Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Introduzione
La linguistica è il ramo delle scienze umane che studia la lingua, più precisamente è lo studio scientifico
delle lingue e del linguaggio.
È una disciplina descrittiva (e non normativa o prescrittiva come, ad esempio, la giurisprudenza che dà
regole) in quanto studia, descrive e rintraccia i fenomeni linguistici; la linguistica non dà regole ma studia
cosa accade in una lingua in tutte le sue regolarità e irregolarità (scopo conoscitivo).
Sebbene la linguistica in quanto disciplina scientifica autonomamente riconosciuta, con una sua identità
all’interno della conoscenza (scibile) umana, e la figura del linguista come studioso (o scienziato), siano di
nascita e sviluppo relativamente recente, hanno in realtà radici molto antiche, a partire dal pensiero filosofico
greco classico dei Sofisti nel V sec. a.C. (circa).
È ancor più giovane la linguistica generale, il cui atto di nascita si fa convenzionalmente coincidere con la
pubblicazione postuma delle lezioni ginevrine di Ferdinand de Saussure, il famoso Cours de linguistique
générale (Corso di linguistica generale, 1916).
1.3.1 Biplanarità
La prima proprietà, costitutiva di tutti i segni e quindi anche di quelli linguistici, è la biplanarità: in un
segno coesistono due piani, non scindibili (il “qualcosa” e il “qualcos’altro”). Più precisamente si parla di
significante e di significato. Il “significante” (espressione) è il piano materialmente percepibile del segno,
ciò che percepiamo con i sensi (piano della materialità espressiva), es.: la parola gatto pronunciata o scritta.
Il “significato” (contenuto) è il piano non materialmente percepibile, è l’informazione veicolata dal piano
percepibile, il concetto o l’idea che percepiamo con la mente (piano del contenuto mentale), es.: il concetto o
l’idea di “gatto”.
[Prima definizione di “significante” e “significato”: Ferdinand de Sussure].
1.3.2 Arbitrarietà
Un’altra proprietà importante è l’arbitrarietà, essa consiste nel fatto che non esiste alcun legame motivato
naturalmente/analogicamente/culturalmente tra il rapporto di significante e significato, sono legati da motivi
di convenzione (come un accordo condiviso da una cultura) e quindi sono arbitrari (es.: il significante gatto
non ha niente a che vedere con l’animale “gatto”).
Se i segni linguistici non fossero arbitrari, le parole delle diverse lingue dovrebbero essere tutte molto simili;
il fatto che non sia così implica appunto che, il rapporto tra la natura di una cosa e il nome che la designa, sia
totalmente per convenzione. Allo stesso modo, parole simili nelle diverse lingue dovrebbero designare cose o
concetti simili, anche questo è falso: basti pensare a bello ital. “bello”, bell ing. “campana” e bellum lat.
guerra.
Approfondendo la questione dell’arbitrarietà sviluppata precedentemente da F. de Sussure, lo studioso L.
Hjelmslev ha distinto quattro tipi o livelli diversi di arbitrarietà.
A questo punto bisogna introdurre il concetto di triangolo semiotico, rappresentazione grafica delle tre
entità che interagiscono nei segni linguistici, introdotto per la prima volta da Odgen e Richards nel 1921.
Ai tre vertici abbiamo le tre entità in gioco: un significante, che attraverso la mediazione di un significato
con cui è associato e che esso veicola, si riferisce a un elemento della realtà esterna, un referente. Es.: la
parola sedia è formata dalle due facce del significato s-e-d-i-a, e dal significato “sedia”, si riferisce
all’oggetto reale sedia, e lo identifica. [La linea di base del triangolo è tratteggiata, perché il rapporto tra il
significante e referente non è diretto, ma è mediato tramite il significato].
Tenendo presente questo schema si può procedere con il definire i quattro tipi di arbitrarietà.
1. Rapporto tra segno e referente
Non c’è legame naturale e concreto di derivazione fra un elemento della realtà esterna e il segno
associato. Es.: sedia oggetto e "sedia".
2. Rapporto tra significante e significato
Il significante (come sequenza di lettere o suoni) non ha nulla a che vedere con il significante (come
concetto) a cui è associato. Es.: la bottiglia esiste nella realtà, come immagine mentale comune o
significato/contenuto bottiglia, a questa associamo un significante specifico.
3. Rapporto tra forma e sostanza del significato (contenuto)
Arbitrario il rapporto tra forma (struttura, organizzazione interna) e sostanza (insieme di fatti
concettualizzabili, significabili, materia) del significato. Ogni lingua dà una data "forma" ad una data
"sostanza" in un modo che le è proprio, distinguendo una o più entità. Es.: ital. bosco/legno/legna
riconosce tre entità, franc. bois "bosco/legno/legna" riconosce una sola entità, ted. wald "bosco" holz
"legno/legna" ne riconosce due.
4. Rapporto tra forma e sostanza del significante (espressione)
Ogni lingua organizza secondo i propri criteri la scelta dei suoni pertinenti, distinguendo in una
maniera magari diversa per ogni lingua, le entità rilevanti della materia fonica. Es.: quantità/durata
delle vocali: cioè stessa sostanza fonica organizzata in maniera diversa a seconda della lingua,
mentre l’italiano ha una sola a senza distinzione di lunghezza per cui casa o caasa (pronunciata con
una a breve o lunga), non sono che due realizzazioni della stessa parola, in tedesco si distinguono
due suoni diversi con carattere distintivo, quindi, stadt è "città" e staat è "stato".
Al principio dell’arbitrarietà dei segni linguistici esistono alcune eccezioni. Vi sono dei segni linguistici che
appaiono parzialmente motivati, è il caso delle onomatopee, che riproducono o richiamano nel loro
significante caratteri fisici di ciò che viene designato. Parole o voci onomatopeiche come per esempio,
tintinnio, sussurrare, rimbombare, din don dan, chicchirichì imitano nella loro sostanza di significante il
suono o il rumore che designano, risultando più o meno di aspetto iconico: sarebbero più icone che simboli o
segni in senso stretto. Va comunque considerato che sono almeno in parte diverse da lingua a lingua,
nonostante il referente resti identico es.: tintinnio unisce ad una parte onomatopeica, tintin, il suffisso
arbitrario -io.
Più strettamente iconici sembrano essere i cosiddetti ideofoni, cioè espressioni imitative o interiezioni
descrittive che designano fenomeni naturali o azioni (frequentemente usate nei fumetti), come per esempio
boom/bum “grande fragore”, zac “taglio netto”, gluglu “trangugiare acqua”, ecc.
Un altro aspetto che tende a ridurre l’importanza dell’arbitrarietà è la presenza di caratteri iconici nel
linguaggio verbale umano come, ad esempio, nella formazione del plurale nelle lingue: è stato notato che
l’aggiunta di materiale linguistico alla forma singolare per formare il plurale sia un fenomeno molto diffuso.
