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Lingue, linguaggio e comunicazione

(27/09) La linguistica è lo studio scientifico del linguaggio per vederne i meccanismi; è divisa in linguistica
generale e glottologia, la quale ha come obiettivo studiare come le lingue si sono evolute. La linguistica ha come
oggetto lingue storico-naturali, ovvero tutte le espressioni del linguaggio verbale umano, considerato una facoltà
specifica dell’homo sapiens e il sistema di comunicazione più complesso.

Si possono individuare vari tipi di linguaggio:


1. linguaggio artificiale (opposto al linguaggio naturale); esso è più semplice, prevedibile ed è legato
all’intelligenza artificiale e si è sviluppato insieme al computer. Un esempio è il linguaggio di
programmazione, una lingua logica, formale per realizzare input per fornire output e per permettere alle
macchine di comunicare e di fare cose grazie al sistema binario;
2. linguaggio non verbale (opposto al linguaggio verbale, composto da suoni); si tratta di un tipo di
linguaggio non formato da suoni, come la comunicazione gestuale. Possiamo distinguere diversi tipi di
linguaggio non verbale:
a. il sistema paralinguistico, un sistema vocale, ma non verbale (ex. tono della voce, frequenza, silenzi);
b. il sistema cinetico (ex. atti del corpo);
c. la prossemica, ovvero ciò che comunichiamo con l’uso dello spazio corporeo ed extracorporeo;
d. la tattica, cioè la comunicazione espressa attraverso contatto fisico.
I linguaggi verbali e non verbali sono strettamente intrecciati tra loro: in molte ipotesi, il linguaggio si è
originato com una forma di gesticolazione; Corbalis invece ipotizzò che il sistema di gesticolazione e la
comunicazione verbale hanno convissuto per anni, in seguito si sono coevoluti e il loro rapporto è rimasto
intrecciato. Ancora tutt'oggi il linguaggio non verbale aiuta lo sviluppo del linguaggio verbale nei bambini,
che spesso nelle prime fasi dello sviluppo usano gesti deittici per indicare qualcosa nello spazio, gesti
culturali, che cambiano dà cultura all’altra, e gesti simbolici per riprodurre oggetti e azioni;
3. linguaggio non umano (opposto al linguaggio umano). L'uomo non è l’unico essere vivente che può
comunicare. Frisch studiò, per esempio, i mezzi di comunicazione delle api e scoprì che esse hanno un modo
di comunicare alle compagne dove e come localizzare giacimenti di cibo attraverso una danza o circolare o
“dell’addome”, talvolta anche modulandi questi messaggi. Un altro esempio sono le formiche che
comunicano attraverso delle goccioline odorose per permettere alle altre di seguirle fino ai giacimenti di
cibo.

La linguistica si occupa anche dei dialetti. Essi sono lingue a tutti gli effetti, al pari delle altre lingue storico
naturali. Allora cosa li distingue? Solamente alcune considerazioni sociali e storico-culturali e il prestigio dei
sistemi linguistici. I dialetti non sono un linguaggio secondario, ma hanno regole proprie. Inoltre, anche l’italiano
stesso è un’evoluzione di un dialetto, il toscano, che in seguito a usi letterari e culturali si è scelto come lingua
principale. Quindi possiamo affermare che l’italiano e i dialetti sono in rapporto di parità per quanto riguarda la
struttura: essi sono delle varietà sorelle che derivano da un'unica lingua madre, il latino.

La comunicazione può essere definita in due modi:


1. in senso più allargato, la comunicazione è un passaggio di informazioni, con un emittente intenzionale e un
interpretante intenzionale che decodifica il messaggio (ex. informazioni che si deducono da persone che non
comunicano in modo intenzionale, come da abbigliamento)
2. secondo una concezione più ristretta, la comunicazione è intenzionale: l’emittente ha il fine di fare passare
delle informazioni e di veicolare informazioni verso un ricevente (ex. striscione per patrick zaki → veicola
un certo contenuto con obiettivo)
Il segno è un’identità che fa da supporto alla comunicazione: esso serve per comunicare informazioni e associare
l’espressione e il contenuto. Esistono vari tipi di segni:
1. gli indici, che legano l’espressione e il contenuto in un rapporto naturale, causale e non intenzionale (ex.
macchie e morbillo);
2. i segnali, in cui l’espressione e il contenuto sono legati da un rapporto naturale, causale ma intenzionale (ex.
latrati di allarme delle scimmie);
3. le icone, ovvero immagini di tipo intenzionale basate sulla similarità di forma e di struttura (ex. cartelli);
4. i simboli, legati al loro significato da un rapporto non naturale, ma solo convenzionale (ex. bandiere)
5. i segni in senso stretto, ovvero dei segni intenzionali, con contenuto semantico chiaro di portata linguistica
(ex. lingua dei segni). Spesso i segni vengono associati ai simboli.
I segni sono divisi per convenzionalità e specificità culturale.

I segni sono incastonati in un sistema codice, affinché si attribuisca a essi lo stesso significato. Possiamo affermare
che tutti i sistemi di comunicazione sono sistemi di codice (ex. codice stradale, Morse, linguistico). I codici sono
formati da una serie di elementi: l’emittente, il ricevente, un messaggio, i processi di codifica, ovvero di
formazione di un messaggio, e di decodifica, cioè di interpretazione del messaggio. L’uomo è sia fruitore sia
creatore di codici.

La lingua è distinta dagli altri linguaggi da alcune proprietà:


1. la biplanarità; introdotta nel 1943 da Hjelmslev, è la capacità di associare un oggetto a un contenuto.
Secondo la teoria dello studioso, il segno è costituito da due facce: il significante, ovvero l’espressione, la
forma e il significato, cioè il concetto, il contenuto;
2. l’arbitrarietà; la teoria, introdotta nel 1916 da De Saussure, spiega che non c’è alcun legame motivato e
naturale tra significante e significato. Non è possibile quindi dedurre il significato a partire da
un’espressione, ma esso si decide per convenzione; se ciò non fosse tutte le lingue dovrebbero essere simili
tra loro e le parole simili di lingue diverse dovrebbero avere lo stesso significato. Questa proprietà è definita
arbitrarietà verticale, perché si sviluppa su due livelli diversi (significante e significato). Esiste anche una
proprietà detta arbitrarietà orizzontale, che riguarda due significanti (ex. distinzione tra i corta e i lunga in
inglese nelle parole ship e sheep) o due significati (ex. in spagnolo alcune parole possono avere due
significati diversi, come hoja che è sia foglio sia foglia). L’arbitrarietà orizzontale è una distinzione arbitraria
che si pone su uno stesso livello.
Lo schema che spiega come funziona la significazione è il
triangolo semiotico (←) di Ogden e Richards nel 1923. È
formato da tre elementi: un simbolo, un referente, cioè un’entità
extralinguistica, un elemento della realtà, e un pensiero.
Un’interpretazione è: il significante, attraverso la mediazione di
un simbolo, permette di riferirsi a un oggetto. Il pensiero può
essere considerato il collante tra l’oggetto e l’espressione.
(28/09) Nel principio di arbitrarietà ci sono delle limitazioni:
alcuni segni linguistici sembrano essere più motivati. Per esempio, le onomatopee richiamano il loro
significato attraverso il significante. Le onomatopee, inoltre, risentono anche della variazione linguistica: non
tutte le lingue hanno le stesse onomatopee. Esistono poi gli ideofoni, espressioni imitative di fenomeni
naturali o azioni (ex. bum, zac, gnam). Nel fonosimbolismo, infine, certi suoni hanno associati alcuni
significati per loro stessa natura (ex. la vocale i ha nel suo suono l’idea di cose piccole);
3. l’iconismo; nella grammatica delle lingue ci sono meccanismi iconici e di conseguenza in qualche misura
motivati. Per esempio, in molte lingue la formazione del plurale prevede l’aggiunta di materiale fonico (ex.
child → children); comunque, non è sempre così: in italiano si procede per sostituzione (bambina →
bambine). Ciò si tratta di una limitazione del principio;
4. la doppia articolazione; secondo questo principio sviluppato da André Martinet, le lingue sono strutturate su
due livelli:
a. secondo il livello di prima articolazione, il significante di un segno è scomponibile in unità che
portano ancora un significato e che vengono utilizzate per creare altri segni (ex. sanificare ha in sé altri
componenti che possono essere usati per formare altre parole, come sano, sanatorio, ecc). Queste unità
minime sono dette morfemi.
b. secondo il livello di seconda articolazione, ogni morfema può essere scomposto in unità più piccole,
che però non hanno un significato autonomo, dette fonemi (= lettere). Esso porta alcuni vantaggi:
i. principio di economicità di funzionamento: con un numero limitato di fonemi si può
realizzare un numero potenzialmente illimitato di simboli dotati di significato;
ii. principio di combinatorietà: combinando unità minori si creano unità maggiori;
5. la trasponibilità/intercambiabilità di mezzo: i significanti possono essere realizzati sia attraverso il sistema
fonico-acustico sia attraverso il canale visivo-grafico, quindi sia pronunciandoli sia scrivendoli. Questi canali
non sono sullo stesso livello, bensì il canale orale ha una priorità di tipo:
a. antropologica, perché tutte le lingue sono parlate, ma non tutte le lingue parlate hanno una forma
scritta (ex. lingue indiane d’America). Occasionalmente può succedere che venga creato in seguito un
sistema scritto (ex. somalo nel 1972);
b. ontogenetica, ovvero relativa al singolo individuo, dato che ogni individuo sviluppa prima la capacità
di parlare, in seguito la capacità di scrivere;
c. filogenetica, poiché questa priorità è propria della specie: si può vedere come, per esempio, una forma
germinale di comunicazione orale era già presente nell’homo habilis.
Anche lo scritto ha una priorità, ovvero la priorità sociale, perché è lo scritto è il modo per la trasmissione
della cultura, del sapere, del corpo legale. Lo scritto è un passo fondamentale per l’aspetto sociale e culturale;
6. la linearità: il significante si sviluppa in successione lineare nel tempo e nello spazio. Si può affermare che
un segno si estende nel tempo se è orale, linearmente nello spazio se è scritta. (ex. mare è diverso da rema
perché i fonemi sono disposti in sequenze diverse);
7. la discretezza, secondo cui le unità della lingua hanno un confine preciso che rende gli elementi distinti e
separabili l’uno dall’altro (ex. faro e varo hanno due significati diversi perché i suoni sono diversi e hanno un
salto netto che distingue i due fonemi);
8. l’onnipotenza semantica; con la lingua è possibile esprimere qualsiasi contenuto. Inoltre, un messaggio
formulato in un altro sistema di segni è sempre formulabile in lingua;
9. la plurifunzionalità; la lingua permette di adempiere diverse funzioni (ex. funzione poetica, funzione
metalinguistica, ecc). Per individuare le funzioni
della lingua è stato sviluppato il modello di Roman
Jakobson (→): ogni componente (emittente,
ricevente, canale, codice e contesto) ha una
funzione:
a. l’emittente ha una funzione emotiva o
espressiva;
b. il codice ha una funzione metalinguistica,
perché esso può essere usato per parlare del
codice stesso;
c. il contesto ha una funzione referenziale o denotativa perché un messaggio può dare informazioni su
cose esterne;
d. il ricevente ha una funzione conativa perché si adatta al messaggio;
e. il canale ha una funzione fatica perché serve per capire se il messaggio arriva, se il canale è aperto;
f. il messaggio ha una funzione poetica perché viene sfruttata l'associazione tra significante e significato
per creare contenuti nuovi;
Un qualsiasi testo può avere una funzione prevalente rispetto a un’altra.
10. la produttività; con la lingua possiamo creare nuovi messaggi, come sensazioni mai esperite, eventi nuovi,
cose non esistenti. Inoltre, possiamo sia creare messaggi nuovi o usare concetti non nuovi in contesti nuovi.
Un esempio di produttività è la creazione di nuove parole o la modifica di una frase con aggiunta di parole;
11. la ricorsività: uno stesso procedimento è applicabile un numero teoricamente illimitato di volte, se ce ne
sono le condizioni. Per esempio, si può applicare la stessa regola per creare sempre più parole;
12. (3/10) il distanziamento, ovvero la possibilità di formulare messaggi linguistici relativi a cose lontane nel
tempo e nello spazio dal luogo in cui si svolge l’interazione comunicativa. Di conseguenza possiamo anche
parlare di libertà degli stimoli, poiché i segni linguistici non rimandano solamente a stati dell’emittente, ma
possono riguardare anche un’elaborazione concettuale della realtà. Ciò si vede anche nel determinismo tipico
del linguaggio mondo animale: per esempio, i macachi emettono latrati per segnalare la presenza di predatori
in lontananza;
13. la trasmissibilità culturale: ogni lingua, infatti, è trasmessa per tradizione all’interno di una società e di
una cultura di generazione in generazione. Dall’altra parte però c’è anche una componente innata nella
facoltà di linguaggio: l’uomo ha infatti la predisposizione a comunicare attraverso la lingua e le strutture
portanti del linguaggio verbale. Si può dire che l’infanzia e la prepubertà linguistica (fino agli 11-12 anni)
sono delle fasi fondamentali nello sviluppo della facoltà di comunicazione e linguaggio: se un bambino non è
mai stato esposto a stimoli culturali che gli hanno permesso di imparare la lingua, l’apprendimento è
praticamente bloccato;
14. la complessità sintattica: i messaggi linguistici sono caratterizzati da una consistente elaborazione
strutturale, in cui i rapporti tra i vari elementi sono gerarchici. Tra i più importanti aspetti gerarchici ci sono:
l’ordine degli elementi, le dipendenze dalla struttura, ovvero il rapporto che lega due elementi di una
frase, e l’incassatura, cioè la posizione delle frasi in un periodo;
15. l’equivocità: si può affermare che non sempre un significante ha un unico significato, ma, a volte, a partire
da un significante, si possono avere vari significati. Per esempio, basta pensare alle parole in relazione di
sinonimia o a quando una stessa parola può avere un significato diverso a seconda del contesto.
In base a tutte queste proprietà si può affermare che: la lingua è un codice che organizza un sistema di segni a
partire da un significante fonico-acustico, arbitrari e doppiamente articolati capaci di esprimere ogni
esperienza esprimibile, posseduti come conoscenza interiorizzata che permette di produrre infinite frasi a
partire da un numero finito di elementi.

Per un’analisi linguistica completa bisogna fare alcune distinzioni.


La prima è quella tra il principio della sincronia e della diacronia, introdotta da de Saussure nel 1916. Il principio
della sincronia afferma che le lingue verbali sono variabili nel tempo e nello spazio: per esempio, gli accordi tra
nome e aggettivo e le relazioni di sinonimia. La sincronia si riferisce allo stato della lingua al momento dello
studio. Per diacronia, invece, s’intende il modo in cui il tempo modifica la lingua: per esempio, il sistema degli
articoli in italiano, arrivato in seguito all’evoluzione del latino, e l’etimologia, ovvero la storia delle parole.
Lo stesso de Saussure ha poi introdotto la distinzione tra langue e parole. La langue è la struttura linguistica
collettiva di una comunità, una serie di strutture mentali astratte che formano la nostra capacità di formulare
messaggi. La parole è invece l’applicazione e l’uso concreti delle strutture linguistiche mentali. In seguito sono
state create distinzioni diverse sulla base di quella di de Saussure; tra queste:
1. sistema e uso, di Hjelmslev, in cui sistema corrisponde alla langue, mentre l’uso alla parole;
2. competenza ed esecuzione, di Chomsky, dove la competenza corrisponde a una langue di tipo individuale
(e non collettivo), mentre l’esecuzione alla parole;
3. codice e messaggio, di Jakobson, in cui il codice è l’insieme astratto delle potenzialità linguistiche, mentre
il messaggio è la forma concreta composta sulla base di unità del codice.
Un’altra distinzione da fare è quella tra asse paradigmatico e asse sintagmatico. L’asse paradigmatico (o asse delle
scelte o in absentia) riguarda le relazioni a livello del sistema: gli elementi di una frase vengono disposti lineamente
e ci sono alcuni elementi che non possono andare insieme (ex. articolo e pronome dimostrativo). L’asse
sintagmatico (o asse delle combinazioni o in praesentia) riguarda le relazioni a livello delle strutture che
realizzano le potenzialità del sistema e permette di vedere le relazioni tra parole selezionate (ex. accoratura delle
parole al maschile, femminile, singolare, plurale in modo univoco).

Infine, esistono quattro livelli di analisi linguistica:


1. il piano del significante, che riguarda la forma e si divide in:
a. seconda articolazione
i. fonetica e fonologia
b. prima articolazione
i. morfologia
ii. sintassi
2. il piano del significato, più nello specifico, la semantica.
Cosa fanno i linguisti oggi?
Il linguista è lo studioso che studia il linguaggio umano e le lingue da tutte le prospettive possibili; egli non lavora
con le lingue, ma sulle lingue. Nella linguistica esistono varie aree di specializzazione, come la fonetica e la
fonologia, la morfologia, la sintassi e la semantica e la pragmatica.
La linguistica ha innumerevoli potenzialità nel campo della ricerca, tra cui:
1. l’elaborazione di software di riconoscimento vocale o di sistemi di traduzione automatica;
2. l’educazione linguistica e la didattica delle lingue;
3. la diagnosi dei disturbi del linguaggio e delle formi di demenza;
4. l’editoria e la redazione di dizionari;
5. l’individuazione di linee guida per un linguaggio amministrativo accessibile alla pianificazione di campagne
comunicative e pubblicitarie;
6. l’analisi dei trend prevalenti sui social network e alla profilazione dei loro utenti.

La linguistica si tratta di una disciplina eteroclita, con un oggetto di studio altrettanto eteroclito, a cavallo tra il
mondo scientifico e quello umanistico: può rientrare nel campo della fisica, della psicologia, della filologia, della
biologia…
Ha come oggetto di studio fenomeni non osservativi, poiché il suo contenuto è concettuale, sfugge
all’osservazione. Dato che il linguaggio è complesso, il processo di analisi potrebbe essere interminabile perché
ci sono sempre fenomeni che sfuggono all'osservatore. Si dice che “il punto di vista crea l’oggetto” e, poiché la
lingua non è un oggetto già formato e pronto per l’analisi, ma è un oggetto di studio, va pensato e ridefinito in base
ai nostri scopi.
Il dato linguistico è un fenomeno pertinente per una certa ipotesi, teoria o analisi linguistica. Il dato lo acquisiamo
attraverso le interazioni. I dati si raccolgono attraverso esperimenti, come interviste, ecc.
Per i linguisti è fondamentale sfruttare anche varie risorse, tra cui i corpora, ovvero raccolte di testi in formato
elettronico il cui campionamento segue criteri di rappresentatività. Sono una collezione di testi selezionati e
ordinati per vedere come le parole sono usate nel loro contesto d’uso. I corpora sono formati da testi reali. Sono
classificati in base alla grandezza; devono essere rappresentativi, ovvero devono rappresentare la varietà linguistica.
I corpora sono elettronici affinché siano accessibili a tutti, annotati per rendere possibile la ricerca in base
all’origine del lemma. (05/10) La scelta del corpora dipende dal nostro obiettivo. Uno dei corpora più conosciuti è
il BNC, British National Corpus, creato dall’Università di Oxford, il quale contiene 100 milioni di parole,
mescolando testi di lingua scritta (circa 90%) con testi orali (circa 10%). I testi scritti sono scelti in base al dominio,
ovvero l’argomento di cui trattano, l’epoca e il mezzo (ex. periodici, libri, ecc). I testi orali sono selezionati in base
a criteri demografici (ex. sesso, età, classe sociale, regione geografica) e al contesto. Attraverso un corpus i linguisti
possono fare varie ricerche, tra cui: ricondurre una parola a un lemma o a un sintagma, vedere la ricorrenza delle
parole, comparare nomi e fare associazioni tra nomi e aggettivi. I corpora si distinguono sulla base di quattro criteri:
1. la genericità; si distinguono quindi corpora generici, ovvero plurifunzionali (ex. Coris), e corpora
specifici, che appartengono a un certo dominio e sono linguaggi settoriali (ex. Child’s racchiude il linguaggio
dei bambini);
2. la modalità: si distinguono corpus di lingua scritta (ex. Corpus parol), corpus di lingua parlata, con
unicamente testi orali (ex. Child’s), corpus misti, che comprendono sia testi scritti sia orali (ex. BNC) e
multimodali, che includono anche la parte non prettamente linguistica, come la mimica facciale, video, foto,
ecc;
3. la cronologia: si distinguono corpus sincronici, che includono testi che appartengono a una stessa finestra
temporale, e corpus diacronici, che contengono una moltitudine di testi di epoche differenti, permettendo
così di valutare il mutamento linguistico;
4. la lingua: si distinguono corpora monolingui, ovvero formati da testi in un’unica lingua, e multilingue, in
cui i testi sono in più lingue. I corpora multilingue sono sottoclassificati in corpora comparabili, che
mettono insieme testi di più lingue appartenenti a uno stesso dominio linguistico, e paralleli, composti da
traduzioni di uno stesso testo. Quando in un corpora parallelo c’è allineamento tra le frasi di due testi si tratta
di un corpus parallelo allineato.
Un’altra risorsa linguistica sono i dizionari, strumenti che raccolgono informazioni sul lessico di una lingua. Ne
esistono di vari tipi:
1. dizionario dell’uso, in cui a ogni parola corrisponde un significato significato;
2. dizionario storico, in cui per significato si vede la storia del lemma, dando anche un contesto testuale
letterario;
3. dizionario etimologico, che serve per ricostruire la storia di una parola;
4. dizionario dei sinonimi e dei contrari;
5. dizionario dei neologismi, che raccoglie le parole nuove senza un’attestazione fissa;
I dizionari possono essere sia cartacei sia elettronici.
Esistono poi dei database lessicali non tradizionali. Per esempio, Wordnet organizza i significati in insiemi e per
sinonimi, quindi si dice che sia un synset. I synset sono collegati sulla base di diverse relazioni semantiche. Nello
specifico per la lingua italiana si usa Italwordnet.
Gli atlanti linguistici principali sono poi:
1. il WALS, che raccoglie i dati di quasi 2700 lingue e permette di vedere varie proprietà strutturali delle
diverse lingue di interesse;
2. l’atlante lessicale toscano, che contiene informazioni sulla diversità lessicale e di significato delle parole
(anche dialettali) in varie località della Toscana;
3. l’atlante sintattico d'Italia, il cui obiettivo è mostrare le differenze grammaticali e sintattiche in varie zone
d’Italia.
I linguisti usano poi i database concettuali, detti concepticon, che servono per ricondurre liste di concetti a set di
concetti. Una lista di concetti è una sezione non organizzata di cui si servono i linguisti per comparare lessemi tra
lingue diverse. Un set di concetti è un insieme di concetti simili che condividono una stessa definizione.

Esistono diversi modi per attuare una ricerca linguistica, in base all’obiettivo che si vuole raggiungere. In generale
il processo di studio include:
1. conoscere il campo in cui si lavora (ex. la popolazione, il territorio, ecc);
2. chiarire gli obiettivi, conoscere i lavori precedenti in quel campo, selezionare gli informanti, per esempio
secondo dati anagrafici, aggiornarli sugli scopi della ricerca e scegliere gli argomenti su cui intervistare gli
informanti. Spesso si scelgono argomenti personali, così che l’informante non controlli l’uso della lingua;
3. raccogliere i dati. Durante questa fase il ricercatore si eclissa per ottenere un flusso di parole dall’informante.
Spesso si sceglie un luogo che non impatti sul tipo di registrazione che si cerca;
4. archiviare, trascrivere e annotare il materiale, creando delle categorie in base al fenomeno linguistico che si
sta indagando.
Un esempio conosciuto di ricerca linguistica è quello di William Labov, il fondatore della sociolinguistica. Egli si
trasferisce negli anni ‘60 su un’isola statunitense, Martha’s Vineyard, il cui territorio era diviso in una regione
settentrionale, abitato da pescatori autoctoni, e una regione meridionale più turistica. Labov vuole vedere la
centralizzazione delle vocali e come i suoni sono realizzati diversamente all’interno dell’isola. Inizia la sua ricerca
scegliendo persone tra i 30 e i 60 anni e, attraverso delle interviste, pone delle domande, anche personali. Scopre
che il cambiamento inizia dalla parte nord ed è quasi assente nella parte sud. A questa caratteristica linguistica
Labov dà una lettura sociale: poiché la centralizzazione delle vocali è un tratto tipico dell’isola, chi vive a nord la
mantiene, mentre chi vive a sud, a contatto con i turisti tende a perderla; inoltre, i più giovani non centralizzano le
vocali perché tendono ad andarsene dall’isola.
La lingua può essere anche vista come un fatto sociale e politico, poiché può portare con sé alcune ideologie
intrinseche, tra cui: “la lingua è un modo per esprimere i propri pensieri” o “il latino è una lingua logica e
razionale”. Le ideologie linguistiche si studiano attraverso metodi espliciti e qualitativi, come:
1. facendo attenzione al linguaggio dei prodotti di largo consumo, come quotidiani, film, ecc;
2. attraverso il talk about talk, ovvero opinioni sulle diverse lingue e accenti. In questo modo, si scoprono gli
atteggiamenti rispetto a una certa variabile linguistica.
Si può vedere come la lingua abbia un forte impatto sull’aspetto politico e sociale. Prendendo in considerazione
l’ideologia di genere, si vede come spesso si pensa che esista una certa lingua delle donne, diversa rispetto a quella
maschile; in realtà in biologia non esiste questa differenza.
Un’altra forma di comunicazione che impatta sul piano politico è l’hate speech. La linguistica spiega anche come
si esplica l’odio indagando le strutture sintattiche. Prima si crea un corpus, selezionando alcuni testi dalle
piattaforme; nonostante i dati siano pubblici, bisogna informare per il consenso e rendere i testi anonimi. In seguito
si usano alcune strategie di analisi e indagine, come:
1. le strategie keyword-based, che, attraverso alcune parole chiave si cercano espressioni discriminatorie o
slur razzisti per ricercare la compresenza di altre caratteristiche comunicative (ex. nell’Italian Twitter Corpus
of Hate Speech Against Immigrants);
2. le strategie context-based, che permettono di indagare dei contesti comunicativi in cui queste espressioni
sono più comuni. Un esempio è il WItNECS, in cui si indaga come viene narrato il fenomeno della violenza
di genere, anche con focus sulle micro-aggressioni.
La ricerca sfrutta il WItNECS per vedere come i giornali raccontassero la violenza di genere. Attraverso il software
SketchEngine si è visto che di solito si tratta di una violenza privata perpetrata in famiglia o via internet e che
risulta in procedimento giudiziario. Viene fatto poi una sentiment analysis per elicitare l’atteggiamento che l’autore
ha rispetto al fatto: di solito è neutrale, ma sul Corriere della Sera e la Stampa si ha un atteggiamento maggiormente
negativo.
Per analizzare gli argomenti di testo si usa poi il topic modelling: da questo si può vedere una delineazione dei
crimini precisa e quasi morbosa, ma che trascura il passato della vittima. Spesso si usa un linguaggio metaforico
preciso: la donna è rappresentata come preda, come vittima, mentre l’uomo è rappresentato come una bestia e viene
deresponsabilizzato con la scusa dell’istintualità.

Esiste anche una branca della linguistica, definita linguistica clinica, che si concentra sui disturbi del linguaggio. Si
definisce un disturbo del linguaggio quando le abilità linguistiche sono alterate rispetto alla capacità normale. I
disturbi possono essere evolutivi, quindi esistere fin dalla nascita, o acquisiti. In base all’idiopaticità si distinguono
disturbi primari, quando sono in assenza di altre patologie, e secondari quando c’è un’altra patologia che porta a
disturbi del linguaggio. Il disturbo può poi intaccare solo la competenza linguistica (= afasia) o anche altri domini
cognitivi; può intaccare diverse competenze: fonetico-fonologica, morfologica, ecc. Il linguista clinico può sfruttare
le sue competenze per costruire profili linguistici e test psicometrici per valutare le abilità linguistiche
compromesse. Un esempio di studi linguistici clinici è quello di Suozzi e Gagliardi, che hanno messo a punto un
test per valutare i disturbi del linguaggio nei bambini.

Per quanto riguarda il rapporto tra linguistica e politica, importante è il progetto Impaqts, che mostra come la
politica esprima contenuti manipolatori, con informazioni ambigue e false, attraverso l’uso del non-detto. Le
implicazioni politiche dei discorsi diventano parte delle nostre conoscenze senza passare da un vaglio critico. Per
questa ricerca è stato creato un corpus di testi politici e l’obiettivo era creare una risorsa web che fosse disponibile a
tutti per ostacolare le strategie di implicazione.
La fonetica
(10/10) La fonetica (dal greco phoné, suono) è la parte della linguistica che studia la parte fisica della
comunicazione verbale. Il suono è un fatto fisico misurabile prodotto dall’apparato fonatorio. Ogni lingua ha un
catalogo di suoni che funzionano a livello linguistico per formare delle parole. In fonetica esistono 3 tipi di
approcci di studio:
1. la fonetica articolatoria, che studia la produzione dei suoni, il modo in cui i suoni vengono articolati
dall’apparato fonatorio;
2. la fonetica acustica, che studia la propagazione dei suoni attraverso l’aria sotto forma di onde sonore. La
frequenza fondamentale F0 è misurata in Hz e cambia per età, genere, ecc;
3. la fonetica uditiva, che studia le modalità di ricezione dei suoni da parte dell’apparato uditivo umano e le
modalità di decodifica nel cervello. Famoso in questo campo è l’effetto McGurk, secondo cui anche la vista
in qualche modo ci fa credere che quello che sentiamo sia un certo tipo di fonema grazie a un’interazione tra
le due percezioni sensoriali.

