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LINGUISTICA GENERALE

Introduzione
La linguistica è il ramo delle scienze umane che studia la lingua, più precisamente è lo studio scientifico
delle lingue e del linguaggio.
È una disciplina descrittiva (e non normativa o prescrittiva come, ad esempio, la giurisprudenza che dà
regole) in quanto studia, descrive e rintraccia i fenomeni linguistici; la linguistica non dà regole ma studia
cosa accade in una lingua in tutte le sue regolarità e irregolarità (scopo conoscitivo).
Sebbene la linguistica in quanto disciplina scientifica autonomamente riconosciuta, con una sua identità
all’interno della conoscenza (scibile) umana, e la figura del linguista come studioso (o scienziato), siano di
nascita e sviluppo relativamente recente, hanno in realtà radici molto antiche, a partire dal pensiero filosofico
greco classico dei Sofisti nel V sec. a.C. (circa).
È ancor più giovane la linguistica generale, il cui atto di nascita si fa convenzionalmente coincidere con la
pubblicazione postuma delle lezioni ginevrine di Ferdinand de Saussure, il famoso Cours de linguistique
générale (Corso di linguistica generale, 1916).

CAP. 1 Il linguaggio verbale


1.1 Linguistica, lingue, linguaggio, comunicazione
La linguistica è il ramo delle scienze umane che studia la lingua. Lo studio della lingua può suddividersi in
“linguistica generale”, che si occupa di che cosa sono, come sono fatte e come funzionano le lingue, e la
“linguistica storica”, che si occupa dell’evoluzione delle lingue nel tempo.
Oggetto della linguistica sono le lingue storico-naturali (definizione di v. Wilhelm von Humboldt, 1836),
cioè le lingue nate e usate spontaneamente nel corso della storia della civiltà umana. Sono definite “naturali”
perché parlare è una facoltà innata (tutti nascono con la potenzialità di farlo), “storico” perché le lingue sono
il portato (risultato) di evoluzioni, cambiamenti, nel corso della storia.
Tutte lingue storico-naturali sono espressione di quello che viene chiamato linguaggio verbale umano. Il
linguaggio verbale è una facoltà innata nell’homo sapiens ed è uno degli strumenti, dei modi e dei sistemi di
comunicazione che egli ha a disposizione. [Tutti i sistemi linguistici utilizzati sono manifestazione del
linguaggio verbale umano, non esiste quindi differenza tra lingue e dialetti, le distinzioni di quest’ultime si
basano su considerazioni sociali e storico-culturali. Si tratta del campo della sociolinguistica, che studia il
rapporto fra lingua e società e ciò che ne consegue.]
Con il linguaggio verbale, l’uomo si mette in comunicazione e comunica attraverso quelli che possiamo
definire “segni”. Un segno (lat. signum) è qualcosa che sta per qualcos’altro (lat. aliquid quod stat pro
aliquo) e serve per comunicare questo qualcos’altro.
Per comunicare/comunicazione si intende, in senso largo, un “passaggio di informazione”, tutto può
comunicare qualcosa, ogni fatto culturale (anche i fatti di natura) può dare informazione; mentre in senso
stretto, l’ingrediente fondamentale è l’intenzionalità: si ha comunicazione quando c’è un comportamento
che parte da un emittente al fine di far passare dell’informazione e che viene percepito da un ricevente.
Con maggior precisione, si potrebbero distinguere tre categorie della comunicazione a seconda di chi
produce il messaggio (emittente), chi lo riceve/interpreta (ricevente/interpretante) e dell’intenzionalità del
loro comportamento.
A. Comunicazione in senso stretto
- Emittente intenzionale
- Ricevente intenzionale
(es.: linguaggio verbale umano, gesti, segnaletica stradale ecc.)
B. Passaggio di informazione
- Emittente non intenzionale
- Ricevente (interpretante) intenzionale
(es.: parte della comunicazione non verbale umana, orme di animali, prossemica ecc.)
C. Formulazione di interferenze (caso più debole di codice)
- Nessun emittente (oggetto culturale)
- Interpretante (es.: case dai tetti aguzzi = nevica molto)
1.2 Segni, codice
Il “segno” in senso lato è quindi l’unità fondamentale della comunicazione. Esistono diversi tipi di segni.
Possono essere classificati secondo due criteri fondamentali: quello dell’intenzionalità e quello della
motivazione relativa.
1. INDICI (sintomi): motivati naturalmente/non intenzionali
(causa effetto) es.: nuvole nere (significante) = sta per piovere (significato)
2. SEGNALI: motivati naturalmente/usati intenzionalmente
es.: sbadiglio volontario (significante) = sono annoiato (significato)
3. ICONE (dal greco "immagine"): motivati analogicamente/intenzionali
(per analogia/somiglianza riproducono proprietà dell'oggetto designato) es.: mappa geografica
4. SIMBOLI: motivati culturalmente/intenzionali
es.: semaforo rosso = fermati, colomba con ulivo = pace
5. SEGNI (in senso stretto): non motivati (arbitrari)/intenzionali
(totalmente immotivati, basati su mera convenzione) es.: comunicazione gestuale come la “lingua
dei segni”
Man mano la motivazione delle categorie diventa sempre più convenzionale, immotivata. Aumenta anche la
specificità culturale: mentre gli indici, in quanto fatti di natura, sono per definizione universali, i simboli e i
segni dipendono da tradizioni culturali.
In conclusione, i segni linguistici sono segni in senso stretto, prodotti per comunicare ed essenzialmente
arbitrari.
Nella comunicazione in senso stretto, c’è un emittente che produce intenzionalmente un segno per un
ricevente, e il ricevente è in grado di interpretare il segno perché si riconduce a un codice di cui fa parte, cioè
un insieme di conoscenze che permette di attribuire un significato a ciò che succede. Per “codice” (lat.
codex) si intende più precisamente l’insieme di corrispondenze, fissate per convenzione, tra qualcosa e
qualcos’altro (tra significati e significanti), che fornisce le regole di interpretazione dei segni.
Tutti i sistemi di comunicazione sono codici. I segni linguistici costituiscono il codice lingua.

1.3 Le proprietà della lingua


Il codice lingua (o il linguaggio verbale umano) presenta delle proprietà rilevanti, alcune delle quali
condivide con altri codici, altre sono invece caratterizzanti.

1.3.1 Biplanarità
La prima proprietà, costitutiva di tutti i segni e quindi anche di quelli linguistici, è la biplanarità: in un
segno coesistono due piani, non scindibili (il “qualcosa” e il “qualcos’altro”). Più precisamente si parla di
significante e di significato. Il “significante” (espressione) è il piano materialmente percepibile del segno,
ciò che percepiamo con i sensi (piano della materialità espressiva), es.: la parola gatto pronunciata o scritta.
Il “significato” (contenuto) è il piano non materialmente percepibile, è l’informazione veicolata dal piano
percepibile, il concetto o l’idea che percepiamo con la mente (piano del contenuto mentale), es.: il concetto o
l’idea di “gatto”.
[Prima definizione di “significante” e “significato”: Ferdinand de Sussure].

1.3.2 Arbitrarietà
Un’altra proprietà importante è l’arbitrarietà, essa consiste nel fatto che non esiste alcun legame motivato
naturalmente/analogicamente/culturalmente tra il rapporto di significante e significato, sono legati da motivi
di convenzione (come un accordo condiviso da una cultura) e quindi sono arbitrari (es.: il significante gatto
non ha niente a che vedere con l’animale “gatto”).
Se i segni linguistici non fossero arbitrari, le parole delle diverse lingue dovrebbero essere tutte molto simili;
il fatto che non sia così implica appunto che, il rapporto tra la natura di una cosa e il nome che la designa, sia
totalmente per convenzione. Allo stesso modo, parole simili nelle diverse lingue dovrebbero designare cose o
concetti simili, anche questo è falso: basti pensare a bello ital. “bello”, bell ing. “campana” e bellum lat.
guerra.
Approfondendo la questione dell’arbitrarietà sviluppata precedentemente da F. de Sussure, lo studioso L.
Hjelmslev ha distinto quattro tipi o livelli diversi di arbitrarietà.
A questo punto bisogna introdurre il concetto di triangolo semiotico, rappresentazione grafica delle tre
entità che interagiscono nei segni linguistici, introdotto per la prima volta da Odgen e Richards nel 1921.
Ai tre vertici abbiamo le tre entità in gioco: un significante, che attraverso la mediazione di un significato
con cui è associato e che esso veicola, si riferisce a un elemento della realtà esterna, un referente. Es.: la
parola sedia è formata dalle due facce del significato s-e-d-i-a, e dal significato “sedia”, si riferisce
all’oggetto reale sedia, e lo identifica. [La linea di base del triangolo è tratteggiata, perché il rapporto tra il
significante e referente non è diretto, ma è mediato tramite il significato].

Tenendo presente questo schema si può procedere con il definire i quattro tipi di arbitrarietà.
1. Rapporto tra segno e referente
Non c’è legame naturale e concreto di derivazione fra un elemento della realtà esterna e il segno
associato. Es.: sedia oggetto e "sedia".
2. Rapporto tra significante e significato
Il significante (come sequenza di lettere o suoni) non ha nulla a che vedere con il significante (come
concetto) a cui è associato. Es.: la bottiglia esiste nella realtà, come immagine mentale comune o
significato/contenuto bottiglia, a questa associamo un significante specifico.
3. Rapporto tra forma e sostanza del significato (contenuto)
Arbitrario il rapporto tra forma (struttura, organizzazione interna) e sostanza (insieme di fatti
concettualizzabili, significabili, materia) del significato. Ogni lingua dà una data "forma" ad una data
"sostanza" in un modo che le è proprio, distinguendo una o più entità. Es.: ital. bosco/legno/legna
riconosce tre entità, franc. bois "bosco/legno/legna" riconosce una sola entità, ted. wald "bosco" holz
"legno/legna" ne riconosce due.
4. Rapporto tra forma e sostanza del significante (espressione)
Ogni lingua organizza secondo i propri criteri la scelta dei suoni pertinenti, distinguendo in una
maniera magari diversa per ogni lingua, le entità rilevanti della materia fonica. Es.: quantità/durata
delle vocali: cioè stessa sostanza fonica organizzata in maniera diversa a seconda della lingua,
mentre l’italiano ha una sola a senza distinzione di lunghezza per cui casa o caasa (pronunciata con
una a breve o lunga), non sono che due realizzazioni della stessa parola, in tedesco si distinguono
due suoni diversi con carattere distintivo, quindi, stadt è "città" e staat è "stato".
Al principio dell’arbitrarietà dei segni linguistici esistono alcune eccezioni. Vi sono dei segni linguistici che
appaiono parzialmente motivati, è il caso delle onomatopee, che riproducono o richiamano nel loro
significante caratteri fisici di ciò che viene designato. Parole o voci onomatopeiche come per esempio,
tintinnio, sussurrare, rimbombare, din don dan, chicchirichì imitano nella loro sostanza di significante il
suono o il rumore che designano, risultando più o meno di aspetto iconico: sarebbero più icone che simboli o
segni in senso stretto. Va comunque considerato che sono almeno in parte diverse da lingua a lingua,
nonostante il referente resti identico es.: tintinnio unisce ad una parte onomatopeica, tintin, il suffisso
arbitrario -io.
Più strettamente iconici sembrano essere i cosiddetti ideofoni, cioè espressioni imitative o interiezioni
descrittive che designano fenomeni naturali o azioni (frequentemente usate nei fumetti), come per esempio
boom/bum “grande fragore”, zac “taglio netto”, gluglu “trangugiare acqua”, ecc.
Un altro aspetto che tende a ridurre l’importanza dell’arbitrarietà è la presenza di caratteri iconici nel
linguaggio verbale umano come, ad esempio, nella formazione del plurale nelle lingue: è stato notato che
l’aggiunta di materiale linguistico alla forma singolare per formare il plurale sia un fenomeno molto diffuso.
Un’altra prospettiva che tende a vedere nei segni linguistici più motivazione di quanto si creda è quella che
sostiene l’importanza del fonosimbolismo, affermando che certi suoni avrebbero associati a sé certi
significati per loro stessa natura, es.: il suono i per “cose” piccole.

1.3.3 Doppia articolazione


Una proprietà del linguaggio verbale umano, che sembra essere posseduta nella sua forma più piena solo
dalle lingue, è la doppia articolazione (o dualità di strutturazione). La doppia articolazione, che non va
confusa con la biplanarità, consiste nel fatto che il significante di un segno linguistico è articolato su due
livelli nettamente differenti.
- La prima articolazione (morfemi)
A un primo livello, il significante di un segno linguistico è organizzato e scomponibile in unità
(pezzi, parti, “mattoni”) che sono ancora portatrici di significato e possono essere utilizzate per
formare altri segni: la parola gatto è scomponibile in gatt- e -o, hanno ciascuno un proprio
significato (“felino domestico” e “maschile singolare”) e possono comparire con lo stesso significato
in altre parole es.: gatt-ino e top-o.
Tali pezzi, che essendo associazione tra significato e significante sono ancora segni, sono i
“morfemi” e costituiscono le unità minime di prima articolazione, non sono ulteriormente articolati
in elementi più piccoli che rechino ancora un proprio significato. Es.: in gatt- non è possibile
assegnare un significato proprio e specifico a g-, -a-, -tt-, -att- ecc.
- La seconda articolazione (fonemi)
A un secondo livello, queste parti (i morfemi) sono a loro volta scomponibili in unità più piccole che
non sono più portatrici di significato autonomo, che combinandosi assieme danno luogo alle unità
minime di prima articolazione. Es.: il morfema gatt- è scomponibile nei suoni g,a,t,t..
Tali elementi, che non sono più segni non avendo più significato, sono detti “fonemi” e sono unità
minime di seconda articolazione.
Ogni segno linguistico può essere scomposto in unità minime sia di prima che di seconda
articolazione: la nonna sforna la torta (undici morfemi, venti fonemi).
La doppia articolazione comporta economicità di funzionamento del sistema linguistico (con un numero
limitato di unità di seconda articolazione, prive di significato, si può costruire un numero grandissimo di
unità dotate di significato) e la combinatorietà della sua struttura (il funzionamento di una lingua è la
combinazione di unità minori, prive di significato, per la realizzazione di un numero indefinito di unità
maggiori, i segni).