Un’altra prospettiva che tende a vedere nei segni linguistici più motivazione di quanto si creda è quella che
sostiene l’importanza del fonosimbolismo, affermando che certi suoni avrebbero associati a sé certi
significati per loro stessa natura, es.: il suono i per “cose” piccole.
Riflessività
Riprendendo la funzione metalinguistica di Jakobson, si può osservare un importante conseguenza
dell’onnipotenza o plurifunzionalità della lingua: con la lingua si può parlare della lingua stessa, cioè la
lingua si può usare come metalingua, e a tale proprietà viene dato il nome di riflessività.
La riflessività è unica e caratterizzante del linguaggio verbale umano.
1.3.11 Equivocità
L’ultima proprietà del linguaggio verbale umano è l’equivocità della lingua in quanto codice. La lingua è un
codice tipicamente equivoco perché pone corrispondenze plurivoche fra gli elementi di una lista e quelli
della lista a questa associata. Le corrispondenze possono riguardare:
a. Un unico significante a cui si riferiscono più significati (omonimia es.: riso “cereale” e riso “ridere”,
e polisemia es.: banco “panca, sedile, bancone, tavolo da lavoro ecc.”)
b. Un unico significato a cui si riferiscono più significanti (sinonimi es.: “parte anteriore della testa”
faccia, viso, volto ecc.)
2.1.2 Consonanti
Modo di articolazione
A seconda che l’ostacolo frapposto sia completo o invece parziale, si riconoscono due grandi classi di
consonanti: le occlusive (esplosive) e le fricative (frizione, movimento continuo). A un livello maggiore
occorre distinguere dalle fricative le cosiddette approssimanti, in cui l’avvicinamento degli organi articolari
non arriva a formare una frizione. Sono approssimanti le semivocali e le semiconsonanti. Esistono poi suoni
consonantici la cui articolazione inizia come un’occlusiva e termina come una fricativa (due movimenti
insieme), sono chiamate affricate.
Per la produzione del suono intervengono nel modo di articolazione anche altri fattori come il movimento
della lingua o la partecipazione della cavità nasale, quindi non solo il grado di chiusura del canale.
In questo caso si hanno le laterali, cioè quando l’aria passa solo ai due lati della lingua, e vibranti quando si
hanno rapidi contatti intermittenti tra la lingua e un altro organo articolatorio. Laterali e vibranti possono
essere definite liquide. Si hanno invece consonanti nasali quando vi è passaggio dell’aria anche la cavità
nasale.
Le consonanti possono poi essere caratterizzate da un altro parametro che è quello dell’energia articolatoria
con la quale vengono prodotte, che dà luogo a una scala dalle consonanti più forti (occlusive sorde) a quelle
più leni (approssimanti) [occlusive più forti delle fricative e sorde più forti delle sonore; dal modo più
ostacolato a quello meno].
Altro parametro, che può riguardare le occlusive e le affricate davanti a una vocale, è la presenza di
“aspirazione” (dal rilascio dell’occlusione all’inizio della vibrazione, soffio laringale), le consonanti così
prodotte sono definite aspirate.
Luogo (o punto) di articolazione
Le consonanti vengono classificate anche in base al punto dell’apparato fonatorio in cui sono articolate.
Partendo dalla parte terminale del canale, abbiamo anzitutto le consonanti bilabiali, prodotte da o tra le
labbra, abbiamo poi le labio-dentali, prodotte tra l’arcata dentaria superiore e il labbro inferiore; le
consonanti dentali prodotte a livello dei denti (che comprendono le alveolari, prodotte dalla lingua a
contatto con gli alveoli); le consonanti palatali, prodotte dalla lingua con il palato duro (zona tra alveoli e
palato duro sono, postalveolari); le consonanti velari, prodotte dalla lingua contro o vicino al velo, uvulari,
prodotte dalla lingua contro o vicino all’ugola, le faringali, prodotte fra la base della radice della lingua e la
parte posteriore della faringe, e infine le glottidali, prodotte direttamente nella glottide, a livello delle corde
vocali. [In una classificazione più precisa delle consonanti prodotte nella cavità orale, si può prendere in
considerazione anche la parte di lingua che interviene specificamente: “coronali”, “apico-dentali”, “apico-
alveolari”, “dorso-palatali”, “radico-velari” ecc. Esistono ancora altri modi e luoghi di articolazione fra cui
ad esempio le retroflesse, che vengono articolate flettendo all’indietro la punta della lingua contro la parte
anteriore del palato.]
2.1.3 Vocali
Per classificare e identificare i suoni vocalici occorre far riferimento a tre parametri fondamentali:
1. La posizione della lingua
Occorre in primo luogo far riferimento alla posizione della lingua, più precisamente al suo grado di
- avanzamento o arretramento: le vocali possono essere anteriori (avanzata), posteriori (arretrata) e
centrali
- innalzamento o abbassamento: le vocali possono essere alte, medie (con ulteriore distinzione tra
medio-alte e medio-basse) e basse
La posizione in cui vengono articolate le vocali, secondo il duplice asse orizzontale e verticale, può
essere rappresentato in uno schema, detto per la sua forma trapezio vocalico.
2.1.4 Approssimanti
Vi sono suoni con modo di articolazione intermedio tra vocali consonanti fricative, e quindi prodotti con un
accenno di restringimento del canale orale, con la posizione cioè di un ostacolo appena percettibile. Fra le
approssimanti vi sono suoni molto vicini alle vocali, per questo sono definiti semivocali o semiconsonanti
[In una classificazione più precisa semivocali e semiconsonanti andrebbero comunque tenute separate]. Le
semivocali non possono costituire apice di sillaba e formano dittongo (o trittongo) con la vocale a cui sono
sempre contigue. Una classificazione fondamentale delle semivocali si limita a distinguere quelle anteriori da
quelle posteriori.