L’essere umano non ha organi per la produzione di suoni: l’apparato


fonatorio è un apparato “parassitario”, sviluppato su altri apparati,
soprattutto su quello respiratorio. L’apparato fonetico si è sviluppato a
partire da un’evoluzione dei polmoni e della trachea, evolutisi a loro volta
dalle vesciche natatorie del pesce. La laringe era in passato invece una
valvola per la regolazione del contatto dei polmoni con l’esterno. Oltre a
questi tre organi, include anche le vie aeree superiori. L’apparato
fonatorio deriva principalmente da tre modificazioni:
1. la laringe è scesa verso il basso;
2. alcuni meccanismi respiratori si sono modificati;
3. il volume dell’encefalo è aumentato drasticamente.
Negli scimpanzé, il volume della cavità in cui la laringe era posta è stretto e il palato molle era posto in modo da
quasi sigillare la cavità orale, la lingua era più ristretta e la respirazione aveva luogo solo attraverso il naso.
Nell’uomo, la laringe si abbassa in corrispondenza della base della lingua, la quale è più rotonda e più grossa,
occupando più spazio nella cavità orale, permettendo la respirazione sia attraverso la cavità nasale sia orale. Il
sistema respiratorio degli scimpanzé si è evoluto per permettere alla cavità orale di ospitare l'apparato fonatorio
nell’uomo.
La produzione dei suoni è dovuta alla generazione di un flusso d’aria che entra ed esce dai polmoni. L’aria può
incontrare occlusioni o restringimenti parziali durante la fonazione. In base a come vengono prodotti, esistono dei
diversi tipi di suoni:
1. suoni egressivi, prodotti mediante l'espirazione;
2. suoni ingressivi, prodotti mediante l’inspirazione;
3. suoni avulsivi, prodotti senza la partecipazione dei polmoni.
Come funziona la fonazione? Con l'espirazione, l'aria si muove dai polmoni attraverso i bronchi e la trachea e
raggiunge la laringe e infine espelle energia. Nella glottide l’aria incontra le corde vocali che possono accostarsi
l’una all’altra, riducendo o bloccando il flusso egressivo dell’aria. Il flusso d’aria passa quindi nella faringe. Se il
velo palatino è abbassato, l’aria passa sia dalla cavità orale sia dalla cavità nasale; se il velo è alzato, l’aria passa
solo attraverso cavità orale. La lingua, divisa in tre parti (radice, dorso e apice), spesso batte contro gli alveoli (posti
dietro le gengive) per modulare i suoni. I suoni vengono articolati secondo diversi parametri:
1. il modo di articolazione, ovvero la conformazione che gli organi fonatori hanno durante l’emissione del
flusso sonoro (ex. se ci sono restringimenti o no);
2. il punto di articolazione, ovvero il tratto in cui viene articolato il suono;
3. la sonorità.
In base al modo di articolazione, dividiamo i suoni in:
1. vocali, cioè suoni prodotti senza frapposizione di ostacoli al passaggio dell’aria;
2. consonanti, cioè suoni prodotti dalla creazione di ostacoli che perturbano il flusso dell’aria.
Oppure in:
1. suoni sonori, prodotti grazie alle vibrazioni delle corde vocali accostate e tese, come per esempio tutte le
vocali, ma solo alcune consonanti;
2. suoni sordi, prodotti senza alcuna vibrazione delle corde vocali discoste, come per esempio alcune
consonanti.
In base al modo di articolazione, dividiamo le consonanti in:
3. occlusive/plosive/esplosive, in cui a una occlusione momentanea segue una brusca riapertura (ex. p di
pane);
4. fricative/continue/costrittive/spiranti, in cui la chiusura è parziale e l’aria esce con un suono frusciante (f
di fieno);
5. affricate, composte di due momenti strettamente contigui, il primo occlusivo e il secondo spirante (ts di
zeppo, tʃ di cena);
6. approssimanti, in cui gli organi articolatori sono avvicinati senza contatto, diventando così un mix tra
consonanti fricative e vocali.
Sulla base del movimento della lingua, dividiamo le consonanti in:
1. liquide:
a. laterali, in cui il passaggio dell’aria avviene ai lati della bocca (ex. l di lana);
b. vibranti, prodotte da occlusioni intermittenti molto rapide tra lingua e un altro organo fonatorio
(ex. r di rana);
2. nasali, in cui il passaggio dell’aria avviene attraverso la cavità nasale, dato che il velo è abbassato e la
cavità orale è bloccata (ex. n di neve).

Secondo il punto di articolazione, le consonanti possono essere:


1. bilabiali, prodotte dalla chiusura momentanea delle labbra (ex. [p], [m], [ɸ]);
2. labiodentali, prodotte fra i denti superiori e il labbro inferiore (ex. [v], [ɱ]);
3. dentali, prodotte avvicinando la punta (apice) della lingua ai denti incisivi superiori (ex. [θ]; [ð]);
4. alveolari , prodotte avvicinando la lingua agli alveoli superiori (ex. [t], [s], [ts]);
5. palatali, prodotte dalla lingua contro o vicino al palato duro (ex. [ɲ], [ʎ]);
6. velari, prodotte dalla lingua contro o vicino al velo (ex. [ŋ], [g]);
7. uvulari, prodotte dalla lingua contro o vicino all’uvula (ex. [ʁ]);
8. faringali, prodotte fra la base della radice della lingua e la parte posteriore della faringe (ex. [ʕ]);
9. glottidali, prodotte dalla chiusura determinata dalla glottide (ex. [ʔ]);
10. retroflesse, prodotte flettendo all’indietro la punta della lingua verso la parte anteriore del palato (ex. [ɖ]).
Le vocali si dividono in varie categorie, rispetto ai parametri di posizione della lingua:
1. in base all’anteriorità/posteriorità della lingua, possono essere:
a. vocali anteriori, se la lingua è in avanti;
b. vocali centrali, se la lingua è in mezzo;
c. vocali posteriori, se la lingua è indietro.
2. in base all’apertura/chiusura della lingua, possono essere:
a. vocali chiuse/alte, se la lingua è verso il palato;
b. vocali medie, se la lingua è centrale;
c. vocali medio-alte o medio-basse;
d. vocali aperte/basse, se la lingua è schiacciata verso il basso.
3. in base all’arrotondamento delle labbra, possono essere:
a. vocali arrotondate, se le labbra sono sporte in avanti e formano una rotondità;
b. vocali non arrotondate, se le labbra sono distese e formano una fessura.
4. in base al coinvolgimento della cavità nasale, possono essere:
a. cavità nasali, se l’aria passa dalla cavità nasale;
b. cavità non nasali, se la cavità nasale non è coinvolta.

Le vocali dell’italiano standard sono:


1. [i], vocale anteriore chiusa non arrotondata → ex. filo, [‘fi:lo];
2. [e], vocale anteriore semichiusa non arrotondata → ex. pera,
[‘pe:ra];
3. [ɛ], vocale anteriore semiaperta non arrotondata → ex. letto,
[‘lɛtto];
4. [a], vocale centrale aperta non arrotondata → ex. patata, [pa’ta:ta];
5. [u], vocale posteriore chiusa arrotondata → ex. tu, [tu];
6. [o], vocale posteriore semichiusa arrotondata → ex. torre, [‘torre];
7. [ɔ], vocale posteriore semiaperta arrotondata → ex. toro, [‘tɔ:ro].
Alcune vocali sono dette cardinali e sono più importanti in quanto sono
tipi vocalici universali: esse sono [i], [u] e [a]. Queste vocali ci permettono di fare più distinzioni nella
formulazione di un suono per una ragione semiotica, ovvero che ci permettono di fare meno confusione nella
pronuncia del suono. La rappresentazione grafica delle vocali è il trapezio vocalico (↑).

Esistono poi le approssimanti, cioè suoni con un modo di articolazione intermedio tra vocali e consonanti,
senza turbolenza ma con un leggero fruscio. Questi suoni sono molto vicini alle vocali, solo che non possono
costituire apice di sillaba (non possono essere accentate). Possono essere dette semivocali, se l’approssimante
segue una vocale (ex. daino → [‘dajno]), oppure semiconsonanti, se l’approssimante precede la vocale (ex.
uovo → [‘wɔ:vo].

Nella lingua italiana, spesso a una stessa grafia non corrisponde lo stesso suono. Per esempio la lettera c è uguale
graficamente in casa e cena, ma i suoni sono diversi. È possibile anche che a uno stesso suono corrisponda però
una stessa grafia: per esempio, cuore e quadro sono graficamente diversi, ma la loro pronuncia è la stessa. In altri
casi, un solo suono può essere graficamente espresso con più segni: per esempio, “gn” in legno si pronuncia solo
[ɲ] oppure “gli” in aglio si pronuncia solo [ʎ].
Perciò nel 1888 è stato creato l’alfabeto fonetico internazionale (IPA), ovvero una serie di simboli per
rappresentare le articolazioni dei suoni in modo univoco e internazionale (↓).
Come fare una trascrizione fonetica
(11/10) Le consonanti dell’alfabeto fonetico internazionale sono:
1. occlusive, ovvero:
a. [p], consonante occlusiva bilabiale sorda → ex. pelle, [‘pɛlle];
b. [b], consonante occlusiva bilabiale sonora → ex. busta, [‘busta];
c. [t], consonante occlusiva alveolare sorda → ex. tiepida, [‘tjɛ:pida];
d. [d], consonante occlusiva alveolare sonora → ex. dardo, [‘dardo];
e. [k], consonante occlusiva velare sorda → ex. china, [‘ki:na];
f. [g], consonante occlusiva velare sonora → ex. ghiro, [‘gi:ro];
g. [ʔ], consonante occlusiva glottidale → ex. la ama, [la’ʔa:ma];
2. fricative, ovvero:
a. [ɸ], consonante fricativa bilabiale sorda → ex. fiorentino, cupo, [‘ku:ɸo];
b. [β], consonante fricativa bilabiale sonora → ex. spagnolo, haber. [a’βer];
c. [f], consonante fricativa labiodentale sorda → ex. fifa, [‘fi:fa];
d. [v], consonante fricativa labiodentale sonora → ex. vive, [‘vi:ve];
e. [θ], consonante fricativa dentale sorda → ex. inglese, think, [θiŋk];
f. [ð], consonante fricativa dentale sonora → ex. inglese, this, [ðɪs];
g. [s], consonante fricativa alveolare sorda → ex. solco, [‘solko];
h. [z], consonante fricativa alveolare sonora → ex. roseto, [ro’zeto];
i. [ʃ], consonante fricativa postalveolare sorda → ex. sci, [ʃi];
j. [ʒ], consonante fricativa postalveolare sonora → ex. garage, [ga’ra:ʒə];
k. [ç], consonante fricativa palatale sorda → ex. tedesco, ich, [iç];
l. [x], consonante fricativa velare sorda → ex. tedesco, buch, [bux];
m. [ɣ], consonante fricativa velare sonora → ex. spagnolo, fuego, [‘fwe:ɣo];
n. [χ], consonante fricativa uvulare sorda → ex. tedesco, doch, [doχ];
o. [ʁ], consonante fricativa uvulare sonora → ex. francese, jour, [ʒuʁ];
p. [h], consonante fricativa glottidale → ex. inglese, he, [hi].
3. affricate, ovvero:
a. [pf], consonante affricata labiodentale sorda → ex. tedesco, apfel, [‘apfəl];
b. [ts], consonante affricata alveolare sorda → ex. pozza, [‘pottsa];
c. [dz], consonante affricata alveolare sonora → ex. zanzara, [dzan’dza:ra];
d. [tʃ], consonante affricata postalveolare sorda → ex. ciotola, [‘tʃɔ:tola];
e. [dʒ], consonante affricata postalveolare sonora → ex. geco, [‘dʒɛ:ko];
4. nasali*, ovvero:
a. [m], consonante nasale bilabiale → ex. melma, [‘melma];
b. [ɱ], consonante nasale labiodentale → ex. invidia, [iɱ’vi:dja];
c. [n], consonante nasale alveolare → ex. nona, [‘nɔ:na];
d. [ɲ], consonante nasale palatale → ex. legno, [‘leɲɲo];
e. [ŋ], consonante nasale velare → ex. panca, [‘paŋka]
5. laterali, ovvero:
a. [l], consonante laterale alveolare → ex. lite, ['lit:e];
b. [ʎ], consonante laterale palatale → ex. gli, [ʎi].
* le nasali si assimilano sempre per luogo di articolazione della consonante successiva: la n davanti a una fricativa
[f] o [v] diventa labiodentale [ɱ]; davanti a un’occlusiva [k] o [g] diventa velare [ŋ]. Davanti a una bilabiale [b] o
[p] si ha sempre la nasale [m].

Le approssimanti sono invece due:


1. [w], approssimante labiovelare → ex. uova, [‘wɔ:va];
2. [j], approssimante palatale → ex. ieri, [‘jɛ:ri].

La trascrizione fonetica si mette sempre tra parentesi quadre. L’accento tonico è indicato con un apice, posto
prima della sillaba su cui cade. L’allungamento di una vocale si segnala con i due punti, se la sillaba è aperta
(finisce con vocale) e accentata (ex. tifo → [‘ti:fo]). Il raddoppiamento consonantico va segnalato replicando il
simbolo (ex. gatto → [‘gatto]); con le consonanti affricate, la geminazione (= raddoppiamento) si segnala
replicando solo il primo dei simboli (ex. pazzo → [‘pattzo]). Alcune consonanti, ovvero [ʃ], [ts], [dz], [ɲ] e [ʎ], in
posizione intervocalica sono sempre lunghe, di conseguenza vanno scritte raddoppiate e non servono i
puntini per l’allungamento vocalico.
Le approssimanti sono [j] e [w], ma se in una parola la i o la u sono toniche, esse vengono considerate vocali (ex.
maria → [ma’ri:a]). Se la i è solo ortografica, essa non va posta (ex. cielo → [‘tʃɛ:lo]). Quando ci sono
agglomerati di più vocali, bisogna stare attenti alla sillabazione (ex. aiuola → [a’jwo:la], buia → [‘bu:ja]).
La trascrizione fonetica è richiesta nella pronuncia standard a base fiorentina emendata. Inoltre in IPA non
esistono le maiuscole e gli apostrofi.

Esercizio di trascrizione fonetica


congegno → [kon’dʒeɲɲo]
gigliaceo → [dʒiʎ’ʎa:tʃeo]
bagnomaria → [baɲɲoma’ri:a]
esplosione → [esplo’zjo:ne]
sardonico → [sar’dɔ:niko]
smembro → [z’membro]
smilzo → [z’miltso]
amicizia → [ami’tʃi:ttsia]
inchiostro → [iŋ’kjɔstro]
arabesco → [ara’besko]

La fonologia
(12/10) La fonologia studia fisicamente i suoni di cui le lingue si servono per comporre i segni linguistici; in
particolar modo studia l’organizzazione e il funzionamento dei suoni nel sistema linguistico, quali sono i fonemi di
una certa lingua, come si combinano i suoni e come si modificano i suoni in combinazione.
Esiste un tipo di trascrizione detta trascrizione fonematica o fonologica, più semplice rispetto alla trascrizione
fonetica. In una trascrizione fonematica, vanno trascritte solo le caratteristiche con valore distintivo per la
lingua; per esempio, in italiano è importante la posizione dell’accento e la lunghezza consonantica (non quella
vocalica). La trascrizione fonematica è indicata da due barre oblique (ex. cane, /’kane/).

Per fono s’intende ogni suono del linguaggio articolato prodotto dall’apparato fonatorio umano e la classe di
suoni che condividono le stesse caratteristiche articolatorie. Si tratta di un livello concreto di realizzazione, come
la parole di de Saussure. Il fono è l’unità minima in fonetica. Il fono non è distintivo (ex. la parola rana può essere
pronunciata [‘ra:na] o [‘ʁa:na] senza alcuna variazione di significato).
Un fonema è invece un fono che risulta pertinente, ovvero che ha un valore distintivo. Un fonema può
cambiare il significato di una parola (ex. le consonanti iniziali di [‘ka:ra] e [‘pa:ra] sono diverse e ciò cambia il
significato: si tratta quindi di fonemi). Il fonema corrisponde al livello astratto della langue ed è l’unità minima
in fonologia.

Per individuare i fonemi, si usa la prova di commutazione: si verificano l’inventario dei fonemi di una lingua
tramite sostituzione (ex. cara e para hanno due fonemi diversi perché si parla di due significati diversi). Nella
sostituzione, le vocali sono sempre comparate con vocali, le semivocali con altre semivocali, le consonanti con altre
consonanti, ecc. Tra loro, le vocali sono legate da una catena paradigmatica, mentre le consonanti e le vocali da
un’opposizione sintagmatica.
Con il termine “coppia minima” s’intende una coppia di parole fonologicamente uguali in tutto tranne che per
la presenza di un fonema che prende il posto di un altro. Una coppia minima identifica sempre due fonemi (ex.
[‘ra:na] e [‘la:na]. Il numero di fonemi varia da lingua a lingua.
Gli allofoni sono poi realizzazioni diverse di uno stesso fonema, senza carattere distintivo (ex. [r], [R], [ʁ], [ʋ],
i quali corrispondono tutti al fonema /r/).
Infine, le varianti combinatorie sono realizzazioni diverse di uno stesso fonema che dipendono dal contesto
fonotattico (ex. le diverse nasali non appaiono mai in una stessa situazione fonica, ma sempre in coppia con altre
consonanti). Le varianti combinatorie sono allofoni di uno stesso fonema. Per quanto riguarda le nasali, possiamo
dire che i foni [n], [m], [ɲ] possono essere anche fonemi /n/, /m/ e /ɲ/.

Nel 1939, Trubeckoj elabora tre regole fonologiche:


1. distribuzione contrastiva dei fonemi; quando due suoni ricorrono alle medesime posizioni e non possono
essere scambiati fra loro senza con ciò mutare il significato delle parole, allora questi due suoni sono
realizzazioni fonetiche di due diversi fonemi (ex. [‘pa:ne] e [‘ka:ne];
2. allofoni e varianti libere; quando due suoni della stessa lingua compaiono nelle medesime posizioni e si
possono scambiare fra loro senza causare variazione di significato della parola, questi due suoni sono solo
varianti fonetiche libere di un unico fonema (ex. [‘ka:ra], [‘ka:Ra], [‘ka:ʁa] e [‘ka:ʋa] → /’kara/);
3. allofoni e varianti combinatorie (o distribuzione complementare); quando due suoni di una lingua, simili
dal punto di vista articolatorio, non ricorrono mai nelle stesse posizioni, essi sono due varianti combinatorie
dello stesso fonema (ex. [‘no:ve], [aŋ’fi:bi], [iɱ’vi:dja]).
Se i suoni compaiono in contesti fonotattici diversi si tratta di allofoni (ex. [‘na:no] e [‘aŋkora]).
Se i suoni compaiono nello stesso contesto fonotattico, ma modificandone il significato, si tratta di fonemi (ex.
[‘pa:re] e [‘ta:re]).
Se i suoni compaiono nello stesso contesto fonotattico senza modificarne il significato, si tratta di varianti libere o
allofoni (ex. [‘ka:ra] e [‘ka:Ra]).

Secondo la teoria dei tratti distintivi, ogni unità si definisce in relazione a tutte le altre unità. I fonemi
intrattengono rapporti di opposizione, spesso privativi; ciò vuol dire che ogni elemento linguistico si differenzia
dagli altri per una serie di scelte binarie. Ogni lingua ha un numero limitato di tratti distintivi; quelli tipici della
lingua italiana sono:
1. sillabico: fonemi che possono costituire un nucleo sillabico, perché dotati di alta intensità intrinseca. Le
vocali possono sempre fare gruppo sillabico, le sole consonanti non possono mai;
2. consonantico: fonemi prodotti mediante la frapposizione di un ostacolo al soffio fonatorio nel tratto vocale;
3. sonorante: fonemi prodotti con vibrazione delle pliche vocali e passaggio dell’aria relativamente libero;
4. sonoro: fonemi prodotti con vibrazione delle pliche vocali;
5. continuo: fonemi che possono essere articolati senza interruzioni finché c’è aria espiatoria a disposizione;
6. nasale: fonemi prodotti con il velo palatino delle pliche vocali;
7. rilascio ritardato: fonemi prodotti in due fasi;
8. laterale: fonemi prodotti con il passaggio dell’aria ai lati della cavità orale;
9. arretrato: fonemi articolati con il dorso della lingua arretrato rispetto alla posizione neutra o di riposo;
10. anteriore: fonemi prodotti con ostruzione nella zona alveolare o in un luogo di articolazione rispetto a essa;
11. coronale: fonemi articolati con la parte anteriore della lingua sollevata rispetto alla posizione neutra;
12. arrotondato: fonemi prodotti con le labbra in arrotondamento;
13. alto: fonemi articolati con il dorso della lingua sollevata rispetto alla posizione di riposo o neutra;
14. basso: fonemi articolati con il dorso della lingua abbassato rispetto alla posizione neutra.
Le lingue selezionano i tratti distintivi dei loro fonemi e il loro numero. Per esempio:
1. l’inglese ne ha 34, ma diventano 44 se consideriamo i dittonghi;
2. il francese ne ha 36;
3. il tedesco ne ha 38;
4. lo spagnolo ne ha 24;
5. il cinese ne ha 31;
6. l’italiano ne ha 30, ma diventano 28 se non si considerano le approssimanti o 45 se si considerano le
consonanti lunghe.

Ciascuna lingua impone delle restrizioni alle combinazioni di suoni possibili. Le consonanti possono combinarsi
insieme in nessi consonantici, i quali sono soggetti a restrizioni. In particolar modo, in italiano:
1. [pr], [tr] e [fr] sono possibili, mentre non sono possibili [fts], [gv] e [gf];
a. [pr] è possibile sia in posizione iniziale di parola, sia in posizione interna;
b. al contrario, [rp] è possibile solo in posizione interna di parola (arpa), ma non in posizione iniziale;
2. se una parola inizia con tre consonanti, la prima deve essere una [s] o una [z].

Una regola fonologica collega una rappresentazione astratta a una rappresentazione concreta; serve a dare una
lista di istruzioni su come cambiare certe unità in un determinato contesto. La scrittura di una regola
fonologica è A → B/_C e si legge “l’elemento A diventa B nel contesto C”.
Una regola fonologica si può scrivere sia per i singoli fonemi (ex. s→ z/_ [d, b, g, v, n, l, r, dʒ]) sia per i tratti
distintivi (ex. [+nasale] → [+labiodentale]/_[+labiodentale][+dentale]).

Secondo la definizione data da Albano Leoni nel 1998, una sillaba è un’unità prosodica costituita da uno o più
foni agglomerati intorno a un picco di intensità. Una sillaba si costruisce intorno a una vocale, che ne
rappresenta il picco sonoro; di conseguenza, noi dividiamo le sillabe in base ai nuclei vocalici.
Il nucleo può essere preceduto e seguito da altri elementi: l’attacco, ovvero ciò che precede il nucleo, la coda, cioè
ciò che segue il nucleo sillabico, la rima, formata dall’associazione tra nucleo e coda. In base agli elementi di
cui è formata, la sillaba può essere:
1. aperta, formata da attacco + nucleo (ex. [‘ta.vo.la]);
2. chiusa, formata da eventualmente attacco + nucleo + coda (ex. [‘gat.to]).
In italiano gli schemi sillabici più comuni sono: V (ex. [‘a.pe]), CV (ex. [‘ma.no]), VC (ex. [‘al.to]), CCV (ex.
[‘sti.le]) e CVC (ex. [‘kan.to]).
Nei dittonghi discendenti, in cui è presente prima una vocale e poi un’approssimante, la sillaba è chiusa (ex. [‘voj]).
Nei dittonghi ascendenti, in cui è presente prima un’approssimante e poi una vocale, la sillaba è aperta (ex.
[‘pjɛ.di]).

Per dittongo intendiamo l’incontro di due vocali che appartengono alla medesima sillaba, di cui uno è
preminente sull’altro. I dittonghi ascendenti sono formati da un’approssimante e vocale (ex. [j] + V in
[pja’tʃɛre]; [w] + V in [‘fwɔri]. I dittonghi discendenti sono formati da vocale e approssimante (ex. V + [i] in
[fai]; V + [u] in [‘kauto]).
Per trittongo intendiamo l’incontro di due approssimanti e una vocale all’interno della medesima sillaba (ex.
[a.’jwɔ.la]).
Per iato intendiamo l’incontro di due vocali che appartengono a sillabe diverse (ex. [fol.’lo.a]).

Tra i fenomeni soprasegmentali segnaliamo:


1. l’accento, ovvero l’insieme delle caratteristiche foniche che mettono in rilievo una sillaba in una
sequenza. Per quanto riguarda la loro forza fonica, le sillabe toniche non hanno salienza percettiva.
L’accento può avere una posizione libera, come in italiano, o fissa, come in francese. Per esempio, in
italiano, una parola, in base alla posizione dell’accento, contando dall’ultima sillaba, può essere:
a. ossitona o tronca, con accento sull’ultima sillaba (ex. sarà, [sa’ra]);
b. parossitona o plana, con accento sulla penultima sillaba (ex. casa, [‘ka:sa]);
c. proparossitona o sdrucciola, con accento sulla terzultima sillaba (ex. camera, [‘ka:mera]);
d. bisdrucciola, con accento sulla quartultima sillaba (ex. capitano, [‘ka:pitano]).
Inoltre, in italiano, la posizione dell’accento ha valore fonologico (ex. [‘aŋkora] vs. [aŋ’ko:ra];
2. i clitici (ex. mi, ti, la, lo, ci, ecc) sono elementi atoni, ovvero non dotati di un accento proprio, perciò si
appoggiano sulla parola seguente, se essi sono proclitici, o che precede, nel caso degli enclitici. I clitici
possono combinarsi tra loro in sequenze complesse (ex. me lo presti);
3. la lunghezza riguarda invece l’estensione temporale relativa con cui i foni e le sillabe sono prodotti. Ogni
fono può essere breve o lungo. Le consonanti brevi vengono nette scempie, mentre quelle lunghe sono
dette geminate o doppie. In fonetica italiana, le vocali brevi sono convenzionalmente indicate con [a],
mentre le vocali lunghe con [a:]; le consonanti lunghe si indicano con un raddoppiamento [tt]. In alcune
tradizioni, anche la lunghezza consonantica è indicata con [t:]. Nelle consonanti affricate si raddoppia solo la
componente occlusiva (ex. [ts] → [tts]).

Infine, nel campo della fonologia si distingue tra tono e intonazione:


1. il tono è l’altezza relativa di pronuncia di una sillaba. Esso dipende dalla tensione delle corde vocali e
della laringe, quindi dalla velocità e frequenza delle vibrazioni delle corde vocali. Nelle lingue tonali (ex.
cinese), il tono può avere valore distintivo pertinente a livello di parola;
2. l’intonazione è l’andamento melodico con cui è pronunciata una frase o un intero gruppo tonale. Essa
dà informazioni sul valore pragmatico di un enunciato (ex. esclamazione, domanda, ecc.).
La morfologia
(17/10) La morfologia (dal greco morphé, forma) è la branca della linguistica che si occupa di studiare la forma,
o struttura, della parola. La morfologia studia i processi di modificazione morfologica, ovvero:
1. le diverse forme che le parole possono avere in base alla flessione (ex. gatto, gatta, gatte, gatti);
2. le operazioni di derivazione e composizione attraverso cui si creano parole nuove.
Con l'espressione “competenza morfologica” ci riferiamo all’insieme delle conoscenze che un parlante ha delle
parole della propria lingua. Con la competenza morfologica si valuta:
1. se una parola è ben formata;
2. se una parola è possibile o meno;
3. la categoria lessicale di una parola;
4. la combinazione di una parola con prefissi e suffissi;
5. la combinazione di una parola con altre parole.

Cos’è una parola? La parola è un’unità del linguaggio umano intuitivamente presente nella consapevolezza
linguistica dei parlanti. I linguisti non sono ancora arrivati a una definizione definitiva di parola. Esistono però
alcuni criteri generali che possono dare una definizione. Comunque, ciò che conta come parola in una lingua non è
detto che valga anche per le altre. Per esempio, in italiano esistono parole cortissime o parole lunghissime; in
nederlandese ci sono parole molto complesse che condensano più concetti in un unica parola; addirittura in
eschimese siberiano alcune parole hanno lo statuto di frasi. Questi criteri di definizione di parola sono:
1. criterio ortografico: una parola è ciò che è compreso tra due spazi bianchi. Ci sono tuttavia alcuni limiti:
a. alcune lingue non hanno un sistema di scrittura perché le lingue hanno una priorità orale;
b. in alcune lingue non compare la spaziatura grafica (ex. cinese);
c. la spaziatura potrebbe non essere sempre un criterio applicabile (ex. nave traghetto può essere
scritto anche navetraghetto);
2. criterio fonologico: una parola fonologica è ciò che si raggruppa intorno a un accento primario;
tuttavia:
a. non c’è spesso coincidenza con nozione di parola morfologica o sintattica; per esempio, alcune
parole, come i clitic, sono atoni;
b. alcune parole sono costituite da due accenti, uno primario e uno secondario, meno forte (ex.
capostazione).
3. enunciabilità in isolamento: una parola è un’unità linguistica che può essere usata da sola per formare
un enunciato; tuttavia:
a. le parole grammaticali, a meno che non si tratti di citazione, non hanno questa proprietà (ex.
articoli, preposizioni, congiunzioni, ecc).
4. non interrompibilità: una parola è un’unità al cui interno non è possibile inserire altro materiale
linguistico; tuttavia in alcune lingue non è possibile interrompere una struttura.