1.3.4 Trasponibilità di mezzo


Il significante dei segni linguistici ha un’ulteriore importante proprietà, caratterizzante della lingua: può
essere trasmesso sia attraverso il mezzo aria, il canale fonico-acustico cioè il PARLATO (sequenza di
suoni/rumori emessi dall’apparato fonatorio umano e recepiti da quello uditivo), sia attraverso il mezzo luce,
il canale grafico-visivo cioè lo SCRITTO (segni tracciati su un supporto solido come la carta e ricevuti
dall’apparato visivo).
Tale proprietà è definita trasponibilità di mezzo (o trasferibilità/intercambiabilità).
Priorità del parlato
Anche se i segni linguistici possono essere trasmessi o oralmente o graficamente, e in linea di principio un
messaggio parlato può essere tradotto in un equivalente messaggio scritto, il carattere orale è prioritario
rispetto a quello visivo. Il canale fonico-acustico appare primario ed è per questo che spesso è detto che una
proprietà del linguaggio verbale umano è la fonicità.
- Priorità antropologica
Il parlato è anzitutto prioritario antropologicamente: tutte le lingue hanno una forma e un uso scritti
sono (o sono state) anche parlate, mentre non tutte le lingue parlate hanno anche una forma e un uso
scritti.
- Priorità ontogenetica (relativa al singolo individuo)
È poi prioritario ontogeneticamente: ogni individuo umano impara prima a parlare, al momento della
socializzazione primaria e per via naturale e spontanea, e in un secondo momento, e attraverso un
addestramento guidato specifico, a scrivere.
- Priorità filogenetica (relativa alla specie umana)
Infine, è prioritario filogeneticamente: nella storia della nostra specie, la scrittura si è sviluppata
molto tempo dopo il parlare. Le prime attestazioni giunteci di una forma scritta risalgono al 5.000
a.C. (scritture pittografiche), e quelle di un sistema di scrittura vero e proprio (scrittura cuneiforme)
risalgono invece al 3500 a.C.
La scrittura alfabetica, quella che darà luogo al nostro alfabeto attuale, nasce probabilmente presso i
Fenici intorno al 1300 a.C. (scrittura consonantica).
Invece le origini del linguaggio sono certamente molto più antiche. È ipotizzabile che qualche
forma primitiva di comunicazione orale con segni linguistici fosse presente già con l’Homo habilis e
poi con l’Homo erectus (più di due milioni di anni fa).
Il canale fonico-acustico e l’uso parlato della lingua presentano una serie di vantaggi biologici e funzionali
rispetto al canale visivo e all’uso scritto:
a. Utilizzo in qualsiasi condizione ambientale (purché vi sia aria), anche in presenza di ostacoli e a
distanza
b. Impiego contemporaneo ad altre attività
c. Localizzazione della fonte di emittenza
d. Ricezione contemporanea alla produzione del messaggio
e. L’esecuzione è più rapida di quella scritta
f. Trasmissione del messaggio simultanea a più destinatari
g. Evanescenza del messaggio, ha rapida dissolvenza e non occupa spazio (può essere uno svantaggio:
il parlato è transeunte, lo scritto permane)
h. Ridotto consumo di energia
Occorre dire che con i recenti sviluppi delle tecnologie di comunicazione digitale, le differenze tra parlato e
scritto sono annullate.
Priorità dello scritto
Nelle società moderne, tuttavia, lo scritto ha una priorità sociale e culturale: avere una forma scritta è un
requisito fondamentale per una lingua evoluta. Lo scritto è lo strumento di trasmissione e fissazione del
copro legale, della tradizione culturale e letteraria e del sapere scientifico; è il veicolo fondamentale
dell’istruzione scolastica, ha valenza giuridica, eccetera.
1.3.5 Linearità e discretezza
Linearità
Un’ulteriore proprietà dei segni linguistici, anch’essa più propriamente caratteristica del significante, è la
linearità. Per “linearità del segno” si intende che il significante viene prodotto, si realizza e si sviluppa in
successione, nel tempo e /o nello spazio. Non possiamo capire totalmente un messaggio se non dopo che
siano stati attualizzati tutti gli elementi che lo compongono, al contrario di alcuni segni “globali” percepiti
come un tutto simultaneamente es.: segnali stradali, semaforo ecc.
La linearità implica anche monodimensionalità del segno, poiché si sviluppa in una sola direzione
(pertinenza dell’ordine in cui si susseguono le parti del segno): Giulio ama Maria e Maria ama Giulio
designano due stati di cose ben diversi.
Discretezza
Altra proprietà relativa sempre al significante è la discretezza, si intende cioè che la differenza tra le unità
strutturali della lingua è assoluta, non relativa o quantitativa. Gli elementi della lingua non costituiscono una
materia continua senza limiti, ma c’è un confine ben preciso tra un elemento e l’altro. Per esempio, le classi
di suono sono ben distinte tra di loro: pollo con la p e bollo con la b sono due parole completamente diverse
e un eventuale pronuncia intermedia farà riferimento sempre e solo ad una delle due forme.
I segni del linguaggio verbale sono digitali e non analogici.
Conseguenza della discretezza è che il significato non varia a variare del significante e viceversa.

1.3.6 Onnipotenza semantica, plurifunzionalità e riflessività


Onnipotenza semantica
Una proprietà invece generale del linguaggio verbale umano è l’onnipotenza semantica, che consisterebbe
nel fatto che con la lingua è possibile dare un’espressione a qualsiasi contenuto, nel senso che un messaggio
di qualunque altro codice o sistema di segni sia traducibile in lingua, ma non il contrario.
Si intende che con la lingua si può parlare di tutto.
Plurifunzionalità
Poiché risulta però complicato provare che con la lingua si può effettivamente parlare di tutto, per esempio
tradurre espressioni artistiche o musicali in un messaggio linguistico, è più adatto parlare di
plurifunzionalità della lingua. Per plurifunzionalità si intende che la lingua permette di adempiere a una
vasta lista di funzioni diverse, le quali costituiscono una lista aperta. Le più rilevanti sono:
a. Esprimere il pensiero
b. Trasmettere informazioni
c. Instaurare, mantenere ecc., rapporti e attività sociali
d. Manifestare sentimenti e stati d’animo
e. Risolvere problemi (es.: impiego scientifico della lingua)
f. Creare mondi possibili (es.: letteratura)
A proposito delle funzioni della lingua, occorre riferirsi a un modello di classificazione molto noto: lo
schema di R. Jakobson, il quale identifica sei classi di funzioni. L’instaurarsi della comunicazione implica
almeno sei fattori, ciascuno collegato a una funzione (o classe di funzioni) diversa.
- Funzione emotiva
Un messaggio linguistico volto ad esprimere sensazioni del parlato avrebbe prevalente funzione
emotiva o “espressiva”, es.: che bella sorpresa!
- Funzione metalinguistica
Uno volto a specificare aspetti del codice o a calibrare il messaggio sul codice avrebbe prevalente
funzione metalinguistica, es.: gatto è una parola di cinque lettere.
- Funzione referenziale
Uno volto a fornire informazioni sulla realtà esterna avrebbe prevalente funzione referenziale o
“denotativa” es.: esistono piante carnivore.
- Funzione conativa
Uno volto a far agire in qualche modo il ricevente, ottenendo da lui un certo comportamento,
avrebbe prevalente funzione conativa, es.: chiudi la porta! / che ore sono?
- Funzione fatica
Uno volto a sottolineare e verificare il canale di comunicazione e/o il contatto fisico o psicologico tra
i parlanti avrebbe prevalente funzione fàtica es.: pronto? Ciao Gianni!
- Funzione poetica
Uno volto ad esplicitare, mettere in rilievo e sfruttare le potenzialità del messaggio e i caratteri iterni
di significante e significato, avrebbe prevalente funzione poetica, es.: la gloria di colui che tutto
move / per l’universo penetra e rispende (…).

Riflessività
Riprendendo la funzione metalinguistica di Jakobson, si può osservare un importante conseguenza
dell’onnipotenza o plurifunzionalità della lingua: con la lingua si può parlare della lingua stessa, cioè la
lingua si può usare come metalingua, e a tale proprietà viene dato il nome di riflessività.
La riflessività è unica e caratterizzante del linguaggio verbale umano.

1.3.7 Produttività e ricorsività


Produttività
Un’altra proprietà della lingua, connessa sia con la doppia articolazione che con l’onnipotenza semantica, è
la produttività. Con questo termine specifico si intende che con la lingua è sempre possibile creare nuovi
messaggi e parlare di cose ed esperienze nuove, anche di cose inesistenti. Da un lato è possibile creare
messaggi totalmente nuovi, dall’altro usare messaggi già usati in situazioni nuove.
La produttività è resa possibile dalla doppia articolazione che permette una combinatorietà illimitata di unità
più piccole, in unità sempre più grandi, da un sistema chiuso a un sistema aperto.
La produttività o apertura del sistema linguistico prende la forma di quella che è la creatività regolare, una
produttività infinita basata su un numero limitato di principi e regole applicabili ricorsivamente.
Ricorsività
La ricorsività è posseduta in maniera evidente nella lingua ed è una sua proprietà formale molto importante,
che si riferisce al fatto che uno stesso procedimento è riapplicabile in un numero teoricamente infinito di
volte. Un’istruzione di procedura per ottenere un certo prodotto è quindi riapplicabile al proprio prodotto o
risultato. Es.: da una parola posso ricavarne un'altra aggiungendo un suffisso atto ˃ attuale ˃ attualizzare,
posso costruire una frase compiuta con nome e verbo e da questa ottenere frasi via via più complesse: Gianni
corre ˃ Mario vede che Gianni corre.
L’applicazione della ricorsività è illimitata, il limite sta nell’utente e non nel sistema linguistico. Noi parlanti
siamo utenti finiti in un sistema infinito.
1.3.8 Distanziamento e libertà da stimoli
Un’altra proprietà del linguaggio verbale umano, che non è altro che un corollario (conseguenza)
dell’onnipotenza semantica, è stata chiamata distanziamento. Si intende la possibilità della lingua di poter
formulare messaggi relativi a cose lontane, distanti nel tempo e/o nello spazio, dal luogo in cui viene
prodotto il messaggio. Mentre un gatto può comunicare miagolando di essere affamato in quel momento, non
può comunicare in nessun modo che ieri era affamato. Il distanziamento consiste quindi nel poter parlare di
un’esperienza in assenza d quell’esperienza.
Con questo, la nozione di distanziamento coincide all’incirca con un altro aspetto spesso citato come una
proprietà a sé stante, cioè la libertà da stimoli. Essa consiste nel fatto che i segni linguistici rimandano a
un’elaborazione concettuale della realtà esterna, e non semplicemente stati d’animo dell’emittente che
inducano in modo automatico un certo comportamento (es.: il latrare degli animali in pericolo)

1.3.9 Trasmissibilità culturale


Dal punto di vista antropologico, ogni lingua è trasmessa per tradizione all’interno di una società e cultura.
Ogni essere umano impara almeno una lingua, quella propria dell’ambiente sociale in cui cresce. Ciò non
vuol dire che il linguaggio umano sia unicamente culturale, in esso vi sono due componenti principali:
- Componente culturale-ambientale specifica quale lingua impariamo e parliamo
- Componente innata (faculté du langage) fornisce la predisposizione a comunicare mediante una
lingua
L’interazione fra componente naturale, innata, e componente culturale, appresa, fa si che abbia un ruolo
particolare sia la prima infanzia che la cosiddetta prepubertà linguistica, per quanto riguarda il processo di
apprendimento della lingua.

1.3.10 Complessità sintattica


Vi sono infine due proprietà della lingua, inerenti all’intero sistema linguistico.
Una di queste consiste nel fatto che i messaggi linguistici, a differenza di messaggi in altri codici, possono
presentare un alto grado di elaborazione strutturale, percepibile nella sintassi; questa proprietà si può quindi
definire complessità sintattica.
Fra gli aspetti che hanno rilevanza nella trama sintattica troviamo:
a. l’ordine degli elementi
b. le relazioni e le dipendenze tra elementi non contigui
c. le incassature (parte incastrata dentro un’altra)
d. la ricorsività
e. la presenza di parti del messaggio che danno informazioni sulla struttura sintattica (es.: coniugazioni
coordinanti ecc.)
f. la possibilità di discontinuità nella strutturazione sintattica (es.: in tedesco è possibile che elementi
strettamente uniti dal punto di vista sintattico o semantico, non sono linearmente adiacenti)

1.3.11 Equivocità
L’ultima proprietà del linguaggio verbale umano è l’equivocità della lingua in quanto codice. La lingua è un
codice tipicamente equivoco perché pone corrispondenze plurivoche fra gli elementi di una lista e quelli
della lista a questa associata. Le corrispondenze possono riguardare:
a. Un unico significante a cui si riferiscono più significati (omonimia es.: riso “cereale” e riso “ridere”,
e polisemia es.: banco “panca, sedile, bancone, tavolo da lavoro ecc.”)
b. Un unico significato a cui si riferiscono più significanti (sinonimi es.: “parte anteriore della testa”
faccia, viso, volto ecc.)

1.3.12 Lingua solo umana?


È opportuno chiedersi se un sistema di comunicazione organizzato come la lingua sia proprio e caratteristico
solo degli esseri umani e non diffuso presso tutti gli esseri animati.
Tra gli studiosi è largamente considerato il linguaggio verbale come caratteristica specifica dell’uomo. In
particolare, solo l’uomo possiede le precondizioni anatomiche e neurofisiologiche necessarie per
l’elaborazione mentale e fisica del linguaggio verbale:
a. Cervello
b. Apparato fonatorio

1.3.13 Definizione di lingua


Possiamo ora formulare una definizione riassuntiva della nozione di lingua, essa è:
a. un codice
b. che organizza un sistema di segni
c. dal significante primariamente fonico-acustico,
d. fondamentalmente arbitrari ad ogni loro livello e
e. doppiamente articolati,
f. capaci di esprimere ogni esperienza esprimibile,
g. posseduti come conoscenza interiorizzata, che permette di produrre infinite frasi a partire da un
numero finito di elementi.

1.4 Principi generali per l’analisi della lingua


Ci sono tre distinzioni teorizzate da Sussure che costituiscono una sorta di principi per l’analisi della lingua.

1.4.1 Sincronia e diacronia


La prima distinzione è quella fra diacronia e sincronia. I due termini si impiegano per indicare due diverse
prospettive con le quali si può guardare alle lingue in relazione all’asse del tempo. Per diacronia si intende
la considerazione della lingua e degli elementi linguistici lungo lo sviluppo temporale, nella loro evoluzione
storica. Per sincronia invece, si fa un “taglio” sull’asse del tempo, quindi considera l’aspetto in quel
determinato momento, senza considerare il passato e le evoluzioni. Per esempio, fare l’etimologia di una
parola è un’operazione linguistica diacronica, perché si ricostruisce la storia, le evoluzioni di una parola ecc.
Descrivere invece il significato che hanno oggi le parole in italiano, o studiare com’è la struttura sintattica
delle frasi semplici in una lingua, sono invece operazioni linguistiche sincroniche.
Nei fatti linguistici concreti è impossibile separare nettamente la situazione sincronica da quella diacronica,
poiché un qualunque elemento della lingua è in relazione sia con gli altri elementi del sistema linguistico che
con la sua storia precedente.

