognuno parla come vuole). Questo processo è inesorabile e continuo. Al linguista interessa spiegare questo
mutamento e trovare le sue origini (come si sviluppa e si diffonde una cetra forma di parlato per esempio).

Abbiamo visto le 4 caratteristiche del linguaggio umano:

1) discretezza. «Discreto» significa che i suoi elementi hanno limiti ben definiti e sono pertanto
chiaramente distinguibili gli uni dagli altri. Per esempio, per quanto possano essere simili, i suoni [t]
e [d] sono ben distinti per il parlante e per l’ascoltatore (per es. tardo è una cosa ben diversa da
dardo), che non percepiscono entità intermedie tra i due, ma uno stacco netto.
Molti linguaggi animali sono invece continui: le api, per esempio, sono in grado di comunicare
tramite una ‘danza’ la direzione e la distanza di un giacimento di cibo. In particolare, la distanza è
indicata dalla velocità dei movimenti, che è una dimensione non-discreta
2) Un’altra caratteristica propria del linguaggio umano è la cosiddetta doppia articolazione, enunciata
dal linguista André Martinet nel 1960.
- A un primo livello di articolazione, ogni parola è scomponibile in unità più piccole, ancora
dotate di un significato (morfemi): per es. la parola gatto è scomponibile in un morfema gatt-,
che porta un’informazione lessicale (‘felino domestico ecc.’), e un morfema -o, che veicola
informazioni di tipo grammaticale (maschile singolare). Sono unità minime.
- A un secondo livello di articolazione, ciascuna parola è ulteriormente scomponibile in unità
ancora più piccole, ma non più dotate di significato (fonemi): per es. gatto può essere
scomposto in g-a-t-t-o. Ciascun elemento, di per sé, non ha un significato proprio, ma consente
di produrre un significato diverso, se scambiato con un altro elemento (se scambio [g] con [m]
ottengo matto, che ha un significato diverso da gatto).
La doppia articolazione consente alla lingua una grande economicità: attraverso un numero
molto limitato – solitamente poche decine – di unità minime (fonemi), che non hanno
significato, è possibile formare un numero infinito di unità dotate di significato.
3) Un’importante caratteristica del linguaggio umano, assente nei linguaggi animali, è la ricorsività,
che permette di costruire frasi sempre nuove, inserendo un’altra frase in una frase data, e poi
un’altra ancora, in un processo virtualmente infinito, per es. • a. Luca corre. • b. I ragazzi
sostengono che Luca corre. • c. Marta crede che i ragazzi sostengano che Luca corre. • d. Marta
crede che i ragazzi sostengano che Luca corre e salta.
Discretezza, doppia articolazione e ricorsività si ritrovano anche nei linguaggi informatici.
4) Ciò che distingue il linguaggio umano dai linguaggi informatici è la dipendenza dalla struttura.
Consideriamo la seguente frase: • La donna che i ragazzi dicono che mi ha colpito è Maria. • Il
verbo dell’ultima frase, ha colpito, si accorda con il nome singolare donna, piuttosto distante da
esso, ed è quindi alla terza persona singolare. La struttura delle frasi è gerarchica, c’è un tipo
specifico di ordine che dipende dalla struttura e non dalla vicinanza delle parole.
Tali relazioni complesse non dipendono dunque dalla semplice successione delle parole, ma sono
dunque dipendenti dalla struttura, mentre i linguaggi informatici sono solitamente indipendenti
dalla struttura, ossia il valore di ogni elemento è determinato da quelli ad esso adiacenti.

- La distinzione tra «lingua» e «linguaggio» non si trova in tutte le lingue: l’italiano ce l’ha, come
il francese (langue ~ langage), mentre l’inglese impiega la parola language per entrambi i
concetti, e lo stesso fa il tedesco con Sprache.
- Con linguaggio si intende la capacità di ogni essere umano di sviluppare un sistema di
comunicazione dotato delle caratteristiche di discretezza, doppia articolazione, ricorsività e
dipendenza dalla struttura.
- Con lingua si intende invece la forma specifica che tale sistema di comunicazione assume nelle
varie comunità.

Il rapporto tra lingua e linguaggio non è scontato, oggi siamo tornati a una visione tipica del Medioevo:
esiste un solo linguaggio, una sola grammatica e le lingue si possono variare ma comunque entro i limiti
imposti dalla facoltà del linguaggio, possono avere sistemi di categorie molto diversi tra di loro (ci sono
lingue con sistemi di generi diversi etc. ma comunque queste varianti non possono andare oltre le 4 qualità
che definiscono il linguaggio: tutte le lingue, quindi, sono caratterizzate da queste 4 qualità, anche se sono
diverse l’una dalle altre).

Le lingue differiscono tra di loro, ma entro i limiti ben definiti del linguaggio umano. In altri termini, le
lingue sono realizzazioni diverse di un unico linguaggio.

- Questa posizione entra presto in crisi e viene abbandonata del tutto tra Ottocento e
Novecento, quando la maggior parte dei linguisti credeva che le lingue potessero differire tra
loro senza alcun limite.
- Nella seconda metà del Novecento, diversi linguisti sono tornati ad una posizione più simile a
quella di Bacone (unicità del linguaggio e diversità delle lingue entro certi limiti).
Si possono effettivamente individuare alcuni elementi comuni a tutte le lingue (i cosiddetti universali
linguistici), tra i quali vi sono certamente la ricorsività e la dipendenza della struttura.

- Molti altri elementi, invece, possono differire da lingua a lingua, per es. l’ordine delle parole.
- Ad oggi, dunque, l’ipotesi prevalente è che le lingue siano diverse, ma che tale variazione non
sia illimitata, bensì abbia dei limiti ben definiti: esistono cioè degli universali, comuni a tutte le
lingue, e delle proprietà variabili, che sono oggetto di studio della tipologia linguistica.

FINE RIPASSO DELLA LEZIONE DEL 29/9/2022

Riassunto della lezione di oggi: La lingua come sistema: i livelli di analisi linguistica; scritto e parlato;
astratto e concreto: langue e parole (Saussure), codice e messaggio (Jakobson), competenza ed esecuzione
(Chomsky); i livelli di competenza del parlante e la grammatica dei parlanti.

Oggi parliamo delle lingue.

Cos’è una lingua? La lingua è un sistema MAMMA MIA AIUTAMI CHE NON CE LA POSSO FARE, cioè un
insieme di elementi regolati da norme e che sono connessi tra loro da delle regole di funzionamento che ne
determinano la connessione.

Ogni lingua è un sistema articolato su più livelli.

1) C’è un livello dei suoni, delle unità che rappresentano i suoni. Questo è il livello della fonologia.
Fonetica = suoni realizzati
2) Il livello delle parole, cioè la morfologia
3) Il livello delle frasi, cioè delle combinazioni di parole, la sintassi
4) Il livello dei significati, cioè la semantica.

Ciascuno di questi livelli costituisce un sistema, le cui unità sono tra di loro interdipendenti. Una lingua è
pertanto un «sistema di sistemi» unito da regole di funzionamento. La lingua è un sistema formato da
sistemi (= questa è una definizione generale di lingua).

SCRITTO VS. PARLATO

Nella nostra cultura, tendiamo a non distinguere lo scritto dal parlato. La lingua scritta ha una grande
tradizione in Italia, come in altri Paesi europei e la lingua letteraria tende ad essere considerata molto più
prestigiosa di quella orale. Non siamo abituati a pensare a una lingua senza un sistema di scrittura e le
regole di ortografia vengono confuse con quelle grammaticali, molto spesso o rientrano nelle regole
grammaticali. Infatti, l’errore più comune in un esame di linguistica è quello di parlare di lettere e non di
suoni (consideriamo scritto = parlato) ma la scrittura è una rappresentazione della lingua.

le lingue parlate mutano nel corso del tempo, mentre le scritture tendono ad essere molto più conservative
e registrano in ritardo – e spesso non senza un apposito atto ufficiale, come una riforma ortografica – i
mutamenti del parlato. Per esempio, l’ortografia del francese non riflette la pronuncia attuale, ma conserva
uno stadio di lingua più antico. D’altro canto, le lingue prevalentemente scritte sono meno soggette a
cambiamenti.

In realtà la linguistica oggi privilegia la dimensione orale perché la lingua è diversa da quella scritta. Se ci
pensiamo, la dimensione orale è primaria da tanti punti di vista e la lingua non ha davvero bisogno di una
dimensione scritta, ci sono tante lingue che non hanno avuto una tradizione scritta (esempio la lingua degli
indiani d’America e alcuni dialetti, altre lingue hanno dovuto attendere secoli per essere messi in forma
scritta, prima veniva tramandata oralmente) ma non esistono sistemi di scrittura non agganciati, in
qualche modo, a una lingua. In più, parlare è un’attività che viene appresa da bambini, nei primi anni di vita
in modo spontaneo ma scrivere non è naturale, si impara più tardi e questo ha bisogno di un
addestramento specifico a un’istituzione specifica, cioè la scuola. Un bambino sviluppa il linguaggio, impara
a parlare ma se nessuno glielo insegna, non impara a scrivere. La scrittura è quindi secondaria.

Il rapporto tra scritto e parlato comunque non è univoco, ci sono molte lingue ma non necessariamente
abbastanza sistemi di scrittura, anzi, i sistemi di scrittura, nati per rappresentare una certa lingua, si
possono poi estendere e adattare ad altre lingue. Per esempio, la scrittura cuneiforme dei sumeri per la
loro lingua, il sunnito, che dal punto di vista genealogico è isopata (?) ma poi questa scrittura viene adattata
dai babilonesi per rappresentare una famiglia linguistica diversa, una lingua afro-asiatica (imparentata con
l’arabo, il fenicio, l’ebraico etc.) e poi adattata dagli iti (?) per scrivere la loro lingua, che è una lingua
indoeuropea, l’ito.

L’alfabeto che usiamo oggi è lo stesso che usano i francesi, i tedeschi e gli inglesi e deriva dall’alfabeto
latino che risale da un alfabeto fenicio che si è sviluppato nelle aree del Libano e poi si è sviluppato in
Oriente e in Occidente. anche molte scritture orientali derivano da quell’alfabeto con trasformazioni e
adattamenti. Ha avuto una grande diffusione insomma. Quindi, lo stesso sistema grafico può essere usato
per più lingue e una stessa lingua può servirsi di più sistemi di scrittura, infatti molti testi medievali
dell’Italia del sud (Calabria, Sicilia etc.) sono scritti in caratteri, non lingua, greci: sono testi siciliani scritti in
alfabeto greco. Quindi la situazione è molto fluida da questo punto di vista: non c’è una relazione univoca
tra lingua e sistema di scrittura: una lingua può scegliere qualunque sistema di scrittura. Per questo i
linguisti si occupano della dimensione orale, togliendo tutto quello che è scrittura (anche se la scrittura è
importante, ci permette di accedere a lingue antiche, lingue morte).

NON CONFONDERE LETTERA E SUONO!! Un suono è un’unità minima non dotata di significato e una
lettera è un’unità minima dotata di significato e può variare da sistema a sistema.

(Una volta in italiano invece di usare la lettera h, si usavano vari accenti per distinguere gli omofoni come
anno e hanno ma anche altre cose, altri simboli e rappresentazioni)

Le lingue mutano nel corso del tempo e questi mutamenti non sono necessariamente registrati dai sistemi
di scrittura, o se succede è lentamente perché c’è bisogno di una riforma ortografica: si stabilisce che una
certa convenzione non è più attuale e quindi questa si cambia ma di base i sistemi di scrittura si tengono
molto più fedeli a sé stessi nel tempo, creando un gap tra scritto e parlato. Degli esempi di questo sono
l’inglese e il francese che hanno dei suoni che vengono pronunciati in modo diverso (the great vowrel
shift!?). Questo è molto utile perché il linguista ha accesso a una forma antica, attraverso la scrittura.

ASTRATTO E CONCRETO

Le lingue parlate sono viste come prodotto concreto, c’è un movimento di particelle per generare il suono
(?).

Nella lingua, è possibile distinguere due livelli: un livello «astratto», a cui appartengono le unità distintive, e
un livello «concreto», caratterizzato da una grande varietà di realizzazioni.
Per esempio, sul piano concreto, la vocale [a] della parola mano può essere realizzata in modi differenti (più
lunga, più breve, ecc.), ma queste distinzioni, che fisicamente esistono, non sono rilevanti: ciascun parlante
riconoscerebbe comunque la parola mano. In altri termini, a livello astratto c’è una sola /a/, che può
realizzarsi concretamente in maniera differente, il significato non cambia.

Ma se invece di mano dico meno, con [e], si produce una differenza di significato: l’opposizione tra [a] ed
[e], pertanto, è rilevante, perché determina significati diversi.

Posso realizzare una certa unità in tanti modi


diversi ma se non si produce una differenza nei
significati, tutte quelle realizzazioni fanno
riferimento alla stessa unità astratta

C’è un piano astratto dove ci sono delle unità funzionali e indipendentemente da come uno le realizza sul
piano concreto, il parlante nativo è in grado di ricondurre quelle realizzazioni a quelle unità (io pronuncio le
cose diversamente da te ma tu riesci comunque a capire di cosa sto parlando, anche se le mie realizzazioni
del suono sono diverse, le riconduci alla stessa unità nel piano astratto), questo finché non si riferisce a
un’altra unità nel piano astratto, cambiando il significato per esempio mano, meno. Questo ovviamente da
lingua a lingua cambia, l’italiano porta differenze di significato dalla -o alla -u per esempio come però e
Perù. Per altre lingue questo non è scontato, per esempio il nahuatl che non aveva a livello astratto la
differenza tra -o e -u, erano diverse realizzazioni dell’unità funzionale astratta.

È importante distinguere il livello astrato dal concreto, perché a livello astratto abbiamo le unità che
distinguono i significati e a quello concreto ci sono tutte le possibili realizzazioni di queste unità, che non
sono necessariamente le stesse per ciascuna unità: ogni unità astratta può essere rappresentata in modi
diversi a livello concreto, per esempio, con la -r e la -rrr, la erre vibrante. L’unità è la stessa e la realizzazione
è diversa ma il significato rimane lo stesso (è lo stesso fonema rappresentato in diversi foni).

Questa distinzione è fondamentale e viene codificata nel 1916 da diversi linguisti.

Nel 1916 viene pubblicato postumo il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, a cura dei
suoi allievi Albert Sechehaye e Charles Bally, che hanno raccolto gli appunti delle lezioni di tre corsi tenuti
da Saussure a Ginevra tra il 1906 e il 1911. Lui aveva tenuto delle lezioni di linguistica generale a Ginevra dal
1906 al 1911 e il suo Cours è il frutto degli appunti che i suoi allievi avevano preso durante le sue lezioni. Lui
di suo aveva scritto poco di suo, ha scritto soprattutto sulla linguistica storica. Questa comunque era
un’opera complessa, gli studenti erano dei linguisti.

Alla base del concetto di lingua, Saussure pone una serie di dicotomie nella sua opera: 1. Sincronia e
diacronia 2. rapporti associativi e rapporti sintagmatici 3. significante e significato 4. langue e parole.

LANGUE E PAROLE

La distinzione tra langue e parole è quella tra un sistema astratto e la realizzazione concreta.

La langue è il sistema linguistico, il livello astratto della lingua che comprende quindi le unità funzionali, le
regole di funzionamento che determinano le possibilità in cui queste unità possano formare frasi, unità più
grandi etc.

La parole invece, è il piano delle realizzazioni concrete che dipendono dagli elementi della langue. Per cui, i
fonemi, le unità distintive astratte, vengono realizzate in maniera concreata in foni, i morfemi, le unità di
prima articolazione, dotati di significati, vengono realizzate in maniera concreta da morfi (morfema il –
morfi il, lo, gli).

Quando comunichiamo, produciamo atti di parole, che sono esecuzioni individuali. Secondo Saussure, però,
un individuo non possiede tutta la «lingua»: questa sta al di fuori degli individui, appartiene alla collettività,
è sociale e astratta. Questa è la langue, costituita dall’insieme delle conoscenze mentali e delle regole che
permettono di produrre messaggi in una certa lingua.

La langue è dunque il sistema di riferimento collettivo e astratto, ed è il fondamento degli atti di parole, che
sono concreti e individuali.

Per Saussure la langue deve essere qualcosa di collettivo, altrimenti ognuno avrebbe la propria e non
saremo in grado di capirci perché per poterci capire, deve esserci una condivisione dello stesso sistema
linguistico, punto di riferimento. Tutte le espressioni linguistiche sono producibili e comprensibili proprio
perché fanno parte dello stesso sistema linguistico, se cambia il sistema di riferimento, non c’è
comprensione (se io ti parlo in inglese e tu mi parli in italiano, io non ti capisco e non posso neanch
produrre la tua lingua). Il fatto che la langue sia collettiva garantisce la comunicazione tra gli individui.

La stessa opposizione tra astratto e concreto, viene anche ripresa da altri linguisti, in particolare da Roman
Jakobson della scuola di Praga, scuola funzionalista (lo vedremo più avanti). Due dei fattori che ricorrono in
ogni atto comunicativo (sono sei: 1 ci deve essere un parlante, 2 un ascoltatore, 3 un messaggio, 4 un
referente, 5 un codice (lingua, italiano per esempio) e 6 un mezzo ? un canale come l’aria con cui arrivano
le parole ? ma lo vedremo più avanti).

CODICE E MESSAGGIO

Prima abbiamo detto che due fattori dell’atto comunicativo sono codice e messaggio, questi sono i
corrispondenti di langue e parole di Saussere. Il codice è la langue e il messaggio la parole.

Il codice è astratto ed è costituito da una serie di unità e di regole di combinazione di tali unità.

Il messaggio è invece un atto concreto, costruito sulla base delle unità fornite dal codice.

Le lingue funzionano in questo modo: il codice è costituito da unità astratte come /p/, /n/, ecc., che,
tramite determinate regole, possono combinarsi per formare dei messaggi

CONCRETO E ASTRATTO

Una terza distinzione basata sulla dicotomia tra astratto e concreto è quella tra competenza ed esecuzione,
elaborata da Noam Chomsky, una delle più importanti della linguistica del ‘900. Parla di competence e
performance.

La competenza è l’insieme delle conoscenze che l’individuo ha della propria lingua, mentre l’esecuzione è
l’atto concreto di realizzazione. Per lei c’è una differenza tra langue e competence: la langue di Sassuere è
collettiva, per garantire la comunicazione ma per lei è individuale, ogni parlante ha la sua competenza e
queste sono sovrapponibili, sono grossomodo le stesse o simili di quelle di altri individui (quindi comunque
ci si può capire).

Se per Saussure la langue è un fatto sociale, esterno ai singoli individui, per Chomsky, la competenza risiede
nella mente dell’individuo. Il fatto che tale competenza sia largamente condivisa dai parlanti di una stessa
lingua garantisce la comunicazione.

Quindi l’unica differenza sostanziale è quella di langue e competence!!!!


I LIVELLI DI COMPETENZA DEL PARLANTE

Ora vediamo cosa c’è nella langue, vediamo cosa sono i livelli di competenza del parlante. Abbiamo detto,
in termini generali, che nella langue troviamo: le unità funzionali e le regole di comunicazione di queste
unità. In cosa consistono le competenze del parlante? I parlanti hanno tutte una serie di competenze
linguistiche, molte delle quali sono inconsapevoli e quindi il parlante nativo di una lingua per parlare una
lingua attua concretamente una serie di cose, governate da regole, che più delle volte non conosce. Infatti,
per esempio, noi per capire la distribuzione dei tre allomorfi dell’articolo determinativo il dobbiamo
pensarci e poi tiriamo fuori la regola, anche se non la sappiamo direttamente, sappiamo le regole in
maniera inconsapevole. Un altro esempio: sul piano morfologico, ogni parlante è in grado di riconoscere i
suoni della sua lingua e distinguerle quelli che non appartengono alla sua lingua.

Quindi, ciascun parlante possiede un vastissimo insieme di conoscenze linguistiche, per lo più
inconsapevoli, che possono essere suddivise secondo i diversi livelli che costituiscono una lingua. Sul piano
fonologico, ogni parlante sa quali sono i suoni della sua lingua ed è in grado di distinguere quelli che non lo
sono. Per esempio, un parlante italiano sa che [p], [n] e [a] sono suoni dell’italiano e che [pf], [θ] e [x] non lo
sono. Sa inoltre che combinazioni di suoni come pane e mano costituiscono delle parole italiane, mentre
combinazioni come pnae e mnoa no.

Ma il parlante ha anche delle conoscenze più sottili, per esempio il fatto che se una parola italiana inizia
con tre consonanti, la prima deve necessariamente essere [s] (per es. strano, sproposito, ecc.). Sa inoltre
dividere le parole in sillabe, sa identificare la posizione dell’accento e attua senza pensarci una serie di
cambiamenti (per es. [k] > [t∫] in amico ~ amici). Sono regole inconsapevoli che i parlanti attuano senza
conoscerle.

Quindi il parlante italiano attua tutte queste cose senza pensarci.

Queste cose riguardano la fonologia. Ora passiamo alla morfologia. Anche sul piano morfologico il parlante
ha una certa competenza, molto approfondita delle parole e le può distinguere da quelle che non
appartengono alla sua lingua. Il parlante sa formare parole nuove mediante meccanismi di parole produttivi
nella lingua e può analizzare le parole complesse, cercare di capirne il significato analizzando gli elementi
che la compongono ed è in grado di associare una certa semantica a ciascun morfema e sa anche che non
sempre si può usare una certa regola per esempio diss-, non va con veloce o furbo per formare il proprio
contrario e neanche im-.

Si possono anche creare parole nuove, come petaloso.

Sa poi che i composti non si possono formare a partire da due parole qualsiasi (per es. *uomo cielo) è che
l’ordine dei termini di un composto non può essere invertito liberamente (per es. *stazionecapo).

Sul piano sintattico, i parlanti sono in grado di formare vari tipi di frasi e non hanno alcuna difficoltà a
capire frasi nuove, pur non avendole mai sentite prima. Inoltre, sono in grado di valutare la grammaticalità
delle frasi (cfr. lo vado a prendere ~ *lo penso di prendere).

Infine, sul piano semantico, i parlanti sanno riconoscere il significato di parole e frasi, si parla quindi di
grammaticità; riconoscono, per esempio, i sinonimi, ma sanno anche che la sinonimia completa non esiste e
che due parole, per quanto simili nel significato, non sono sempre intercambiabili (per es. una casa vecchia
~ *una casa anziana). Sono inoltre in grado di disambiguare automaticamente frasi potenzialmente
ambigue (per es. svendita autunnale bambini).

Tutte queste competenze fanno parte della grammatica dei parlanti, cioè di quell’insieme di conoscenze
immagazzinate nella sua mente. Tale grammatica è il prodotto dell’equilibrio tra fattori innati e esperienze
acquisite all’interno di una comunità linguistica.

Prof. Valerio Pisaniello 4/10/2022

Riassunto della lezione di oggi: Una lingua non realizza tutte le possibilità; rapporti sintagmatici e rapporti
paradigmatici; sincronia e diacronia; classificazione dei segni; il segno linguistico: significante e significato;
proprietà del segno linguistico (distintività, linearità, arbitrarietà).

UNA LINGUA NON REALIZZA TUTTE LE POSSIBILITA’

Abbiamo visto che, la lingua è un codice che ha delle unità e delle regole di combinazione. Ogni lingua
sceglie, in modo completamente arbitraria, un insieme più o meno ristretto, un’insieme di unità e regole. =
Una lingua, in quanto codice, è costituita da una serie di unità e di regole di combinazione di tali unità.

Quindi, di tutte le possibilità che ci sono, una lingua ne realizza solo alcune. Le lingue del mondo non
sfruttano mai tutte le possibilità, né a livello di unità né a livello di regole. Per esempio, il repertorio di
fonemi di una lingua non coincide con tutti i suoni che l’apparato fonatorio è in grado di produrre, ma
ciascuna lingua seleziona quelli che ritiene pertinenti (per es., l’arabo ha solo tre vocali, [i, u, a], l’italiano
non ha [θ], ecc.). = i fonemi di una lingua non coincidono con quelli di un’altra lingua, sono distinti (i
significati non cambiano anche se tipo in italiano possono esserci diverse realizzazioni). Questo vale sia per
le vocali che le consonanti.

Ciò vale anche nel caso delle regole di combinazione dei suoni: il tedesco, per esempio, ammette nessi
consonantici impossibili in italiano, come in Arzt ‘medico’. Ogni lingua ha regole, quindi combinazioni,
diverse.

Anche nel caso della morfologia, non tutte le possibilità sono realizzate: per esempio, nomi astratti di
azione possono essere derivati da verbi mediante una serie di suffissi, quali -ata, -mento, -zione, -aggio,
ecc. Tuttavia, questi non possono essere attaccati indifferentemente a tutti i verbi, ma ciascun verbo
selezione uno o più suffissi, basi verbali con determinate caratteristiche a livello semantico, per esempio:

• regolare > regolamento, regolazione, non *regolaggio, ecc. • boicottare > boicottaggio, non
*boicottamento, *boicottazione, ecc. • mangiare > mangiata, non *mangiamento, *mangiazione, ecc.

Eppure, ci sono delle regole di selezioni ben precise per la selezione delle basi.

Lo stesso vale per la sintassi: non tutte le combinazioni di parole sono ammesse, non tutte si possono
combinare, per esempio: • Il buon primo capitolo = questo e anche il secondo, sono sintagmi completi • Il
primo buon capitolo • *Il capitolo buono primo = questo non è corretto.

SINTAGMATICO E PARADIGMATICO

Una delle dicotomie introdotte da Saussure nel Cours de linguistique générale oppone rapporti sintagmatici
a rapporti associativi (o paradigmatici).

Ogni unità della lingua (fonema, morfema, parola, sintagma etc.) intrattiene rapporti sintagmatici con
quelle vicine e rapporti paradigmatici con quelle assenti, che avrebbero potuto realizzarsi nello stesso
punto, in quella situazione. Quindi, questi rapporti sintagmatici, sono rapporti in presenza.
I rapporti sintagmatici si hanno tra unità co-presenti: parole come ancora o anfora non vengono
pronunciate separando un suono dall’altro, ma in un’unica emissione di fiato. In questo processo, i suoni si
influenzano tra loro.

La n di ancora è infatti diversa dalla n di anfora: la prima è influenzata dalla velare [k] che segue, la seconda
dalla labiodentale [f]. Nel primo caso avremo dunque una nasale velare, [ŋ], nel secondo, una nasale
labiodentale [ɱ]. Quindi, questi suoni si influenzano tra loro.

I rapporti associativi o paradigmatici sono invece


in absentia e si hanno tra elementi che possono
comparire nel medesimo contesto (non
contemporaneamente!):

Rapporti sintagmatici e paradigmatici non riguardano solo i suoni:

Tra la o di questo, la o di mio e la o di libro vi sono


dei rapporti sintagmatici, mentre tra questo, il,
quel e un vi sono dei rapporti paradigmatici (*il
questo mio libro) = possono essere sostituiti con
tutti questi elementi nella frase ma non possono
occorrere nello stesso tempo, non posso dire il
questo mio libro.

Desinenze e numeri si influenzano tra di loro. Il libro è il controllore del rapporto, controlla gli altri elementi
della frase – c’è un rapporto sintagmatico di accordo tra queste tre parole.

Questi rapporti sono specifici di ogni lingua, tutte le lingue sono diverse. Tra articolo e nome c’è un
rapporto sintagmatico – libro è maschile e anche l’articolo determinativo, ma in inglese, per esempio,
questo non è necessario, o c’è l’uno o l’altro ma non possono esserci nello stesso contesto.

Allora, l’asse sintagmatico è quello dei rapporti in presenza, l’asse paradigmatico è in assenza, va con le
sostituzioni. Se io ho la frase il mio gatto corre nel giardino di mia zia, ogni relazione con tutti questi
elementi sintagmatici in presenza, sono in rapporto tra di loro, sono in accordo. Anche il nome e il verbo
sono in rapporto sintagmatico = il nome e il verbo sono in 3° persona singolare. Nel giardino e anche per
mia zia, anche questi sono in rapporto sintagmatico. In rapporto paradigmatico, posso avere altre cose per
esempio tuo al posto di mio, gatto al posto di cane, correva invece di corre etc.

Vediamo un altro esempio di rapporto paradigmatico.

Paradigma = una serie morfologica di elementi che tra di loro sono in un rapporto di tipo pragmatico, in
questo caso. La base mi indica l’imperfetto, poi abbiamo la desinenza e le desinenze son tra di loro in
rapporto paradigmatico: se io realizzo una di quelle, non posso realizzare l’altra nello stesso tempo, nella
stessa forma verbale.

La relazione tra nome e aggettivo non è che non esistono in altre lingue, è che morfologicamente non
vediamo, non ci accordiamo che sono collegati. In italiano si, lo vediamo.

SINCRONIA E DIACRONIA

Le lingue mutano nel corso del tempo, cambiano cioè in diacronia. La parte della linguistica che si occupa
dello studio del mutamento è la linguistica storica (o glottologia), quindi questa tiene conto della
dimensione del tempo, l’altra no.

Le lingue, però, si possono studiare anche senza considerare il fattore tempo: si tratta di uno studio
sincronico. Per esempio, da una parte, posso studiare le regole che determinano la scelta dell’articolo
nell’italiano contemporaneo (studio sincronico), dall’altra, il mutamento che, nel corso del tempo, ha
cambiato tali regole (studio diacronico).

Diciamo che la lingua “va avanti tramite quelli che vengono considerati errori grammaticali” cosa che è
successa nel passaggio tra il latino e l’italiano, dove ci sono state una serie di innovazioni finché i parlanti
non si sono resi conto che la lingua che stavano parlando era diversa da quella dei testi.

Le lingue mutano con il tempo, quindi la vera distinzione è quella diacronica. Il lessico cambia ogni anno, ci
sono sempre parole nuove che vengono dalla lingua stessa o da altre o che coinvolgono altri elementi
(sintassi, morfologia etc.). Ci sono anche lingue che possono perdere o acquisire fonemi.

Uno studio che tiene conto dello scorrere del tempo e di tutte le fasi linguistiche possibili documentate è
uno studio quindi di tipo diacronico.

Però, io posso anche decidere di studiare un certo fenomeno linguistico decidendo di saltare il tempo, di
studiare in sincronia, prendo l’italiano attuale e analizzare un fenomeno linguistico del momento, non ho
bisogno di un elemento diacronico: prendo dei dati, indifferentemente dall’epoca, e studio un determinato
fenomeno linguistico, se fosse uno studio diacronico invece, devo guardare come il fenomeno è cambiato
nel tempo.

‘Sincronico’ non significa ‘presente’! Si possono fare studi in sincronia anche su lingue antiche e diacronico
non significa passato. Io posso prendere una lingua come se fosse un blocco unico e fare uno studio
sincronico / posso studiare gli avverbi di un’epoca (?) posso vedere uno sviluppo diacronico in un autore o
fare uno studio diacronico dalle opere di giovinezza per capire se c’è stato uno sviluppo. Posso fare lo
stesso nelle lingue contemporanee.

LA CLASSIFICAZIONE DEI SEGNI

Il segno può essere definito come l’unità fondamentale della comunicazione, quello che fa da supporto al
passaggio dell’informazione. Un segno è costituito da un’espressione e da un contenuto. Espressione = il
modo in cui il segno è fatto, cosa lo costituisce mentre il contenuto è quello che il segno, l’elemento
comunica.

Esistono diversi tipi di segni, che possono essere classificati in base a due criteri: l’intenzionalità e la
motivazione (cioè il grado di rapporto naturale che esiste tra il segno e ciò che rappresenta = espressione
vs contenuto):

1) indici (o sintomi): sono segni non intenzionali e motivati naturalmente = sono basati sul rapporto
causa > effetto (per es. starnuto = ‘avere il raffreddore’, = non intenzionale, io non scelgo di avere il
raffreddore ed è causa effetto perché io starnuto perché ho il raffreddore, nuvole nere = ‘pioggia in
arrivo’, orme sulla neve = ‘è passato qualcuno, ecc.’, fumo nell’aria = ‘fuoco’);
2) segnali: usati intenzionalmente e motivati naturalmente (per es. sbadiglio volontario = ‘mi
annoio’, accendo una luce = ‘segnalo la mia presenza’); un altro esempio: io sbadiglio perché ho
sonno = è naturale ed è intenzionale.
3) icone: intenzionali e motivati analogicamente (= c’è un rapporto di somiglianza) , sono basati sulla
similarità di forma o di struttura e riproducono l’oggetto designato (per es. carte geografiche,
disegni, simboli impiegati sulle guide turistiche, alcuni cartelli e segnali stradali, ecc.);
4) simboli: intenzionali e non motivati, vale a dire che il rapporto tra espressione e contenuto è
convenzionale e arbitrario (per es. colore nero = ‘lutto’, ma in altre culture il colore del lutto è il
bianco; colomba/ramoscello di ulivo = pace, ecc.). I segni linguistici rientrano in questo gruppo,
sono validi in certe comunità e se non capiamo il segno non possiamo interpretarlo.

IL SEGNO LINGUISTICO

Secondo Saussure, il segno linguistico è costituito da due elementi, il significante e il significato. Hanno
un’espressione che coincide con una stringa di fonemi, hanno un contenuto = un significato ma non c’è
relazione tra espressione e contenuto, hanno un proprio segno linguistico che è comprensibile solo alla
comunità linguistica a cui appartiene (cane ha questo significato di animale così solo in italiano, in altre
lingue ha altri nomi). I segni linguistici quindi sono dei simboli.

Il significante è la forma fonica (l’immagine acustica, secondo la definizione di Saussure, NON il suono
concretamente pronunciato, è una cosa mentale, estratta, la stinga di fonemi che costituiscono quella
parola) del segno linguistico (per es. nel caso della parola cane, il significante è costituito dalla sequenza dei
fonemi /k/ /a/ /n/ /e/).

Il significato è l’immagine mentale (il concetto) che abbiamo di un dato referente (nel caso del cane, quella
di un quadrupede domestico ecc.), NON è la realtà extralinguistica, è ciò a cui fa riferimento, è sempre a
livello astratto (anche se fa riferimento a un pezzo di realtà).

L’immagine mentale non coincide con il referente, che è un’entità extralinguistica.


Il referente sta fuori dal cerchio, dal segno linguistico. Il segno linguistico ne fa riferimento ma non
necessariamente, tanti elementi non fanno riferimento ad elementi che esistono realmente come i draghi e
le virtù.

LE PROPRIETA’ DEL SEGNO LINGUSITICO

Le proprietà del segno comprendono:

1) la distintività: ciascun segno è distinto dagli altri (notte, botte, cotte, ecc.);
2) la linearità: ogni segno si estende nel tempo e nello spazio; c’è dunque una successione precisa
degli elementi che lo costituiscono, c’è un ordine specifico, che non può essere alterata (al è
diverso da la, remo è diverso da more, ecc.). I segni non linguistici non sono necessariamente
lineari: nel caso di un cartello stradale, per esempio, non importa quale parte sia stata disegnata
prima;
3) l’arbitrarietà: «Il legame che unisce il significante al significato è arbitrario, o ancora, poiché
intendiamo con segno il totale risultante dall'associazione di un significante a un significato,
possiamo dire più semplicemente: il segno linguistico è arbitrario. […] La parola arbitrarietà richiede
anche un’osservazione. Essa non deve dare l'idea che il significante dipenda dalla libera scelta del
soggetto parlante […] noi vogliamo dire che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al
significato, col quale non ha nella realtà alcun aggancio naturale». (Saussure, CLG: 85-87)

Non c’è nessuna ragione per cui a un certo significante si debba associare un certo significato (per
esempio, alla forma [cane] il significato ‘cane’): l’associazione tra significante e significato è del tutto
arbitraria, cioè immotivata e convenzionale, tanto che, in altre lingue, lo stesso significato corrisponde a
diversi significanti (dog, Hund, perro, inu, itzcuīntli, ecc.).

Prof. Valerio Pisaniello 6/10/2022

Oggi abbiamo parlato di: Arbitrarietà del significante e del significato; eccezioni all'arbitrarietà del segno; le
funzioni della lingua secondo Jakobson; alcuni pregiudizi linguistici; lingua e dialetto.

ARBITRARIETA’ DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANE

Ma l’arbitrarietà non si esaurisce nel rapporto tra significante e significato. Accanto a questa arbitrarietà
«verticale», esiste un’arbitrarietà «orizzontale» che riguarda tanto il piano del significante quanto quello
del significato.

Sul piano del significante, le diverse lingue del mondo hanno diversi repertori di fonemi (cioè di unità
distintive): ciò significa che, tra tutti i suoni che possono essere prodotti dall’apparato fonatorio umano,
ciascuna lingua ne seleziona arbitrariamente solo una parte. Per cui, i significanti delle varie lingue non
sono costituiti sempre dalle stesse unità. Questa è un’arbitrarietà che si colloca solo a livello del
significante, non ci interessa del significato ma gli elementi costitutivi del significante.

La stessa cosa si può dire del significato, questo corrisponde a dei concetti che sono il modo in cui mi
riferisco alla realtà: ogni lingua ritaglia dalla realtà porzioni più o meno estese, le lingue concettualizzano la
realtà in modo diverso. Immaginiamo, per capire, che la realtà sia una torta: ogni lingua taglia un pezzo di
torta differente che corrisponde a uno spazio di realtà, quindi lo stesso spazio può corrispondere a un solo
concetto o a più concetti in un’altra lingua, per esempio:

In inglese wood, ha tre significati che corrispondono all’italiano: legno, legna e bosco.

Questo è arbitrario, non impone una certa concettualizzazione del mondo, ogni lingua ha la sua, ha criteri
differenti.

Un altro esempio è la divisione della giornata:

Un altro esempio tipico di questo fenomeno: ogni lingua suddivide arbitrariamente la gamma continua dei
colori. Per es. it. giallo, verde ~ ingl. yellow, green ~ accadico ḫaṣartum ‘giallo-verde’ (= un unico elemento).

Altri esempi ancora possono riguardare, per esempio, i nomi di parentela (it. nipote ~ ingl. nephew, niece,
grandchild), nomi di cibi (it. carne ~ ingl. meat, flesh), ecc.

Quindi, queste “fette di realtà”, questa concettualizzazione della realtà delle lingue, riguarda solo il piano
del significato, si riflette su quello dei significanti (perché ci associamo un significante) ed è dominato dalla
arbitrarietà.

ECCEZIONE DELL’ARBITRARIETA’ DEL SEGNO LINGUISTICO

Un’eccezione all’arbitrarietà del segno è rappresentata dalle forme onomatopeiche, che cercano di
riprodurre i suoni (tintinnare, sussurrare, ecc., c’è quindi qui un rapporto di somiglianza tra signifiante e
significato). Esiste quindi, in questo caso, un rapporto «naturale» tra il significante e la realtà che
rappresenta (si tratta di elementi iconici), un rapporto si somiglianza tra alcuni segni linguistici e quello che
indicano, è analogica.

Anche in questo caso, però, esiste un’arbitrarietà parziale: infatti, le onomatopee variano da lingua a
lingua. Questo accade anche con altri processi iconici: raddoppiamento come marca di intensità, pluralità,
ecc. (esempi: sopra + tutto etc,). Lingue diverse possono usare il raddoppiamento con diverse funzioni, io
raddoppio parte della radice, del nome, o del verbo per indicare la ripetizione di un’azione, per indicare una
pluralità ma non è obbligatorio e lo stesso meccanismo può indicare cose diverse, anche in altre lingue,
quindi anche qui c’è l’arbitrarietà.

Quindi, anche dove troviamo dei processi iconici nelle lingue, comunque l’è arbitrarietà

LE FUNZIONI DELLA LINGUA

Secondo Jakobson, le componenti necessarie per un atto di comunicazione linguistica sono: • 1. un


parlante • 2. un referente = la realtà extralinguistica rappresenta • 3. un messaggio = l’informazione che
viene tradotta dal parlante e ascoltata, percepita dall’ascoltatore • 4. un canale = il canale di
comunicazione con il quale passa questo messaggio, questa comunicazione • 5. un codice = la langue, il
sistema linguistico di riferimento. Questo, ricordiamo, è necessario che sia condiviso dal parlante e il
referente • 6. un ascoltatore. Sono sei funzioni che rendono possibili l’atto linguistico.

- Il referente è rappresentato dalla realtà extralinguistica, ciò a cui l’atto linguistico rimanda.
- Il canale è normalmente l’aria (tranne in casi particolari, come la comunicazione telefonica)

Quindi, se io dico questo è un tavolo, io parlo, ho un referente che è il tavolo, il codice di riferimento è
l’italiano e il canale è l’aria.

A ciascuna di queste sei componenti, Jakobson assegna una specifica funzione (o di più, a seconda di quale
è più prevalente).