2.1.6 Consonanti
OCCLUSIVE
- Bilabiali [p] sorda [b] sonora
Pollo [‘pol.lo]
Pappa [‘pap.pa] – [‘pap:a]
Bocca [‘bok:a]
Babbo [‘bab:o]
- Dentali (e alveolari) [t] sorda [d] sonora
Topo [‘tɔ.po]
Dito [‘di.to]
Tavolo [‘ta:.vo.lo]
Denaro [de.’na:.ro]
- Retroflesse [ʈ] sorda [ɖ] sonora
Treno [‘ʈrɛ:.no]
Madre [‘ma:.ɖre]
- Palatali [c] sorda [ɟ] sonora
Chilo [‘ci:.lo]
Ghiro [‘ɟi:.ro]
- Velari [k] sorda [g] sonora
Cane [‘ka:.ne]
Gatto [‘gat:o] – [‘gat.to]
- Uvulari [q] sorda
Arabo: Iraq [ʕi'raːq]
- Glottidali [ʔ] sorda
Ted. Ein Ei “un uovo” [ʔajn ʔaj]
Ital. Segnale di iato, sillabando es. le elettrici [le ʔelet’tri:tʃi]
FRICATIVE
- Bilabiali [ϕ] sorda [β] sonora
Nella pronuncia fiorentina: tipo ['tiϕo]
Spagnolo: cabeza “testa” [ka'βeθa]
- Labiodentali [f] sorda [v] sonora
Filo [‘fi.lo]
Fantasia [fan.ta.’si:.a]
Vino [‘vi:.no]
Vento [‘vɛn.to]
- Dentali [θ] sorda [ð] sonora, [s] sorda [z] sonora (alveolari)
Ingl.: think “pensare” [θiŋk]
ingl.: that “quello” [ðæt]
Sano ['sa:.no]
Sbaglio ['zbaʎ.ʎo]
Casa [‘ka:.sa] - [‘ka:.za] (pronuncia settentrionale)
- Postalveolari [ʃ] sorda [ʒ] sonora
Sci [ʃi]
Scienza [‘ʃɛn.tsa]
Ascia [‘aʃ.ʃa]
Francese: je [ʒe]
Nella pronuncia fiorentina ragione [ra.’ʒo:.ne]
- Velari [x] [γ]
Tedesco: Buch “libro” [bux]
Spagnolo: Agua “acqua” ['aγwa]
- Uvulari [χ] [ʁ]
Arabo: shaykh “sceicco” [ʃæjχ]
Francese: jour [ʒuʁ]
- Faringali [ʕ]
Arabo: _Iraq [ʕi'raːq]
- Glottidali [h]
Ingl.: have/ted. haben “avere” [hæːv]/ ['haːbən]
Nella pronuncia fiorentina di parole come poco ['pɔho]
Spesso tale fricativa è, impropriamente, definita come ‘aspirata’. Le pronunce fiorentine, e di una
vasta area della Toscana, che abbiamo esemplificato qui a proposito delle fricative bilabiale e velare
sorde, ma che riguardano anche le dentali sorde, sono note sotto il nome di ‘gorgia toscana’
AFFRICATE (occlusiva + fricativa)
- Labiodentali [pf] sorda
Ted.: Apfel “mela” ['ʔapfəl]
- Dentali [ts] sorda [dz] sonora
Pazzo [‘pat.tso] - [‘pat:.so]
Zona [‘dzɔ:.na]
- Palatali [tʃ] sorda [dʒ] sonora
Cena [‘tʃe:.na]
Gelato [dʒe.’la:.to]
NASALI (tutte le nasali sono sonore)
- Bilabiale [m]
Mamma [‘mam.ma]
Meno [‘me.no]
- Labiodentale [ɱ] (davanti a fricative f e v)
Invito [iɱ’vi.to]
Inferno [iɱ’fɛr.no] - /in.’fɛr.no/
- Dentale (alveolare) [n]
Naso [‘na:.so]
Dente [‘dɛn.te]
- Palatale [ɲ] (gn)
Gnocchi [‘ɲɔk.ki] - [‘ɲɔc.ci]
Agnello [aɲ’ɲɛl.lo]
- Velare [ŋ] (allofono del fonema /n/, davanti a occlusive k e g)
Ancora [aŋ’ko:.ra] – [‘aŋ .ko.ra]
Angolo [‘aŋ.go:.lo]
Inglese: [sɪn] “peccato” – [sɪŋ] “canto” (in inglese sono due fonemi)
LATERALI (tutte le laterali sono sonore)
- Dentale (alveolare) [l]
Latte [‘lat.te]
Palla [‘pal.la]
- Palatale [ʎ]
Paglia [‘paʎ.ʎa] - roman. [‘pa:.ja]
Gli [ʎi]
VIBRANTI (tutte le vibranti sono sonore)
- Dentale [r]
Rosso [‘ros.so]
La r italiana è plurivibrante; esiste anche una corrispondente monovibrante, notata [ɾ], come in
spagn. toro “toro” ['toɾo], inglese americano matter “materia” ['mæɾə])
- Uvulare [ʀ] (“erre moscia”)
Franc.: rose “rosa” [ʀoz]
APPROSSIMANTI*
- Palatali [j]
Piano [‘pja:.no]
Piede [‘pjɛ:.de]
- Velari [w]
Uomo [‘wɔ:.mo]
Uovo [‘wɔ:.vo]
2.3.1 Accento
L’accento è la particolare forza o intensità di pronuncia di una sillaba (tonica) relativamente ad altre sillabe
(atone). In italiano l’accento è dipendente dalla forza con cui sono pronunciate le sillabe, grazie a un
aumento di volume della voce, contemporaneo a una durata maggiore.
Oltre all’accento come tratto prosodico, esiste in italiano anche l’accento grafico, un segno diacritico
impiegato per diversi scopi come per indicare nella grafia la posizione dell’accento fonico nelle parole
ossitone (città, caffè…).
La posizione dell’accento, ovvero la posizione della sillaba su cui cade l’accento, può essere libera o fissa.
In alcune lingue è tendenzialmente fissa (es.: francese o turco), in altre libera.
In italiano l’accento è tipicamente libero; in base alla posizione dell’accento una parola può essere:
- tronca (o ossitona): cade sull’ultima [kwali’ta]
- piana (o parossitona): cade sulla penultima [pja’ʃte:re]
- sdrucciola (o proparossitona): cade sulla terzultima sillaba [‘ta.vo.lo]
- bisdrucciola: cade sulla quartultima sillaba [‘ka:pi.ta.no]
- trisdrucciola (solo per parole composte con pronomi clitici): quintultima sillaba [‘fab.bri.ka.me.lo]
[si chiamano clitici quegli elementi che nella catena fonica non possono non hanno accento proprio e
devono “appoggiarsi” ad un’altra parola]
In italiano, come in inglese, l’accento interviene a differenziare parole diverse a seconda della sua posizione:
es.: [‘ka:pitano] verbo capitare e [kapi’ta:no] nome, ing. [‘impɔ:t] nome importazione e [im’po:t] verbo
importare.
L'accento è anche un elemento centrale nella strutturazione prosodiaca dell'enunciato. La successione nella
catena parlata di sillabe toniche e atone dal luogo al ritmo. Ogni lingua ha un proprio ritmo particolare.
Dal punto di vista fonologico, viene riconosciuta come unità ritmica di base il cosiddetto piede, che è
l'associazione di una sillaba forte e una sillaba debole.
2.3.3 Lunghezza
La lunghezza riguarda l’estensione temporale con cui sono prodotti i foni e le sillabe; può avere valore
distintivo sia per le consonanti che per le vocali.
In italiano, la quantità, o durata o lunghezza, delle consonanti ha valore distintivo solo se supponiamo che le
consonanti che possono essere sia semplici che doppie realizzino un’opposizione di durata (per le vocali non
è comunque pertinente).
CAP. 3 Morfologia
3.1 Parole e morfemi
L’ambito di azione della morfologia (dal greco morphé “forma” + logía “studio”) è la struttura della parola.