1.4.2 Langue e parole (sistema astratto e realizzazione concreta)


La seconda distinzione da fare è quella tra sistema astratto e realizzazione concreta. La distinzione si è
ripresentata, nel corso della linguistica moderna, secondo tre terminologie differenti:
- Langue e parole, Ferdinand de Sussure (principale denominazione)
- Sistema e uso, Louis Hjemslev
- Competenza ed esecuzione (competence and performance), Noam Chomsky
Con il primo termine (langue/sistema/competenza) si intende l’insieme di conoscenze mentali e di regole
interiorizzate e condivise che costituiscono (modello astratto collettivo) la nostra capacità di produrre
messaggi in una data lingua, sono possedute come sapere astratto e da tutti i membri di una comunità
linguistica.
Con il secondo termine (parole/uso/esecuzione) si intende invece l’atto linguistico individuale, la
realizzazione concreta (l’insieme degli usi reali e concreti, variabili sociolinguistiche).
I secondi termini per essere messi in opera richiedono l’esistenza dei primi, di cui sono in un certo senso
l’esternazione.
Linguisti come E. Coseriu pongono una terza entità intermedia fra il sistema e l’uso: la norma, che come
una sorta di filtro tra l’uno e l’altro, specifica le possibilità del sistema che vengono attualizzate nell’uso dei
parlanti in un certo momento storico. In italiano si ha, per esempio, la formazione di nomi a partire dai verbi
(nomi deverbali), con il valore di indicare un’azione aggiungendo un suffisso come -azion-, -ament-
applicato alla radice verbale. In molti casi il sistema ammette sia uno che l’altro, ma nella norma certe
combinazioni vengono escluse rispetto ad altre: affidare ˃ affidamento e non affidazione. In certi casi
esistono entrambe le suffissazioni ma con significato eventualmente differente: mutare ˃
mutamento/mutazione. In altri casi ancora non si attua nessuno dei due suffissi ma un altro modulo di
formazione: lavare ˃ lavaggio.

1.4.3 Paradigmatico e sintagmatico


Terza distinzione è quella tra asse paradigmatico (in Sussure “associativo”) e asse sintagmatico, riguarda
la struttura della linguistica.
Ogni attuazione di un elemento del sistema dei segni in una certa posizione nel messaggio, implica una scelta
in un paradigma di elementi selezionabili in quella posizione, e in rapporto sull’asse paradigmatico (asse
delle scelte, in absentia). Contemporaneamente, l’attuazione di quell’elemento in una certa posizione implica
che si prendano in considerazione gli elementi che compaiono nelle posizioni precedenti e successive dello
stesso messaggio con i quali è in rapporto l’elemento sull’asse sintagmatico (asse delle combinazioni, in
praesentia).
Quindi, l’asse paradigmatico riguarda le relazioni a livello del sistema (fornisce i serbatori da cui attingere le
singole unità linguistiche), l’asse sintagmatico riguarda invece le relazioni a livello delle strutture che
realizzano le potenzialità del sistema (assicura che le combinazioni di unità siano formate adeguatamente).
L’organizzazione secondo i due principi delle due assi dà luogo alla diversa distribuzione degli elementi
della lingua.

1.4.4 Livelli d’analisi


Esistono quattro livelli fondamentali di analisi linguistica:
• tre relativi al significante:
- fonetica e fonologia (seconda articolazione)
- morfologia (prima articolazione)
- sintassi (prima articolazione)
• uno relativo al significato:
- semantica
Vi sono sottolivelli secondari di analisi: grafematica, pragmatica e testualità.

CAP. 2 Fonetica e fonologia


2.1 Fonetica
La fonetica (dal gr. phoné “voce, suono”) è la disciplina della linguistica che tratta la componente fisica,
materiale della comunicazione verbale.
La fonetica si distingue in tre campi principali:
- Fonetica articolatoria: che studia i suoni del linguaggio in base al modo in cui vengono articolati,
- Fonetica acustica: che studia i suoni del linguaggio in base alla loro consistenza fisica e modalità di
trasmissione,
- Fonetica uditiva: che studia i suoni del linguaggio in base al modo in cui vengono percepiti

2.1.1 Apparato fonatorio e meccanismo di fonazione


I suoni del linguaggio vengono normalmente prodotti mediante l’espirazione, quindi con un flusso d’aria
“egressivo”: l’aria muovendo dai polmoni attraverso i bronchi e la trachea, raggiunge la laringe. [Esistono
suoni che si realizzano mediante inspirazione, altri sono apneumonici]
Nella laringe, dove ha inizio il “tratto vocale”, incontra le corde vocali (pieghe della mucosa laringea) che
durante la respirazione silente restano separate, mentre durante la fonazione possono tendersi avvicinandosi,
ostacolando così il passaggio dell’aria. Il meccanismo laringeo costituisce il momento fondamentale per la
produzione dei suoni del linguaggio, ed è quando cicli velocissimi di chiusure e aperture della rima vocale,
con la pressione dell’aria provocano le cosiddette vibrazioni delle corde vocali.
Successivamente l’aria passa attraverso la faringe e giunge nella cavità orale. Qui svolgono una funzione
importante alcuni organi mobili o fissi: la lingua (radice, dorso, apice), il palato (in cui occorre considerare
separatamente il velo), gli alveoli (dietro i denti), i denti e le labbra. Anche la cavità nasale può partecipare al
meccanismo di fonazione.
In ciascuno dei punti compresi fra glottide e labbra, durante il flusso di aria espiratoria, può essere assunta
una precisa conformazione degli organi coinvolti, inserendo eventualmente un ostacolo al passaggio
dell’aria. In tal modo si ottengono i rumori e i suoni che costituiscono fisicamente i suoni del linguaggio.
Esistono dei parametri fondamentali per l’identificazione e la classificazione dei suoni del linguaggio e sono:
1. Il LUOGO in cui viene articolato un suono
2. Il MODO in cui viene articolato un suono e il contributo della mobilità dei singoli organi e
dell’articolazione dei suoni
3. La presenza/assenza di VIBRAZIONE DELLE CORDE VOCALI
Si possono inoltre distinguere, in base ai parametri suddetti, due grandi opposizioni di suoni:
- Opposizione tra vocali e consonanti: suoni prodotti senza frapposizione di ostacoli al flusso d’aria
(vocali), suoni prodotti mediante la frapposizione di un ostacolo (consonanti).
- Opposizione tra suoni sordi e sonori: suoni prodotti con la vibrazione delle corde vocali o senza.

2.1.2 Consonanti
Modo di articolazione
A seconda che l’ostacolo frapposto sia completo o invece parziale, si riconoscono due grandi classi di
consonanti: le occlusive (esplosive) e le fricative (frizione, movimento continuo). A un livello maggiore
occorre distinguere dalle fricative le cosiddette approssimanti, in cui l’avvicinamento degli organi articolari
non arriva a formare una frizione. Sono approssimanti le semivocali e le semiconsonanti. Esistono poi suoni
consonantici la cui articolazione inizia come un’occlusiva e termina come una fricativa (due movimenti
insieme), sono chiamate affricate.
Per la produzione del suono intervengono nel modo di articolazione anche altri fattori come il movimento
della lingua o la partecipazione della cavità nasale, quindi non solo il grado di chiusura del canale.
In questo caso si hanno le laterali, cioè quando l’aria passa solo ai due lati della lingua, e vibranti quando si
hanno rapidi contatti intermittenti tra la lingua e un altro organo articolatorio. Laterali e vibranti possono
essere definite liquide. Si hanno invece consonanti nasali quando vi è passaggio dell’aria anche la cavità
nasale.
Le consonanti possono poi essere caratterizzate da un altro parametro che è quello dell’energia articolatoria
con la quale vengono prodotte, che dà luogo a una scala dalle consonanti più forti (occlusive sorde) a quelle
più leni (approssimanti) [occlusive più forti delle fricative e sorde più forti delle sonore; dal modo più
ostacolato a quello meno].
Altro parametro, che può riguardare le occlusive e le affricate davanti a una vocale, è la presenza di
“aspirazione” (dal rilascio dell’occlusione all’inizio della vibrazione, soffio laringale), le consonanti così
prodotte sono definite aspirate.
Luogo (o punto) di articolazione
Le consonanti vengono classificate anche in base al punto dell’apparato fonatorio in cui sono articolate.
Partendo dalla parte terminale del canale, abbiamo anzitutto le consonanti bilabiali, prodotte da o tra le
labbra, abbiamo poi le labio-dentali, prodotte tra l’arcata dentaria superiore e il labbro inferiore; le
consonanti dentali prodotte a livello dei denti (che comprendono le alveolari, prodotte dalla lingua a
contatto con gli alveoli); le consonanti palatali, prodotte dalla lingua con il palato duro (zona tra alveoli e
palato duro sono, postalveolari); le consonanti velari, prodotte dalla lingua contro o vicino al velo, uvulari,
prodotte dalla lingua contro o vicino all’ugola, le faringali, prodotte fra la base della radice della lingua e la
parte posteriore della faringe, e infine le glottidali, prodotte direttamente nella glottide, a livello delle corde
vocali. [In una classificazione più precisa delle consonanti prodotte nella cavità orale, si può prendere in
considerazione anche la parte di lingua che interviene specificamente: “coronali”, “apico-dentali”, “apico-
alveolari”, “dorso-palatali”, “radico-velari” ecc. Esistono ancora altri modi e luoghi di articolazione fra cui
ad esempio le retroflesse, che vengono articolate flettendo all’indietro la punta della lingua contro la parte
anteriore del palato.]

2.1.3 Vocali
Per classificare e identificare i suoni vocalici occorre far riferimento a tre parametri fondamentali:
1. La posizione della lingua
Occorre in primo luogo far riferimento alla posizione della lingua, più precisamente al suo grado di
- avanzamento o arretramento: le vocali possono essere anteriori (avanzata), posteriori (arretrata) e
centrali
- innalzamento o abbassamento: le vocali possono essere alte, medie (con ulteriore distinzione tra
medio-alte e medio-basse) e basse
La posizione in cui vengono articolate le vocali, secondo il duplice asse orizzontale e verticale, può
essere rappresentato in uno schema, detto per la sua forma trapezio vocalico.

2. La posizione delle labbra


Le labbra possono essere:
- Distese (distensione, formanti una fessura)
Non arrotondate o non labializzate - aprocheile
- Tese e protruse (protrusione, sporgenti in avanti e dando luogo a una specie di rotondità)
Arrotondate o labializzate – procheile
Normalmente le vocali anteriori tendono ad essere non arrotondate, mentre le vocali posteriori
arrotondate.
3. Il passaggio dell’aria nella cavità nasale
I suoni vocalici possono essere realizzati con o senza passaggio contemporaneo di aria nella cavità
nasale: nel primo caso sono dette ovviamente nasali.

2.1.4 Approssimanti
Vi sono suoni con modo di articolazione intermedio tra vocali consonanti fricative, e quindi prodotti con un
accenno di restringimento del canale orale, con la posizione cioè di un ostacolo appena percettibile. Fra le
approssimanti vi sono suoni molto vicini alle vocali, per questo sono definiti semivocali o semiconsonanti
[In una classificazione più precisa semivocali e semiconsonanti andrebbero comunque tenute separate]. Le
semivocali non possono costituire apice di sillaba e formano dittongo (o trittongo) con la vocale a cui sono
sempre contigue. Una classificazione fondamentale delle semivocali si limita a distinguere quelle anteriori da
quelle posteriori.

2.1.5 Trascrizione fonetica


I diversi sistemi di scrittura utilizzati dalle diverse lingue rendono in varia maniera nel mezzo grafico la
realtà fonica della produzione verbale. Nei sistemi alfabetici delle lingue europee, per esempio, ogni singolo
suono è rappresentato in linea di principio da un preciso simbolo grafico, tuttavia esistono anche grafie
sillabiche che con appositi simboli rendono intere sillabe. Le grafie alfabetiche formatesi storicamente per
convenzione e accumulo di abitudini grafiche non sono univoche e coerenti. Non c’è rapporto biunivoco tra
suoni e unità grafiche. Allo stesso singolo suono possono corrispondere nella stessa lingua o in lingue
diverse più grafemi (lettere dell’alfabeto) differenti: in italiano, per esempio, il suono [k] della parola cane e
quello della parola quadro è equivalente ma ha grafema differente (c, q); allo stesso modo lo stessa grafema
può rendere suoni diversi, come in italiano la c di cane o di cena ([k], [ʧ]). Un singolo suono può essere reso
da più grafemi combinati: in italiano, per esempio, è il caso di sci o di ch quando è seguito da vocali anteriori
([ʃ], [k]). Infine, ad uno o più grafemi in una parola può non corrispondere alcun suono: in italiano è il caso
dell’h, che non corrisponde ad alcuna realtà fonica (ha: [a]).
L’ortografia italiana si può definire abbastanza fedelmente “fonografica”: siamo abituati ad associare ad un
singolo suono una singola lettera, e quindi a leggere e pronunciare “come si scrive”. L’inglese ha invece
un’ortografia con elementi “logografici”, spesso con suoni singoli che corrispondono a sequenze diverse di
lettere e suoni che non hanno un corrispondente grafico (come “tosse” cough [kɒf] in cui gh rende con f, o
“cavaliere” knight [naɪt] in cui k e gh non corrispondono a nessun suono e i corrisponde al suono che in
ortografia italiana rende con ai). Va tenuto presente che la realtà della lingua è primariamente fonica, ciò che
conta è la fonia, non la grafia.
Per ovviare alle incongruenze delle grafie tradizionali ed avere uno strumento di rappresentazione grafica dei
suoni del linguaggio, i linguisti hanno creato dei sistemi di trascrizione fonetica, in cui c’è corrispondenza
biunivoca tra i suoni rappresentati e i segni grafici che li rappresentano.
Il più diffuso e importante dei sistemi usati per la trascrizione fonetica è l’Alfabeto Fonetico Internazionale
(IPA: International Phonetic Association), del quale è utile fornire una scelta dei principali grafemi utilizzati,
con l’indicazione dei suoni. La trascrizione fonetica si pone tra parentesi quadre ([…]), l’accento è indicato
con un apice (‘) posto prima della sillaba su cui cade, e vocali e consonanti lunghe sono indicate da due punti
triangolari (:) posti dopo il simbolo fonetico.