1. parlante = funzione emotiva: si realizza quando il parlante esprime stati d’animo; ogni atto mira a
una determinata funzione e dipende da quale di queste funzioni è più prevalente.
2. referente = funzione referenziale: è una funzione puramente informativa;
3. messaggio = funzione poetica: si realizza quando il messaggio è costruito in modo tale che
l’ascoltatore è costretto a tornare sul messaggio stesso per apprezzare il modo in cui è formulato
(per esempio in un testo poetico); questo succede in testi poetici o artistici, è un tipo di
comunicazione basata sul messaggio e l’ascoltatore deve prestare attenzione alla struttura di
questo messaggio, che è la funzione primaria.
4. canale = funzione fàtica: si realizza quando si vuole avere conferma che il canale sia aperto e
funzioni correttamente (per es. pronto? Hai capito? Mi senti?); tutte le volte in cui una persona
chiede se riesce a sentire l’altro parlante, per esempio. Voglio capire se c’è stato un giusto
passaggio di informazioni.
5. codice = funzione metalinguistica: si realizza quando il codice viene usato per parlare del codice
stesso (come nel caso delle grammatiche); per cui, in una lezione di grammatica italiana, quando il
docente spiega in italiano, le strutture dell’italiano, la funzione prevalente è quella metalinguistica
(ma ci sarà anche quella fàtica, solo che la lezione si concentra di più sul codice).
6. ascoltatore = funzione conativa: si realizza come comando o esortazione rivolti all’ascoltatore
(come nel caso dei galatei, quando si danno consigli sul comportamento). Per esempio, quando
dico a qualcuno vattene via!

Ogni testo, scritto o orale, può realizzare diverse funzioni, anche se di solito una prevale sulle altre: per
esempio, un libro di grammatica realizza soprattutto la funzione metalinguistica, ma può realizzare anche
quella conativa o quella fàtica.

ALCUNI PREGIUDIZI LINGUISTICI

- Le lingue evolvono dal semplice al complesso: secondo tale assunto, esistono lingue «primitive»,
con sistemi fonologici, morfologici e sintattici estremamente semplici, che poi evolvono in lingue
«complesse» dal punto di vista fonologico, morfologico e sintattico. In realtà, tutte le lingue fino a
oggi attestate, anche quelle più antiche, mostrano una notevole complessità in tutti i livelli di
analisi. Inoltre, molto spesso l’evoluzione di una lingua porta a delle semplificazioni. Quindi le
lingue che hanno una struttura morfologica semplice, non significa che siano semplici (esempio:
passaggio di come il persiano sia cambiato dall’antico al medio persiano, con il tempo si è
semplificato). Il mutamento linguistico non necessariamente porta a una maggiore complessità
della lingua. Tutte le lingue sono sistemi perfettamente funzionali e hanno le loro regole.
- Esistono lingue «logiche» per eccellenza: secondo molti, il latino e il greco sarebbero lingue
«logiche»; in realtà, non esistono lingue illogiche! Ogni lingua ha la sua logica interna: sono tutte il
prodotto della mente umana, possono essere apprese e tramandate (per esempio la classificazione
maschile – femminile, per alcune lingue potrebbe sembrare illogica!).

LINGUA E DIALETTO

Alcuni pregiudizi riguardano il rapporto tra lingua e dialetto. La distinzione tra lingua e dialetto non è una
distinzione linguistica: parlando in termini strettamente linguistici, non c’è nessuna distinzione tra lingua e
dialetto perché ogni dialetto ha la sua morfologia, fonologia, sintassi etc. quindi ha tutti gli elementi del
sistema linguistico e non sono meno sviluppate di una lingua. Quindi, dal punto di vista linguistico, tutti i
dialetti sono lingue. Dal punto di vista sociolinguistico, quindi parlando di prestigio, l’italiano standard è più
formale rispetto al dialetto, la lingua è diversa dal dialetto per una questione di status. Una lingua è un
dialetto con un esercito e una marina.

I pregiudizi sono questi:

1. i dialetti derivano dalle lingue; l’italiano standard sappiamo che viene dal fiorentino ma al tempo
c’era chi voleva tornare al latino o usare altre lingue ma veniva tutelato e sostenuto questo
fiorentino del ‘300, quello di Boccaccio e si costruisce, su questo, l’italiano, che è una lingua
letteraria. I dialetti italiani già esistevano, ogni paese aveva una sua varietà che era una varietà del
latino, i dialetti italiani vengono dal latino.
2. le lingue sono più evolute dei dialetti. La lingua standard è quella riconosciuta dalle grammatiche e
che viene parlata tipo dai presidenti etc.
- Da un punto di vista strettamente linguistico, non c’è nessuna differenza tra una lingua e un
dialetto! Tutti i dialetti sono lingue, con un proprio sistema fonologico, morfologico, sintattico e
semantico. La differenza tra lingua e dialetto è puramente sociolinguistica.
- Generalmente, sono le lingue ufficiali a derivare dai dialetti: alla base dell’italiano standard c’è il
fiorentino del 1300, scelto da Pietro Bembo come modello; nell’antica Grecia, non si può parlare di
lingua comune prima dell’età ellenistica, ecc.

Prof. Valerio Pisaniello 7/10/2022

Oggi abbiamo parlato di: Le lingue del mondo e i criteri di classificazione (genealogico, tipologico, areale); la
classificazione genealogica: le famiglie linguistiche; la famiglia linguistica indoeuropea: gruppi indoiranico,
tocario, anatolico, armeno, albanese.

LINGUE DEL MONDO

Nel mondo ci sono circa 7000 lingue (dialetti esclusi) ma la risposta più giusta sarebbe dire che ci sono
tante lingue quanti gli umani, i parlanti perché la dimensione della lingua è la variazione e ognuno di noi,
anche in una comunità linguistica dove tutti parlano la stessa lingua, hanno tutti lo stesso codice, ognuno
parla una lingua che è il dialetto. la mia lingua, il mio codice linguistico, è diverso dal tuo anche se è sempre
italiano. Io ho un lessico diverso dal tuo (?), ognuno di noi ha un background bilingue. Il parlante tipico è
almeno bilingue: conosce la varietà standard della lingua e la propria.

Il numero di parlanti varia notevolmente, ci sono lingue come l’inglese che hanno molti più parlanti, altre
come alcuni dialetti italiani dove poche decine di persone li parlano.
Le lingue del mondo possono essere classificate secondo vari criteri per esempio per estensione
geografica, il grado di ufficialità della lingua (in quanti paesi è considerata ufficiale quella lingua), in base ai
numeri di parlanti etc. Quello del numero dei parlanti è uno dei criteri possibili (l’organizzazione
Linguasphere ha proposto un indice di classificazione con dieci ordini di grandezza, che vanno da 9 – lingue
con più di un miliardo di parlanti – a 0 – lingue estinte, cioè senza più parlanti).

Una tale classificazione ha dei grossi limiti (per es. la stima del numero di parlanti di una lingua si basa
spesso sul numero di cittadini della nazione dove quella lingua è parlata). Inoltre, dal punto di vista
linguistico, non si tratta di una classificazione particolarmente significativa. Tanto al linguista questo non
interessa, non è importante quante persone parlano una lingua per studiarla e nemmeno lo è la
classificazione geografica perché la presenza di una certa comunità di parlanti in un territorio non mi dice
che quella lingua sia condivisa con le lingue che cerano in quell’area o comunque vicino (le lingue europee
sono estese in tutto il mondo ?).

CLASSIFICAZIONE DELLE LINGUE DEL MONDO

Un altro criterio può essere quello geografico, certamente utile, ma ancora non linguistico.

Da un punto di vista linguistico, esistono tre tipi di classificazione delle lingue:

1. Classificazione genealogica,
2. Classificazione tipologica,
3. 3. Classificazione areale.

CLASSIFICAZIONE GENEALOGICA

Due lingue fanno parte dello stesso raggruppamento genealogico se derivano da una stessa lingua
originaria (o lingua madre). Le lingue possono essere raggruppate in famiglie e queste discendono da
un’unica lingua madre. Per individuare questa, bisogna comparare struttura, lessico etc. delle lingue,
individuare cosa hanno in comune, stabilire delle leggi in base a questo e stabilire un legame (?).

Per esempio, le lingue romanze (o neolatine) come l’italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese, il
romeno, ecc. sono imparentate tra di loro perché derivano tutte dal latino. Hanno un unico mutamento di
consonanti e questo poi è stato trasmetto a tutte le lingue appartenenti agli stessi rami. Le innovazioni
comuni segnano le relazioni e i mutamenti della famiglia linguistica. Le lingue romanze e il latino fanno poi
parte di una famiglia linguistica più ampia, quella delle lingue indoeuropee.

La famiglia è l’unità genealogica massima; le unità genealogiche di livello inferiore si chiamano gruppi o
classi (quindi l’italiano appartiene alla famiglia linguistica indoeuropea e, specificamente, al gruppo delle
lingue romanze). I gruppi possono, a loro volta, articolarsi in sottogruppi o rami. Tipo lingue germaniche,
lingue germaniche orientali, occidentali etc. con gruppi e sottogruppi.

CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA

Due lingue appartengono allo stesso raggruppamento tipologico se hanno delle caratteristiche in comune.
Tali caratteristiche riguardano la morfologia o la sintassi.

La classificazione tipologica è indipendente da quella genealogica: due lingue possono presentare


caratteristiche morfologiche e sintattiche comuni ma appartenere a due famiglie linguistiche diverse.
Viceversa, due lingue imparentate sul piano genealogico possono essere tipologicamente diverse. Quindi
l’ordine delle parole sono uguali. Alcune lingue hanno una quasi totale assenza di morfologia flessionale,
questi sono raggruppamenti tipologici basati su proprietà morfologiche. Questo è indipendente dalla
genealogia, non ci dice niente il fatto che queste lingue facciamo parte della stessa famiglia. Per esempio, il
tedesco e l’inglese appartengono tipologicamente a due gruppi molto diversi, soprattutto dal punto di vista
morfologico: l’inglese è una lingua ormai quasi isolante ma il tedesco no, è flessiva. Tuttavia, dal punto di
vista genealogico sono strettamente collegate e appartengono allo stesso gruppo. È probabile che una
lingua che ha una classificazione genealogica abbia qualcosa che unisce le lingue anche tipologicamente
anche se con il tempo le lingue cambiano. Per questo possiamo avere delle divergenze per alcune lingue (la
lingua madre è diversa dalla lingua figlia). Quindi, argomenti tipologici = uguaglianza o somiglianza di
strutture, non possono essere criteri per una ricostruzione genealogica = non posso dire che una lingua non
fa parte di questo gruppo perché tipologicamente ha delle differenze = questo è un argomento tipologico.

I morfemi indicano la parentela, quando questi ci sono in zone geografiche, anche lontane tra di questi, non
sono prestiti ma tendono ad essere una cosa fissa, che viene dallo stesso posto, ha le stesse origini (per
esempio le stesse desinenze verbali, questo indica una classificazione genealogica, lingue che discendono
da una stessa lingua).

Nelle lingue germaniche ci sono cose diverse, suoni diversi; quindi, la corrispondenza però deve essere
regolare con le altre lingue, non casuali per capire che c’è corrispondenza con le altre lingue.

Attenzione, se ci sono corrispondenze con alcune parole, queste potrebbero essere prestiti!!!!

Dal confronto di tutte le lingue indoeuropee, si può andare a ricostruire, proiettare in una fase preistorica,
tutta una serie di strutture che noi poi troviamo nelle lingue solide, storicamente documentate (le lingue
indoeuropee sono l’unico caso in cui si sia trovato un capostipite cioè il latino mentre per le altre, come il
germanico, non ce l’abbiamo al momento ma con le lingue romanze riesco a ricostruire il latino avendolo
come riferimento).

Per quanto riguarda la ricostruzione della lingua, questo processo si è compiuto per le lingue indoeuropee
nell’’800, situazione fortunata perché al tempo c’erano molte lingue indoeuropee e sono anche
documentate da una fase molto antica; quindi, abbiamo avuto accesso a questi antichi testi latini, greci,
indiani etc.

Altre lingue, come quelle baltiche, sono state documentate più recentemente ma avere un’ampia base
antica ci permette di avere una buona base per la comparazione e la costruzione. Alcune lingue trovate di
recente sono l’indoeuropeo lituano (?).

Quindi, la classificazione tipologica riguarda le strutture, indipendentemente dai rapporti genealogica delle
lingue.

CLASSIFICAZIONE AREALE

Il criterio areale mira all’individuazione di lingue genealogicamente non imparentate che hanno
sviluppato caratteristiche comuni poiché sono parlate nella stessa area geografica. NON è UNA
CLASSIFICAZIONE GEOGRAFICA, ci deve essere qualcosa di più che abbia a che fare con le strutture
linguistiche in particolare parliamo di aree linguistiche quando abbiamo una serie di lingue che si
influenzano a vicenda perché condividono la stessa area. Se in alcune lingue ci sono le stesse o simili
strutture, è perché queste erano in contatto tra di loro in un’area geografica forse piuttosto ristretta e
quindi una ha influenzato l’altra e si crea un raggruppamento che non è necessariamente genealogico (le
lingue che condividono la stessa area geografica possono anche non condividere le stesse strutture della
morfologia e della sintassi, possono anche essere tratti simili perché si sono condivisi con il contatto tra le
regioni.

Il caso più estremo è quello della formazione di una lega linguistica: un caso ben documentato è quello
della lega linguistica balcanica, che comprende serbocroato, bulgaro, macedone, romeno, albanese e
neogreco e che presentano caratteristiche comuni, che non si trovano in altre lingue con esse imparentate
(per esempio l’assenza dell’infinito, l’articolo posposto, ecc.). sono lingue di famiglie diverse da punto di
vista genealogico e queste lingue, tutte parlate nella zona dei Balcani, presentano determinate
caratteristiche comuni che non si trovano con altre lingue imparentate con esse (come l’assenza
dell’infinito o la presenza di un articolo posposto al nome e altre). Queste caratteristiche sono in comune
con tutte queste lingue, non dipendono da un antenato comune che la ha trasmesse. Questo dipende da un
fattore reale: le lingue che sono presenti nella stessa area si influenzano a vicenda e quindi una copia l’altra
tramite il contatto.

Un’altra lega linguistica molto studiata è quella dell’età linguistica di Carlo Magno, siamo nel centro Europa
nel Medioevo e vediamo come queste lingue oggi hanno espressioni perifrastiche con il verbo avere, si
sviluppano e questo processo dal latino viene copiato in italiano e anche in tedesco. Il corrispettivo del
verbo avere però, in tedesco è haben.

Quindi, la parola chiave è fenomeni di contatto linguistico.

LE FAMIGLIE LINGUISTICHE

Attraverso il metodo comparativo-ricostruttivo, è stato possibile raggruppare quasi tutte le lingue del
mondo in famiglie linguistiche, quindi raggruppamenti genealogiche:

1) famiglia indoeuropea;
2) famiglia afro-asiatica (o camito-semitica), diffusa principalmente nell’Africa settentrionale e
orientale e in tutto il Medio Oriente. Comprendente lingue come l’egiziano, l’arabo, l’ebraico,
l’etiopico, ecc.; questa ha anche degli esponenti piuttosto antichi come il babilonese e l’assiro e
anche il fenicio. Queste lingue non rappresentavano le vocali, come l’alfabeto ebraico (?), per
questo è difficile ricostruirle.
3) famiglia uralica (o ugro-finnica), i cui principali esponenti sono il finlandese (o finnico), l’estone e
l’ungherese. Questa famiglia è vicino a noi.
4) famiglia sino-tibetana, alla quale appartengono il cinese e il tibetano;
5) famiglia nigerkordofaniana, che comprende la maggior parte delle lingue parlate nell’Africa sub-
sahariana, tra cui spiccano le lingue bantu, delle quali fa parte lo swahili,
6) famiglia altaica, che comprende, tra le altre, il mongolo e il turco
7) famiglia dravidica, comprendente una serie di lingue parlate nell’India meridionale, tra cui il tamil
8) famiglia austronesiana, che copre una vastissima area compresa tra il Madagascar (malgascio) e le
isole del pacifico (lingue polinesiane), passando per l’Indonesia e le Filippine.
- Famiglia uto-azteca, comprendente numerose lingue parlate in America settentrionale e centrale
(tra cui il nahuatl cioè l’azteco.)

Ce ne sono anche altre ancora.

Ci sono poi lingue per le quali, finora, non è stato possibile dimostrare una parentela con altre: si
parla in questo caso di lingue isolate. Alcuni esempi sono il basco, il giapponese, il coreano e, fra le
lingue antiche, il sumerico.

La sorte delle lingue isolate tra i linguisti è quella di essere accoppiate tra di loro o a famiglie esistenti
ma questo non è stato dimostrato anche se ci sono stati molti studi, per esempio quello di accoppiare il
cinese con il coreano ma le strutture non sono comparabili, sono monosillabiche e diverse. Il problema
è che appunto non ci sono elementi forti che dimostrano questa cosa. Il caso delle lingue indoeuropee
è vero, le radici lessicali sono più o meno monosillabiche, ma li si potevano comparare radici, morfemi
grammaticali e anche catene di morfemi perché ci sono molti elementi forti, prove forti che dimostrano
la parentela tra queste (i suffissi accusativi in diverse lingue europee etc.).

L’etrusco appartiene a una famiglia tirrenica. L’irretico e l’illenio in Italia???? Sono 3 varità linguistiche
diverse ma sicuramente imparentate tra di loro.
LE SUPER FAMIGLIE

Certi dicono che ci sono queste super famiglie, queste sono famiglie genealogiche ancora più gradi.
Secondo alcuni studiosi, sarebbe inoltre possibile individuare dei raggruppamenti genealogici ancora
più grandi delle famiglie; per esempio, è stato suggerito che le lingue sino-tibetane, quelle austro-
asiatiche e quelle austronesiane facciano in realtà parte di un’unica famiglia, chiamata sinoaustrica.

Secondo il linguista Holger Pedersen, le lingue indoeuropee, quelle camitosemitiche, quelle


nigerkordofaniane e quelle uraliche farebbero parte di un’unica «superfamiglia», chiamata nostratica.
Questa ipotesi ha oggi pochi sostenitori.

Ricordiamo che la ricostruzione è rischiosa e ha dei limiti, dalle lingue romanze non arriviamo al latino
classico ma a un certo stato del latino. Usare questo latino per ricostruire qualcosa oltre, è diverso che
usare il latino classico che preserva le cose. Quindi, molto spesso, per queste ipotesi, per quanto
possano essere possibili, molto spesso non riescono ad essere dimostrate, non hanno delle prove
sufficienti a generare il consenso degli gli studiosi. Sono tentativi e sono anche interessanti ma vanno
presi molto leggermente (si dice così?).

LE LINGUE INDOEUROPEE

Nei primi decenni dell’Ottocento, si scopre che il sanscrito, un’antica lingua indiana, presenta molte
caratteristiche in comune con lingue europee quali il latino, il greco e il tedesco: si tratta infatti di lingue
che, seppur molto lontane, sono senza dubbio geneticamente imparentate tra di loro. Insomma, queste
non sono solo somiglianze ma corrispondenze regolari che possono essere scritte da specifiche leggi che
determinano il mutamento di suoni di altri.

Di conseguenza, per definire questa famiglia, intorno al 1830 viene coniato il termine indoeuropeo
(Indogermanisch in tedesco).

All’interno della famiglia linguistica indoeuropea si possono distingue diversi gruppi e sottogruppi.

1. gruppo indo-iranico, suddiviso nei due sottogruppi indiano e iranico: • 1.a. tra le lingue indiane antiche
ricordiamo il vedico (la lingua dei Veda, il testo sacro degli induisti, che risale alla fine del II millennio a.C.,
sebbene sia stato messo per iscritto molto più tardi) e il sanscrito, tra quelle medievali vi sono una serie di
pracriti, dai quali derivano le lingue indiane moderne, lo hindi e l’urdu; • 1.b. le lingue iraniche sono
ulteriormente suddivise in due rami: le lingue iraniche occidentali comprendono l’avestico (la lingue
dell’Avesta, il libro sacro degli Zoroastriani), l’antico persiano (impero Achemenide, VI-IV secolo a.C.), il
medio persiano, il persiano moderno e il curdo. Tra quelle orientali ricordiamo l’afgano e il pashto; quindi
abbiamo una fase antica, molto antica, medievale e moderna.

2. il gruppo tocario, l’ultimo ad essere stato scoperto (inizi del Novecento), comprendente due lingue
estinte, denominate Tocario A e Tocario B. Erano parlate nel I millennio d.C. nel Cina nord-occidentale;

3. il gruppo anatolico, comprendente lingue oggi estinte, un tempo parlate nella penisola anatolica tra il II e
il I millennio a.C. La più nota è l’ittita (decifrato nel 1915); altre sono il palaico e il luvio (II millennio), il licio,
il lidio e il cario (I millennio);

4. il gruppo armeno, comprendente la sola lingua armena, attestata a partire dal V secolo d.C.

5. il gruppo albanese, rappresentato dal solo albanese, diviso in due varietà: il tosco (sud dell’Albania) e il
ghego (nord dell’Albania);

Prof. Valerio Pisaniello 11/10/2022


Oggi abbiamo parlato della famiglia linguistica indoeuropea: gruppi slavo, baltico, ellenico, italico,
germanico, celtico; l'albero genealogico delle lingue indoeuropee. Poi abbiamo parlato di Fonetica e
fonologia: fonetica articolatoria, acustica e uditiva; l'apparato fonatorio; la classificazione dei suoni;
l'alfabeto fonetico internazionale (IPA).

LE LINGUE INDOEUROPEE

- 6. il gruppo slavo, diviso in tre sottogruppi: • 6.a. slavo orientale: russo, bielorusso, ucraino; • 6.b.
slavo occidentale: polacco, ceco, slovacco; • 6.c. slavo meridionale: bulgaro, macedone, serbo-
croato, sloveno; QUESTE SONO DA RICORDARE.
- 7. il gruppo baltico, comprendente lituano, lettone e, tra le lingue estinte, l’antico prussiano; una
volta si pensava appartenesse a un gruppo balto-slovacco. Delle 3 repubbliche baltiche, solo lituano
e lettone sono lingue indoeuropee.
- 8. il gruppo ellenico, rappresentato dal solo greco (in tutte le sue versioni: quello antico, i dialetti
che sono le varietà di una volta, di come si parlava il greco), le cui prime attestazioni risalgono già al
II millennio a.C. (miceneo 1400-1200, forse è la seconda lingua indoeuropea più antica di
attestazione), e che continua nel greco moderno. (lineare b = dialetto antico greco). I testi micenei
sono di tipo amministrativo, non abbiamo una letteratura. Il greco antico continua poi nel greco
bizantino e nel greco moderno (?)
- 9. il gruppo italico, lingue che si parlavano nella penisola italica diviso in: • 9.a. italico orientale:
osco, umbro e sannita, oggi estinte; • 9.b. italico occidentale (o italo-falisco), comprendente il
falisco (Tuscia meridionale, ca. VII-II sec. a.C.) e il latino, dal quale derivano le lingue romanze o
neolatine.

Dal latino derivano le lingue romanze. Tra le lingue romanze vi sono: il portoghese, lo spagnolo
(castellano), il gallego (Galizia, Spagna nord-occidentale), il catalano (Catalogna), il francese, il
provenzale (lingua barocca del sud della Francia), l’italiano, le lingue retoromanze (tra cui romancio e
ladino), il sardo, il friulano e il romeno;

10. il gruppo germanico, suddiviso in: • 10.a. germanico orientale, di cui conosciamo abbastanza bene
solo il gotico (testimoniato da una traduzione della Bibbia del IV secolo d.C.), quindi è la lingua
germanica più antica; • 10.b. germanico settentrionale (o nordico): svedese, norvegese, danese,
islandese, feroese (isole Fær Øer), soprattutto l’islandese è quello che mantiene di più le strutture
germaniche. Il finlandese non è germanico o indoeuropeo per quanto riguarda la geografia (?); • 10.c.
germanico occidentale, diviso in due rami: 1) anglo-frisone (frisone e inglese), 2) neerlando-tedesco
(nederlandese, tedesco, afrikaans – varietà di olandese parlata dai coloni in Zimbabwe, Namibia e
Sudafrica – e yiddish – dialetto tedesco degli Ebrei di Germania);

11. il gruppo celtico, suddiviso in: • 11.a. gaelico: irlandese e gaelico di Scozia; • 11.b. britannico:
cimrico (o gallese, parlato nel Galles), cornico (Cornovaglia, Inghilterra sud-occidentale, oggi estinto) e
bretone (Bretagna, Francia nordoccidentale).
Versione inglese da Mallory 1989

Ma oggi non siamo più sicuri che questi raggruppamenti siano così coerenti, slavo-baltico e slavo-
germanico per esempio. Oggi si tende a rappresentazioni che non guardano le relazioni tra i diversi
gruppi all’interno della propria famiglia. Questo secondo tipo di rappresentazione è più complessa e ha
più varietà (1500 a.C.- 1500 d.C.). non è precisissimo e ci sono delle cose che non vanno: non considera
la documentazione ma solamente le lingue, perché lo stadio della lingua era particolarmente arcaico e
la cronologia non rispetta la documentazione. Ma tanto non è importante, per fortuna ma insomma
basta sapere che le cose non sono così chiare.

Ora passiamo alla nuova parte del corso,

FONETICA E FONOLOGIA

Questa è come la differenza tra astratto e concreto, la fonetica si occupa dell’astratto, dei fonemi, delle
seconde unità di articolazione con valore distintivo, mentre la fonologia si occupa della produzione dei
suoni, è il versante concreto.

L’apparato fonatorio umano è in grado di produrre una quantità enorme di suoni, ma non tutti
costituiscono l’inventario di una lingua.

Tra tutti i suoni che l’apparato fonatorio può produrre, ciascuna lingua ne seleziona solamente alcuni
che hanno valore distintivo (fonemi), cioè che permettono di distinguere significati.

Ciascuna lingua ha regole proprie di combinazione di questi suoni.

Quando vengono combinati, i suoni possono influenzarsi a vicenda (→ rapporti sintagmatici).

FONETICA

La disciplina che studia la produzione dei suoni si chiama fonetica articolatoria; quindi, riguarda come il
suono viene prodotto dall’apparato articolatorio umano e il modo in cui questi organi arrivano a
produrre un certo suono. Riguarda la dimensione fisica del suono quindi come i diversi organi poi
arrivano a produrre un certo suono

Quella che studia la natura fisica del suono e la sua propagazione attraverso l’aria si chiama fonetica
acustica, cioè come il suono si divaga nello spazio

Quella che studia la ricezione del suono da parte dell’ascoltatore si chiama fonetica uditiva, questa si
occupa di come il segnale acustico viene ricevuto dall’orecchio e convertito poi in suono. Il suono, nella
sua dimensione fisica non è altro che un insieme, un flusso di particelle, se non c’è un apparecchio
naturale o artificiale, in grado si accogliere quest’onda e convertirla in un segnale sonoro, allora non c’è
suono (l’albero che cade nella foresta, se nessun non è in grado di sentirlo, non c’è suono).

Noi ci occuperemo di fonetica articolatoria. Quindi parleremo della produzione del suono.
L’APPARATO FONATORIO

L’apparato fonatorio umano è composto da una


serie di organi che non hanno la funzione
principale di produrre suoni (la bocca e i denti
masticano il cibo e il naso ci fa respirare, ma li
usiamo anche per produrre suono, per parlare.
Il processo di produzione dei suoni sfrutta
principalmente l’aria che viene emessa dai
polmoni. Questa sale lungo la trachea,
attraversa la laringe (dove si trovano le corde
vocali), la faringe (qui esce dalla bocca o dal
naso, dipende da come è messo il velo palatino
alveoli = palato molle), la cavità orale e
fuoriesce dalla bocca (ed eventualmente anche
dal naso, se il velo palatino non viene innalzato:
su questo si basa la differenza tra suoni orali e
suoni nasali). Lingua: radice, torso, apice = la
lingua modifica lo spazio con cui passa l’aria
quindi si producono suoni diversi. L’ugola è
l’ultima parte del palato e produce suono
ugolari. Gli alveoli dentari, qui i denti entrano
nella gengiva.
LA CLASSIFICAZIONE DEI SUONI

Per classificare un suono, quindi individuarlo senza alcuna ambiguità, sono necessari tre parametri:

1) modo di articolazione: i vari assetti che gli organi fonatori assumono durante la produzione di un
suono, questo significa che ci sono suoni, per esempio, che vengono prodotti attraverso la chiusura
totale degli organi fonatori che poi si aprono improvvisamente rilasciando il flusso d’aria. Quanto
articoliamo un suono bilabiale, per esempio, le due labbra si chiudono e poi si aprono, rilasciando l’aria
ma quando pronunciamo un suono come la p, non c’è una chiusura totale con un’apertura improvvisa
ma un avvicinamento degli organi fonatori, in questo caso le labbra e i denti (gli incisivi superiori?) si
avvicinano e il suono passa da una piccola fessura ma non c’è una chiusura totale. Questo è rilevante
perché ci mostra i suoni occlusivi = chiusura, o i suoni fricativi = frizione.

2) luogo o punto di articolazione: il punto all’altezza del quale un suono viene articolato, è il punto in cui si
verifica un certo assetto degli organi fonatori, l’ostacolo del flusso d’aria. Questo punto può essere a
qualunque livello dell’apparato fonatorio, quindi, possiamo avere dei suoni glottidali, laringali, ugulari,
velari, palatali, prepalatali, alveolare, dentale, labiodentale o bilabiale. Nasale non è un luogo o un modo
ma un modo di articolazione

3) sonorità: se le corde vocali vibrano si avrà un suono sonoro, se non vibrano si avrà un suono sordo.

Ogni suono può essere classificato sotto questi aspetti.

I singoli alfabeti usati per scrivere le diverse lingue differiscono tra loro e sono spesso inadatti alla
rappresentazione precisa dei suoni.

Per esempio, l’alfabeto usato per scrivere l’italiano non dispone di segni specifici per distinguere le
vocali e e o aperte e chiuse (se non tramite l’accento acuto e grave), utilizza i segni c e g per
rappresentare suoni diversi (casa ~ cento; gatto ~ gelo), ecc. • Per ovviare a tali problemi e per disporre
di uno standard internazionale è stato elaborato l’alfabeto fonetico internazionale (IPA = International
Phonetic Alphabet).
Qui sopra ci sono tutti i simboli che corrispondono ai modi di produzione e ai punti di articolazione.

Ma la tabella non è completa. Spazio bianco = quel suono li, è articolabile ma lo spazio è bianco perché
non si conoscevano lingue che avessero quel suono e quindi non serve un simbolo (visto che il suono
non esiste, ma è comunque articolabile). Spazio grigio = suono impossibile da realizzare. Alcune caselle
hanno due simboli: strong and weak form, due tipo diversi di sonorità (suoni sonori e non?).

IPA ha anche una serie di consonanti che ora non funzione anche più, ci sono suoni fatti con due
articolazioni che sono in una tabella a parte. Non ci serve sapere tutto l’IPA, ci interessa solo quello
italiano.

Questo invece riguarda i suoni vocalici. I parametri qui sono: in verticale il grado di apertura (le
consonanti sono ostacoli ma per le vocali la cavità può essere più o meno ambia e la lingua può essere
alta, bassa o media ma non chiude mai, riduce solo lo spazio della cavità aperta. Vocalità aperta= la
lingua poggia sulla bocca e a mano a mano che si sale, la lingua restringe la cavità orale.

L’altro parametro è l’innalzamento o l’arretramento della lingua: vocali anteriori, centrali o posteriori,
dipende da dove si trova la lingua.
Questa classificazione, dato che la parte anteriore corrisponde al palato duro e quella posteriore al
palato molle/ velo palatino, ci mostra che la posizione può essere tra vocali velari (=(all’altezza del
palato molle) e palatali (=all’altezza del palato duro).

Tutte le vocali sono sonore.

Dove vediamo due simboli diversi vicino a uno, l’altro riguarda la posizione delle labbra: arrotondata o
meno come la o o la u ma le altre tipo la i o la a, non sono arrotondate. L’italiano ha vocali anteriori e
centrali non arrotondati ma quelle posteriori arrotondate (?).

LA CLASSIFICAZIONE DEI SUONI

I suoni si possono classificare in tre classi maggiori:

1) consonanti

2) vocali

3) semiconsonanti (o approssimanti) sono articolate come le vocali = ostacolo non grande come quello
delle consonanti.

La distinzione principale è quella tra consonanti e vocali:

nella produzione di una vocale, l’aria non incontra ostacoli. Inoltre le vocali sono sempre sonore.
Diversamente, per produrre una consonante l’aria incontra un ostacolo di qualche tipo (o un blocco
momentaneo o un forte restringimento). Le consonanti possono essere sia sonore che sorde.

Le semiconsonanti sono articolate come delle vocali, ma non possono costituire il nucleo di una sillaba.
Vocali, semiconsonanti, liquide e nasali costituiscono la classe delle sonoranti, opposte agli altri suoni,
chiamati ostruenti. Le sonoranti sono tutte sonore. Questo contrasta con il gruppo delle ostruenti.
Quelli sonoranti, quindi, sono tutti sonori.

Consonanti coronari = pronunciate sulla corona della lingua, ci sono anche queste, le dorsali e altre ma non
ci serve saperlo.

Le consonanti dell’italiano e i foni: tutti i suoni che possiamo pronunciar in italiano standard. Lo schema non
corrisponde a quello dei fonemi (vedi tabella sopra).

Prof. Valerio Pisaniello 13/10/2022

Oggi abbiamo parlato della classificazione dei suoni consonantici dell'italiano secondo modo di
articolazione, punto di articolazione e sonorità; il sistema vocalico dell'italiano e la
classificazione delle vocali; combinazioni di suoni: nessi consonantici, dittonghi (ascendenti e
discendenti) e iati.
LE CONSONANTI DELL’ITALIANO

Questi sono i foni, non i fonemi (che sono i sottoinsiemi di questo) dell’italiano. Ci sono dei foni,
completamente pronunciabili ma che non hanno valore distintivo come la nasale labiodentale o quella
labiale, non sono fonemi ma dei fono = realizzazioni concrete di un fonema o come ts.

Attenzione alla z, e il plurale di ch e g (come jeep).


Quelle a destra sono sonore.

Affricate sono particolari, hanno un’articolazione diversa e lo vediamo dal simbolo che unisce un’occlusiva e
una vocativa come ts, dz etc.

A seconda del modo di articolazione, le consonanti dell’italiano si dividono in:

- Occlusive: il suono è prodotto tramite un’occlusione momentanea dell’aria, cui segue


un’esplosione (per questo sono dette anche esplosive). [p, b, t, d, k, g];
- Fricative: l’aria passa attraverso una fessura piuttosto stretta, non c’è una chiusura totale degli
organi, non ci sono blocchi che vengono rilasciati e per questo, tali suoni possono essere prolungati
nel tempo (a differenza delle occlusive): per questo sono detti anche continui. [f, v, s, z, ʃ = scienza,
sciroppo, non c’è sonora di solito ma in alcune parole “prestate” si, come garage];
- Affricate: iniziano con un’articolazione di tipo occlusivo e terminano con un’articolazione di tipo
fricativo, quindi un’apertura ma è stretta, non totale, la seconda parte dell’articolazione è fricativa,
l’aria passa da una fessura stretta: non compaiono nella tabella IPA perché sono considerati suoni
complessi, riconducibili a due suoni più semplici. [ts, dz, tʃ, ʤ];
- Nasali: il velo palatino è inerte= non sente il passaggio dell’aria e consente il passaggio dell’aria
attraverso la cavità nasale. Questi sono tutti sonori. [m, ɱ, n, ɲ come in gnomo, ŋ come in ancora];
le nasali sono tutte sonore.
- Laterali: la lingua si posiziona contro i denti e consente il passaggio dell’aria ai due lati di essa. [l, ʎ];
- Vibranti: un suono vibrante si realizza mediante la vibrazione dell’apice della lingua o dell’ugola.
L’italiano ha solamente [r], che si realizza tramite più vibrazioni della lingua: per questo è detta
polivibrante;
- Approssimanti: gli organi articolatori vengono avvicinati, ma senza contatto. [j, w come in ieri e
uomo, uova].

A seconda del punto di articolazione, le consonanti dell’italiano si dividono in:

- Bilabiali: il suono è prodotto tramite l’occlusione delle labbra [p, b, m];


- Labiodentali: il suono deve attraversare la fessura che si forma appoggiando gli incisivi superiori sul
labbro inferiore [f, v, ɱ];
- Dentali: la parte anteriore della lingua tocca la parte interna degli incisivi [t, d];
- Alveolari: la parte anteriore della lingua tocca o si avvicina agli alveoli [s, z, ts, dz, n, l, r]; in italiano
la distinzione tra dentali e alveolari non è così importante, dipende dalla pronuncia, dal punto di
articolazione che ha ognuno. È soggettivo, questa distinzione non è così pertinente.
- Palato-alveolari: la parte anteriore della lingua si avvicina agli alveoli e ha il corpo arcuato [ʃ, tʃ, ʤ];
- Palatali: la lingua si avvicina al palato [ɲ, ʎ, j];
- Velari: la lingua tocca il velo palatino [k, g, ŋ, w].

OCCLUSIVE: NASALI (tutte sonore):


- [p] = occlusiva, bilabiale, sorda - [m] = nasale, bilabiale
- [b] = occlusiva, bilabiale, sonora - [ɱ] = nasale, labiodentale
- [t] = occlusiva, dentale, sorda - [n] = nasale, alveolare
- [d] = occlusiva, dentale, sonora - [ɲ] = nasale, palatale
- [k] = occlusiva, velare, sorda - [ŋ] = nasale, velare
- [g] = occlusiva, velare, sonora
LATERALI (tutte sonore): FRICATIVE:
- [l] = laterale, alveolare - [f] = fricativa, labiodentale, sorda
- [ʎ] = laterale, palatale - [v] = fricativa, labiodentale, sonora
- [s] = fricativa, alveolare, sorda
VIBRANTI (tutte sonore): - [z] = fricativa, alveolare, sonora
- [r] = polivibrante, alveolare - [ʃ] = fricativa, palato-alveolare, sorda
- ([ʒ] = fricativa, palato-alveolare,
sonora: in prestiti come garage)
AFFRICATE: SEMICONSONANTI o APPROSSIMANTI (tutte
- [ts] = affricata, alveolare, sorda sonore):
- [dz] = affricata, alveolare, sonora - [j] = semiconsonante, palatale
- [tʃ] = affricata, palato-alveolare, sorda - [w] = semiconsonante, velare
- [ʤ] = affricata, palato-alveolare,
sonora

I foni ci servono per le rappresentazioni fonetiche.

LE VOCALI DELL’ITALIANO

I parametri per classificare le vocali sono l’altezza della lingua, il suo avanzamento o arretramento e
l’arrotondamento o meno delle labbra.
La differenza tra semiaperte e semichiuse potrebbero essere difficili da distinguere.

Le vocali dell’italiano sono sette. Quelle dell’italiano standard insomma (fiorentino), ci sono dialetti anche
con tre o cinque vocali. Quindi, abbiamo:

- [i] alta, anteriore (o palatale), non - [a] bassa, centrale, non arrotondata
arrotondata - [ɔ] medio-bassa, posteriore (o velare),
- [e] medio-alta, anteriore (o palatale), non arrotondata
arrotondata - [o] medio-alta, posteriore (o velare),
- [ɛ] medio-bassa, anteriore (o palatale), non arrotondata
arrotondata - [u] alta, posteriore (o velare), arrotondata
-
Il sistema dell’italiano standard è eptavocalico in posizione tonica e pentavocalico in posizione atona ([ɛ] e
[ɔ] non ricorrono mai in sillaba atona).

In altre aree – per esempio in Sicilia – il vocalismo atono ha solo tre vocali.

COMBINAZIONI DI SUONI: NESSI CONSONANTICI

Le consonanti possono combinarsi insieme e formare dei nessi consonantici. Tali combinazioni non sono
libere, ma sono soggette a restrizioni: (ogni lingua non può realizzare tutte le possibili combinazioni) per es.
in italiano sono possibili nessi come [pr], [tr], [spr], ma non nessi come *[gʃ], *[fv], ecc. • Inoltre, alcuni
nessi possono ricorrere solo in una determinata posizione: per es. [rp] è possibile solo in posizione interna
(arpa, carpa, scarpa, ecc.), non in posizione iniziale.

COMBINAZIONI DI SUINI: DITTONGO E IATO

La combinazione di vocali e approssimanti (o semivocali) in una medesima sillaba dà luogo ai dittonghi.


All’apparenza dittongo e iato sembrano incontri di vocali ma non lo sono avvero perché dal punto di vista
fonetico queste non sono vocali. Dittongo = incontro di una medesima sillaba incontro a una semivocale o
semiconsonante (non c’è differenza tra i due termini) e una vocale. Si distinguono:

1) dittonghi ascendenti = approssimante + vocale tonica (j+V; w+V); sono una semivocale + una vocale su
cui cade l’accento della parola. Ieri inizia con j e l’altro è un dittongo ascendente.

2) dittonghi discendenti = vocale tonica + altra vocale (V+i; V+u) / vocale tonica + semiconsonante (?)

- In italiano esistono anche dei trittonghi: miei [‘mjɛi], tuoi [‘twɔi], ecc.

- [j] e [w] nei dittonghi ascendenti vengono solitamente chiamate semiconsonanti, mentre [i] e [u] nei
dittonghi discendenti prendono il nome di semivocali.
- Le combinazioni di due vocali appartenenti a sillabe diverse danno luogo a uno iato (maestro, mania
[ma’nia], beato, ecc.). sono tre sillabe. Quando facciamo la divisione delle sillabe, ricordare queste cose: le
regole ortografiche sono diverse. Bisogna stare attenti quando ci sono la i e la u, alle semivocali.