La parola è la minima combinazione di elementi dotati di significato (i morfemi) costruita spesso (ma non
sempre) attorno ad una base lessicale. Fra i criteri che ne permettono una definizione e individuazione più
precisa, vi sono:
a) Rigidità dell’ordine dei morfemi costituenti (gatt-o non può essere *o-gatt)
b) I confini di parola sono punti di pausa potenziale nel discorso
c) Separabilità nella scrittura
d) Unitarietà fonetica, un solo accento primario
Provando a scomporre parole, appartenenti alla prima articolazione, avremo i morfemi. Un morfema (o
monema in linguistica europea) è l’unità minima di prima articolazione, il più piccolo pezzo significante di
una lingua portatore di significato proprio (es. dentale = dent-, -al-, -e). Si può anche dire che un morfema è
la minima associazione di un significante e un significato.
Es.: inagibile [in[[[agire]+ibil]+e]] – parentesizzazione (scomposizione in morfemi)
Come per la fonologia, in morfologia c’è la distinzione tra morfema, morfo e allomorfo.
Il morfema è l’unità pertinente a livello di sistema. Il morfo è un morfema inteso come forma, dal punto di
vista del significante, prima e indipendente dalla sua analisi funzionale e strutturale (es.: in gatt-o, il morfo -o
è portatore di due morfemi “maschile” e “singolare”).
L’allomorfo è la variante formale di un morfema, cioè è ciascuna delle forme diverse in cui può presentarsi
un morfema, stesso significato e stessa posizione (es.: il morfema ven- di venire presenta quattro allomorfi
venn-, veng-, vien-, ver-).
Le cause di allomorfia risiedono nella diacronia, per i mutamenti fonetici e la trasmissione delle parole nel
tempo. Per parlare di allomorfia occorre una certa somiglianza fonetica tra i diversi morfi che realizzano lo
stesso morfema. In- di inutile e il- di illecito non sono altro che allomorfi dello stesso morfema, il prefisso di
negazione in-: davanti a una vocale la [n] rimane invariata, davanti a consonanti laterali, vibranti e nasali
viene assimilata.
Esistono rari casi in cui un morfema lessicale in certe parole derivate viene sostituito da un morfema con
forma completamente diversa ma con stesso significato, per es. nel nome acqua e nell’aggettivo idrico,
acqua proviene dal latino e idrico si rifà a un’antica forma greca. Questo fenomeno è chiamato
suppletivismo.
Per esempio, socializzabilità, formato da cinque morfemi, può essere analizzato come segue:
Nella maggioranza delle forme verbali e deverbali si pone in italiano il problema della vocale tematica
(dormire), poiché si ritiene che abbia un suo “significato” potremmo scomporre ulteriormente -abil- in {a} e
{bil}, considerandolo così un allomorfo del suffisso oppure analizzandolo come un insieme di due morfemi.
Si ritengono entrambe le soluzioni accettabili (mangi-are/mangi-a-re). Terza opzione: quella di considerare
la vocale tematica con la radice (cambia-ment-o).
Un’altra parola da analizzare del gruppo precedente è sociologia, che sembra essere formata a prima vista da
due morfemi lessicali: soci- e log-(i-a); in realtà il morfema da considerare è socio- che è quindi una radice
lessicale ma si comporta come un prefisso attaccandosi ad un’altra radice lessicale. I morfemi di questa
natura si chiamano prefissoidi (socio-logia, crono-metro, metro-nomo, cardio-logia).
Esistono anche i suffissoidi, cioè morfemi lessicali, come le radici, che si comportano come suffissi (socio-
logia, crono-metro).
In nazionalsocialismo abbiamo un caso che sembrerebbe essere analogo a sociologia, in cui però le due
radici lessicali che coesistono mantengono entrambe il valore che avrebbero separate (socialismo nazionale),
si tratta di parole composte (capostazione, N+N, portacenere, V+N). Il procedimento di composizione è
particolarmente produttivo in tedesco: Straßenbahnhaltestelle “fermata del tram”, letteral111mente: “posto”
(Stelle) di fermata (Halt-e) della ferrovia (Bahn) della strada (Straße-n)”.
Nelle parole composte esiste il concetto di testa, il costituente che funziona da testa, assegna le proprie
caratteristiche.
- Composti endocentrici: hanno la testa al loro interno.
Come distinguiamo un composto endocentrico o esocentrico?
Domanda: “E’ un X?” – capostazione “è un capo?”
Es. pescespada – “è un pesce?” Sì
- Composti esocentrici: Non hanno la testa al loro interno - “E’ un X?” – es. butta/fuori pelle/rossa
Non vanno confuse con le parole composte in senso stretto le unità lessicali plurilessematiche
(polirematiche), costituite da sintagmi fissi che rappresentano un’unità unica di significato (gatto selvatico,
essere al verde). Possono comprendere i verbi sintagmatici/phrasal verbs (buttare giù, portare fuori), i
“binomi coordinati” (sali e tabacchi, anima e corpo, usa e getta), ed espressioni trinomiali (aglio, olio e
peperoncino; mafia, pizza e mandolino).
Una posizione intermedia fra le parole composte e le unità lessicali plurilessematiche è quella delle unità
lessicali bimembri, in cui il rapporto tra due parole non ha raggiunto la fusione delle parole composte e sono
rappresentate separatamente nello scritto (scuola guida, parola chiave).
Altri meccanismi più marginali che formano parole sono le sigle o acronimi. Sono formate dalle lettere
iniziali delle parole piene che costituiscono unità lessicali plurilessematiche, la cui pronuncia è promossa a
parola autonoma (CGIL cigielle “Confederazione Generale Italiana del Lavoro”, TG tigì “TeleGiornale”).
L’unione con accorciamento dà luogo a quelle che sono state chiamate parole macedonia (ingl. blending):
cantautore (< cantante + autore), ristobar (< ristorante + bar).
In italiano, il più importante e produttivo dei procedimenti di formazione di parola è comunque la
suffissazione. Fra i suffissi derivazionali più comuni ricordiamo:
• -zion- (con i suoi allomorfi -azion-, -izion-, -uzion-, ecc.) e -ment- (con allomorfi -iment-, -ument-,
ecc.), che formano nomi di azione o processo o risultato a partire da basi verbali, come in spedizione,
spegnimento, ecc.;
• -ier-, -a(r)i- e -tor- (e suoi allomorfi) che formano nomi di agente o di mestiere a partire da basi
nominali o verbali, come in barbiere, fornaio, giocatore, ecc.;
• -ità (e suoi allomorfi), che forma nomi astratti a partire da basi aggettivali, come in abilità;
• -abil- (e allomorfi), -os-, -al-, -an-, -evol-, -es-, -ic-, -ist-, che formano aggettivi (l’ultimo, anche
nomi) a partire da verbi o da nomi;
• -izz-, che forma verbi a partire da nomi o aggettivi;
• -mente (e allomorfi) che forma avverbi a partire da aggettivi; eccetera.
Si noti che spesso i suffissi derivazionali vengono designati, per semplicità, comprendendo in essi anche la
desinenza, obbligatoria in italiano, e tralasciando la vocale tematica: per cui si dice sovente, meno
tecnicamente, i suffissi -zione, -mento, -tore, eccetera.