2.1.6 Consonanti
OCCLUSIVE
- Bilabiali [p] sorda [b] sonora
Pollo [‘pol.lo]
Pappa [‘pap.pa] – [‘pap:a]
Bocca [‘bok:a]
Babbo [‘bab:o]
- Dentali (e alveolari) [t] sorda [d] sonora
Topo [‘tɔ.po]
Dito [‘di.to]
Tavolo [‘ta:.vo.lo]
Denaro [de.’na:.ro]
- Retroflesse [ʈ] sorda [ɖ] sonora
Treno [‘ʈrɛ:.no]
Madre [‘ma:.ɖre]
- Palatali [c] sorda [ɟ] sonora
Chilo [‘ci:.lo]
Ghiro [‘ɟi:.ro]
- Velari [k] sorda [g] sonora
Cane [‘ka:.ne]
Gatto [‘gat:o] – [‘gat.to]
- Uvulari [q] sorda
Arabo: Iraq [ʕi'raːq]
- Glottidali [ʔ] sorda
Ted. Ein Ei “un uovo” [ʔajn ʔaj]
Ital. Segnale di iato, sillabando es. le elettrici [le ʔelet’tri:tʃi]
FRICATIVE
- Bilabiali [ϕ] sorda [β] sonora
Nella pronuncia fiorentina: tipo ['tiϕo]
Spagnolo: cabeza “testa” [ka'βeθa]
- Labiodentali [f] sorda [v] sonora
Filo [‘fi.lo]
Fantasia [fan.ta.’si:.a]
Vino [‘vi:.no]
Vento [‘vɛn.to]
- Dentali [θ] sorda [ð] sonora, [s] sorda [z] sonora (alveolari)
Ingl.: think “pensare” [θiŋk]
ingl.: that “quello” [ðæt]
Sano ['sa:.no]
Sbaglio ['zbaʎ.ʎo]
Casa [‘ka:.sa] - [‘ka:.za] (pronuncia settentrionale)
- Postalveolari [ʃ] sorda [ʒ] sonora
Sci [ʃi]
Scienza [‘ʃɛn.tsa]
Ascia [‘aʃ.ʃa]
Francese: je [ʒe]
Nella pronuncia fiorentina ragione [ra.’ʒo:.ne]
- Velari [x] [γ]
Tedesco: Buch “libro” [bux]
Spagnolo: Agua “acqua” ['aγwa]
- Uvulari [χ] [ʁ]
Arabo: shaykh “sceicco” [ʃæjχ]
Francese: jour [ʒuʁ]
- Faringali [ʕ]
Arabo: _Iraq [ʕi'raːq]
- Glottidali [h]
Ingl.: have/ted. haben “avere” [hæːv]/ ['haːbən]
Nella pronuncia fiorentina di parole come poco ['pɔho]
Spesso tale fricativa è, impropriamente, definita come ‘aspirata’. Le pronunce fiorentine, e di una
vasta area della Toscana, che abbiamo esemplificato qui a proposito delle fricative bilabiale e velare
sorde, ma che riguardano anche le dentali sorde, sono note sotto il nome di ‘gorgia toscana’
AFFRICATE (occlusiva + fricativa)
- Labiodentali [pf] sorda
Ted.: Apfel “mela” ['ʔapfəl]
- Dentali [ts] sorda [dz] sonora
Pazzo [‘pat.tso] - [‘pat:.so]
Zona [‘dzɔ:.na]
- Palatali [tʃ] sorda [dʒ] sonora
Cena [‘tʃe:.na]
Gelato [dʒe.’la:.to]
NASALI (tutte le nasali sono sonore)
- Bilabiale [m]
Mamma [‘mam.ma]
Meno [‘me.no]
- Labiodentale [ɱ] (davanti a fricative f e v)
Invito [iɱ’vi.to]
Inferno [iɱ’fɛr.no] - /in.’fɛr.no/
- Dentale (alveolare) [n]
Naso [‘na:.so]
Dente [‘dɛn.te]
- Palatale [ɲ] (gn)
Gnocchi [‘ɲɔk.ki] - [‘ɲɔc.ci]
Agnello [aɲ’ɲɛl.lo]
- Velare [ŋ] (allofono del fonema /n/, davanti a occlusive k e g)
Ancora [aŋ’ko:.ra] – [‘aŋ .ko.ra]
Angolo [‘aŋ.go:.lo]
Inglese: [sɪn] “peccato” – [sɪŋ] “canto” (in inglese sono due fonemi)
LATERALI (tutte le laterali sono sonore)
- Dentale (alveolare) [l]
Latte [‘lat.te]
Palla [‘pal.la]
- Palatale [ʎ]
Paglia [‘paʎ.ʎa] - roman. [‘pa:.ja]
Gli [ʎi]
VIBRANTI (tutte le vibranti sono sonore)
- Dentale [r]
Rosso [‘ros.so]
La r italiana è plurivibrante; esiste anche una corrispondente monovibrante, notata [ɾ], come in
spagn. toro “toro” ['toɾo], inglese americano matter “materia” ['mæɾə])
- Uvulare [ʀ] (“erre moscia”)
Franc.: rose “rosa” [ʀoz]
APPROSSIMANTI*
- Palatali [j]
Piano [‘pja:.no]
Piede [‘pjɛ:.de]
- Velari [w]
Uomo [‘wɔ:.mo]
Uovo [‘wɔ:.vo]

2.1.7 Vocali e approssimanti


ANTERIORI (non arrotondate)
- Semiconsonante (o semivocale) [j]*
Piano [‘pja:.no]
Piede [‘pjɛ:.de]
[un’approssimante anteriore a volte presente in italiano in pronunce particolari è la labiodentale [ʋ],
la cosiddetta ‘erre moscia’: ['paːdʋe] padre pronunciato con “erre moscia”]
- Vocali:
• ALTA [i]
Vino [‘vi:.no]
• SEMIALTA [I]
Ingl.: bit “pezzo” [bɪt]
• MEDIO-ALTA [e]
Meno [‘me:.no]
• MEDIO BASSE [ε]
Bene [‘bε:.ne]
• BASSE [æ]
Ingl.: bad “cattivo” [bæ:d]
Fra le anteriori arrotondate, ricordiamo:
• [y], ALTA, come in franc. mur “muro” [myʁ], ted. kühl “fresco” [kyːl], dialetto piemontese ['sypa]
“zuppa”;
• [ø], MEDIO-ALTA, come in franc. peu “poco” [pø], piem. [ʤøg] “gioco”;
• [œ], MEDIO-BASSA, come in franc. peur “paura” [pœːʁ]
CENTRALI
• MEDIO-ALTA (o media) [ə]
Franc. je “io” [ʒə]
Ingl. the, articolo determinativo, [ðə]
[questa vocale, detta anche ‘indistinta’ o ‘neutra’, è chiamata tradizionalmente schwa, dal nome di
una lettera dell’alfabeto ebraico]
• BASSA [a]
Mano ['ma:.no].
POSTERIORI (arrotondate)
- Semiconsonante (o semivocale) [w]*
Uomo [‘wɔ:.mo]
Uovo [‘wɔ:.vo]
- Vocali
• ALTA [u]
Muro ['muro]
• SEMIALTA [ʊ]
Ing.: full “pieno” [fʊl]
• MEDIO-ALTA [o]
Solo [‘so:.lo]
• MEDIO-BASSA [ɔ]
Soldi [‘sɔl.di]
Fra le posteriori non arrotondate meritano un cenno:
• [ʌ], medio-bassa, come in ingl. but “ma” [bʌt];
• [ɑ], bassa, come in ingl. car “auto” [kɑː], piem. [sɑl] “sale”.
Le vocali possono anche essere realizzate come nasali: in questo caso si trascrivono con una tilde (˜)
sovrapposta, come in franc. un “uno” [œ], pain “pane” [pε̃], eccetera.

2.2 Fonologia 14pag


2.2.1 Foni, fonemi e allofoni
Ogni suono producibile dall’apparato fonatorio umano (trascrivibile con un simbolo dell’alfabeto IPA)
rappresenta un potenziale suono del linguaggio, che ora chiameremo fono. Un fono è quindi la realizzazione
concreta di ogni suono del linguaggio, è atto di parole, ed è unità minima in fonetica. Quando un fono ha
carattere distintivo, in una data lingua, allora si dice che funziona da fonema. Un fonema è unità minima di
fonologia (o fonematica). La fonologia studia l’organizzazione e la strutturazione dei suoni nel sistema
linguistico, partendo dalle proprie unità minime.
La parola [‘mare] è costituita da quattro foni diversi in successione; pronunciando ad esempio la a come
anteriorizzata e non come centrale, quindi [‘mære] (pronuncia del dialetto barese), la parola rimarrà sempre
identificata come mare: i due foni diversi non danno origine ad un’opposizione fonematica (sono allofoni*),
corrispondono ad un unico fonema (sono membri della stessa classe). D’altra parte, ciascuno dei foni
distingue/oppone la parola ad/a altre (coppia minima**): [m] oppone per esempio [‘mare] a [‘pare] (si usa
anche la notazione /m p/) la [a] oppone per esempio a [‘mɔre] ecc. La parola è quindi formata da quattro
fonemi /m/ /a/ /r/ /e/: in trascrizione fonematica (// non []) sarà /’mare/. La trascrizione fonematica a
differenza di quella fonica è sempre “larga”, essa riproduce solo le caratteristiche pertinenti alla realizzazione
fonica, trascurando le particolarità e le differenze che non hanno valore distintivo. [per trascrivere
foneticamente occorre basarsi sulla fonia non sulla grafia] Per dimostrare se un fono è o no un fonema esiste
la prova di commutazione, in questo procedimento si confronta un’unità in cui compaia un fono con altre
unità della lingua che siano uguali in tutto tranne che nella posizione in cui sta il fono in oggetto.
Fonema è dunque l’unità minima di seconda articolazione del sistema linguistico. Esso è una classe astratta
di foni, dotata di valore distintivo, cioè tale da opporre una parola ad un’altra in una data lingua.
Foni diversi che costituiscano, come l’esempio [‘mare]/[‘mære], realizzazioni foneticamente diverse di uno
stesso fonema, ma prive di valore distintivo, si chiamano allofoni* (o varianti) di un fonema: per esempio, in
italiano [n] e [ŋ] sono due allofoni dello stesso fonema, dato che possono comparire nella stessa posizione
senza formare parole diverse, dire [‘dεnte] (pronuncia standard) e [‘dεŋte] (pronuncia settentrionale) equivale
alla stessa parola. Gli allofoni condizionati dal contesto fonosintattico [vedi regole fonologiche], si dicono
“varianti combinatorie”
Una coppia di parole uguali in tutto tranne che per la presenza di un fonema a posto di un altro in una certa
posizione forma una coppia minima**. Una coppia minima identifica sempre due fonemi. L’esempio
[‘mare]/[‘pare] qualsiasi parola opposta a mare costituisce una coppia minima. Si tenga presente che seppure
serva a distinguere segni linguistici, e quindi significati, il fonema non è un segno linguistico in quanto privo
di significato.
Coppia minima (in italiano)
-identifica due fonemi: cane pane
-posizione accento lessicale: Papa papà
-lunghezza consonantica: palla pala

2.2.2 Fonemi e tratti distintivi


I fonemi non sono scomponibili in segmenti più piccoli, si possono tuttavia analizzare secondo le
caratteristiche articolatorie che li contrassegnano: potremmo identificare /t/ come “occlusiva dentale sorda”
ecc. Da questo punto di vista, si può quindi definire un fonema come costituito da un fascio di proprietà
articolatorie che si realizzano in simultaneità. Queste permettono di analizzare e definire il fonema in
termini di diverse combinazioni possibili di tratti facenti parte di un inventario comune. Es.:
/p/ +occlusiva +bilabiale +sorda
/b/ +occlusiva +bilabiale -sorda
Partendo da queste considerazioni, nasce la teoria dei tratti distintivi (prima Jakobson, poi Chomsky e
Halle), che consente di rappresentare economicamente i fonemi come un fascio di alcuni tratti distintivi con
un determinato valore +/-. Si è giunti a formulare un numero chiuso di tratti affinché si possano distinguere i
fonemi di tutte le lingue del mondo.
In italiano tratti distintivi necessari e sufficienti a distinguere i fonemi sono:
(consonanti e approssimanti)
1. sillabico (unico tratto non riferito a caratteristiche articolatorie): fonemi che possono
costituire nucleo di sillaba; in italiano soltanto le vocali, in altre lingue anche consonanti
nasali, laterali e vibranti;
2. consonantico: fonemi prodotti con frapposizione di un ostacolo al flusso dell’aria: tutte le
consonanti;
3. sonorante: fonemi prodotti con passaggio d’aria relativamente libero, e quindi senza
turbolenza nel flusso d’aria nel passaggio attraverso il cavo orale, e con vibrazione delle
corde vocali (sempre sonori, privi di un corrispondente sordo): le vocali, le approssimanti e
le consonanti nasali, laterali e vibranti; la pressione dell’aria nella cavità orale necessaria a
produrre i fonemi [+sonoranti] è simile a quella esterna ed è minore di quella richiesta per la
produzione dei fonemi [–sonoranti] (con turbolenza del flusso d’aria; detti anche
‘ostruenti’);
4. sonoro: fonemi prodotti con vibrazione delle corde vocali;
5. continuo: fonemi prodotti con una costrizione nella cavità orale, che consente al flusso
dell’aria che esce dalla bocca di poter essere protratto nel tempo, finché c’è aria espiratoria a
disposizione (detti anche ‘sonanti’): fricative, laterali, vibranti, approssimanti, nasali;
6. nasale: fonemi prodotti con abbassamento del velo e conseguente passaggio del flusso d’aria
attraverso il canale nasale: le consonanti nasali;
7. rilascio ritardato (o soluzione ritardata): fonemi realizzati in due momenti: un primo in cui
l’aria è trattenuta nella cavità orale e un secondo in cui è rilasciata; tipicamente, fonemi che
iniziano con un’articolazione occlusiva e terminano con un’articolazione fricativa: le
consonanti affricate;
8. laterale: fonemi prodotti con passaggio del flusso d’aria ai lati della cavità orale (il
passaggio è impedito nella zona centrale): le consonanti laterali;
9. arretrato: fonemi prodotti con il corpo della lingua ritratto rispetto alla posizione neutra: le
consonanti velari e l’approssimante posteriore; le vocali /a/, /ɔ/, /o/, /u/;
10. anteriore: fonemi prodotti con una costrizione nella zona alveolare o in un luogo anteriore a
questa: bilabiali, labiodentali, dentali;
11. coronale: fonemi prodotti con la parte anteriore della lingua sollevata rispetto alla posizione
neutra, di riposo (vd. sopra): dentali, alveolari e alcune palatali;
(vocali)
12. arrotondato: fonemi prodotti con le labbra protese in avanti: /ɔ/, /o/, /u/;
13. alto: fonemi prodotti con la lingua sollevata rispetto alla posizione neutra: /i/, /u/;
14. basso: fonemi prodotti con la lingua abbassata rispetto alla posizione neutra: /ɛ/, /a/, /ɔ/
(Tutte le vocali, inoltre, si caratterizzano per i tratti [+sillabico], [–consonantico] e
[+sonorante])
Regole fonologiche:
A ˃ B/___C (A diventa B nel contesto seguito da C’, A è l’elemento che subisce il cambiamento, B il
risultato, C o ciò che si trova alla destra della barra è il contesto in cui si verifica il fenomeno)
Es.: n ˃ ŋ/___[k, g] (assimilazione di luogo di articolazione) = [aŋ.’go:.lo]
n ˃ ɱ/___[f, v] (assimilazione di luogo di articolazione) = [iɱ.’fɛr.no] – /in.’fɛr.no/
n ˃ m/___[p, b, m] (assimilazione di luogo di articolazione) = in-previsto ˃ imprevisto [impre’vi:sto]
Tratti distintivi importanti che differenziano e oppongono ampie classi di foni o fonemi sono: “+/- coronale”,
“+/-sonorante”, “+/-sillabico”, “+/- ATR”. ATR (Advanced Tongue Root) contraddistingue i foni prodotti
con la radice della lingua spostata in avanti come per es.: [i], [e], [u], [o].