Prof. Valerio Pisaniello 18/10/2022

Oggi abbiamo parlato di suoni e grafia: problemi nella rappresentazione dei suoni dell'italiano; la
trascrizione fonetica; fonetica e fonologia; differenza tra fono e fonema; le regole di Trubeckoj: la prima
regola di Trubeckoj.

SUONI E GRAFIA

L’alfabeto italiano non è del tutto preciso nella rappresentazione dei suoni:

- [ɔ] e [o] sono rappresentati dal simbolo o;


- [ɛ] e [e] sono rappresentati dal simbolo e; accento grave aperto è il 3 storto come scena romano lol
- [s] e [z] sono rappresentati da s (sera / rosa);
- [ts] e [dz] sono rappresentati da z quindi due suoni (razza / mezzo);
- [tʃ] e [k] sono rappresentati da c (cera / cara);
- [dʒ] e [g] sono rappresentati da g (gelo / gatto);
- [i] e [j] sono rappresentati da i (idea / ieri);
- [u] e [w] sono rappresentati da u (uva / uomo);
- [n], [ɱ] e [ŋ] sono rappresentati da n (andare / inverno / angolo)

Questo ci mostra che una lettera rappresenta diversi suoni. C’è anche il caso contrario: in diversi casi, un
singolo suono è rappresentato da due segni (digramma) o anche da tre segni (trigramma):

- [ɲ] = gn (legno [‘leɲ:o]); - [k] = ch (chiesa [‘kjɛ:sa]);


- [ʃ] = sc (scena [‘ʃɛ:na]) o sci (scienza - [g] = gh (ghiro [‘gi:ro]);
[‘ʃɛntsa]); se la forma antica latina aveva la - [tʃ] = ci (ciao [‘tʃa:o]);
i, ci sarà anche in italiano e se no no. - [dʒ] = gi (mangiare [man’dʒa:re]);
Dipende dall’etimologia.
- [ʎ] = gl (egli [‘eʎ:i]) o gli (aglio [’aʎ:o]);

Lo stesso suono [k] è rappresentato da due simboli diversi (cuore / quando);

Ci sono segni che non corrispondono ad alcun suono, sono solo segni grafici:

- h = Ø (hanno [‘an:o], chiesa [‘kjɛ:sa], ghiro [‘gi:ro]); la h nel verbo avere quindi è solo un espediente
grafico.
- i in sci, ci e gi (scienza [‘ʃɛntsa], cielo [‘tʃɛ:lo], gioco [‘dʒɔ:ko]).

Tutte le lingue presentano incongruenze nella rappresentazione dei suoni, per es. in inglese:

- gh può rappresentare [p] (hiccough) o [f] (cough);


- [k] può essere rappresentato da c (car) o k (kit);
- [s] può essere rappresentato da s (sing) o c (peace)

TRASCRIZIONE FONETICA

Si serve dei simboli dell’IPA per rappresentare correttamente la pronuncia delle parole.

La trascrizione fonetica si scrive tra parentesi quadre [ ]. La trascrizione fonemica sarebbe per esempio /c/

I suoni possono essere semplici o geminati; questi ultimi si possono indicare in due modi:
1) raddoppiando la consonante [tt, dd, pp, …];

2) facendo seguire la consonante semplice dai due punti [t:, d:, p:, …].

Cerchiamo di scegliere uno dei due metodi per l’esame!!!!

Nel caso delle affricate, ci sono tre possibilità: [tsts / tts / t:s].

In italiano standard, in posizione intervocalica, quindi tra due vocali o una vocale e una semivocale o in
posizione intervocalica, i seguenti suoni sono sempre geminati cioè lunghi:

1) le affricate [ts] e [dz]; 3) la nasale palatale [ɲ];


2) la laterale palatale [ʎ]; 4) la fricativa palato-alveolare [ʃ].

- Le vocali lunghe si indicano mediante i due punti posti dopo il segno della vocale [a:, e:, …].
- In italiano standard, sono lunghe tutte le vocali toniche in sillaba aperta e tonica (la sillaba che
porta l’accento e finisce con la vocale) [‘re:mo], [‘ve:ro], [‘ka:ne], ma non in [‘kanto], [‘fɛsta], ecc.
- L’accento si indica con un apice ['] posto prima della sillaba accentata: [‘ka:sa], [man’tɛl:o],
[pe’rɔ], ecc. Sui monosillabi, può non essere segnato.
- Le maiuscole non si segnano: [kar’lɔt:a], [a’mɛ:rika], ecc. perché ci si potrebbe confondere con altri
suoni!!!! Ogni lettera ha un nome, una figura che può presentare diverse varianti (tre varianti di
un’unica lettera come la a e il valore, quello che rappresenta foneticamente la lettera, l’IPA non
presenta varianti di figura)
- Gli apostrofi non si segnano: l’amico [la’mi:ko].

FONETICA E FONOLOGIA

La fonetica si occupa dell’aspetto fisico dei suoni, mentre la fonologia si occupa della loro funzione
linguistica. La fonetica studia i foni, la fonologia studia i fonemi. I fonemi hanno valore distintivo, di per sé
non hanno un significato proprio ma permettono di distinguere i diversi significati per esempio gatto,
matto. I fonemi non possono essere scambiati tra di loro senza cambiare il significato. I foni appartengono
al livello concreto invece e non cambio il significato della parola, cambio solo il suono casa, caza (?), non
sono due fonemi distinti ma due varianti di un’unità a livello dinamico.

I fonemi sono le unità astratte (si collocano dunque a livello di langue) con valore distintivo (non hanno
significato, ma permettono di distinguere i significati), mentre i foni sono tutti i suoni che l’apparato
fonatorio umano può produrre (si collocano a livello di parole); in altri termini, i foni sono la realizzazione
concreta dei fonemi.

- Langue / Competenza fonema /t/


- Parole / Esecuzione fono [t]

LE REGOLE DI TRUBECKOJ

Per poter stabilire se due foni abbiano valore distintivo – quindi se li scambio, cambia il significato e quindi
sono fonemi o la realizzazione di un unico fonema, cioè se siano anche fonemi di una determinata lingua –
Nikolaj Trubeckoj ha formulato una serie di regole. Queste regole possono essere applicate a qualsiasi
lingua e ci servono per capire se ai foni di una lingua corrispondono dei fonemi o se a più foni corrisponde
un unico fonema.

Trubeckoj faceva parte del Circolo linguistico di Praga (o scuola di Praga), fondato nel 1926 dal linguista
ceco Vilem Mathesius e composto da diversi linguisti cechi e russi (tra cui Roman Jakobson).
1) «Quando due suoni ricorrono nelle medesime posizioni e non possono essere scambiati fra loro
senza con ciò mutare il significato delle parole o renderle irriconoscibili, allora questi due suoni
sono realizzazioni fonetiche di due diversi fonemi».

per esempio, con cane e pane, abbiamo due foni, due suoni che ricorrono nella stessa posizione, cioè nello
stesso contesto. Se io li scambio e dico cane al posto di pane, cambio il significato della parola. Questo vuol
dire che nella lingua a cui appartengono queste parole, in questo caso l’italiano, questi due foni c e p,
corrispondono a due fonemi distinti = sono la realizzazione concreta di due diversi foni, se li scambio tra di
loro, la parola cambia di significato. Mutar il significato della parole può renderle irriconoscibili a chi
ascolta.

Prof. Valerio Pisaniello 20/10/2022

Oggi abbiamo parlato della seconda e la terza regola di Trubeckoj: varianti libere e varianti combinatorie;
gli allofoni dell'italiano; distribuzione complementare e distribuzione contrastiva; regole fonologiche e loro
rappresentazione; fenomeni di mutamento fonetico: l'assimilazione.

LE REGOLE DI TURBECKOJ

2) «Quando due suoni della stessa lingua compaiono nelle medesime posizioni e si possono scambiare fra
loro senza causare variazione di significato della parola, questi due suoni sono soltanto varianti fonetiche
facoltative, o libere, di un unico fonema».

Quindi, se qui cambio un suono con un altro con la parola cane, i due suoni non sono fonemi diversi ma
varianti dello stesso fonema. = posso cambiare i suoni e non produco una differenza = varianti libere

Per es. [‘re:ma] – [‘ʀe:ma] solo il suono iniziale cambia, da r vibrante a vibrante ululare o r moscia, è una
caratteristica individuale ma il parlante riesce a capire la stessa parola, è solo il suono che cambia, queste
non sono due coppie minime; [‘ma:re] – [‘ma:ʀe]

In italiano, la [r] alveolare e la [ʀ] uvulare possono essere scambiate senza che si produca una differenza di
significato: i due suoni sono varianti libere di uno stesso fonema /r/ (‘libere’ significa che possono essere
scambiate in qualsiasi contesto).

3) «Quando due suoni di una lingua, simili dal punto di vista articolatorio, non ricorrono mai nelle stesse
posizioni, essi sono due varianti combinatorie dello stesso fonema”. Ciascuno di questi suoni è legato in un
contesto specifico e non è in rapporto paradigmatico = non può essere scambiato con l’altro. Per esempio,
le nasali in italiano assumono il punto di articolazione della consonante che seguono, quindi se davanti c’è
una nasale, questa assume il punto di articolazione della consonante. Davanti a una consonante velale, io
avrò una nasale velare; davanti a una consonante labiodentale, avrò una nasale labiodentale etc. questi
suoni quini non possono mai ricorrere nella stessa posizione perché ciascuna di queste va in un contesto
specifico. Non sono coppie minime, sono delle varianti di un unico fonema ma non sono varianti libere,
sono varianti strettamente legate a un contesto specifico, si chiamano varianti combinatorie.

vandare [an’da:re] – angolo [‘aŋgolo]

La [n] alveolare e la [ŋ] velare, in italiano, non ricorrono mai nella stessa posizione: la prima si trova solo
davanti a suoni dentali o alveolari, la seconda davanti a suoni velari. Non sono due fonemi diversi, perché
non possono costituire coppie minime: sono due varianti di uno stesso fonema /n/, ma non si tratta di
varianti libere, perché sono legate a contesti specifici: sono varianti combinatorie (o allofoni).

Attraverso queste regole si arriva a individuare l’inventario dei fonemi di una lingua e quali sono delle
varianti dello stesso fonema, quali sono libere e quali sono combinatorie.

N.B. tale inventario è diverso da lingua a lingua, per es. in inglese [n] e [ŋ] corrispondono a due diversi
fonemi, perché costituiscono coppie minime: sin [sɪn] – sing [sɪŋ].

Secondo la terminologia statunitense:

- Due fonemi sono in distribuzione contrastiva: se compaiono nello stesso contesto, danno origine a
due parole diverse. Quindi creano un contrasto.
- Due allofoni sono in distribuzione complementare: non possono mai ricorrere nello stesso
contesto, ma l’uno si trova solo in un certo contesto, l’altro solo in un altro contesto, tutte le altre
sono escluse.

GLI ALLOFONI DELL’ITALIANO

Questo è un esempio relativo alle varianti libere, le


due pronunce della fricativa alveolare /s/, una
sorda e una sonora ma in realtà, in posizione
intervocalica, quei due suoni possono essere
scambiati liberamente ma questo non funziona
davanti a una consonante. In posizione
preconsonantica, quelle due varianti sono
combinatorie, esattamente come le nasali ma il
tratto che determina la e l’uno dell’altra non è il punto di articolazione (rimane sempre lo stesso) ma la
sonorità (più o meno sonoro)

- Prima di una consonante sorda, si trova [s]: spaurito, scavare, studiare, ecc.
- Prima di una consonante sonora, si trova [z]: sdentato, sgocciolare, snaturare, ecc.
- In posizione iniziale di parola prima di vocale (#__V) e in posizione intervocalica (V__V), in italiano
standard, non è prevedibile quale delle due varianti ci sia.
- ci sono anche gli allofoni vocalici, vocale lunga e vocale aperta, la lunghezza delle vocali in italiano
non è distintiva. La variante lunga in italiana è legata a un contesto specifico: in sillaba tonica e
aperta. Non è una variante libera mentre se pensiamo alle pronunce italiane e non all’italiano
standard e pensiamo a pesca e pesca (da pescare), vocali semiaperte (?) queste spesso sono in
posizione libera (?)
- [ŋ] si trova solo prima di una
consonante velare (__k, g).
- [ɱ] si trova solo prima di una
consonante labiodentale (__f, v).
- [n] si trova in tutti gli altri contesti.

A differenza della trascrizione fonetica = come una parola viene pronunciata, con le sue caratteristiche
articolatorie = se io pronuncio e ho una nasale velare, io devo trascrivere una nasale velare, la trascrizione
fonematica registra sono i fonemi della lingua, non le varianti quindi tutto quello che appartiene al
contesto, non viene considerato. Devo segnare l’accento (esempio capitano della nave e molte cose
capitano, se no il significato può variare, ancora della nave e baciami ancora etc.)

Da Google - La trascrizione fonemica (o anche fonologica e fonematica) è un sistema di scrittura artificiale


che serve a rendere i fonemi di una specifica lingua. Si differenzia dalla trascrizione fonetica, che riproduce
i foni, ma i due tipi di trascrizione usano gli stessi simboli.

RAPPRESENTAZIONE DEL CONTESTO E REGOLE FONOLOGICHE

Abbiamo detto che i foni sono le realizzazioni concrete dei fonemi; quindi, c’è una relazione tra di loro.
Questa relazione è regolata da regole distinte. Ci sono delle regole che regolano la relazione tra il piano
fonologico e quello fonemico, ci dicono come in una certa langue, un fonema debba realizzarsi in un
contesto concreto. Queste regole consentono di articolare, pronunciare dei suoni, a partire da un numero
di unità che abbiamo in testa.

Per esempio, il plurale della parola amico è amici, c’è una regola fonologica che mi dice che quell’occlusiva
velare viene realizzata in maniera diversa difronte a un determinato suono che è la vocale.

Una regola fonologica ha la struttura:

- A → B/__C «A diventa B nel contesto C» = il primo A indica il suono o il fonema che ci interessa, la
freccetta indica il fatto che viene realizzato come (cioè il modo in cui viene realizzato), la barra
obliqua separa il contesto, quello che c’è dopo questa indica il contesto dove avviene un certo
mutamento. Il contesto può rappresentarsi in modi diversi.

Per esempio, l’alternanza della consonante nella coppia amico [a’mi:ko] / amici [a’mi:tʃi] può essere
descritta dalla seguente regola: • k → tʃ/__i = DAVANTI A VOCALE I.
- La regola per cui davanti a una consonante bilabiale la nasale alveolare [n] diventa una nasale
bilabiale [m] può essere rappresentata nel modo seguente: • n → m/__{p, b, m} IN + AGGETTIVO
possibile – impossibile, deciso – indeciso, tratti = proprietà che hanno i suoni che sono modo e
punto di articolazione come principali. Ce ne sarebbero anche altri come sonore, ostruenti etc.

Il latino ct in italiano diventa tt facto – fatto, è un’assimilazione ed è simile a lecito – illecito.

L’ASSIMILAZIONE

Si tratta di un fenomeno di mutamento fonetico che prevede che un suono si assimili a un altro. Può essere
totale o parziale, progressiva o regressiva:

- Assimilazione totale: il segmento che causa l’assimilazione rende il segmento assimilato


totalmente uguale a sé stesso: in+realizzabile > irrealizzabile; in+lecito > illecito. (in questo caso, la
nasale si assimila completamente alla vibrante laterale che segue)
- Assimilazione parziale: il segmento che causa l’assimilazione cambia il segmento assimilato solo
parzialmente: in+possibile > impossibile (assimilazione al punto di articolazione: da alveolare a
bilabiale); [s]battere > [z]battere (assimilazione al tratto di sonorità: da sordo a sonoro)

Nei primi due casi di assimilazione qui sopra, riguardano tutti casi in cui il primo segmento, la prima
consonante, assimila alla seconda. In alcuni casi succede il contrario: la seconda consonante si assimila alla
prima. Ecco i casi:

- • Assimilazione progressiva: il segmento che causa l’assimilazione si trova prima di quello che si
assimila: mondo > monno in romano, quindi la seconda consonante occlusiva dentale si assimila alla
prima, diventando nasale.
- Assimilazione regressiva: il segmento che causa l’assimilazione si trova dopo quello che si assimila:
in+logico > illogico

L’assimilazione
1) Assimilazione totale progressiva: mondo > monno (romanesco);
2) Assimilazione totale regressiva: in+lecito > illecito;
3) Assimilazione parziale progressiva: dog+[s] > dog[z] ‘cani’;
4) Assimilazione parziale regressiva: in+possibile > impossibile

RICORDA DI SPECIFICARE IL TIPO DI ASSIMILAZIONE NELL’ESAME.

LA DISSIMILAZIONE

Vediamo altri fenomeni che riguardano la fonologia, intanto vediamo il processo opposto dell’assimilazione
che è la dissimilazione. Questa prevede che ci siano due segmenti simili o identici e, per ragioni
articolatorie = per rendere la pronuncia più semplice, uno si dissimila dall’altro.
Per esempio, armarium latino in italiano è armadio, ci sono due coli (?) vibranti a distanza, una delle due si
differenzia dall’altra ma non è una cosa meccanica, la dissimilazione è sporadica, può succedere ma anche
no. In latino, la parola anima, ha dato due esiti in italiano, uno anima e l’altro che ha una forma poetica che
è alma, dove è caduta una vocale ma anche una dissimilazione di una nasale: la prima nasale si è dissimilata
dalla seconda. In latino, il prefisso -alis in italiano abbiamo -ale come nasale, già in latino, se la parola a cui
si attaccava -alis aveva una laterale, questo provocava la dissimilazione della laterale che diventava una
vibrante luna – lunaris, ursularis (?).
La dissimilazione riguarda il latino.
Le assimilazioni possono anche essere a distanza (?)
Prof. Valerio Pisaniello 21/10/2022

Oggi abbiamo parlato dei fenomeni di mutamento fonetico: dissimilazione, sincope, apocope, aferesi,
epentesi, anaptissi, prostesi, epitesi, metatesi; la struttura della sillaba; fatti soprasegmentali (lunghezza,
accento, tono e intonazione); il sistema fonologico dell'inglese.

ALTRI FENOMENI DI MUTAMENTO FONETICO

- Dissimilazione: è il processo contrario all’assimilazione: quando in una parola ricorrono due


suoni simili dal punto di vista articolatorio, uno dei due può differenziarsi: per es. lat.
armarium > it. armadio. La prima forma di armadio ha prodotto la seconda, l’esito di una certa forma, basta
guardare la punta a cui punta (haha) la freccia. La dissimilazione riguarda solo il latino.

I prossimi tre fenomeni riguardano la cancellazione di un segmento. Può succedere che, nel processo di
formazione di una parola, in italiano, a partire da una base, aggiungendo un suffisso o un morfema, si
verifichino delle cancellazioni di segmenti: un suono può cadere (come nella trasformazione da aggettivi ad
avverbi come abile – abilmente, non abilemente. Possiamo studiarli sia in sincronia che diacronia
(cronologicamente).
Questi tre fernomeni si distinguono tra loro in base a dove avviene la cancellazione del segmento.
1) Sincope: consiste nella caduta di un segmento all’interno di una parola, è una vocale questo
segmento per es. spirito > spirto (è una forma poetica della parola spirito), qui cade una sillaba
spi-ri-to, la vibrante si attacca alla prima sillaba all’interno della parola.
2) Apocope: consiste nella caduta di un segmento alla fine di una parola, anche qui è una vocale e
quindi, questo porta alla caduta della sillaba per es. bello > bel, santo > san.
3) Aferesi: consiste nella caduta di un segmento all’inizio di una parola, per es. ingl. I am > I’m
Ci sono poi fenomeni che prevedono l’aggiunta di un segmento. Anche qui, a seconda della posizione
possiamo averli all’inizio, nel mezzo o alla fine.
4) Epentesi: consiste nell’inserimento di una consonante all’interno di una parola, per es. lat.
hibernum > it. Inverno spesso queste cose succedono per facilitare la pronuncia.
5) Anaptissi: consiste nell’inserimento di una vocale all’interno di una parola, per
es. psicologia > pissicologia in alcuni dialetti dell’italiano.
6) Prostesi: consiste nell’aggiunta di un segmento all’inizio di una parola, per es.
scritto > (per) iscritto. Da non confondere con la prefissazione fare – rifare, sono due cose diverse mentre
scritto e per iscritto sono la stessa cosa e si fa solo per ragioni fonetiche, per semplificare le cose.
7) Epitesi: consiste nell’aggiunta di un segmento alla fine di una parola, per es. it. sì
> sine (romanesco).
8) Metatesi: l’ordine di due segmenti viene invertito, quindi è lo spostamento di un suono per es.
aeroporto > areoporto; lat. miraculum > sp. Milagro, quest’ultimo è un esempio dal latino allo
spagnolo.

LA SILLABA

Dal punto di vista fonetico, la sillaba può essere definita come «un’unità prosodica costituita da uno o più
foni agglomerati intorno a un picco di intensità» (Albano Leoni e Maturi 1998: 70). Il principio base è che
non tutti i suoni hanno lo stesso livello di intensità: ci sono suoni più intensi, c’è una scala di sonorità che
prevede come picco massimo le vocali = i suoni con maggiore intensità e all’ultimo livello le occlusive (che
hanno il livello di intensità più basso). I suoni, quando si combinano tra di loro, si combinano in strutture
che agglomerano suoni con una sonorità inferiore intorno a suoni che hanno un picco di sonorità maggiore.
La sillaba non è altro che un agglomerato di suoni dove il centro della sillaba, l’elemento portante, è quello
che ha sonorità maggiore, per questo in italiano le vocali sono le uniche (e non le consonanti) ad avere il
picco di sonorità mentre in altre lingue (le sonoranti laterali etc. ?)
- In italiano, questi picchi di sonorità sono rappresentati dalle vocali. In altre lingue, anche alcune
consonanti possono costituire un picco di sonorità, intorno al quale si costruisce la sillaba (per es.
sloveno Trst ‘Trieste’), è una sonorante che occupa il posto della sillaba (del nucleo della sillaba?).
- Le consonanti che possono assolvere tale funzione sono solitamente le sonoranti (o sonanti) [r, l,
m, n].
- Il picco di sonorità di una sillaba è detto nucleo. In italiano, la sillaba minima è costituita dal solo
nucleo (cioè da una vocale). Per esempio nella parola amore.
- Il nucleo può essere preceduto da un attacco e seguito da una coda (o di più on altre lingue). Il
nucleo e la coda costituiscono la rima.
- L’attacco può essere costituito da una o più consonanti (ma, tra, stra). La coda è costituita, in
italiano, da una sola consonante (in, con, bot, ecc.). gli attacchi in italiano sono massimo di tre
consonanti mentre la coda è costituita da una sola consonante. In altre lingue, in coda sillabica,
possono anche esserci due consonanti.

Questa è una rappresentazione schematica della


sillaba. La sillaba la indichiamo con un piccolo
simbolo greco.
La sillaba si divide in attacco e rima, quest’ultima
che è costituita da un nucleo e da una coda.

La differenza tra sillaba aperta e sillaba chiusa. Se teniamo conto di questa descrizione che abbiamo fatto
prima, basta dire che una sillaba aperta non ha una coda sillabica mentre una sillaba chiusa ha la coda.
Ricordiamo che la divisione in sillabe non è come quella che abbiamo imparato a scuola! Una parola come
nastro, è un bisillabo nas-tro, la prima sillaba è chiusa.

FATTI SOPRASEGMENTALI

- Esistono fenomeni fonetici e fonologici che non possono essere attribuiti a un segmento, ossia alla
stringa dei suoni che compongono una parola. Si parla pertanto di fenomeni soprasegmentali.
- Tra i principali vi sono:
1) la lunghezza: è relativa alla durata temporale con cui vengono realizzati i suoni (sia vocali sia
consonanti). È la durata temporale con cui viene realizzato un suono. In italiano, la quantità
vocalica non ha valore distintivo (mentre in latino lo aveva: vĕnit ‘viene’ ~ vēnit ‘venne’). La
lunghezza consonantica ha invece valore distintivo: casa ~ cassa, pena ~ penna, ecc., sono tutte
coppie minime che si distinguono dalla lunghezza della consonante.
2) L’accento: è una proprietà della sillaba e non dei singoli segmenti. Una sillaba tonica è realizzata
con maggiore intensità rispetto a una sillaba atona, porta l’accento primario. In italiano, l’accento
ha valore distintivo, altre lingue hanno l’accento fisso (quindi l’accento in quelle lingue non ha
valore distintivo, in un determinato contesto fonico l’accento può solo stare in un determinato
posto, anche in latino era così!) : àncora ~ ancóra; càpitano ~ capitàno ~ capitanò, ecc. sono coppie
minime che si basano solo sulla differenza dell’accento e non dalla lunghezza dei segmenti (in un
certo senso, quindi, l’accento si può considerare un fonema)
3) Il tono è qualcosa che riguarda determinate lingue, cioè le lingue tonali come il cinese o alcune
lingue franche dei nativi dell’America centrale come l’azteco. In queste lingue un medesimo
segmento può essere pronunciato con torni differenti, generalmente ascendente e discendente,
ascendente discendente, discendente ascendente. Questo ha valore distintivo: la stessa sillaba,
pronunciata in maniera diversa, significa due cose diverse, ha quindi diversi significati, la parola
cambia completamente.
4) L’intonazione, usciamo dalla parola e andiamo alla frase. L’intonazione è l’andamento prosodico di
un enunciato, la curva intonativa che fa l’enunciato quando viene pronunciato. Questo ha valore
distintivo anche in italiano, per esempio Luca è andato al mare e Luca è andato al mare? Distingue
per esempio una frase dichiarativa da una frase interrogativa.

IL SISTEMA FONOLOGICO INGLESE

Questo è giusto per curiosità!

Prof. Valerio Pisaniello 3/11/2022

Oggi abbiamo fatto un’introduzione alla morfologia: la nozione di parola, parole semplici e parole
complesse, la forma di citazione, il tema e la radice; le parti del discorso: variabili e invariabili, aperte e
chiuse; categorie e sottocategorie.

MORFOLOGIA

La morfologia studia le parole e le diverse forme che esse possono assumere.

- Le parole possono essere semplici, cioè prive di una struttura interna (per es. cane), o complesse,
cioè dotate di una struttura interna. Le parole complesse possono essere derivate (prefissate o
suffissate) o composte.
- Le parole, sia semplice che complesse, possono essere flesse (per genere, numero, ecc.) o meno.
Per esempio, gli aggettivi in italiano possono essere flessi per numero e per genere. I verbi in
italiano possono essere flessi per persona, numero, tempo. Le parole possono essere più o meno
flesse. Nelle lingue, non tutte le lingue hanno una flessione (flessione e numero), queste funzionano
in modo molto diverso dall’italiano.
La morfologia, quindi, è lo studio delle parole.

LA PAROLA

Quello di ‘parola’ sembra essere un concetto abbastanza intuitivo e, per un parlante italiano, non ci sono
grossi problemi nell’individuare le parole in una frase.

Tuttavia, definire scientificamente che cosa sia una parola è più problematico.

Diversi criteri di definizione sono stati proposti, ma si sono rivelati tutti inadeguati, specialmente perché il
concetto di parola può variare molto da lingua a lingua (per esempio, esistono lingue in grado di
concentrare tutti gli elementi contenuti in un’intera frase in una sola parola, come l’azteco).

Un criterio intuitivo, che può valere per l’italiano, consiste nel considerare la parola ciò che è compreso tra
due spazi bianchi. Ovviamente, però, tale definizione funziona solo per le lingue che hanno un sistema di
scrittura e che separano le parole tramite qualche segno grafico. Questo fa riferimento alla scrittura ma non
è neanche una definizione adeguata perché secondo questo criterio, una linea è una parola sola, ci sono tre
parole staccate ma alcune lingue appunto, separano le parole con dei segni grafici ma altre mettono più
parole insieme. Questa definizione, quindi, è limitata.

Un’altra possibilità è quella di definire la parola come quell’unità della lingua che si può usare da sola, cioè
che da sola può formare un enunciato (per es. Maria in risposta a chi è?, domani in risposta a quando?,
ecc.). Ma questo criterio esclude le cosiddette parole grammaticali, come gli articoli e le preposizioni, che
da sole non possono costituire un enunciato (a meno che la domanda non sia tipo qual è l’articolo
determinativo maschile singolare in italiano? Il)

Insomma, non è possibile definire la nozione di parola una volta per tutte. Si possono distinguere diverse
accezioni di parola, a seconda del punto di vista da cui la si considera. A seconda del punto di vista che
qualcuno sceglie di adottare, in più, il concetto di parola cambia anche all’interno della stessa lingua.

Per esempio, dal punto di vista fonologico, una parola è tutto ciò che si raggruppa attorno ad un accento
primario ed è un insieme di foni. Quindi, da tale punto di vista, telefonami è una parola sola
sintatticamente. Dal punto di vista sintattico, però, telefonami è costituita da più unità, sempre dal punto di
vista sintattico (= telefona a me). Alcune parole, come luna di miele, sono un’unica parola e guardando
l’espressione, non possiamo capire il significato, almeno in questo tipo di espressione.

Viceversa, capostazione è una parola sola dal punto di vista sintattico, ma è costituita da due unità dal
punto di vista fonologico (ha due accenti).

Un criterio abbastanza affidabile è quello di considerare ‘parole’ quelle unità che non possono essere
interrotte (al cui interno non è possibile inserire altro materiale linguistico). Per esempio, posso dire un
tavolo grande di legno/ un grande tavolo di legno, una lunga luna di miele/ una luna di miele lunga ma non
una luna lunga di miele, queste parole non possono essere interrotte aggiungendo un aggettivo, questo o
sta prima o dopo, ma non in mezzo alla parola. Capiamo anche che queste sono parole uniche, anche se
sono separate, perché dal punto di vista semantico il significato è unico (luna di miele) mentre un grande
tavolo di legno sono parole differenti, il significato è composizionale, è dato dalla somma delle parti.
Ovviamente, questo significato, questa spiegazione, non è adatta a tutte le lingue, ma è comunque quella
più adeguata.

Ricondiamoci anche che il concetto di parola cambia a seconda del punto di vista che abbiamo (fonologico,
morfologico, sintattico etc.), la parola non è la stessa cosa sempre.

LA FORMA DI CITAZIONE
La forma di citazione di una parola, detta anche lemma, è quella che si trova sul dizionario, che viene
scelta come rappresentante di tutte le forme flesse che quella parola può avere. È un termine
metalinguistico, appartiene quindi allo studio della lingua. Sono tutte le possibili realizzazioni in un testo di
quella parola. Per esempio, la parola cane, in un testo, può essere rappresentata come cane o cani, sono la
stessa parola con diverse realizzazioni.

Questa forma varia da lingua a lingua: nei dizionari italiani, la forma di citazione dei verbi corrisponde
all’infinito (per es. amare), quella dell’aggettivo al maschile singolare (bello), ecc. Nei dizionari di latino,
invece, la forma di citazione dei verbi è generalmente la prima persona singolare del presente indicativo
(amō). Quindi, viene tutto “riunito” in un unico lemma.

L’operazione che porta dalle forme flesse ai lemmi si chiama lemmatizzazione. Ricordiamo che questa è
un’operazione metalinguistica.

Questo dipende dalle tradizioni lessicografiche e dallo studio della lingua.

Il lemma è la forma che viene scelta come rappresentante di tutte le possibili forme flesse di una
determinata parola. È convenzionale e solitamente è la prima forma maschile singolare. Nel caso dei verbi,
è o l’infinito o il presente, dipende dalle varie lingue.

Distinguiamo la parola dal lemma: il lemma è il frutto di un’operazione, la parola può assumere varie forme.

TEMA E RADICE

Guardiamo due termini linguistici ora. Nel caso dei verbi italiani, bisogna distinguere tra radice e tema: se al
verbo amare si toglie la desinenza -re dell’infinito, resta ama, il tema del verbo. Il tema è a sua volta
costituito da una radice (am) e da una vocale tematica (a). quindi il tema è quella cosa che resta una volta
che togliamo la marca flessionale di una parola = amare è una delle possibili forme del verbo amare anche
se non ha una flessione o un numero – se io tolgo la marca di flessione, quella che in questo caso mi segna
che il verbo è infinito cioè re – ottengo ama che è il tema. Tolgo non solo la marca di flessione ma anche
tutti i possibili affissi della parola.

In italiano, i verbi hanno tre vocali tematiche, a (amare), e (temere), i (sentire), che determinano
l’appartenenza dei diversi verbi alle coniugazioni. Infatti amore, come sostantivo ha amore.

Questo concetto di radici e parole, lemmi e radici, non funzionano solo con i verbi ma anche con altre
parole, per esempio guardiamo una parola che non ha derivati o composti o marche di flessioni. Il tema può
coincidere con la radice e quello che rimane come dentale – denta ma se voglio trovare la radice, posso
togliere al per arrivare a den, la stessa radice di dente, togliendo la marca di flessione. Se tolgo tutti gli altri
“accessori” arrivo alla radice. Anche con un aggettivo posso arrivare a trovare la radice e il tema, basta fare
come prima: quello che rimane rimuovendo la marca di flessione è il tema e quello che rimane togliendo
anche tutti gli altri affissi è la radice dentale ha la stessa radice di dente ma ha un tema che si forma con
l’aggiunta di un suffisso derivazionale che mi permette di derivare un aggettivo a partire da un nome.

Le lingue primitive, senza struttura interna e quindi senza derivazione, avranno il tema che coincide con la
radice e quelle derivate avranno tema e radice distinti.

CLASSI DI PAROLE

Le parole di una lingua sono raggruppate in classi, chiamate anche parti del discorso o categorie lessicali.
Nella grammatica sono chiamate proprio parti del discorso (ma anche categorie lessicali). In una lingua, le
parole appartengono a classi diverse.
Secondo la tradizione grammaticale italiana, le parti del discorso sono il nome, il verbo, l’aggettivo, il
pronome, l’articolo, la preposizione, l’avverbio, la congiunzione e l’interiezione. Alcune lingue non hanno
tutti questi, per esempio il latino non ha l’articolo e altre lingue non hanno aggettivi.

Alcune di queste sono variabili, assumono cioè forme diverse a seconda delle altre parole con cui si
combinano; quindi, significa che possono avere una flessione (nomi, verbi, aggettivi, articoli e pronomi),
altre sono invece invariabili (avverbi come oggi, velocemente etc. , preposizioni, congiunzioni, interiezioni).
Essere variabili o invariabili dipende dalle lingue individuali, in inglese i nomi sono variabili, hanno un
singolare e un plurale ma gli aggettivi non hanno un maschile, femminile etc.

Un’ulteriore distinzione è quella tra classi di parole aperte e chiuse:

- le classi aperte sono quelle alle quali è sempre possibile aggiungere nuovi elementi (nomi, verbi,
aggettivi, avverbi, interiezioni) o tendenzialmente aperti o chiusi tramite processi interni di
cambiamenti della lingua o tramite prestiti linguistici da altre lingue;
- Le classi chiuse sono quelle formate da un numero finito di elementi, che non può essere
aumentato (articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni) ma alcuni dialetti possono prendere in
prestito preposizioni e congiunzioni da altre lingue, come ha fatto il nahuatl. Sono comunque
fenomeni molto rari.

Anche se questo è soggettivo alle varie lingue, possiamo dire comunque che ci sono delle parti del discorso
che ci sono delle caratteristiche universali come il nome e il verbo. Tendenzialmente, ogni lingua ha dei
nomi e dei verbi ma non il resto.

Quali sono i criteri di attribuzione di una parola a una certa classe? Questo è un problema. Di nostro
sappiamo distinguere i nomi dagli aggettivi, verbi, avverbi etc. ma se dobbiamo definire quali sono le
proprietà che rendono un nome un nome, allora la faccenda si fa più complicata.

- Tradizionalmente si ricorre a un criterio semantico, basato cioè sul significato (i nomi designano
degli oggetti, i verbi delle azioni o processi, gli aggettivi delle proprietà, gli avverbi indicano dei
processi ecc.).

Tale criterio risulta però inadeguato: parole come partenza, nascita, bevuta, ecc. designano processi, non
oggetti, ma sono ugualmente nomi. D’altro canto, ci sono verbi che non indicano azioni o processi, ma stati
(sapere, credere, ecc.).

- Un criterio affidabile può essere quello distribuzionale: all’interno di una frase, la distribuzione
delle diverse parole non è totalmente libera, ma è limitata dalla loro categoria lessicale di
appartenenza.

Per esempio, un articolo può essere seguito da un nome, ma non da un verbo, da una preposizione o da
un avverbio, un nome può essere seguito da un verbo o da un aggettivo, ma non da un articolo, ecc. ci
sono comunque processi che fanno diventare un aggettivo un nome, per esempio bello, che è un
aggettivo, può diventare il bello, questo processo si chiama conversione. Amare è un verbo ma l’amare
è un nome.

Quindi, se mi baso sul processo distribuzionale e anche, volendo, sulle categorie flessionali, riusciamo
più o meno a definire i confini. Per esempio, se qualcosa ha una flessione di tempo, è un tempo e non
un nome. Con questi possiamo individuare la classe di appartenenza di una parola.

CATEGORIE E SOTTOCATEGORIE

Il problema è che tutte queste classi di parole non sono omogenee. I nomi non sono tutti uguali, ma
hanno proprietà diverse, ci sono diversi tipi di nomi (e di verbi etc.). Per esempio, i nomi possono
essere propri e comuni, concreti o astratti, animati o non animati (cane e tavolo etc.). Queste possono
essere descritte medianti tratti binari come [±umano], [±animato], [±astratto], ecc. significa che hanno
un certo valore o meno. Posso rappresentarli con un simbolo più o meno, per esempio cane può essere
un nome più animato, ma meno umano (non è un nome umano, non si riferisce a un essere umano).

Tutti questi tratti suddividono la categoria «nome» in sottocategorie.

Vediamo ora uno schema delle sottocategorie del nome. Uno dei possibili schemi, comunque.

Per esempio, una prima divisione, secondo questo schema, è tra nomi comuni e non comuni (indicato
con ±comune). Rendiamolo concreto, i nomi propri, per esempio, possono essere nomi di un paese o un
nome di una persona. Tra gli animati posso distinguere più o meno umano per esseri umani o meno
come ragazzo e cane.

Dall’altro lato abbiamo i nomi più comuni che possono essere numerabili o non numerabili. Tutti questi
parametri (comune, numerabile, animato etc.), sono rilevanti linguisticamente, non sono scelti a caso. Ha
senso distinguere ±umano ma anche ±numerabile, una parola non numerabile non ha il plurale. Una parola
non numerabile, possiamo chiederci se è ±astratta o concreta.

Quindi, queste parole come ragazzo, cane, libro, virtù, sporcizia, Carlo, Fido, Egitto, sono sempre nomi,
quindi cadono tutti nella stessa categoria ma hanno tutti diverse sottocategorie.

Anche i verbi possono essere sottocategorizzati in verbi transitivi e intransitivi (mangiare/ ha mangiato vs
intransitivi dormire, ha dormito, cadere/ è caduto. Ci sono i mercativi e gli accusativi, sottocategorie dei
verbi intransitivi), regolari e irregolari, processivi e stativi, ecc. i verbi possono essere divisi anche in altre
sottocategorie (verbi durativi e non, per esempio). Un verbo può anche essere telico o atelico, il verbo
telico mira alla fine, se non viene raggiunto l’azione non è compiuta mediante quello atelico non ha un fine
da raggiungere. Questo determina la compatibilità del verbo con un determinato avverbio.

Torniamo al nome. Perché sono rilevanti le sottocategorie del nome? Perché da queste dipendono
determinate possibilità morfologiche, sintattiche etc. Tali sottocategorizzazioni del nome e del verbo sono
importanti in morfologia, perché certi suffissi possono legarsi solamente a basi che hanno determinati
tratti. Per esempio, di norma solo i verbi transitivi possono formare aggettivi per mezzo del suffisso -bile
(amabile, cantabile, percorribile, mangiabile, ma non *volabile, *andabile, ecc.). Il verbo, per avere questo,
deve avere determinate caratteristiche: deve essere transitivo. Non ho, non esiste volabile, andabile etc. il
suffisso derivazionale è collegato a questi verbi di tipo transitivo.

Quindi, anche il verbo ha tutta una complessa sottocategorizzazione.


Vediamo ora questa tabella con altri suffissi:

Ci mostra che determinati suffissi sono compatibili sono con determinate sottocategorie del nome. Per es. -
iera: solo nomi con i tratti con nomi comuni, non con nomi propri, con nomi concreti, non nomi astratti [+
comune], [±animato], [-astratto] (conigliera, uccelliera, teiera, zuccheriera, ma non *Antoniera,
*speranziera, ecc.). Ma non tutti i nomi che hanno questi tratti sono compatibili con questo suffisso (per es.
libro, cavallo, ecc.), quindi non sono possibili tutte le realizzazioni. Questi parametri rilevanti.