È molto produttiva anche la prefissazione. A differenza dei suffissi i prefissi non mutano la classe
grammaticale delle parole. Fra i prefissi più comuni ricordiamo:
• in- (con vari allomorfi, causati dall’adattamento fonetico – ‘assimilazione’ (cfr. § 7.1.2) – della
consonante nasale di in con la consonante iniziale della parola a cui viene unito il prefisso: per
esempio, in + legale = illegale, con l’allomorfo il-),
• s- (come in sleale)
• dis-, con valore di negazione (o, l’ultimo, di “allontanamento”),
• ad- (ed allomorfi), con valore di “verso”, con- (e allomorfi), con valore di “insieme”,
• a- (come in amorale), con valore di “senza”,
• ri- (con l’allomorfo re-), con valore di “di nuovo”,
• anti- con valore di “anteriorità” o di “contro” (come in anticamera e antigelo rispettivamente: si tratta
naturalmente di due morfemi diversi, uno proveniente dal latino, l’altro dal greco; è un esempio di
omonimia tra morfemi).
Nella grande categoria della derivazione suffissale può essere fatto rientrare un altro procedimento
produttivo in italiano: l’alterazione. Con i suffissi alterativi si creano parole che aggiungono al significato
della base lessicale un valore generalmente valutativo, che può essere diminutivo, accrescitivo o
dispregiativo (gattino, librone, robaccia).
Nell’inventario dei morfemi derivazionali dell’italiano esistono casi di omonimia di prefissi e suffissi:
• 1in- con valore privativo e negativo = inutile, incerto, ingiusto, illegale, irrecuperabile, impossibile
ecc.
2
in- per indicare cambiamento di stato, un divenire = in-arid-ire, in-grand-ire, in- coron-are ecc.*
*Verbi parasintetici = si formano con l’aggiunta contemporanea di un prefisso e di un suffisso
• -1ino “nome di professione” = postino, imbianchino, arrotino
-2ino “diminutivo” = gattino, piattino, tavolino
Le parole derivate si possono definire in maniera da tener conto:
a) Del procedimento di derivazione
b) Della classe lessicale della base da cui derivano
c) Della classe lessicale a cui appartiene il risultato
Derivati – criteri di definizione dei derivati
Nomi deverbali: Cambiare > cambiamento, lavorare > lavorazione, spostare > spostamento
Verbi denominali: amore > amoreggiare, guerra > guerreggiare
Verbi deaggettivali: folle > folleggiare, largo > largheggiare
Nei meccanismi di formazione delle parole rientra anche il fenomeno della conversione, vale a dire coppie
di parole aventi la stessa radice lessicale ed entrambe prive di suffisso fra le quali, in termini derivazionali,
non è possibile stabilire quale sia la parola primitiva e quale la derivata (lavoro-lavorare, gioco-giocare).
Quando la coppia è costituita da un verbo e da un nome, è da assumere spesso che la base sia il verbo, di qui
la definizione di derivazione zero: giocare ˃ gioco, allacciare ˃ allaccio. Quando invece la coppia è formata
da un verbo e un aggettivo, si può intendere che il termine primitivo sia l’aggettivo.
CAP. 4 Sintassi
4.1 Analisi in costituenti
A differenza degli altri termini risalenti all’Ottocento (fonetica, fonologia, morfologia, semantica e
linguistica), il termine sintassi ha origini antiche risalenti all’epoca alessandrina (II, III sec. a.C.). La sintassi
(dal greco sýntaxis, da syn “insieme” e tássein “ordinare, disporre”) è il livello di analisi che si occupa della
struttura delle frasi, l’oggetto di studio è come si combinano tra loro le parole e come si organizzano in frasi.
La frase è il costrutto che fa da unità di misura per la sintassi, è l’entità linguistica che funziona come unità
comunicativa, cioè che costituisce un messaggio o blocco comunicativo autosufficiente nella
comunicazione. È identificata dal contenere una predicazione, cioè un’affermazione/l’attribuzione di una
qualità o un modo d’essere d’agire ecc. Bisogna distinguere la frase (= unità grammaticale, libera da legami
con lo spazio, il tempo, le persone) e l’enunciato (= legato a un certo parlante in un dato tempo e in un dato
luogo). Siccome normalmente il valore di predicare qualcosa è affidato ai verbi, in genere un verbo
autonomo coincide con una frase; esistono però frasi senza verbo, sono le cosiddette frasi nominali (buona,
questa torta). Quando una frase è semplice, costituita da un’unica predicazione, prende più precisamene il
nome di proposizione, unità sintattica con cui indichiamo ogni frase elementare e minima, costituita da
almeno un soggetto e da un predicato (nel caso dei verbi meteorologici anche dal solo predicato verbale).
L’unione di due o più proposizioni costituisce una “frase complessa” o “periodo”.
L’analisi della struttura delle frasi
Un primo passo per analizzare la struttura delle frasi consiste nel rendersi conto del modo i cui si
organizzano le parole che insieme costituiscono una frase. Il principio generale è la scomposizione o
segmentazione (come per fonologia e morfologia). Si scompone la frase in costituenti, negli elementi più
piccoli della frase stessa. Tale analisi, introdotta dallo strutturalismo americano degli anni Trenta e Quaranta
(l. Bloomfield), va sotto il nome di analisi in costituenti immediati: essa individua diversi sottolivelli di
analisi in rapporti gerarchici (delle frasi, dei sintagmi, delle singole entrate lessicali). [La parola è il termine
ultimo minimo di pertinenza della sintassi, a cui l’analisi in costituenti di solito si arresta]
Il metodo di rappresentazione grafica più diffuso è quello degli alberi etichettati, un albero è un grafo
costituito da nodi (sottolivello) da cui si dipartono rami. Un albero etichettato è l’indicatore sintagmatico
della frase.
Gianni legge un libro
F: frase, SN: sintagma nominale, SV: sintagma verbale, N: nome, V: verbo, Art: articolo
F domina SN e SV, SN domina ART e N (eventualmente Agg)
Mio cugino ha comprato una macchina nuova
Poss: possessivo, Det: determinante, Aus: ausiliare, PP: participio passato
“Determinante” è una categoria che può comprendere articoli e aggettivi dimostrativi, e anche altri elementi,
riconosciuti come appartenenti a una stessa classe sulla base della loro distribuzione, vale a dire del fatto
che compaiono sempre e solo nel medesimo contesto, davanti a un nome. La distribuzione quindi, l’insieme
dei contesti in cui gli elementi possono apparire nella frase, è un criterio importante per distinguere diverse
classi di elementi.