2.2.3 I fonemi dell’italiano


Non tutte le lingue hanno gli stessi fonemi, né tantomeno lo stesso numero. L’elenco dei fonemi di una
determinata lingua si chiama inventario fonematico, in genere costituito da poche decine di fonemi: inglese
34 (44), francese 36, tedesco 38, come il russo, 24 spagnolo, 31 il cinese ecc.
L’italiano standard ha 30 fonemi, o 28 a seconda di alcuni autori, che non considerano le approssimanti
come fonemi a sé, si arriva peraltro a 45 considerando le vocali lunghe.

L’inventario fonematico dell’italiano è connesso a numerosi problemi:


- Statuto delle consonanti lunghe
È problematico lo statuto delle consonanti lunghe (o doppie) o geminate. Se consideriamo [‘kane]
[‘kanne] ([k’an:e]) coppia minima [/k/ /a/ /n:/ (/n/ lunga) /e/], ciò significa che dovremmo aggiungere
15 fonemi all’inventario fonematico, essendo 15 le consonanti che possono dar luogo a coppie
minime basate sulla lunghezza.
- Differenze regionali di pronuncia
Nella pronuncia dell’italiano esistono molte differenze regionali. Le opposizioni tra /s/ e /z/, fra /ts/
e /dz/, fra /j/ e /i/ e fra /w/ e /u/ non sono chiarissime e non formano molte coppie minime (basso
rendimento funzionale). Es.: ital. standard: [‘kjɛ:.se] (pass. remoto di chiedere) - [‘kjɛ:.ze] (plurale
di chiesa) = formano coppia minima, mentre ital. sett. [‘kjɛ:.ze] vale sia per l’edificio di culto che per
la forma verbale.
- Differenze di apertura delle vocali
L’opposizione fra vocali medio-alte e medio-basse⁠⁠ (/e~ɛ/ e /o~ɔ/), è tipica della varietà tosco-
romana di italiano, ma è ignota, o ha distribuzione diversa e molto più ristretta in altre varietà
regionali di italiano. Avremmo quindi /'peska/ “azione di pescare” vs. /'pɛska/ “frutto”, costituente
coppia minima. Ma in molte pronunce settentrionali non c’è opposizione, non si dà questa coppia
minima: in tutt’e due i casi si ha /'pɛska/.
La consonante nasale ha nello standard realizzazione velare solo davanti a consonante velare
([aŋ.’go:.lo]), ma nell’italiano del Settentrione tende ad essere velare ogni nasale che si trovi alla fine
di sillaba: [noŋ], [‘kaŋpo],
- Raddoppiamento (fono)sintattico
Infine, un fenomeno da menzionare è il cosiddetto raddoppiamento (fono)sintattico, che consiste
nell’allungamento (pronuncia come geminata) della consonante iniziale di una parola quando questa
è preceduta da una delle parole che provoca questo fenomeno (tutte le parole con accento sull’ultima
sillaba) es.: Vado a casa [‘va:.do] [a] [‘ka:.sa]
- [‘va:.do a ‘ka:.sa] PRONUNCIA IPERARTICOLATA
- [‘va:.do ak’ka:.sa]/[‘va:.dak’ka:.sa] PRONUNCIA IPOARTICOLATA (parlato informale)
In certi casi il raddoppiamento è arrivato ad essere rappresentato nell’ortografia (davvero, cosiddetto
ecc.).
Alfabeto fonetico internazionale: alcune convenzioni di trascrizione
●La trascrizione fonetica si pone convenzionalmente fra parentesi quadre, la trascrizione fonematica fra barre oblique.
●In IPA non si adottano le convenzioni ortografiche o interpuntive in uso nella scrittura: non si utilizzano maiuscole,
apostrofi, virgole, punti fermi, punti esclamativi, ecc.
●L’accento è indicato soltanto sulle parole plurisillabiche, con un apice posto prima della sillaba su cui esso cade; es.
cane ['kaːne], cantante [kan'tante].
●La lunghezza viene notata con due punti posti dopo il simbolo del fono. In italiano sono tendenzialmente lunghe le
vocali toniche in sillaba aperta (cfr. § 2.3.3); es. ['kaːne]. Sono brevi tutte le vocali atone e le vocali toniche in sillaba
chiusa, es. [kan'tante], o nelle parole ossitone, es. cantò [kan'tɔ]. Un solo puntino (triangolare) in basso indica fono
semilungo.
●Le consonanti ‘doppie’ (o ‘geminate’) si possono rendere in due modi, che corrispondono a due interpretazioni diverse
dello statuto fonologico del fenomeno (cfr. § 2.2.3): o raddoppiando il simbolo corrispondente, es. bocca ['bokka]; o con
due punti posti dopo il simbolo, es. ['bokːa].
●Le consonanti affricate ‘doppie’ si possono rendere in due modi: o ripetendo il solo simbolo della parte occlusiva, cioè
il primo simbolo del digramma, es. pazzo ['pattso]; o con due punti posti dopo il simbolo della parte occlusiva, es.
['patːso].
●Quando la vocale tonica è preceduta da consonanti ‘doppie’, l’accento si può rendere in due modi: o con un apice
posto tra il primo e il secondo simbolo consonantico, nel caso di notazioni del genere di [kk] o [tts], es. boccone
[bok'koːne], tazzina [tat'tsiːna]; o con un apice posto prima del simbolo consonantico che è seguito da due punti, nel
caso di notazioni del tipo di [k:] o [tːs], es. [bo'kːoːne], [ta'tːsiːna].
●Quando sia necessario rappresentare in trascrizione IPA la costituzione sillabica di una parola, vale a dire la sua
divisione in sillabe, si può usare un puntino tondo a ogni confine di sillaba: ['al.be.ro], [staŋ.'kar.si], [aj.'wɔː.la] o
[a.'jwɔː.la].

2.2.4 Sillabe e fatti fonotattici


Un ruolo importante nella costituzione delle parole di una lingua è quello è quello svolto dalle combinazioni
minime di fonemi che funzionano come unità pronunciabili per costruire la forma fonica delle parole, cioè le
sillabe. In italiano e nella maggioranza delle lingue una sillaba è costruita intorno a una vocale (almeno una,
e non più di una), che ne costituisce il nucleo (apice), il picco sonoro; la parte che precede la vocale è detta
attacco, la parte che eventualmente la segue prende il nome di coda. [In certe lingue può essere nucleo
anche una consonante come r, l, n, sloveno]
In italiano la struttura sillabica canonica è CV (C: consonante, V: vocale) es.: [‘ma:no]. Piuttosto comuni
sono anche le strutture: V [‘a:pe], VC [‘al.to], CCV [‘sti:le], CVC [‘kan.to], CCCV [‘stra:no]. Le sillabe con
coda (terminano con consonante) si definiscono “chiuse” (CVC), quelle senza (terminano con vocale)
“aperte” (CV).
In recenti teorie fonologiche nucleo e coda insieme costituiscono la “rima”, che determina il “peso” di una
sillaba. È detta “pesante” una sillaba che abbia una coda o che abbia come nucleo una vocale lunga, negli
altri casi è “leggera”.
Una combinazione di fonemi, che può fungere sia da sillaba a sé stante, sia far parte di una sillaba più
grande, è il dittongo. È la combinazione di un’approssimante e una vocale, es.: [‘pjɛ:.no]. Se la seguenza è
V+appr ˃ dittongo discendente, se appr+V ˃ dittongo ascendente. Si possono dare anche combinazione di
due approssimanti più vocale: si avrà allora un trittongo come, per esempio, in aiuola [a’jwɔ:la].

2.3 Fatti prosodici (o soprasegmentali)


Vi è una serie di fenomeni fonologici e fonetici che riguardano la catena parlata nella sua successione
lineare, i quali sono detti tratti prosodici (da prosodia dal gr. prós + ôdé «verso il canto») perché riguardano
l'aspetto melodico e l'andamento ritmico della catena parlata, o soprasegmentali, perché agiscono al di sopra
del singolo segmento minimo.
I tratti prosodici fondamentali sono: ACCENTO, TONO E INTONAZIONE e LUNGHEZZA.

2.3.1 Accento
L’accento è la particolare forza o intensità di pronuncia di una sillaba (tonica) relativamente ad altre sillabe
(atone). In italiano l’accento è dipendente dalla forza con cui sono pronunciate le sillabe, grazie a un
aumento di volume della voce, contemporaneo a una durata maggiore.
Oltre all’accento come tratto prosodico, esiste in italiano anche l’accento grafico, un segno diacritico
impiegato per diversi scopi come per indicare nella grafia la posizione dell’accento fonico nelle parole
ossitone (città, caffè…).
La posizione dell’accento, ovvero la posizione della sillaba su cui cade l’accento, può essere libera o fissa.
In alcune lingue è tendenzialmente fissa (es.: francese o turco), in altre libera.
In italiano l’accento è tipicamente libero; in base alla posizione dell’accento una parola può essere:
- tronca (o ossitona): cade sull’ultima [kwali’ta]
- piana (o parossitona): cade sulla penultima [pja’ʃte:re]
- sdrucciola (o proparossitona): cade sulla terzultima sillaba [‘ta.vo.lo]
- bisdrucciola: cade sulla quartultima sillaba [‘ka:pi.ta.no]
- trisdrucciola (solo per parole composte con pronomi clitici): quintultima sillaba [‘fab.bri.ka.me.lo]
[si chiamano clitici quegli elementi che nella catena fonica non possono non hanno accento proprio e
devono “appoggiarsi” ad un’altra parola]
In italiano, come in inglese, l’accento interviene a differenziare parole diverse a seconda della sua posizione:
es.: [‘ka:pitano] verbo capitare e [kapi’ta:no] nome, ing. [‘impɔ:t] nome importazione e [im’po:t] verbo
importare.
L'accento è anche un elemento centrale nella strutturazione prosodiaca dell'enunciato. La successione nella
catena parlata di sillabe toniche e atone dal luogo al ritmo. Ogni lingua ha un proprio ritmo particolare.
Dal punto di vista fonologico, viene riconosciuta come unità ritmica di base il cosiddetto piede, che è
l'associazione di una sillaba forte e una sillaba debole.

2.3.2 Tono e intonazione


I fenomeni di tonalità e intonazione riguardano l’altezza musicale (ingl. pitch) con cui le sillabe sono
pronunciate e la curva melodica a cui la loro successione dà luogo. Il tono è l’altezza relativa di pronuncia di
una sillaba. In molte lingue, dette lingue tonali (o a toni), il tono può avere valore distintivo a livello di
parola es.: cinese mandarino, [ma] tono alto costante “madre” – tono alto ascendente “canapa, lino” – tono
basso discendente-ascendente “cavallo” – tono alto discendente “gridare”.
L’intonazione è invece l’andamento melodico con cui è pronunciata una frase o un intero gruppo tonale (la
parte di una sequenza o catena parlata pronunciata con una sola emissione di voce).
In italiano le intonazioni fondamentali sono:
- ascendente (domanda)
- costante (enunciato dichiarativo)
- discendente (esclamazione)

2.3.3 Lunghezza
La lunghezza riguarda l’estensione temporale con cui sono prodotti i foni e le sillabe; può avere valore
distintivo sia per le consonanti che per le vocali.
In italiano, la quantità, o durata o lunghezza, delle consonanti ha valore distintivo solo se supponiamo che le
consonanti che possono essere sia semplici che doppie realizzino un’opposizione di durata (per le vocali non
è comunque pertinente).

CAP. 3 Morfologia
3.1 Parole e morfemi
L’ambito di azione della morfologia (dal greco morphé “forma” + logía “studio”) è la struttura della parola.
La parola è la minima combinazione di elementi dotati di significato (i morfemi) costruita spesso (ma non
sempre) attorno ad una base lessicale. Fra i criteri che ne permettono una definizione e individuazione più
precisa, vi sono:
a) Rigidità dell’ordine dei morfemi costituenti (gatt-o non può essere *o-gatt)
b) I confini di parola sono punti di pausa potenziale nel discorso
c) Separabilità nella scrittura
d) Unitarietà fonetica, un solo accento primario
Provando a scomporre parole, appartenenti alla prima articolazione, avremo i morfemi. Un morfema (o
monema in linguistica europea) è l’unità minima di prima articolazione, il più piccolo pezzo significante di
una lingua portatore di significato proprio (es. dentale = dent-, -al-, -e). Si può anche dire che un morfema è
la minima associazione di un significante e un significato.
Es.: inagibile [in[[[agire]+ibil]+e]] – parentesizzazione (scomposizione in morfemi)
Come per la fonologia, in morfologia c’è la distinzione tra morfema, morfo e allomorfo.
Il morfema è l’unità pertinente a livello di sistema. Il morfo è un morfema inteso come forma, dal punto di
vista del significante, prima e indipendente dalla sua analisi funzionale e strutturale (es.: in gatt-o, il morfo -o
è portatore di due morfemi “maschile” e “singolare”).
L’allomorfo è la variante formale di un morfema, cioè è ciascuna delle forme diverse in cui può presentarsi
un morfema, stesso significato e stessa posizione (es.: il morfema ven- di venire presenta quattro allomorfi
venn-, veng-, vien-, ver-).
Le cause di allomorfia risiedono nella diacronia, per i mutamenti fonetici e la trasmissione delle parole nel
tempo. Per parlare di allomorfia occorre una certa somiglianza fonetica tra i diversi morfi che realizzano lo
stesso morfema. In- di inutile e il- di illecito non sono altro che allomorfi dello stesso morfema, il prefisso di
negazione in-: davanti a una vocale la [n] rimane invariata, davanti a consonanti laterali, vibranti e nasali
viene assimilata.
Esistono rari casi in cui un morfema lessicale in certe parole derivate viene sostituito da un morfema con
forma completamente diversa ma con stesso significato, per es. nel nome acqua e nell’aggettivo idrico,
acqua proviene dal latino e idrico si rifà a un’antica forma greca. Questo fenomeno è chiamato
suppletivismo.