Prof. Valerio Pisaniello 4/11/2022

oggi abbiamo parlato del morfema; tipi di morfema: lessicale, derivazionale e flessionale; morfemi liberi e
morfemi legati; morfema, morfo e allomorfo; flessione, derivazione e composizione; la morfologia come
processo.

IL MORFEMA

Ad un primo livello di articolazione, le parole possono essere scomposte in unità minime che sono ancora
dotate di significato. Unità minima significa che non può essere ulteriormente scomposta e hanno
significato, quindi sono segni linguistici: hanno significato e significante.

• Molte parole possono essere scomposte in unità minime portatrici di significato, per es. gatto: gatt-
(felino domestico ecc.) quindi ci dà un’informazione di tipo lessicale, significato che porta in tute le forme
(gatto, gatti, gattaro etc.) + -o (singolare) ha un significato ma non lessicale, fa riferimento a un pezzo di
realtà ma ha un significato grammaticale, fa riferimento a una categoria linguistica = qualcosa che fa
funzionare la lingua. In questo caso, la -o di gatto indica una marca di numero = gatto è singolare. I nomi
hanno un genere ma non è determinato dalla desinenza = mano – mani appartengono alla stessa classe
flessionale di gatto – gatti, sono gli stessi nomi ma la mano è femminile, quindi, il genere non dipende dalla
desinenza. Il poeta è maschile anche se finisce in -a. il genere c’è in nomi ma non è espressa in desinenze,
bensì in suffissi derivazionali (è una questione di derivazione, non di flessione).

• Il morfema è la più piccola unità della lingua dotata di significato (pertanto, è un segno linguistico a tutti
gli effetti, costituito da un significante e da un significato). Qui siamo al primo livello di articolazione.

• [cfr. il fonema: la più piccola unità della lingua non dotata di un significato proprio, ma che permette di
distinguere significati. Qui siamo al secondo livello di articolazione]

MORFEMI LESSICALI E MORFEMI GRAMMATICALI

I morfemi possono essere classificati secondo diversi parametri. Ci può essere il parametro della funzione,
posizionale = i morfemi possono essere classificati in base alla posizione in cui ricorrono in una parola e il
parametro dell’indipendenza = i morfemi possono essere più o meno liberi.
Vediamo il parametro funzionale, i morfemi possono essere classificati, innanzitutto, secondo la funzione
che hanno. I morfemi non sono tutti uguali (gatto = gatt- -o, significato + numero). Il numero grammaticale
anche singolare, può indicare anche una pluralità = alla fine del corso, lo studente potrà andare a casa =
indica tutti gli studenti, una pluralità / domani vado al mare = è un presente ma è riferito a domani, un
tempo futuro.

La prima distinzione, dal punto di vista funzionale, dei morfemi, è quella tra morfemi lessicali e quelli
grammaticali.

• Una prima distinzione è quella tra morfemi lessicali e morfemi grammaticali:

• i morfemi lessicali sono quelli che veicolano il significato generale di una parola (gatt-, libr-, can-, ecc.)
quindi parliamo di significato lessicale;

• i morfemi grammaticali sono quelli che danno le informazioni di carattere grammaticale (relative alla
categoria di appartenenza – nome, verbo, aggettivo, ecc. – e alla flessione – genere, numero, caso, ecc.).

• I morfemi grammaticali, a loro volta, sono divisibili in morfemi derivazionali e morfemi flessionali:

• i morfemi derivazionali sono quelli che formano parole nuove a partire da altre parole quindi ci danno
informazioni relativa a una parte del discorso (dente, dent-al-e aggiungendo -al abbiamo dentale, ci dà un
informazione di categoria, mi dice che questa parola è un aggettivo, dent-ist-a questo -ist mi da
informazioni sulla categoria, ecc.) quindi questo tipo di morfema mi da’ informazioni sulla parte del discorso
ma anche sulle sottocategorie;

• i morfemi flessionali (o desinenze) sono quelli che danno luogo alle diverse forme di una stessa parola
(gatt-o, gatt-i, gatt-a, gatt-e), quindi nel caso sopra formo parole diverse ma in questo, formo diverse
“versioni” della stessa parola.

Questa è la classificazione dei morfemi secondo la funzione che hanno.

MORFEMI LIBERI O MORFEMI LEGATI

• I morfemi possono essere liberi o legati, quelli più o meno dipendenti e quelli che invece hanno bisogno
di altri elementi, altri morfemi:

• i morfemi liberi sono quelli che possono ricorrere da soli nella frase (per es. bar, ieri, oggi, ecc.);

• i morfemi legati sono quelli che non possono ricorrere da soli, ma hanno bisogno di aggiungersi a
qualche altro morfema (libr-o, gatt-i, ecc.).

• I morfemi grammaticali sono tipicamente morfemi legati (hanno bisogno di aggiungersi ad un morfema
lessicale). In italiano, anche i morfemi lessicali sono per lo più legati (forme come gatt, libr, dent non
possono ricorrere da sole), mentre in inglese sono tendenzialmente liberi (cat, book; in un plurale come
books si avrà un morfema libero book e un morfema legato -s).

La parola liberamente, è composta da quanti morfemi? E sono liberi o legati? Sono lessicali o grammaticali?
Intanto, a che parte del discorso appartiene? È un avverbio. È parte del discorso variabile o invariabile? È
invariabile. Quindi, sicuramente, se è invariabile, non c’è un morfema flessionale. È una parola primitiva o
derivata = semplice o complessa? Complessa = è composta da due morfemi: libera+mente= libera, dal punto
di vista della funzione, è un morfema grammaticale, nello specifico derivazionale, deriva da un avverbio a
partire da una base aggettivale. Dal punto di vista dell’indipendenza, sono liberi o legati questi due
morfemi? E perché? Partiamo da -mente, è un morfema legato, da non confondere con il nome mente che
ha una flessione (mente- menti), l’avverbio non ha flessioni nominami. Libera è un morfema libero o legato?
È legato perché libera, aggettivo, è una cosa diversa, è una marca di flessione = Lucia è liberA, mentre qui,
libera non è una flessione, non è una marca di flessione. Se può sembrarci un morfema libero, controlliamo
sempre che sia corretto, perché non è sempre così: possiamo usare libera in una frase, da solo ma è diverso,
ha una forma di flessione mentre liberamente, libera qui è un avverbio.

• Le parole inglesi sono generalmente monomorfemiche (cioè composte da un solo morfema, come cat,
dog, boy, ecc.), mentre quelle italiane sono generalmente almeno bimorfemiche (gatt+o, can+e, ragazz+o,
ecc.).

• I verbi regolari italiani sono trimorfemici (morfema lessicale + vocale tematica + desinenza, per es.
cammin+a+re).

• Le parole complesse possono essere trimorfemiche e oltre: industri+al+izz+a+zion+e

MORFEMI E ALLOMORFI

Quando abbiamo parlato di fonologia, abbiamo visto che c’è una differenza tra il fonema, il fono e che poi i
possono essere gli allofoni. Abbiamo visto che il fonema è l’unità di langue, ha valore distintivo, appartiene
al piano astratto della lingua. I fonemi sono realizzati dai foni, i fonemi sono la rappresentazione dei foni.
Questi foni, invece, appartengono al piano della parola, alla dimensione concreta. un fonema può
corrispondere a diverse realizzazioni, abbiamo visto l’esempio della nasale, un fonema nasale, in italiano,
può realizzarsi in modi diversi a seconda della consonante che segue perché quando è davanti a una
consonante, la nasale, in italiano, questa acquisisce il punto di articolazione della consonante. Queste non
sono unità funzionali diverse, queste realizzazioni non corrispondono a fonemi diversi ma sono realizzazioni
diverse di uno steso fonema, vincolate dallo stesso contesto, sono detti allofoni, suoni che non possono
essere scambiati nello stesso contesto (terza regola di D.)

• Come nel caso del fonema, il termine morfema designa un’unità astratta, che, a livello concreto, è
realizzata da un morfo o allomorfo (la distinzione è del tutto parallela a quella tra fonema, fono e allofono).

• Generalmente, un solo morfema è realizzato da un solo allomorfo, ma, in alcuni casi, un singolo morfema
può essere realizzato da più allomorfi. Il morfema è l’unità astratta che viene realizzata concretamente dal
morfo. Fonema – fono, morfema – morfo. Anche il morfema può avere una pluralità di realizzazione e
questa pluralità di morfi viene chiamata allomorfi = realizzazioni diverse di uno stesso morfema.

• Per esempio, graficamente il plurale inglese è marcato da -s (dog-s, cat-s, ecc.) o da -es (dash-es, bus-es,
ecc.), mentre foneticamente abbiamo tre diverse realizzazioni condizionate dal contesto fonico: [s] dopo
consonante sorda, [z] dopo consonante sonora, [ɪz] dopo [s, z, ʃ, tʃ, dʒ], l’allomorfia è un fenomeno
morfologico. Quello che determina le 3 varianti non dipende dal piano morfologico ma fonemico: le tre
varianti nascono dal contesto fonico, in questo caso dai suoni che precedono il suffisso. Quindi, in
fenomeno dell’allomorfi dipende, è motivato, dalla fonologia. La distribuzione degli allomorfi è pure di tipo
complementare, ciascun elemento è legato a un contesto specifico, quindi, si distribuiscono le tre varianti,
le tre realizzazioni nei diversi contrasti in maniera complementare: dove c’è uno non possono esserci gli
altri.

• Morfema di plurale
• Allomorfi

• I tre allomorfi hanno distribuzione complementare: ciascuno compare in un determinato contesto, in cui
gli altri non possono comparire.

• Esempi di allomorfi in italiano sono gli articoli il e lo (ma anche i e gli) sono due realizzazioni concrete
dello stesso fonema e dipendono dal contesto fonico e le diverse realizzazioni del prefisso negativo in
(indifeso, impossibile, illecito, irrealizzabile). Stesa cosa per i prefissi s- come sdentato e diss-, anche qui
questi morfemi possono realizzarsi in modo diverso, dipende se la parola dopo ha un suono sonoro o meno,
quindi, questi due sono allomorfi.

FLESSIONE, DERIVAZIONE E COMPOSIZIONE

• I processi morfologici più comuni sono la derivazione, la composizione e la flessione.

• La derivazione consiste nella formazione di parole nuove generalmente per mezzo di un affisso (un
morfema derivazionale, qualunque morfema che si aggiunge alla frase), che può trovarsi prima (prefisso),
dopo (suffisso) o all’interno (infisso) del morfema lessicale: si parlerà pertanto, rispettivamente, di
prefissazione (1), suffissazione (2) e infissazione (3):

• 1) deciso → indeciso quindi, stanno prima della frase


• 2) dolce → dolcemente, dopo la base. La base è generalmente il morfema lessicale
• 3) ittita hark- ‘perire’ → harnink- ‘distruggere’ quindi all’interno di una base lessicale, andando a
interrompere la radice, l’italiano non usa infissi.

• Attraverso la composizione, a partire da due o più parole esistenti (cioè due forme libere, qui si intende
parola) si formano parole nuove, per esempio: capo, stazione → capostazione cassa, panca → cassapanca.
Più che dire due parole unite, sarebbe più giusto dire temi perché in un composto come lavavetri, lava non
è la terza persona singolare di lavare, ma è un tema del verbo oppure due basi che possono essere tema,
radice etc.
• Le due parole combinate esprimono una relazione grammaticale nascosta, ma ‘recuperabile’: capo
(della) stazione cassa (che è anche) panca

• La flessione si realizza mediante morfemi legati e dà luogo alle diverse forme di una stessa parola,
aggiungendo informazioni relative a:

Amor = io
sono amato

Queste qui sopra sono le categorie flessionali più comuni

La flessione invece avviene con morfemi generalmente legati. Ci sono casi in cui il morfema può sembrare
libero. Nelle forme composte dell’italiano (quelle costituite con ausiliare + participio), per esempio ha fatto,
questo è una forma verbale tempo: sta sull’ausiliare modo: sta sull’ ausiliare anche questo persona: lei/ lui
terza persona e numero: singolare, questo è un morfema lessicale = porta solo le informazioni lessicali.
Questa è la voce del verbo fare e questo è il morfema di flessione: tutti gli elementi di flessione stanno
sull’ausiliare. Non è però propriamente un morfema libero perché, isolato il contesto come Luca ha un
libro, è diverso da ha fatto, anche se sembra simile: uno è solo ha e li troviamo tutta la flessione: indicativo,
terza persona singolare mentre l’altro è voce del verbo avere, possedere: Luca ha fatto i compiti, non è la
stessa cosa, non è lo stesso morfema. Quando avere significa possedere, questo è morfema flessionale ma
non è libero, forma un’unica parola, non sono due parole distinte, è la stessa parola ma “divisa in due” una
parte porta il significato grammaticale (cioè l’ausiliare) e l’altra quello grammaticale.

FLESSIONE

• In italiano, la categoria del numero è binaria (ha cioè solo due tratti, singolare e plurale), mentre altre
lingue possono presentare anche un duale (occhi, mani, piedi etc.), un triale (come delle lingue
dell’Indonesia con tre elementi), un paucale (per piccoli gruppi di elementi, vuol dire poco da pauper), ecc.
• Il genere distingue solo maschile e femminile, mentre altre lingue (come latino, greco, tedesco, ecc.)
possono avere anche un genere neutro (o altri sistemi di classificazione) e altre che hanno sistemi di genere
più complessi. Tutti i nomi in italiano hanno dei generi, anche le parole che sono state prestare da altre
lingue. Insomma, ogni lingua ha i propri sistemi di classificazione. Ci sono anche lingue che non hanno
genere.

MORFOLOGIA COME PROCESSO

La morfologia è un processo e prevede dei processi. Attraverso, in particolare, i processi di derivazione e di


composizione, a partire da una qualsiasi parola del lessico di una lingua, io posso formare parole nuove,
quindi complesse, che hanno una struttura interna che presentano o più basi lessicali o basi lessicali
combinate con morfemi grammaticali derivazionali. In questo processo, le parti del discorso, le categorie
lessicali possono cambiare o rimanere le stesse. Per esempio, con un processo di derivazione, posso partire
da un nome e ottenere un altro nome ma anche un aggettivo, un verbo, un avverbio etc. quindi posso
partire da una categoria lessicale e arrivare a un'altra categoria lessicale. Ecco alcuni esempi:

A ogni passaggio si forma una parola nuova e c’è sempre un passaggio, non ci sono buchi, non ci sono spazi.
Tutte le tappe intermedie esistono.

• A differenza della suffissazione, la prefissazione non cambia la categoria lessicale della parola di partenza:
Quindi, parto da un aggettivo e ottengo un aggettivo.

• Inoltre, la prefissazione non cambia la posizione dell’accento della parola di base, cosa che invece spesso
avviene con la suffissazione (per es. moràle → moralìsmo) perché aggiungo materiale e se supero le 4
sillabe, l’accento deve comunque spostarsi.

Prof. Valerio Pisaniello 8/11/2022

Oggi abbiamo parlato della rappresentazione dei processi morfologici tramite parentesi etichettate; altri
processi morfologici: conversione, reduplicazione, parasintesi; il suppletivismo.

MORFOLOGIA COME PROCESSO

Come abbiamo visto nel caso delle regole fonologiche che hanno delle formulette che riassumono il
fenomeno, la stessa cosa possiamo farla per i processi di formazione della parola. In particolare si ricorre,
per la rappresentazione della struttura delle parole, alle cosiddette parentesi etichettate. Praticamente,
ogni morfema viene inserito in una parentesi, parentesi che sono incassate una dentro l’altra secondo
rapporti gerarchici, dove al centro la parentesi più interna rappresenta la base e mano a mano le parentesi
più esterne includono tutti gli elementi, tutti i morfemi che si aggiungono alla base nell’ordine in cui
vengono aggiunti. Queste parentesi non sono però così semplici. Infatti, in basso a destra ogni parentesi ha
un’etichetta con una lettera che è l’abbreviazione della parte del discorso a cui appartiene quel tipo di
formazione.

Partiamo da una parentesi con una certa


etichetta []x, il processo di suffissazione
prevede che partendo da una base che ha una
certa parte del discorso rappresentata da x,
aggiungendo un suffisso, io ottengo un’altra
parola, che è quella inclusa tra le parentesi più
grandi, più esterne, che appartiene ad una certa parte del discorso che qui è chiamata y. Questa è la
rappresentazione astratta di quello che succede

- vediamo l’esempio concreto con la parola invernale. Invernale è un aggettivo che deriva da un
nome che è inverno. La derivazione avviene mediante l’aggiunta del suffisso -al che si porta
necessariamente la marca di flessione. La flessione viene generalmente ignorata in questo tipo di
rappresentazioni. Come faccio a rappresentare questo processo? Ho una base, inverno, che poi
perde la marca di flessione (non c’è più la -o di inverno) quindi, etichetterò questa parentesi con N,
poi attacco alla base il suffisso -ale, quindi: +ale e tutto questo lo racchiudo in una parentesi. A che
parte del discorso appartiene la parola invernale? è un aggettivo.
- Quindi, parto da una base (al centro) e aggiungendo morfemi otteniamo la struttura finale.

Questo è l’esempio di prefissazione, che è la


stessa cosa. Qui partiamo da un verbo
vedere e vogliamo rappresentare la
struttura di rivedere.
Si parte dalla base verbale, la metto al
centro e la etichetto come parte
del discorso v = verbo. Aggiungendo il prefisso ri-, chiudo le parentesi dopo e le etichetto di conseguenza la
struttura risultante prefisso + verbo = rivedere è un verbo.

Questo è il processo di base, è il modo più semplice per rappresentare questo tipo di strutture. Con questo
sistema posso arrivare a rappresentare strutture molto più complesse.

Questa è la struttura, passaggio per


passaggio, della parola grammaticalizzazione.
1) Partiamo da grammatica che è un
nome
2) Poi abbiamo l’aggiunta del suffisso
-ale, formando l’aggettivo
3) Ci aggiungo un suffisso verbale -
izzare
4) Aggiungiamo il nome, quindi
mettiamo -ione

Così abbiamo tutti i morfemi derivazionali nell’ordine giusto, con l’elemento esterno che è l’ultimo
elemento aggiunto.

Queste tappe sono necessarie, non ci sono salti. Si aggiunge un morfema alla volta e questo crea delle
parole. Se aggiungendo un morfema non si crea una parola che esiste nel lessico, significa che c’è qualcosa
che non va

Ci possono anche essere casi più complessi in cui l’ordine in cui si aggiungono gli elementi non è scontato.
Per quanto riguarda gli infissi è tutto chiaro: si aggiungono in modo lineare, i suffissi esterni si aggiungono
dopo e quelli più interni sono i primi. Nel caso, però, in cui abbiamo prefissi e suffissi, qui può essere
interessante e utile capire la struttura di una parola. Ecco un esempio dall’inglese:

untouchable

[touch]v (verbo)

[[touch]v +able]A (aggettivo)

[[[un+[[touch]v +able]A]A] (sempre aggettivo)

Lo stesso tipo di rappresentazione possiamo farlo anche per una parola composta. In italiano è raro che ci
siano parole formate da più di due elementi, quindi non è particolarmente complesso fare la
rappresentazione di una parola composta.

Si parte da due forme, questa volta le parentesi più


interne sono due, ciascuna con la sua parte del
discorso indicata con etichetta e poi, nella parentesi più esterna la parte del discorso. Ecco alcuni esempi:

Vediamo già che nella composizione la parte del


discorso a cui appartiene il composto, non
necessariamente appartiene a una delle parti del
discorso, a uno dei due elementi e talvolta non
appartiene proprio a nessuna delle due come
vediamo su saliscendi.

ALTRI PROCESSI MORFOLOGICI


Fino ad ora abbiamo visto esempi abbastanza prototipici di derivazione, casi in cui io prendo una base e ci
appiccico un affisso e tengo la cosa in mezzo (questa è la tipica derivazione?) ma non funziona sempre così
e non in tutte le lingue. Ci possono essere anche altri processi di derivazione che sono in qualche modo
meno prototipici perché violano la regola di base da diversi punti di vista.

- Per esempio, abbiamo la conversione, detta anche o derivazione zero o suffissazione zero che
consiste in un cambiamento di categoria senza che alla base si aggiunga alcun affisso. Quindi, una
parola cambia categoria senza aggiungere suffissi, affissi o prefissi per esempio:

Tolgo la flessione del verbo e resta il tema del verbo che


viene convertito in un nome. La vocale tematica
originale del verbo viene reinterpretata nel nome come
marca di numero (singolare, plurale etc.). Tutti i casi di
aggettivi sostantivati non sono altro che esempi di
conversione da aggettivo a nome vuoto – il vuoto, bello
– il bello da aggettivo, l’elemento
diventa nome La stessa cosa accede con forme nominali come gli infiniti con un percorso diverso da sapere.
Questo ce l’abbiamo in vari modi per esempio fare – il fare: si può mettere un articolo davanti all’infinito
ma posso avere anche dei casi più complessi come sapere – il sapere il processo di conversione non
prevede solo la trasformazione di un verbo in un nome ma c’è di più: questa -e finale, anche in potere, che
non è altro che un pezzo del morfema flessionale del verbo -re dell’infinito, viene reinterpretata come
marca di numero perché abbiamo il sapere, i saperi e il potere, i poteri. Non c’è semplicemente la
conversione di una forma verbale, qui c’è qualcosa di più: abbiamo una reinterpretazione dell’ultima vocale
che è parte del morfema flessionale e il morfema è l’unità minima, non è scomponibile. Nel nome però,
questa diventa la marca di numero, tanto che c’è un plurale.

La conversione da verbo a nome può avvenire in modi diversi:

- si può togliere la marca di flessione e il tema rimanente può essere rivalutato come tema nominale
- si può trasformare un infinito in un nome
- trasformare l’infinito in un nome reinterpretando la vocale come morfema flessionale (numero)

Insomma, abbiamo modalità diverse per lo stesso risultato (= trasformare un verbo in nome)

Altro esempio: gli aggettivi possono essere convertiti in avverbi: accanto a velocemente, c’è la possibilità
che l’avverbio sia veloce – corro veloce che significa corro velocemente, converto l’aggettivo in avverbio. In
italiano questo è comune ma tantissimo in inglese per esempio I drink water – I water the plants.

• La reduplicazione (o raddoppiamento) processo meno prototitico che agisce sia nella flessione che nella
derivazione consiste nel raddoppiamento di un segmento e può essere:

1) parziale: Nahuatl tōchtli [‘to:tʃɬi] ‘coniglio’ → tōtōchtin [to:’to:tʃtin] ‘conigli’ suffisso IN+ duplicazione
delle radice = una parte della radice è ripetuta

2) totale: Nahuatl cua [‘kwa] ‘mangiare’ → cuacua [‘kwakwa] ‘masticare’ da un vedo di base abbiamo la
forma di raddoppiamento, verbo diverso ma raggiunto tramite flessione + derivazione = reduplicazione,
tutta la radice viene ripetuta

Può sembrare una forma di prefissazione perché una parte viene riveduta prima per formare diverse
formazioni come il plurale o diverse tipologie, tempi di verbo etc. quindi può servire per dei casi di flessione
(quindi per singolare o plurale). Non è un morfema autonomo ma un’espansione del morfema, questa è un
raddoppiamento della radice. Ogni parola ha il suo raddoppiamento e dipende dalla struttura della sua
radice.
• La parasintesi forma nuove parole attraverso l’aggiunta, contemporaneamente, di un prefisso e di un
suffisso ad una base (senza che esistano in quella lingua le forme «base+suffisso» e «prefisso+base»):

• anello → inanellare (*inanello, *anellare) il verbo aneallare non esiste e inanello non esiste, quindi questo
processo avviene simultaneamente.

• bottone → abbottonare (*abbottone, *bottonare)

• fegato → sfegatato (*sfegato, *fegatato)

•…

L’aggiunta di questo prefisso/ suffisso avviene simultaneamente, non prima l’uno e poi l’altro come su
untouchable. Quindi, la forma di almeno uno dei due morfemi non esiste, vanno aggiunti entrambi e allo
stesso tempo.

SUPPLETIVISMO

Possono esserci dei casi, molto radicali, di allomorfia che non sono propriamente allomorfia (= non sono più
realizzazioni diverse di uno stesso morfema) perché non hanno una relazione fonica ma possiamo osservare
in molti paradigmi molte serie morfologiche le cui forme sono molto diverse dalle altre

• Quando in una serie omogenea dal punto di vista morfologico (per esempio il paradigma di un verbo)
troviamo forme costruite su radici totalmente diverse, ma con lo stesso significato, si parla di
suppletivismo, per esempio:

vado, vai, va, andiamo, andate, vanno

in questo paradigma del verbo andare al presente, abbiamo quattro forme: vado, vai e va che possono
grossomodo essere riportate alla stessa radice va e due che sono costruite in modo diverso cioè andiamo e
andate. Dal punto di vista etimologico, le due radici non c’entrano nulla l’una con l’altra. Sono due radici
diverse, una è una radice a- e l’altra an- eppure queste due forme sono entrambe accorate in un'unica serie
morfologica, in un paradigma del verbo. La stessa cosa la troviamo nel verbo essere che ha forme della
radice con es- come ero, eri, era etc. e altre che sono costruite con una radice completamente diversa come
u- fui, foste, fu etc.

• Il suppletivismo non si trova solo nella flessione, ma anche nella derivazione, per esempio in alcune
coppie di nomi e aggettivi corrispondenti:

acqua ~ idrico; maiale ~ suino; cavallo ~ equestre ~ ippico, ecc.

• La relazione semantica tra questi termini è evidente, ma non c’è nessuna somiglianza sul piano formale.

Prof. Valerio Pisaniello 10/11/2022

Oggi abbiamo parlato del La nozione di testa in morfologia: la testa in derivazione e in composizione; la
classificazione dei composti.

LA TESTA IN DERIVAZIONE

Ricordiamo che gli elementi che compongono una parola sono tutti diversi e alcuni di questi elementi
“domina” di più: un elemento è in grado di attribuire alla costruzione determinate proprietà. Per esempio,
abbiamo dente e possiamo derivarle un aggettivo derivazionale dentale. Di questi, -ale mi segna che quello
è un aggettivo, è l’elemento che mette questa determinata parola in una specifica categoria (in questo
caso, quella di aggettivo). I nomi non sono tutti uguali, ricordiamo che possono appartenere a
sottocategorie (astratto, concreto etc.) dentista è un nome animato e umano, ha dei tratti di categoria
diverse dalla base dente e questo lo determina il suffisso -ista. Questo è il suffisso derivazionale.

In morfologia, è fondamentale la nozione di testa, che fa riferimento all’elemento reggente di una parola
complessa (derivata o composta). Affinché una parola possa avere una testa, deve essere una parola
complessa, le parole semplici, primitive, non le hanno, hanno solo una radice, non una struttura interna
tipica di derivati e composti.

In una parola complessa, gli elementi che la costituiscono non sono sullo stesso piano, ma uno dei due è,
solitamente, quello che ‘governa’, cioè che attribuisce a tutta la costruzione la categoria lessicale e altre
proprietà, per esempio: fama → famoso . la testa è il suffisso derivazionale perché è responsabile di
categoria e sottocategoria della parola.

fama è un nome, mentre il derivato famoso è un aggettivo: ciò che determina la categoria lessicale del
derivato è il suffisso -oso, che forma appunto aggettivi a partire da nomi. In altri termini, il suffisso -oso è la
testa della parola famoso.

Nelle parole derivate, in italiano, la testa è sempre rappresentata dal suffisso, che è quell’elemento che
trasmette al derivato la categoria lessicale e varie altre informazioni.

Per esempio, nel caso di magistrato → magistratura, la categoria lessicale è la stessa sia per la base che per
il derivato (nome). Tuttavia, magistrato è un nome di genere maschile, mentre magistratura è un nome di
genere femminile: ciò che determina il genere del derivato è il suffisso.

Inoltre, anche alcuni tratti della base sono stati modificati: magistrato è un nome [+animato, -astratto],
mentre magistratura è un nome [-animato, +astratto].

La regola che il suffisso è sempre la testa non è però sempre vera. In generale si, ma abbiamo comunque
due eccezioni:

1) Un’eccezione è rappresentata dai cosiddetti suffissi valutativi (diminutivi, accrescitivi,


vezzeggiativi), che non cambiano mai la categoria lessicale della base né altri tratti, e pertanto non
sono teste.
2) I gradi di un aggettivo, cioè i suffissi che formano i diversi gradi di un aggettivo.

Questi due aspetti riguardano gli elementi nominali cioè i nomi e gli aggettivi. Ci sono dei casi di
derivati a suffisso, in particolare per i nomi i suffissi valutativi, diminutivi, accrescitivi, disprezzativi etc.
quindi appunto, che indicano la valutazione dei nomi (grande, piccolo, bello, brutto) e per gli aggettivi i
suffissi che formano i superlativi. Questi suffissi valutativi non sono in grado di cambiare la categoria
della base. Le proprietà di categoria e sottocategoria soprattutto sono quelle vengono date dalla base. Il
suffisso non ha alcun potere in questo caso.

Partiamo da un suffisso valutativo diminutivo -ino, questo è un suffisso che forma diminutivi a partire
da nomi ragazzo – ragazzino. Ora, per -ino, qual è la base di bellino? Bello che è però un aggettivo, non
un nome. Aggiungendo -ino a bello, comporta un cambiamento di categoria? No, sono entrambi
aggettivi, il risultato derivato è sempre un nome o aggettivo (ragazzo-ragazzino, bello-bellino). Quindi, il
suffisso -ino, -one etc. non cambiano la categoria di quella parte del discorso.

Questo vale anche per i superlativi quindi come -issimo, bello- bellissimo, questo stesso suffisso lo
posso talvolta aggiungere anche ai nomi buongiorno – buongiornissimo, ma questo resta sempre un
nome, non un aggettivo. Nemmeno qui, quindi, il suffisso può cambiare la categoria lessicale della base.
Riordiamo inoltre, che il suffisso dipende dalla base canzone- canzonissima, è femminile e non incide
sulle altre categorie o sottocategorie della parola.
I suffissi derivazionali sono in grado di cambiare genere di un nome? Si. Se aggiungo un suffisso, il
derivato può avere un genere diverso professore – professoressa mentre superlativi dipendono dal
genere della base.

Quindi, i suffissi valutativi e i suffissi che indicano il grado delle parole non sono teste, non cambiano la
categoria della parola. La testa in questo caso è la base.

Similmente, i prefissi, in italiano, non cambiano la categoria della base; pertanto, non sono teste. In
una parola prefissata, la testa è rappresentata dalla base. Onesto – disonesto, la testa è nella base, il
fatto che disonesto sia un aggettivo dipende dalla base.

Questo ovviamente varia da lingua a lingua!

È importante l’ordine in cui i vari morfemi si attaccano alla base. Industrializzazione: è una parola
formata da tanti morfemi. Industriale- industrializzare – industrializzazione, sono i passaggi, le parole
che si formano nel processo di derivazione. Ora, il principio è sempre lo stesso: la testa in derivazione è
il suffisso derivazionale. In questa parola -zione è la testa, è l’ultimo elemento perché
industrializzazione è un nome e l’elemento che da’ questa categoria al nome è il suffisso. Oltretutto è
un nome astratto (quindi non possiamo avere il dubbio che la base sia industria che è astratto fino a un
certo punto). -zione è l’ultimo elemento che dobbiamo prendere in considerazione. Dobbiamo dividere
in due pezzi la parola, solo due! Per questo è importante capire l’ordine in cui si formano i vari
elementi: perché è sull’ultimo step che dobbiamo ragionare. Facciamo un altro esempio con la parola
untochable. L’altra volta avevamo detto che la base ultima è tocuh che è un verbo e che da qui si forma
l’aggettivo touchable e da qui l’altro aggettivo untouchable. Quindi, la testa, dividendo la parola in due
all’ultimo passaggio è un- touchable, la testa è touchable.

Questa era la testa in derivazione: un elemento responsabile di categoria lessicale e sottocategoria e un


derivato. Se una parola è derivata c’è una testa.

Lessicalizzazione: quando una costruzione linguistica forma una parola complessa che però non è più
complessa, viene analizzata dai parlanti non più come un derivato e un composto anche se ci sono dei
suffissi derivazionali non vengono più percepiti come tali. Per esempio, dirigibile cioè un aerostato: la
formazione è trasparente perché il suffisso dir- in italiano forma aggettivi derivati da verbi transitivi e
quindi, se analizziamo questa costruzione morfologicamente risulterebbe una parola derivata dal verbo
dirigere con il significato che può essere diretto, cioè un aggettivo ma dirigibile non è un aggettivo, è un
nome. Quindi, questo tipo di ragionamento non vale per questo genere di parola. Dirigibile è un nome e, in
quanto tale, è una costruzione che si è lessicalizzata cioè che è partito come un derivato ma che poi ha
assunto il significato proprio ed è diventata di fatto una parola non più analizzabile. Se io la analizzo
recupero il significato che può essere diretto, cioè dell’aggettivo e basta, l’analisi non spiega più la parola e
non c’è una testa, non è una parola analizzabile come mangiabile. È un’entrata del lessico così com’è (non
sarà nell’esame questo genere di esempio)

TESTA IN COMPOSIZIONE

L’individuazione dell’elemento testa in un composto è meno immediata e vari sono i criteri che possono
essere utilizzati.

Parliamo di parole composte: queste hanno una testa ma i composti non ne hanno necessariamente nel
senso che può essere esterna al composto, non necessariamente la vediamo nel composto. Per esempio,
abbiamo un composto a due elementi quindi con tutte e 4 l possibilità di avere la testa da quando abbiamo
una matrice binaria, due elementi, 4 possibilità: +,+ ; _, -; +, - e -, + : la testa può essere esterna al composto
(-, -), meno è più: il second elemento del composto è la testa, più meno: il primo elemento è la testa e + +
tutti e due gli elementi sono teste. Quando analizziamo il composto dobbiamo sempre tenere a mente
queste 4 possibilità, mentre in un derivato c’è una testa ed è sicuramente uno dei due elementi quindi
abbiamo un + - o un -, + nei composti possiamo avere anche le possibilità +, + e -, -. Se un composto ha una
testa, e quindi rientra in una qualsiasi di queste prime tre casistiche (+,- ; -, + e +, +) allora parliamo di
composti endocentrici: hanno la testa al loro interno mentre se non ha una testa al suo interno (= è esterna
al suo composto e quindi abbiamo -,-) si dice esocentrico: ha il centro, la testa, fuori.

La questione è ulteriormente complicata dal fatto che non tutti i composti hanno una testa: i composti in
cui la testa è rappresentata da uno dei due membri del composto stesso si chiamano endocentrici, quelli in
cui la testa è invece esterna al composto (vale a dire, che non hanno testa) si chiamano esocentrici.

per individuare la testa di un composto possiamo ricorrere a due criteri che non sono distinti. Possiamo
usarli entrambi perché se ne usiamo solo uno possiamo confonderci. Abbiamo il criterio semantico e il
criterio morfologico:

1) Un criterio che si può usare per riconoscere la testa è quello semantico, per esempio:

= il significato generale appartiene alla testa

- il capostazione è un tipo di capo, non un tipo di stazione, lo stesso vale per capogruppo;
- il pescecane è un tipo di pesce, non un tipo di cane;
- il portalettere non è né un ‘porta’, né un ‘lettere’, ma è ‘qualcuno che porta le lettere’ (esocentrico);
- cassapanca è composto da cassa e panca, entrambi hanno due teste.

Questo criterio però, se usato da solo, può confonderci. Per esempio un ristorante pizzeria è un ristorante o
una pizzeria? Semanticamente è tutte e due ma la testa è solo ristorante perché il criterio a livello
semantico non basta, va combinato con il criterio morfologico che guarda le caratteristiche morfologiche
degli elementi e le sue sottocategorie.

2) Il criterio più affidabile è però quello morfologico: abbiamo definito la testa di una parola
complessa come quell’elemento che attribuisce alla parola la categoria lessicale e altre proprietà
(genere, numero, tratti di altro tipo):
- camposanto è un nome (come campo), non un aggettivo (come santo), pertanto campo è la testa,
trasmette le informazioni di genere al composto stesso. Ristorante-pizzeria è un nome maschile,
non femminile, quindi ristorante è la testa anche se semanticamente le teste sono entrambi,
morfologicamente vediamo che abbiamo un elemento che domina sull’altro. Pizzeria ristorante
invece è femminile, quindi pizzeria è la testa. Generalmente, in italiano, la testa sta a sinistra;
- in capostazione, entrambi gli elementi sono nomi, ma capostazione è una parola di genere
maschile (come capo), non femminile (come stazione);
- portalettere è un nome (come lettere), non un verbo (come porta), ma è un nome singolare;
pertanto, lettere non può essere la testa (la testa è esterna al composto).
- Cassapanca ha due teste perché sia cassa che panca sono femminili e dove non capiamo se la testa
è una o l’altra, possiamo dire che sono entrambi (visto che entrambi sono femminili) ed è sia un
tipo di cassa che un tipo di panca.

CLASSIFICAZIONE DEI COMPOSTI

I costituenti dei composti sono uniti da una relazione grammaticale non esplicita, ma recuperabile:
1) portalettere: lettere è l’oggetto del verbo portare (‘qualcuno che porta le lettere’), la testa è fuori dal
contesto: portalettere è una persona che porta le lettere. In generale tutti i composti verbo + nome in
italiano, dove il nome e l’oggetto del verbo è subordinato, sono tutti subordinati come lavavetri,
lavastoviglie etc. sono tutti nomi e tutti esocentrici: la testa non può essere l’elemento nominale in questo
contesto (e nemmeno l’elemento verbale)
2) cassapanca: i due elementi sono coordinati (‘cassa e panca’);
3) cassaforte: forte è un attributo di cassa (similmente, in guerra lampo, lampo è un’apposizione di guerra).

Se un composto ha più elementi, questo scambio si allunga, abbiamo più possibilità, ne abbiamo 9 ma non
è molto comune.

Guardiamo ferrovia, qual è la testa di questo composto? Via, è uno dei casi in cui la testa sta a destra e lo
stesso vale per terremoto dove la testa è moto.

Endocentrici ed esocentrici, però, non sono gli unici criteri di classificazione dei composti. È un criterio.
L’altro guarda la relazione tra gli elementi del composto. Dietro ai composti c’è il sintagma: due elementi di
un composto sono tenuti insieme da una relazione grammaticale che è implicita ma recuperabile dal
parlante nativo, un italiano capisce la relazione tra porta e lettere, distingue queste relazioni nel contesto
indipendentemente dalla struttura superficiale del composto. Nei composti c’è una relazione grammaticale
che tiene unite le due parti e può essere di tre tipi. Guardiamo come esempi questi 3: portalettere,
cassapanca e cassaforte.

Sulla base di questi tre tipi di relazione grammaticale, i composti possono essere classificati innanzitutto in
tre macrocategorie: subordinati, coordinati e attributivi/appositivi.

- In portalettere, lettere è l’oggetto del verbo portare, quindi è qualcuno che porta le lettere.
L’oggetto è quindi subordinato al verbo. Il verbo attribuisce caratteristiche al nome (accusativo,
nominativo etc. quindi è subordinato). La stessa subordinazione è presente anche nel caso di un
nome con un complemento di specificazione come capostazione = il capo della stazione.
- Cassapanca invece, qui i due elementi non sono in subordinazione ma coordinazione: i due
elementi sono sullo stesso piano cassa e panca.
- Cassaforte è un nome e un aggettivo che determina, attribuisce al nome determinate qualità. È una
relazione tra nome e attributo, quindi è una relazione attributiva, l’aggettivo non è subordinato al
nome, è una relazione attributiva. Questo vale anche con le apposizioni quindi come guerra lampo,
è una guerra veloce come un lampo, quindi lampo attribuisce delle qualità al nome, è una guerra
veloce. Quando l’elemento è un nome l’elemento che influisce l’altro nome, non parliamo di
attribuzione ma di apposizione. Lo stesso vale per pescecane, squalo martello etc. molti nomi di
animali sono costruiti in questo tipo di rapporto.
Questi, quindi, sono tre tipi di composti: subordinazione, coordinazione o possono essere composti
attributivi o appostivi.
Ciascun tipo può essere poi endocentrico o esocentrico:

Prof. Valerio Pisaniello 11/11/2022

Oggi abbiamo parlato della flessione dei composti; altri tipi di composti: composti neoclassici, composti
incorporanti, composti sintagmatici, composti reduplicati, composti troncati; le polirematiche.

FLESSIONE DEI COMPOSTI

I Composti possono essere nomi, verbi, aggettivi etc. quindi possono appartenere a parti del discorso
diversi, variabili. Questi hanno un singolare e un plurale, quindi hanno una forma di flessione ma combinare
questa flessione con la composizione, porta a delle cose un po’ strane perché possiamo osservare dei
pattern, vari morfemi flessionali del composto ma a volte queste sono solo marche flessionali di uno del
composto, non di tutto.

I composti non hanno veramente dei pattern chiari di flessione e c’è veramente molta variazione. Molto
spesso non è chiaro quale sia il plurale di un composto. Nel parlato c’è ancora più variazione e alla fine ci si
capisce però lol. Generalmente, se il composto ha una flessione, l’elemento che flette è la testa del
composto e quella marca di flessione vale per l’intero composto e non solo la testa come è il caso di
ferrovia. Di base, quindi, l’elemento che flette è la testa ma ci sono eccezzioni.