Per rappresentare la struttura interna di costruzioni non molto complesse è sufficiente la parentesizzazione
es.: una macchina nuova = ((una) (macchina nuova)); (((una)) ((macchina) (nuova)))
[ramificazione a tre solo per congiunzioni coordinanti e subordinanti es.: le ragazze | e | le signore]
4.2 Sintagmi
Il sottolivello di analisi sintattica più importante è quello dei sintagmi (o gruppi). Un sintagma è definibile
come la minima combinazione di parole che funzioni come un’unità della struttura frasale. Ogni sintagma è
costruito attorno a una testa, sulla cui base vengono classificati e da cui prendono il nome. Testa è la classe
di parole che rappresenta il minimo elemento che da solo possa costruire sintagma, funzionare da sintagma
(es.: SN ha come testa N, o un PRO).
Criteri di riconoscimento dei sintagmi (quattro)
1. Mobilita
Un gruppo di parole rappresenta un sintagma se le parole che lo costituiscono si muovono
congiuntamente in una frase.
Ogni mattina | Luigi | porta a spasso | il cane
*Ogni Luigi porta a spasso mattina il cane (agrammaticale)
Luigi porta a spasso il cane ogni mattina
2. Scissione
Un gruppo di parole rappresenta un sintagma se può essere separato dal resto della proposizione
costruendo una struttura chiamata “frase scissa”.
È …. che
È Luigi che porta a spasso il cane ogni mattina
È mio cugino che porta a spasso il cane ogni mattina
*È mio che cugino porta a spasso il cane ogni mattina
È il cane che Luigi porta a spasso ogni mattina
3. Enunciabilità in isolamento
Un gruppo di parole rappresenta un sintagma se da solo può costituire un enunciato, cioè se può
essere pronunciato in isolamento.
A: chi porta a spasso il cane ogni mattina?
B: Luigi / mio cugino (*mio)
4. Coordinabilità
Quest’ultimo criterio permette di capire quando due o più gruppi di parole rappresentino sintagmi di
uno steso tipo. Sintagmi diversi sono dello stesso tipo se possono essere coordinati.
Pietro e un suo caro amico sono partiti per le vacanze
Rapporti e gerarchia. Un requisito fondamentale per la corretta rappresentazione della struttura delle frasi
con un indicatore sintagmatico è che, rispettando la successione lineare dei costituenti (dei sintagmi), sia dato
conto degli effettivi rapporti sintattici esistenti fra essi: ogni costituente deve comparirvi al rango gerarchico
in cui interviene a contribuire al valore generale della frase. Richiedono particolare attenzione i sintagmi
preposizionali: un Sprep che segua SN non deve necessariamente essere legato al nodo SN.
Es.: (a) Gianni ha letto un libro con gran piacere (specifica il modo in cui è avvenuta l’azione, determina il
sintagma verbale), (b) Gianni ha letto un libro con la copertina blu (modifica il nome come un aggettivo, si
lega al sintagma nominale), (c) Gianni ha letto un libro per tutta la notte (si riferisce all’intero evento,
determina o modifica l’intera frase nucleare, direttamente attaccato al nodo F).
Quando siamo in presenza di circostanziali come nel caso degli avverbi che modificano l’intera frase, basta
spostare il circostanziale a sinistra e ripetere F come F1 (o mettere prima F1 e poi F).
Probabilmente lui è partito per Parigi
Con i SPrep esistono ambiguità di interpretazione, come nel sintagma nominale il libro delle favole di Fedro,
in cui si può intendere Fedro come autore delle favole (1), o come possessore del libro (2).
(1) (2)
4.5.2 Testi
Al di sopra dell’unità “frase” bisogna riconoscere un altro livello di analisi della sintassi, che può essere
chiamato il livello dei “testi”. Il testo (lat. textum da textere “tessere”) è dal punto di vista linguistico,
definibile come una combinazione di frasi più il contesto in cui questa combinazione funziona da unità
comunicativa. È un insieme di frasi coerente (stesso argomento) e coeso (meccanismi morfosintattici che
assicurino la tenuta testuale).
È importante considerare anche tutto ciò che c’è intorno, è per questo che si parla di contesto e co-testo: per
“contesto” si deve intendere sia il contesto linguistico tecnicamente chiamato co-testo, vale a dire la parte
di comunicazione verbale che precede e che eventualmente segue il testo in oggetto, sia il contesto
extralinguistico, la situazione comunicativa in cui la combinazione di frasi è prodotta.
All’interno del testo si trovano delle relazioni tra i vari elementi delle frasi:
- anafore/catafore: elementi per la cui interpretazione è necessario far riferimento al contesto
linguistico, rispettivamente, precedente o seguente ̶ Ho incontrato Lucia e le ho dato le chiavi / Lo
diro a tua madre quello che hai fatto
- deissi (dal gr. deîxis, da deîknymi «indicare»): elementi per la cui interpretazione è necessario far
riferimento al contesto extralinguistico
tre tipi principali di deissi:
o personale: io, tu, egli, noi, essi
o spaziale: questo, quello; qui, lì, là, a destra, a sinistra
o temporale: oggi, ieri, domani, un anno fa, fra un mese …
o sociale: tu; lei, voi
- ellissi: omissione di elementi che sarebbero indispensabili per dare luogo a una struttura frasale
completa, e che per l’interpretazione della frase sono recuperabili dal contesto linguistico ̶ A: Dove
vai? B: A casa.
- segnali discorsivi: elementi estranei alla strutturazione sintattica della frase che esplicitano
l’articolazione interna del discorso (mantenere vivo il topic) ̶ allora, senti, come dire, cioè, no? (un
po’ come la funzione fatica)
Tipologia sintattica (vai a CAP. 6.2.2)
Lingue SOV (turco, giapponese, ungherese, persiano, ecc.)
Lingue SVO (lingue romanze, lingue slave, greco, finlandese ecc.)
Lingue VSO (lingue semitiche: arabo, ebraico classico, ecc.)
Lingue VOS
Lingue OVS
Lingue OSV (…)
5.2 Il lessico
Anche la semantica ha stabilito un’unità d’analisi minima fondamentale ed è il lessema. Corrisponde a una
parola considerata dal punto di vista del significato.
L’insieme dei lessemi di una lingua costituisce il lessico, che è indeterminato, non ha un termine ultimo.
Lo studio dei vari aspetti del lessico è compito della lessicologia, mentre la lessicografia è lo studio dei
metodi e della tecnica di composizione dei vocabolari e dizionari.
Il lessico è il livello di analisi più ampio della linguistica, quello più superficiale in continua evoluzione e
allo stesso tempo essenziale [differenza tra parola e termine: parole sono lessemi di uso comune, termini dal
latino terminus parole con uso ben preciso in uno specifico settore].
I comuni dizionari contengono fra i 90.000 e i 130.000 lessemi (→lemmi). Grandi repertori lessicografici: S.
Battaglia (online) è un dizionario storico; il GRADIT Grande dizionario italiano dell’uso (T. De Mauro,
1999) il più ampio è completo repertorio, conta 270.000 lessemi (→ lemmi); altro dizionario importante è il
VOLIT (Treccani).
Esiste una distinzione tra lessico produttivo e lessico recettivo:
- produttivo: sono le parole che noi effettivamente usiamo
- ricettivo: sono le parole che noi conosciamo ma non necessariamente usiamo
Si stima che il lessico posseduto da un parlante colto si aggiri mediamente attorno alle 40-50.000 unità.