3.2 Tipi di morfemi


Esistono due punti di vista principali per individuare diversi tipi di morfemi: la prima è la classificazione
funzionale, in base alla funzione, la seconda è una classificazione posizionale, basata sulla posizione che i
morfemi assumono all’interno di una parola.

3.2.1 Tipi funzionali di morfemi


Dal primo punto di vista, prendendo come esempio la parola dentale abbiamo dent- che reca un significato
referenziale (riferito alla realtà esterna) è un morfema lessicale, sulla cui base è costruita la “parola piena”; -
al- e -e recano un significato interno alla struttura della lingua, previsto dalla grammatica: -al- serve a
formare parole derivandole da altre già esistenti, è un morfema derivazionale, mentre -e serve ad attualizzare
una delle varie forme in cui una parola può comparire (es.: maschile, singolare), è un morfema flessionale.
Nella classificazione funzionale, quindi, la prima distinzione da fare è tra morfemi lessicali e morfemi
grammaticali, che a loro volta si suddividono in derivazionali e flessionali.
I morfemi lessicali stanno nel lessico di una lingua, formano una classe aperta continuamente arricchibile,
mentre i morfemi grammaticali stanno nella grammatica e formano una classe chiusa, non suscettibile ad
accogliere nuove entità.
Non sempre la distinzione tra morfemi lessicali e grammaticali è del tutto chiara, questo è il caso delle
cosiddette parole funzionali (articoli, pronomi personali, preposizioni, congiunzioni) che formano classi di
grammaticali chiuse ma non sono del tutto identificati come morfemi grammaticali, perché alcuni degli
elementi di queste classi di parole sono scomponibili in morfemi es.: l-o, un-o.
Una distinzione, non molto adatta per l’italiano, è quella di morfemi liberi (lessicali) e morfemi legati
(grammaticali): i secondi non possono mai comparire in isolamento ma solo legati ad altri morfemi.
La derivazione, che dà luogo a parole regolandone i processi di formazione, e la flessione, che dà luogo alle
forme di una parola regolandone il modo in cui si attualizzano nelle frasi, costituiscono i due grandi ambiti
della morfologia. Si tenga presente che la derivazione agisce sempre prima della flessione.
3.2.2 Tipi posizionali di morfemi
Dal punto di vista della posizione, i morfemi grammaticali si suddividono in classi diverse a seconda della
collocazione che assumono rispetto al morfema lessicale, o radice. Ogni morfema che si combini con una
radice è un affisso.
Esistono diversi tipi di affissi:
- Prefissi, gli affissi che stanno prima della radice, sono solo derivazionali (es.: in-utile)
- Suffissi, gli affissi che stanno dopo la radice; i suffissi con valore flessionale si chiamano desinenze
(es.: cambi-ament-o, -o desinenza)
- Infissi, gli affissi inseriti all’interno della radice (es.: cant-icchi-are)
- Circonfissi, affissi che sono formati da due parti, una prima della radice, l’altra dopo (es.: ted. ge__t
come in ge-sag-t “detto”)
- Transfissi (o confissi), gli affissi che si incastrano alternativamente dentro la radice (es.: arabo ktb –
k-i-t-a-b “libro”)

3.2.2 Altri tipi di morfemi


- Sostitutivi: morfemi i cui morfi non sono isolabili segmentalmente, si manifestano con sostituzione
di un fono a un altro fono, si tratta di mutamenti della radice quindi da essa sono inseparabili (es.:
ingl. foot “piede” e feet “piedi”)
- Zero (o morfo zero): per esempio i plurali invariabili, una distinzione obbligatoriamente marcata
nella grammatica non è rappresentata nel significante (es.: inglese di “pecora/pecore” sheep
SG/sheep PL)
- Soprasegmentali: un determinato valore morfologico si manifesta attraverso un tratto
soprasegmentale (come l’accento, il tono) (es.: diversa distribuzione dell’accento in coppie di parole
inglesi come import)
- Processi morfologici: certi valori morfologici in alcune lingue sono affidati a processi, non
riducibili a specifici morfemi segmentali (es.: reduplicazione, ripetizione della radice lessicale, come
in indonesiano anak “bambino” e anak-anak “bambini”)
- Cumulativi (fr. morfemi portmanteau): spesso i morfemi grammaticali recano contemporaneamente
più di un significato o valore (es.: in bell-e, {e} sta per femminile e plurale)
La casse flessionale raggruppa tutte le parole le cui forme flesse si organizzano secondo uno stesso schema:
lo sono le coniugazioni verbali, le declinazioni nelle lingue con casi ecc.
Per superare alcuni problemi come quelli connessi all’allomorfia delle radici lessicali, alcuni linguisti hanno
introdotto una nuova entità, il morfoma. Tale entità sarebbe rappresentata unicamente da una regolarità
strutturale astratta, o schema, ricorrente all’interno di paradigmi morfologici.
Un caso particolare di morfema cumulativo è l’amalgama: cioè quando vi è la fusione di due morfemi in
maniera tale che nel morfema risultante non è possibile distinguere i due morfemi all’origine (es.: fran. Au
“il” formato da a + le).
3.3 Derivazione e formazione delle parole
I morfemi derivazionali mutano il significato della base cui si applicano, aggiungendo nuova informazione,
modificando la classe di appartenenza della parola e la sua funzione semantica, o sfumandone il senso: es. in
dormitorio (derivata di dormire) viene aggiunto il significato di “luogo in cui si fa”.
I morfemi permettono, attraverso processi principalmente di prefissazione e suffissazione, la formazione di
un numero teoricamente infinito a partire da una determinata base lessicale. In ogni lingua esiste una lista
finita di moduli di derivazione che danno luogo alle famiglie di parole. Ogni famiglia è formata da tutte le
parole che derivano da una stessa radice lessicale. Per esempio socio.

Per esempio, socializzabilità, formato da cinque morfemi, può essere analizzato come segue:

Nella maggioranza delle forme verbali e deverbali si pone in italiano il problema della vocale tematica
(dormire), poiché si ritiene che abbia un suo “significato” potremmo scomporre ulteriormente -abil- in {a} e
{bil}, considerandolo così un allomorfo del suffisso oppure analizzandolo come un insieme di due morfemi.
Si ritengono entrambe le soluzioni accettabili (mangi-are/mangi-a-re). Terza opzione: quella di considerare
la vocale tematica con la radice (cambia-ment-o).
Un’altra parola da analizzare del gruppo precedente è sociologia, che sembra essere formata a prima vista da
due morfemi lessicali: soci- e log-(i-a); in realtà il morfema da considerare è socio- che è quindi una radice
lessicale ma si comporta come un prefisso attaccandosi ad un’altra radice lessicale. I morfemi di questa
natura si chiamano prefissoidi (socio-logia, crono-metro, metro-nomo, cardio-logia).
Esistono anche i suffissoidi, cioè morfemi lessicali, come le radici, che si comportano come suffissi (socio-
logia, crono-metro).
In nazionalsocialismo abbiamo un caso che sembrerebbe essere analogo a sociologia, in cui però le due
radici lessicali che coesistono mantengono entrambe il valore che avrebbero separate (socialismo nazionale),
si tratta di parole composte (capostazione, N+N, portacenere, V+N). Il procedimento di composizione è
particolarmente produttivo in tedesco: Straßenbahnhaltestelle “fermata del tram”, letteral111mente: “posto”
(Stelle) di fermata (Halt-e) della ferrovia (Bahn) della strada (Straße-n)”.
Nelle parole composte esiste il concetto di testa, il costituente che funziona da testa, assegna le proprie
caratteristiche.
- Composti endocentrici: hanno la testa al loro interno.
Come distinguiamo un composto endocentrico o esocentrico?
Domanda: “E’ un X?” – capostazione “è un capo?”
Es. pescespada – “è un pesce?” Sì
- Composti esocentrici: Non hanno la testa al loro interno - “E’ un X?” – es. butta/fuori pelle/rossa
Non vanno confuse con le parole composte in senso stretto le unità lessicali plurilessematiche
(polirematiche), costituite da sintagmi fissi che rappresentano un’unità unica di significato (gatto selvatico,
essere al verde). Possono comprendere i verbi sintagmatici/phrasal verbs (buttare giù, portare fuori), i
“binomi coordinati” (sali e tabacchi, anima e corpo, usa e getta), ed espressioni trinomiali (aglio, olio e
peperoncino; mafia, pizza e mandolino).
Una posizione intermedia fra le parole composte e le unità lessicali plurilessematiche è quella delle unità
lessicali bimembri, in cui il rapporto tra due parole non ha raggiunto la fusione delle parole composte e sono
rappresentate separatamente nello scritto (scuola guida, parola chiave).
Altri meccanismi più marginali che formano parole sono le sigle o acronimi. Sono formate dalle lettere
iniziali delle parole piene che costituiscono unità lessicali plurilessematiche, la cui pronuncia è promossa a
parola autonoma (CGIL cigielle “Confederazione Generale Italiana del Lavoro”, TG tigì “TeleGiornale”).
L’unione con accorciamento dà luogo a quelle che sono state chiamate parole macedonia (ingl. blending):
cantautore (< cantante + autore), ristobar (< ristorante + bar).
In italiano, il più importante e produttivo dei procedimenti di formazione di parola è comunque la
suffissazione. Fra i suffissi derivazionali più comuni ricordiamo:
• -zion- (con i suoi allomorfi -azion-, -izion-, -uzion-, ecc.) e -ment- (con allomorfi -iment-, -ument-,
ecc.), che formano nomi di azione o processo o risultato a partire da basi verbali, come in spedizione,
spegnimento, ecc.;
• -ier-, -a(r)i- e -tor- (e suoi allomorfi) che formano nomi di agente o di mestiere a partire da basi
nominali o verbali, come in barbiere, fornaio, giocatore, ecc.;
• -ità (e suoi allomorfi), che forma nomi astratti a partire da basi aggettivali, come in abilità;
• -abil- (e allomorfi), -os-, -al-, -an-, -evol-, -es-, -ic-, -ist-, che formano aggettivi (l’ultimo, anche
nomi) a partire da verbi o da nomi;
• -izz-, che forma verbi a partire da nomi o aggettivi;
• -mente (e allomorfi) che forma avverbi a partire da aggettivi; eccetera.
Si noti che spesso i suffissi derivazionali vengono designati, per semplicità, comprendendo in essi anche la
desinenza, obbligatoria in italiano, e tralasciando la vocale tematica: per cui si dice sovente, meno
tecnicamente, i suffissi -zione, -mento, -tore, eccetera.
È molto produttiva anche la prefissazione. A differenza dei suffissi i prefissi non mutano la classe
grammaticale delle parole. Fra i prefissi più comuni ricordiamo:
• in- (con vari allomorfi, causati dall’adattamento fonetico – ‘assimilazione’ (cfr. § 7.1.2) – della
consonante nasale di in con la consonante iniziale della parola a cui viene unito il prefisso: per
esempio, in + legale = illegale, con l’allomorfo il-),
• s- (come in sleale)
• dis-, con valore di negazione (o, l’ultimo, di “allontanamento”),
• ad- (ed allomorfi), con valore di “verso”, con- (e allomorfi), con valore di “insieme”,
• a- (come in amorale), con valore di “senza”,
• ri- (con l’allomorfo re-), con valore di “di nuovo”,
• anti- con valore di “anteriorità” o di “contro” (come in anticamera e antigelo rispettivamente: si tratta
naturalmente di due morfemi diversi, uno proveniente dal latino, l’altro dal greco; è un esempio di
omonimia tra morfemi).
Nella grande categoria della derivazione suffissale può essere fatto rientrare un altro procedimento
produttivo in italiano: l’alterazione. ⁠Con i suffissi alterativi si creano parole che aggiungono al significato
della base lessicale un valore generalmente valutativo, che può essere diminutivo, accrescitivo o
dispregiativo (gattino, librone, robaccia).
Nell’inventario dei morfemi derivazionali dell’italiano esistono casi di omonimia di prefissi e suffissi:
• 1in- con valore privativo e negativo = inutile, incerto, ingiusto, illegale, irrecuperabile, impossibile
ecc.
2
in- per indicare cambiamento di stato, un divenire = in-arid-ire, in-grand-ire, in- coron-are ecc.*
*Verbi parasintetici = si formano con l’aggiunta contemporanea di un prefisso e di un suffisso
• -1ino “nome di professione” = postino, imbianchino, arrotino
-2ino “diminutivo” = gattino, piattino, tavolino
Le parole derivate si possono definire in maniera da tener conto:
a) Del procedimento di derivazione
b) Della classe lessicale della base da cui derivano
c) Della classe lessicale a cui appartiene il risultato
Derivati – criteri di definizione dei derivati
Nomi deverbali: Cambiare > cambiamento, lavorare > lavorazione, spostare > spostamento
Verbi denominali: amore > amoreggiare, guerra > guerreggiare
Verbi deaggettivali: folle > folleggiare, largo > largheggiare
Nei meccanismi di formazione delle parole rientra anche il fenomeno della conversione, vale a dire coppie
di parole aventi la stessa radice lessicale ed entrambe prive di suffisso fra le quali, in termini derivazionali,
non è possibile stabilire quale sia la parola primitiva e quale la derivata (lavoro-lavorare, gioco-giocare).
Quando la coppia è costituita da un verbo e da un nome, è da assumere spesso che la base sia il verbo, di qui
la definizione di derivazione zero: giocare ˃ gioco, allacciare ˃ allaccio. Quando invece la coppia è formata
da un verbo e un aggettivo, si può intendere che il termine primitivo sia l’aggettivo.