La flessione dei composti, in italiano, è piuttosto irregolare. Le possibilità attestate sono:

1) [P1 + P2] + Fless (per es. ferrovie) [= parola 1 + parola 2 + la flessione che stavolta è esterna e quindi è la
flessione dell’intero composto = in italiano tipicamente la flessione sta a destra, aggiungiamo il morfema
alla testa. Ferrovia è ferro + via dove questa vocale finale -a è si la marca di numero della parola via, ma
dipende, quando entra in composizione con la parola, all’intero composto: la ferrovia, le ferrovie, quindi -a
non è solo la flessione di via ma del numero dell’intero composto. Quindi, in questo caso, la flessione si
attacca all’intero composto]
2) [P1 + Fless] + P2 (per es. capistazione: solo quando P1 è la testa) [In alcuni casi, la flessione nel
composto non la troviamo a destra; quindi, come ultimo elemento ma possiamo trovarla all’interno del
composto, all’interno della prima parola. Questo è il caso di capostazione, capistazione. Qui, anche se la
flessione vien portata dalla testa, vale per l’intero composto.]
3) [P1 + Fless] + [P2 + Fless] (per es. cassepanche) [questo è un composto a due teste casse + panche.
Entrambi gli elementi flettono, il singolare è cassapanca, cassaforte, casseforti, entrambi gli elementi
flettono (ma nell’ultimo caso, solo uno è la testa). Quindi, questo non riguarda solo i composti a due teste,
ci sono anche questi composti attributivi nominali]
4) P1 + P2 (per es. tritacarne) [Ci sono dei casi, come questo, che non hanno alcuna marca di flessione ma
questo non è propriamente vero: la -e di tritacarne è il singolare. I punti 4 e 5 quindi sono la stessa cosa, la
-e è una marca di numero perché ci segna che questo è un singolare ma appartiene non all’intero
composto ma solo al secondo elemento, i tritacarne, il tritacarne. Nel composto, la -e non è una marca di
flessione perché non flette. Qui abbiamo tritare + carne, in una frase come io trito la carne, la -e di carne è
una marca di flessione, è un morfema lessicale carne che mi dà il nome carne- carni. Quando io unisco
queste due forme in un composto tritacarne, se io faccio il plurale è i tritacarne. Quindi, la -e finale nel
composto non è più una marca di numero, dato che singolare e plurale qui sono uguali = nessuno elemento
flette. In questi casi possiamo avere delle marche di flessione che o appartengono allo stesso composto o
possono essere marche di flessione che appartengono agli elementi prima della composizione, al di fuori
della composizione come il tritacarne e i portalettere, plurale della parola lettere ma che nel composto non
è più marca di flessione dato che il singolare e il plurale sono uguali: il portalettere – i portalettere.
Abbiamo quindi due elementi lessicali e nessuna marca di flessione]
5) P1 + [P2 + Fless] (per es. portalettere: in questo caso la flessione non è di tutto il composto) [qui abbiamo
la flessione solo del secondo elemento del composto ma non coincide con la flessione dell’intero
composto: portalettere ha lettere e questa -e finale, uno potrebbe dire che è una marca di flessione dato
che lettere è un plurale ma questo è un plurale di lettere, non d portalettere, questo è il portalettere, non
flette per numero, è invariabile: singolare e plurale sono identici e per questo questa -e finale non è una
marca di flessione del composto ma una marca di flessione che in origine appartiene solo al secondo
elemento del composto ma non vale per tutto il composto, a differenza tra ferrovia, ferrovie.]

È difficile prevedere con regolarità il plurale dei composti.


Nei composti trasparenti e produttivi, generalmente, l’elemento che si flette è la testa (se il composto ha
due teste, entrambe possono essere flesse, se è nel primo membro allora è interna al composto, se è al
secondo può essere esterna).
Se il composto non è più trasparente, si segue generalmente la regola che le marche di flessione sono a
destra. Il parlante quindi lo associa a qualunque altra parola italiana.

Se un composto non ha flessione, si dice che generalmente è esocentrico. Nel parlato è differente e
“soggettivo” (?) dipende dai dialetti etc. perché le parole tendono a lessicalizzarsi: quando le parole sono
complesse, come pomodoro che è un composto pomo + d’oro, il plurale una volta era pomidoro e questo
quindi, se analizzato come composto, era la testa ma oggi no, la flessione si è spostata a destra quindi
abbiamo pomodoro perché è una parola che è diventata primitiva. Nelle parole in italiano, nei nomi, la
flessione sta alla fine e quando una struttura viene lessicalizzata = diventa una struttura non più
analizzabile, anche la flessione si sposta dove sta in tutte le parole italiane. Questo ci aiuta a capire anche
quali parole sono lessicalizzabili o meno come cassepanche, c’è chi la identifica come parola unica e non più
un composto di due o più elementi. Ogni lingua non coincide con lo standard!

Le forme trasparenti sono le forme che il parlante riesce ad analizzare e scomporre. Alcune strutture con il
tempo diventano inanalizzabili o se lo sono, comunque, non si arriva alla “forma originale” o non ci si arriva
davvero al significato come su dirigibile che sembra trasparente ma se la analizziamo, questa struttura non
può che essere analizzata come aggettivo ma non lo è! È un nome e ha un significato che non è più
composizionale, non posso vedere il significato mettendo i due elementi insieme quindi, la struttura non è
più trasparente. Alcune parole non sono più analizzabili invece, per motivi fonetici. Per esempio, dietro alla
parola sciame ci sono stati cambiamenti fonetici dietro a questi morfemi e quindi è diventata una parola
inanalizzabile.

Una forma produttiva invece è una regola ancora valida che i parlanti possono usare per formare parole.
Non tutte le regole di formazione delle parole però, sono produttive in italiano. Ci sono delle strutture che
sono formate con regole non più in allo: è molto difficile che vengano formate parole nuove con queste
regole. I composti di tipo verbo + verbo che poi diventano dei nomi come saliscendi, sono due temi verbali
che formano un nome. Queste strutture sono ritenute non produttive nel senso che ci sono alcuni composti
costruiti in questo modo ma è una regola morta e il parlante nativo difficilmente realizzerà composti con
queste regole. Si preferiscono composti di altri tipi come verbo + nome. Verbo + verbo non è più
considerata produttiva.

(per capire se una cosa è una marca di flessione o meno, ci aiuta provare a vedere il singolare e il plurale)

ALTRI TIPI DI COMPOSTI

Finora abbiamo visto dei composti formati da basi che esistono anche in isolamento (cassapanca,
tritacarne etc.) ma ci sono dei casi, nelle lingue del mondo e anche in italiano, di strutture che sono
composta da più basi lessicali ma queste basi non si trovano in isolamento: sono confinate all’interno dei
composti come cardiologo, lacrimogeno etc. molti di questi elementi che sono in queste strutture
composte, non hanno autonomia nel lessico quotidiano come fago. Sono composti ma stanno un po' ai
margini e si chiamano composti neoclassici.

- Composti neoclassici: sono formati da elementi di origine per lo più greca o latina (prendono anche
il nome di confissi):
- antropo+fago Gli elementi che costituiscono un composto
- cardio+logia neoclassico prendono anche il nome di confissi
- agora+fobia perché non sono neanche propriamente delle basi
- lacrimo+geno lessicali. Non sono propriamente degli affissi ma
Nemmeno delle basi lessicali. Sicuramente c’è un elemento che deve portare significato, ci deve essere un
lessema. In questo caso, entrambi gli elementi portano significato lessicale perché antropo porta il
significato uomo e fago che viene dal greco, porta il significato lessicale di mangiare = mangiatore di
uomo ? , cardio = cuore quindi anche qui abbiamo una base greca + logia = lo studio del cuore, questo
elemento non è propriamente un affisso, ha un significato lessicale quindi. Questi sono composti ma non
sono analizzabili in italiano perché l’origine di questi elementi viene da un’altra lingua.
Questi sono analizzabili per chi conosce queste lingue. Sono parole che sono state formate in italiano,
prendendo dei “pezzi” da altre lingue come il greco ma non sono parole intere, sono elementi che si
possono combinare insieme, per questo non li consideriamo nemmeno prestiti (posso aggiungere -logia a
ogni studio). Ricorda che esistono sono come composti.

- Composti incorporanti: questa categoria è molto poco rappresentata in italiana. Derivano


solitamente da un sintagma costituito da un verbo seguito da un oggetto (verbo + nome / nome +
verbo) . L’incorporazione consiste nella formazione di un verbo composto in cui il primo elemento è
il nome che ne costituisce, di solito, l’oggetto:

A) Nahuatl: /ni-k-kwa in nakatl/ vs. /ni-naka-kwa/ ‘io-la-mangio la carne’ ‘io-carne-mangio’


B) Greco: domèō tòn oîkon vs. oîkodomèō ‘costruisco la casa’ ‘casa-costruisco’
C) Inglese: to ride a horse vs. to horse-ride il primo esiste anche in italiano ed è un composto dove ride
è composto con il nome che rappresenta l’oggetto to horse ride, è un verbo composto dal verbo
ride ma abbiamo anche horse per appunto dire andare a cavallo. Il verbo incorpora il nome.
L’elemento verbale incorpora in sé stesso l’oggetto.
Ricroda: lavevetri è un nome ma le parole sopra sono VERBI!
In italiano strutture di questo tipo sono molto rare, le troviamo scritte e non sembrano composti ma lo
sono come dare fuoco (a qualcosa): c’è un oggetto, fuoco, che ha una forte relazione con dare, non si da
qualcosa a fuoco ed è difficile separare i due elementi, è come se fossero un’unica parola ed è difficile che
ci sia un altro materiale qui se non fuoco. Si fa fuoco a qualcosa, non si da qualcosa a fuoco ma posso dare
un libro a Gianni oppure posso dare a Gianni un libro, questi elementi sono più “liberi”.
- Composti sintagmatici: la relazione tra i due elementi è più sintattica che morfologica, sono quasi
delle frasi fatte:
A) Inglese: an [ate too much] headache, un mal di testa perché hai mangiato troppo, dicono che
questa struttura non può essere interrotta, non può essere spezzata. Questo è un composto
unico, quasi un composto, quasi un’unica parola.
B) Italiano: un uomo tutto casa e chiesa è simile ma in realtà è interrompibile: un uomo molto
devoto etc. tutto casa e chiesa. Forse tutto casa e chiesa è interrompibile ma neanche, posso
dire tutto lavoro e chiesa. Comunque, questa cosa sta ai margini della morfologia e stiamo
andando quasi sulla sintassi.

Consideriamo che esiste questa categoria ma non fasciamoci la testa.

- Composti reduplicati: si tratta di composti costituiti dalla stessa parola ripetuta. Generalmente
hanno valore intensivo o iterativo: leccalecca, fuggi-fuggi, magnamagna, ecc. sono tutti composti
verbo + verbo ma generano un nome.

- Composti troncati (o parole macedonia, blending): sono formati dal troncamento di uno o di
entrambi gli elementi: motel (motor + hotel), smog (smoke + fog), frappuccino, autoferrotranviere,
videofonino, ecc. non è sempre facile però, visto che le parole vengono fuse assieme, distinguere i
vari morfemi separati. Sono due pezzi di parole presi e fusi assieme e di solito tra i due elementi ci
dovrebbe essere qualcosa che li accomuna, altrimenti non verrebbero fusi. Comunque, è difficile
individuare il confine di morfema in queste parole composte.

LE POLIREMATICHE

Le polirematiche (o unità lessicali plurilessematiche) sono espressioni costituite da sintagmi fissi che
rappresentano un’unità, il cui significato, generalmente, non corrispondente alla somma dei significati delle
parole componenti (per es. luna di miele, gatto delle nevi, macchina da scrivere, ma anche verbi
sintagmatici come andare via, tirare su, ecc.). Insomma, sono una sorta di composti ma non è proprio detto,
possiamo dire, per semplificare le cose, che fanno parte dei composti (ma in realtà queste e il blending non
sono proprio composti). Sono diversi lessemi che costituiscono un’unità: sono dei sintagmi che
sintatticamente formano una parola non separabile e soprattutto non hanno un significato di composizione:
il significato non è composizionale, non posso capirlo mettendo insieme i componenti. Non possono essere
“spezzati”: una lunga luna di miele, NON una luna lunga di miele.

Dal punto di vista sintattico, le polirematiche si caratterizzano per un alto grado di fissità dei costituenti, il
che significa:
1) fissità nell’ordine (vivo e vegeto vs *vegeto e vivo), quindi sono fisse, anche dal punto di vista
sintattico.
2) blocco delle trasformazioni sintattiche (Ugo ha tirato le cuoia vs *le cuoia sono state tirate da Ugo),
3) fissità grammaticale (il fai da te vs *il farai da te), gli elementi che li compongono non possono essere
differenti quindi.
4) fissità nell’inventario dei costituenti, con scarsa possibilità di inserzioni (ferro da stiro elettrico vs *ferro
elettrico da stiro) e di sostituzioni (tirare le cuoia vs *tendere le cuoia).

Prof. Valerio Pisaniello 15/11/2022


Oggi abbiamo parlato di morfologia e semantica: restrizioni sull'entrata e restrizioni sull'uscita;
composizionalità del significato; la classificazione tipologica su base morfologica: lingue isolanti,
agglutinanti, flessive e polisintetiche.

MORFOLOGIA E SEMANTICA

La formazione delle parole consta di una parte formale e di una semantica: gli affissi infatti, in quanto
morfemi, portano con sé un significato, che va a modificare quello veicolato dalla base. Allo stesso modo,
nei composti, le semantiche dei costituenti danno luogo alla semantica della forma in uscita.

Tutti i morfemi, che siano basi lessicali o meno, hanno il loro significato. Prendiamo come esempio il
suffisso -aio in italiano come giornalaio. Il significato è dato dall’unione del significato della base lessicale a
cui si attacca questo suffisso, in questo caso giornale, e il significato del suffisso -aio. Quindi abbiamo una
parte di significato fisso, in questo caso il suffisso, e poi c’è una parte di significato che è variabile e che è
dato dalla base.

Per esempio, il suffisso -aio: vinaio, giornalaio, verduraio, ecc. = ‘persona che vende X’: il significato delle
parole in -aio consta di una parte fissa (quella data dal suffisso = ‘persona che vende’) e di una parte
variabile (data dalla base dei diversi derivati).

Comunque, sono strutture con una semantica composizionale. Ovviamente poi se noi ampliamo tutto,
possiamo trovare dei casi in cui lo stesso suffisso sembra avere un significato diverso, per esempio un
orologiaio non è tanto una persona che vende orologi ma qualcuno che li ripara.

Di conseguenza, il significato di -aio può essere modificato in ‘persona che svolge un’attività connessa con
X’.

Ci sono poi forme in -aio che hanno un significato ancora diverso: formicaio, granaio, pollaio, ecc. = ‘luogo
pieno di X’. Quindi sembra avere una semantica completamente diversa formando categorie e
sottocategorie diverse. Quelle sopra hanno tratti più umani ma formicaio, granaio e pollaio no, sono diversi
quindi apparentemente questo suffisso formalmente sembra lo stesso ma entra in formazioni che hanno un
significato completamente diverso in termini si sottocategoria e semantica. La semantica ci dice che sono
due suffissi diversi, ecco perché le parole che vengono formate hanno sottocategorie diverse, generalmente
+ umano e – umano.

Se c’è una regola di formazione della parola produttiva, che quindi è ancora attiva e i parlanti possono
formare parole nuove con questa regola, la semantica di una parola complessa è trasparente e
composizionale: il significato di una parola complessa si può ricavare dal significato degli elementi che la
compongono (se la regola di formazione è produttiva). Facciamo un esempio: c’è un suffisso aggettivale
-abile che si attacca a verbi e indica, forma aggettivi che significano che si può osare: posabile, mangiabile
etc. in italiano questa regola è produttiva: posso creare aggettivi con questa regola, con questo suffisso che
mantiene la stessa semantica. Quando è entrata nel vocabolario scanner possiamo dire scannerizzare,
scannerizzabile e possiamo capire il significato anche se non conosciamo la parola perché conosciamo la
regola (il parlante riconosce il suffisso e quindi estrarre la regola per intuire il significato della parola nuova).

Ma le basi possono avere più significati: nel processo di formazione delle parole, i vari suffissi selezionano
generalmente uno solo dei significati della base. È difficile che una parola abbia un solo significato, c’è la
polisemia= una parola ha più significati come l’aggettivo buono che ha diversi significati in base alla parola
con cui viene a contatto come una buona torta / un buon libro, il significato varia a seconda del contesto.
Quando un suffisso derivazionale si attacca ad una base lessicale, generalmente seleziona uno dei significati
possibili della base, per cui nel derivato troveremo uno dei significati possibili della base e non l’intera
gamma. Prendiamo un esempio con il verbo tentare che in italiano ha almeno due significati. Il primo è
provare (a fare qualcosa) e l’altro è provocare. Questa base tentare può essere combinata con questi
suffissi:

(-tivo è il nome di una volta, -tore è colui che compie l’azione). Questi suffissi si distribuiscono tra i due
significati, quindi tentazione fa riferimento al significato di provocare. -zione seleziona tentar con il
significato di provare ma -tivo va con provare – provocare. Un tentatore è chi istiga, non che provoca. Oltre
alle basi verbali, questo va anche con altri elementi come cane = bestia ma ha anche altri significati come
una persona particolarmente poco abile a fare qualcosa = un ingegnere cane = una perdona che non sa fare
il suo lavoro. Il canile = posto dove stanno i cani animali, non le persone incompetenti.

In altri termini, alcuni affissi possono unirsi solamente a certe basi, a seconda del loro significato restrizioni
sull’entrata = sono restrizioni che intervengono nei processi di formazione della parola. Restrizione vuol
dire che il suffisso fa riferimento a solo un significato possibile e non a tutti. Le restrizioni qui riguardano
l’entrata cioè la semantica della base lessicale a cui si attacca il suffisso, il processo di formazione della
parola. La base entra nel processo con un significato e non con tutta la sua gamma possibile di significati e
quindi nel derivato troveremo un significato che fa riferimento a una singola accezione al significato della
base e non a tutte quante. Sono restrizioni che riguardano l’entrata.

Ci sono suffissi compatibili sono con alcuni nomi, aggettivi, verbi, nomi con determinate caratteristiche
(sottocategorie etc.) insomma, altre restrizioni sull’entrata che riguardano le restituzioni sulle basi.

Oltre alle restrizioni semantiche sull’entrata, vi sono anche le restrizioni semantiche sull’uscita: talvolta la
compatibilità di un suffisso con una certa base non riguarda proprietà morfologiche e smentichi della base
ma piuttosto la semantica della parola che si verrebbe a formare sulla parola nuova. Per esempio il blocco
(blocking), che avviene quando una parola complessa, virtualmente possibile, non viene formata perché
esiste già, nel lessico di una lingua, un’altra parola che ha il significato che la parola complessa andrebbe a
rivestire, per capire meglio: a partire da un aggettivo come elegante, ii posso formare l’aggettivo di
significato opposto attraverso il prefisso in- – inelegante, la stessa cosa non avviene con bello, non perché ci
siano particolari restrizioni sull’entrata, non è che bello non sia compatibile in termini di categorie e
sottocategorie con il prefisso in-, sarebbe perfettamente compatibile grammaticalmente ma il problema è
l’uscita: nel lessico italiano c’è brutto, che è il contrario di bello e quindi inbello non serve, quindi questo
blocca la formazione di questo aggettivo: non mi servono due aggettivi che hanno lo stesso significato.

Lo stesso meccanismo impedisce, solitamente, anche l’applicazione di affissi concorrenti (= affissi che
hanno lo stesso significato): capace → incapace, *scapace quindi se ho due affissi che significano
grossomodo la stessa cosa, difficilmente avrò due forme derivate con quei due affissi a partire dalla stessa
base, la semantica di queste due forme sarebbe la stessa.
Per una regola analoga, è difficile avere due affissi che indicano cose opposte: i suffissi di diminutivo sono
difficilmente compatibili con i suffissi di accrescimento, è difficile trovare il diminutivo di un accrescitivo
perché sono due suffissi di una semantica opposta quindi è difficile che li trovo nella stessa forma. Un
ragazzo muscoloso = un ragazzONE, difficilmente troverò un ragazzoNINO eppure esistono parole come
maglioncino perché queste sono regole fino a un certo punto. Scapace può esistere volendo.
Non mancano però eccezioni: coordinare → coordinazione, coordinamento hanno la stessa semantica.
Il punto è che le due parole non sono semanticamente uguali, vanno in situazioni diverse coordinazione
occhio- mano ma coordinamento di un’attività. Regolazione – regolamento non significano esattamente la
stessa cosa: regolazione del termostato vs il regolamento del gioco. Quando queste regole di formazione
della parola vengono “rotte” queste eccezioni hanno sempre un motivo, come questi. Maglioncino = qui si
parte da maglia, maglione è una grande maglia ma un maglioncino non è una grande maglia piccola, è un
piccolo maglione, maglione ha quindi acquisito un’autonomia nel lessico rispetto alla base maglia, è
diventato qualcosa di diverso.

Quindi, riassumendo, ci sono restrizioni o sulla base o sull’uscita. Ricordiamo che da una parte ci sono gli
standard (= il dizionario) e poi gli usi (gergo, dialetto etc.). questo riguarda comunque strutture trasparenti
e analizzabili.

Ci sono dei casi in cui non è possibile ricavare il significato di una parola complessa partendo dai significati
degli elementi che la compongono: una parola che permane a lungo nel lessico di una lingua può acquistare
significati idiomatici. Non è più una forma trasparente e non posso più analizzarla con i singoli pezzi che la
compongono. In questo caso, il comportamento delle parole non è prevedibile e non risponde a regole
sincroniche produttive:
- X -bile = (aggettivo) ‘che può essere X’ (mangiabile = ‘che può essere mangiato’)
- dirigibile = (sostantivo) ‘aerostato’, non più ‘che può essere diretto’ è una parola che non si può più
analizzare e il morfema -bile ha perso il suo significato, non è più neanche un aggettivo qui, è un
nome
- Similmente, cavalletto e cavallone hanno perso il legame originario con cavallo. È palese che sono
parole che vengono da cavallo ma di fatto non funzionano come suffissi alterativi, non sono nomi
alterati di cavallo come il diminutivo e l’accrescitivo di cavallo, hanno perso il loro significato
originale.

Lo stesso vale anche per i composti: ci sono casi in cui la semantica di un composto è non composizionale:

Il pomodoro non è un ‘pomo d’oro’ il composto è lessicalizzato, non è più analizzabile come composto dai
parlanti italiani (a proposito, la testa è pomo). La flessione si è spostata a destra come in tutte le parole
italiane. Lessicalizzazione! Si arriva a una forma che non è più analizzabile, diventa una struttura unica,
indivisibile come per il fiore non ti scordar di me, è una frase unica, lessicalizzata per indicare il tipo di fiore
e non lo sapremo mai mettendo insieme tutti i pezzi (non capiresti mai che sto parlando di un fiore), questo
diventa un lessema unico.

Si parla in questo caso di composti lessicalizzati: forme immagazzinate nel lessico come tali, non formate
tramite regole.

LA CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA

Indipendentemente dalla loro genealogia, le lingue possono essere classificate in base alla loro tipologia,
ossia in base alle caratteristiche che hanno in comune.

Tali caratteristiche comuni vengono ricercate essenzialmente in due livelli di analisi: la morfologia e la
sintassi.

Aldilà del livello genealogico, quindi di lingue che hanno le stesse strutture, possiamo avere anche
somiglianze tra le strutture delle varie lingue che non sono di tipo genealogico. Una classificazione di tipo
tipologico mira a classificare le lingue sulla base delle caratteristiche strutturali che queste hanno in
comune, indipendentemente dalla loro origine. Ci possono essere lingue che sono strutturalmente simili in
alcune parti dei loro sistemi ma che non hanno nulla a che fare tra di loro dal punto di vista genealogico.
Come possiamo vedere, per esempio, lingue che sono genealogicamente imparentate o poco, ma che
hanno strutture molto diverse come l’inglese e il tedesco: l’inglese ha pochissima morfologia flessionale ma
il tedesco ne ha, sono morfologicamente diverse. A quel punto, l’inglese è più simile al cinese. Le lingue
hanno spesso cambiamenti e anche rapidi, come è successo con il latino volgare con le lingue romanze:
nessuna di queste lingue conserva la flessione di caso che ha il latino (ma anche altre lingue).

Quindi, il tipo a cui appartiene una determinata lingua può cambiare nel tempo.

CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA SU BASE MORFOLOGICA

Generalmente, una classificazione tipologica va a toccare due cose: le strutture morfologiche e quelle
sintattiche. Quindi, i morfemi e i modi di combinazione delle parole all’interno della frase. Vediamo ora
quella morfologica.

Su base morfologica, noi possiamo dividere le lingue del mondo in 4 tipi:

1) Isolante 3) Flessivo
2) Agglutinante 4) Polisintetico o incorporante

Questa classificazione si basa sui morfemi e le loro caratteristiche, in particolare i morfemi flessionali e le
relazioni che questi possono esprimere.

1) Le lingue isolanti (concetto tipologico mentre isolato è genealogico: non riusciamo a trovare dei
parenti) sono caratterizzate dalla quasi totale assenza di morfologia flessionale. Quindi, in una
lingua isolante, generalmente, le parole non flettono per genere, numero, tempo, modo, persona
etc., queste informazioni non sono espresse da dei morfemi specifici e le parole sono costituite da
un unico morfema che è quello lessicale: i nomi non presentano marche di genere, numero e caso, i
verbi non hanno marche di tempo, modo, persona e numero. Per poter esprimere tutto ciò, le
lingue isolanti ricorrono all’ordine delle parole anche particolarmente rigido e ad alcune particelle =
morfemi liberi come particelle o avverbi che possono esprimere per esempio di tempo.

Per capire, qui abbiamo una frase

Qui abbiamo un soggetto, un nome, che ha comprato un libro. Abbiamo un verbo di terza persona singolare
e un oggetto singolare. Abbiamo il nome, il verbo comprare, una particella che indica il passato, un
numerale, un classificatore e il nome del libro. Non ci sono anche di persona, per esempio, ci sono tutte
forme, morfemi liberi e non ci sono morfemi legati: non troviamo una morfologia flessionale espressa da
morfemi legati, le parole non hanno marche di singolare o di plurale, i verbi non hanno marche di tempo,
modo, persona o numero, c’è solo il lessema verbale, il morfema lessicale.

Se ci pensiamo, una situazione abbastanza simile a questa è quella dell’inglese. Anche in inglese abbiamo
delle parole mono morfemiche, c’è della morfologia derivazionale ma la morfologia flessionale è
estremamente ridotta tipo la -s del plurale, la -s della terza persona singolare presente indicativa ed
eventualmente a un suffisso in -ed per il plurale. Quindi, abbiamo pochi morfemi flessionali con un ambito
di uso ridotto (la -s della terza persona singolare è solo per il presente in inglese). L’inglese è una lingua più
isolante che altro e anche il cinese ma tutte le lingue isolanti possono avere dei casi di flessione o alcuni
elementi agglutinanti, si parla di tendenze generali. (non c’è nessuna relazione genealogica tra inglese e
cinese)

2) Nelle lingue agglutinanti, le parole presentano tanti affissi quante sono le relazioni grammaticali
che devono essere espresse. Il rapporto tra forme e funzioni è pertanto biunivoco: a ciascuna forma
corrisponde una sola funzione e viceversa. Quindi, si parte da una radice lessicale intorno alla quale
o prima o dopo si attaccano suffissi. La caratteristica delle lingue agglutinanti è che ci sono tanti
affissi quanti sono le relazioni grammaticali che devono essere espresse. Per cui, se i nomi di una
lingua, per esempio, hanno flessione di genere, numero e caso, io troverò on questa lingua tre
affissi diversi: uno per il genere, uno per il numero e uno per il caso quindi c’è una corrispondenza
biunivoca (1 : 1 quindi uno a uno) tra forma e funzione.

Un esempio di questo è il turco.

- kuş ‘uccello’: genitivo kuş-ın = dell’uccello; genitivo plurale kuş-lar-ın = degli uccelli; ecc. abbiamo
una radice che porta il significato lessicale e a questa attacchiamo tutti i vari suffissi che indicano le
varie cose. Questo è molto diverso dal latino rosae – rosarum qui sono genitivi plurali e abbiamo
solo un unico suffisso con l’informazione di numero e caso, unite insieme in un’unica forma. Invece
nelle lingue agglutinanti ci sono proprio suffissi diversi per tutto, tanti morfemi quante sono le
relazioni grammaticali che vogliamo esprimere.

Anche il sumerico era una lingua agglutinante:

- dingir ‘dio’: dativo dingir-ra; dativo plurale dingir-ene-ra; ecc.

3) Il tipo linguistico flessivo è caratterizzato dal fatto che un solo suffisso può esprimere più relazioni
grammaticali. Un unico morfema, quindi, esprime più relazioni grammaticali. Questo è il caso del
latino.
- Latino lup-is: -is = dativo/ablativo plurale, è tutto concentrato in un’unica desinenza. Si chiamano
anche lingue fusive perché fondono le funzioni in un’unica forma.

Inoltre, il tipo flessivo può essere caratterizzato anche dalla cosiddetta flessione interna: le diverse relazioni
grammaticali possono essere espresse mediante la variazione della vocale della radice: it. faccio vs. feci,
non cambia soltanto la desinenza ma c’è anche una modifica che riguarda il tema, la radice lessicale; in
alcune lingue flessive, in particolare quelle semitiche, quelle della famiglia afroasiatica, noi abbiamo anche
la fusione interna, in queste lingue generalmente la radice lessicale è costituita da tre consonanti all’interno
del quale vengono intercalati diversi schemi vocalici che producono le diverse forme di parole ma anche le
diverse parole per cui, da una radice dell’arabo ktb ‘scrivere’: io posso derivare tutte le parole o forma
parola che hanno a che fare con la scrittura kataba ‘egli scrisse’, kitab ‘libro’, ecc. tutte queste parole
derivano dalla prima e attraverso schemi vocalici mutati abbiamo prefissi e suffissi. Schemi vocalici diversi
producono diverse forme sia in termini di flessione (parole diverse) che di declinazione (= nome, verbo etc.)

Nelle lingue semitiche, questo processo è estremamente produttivo, tanto che alcuni parlano di un tipo
introflessivo, è un sottotipo, una flessione interna.

Nelle lingue agglutinanti, invece, la radice resta invariata.

Nelle lingue flessive, poi, possono avere due sottotipi: il tipo analitico e quello sintetico.

- Quello sintetico tende ad esprimere tutte le relazioni grammaticali in un'unica forma quindi, per
esempio il latino era tendenzialmente sintetico = nella desinenza ci sono tutte le informazioni che
servono per far funzionare la lingua (tempo, persona, modo e numero)

- Alcune lingue flessive hanno poi la possibilità di esprimere relazioni grammaticali mediante più
parole: queste appartengono al sottotipo analitico, tra cui vi è l’italiano, che è in grado, per
esempio, di esprimere il passato mediante forme come ho fatto, sono uscito, ecc. questo di fatto è
un morfema flessionale + lessicale
-
- Infine, nel tipo, polisintetico (o incorporante), in una singola parola si possono esprimere tutte le
relazioni grammaticali per le quali le lingue non appartenenti a questo tipo avrebbero bisogno di
costruire un’intera frase.
Eschimese angyaghllangyugtuq: ‘vuole acquistare una grande barca’ quindi, questa parola è analizzabile:
abbiamo il nome di barca, un morfema che indica l’accrescitivo, il verbo acquistare, un morfema che indica
il desiderativo (= il voler fare quello che è espresso dal verbo) e una marca di persona e numero che in
questo caso è la terza persona singolare. Tutto questo è concentrato in un’unica parola.

Anche il Nahuatl ha questa cos: posso inserire all’interno della forma verbale anche l’oggetto ma anche il
soggetto e il verbo.

Nel verbo ci possono anche essere anche altre indicazioni come quelle direzionali (le direzioni) e cose così.
Tutta la struttura della frase può essere concentrata in un’unica parola.

Questo tipo di classificazione è una generalizzazione e ha dei limiti ha dei limiti: generalmente le lingue del
mondo non appartengono esclusivamente ad un solo tipo, ma presentano caratteristiche di vari tipi
morfologici. Non esiste una lingua isolante al 100% così come flessive etc. possono esserci elementi
agglutinanti etc., per questo parliamo di tendenze.

Insomma, non esistono tipi ‘puri’, sebbene in ciascuna lingua vi sia un tipo prevalente.

Prof. Valerio Pisaniello 17/11/2022

Oggi abbiamo parlato del lessico e della lessicologia; il lessico mentale; i dizionari; lessicalizzazioni, sigle e
abbreviazioni; la stratificazione del lessico; la selezione di strato.

LESSICO E LESSICOLOGIA

Il lessico è lo strato più superficiale di una lingua, quello con cui siamo più facilmente a contatto e quello
che è più soggetto a cambiamenti. Ci possono essere anche trasferimenti, tipo prestiti linguistici. In italiano
abbiamo parole di molte lingue.

Ci sono almeno due accezioni di lessico, quindi, lessico può significare due cose:

1) il lessico mentale dei parlanti,

2) il dizionario o vocabolario che viene realizzato dai lessicografi.

Lessico, è un termine che abbiamo usato anche parlando di morfologia. Abbiamo visto i lessemi lessicali e
lessemi grammaticali. Quindi, lessico si giustappone a grammatica e questa giustapposizione è
sostanzialmente l’opposizione tra qualcosa che viene memorizzato (= il lessico) e qualcosa che invece può
essere costruito tramite regole grammaticali che sono produttive nella lingua. Quindi, se noi mettiamo le
diverse unità che abbiamo visto: morfemi, parole, combinazioni di parole, la frase (che è di più di una
combinazione di parole data che è composta sa soggetto e predicato) abbiamo un diverso grado di
memorizzazione e informazione delle regole (?). i morfemi di una lingua, sia lessicali prima di tutto ma
anche quelli grammaticali, sono memorizzabili. Le parole sono in buona parte memorizzate ma molte
possono essere costituite da altre regole. Ho delle regole che mi permettono di costruire delle parole. I
sintagmi invece sono tendenzialmente costruiti tramite regole: una volta che ho memorizzato gli elementi
lessicali, posso combinarli insieme rispettando le regole di combinazione delle parole.

Solitamente, ‘lessico’ si oppone a ‘grammatica’ così come ‘memorizzato’ si oppone a ‘costruito tramite
regole’: le prole di una lingua devono essere memorizzate dai parlanti, mentre le frasi sono costruite
tramite regole, non memorizzate (sarebbe impossibile memorizzare tutte le frasi che una lingua può
costruire). Prendendo in considerazione ciò, possiamo costruire la seguente scala:

morfema > parola > sintagma > frase

Tutti i morfemi devono essere memorizzati, molte parole devono essere memorizzate, i sintagmi sono per
lo più costruiti tramite regole, tutte le frasi sono costruite tramite regole.

IL LESSICO MENTALE

Il lessico mentale comprende tutte le informazioni (fonologiche, morfologiche, sintattiche e semantiche)


che i parlanti possiedono relativamente alle parole della propria lingua. Ogni parlante ha il proprio lessico
mentale e questo repertorio di parole è accompagnato da tutte le caratteristiche che ciascuna di queste
parole ha tanto che è possibile avere delle liste di parole dai parlanti, parole che condividono la stessa
categoria lessicale (esempio: Alice e Carolina, datemi una lista di nomi di piante etc. etc.).

Non è solo la conoscenza delle singole parole, ma anche la conoscenza della loro formazione, del loro
funzionamento, dei rapporti che hanno le une con le altre, ecc.

Ogni parlante è infatti in grado di estrarre dal proprio lessico mentale delle liste di parole con certe
caratteristiche (nomi di piante, verbi di prima coniugazione, nomi femminili, ecc.)

Si discute se i parlanti abbiano, memorizzato nel proprio lessico mentale, un lemma solo (cioè una parola
non flessa) o se abbiano piuttosto il lemma insieme a tutte le sue forme flesse. In altre parole, le forme
flesse sono memorizzate o costruite dai parlanti tramite regole?

Questa è una discussione complicata e psicolinguistica = come il cervello memorizza e immagazzina gli
elementi linguistici. Generalmente si assume che nel lessico vi siano solo forme non flesse, ma studi recenti
di psicolinguistica hanno mostrato che alcune forme flesse (soprattutto quelle irregolari e quelle suppletive)
sono immagazzinate nel lessico e non costruite tramite regole.

Ovviamente non tutte le forme flesse possono essere costituite tramite regole: in una lingua ci sono forme
cosiddette irregolari e quelle non possono essere costruite tramite regole (lo zaino, gli zaini, bue, buoi,
uomo, uomini che sono classi a sé, forme irregolari che non dipendono da queste regole).

I DIZIONARI

Il dizionario non corrisponde al lessico mentale dei parlanti: solitamente contiene un numero altissimo di
parole, molte delle quali spesso sconosciute alla gran parte dei parlanti (ogni parlante ha un suo lessico
mentale).

Un dizionario si pone piuttosto a livello della langue: è l’insieme delle parole usate da tutta la comunità
linguistica rispetto a quello dei singoli parlanti. Ma non solo: in un dizionario è presente anche l’elemento
diacronico per garantire ai parlanti l’accesso a termini ulteriori che ora non sono neanche più in uso (ma
magari ci servono per leggere o studiare Manzoni tipo); vi sono cioè parole appartenenti a fasi più antiche
di una data lingua (spesso opportunamente etichettate), oggi non più in uso, indispensabili per poter
accedere ai testi scritti in epoche più o meno remote.

Un dizionario è costituito da lemmi (o entrate lessicali): ciascun dizionario segue criteri diversi di
lemmatizzazione (per es. in un dizionario italiano l’entrata lessicale di un verbo è l’infinito, in un dizionario
latino è invece la prima persona singolare del presente). Quindi, delle parole che hanno una flessione si
sceglie una risetto alle altre.

La lemmatizzazione di una parola è un’operazione complessa e non è sempre possibile attribuire una sola
categoria a una certa forma. Per esempio, forme come potere e sapere devono avere due entrate diverse,
una per il verbo e una per il nome, o un’entrata unica? I diversi dizionari operano, in questi casi, scelte
diverse. Molti dizionari per esempio hanno i derivati costituiti con regole assolutamente trasparenti e
produttivi magari non hanno una lemmatizzazione a sé: gli avverbi in -mente, che sono generalmente
derivati da aggettivi la cui base è riconoscibile nell’avverbio in -mente, e il significato di questo avverbio è
comprensibile da qualunque parlante nativo di italiano, può capitare di non trovare la lemmatizzazione di
questo. Ogni lessicografo può fare delle scelte diverse a seconda dei criteri ma anche a seconda del fine del
dizionario. Ci sono dizionari che sono molto completi che vicino al lemma hanno anche la trascrizione
fonetica che è importante per esempio per lo straniero che vuole imparare la lingua o per capire dove va
l’accento. Alcuni dizionari ci danno anche delle informazioni sui termini, per esempio ci dicono se sono
termini del linguaggio poetico, antico etc.

Il lemma è poi, di norma, seguito dalla trascrizione fonetica, l’etimologia, la categoria lessicale di
appartenenza, le diverse accezioni di significato con i relativi esempi.

Se è vero che nei dizionari ci sono molte parole che i singoli parlanti non hanno nel loro lessico mentale, è
anche vero che molte altre parole, presenti nel lessico mentale dei parlanti, non sono registrate nei
dizionari.

In particolare, diverse parole formate tramite processi produttivi (e quindi del tutto trasparenti per i
parlanti), come per esempio gli avverbi in -mente, spesso non sono lemmatizzate (un parlante italiano è
perfettamente in grado di recuperare il significato di parole come velocemente o dolcemente). Quindi
possono mancare dei neologismi, tante parole nuove che vengono formate con meccanismi di formazione
interna o prese da altre lingue. Solitamente c’è sempre un periodo in cui una parola entra a far parte di una
lingua e per essere registrata deve essere ben acclimatata = deve “entrare bene” nella lingua nuova. Alcune
parole sono estemporanee, magari sono prestiti occasionali e “durano poco”, non si impiantano nel lessico,
non rimangono ma se succede vengono registrate nei dizionari. Nei nostri dizionari di ora potremo trovare
parole come lockdown e green pass ma non è detto che ci saranno nei prossimi dizionari. È il caso, in teoria,
di petaloso.

I dizionari necessitano di continui aggiornamenti, perché il lessico di una lingua si arricchisce


continuamente di parole nuove, che possono essere neoformazioni interne alla lingua (neologismi) o
prestiti provenienti da altre lingue. Può anche capitare che parole esistenti acquisiscano nuove accezioni di
significato.