Più nello specifico, la parola può essere definita secondo:


1. il grado di coesione interna;
2. l’isolabilità: sono parole gli elementi linguistici che possono occorrere da soli, cioè che possono costituire
un enunciato;
3. la non interrompibilità: sono parole gli elementi linguistici che non possono essere interrotti mediante
l’aggiunta di altro materiale linguistico;
4. l’ordine dei morfemi: l’ordine dei morfemi che costituiscono una parola non può essere modificato;
5. la mobilità: sono parole gli elementi linguistici che possono spostarsi all’interno di una frase;
6. la pausabilità: sono parole gli elementi linguistici che possono essere preceduti e seguiti da una pausa.
Un esempio prototipico di parola è dormire [dor’mi:re]. Applicando i criteri vediamo che risolve l’enunciabilità in
isolamento (ex. Cosa vuoi fare? Dormire), la pausabilità (ex. ΔdormireΔ; Δ è simbolo di pausa) e la mobilità (ex.
Voglio dormire, è dormire che voglio); non risolve però il criterio di coesione interna (*iredorm, * è il simbolo di
agrammaticalità).
Un esempio non prototipico di parola è invece gli. Essa non ha accento proprio, non è interrompibile, ha un ordine
fisso dei morfemi, non ha mobilità di posizione e non è enunciabile in isolamento.
Secondo questi criteri, si può affermare che una parola può essere la minima associazione di significante e
significato autonoma, usabile in isolamento con un carattere prototipico (ovvero un esempio riconosciuto di
parola), che ha la possibilità di avere un accento proprio, isolabilità, coesione interna, pausabilità o mobilità.
Secondo questa definizione, sono più parole di altre quelle che hanno significato lessicale e sono suscettibili di
una modificazione flessionale.

Un morfema è un’unità linguistica minima di prima articolazione dotata di significato. Si differenzia dai
fonemi, unità minime senza significato reale, e dai sintagmi, unità dotate di significato ma non minime. Per
individuare i morfemi si usa il metodo della segmentazione o scomposizione. Per esempio, carnale si divide in:
1. “carn”, che dà la base lessicale grazie a cui possiamo creare altre parole (ex. carnoso, incarnire, carnefice…);
2. “al”, un morfema che si aggiunge per creare aggettivi con significato di “relativo a” (ex. globale → relativo
al globo, mortale → relativo alla morte…)
3. “e”, un morfema che dà l’indicazione di singolare.
Per valutare l’esistenza di un morfema all’interno di una struttura si usa la prova di commutazione (ex. carnale vs
carnali, fatale vs carnale, carne vs carnale).

Il termine morfema indica un’unità pertinente a livello del sistema, ma è qualcosa di astratto. Un morfo è invece un
morfema inteso come forma, dal punto di vista del significante. Per esempio, il materiale fonologico “carn” è il
morfo, mentre il morfema è l’insieme dei concetti che si porta con sé. Il pacchetto morfemico è insieme dei
significanti che si esprimono nei morfi.
Si dice allomorfo una variante formale di un morfema, che realizza lo stesso significato di un altro morfo
equifunzionale con cui si trova in distribuzione complementare; si tratta della variazione concreta di un
morfema. I due allomorfi non possono mai comparire nello stesso contesto. Queste varianti indicano la stessa cosa.
Per esempio, in inglese, il morfema {plurale} è rappresentato dal morfo /s/, ma che ha come allomorfi /s/, /z/ e /iz/
(ex. hip[s], head[z], dish[iz]). In italiano, invece, il morfema {plurale}può essere rappresentato dagli allomorfi /i/ o
/gli/ a seconda del contesto. L’allomorfia può avere cause diverse, da ricercare in trasformazioni avvenute lungo
l’asse diacronico; spesso si tratta di motivi fonosintattici. Per esempio, il morfema {negazione}in italiano è
rappresentato dal morfo /in/ e ha più allomorfi /in/, /im/, /il/, /ir/ (ex. in-accettabile, im-possibile, il-lecito,
ir-regolare).

Si parla invece di suppletivismo quando una serie morfologicamente omogenea ha radicali diversi. Le parole
di questa serie hanno quindi solo rapporti semantici, non formali. Esistono due tipi di suppletivismo:
1. in caso di flessione (ex. andare e vado);
2. in caso di derivazione (ex. acqua e idrico, cavallo ed equestre, fuoco e pririco).
Si divide poi in suppletivismo forte, in cui cambia l’intera radice (ex. Chieti → teatino), e suppletivismo debole,
in cui la base comune è ancora riconoscibile (ex. Arezzo → aretino).

A livello funzionale i morfemi si distinguono in:


1. morfemi lessicali, ovvero forme che hanno un significato lessicale che non dipende dal contesto. Si tratta
di una classe aperta;
2. morfemi grammaticali, che esprimono soprattutto delle funzioni grammaticali. Si tratta di una classe
chiusa; si dividono poi in derivazionali e flessionali.
Spesso questa distinzione non è certa: generalmente si guarda se è possibile scomporre, ma non sempre è una
scomposizione sempre netta (ex. lo, alcuni pensano sia scomponibile, altri no). Un morfema può essere formato
anche da un solo fonema (ex. -s del plurale inglese, la preposizione -a in italiano).
I morfemi sono divisi poi in:
1. morfemi liberi, che possono comparire da soli in una frase (ex. da, noi, ieri…);
2. morfemi legati, che non possono ricorrere da soli in una frase e si aggiungono sempre ad altre unità.
Tra questi ci sono i morfemi flessivi (ex -o del maschile singolare, le desinenze del verbo…), i suffissi (ex.
-trice, -zione…) e i prefissi (ex. ri-, s-, n-...).
Questa distinzione non è così netta in tutte le lingue: per esempio, in italiano, i morfemi lessicali, o radici, sono in
realtà morfemi legati (ex. can-e, fin-ire) e sono poche le parole che non si modificano per una flessione. In inglese,
al contrario, sono tantissimi i morfemi lessicali liberi (ex. dog, end); si dice perciò che l’inglese ha una struttura
morfologica impoverita, perché sono pochissime le variazioni.

Le parole possono essere formate da più morfemi. In inglese le parole sono generalmente monomorfemiche (ex.
table, nice, walk…). In italiano, invece, nomi e aggettivi semplici sono generalmente bimorfemici e i verbi
trimorfemici (ex. tavol-o, carin-o, cammin-a-re…), nonostante esistano anche parole più complesse (ex.
precipit-evol-issim-evol-mente). Di conseguenza se, per esempio, in inglese togliamo la desinenza del plurale -s si
ottiene un morfema libero; invece, se togliamo la -i plurale in italiano, abbiamo una forma incompleta.

(18/10) In base alla posizione che i morfemi assumono all’interno della parola, possiamo distinguere nella lingua
italiana:
1. morfemi lessicali o radici;
2. affissi, che si combinano con la radice. Si dividono a loro volta in:
a. prefissi, ovvero affissi che si attaccano alla prima parte della radice (ex. in-utile);
b. suffissi, ovvero affissi che si attaccano dopo la radice (ex. cambi-ament-o).
In altre lingue si possono trovare anche diversi tipi di affissi, tra cui:
c. infissi, ovvero affissi inseriti dentro la radice per modificare le parole (ex. nella lingua indigena del
lingua del Nicaragua, kuhbil → kuhkabil);
d. circonfissi, ovvero degli affissi formati da due parti che contengono al loro interno la radice (ex. in
tedesco, sagen → gesagt);
e. transfissi, cioè affissi tipici delle lingue semitiche che si incastrano alternativamente dentro la radice,
generando discontinuità sia dell’affisso sia della radice (ex. in arabo, [ki’ta:b] “libro” → [‘kutub]
“libri”);
f. morfemi sostitutivi, i quali si manifestano nella sostituzione di un fono con un altro (ex. in inglese,
foot → feet);
g. morfemi zero, quando una distinzione obbligatoriamente marcata nella grammatica di una certa
lingua è rappresentata nel significante (ex. in inglese, sheep (singolare) → sheep (plurale));
h. morfemi soprasegmentali, in cui un certo valore morfologico si manifesta per mezzo di un tratto
soprasegmentale, come il tono o la posizione dell’accento (ex. in inglese, record [‘rɛkɔ:d]
“registrazione” vs record [ri’kɔ:d] “registrare”);
i. morfemi cumulativi, ovvero morfemi grammaticali che portano più di un valore (ex. in italiano,
am-o: prima persona singolare, presente indicativo);
j. morfemi amalgamati o amalgami, che sono il prodotto della fusione di due morfemi (ex. in francese,
au = à + le).

Si differenziano poi due processi di modifica morfologica:


1. la derivazione, un processo opzionale che dà luogo a parole regolandone i processi di formazione.
Agisce sempre prima della flessione e, di conseguenza, i morfemi derivazionali si trovano più vicini alla
radice rispetto a quelli flessionali (ex. gatt-il-e). I morfemi derivazionali mutano i significati della base a cui
si attaccano apportando nuove informazioni, cambiando la classe di appartenenza e la funzione semantica
della parola, o modulandone il senso; possono dare origine a nuove classi di parole (ex. consulto →
consult-ori-o, consult-iv-o, consult-azion-e);
2. la flessione, un processo obbligatorio nella lingua italiana, che dà luogo a forme di una parola
regolandone il modo in cui si attualizzano nelle frasi (ex. gatt-o, gatt-a).

Si può provare a scomporre la parola socializzabilità, che diventa {soci} - {al} - {izz} - {abil} - {ità} - {0} perché:
- {soci} è un morfema lessicale o radice e porta il significato di “socio”, “compagno”;
- {al} è un morfema derivazionale o suffisso e crea un aggettivo “relativo a”;
- {izz} è un morfema derivazionale, che indica il passaggio da un aggettivo a un verbo (in questo caso da
sociale a socializzare
- {abil} è un morfema derivazionale che crea aggettivo potenziale;
- {ità} è un morfema derivazionale che indica la creazione di un sostantivo astratto;
- {0} indica il morfema flessionale; si scrive “0” perché la parola non è modificabile in
singolare/plurale/maschile.
Il morfema -abil- è controverso nell’ambito morfologico: alcuni studiosi pensano che sia composto esso stesso da
due unità, ovvero -a- e -bil-, in quando -a- indicherebbe la vocale tematica che deriva dal verbo. Con vocale
tematica di un verbo, s’intende la vocale iniziale della desinenza dell’infinito dei verbi; essa indica
l’appartenenza della forma a una determinata classe di forme della lingua. Alcuni linguisti la aggiungono alla radice
lessicale. Inoltre, -abil- è allomorfo con -ibil (ex. bev-ibil-e) ed -ebil- (ex. indel-ebil-e).

Se invece provassimo a scomporre la parola sociologia, si noterebbe com in questo caso non abbiamo una base
lessicale e dei morfemi derivazionali, ma abbiamo dei prefissoidi e suffissoidi ereditati dal greco antico:
1. con il termine prefissoide, ci riferiamo a morfemi che sono allo stesso tempo morfemi lessicali e
derivazionali, radici e prefissi, come auto- o socio-. Auto-, infatti, deriva dal greco per indicare qualcosa che
si fa da soli, ma per uso ha perso la sua natura e ora si riferisce al termine automobile;
2. con il termine suffissoide indichiamo morfemi con un significato lessicale, come le radici, ma che si
comportano come suffissi nella formazione delle parole. Per esempio -logi(-a) porta il significato
semantico di “studio”, ma va attaccato ad altra parola come se fosse un suffisso.
Prefissoidi e suffissoidi, detti anche semiparole o confissi, derivano principalmente dalle lingue classiche e danno
luogo a composti neoclassici.

Le parole composte sono formate da due parole agganciate tra loro a formare un’entità unica, i cui membri
sono perfettamente identificabili e preservano il loro significato lessicale normale. Un esempio è la parola
nazionalsocialismo, che si compone di due radici lessicali che preservano entrambe il loro valore semantico.
Nella costruzione di parole composte, in italiano si preferisce usare l’ordine modificando-modificatore, in cui il
modificando funziona da testa sintattica (ex. portacenere); esistono comunque dei controesempi, come
bagnoschiuma. La testa del composto si identifica perché esso eredita i caratteri sintattico-semantici della testa.
La composizione permette di formare parole nuove a partire da due parole esistenti (ex. capo + stazione =
capostazione). Le parole composte possono essere modificate da meccanismi derivazionali (ex. croce + rossa =
crocerossa → crocerossina). Il significato dei composti non è sempre derivabile in modo trasparente (ex.
rompiscatole), ma a volte il significato è idiomatico perché va al di là dei significati degli elementi originari.
In italiano, la testa del composto si trova prevalentemente a sinistra, ma può capitare che nelle parole che
derivano da altre lingue si trovi a destra (ex. terremoto → terrae motus, overdose).
I composti sono classificati in:
1. endocentrici, quando hanno una sola testa (ex. capostazione);
2. esocentrici, quando non hanno alcuna testa (ex. dormiveglia, portalettere, purosangue, senzatetto);
3. composti dvandva o di coordinazione, quando hanno due teste (ex. cassapanca).
In italiano, per creare un composto sono possibili solo alcune combinazioni di classi grammaticali, tra cui:
1. nome + nome (ex. crocevia, capostazione);
2. aggettivo + aggettivo (ex. pianoforte, dolceamaro);
3. nome + aggettivo (ex. camposanto, cassaforte);
4. preposizione + nome (ex. dopobarba, oltretomba);
5. verbo + verbo (ex. saliscendi, dormiveglia);
6. verbo + avverbio (ex. buttafuori, viavai);
7. nome + verbo (ex. manomettere, crocefiggere);
8. verbo + nome (ex. lavapiatti, prendisole).
Alcuni composti, come verbo + preposizione, nome + preposizione, preposizione + aggettivo o verbo + aggettivo,
non sono possibili.
I composti dell’italiano presentano tantissime irregolarità. Per marcare la morfologia flessionale, si possono
utilizzare diversi modi:
1. flettendo il secondo elemento, al termine del composto (ex. bassorilievi);
2. flettendo internamente solo il primo elemento, se è la testa (ex. capistazione);
3. flettendo entrambi gli elementi in alcuni casi, come quando ci sono due teste (ex. cassepanche);
4. alcuni composti non variano mai (ex. portaerei).
La regola più produttiva nei composti è quella di flettere il primo elemento, nonostante le eccezioni.

Per unità lessicali plurilessematiche (polilessematiche, plurilessicali, polirematiche) intendiamo sintagmi fissi
che rappresentano un’unica entità di significato, non derivabile per semplice composizione (ex. gatto
selvatico); spesso sono intrisechi di idiomaticità (ex. essere al verde). Le unità lessicali plurilessematiche
rappresentano una categoria ampia a cui appartengono anche i verbi sintagmatici (ex. buttare giù) e i binomi
coordinati (ex. usa e getta).
Le unità lessicali bimembri sono formate da due parole che non hanno raggiunto un vero e proprio grado di
fusione (ex. sedia elettrica, scuola guida).
Le sigle sono formate dalle lettere iniziali delle parole piene che formano unità plurilessematiche (ex. FS,
Cgil).
Le parole macedonia sono il prodotto di un’unione con accorciamento di due parole diverse (ex. cantautore,
mapo).

La suffissazione rappresenta uno dei più importanti procedimenti di formazione di parola, che permette il cambio
di classe grammaticale. I suffissi più frequenti in italiano sono:
1. -zion- (allomorfi: -azion-, -izion-, -uzion-, ecc), che trasforma un verbo in un nome (ex. iniziazione);
2. -ment- (allomorfi -iment-, -ument-, ecc), che trasformano il verbo in nome (ex. cambiamento);
3. -ier-, -a(r)i- e -tor-, che trasformano un nome o un verbo in nome (ex. parrucchiere);
4. -ità, che trasforma un aggettivo in nome (ex. amenità);
5. -abil-, -os-, -al-, -an-, -evol-, -es-, -ic-, -ist-, che trasformano un verbo o un nome in aggettivo (ex. amabile);
6. -izz-, che trasforma un nome o un aggettivo in verbo (ex. ionizzare);
7. -mente, che trasforma un aggettivo in avverbio (ex. fortemente).
Esistono poi i suffissi alterativi, come -in-, -ell-, -ucc-, -on-, che cambiano il valore della parola (ex. cuoricino).

La prefissazione, diversamente dalla suffissazione, non cambia mai la categoria grammaticale delle parole. I
prefissi più frequenti sono in-, s- e dis-, ad-, con-, a-, ri e re-, anti-, ecc.

Con l’espressione conversione zero, detta anche derivazione o suffissazione zero, indichiamo la presenza di
coppie di parole, un verbo e un nome o un aggettivo, con stessa radice lessicale ma privi di suffisso.
Se la coppia è formata da un verbo e un nome, la base è il verbo (ex. fiorire e fiore). Se la coppia è formata da un
verbo e un aggettivo la base è l’aggettivo (ex. calmo e calmare). Questo meccanismo è particolarmente attivo in
inglese (ex. cut vuol dire sia taglio sia tagliare).

(19/10) I morfemi flessionali danno luogo alle diverse forme di cui una parola può presentarsi nel suo
impiego nel discorso senza modificare il significato della radice lessicale a cui si attaccano. Agiscono solo sulle
classi suscettibili di flessione. I morfemi flessionali realizzano valori delle categorie grammaticali; un morfema
flessionale realizza un valore di una categoria grammaticale, rappresentando una marca di essa.
I morfemi sono divisi in diverse categorie:
1. categorie grammaticali o morfosintattiche, come il genere, il numero, il caso, il tempo, la persona, il
modo, ecc;
2. categorie lessicali, come nome, aggettivo, preposizione, ecc.
Per esempio, buona e buono appartengono alla stessa categoria lessicale, ma a una diversa categoria grammaticale;
al contrario buona e pasta appartengono a una diversa categoria lessicale, ma a una stessa categoria grammaticale.

Le categorie grammaticali pertinizzano e danno espressione linguistica ad alcuni significati fondamentali,


più comuni e frequenti, di portata generale, che diventano categorici per una determinata lingua e che devono
obbligatoriamente essere espressi, in quanto previsti dalla grammatica. Si dividono in:
1. categorie scoperte, quando le distinzioni categoriali sono fonologicamente evidenti (ex. il genere in
italiano);
2. categorie coperte, quando le distinzioni categoriali non sono fonologicamente espresse (ex. il genere in
inglese).
Inoltre tra le categorie grammaticali flessionali possono individuate delle sottocategorie:
1. le categorie nominali, che operano sui nomi:
a. il genere. In italiano, la categoria del genere si esprime con i due morfemi del maschile e del
femminile (ex. bambin-o, bambin-a); in latino e in tedesco ci sono invece tre categorie di genere:
maschile, femminile e neutro (ex. die Frau, der Herr, das Mädchen). Il genere grammaticale non
corrisponde per forza al genere biologico. In italiano, tedesco e latino, il genere è segnalato dal fatto
che il nome e l’aggettivo correlati sono in accordo, ovvero mostrano gli stessi tratti flessionali; solo in
italiano e in latino, però, l’accordo si realizza anche tra il soggetto e il predicato nominale;
b. il numero. In italiano, la categoria del numero è marcata con i due morfemi del singolare e del
plurale (ex. bambin-o, bambin-i); altre lingue, come il greco e l’arabo, hanno il singolare, il plurale e
il duale per indicare le coppie di oggetti; infine, altre lingue ancora possono avere più valori come il
triale o il paucale (ex. lingue dell’Oceania). L’accordo può manifestarsi qui tra aggettivo e nome,
aggettivi, nome e verbo, soggetto e verbo;
c. il caso, che mette in relazione la forma della parola con il suo ruolo sintattico nella frase. Nelle
lingue che possiedono un sistema casuale, il numero dei casi può variare: per esempio il tedesco ne ha
quattro, il latino ne ha sei, le lingue uraliche e caucasiche ne hanno una decina;
2. le categorie verbali, che operano sui verbi, tra cui:
a. modo, che esprime la maniera in cui il parlante si pone nei confronti del contenuto di quel che
viene detto (ex. bevo al modo indicativo indica certezza, berrei al modo condizionale indica
incertezza);
b. tempo, che indica la posizione temporale in cui si colloca l’azione (ex. presente, passato o futuro);
c. aspetto, che indica la maniera in cui vengono osservati e presentati l'azione o l’evento in
relazione al loro svolgimento (ex. perfettivo o imperfettivo). In italiano, l’aspetto è pertinente per i
verbi al tempo passato ed espresso attraverso, per esempio, il tempo imperfetto (imperfettivo) o il
tempo passato prossimo (perfettivo). Alcuni verbi sono più lessicalmente perfettivi degli altri,
ovvero esprimono azioni che tipicamente sono compiute e non progressive (ex. raggiungere e
camminare): in questo senso si parla di azionalità del verbo;
d. diatesi, ovvero la relazione dell’azione col soggetto parlante (ex. voce attiva, passiva o riflessiva);
e. persona, che indica le caratteristiche di chi compie l’azione (ex. io bevo).

Con l’espressione “parti del discorso”, dette anche categorie lessicali o classi lessicali, indichiamo le categorie
grammaticali a livello di parola, che classificano le parole raggruppandole in classi a seconda della natura
del loro significato, del loro comportamento nel discorso e delle loro caratteristiche flessionali e funzionali.
Solo alcune parti del discorso sono suscettibili di flessione. Esse includono: il nome o sostantivo, l’aggettivo, il
verbo, l’avverbio, l’interiezione, il pronome, l’articolo, la preposizione e la congiunzione. Di queste si considerano
aperte, ovvero possiamo creare nuovi componenti, solo il nome, l’aggettivo, il verbo, l’avverbio e l’interiezione;
inoltre, sono variabili solo il nome, l’aggettivo, il verbo, il pronome, l’articolo e la preposizione.

Dal punto di vista del loro comportamento morfologico, le lingue possono essere classificate in quattro tipi
morfologici diversi:
1. isolanti, che tendono a isolare ciascuna parola rispetto alle altre. Queste lingue sono definite con
morfologia impoverita perché la parola è formata da un solo morfema, le parole tendono a essere
monosillabiche e i morfemi tendono a essere liberi (ex. vietnamita);
1. agglutinanti, che tendono ad agglutinare i morfi alla radice. In queste lingue le parole sono composte da
più morfemi e ciascun morfema è normalmente portatore di una specifica informazione grammaticale,
definendosi di valore univoco, i morfemi sono facilmente individuabili, l’allomorfia è rara e c’è regolarità
grammaticale (ex. turco);
2. flessive o fusive, che tendono a cumulare più significati su un singolo morfema; nello specifico si dicono
flessive se è presente in esse molta morfologia flessionale e fusive se si sommano e fondono più significati su
un solo morfema flessionale. In queste lingue i morfemi liberi sono molto scarsi e hanno una morfologia
molto irregolare (ex. italiano). Un sottotipo è rappresentato dalle lingue introflessive, in cui la flessione
avviene nella parte centrale della parola.
3. polisintetiche o incorporanti, quando troviamo sia morfemi grammaticali sia morfemi lessicali attaccati
insieme; in questo caso la morfologia realizza funzioni grammaticali che in altre lingue sono solitamente
realizzate nella sintassi (ex. groenlandese occidentale). Sono anche dette incorporanti dal momento che nella
stessa parola troviamo sia radice nominale sia verbale.

Esercitazione di morfologia
1. medicinali → {medic} - {in} - {al} - {i}
2. spremuta → {s} - {prem} - {ut} - {a}
3. autoritario → {autor} - {it} - {ari} - {o}
4. disunioni → {dis} - {un} - {ion} - {i}
5. spiacevolmente → {s} - {piac} - {evol} - {mente}
6. svogliatamente → {s} - {vogli} - {ata} - {mente}
7. indebolimenti → {in} - {debol} - {iment} - {i}
8. carroarmato → {carr} - {o} - {arm} - {a} - {t} - {o}
9. decontaminare → {de} - {contamin} - {a} - {re}
10. rileggevano → {ri} - {legg} - {e} - {v} - {ano}
11. concorrenza → {con} - {corr}- {e} - {nz} - {a}
12. scongelato → {s} - {con} - {gel} - {a} - {t} - {o}

Morfemi derivazionali vs flessionali


1. Il dentista mi aveva toccato un nervo scoperto.
2. Ieri siamo andati al mare.
3. Questo risotto è immangiabile.
La sintassi
(24/10) La sintassi (dal greco syntaxis) è la disciplina che si occupa del modo in cui le parole si combinano in
unità di livello superiore e della loro organizzazione in frasi.
Per frase intendiamo un’entità linguistica autosufficiente che normalmente funziona come un’unità
linguistica. La frase contiene una predicazione, cioè assegna una proprietà a una variabile o a una relazione
fra più variabili; la predicazione è di norma affidata al verbo. Esistono comunque frasi senza verbo, dette frasi
nominali.
Le frasi si dividono in due macroclassi:
1. frasi semplici o clausole (dall’inglese clause), che contengono una sola predicazione (ex. Silvia pensa alla
gara);
2. frasi complesse o proposizioni, che contengono più di una predicazione (ex. Silvia pensa che la gara sarà
un successo).

Il compito della sintassi è quello di capire come sono organizzati fra loro le parole e i gruppi di parole che
costituiscono la struttura della frase; per fare ciò si ricorre alla scomposizione o segmentazione in unità.
L’analisi della frase in costituenti può essere rappresentata in modi schematici diversi, come diagrammi o grafi ad
albero, boxes, parentesi, parentesi indicizzate o etichettate, ecc. Gli alberi etichettati rendono graficamente la
struttura della frase, rendendo evidente lo sviluppo lineare e i rapporti gerarchici tra i costituenti. Un albero è un
grafo, formato da nodi da cui si originano rami, che rappresenta l’indicatore sintagmatico della frase; un
nodo è un sottolivello di analisi della sintassi; ogni nodo contiene il simbolo della categoria a cui appartiene il
costituente di quel sottolivello.
Questo è un esempio di grafo ad albero (←). Le
abbreviazioni principali sono:
1. F per frase;
2. SN per sintagma nominale;
3. SV per sintagma verbale;
4. N per nome;
5. v per verbo;
6. Art per articolo.
L’indicatore sintagmatico può essere anche rappresentato
nelle parentesi, soprattutto per i sintagmi più piccoli; in
questo si possono rappresentare anche indicatori
sintagmatici minimali.
Nei grafi ad albero si aggiunge il simbolo Ø per
indicare il sintagma nominale non specificato
sintatticamente.

Un sintagma è la minima combinazione di parole che funzionano come unità sintattiche coese. Alcune unità
sintagmatiche predominano all’interno di un sintagma: la testa è la classe che rappresenta il minimo elemento
che da solo possa funzionare da un determinato sintagma (ex. il libro blu). I sintagmi devono essere formati da
almeno una parola, ma possono avere diversa complessità. Esistono, infatti, i sintagmi minimi (ex. polli) e i
sintagmi complessi (ex. tutti quei miei quattro polli grassi). Nel sintagma nominale la testa è il nome, mentre nel
sintagma verbale la testa è il verbo.
Altro esempio di
grafo ad albero (→).

Possiamo individuare tre tipi principali di sintagmi:


1. il sintagma nominale, la cui testa è il nome;
2. il sintagma verbale, la cui testa è il verbo
3. il sintagma preposizionale, la cui testa è la preposizione. In questo tipo di sintagma, la preposizione da sola
non funziona da sintagma (ex. nella frase “vivo a Bologna” il sintagma preposizionale è “a Bologna”).
Tutte le categorie lessicali di parole piene possono essere teste di sintagma: per esempio, nei sintagmi
aggettivali la testa è l’aggettivo, mentre nei sintagmi avverbiali la testa è l’avverbio.

Nell’ambito della grammatica generativa, Noam Chomsky


ha elaborato la teoria X-barra, che si concentra sulla
rappresentazione delle frasi in sottocostituenti (←). La
teoria X-barra individua i diversi ranghi di complessità
di un sintagma (X) con il ricorso a delle barre o apici
sovrapposte al simbolo, al fine di segnalare il grado di
complessità del sintagma (ex. Xˡ, Xˡˡ). I ranghi di
complessità sono rappresentanti dei vari sottocostituenti in
ordinamento verticale, dal basso verso l’alto.

I sintagmi preposizionali hanno uno statuto diverso rispetto agli altri sintagmi: essi si possono attaccare al
sintagma verbale/nominale che modificano (ex nella frase “Gianni ha letto un libro con piacere”, il sintagma
“con piacere” è legato a sintagma verbale; nella frase “Gianni ha letto un libro con la copertina blu”, il sintagma
“con la copertina blu” si lega al gruppo nominale già legato al sintagma verbale) o alla frase intera (ex. nella frase
“Gianni ha letto un libro per tutta la notte”, il sintagma “per tutta la notte” si lega direttamente alla frase intera
perché è un costituente diretto della frase).

Nella rappresentazione sintagmatica si seguono questi principi generali:


1. i sintagmi sono in successione lineare, ma in rapporto tra di loro;
2. ogni costituente deve essere rappresentato sulla base del suo rango gerarchico;
3. i possibili sintagmi della frase F sono il sintagma nominale SN, il sintagma verbale SV, il sintagma
preposizionale Sprep, il sintagma avverbiale SAvv e il sintagma aggettivale SAgg;
4. ogni elemento sul ramo di destra di un nodo modifica o si relaziona con l’elemento alla sua sinistra
sotto lo stesso nodo;
5. i costituenti fratelli hanno la stessa ramificazione;
6. si usano apici tutte le volte che c’è lo stesso simbolo di categoria in due nodi successivi;
7. un sintagma nominale può contenere al suo interno uno o più sintagma preposizionali;
8. una posizione esterna al nodo F, che si diparte da un nodo F che ha al terminale dell’altro ramo un
nodo F più basso può essere occupata da un sintagma preposizionale o avverbiale che modifichi
l’intera frase;
9. alcuni sintagmi possono avere due interpretazioni.