Naturalmente non tutte queste unità lessicali vengono utilizzate.
Tullio de Mauro ha delineato un “vocabolario di base” cioè un nucleo centrale di lessemi che occorre con
altissima frequenza.
Per l’italiano, esso risulta costituito da meno di 7000 unità: comprende lessemi di altissima frequenza
nell’uso (circa 2000, che costituiscono il cosiddetto ‘vocabolario fondamentale’ (FO)) e altri lessemi di
frequenza relativamente alta o di alta disponibilità pratica.
FO: 2000 parole
Alto uso: +3000 parole
Vocabolario di altra disponibilità: + 2000 parole
Vocabolario comune: 50000/60000 parole
Termini specifici: riferiti a campi specifici come per esempio la medicina, l’ingegneria informatica ecc.
Uso letterario: come speme
Parole obsolete: non molto usate
Hapax legomenon: parole dette una sola volta
In maiuscolo fra barre sono indicate le proprietà di significato necessarie e sufficienti per dar conto del
significato di ciascuno dei quattro lessemi considerati.
Esse costituiscono appunto i pezzi di significato minimi, le proprietà semantiche elementari che
combinandosi in simultaneità danno luogo al significato dei lessemi. Il loro nome tecnico è ‘componenti
semantici’ (o ‘tratti semantici’, o ‘semi’, sing. ‘sema’; da cui anche il nome di ‘analisi semica’ dato al
procedimento). Ogni lessema, secondo questo metodo, è analizzabile in (e rappresentabile come) un fascio di
componenti semantici realizzati in simultaneità: uomo = /+ UMANO + ADULTO + MASCHIO/, bambina =
/+ UMANO – ADULTO – MASCHIO/, eccetera. È convenzione scrivere in maiuscoletto i tratti o
componenti semantici e tra “ ” i significati.
Con un numero relativamente non elevato di tratti si riesce ad analizzare il significato di un numero molto
elevato di lessemi.
I tratti semantici di solito sono binari, cioè ammettono i due valori + e – (= Sì e No); ma si possono
utilizzare anche tratti non binari, a più valori.
L’analisi componenziale non è priva di problematiche: sebbene funzioni su insiemi lessicali delimitati e
indicanti cose e azioni concrete, analizzare in tratti termini astratti diventa complicato.
Prendendo come esempio una tabella relativa a come si dicono i numeri 2 e 3 in una serie di lingue casuali, si
nota come possano essere raggruppate in base alla somiglianza del significante: a, b, d, e, h, j, k, l, m sono
lingue indoeuropee, c e f sono parte della famiglia uralica, e g e i che sono rispettivamente il swahili della
famiglia niger-cordofaniana e il basco lingua geologicamente isolata. Nel primo gruppo inoltre sembrano
esserci lingue più strettamente imparentate tra loro, difatti esistono dei sottolivelli della famiglia.
Il livello della famiglia rappresenta il livello più alto di parentela ricostruibile con i mezzi della linguistica
storico-comparativa. Gerarchicamente lo schema è quello di un albero: la famiglia è il tronco, ci sono i
rami, poi gruppi e sottogruppi.
Per esempio, l’italiano: ha parentela con tutte le lingue provenienti dalla comune base del latino, e con queste
costituisce il ramo delle lingue romanze (neolatine) che comprende: italiano, francese, spagnolo,
portoghese, romeno e altre lingue minori come gallego, catalano ecc. Il ramo romanzo, assieme ad altri rami
con cui le lingue romanze hanno parentela, come le lingue germaniche, le lingue slave, le lingue baltiche
ecc., forma la famiglia delle lingue indoeuropee.
Più precisamente l’italiano si può quindi classificare come: lingua del sottogruppo italo-romanzo, del gruppo
occidentale, del ramo neolatino (romanzo) della famiglia indoeuropea.
[1816 data di nascita della linguistica, Franz Bopp, in Germania (linguistica storica) scrive sulle
problematiche di classificazione delle lingue]
Gli studiosi dell’Ottocento cambiano rotta di studi e inaugurano un nuovo metodo della linguistica che si
basa su dati concreti, quello comparativo, per individuare somiglianze e differenze nel lessico nell’aspetto
fonico delle lingue (significati e significanti), nel caso dell’indoeuropeo infatti si parla di lingua ricostruita e
non attestata.
La linguistica comparativa riconosce fino a 18 famiglie linguistiche (vedi lista sotto). A queste famiglie
andrebbero aggiunte alcune decine di lingue pidgin e creole, nate dall’incontro e mescolanza di lingue tra
loro molto diverse (varietà miste di contatto). L’etimologia di pidgin si suppone sia o la parola buisness
“commercio/affari” pronunciata male, o che derivi da pidgeon “piccione” per linvio dei messaggi. I pidgin
quindi sono varietà linguistica di funzionalità ridotta con una grammatica e un inventario lessicale molto
semplificati, e la maggior parte dei pidgin è di origine europea (sono il portato della storia della
coloizzazione).
Un pidgin si sviluppa poi in creulo quando diventa lingua materna di una comunità (a partire dalla seconda
generazione), la lingua si consolida lungo le generazioni.
Fra i pidgin più noti: pisin, WAPE, ecc. Fra i creoli più noti: gamaicano, creolo haitiano, ecc.
Non esiste il monolinguismo, ogni lingua ha influenze di altre lingue.
Lingue indoeuropee
circa 140 lingue
Lingue uraliche
● 24 lingue
● lingue ugrofinniche: ungherese o magiaro, finlandese o finnico (suomi), lappone (saami), estone, ecc.; votiaco, lingue
samoiede, ecc.
Lingue altaiche
● 63 lingue
● lingue turchiche: turco, azero, tataro, casaco (kazako), uzbeco; mongolo, evenki (o tunguso);
calmucco; giapponese (nihongo), coreano, ecc. (l’appartenenza di queste ultime due lingue alla famiglia altaica è tuttavia
controversa)
Lingue caucasiche
● 38 lingue
● georgiano, àvaro, abcaso, ceceno, ecc.
Lingue dravidiche
● 28 lingue
● tamil, kannada, malayalam, telugu, ecc.
Lingue sinotibetane
● circa 300 lingue
● cinese (meglio, il gruppo di lingue cinesi: pŭtōnghuà o mandarino, cantonese, wú, xiang, ecc.), tibetano, birmano, karen, ecc.
Lingue paleosiberiane
● una quindicina di lingue
● ciukcio, camciadalo (secondo alcuni queste due lingue costituiscono un ramo autonomo che andrebbe considerato famiglia a
sé), coriaco, ecc.
Lingue austroasiatiche
● circa 150 lingue
● vietnamita, khmer (cambogiano), ecc.