I dizionari non sono enciclopedie: i dizionari contengono solamente informazioni circa l’uso delle parole,
mentre le enciclopedie contengono molte informazioni di altro genere

LESSICALIZZAZIONI

Oltre alle parole semplici, i dizionari registrano anche altre unità, quali lessicalizzazioni e sigle. Le
lessicalizzazioni sono le costruzioni polirematiche: unità formate da più parole, in cui il significato della
costruzione non è generalmente ricavabile dalla somma dei significati degli elementi che le compongono
(per es. luna di miele, ferro da stiro, macchina da scrivere, ma anche espressioni idiomatiche come tagliare
la corda). È plausibile che queste, in un grande dizionario, siano lemmatizzate e non sotto a luna, ferro etc.
e il loro significato non è riconducibile a quella forma.

Tali forme hanno certamente una struttura interna, ma opaca, non analizzabile sulla base di regole
produttive della grammatica. Di fatto, costituiscono un’unità lessicale inscindibile (non è possibile inserire
altro materiale linguistico all’interno di esse: *ferro grande da stiro).

Non c’è una regola per compilare un dizionario, dipende dal singolo lessicografo.

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Anche le sigle sono il prodotto di processi di formazione di parola, che non rientrano però né nella
derivazione né nella composizione. Le sigle sono generalmente costruite attraverso acrofonia (?) processo
per cui si prendono le prime lettere di tutti gli elementi che costituiscono l’espressione e si accorpano
insieme.

Spesso si tratta di cancellazioni, cioè di abbreviazioni di unità più lunghe, spesso tramite acronimo (CGIL =
Confederazione Generale Italiana (del) Lavoro; TV = Televisione, ecc.), talvolta tramite cancellazione di una
parte più o meno estesa della parola, che può corrispondere o meno a un morfema (prof < professore;
spiega < spiegazione, ecc. ma mentre prof lo uso solo in parlato principalmente, auto da automobile, forma
anche altre parole come automatico, autonomo etc. ma auto viene da automobile e appunto entra anche in
altre composizioni come autolavaggio e autonomo). CGL è proprio un nome e in quanto tale è giusto che
sia sul dizionario, sia le sigle appunto che le abbreviazioni.

Un procedimento analogo si riscontra nelle parole macedonia (o composti troncati).

STRATIFICAZIONE DEL LESSICO

Il lessico di ogni lingua è stratificato, cioè è costituito da vari strati perché le cose non sono tutte sullo
stesso piano.

Lo strato centrale, il nucleo più interno, è quello nativo, che comprende tutte le parole proprie di una
specifica lingua. C’è poi uno strato non nativo più periferico, che riflette le vicende storiche e i contatti che
una certa lingua ha avuto con altri sistemi linguistici. Sono tutte le parole che la lingua eredita dalle sue fasi
linguistiche precedenti. Per l’italiano sono tutte le parole di diretta derivazione dal latino.

L’italiano ha diversi strati non nativi, testimoniati da parole di origine greca, inglese, araba, ecc. sono dei
prestiti.

Ci sono anche le parole di nuova derivazione che possono venire dal nucleo nativo, una formazione crata e
poi tutti gli altri strati che appunto rappresentano i prestiti dalle altre lingue.

La stessa cosa vale anche per le altre lingue. Tutte le lingue hanno un nucleo interno e poi i prestiti.

Anche l’inglese possiede diversi strati non nativi, tra cui è molto importante quello romanzo, che si deve
all’invasione normanna dell’XI secolo. Oggi, gran parte del lessico inglese è di origine romanza, ci sono
molte parole di derivazione latina: in alcuni casi, forme romanze si sono affiancate a quelle germaniche,
creando dei doppioni (uno è l’esito germanico e l’altro è quello latino dark/obscure, heavenly/celestial,
fatherly/paternal, ecc.), in altri, le forme di origine latina hanno sostituito quelle germaniche (flower vs. ted.
Blume, question vs. ted. Frage, ecc.).

Ci sono degli affissi che selezionano solo basi di origine latina, per es. -ity (vivacity, *strongity). Altri, invece,
non fanno distinzione (per es. -ness, strangeness, darkness, ecc.).
Di solito, a radici native si aggiungono suffissi nativi, mentre a radici non native si aggiungono suffissi non
nativi (ma non mancano forme miste). Tale processo si chiama selezione di strato.

Prof. Valerio Pisaniello 18/11/2022

Oggi abbiamo parlato dei fenomeni di interferenza: prestiti e calchi; classificazione dei prestiti (adattati, non
adattati; crudi, acclimatati, integrati) e classificazione dei calchi (strutturali e semantici); i prestiti dal latino
e gli allotropi; tipi di dizionari.

PRESTITI E CALCHI

Lo strato non nativo dell’italiano è costituito da prestiti e da calchi.

Entrambi rappresentano forme di interferenza (= influenza di una lingua sull’altra) tra sistemi linguistici
diversi e comportano la riproduzione di una data parola da una lingua di partenza (lingua modello) a una
lingua di arrivo (lingua replica). Quindi una lingua va a copiare la struttura di un’altra. Una lingua influenza
l’altra. Sono tutti modelli di trasferimento, copia del materialle della lingua modello a quella di replica. Nella
lingua modello ho determinate parole e nella lingua replica, in qualche modo, me le trovo.

La differenza tra un prestito e un calco sta nel tipo di materiale che passa, viene trasferito o copiato da una
lingua all’altra. Quello che viene trasferito o copiato è un intero segno linguistico e questo significa
significante e significante = un segno passa all’altra lingua anche se il significato o il significante possono
cambiare: nel caso dei prestiti, ciò che passa è innanzitutto il significante, che può subire o meno dei
processi di adattamento al sistema fonologico della lingua di arrivo (per es. bar, pub, kamikaze, bistecca <
beef steak, ecc.). da bistecca non possiamo dedurre che arriva da beef steak, è difficile per via del processo
di mutamento fonetico del significante, questo ha influito anche sulla percezione degli italiani (dal suono
non lo capiamo, è un suono italiano). Queste parole passano dalla lingua modello alla loro replica con i loro
significanti o con i loro significanti. Nella lingua replica i significati di questi sono più precisi: beaf steak =
bistecca di manzo in inglese mentre bistecca in italiano è più vago. Un significato può anche cambiare:
macho vuol dire uomo mascolino in italiano ma viene dallo spagnolo macho che vuol dire uomo. Al
significante è ovviamente associato anche un significato, che però può non coincidere del tutto con quello
della lingua modello (per es. macho, in italiano, ha un significato più ristretto che in spagnolo, dove vale
‘maschio’; mister ‘allenatore’ non esiste in inglese, dove si usa coach). Quindi, si parla di mutamenti fonetici
per il significante e semantici nel caso del significato.

Nel caso dei calchi, invece, ciò che passa è la struttura morfologica, sintattica e il significato, mentre il
significante è costruito con materiale proprio della lingua d’arrivo (fr. il va sans dire > ingl. it goes without
saying; ingl. honeymoon > it. luna di miele). C’è quindi un passaggio dalla lingua modello a quella replica e i
significanti può, non vengono dalla lingua modello ma vengono costruiti dalla lingua replica con materiale
nativo, la lingua ha fatto questo significato o con una parola che già ha o che costruisce per accogliere
questo significato come grattacielo = skyscraper (diverso da lavavetri etc.) non abbiamo un prestito, non
abbiamo un adattamento, abbiamo preso il significato e abbiamo costruito un significante che si adattasse
così, abbiamo calcato quello che rappresentava la struttura profonda della lingua modello. Skyscraper è un
composto subordinato come il capo della stazione, la struttura è la stessa ma l’elemento verbale non è però
rappresentato da un nome verbale ma da un tema verbale con il soggetto ovviamente nell’ordine
dell’italiano. Quindi, all’apparenza sembra un calco imperfetto ma non dobbiamo guardare la struttura
superficiale ma quella profonda, del composto subordinato (inglese, come è organizzato lì), la struttura è la
stessa.

In alcuni casi la lingua replica ha già una parola per accogliere il significato, per calcare la forma, deve solo
aggiungerci il significato: star = stella/ personaggio famoso ma in italiano stella prima voleva solo dire corpo
celeste. La parola stella esisteva già e quindi hanno preso la stessa parola in italiano e ci hanno dato anche
questo secondo significato = abbiamo un aggiunta (di significato) semantica.

CLASSIFICAZIONE DEI PRESTITI

Volendo possiamo individuare tante tipologie di prestiti ma noi ci fermiamo a livello elementare. I prestiti si
possono distinguere in adattati e non adattati:

Nel caso dei prestiti adattati, il significante è perfettamente adattato alla lingua d’arrivo dal punto di vista
fonologico. In altre parole, la parola non è più immediatamente identificabile come straniera. È un processo
di mutamento del significante che viene adattato alle strutture morfologiche della lingua replica: lingue
diverse hanno lingue diverse (cambiare suoni in una parola per esempio, assimilarli etc.) e può capitare che
una lingua prenda in prestito una parola con un significante che non coincide con la propria lingua.

Alcuni esempi: bistecca < ingl. beef steak; lanzichenecco < ted. Landsknecht ‘servo del paese’ con questo
nesso di consonanti difficile da pronunciar in italiano perché non rispetta le regole fonologiche italiane, la
forma viene cambiata a seconda delle regole. Qui dobbiamo distinguere un adattamento fonetico che è un
adattamento superficiale da uno fonologico, quelli fonetici ci sono sempre ,noi non pronunciamo le parole
come le pronuncia un parlante nativo quelli sono adattamenti e succedono sempre, quello fonetico invece
riguarda l’adattamento delle strutture fonologiche dell’italiano, per quello lanzichenecco è adattato, scoglie
il nesso consonantico complesso del tedesco e viene semplificato e la stessa cosa è successa per bistecca
dove l’adattamento fonologico sta nell’aggiunta delle vocale finale e nella semplificazione del blocco
consonantico; sp. ayotoste ‘armadillo’ < nahuatl āyotōchtli, lett. ‘tartaruga-coniglio’.

Nel caso dei prestiti non adattati, il significante della lingua modello si mantiene inalterato (bar, pub, star,
garage, ecc.).

Ci sono adattamenti di tipo meccanico, tipo aggiungere maschile o femminile quando la parola in un’altra
lingua magari non ha flessione. Spesso però si verifica un processo di adattamento parziale: mister it.
[‘mistɛr], ingl. [‘mɪstɘ r ].

Ci sono anche adattamenti di tipo morfologico, ci sono lingue che adattano parole straniere con
determinati suffissi ma sono casi particolari. Per esempio, il currico ha un suffisso in -ar usato spesso per
adattare i prestiti. Uccugar è una parola presa in prestito e adattata aggiungendo un prefisso.

Se si verifica un adattamento morfologico e anche fonologico, allora parliamo prestito adattato ma se


questi non si verificano e il mutamento rimane a livello meccanico (adattamento fonetico, per esempio, e
cambiamenti morfologici necessari perché regole nella lingua), allora parliamo di prestiti non adattati.
Adattato o non adattato fa solamente riferimento al piano del significante, non interessa il paino del
significato. Dal punto di vista del significato, in qualche modo, quasi tutti i prestiti sono adattati. Il
significato può estendersi o ampliarsi o una parola può anche cambiare completamente il significato.

Con l’adattamento posso semplificare delle strutture. Oggi tendenzialmente i prestiti non vengono adattati
ma questo generalmente va a fasi. Lo stambecco è un prestito tedesco, questa è una parola italiana
adattata ma perché non è stambocco? Nel processo c’è l’interferenza, se c’è una capra la chiamo capra –
becco.

Più precisamente, questo riguarda il grado di adattamento nel lessico, è meglio però distinguere tra:

1. prestito crudo (o forestierismo) = prestito non adattato: una parola passa da una lingua A a una lingua B
così com’è (per es. Hinterland, background, ecc.) rimane isolato nella lingua replica;
2. prestito assimilato, suddivisibile in: prestito acclimatato: mantiene tendenzialmente le caratteristiche
fonetiche originarie (con alcuni fenomeni di adattamento), ma può dar luogo a derivati tramite le regole di
formazione di parola della lingua di arrivo (bar > barista; scanner > scannerizzare; sport > sportivo; ecc. di
base sono prestiti crudi ma hanno un grado di integrazione del lessico maggiore rispetto ai prestiti crudi);
prestito integrato: con le caratteristiche fonetiche e morfologiche proprie della lingua di arrivo (per es.
bistecca < beef steak; lanzichenecco < Landsknecht, ecc.).

Questa classificazione comunque è imperfetta, qui stiamo confondendo il parametro dell’adattamento


fonologico e morfologico con quello dell’integrazione, della possibilità di avere derivati. Lanzichenecco, per
quanto sia adattato morfologicamente e fonologicamente, è una parola singola, non ha una famiglia di
parole. Quindi, l’ideale sarebbe distinguere l’adattamento e l’integrazione del lessico in 4 elementi perché
questi due parametri sono distinti, viaggiano su livelli diversi: prestiti non adattati e non integrati come
background, prestiti non adattati ma integrati (i prestiti acclimatati) come bar, prestiti adattati ma non
integrati nel lessico come lanzichenecco che rimane isolato e i prestiti sia adattati che integrati come
bistecca che può diventare anche bistecchiera. = punto di vista del prof.

CLASSIFICAZIONE DEI CALCHI

1) Calco strutturale: si ha quando una lingua, con materiale proprio, crea una nuova parola che ricalca
più o meno fedelmente la struttura e il significato di una parola appartenente a una lingua straniera
(per es. grattacielo < skyscraper; luna di miele < honey moon; fuorilegge < out law, ecc.) quindi la
lingua nuove deve creare una parola nuova e lo fa calcando la struttura profonda della parola della
lingua modello, la struttura profonda viene mantenuta. P
2) Calco semantico: si ha quando una parola già esistente nel lessico di una certa lingua acquisisce un
nuovo significato sotto l’influsso di una parola straniera (un esempio tipico è l’it. realizzare: di base
significa ‘fare, creare’, mentre il valore ‘capire, rendersi conto’ è un calco dell’inglese to realize.
Similmente, l’it. parlamento, anticamente, significava ‘discorso, conversazione’: il significato
moderno – l’unico in uso oggi – dipende dall’ingl. Parliament). Quindi si aggiunge un significato in
più a una parola che già esiste.

GLI STRATI DEL LESSICO ITALIANO

- Parole inglesi, oggi prevalenti: pub, blackout, mouse, computer, bed and breakfast, spending
review, ecc.
- Parole francesi: bricolage, garage, déjà vu, étoile, rond de jambe, crêpe, baguette, brioche (anche
adattato, brioscia), ecc.
- Parole tedesche: Dobermann, Weltanschauung, Umlaut, Realpolitik, ecc.
- Parole spagnole: desaparecido, goleador, cucaracha, ecc.
- E altre da lingue più ‘esotiche’, come russo (gulag, kalashnikov), giapponese (harakiri, manga,
kamikaze, judo, karaoke), arabo (intifada, kefiyyah), turche (kebab, harem), ecc.

I nomi generalmente viaggiano con le cose (commercio etc.) ma non è sempre detto – pomodoro – tomate,
è un prestito dall’azteco, si porta il prodotto in Europa ma in italiano c’è pomodoro, le lingue non hanno per
forza bisogno di prendere un prestito, si posso creare calchi o creare parole che descrivono il prodotto.

UN CASO PARTICOALRE: I PRESTITI DAL LATINO:

questo è un caso particolare perché l’italiano è il latino, non c’è una successione di continuità tra le due: il
latino ha avuto così tante modifiche che i parlanti hanno riconosciuto la loro lingua come qualcosa di
diverso dal latino, è una presa di consapevolezza che la lingua non è più la stessa.

L’italiano deriva dal latino, ma nel lessico italiano ci sono numerose parole di origine latina il cui significante
non presenta quei fenomeni di mutamento fonetico che caratterizzano il passaggio dal latino all’italiano.
Per esempio, nel passaggio dal latino all’italiano, il nesso consonantico /ns/ si semplifica in /s/ (il fenomeno
era presente già nel latino parlato lo vediamo nelle lettere anche di Cicerone): mensem > mese; sponsam >
sposa; ecc.

Tuttavia, in alcune parole, il nesso /ns/ latino si mantiene: mensam > mensa; consulem > console
(l’abbreviazione latina era COS!); ecc.

Si tratta di parole di trafila dotta: non derivano dal latino parlato, ma sono entrate nella lingua italiana
grazie al contatto con la tradizione scritta latina.

Sono parole entrare come prestiti poi da una lingua scritta già morta perché non era più la lingua nativa di
nessuno (nessuno la parlava più, si scriveva e basta).

In alcuni casi, una stessa base latina giunge in italiano sia per trafila ‘popolare’ (cioè dal latino parlato) sia
per trafila dotta, determinando dei ‘doppioni’, parole che sono rimaste, che vengono chiamati allotropi:

Lat. plebem > it. pieve (trafila popolare), plebe (trafila dotta) è una forma ripresa dai testi

Lat. discum > it. desco (trafila popolare), disco (trafila dotta)

Lat. insulam > it. Ischia da fricativa diretta, questa ha un nome specifico, è il nome di un isola (trafila
popolare), isola ha significato generale (trafila semidotta).

In questi casi, solitamente, l’allotropo popolare ha un significato più specifico di quello dotto.

I DIZIONARI

I dizionari contengono informazioni relative alla stratificazione del lessico, alla cronologia delle parole e al
loro ambito di utilizzo (se si tratta cioè di parole antiche, desuete, dialettali, volgari, letterarie, ecc.).

Alcuni introducono anche la distinzione tra parole fondamentali (ca. 2000 parole di altissima frequenza,
note ad ogni parlante, che comprendono, per esempio, le preposizioni, nomi come mamma, papà, verbi
come fare, dire, ecc.), parole di alta disponibilità (ossia parole che, pur non avendo alta frequenza, sono
note a tutti perché si riferiscono a oggetti della vita quotidiana, come coperchio, pantofola, ecc.) e parole di
alta frequenza (come bensì, viso, recarsi, ecc., note a chi ha un livello medio di istruzione).

Esistono numerosi tipi di dizionari. Una prima distinzione è quella tra dizionari monolingui e dizionari
plurilingui (i più comuni dei quali sono bilingui): i primi hanno come scopo primario quello di dare
definizioni, i secondi, quello di indicare corrispondenze lessicali tra lingue diverse.

Esistono poi dizionari etimologici, che hanno lo scopo di ricostruire la storia delle singole parole, dalle loro
più antiche attestazione fino alle più recenti.

Altri tipi di dizionari includono: dizionari di neologismi, di sinonimi e contrari, dizionari inversi, di frequenza,
ecc.

Prof. Valerio Pisaniello 22/11/2022

Oggi abbiamo fatto un’introduzione alla sintassi; la valenza; i sintagmi; criteri di individuazione dei
sintagmi; la nozione di testa in sintassi e la classificazione dei sintagmi; gli indicatori sintagmatici
(diagrammi ad albero).

SINTASSI

La sintassi studia la combinazione delle parole, usciamo quindi dalle singole parole.
In una data lingua, non tutte le combinazioni di parole sono possibili: alcune sono grammaticali o ben
formate (a), altre sono agrammaticali o non ben formate (b):

a) La ragazza di Pietro suona bene il pianoforte.


b) *Il Pietro pianoforte bene di ragazza suona la.
Le parole non si mettono a caso, ci sono dei principi di dipendenza della struttura, in una frase le parole
hanno una gerarchia che determina le relazioni tra le varie parole.

La grammaticalità di una frase non dipende dal fatto che essa abbia senso. Il fatto che la frase sia
grammaticale, significa che rispetta tutti i legami gerarchici, tutti i rapporti sintagmatici tra le diverse parole
sono rispettare, costruite in un senso corretto grammaticalmente.
Una frase come «il cerchio quadrato suona la cornamusa» è perfettamente grammaticale, (cioè ben
formata), sebbene non abbia senso, mentre una frase come «*Gianni vuole di andare al mare» non è una
frase ben formata, ma qualunque parlante italiano è in grado di comprenderne il senso.
La sintassi si occupa di individuare le ragioni per le quali alcune frasi sono ben formate e altre no,
indipendentemente dal loro senso. ) = le lingue non hanno come primo scopo la comunicazione, frasi che
non hanno “regole” funzionano benissimo, lo scopo primario delle lingue non è questo (le frasi sono
perfettamente comprensibili senza relazioni sintagmatiche specifiche, che vengono rispettate).

‘Combinazioni di parole’ e ‘frasi’ non sono necessariamente la stessa cosa: da un lato, esistono
combinazioni di parole più piccole di una frase, dei gruppi di parole che appunto non sono delle frasi
(sintagmi, per es. questa casa, il cane del vicino, per Maria, ecc.), ma anche combinazioni di parole più
ampie di una frase (testi).

La sintassi si occupa di tutte le combinazioni di parole possibili.

LA VALENZA

La valenza è una proprietà dei verbi, o dei predicati ingenerale, e questa mi dice il numero di elementi di cui
un verbo ha bisogno per costruire una frase di senso compiuto = i verbi hanno una loro semantica, indicano
delle azioni, stati, processi, eventi etc. e ogni azione implica la presenza di un numero minimo di
partecipanti (mangiare = chi e cosa mangio, quindi servono due elementi).

Determinati verbi necessitano di essere accompagnati da un determinato numero di altre parole per poter
costituire una frase ben formata, mentre altri verbi ne richiedono un numero diverso.

Per esempio, il verbo catturare richiede di essere accompagnato da due nomi (uno indicante chi cattura,
uno indicante chi è catturato), mentre un verbo come camminare deve essere accompagnato da un solo
nome (chi cammina):

Il poliziotto catturò il ladro *Il poliziotto catturò


Luca cammina
Insomma, affinché una frase sia ben formata, ciascun verbo richiede di essere accompagnato da un certo
numero di elementi, che vengono chiamati argomenti.
Il numero di argomenti che un verbo richiede costituisce la valenza di quel verbo alcuni ne hanno uno come
camminare, altri due e altri tre.
A seconda della valenza, i verbi possono essere classificati in:
1) avalenti (o zerovalenti): non sono accompagnati da nessun argomento (per esempio i verbi
«meteorologici» italiani come piovere, nevicare, ecc., ma non quelli inglesi – it rains –, tedeschi – es regnet
–, ecc.);
2) monovalenti: necessitano di un solo argomento, come la maggior parte dei verbi intransitivi
(camminare, partire, morire, ecc.). il primo argomento di un verbo è il soggetto;
3) bivalenti: necessitano di due argomenti, come la gran parte dei verbi transitivi (catturare, colpire,
mangiare, ecc.) e alcuni intransitivi (abitare, andare, ecc.) il secondo elemento di un verbo è tipicamente
un oggetto o un sintagma preposizionale mi piace il gelato: il gelato, a me = sintagma preposizionale o un
pronome.
4) trivalenti: necessitano di tre argomenti, come i verbi di «dire» e di «dare».

Generalmente non andiamo oltre i tre argomenti. L’insieme del verbo + i suoi elementi costituisce il nucleo
di una frase, quindi il nucleo della frase è rappresentato dal verbo e dai suoi elementi.
Una precisazione: in molte lingue è possibile non saturare completamente la valenza: in italiano io posso
dire io mangio, senza specificare che cosa sto mangiando. Il complemento non è necessariamente espresso,
c’è ma non compare sulla superficie della frase quindi alcuni elementi possono rimanere inespressi. In
alcune lingue però, tutta la valenza del verbo deve essere espressa.

Tuttavia, una frase, di norma, non è costituita solo dal verbo e dai suoi argomenti, ma può contenere anche
altri elementi che non sono magari necessari ma danno comunque informazioni aggiuntive, per es.: A
mezzanotte, il poliziotto catturò il ladro davanti alla casa.
Il verbo catturare è biargomentale: i suoi argomenti, ossia gli elementi che richiede obbligatoriamente,
sono il poliziotto e il ladro. Gli altri elementi presenti nella frase (a mezzanotte e davanti alla casa) sono
invece facoltativi. Tali elementi prendono il nome di circostanziali (o aggiunti) e hanno maggiori possibilità
di movimento all’interno della frase rispetto agli argomenti dato che non cambiano la grammaticalità della
frase, tolgono/ aggiungono solo alcune informazioni:
Il poliziotto catturò il ladro a mezzanotte (il senso della frase non cambia)
Il ladro catturò il poliziotto (la frase ha un senso diverso)
Quindi invertire gli elementi può influenzare il senso e il significato della frase ma i circostanziali
generalmente hanno più libertà.

I SINTAGMI

Gli argomenti del verbo e i circostanziali possono essere rappresentati o da singole parole (Luca, Gianni,
ecc.) o da più parole insieme (il ladro, il poliziotto, a mezzanotte, ecc.), ossia da un sintagma (o gruppo di
parole). I sintagmi sono le unità minime della frase, sono i costituenti di frase. Un sintagma può coincidere
con una singola parola ma anche comprenderne un paio (nomi, pronomi, aggettivi, possessivi etc.)

In generale, è abbastanza intuitivo, per un parlante nativo, capire quali parole costituiscono un sintagma;
tuttavia, esistono dei criteri che permettono di individuarli con sicurezza.

1) criterio del movimento: le parole che fanno parte dello stesso sintagma si spostano insieme
all’interno della frase:
Il poliziotto catturò il ladro a mezzanotte
A mezzanotte il poliziotto catturò il ladro
*Mezzanotte il poliziotto catturò il ladro a
Mettiamo che voglio spostare il ladro, questo va insieme, non posso separare elementi che formano uno
stesso sintagma. Se elementi si spostano insieme nella parola, quello è un sintagma.

2) criterio dell’enunciabilità in isolamento: in contesti opportuni, le parole che formano un sintagma


possono essere pronunciate da sole:
Chi ha catturato il ladro?
Il poliziotto è la risposta. Queste due parole le pronuncio in isolamento e questo è un sintagma. Non posso
usare quelle due sotto qui come risposte:
*Il poliziotto ha
*Il
I sintagmi possono anche essere complessi: all’interno di un sintagma ce ne possono essere anche altri.

3) criterio della coordinabilità: gruppi di parole di tipo diverso non possono essere coordinati. Ricordiamo
però che non tutti i sintagmi sono diversi (sintagmi nominali, aggettivali, preposizionali etc.) e quindi non
possono essere coordinati tra di loro e quindi non posso dire:
*A mezzanotte e il poliziotto catturò il ladro. Questi due sintagmi ma essendo di tipo diverso non posso
coordinarli tra di loro ma, di per s’è è un criterio solo per capire se i sintagmi appartengono alla stessa
tipologia piuttosto che individuare i sintagmi.
(questo criterio è quello meno utile per individuare i sintagmi)

4) criterio della sostituzione tramite pro-forma: i sintagmi possono essere sostituiti da pronomi:
Il poliziotto catturò il ladro
Il poliziotto lo catturò
Sono forme linguistiche che possono stare al posto di qualcos’altro. In questo caso sono i pronomi. I
sintagmi possono essere sostituiti da proforme.
In questa frase, tutto il sintagma viene sostituito dal pronome.

I sintagmi possono essere classificati in base all’elemento che ne costituisce la testa. I sintagmi più semplici
sono quelli costituiti dalla sola testa (Gianni, cammina, ecc.), l’unico elemento necessario, che domina la
frase. Anche i sintagmi hanno una testa e a seconda della parte del discorso a cui appartiene la testa (nome,
aggettivo, verbo etc.) classifichiamo i sintagmi in varie tipologie.
Alcuni sintagmi sono costruiti intorno a un nome (il poliziotto, il ladro, la casa, ecc.), altri intorno a una
preposizione (a mezzanotte, nel mare, all’alba, ecc.), ecc.
A seconda della testa, i sintagmi possono essere classificati in sintagmi nominali (SN), sintagmi verbali (SV:
catturò il ladro, legge il giornale, ecc.), sintagmi aggettivali (SA: molto buono, troppo alto, ecc.) e sintagmi
preposizionali (SP).

Cosa significa che un sintagma è la testa? Non è proprio giusto dire che l’unico elemento necessario della
frase è il sintagma. Per esempio, una preposizione (sintagma preposizionale), non può stare da sola. La
testa è l’elemento reggente all’interno di un sintagma. Reggente perché è quello che determina alcune
delle proprietà degli elementi che lo circondano, che lo accompagnano.

La struttura dei sintagmi può essere rappresentata in vari modi: il più comune è quello del diagramma ad
albero:
Ci sono 4 possibili tipo di sintagmi:
1) Sintagma nominale: il ladro, dove la testa è il nome e determina la forma che assume lo
specificatole quindi maschile singolare
2) Sintagma verbale: leggi il libro dove la testa è il verbo. Come faccio a dimostrarlo? Intanto, questo
è un sintagma complesso il ladro legge il libro. La testa è il verbo perché regge il caso del nome.
Abbiamo parlato di valenza, il verbo regge il secondo elemento, quindi, assegna al suo secondo
argomento un caso specifico. Questo lo vediamo spesso in lingue con i casi ma in italiano questo
colpisce un po’ meno (caso accusativo retto da un verbo transitivo) ma lo vediamo anche con i nomi
nelle forme dei sintagmi. I verbi possono avere due elementi e il secondo non deve per forza essere
un complemento oggetto, se io ho piace, questo ha bisogno di un elemento tipo la persona a cui
piace e questo è espresso da un sintagma preposizionale piace a Luca, hanno un secondo elemento
specifico; quindi, il verbo può determinare la forma assunta dal suo secondo elemento. L’elemento
reggente, quindi, è il verbo e all’interno di questo sintagma c’è quello nominale.
3) Sintagma preposizionale: a casa, l’elemento reggente, la testa è la preposizione a regge il nome
4) Sintagma aggettivale: troppo alto, dove il primo elemento troppo è solo un modificatore di alto. Lo
vediamo più, in questo caso, a livello semantico piuttosto che sintattico.

Come vediamo, i sintagmi possono essere rappresentati con dei diagrammi ad albero chiamati anche
indicatori sintagmatici perché ci danno una rappresentazione diretta della struttura di un sintagma. Lo
vediamo soprattutto qui nel sintagma verbale.
Possiamo vedere anche che c’è una struttura gerarchica: quel sintagma verbale lì è rappresentato da un
verbo che poi regge un sintagma nominale che poi è articolato in un articolo e un nome che però stanno a
un livello gerarchico più basso rispetto al verbo (il verbo sta sopra, sta nel livello più alto).
Questi alberi, queste ramificazioni, ci danno una visione più o meno chiara di quello che possono essere i
rapporti tra i diversi elementi della frase che non sono sullo stesso piano della frase ma sono in ordine
gerarchico.

I sintagmi sono i costituenti della frase. Alcuni di essi possono essere costituiti da altri sintagmi, fino ad
arrivare alle singole parole, che rappresentano i costituenti ultimi. Quindi anche la frase posso
rappresentarla con la stessa struttura ad albero:
Quindi, questa è una frase molto semplice con un soggetto e un predicato (verbo + complemento). Questa
è una rappresentazione ad albero piuttosto semplice di una frase costruita praticamente dal nucleo, la
struttura argomentale del verbo catturare: soggetto, oggetto e complemento oggetto. Non c’è molto altro.
I pezzi che costituiscono questa frase sono i sintagmi. Questa è la struttura del sintagma verbale, uguale a
quella che abbiamo visto prima catturò il ladro, poi abbiamo la struttura del sintagma nominale il poliziotto,
la frase non è altro che l’unione di un sintagma nominale che rappresenta il soggetto e un sintagma verbale
che può essere anche molto esteso e che forma il predicato della frase.
Per individuare quali sono i pezzi che costituiscono la frase, dovremo sempre fare un confronto con frasi più
semplici. Per esempio, Luca corre, è una frase, un sintagma nominale e uno verbale costituito da un solo
verbo. Il sintagma nominale qui è rappresentato dal nome e quello verbale solo dal verbo in questo caso.
Tutto quello che in una frase non è soggetto è predicato (questo può anche essere rappresentato da un
nome come Luca è un medico).
Il cane di mia zia -
Soggetto, cane è la testa composta da Articolo, nome + sintagma preposizionale (di mia zia = aggettivo +
nome) –

Questo ci aiuta perché le frasi possono essere ambigue, non è sempre chiaro capire qual è il modo più
chiaro di leggere una frase. Questo diagramma ad albero ci aiuta perché pensare ho visto Gianni con un
binocolo, non si capisce se io vedo Gianni attraverso un binocolo o se vedo Gianni con, che ha, un binocolo.

Prof. Valerio Pisaniello 24/11/2022

Oggi abbiamo parlato della nozione di 'frase' e la struttura predicativa; frasi semplici e complesse,
coordinate e subordinate; classificazione delle frasi secondo dipendenza, modalità, polarità, diatesi e
segmentazione; tipi di frasi segmentate.

LA FRASE

Dare una definizione soddisfacente di un concetto intuitivo come ‘frase’ non è semplice e, nella storia della
linguistica, oltre 300 definizioni diverse sono state proposte. La sua definizione non è scontata e nel corso
della storia della linguistica, le definizioni sono state tantissime. Frase in latino non necessariamente vuol
dire quello che significa in alte lingue. Abbiamo visto che in lingue polisintetiche, ci sono frasi che
coincidono con le parole perché le parole possono comprendere nel loro interno tutti gli elementi (non c’è
o non è molto netto il confine con le parole e le frasi)

Vediamo le definizioni di frase:


1) la frase è un’espressione di senso compiuto: è la definizione più antica, che risale ai grammatici
greci, e anche quella che maggiormente resiste. Tuttavia, ci sono combinazioni di parole che
vengono chiamate frasi e che non hanno un senso compiuto, quindi questo non è sempre vero, per
esempio:

Mario ha detto che Gianni è arrivato

La combinazione di parole che Gianni è arrivato è certamente una frase, ma non esprime un senso
compiuto. Sono due frasi.

Anche Mario ha detto non ha un senso compiuto, gli manca qualcosa, cosa? Cosa ha detto Mario?

Io posso produrre delle frasi, non è necessario che siano di senso compiuto.

2) La frase è espressione di un giudizio: tale definizione è vera per le sole frasi «dichiarative» (come
Gianni è arrivato, Luca corre, la sabbia scotta, ecc.). Ci sono però frasi che non possono essere
considerate l’espressione di un giudizio, per es. le frasi interrogative o quelle imperative.
“Andatevene tutti” “Oggi c’è il sole?”

3) La frase contiene un verbo di modo finito: Tuttavia, in molte lingue esistono combinazioni di
parole che sono frasi, pur non avendo un verbo di modo finito (per es. le frasi nominali, in cui il
verbo è assente, come nel lat. summus ius, summa iniuria ‘massima giustizia, massima ingiustizia’,
participi, ablativi assoluti). “Luca vuole andare al mare” c’è un infinito “Non conosco la persona a
cui dare questa cosa”. La frase “Massima ingiustizia” non ha il verbo. Le relazioni espresse dal
predicato nominale invece sono solo espressioni nel nome + aggettivo, il soggetto ha la qualità
espressa dall’aggettivo, i verbi (e anche quelli di modo finito) non sono sempre necessari quindi
(anche se spesso si).

Tutte queste definizioni sono pertanto insoddisfacenti, non colgono l’essenza della frase.

Ciò che distingue la frase dagli altri gruppi di parole (sintagmi nominali, sintagmi aggettivali, ecc.) è il fatto
che solo la frase è composta da un soggetto e un predicato, che sono in rapporto di dipendenza reciproca.
Quindi, una frase è l’uniuone di un sintagma nominale e tipicamente un sintagma verbale, un predicato che
sono sullo stesso livello, non c’è un rapporto di dipendenza ma di dipendenza reciproca: serve il soggetto
per argomentare il verbo in qualche modo e il predicato anche (soggetto 1° persona singolare e quindi
anche il predicato deve esserlo). Qui non abbiamo la testa. La frase è l’unione di un soggetto e un
predicato che sono in un rapporto di dipendenza reciproca, questo è il significato corretto. Ricorda che
quindi cui non c’è una testa.

Ciò non avviene nel caso dei sintagmi, dove c’è un elemento testa che domina e che è l’unico realmente
necessario: non c’è un rapporto di dipendenza reciproca tra la testa e gli altri elementi che compongono il
sintagma, perché la testa può esserci anche senza i modificatori, ma non viceversa.

Ciò che è necessario in una frase è la struttura soggetto/predicato (struttura predicativa) che può
realizzarsi in molte modalità diverse.

TIPI DI FRASE

Una prima distinzione è quella tra frase semplice e frase complessa: la frase semplice è quella che non
contiene altre frasi, ha quindi un’unica struttura predicativa (un unico verbo), mentre la frase complessa (o
periodo) contiene altre frasi quindi più strutture predicative, più soggetti, più predicati Luca corre e salta.

Il rapporto tra le frasi semplici che costituiscono una frase complessa può essere di coordinazione o di
subordinazione: le frasi coordinate sono tutte sullo stesso piano Luca corre e salta, mentre una delle due
frasi semplici è subordinata se le due frasi non sono sullo stesso piano, una frase che regge l’altra, una che
dipende dall’altra, ha una posizione gerarchica inferiore.

1) Coordinazione: Gianni è partito e Maria è rimasta a casa.

Le due frasi sono sullo stesso piano: se si omette una delle due, resta comunque una frase grammaticale, ha
una sua autonomia.

2) Subordinazione: Il poliziotto catturò il ladro, che aveva appena svaligiato una casa.

Le due frasi non sono sullo stesso piano: se si omette la principale, resta una frase (che aveva appena
svaligiato una casa) che, in isolamento, è agrammaticale, non è più di senso compiuto.

Una frase che, da sola, esprime un senso compiuto si dice indipendente. Il poliziotto ha catturato il ladro
che stava scappando - Il poliziotto ha catturato il ladro ha senso compiuto anche da solo ma non è detto
che tutte le frasi principali abbiano senso da sole.

Frase indipendente e frase principale non sono la stessa cosa: le frasi indipendenti sono sempre principali,
ma le frasi principali non sono sempre indipendenti:

Gianni crede che Paolo abbia mentito.

In questo periodo ci sono due frasi semplici, una principale (Gianni crede) e una subordinata (che Paolo
abbia mentito). La principale, se da sola, risulta malformata, incompiuta, perché credere è un verbo
biargomentale e necessita di qualcosa che rivesta il ruolo di secondo argomento. In questo caso, la valenza
del verbo viene saturata dalla frase subordinata che Paolo abbia mentito. Quindi anche la frase principale
potrebbe non avere un senso compiuto, può aver bisogno dell’altra parte della frase.

Ci sono solo due frasi che si legano a dei nomi: una relativa e l’altra le completive nominali e non sempre
posso toglierlo senza conseguenze. Nel caso della relativa, mi resta una frase grammaticale ma che ha un
senso diverso, le completive nominali invece non le posso proprio togliere, anche queste idealizzano la
valenza DI CRYSTO SIGNORE AIUTAMI di un elemento della principale.

Sono frasi si grammaticali ma che hanno un senso diverso.

Le frasi semplici possono essere classificate secondo diversi punti di vista:

1) la dipendenza: le frasi possono essere principali o dipendenti;


2) la modalità: le frasi possono essere dichiarative (Gianni è partito), interrogative (suddivise in
interrogative «sì-no» come Gianni è partito? e interrogative «wh-» come Chi è partito?), imperative che
quindi esprimono un comando (Gianni, parti!) ed esclamative (che sorpresa mi ha fatto Gianni!), siamo
comunque su un piano sintattico, il verbo è espresso in un certo modo e siamo su un paiono linguistico e
non su quello delle intenzioni del parlante per esempio Vorrebbe cortesemente uscire? È un ordine ma la
frase è interrogativa: la modalità della frase non coincide con l’intenzione della parlante (vedremo questo
con la pragmatica più avanti);
3) la polarità: le frasi possono essere affermative (Gianni è partito) o negative (Gianni non è partito);
4) La diatesi: detta anche voce, sono le frasi possono essere attive (Gianni mangia la mela) o passive (la
mela è mangiata da Gianni);
5) la segmentazione: Le frasi possono essere segmentate o non segmentate. Segmentata = generalmente,
in una frase l’ordine delle frasi non è marcato, soggetto + verbo + oggetto ma i parlanti possono creare
invece delle frasi segmentate mettendo in evidenza in posizione iniziale o finale uno degli elementi che non
necessariamente rivorrebbe nel primo posto: posso marcare, spostare alcuni elementi per dare un
significato diverso. Queste frasi si chiamano segmentate perché sono divise in due segmenti: un segmento
che in qualche modo è staccato dal resto della frase e concentra l’attenzione dell’ascoltatore quindi in
qualche modo lo separo dal resto della frase mettendolo o prima o dopo. Poi c’è tutto il resto.
Graficamente, anche se non è obbligatorio, nella scrittura questa segmentazione è indicata dall’uso delle
virgole che tengono a separare l’elemento segmentato da tutto il resto. Nel parlato ci possono essere delle
pause tra l’elemento messo in rilievo e il resto della frase.

FRASI SEGMENTATE

In una frase segmentata, l’ordine delle parole è marcato, ossia non è quello che comunemente ci si
aspetterebbe.
Uno dei sintagmi che costituiscono la frase viene isolato dal resto, separato da un breve pausa (e, nella
scrittura, da una virgola). Ne risulta pertanto una frase costituita da due «segmenti».
Esistono diversi tipi di frasi segmentate; i più comuni sono:

1) Frasi dislocate, sono frasi che si chiamano così perché uno degli elementi viene cambiato di posto e
viene spostato tipicamente o all’inizio o alla fine della frase. Sono suddivisibili in:
a) frasi dislocate a sinistra: un sintagma viene spostato all’inizio della frase e ripreso da un pronome clitico,
per esempio: Frase non segmentata: non avevo mai letto questo libro. Frase dislocata a sinistra: questo
libro, non lo avevo mai letto.
b) frasi dislocate a destra: un sintagma viene spostato (isolato, lo estrapolo dalla frase) alla fine della frase
e anticipato da un pronome clitico, per esempio: Frase dislocata a destra: non lo avevo mai letto, questo
libro sono delle frasi dichiarative e formano un’unica frase, ma hanno la segmentazione diversa, ho due
frasi dislocate una a sinistra e una a destra.