Le funzioni sintattiche ci informano sul ruolo che i sintagmi assumono nella struttura della frase. I sintagmi
nominali funzionano da soggetto o da complemento oggetto; i sintagmi verbali funzionano da predicato; i
sintagmi preposizionali funzionano da oggetto indiretto o da complemento introdotto da preposizione. Le
funzioni sintattiche sono spesso marcate morfologicamente tramite il caso e l'accordo in base anche al tipo
morfologico della lingua (ex. in latino è il caso che ci indica la funzione del sintagma nella frase).

Poiché ogni elemento del sintagma verbale ha un certo tipo di valenza, si usano schemi valenziali per spiegare la
sua struttura. Il verbo ha valenze o argomenti di cui determina numero e natura e sono richiesti obbligatoriamente.
Esistono diversi schemi valenziali:
1. verbi zerovalenti (ex. i verbi meteorologici), che non hanno la necessità di esprimere un soggetto o un
complemento oggetto;
2. verbi monovalenti (ex. parlare), che hanno bisogno di un unico altro elemento, ovvero il soggetto;
3. verbi bivalenti (ex. catturare), che hanno bisogno di avere due elementi, il soggetto e il complemento
oggetto;
4. verbi trivalenti (ex. dare), che hanno bisogno di tre elementi;
5. verbi tetravalenti (ex. tradurre), che hanno bisogno di quattro elementi.
Si parla di valenze omesse quando non tutte le posizioni dello schema sono saturate (ex. bere → si può dire solo
bevo). In alcuni verbi, infatti, non è necessario specificare tutte le valenze; in questo caso si dice che i verbi sono
assoluti.
Gli argomenti sono gli elementi obbligatori degli schemi valenziali, come per esempio il soggetto, che funziona
da prima valenza dei verbi, e l’oggetto, ovvero la seconda valenza verbale, che tipicamente nei verbi transitivi ha la
funzione di complemento oggetto. I circostanziali sono elementi del verbo facoltativi che non sono parte stretta
dello schema argomentale di quel verbo, ma che esprimono informazioni aggiuntive.

Grafo ad albero della frase “Il rapper ha lanciato il disco a


mezzanotte” (←).

Grafo ad albero della frase “La figlia di Pietro sposerà mio


figlio” (→).
(25/10) Con l'espressione ruoli semantici o tematici ci riferiamo al modo in cui il referente di ogni sintagma
contribuisce e partecipa all’evento rappresentato dalla frase. In questo modo si guarda alla frase come la
rappresentazione di una scena di un evento, puntando l’attenzione su una prospettiva semantica. Non esiste un
procedimento formale che permette di individuare in modo univoco i ruoli: infatti, non esiste una lista completa dei
possibili ruoli semantici e la terminologia è oscillante. C’è accordo solo sui ruoli principali, ovvero:
1. l’agente, cioè colui che compie l’azione espressa dal predicato in modo intenzionale;
2. l’esperiente o il paziente, colui che sperimenta lo stato psicologico espresso dal predicato;
3. il tema, l’entità interessata dall’azione o stato espressi dal predicato, cui vengono spesso applicate
modificazioni nella forma e stato;
4. il beneficiario, l’entità che trae beneficio dall’azione espressa dal predicato;
5. lo scopo (o destinazione, meta, fine o goal), entità verso la quale è diretta l’attività espressa dal predicato;
6. lo strumentale, entità attraverso la quale si porta a compimento l’azione descritta dal predicato;
7. l’origine o provenienza, entità dalla quale qualcosa si muove in seguito all’attività espressa dal predicato;
8. il locativo, luogo in cui sono situati l’azione o stato espressi dal predicato.
Le funzioni sintattiche e i ruoli semantici condividono rapporti di tipo preferenziale, ma non c’è una relazione
biunivoca (ex. l’agente tende a comparire come soggetto, ma non lo è sempre). Nelle frasi passive il rapporto tra
funzione sintattica e ruolo semantico cambia: la sovrapposizione si disgiunge e, se i ruoli semantici sono uguali,
la funzione sintattica di soggetto e oggetto cambia (ex. secondo la funzione sintattica: [Gianni] soggetto [mangia]
predicato [la mela] oggetto → [La mela] soggetto [è mangiata] predicato [da Gianni] complemento d’agente;
secondo il ruolo semantico: [Gianni] agente [mangia] predicato [la mela] paziente → [La mela] paziente [è
mangiata] predicato [da Gianni] agente).

Dal punto di vista del valore pragmatico-informativo che una frase può avere in un evento comunicativo
possiamo poi dividere in diversi tipi di frasi:
1. frasi dichiarative, che affermano (ex. Luisa va a Milano);
2. frasi interrogative, che pongono una domanda (ex. Luisa va a Milano?); a livello fonetico sono segnalate
dal tratto soprasegmentale dell’intonazione;
3. frasi esclamative, che esprimono un’esclamazione (ex. Luisa va a Milano!);
4. frasi iussive o imperative, che esprimono un ordine o un’istruzione (ex. Luisa, va’ a Milano!)
In base alla sua struttura informativa, la frase può essere composta di due elementi:
1. il tema (dal greco théma), o in inglese topic, è l’entità attorno a cui si predica qualcosa, la parte di
enunciato che si riferisce a ciò di cui si sta parlando;
2. il rema (dal greco rhéma), o in inglese comment, è la predicazione che viene fatta, quel che si dice a
proposito del tema.
Tema e rema formano la struttura tematica di un enunciato (ex. [Silvia] T [studia la matematica] R; [Ieri] T
[pioveva] R). Preferenzialmente, il tema si trova in prima posizione, ma ci sono delle eccezioni. Ogni frase deve
avere una parte rematica, ma non deve esserci obbligatoriamente un tema: alcune frasi sono dette atematiche
perché mancano della parte tematica (ex. Spegni il proiettore!).
Un'altra suddivisione in ambito informativo è quella tra:
1. dato, ovvero l’elemento noto, precedentemente introdotto nel discorso oppure già parte delle conoscenze
condivise tra gli interlocutori;
2. nuovo, cioè il dato che porta informazioni sconosciute.
Spesso c’è sovrapposizione tra dato e tema, e nuovo e rema, ma non sempre è il caso. Sebbene si possono
incontrare queste nozioni, esse hanno a che fare con concetti ed elementi diversi all'interno dello scambio
comunicativo. Il binomio tema-rema è incentrato sull’emittente, che stabilisce di cosa vuol parlare e cosa vuol dire
a quel proposito; il binomio dato-nuovo è incentrato sul ricevente a cui si propone di aspettarsi delle conoscenze
che non aveva in precedenza (ex. [Hai presente Luigi?] D [Adesso vive in America] N → [Hai presente] R [Luigi?]
T [Adesso] T [vive in America] R).
Possiamo quindi affermare che esistono quattro tipi di prospettive di analisi sintattica per analizzare una frase:
1. una prospettiva configurazionale, che rappresenta la struttura dei costituenti attraverso, per esempio, i grafi
ad albero;
2. una prospettiva sintattica vera e propria, che analizza le funzioni sintattiche dei costituenti (ex. soggetto,
complemento oggetto, predicato verbale, ecc);
3. una prospettiva semantica, che analizza i ruoli semantici dei costituenti (ex. agente, paziente, scopo, ecc);
4. una prospettiva pragmatico-informativa, che analizza le funzioni comunicative dei costituenti (ex. tema vs
rema, dato vs nuovo).
Per esempio la frase “Giorgio beve” può essere analizzata in [Giorgio]SN [beve]SV secondo un livello
configurazionale, in [Giorgio]Sog [beve]PV secondo un livello sintattico, in [Giorgio]Ag [beve]Az secondo un
livello semantico e in [Giorgio]T [beve]R secondo un livello pragmatico-informativo.

Tema-rema e dato-nuovo sono entità lineari e possono occupare posizioni diverse nelle diverse lingue, secondo le
caratteristiche sintattiche di ciascuna. In italiano l’ordine non marcato degli elementi è SVO
(soggetto-verbo-oggetto), ma quest’ordine può essere modificato.
Alcuni meccanismi con cui si può modificare l’ordine della frase sono:
1. la dislocazione a sinistra, che permette di mandare a tema un costituente rematico, spostandolo nella
parte sinistra dell’enunciato (ex. [Elena]S [spegne]V [il televisore]O → [Il televisore]O lo [spegne]V
[Elena]S). Di solito si usa per dare maggiore risalto all’oggetto;
2. il tema sospeso o libero, quando c’è uno spostamento, ma il costituente che viene anteposto non ha un
legame morfosintattico esplicito con la frase a cui si attacca (ex. Elena, avevano chiesto un favore);
3. la dislocazione a destra, che tematizza un elemento che nell’ordine non marcato è rematico. L’elemento
è isolato sul margine destro dell’enunciato e lo si fa precedere da un clitico cataforico (ex. Elena spegne il
televisore → Elena lo spegne, il televisore). A livello fonetico possiamo avere diverse curve intonative, o
unitarie (ex. Elena lo spegne il televisore) o non unitarie (ex. Elena lo spegne, il televisore).
4. la frase scissa, che consente di mettere a focus un elemento, separandolo dal resto della preposizione.
Con focus ci riferiamo al punto di maggior salienza comunicativa della frase. In questo modo la frase risulta
divisa in due parti: il verbo essere seguito dall’elemento focale e il subordinatore generico che e il resto della
frase che contiene un’informazione data (ex. Elena spegne il televisore → È Elena che spegne il televisore).

La grammatica generativa è una teoria degli anni ‘50 del Novecento elaborata da Noam Chomsky, che ha avuto
grande successo in ambito computazionale a partire dagli anni ‘70 e ‘80. La nozione principale è che il linguaggio
verbale è un sistema cognitivo, specifico del genere umano, formato da un insieme di conoscenze mentali
interiorizzate che permettono a un parlante nativo ideale di produrre messaggi verbali nella propria lingua.
Nell’ambito della grammatica generativa si divide quindi tra competenza, individuale, interna, inconscia e innata,
ed esecuzione. La grammatica generativa intende costruire una teoria della competenza, cioè esplicitare e
formalizzare, mediante regole e principi, l’insieme di intuizioni che sono alla base della conoscenza implicita che
un parlante nativo ideale ha della propria lingua. La grammatica generativa concentra il proprio interesse
sull’ambito sintattico, al fine di predire in modo esplicito, formalizzato e con metodo matematico le frasi
possibili di una lingua. La grammatica è vista come un sistema generativo in grado di generare sempre nuove frasi
con un numero limitato di elementi sintattici di base combinati in vari modi. Questi elementi sono:
1. il lessico, ovvero le parole con il loro significato e le loro proprietà;
2. le regole, che forniscono istruzioni e permettono di descrivere formalmente il meccanismo di formazione
delle frasi. Esse sono di diverso tipo:
a. si tratta di regole di riscrittura a struttura sintagmatica quando X → Y + Z oppure F → SN + SV;
b. si tratta di una regola ricorsiva quando a destra della freccetta è contenuto di nuovo il simbolo di
categoria che sta a sinistra della freccetta (ex. SN → SN + Sprep);
c. si tratta di regole contestuali quando contengono una barra obliqua e si possono applicare solo nei
contesti specificati da quanto viene formalizzato dopo la barra; la linea orizzontale indica il contesto
locale, cioè la posizione in cui sta la categoria interessata dalla regola (ex. V → legge/[+Um]_).
La grammatica generativa presuppone che una frase abbia due strutture:
1. una struttura superficiale, ovvero la forma sintattica della frase così come appare, in superficie, come è
rappresentata dagli indicatori sintagmatici;
2. una struttura profonda, cioè un’organizzazione strutturale astratta che sta dietro ad ogni frase
possibile prodotta con una certa struttura superficiale; in questo modo si analizzano i rapporti semantici e
sintattici che danno conto della interpretazione della frase.
Questa opposizione ci permette di disambiguare facilmente frasi ambigue.

Le frasi semplici possono combinarsi in sequenze strutturate più lunghe dette frasi complesse o periodi. La
sintassi del periodo è così un ulteriore sottolivello di analisi del sistema linguistico. Le frasi possono combinarsi per
formare un periodo con diversi meccanismi, tra cui:
1. la coordinazione, che lega due o più frasi (sia principali sia subordinate tra loro) sullo stesso piano;
2. la subordinazione, che lega due o più frasi su piani diversi. Le frasi subordinate dipendono da frasi
principali o altre frasi subordinate e da teste lessicali e sintagmatiche (nominali, aggettivali o verbali).
I connettivi sono elementi che eventualmente realizzano i rapporti di coordinazione o subordinazione. Le
frasi subordinate si dividono poi in diverse categorie:
1. subordinate avverbiali o circostanziali, che modificano l’intera frase da cui dipendono, come le causali,
temporali, concessive, ipotetiche o finali (ex. esco, benché piova);
2. completive o argomentali, che riempiono una valenza o argomento del predicato verbale, come le
soggettive, le oggettive e le interrogative indirette (ex. pare che oggi sia più caldo);
3. subordinate relative, che modificano un costituente nominale della frase (ex. non ho più risposto al
messaggio che mi ha inviato Valeria).

Albero con circostanziale (←).

Albero con completiva oggettiva (→).


Albero con relativa (←).
La semantica
(31/10) La semantica è il settore della linguistica che si occupa dello studio del significato dei segni linguistici.
Nel 1883 il linguista Michel Bréal coniò il termine sémantique, derivato dal greco, che sostituisce il termine
semasiologia, definita come la scienza delle significazioni, lo studio delle leggi che regolano i cambiamenti del
significato delle espressioni linguistiche; inizialmente l’interesse era più diacronico.

Il significato è l'informazione o il contenuto trasmessi da


un'espressione linguistica, da un segno o da un elemento linguistico.
Il rapporto tra realtà, linguaggio e pensiero è rappresentato dal triangolo
di Ogden e Richards (→). Un approccio referenzialista al triangolo
pone un legame diretto tra simbolo e concetto, mentre gli approcci
cognitivi pensano che il punto cardine sia il pensiero e il modo in cui noi
rielaboriamo i significati.

Il significato può essere declinato in modi diversi:


1. significato denotativo, il quale è oggettivo e corrisponde a ciò che viene espresso in relazione al referente.
Ci permette di individuare l’oggetto nel mondo che il segno sta segnalando, ha valore di identificazione (ex.
cane: mammifero della famiglia Canidi, taglia, colori e pelo variabili, 4 zampe, 42 denti);
2. significato connotativo, il quale è oggettivo e risulta connesso alle sensazioni suscitate da un segno
linguistico e alle associazioni a cui esso dà luogo. Ha quasi una sfumatura interpretativa (ex. cane:
animaletto peloso, dolce, simpatico, saltellante).
Un’altra distinzione può essere fatta tra:
1. significato linguistico, che corrisponde al significato che un’espressione ha in quanto appartenente a
una lingua;
2. significato sociale, che corrisponde al valore che un'espressione può assumere in uno scambio tra
parlanti.
Possiamo poi distinguere tra:
1. significato proposizionale o della frase, ovvero il significato della successione delle parole senza un
contesto (ex. Quella è la porta come espressione con valore dichiarativo);
2. significato dell’enunciato o del parlante, ovvero il significato della frase in una certa situazione (ex.
Quella è la porta come un invito).
Infine un’ultima distinzione è tra
1. significato lessicale, caratteristico dei termini che rappresentano oggetti concreti o astratti, entità o
concetti della realtà esterna (ex. cane, bravo, bere, ecc). I termini dal significato lessicale vengono chiamati
parole piene;
2. significato grammaticale, tipico dei termini che rappresentano concetti o rapporti interni al sistema
linguistico, alle categorie che questo prevede o alle strutture a cui esso dà luogo (ex. da, la, benché, tu, ecc).
I termini dal significato grammaticale vengono chiamati parole vuote.

Nel campo della semantica si distingue tra significato e senso; un significato, infatti, può avere più sensi. Per senso
intendiamo il significato contestuale, nello specifico il contesto d’uso; è la concretizzazione del contenuto che un
termine assume ogni volta che viene effettivamente usato in un certo contesto linguistico (ex. finestra come
apertura in una parete vs. finestra come riquadro sullo schermo di un computer).

Riprendendo due concetti della filosofia medievale, distinguiamo anche tra:


1. intensione, ovvero l’insieme delle proprietà che individuano l’entità cui si applica un’espressione, è il
concetto designato dal termine (ex. cane → insieme delle proprietà essenziali per qualificare un’entità come
cane);
2. estensione, cioè l’insieme delle entità a cui è applicabile un’espressione, tutti gli individui a cui
l’espressione si può applicare (ex. cane → insieme dei cani).

L’unità minima d’analisi a livello semantico è il lessema, ovvero la parola dal punto di vista del significato. Il
lessico è l’insieme dei lessemi di una lingua.
Nello specifico, la lessicologia è lo studio del lessico che fornisce i modelli teorici dell’organizzazione del
lessico; la lessicografia è lo studio dei metodi e della tecnica di composizione dei vocaboli e dei dizionari. In
questo ambito, il lemma è la specifica entrata del dizionario.
Il lessico è formato da diversi strati; per rappresentarlo, si potrebbe utilizzare una sorta di bersaglio, in cui
all’interno ci sono le parole più comuni. Questi strati sono:
1. un vocabolario di base formato circa 7000 parole divise in:
a. vocabolario fondamentale, che comprende i vocaboli di massima frequenza (ex. e);
b. vocabolario di alto uso, che comprende parole conosciute da chi ha un livello medio di istruzione (ex.
biblioteca);
c. vocabolario di alta disponibilità, che ha a che fare con il lessico mentale dei parlanti e comprende
parole legate alla vita quotidiana (ex. alluce).
2. un vocabolario comune, con parole anche più specialistiche ma di uso abbastanza largo (ex. algoritmo);
3. un vocabolario corrente, che include parole più o meno frequenti che circolano anche al di fuori di ambiti
d’uso specialistici;
4. uno strato esterno, formato da regionalismi (ex. pirla), vocaboli di uso letterario (ex. alcione), vocabolari
settoriali come i linguaggi tecnico-scientifici, vocaboli obsoleti (ex. ablepsia) e hapax o parole occasionali
(ex. acerbitate in Dante).

Tra i lessemi possiamo trovare diversi tipi di rapporti, secondo una terminologia introdotta da Louis Hjelmslev:
1. rapporti paradigmatici, ovvero delle relazioni che un certo elemento semantico ha con un’altra unità in
base al loro significato. È un tipo di relazione in absentia, perché estraiamo un significato in relazione ad
altri significati che non vengono scelti; si tratta di associazioni soggettive con rapporti semantici già
consolidati. Tra questi ci sono:
a. la sinonimia, una relazione tra lessemi diversi ma con uno stesso significato. La sinonimia assoluta
(ex. tra e fra) è quasi impossibile, perciò si parla di quasi sinonimia o sinonimia parziale, perché
spesso due parole, pur denotando la stessa cosa nel mondo, hanno dietro una diversa connotazione (ex.
papà e padre). Si parla di geosinonimia quando alcune parole sono sinonime solo in alcune varianti
regionali (ex. papà e babbo). Si parla di sinonimia contestuale nel caso di una sinonimia con valenza
locale, ovvero quando alcune parole sono sinonime solo in un contesto pragmatico (ex. prendere e
togliere, in alcuni contesti indicano la stessa azione, ma normalmente hanno diverso significato);
b. le relazioni di opposizione, che si verificano quando il significato di un lessema è il contrario di
quello di un altro. Si dividono a loro volta in:
i. rapporti binari:
1. gli antonimi, se si hanno due lessemi che indicano gli estremi di una scala con valori
intermedi (ex. giovane e vecchio);
2. i complementari, se si hanno due lessemi che sono l’uno la negazione dell’altro senza
gradazioni (ex. vivo e morto);
3. l’inversione, se si hanno lessemi che esprimono la stessa nozione ma da prospettive
opposte (ex. comprare e vendere);
4. gli opposizioni direzionali (ex. su e giù) e i conversi (ex. prima e dopo);
ii. rapporti non binari:
1. l’incompatibilità, che coinvolge lessemi non proprio in opposizione, ma in una
sequenza ciclica (ex. primavera, autunno, inverno, estate);
c. l’omonimia, quando per uno stesso significante esistono diversi significati non legati
semanticamente tra loro (ex. riso come participio passato di ridere e riso come cereale). Negli
omografi l’omonimia concerne solo la grafia (ex. pesca come indicativo presente di pescare e pesca
come frutto); negli omofoni l’omonimia concerne anche la pronuncia (ex. pianta e pianta);
d. la polisemia, quando per un significante esistono diversi significati legati tra loro (ex. tastiera del
computer e tastiera come strumento musicale);
e. l’enantiosemia, quando uno stesso termine ha due significati diversi ma in un rapporto di
opposizione (ex. tirare come lanciare e tirare come attrarre verso di sé);
f. le relazioni di iperonimia e iponimia. Si tratta di una relazione di tipo verticale, con una gerarchia tra
le parole coinvolte: in questo rapporto c’è un lessema dal significato generale (iperonimo) che
include un termine meno ampio (iponimo) (ex. felino e gatto). Gli iponimi sono i lessemi
subordinati. Si parla di coiponimi quando ci si riferisce a iponimi dello stesso iperonimo (ex. gatto e
tigre sono coiponimi dell’iperonimo felino). Per esprimere l’inclusione delle classi si usa il termine IS
A: X include Y (ex. felino include gatto). Quando si riferisce questa relazione ai verbi si preferisce
usare il termine troponimia, con la formula teorica X è un modo di Y (ex. i triponimi sigillare,
tappare, serrare sono dei modi di chiudere). L'estensione dell’iponomo è un sottoinsieme
dell’estensione dell’iperonimo. L’intensione dell’iponimo è più specifica e contiene tratti in più
rispetto a quella dell’iperonimo.
g. la meronimia, ovvero una relazione che intercorre tra un lessema che denota una parte e un
lessema che denota il tutto corrispondente. Anch’essa è una relazione gerarchica che si identifica
con la formula IS A PART OF: X (meronimo) è parte di Y (olonimo) (ex. unghia è una parte di
mano). Il rapporto tra meronimo e olonimo si differenzia dal rapporto iperonimo/iponimo perché nel
primo il meronomo non eredita le caratteristiche dell’olonimo;
2. rapporti sintagmatici, ovvero che riguardano la successione lineare degli elementi linguistici lungo la
catena del discorso. Si tratta di rapporti in praesentia, tra i lessemi effettivamente utilizzati nella frase,
regolati dalla struttura della lingua e dalle regole grammaticali;
a. le collocazioni, ovvero combinazioni di parole che tendono a concorrere molto spesso o
caratterizzate da fissità o limiti distribuzionali (ex. verbi frasali o sintagmatici come buttare giù o
espressioni idiomatiche come tirare le cuoia). Le collocazioni più frequenti sono lessemi che
concorrono con pochi altri lessemi (ex. madornale), lessemi che compaiono solo in alcune locuzioni
(ex. a zonzo) ed espressioni lessicalmente fisse (ex. fare paura). Le collocazioni cambiano da lingua a
lingua in base a delle convenzioni lessicali che impongono dei limiti combinatori (ex. in italiano si
dice prendere provvedimenti e non decidere provvedimenti). Inoltre, si inseriscono in questa categoria
anche lessemi complessi (ex. carta da parati), binomi e trinomi fissi (ex. aglio, olio e peperoncino),
espressioni stereotipiche (ex. tragica scomparsa) e formule di saluto (ex. distinti saluti). Inoltre, le
combinazioni possono essere formate da varie categorie sintagmatiche, come verbo + nome (ex.
prestare attenzione), nome + sintagma preposizionale (ex. pizzico di sale), nome + aggettivo (ex. caffè
macchiato) o verbo + avverbio (ex. pentirsi amaramente).

(2/11) I lessemi vanno a creare degli insiemi lessicali di diverso tipo:


1. il campo lessicale, cioè un insieme di lessemi che coprono una data area concettuale delimitandosi a
vicenda nel significato (ex. i nomi dei colori). Questo è il concetto base dell’approccio saussuriano alla
semantica;
2. la sfera semantica, ovvero ogni insieme di lessemi che abbiano in comune il riferimento a un certo
ambito semantico, un’area di oggetti o concetti, un insieme di attività fra loro collegate;
3. la famiglia semantica, un’insieme di parole derivate da una stessa radice lessicale;
4. la gerarchia semantica, cioè un’insieme in cui ogni termine è parte determinata di un termine che
nell’insieme lo segue in una certa scala di misura (ex. secondo, minuto, ora, giorno, mese…).

Un altro elemento nell’analisi dei significati è la distinzione tra il significato letterale e non letterale:
1. il significato letterale è un significato proposizionale, cioè che riusciamo a dedurre dalla combinazione
della frase secondo il principio di composizionalità;
2. il significato non letterale è un significato non concreto di base, ma addizionale, cioè che non si può
dedurre dalla pura sequenza di parole. Vengono definiti un’“anomalia semantica” dai generazionisti, ma
in realtà i significati non letterali sono estremamente comuni. Tra essi ricordiamo:
a. la metafora, con sequenza A è B (ex. Marcell Jacobs è una scheggia). Esse possono essere:
i. dirette o copulari, con una struttura X è Y (ex. Quel libro è un mattone);
ii. indirette, quando una parola viene usata in un contesto nel quale non può intendere il
significato tradizionale che ha di base, ma deve essere interpretata in maniera metaforica
(ex. Ho divorato l’ultimo saggio di Maura Gancitano). Moltissime delle metafore del
linguaggio quotidiano sono indirette e possono essere attivate da varie parti del discorso;
b. la metonimia, con sequenza A sta per B (ex. ho letto Dante → in questo caso autore=libro);
c. l’ironia, in cui una frase con significato letterale viene opposta a una frase dal significato non
letterale (ex. Che bella giornata! in una giornata di pioggia);
d. le espressioni idiomatiche (ex. prendere fischi per fiaschi);
e. le espressioni con significato pragmatico diverso da quello linguistico (ex. quella è la porta usato
come invito).

Esistono diversi modi per analizzare i significati di una frase. Uno dei metodi principali è l’analisi componenziale
o semica, secondo cui il significato è analizzabile in base a sole relazioni intralinguistiche, senza necessità di
ricorso alla realtà extra-linguistica. Il significato è analizzabile per scomposizione in unità semantiche più
piccole, chiamate componenti, tratti semantici o semi. Secondo questo metodo, un numero infinito di segni
linguistici è ottenuto combinando un numero finito di tratti. Il significato è una configurazione di tratti semantici
emergenti per via oppositiva. In questo
metodo si applica lo stesso dello
strutturalismo in ambito fonologico,
ovvero si descrivono i lessemi in
termini di tratti semanticamente
astratti. A lato un esempio di
applicazione (→).
Secondo questo modello, i linguisti Katz e Fodor hanno analizzato
la parola bachelor nel 1963, costruendo uno schema ad albero in cui
il marcatore, ovvero la caratteristica in comune a tutti i diversi
significati, è maschio e viene scritta tra parentesi tonde, mentre i
differenziatori, ovvero le caratteristiche che rendono un significato
diverso dall’altro sono segnati tra parentesi quadre. Inoltre, secondo
la regola di ridondanza, vengono omessi i tratti inclusi in quello
gerarchicamente più alto: se bachelor è [+UMANO] allora è anche
per forza [+ANIMATO]. Questo tipo di analisi della marcatezza
non è sempre possibile: per esempio nella coppia di lessemi
pecora/montone il tratto non marcato è semplicemente [femmina].
Questo metodo di analisi porta con sé una serie di limitazioni:
1. non è chiaro cosa siano i tratti;
2. i tratti possono essere considerati delle parole travestite (ex. come si può spiegare il tratto MASCHIO
oltre che con il rimando alla parola maschio?);
3. nel caso delle espressioni dal significato non composizionale, come le metafore, questa analisi risulta
impossibile;
4. l’analisi risulta impossibile anche nella descrizione di significati connotativi (ex. nubile e zitella hanno
uno stesso significato denotativo e una stessa definizione ma portano con sé un senso diverso);
5. nel caso di vaghezza semantica, è impossibile determinare se un’espressione si applica o meno a un
referente (ex. quanti capelli bisogna avere per corrispondere alla parola calvo?).