Lingue kam-thai
● circa 60 lingue
● thai o thailandese (o siamese), laotiano (o lao), kam, li, ecc. (da alcuni queste lingue vengono considerate far parte con le lingue
austroasiatiche di una stessa famiglia, detta austrica)
Lingue austronesiane
● circa un migliaio di lingue
● malese-indonesiano, tagalog (o, nella forma standardizzata, pilipino), giavanese, malgascio, ilocano, sundanese, samoano,
tongano, figiano, maori, motu, hawaiano, tahitiano, ecc.
Lingue australiane
● circa 200 lingue, molte delle quali in via di estinzione
● dyirbal, warlpiri, nunggubuyu, tiwi, ecc. (le lingue australiane, parlate oggi per lo più da poche centinaia, o addirittura decine,
di parlanti ciascuna, rappresentano una delle aree linguistiche più complesse e intricate del mondo)
Lingue indo-pacifiche (anche lingue papua, o papuane)
● circa 730 lingue, per un totale di meno di 3 milioni di parlanti (lo statuto di questa famiglia linguistica è comunque controverso)
● lingue della Nuova Guinea e di isole vicine: tasmaniano (estinta), enga, iatmul, asmat, ecc. (anche quest’area linguistica è
eccezionalmente frammentata e complessa)
Lingue afro-asiatiche
● circa 240 lingue
● lingue semitiche: arabo, ebraico, maltese, tigrino, amarico, ecc.; lingue cuscitiche: somalo, galla, oromo, ecc.; lingue
ciadiche: hausa, ecc.; lingue berbere: kabilo, tuareg, tamazight, ecc.
Lingue nilo(tico)-sahariane
● circa 140 lingue
● nubiano, dinka, kanuri, luo, ecc.
Lingue niger-cordofaniane
● circa 1060 lingue (è la famiglia più numerosa, con aree in cui la distribuzione delle diverse lingue è molto intricata e
sovrapposta, e complessa da studiare)
● lingue bantu: swahili (più propriamente, kiswahili), zulu, lingala, kikongo, shona, ruanda, ecc.; yorúba, ewe, igbo, fulani,
fulfulde, bambara, ecc.
Lingue khoisan (ottentotto-boscimane)
● circa 30 lingue
● nama, sandawe, ecc.
Lingue amerindiane
● circa 610 lingue
● lingue nordamericane: eschimesi (inuit, groenlandese), aleutino (queste lingue, con alcune altre, vengono a volte considerate un
ramo indipendente, chiamato eschimo-aleutino, imparentato alla lontana con le lingue paleosiberiane); navaho, apache (assieme a
una trentina di altre lingue, queste due vengono da alcuni considerate costituire una famiglia a sé, detta na-dene); lingue
algonchine: cree, cheyenne, ojibwa; cherokee, dakota, ecc.
● lingue centroamericane: hopi, nahuatl (o azteco), yucateco (o maya), zapoteco, otomi, mohave, ecc.
● lingue sudamericane: lingue caribiche, cuna, quechua, aymarà, tupi, guaranì, arawak, ecc.
Anche le lingue amerindiane mostrano una situazione complessa e intricata, per la quale sono stati proposti raggruppamenti
diversi
Lingue isolate:
● basco, burushaski, ket, chiliaco, nahali, ainu (?)
Delle migliaia di lingue esistenti, soltanto alcune decine possono essere considerate grandi lingue, con un
numero sostanzioso di parlanti e appoggiate a una tradizione culturale di ampio prestigio.
I parlanti nativi sono coloro che apprendono la lingua nelle prime forme di socializzazione, parliamo anche
di lingua materna [Lingua materna: primissima socializzazione, nel nostro caso l’italiano
Lingua madre: la lingua da cui derivano altre lingue, prospettiva genealogica, l’indoeuropeo nel caso
dell’italiano è la lingua madre della famiglia indoeuropea].
È solo uno dei criteri con cui definiamo una lingua “grande lingua” (valutiamo l’importanza di una lingua),
gli altri sono:
• numero di paesi in cui questa è lingua ufficiale o è comunque parlata;
• uso della lingua nei rapporti internazionali, nella scienza, nella tecnica ecc.;
• importanza politica e peso economico dei paesi in cui la lingua è parlata;
• tradizione letteraria e culturale della lingua;
• insegnamento della lingua nella scuola come lingua straniera;
• numero di parlanti non nativi.
Lingue del mondo in base al numero dei parlanti nativi
1. cinese mandarino 902 (+21%)
2. hindi-urdu (India, Pakistan) 457 (+32%)
3. inglese 384 (+24%)
4. spagnolo 366 (+32%)
5. arabo 254 (+36%)
6. bengali 198 (+28%)
7. portoghese 171 (+27%)
8. russo 160 (+1,2%)
9. indonesiano-malese 157 (+33%)
10. giapponese 132 (+6,8%)
22. italiano 70 (+5,7%)
La maggior parte delle lingue del mondo 85% sono parlate da meno di 100.000 parlanti ciascuna.
• Lingue agglutinanti: le parole (hanno una struttura complessa) sono formate da catene anche lunghe
di morfemi; ogni morfema ha di solito un solo valore, una sola funzione (es. turco) – indice di sintesi
3:1
Es. turco:
ev – ler – im -e
“casa” PL POSS DAT = alle mie case
1a SG
adam -lar = uomini (adamlar)
“uomo” PL
• Lingue flessive o fusive: le parole sono costituite da una base lessicale semplice o derivata e da uno
o più affissi flessionali; questi sono spesso morfemi cumulativi (es. italiano) [Parole più lunghe,
molti casi di allomorfia e morfema negazione]– indice di sintesi 2:1 e 3:1
Es. italiano
Gatt- -o (maschile + singolare) - 2 : 1
Gatt- -il- -e (maschile + singolare) – 3 : 1
Casi in cui l’italiano presenta caratteristiche di altri tipi morfologici:
auto civetta (esempio di lingua isolante)
scuola pilota (esempio di lingua isolante)
capotreno (esempio di lingua polisintetica o agglutinante)
capostazione
portacenere
Lingue introflessive (sottotipo delle flessive): i fenomeni di flessione avvengono anche all’interno
della radice lessicale (es. arabo)
Es. arabo
K _ t _ b “scrivere/scrittura”
k i t a b “libro”
k u t u b “libri”
k a t a b u “scrissi”
• Lingue polisintetiche: le parole sono formate da lunghe catene di morfemi e in una stessa parola
compaiono più radici lessicali (es. groenlandese) – indice di sintesi 4:1
Es. groenlandese
illuminiippuq “è a casa sua”
illu - mi - nii(p) - puq
“casa” poss.3a sg.rifl “essere in” 3a sg.ind
Lingue incorporanti (per alcuni, sottotipo delle polisintetiche): sono caratterizzate dalla
sistematicità con cui il complemento oggetto è incorporato dalle radici verbali
Es.:
tlqoyanmátekln = “io macello (abitualmente) renne”
tl - qoya - nm - átek - ln
PRO.1A SG “renna” PRES “ammazzare” ACC
Indice di sintesi: è dato dal rapporto morfemi:parole, più è basso più una lingua è “analitica”, più è alto più è
“sintetica”.