Per fare una frase dislocata, oltre che a spostare l’elemento, il resto della frase mi rimane vuota, c’è una
posizione che va riempita e va riempita una un pronome clitico che riprende l’elemento che stiamo
estrapolando dalla frase “io bevo il caffè amaro” non è segmentata: soggetto + verbo + oggetto +
complemento, frase segmentata “Il caffè lo bevo amaro” prendo il caffè, lo metto all’inizio della frase e
viene ripreso da un pronome clitico lo bevo amaro. Il significato rimane lo stesso ma pragmaticamente può
indicare una sfumatura di significato diversa tipo il “caffè lo prendo amaro ma il tè lo prendo dolce” si fa per
fine comunicativo, sto dando delle informazioni al parlante, gli sto dicendo quale è l’elemento importante
(pragmatica).
2) frasi a tema sospeso: la frase è preceduta da un sintagma nominale isolato, che viene poi
ripreso nella frase da un pronome che ne esprime la funzione sintattica, come se una frase
iniziasse da un modo e finisse in un altro:

Il primo è un sintagma nominale, mi aspetterei quindi un complemento oggetto e un soggetto ma qui ho


non gli si può dir nulla sottointeso a quel ragazzaccio.
Nel secondo caso invece inizio con un sintagma nominale ma poi quell’elemento nel resto della frase non
tiene la forma di un sintagma nominale.
Come si costruiscono le frasi a tema sospeso? Il principio è lo stesso di quello delle frasi dislocate: prendo
un elemento, lo metto in posizione iniziale ma non lo metto nella stessa forma che avrebbe nella frase non
segmentata corrispondenza, lo metto in una forma più semplice, più immediata che nel caso dell’italiano è
quella del sintagma nominale. Bisogna pregare per i defunti, frase non segmentata, prendo per i defunti,
sintagma preposizionale, lo metto all’inizio della frase ma non come sintagma preposizionale ma come
sintagma nominale: i defunti, bisogna pregare per loro. Quindi il processo è lo stesso: prendo un elemento,
lo sposto e lo riprendo e lo riprendo dopo ma in modo nominale. Questa volta la forma del sintagma in cui
io lo metto in evidenza non corrisponde con quella della forma non segmentata originariamente.

La forma base in italiano è il sintagma nominale (soggetto + oggetto), è la forma più facile. Nella nostra
lingua noi non troveremo mai frasi a tema sospeso dove l’elemento messo in evidenza è il soggetto o
l’oggetto della frase perché la forma con cui estrapoliamo l’elemento coincide con il sintagma nominale
(nominale – nominale). In altre lingue però si può fare tipo in latino.

3) frasi focalizzate: uno degli elementi della frase riceve particolare enfasi mediante
l’innalzamento del tono della voce, l’intonazione e non l’isolamento: GIANNI ho visto ieri, non
Paolo.

4) Frasi scisse: la frase è scissa in due attraverso l’isolamento di un sintagma all’inizio, preceduto
dal verbo essere e seguito da una frase pseudo-relativa (= un elemento che sembra un
relativo), quindi sembrano due frasi perché abbiamo due verbi ma è un’unica frase: Frase non
segmentata: Gianni è partito. Frase scissa: è Gianni che è partito. Serve per mettere un
elemento in evidenza rispetto a un altro.
Queste frasi scisse, c’è chi aggiunge un quinto elemento che è la scissione: quello che mettiamo in risalto in
una frase scissa viene considerato un sintagma il cane corre nel parco – è il cane che corre nel parco. Il
sintagma è quello che finisce isolato dopo il verbo essere.

Prof. Valerio Pisaniello 25/11/2022

Oggi abbiamo parlato delle trasformazioni sintattiche; classificazione delle frasi dipendenti (argomentali,
circostanziali e relative; esplicite e implicite); la nozione di soggetto da un punto di vista sintattico.

LE TRASFORMAZIONI

Tra frasi di tipo diverso (dichiarative, interrogative, affermative, ecc.) esiste una corrispondenza sistematica.

Per esempio, a una frase dichiarativa (per es. Gianni è partito) corrisponde una frase interrogativa «sì-no»
che differisce da essa solo per l’intonazione (Gianni è partito?), a una frase affermativa corrisponde una
frase negativa che differisce solo per la presenza della particella non (Gianni non è partito), ecc.

Queste corrispondenze sistematiche tra frasi di tipo diverso si chiamano trasformazioni. Posso trasformare
una frase di un certo tipo, in un topo diverso (da dichiarativa a interrogativa cambiando l’intonazione).
Questo può agire su tutti i parametri, prendendo una qualunque frase positiva trasformandola in negativo
anche Giani è partito – Gianni non è partito.

Ci sono casi in cui una trasformazione richiede una manipolazione più complessa di una frase. Per esempio
una trasformazione in diatesi, da una frase attiva a una frase passiva, una frase con un verbo transitivo può
avere il passivo, devo cambiare il verbo nella forma passiva e poi il soggetto della frase passiva, se voglio
rappresentarlo, lo rappresento come sintagma preposizionale introdotto da a.

Un esempio tipico di relazione trasformazionale è quella che intercorre tra le frasi attive e le frasi passive.
Le corrispondenze che si osservano tra frasi attive e frasi passive sono:

1) Il complemento oggetto della frase attiva diventa il soggetto della frase passiva;
2) il soggetto della frase attiva, se espresso in quella passiva, assume la forma di un sintagma preposizionale
la cui testa è la preposizione da.

Un altro esempio di relazione trasformazionale è quello tra frasi dichiarative e frasi interrogative «wh-».
Anche qui devo intervenire sull’enunciato in maniera un po’ più invasiva.

Nelle frasi interrogative «wh-», uno degli argomenti del verbo non compare nella stessa posizione della
dichiarativa corrispondente, ma all’inizio della frase:

(a) Mario ha comprato il giornale


(b) Cosa ha comprato Mario?

In (b), il secondo argomento del verbo comprare è rappresentato dal pronome interrogativo cosa, posto
all’inizio della frase.

Se la frase è complessa, ossia è costituita da una principale e da una o più dipendenti, l’argomento che
viene sostituito dal pronome interrogativo, può trovarsi in una frase semplice diversa da quella in cui si
trova il verbo a cui è collegato:

(a) Gianni ha detto che Mario ha comprato il giornale, prendiamo giornale e sostituiamolo con un elemento
interrogativo
(b) Cosa ha detto Gianni che Mario ha comprato? Quel che cosa è il giornale ma lo troviamo nell’elemento
prima.

In (b), il pronome interrogativo cosa, posto all’inizio della frase principale, è l’argomento del verbo
comprare, che si trova però nella frase dipendente.

Tramite il meccanismo della ricorsività, non c’è virtualmente limite alla distanza che può separare il
pronome interrogativo dal verbo a cui si riferisce:

(c) Cosa ha detto Gianni che Pietro crede che Mario abbia comprato?

È sempre il giornale ma è separato il suo verbo da due frasi: una principale e l’altra subordinata (=
ricordiamo la struttura gerarchica degli elementi della frase)

Ovviamente le stesse regole vanno anche per le segmentazioni: possono trasformare una frase non
segmentata in segmentata e viceversa

TIPI DI FRASE DIPENDENTI

Per ora abbiamo visto la classificazione per quanto riguarda le frasi semplici. Ora le frasi dipendenti. Il
concetto di valenza del verbo è molto utile per classificare le frasi dipendenti che non sono tutte uguali, ce
ne sono di diverse dipendenti (oggettive etc.). in realtà queste frasi dipendenti possono essere divise
almeno in tre gruppi maggiori che poi comprendono tutte le tipologie. Questi 3 gruppi sono definiti
collegandosi concetto di latenza: abbiamo visto che tutti i verbi hanno una latenza = tutti i predicati hanno
una valenza e quindi il numero di argomenti che quel verbo richiede per formare una frase di senso
compiuto e questo concetto di latenza è utile anche per classificare. Abbiamo visto che una frase
dipendente può saturare la valenza di una frase principale: può rappresentare un argomento della frase,
del verbo principale: Gianni crede che Luca abbia mentito, che Luca abbia mentito è oggetto del secondo
argomento del verbo credere. Io so che domani pioverà – che domani pioverà non è altro che l’argomento
del verbo sapere della principale. Quindi, in prime istanze io posso individuare una serie di casi dipendenti
che saturano la valenza del verbo della principale o comunque di un elemento che è presente nella
principale. Questo tipo di frasi che rappresentano un argomento del verbo o un nome della principale
prende il nome di frasi argomentali.

Esistono frasi dipendenti che rappresentano degli argomenti del verbo della frase principale: in questo
caso, si parla di frasi dipendenti argomentali perché appunto rappresentano l’argomento di un elemento
della morfologia (?).

Accanto a queste, esistono frasi dipendenti che non rappresentano gli argomenti del verbo, ma
corrispondono a quegli elementi che abbiamo chiamato circostanziali: in questo caso, si parla di frasi
dipendenti circostanziali, non si guarda il senso compiuto ma aggiungono elementi, sono aggiunte
circostanziali.

Come i circostanziali sono facoltativi, non necessari al completamento della frase, anche le frasi dipendenti
circostanziali non sono obbligatorie (la principale risulta comunque completa):

Quando Gianni è arrivato, Maria era già partita (temporale) è una frase che corrisponde a un
complemento di tempo nella frase semplice. Maria era già partita = questo sta in piedi da solo ma l’altro no
e lo posso anche togliere. La frase di Maria è grammaticale, autonoma e indipendente
Poiché Gianni è arrivato tardi, ce ne siamo andati (causale)
Abbiamo predisposto tutto affinché Gianni potesse esserci (finale)
Gianni ci ha fatto aspettare tanto a lungo che ce ne siamo andati via (consecutiva = la conseguenza
dell’azione del verbo principale)
Se Gianni fosse arrivato in tempo, non saremmo andati via (condizionale)
Benché Gianni fosse arrivato in orario, non trovò nessuno (concessiva)
Abbiamo atteso Gianni più a lungo di quanto fosse necessario (comparativa)

Questi sono tutti tipi di frasi circostanziali.

Quindi abbiamo frasi che saturano la valenza di un verbo della principale o un altro elemento e frasi che
invece non hanno nessuna influenza su queste (= frasi circostanziali)

Nonostante tutto, sono ancora qui – nonostante è un SINTAGNA!!!!

Al contrario, le frasi dipendenti argomentali sono necessarie al completamento della principale:

(a) Mario dice che Paolo abbia mentito (oggettiva)


(b) È noto da tempo che la Terra gira intorno al Sole (soggettiva)

Si chiamano così perché rappresentano rispettivamente il soggetto (soggettive) e l’oggetto (oggettive) delle
frasi principali. Una frase soggettiva è una frase che realizza il primo argomento del verbo della frase
principale: è noto da tempo che la terra ruota attorno al sole, è noto da tempo è il predicato e il soggetto è
rappresentato da che la Terra gira intorno al Sole.
Mario dice che Paolo abbia mentito, , Mario dice è la frase principale, gli manca qualcosa, oggetto e verbo e
sono che Paolo abbia mentito = questa realizza l’oggetto della frase principale.

In questi esempi, le frasi dipendenti saturano le posizioni argomentali dei verbi coinvolti: in (a), la frase
dipendente rappresenta il secondo argomento del verbo (che spesso è rappresentato dal complemento
oggetto), mentre in (b) la frase dipendente rappresenta il primo argomento del verbo (posizione
normalmente rappresentata dal soggetto).

Si dice che il professore spieghi male, si dice è la principale e che il professore spieghi male è soggettiva,
questa cosa si dice. Basta provare a sostituire le cose con altre forme per capire se è il soggetto della frase o
meno.

Oggettiva e soggettiva sono i due tipi di frasi più importanti e fondamentali ma, ci sono alcuni casi in cui ad
avere degli argomenti non sono i verbi ma sono i nomi. Anche i nomi possono avere degli argomenti,
soprattutto se si tratta di nomi di derivazione verbale. Generalmente l’argomento di un nome si esprime
con un complemento di specificazione: La costruzione della casa impiegò 30 anni, della casa, la costruzione
di questa, il costruire la casa, questo della casa è come se rappresentasse l’oggetto del verbo costruire solo
che questo non è un verbo ma un nome. Generalmente l’argomento dei nomi è rappresentato da un
complemento di specificazione ma in alcuni casi l’argomento, la valenza di un nome, può essere saturata
dalla frase dipendente. Quindi abbiamo una frase che si attacca a un nome e che rappresenta un elemento,
un argomento, di quel nome lì.

In altri casi, ad avere argomenti non sono dei verbi, ma dei nomi, per esempio:
Il fatto che Luca si sia comportato così non stupisce nessuno è una frase che si attacca a un nome.
L’idea che Luca potesse comportarsi così non era venuta in mente a nessuno
In questi periodi, le frasi dipendenti sono necessarie al «completamento» dei nomi fatto e idea: si parla in
tal caso di completive nominali, spiegano il nome. Sono delle frasi nominali, completano la frase principale,
vanno a saturare la valenza di un elemento della principale quindi sono necessarie. Queste completive sono
nominali perché completano, saturano, la valenza di un nome a differenza delle oggettive e soggettive che
sono strettamente legate al verbo principale.

In altri casi, la frase dipendente serve a completare una principale in cui il verbo esprime una richiesta o un
dubbio, sono domande o dubbi posti in maniera indiretta. Dipendono da verbi che esprimono infatti
richiesta o dubbio e sono introdotte da aggettivi, avveri o pronomi interrogativi (chi, cosa, dove, come,
quando etc.). Non sono da confondere con le oggettive o soggettive, il segreto è vedere che verbo c’è e
cosa esprime se dubbio o cose così! Tali frasi dipendenti sono definite interrogative indirette, quarto e
ultimo tipo di frase argomentale:

Gianni non sa chi partirà domani


Mi chiedo cosa altro succederà

- Accanto alle frasi argomentali e a quelle circostanziali, vi sono poi le frasi relative, che sono caratterizzate
dal fatto di modificare un sintagma nominale, si attaccano a nomi, dipendono da questo:
(a) Gli studenti che non si sono iscritti all’appello non possono sostenere l’esame
(b) Gianni, che non si è iscritto all’appello, non può sostenere l’esame

La relativa in (a) serve a delimitare un sottoinsieme all’interno dell’insieme degli studenti (e non può essere
eliminata senza modificare il senso della frase): si tratta di una relativa restrittiva = io non posso toglierle
senza cambiare il significato della frase, riducono la tipologia di qualcosa, del campo di una frase, la
rendono più specifica. Se io tolgo questo elemento, la frase è meno specifica, questa frase restringe il
campo del nome a cui si attacca: non sono tutti gli studenti ma quelli che non si sono iscritti all’appello.

In (b), invece, la relativa non ha funzione di delimitazione, ma aggiunge delle informazioni sul conto di
Gianni (e può essere eliminata senza modificare il senso della frase): si tratta di una relativa appositiva.
In questo caso l’italiano ci aiuta perché nella nostra lingua le appositive vanno staccate ma quelle restrittive
non sono mai staccate da una virgola.

N.B. Le relative non vanno confuse con le completive nominali: in entrambi i casi la frase è introdotta da
che, ma, nel caso delle relative, il sintagma nominale a cui la relativa si attacca svolge una funzione
argomentale per il verbo della relativa:

Il fatto che Gianni ci ha riferito ci ha impressionato molto

Nel caso delle completive nominali, invece, il sintagma nominale da cui la completiva dipende non ha
alcuna funzione argomentale:

Il fatto che Gianni ci ha riferito tutti i particolari ci ha impressionato molto

Queste due frasi sono simili; eppure, sono due frasi di tipo diverso: una è una completiva nominale e l’altra
è la relativa. Tutto sta nel ruolo che ha il punto di attacco, il nome appunto a cui si attacca la reggente 8?) e
l’adozione che ha l’elemento e in questo caso.
Analizziamo la struttura argomentale della prima frase: il fatto che Gianni ci ha riferito ci ha impressionato
molto, che Gianni ci ha riferito, vediamo che il verbo riferire ha una valenza 3: qualcuno che riferisce,
qualcuno a cui viene riferito e la cosa che viene riferita. Qualcuno che riferisce è Gianni, la persona a cui
riferisce, quindi il terzo elemento, è rappresentato da ci e il secondo argomento, la cosa da riferire, è il
punto di accatto ed è rappresentato nella dipendente dal che: il fatto che Giovanni ci ha riferito, è un
pronome relativo che indica un punto di attacco ed è oggetto nella frase principale e fa parte della struttura
della parte dipendente. Il pronome qui posso sostituirlo con il quale, è una frase relativa.

Guardiamo ora la seconda frase: il fatto che Gianni ci ha riferito tutti i particolari ci ha impressionato molto
. Gianni è sempre soggetto, il terzo elemento rimane il ci ma questa volta l’oggetto però non è più il fatto
ma i particolari. Il nome a cui si attacca questa frase qui non ha alcun ruolo all’interno della frase, non
esiste, non è né un argomento del verbo né un eventuale circostanziale, le frasi relativa possono prevedere
che il punto d’ attacco sia un elemento circostanziale il negozio dove (= nel quale) compro i fiori è vicino
casa mia, quel negozio è un aggiunto, è un circostanziale e lo posso sostituire con nel quale.
Il fatto, nella seconda frase, non è importante.

Quindi, la differenza tra le relative e le completive nominali sta in questo: in un caso il nome a cui si attacca
la relativa ha anche una funzione tipo argomento del verbo o può essere un circostanziale e quindi il che è
un pronome = serve a rappresentare il nome in quell’attacco all’interno della relativa e lo posso sostituire
con il quale, i quali, la quale etc. a secondo delle caratteristiche morfologiche del nome.
Nel caso invece delle completive nominali, il nome da cui dipende questa non ha alcuna funzione all’interno
della frase, non è né un argomento né corrisponde a un circostanziale. Il che, di conseguenza, non è un
pronome ma una congiunzione subordinante, io non posso dire il fatto il quale Gianni ha detto…

Se valutiamo il suolo del nome e di questo che riusciamo a capirlo. Il test più rapido che possiamo fare è
sostituire il che con un pronome.
Le frasi non sono sempre esplicite. Un altro criterio per classificare le frasi dipendenti è quello relativo alla
loro forma:
1) frasi dipendenti esplicite: sono quelle che contengono un verbo di modo finito (Gianni ha promesso a
Maria che partirà domani);
2) frasi dipendenti implicite: sono quelle che contengono un verbo di modo non finito (Gianni ha promesso
a Maria di partire domani)
Questo vale anche per le circostanziali (dopo che ebbe / aver salutato la moglie, Gianni uscì) e per le
relative (cerco la persona a cui (devo) consegnare questa lettera).

SOGGERTTO E PREDICATO

Il soggetto della frase non è necessariamente chi compie l’azione! Ci sono soggetti che non la compiono
tipo a Luca piace Maria, il predicato non esprime l’azione e poi le frasi passive hanno la stessa cosa la mela
è mangiata da Luca = è soggetto ma non compie l’azione, la subisce. Quindi, questo è un criterio semantico
che ha a che fare con un particolare, tipo un predicato che esprime azione.
Numerose sono le definizioni tradizionali di soggetto, ma nessuna risulta pienamente soddisfacente.

Il modo più comune per definire il soggetto è «colui che compie l’azione o, nel caso delle frasi passive, che
la subisce»; il predicato è, di conseguenza, «l’azione che viene compiuta o subita».

Eppure, non tutti i verbi esprimono propriamente un’azione: alcuni verbi come amare, temere, essere
malato, ecc. non indicano alcuna azione. Pertanto, in una frase come Luca teme la guerra, difficilmente il
soggetto – Luca – può essere definito come colui che compie l’azione.

Un’altra definizione è «il soggetto è ciò di cui parla il predicato».

Questa definizione può certo funzionare nel caso di molti frasi (in Luca teme la guerra, ciò di cui si parla è
Luca), ma in altri casi si rivela inadeguata:
A Pietro piacciono i fiori
In questa casa si fermò Garibaldi
In questi casi, il soggetto non coincide con ciò di cui si parla.

Queste definizioni non sono, di per sé, errate, ma appartengono a diversi livelli di analisi.
Quando parliamo di soggetto, ci riferiamo però, solitamente, al soggetto sintattico (o grammaticale), per il
quale le definizioni fornite fino ad ora appaiono molto imprecise.

Tra gli argomenti richiesti dal verbo, ce n’è solitamente uno che ha la stessa persona e lo stesso numero del
verbo.
Il soggetto può essere definito come «quell’argomento del verbo che ha obbligatoriamente la stessa
persona e lo stesso numero del verbo»:
Quel ragazzo picchia quel signore
Quel ragazzo picchia quei signori
*Quei ragazzi picchia quel signore

Il verbo picchiare è biargomentale: tra i due argomenti presenti, uno solo ha l’obbligo di avere la stessa
persona e lo stesso numero del verbo: quello è il soggetto. Centra con persone e numero e molto
marginalmente con il genere.
Mi piace il calcio = il soggetto qui non sono io ma il calcio!!!! Dobbiamo capire che cosa determina la forma
del verbo per individuare il soggetto, cosa fa cambiare il verbo?

Prof. Valerio Pisaniello 29/11/2022

Oggi abbiamo parlato dei Ruoli sintattici e ruoli semantici; il piano pragmatico-comunicativo: tema e rema;
le categorie flessionali; le relazioni di accordo e reggenza; il genere grammaticale; il numero.

SOGGETTO E PREDICATO

In altri termini, il soggetto sintattico (o grammaticale) è quell’elemento che si accorda con il verbo.

Una definizione di soggetto come «colui che compie l’azione» si colloca invece su un piano semantico,
mentre una definizione come «ciò di cui si parla» si colloca su un piano comunicativo.

Talora le tre dimensioni coincidono: in Gianni mangia la mela, Gianni è il soggetto sintattico, è colui che
compie l’azione ed è anche ciò di cui si parla.

Altre volte non c’è coincidenza tra i tre tipi di soggetto: in A Pietro piacciono i fiori, il soggetto sintattico è i
fiori, ma, sul piano semantico, i fiori non compiono nessuna azione (‘piacere a qualcuno’ non è un’azione) e
su quello comunicativo ciò di cui si parla è Pietro.

Il piano sintattico e quello semantico vanno tenuti ben distinti.

All’interno di un enunciato, ciascun sintagma ricopre un certo ruolo sintattico (soggetto, oggetto,
complementi di altro tipo), e un certo ruolo semantico.

I ruoli semantici (o tematici, o casi profondi) riguardano il modo in cui il referente di ogni sintagma
partecipa all’evento rappresentato dalla frase.

Si guarda alla frase dalla prospettiva del significato: la frase si configura come una scena nella quale diversi
attori interpretano delle parti.

I PRINCIPALI RUOLI SEMANTICI


Questa lista non è stabile e la semantica è piuttosto soggettiva. Questi sono comunque i criteri che bene o
male sono accettati da tutti ma la semantica non può essere rappresentata in schemi matematici.

Un partecipante all’interno di un enunciato può rappresentarsi come:

- Agente: colui che agisce, è solitamente umano e compie volontariamente un azione e ho bisogno di
una persona/ cosa che compie l’azione e l’azione per es. Gianni mangia una mela.
- Paziente: l’entità che subisce l’azione compiuta dall’agente, per es. Gianni mangia una mela.
- Esperiente: colui che prova un certo stato psicologico o anche fisico con verbi tra cui piacere, esser
malato etc., per es. A Marta piace il gelato.
- Stimolo: l’elemento che causa questo stato fisico o psicologico. A Marta piace il gelato: piacere è il
nostro verbo, Marta è l’espediente che prova questa azione e l’elemento che le causa questo (ma
non che compie l’azione), lo stimolo è il gelato.
- Beneficiario: colui che trae beneficio dall’azione, per es. Gianni regala un libro a Marta.
- Strumento: l’entità inanimata mediante la quale avviene ciò che accade o che è fattore non
intenzionale dell’azione, per es. Gianni taglia la mela col coltello; il vento ha aperto la porta, il
vento è uno strumento.
- Destinazione: l’entità verso la quale si dirige l’azione, per es. Marta parte per Roma di solito sono
espressi da complimenti di ruolo.
- Altri: locativo; provenienza; dimensione; comitativo

L’importante è che ci ricordiamo che ruoli semantici non corrispondono a quelli sintattici, sono due cose
diverse: io posso avere ciascuno di questi ruoli semantici ma nella frase questi possono assumere diverse
configurazioni sul piano sintattico per cui uno strumento può essere un complemento indiretto o un
complemento di mezzo per esempio che non fa parte della struttura argomentale del verbo, può essere
aggiunto o può anche essere il soggetto della frase. Il paziente può tipicamente essere l’oggetto del verbo
transitivo ma anche il soggetto della frase. Questi ruoli semantici sono quindi indipendenti da quelli
sintattici. Vediamo degli altri esempi qui sotto.

RUOLI SINTATTICI E RUOLI SEMANTICI

Tra funzioni sintattiche e ruoli semantici non c’è corrispondenza biunivoca, ma semmai un rapporto
preferenziale, per cui ciò che ha ruolo di agente tende a comparire come soggetto nella struttura sintattica,
mentre ciò che ha ruolo di paziente tende a comparire come oggetto.

1) Gianni ha aperto la porta. Qui la porta è un paziente sul piano semantico ed è un oggetto su quello
sintattico
2) La porta si è aperta. Semantico: paziente ma sintatticamente è il soggetto della frase
3) Il vento ha aperto la porta. Semantico: paziente sintattico complemento oggetto

Funzioni sintattiche: (1) complemento oggetto, (2) soggetto, (3) complemento oggetto.
Ruoli semantici: (1), (2), (3) paziente.

Sono 3 ruoli semantici diversi dati al soggetto.


I ruoli semantici però rimangono sempre gli stessi. I ruoli sintattici sono diversi ma quelli semantici no
perché il significato della frase non cambia.

TEMA E REMA

Dal punto di vista pragmatico comunicativo = che ha a che fare con il modo in cui il parlante usa le
espressioni linguistiche per comunicare, in un enunciato io posso distinguere tra due elementi: ciò di cui si
parla e ciò che viene detto. Il primo è il tema (topic) mentre l’informazione che viene data sul tema, cioè
sulla cosa di cui si pala, viene chiamato rema.

Dal punto di vista comunicativo (o pragmatico-informativo), in un enunciato si può distinguere «ciò di cui
si parla» e «l’informazione che viene data su ciò di cui si parla».

Ciò di cui si parla è il tema (o topic); l’informazione che viene data è il rema (o comment).

In gran parte degli enunciati delle frasi di qualunque lingua riusciamo sempre a trovare un tema e un rema.
Il tema generalmente si trova in prima posizione.

Spesso il tema coincide con il soggetto sintattico, ma non sempre:

A seconda dell’intenzione comunicativa del parlante, la frase verrà espressa in modo diverso. Voglio
concentrare l’attenzione del parlante su una certa cosa. L’elemento dislocato a testa è il tema: è alla fine e
non all’inizio della frase lo bevo amaro il caffè, è comunque in una posizione di rilievo.
Quando parliamo di soggetto intendiamo il soggetto grammaticale, quindi l’argomento del verbo che è
obbligatoriamente in accordo con il verbo per le categorie di persona e di numero mentre sul piano
semantico si piò configurare come agente, come strumento, paziente etc. a seconda del tipo di frase e sul
piano pragmatico comunicativo non coincide necessariamente con ciò di cui si parla, può essere diverso.
Questi tre piani vanno sempre distinti perché sono di fatto tre diversi livelli di analisi: uno è più sintattico,
uno semantico e l’altro ha a che fare con il campo comunicativo, è affine alla semantica ma non coincide
esattamente con questa. L’ultimo dipende da che cosa vuole mettere in evidenza il parlante.

CATEGORIE FLESSIONALI

Queste le vediamo parlando di sintassi perché riguarda la morfologia perché sono per lo più espresse da
morfemi legati ma queste categorie flessionali hanno rilevanza per la sintassi perché sono quelle da cui
dipendono le relazioni sintagmatiche. Abbiamo appena visto che la relazione tra soggetto e oggetto del
verbo è una relazione di accordo che non è altro che una condivisione degli stessi valori relativamente tra
due categorie flessionali: la persona e il numero. Queste categorie entrano nelle due categorie: accordo e
reggenza.

Parliamo di accordo quando due o più elementi in un sintagma o una frase hanno gli stessi valori per
determinate categorie lessicali. Normalmente nell’accordo c’è un controllore dell’accordo che è l’elemento
che ha questi valori per queste categorie e le impone con tutti gli elementi che sono in accordo. Un
esempio di questo è il sintagma nominale in italiano, in questo io ho un nome che è la testa del sintagma
perché è il controllore dell’accordo il cane, ha un genere inerente (maschile, singolare, un numero flessivo)
e tutti gli specificatoti o modificatori in accordo con questo prenderanno i valori per essere in accordo con
questo in genere e in numero: il cane bello = bello è in accordo con il maschile singolare ma se avessi avuto
il plurale sarebbe stato diverso: i cani belli. La stessa cosa funziona con oggetto e verbo: il soggetto è
espresso con un sintagma nominale che ha per testa un nome ed è questo che è il controllo re dell’accordo
e determinerà il resto. Le categorie stavolta non sono genere e numero come nel nome ma la persona e il
numero, come abbiamo appena visto: il cane corre, terza persona singolare, i cani corrono, terza persona
plurale.

L’altra relazione sintagmatica che pure interessa le categorie flessionali e che abbiamo visto è la reggenza.
Questo è il rapporto che c’è tra due elementi della frase dove uno assegna a un altro elemento un certo
valore per una categoria flessionale ma questo valore non è condiviso dall’elemento reggente.
Generalmente la reggenza ha a che fare con i casi, un verbo può reggere un certo caso e lo stesso vale per
le preposizioni ma queste, come i verbi, di per sé non hanno un caso ma possono assegnare un caso. In
latino un verbo transitivo assegna al suo secondo elemento un caso accusativo mentre in italiano un verbo
transito assegna il caso accusativo al suo secondo elemento se questo è un pronome, per esempio, colpisce
me non io. Il verbo assegna al pronome il caso, l’accusativo o il complemento oggetto ma il verbo non ha un
caso. Nella reggenza si assegna un certo valore ma non lo si condivide. Aldilà del pronome lo vediamo
perché alcuni verbi hanno il sintagma nominale mangia la mela e altri un sintagma preposizionale piace a
Luca, questo è determinato dalla reggenza (il secondo o terzo elemento sono determinati dal verbo che li
reggono).

Quindi abbiamo un accordo, una relazione, tra soggetto e verbo (= quindi tra il verbo e il suo primo
elemento) e di reggenza tra il verbo e tutti gli altri elementi e una relazione sempre di reggenza tra
preposizione (che non ha flessione) e l’elemento che la regge.

In alcuni dialetti italiani, il caso assegnato al secondo elemento è diverso come un caso preposizionale
colpisce a me = mi colpisce, piace a me = mi piace, il verbo assegna al suo secondo elemento un caso. Con i
pronomi è facile ma con i nomi, sintagma nominale o preposizionale quindi, è un po' difficile.

Quali sono queste categorie flessionali: tempo, persona e modo.


Le desinenze delle parti del discorso variabili esprimono le diverse categorie flessionali: genere, numero,
caso, tempo, persona, modo.

Se due parole hanno le stesse categorie flessionali, si parla di accordo; se invece una parola ha una certa
categoria flessionale perché questa le è assegnata da un’altra parola con categorie flessionali diverse, si
parla di reggenza (per esempio, i nomi hanno un determinato caso perché questo viene loro assegnato dai
verbi).

Questo elenco sopra vale solo per l’italiano e questi elementi sono in varie parti del discorso. In italiano
l’italiano non è una categoria di genere dei verbi e nella frase sono in ordine arbitrario.

GENERE, NUMERO E PERSONA

Il genere non va confuso con il sesso dei referenti. In italiano, ogni nome viene classificato come maschile o
come femminile; in altre lingue esistono altre possibilità (per esempio il genere neutro) o sistemi di
classificazione di altro tipo. Si parla di derivazione sindaca non esisteva una volta e nemmeno mammo. I
nomi, anche quelli di altre lingue, vengono messe nella nostra lingua e si da un genere a queste di solito
maschile = non marcato e femminile = marcato: i bambini = possono essere o maschi o femmine o
entrambi, è generico mentre gatte è femminile, è specifico. Per indicare i maschi devo polarizzare,
specificare i miei studenti maschi / agli studenti e non alle studentesse perché il maschile è generale in
italiano, non specifica il sesso.

In italiano – così come in altre lingue – il genere è indicato non solo dalla testa di un sintagma nominale (il
nome), ma viene espresso anche da tutto ciò che la accompagna (articoli e aggettivi). In altre lingue ciò non
avviene.

In alcuni casi, l’accordo di genere si realizza anche tra verbo e predicato (con predicati nominali e forme
verbali composte): questa donna è alta / quest’uomo è alto; Maria è andata a casa / Luca è andato a casa.
In altre lingue questo non succede (ted. dieser Mann / diese Frau ist groß).

In italiano il numero è una categoria flessionale che riguarda sia i nomi che i verbi (verbi e nomi hanno
flessione). In italiano abbiamo due numero: singolari e plurali ma il numero plurale non corrisponde al
numero di individui per forza per esempio se dico il cane è un mammifero, non è che è solo quel singolo
cane che è un mammifero.

In italiano si distinguono solo due numeri, singolare e plurale, mentre altre lingue hanno maggiori
possibilità (duale, triale, paucale, ecc.).

In italiano, l’accordo di numero si realizza tra la testa del sintagma nominale e tutti i suoi modificatori (per
es. questi nostri gatti bianchi) e tra soggetto e predicato (i ragazzi corrono, i ragazzi sono alti). In altre lingue
ciò non si verifica (ingl. the tall boys; these boys are tall).

Prof. Valerio Pisaniello 06/12/2022

Oggi abbiamo parlato delle categorie flessionali: persona, caso, tempo, aspetto, modo; la classificazione
tipologica su base sintattica e gli universali implicazionali.

GENERE, NUMERO E PERSONA

Il nome da solo, in italiano, non ci dice di che genere è il nome, vediamo il caso di lupo e mano, uno è
maschile e l’altro è femminile e questo lo vediamo solo nell’accordo di genere. Questo non è quindi
espresso morfologicamente, lo vediamo solo nell’accordo. Allora, i nomi non flettono per genere (o si ma
per derivazione, non si chiama genere quello).
Le persone grammaticali sono tre: «colui che parla» (prima persona), «colui a cui ci si rivolge» (seconda
persona), «colui di cui si parla», o, meglio, «colui che non entra nel dialogo» piuttosto che colui di cui si
parla, lui è l’elemento che non entra nel dialogo quindi nel rapporto tra parlante e ascoltatore (terza
persona), perché «colui di cui si parla può corrispondere anche alla prima o alla seconda persona».

Tale tripartizione si riproduce nei diversi numeri.

Alcune lingue distinguono, nella prima persona plurale, un noi inclusivo (comprendente anche
l’ascoltatore) e un noi esclusivo (non comprendente l’ascoltatore).

IL CASO

Il caso indica la relazione che un elemento nominale ha con le altre parole della frase in cui si trova. Questo
mi da la funzione logica del nome all’interno della frase. In italiano riguarda solo i pronomi Queste relazioni
si trovano in tutte le lingue, ma non tutte le esprimono attraverso un caso. In latino questo era espresso con
i casi ma in italiano si fa tramite le parole (ci dicono quale è il soggetto e quale è l’oggetto: il cane insegue il
gatto, è solo l’ordine delle parole che ci da la funzione) dato che in italiano abbiamo perso i casi, il caso in
latino ci faceva capire quali elementi fossero i soggetti e quali i verbi:

(a) Il ragazzo ha dato una rosa a Maria

(b) Puer rosam dedit Mariae

(a) e (b) comprendono lo stesso verbo trivalente (dare) e i tre argomenti (soggetto, oggetto e complemento
di termini).

Le relazioni tra gli argomenti e il verbo sono espresse, in italiano, da:

1) l’ordine delle parole (il ragazzo è il soggetto, una rosa è l’oggetto), che non può essere invertito;

2) l’uso di un morfema grammaticale libero (la preposizione a) per l’espressione del complemento di
termine, che può essere spostato all’interno della frase.

In latino, invece, l’ordine delle parole è molto più libero, perché le funzioni di soggetto e oggetto non
dipendono dalla posizione all’interno della frase, ma sono espresse morfologicamente dalla desinenza.

L’italiano mantiene una flessione di caso solo nei pronomi (io / me; tu / te, ecc.), e così anche l’inglese (I /
me, he / him, ecc.).

Nelle lingue che hanno i casi, il loro numero può variare (per l’indoeuropeo se ne possono ricostruire 8, il
latino ne aveva 6, il greco 5, il tedesco ne ha 4; tra le lingue non indoeuropee, il finlandese ne ha 16).

Con il caso finiamo le categorie tipiche nominali. Passiamo ora ai verbi.

TEMPO E MODO

Tempo cronologico e tempo grammaticale non sono la stessa cosa:

1) ci sono lingue, come il cinese, che non distinguono tempi grammaticali, pur avendo dei mezzi per
esprimere il tempo cronologico;

2) non c’è coincidenza assoluta tra tempo grammaticale e tempo cronologico (cf. domani vado al mare;
sarà anche vero quello che mi dici, ecc.).
La relazione tra i due non è scontata ma fortemente arbitraria, alcuni morfemi fanno riferimento ai diversi
tempi cronologici degli elementi extralinguistici.

Per l’analisi del tempo grammaticale, un testo o una frase, bisogna tener presente tre cose: il momento
dell’enunciazione (quello nel quale l’enunciato viene prodotto), il momento dell’evento (quello in cui si
verifica l’evento che si descrive) e il momento di riferimento (il momento rispetto al quale si colloca
l’evento), un punto di ancoraggio temperare rispetto al quale l’azione descritta dall’enunciato può essere
anteriore, posteriore o successiva (o simultanea?).

Se io combino questi 3 parametri e li metto su una linea del tempo, vediamo che:

alle 5 è un momento di riferimento, Antonio era già uscito = anteriore al tempo di prima e capisco che sto
parlando di un’azione passata. Ho un momento dell’enunciazione che è l’ultima cosa sulla linea del tempo,
mi riferisco a una cosa che era successa prima quindi alle cinque e poi un evento ancora prima Antonio era
già uscito.

Il futuro anteriore serve a indicare tra le altre cose un evento futuro ma precedente a un momento di
riferimento = Alle 5 Antonio sarà giù uscito = è un passato nel futuro.

Dall’ordine di questi 3 tempi verbali dipende la distinzione dei vari tempi. Questa può sembrare superflua
ma dietro c’è una specifica architettura temporale che prevede che tutti i tempi siano nell’ordine giusto.

UN ESEMPIO DI ANALISI TEMPORALE

Vediamo un esempio di un analisi temporale di un testo ora.

Filippo ha telefonato (MA1 ) a sua madre e ha saputo (MA2 ) che Teresa è malata (MA3 ). Naturalmente, è
partito (MA4 ) per andarla a trovare. Ha detto (MA5 ) che torna domani (MA6 ). Tutto ciò è successo (MA7 )
mentre tu eri al lavoro (MA8 ).
Questi sono momenti di avvenimento, ci sono tanti avvenimenti diversi, sono 8 e ognuno di questi
rappresenta a un evento dell’avvenimento e sono tutti sulla linea di tempo ma per rappresentare una cosa
così completa bisogna proiettarle fuori da questa linea.

- Filippo ha telefonato (MA1 ) è l’arco temporale in cui si svolge l’azione.


- a sua madre e ha saputo (MA2 ) sottoinsieme di MA1.
- che Teresa è malata (MA3 ) poteva comprendere tutta la linea visto che essere malati è una cosa
che si protrae nel tempo.
- Naturalmente, è partito (MA4 ) sicuramente prima del momento dell’enunciazione ma dopo la
chiamata con la madre quindi la partenza di Filippo la mettiamo proiettata in su.
- Ha detto (MA5 ) che torna domani (MA6 ), immaginiamo che l’abbia detto prima di partire ha detto
ma con domani siamo nel futuro.
- Tutto quello che è successo, con la telefonata di Filippo, che è partito e tutto, è successo (MA7 )
mentre tu eri al lavoro (MA8 ) quindi è un sottoinsieme.

Questo spiega molto delle forme e i sistemi verbali che dobbiamo usare, soprattutto perché in italiano il
sistema verbale è molto articolato. Ci aiuta anche a capire le relazioni tra i diversi tempi.