A causa del problema del rapporto tra lingua e mondo si è provato ad analizzare il significato secondo diverse
categorizzazioni. I problemi di queste categorizzazioni sono che le parole, in quanto entità linguistiche, tendono
a distinguere lo spazio categoriale in modo discreto, ovvero quando ci riferiamo alle cose le definiamo ponendo
barriere tra quella cosa e un’altra; inoltre, gli oggetti, in quanto entità del mondo, presentano una variazione
continua di forme e combinazioni (ex. tazza e bicchiere non sono sempre definibili in modo chiaro).
Con il termine categorizzazione intendiamo il processo con cui formiamo le categorie che sono alla base della
nostra attività cognitiva, creando una segmentazione del continuum extralinguistico e raggruppando le
entità in classi o categorie. Non esiste un unico modo per guardare alla categorizzazione, ma sono proposti diversi
modelli. Il più antico e conosciuto è il modello di Aristotele, secondo cui ogni categoria ha proprietà necessarie
per definire la categoria stessa e sufficienti a distinguerla dalle altre; inoltre, ogni categoria è discreta, cioè ha
confini netti ed è internamente non strutturata, generando equivalenza tra i membri. I maggiori problemi
della categorizzazione aristotelica sono il fatto che i membri di una categoria non sempre condividono un insieme
definito di proprietà essenziali, che non sempre possiamo definire un membro come appartenente a una certa
categoria e che alcuni membri potrebbero essere più tipici di altri.
Più di recente, nel 1965, la linguista Eleanor Rosch individua una nuova categorizzazione in cui:
1. i fattori non linguistici hanno un ruolo cruciale nella creazione e strutturazione delle categorie;
2. una categoria non è definita da proprietà necessarie e sufficienti;
3. le categorie hanno confini vaghi e i loro membri si dispongono lungo un continuum con zone d’ombra;
4. le categorie sono internamente strutturate, in quanto accolgono membri più tipici e meno tipici (ex.
nella categoria uccello rientrano sia un passero sia un pinguino);
5. le categorie non sono arbitrarie, ma rispondono a principi percettivi e cognitivi;
6. le categorie sono strutturate intorno a un esempio migliore o prototipo.
Nella categorizzazione di Rosch (←), abbiamo un livello
superordinato che ci indica una classe di appartenenza. Nel
livello intermedio ci sono le categorie di livello base, che sono
psicologicamente basilari e più importanti linguisticamente (ex.
mobilio → sedia, tavolo, letto). In questa categoria troviamo i
prototipi esemplari, ovvero i membri più rappresentativi
della categoria che hanno maggiore salienza psicologica e
sono riconosciuti più velocemente e appresi prima dai
bambini.
Anche questo tipo di categorizzazione riporta però dei problemi.
Per esempio, il prototipo non può spiegare tutti i significati
linguistici, come i concetti astratti; inoltre, non riesce a
spiegare la vaghezza. Poi, non si conosce la natura delle proprietà prototipiche da attribuire alle categorie. Infine,
questo modello di categorie causa un riduzionismo concettuale: si appiattisce la dimensione linguistica su quella
cognitiva in quanto si fanno coincidere le categorie semantiche con le categorie concettuali.
Linguistica testuale
(9/11) La textlinguistik o linguistica testuale sposta l'unità di analisi linguistica dal livello frasale al livello testuale.
Tra i suoi obiettivi principali ci sono:
1. definire le condizioni di testualità;
2. individuare i criteri per i diversi tipi di testi, sia scritti sia orali;
3. studiare la competenza testuale.
L’unità di analisi è il testo, il quale è, secondo la definizione di de Beaugrande e Dressler del 1981, un’unità
comunicativa la cui produzione e comprensione dipende da fattori linguistici e non linguistici legati al
contesto. Per contesto si intende sia il contesto linguistico, detto anche co-testo, ovvero la parte di
comunicazione verbale che precede e che eventualmente segue il testo in oggetto, sia il contesto
extralinguistico, cioè la situazione specifica in cui la combinazione di frasi è prodotta.
Sono stati individuati sette principi della testualità; i primi due riguardano la struttura superficiale del testo, gli
altri cinque riguardano il rapporto tra testo e condizioni in cui questo testo è prodotto:
1. la coesione, ovvero il modo in cui le componenti del testo di superficie sono collegate fra loro. Si dice
coesivo qualunque elemento serva per assicurare questa coesione; si dice coeso un enunciato che presenti
coesione. La coesione di un testo dipende dalle strutture sintattiche ed è assicurata da una serie di mezzi
linguistici (ex. pronomi, referenti testuali, anafore, connettivi…). Tra gli elementi più importanti per la
coesione di un testo abbiamo:
a. l’anafora, che consiste nella presenza di elementi per la cui interpretazione è necessario far
riferimento al contesto linguistico precedente (ex. Ho preso il cane e l’ho portato fuori);
b. la catafora, cioè la presenza di elementi per la cui interpretazione è necessario far riferimento al
contesto linguistico seguente (ex. Io lo porto fuori il cane).
In entrambi i casi si individuano elementi coreferenti, cioè elementi che rimandano a un’identica entità
designata.
2. la coerenza, che riguarda la non contraddittorietà delle strutture semantiche. Dipende dalla struttura
semantica del testo e dalle relazioni tra i concetti espressi nel testo. La coerenza può essere distinta in tra tipi:
a. tematica, che riguarda la progressione degli eventi (ex. Stamattina sono tornata a casa, ho fatto la
doccia, ho mangiato e ho fatto un pisolino è un testo coerente; Stamattina sono andata a letto, ho
mangiato, sono tornata a casa non è un testo coerente);
b. logica, che riguarda i legami logici tra le frasi (ex. Domani non vado in palestra perché ho uno
strappo muscolare è una frase coerente; Domani non vado in palestra perché ho comprato una
tovaglia gialla non è una frase coerente);
c. semantica, che riguarda la compatibilità tra i significati delle parole (ex. Ho bruciato il cartone
con l’accendino è una frase coerente; Ho bruciato il ferro con l’acqua per non frantumarlo non è una
frase coerente);
3. l’intenzionalità, che si riferisce all’atteggiamento del producente testuale che vuole formare un testo
capace di soddisfare le sue intenzioni. Il producente testuale ha delle intenzioni comunicative e sfrutta il
testo per perseguire determinati scopi o realizzare un progetto (ex. intrattenimento, convincimento,
critica…);
4. l’accettabilità, che concerne l’atteggiamento del ricevente ad attendersi un testo coesivo e coerente che
sia utile e rilevante. Essa sottintende la disponibilità di chi riceve il testo a essere cooperativo, cioè cercare
di comprendere il testo per perseguire uno scopo condiviso con il producente;
5. l’informatività, che riguarda la misura in cui gli elementi testuali proposti sono attesi o inattesi oppure
noti o ignoti. Riguarda quindi il grado di prevedibilità o probabilità che determinati elementi o informazioni
compaiono nel testo;
6. la situazionalità, che riguarda quei fattori che rendono un testo rilevante per una situazione
comunicativa. Per situazione comunicativa si intende l’insieme delle circostanze, sia linguistiche sia
sociali, nelle quali l'atto linguistico viene prodotto;
7. l’intertestualità, che concerne i fattori che fanno dipendere l'utilizzo di un testo dalla conoscenza di
uno o più testi già accettati in precedenza. Tra gli elementi principali dell’intertestualità abbiamo:
a. la citazione, quando un testo viene ripreso senza modifiche all’interno di un altro testo, con l’uso di
virgolette;
b. l’allusione, quando un testo viene ripreso all’interno di un altro testo amalgamandolo, senza confini
ben precisi.
Coesione e coerenza si fondano su caratteristiche più testuali e linguistiche; intenzionalità e accettabilità si
focalizzano sui partecipanti nel testo; informatività e situazionalità riguardano il contesto; nell’intertestualità il
focus è sul rinvio ad altri testi.

Possiamo poi individuare tre principi regolativi della testualità:


1. l’appropriatezza, che corrisponde al modo in cui sono soddisfatte le condizioni di testualità;
2. l’efficienza, che specifica il grado di difficoltà che un testo richiede per la sua elaborazione;
3. l’efficacia, che riguarda l’effetto prodotto dal testo, cioè la sua capacità di persuadere il ricevente al
perseguimento di uno scopo.

La linguistica testuale lavora anche sulle immagini: qui di seguito alcune pubblicità che violano i principi della
testualità.

Iperbole visuale e
violazione della coesione
(←)

Sinestesia visuale e
violazione della coerenza
(→)

Metafora visuale e
violazione della coerenza
(←)

Metonimia visuale che agisce sull’intenzionalità (→)


Metafora visuale che agisce sull’intenzionalità (←)

Pubblicità che agisce sull’accettabilità (→)

Pubblicità con riferimento intertestuale (←)

Pubblicità che agisce sulla situazionalità (→)

La deissi è un fenomeno con valore testuale che può esplicarsi in modi diversi in accordo al quale abbiamo
difficoltà a integrare il significato convenzionale di un’espressione. È il fenomeno per il quale la comprensione
del significato di alcune espressioni dipende dal contesto. Deissi e ambiguità non sono simili: l’ambiguità offre
una serie di possibili interpretazioni semantiche. I linguisti Charles Fillmore e John Lyons affermano che le
espressioni deittiche hanno una natura egocentrica, perché l'interpretazione è legata ai cinque componenti del
centro deittico o origo, ovvero il punto di partenza sulla base del quale si può interpretare l’espressione deittica;
questi sono: la persona, cioè chi proferisce l’enunciato, il luogo, il tempo, il testo, ovvero gli elementi del
discorso, e la situazione sociale, cioè relazione che parlante ha con gli ascoltatori.
Le espressioni deittiche possono essere divise in cinque categorie:
1. i deittici personali, che sono espressioni linguistiche che codificano il ruolo rivestito dai partecipanti a
un evento comunicativo (ex. pronomi personali, clitici, desinenze verbali, aggettivi possessivi, allocutivi).
Tra questi ritroviamo: la prima persona che identifica il parlante, la seconda persona che identifica
l’interlocutore, la terza persona gli individui terzi, il noi inclusivo e il noi esclusivo;
2. i deittici spaziali, ovvero espressioni linguistiche che codificano localizzazioni in relazione al luogo del
centro deittico (ex. avverbi di luogo, aggettivi e pronomi dimostrativi). Possiamo dividerli in deittici
prossimali (ex. qui, questo) e distali (ex. là, quello);
3. i deittici temporali, ovvero espressioni linguistiche che codificano punti o intervalli di tempo in
relazione al tempo determinato dal centro deittico (ex. avverbi come ora, poi, dopo, tempi verbali).
Fillmore distingue tra tempo di codifica, ovvero il tempo di produzione del messaggio, e tempo di
ricezione; quando coincidono si parla di simultaneità deittica;
4. i deittici testuali;
5. i deittici sociali, cioè espressioni ancorate alla componente della situazione sociale di un centro deittico.
Indicano lo status o il ruolo sociale di un parlante; Si divide in deittici sociali assoluti, associati a parlanti o
interlocutori autorizzati (ex. Vostro Onore), e in sociali relazionali, associati al ruolo del parlante (ex. tu o
lei).
Per quanto riguarda il centro deittico, invece, possiamo dire che generalmente coincide col parlante e le
coordinate spaziali, temporali e personali deittiche sono orientate rispetto a questa origine. Esistono però delle
eccezioni. Per esempio, all’interno di un discorso riportato, un parlante riferisce le parole di un altro
parlante. Ci sono poi le proiezioni deittiche, ovvero quando un parlante prende come riferimento della narrazione
un altro soggetto. Infine, il centro deittico potrebbe anche non essere individuabile: potremmo, ad esempio, non
conoscere le circostanze all’interno delle quali è stato prodotto un testo scritto, quindi gli elementi deittici
potrebbero non essere interpretabili.
La pragmatica
(14/11) Il termine pragmatica del linguaggio è stato introdotto da Charles Morris nel 1938 nell'ambito della
semiotica.
La pragmatica si configura come lo studio delle relazioni tra i segni e i loro utenti. La pragmatica viene distinta
dalla sintassi e dalla semantica:
1. la sintassi studia le regole con cui le parole sono ordinate per creare frasi riconoscibili come ben formate, con
focus sul rapporto dei segni e valuta la grammaticalità delle frasi;
2. la semantica studia i significati delle singole parole e come si combinano nell’espressione globale trasmessa
dall’insieme delle parole che compongono la frase, e distingue tra frasi sensate e non sensate;
3. la pragmatica si concentra sull'uso effettivo che gli esseri umani fanno del linguaggio, guarda ai contesti
in cui le frasi sono prodotte e a come i significati siano influenzati da questi stessi contesti. Il suo focus è
sull’uso dei segni e sulle conseguenze che questo uso ha nei diversi contesti; distingue tra frasi appropriate
o non appropriate.

La pragmatica (dal greco pragma, azione) è lo studio dell’uso del linguaggio nel contesto. Noi, in quanto parlanti,
abbiamo delle abilità pragmatiche, ovvero delle conoscenze delle regole attraverso cui adattiamo la lingua al
contesto in cui ha luogo la conversazione.
In pragmatica non si parla di frasi, ma di enunciati ed enunciazioni. Un enunciato è una frase concretamente
impegnata in una situazione comunicativa; è l’unità minima di analisi della pragmatica. Un’enunciazione è la
particolare occorrenza di un enunciato; si parla di enunciazione quando ci si riferisce a tutte le volte che un
enunciato ricorre.
Paul Grice, nel suo saggio To mean del 1957, ispeziona il verbo significare per capire com’è possibile che le cose
abbiano significati diversi. Una prima distinzione classifica in:
1. significato naturale, quando rimandiamo qualcosa indipendentemente da una qualsiasi intenzione. Si
basa su una connessione causale o temporale tra fatti e segni (ex. Quelle macchie significano morbillo);
2. significato non naturale, quando non c’è una connessione naturale, ma c’è la volontà di qualcuno di
comunicare qualcosa (ex. Quei tre squilli di campanello significano che l'autobus è pieno).
Si distingue poi tra:
1. significato convenzionale, ovvero un significato definito dalla comunità dei parlanti;
2. significato conversazionale, ovvero un significato che scaturisce dall’uso in un determinato contesto con
particolare intento comunicativo.
Il significato è inteso come intenzione perchè un parlante P che pronuncia un enunciato E ha l’intenzione di
1. produrre in un destinatario D un effetto, usando un’espressione E;
2. far sì che il destinatario D riconosca che il parlante P intende produrre tale effetto.
Le intenzioni possono essere orientate, se indirizzate verso un preciso destinatario, manifeste, se finalizzate ad
essere identificate dall'interlocutore, riflessive, se il soddisfacimento dell’intenzione dipende dal suo corretto
riconoscimento da parte di D. L’intenzione riflessiva è necessaria per distinguere tra informazione e
comunicazione.
Infine, si distingue tra:
1. significato dell’espressione, ovvero il significato che un’espressione ha convenzionalmente;
2. significato del parlante, ovvero il significato che un parlante intende comunicare utilizzando
un’espressione E in una particolare occasione d’uso.

Il modello del codice parte dal sistema codice, cioè un sistema di corrispondenze tra messaggi e segnali che
consentono di comunicare. La comunicazione è un processo di codifica e decodifica di messaggi. Essa fallisce
quando c’è un’errata codifica del messaggio, un’errata decodifica a causa di interferenze o un codice non
condiviso. Le parti essenziali della comunicazione sono:
1. un parlante che proferisce enunciati con cui trasmette informazioni e compie atti linguistici;
4. un ascoltatore che non riceve passivamente le informazioni da decodificare, ma bensì formula ipotesi e
interferenze relativamente alla comunicazione, avendo così un ruolo attivo.
Il modello di Grice si fonda sul concetto di inferenza, perciò è definito modello inferenziale. Si basa sulla
distinzione tra SE e SP. L’ascoltatore svolge un’inferenza basata su una serie di fattori come le informazioni
sul mondo, sul contesto, sul proprio interlocutore, e pensieri e rappresentazioni mentali dell’interlocutore
tramite processi inferenziali. Nel modello inferenziale, il codice ha un ruolo più periferico. La comunicazione si
basa sull’inferenza dell’intenzione del parlante, a partire dall'enunciato e da un certo contesto.
L’inferenza è l’integrazione di conoscenze volte a derivare una o più conclusioni da un insieme di premesse. Il
contenuto dell’atto comunicativo non è veicolato convenzionalmente da un certo segno linguistico e quindi non è
depositato nel codice.
Una delle teorie più importanti nell'ambito della pragmatica è la teoria della rilevanza di Sperber e Wilson del
1995. Essa si basa sul principio cognitivo della pertinenza: la cognizione umana è predisposta per trattare
efficientemente l’informazione, cercando di massimizzare la pertinenza, bilanciando tra effetti e costi cognitivi.
Le tre nozioni cardine della teoria sono:
1. tendenzialmente un comportamento cognitivo è pertinente;
2. ci aspettiamo che l’enunciato sia pertinente;
3. selezioniamo dal contesto le informazioni rilevanti per i nostri scopi.

Il linguaggio è uno strumento di azione attraverso il quale ci esprimiamo, comunichiamo e interagiamo nel
mondo reale. Quando parliamo, spesso richiediamo che qualcuno faccia qualcosa. Gli enunciati non hanno tutti lo
stesso valore e impatto sul mondo extralinguistico, perciò possiamo dividere in:
1. enunciati constativi. Individuati da Aristotele per primo nel De interpretatione, in cui sono definiti
apofantici, essi descrivono gli stati di cose del mondo ed esprimono condizioni di verità. Sono
caratterizzati da verbi rhetici, come affermare, domandare, negare, che esplicitano gli atti di parola (ex. Il
cane è sulla traversina);
2. enunciati non constativi o performativi, che eseguono un’azione vera e propria. Essi sono esplicitati da
verbi thetici che creano un nuovo stato di cose, come nominare, abrogare, omettere (ex. Ti nomino
presidente del Consiglio).
Per valutare la performatività esistono dei test linguistici: per esempio, se si può aggiungere “con ciò” davanti alle
frasi, gli enunciati sono performativi (ex. Vi dichiaro marito e moglie → Con ciò vi dichiaro marito e moglie);
quando il verbo è in forma canonica l’enunciato è performativo (ex. Ti ordino di allacciare la cintura), mentre se è
coniugato in forma non canonica l’enunciato è constativo (ex. Lei ti ha ordinato di inserire la cintura).
La distinzione tra enunciati constativi e performativi si basa su due condizioni diverse:
1. gli enunciati constativi sono giudicate come veri o falsi, hanno un legame con condizioni di verità;
2. gli enunciati performativi possono essere validi o non validi e instaurano relazioni con il concetto di
fallimento e di felicità.
Un atto linguistico può essere violato in tre diverse forme:
1. è nullo quando:
a. la procedura indicata non esiste (ex. Vi dichiaro colleghi);
b. la procedura indicata è usata in circostanze che non sono appropriate (ex. Un matrimonio prevede
un officiante, dei testimoni, ecc);
2. fallisce quando:
a. la procedura non è eseguita correttamente;
b. la procedura non è portata a compimento;
3. è vuoto quando:
a. un enunciato è proferito senza sincerità.
Nel 1962 John Austin pubblica il saggio How to do things with words in cui spiega la teoria degli atti linguistici. Un
atto linguistico è un’unità minima in pragmatica che ci permette di eseguire un’azione tramite il
proferimento di un enunciato. Il linguaggio è come un’azione e con il linguaggio abbiamo un’influenza sul
mondo. Ogni atto linguistico è descritto in accordo a tre livelli o dimensioni:
1. l’atto locutorio, ovvero l’atto di dire qualcosa, del parlare, del produrre suoni e parole;
2. l’atto illocutorio, cioè l’atto che si compie nel dire qualcosa;
3. l’atto perlocutorio, l’atto che si compie col dire qualcosa, cosa intendiamo fare quando parliamo,
l’effetto che vogliamo ottenere.
L’atto illocutorio è codificato linguisticamente e basato su regole convenzionali. Può essere un’affermazione, una
richiesta, un ordine, una promessa, ecc. La componente illocutoria è centrale per l’analisi pragmatica, esistono una
serie di valori, come per esempio le frequenze di una voce, che distinguono i vari scopi. L’atto perlocutorio è
rappresentato dallo scopo, dall’effetto desiderato (non convenzionale) per il quale produciamo un particolare
enunciato. Gli effetti ottenuti potrebbero divergere dagli scopi prefissati. In base allo scopo, si usano mezzi
linguistici diversi, come per esempio una domanda, un invito, ecc. Un esempio di enunciazione esaminata in base ai
diversi livelli può essere: Fa proprio caldo! → livello locutorio: il parlante A dice all’interlocutore B che la
temperatura della stanza è veramente alta; livello illocutorio: il parlante A vorrebbe chiedere all’interlocutore B di
aprire la finestra; livello perlocutorio: B sia alza e chiude la finestra.

(15/11) Austin individua cinque gruppi di atti:


1. atti verdittivi, che esprimono atti di giudizio (ex. valutare, giudicare, condannare);
2. atti esercitivi, che esercitano un potere, influenza, diritto (ex. ordinare, licenziare, nominare);
3. atti commissivi, che permettono di assumere un impegno o fare una dichiarazione di intenti (ex.
promettere, giurare, scommettere)
4. atti comportativi, legati a comportamenti e atteggiamenti sociali (ex. scusarsi, complimentarsi,
ringraziare);
5. atti espositivi, che organizzano un discorso o una conversazione (ex. affermare, negare, rispondere).
Queste categorizzazioni non sembrano però essere coerenti al loro interno.
Una riproposizione della classificazione degli atti linguistici è stata proposta anche da John Searle nel 1969. Egli
propone una revisione in prospettiva più linguistica della teoria degli atti linguistici. Escludendo dalla sua
trattazione l’atto perlocutorio, egli propone una classificazione diversa a partire dallo scopo e introduce il concetto
di atto linguistico indiretto. Distingue cinque tipi di atti che è possibile compiere proferendo un enunciato:
1. atti rappresentativi, segnalati da verbi come dire, comunicare, annunciare, che impegnano il parlante alla
verità del contenuto proposizionale (ex. Io sostengo che il paziente abbia la congiuntivite);
2. atti direttivi, segnalati da verbi quali chiedere, pregare, ordinare, che fanno fare qualcosa a qualcuno (ex.
Ti invito a lasciare il posto alla signora);
3. atti commissivi, segnalati da verbi come promettere, accordare, offrire, si verificano quando i parlanti si
assumono un impegno a eseguire una certa azione in futuro (ex. Ti giuro che ti ridarò i soldi entro una
settimana);
4. atti espressivi, come ringraziare e salutare, che esprimono uno stato psicologico (ex. Ti ringrazio per la
stima);
5. atti dichiarativi, come augurare, che fanno corrispondere il contenuto al mondo (ex. Lei è licenziato).
L’altro concetto su cui si concentra Searle è il concetto di atto linguistico indiretto. Grazie alle regole del
linguaggio, l’effetto illocutorio si raggiunge se si fa riconoscere all’ascoltatore la sua intenzione di produrlo. In
pochissimi casi il parlante intende dire esattamente quello che dice, molto più spesso intende dire qualcos’altro. Un
atto linguistico indiretto è un atto linguistico in cui un atto illocutorio è eseguito indirettamente attraverso
l’esecuzione di un altro (ex. Puoi passarmi il sale? non si tratta una domanda sulla capacità di compiere una certa
azione, ma si tratta di una richiesta). I parlanti capiscono l’intenzione perché non sono semplici utenti passivi,
ma veri e propri interpreti. Il significato di un’espressione dipende innanzitutto dalle intenzioni che stanno dietro
la produzione degli atti linguistici.
La cortesia è un sistema di strategie e norme che costituiscono, tutelano e rafforzano il rapporto tra i
partecipanti. La nostra competenza pragmatica ci permette di giudicare se un certo enunciato è più cortese di un
altro.

Secondo Grice, la comunicazione verbale si presenta come una forma di comportamento linguistico razionale, dato
che i parlanti adottano un ragionamento razionale, cooperativo e orientato a uno scopo. La comunicazione è
regolata dal principio di cooperazione. Per collaborare bisogna rispettare quattro massime, le quali ricalcano le
categorie kantiane:
1. la massima della quantità, che riguarda il quantitativo di informazione necessario per far sì che la
comunicazione vada a buon fine. Si divide in due sottomassime:
a. dare un contributo tanto informativo quanto richiesto;
b. non dare un contributo più informativo di quanto richiesto.
2. la massima della qualità, secondo cui bisogna dare un contributo che sia vero. Si divide in due
sottomassime:
a. non dire ciò che ritieni falso;
b. non dire ciò per cui non hai prove adeguate.
Gli enunciati con significati non letterale violano massima della qualità;
3. la massima della relazione, secondo cui bisogna sempre essere pertinenti;
4. la massima del modo, secondo cui bisogna essere perspicui. Si divide in quattro sottomassime:
a. evitare oscurità d’espressione;
b. evitare ambiguità;
c. essere concisi;
d. essere ordinati.
Ciò non vuol dire che un’espressione non possa violare una o più massime. Si violano tutte le massime con un
rifiuto di partecipare a uno scambio comunicativo (ex. rispondere senza passare per il linguaggio verbale). C’è
una dissociazione parziale attraverso alcune espressioni (ex. Come tutti sanno, da quello che mi hanno
raccontato, parlando d’altro). Esistono diversi modi per violare le massime:
1. una violazione celata, quando un parlante viola intenzionalmente una massima celando tale violazione
(ex. attraverso menzogna, informazione parziale, modifica di un argomento di conversazione);
2. una violazione apparente, quando un parlante sembra non conformarsi a una massima ma di fatto
tutte le massime sono rispettate (ex. “Ho finito le sigarette” “C’è un tabacchi in fondo alla strada”);
3. una violazione per conflitto, quando un parlante viola una massima per non violarne un’altra (ex.
“Dove vive Lorenzo?” “Da qualche parte in Toscana”);
4. una violazione per sfruttamento, quando si viola una massima in modo manifesto per particolari effetti
comunicativi (ex. Questo corso di linguistica mi è indigesto come la peperonata dello zio).

La trasgressione di una massima è spesso origine di implicature conversazionali. Le implicature sono contenuti
che vengono trasmessi attraverso le parole, ma che non vengono esplicitamente detti, sono, cioè, proposizioni
comunicate senza essere, tuttavia, parte del significato convenzionale dell’enunciato proferito. Queste implicature
possono essere attivate per motivi diversi, per esempio, per dire senza dire in maniera diretta o per compattare
l’informazione. Ci sono diversi tipi di implicature:
1. le implicature convenzionali, che sono proposizioni comunicate implicitamente dal significato
convenzionale delle espressioni linguistiche all’interno di un enunciato, per esempio attraverso parole
come ma, però, finalmente, neppure (ex. Gianni è povero ma onesto → c’è contrasto tra le due proprietà e
contrasto generato dal significato convenzionale dell'espressione ma);
2. le implicature da liste. Una lista nasce dalla concatenazione sintagmatica di elementi dello stesso tipo e
che appartengono a uno stesso slot sintattico, di cui si suggerisce implicitamente che siano tutti co-iponimi
di un iperonimo non espresso, detto common integrator, definito come la caratteristica che gli elementi di
una lista hanno in comune;
3. le implicature conversazionali generalizzate, ovvero implicature entrate nell’uso dei parlanti che non
richiedono una conoscenza particolare delle circostanze in cui un enunciato viene proferito. Tra queste
includiamo le implicazioni con schema un X (ex. Stasera mario ha un appuntamento con una donna →
implica che la donna non è la madre, una sorella, ecc); questo schema non vale sempre (ex. Giorgio ha rotto
un braccio);
4. le implicature scalari, che sono un caso di implicature conversazionali generalizzare e indicano un valore
all’interno di una scala di valori (ex. la scala tutti, la maggior parte, molti, alcuni, pochi o la scala sempre,
spesso, a volte);
Le presupposizioni sono un contenuto su cui è dato per scontato l'accordo fra i partecipanti alla
comunicazione e un contenuto è veicolato come parte delle conoscenze già condivise dall’interlocutore; sono
proiettate da specifici elementi linguistici detti attivatori di presupposizione (ex. L’attuale re di Francia è calvo
→ il referente è parte della conoscenza condivisa fra i parlanti + è un esempio canonico di descrizione definita,
ossia di espressione linguistica che presenta il suo referente come identificabile dai destinatari del messaggio).
Alcuni esempi di attivatori presupposizionali sono:
1. le descrizioni definite, ovvero presupposizioni d'esistenza (ex. schema il X → La panda di Gianni è rossa;
schema questa x → Questa abitudine di non rispondere ai messaggi);
2. i verbi fattivi, che presuppongono la verità della proposizione complemento. Tra questi includiamo verbi
come sapere (ex. Gli elettori sanno che il Governo non manterrà la promessa), aggettivi come assurdo (ex.
È assurdo che tu abbia preso le chiavi senza il mio permesso);
3. i verbi di cambiamento di stato, che presuppongono un evento o uno stato di cose precedente, per
esempio verbi come smettere (ex. Andrea ha smesso di fumare).

(16/11) Il sociologo Erving Goffman propone una descrizione articolata dell’interazione faccia a faccia. Egli usa
un approccio drammaturgico allo studio delle interazioni verbali faccia a faccia. Afferma che la vita sociale può
essere intesa nei termini di una rappresentazione teatrale: abbiamo una performance portata avanti da una
persona davanti a un pubblico. Il nostro spazio si divide in pubblico, ovvero la reputazione sociale, e in
privato, ovvero la sfera individuale. Le conversazioni sono un caso di interazione focalizzata: le interazioni
hanno una natura strategica, perché ci sono dinamiche che mettiamo in atto in base al contesto. Il concetto cardine
della teoria di Goffman è il concetto di faccia o maschera. Noi non abbiamo il controllo totale sulle nostre
interazioni e ogni interazione potrebbe modificare questa nostra faccia. Uno dei modelli più importanti in questo
campo è quello sviluppato da Robin Lakoff nel 1973 in The logic of politeness; si basa su tre principi:
1. non ti imporre; principio alla base del discorso formale, riguarda il rispettare la sfera personale altrui:
evita eccessive confidenze, preferisci espressioni impersonali, mantieni un comportamento cooperativo;
2. offri delle alternative; principio alla base del discorso tra pari ma senza familiarità, include suggerimenti
come rispettare la libertà di scelta dai propri interlocutori, preferire formule indirette;
3. metti il tuo interlocutore a tuo agio, sii amichevole; alla base del discorso informale tra conoscenti,
suggerisce di usare formule informali, nomi e soprannomi.