Box 3.3 – I principali prefissi e suffissi dell’italiano


Si riportano qui di seguito i significati prevalenti di alcuni tra i più frequenti morfemi derivazionali
dell’italiano, escludendo i significati di ambito tecnico-scientifico e i suffissi alterativi.
PREFISSI
a-
negativo: “contrarietà, privazione”: +N (es. asimmetria), +Agg (es. amorale)
ad-
ingressivo (transizione da uno stato a un altro): “acquisizione di uno stato”: +V (es. accoppiare);
“avvicinamento, unione”: +V (es. abbracciare), anche con valore genericamente rafforzativo (es. accorrere);
“strumentalità”: +V (es. accoltellare)
1
anti-
locativo: “movimento in senso contrario”: +Agg (es. antiorario)
negativo: “contrarietà”: +N (es. antieroe); “opposizione”: +N (es. antifascismo), +Agg (es. anticostituzionale)
2
anti- (ante-)
locativo: “prima, davanti”: +N (es. antibagno), +Agg (es. antesignano), +V (es. anteporre)
temporale: “prima”: +N (es. antipasto, anteguerra), +Agg (es. antidiluviano, antebellico), +V (es. anticipare)
con- (co-)
comitativo: “unione, partecipazione, simultaneità, uguaglianza”: +N (es. concausa, cofondatore), +V (es.
compatire, coabitare), +Agg (es. connaturale, cobelligerante)
dis-
negativo: “contrarietà”: +Agg (es. disumano), +V (es. disobbedire); “privazione”: +N (es. disaccordo), +V (es.
dissanguare)
“separazione, allontanamento”: +V (es. disgiungere)
reversivo: “ristabilimento delle condizioni precedenti un’azione, riporto a uno stato precedente”: +V (es.
disfare)
1
in-
ingressivo: “acquisizione di uno stato”: +V (es. innervosire); “avvicinamento, inserimento”: +V (es. invadere,
imbucare); “strumentalità”: + V (es. imbullonare)
2
in-
negativo: “contrarietà”: +N (es. insuccesso), +Agg (es. incapace); “privazione”: +N (es. inesperienza), +Agg
(es. inaffidabile)
pre-
temporale: “prima”: +N (es.: preallarme), +Agg (es.: prescientifico), +V (es.: prevedere)
locativo: “davanti, prima”: +V (es.: precedere)
intensivo: +V (es.: preoccupare)
re-/ri-
locativo: “movimento in senso contrario”: +V (es. respingere, ridare)
reversivo: “riporto a uno stato precedente”: +V (es. riabilitare, reintegrare)
iterativo: “ripetizione”: +V (es. rifare, reinvestire), anche con valore intensificativo (es. ripulire)
s-
ingressivo: “acquisizione di uno stato”: +V (es. scaldare), anche con valore intensificativo (es. svuotare);
“strumentalità”: +V (es. sforbiciare)
negativo: “contrarietà”: +Agg (es. scomodo); “privazione”: +N (es. sfortuna), +V (es. smascherare), anche con
valore peggiorativo (es. sragionare)
“separazione, allontanamento”: +V (es. scarcerare)
reversivo: “riporto a uno stato precedente”: +V (es. sbloccare)
SUFFISSI
-aggi-
nominale deverbale (V→N): “attività, operazione relativa a V” (es. pattinaggio, lavaggio);
nominale denominale (N→N): “attività tipica di N” (es. crumiraggio, sciacallaggio); “insieme di N” (es.
tendaggio)
aggettivale denominale (N→Agg): “tipico di N” (es. selvaggio)
-a(r)i-
nominale denominale (N→N): “persona che svolge un’attività relativa a N” (es. orologiaio, giornalaio, ferraio,
bancario); “persona che ha comportamenti abituali caratterizzati da o favorevoli a N” (es. buongustaio), anche
in senso metaforico (es. pantofolaio); “relativo a N” (es. sanitario); “luogo di N” (es. formicaio, ghiacciaio,
letamaio)
-al- (-ar-)
aggettivale denominale (N→Agg): “relativo a N” (es. grammaticale, equatoriale, floreale, intellettuale, solare);
“che ha caratteristiche tipiche di N” (es. gesto teatrale)
-(i)an-
aggettivale denominale (N→Agg): “relativo a N” (es. repubblicano, africano, shakespeariano); “che ha
caratteristiche tipiche di N” (es. gesto cristiano)
–anz- (-enz-)
nominale deverbale (V→N): “presenza della proprietà espressa da V” (es.: abbondanza, obbedienza)
nominale deaggettivale (Agg→N): “presenza della proprietà espressa da Agg” (es.: lontananza, avvenenza)
-at- (m.)
nominale denominale (N →N): “carica, condizione di N”: (es. papato, celibato); “ambito, territorio, sede di N”
(es. califfato, commissariato); “attività di N” (es. volontariato); “insieme di N” (es. elettorato);
aggettivale denominale (N→Agg): “somigliante a N” (es. vellutato); “che ha N” (es. mansardato, fortunato)
-at- (f.)
nominale denominale (N→N): “colpo dato con N” (es. manata); “colpo di N” (es. cannonata); “movimento
(brusco) di N” (es. occhiata, pennellata); “atto tipico di N” (es. stupidata); “quantità che può essere contenuta
in N” (es. cucchiaiata); “attività o avvenimento relativi a N” (es. tombolata, fiaccolata); “serie di N” (es.
scalinata); “cibo a base di N” (es. peperonata); “durata di N” (es. nottata)
nominale deverbale (V→N): “(singolo) atto di V” (es. scivolata)
-(a/i/u)bil-
aggettivale deverbale (V→Agg): “che può essere PP” (PP di V; es. percorribile), nel senso di “che è in grado di
essere PP” e/o “che è permesso V”; anche col significato di “che va PP” (es. pagabile entro la settimana)
aggettivale denominale (N→Agg): “che può essere in N” (es. futuribile), “che può stare in N” (es. tascabile),
ecc.
-eggi-
verbale denominale (N→V): “essere, fare (come) N” (es. tiranneggiare, pavoneggiare); “fare N” (es.
danneggiare); “mettere in (a, su) N” (es. posteggiare); “stare in (a, su) N” (es. troneggiare); “svolgere
un’attività con N” (es. arpeggiare); “(far) diventare N” (es. sunteggiare)
-erì-
nominale denominale (N→N): “luogo in cui si vende N” (es. salumeria); “luogo in cui si fa N” (es.
grissineria); “insieme di N” (es. argenteria); “l’atto tipico di N” (es. diavoleria); “che ha caratteristiche tipiche
di N” (es. porcheria)
nominale deaggettivale (Agg→N): “l’essere Agg”, connotato negativamente (es. cialtroneria)
nominale deverbale (V→N): “l’atto di V” (es. millanteria); “luogo in cui si V” (es. fonderia)
-es-
aggettivale denominale (N→Agg): “di N” (come aggettivo etnico: es. viennese, pugliese, francese); “gergo di
N” (es. sindacalese, burocratese, computerese)
-evol-
aggettivale deverbale (V→Agg): “che è in grado di V” (es. girevole); “che va PP” (PP di V; es. deplorevole);
“che V” (es. ingannevole); “che abitualmente V” (es. arrendevole)
aggettivale denominale (N→Agg): “che dà N” (es. confortevole); “che è a N” (es. favorevole); “che è dotato di
N” (es. ragionevole), ecc.
-ezz-
nominale deaggettivale (Agg→N): “l’essere Agg (disposizione umana)” (es. tristezza); “l’essere Agg (giudizio
estetico)” (es. elaboratezza); “l’essere Agg (stato)” (es. separatezza)
nominale denominale (N→N): “che è tipico di N” (es. prodezza)
-ic-
aggettivale denominale (N→Agg): “relativo a N” (es. nordico); “pieno di N” (es. euforico); “che ha N” (es.
diabetico); “che contiene N” (es. alcolico); “che dà (ispira, provoca, denota) N” (es. simpatico)
-ier-
nominale denominale (N→N): “persona che svolge un’attività relativa a N” (es. petroliere, cioccolatiere,
doganiere, banchiere); “luogo di N” (es. polveriera); “strumento, macchinario, apparecchio relativo a N” (es.
caffettiera, mattoniera, pulsantiera).
aggettivale denominale (Agg→N): “relativo a N” (es. petroliero)
-ific-
verbale denominale (N→V): “fare (mettere, produrre) N” (es. cornificare, panificare)
verbale deaggettivale (Agg→V): “rendere (più) Agg” (es. intensificare)
-in-
nominale denominale (N→N): “persona che svolge un’attività relativa a N” (es. postino) “seguace, sostenitore
di N (personaggi, organizzazioni, movimenti)” (es. garibaldino, cigiellino, sessantottino)
nominale deverbale (V→N): “persona addetta a V” (es. attacchino); “strumento per V” (es. cancellino)
-ism-
nominale deaggettivale (Agg→N), nominale denominale (N→N), nominale deverbale (V→N): “dottrina,
tendenza, movimento, atteggiamento, insieme di attività attinenti a Agg, N, V (es. socialismo, giornalismo,
alpinismo, futurismo, pessimismo, dirigismo)
-ist-
nominale denominale (N→N),
aggettivale denominale (N→Agg): “persona che svolge un’attività relativa a N” (es. giornalista, nutrizionista);
“seguace, sostenitore di N (ideologie, movimenti)” (es. marxista, animalista); “persona che ha comportamenti
abituali caratterizzati da N” (es. consumista)
-ità (-età)
nominale deaggettivale (Agg→N): “l’essere Agg” (es. brevità); “relativo all’essere Agg” (es. sanità); “quantità,
numero o frequenza di N” (dove N è la radice di Agg, es. salinità, mortalità, scolarità); “attitudine/facoltà di N”
(N radice di Agg; es. gestualità, decisionalità); ecc.
-izz-
verbale denominale (N→V): “(far) diventare N” (es. categorizzare); “(far) diventare come N” (demonizzare,
stalinizzare); “fare N” (es. neologizzare); “mettere N” (es. semaforizzare); “mettere in (a, su) N” (es.
ghettizzare)
verbale deaggettivale (Agg→V): “(far) diventare (più) Agg” (es. normalizzare, acutizzare)
-(a/i/u)ment-
nominale deverbale (V→N): “l’atto di V” (es. insegnamento); “il risultato di V” (es. miglioramento); “il modo
di V” (es. portamento), ecc.
-mente
avverbiale deaggettivale (Agg→Avv): “in modo Agg” (es. chiaramente); “in una posizione Agg” (es.
centralmente); “a intervalli di un(a) N” (dove N è la radice di Agg, es. settimanalmente); “da un punto di vista
Agg” (es. biologicamente); “in un periodo Agg” (es. inizialmente), ecc.
-on-
nominale denominale (N→N): “caratterizzato da N vistoso/i, inconsueto/i, o da un legame esagerato,
inopportuno, con N” (es. baffone, mammone); “che ha caratteristiche tipiche di N” (es. volpone)
nominale deverbale (V→N): “che V esageratamente” (es. mangione)
-os-
aggettivale denominale (N→Agg): “dotato di N” (es. muscoloso); “pieno di N” (es. rumoroso); “relativo a N”
(es. fenomeno luminoso); “simile a N” (es. gelatinoso); “che ha N” (es. coraggioso); “che fa N” (es. pauroso);
“che dà N” (es. affannoso); “incline a N” (es. iroso)
-(a/i/u)(t)iv-
nominale deverbale (V→N): “capacità di V” (es. attrattiva); “attività o atto di V” (trattativa, tentativo)
aggettivale deverbale (V→Agg): “che (serve a) V” (es. abrogativo); “relativo all’atto di V” (es. digestivo)
aggettivale denominale (N→Agg): “relativo a N” (es. televisivo)
-(a/i/u)tor-
nominale deverbale (V→N): “colui che professionalmente V” (es. educatore); “colui che abitualmente V” (es.
fumatore); “colui che sta V-ando o ha V-ato” (es. rapitore); eccezionalmente, “strumento che V” (es.
condizionatore).
-(a/i/u)(t)o(r)i-
nominale deverbale (V→N): “stumento per V” (es. annaffiatoio); “luogo in cui si V” (es. osservatorio,
scorciatoia);
aggettivale deverbale (V→Agg): “che (serve a) V” (es. liberatorio, propiziatorio); “relativo all’atto di V” (es.
circolatorio)
-(a/i/u)tric-
nominale deverbale (V→N): “strumento che V” (es. lavatrice); “colei che V” (es. massaggiatrice).
-(a/i/u)tur-
nominale deverbale (V→N): “l’attività di V” (es. blindatura); “il risultato di V” (es. cancellatura); “lo stato di
essere PP” (PP di V; es. apertura); “il modo di V” (es. andatura), ecc.
-(a/i/u)zion-
nominale deverbale (V→N): “l’atto di V” (es. comunicazione); “il risultato di V” (es. espressione); “lo stato di
essere PP” (PP di V; es. concentrazione); “il modo di V” (es. catalogazione), ecc.