TEMPO E MODO

In italiano alcune cose però, non si spiegano assumendo un valore temporale, per esempio la distinzione tra
imperfetto e passato remoto (in italiano standard, lasciamo stare i dialetti). Altri «tempi» italiani si
distinguono in realtà non sul piano temporale, ma su quello aspettuale. L’aspetto è l’interpretazione
soggettiva di un’azione, vista nel suo svolgimento (aspetto imperfettivo) o nella sua globalità (aspetto
perfettivo):

(a) Quel mattino, Giovanni andava a scuola.


(b) Quel mattino, Giovanni andò a scuola.
(c) Quel mattino, Giovanni andava a scuola, ma non vi giunse mai.
(d) *Quel mattino, Giovanni andò a scuola, ma non vi giunse mai. Questa frase non è grammaticale ma
questa cosa si è persa (per quello questa cosa potrebbe essere giusta, il passato remoto vede l’azione nella
sua globalità ma la frase qui è agrammaticale in italiano standard.
L’imperfetto è l’azione imperfettiva, ci da un senso di indeterminatezza ma l’altro tempo è completo,
perfetto e quindi comprende l’elemento finale dell’azione. Sono due tempi ma l’opposizione di questi due
tempi non è temporale.

Tra imperfetto e passato remoto non c’è alcuna differenza temporale, non è che uno è un passato più
lontano dell’altro, sono entrambi dei passati, normalmente si riferiscono a qualcosa che avviene prima del
momento dell’enunciazione ma la differenza ha a che fare con un’altra categoria del verbo che è l’aspetto.
L’aspetto è il punto di vista del parlante sull’azione. Quindi è una categoria perlopiù soggettiva, quando
parlo posso scegliere di presentare un’azione in corso di svolgimento o nella sua interezza senza analizzarla.
In corso di svolgimento vuol dire non visualizzare il suo momento conclusivo, che rimane aperto,
indeterminato mentre un’azione visualizzata nella sua globalità include necessariamente quel momento.
Vediamo le frasi sopra di Giovanni per capire:

- Frase a, non sappiamo se Giovanni è arrivato a scuola, possiamo compilarla come vogliamo, anche
aggiungendo la frase c.
- Frase b, abbiamo la frase completa

Il modo esprime l’atteggiamento del parlante rispetto all’evento descritto dal verbo: l’indicativo esprime la
constatazione di un fatto, il congiuntivo un desiderio, un augurio o una condizione, il condizionale una
possibilità o un’irrealtà, l’imperativo un ordine.

Accanto a questi modi, detti finiti, l’italiano dispone anche di modi non finiti, che non distinguono cioè la
persona e il numero: infinito, participio e gerundio, questi sono quindi la forma nominale = si comportano
più come nominali che verbi (si comportano come nomi e vengono anche convertiti in nomi tipo dire – il
dire – tra il dire e il fare. Il participio è un aggettivo verbale: ha una flessione di numero, non
necessariamente di genere ma il participio passato si, lo vedremo più avanti mentre il gerundio è in parte
nome verbale e in altre aggettivo verbale).

Altre lingue hanno anche la flessione, un nome come cambiamento o trasformazione sarebbero inclusi nel
paradigma di cambiare e trasformare, un modo non finito del verbo.

CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA SU BASE SINTATTICA

Ricordiamo che le lingue possono essere tipologicamente raggruppate, indipendentemente dalle loro
qualità interne per esempio alcune sono imparentate insieme e hanno strutture diverse e altre no. Non è
detto che una lingua abbia lo stesso tipo di un’altra, per esempio l’inglese è tipologicamente più simile al
cinese piuttosto che al tedesco, anche se appartengono allo stesso sottogruppo. Stessa cosa per italiano e
latino, la perdita dei casi ha portato a un nuovo ordine delle parole.

La tipologia sintattica si è sviluppata soprattutto negli anni Sessanta del Novecento, grazie al linguista
americano Joseph Greenberg che ha messo una serie di proprietà linguistiche che sono considerate
universali. Sono delle tendenze generali che funzionano per un numero di lingue che vanno oltre la
casualità.

Si basa sull’osservazione che, nelle lingue del mondo, esistono delle correlazioni sistematiche tra l’ordine
delle parole nella frase e altre combinazioni sintattiche. Quindi il fatto che una lingua abbia l’oggetto prima
o dopo del verbo determina per esempio la presenza di preposizioni o posposizioni.

Le combinazioni sintattiche rilevanti ai fini della classificazione tipologica sono:

1. la presenza di preposizioni (Pr) o posposizioni (Po): l’italiano è una lingua con preposizioni (per es.
il libro di Maria), mentre il giapponese è una lingua con posposizioni (Tanaka-san no hon ‘il libro di
Tanaka-san’);

Le principali combinazioni sintattiche rilevanti per la classificazione tipologica su base sintattica sono quelle
che vediamo qui (punti 1- 4)

2. la posizione del verbo (V) rispetto al soggetto (S) e all’oggetto (O) nelle frasi dichiarative. Gli ordini
possibili sono SVO, SOV, VSO, VOS, OSV, OVS. Di questi, SVO, SOV e VSO sono ben attestati nelle lingue del
mondo, mentre VOS è molto raro;
3. l’ordine dell’aggettivo (A) rispetto al nome (N): le possibilità sono AN (ingl. old house) oppure NA (it.
casa vecchia);

4. l’ordine del complemento di specificazione (G = genitivo) rispetto al nome che modifica (N): le
possibilità sono GN (giapponese Tanaka-san no hon) o NG (it. il libro di Maria).

Dall’analisi delle diverse lingue del mondo, è emerso che esistono delle correlazioni sistematiche tra queste
costruzioni, nello specifico:

1. VSO / Pr / NG / NA (lingue celtiche, arabo, ebraico e altre lingue semitiche)


2. SVO / Pr / NG / NA (lingue romanze) = se una lingua ha struttura SVO avrà preposizioni, il nome genitivo e
il nome del complemento di specificazione nome + aggettivo. La cosa rilevante è la posizione dell’oggetto
rispetto a quella del soggetto (caso 1)
3. SOV / Po / GN / AN (lingue altaiche, giapponese)
4. SOV / Po / GN / NA (basco)

Ovviamente poi queste lingue mutano, cambiano nel tempo.

Queste formule rappresentano gli universali implicazionali: correlazioni sistematiche tra un certo ordine
degli elementi del verbo, in particolare dell’oggetto rispetto al verbo e altri ordini, combinazioni sintattiche.

Non mancano eccezioni (per es. le lingue slave sono SVO, ma hanno l’ordine AN) e non è sempre facile
stabilire quale sia l’ordine delle parole in una determinata lingua (per es. il tedesco ha l’ordine SVO nelle
frasi principali e SOV nelle dipendenti).

Tuttavia, alcune di queste eccezioni sono solo apparenti o possono essere spiegate in vario modo.

Prof. Valerio Pisaniello 13/12/2022

Oggi abbiamo iniziato a parlare della semantica e alla pragmatica; il rapporto tra linguaggio e realtà
extralinguistica; significato, denotazione e riferimento; semantica lessicale: ambiguità semantiche
(polisemia e omonimia).

SEMANTICA E PRAGMATICA

Oltre agli aspetti «interni» (i suoni, la struttura delle parole e la loro combinazione in sintagmi e frasi), il
linguaggio umano ha anche una dimensione «esterna»: il linguaggio si riferisce al mondo e ci permette di
comunicare agli altri la nostra visione del mondo. In altri termini, le espressioni del nostro linguaggio hanno
un significato, che viene comunicato da un parlante a un ascoltatore, quindi nella realtà (le usiamo per
parlare della realtà), questa è una relazione complessa e non è scontata.

Il significato delle espressioni linguistiche è l’oggetto di studio della semantica (= le espressioni hanno un
significato che si riferisce a una parte della realtà), mentre il loro uso è l’oggetto di studio della pragmatica
(= posso usare queste cose per esprimermi in modi diversi, esprimere le mie intenzioni di me come
parlante).

Il significato di una parola o di una frase è il «segmento di realtà» a cui quella parola o quella frase si
riferisce. È difficile però scegliere il numero di tratti oggettivi che definiscono per esempio la parola cane. È
più facile definire cose tipo il suono delle parole etc. lo stesso vale per i termini che noi chiamiamo maschili
e femminili, il tavolo e la sedia sono maschili e femminili anche se questi non hanno sesso. Quindi, finché
rimaniamo sul piano delle espressioni, non abbiamo molte divergenze ma se ci spostiamo alla relazione
esterna, di come la lingua è in contatto con la realtà, è difficile trovare delle regole precise e stabili (un
poeta domani potrebbe prendere un’espressione linguistica e cambiarne completamente il significato
usando una metafora, quindi va a cambiare il piano dei significati). Insomma, il rapporto tra linguaggio e
realtà non è una cosa scontata.

Il significato di una parola è il segmento della realtà a cui quella parola o quella frase fa riferimento.

La competenza dei parlanti si manifesta indicando un certo segmento di realtà con l’espressione
appropriata.

Questo però diventa complesso se devo spiegare una definizione, un concetto linguistico astratto come
partenza. In più, la semantica riguarda le frasi, i testi. Per questo è complicata.

Per molti filosofi, nella definizione di significato riveste un ruolo importante la nozione di verità:
comprendere il significato di una frase è comprendere le condizioni in cui essa risulta vera, mentre
comprendere il significato di una parola è comprendere il contributo che essa dà alle condizioni di verità di
una frase. Per poter comprendere se la frase Oggi c’è il sole è vera o falsa, io devo capire, per esempio, il
significato di sole. Però per un linguista una cosa così non può andare bene perché non tutte le frasi hanno
un valore di verità cioè di giudizio sulla verità.

Ma una definizione di significato basata sulla nozione di verità può andare bene per le frasi dichiarative (per
es. Ieri sono partito per Roma), non per quelle imperative o interrogative, che non hanno un valore di
verità.

Sebbene tale obiezione si possa facilmente superare assumendo che le condizioni di verità di una frase
interrogativa sono tutte quelle frasi che costituiscono una risposta vera alla domanda posta, appare
riduttivo considerare il significato semplicemente come un rapporto tra linguaggio e realtà. È come se le
espressioni linguistiche debbano per forza indicare la realtà ma questa cosa non c’è dato che abbiamo
arbitrarietà tra espressione linguistica e la realtà extralinguistica. Si la lingua viene usata per parlare della
realtà e uno degli atti comunicativi è il referente ma il rapporto che c’è tra lui che rappresenta la realtà
esterna e l’espressione linguistica è arbitraria.

Ogni lingua si riferisce alla realtà in modo diverso [→ arbitrarietà del significato]:

Nel primo caso stesso significato ma significante diverso. Per dita in italiano abbiamo un concetto ma in
inglese due come dita delle mani e dita dei piedi. Ogni lingua è arbitraria, anche se la realtà è la stessa per
tutti.

Il fatto che le lingue si riferiscano alla realtà in modo diverso, non vuol dire che i parlanti vedano la realtà in
modo diverso! Se dico Gianni è scapolo, capiamo tutti che Gianni non è sposato. Il parlante italiano riesce a
interpretare il significato senza interpretarlo e non gli interessa chi sia. Conoscere un Gianni non è
fondamentale per comprendere questa relazione linguistica, anche se questa frase non centra con la realtà
diretta, individuale della frase (io posso non sapere chi sia Gianni o sapere se la frase sia vera o meno, ma
comunque la capisco).
Ma il rapporto tra linguaggio è realtà non è così semplice come potrebbe sembrare: le espressioni
linguistiche non si limitano a «denominare» la realtà.

Esistono infatti espressioni linguistiche che ciascun parlante nativo di una lingua è in grado di cogliere senza
alcun bisogno che il rapporto tra lingua e realtà entri in gioco (una frase come Gianni è scapolo è
interpretabile da qualsiasi parlante italiano come Gianni non è spostato, anche senza sapere se ciò sia vero
e anche senza sapere chi sia Gianni).

Un altro caso che mostra chiaramente quanto sia complessa la relazione tra espressioni linguistiche e realtà
è dato dall’uso non letterale di queste espressioni linguistiche. Ci sono tante espressioni metaforiche che
usiamo ogni giorno come andiamo a bere un bicchiere?, non sto parlando di bere il bicchiere! Il parlante
nativo riesce direttamente a capire il significato.

Il riferimento letterale a un certo tipo di realtà non corrisponde sempre al significato che il parlante vuole
trasmettere (talora, per esempio, un comando può essere espresso, in maniera più gentile, in forma di
domanda, per es. Vuole uscire?: si tratta di un tipico esempio di fenomeno pragmatico).

Anche le frasi possono essere usate in forma non letterali, per esempio se dico Puoi dirmi che ore sono? Io
non mi aspetto che la persona mi dica Si, posso, ci aspettiamo una risposta con l’orario quindi il significato
non è letterale.

L’aggancio con il referente non è necessario.

SIGNIFICATO, DENOTAZIONE E RIFERIMENTO

Non solo una stessa realtà può essere presentata in modo diverso da due lingue diverse (per es. ingl. wood
vs. it. bosco, legno), ma una stessa realtà può essere presentata in modo diverso anche all’interno di una
stessa lingua.

La città indicata dal nome Roma è la stessa di quella indicata dal sintagma la capitale d’Italia: di
conseguenza, ognuna delle due espressioni dovrebbe poter essere intercambiabile con l’altra, senza che ciò
muti il significato di una frase.

Tuttavia, una frase come Roma è Roma è ben diversa da Roma è la capitale d’Italia: la prima frase è infatti
totalmente vuota dal punto di vista informativo.

Anche in questo caso è dunque necessario distinguere tra la realtà indicata dal linguaggio e il modo in cui
tale realtà è indicata. Molti filosofi e linguisti hanno fatto questo.

Il modo di indicare la realtà mediante espressioni del linguaggio è detto significato, mentre la realtà
denotata da tali espressioni è detta riferimento (nella terminologia del logico tedesco G. Frege, i due
concetti corrispondono rispettivamente a senso e significato).

Il significato è costituito dai concetti espressi in ciascuna lingua, attraverso i quali ci riferiamo alla realtà
esterna alla lingua.

C’è un unico significato ma 3 sensi diversi tipo se dico Dante posso indicare La Commedia o il poeta. Si parla
di significato = quello che da il senso, il modo in cui indichiamo i pezzi delle realtà e il riferimento.

Le diverse lingue possono riferirsi all’identica realtà esprimendo i significati in modo diverso.
Un terzo concetto è quello di denotazione, che per alcuni coincide con il riferimento, per altri è da tenere
distinto: denotazione riguarderebbe il lessema in quanto tale, riferimento il suo uso in una frase
determinata, possono avere due significati diversi:

a) Il gatto è un animale domestico. la denotazione è quello che troveremo nel dizionario, è la


spiegazione generale della parola.
b) b) Il gatto sta dormendo sulla poltrona. Questo non è lo stesso gatto, ha un significato diverso. Il
primo in frase (a) è una specie, mentre in questa frase parlo di un esemplare specifico di gatto. Se
inserisco un espressione in un contesto specifico, linguistico, non è più una denotazione ma
acquisisce un significato specifico.

Nei due esempi, la denotazione è la stessa e corrisponde alla definizione di gatto che si trova nei dizionari. Il
riferimento è invece diverso: in (a) è la specie dei gatti, in (b) è un esemplare determinato.

Ci sono poi parole per le quali è più complesso stabilire quali siano la denotazione e il riferimento, per
esempio Pegaso, drago, deduzione, presupporre, e, o, se, ecc. con il linguaggio, con le espressioni
linguistiche, io non sono obbligato a parlare di quello che esiste, solo al mondo fisico ma a una pluralità di
mondi possibili, io posso parlare di queste cose come se esistessero. La lingua non serve a denominare la
realtà.

Varie soluzioni sono state proposte: 1) tali parole avrebbero un significato, ma non denotazione e
riferimento: sono comprese dai parlanti solo in virtù delle connessioni che intrattengono con le altre parole
della lingua, e non indicano alcun oggetto nel mondo reale; 2) il nostro linguaggio non si riferisce solo a
oggetti del mondo reale, ma anche a oggetti che non fanno parte di questo mondo, e questa è una
prerogativa importante del linguaggio umano, senza la quale non esisterebbero le opere letterarie.

Insomma, il linguaggio umano ha la possibilità di riferirsi non solo al mondo reale, ma anche a una pluralità
di mondi possibili. Ciò non significa che esistono effettivamente mondi in cui esistono i draghi o Pegaso,
significa che, tramite il nostro linguaggio, possiamo riferirci a questi mondi come se esistessero.

Allo stesso modo, anche i concetti astratti possono essere trattate come cose concrete dal nostro
linguaggio.

La semantica non è una teoria della realtà, ma del modo in cui gli esseri umani si riferiscono ad essa tramite
il linguaggio. Anche se si riferisce a pezzi della realtà, è piuttosto lo studio di come gli esseri umani si
riferiscono alla realtà attraverso il linguaggio. Siamo in una dimensione comunque linguistica, è chiaro che
c’è una relazione con la realtà extralinguistica ma è molto arbitraria e la parte più importante è come
queste espressioni linguistiche hanno a che fare con la realtà.

SEMANTICA LESSICALE

Alcuni lessemi, anzi quasi tutti, delle lingue umane hanno la proprietà di essere ambigui, cioè di poter avere
più di un significato che non è di immediata comprensione.

Per esempio, la parola esecuzione indica tanto la realizzazione di una determinata opera quanto la messa in
atto di una certa pena (in particolare la pena capitale); oppure la parola vite indica sia una pianta sia un
utensile.

Nel primo caso (esecuzione), si avverte una certa relazione tra i due significati (l’esecuzione di una
condanna a morte è in effetti la realizzazione di un atto), mentre nel secondo (vite) è meno evidente
(l’utensile trae il suo nome dal fatto che la filettatura ricorda il viticcio della pianta).

POLISEMIA E OMONIMIA
Le espressioni linguistiche sono ambigue = hanno più significati (le parole e le espressioni). L’ambiguità di
lessemi come esecuzione rappresenta un caso di polisemia, quella di lessemi come vite, un caso di
omonimia.

Per polisemia si intende il fatto che una parola presenti più significati fra di loro in qualche misura collegati
(esecuzione, collo, mano, ecc.). il parlante capisce che sono accezioni di un’unica parola però.

Per omonimia si intende l’identità formale di due parole distinte, la cui relazione semantica non è più
avvertibile dai parlanti (benché un legame etimologico tra le due forme possa esserci, alla lontana), per es.
vite, boa ‘serpente’ e boa ‘galleggiante’, collo ‘parte del corpo’ e collo ‘bagaglio’, ecc. oggi non sono più
riconducibili dai parlanti, una parola si è emancipata dall’altra, in alcuni dizionari quindi sono diverse
entrate come vite = strumento e vite = uva.

Non è sempre facile distinguere tra i due e, in diversi casi, è il lessicografo che sceglie se riportare i diversi
significati sotto un unico lemma (polisemia) o se inserire due lemmi distinti (omonimia).

Prof. Valerio Pisaniello 15/12/2022

Oggi abbiamo parlato delle ambiguità semantiche (polisemia e omonimia), estensioni di significato
(metafora e metonimia), relazioni di significato (sinonimia e antonimia; antonimi contrari e contraddittori;
iperonimia e iponimia); analisi del significato in tratti semantici.

POLISEMIA

In molti casi, la polisemia di un termine può non essere registrata esplicitamente all’interno di un
dizionario. Ciò accade quando i significati del termine in questione sono molto vicini l’uno all’altro, benché
comunque diversi.

Per esempio, il verbo dimenticare può significare tanto «dimenticare di aver fatto qualcosa» quanto
«dimenticare di fare qualcosa», per es.

1) Gianni si era dimenticato di aver fatto l’albero di Natale e di notte ci è andato a sbattere contro.

2) *Gianni si era dimenticato di fare l’albero di Natale e di notte ci è andato a sbattere contro.

Esistono poi parole che assumono un numero indefinito di significati diversi a seconda dei diversi contesti in
cui ricorrono, per esempio buono: un ragazzo buono (= gentile, educato), un pianista buono (= bravo,
capace), una torta buona (= dolce, gradevole al gusto), un buon libro (= utile, educativo), ecc. Quindi la
denotazione è sempre positiva ma può avere significati diversi a seconda dei casi. Il riferimento, quindi,
dipende dal contesto linguistico.

La polisemia dell’aggettivo buono sta nel fatto che esso indica, genericamente, una «qualità positiva» del
nome con cui si combina, ma la natura precisa di tale qualità dipende dalle proprietà del nome stesso.

Nel caso di polisemia, quindi, un’unica espressione linguistica ha una pluralità di significati mentre per
l’omonimia abbiamo due o più diverse espressioni linguistiche che hanno ciascuna un significato ma non
sono collegate tra di loro.

L’omonimia può avvenire anche tra forme-parola come parto, che è un segno linguistico che ha degli
anonimi come parto – partorire oppure parto – io parto, quest’ultimo è un nome d’azione.

METAFORA E METONIMIA

Questi sono esempi di estensione del significato, è quello che creano questi due processi e possono creare
la polisemia (è un risultato, quindi, di questi due processi). Quindi, una parola ha un suo significato
originario e per estensione ne acquisisce anche altri.
Molte volte, all’origine dei diversi significati che ha una parola ci sono procedimenti metaforici o
metonimici. Si tratta di casi di estensione del significato.

Per metafora si intende l’uso traslato di una parola = un’estensione di significato, sulla base di una parziale
somiglianza tra il significato «fondamentale» di quella parola e quello traslato (nel caso di vite, per
esempio, c’è un’estensione metaforica dal significato di ‘pianta’ a quello di ‘utensile’ perché la filettatura
dell’utensile assomiglia al viticcio della pianta). Altri esempi possono essere: Luca è un fulmine, Mario è un
pezzo di pane, ecc.

Nel caso della metonimia, invece, il significato di una parola si estende ad un altro significato connesso al
primo per «contiguità», quindi è più per vicinanza che assomiglianza. Per esempio, nel caso di mano, che
vale innanzitutto ‘arto’, ma può significare anche un giro nel gioco di carte (perché le carte si distribuiscono
e si tengono con la mano) o una passata di vernice (che viene data con la mano).

Altri casi di metonimia sono , per esempio, l’autore per l’opera (leggere Dante), il contenitore per il
contenuto (bere una bottiglia), la parte per il tutto (tetti per indicare le case), ecc.

Ora ci spostiamo dai fenomeni di una parola o più parole con l stesso significato. Ci spostiamo ora vedendo
le relazioni tra segni linguistici diversi.

Queste distinzioni non sono sempre chiare. Guardiamo la parola corno come strumento musicale, è una
metafora o una metonimia? Quello strumento assomiglia al corno dell’animale, oggi si considererebbe una
metafora ma una volta era una metonimia perché lo strumento appunto era fatto apposta come il corno
dell’animale, solo che poi è diventato anche uno strumento musicale.

Quindi, quello che vediamo come metafora, in passato poteva avere un’origine diversa. Questo ce lo dice
solo l’analisi diacronica.

SINONIMIA E ANTONIMIA

Sinonimia è quando le parole hanno un significato simile ma sono parole evidentemente distinte. La
sinonimia non è mai assoluta, le parole non avranno mai esattamente lo stesso significato, tranne le
preposizioni italiane tra e fra anche se non le useremo in modo uguale (nel senso che quando uso una
normalmente, non sono intercambiabili). Per esempio, vecchio e anziano non hanno lo stesso significato,
posso dire che un gatto è vecchio ma non è anziano. Le differenze variano anche dal contesto e dallo spazio
e a seconda di fattori sociali (alto vs basso grado di istruzione etc.), se parlo con il Presidente della
Repubblica, uso un registro diverso rispetto a quello che uso per parlare con la mia best friend. C’è sempre
una differenza semantica quindi, anche se minima.

Antonimo è quello che viene banalmente definito il contrario di una parola ma non è detto. È quando due
lessemi esprimono significati in qualche modo opposti tra di loro ma le coppie di antonimi non sono tutte
uguali: alcune ammettono l’esistenza di entità intermedie (tra bianco e nero c’è grigio, tra freddo e caldo c’è
il tiepido), altre no (tra scapolo e sposato non c’è una via di mezzo).

Ci sono dunque due tipi di relazioni antonimiche: i significati che ammettono entità intermedie si dicono
contrari, mentre quelli che non le ammettono si dicono contraddittori, quindi non ci sono entità
intermedie, uno è opposto all’altro ma possono anche entrambi essere presenti in una mescolanza ma con i
contraddittori no, se c’è uno non può esserci anche l’altro.

Queste che vediamo qui non sono le uniche, ci sono anche tante altre relazioni di significato.

IPONIMIA E IPERONIMIA

Sono concetti in rapporto di reciprocità: non c’è uno senza l’altro. È quando il significato di una parola è
incluso nel significato dell’altra. Iper dal greco sopra e ipo = sotto.
I vari lessemi possono essere anche inclusi nel significato di altri lessemi, oppure includere il significato di
altri lessemi.

Per esempio, uccello include il significato di animale (un uccello è necessariamente un animale) ed è a sua
volta incluso nel significato di airone (un airone è un uccello). Dipende dal punto di vista in cui vediamo la
relazione. L’iponimo è tipo l’espressione dell’iperonimo, se il pesce è un tipo di animale, il pesce ha tutte le
caratteristiche che può rappresentare l’animale. Il pesce, essendo animale, deve essere vivente e non
umano quindi l’iponimo include l’iperonimo, ha tutti i tatti che costituiscono l’iperonimo. Se pensiamo alla
semantica quindi l’iponimo include l’iperonimo e ha anche più tratti semantici dell’iponimo. (donna –
moglie etc.?).

L’iponimo può essere promosso a iperonimo.

Uccello è iponimo di animale e iperonimo di airone.

ANALISI DEL SIGNIFICATO IN TRATTI SEMANTICI

Nella seconda metà del Novecento, alcune teorie linguistiche hanno cercato di rappresentare in modo
esplicito le relazioni di significato appena descritte, mediante un sistema di simboli che fa uso della nozione
di tratto semantico, inteso come caratteristica propria di quel lessema (per esempio [±animato], [±umano],
ecc.). Una di queste cosa l’ha fatta la fonologia, ci da la descrizione del suono. Il suono è qualcosa di fisico e
misurabile e anche la produzione del suono. Con i significati è più difficile.

In tal modo, la sinonimia tra due lessemi si può spiegare in termine di condivisione di tratti, mentre
l’antonimia in termini di valore opposto rispetto allo stesso tratto. Analogamente, iperonimia e iponimia si
spiegano in termini di aggiunta o mancanza di tratti (uccello ha più tratti di animale, airone più di uccello,
ecc.).

L’analisi del significato in tratti semantici pone tuttavia alcune difficoltà notevoli, per esempio il fatto che
non si riesce a definire un inventario finito di tratti semantici con i quali sia possibile descrivere tutte le
parole di una lingua (cosa che invece si può fare con i tratti fonologici per la descrizione dei suoni).

Quali sono i tratti semantici di qualunque parole, per esempio uccello? Animale, + animato, - umano, deve
avere delle ali, vola o non vola? Già questo è un problema, quasi tutti gli uccelli volano ma non tutti, deve
avere due zampe… siamo sicuri che questi tratti che individuiamo definiscono, anche linguisticamente,
l’uccello? Questa cosa non è scontata. Per certe lingue pure i pipistrelli sono uccelli perché considerano il
tratto volare. Balene in alcune lingue vengono considerate pesci. Quindi abbiamo un mescolamento tra
lingua e realtà, i tratti che usiamo per descrivere una specifica entità nel mondo reale, sono fortemente
pertinenti per una specificazione linguistica ma non sono necessariamente tratti rilevanti (semantica?). poi,
più specifica è l’entità, più specifici devono essere i tratti come tra struzzo e vacca.

Tuttavia, non per questo un’analisi di questo tipo deve essere abbandonata: si può semmai correggere o
precisare in vari modi, e ci sono diversi approcci che mirano a ciò.

Prof. Valerio Pisaniello 16/12/2022

Oggi abbiamo parlato della semantica frasale; principio di composizionalità; connettivi proposizionali;
contraddizioni, tautologie, analiticità e presupposizioni; frasi con quantificatori e pronomi; gli atti linguistici;
i performativi.

SEMANTICA FRASALE

Per quanto riguarda il significato delle frasi, l’ipotesi più semplice è che sia il risultato della combinazione
dei significati delle parole che le compongono: tale ipotesi costituisce il principio di composizionalità.
In molti casi, tale principio funziona, ma in altri meno, per due ragioni:

1) le frasi del linguaggio umano sembrano talora contenere qualcosa in più rispetto al significato dei singoli
elementi che le compongono; Non c’è nulla in morfologia che porta il soggetto e genere, questo lo vediamo
nell’ordine della frase, non nel singolo elemento.

2) alcune combinazioni di parole hanno un significato che non è ricavabile da quello delle singole parole da
cui sono costituite: le cosiddette espressioni idiomatiche (tagliare la corda, essere al verde, ecc.). Quindi
hanno un significato composizionale differente da quello che ci immaginiamo.

Nella frase, però, non ci sono solo i lessemi ma anche altri elementi ed è difficiline individuare il significato
di questi come le congiunzioni e, se, o, che significato hanno e che significato contribuiscono alla frase?

In ogni lingua ci sono parole il cui significato è difficile da analizzare, parole come e, se, o, ma. Secondo la
teoria tradizionale delle parti del discorso, tali parole sono congiunzioni, servono cioè a combinare parole e
frasi, producendo, in questo secondo caso, frasi complesse. Per tale motivo, sono dette anche connettivi
proposizionali (o frasali).

Prendiamo per esempio le frasi dichiarative, quindi che esprimono un giudizio. Questi connettivi influiscono
sul valore di verità delle frasi in un modo che è indipendente poi dalla constatazione della realtà: con questi
connettivi posso sapere il valore di verità senza avere il bisogno di un aggancio alla realtà, posso solo stare
nel piano linguistico. Per esempio, Oggi piove e non piove, presa singolarmente questa dichiarazione non è
vera perché il connettore e mi unisce due cose contraddittore, una deve essere vera e l’altra è falsa e
questo lo capisco guardando il piano linguistico, non è necessario che io guardi fuori dalla finestra. Se uso e,
le frasi devono entrambi essere vere.

Una frase semplice che esprime un giudizio ha un valore di verità: ciò significa che è vera oppure falsa. I
connettivi frasali hanno effetto sulla verità e sulla falsità delle frasi complesse che vanno a formare.

1) Oggi piove e non piove


2) Oggi piove o non piove

La frase (1) è certamente falsa (se presa letteralmente, non nel significato non letterale di oggi piove a
tratti), perché una frase complessa formata tramite il connettivo e è vera solo se le frasi semplici che la
compongono sono tutte vere: dato che oggi piove e oggi non piove non possono essere entrambe vere, la
frase complessa non può essere vera.
La frase (2) invece è certamente vera, perché una frase formata con il connettivo o è vera se almeno una
delle due frasi è vera (e una delle due certamente lo è).
È vera solo se uso il linguaggio in maniera non letterale ma noi cerchiamo di restare sul piano letterale.

Una tale nozione di verità è puramente linguistica e non si basa sull’osservazione della realtà: la frase (1)
sarebbe sicuramente falsa e la frase (2) sicuramente vera anche se non avessimo la possibilità di verificare
che fuori piova o meno. Lo stesso accadrebbe anche se, per ipotesi, non conoscessimo il significato del
verbo piovere: La falsità di (1) e la verità di (2) dipendono esclusivamente dal significato di e e di o.

(1) è un esempio di contraddizione; (2) è un esempio di tautologia quindi che affermano o una cosa o
il suo opposto.
Altri tipi di frasi possono essere giudicati veri o falsi su base puramente linguistica, quindi la verità non
dipende dalla verità ma dalla frase stessa, dalla dimensione linguistica (non mi serve l’aggancio con la
realtà):

1) Gianni è scapolo e non è sposato → vera


2) 2) Gianni è scapolo ed è sposato → falsa

In questi casi, il valore di verità non è determinato solo dal significato del connettivo e, ma anche da quello
delle parole scapolo e sposato.
Devo comunque sapere di più, devo sapere cosa vuol dire scapolo, quindi non mi serve solo l’elemento
linguistico ma anche il significato dei lessemi, devo sapere che scapolo significa non sposato, se no non
posso analizzare il valore di verità della frase. Non mi interessa sapere chi è Gianni, manco importa e manco
mi interessa se è sposato, non lo devo capire questo, non serve.
Casi in cui il valore di verità di una frase dipende tanto dal significato dei connettivi frasali quanto da quello
dei lessemi che contengono sono casi di analiticità. Quindi, è necessaria un’analisi della struttura per capire
la verità della frase.

Ci sono poi casi in cui le frasi non sono né vere né false:

1) l’attuale re di Francia è calvo


2) l’attuale re di Francia non è calvo

Questo non vuol dire che dal punto di vista logico non siano false, sono semplicemente inappropriate
perché queste due frasi hanno una presupposizione falsa = una frase implicata, io presuppongo che
attualmente c’è un re di Francia. Se la presupposizione fosse vera, la frase avrebbe un valore di verità,
altrimenti no.

Le due frasi sono tra di loro in contraddizione, quindi non possono essere entrambe vere. Però, si può dire
che sono entrambe false, perché attualmente non esiste alcun re di Francia. Ma in realtà non è così, non
sono false, ma semplicemente inappropriate. Entrambe le frasi presuppongono la verità della seguente
frase: Attualmente c’è un re in Francia.

La presupposizione è quella frase che deve essere vera affinché le frasi che la presuppongono possano
avere un valore di verità. In caso contrario, le frasi che la presuppongono non possono avere un valore di
verità.

FRASI CON QUANTIFICATORI E PRONOMI

Esempi di frasi il cui valore di verità è determinabile solo in base al loro significato sono quelle contenenti i
cosiddetti quantificatori (tutti, nessuno, qualche, ogni, ecc.):

1) Se ogni studente ha superato l’esame, allora qualche studente ha superato l’esame;


2) se nessuno studente ha superato l’esame, allora qualche studente non ha superato l’esame;
3) se ogni studente ha superato l’esame, allora qualche studente non ha superato l’esame.

Le prime due frasi sono linguisticamente vere, la terza è linguisticamente falsa. Il valore di verità di queste
frasi complesse, è necessaria l’analisi di determinati elementi come i connettori che mi danno la struttura
dell’ipotesi e del valore dei quantificatori. Se ogni X… allora qualcuno Y, la struttura della frase è vera. La
parzialità è inclusa nella probabilità.

Le cose si complicano quando ho più di un quantificatore. La presenza di due quantificatori può avere degli
effetti sull’interpretazione della frase:
Ogni ragazzo ama una ragazza
La frase può avere due significati: 1) ogni ragazzo ama una ragazza diversa; 2) ogni ragazzo ama una ragazza
determinata. Dal punto di vista linguistico, entrambe le interpretazioni sono possibili: sarà la situazione
comunicativa specifica a risolvere l’ambiguità. Sul piano linguistico sono tutte e due vere ma dovremo
specificarla se vogliamo parlare della realtà per eliminare l’ambiguità di questa frase.

Se oltre ai quantificatori vi sono anche dei pronomi, si possono avere ulteriori effetti di ambiguità:
Ogni ragazzo ama la sua ragazza
Sul piano linguistico la frase è ambigua. Ci sono delle lingue che non hanno questo tipo di ambiguità, dove
questo tipo di frase non è possibile, come in latino dove si usava il genitivo del pronome.

La frase può significare che ogni ragazzo ama una ragazza differente, oppure che ogni ragazzo ama la
ragazza di un ragazzo determinato. Nel primo caso, il possessivo sua è legato al quantificatore ogni, nel
secondo caso, il possessivo è libero. Di nuovo, solo la situazione comunicativa specifica può far scegliere
l’interpretazione pertinente.

Gianni dice che Francesco lo ha ingannato

Il pronome lo può riferirsi tanto a Gianni quanto a un altro individuo: nel primo caso, lo è legato a Gianni,
nel secondo, è libero. Non può essere invece legato a Francesco, perché si tratta di un pronome personale e
non di un pronome riflessivo, come nella frase seguente:

Gianni dice che Francesco ha ingannato solo sé stesso.

Tutti questi elementi (quantificatori, congiuntoti etc.) contribuiscono al significato della frase che non è solo
la somma degli elementi dei significati della frase, ci sono anche altri fattori che ne coincidono.

Terminiamo ora con la sintassi frasale.

GLI ATTI LINGUISTICI

Finora abbiamo parlato di semantica = il significato delle espressioni linguistiche ma quando abbiamo fatto
la sintassi abbiamo visto che ci sono espressioni linguistiche che superficialmente hanno lo stesso
significato come il il gatto insegue il topo / il caffè lo prendo amaro, lo prendo amaro il caffè, sono uguali ma
sono costruite in modo diverso, cambiando per esempio l’ordine dell’oggetto, cosa che va aldilà della
semantica dato che non consideriamo il significato (che è lo stesso) ma c’è un intenzione diversa che vuole
trasmettere il parlante, vuole dare un determinato significatati ed è questo di cui si occupa la pragmatica.

Quando pariamo di pragmatica, dobbiamo considerare gli atti linguistici.


1) Atto locutorio
2) Atto preposizionale: prendiamo un soggetto e gli associamo un predicato
3) Atto illocutorio: questo riflette le intenzioni del parlante nel momento in cui pronuncia una
determinata espressione linguistica = lui può per esempio dare un ordine, fare una richiesta,
esclamare qualcosa etc.
4) Atto perlocutorio: c’è sempre un ascoltatore (idealisticamente parlando) e quello che dice chi parla
deve avere un certo riflesso su chi ascolta (fargli compiere un’azione, farlo sentire in un certo
modo, renderlo consapevole di qualcosa etc.)

L’uso del linguaggio umano consiste nell’esecuzione di determinati atti: 1) la pronuncia di determinate
parole e sintagmi 2) il riferimento a determinate entità e la predicazione di determinate proprietà in merito
ad esse, 3) constatazioni, ordini, consigli, promesse, ecc., 4) il tentativo di produrre un certo effetto
sull’interlocutore.
Al primo tipo di atti si dà il nome di atti locutori (o di enunciazione), al secondo tipo, il nome di atti
proposizionali, al terzo tipo, di atti illocutori, al quarto tipo, di atti perlocutori.
In ogni atto linguistico, tutti questi atti sono generalmente compresenti. L’unico che non si realizza sempre
è quello proposizionale (ci sono espressioni di senso compiuto che non sono predicative).

Per esempio, nella frase Gianni ha telefonato?, l’atto locutorio consiste nell’emissione dei suoni che
formano le parole, quello proposizionale, nel riferirsi all’individuo Gianni e nel connetterlo alla proprietà di
aver telefonato, quello illocutorio, nel formulare una domanda, quello perlocutorio, nel farci dare una
risposta dall’interlocutore.
L’unico che può mancare è l’atto preposizionale, quindi dire Gianni ha telefonato? Non c’è una struttura
predicativa, non c’è un predicato ma c’è un atto illocutorio = un’informazione che di fatto corrisponde a una
frase dichiarativa e questa frase è fatta perché io sappia la risposta alla domanda.

A uno stesso atto proposizionale possono corrispondere più atti illocutori quindi esprimono diversi “scopi”
del parlante: Gianni ha telefonato (asserzione), Gianni ha telefonato? (domanda), Gianni, telefona! (ordine).
Viceversa, allo stesso atto illocutorio possono corrispondere atti proposizionali diversi (Gianni ha telefonato
e La Terra è rotonda sono entrambe asserzioni, ma sono due atti proposizionali diversi).

Atto illocutorio = intenzione del parlante. Questa cosa ci ricorda qualcosa che abbiamo visto dal piano
sintattico: la modalità della frase (dichiarativa, interrogativa, esclamativa etc.) generalmente questi
corrispondono con gli atti illocutori ma questi due atti non vanno confusi. La sfera sintattica e quella
pragmatica sono due sfere diverse.

Non bisogna confondere i tipi di atti illocutori con le diverse modalità che può assumere una frase:
1) Puoi passarmi il sale? È un ordine ma è espresso in una modalità diversa da quella che mi aspetterei
2) Adesso faresti bene ad andartene
3) Vuole uscire?
Dal punto di vista della modalità, (1) e (3) sono interrogative, (2) è una dichiarativa, ma dal punto di vista
del tipo di atto illocutorio, tutte e tre esprimono un ordine. Insomma, uso modalità diverse da quelle che mi
aspetterei.
In questi casi si parla di atti linguistici indiretti. Quindi un atto linguistico in cui non c’è coincidenza tra atto
illocutorio e la modalità di base.

I PERFORMATIVI

Un tipo particolare di atti illocutori sono quelli contenenti i cosiddetti verbi performativi (i verbi
normalmente descrivono l’azione che sto facendo ma ci sono alcuni verbi, questi performativi, dove
l’azione coincide con la pronuncia, con l’atto linguistico, con l’enunciazione):
1) Prometto di partire qui io sto promettendo di fare qualcosa. Questo coincide con l’enunciazione della
frase, una performance, un’esecuzione di una frase.
2) La corte dichiara l’imputato innocente
3) Mi scuso di essermi comportato così
Enunciano una frase come quelle riportate, non ci si limita a parlare, ma si compie un atto preciso, che è
quello indicato dal verbo (questo vale solo al presente, non al passato)

Potrebbero piacerti anche