Un altro modello di cortesia è quello di Brown e Levinson sviluppato nel 1987. Fondano il loro modello sulla
nozione di faccia, divisa in:
1. faccia positiva, ovvero il desiderio di essere riconosciuti e accettati;
2. faccia negativa, ovvero la sfera privata inviolabile.
Ci sono atteggiamenti che potrebbero rappresentare delle minacce, definiti face threatening acts, tra cui ci
sono ordini, comandi, sfide, inviti, insulti, disaccordo esplicito, critiche e rimproveri. I due studiosi parlano anche
di una serie di strategie di cortesia che possiamo mettere in atto, definite nel loro insieme facework; in particolar
modo se ne individuano quattro:
1. bald on-record, ovvero quando non c’è nessuno sforzo per contenere le minacce;
2. la cortesia positiva, che serve per mettere ascoltatore a proprio agio mostrando empatia e accettazione;
3. la cortesia negativa, allo scopo di contenere le limitazioni di autonomia dell’ascoltatore. Un esempio
sono le richieste che non vogliono passare per imposizione (ex. Non è che riusciresti a inviarmi le slide?);
4. la strategia off-record, quando costruiamo atti linguistici indiretti per cui cerchiamo di veicolare un
contenuto in modo implicito (ex. Dovrei andare in pescheria ma non ho la macchina).

Nel 1983 è stato poi sviluppato il modello di Leech, un modello in prospettiva pragma-linguistica fondato su tre
principi:
1. il principio di cooperazione;
2. il principio di cortesia, quando i parlanti si impegnano ad evitare forme di conflitto rispettando una
serie di massime, tra cui la massima del tatto, della generosità, dell’approvazione, della modestia,
dell’accordo, e della simpatia;
3. il principio di ironia, che permette di formulare critiche in modo indiretto.
Le lingue del mondo
(21/11) In base al criterio scelto, le lingue del mondo sono da 2000 a 12000, perché bisogna considerare le diverse
unità, come le varianti e i dialetti; inoltre esistono lingue che non sono sufficientemente studiate. Per classificare le
lingue si usano diversi tipi di strumenti, tra cui:
1. ethnologue, un’organizzazione americana non-profit del Summer Institute of Linguistics di Dallas ed è una
sorta di atlante delle lingue del mondo. Conta circa 7000 lingue parlate oggigiorno. Su questo database
possiamo vedere anche quali lingue sono a rischio di estinzione e il loro rischio di salute; la salute di una
lingua è stabile quando viene ancora insegnata ai bambini;
2. osservatorio linguasphere, un’organizzazione non-profit fondata in Québec da David Dalby che classifica
le lingue del mondo con un codice alfanumerico, con numero in ordine decrescente da 9, che
corrisponde alle lingue parlate da circa un miliardo di persone, a 0, che corrisponde alle lingue morte.

Un esempio di lingua morta è il mannese, o manx. È una lingua celtica insulare del gruppo goidelico, come
l’irlandese e il gaelico scozzese, propria dell'isola di Man. Nel 1974 muore l’ultimo madrelingua, ma negli anni
successivi prende avvio un movimento di recupero linguistico e dal 1992 si cerca di insegnare questa lingua a
scuola. Attualmente, secondo ethnologue, i parlanti del mannese sono alcune centinaia ed esistono alcune famiglie
che lo parlano abitualmente. Dal 2008 ha passato il suo stato da E, extinct, a L, living. Nel 2011 c'erano 53 persone
che lo parlavano.

Se teniamo in considerazione il numero di parlanti nativi, le lingue più parlate al mondo sono il cinese mandarino,
lo spagnolo, l’inglese e l’hindi; se invece teniamo in considerazione anche chi parla le lingue come seconda lingua,
quelle più parlate sono l’inglese, il cinese mandarino, l’hindi e lo spagnolo. Per esempio, il cinese mandarino non è
parlato in molti Paesi, mentre l’inglese ha una maggiore distribuzione geografica a causa della sua storia coloniale.
L’importanza di una lingua si misura in base a:
1. il numero dei parlanti;
2. il numero dei parlanti non nativi, che parlano una certa lingua come seconda o straniera;
3. il numero di Paesi e nazioni in cui una lingua è ufficiale o parlata;
4. l’impiego della lingua nei rapporti internazionali, nella scienza, nella tecnica, nel commercio, ecc;
5. l’importanza politica e il peso economico dei Paesi dove la lingua è parlata;
6. la tradizione letteraria e culturale e il relativo prestigio di cui gode la lingua;
7. l’insegnamento della lingua nella scuola come lingua straniera.
Tra i Paesi con il maggior numero di lingue ricordiamo la Papua Nuova Guinea, con più di 800 lingue parlate
attualmente, l’Indonesia, la Nigeria, l’India, gli USA, l’Australia, la Cina, il Messico, il Camerun e il Brasile. Più
del 90% delle lingue ha meno del 6-7% di parlanti.

Fino al 1800 si credeva al mito di Babele; in seguito, si inizia a dare una spiegazione più scientifica. Si propone una
classifica linguistica delle lingue del mondo; con classificazione intendiamo il raggruppamento delle lingue
sulla base delle loro somiglianze. Si distinguono due tipi di classificazione:
1. la classificazione genealogica o genetica, che ci permette di raggruppare le lingue in famiglie sulla base
dell’individuazione di un antenato comune. Si fonda sull’individuazione di somiglianze particolari
classificatorie;
2. la classificazione o comparazione tipologica, che raggruppa le lingue in tipi sulla base delle loro
somiglianze reali, o caratteristiche comuni, indipendentemente dal fatto che facciano parte o meno
della stessa famiglia linguistica.
I due tipi di classificazione non sono sovrapponibili, ma complementari.
La classificazione genealogica fu proposta da due linguisti ungheresi che inizialmente distinguono le differenze
tra l’ungherese e il finlandese. Essa raggruppa le lingue del mondo in famiglie sulla base di somiglianze
riconducibili all’esistenza di antenato comune attestato storicamente o ricostruito induttivamente a partire
dalle lingue odierne. Per fare ciò, si costruisce una protolignua o lingua ipotetica, priva di testi. Il riconoscimento
di una parentela linguistica passa attraverso la comparazione del lessico fondamentale, costituito da circa 200
termini designati: si usa solo quello perché gli strati più superficiali sono più suscettibili di essere contaminati da
altre lingue. L’ipotesi di partenza è che se per questi termini si riscontra lo stesso o un simile significante, allora
questo significante rimanda a una forma originaria condivisa. Le lingue sono organizzate in una struttura ben
precisa:
1. le famiglie, ovvero la categoria fondamentale delle classificazione delle lingue su base genetica. Rappresenta
il più alto livello di parentela ricostruibile con i mezzi della linguistica storico-comparativa. Alcuni
studiosi parlando anche di phylum o stock, un termine tecnico che indica un livello superiore che include
più famiglie;
2. i rami o le sottofamiglie, che si trovano all’interno di una famiglia di lingue e indicano i gradi più o meno
stretti di parentela;
3. i gruppi o le classi, cioè sottoarticolazioni dei rami che indicano un più stretto grado di parentela fra le
lingue;
4. i sottogruppi, sottoarticolazioni dei gruppi che via via indicano legami di parentela sempre più stretti.
Un esempio di ramo è quello delle lingue romanze,
ovvero italiano, francese, spagnolo, portoghese, romeno
e altre minori, il cui antenato comune è il latino.
Esse fanno parte della famiglia delle lingue
indoeuropee. Indoeuropeo è un termine coniato nel
1830 e costituisce una macrofamiglia, ossia un’unità
genetica di grado superiore. La sua costruzione si basa
su un lessico, un sistema fonologico e una grammatica.
Si tratta di un raggruppamento linguistico che va
dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano. Questo è
un raggruppamento molto ampio, forse uno dei più
ampi. Può essere rappresentato attraverso la figura di un
albero (←). Ogni ramo corrisponde a rami diversi
nella classificazione linguistica; ci sono tre rami che
corrispondono direttamente a tre lingue diverse, cioè l’armeno, l’ellenico e l’albanese.
L’albero delle lingue è una rappresentazione delle lingue indoeuropee sotto forma di albero genealogico
proposta alla metà del 1800 da August Schleider. Si tratta di un’immagine esemplificativa che, se interpretata
letteralmente, esclude la possibilità di interferenze tra lingue dopo la separazione dall’antenato comune. Le
interferenze tra lingue però esistono: per esempio, il gruppo italico e il gruppo celtico hanno in comune le
desinenze in-r del passivo (ex. amor in latino, sono amato); il gruppo italico e il gruppo germanico hanno in
comune il fatto di non possedere l’opposizione tra perfetto e aoristo. Per ovviare a questa schematizzazione che
sembra non tenere conto delle differenze, è stata proposta la teoria delle onde, secondo cui i fenomeni linguistici
si distribuiscono come le onde in uno specchio d’acqua, per cui alcuni fenomeni si estendono fino a un certo
punto, altri fino a un altro, altri ancora si incrociano, dando vita a differenze isoglosse. Oggi i due modelli
sono complementari.
Ecco un esempio di ricostruzione del protoindoeuropeo, ottenuto confrontando i termini che indicano padre e
fratello in sanscrito, greco, latino, gotico e irlandese:

Sanscrito Greco Latino Gotico Irlandese


fratello bhrátar phrátēr frater broþar bráthir

padre pítár patēr pater fadar athir

Si può osservare che le occlusive sorde del sanscrito, greco e latino /p/ corrispondono alle fricative sorde delle
lingue germaniche /f/; inoltre, le occlusive sonore aspirate /bh/ del sanscrito, le occlusive sorde aspirate /ph/ del
greco e le fricative sorde /f/ in latino corrispondono alle occlusive sonore /b/ delle lingue germaniche; le occlusive
sonore del sanscrito, greco e latino /b/ corrispondono alle occlusive sorde delle lingue germaniche /p/.
Queste tre corrispondenze, dette legge di Grimm, notano che, a un certo tipo di input in sanscrito, greco e
latino, esiste un altro tipo output nelle lingue germaniche: si definisce questo fenomeno come rotazione o
mutazione consonantica germanica.

Oltre alla famiglia indoeuropea, altre famiglie linguistiche sono:


1. quella afro-asiatica o camito-semitica, che comprende molte lingue parlate o estinte in un’area
comprendente l’Africa settentrionale, l’Africa mediorientale e parte dell’Africa orientale (ex. egiziano antico,
arabo, ebraico);
2. quella uralica, che comprende lingue parlate in Europa orientale e nell’Asia centrale e settentrionale (ex.
finlandese, estone, ungherese);
3. quella sino-tibetana (ex. cinese mandarino, tibetano, lolo-birmano);
4. quella del Niger-Congo, che comprende lingue parlate tra le nazioni a sud del Sahara (ex. swahili);
5. altre famiglie linguistiche minori, tra cui: altaica (ex. mongolo, turco), dravidica (ex. lingue parlate nel sud
dell’India, ex. tamil e telugu), austroasiatica (ex. khmer, vietnamita), austronesiana (ex. lingue del
Madagascar e dell’Indonesia), lingue amerinde, lingue degli aborigeni dell’Australia, di cui non si sono
riuscite a ricostruire le parentele tra loro;
6. esistono poi delle lingue isolate, ovvero lingue di cui non è dimostrabile la parentela con altre (ex. basco,
coreano, giapponese)
Nello specifico in Europa, possiamo individuare cinque famiglie, cioè indoeuropea, uraliche del gruppo
ugro-finnico (ex. ungherese, finlandese), altaiche (ex. turco, tataro), caucasiche (ex. georgiano, ceceno), semitiche
(ex. maltese), e una lingua isolata, il basco.

(22/11) Secondo la classificazione o comparazione tipologica, invece, si raggruppano le lingue in tipi


linguistici in base alle somiglianze generali a livello strutturale. Il fatto di assegnare una lingua a un certo tipo si
fonda su una categoria e sulle sue proprietà strutturali.Per esempio, in base all’articolo possiamo dividere lingue
così:

Tipo

Famiglia (A) (B) (C)

Indoeuropea russo, latino italiano, irlandese islandese, rumeno

Uralica finnico ungherese mordvino

Semitica ebraico aramaico

Altaica turco
Possiamo osservare che nel gruppo A rientrano le lingue prive di articoli, nel gruppo B le lingue con articoli
anteposti e nel gruppo C le lingue con articoli postposti.

La tipologia linguistica nasce nel 1800 per opera dei fratelli Schlegel e di von Humboldt e si occupa di classificare
le lingue del mondo in tipi linguistici base alla loro struttura: si distingue così in lingue isolanti, agglutinanti,
flessive e polisintetiche.
Un tipo linguistico è un concetto astratto con cui ci riferiamo a un insieme di tratti strutturali in correlazione tra
loro che genera un raggruppamento di sistemi linguistici aventi molti caratteri comuni. Una lingua non
corrisponde mai totalmente in assoluto a un tipo particolare e, in genere, in una lingua determinata si trovano non
solo caratteristiche tipologiche prevalenti di un tipo, ma anche caratteri propri di altri tipi.

Il discorso sui tipi è legato al discorso sugli universali linguistici. Nel 1973 il linguista Greenberg scrive il saggio
Some universals of grammar with particular reference to the order of meaningful elements, in cui spiega che gli
universali linguistici sono proprietà linguistiche ricorrenti nella struttura delle lingue, indipendentemente dai
loro rapporti generici e dagli eventuali condizionamenti dovuti alla vicinanza geografica. In realtà, questa
definizione è parzialmente vera e negli studi successivi si è precisato che non tutte le lingue devono manifestare
questi tratti; tuttavia non esiste una lingua al mondo che possa contraddire questi tratti. Possiamo distinguere
tra:
1. universali linguistici assoluti, che sono delle generalizzazioni sostanziali (ex. tutte le lingue hanno vocali e
consonanti, tutte le lingue hanno sillabe con struttura CV, ecc);
2. universali linguistici implicazionali, i quali hanno una struttura “se A allora B” (ex. se una lingua ha
vocali nasali, allora ha sempre vocali orali). Gli universali linguistici implicazionali creano anche strutture
più complesse, dette gerarchie implicazionali, con struttura “se A allora B, se B allora C, ecc” (ex. la
gerarchia del numero: singolare > plurale > duale > triale > paucale → si legge: se c’è il paucale, allora c’è
anche il triale, se c’è il triale, allora c’è anche il duale, ecc).

Dal punto di vista morfologico, si distinguono quattro tipi diversi di lingue:


1. isolanti (ex. vietnamita), quando tendono a isolare ciascuna parola rispetto alle altre; hanno un indice di
sintesi 1:1, quindi le parole e i morfemi coincidono. Sono definite lingue con morfologia impoverita
perché le parole sono formate da un solo morfema, i morfemi tendono a essere liberi e le parole
monosillabiche;
2. flessive o fusive (ex. italiano), quando cumulano più significati su un singolo morfema. Sono flessive per
la presenza di molta morfologia flessionale, sono fusive per la somma di più significati su un solo morfema
flessionale e per la conseguente loro fusione insieme; i morfemi liberi sono molto scarsi e la morfologia è
molto irregolare. Queste lingue hanno un indice di sintesi 2:1. Un sottotipo è rappresentato dalle lingue
introflessive, come l’arabo;
3. agglutinanti (ex. turco), quando tendono ad agglutinare i morfi alla radice. In queste lingue le parole sono
composte da più morfemi e ciascun morfema è normalmente portatore di una specifica informazione
grammaticale, i morfemi sono facilmente individuabili, l’allomorfia è rara e sono caratterizzate da regolarità
grammaticale. Il loro indice di sintesi è 3:1;
4. polisintetiche o incorporanti (ex. groenlandese), quando troviamo non solo più morfemi grammaticali
attaccati insieme, ma anche più radici; la morfologia realizza funzioni grammaticali che in altre lingue
sono solitamente realizzate nella sintassi. Hanno un indice di sintesi di 4:1 o addirittura più alto.
Il grado di sintesi di una parola è dato dal numero di morfemi che la compongono e dal rapporto tra le
categorie morfologiche espresse e il numero di morfemi che la esprimono; serve per dare una stima
quantitativa del tipo dominante per ciascuna lingua. Un indice alto indica che una lingua è analitica, un indice
basso indica che una lingua è sintetica.
Non esistono però tipi assoluti: alcune lingue dovrebbero appartenere a un certo tipo sulla base di alcune
caratteristiche, ma se ne consideriamo altre, esse potrebbero far parte di un altro tipo diverso (ex. l’inglese ha delle
caratteristiche delle lingue isolanti, ma ha anche fenomeni di flessione interna e alcune caratteristiche delle lingue
agglutinanti e di quelle incorporanti).

Un altro campo in cui opera la classificazione tipologica è quello della tipologia sintattica o dell’ordine delle
parole. I suoi obiettivi sono descrivere gli ordini empiricamente osservati, spiegare la distribuzione statistica,
individuare le correlazioni tra gli ordini. Le combinazioni sintattiche maggiormente analizzate sono:
1. l’ordine del soggetto S, del verbo V e dell’oggetto diretto O;
2. la presenza di preposizioni PR o posposizioni PO;
3. l’ordine di aggettivo A e nome N;
4. l’ordine di genitivo G e nome N.
Come campione dell’ordine basico si usano le frasi transitive con ordine non marcato. I costituenti fondamentali
sono il soggetto, il verbo e l’oggetto diretto. Solo con questi sono possibili sei ordini diversi: SVO, SOV, VSO,
VOS, OVS e OSV. Statisticamente, gli ordini non hanno tutti la stessa importanza (↓ tab).

SOV SVO VSO VOS OVS OSV

Greenberg, 1963: 30 37% 43% 20% 0 0 0


lingue

Ruhen, 1975: 427 51,5% 35,6% 10,5% 2,1% 0 0,2%


lingue

Mallinson/Blake, 1981: 41% 35% 9% 2% 1% 1%


402 lingue

Tomlin, 1986: 402 44,8% 41,8% 9,2% 3% 1,2% 0


lingue

WALS, 2013: 1377 47,6% 41,1% 8% 2,1% 0,9% 0,3%


lingue (+ 189 senza
ordine dominante)

In particolar modo, alcuni ordini sono tipici di alcune lingue nello specifico:
1. SVO è tipico delle lingue indoeuropee occidentali (lingue romanze), delle lingue bantu in Africa e del gruppo
sinitico della famiglia sino-tibetana;
2. SOV è tipico delle lingue indoeuropee orientali (India), del latino, delle lingue altaiche (turco e giapponese),
delle lingue dravidiche, delle lingue del ramo tibetano della famiglia sino-tibetana, delle lingue khoisan in
Africa e del basco in Europa;
3. VSO è tipico delle lingue celtiche, delle lingue semitiche arcaiche/classiche, delle lingue austronesiane e
delle lingue polinesiane;
4. VOS è tipico del malhascio e di qualche altra lingua austronesiana;
5. OVS è tipico di quale raro esempio di lingua nei Caraibi;
6. OSV è tipico del wikngathana.
Gli ordini SOV e SVO hanno in comune il soggetto al primo posto. Questi ordini predominano perché:
1. tipicamente il soggetto di una frase coincide col tema ed è seguito dal rema;
2. come secondo il principio di precedenza, tipicamente il soggetto precede l’oggetto, per la sua priorità
logica e prominenza semantica;
3. come secondo il principio di adiacenza, tipicamente l’oggetto è vicino al verbo perché ne dipende in
maniera diretta.
Usando gli universali implicazionali, possiamo quindi affermare che:
1. VSO/Pr/NG/NA → se una lingua ha ordine VSO allora usa le preposizioni, il genitivo segue il nome, il
nome si pone prima dell’aggettivo;
2. SVO/Pr/NG/NA → se una lingua ha ordine SVO allora si usano le preposizioni, il genitivo segue il nome e
il nome precede l’aggettivo;
3. SOV/Po/GN/AN → se una lingua ha ordine SOV allora si usano le posposizioni, il genitivo va prima del
nome e il nome prima dell’aggettivo;
4. SOV/Po/GN/NA → se una lingua ha ordine SOV allora usa le posposizioni, il genitivo va prima del nome e
il nome prima dell’aggettivo.
Si nota quindi che l’ordine VO correla con la presenza di preposizioni e con l’anteposizione del nome al
genitivo e dell'aggettivo; l’ordine OV correla con la presenza di posposizioni e con l’anteposizione del
genitivo. Ci sono però delle eccezioni: per esempio, nell’ultimo caso, l’aggettivo segue il nome. Si vede anche che
se una lingua ha ordine SOV, allora è posposizionale e, se colloca l’aggettivo prima del nome allora colloca il
genitivo prima del nome (AN richiede GN, NA non richiede GN).
Non tutte le lingue rientrano in uno dei quattro schemi: per esempio, le lingue slave seguono solo parzialmente
lo schema SVO/Pr/NG/NA, in quanto pongono l’aggettivo prima del nome; l’amarico segue solo parzialmente lo
schema SOV/Po/GN/AN, dato che si serve di preposizioni; il latino ha come ordine prevalente SOV, ma sono
ammesse tutte le combinazioni.

L’ergatività è parametro tipologico che coinvolge il livello morfologico, semantico e sintattico. Riguarda
l’organizzazione di sistemi di casi che esprimo i ruoli semantici connessi al verbo. Con un verbo transitivo e un
verbo intransitivo si ha una marcatura di caso diversa al soggetto: è una differenza ulteriore posta come essenziale
parte alla sintassi. Le lingue ergative attribuiscono una rilevanza particolare al ruolo semantico dell’agente. Esiste
una distinzione tra assolutivo e ergativo:
1. l’assolutivo è il complemento oggetto o il paziente di frasi transitive e il soggetto di frasi intransitive;
2. l’ergativo è soggetto di frasi transitive o l’agente di frasi intransitive.
Questa distinzione esiste, per esempio, in basco; si oppone al sistema più diffuso di nominativo/accusativo.

(23/11) La variazione storica, o linguistica diacronica è la branca della linguistica che studia il mutamento
linguistico, ossia il mutamento della lingua che avvengono lungo l'asse del tempo. I cambiamenti non sono binari,
ma graduali e progressivi, e danno a una lingua un aspetto percepibilmente diverso: quando c’è una differenza
sostanziale tra due diversi stati di una lingua, nel mezzo c’è un continuum. In alcuni casi si può arrivare alla
nascita di un’altra lingua.
Il documento essenziale per mostrare il passaggio dal latino all’italiano è il Placito Capuano, considerato come il
primo documento in volgare italiano. Si tratta di una testimonianza riportata del 960 nel verbale notarile in latino
di una causa giudiziaria relativa a dei possedimenti terrieri del monastero benedettino di Montecassino. Esso mostra
come il mutamento è un fenomeno progressivo che avviene lungo un arco temporale lunghissimo.

Come avviene un mutamento linguistico? Una certa innovazione inizia a diffondersi e coesiste con gli elementi
preesistenti; l’innovazione può attecchire ed essere accettata dalla comunità di parlanti, oppure può essere
che un certo tipo di innovazione non abbia questa fortuna. Quando si passa da uno stato a un altro può nascere
una nuova lingua. Specularmente può avvenire la morte di un’altra lingua: questo è un caso macroscopico di
mutamento linguistico. Una lingua muore quando non ha più parlanti e viene sostituita da un’altra; nella
lingua che è subentrata rimangono tracce della lingua morta nella lingua che è subentrata. Il termine sostrato indica
l'influenza di una lingua precedente sulla lingua successiva in una comunità parlante.
I maggiori fenomeni di mutamento linguistico sono:
1. nel campo della fonetica:
a. l’assimilazione, quando due foni diversi nella parola tendono a diventare simili o uguali mediante
l’acquisizione da parte do uno dei foni di uno o più tratti comuni con l’altro fono (ex. lat. quando →
[‘kwanno] nei dialetti meridionali);
b. la metafonia, ovvero la modificazione del timbro di una vocale interna per effetto della vocale finale
(ex. lat. nigru(m) → napol. [‘nirə] vs lat. nigra(m) → napol. [‘nerə]);
c. la dissimulazione, quando due foni simili o uguali non contigui in una parola diventano diversi (ex.
lat. arbore → ita. albero);
d. la metatesi, cioè lo spostamento dell’ordine dei foni di una parola (ex. lat. fabula(m) → lat. flaba →
ita. fiaba);
e. la soppressione o caduta dei foni, in particolare vocalici:
i. se in posizione iniziale, aferesi (ex. lat. apohéca → ita. bottega);
ii. se in posizione interna, sincope (ex. lat. domina(m) → ita. donna)
iii. se i posizione finale, apocope (ex. lat. civitate(m) → civitate → civtate → cittate → cittade →
ita. città);
f. l’inserzione o aggiunta di foni:
i. se nel corpo di una parola, epentesi (ex. lat. baptismus → ita. battesimo);
ii. se all’inizio di una parola, protesi (ex. lat. statu(m) → spagn. estado);
iii. se alla fine di una parola, epitesi (ex. lat. cor → ita. cuore);
2. nel campo fonetico-fonologico ci sono gli spostamenti a catena, cioè mutamenti che coinvolgono intere
serie di foni o fonemi. Tra questi troviamo:
a. la prima rotazione consonantica o legge di Grimm, che riguarda il ramo germanico e afferma che:
i. le occlusive sorde /p/ di sanscrito greco e latino diventano fricative sorde /f/;
ii. le occlusive sonore /b/ di sanscrito, greco e latnio diventano occlusive sorde /p/;
iii. le occlusive sonore aspirate /bh/ del sanscrito, le occlusive sorde aspirate /ph/ del greco e le
fricative sorde /f/ del latino diventano occlusive sonore /b/;
b. la seconda rotazione consonantica, che riguarda nello specifico l’evoluzione del tedesco:
i. le occlusive sorde /p/, /t/ e /k/ diventano affricate in inizio di parola e in posizione
postconsonantica ma fricative in posizione postvocalica;
ii. le fricative sonore diventate occlusive sono sorde;
iii. le fricative dentale sorde diventano occlusive sonore;
3. nel campo della morfologia:
a. l’analogia, cioè l’estensione di forme a contesti in cui queste non sono appropriate, sul modello dei
contesti più frequenti e normali (ex. ita. volere si applica la desinenza regolare dei verbi di seconda
coniugazione in -ere);
b. la rianalisi, ovvero una diversa analisi e interpretazione del valore semantico e del comportamento
sintattico di un certo elemento (ex. formazione del passato prossimo per mezzo del verbo habere);
c. la grammaticalizzazione, quando un lessema perde il suo valore semantico-lessicale e viene assorbito
dalla grammatica come parola funzionale o come morfema (ex. formazione degli avverbi italiani con
-mente deriva da lat. mens, mentis);
4. nel campo della sintassi, in cui i mutamenti concernono di solito l’ordine dei costituenti e comportano
modifiche tipologiche (ex. il latino ha come ordine basico SOV → le lingue romanze hanno come ordine
non marcato SVO);
5. nel campo della semantica:
a. l'arricchimento nel lessico, ovvero l’ingresso di nuove parole, come nuove formazioni morfologiche
o parole prese da altre lingue;
b. la perdita di lessemi;
c. mutamenti semantici per somiglianza, quando si creano nuovi significati per via metaforica (ex.
gorilla per indicare una guardia del corpo);
d. mutamenti semantici per contiguità, che riguardano i meccanismi di tipo metonimico (ex. lat.
volumen, rotolo di pergamena → ita. volume, libro);
e. la paretimologia o etimologia popolare, cioè la risemantizzazione di una parola mediante la
rimotivazione del suo significato (ex. lat. cubare, giacere → ita. covare);
6. nel campo della pragmatica, quando le modifiche riguardano il modo in cui si interagisce con gli
interlocutori. In questo caso abbiamo delle modifiche nel sistema dell’allocuzione: in latino, si distingueva
tra il tu singolare e il vos plurale, usato come seconda persona generalizzata per tutti gli interlocutori; tra
Cinquecento e Seicento, si crea una tripartizione tra tu di confidenza, voi di cortesia e lei di formalità; ora, in
italiano, c’è un’opposizione tra il tu confidenziale e il lei formale.

Con variazione sincronica si intende una serie di studi che possono essere ricollegati alla sociolinguistica, che
mette in correlazione la lingua con la società e con gli usi linguistici delle persone. Per varietà di lingua
intendiamo un insieme di forme linguistiche che abbiano la stessa o analoga distribuzione sociale, cioè che
concorrano in concomitanza con certe caratteristiche della società, dei suoi membri e delle situazioni in cui questi si
trovano ad agire. Una variabile sociolinguistica è un’unità del sistema linguistico che ammette realizzazione
diverse equipollenti, ciascuna delle quali è in correlazione con qualche fatto extralinguistico (ex. variabili
fonologiche come la realizzazione velare della consonante nasale /n/, variabili morfologiche come l’uso del ci
generalizzante legate al livello culturale di persona, variabili lessicali come padre/babbo/papà).

La lingua italiana può variare lungo tre assi principali:


1. l’asse della diatopia, ovvero la variazione nello spazio
geografico, attraverso i luoghi in cui una lingua è parlata
e in cui i suoi parlanti risiedono o da cui provengono;
2. l’asse della diastratia, ovvero la variazione nello
spazio sociale, attraverso le classi o strati sociali e i
gruppi di parlanti e reti sociali in una società;
3. l’asse della diafasia, cioè la variazione attraverso le
diverse situazioni comunicative;
4. l’asse della diamesia, cioè la variazione attraverso il
mezzo o canale della comunicazione (ex. orale o
scritto).

A ogni asse corrispondono dei fenomeni di variazione:


1. alcuni fenomeni di variazione diatopica sono:
a. a livello fonologico, modificazioni nella pronuncia delle parola (ex. allungamento consonantico in
Sardegna);
b. a livello morfologico, la modifica di alcune parole in determinate regioni (ex. il suffisso -aro
anziché -aio a Roma);
c. a livello semantico, l’uso di strutture non propriamente corrette (ex. l’accusativo preposizionale in
Campania, Sicilia e Sardegna);
d. a livello semantico, la frequenza dei geosinonimi, ovvero termini differenti usati in diverse regioni
d’Italia per designare lo stesso oggetto o concetto (ex. melone e anguria), e dei regionalismi
semantici, cioè significati particolari assunti d un lessema in una determinata area;
2. tra i fenomeni di variazione diastratica, abbiamo la diffusione dell’italiano popolare, il quale è un insieme
di varietà diastratiche incolte e che dipendono, nella maggioranza dei casi, dal cattivo
padroneggiamento della lingua standard da parte di parlanti non colti o semicolti che parlano per lo
più dialetto. Ricordiamo alcuni fenomeni come: realizzazioni non standard di alcuni foni (ex. pazienza →
[pa’sjensa]), assimilazioni (ex. aritmetica → arimmetica), epentesi (ex. psicologia → pisicologia), metatesi
(ex. psicologia → spicologia), generalizzazioni di forme e regolarizzazioni analogiche di paradigmi
complessi (ex. un sbaglio), il tema libero (ex. io la mia scuola è a Bagnoli), i malapropismi (ex.
autoambulanza → autobilancia);
3. per quanto riguarda la variazione diafasica, abbiamo questi due fenomeni:
a. la creazione di registri, cioè varietà diafasiche dipendenti dal carattere formale o informale
dell’interazione comunicativa e dal ruolo reciproco di parlanti e interlocutori. Tra questi
ricordiamo: fenomeni di ipoarticolazione, accorciamenti di parole (ex. bici) o aferesi sillabica (ex. ‘sto
per questo), scelta degli allocutivi e delle forme con cui ci si rivolge agli interlocutori, coppie o serie di
termini sinonimi differenziati per registro;
b. i sottocodici, spesso detti linguaggi settoriali, che sono varietà diafasiche dipendenti
dall’argomento di cui si parla e dalla sfera di contenuti ed attività a cui si fa riferimento (ex.
tecnicismi dei rispettivi settori).

Con l’espressione repertorio linguistico ci riferiamo all'insieme dei codici e delle varietà che un parlante è in
grado di padroneggiare all’interno del repertorio linguistico della comunità linguistica di appartenenza. In
base ai fattori extralinguistici, passiamo da un repertorio a un altro. Si parla quindi di commutazione di codice,
ovvero il passaggio da una varietà a un’altra (ex. il passaggio da lingua italiana a dialetto). La commutazione di
codice ha due varianti: si parla di code mixing quando avviene all’interno stessa frase, e di code switching,
quando riguarda il passaggio da una frase all’altra. La commutazione può riguardare anche il rapporto tra diverse
lingue L1 e L2.

Il dialetto è utilizzato per designare una varietà linguistica non standardizzata, tendenzialmente ristretta all’uso
orale entro una comunità locale ed esclusa dagli impieghi formali ed istituzionali. Si scontra con l’italiano standard,
su base toscana fiorentina, diventato lingua nazionale in seguito a una serie di vicende storico-politiche-culturali
consumatesi tra i secoli XIV e XVI, in base a un opera di normalizzazione e standardizzazione.
L’Italia può essere divisa in varie aree dialettali:
1. dialetti settentrionali:
a. area gallo-italica: dialetti piemontesi, lombardi, liguri ed emiliano-romagnoli;
b. area veneta: dialetti veneti, veneto-trentini e veneto-giuliani;
2. dialetti toscani;
3. dialetti centro-settentrionali:
a. area mediana: romanesco, dialetti laziali, marchigiani e umbri;
b. area alto-meridionale: dialetti abruzzesi, molisani, campani, pugliesi settentrionali, lucani, calabresi
centro-settentrionali;
c. area meridionale estrema: dialetti salentini, calabresi meridionali e siciliani.
La linea La Spezia-Rimini, o linea Massa-Senigallia, è la riga che ci permette di determinare il confine linguistico
tra nord e sud. La linea Roma-Ancona permette di distinguere i dialetti a ovest caratterizzati da fenomenologia
toscana, mentre a est un’area meridionale.

Esistono poi delle varietà linguistiche che stanno con l’italiano su base toscana in rapporti del tutto diversi dal
punto di vista storico e genealogico. Si tratta di varietà dialettali di altre lingue giunte in Italia per
colonizzazione o migrazione e oggi costituenti isole o colonie alloglotte. Ai dialetti di questo tipo di comunità è
stato attribuito uno statuto particolare, grazie alla legge 482 del 15/12/1999 a tutela delle minoranze linguistiche
storiche. Tra queste ricordiamo: i dialetti sardi in Sardegna, il friulano in Friuli Veneza Giulia e in porvincia di
Venezia, il tedesco nelle province di Bolzano, Trento e Udine, in Piemonte, in Valle d’Aosta e in Veneto, il francese
in Piemonte e in Valle d’Aosta, i dialetti zingari, il francoprovenzale in Valle d’Aosta, nella provincia di Torino e a
Faeto e a Celle San Vito (FO), l’albanese in Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia, lo sloveno
nelle province di Gorizia, Trieste e Udine, l’occitano nelle province di Torino e Cuneo e a Guardia Piemontese
(CS), il ladino dolomitico in Trentino Alto Adige e Veneto, il catalano ad Alghero, il greco nelle province di Lecce
e Reggio Calabria e il croato ad Acquaviva Collerocce, San Felice del Molise, Monemitro (CB).

In una stessa area possono essere presenti due varietà linguistiche, con diversi tipi di rapporti tra loro:
1. si parla di bilignuismo quando tutti i parlanti padroneggiano le due varietà;
2. si parla di diglossia quando le due varietà sono usate in modo complementare, per cui una delle due ha
uno statuto socioculturale più alto e l’altra più basso;
3. dilalia quando le due varietà di lingua sono sì proprie di ambiti differenti, ma la varietà alta viene
ampliamente impiegata anche nel parlato quotidiano ed è per la maggioranza della popolazione la lingua
della socializzazione primaria.

Un caso particolare sono le lingue creole e le lingue pidgin. Tra le lingue creole annoveriamo il giamaicano, il
creolo haitinao, il mauriziano e i seicellese, lingue create in seguito alla colonizzazione e alla tratta degli schiavi
a causa della necessità di comunicare e capirsi. Le lingue pidgins sono invece lingue estremamente
semplificate, createsi a causa delle necessità di comunicare negli scambi commerciali. Solitamente, quando una
lingua pidgins si sviluppa, i parlanti con meno prestigio sociale sono più accomodanti rispetto ai parlanti con più
prestigio sociale e usano delle parole della lingua di questi ultimi. In questo caso, la lingua dominante è detta
lingua lessificatrice o di superstrato, mentre le lingue indigene sono solitamente dette lingue di substrato.
Il linguaggio e la cognizione
(28/11) Prima del 1700 il cervello non era ancora considerato una parte essenziale: per esempio, gli Egizi, quando
mummificavano, buttavano via il cervello. Aristotele considerava il cuore come il nucleo essenziale, mentre il
cervello era una sorta di irradiatore che serviva solo a “raffreddare” il sangue. Negli anni ‘90 si raggiunge però
l’acme, tanto che George Bush definisce questo decennio “il decennio del cervello” e propone investimenti a
favore della ricerca sul cervello non solo in campo clinico, ma anche in ambito di ricerca sperimentale.
Nel Seicento, il fisico Thomas Willis, sulla base dei suoi esperimenti, afferma che percezioni, pensieri, sentimenti,
ricordi e azioni emergono grazie a particolari forze all’interno del sistema nervoso centrale. Nel 1791 Luigi Galvani
scopre che quelle forze sono impulsi elettrici. Nel 1889 Santiago Ramón y Cajal sostiene che questi impulsi sono
come dei segnali che trasportano informazioni attraverso cellule organizzate in reti, definiti the butterflies of the
soul. Nel 1891 Heinrich Wilhelm Gottfried von Waldeyer-Hartz conia il termine neurone. Tra il 1970/80 iniziano
delle collaborazioni multidisciplinari tra neuroscienziati, linguisti, psicologi, filosofi e esperti di intelligenza
artificiale.

Il mentalese è una teoria semantica che sostiene che ci sarebbe una modularizzazione nel cervello per cui ogni
modulo sarebbe deputato a una certa funzione. Questo è un tipo di rappresentazione che risente del modello
amodale o classico della rappresentazione semantica, secondo cui la cognizione linguistica è separata dalla
percezione: i concetti e i significati consistono in simboli astratti in un sistema semantico autonomo rispetto ai
sistemi percettivi e azionali. Il significato linguistico è:
1. proposizionale, ovvero analizzabile a partire da elementi più semplici, che sono i simboli che, combinati
insieme, danno un significato globale;
2. composizionale, poiché le combinazioni di parole conservano i significati dei singoli elementi e vanno a
formare strutture più complesse. Noi combiniamo elementi molto astratti;
3. amodale, cioè indipendente dalle modalità sensoriali.
Nel 1975, Fodor ipotizza la presenza di moduli nella nostra mente, ovvero elaboratori automatici
dell’informazione in grado di rispondere in modo veloce ma sofisticato ai più diversi compiti cognitivi. Questa
teoria prende il nome di modularismo. La cognizione è un modulo funzionale autonomo che ha bisogno di essere
collegato a dispositivi periferici per poter accedere alla visualizzazione degli oggetti del mondo a cui i simboli si
riferiscono. Il linguaggio è compreso attraverso l’attivazione di simboli astratti che si trovano in un modulo
specifico del cervello, separato ed indipendente da quello che processa le esperienze percettive e motorie. Per
esempio, secondo il sistema amodale, noi uniamo il concetto BANANA e la parola banana mettendo insieme i
simboli [frutta], [lunga], [gialla], [curvata], ecc.

Il modularismo non è l’unico approccio possibile. Uno dei


modelli che ha riscontrato maggior successo è il modello della
cognizione incarnata (→). L’embodiment è una teoria
secondo cui il linguaggio non è slegato e scisso rispetto a
tutti gli altri aspetti della cognizione umana come
percezione e azione. L’embodied cognition, la quale essa
stessa include diversi approcci, sostiene che c’è un legame tra
mente e linguaggio e tra rappresentazione concettuale
dell’esperienza nella mente e segno linguistico usato per
esprimere tale concetto. L’esperienza percettiva è centrale nella
produzione e comprensione del linguaggio.
A livello neurale, i sostenitori delle teorie embodied spiegano che quando sentiamo parole, per poterle
processare e comprendere attiviamo nel cervello le stesse aree di quando facciamo le azioni descritte dalle
parole stesse (ex. quando sentiamo la parola correre, per comprenderla il nostro cervello attiva i circuiti neurali che
utilizziamo quando corriamo); in altre parole, simuliamo le esperienze percettive e motorie quando
comprendiamo il linguaggio verbale. Secondo alcune teorie, noi simuliamo sempre le esperienze percettive, mentre
secondo un approccio più debole noi simuliamo solo in alcuni casi. Nel modello embodied, la conoscenza
semantica della parola BANANA attiva una serie di aree del cervello e non solo una.
Tra le teorie embodied si distinguono:
1. la strong embodied view of language comprehension, quando la comprensione del linguaggio è solo un
processo di simulazione di esperienze percettive e motorie senza il quale non comprenderemmo le
parole;
2. la moderate embodied view of language comprehension, secondo cui la comprensione del linguaggio
avviene anche attraverso la simulazione di esperienze percettive e motorie;
3. la weak embodied view of language comprehension, secondo cui la comprensione del linguaggio può
provocare la simulazione di esperienze percettive e motorie.
Nel 1989 Damasio mostra la teoria embodied partendo dalla descrizione di violino. Parte da come il concetto può
essere implementato nel cervello. Egli scopre che il significato si basa sull’esperienza personale: le persone che
hanno esperienza con il violino, la parola stessa genera una serie di attivazioni di rappresentazioni somatosensoriali
legate alla forma, al movimento, al colore, al materiale, poiché si attivano le zone di convergenza che riguardano
una serie di neuroni diversi.

Pülvermuller presenta invece un’ipotesi


semantica-somatotopica (←). Egli sostiene che le
componenti motorie dei verbi azionali sono
rappresentate, almeno in parte, in aree frontali mappate
somatotopicamente: i neuroni che si attivano nel momento
in cui abbiamo una stimolazione a livello fisico sono
adiacenti ai neuroni che si attivano quando stimolo parte da
area fisica vicino (ex. una sensazione a livello del piede
attiva dei neuroni vicini ai neuroni dell’area del polpaccio). I
verbi per azioni eseguite con arti inferiori (ex. calciare) coinvolgono alcune delle stesse aree dorsali e dorsali
mediali che controllano i tipi azionali a cui questi verbi si riferiscono. Ci sono lievi differenze cinetiche tra verbi
della stessa classe (ex. direzionalità, velocità, forza), che sono catturate da popolazioni di neuroni in aree
frontali adiacenti o sovrapposte. Per esempio, distinzioni motorie in verbi come pat, pinch e poke potrebbero
contare sulle stesse popolazioni di neuroni nelle aree motorie laterali che contribuiscono all’esecuzione di azioni
effettuate con arti superiori.

Nel 2010 Willelms misura l'attività cerebrale di 32 persone tra destrorsi e mancini e sottopone un task di decisione
lessicale su verbi di azione manuali, non manuali e pseudo-parole potenzialmente pronunciabili. Ha dimostrato che
i destrorsi comprendono i verbi azionali manuali coinvolgendo le aree motorie di sinistra deputate al controllo degli
arti superiori. C’è una simmetria emisferica per i mancini. Da ciò si deduce che l'elaborazione dei verbi comporta
una simulazione automatica nel modo in cui si eseguono i tipi azionali.
Nel 2001 Pülvermuller cerca di capire se le regioni frontali che rappresentano somatotopicamente le componenti
motorie di verbi azionali sono direttamente coinvolte nell’elaborazione verbale. Usando un campione di 20 persone
e attraverso un sistema ERP, scopre che i verbi relativi a movimenti facciali coinvolgono aree motorie ventrali, i
verbi relativi ad azioni eseguite con arti superiori coinvolgono aree motorie laterali, i verbi relativi ad azioni
eseguite con arti inferiori coinvolgono aree motorie dorsali.
Nel 2005 Pülvermuller dimostra, sottoponendo 12 destrorsi a un task di decisione lessicale, che l’alterazione delle
operazioni funzionali di aree motorie relative a parti del corpo condiziona l’elaborazione semantica dei
corrispondenti verbi azionali. Egli nota che la stimolazione di regioni legate agli arti inferiori di sinistra comporta
risposte significativamente più veloci quando i soggetti sono esposti a verbi codificanti azioni relative ad arti
inferiori; la stimolazione di regioni legate agli arti superiori di sinistra mostra invece effetti opposti.

Nel 2008 Beilock vuole mostrare come la nostra esperienza fisica e sportiva possa impattare sulla comprensione
linguistica. Divide un campione in tre gruppi: giocatori professionisti di hockey, tifosi non occasionali ed esperti
senza esperienza sul campo, e partecipanti senza alcun tipo di esperienza. Durante quest’esperimento i partecipanti
dovevano ascoltare delle azioni comuni e delle azioni descriventi specifiche dell’hockey. Il suo obiettivo è valutare
se i tre gruppi rispondono in modo diverso a questi task. Nota che l'esperienza facilita la comprensione delle
descrizioni linguistiche di azioni proprie dell’hockey.

Più complesso è il discorso legato alle parole astratte che


non sembrano ancorate nel concreto. Per esempio, della
parola DEMOCRAZIA abbiamo il simbolo, il referente, ma
abbiamo problemi con il concetto. Anche in questo caso sono
state sviluppate diverse teorie.
Una delle più importanti è la teoria del doppio codice,
secondo cui, per rappresentare un’informazione,
utilizziamo sia l'informazione visiva e sia verbale.
L’elaborazione dell'informazione avviene in modalità distinte
e mediante canali diversi della mente umana, dando luogo a
rappresentazioni distinte, a seconda dell’informazione
elaborata in ciascun canale. Per ricordare le informazioni possiamo poi utilizzare sia codici visivi sia codici verbali;
codificare uno stimolo in due modi diversi incrementa la possibilità di ricordare un elemento memorizzato. Ma se le
parole concrete sono memorizzate attraverso i codici visivo e verbale, le parole astratte vengono immagazzinate
solo attraverso il codice verbale. Si parla di concreteness effect: a parità di condizioni, siamo più veloci a
riconoscere, memorizzare e produrre parole concrete rispetto a parole astratte.
Un altro modello è il modello della disponibilità del contesto di Schwanenflugel del 1991, secondo cui in realtà i
significati di parole astratte e concrete non differiscono nel formato, in quanto la conoscenza semantica è
amodale, ma differiscono in relazione alle possibilità di interpretazione: le parole concrete sono più facili da
elaborare perché il significato è condizionato dall'esistenza di referenti fisici, mentre le parole astratte sono più
difficili da elaborare perché il significato è condizionato dal contesto d’uso.

(29/11) Possiamo utilizzare anche i modelli embodied per spiegare i concetti astratti, in particolar modo abbiamo:
1. la teoria della metafora concettuale del 1980 di Lakoff e Johnson;
2. la teoria della simulazione di situazioni del 2005 di Barsalou Wiemer-Hastings;
3. la teoria delle emozioni del 2013 di Vigliocco.

Lakoff e Johnson formulano nel 1980 la teoria della metafora concettuale nel saggio Metaphors we live by, in cui
si afferma che la metafora sia non solo un abbellimento discorsivo, ma una struttura vera e propria del
pensiero. La metafora è pervasiva nella vita quotidiana anche a livello cognitivo, in quanto il nostro sistema
concettuale è fondamentalmente metaforico. In precedenza, la metafora era vista come una violazione,
un’anomalia della lingua. Solo recentemente si è scoperto che nelle metafore si manifesta un vero e proprio
processo cognitivo e sono fondamentali per strutturare il nostro pensiero e il modo in cui vediamo la realtà. La
teoria si basa sui seguenti punti:
1. le metafore non sono semplici ornamenti discorsivi;
2. gli esseri umani usano metafore quotidianamente nel linguaggio normale della vita di tutti i giorni;
3. le metafore che usiamo ci servono per parlare di concetti astratti, intangibili che altrimenti non saremmo
capaci di comprendere o comunicare;
4. le metafore ancorano concetti astratti a concetti concreti tramite un meccanismo di mappatura;
5. le metafore sono parte del nostro modo di pensare.
Con metafora concettuale s’intende una figura del
pensiero che ha un riflesso nella lingua a partire dal
sistema cognitivo. Per esempio, nelle seguenti frasi ci sono
metafore della guerra usate in riferimento ai discorsi: le tue
richieste sono indifendibili; lui ha attaccato ogni punto
debole nella mia argomentazione; le sue critiche hanno
colpito nel segno; ho demolito il suo argomento; non ho
mai avuto la meglio su di lui; ha distrutto tutti i miei
argomenti.
La metafora usata si dice source domain, ciò che
intendiamo si dice target domain. Il trasferimento dal source domain al target domain è selettivo: non tutte le
proprietà di un dominio entrano a far parte nelle proprietà dell’altro dominio, bensì trasferiamo solo informazioni
pertinenti in accordo a uno specifico pattern di trasferimento, detto schema. Diversi schemi possono coesistere.
Nelle frasi Gli organizzatori dell'evento hanno piazzato la plenaria alle 18; da lunedì a sabato siamo in Liguria;
possiamo spostare la visita al 5 gennaio? lo schema condiviso è time is space. Quando parliamo di tempo usiamo
un lessico che si riferisce allo spazio e alle relazioni tra referenti concreti nello spazio. Questa relazione tra tempo e
spazio è metaforica. Poiché possono coesistere più schemi noi parliamo del tempo anche come un oggetto che si
muove: time is space e time is a moving object sono due schemi che possiamo usare senza che siano in
contrapposizione. Questi schemi sono culturali: in realtà esistono diversi modi per pensare al tempo. Per esempio,
nella lingua maori, il futuro è dietro e il passato è davanti, mentre per noi è l’opposto; in inglese, si usa invece un
asse verticale in cui gli eventi futuri sono sopra e quelli passati sono sotto, mentre in cinese si usa sempre un asse
verticale, ma passato e futuro sono invertiti; in italiano usiamo uno schema in cui il futuro si avvicina e gli eventi
passati si allontanano.

Whorf sviluppa la teoria della relatività linguistica, secondo cui le categorie linguistiche influenzano il nostro
modo di pensare in modo deterministico: le persone che parlano lingue diverse pensano anche in modo diverso.
Questa teoria non è ampiamente accettata. La linguista Lera Boroditsky, la quale segue questa teoria, fa un
esperimento su alcuni parlanti di inglese, di ebraico e di kuuk thaayorre, i quali dovevano disporre quattro foto dalla
più antica alla più moderna: si è notato come i parlanti di inglese ed ebraico disponevano le foto in base alla
direzione della scrittura, mentre i parlanti di kuuk thaayorre le disponevano in base ai punti cardinali.
Qualcosa di simile l’ha studiato Casasanto: egli ha provato ad analizzare il modo in cui le note possono essere
percepite da due gruppi di parlanti diversi, olandesi e farsi. Gli olandesi parlando di scala di note usano una scala
verticale, i cui punti sono high o low pitch, mentre i parlanti farsi usano una scala diversa i cui punti sono thick e
thin pitch; gli olandesi non sono influenzati dalla scala farsi, mentre i farsi non sono influenzati dalla scala
olandese. In conclusione, Casasanto afferma che le metafore presenti nella nostra lingua influiscono sul nostro
comportamento anche quando il linguaggio non è direttamente coinvolto.

Secondo le teorie embodied, saremmo in grado di comprendere e rappresentare nella nostra mente i concetti
astratti perché questi sarebbero ancorati nella nostra mente attraverso concetti concreti, che possiamo
percepire attraverso i cinque sensi. Per esempio, possiamo comprendere il concetto astratto di AMORE e
rappresentarlo solo attraverso metafore, che ci aiutano ad ancorarlo a concetti più concreti, come il concetto di
VIAGGIO. Nella teoria di Lakoff si parla di esperienzialismo: noi attacchiamo i concetti astratti a concetti che
capiamo più chiaramente.
In una serie di esperimenti su costruzioni metaforiche e specificità del corpo, Casasanto nel 2009 mostra che, a
differenza dei destrorsi, i mancini tendono ad associare lo spazio a sinistra a valenze positive. Se ci si basasse solo
su evidenze linguistiche (ex. si dice avere un sinistro inteso come incidente) o culturali generali questo non sarebbe
vero. Un altro esperimento riguarda ciò che succede quando l’associazione spazio-valoriale cambia a causa di
problema clinico: è stato preso un campione di 13 pazienti colpiti da ictus; tra questi, non c’è stata alcuna
modificazione nell’associazione spazio-valoriale in pazienti destrorsi con lesioni a sinistra, mentre si verifica un
cambiamento nei pazienti destrorsi con lesioni a destra. I destrorsi che perdono l’uso della destra rispazializzano e
iniziano a rappresentare idee positive a sinistra. In un ultimo esperimento sono stati usati come campione 55
studenti universitari destrorsi e gli sono stati affidati dei task manuali mentre una delle due mani era ostacolata. Si è
notato che c’è stato un cambiamento nelle associazioni spazio-valoriali a causa del condizionamento in interferenza
tra mano destra e task manuale.

Nel 2005 i linguisti Bowdle e Gentle coniano l’espressione carriera delle metafore per descrivere il processo di
convenzionalizzazione delle espressioni metaforiche. Quando si coniano nuove espressioni espressioni nuove
vengono inserite nel dizionario e diventano parte delle conoscenze condivise fino alla familiarità.
Per descrivere cosa succede al cervello quando gli sottoponiamo una metafora nuova o metafore conosciute sono
stati sviluppati due modelli:
1. il modello indiretto o standard, che, risentendo del modello griceano della comunicazione, afferma che il
significato metaforico è comprensibile sempre e comunque solo in seguito a una prima interpretazione
del significato letterale, che poi viene rigettata e ne viene costruita una seconda versione, che porta
all’interpretazione del significato metaforico;
2. il modello dell’accesso diretto, secondo cui il significato metaforico è compreso per via diretta, come il
significato di una parola polisemica, viene disambiguato nel contesto senza dover passare da altri
significati precedenti.
I risultati empirici mostrano posizioni contrastanti riguardo a questo argomento: quando leggiamo metafore
convenzionali non pensiamo più al significato letterale; quando leggiamo o ascoltiamo metafore creative dobbiamo
simulare nella mente il significato letterale prima e poi capire i mappings, ovvero le porzioni di significato trasferite
dal significato letterale a quello metaforico.
Nel 2003 Giora sviluppa il modello della salienza graduale, secondo cui abbiamo due meccanismi di
elaborazione che funzionano in parallelo:
1. il primo è dal basso verso l’alto, un meccanismo di recupero degli elementi lessicali in ordine di salienza;
2. il secondo è dall’alto verso il basso, che valuta l’appropriatezza del contesto.
Se i due esiti si incontrano c’è compatibilità tra lessico e contesto; se c’è incompatibilità e il significato più
familiare non è quello più appropriato, il processo continua e i tempi di elaborazione si allungano.
Nel 2021 Bambini sviluppa la geografia neurale di una metafora. Egli afferma che la comprensione della
metafora coinvolge sia regioni deputate a processi linguistici che non linguistici formando una sorta di
network neurofunzionale:
1. l’attivazione in aree frontali bilaterali permette l’integrazione delle conoscenze di sfondo e delle informazioni
linguistiche in un contesto;
2. l'attivazione in alcune aree della corteccia attiva l’attenzione e le funzioni esecutive;
3. l’attivazione bilaterale in aree temporali posteriori e parietali permette tutti i compiti della teoria della mente.
Quando produciamo metafore, abbiamo attivazioni nel giro angolare di sinistra e in aree della corteccia legate a
processi di controllo esecutivo.

(30/11) Secondo alcuni studiosi che sostengono la teoria dell’embodiment, le parole che denotano concetti
astratti sono ancorate nell’esperienza percettiva tanto quanto le parole che denotano i concetti concreti. Non
si tratta di una differenza sostanziale, ma attentiva. Con le parole concrete simuliamo e riattiviamo le esperienze e
gli elementi percettivi relativi al referente denotato dalla parola. Con le parole astratte simuliamo e riattiviamo
delle esperienze personali specifiche e la nostra attenzione è diffusa su tutta la situazione. Questa è chiamata
teoria della simulazione di situazioni di Barsalou e Wiemer-Hastings del 2005.
Quando comprendiamo, ovvero processiamo in tempo reale, una parola come banana ci focalizziamo sul referente
denotato dalla parola e sui suoi aspetti percettivi, cioè colore, forma, gusto, ecc. Quando comprendiamo una parola
astratta come libertà simuliamo una situazione intera e la nostra attenzione è diffusa su tutte le componenti della
situazione. Gli elementi a supporto di questa teoria vengono da alcuni studi sulla concretezza e sull’immaginabilità.
Nel 2014 Vigliocco fa un esperimento e attraverso un task di decisione lessicale, valuta le risposte neurali davanti a
60 nomi concreti e 60 nomi astratti. Vede che i concetti concreti mostrano una preponderanza statistica di elementi
sensomotori, mentre i concetti astratti mostrano una preponderanza di elementi affettivamente connotati. Si
registrano attivazioni significative in una particolare porzione della corteccia cingolata anteriore, che ha un ruolo
centrale nella processazione delle emozioni.
Un’altra prova sperimentale nel legame tra emozione e astrazione è l’esperimento di Wilson e Mendenhall del
2011. Sono stati sottoposti a 20 studenti destrorsi i quattro concetti astratti di FEAR, ANGER, OBSERVE e PLAN.
Si è quindi notato che il lessico emozionale fa registrare un’attivazione nello stesso circuito neurale per le
emozioni. La parola fear, per esempio, può essere elaborata in relazione alla possibilità di ingiuria fisica, ma anche
in relazione alla possibilità di giudizio negativo da altre persone, attivando così diverse aree del cervello. La parola
plan implica una minore attivazione delle regfioni legate alle emozioni ma coinvolge regioni associate a processi
visivi, motori e azionali.

Nei concetti astratti c’è un sottogruppo di parole che denotano


emozioni, considerate universali e facilmente traducibili perché
si riferiscono a stati emotivi comuni a tutti esseri umani. Le
emozioni sono considerate come espressioni primordiali e che si
manifestano in maniera simile. Ci sono alcuni indicatori delle
emozioni che ci permette di identificarle senza differenza tra
culture.
Darwin, in The expression of the emotions in man and animals,
sostiene che alcune espressioni facciali si siano evolute e a un certo
punto abbiano assunto uno specifico valore. Gli uomini sono in
grado di decodificare automaticamente queste espressioni e
associarvi il loro significato emotivo.
Ekman lavora sulle emozioni di base: sostiene che le configurazioni
facciale per esprimere le emozioni primarie, cioè le 7 espressioni
di base, siano universali, innate e di natura categoriale, cioè ben
distinguibili tra loro. Con studi sperimentali, Ekman dimostra che
parlanti di lingue tipologicamente e genealogicamente diverse
abbinano le stesse espressioni facciali alle stesse parole che denotano
emozioni. Tali emozioni sono universali e includono rabbia,
disgusto. paura, sorpresa, felicità, tristezza, perplessità.

Lisa Feldman Barrett, analizzando la struttura e le funzioni base del


cervello, riflette sulle funzioni biologiche delle emozioni e costruisce una teoria chiamata teoria dell’emozione
costruita, secondo cui le emozioni non sono reazioni universali all’ambiente, ma sono imparate culturalmente
sulla base dell’osservazione dell’osservazione e dell’imitazione. Individua 16 macro espressioni facciali
sistematicamente covarianti in 144 paesi. Inoltre, riflette sulle conseguenze pratiche e sociali di un approccio
universalistico e categoriale all’espressione facciale delle emozioni. Quindi possiamo affermare che diverse culture
associano emozioni ed espressioni facciali in modo diverso.
Le parole utilizzate per esprimere le emozioni sono fondamentali per noi per capire le differenza tra diverse
emozioni. I bambini inizialmente distinguono tra emozioni positive e negative anche se non conoscono parole. Le
parole ci aiutano a categorizzare e a raggruppare insieme manifestazioni di emozioni che possono essere molto
diverse tra loro e possono essere associate ad espressioni facciali molto diverse. Le parole con cui una certa
emozione viene identificata in un contesto preciso, e associata a un’espressione facciale, ci aiutano a categorizzare
espressioni facciali molto diverse tra loro per mezzo di una stessa etichetta. Le etichette lessicali infatti funzionano
come colla per tenere insieme esperienze percettive molto diverse tra loro.
Storia della linguistica
(5/12) Per convenzione si attribuisce la nascita della disciplina alla data in cui gli appunti del corso di linguistica
generale di Saussure furono messi insieme dai suoi studenti e pubblicati nell’opera Cours de linguistique générale
(1916).
Già in precedenza c’era coscienza riguardo le lingue, per esempio:
1. gli Egizi e i Sumeri realizzarono elenchi di parole e compilazioni di liste di morfemi;
2. Platone nel Cratilo riflette sull’idea sofistica dell’assoluta convenzionalità del rapporto fra le parole e le
cose;
3. Pāṇini studia la grammatica del sanscrito;
4. Aristotele sposa una prospettiva totalmente convenzionale del rapporto fra le parole e la realtà e riflette sulle
parti del discorso e sulla flessione dei casi grammaticali;
5. i grammatici greco-latini definiscono le parti del discorso;
6. Dante fa una prima panoramica dei dialetti italiani nel De vulgari eloquentia;
7. nel XVI secolo si è sviluppata una trattatistica grammaticale in connessione con i processi di
emancipazione e standardizzazione delle lingue volgari;
8. la Scuola giansenista e il razionalismo cartesiano sviluppano una teoria grammaticale generale e ragionata;
9. Leibniz studia le lingua artificiali filosofiche;
10. Giambattista Vico distingue tra razionalismo e convenzionalismo, teorizzando che il linguaggio si radica
spontaneamente nella natura umana.

Pāṇini si concentra sulla grammatica del sanscrito. Scrive Aṣṭādhyāyī, gli Otto libri, il più antico trattato
grammaticale esistente su una lingua indoeuropea, La grammatica sanscrita viene divisa in otto sezioni sia di teoria
sia di analisi grammaticale. La datazione è incerta e si colloca intorno al 600 a.C. o al 300 a.C. e ci sono ancora
dubbi se la sua composizione è orale o scritta. L’opera fornisce un’analisi del sanscrito: espone delle regole di
formazione di parole (sūtras o fili), sotto forma di brevi asserzioni o aforismi, e danno definizioni o illustrano
processi, dato che le regole sono applicabili secondo un ordine fisso. Contiene anche appendici con liste di radici
verbali, parole con flessioni nominali simili e suoni del sanscrito. Si tratta di un’opera complessa pensata per
grammatici e rappresenta uno dei punti più alti della storia della linguistica.

Nel De vulgari eloquentia Dante promuove lo studio dei volgari, cioè dei dialetti romanzi parlati, contrapponendo
l’uso del latino. Dante sosteneva la naturalità del volgare in quanto lingua nella quale ci si esprime spontaneamente
sin da bambini, e per questo più nobile del latino. Secondo Dante, le lingue romanze o neolatine derivano da un
unico e medesimo idioma che appare “triforme”:
1. le lingue di sì, dei latini;
2. le lingue d’oc, degli yspani della Francia meridionale;
3. le lingue d’oïl, dei francesi della Francia settentrionale.
Dante riconosce 14 tipi di dialetti italiani, nessuno dei quali possiede gli attributi necessari a caratterizzare una
lingua comune italiana.

Leibniz mostra interesse per la comparazione linguistica, lessicografica, dialettologica e l’indagine etimologica.
Si occupa di numerose lingue poco o per nulla conosciute all’epoca, come l’albanese. Il suo obiettivo è creare una
lingua universale filosofica, tale da rappresentare un sistema generale delle conoscenze, che deve essere di facile
comprensione e che ha come fine ultimo l'armonia tra gli esseri umani. Propone come alternativa un latino
semplificato, privo di genere e flessione.

Nel 1769 l’astronomo János Sajnovics, mentre sta eseguendo osservazioni astronomiche nella Norvegia
settentrionale, entra in contatto con i lapponi e nota delle concordanze tra parole lapponi e termini corrispettivi
ungheresi. Egli suppone quindi l’esistenza di una parentela linguistica. Nel 1770 pubblica Demonstratio idioma
Ungarorum et Lapponum idem esse, la prima comparazione scientifica tra due lingue, che non guarda solo
concordanze lessicali, ma anche concordanze nella struttura grammaticale: per esempio, in entrambe le lingue il
plurale si forma con il suffisso -k.
Nel 1799 il medico Sámuel Gyarmathi pubblica Affinitas linguae Hungaricae cum liguis Fennicae originis
grammaticae demonstrata, in cui nota delle affinità tra unghere e finlandese, in base alla comparazione della
struttura grammaticale.
Nel 1786 William Hines della East India Company legge alla Royal Asiatic Society di Calcutta il saggio un cui
stabilisce la parentela storica del sanscrito con il latino, il greco e altre lingue germaniche.
Possiamo definire il periodo della linguistica del 1700 come una sorta di feudo dell’erudizione tedesca. I
linguisti non tedeschi che lavorano in questo campo si formano in Germania e molti linguisti sono tedeschi
espatriati. Inoltre, molti di questi studiosi sono esperti di sanscrito. Friedrich Schlegel pubblica il trattato Über die
Sprache und Weisheit der Indier nel 1808, in cui sottolinea l'importanza di studiare le strutture interne delle lingue,
ovvero la morfologia, poiché da esse si possono cogliere le affinità genetiche. Si presume abbia coniato
l’espressione “vergleichende Grammatik”, cioè “grammatica comparativa”.

Franz Bopp scrive è il fondatore della linguistica storico-comparativa (o glottologia). Scrive Vergleichende
grammatik riguardo al sanscrito, al persiano aveistico, al greco, al latino, al gotico e al tedesco.
Rasmus Rask fornisce le prime grammatiche sistematiche dell’antico scandinavo e dell’anglosassone. Mette un
ordine nelle parentele etimologiche e fa dei confronti sistematici tra forme di parole.
Jakob Grimm, con Deutsche Grammatik, segna l'inizio della linguistica germanica. Attraverso un lavoro di
fonetica, studia le rotazioni consonantiche, dette poi leggi di Grimm.

A metà del 1800 Schleicher propone nel Compendium un modello genealogico delle lingue indoeuropee,
elaborando una prima classificazione tipologica in lingue isolanti, agglutinanti e flessive. Questo modello si
chiama Stammbaumtheorie e deve molto ai metodi di classificazione botanica per specie e per gruppi nel sistema
di Linneo, ma che potrebbe anche essere stata ispirata dal metodo comparativo di ricostruzione della genealogia dei
manoscritti. Le lingue vengono organizzate in sottofamiglie sulla base di caratteristiche comuni distintive. In
Darwinian Theory and Linguistics, ispirandosi alla teoria dell’evoluzione di Darwin, concepisce le lingue come un
organismo naturale. Schleicher afferma che il linguaggio va trattato con i metodi delle scienze naturali e,
indipendentemente dalla volontà e dalla coscienza dei parlanti, ha i suoi periodi di crescita, maturità e
declino.

Nel 1878 a Lipsia viene fondata la scuola neogrammatica (Junggrammatiker). I neogrammatici pongono il
lavoro sulla linguistica storico-comparativa all’interno delle scienze naturali, in particolare della geologia e
fisica, in quanto sono scienze fisiche esatte di natura inanimata. La linguistica storica è una scienza esatta, le leggi
agiscono per cieca necessità, indipendentemente dalla volontà dell’individuo; la lingua non è un’unità organica
sovraindividuale. I fondatori, Osthoff e Brugmann, in un articolo del 1878 dichiarano l’ineccepibilità delle leggi
fonetiche. I mutamenti di suono, in quanto processi meccanici, avvengono in uno stesso dialetto ed entro un
dato periodo di tempo secondo leggi che non ammettono eccezioni. Creazioni analogiche e modifiche di parole
specifiche sono una componente universale del mutamento linguistico in tutti i periodi della storia e della preistoria.

La fonetica si sviluppa nella seconda metà del 1800.


A.J. Ellis e I. Pitman collaborano alla riforma dell’alfabeto. Nel 1855, C.R. Lepsius pubblica lo Standard
Alphabet, lavoro collettivo di studiosi inglesi e continentali che elenca i possibili suoni vocalici e consonantici,
classificati in base alla loro articolazione, rappresentati da simboli e illustrati con esempi dalle varie lingue. Nel
1889, l’Associazione Fonetica Internazionale, fondata da Passy, elabora la prima versione dell’Alfabeto
Fonetico Internazionale (IPA).
Henry Sweet diventa una guida nello studio dell’inglese antico, medio, nuovo con interesse per aspetti sincronici e
descrittivi della linguistica. Prima di Sweet, i fonetisti si erano prevalentemente occupati della riforma della grafia.
In Handbook of Phonetics (1877) distingue tra suoni le cui differenze dipendono dal contesto in cui si trovano
e suoni che permettono di fare di due parole voci lessicalmente diverse. Ciò che è distintivo in una lingua non lo
è per forza in un’altra. Solo le differenze distintive hanno bisogno di una notazione separata in un sistema di
trascrizione larga. Le trascrizioni strette necessitano invece di simboli diversi.

(6/12) Ferdinand de Saussure è uno dei più importanti linguisti del 1900. Nel 1879 pubblica Memoria sul sistema
primitivo delle vocali nelle lingue indoeuropee, dando così il suo personale contributo alla grande stagione di
scoperte nell’ambito della linguistica storico-comparativa. Nel 1916, due suoi allievi pubblicano il suo Cours de
linguistique générale, ricostruendo appunti e manoscritti superstiti. A partire da Saussure nasce il movimento dello
strutturalismo, ma egli non usa questo termine, piuttosto il termine “sistema”.
La teoria linguistica di Saussure è spesso riassunta in quattro dicotomie o opposizioni binarie tra concetti:
1. langue e parole;
2. sincronia e diacronia, importante perché prima l’assetto della linguistica storico-comparativa;
3. significante e significato;
4. rapporti sintagmatici e rapporti associativi.
L’assunzione della nozione di sistema, in cui tutto è in interrelazione reciproca e in cui quindi il valore di ogni
elemento dipende dai suoi rapporti con gli altri elementi del sistema. La corrispondente rilevanza della nozione di
struttura quale manifestazione della basilare distinzione fra unità astratte ed elementi concreti della lingua. La
chiara separazione fra lo studio dei mutamenti che intercorrono nelle lingue lungo l’asse del tempo (diacronia) e lo
studio dello stato in cui una lingua si presenta agli occhi dell’osservatore in un determinato periodo (sincronia).
Questa distinzione ha prodotto, in una fase successiva, una distinzione marcata tra linguisti generali e linguisti
storici.
Dopo Saussure si creano sue scuole:
1. il circolo di Praga, fondato nel 1926, che costituisce uno sviluppo dei principi strutturalisti in una
direzione prevalentemente funzionalista. L’interesse prevalente è per la fonologia. Scrivono le tesi del ’29,
in cui si afferma che la lingua è un sistema di mezzi d’espressione appropriati a uno scopo, si sviluppa la
concezione dinamica del sistema linguistico e si mostra attenzione per i problemi del linguaggio poetico,
considerato nella sua specificità rispetto al linguaggio comune. Di questa scuola fanno parte Roman
Jakobson e Nikolaj Trubeckoj. Jakobson è conosciuto principalmente per il modello del codice e le
relative funzioni della lingua, Trubeckoj elabora invece il concetto di fonema come unità distintiva;
2. la scuola di Copenhagen, che ha un orientamento verso una trattazione formale e astratta della linguistica.
Fra i principali studiosi di questa scuola ci sono Viggo Brondal e Louis Hjelmslev. Hjelmslev prova a
fondare una rigorosa teoria della lingua come una totalità autosufficiente, non riducibile ad alcun tipo di
fenomeno, da spiegare secondo principi sui generis basati su unità astratte definite deduttivamente in termini
di logica formale; la sua teoria è nota anche come glossematica.

In America, Franz Boas inaugura la linguistica antropologica dando grande impulso allo studio delle lingue
indigene d’America e alla ricerca e documentazione linguistica sul campo. Si occupa prevalentemente di lingue
amerindiane, spesso in comunità piccole, su tanta parte degli Stati Uniti e del Canada. Tra gli anni ‘30 e gli anni ‘60
del Novecento, negli Stati Uniti, con l’espressione linguistica strutturale si intendeva sostanzialmente linguistica
descrittiva. Lo strutturalismo americano è anche detto strutturalismo tassonomico o distribuzionalismo. I capiscuola
della linguistica strutturale statunitense sono Edward Sapir e Léonard Bloomfield.
Sapir portò contributi importanti sia alla teoria del mutamento linguistico che alla descrizione sincronica e
alla tipologia linguistica; egli giudica insufficiente la tipologia dei fratelli Schlegel e di Humboldt, cioè la
suddivisione delle lingue in isolanti, agglutinanti, flessive e polisintetiche. La prima e fondamentale delle
dimensioni di classificazione è quella del tipo e del numero dei concetti grammaticali espressi nelle varie lingue.
L’origine dell’ipotesi di Sapir-Whorf può essere fatta risalire al lavoro di F. Boas, il quale si rese conto di come lo
stile di vita e le categorie grammaticali e le concettualizzazioni dell’esperienza variassero moltissimo da un
posto all’altro. Di conseguenza, arrivò a credere che la cultura e gli stili di vita di un popolo si riflettessero
nella lingua che esso parlava. L’ipotesi di Sapir e Whorf rappresenta in realtà lo sviluppo da parte di Whorf di
un’idea di Sapir, secondo cui la nostra percezione della realtà è condizionata dalla nostra lingua materna. Si
sviluppa così la teoria della relatività linguistica, che afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano
è influenzato dalla lingua che parla (ex. la lingua hopi non esprime le categorie di tempo). Tra gli esempi di
determinismo linguistico c’è lo studio di Whorf sul linguaggio degli Inuit, che usano diverse parole per indicare la
neve.
Leonard Bloomfield ha invece un’impostazione fortemente neopositivista mirante ad analizzare
meccanicisticamente la lingua sulla sola base comportamentale empiricamente verificabile dei messaggi in
essa prodotti, prescindendo dalle funzioni, dal significato, dall’intenzione dei parlanti. Si parla proprio di
linguistica bloomfieldiana, il cui interesse principale è lo studio del fonema e del morfema. Il modello preferito è
quello distribuzionalista, dal momento che la descrizione linguistica consiste nello stabilire rapporti distribuzionali
tra fonemi in sequenze di fonemi, tra morfemi in gruppi di morfemi e tra costituenti. Da questa visione americana
dello strutturalismo linguistico nasce la corrente formalista, focalizzata principalmente sulla sintassi della lingua
analizzata in prospettiva formale, che caratterizza poi la linguistica generativa e gli studi di Noam Chomsky.

L’anno di svolta per la linguistica è il 1957, anno in cui Chomsky pubblica Syntactic structures. La linguistica
chomskyana affronta lo studio del linguaggio da una prospettiva rigorosamente formale e intende porsi in
radicale contrapposizione allo strutturalismo e ad ogni altra corrente della linguistica che privilegi induttivamente i
dati empirici. Da empirismo a razionalismo, si guarda il linguaggio all’interno, la competenza. Il linguaggio è una
chiave per la comprensione parziale della mente o del cervello, che non sono una blackbox (= tabula rasa),
acquisito all’interno di un sistema di grammatiche possibili. Ispirandosi a modelli da un lato matematizzanti e
dall’altro biologico-mentalisti. Chomsky vede il linguaggio come una facoltà mentale basilarmente innata,
inscritta nel patrimonio genetico dell’uomo, e con una sua organizzazione autonoma, da studiare con metodi
deduttivi.
La teoria di Chomsky e la sua distinzione tra competence e performance sono ispirate alla distinzione di Saussure
tra langue e parole, ma danno un’impronta più cognitivista del linguaggio. Chomsky approccia il cognitivismo in
prospettiva formale, paragonando la mente a un modulo formale dotato di regole che vengono applicate e
generano parole o frasi possibili. Il linguaggio è in questo senso una facoltà innata e separabile dal resto delle
competenze cognitive umane.
Steven Pinker si spinge oltre la prospettiva chomskyana e sostiene che non solo l’uomo ha un istinto ereditario del
linguaggio, ma che questo istinto è frutto dell’evoluzione naturale. Inoltre, crede che esista un linguaggio
mentale astratto, il mentalese (Fodor, 1975), con cui diamo forma a pensieri e che noi traduciamo nella nostra
lingua madre.
Secondo Chomsky, la grammatica universale può essere considerata come una caratterizzazione del
linguaggio geneticamente determinata. I genetisti si sono interessati a questi possibili geni del linguaggio e,
qualche anno fa, è stata annunciata la scoperta del gene foxpz; nei soggetti in cui è stata individuata un’alterazione
di questo gene mostravano dei disturbi del linguaggio. Ulteriori ricerche hanno mostrato come il gene alterato non
fosse selettivamente connesso con la grammatica.
La linguistica generativa di Chomsky si focalizza sulle strutture formali della lingua, e vede il linguaggio
verbale essenzialmente come un riflesso logico della struttura della mente. In questa prospettiva le strutture
della lingua sono costruzioni formali, indipendenti dalla loro funzione e dal contesto in cui vengono usate. Questa
visione è in forte contrapposizione con varie correnti funzionaliste, che considerano il linguaggio verbale in primo
luogo come strumento di comunicazione, vedono le strutture correlate con le funzioni, e accentuano l’importanza
del contesto d’uso.
Nella seconda metà del Novecento, l’eredità strutturalista in Europa si sviluppa in molteplici direzioni, una delle
più rilevanti è appunto la linguistica funzionale, il cui rappresentante più noto è Michael A. K. Halliday. Egli
sviluppa la teoria contestuale del linguaggio, secondo cui la funzione in un contesto è fondamentale per
determinare le strutture della lingua.

Il fondatore della sociolinguistica è di solito considerato Uriel Weinreich, autore di un saggio dedicato all’analisi
dei fenomeni di interferenza linguistica nel cantone dei Grigioni, dove si parlano dialetti sia svizzero-tedeschi sia
romanci. Egli segnala l’importanza del rapporto tra linguaggio e società, come qualcosa di inscindibile della
descrizione della lingua. Sono di questi anni anche i primi studi di William Labov. Allo sviluppo della
sociolinguistica contribuiscono molto anche gli studi di etnolinguistica e linguistica antropologica di Dell H.
Hymes, che hanno come focus primario la lingua come fatto sociale, introducendo per la prima volta la nozione di
competenza comunicativa.

La nuova corrente cognitivista post-chomskiana prende le distanze dal cognitivismo classico chomskiano, fondando
le sue radici nel concetto di embodiment: la cognizione è strettamente legata a percezione e azione. In questa
prospettiva, il linguaggio, che è una delle forme più alte in cui la cognizione umana si manifesta, è anch’esso legato
strettamente alla percezione e all’azione. Esseri umani dotati di corpi relativamente simili tra loro percepiscono il
mondo in modi relativamente simili. C’è anche dunque una base condivisa nel modo in cui concettualizziamo
l’esperienza, ma anche molte diversità, legate alle differenze tra corpi e alle differenze tra ambienti in cui
viviamo.

Il neo-whorfianesimo sostiene che i nostri pensieri sono influenzati dalle strutture grammaticali della nostra
lingua madre. Un’area di indagine in questo senso si concentra su come il genere grammaticale dei sostantivi
influisce sul modo in cui percepiamo gli oggetti corrispondenti. Evidenze psicolinguistiche presentate da Lera
Boroditsky hanno suggerito che la risposta è affermativa.

Al giorno d’oggi individuiamo diverse branche della linguistica:


1. la sociolinguistica, lo studio delle interrelazioni fra linguaggio e società e dei fatti linguistici in quanto dotati
di valore sociale;
2. la psicolinguistica, lo studio delle interrelazioni fra linguaggio, mente e comportamento linguistico dei
singoli parlanti;
3. la linguistica antropologica o etnolinguistica, lo studio delle interrelazioni tra linguaggio, pensiero e cultura,
in particolare presso società che non possiedono la scrittura;
4. la pragmatica linguistica, lo studio del linguaggio come modo di agire;
5. la linguistica acquisizionale, lo studio dei processi di apprendimento spontaneo delle lingue;
6. la linguistica applicata, lo studio del modo in cui la linguistica può trovare impiego nella soluzione di
problemi pratici in vari campi, in particolare dell’insegnamento delle lingue;
7. la linguistica computazionale, lo studio delle possibilità di analisi con strumenti automatici delle vastissime
quantità di dati empirici rese disponibili grazie ai PC e al web;
8. la neurolinguistica, lo studio dei rapporti tra linguaggio e cervello.
Esercizi
1. Quale parola inizia con un suono che non appartiene alla stessa classe di suoni?
a. Fabio, Sergio, Claudio, Walter;
b. Mario, Nino, Toni, Laura;
c. Zoe, Giorgio, Gaetano, Cinzia;
d. Anna, Elena, Isabella, Iole, Orietta, Ulisse;
e. Paolo, Sergio, Franco, Claudio, Giorgio;
2. Quale caratteristica hanno in comune i suoni iniziali di ciascun gruppo?
a. Marta, Nilde, Gneo → nasali;
b. Sandra, Franca, Walter → fricative;
c. Tea, Dora, Nella → dentali;
d. Christian, Gaia, Carlotta → velari occlusive.
3. Vero o falso? Quando pronunciamo il suono [k]:
a. le pliche vocali vibrano → falso;
b. il velo del palato è abbassato → falso;
c. l’apice della lingua tocca il velo del palato → falso;
4. Vero o falso? Quando pronunciamo il suono [f]:
a. le pliche vibrano → falso;
b. il velo del palato è abbassato → falso;
c. i denti inferiori toccano il labbro superiore → falso;
5. Dire se le seguenti coppie di parole costituiscono in italiano una coppia minima.
a. forte - corte → dipende (sì, /f/ e /k/);
b. pascià - papà → dipende (sì, /ʃ/ e /p/);
c. cielo - gelo → dipende (sì, /tʃ/ e /dʒ/);
d. pesci - pesti → no;
e. già - là → sì, /dʒ/ e /l/;
f. egli - ebbi → dipende (no);
g. cocco - ciocco → dipende (no);
6. Trascrivere in IPA le seguenti parole:
a. bacio → [‘ba:tʃo];
b. ragno → [‘raɲɲo];
c. piove → [‘pjɔ:ve];
d. piacque → [‘pjakkwe];
e. sciocco → [‘ʃɔkko];
f. asma → [‘azma];
7. Distinguere gli affissi flessivi da quelli derivazionali, e tra questi, distinguere i prefissi dai suffissi:
a. Il guidatore dell’autobus è chiamato autista;
b. Il giornalaio salutò allegramente;
8. Distinguere i morfi nelle seguenti parole:
a. richiamami → ri-chiam-a-mi;
b. scongelarlo → s-congel-a-r-l-o;
c. abbottonagliela → ab-botton-a-glie-l-a;
d. disarmandoti → dis-arm-a-ndo-ti;
9. Determinare la categoria della base a cui si applica e la categoria di parole che produce ciascuno dei
seguenti suffissi:
a. -ista (es. accessorista, violinista): da nome a nome;
b. -aio (gelataio, benzinaio): da nome a nome;
c. -iere (barelliere, usciere): da nome a nome;
d. -tore (alimentatore, caricatore): da verbo a nome;
e. -ezza (ampiezza, bruttezza): da aggettivo a nome.
10. Fornire il diagramma ad albero delle seguenti frasi:
a. Giovanni mette il libro sul tavolo.
b. Elisabetta ha comprato un libro a Milano. (correggere come slide)
c. Il bambino mangia la pasta volentieri.

11. Considera il seguente diagramma ad albero (→). Quale tra le frasi


che seguono non può essere rappresentata con questo diagramma?
a. La ragazza col cappello è andata a casa.
b. La sorella di Maria vive a Bolzano.
c. La bambina ha dato un abbraccio alla zia.
d. Il cane al guinzaglio è di mio padre.
12. Dire che funzione sintattica svolgono i costituenti in grassetto:
a. La borsa non l’ho ancora aggiustata → oggetto diretto;
b. Io l’ho chiamato ma lui non mi ha risposto → oggetto indiretto;
c. Non è ancora partito il regionale per Pisa → oggetto diretto;
d. Ieri alla riunione si è presentato solo l’amministratore → soggetto;
e. Chi ha dato il permesso a Giovanni? → oggetto indiretto;
f. A Giovanni chi gliel’ha dato il permesso → soggetto.
13. Dire qual è il ruolo semantico dei costituenti in grassetto:
a. Marta è scivolata su una lastra di ghiaccio → esperiente;
b. Giovanna rompe il vaso col martello → strumentale;
c. Il gatto ha graffiato il parquet con le unghie → paziente;
d. Giorgia pigia il pulsante dell’ascensore → agente;
e. Ho preso un regalo per Ella → beneficiario;
f. Roberto ha la febbre → esperiente;
g. A Roberto fa male il braccio → esperiente;
h. Serena guida la macchina fino a casa → agente.
14. Individuare frase principale e subordinata e, tra queste, le argomentali, circostanziali o relative:
a. Le hanno detto (principale) che sua cugina non vive più a Trento (subordinata argomentale);
b. Non so (principale) se andrò al mare (subordinata argomentale);
c. Dopo aver avuto un incidente in macchina (subordinata circostanziale), Carlo ha smesso di guidare
(principale);
d. Mi ha chiesto (principale) perché non fossi andata al pranzo di famiglia (subordinata argomentale);
e. Non ha capito quello (principale) che gli ha detto il farmacista (subordinata relativa)
f. Andrea è andato a Livorno (principale) perché voleva mangiare il cacciucco (subordinata
circostanziale).
15. In base all’ordine dei costituenti, di che tipo sono le frasi che seguono?
a. È Sara che ho visto entrare in clinica → frase scissa;
b. Vincenzo l’ho visto entrare in clinica → dislocata a sinistra;
c. Quel film di Sorrentino lo devo ancora vedere → dislocata a sinistra;
d. L’ho sentito sbuffare, Marco → dislocata a destra;
e. Serena, le ho prestato il libro → tema sospeso;
f. Me l’ha data Angela l’autorizzazione → dislocata a destra;
g. Il primo ho ordinato, non l’antipasto → con focus contrastivo;
h. È Sabrina che dovrebbe imparare a comportarsi → frase scissa.
16. Definire i rapporti di significato tra le diverse parole:
a. Pera - frutto → iponimo
b. Divano - sofà → sinonimi
c. Pillola - pastiglia → sinonimi
d. Capo - dipendente → inversi
e. Porta (uscio) - porta (verbo portare) → omografi e omofoni
f. Cavallo - destriero → sinonimi
g. Peonia - ortensia → co-iponimi di fiore
h. Sterzo - macchina → meronimo
i. Lavatrice - sportello → olonimo
j. Amo (verbo amare) - amo (strumento) → omografi e omofoni
17. Trova un opposto per ciascuna delle parole e specifica il tipo di opposizione:
a. Freddo - caldo → antonimi
b. Basso - alto → antonimi
c. Nero - bianco → antonimi
d. Spento - acceso → complementari
e. Morto - vivo → complementari
f. Chiuso - aperto → antonimi
g. Bagnato - asciutto → antonimi
h. Comprare - vendere → inversione
18. Usa i tratti [ANIMATO] [UMANO] [MASCHIO] [ENUMERABILE] [CONCRETO] [RAZIONALE]
per descrivere il significato delle seguenti parole:
a. Tavolo [-ANIMATO] [+ENUMERABILE] [+CONCRETO]
b. Zia [+ANIMATO] [+UMANO] [-MASCHIO] [+ENUMERABILE] [+CONCRETO] [+RAZIONALE]
c. Odio [-ANIMATO] [-ENUMERABILE] [-CONCRETO]
d. Cagna [+ANIMATO] [-UMANO] [-MASCHIO] [+ENUMERABILE] [+CONCRETO]
e. Tennis [-ANIMATO] [-ENUMERABILE] [+CONCRETO]
f. Garofano [-ANIMATO] [+ENUMERABILE] [+CONCRETO]
g. Neonata [+ANIMATO] [+UMANO] [-MASCHIO] [+ENUMERABILE] [+CONCRETO]
[-RAZIONALE]
h. Folla [?ANIMATO] [?UMANO] [-MASCHIO] [-ENUMERABILE] [+CONCRETO]
[?RAZIONALE]
19. Determina se le seguenti espressioni contengono una metafora o una metonimia:
a. Ho bevuto un calice di Pinot grigio → metonimia
b. Il Quirinale ha diramato un comunicato ufficiale → metafora
c. Il prezzo del gas sta scendendo → metafora
d. Viola è una fortezza → metafora
e. Non ho finito di leggere Berruto → metonimia
f. L’ansia mi ha spinta a rinunciare al viaggio → metafora
g. Mi hai trascinata in un vortice di paranoia → metafora
20. Quali contenuti sono presupposti? E da quali attivatori presupposizionali sono veicolati?
a. I due si sono riconciliati;
b. Smettila di disturbare tua nonna!
c. A Ginevra ho incontrato la sorella di Giulia
d. Il nuovo vicino di casa ha organizzato una festa
e. È una fortuna che ti abbiano risposto
f. Apri la finestra!
g. I figli di Giulio vanno a scuola
h. Tutti sanno che lei non accetterà mai quelle assurde condizioni lavorative

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