3.4 Flessione e categorie grammaticali


I morfemi flessionali non modificano il significato della radice lessicale sui cui operano: la attualizzano nel
contesto di enunciazione, specificandone la concretizzazione.
I morfemi flessionali operano sulle classi cosiddette “variabili” di parole (nomi, verbi, aggettivi, articoli e in
parte pronomi), suscettibili di accogliere la flessione. Un determinato morfema realizza un valore di una
categoria grammaticale, è la marca di quel valore, le categorie grammaticali a loro volta danno espressione
ad alcuni significati fondamentali.
Fra le categorie grammaticali vi sono anzitutto quelle più flessionali, che riguardano il livello dei morfemi
stessi. Le categorie flessionali si distinguono in due grandi classi: quelle che operano sui nomi e quelle che
operano sui verbi.
Morfologia nominale
- Genere: marcata in italiano maschile e femminile, in altre lingue o non esiste il genere o può essere
marcato per più valori (es.: pulchra puella “bella ragazza”, pulcher puer “bel ragazzo”, pulcrhum
donum “bel dono”)
- Numero: marcata in italiano da singolare e plurale, anche qui in altre lingue possono avere più valori
come il duale e il triale ecc.
- Caso: mette in relazione la forma con la funzione sintattica (latino sei casi, tedesco quattro)
Reggenza: Il processo attraverso il quale un verbo assegna il caso al suo complemento (es.: lat. utor
“usare, servirsi” legge l’ablativo: clipeis uti “usare gli scudi”, ital. Innamorarsi DI, ingl. To feel in
love WITH)
- Grado: riguarda gli aggettivi (superlativo, comparativo) l’italiano affida alla flessione solo il
superlativo (es. bellissimo).
- Definitezza: alcune lingue marcano i nomi con morfemi appositi (il libro vs. un libro, in arabo “la
libreria” è maktabatu mentre “una libreria” è maktabatun)
- Possesso: come in turco kardesim, kardesin, per indicare “mio fratello/tuo fratello”
- ecc.
Morfologia verbale:
- Modo: esprime la modalità/maniera nella quale il parlante si pone nei confronti del contenuto
(assertiva “il treno parte”, dubitativa “il treno partirà?”, epistemica “il treno dovrebbe essere
partito”, deontica “il treno deve assolutamente partire” ed evidenziale “il treno è partito, l’ho visto
io”)
- Tempo: colloca nel tempo assoluto e relativo quanto viene detto (presente vedo)
- Aspetto: la maniera in cui vengono osservati e presentati in relazione al loro svolgimento l’azione o
ciò che è espresso dal verbo, (svolgimento) “imperfettivo” vs. (azione compiuta) “perfettivo” (es.:
vedevo vs ho visto)
- Azionalità: è nl lessico e non nella morfologia, riguarda il modo oggettivo in cui si svolge nel tempo
l’azione; importante distinzione tra i verbi “telici” (denotano azione con un punto culminante es.:
invecchiare, raggiungere) e “atelici” (senza un momento finale conclusivo es.: sapere, camminare)
- Diatesi: esprime il rapporto in cui viene rappresentata l’azione rispetto ai partecipanti (attivo,
passivo, medio)
- Persona + numero: riferisce la forma verbale al suo soggetto (1a, 2a, 3a + sing./plur.)
Categorie lessicali o parti del discorso (classi)
Categorie grammaticali a livello di parola, che classificano le parole in classi in base alla natura del
significato delle loro caratteristiche flessionali o del loro comportamento nel discorso, sono le classi di parole
o parti del discorso (sono nove).
- Nome o sostantivo: (es.: gatto, albero, felicità, Giulia ecc.)
- Aggettivo: (es.: bello, grande, pesante, giusto ecc.)
- Verbo: (es.: mangiare, dormire, leggere, pensare, lavarsi ecc.)
- Pronome: (es.: io, tu, chi, qualcuno ecc.)
- Articolo: (es.: il, la, un, una ecc.)
- Preposizione: (es.: di, per, su, davanti, secondo ecc.)
- Congiunzione: (es.: e, o, ma, mentre, perché, sebbene, quindi ecc.)
- Avverbio: (es.: bene, male, allora, domani, soltanto, dolcemente ecc.)
- Interiezione: (es.: ahi, uffa, accidenti ecc.)
- Ideofoni: (es.: slurp, sigh, zig-zag ecc.)
L’assegnazione delle parole ⁠a categorie o classi lessicali diverse avviene in base a tre criteri fondamentali:
-un criterio semantico, il tipo di significato;
-un criterio morfologico, dato dal comportamento delle parole in relazione alle categorie morfologiche
presenti in una lingua, al genere di marche che possono assumere e alla morfologia di accordo cui sono
soggette;
-un criterio distribuzionale e sintattico, dato dal contesto in cui le parole possono comparire, dalla loro
collocazione all’interno dei sintagmi e delle frasi (cfr. § 4.1 e 4.2) e dalle funzioni sintattiche che esse
possono svolgere.
Esistono delle “sovrapposizioni di categorie” tra verbo e nome, per esempio, con verbi che possono essere
sostantivati (il mangiare) o con i partitivi, le preposizioni articolate funzionano sia da preposizioni appunto
che da articoli partitivi.
La distinzione fra sintagmatico e paradigmatico è rilevante anche per distinguere due diversi modi di
funzionamento della morfologia flessionale: la flessione inerente e quella contestuale.
- La flessione inerente riguarda la marcatura a cui viene assoggettata una parola in isolamento, a
seconda della classe di appartenenza, per il solo fatto di essere selezionata nel lessico e comparire in
un messaggio. (un nome viene attualizzato come singolare o plurale).
- La flessione contestuale è quella che dipende, appunto, dal contesto: specifica una forma e seleziona
i relativi morfemi flessionali in relazione al contesto in cui la parola viene usata, dipendono dai
rapporti gerarchici che si instaurano fra le parole all’interno della frase (in italiano aggettivo e
articolo dipendono dalla forma del nome es.: una bella torta).
Più in generale, un meccanismo che opera in molte lingue è quello della marcatura di accordo, che prevede
che tutti gli elementi suscettibili di flessione prendano le marche delle categorie flessionali dell’elemento a
cui si riferiscono. In italiano è obbligatorio l’accordo fra verbo e soggetto (la barca rossa è ormeggiata) e fra
i diversi componenti di un sintagma nominale.
Parliamo di accordo per elementi del sintagma nominale e di concordanza per riferirci ai rapporti delle
forme verbali con gli elementi nominali, in particolare con il soggetto.
La barca rossa | è ormeggiata | al porto.
SN SV SP

Tipologia morfologica (vai a CAP. 6.2.1)


Distinguiamo ben quattro tipi
- Lingue isolanti
- Lingue agglutinanti
- Lingue flessive (o fusive)
- Lingue polisintetiche

CAP. 4 Sintassi
4.1 Analisi in costituenti
A differenza degli altri termini risalenti all’Ottocento (fonetica, fonologia, morfologia, semantica e
linguistica), il termine sintassi ha origini antiche risalenti all’epoca alessandrina (II, III sec. a.C.). La sintassi
(dal greco sýntaxis, da syn “insieme” e tássein “ordinare, disporre”) è il livello di analisi che si occupa della
struttura delle frasi, l’oggetto di studio è come si combinano tra loro le parole e come si organizzano in frasi.
La frase è il costrutto che fa da unità di misura per la sintassi, è l’entità linguistica che funziona come unità
comunicativa, cioè che costituisce un messaggio o blocco comunicativo autosufficiente nella
comunicazione. È identificata dal contenere una predicazione, cioè un’affermazione/l’attribuzione di una
qualità o un modo d’essere d’agire ecc. Bisogna distinguere la frase (= unità grammaticale, libera da legami
con lo spazio, il tempo, le persone) e l’enunciato (= legato a un certo parlante in un dato tempo e in un dato
luogo). Siccome normalmente il valore di predicare qualcosa è affidato ai verbi, in genere un verbo
autonomo coincide con una frase; esistono però frasi senza verbo, sono le cosiddette frasi nominali (buona,
questa torta). Quando una frase è semplice, costituita da un’unica predicazione, prende più precisamene il
nome di proposizione, unità sintattica con cui indichiamo ogni frase elementare e minima, costituita da
almeno un soggetto e da un predicato (nel caso dei verbi meteorologici anche dal solo predicato verbale).
L’unione di due o più proposizioni costituisce una “frase complessa” o “periodo”.
L’analisi della struttura delle frasi
Un primo passo per analizzare la struttura delle frasi consiste nel rendersi conto del modo i cui si
organizzano le parole che insieme costituiscono una frase. Il principio generale è la scomposizione o
segmentazione (come per fonologia e morfologia). Si scompone la frase in costituenti, negli elementi più
piccoli della frase stessa. Tale analisi, introdotta dallo strutturalismo americano degli anni Trenta e Quaranta
(l. Bloomfield), va sotto il nome di analisi in costituenti immediati: essa individua diversi sottolivelli di
analisi in rapporti gerarchici (delle frasi, dei sintagmi, delle singole entrate lessicali). [La parola è il termine
ultimo minimo di pertinenza della sintassi, a cui l’analisi in costituenti di solito si arresta]
Il metodo di rappresentazione grafica più diffuso è quello degli alberi etichettati, un albero è un grafo
costituito da nodi (sottolivello) da cui si dipartono rami. Un albero etichettato è l’indicatore sintagmatico
della frase.
Gianni legge un libro

F: frase, SN: sintagma nominale, SV: sintagma verbale, N: nome, V: verbo, Art: articolo
F domina SN e SV, SN domina ART e N (eventualmente Agg)
Mio cugino ha comprato una macchina nuova
Poss: possessivo, Det: determinante, Aus: ausiliare, PP: participio passato
“Determinante” è una categoria che può comprendere articoli e aggettivi dimostrativi, e anche altri elementi,
riconosciuti come appartenenti a una stessa classe sulla base della loro distribuzione, vale a dire del fatto
che compaiono sempre e solo nel medesimo contesto, davanti a un nome. La distribuzione quindi, l’insieme
dei contesti in cui gli elementi possono apparire nella frase, è un criterio importante per distinguere diverse
classi di elementi.
Per rappresentare la struttura interna di costruzioni non molto complesse è sufficiente la parentesizzazione
es.: una macchina nuova = ((una) (macchina nuova)); (((una)) ((macchina) (nuova)))
[ramificazione a tre solo per congiunzioni coordinanti e subordinanti es.: le ragazze | e | le signore]

4.2 Sintagmi
Il sottolivello di analisi sintattica più importante è quello dei sintagmi (o gruppi). Un sintagma è definibile
come la minima combinazione di parole che funzioni come un’unità della struttura frasale. Ogni sintagma è
costruito attorno a una testa, sulla cui base vengono classificati e da cui prendono il nome. Testa è la classe
di parole che rappresenta il minimo elemento che da solo possa costruire sintagma, funzionare da sintagma
(es.: SN ha come testa N, o un PRO).
Criteri di riconoscimento dei sintagmi (quattro)
1. Mobilita
Un gruppo di parole rappresenta un sintagma se le parole che lo costituiscono si muovono
congiuntamente in una frase.
Ogni mattina | Luigi | porta a spasso | il cane
*Ogni Luigi porta a spasso mattina il cane (agrammaticale)
Luigi porta a spasso il cane ogni mattina
2. Scissione
Un gruppo di parole rappresenta un sintagma se può essere separato dal resto della proposizione
costruendo una struttura chiamata “frase scissa”.
È …. che
È Luigi che porta a spasso il cane ogni mattina
È mio cugino che porta a spasso il cane ogni mattina
*È mio che cugino porta a spasso il cane ogni mattina
È il cane che Luigi porta a spasso ogni mattina
3. Enunciabilità in isolamento
Un gruppo di parole rappresenta un sintagma se da solo può costituire un enunciato, cioè se può
essere pronunciato in isolamento.
A: chi porta a spasso il cane ogni mattina?
B: Luigi / mio cugino (*mio)
4. Coordinabilità
Quest’ultimo criterio permette di capire quando due o più gruppi di parole rappresentino sintagmi di
uno steso tipo. Sintagmi diversi sono dello stesso tipo se possono essere coordinati.
Pietro e un suo caro amico sono partiti per le vacanze
Rapporti e gerarchia. Un requisito fondamentale per la corretta rappresentazione della struttura delle frasi
con un indicatore sintagmatico è che, rispettando la successione lineare dei costituenti (dei sintagmi), sia dato
conto degli effettivi rapporti sintattici esistenti fra essi: ogni costituente deve comparirvi al rango gerarchico
in cui interviene a contribuire al valore generale della frase. Richiedono particolare attenzione i sintagmi
preposizionali: un Sprep che segua SN non deve necessariamente essere legato al nodo SN.
Es.: (a) Gianni ha letto un libro con gran piacere (specifica il modo in cui è avvenuta l’azione, determina il
sintagma verbale), (b) Gianni ha letto un libro con la copertina blu (modifica il nome come un aggettivo, si
lega al sintagma nominale), (c) Gianni ha letto un libro per tutta la notte (si riferisce all’intero evento,
determina o modifica l’intera frase nucleare, direttamente attaccato al nodo F).

(a) (b) (c)

Quando siamo in presenza di circostanziali come nel caso degli avverbi che modificano l’intera frase, basta
spostare il circostanziale a sinistra e ripetere F come F1 (o mettere prima F1 e poi F).
Probabilmente lui è partito per Parigi

Con i SPrep esistono ambiguità di interpretazione, come nel sintagma nominale il libro delle favole di Fedro,
in cui si può intendere Fedro come autore delle favole (1), o come possessore del libro (2).

(1) (2)

4.3 Funzioni sintattiche, strutturazione delle frasi e ordine dei costituenti


4.3.1 Funzioni sintattiche
Ai sintagmi vengono associati diversi valori. Il modo in cui i costituenti si combinano tra loro per formare le
frasi dipende da principi che interagiscono tra di loro nel determinare l’ordine dei rapporti gerarchici e a
conferire alla frase la struttura sintattica con cui appare. Bisogna stabilire tre classi diverse di principi che
intervengono nel determinare il funzionamento della sintassi.
La prima classe fondamentale è quella delle funzioni sintattiche: riguardano il ruolo che i sintagmi
assumono nella struttura sintattica della frase (i sintagmi nominali possono valere da soggetto o oggetto, i
sintagmi preposizionali da oggetto indiretto o complemento ecc.).
Soggetto, predicato verbale e oggetto sono le tre funzioni sintattiche fondamentali, a cui si aggiungono i
complementi (specificazione, termine, mezzo, modo, argomento, tempo, luogo, ecc.)

4.3.2 Schemi valenziali


Le funzioni sintattiche vengono assegnate a partire da “schemi valenziali” (detti anche “strutture
argomentali”), che costituiscono l’embrione iniziale della strutturazione delle frasi.
Per enunciare una frase si parte dalla selezione di un verbo, che è associato a delle valenze (o argomenti),
cioè degli elementi che esso richiede in base al suo tipo di significato. Ogni predicato verbale stabilisce
numero e natura delle valenze richieste: ha quindi un certo schema valenziale o struttura argomentale.
I verbi possono essere distinti in:
- Zerovalenti (o avalenti): verbi metereologici o atmosferici che non hanno nessuna valenza (piovere,
nevicare)
- Monovalenti: una valenza chi (camminare, piangere)
- Bivalenti: due valenze chi, a chi (lodare, interrogare, andare)
- Trivalenti: tre valenze chi, cosa, a chi (dire, dare, spedire)
- Tetravalenti: possono avere fino a quattro valenze qualcuno, fa qualcosa, da x a y (spostare,
tradurre, vendere per un certo prezzo)
Le valenze possono essere omesse: per esempio mangiare è un verbo bivalente, ma la seconda valenza può
non essere espressa come in sto mangiando.
Sulla base degli schemi valenziali, allora, il soggetto risulterà la prima valenza del verbo e l’oggetto la
seconda (verbi transitivi).
La seconda valenza può essere anche in:
- Complementi di luogo (Gianni abita in città)
- Complemento predicativo del soggetto (Luisa sembra una regina)
- Complemento predicativo dell’oggetto (l’assemblea ha eletto Rossi presidente)
- Altri complementi (Gianni pesa novanta chili. Questo non dipende da me. Ecc.)
In una frase, oltre ai costituenti fondamentali nella struttura argomentale, esistono quelli aggiuntivi detti
circostanziali (avverbiali, aggiunti). Sono quindi costituenti che non fanno parte dello schema valenziale.
Non essendo implicati dal significato del verbo, non rientrano tra le funzioni sintattiche fondamentali, ma
aggiungono altre informazioni (Luisa cuoce la torta con pazienza).

4.3.3 Ruoli semantici (Charles Fillmore, fine anni Sessanta)


Un’altra classe dei principi per la costruzione di una frase è data da principi semantici che riguardano il
modo in cui il referente di ogni sintagma (l’entità che il sintagma indica) contribuisce e partecipa all’evento
rappresentato dalla frase. Per individuare tali funzioni, chiamate ruoli semantici (o ruoli tematici, ingl. Theta
roles) occorre dunque spostarsi dalla considerazione della frase come struttura sintattica alla considerazione
della frase come rappresentazione di un evento (un palcoscenico).
Principali ruoli tematici:
- Agente: entità animata che svolge intenzionalmente un’azione (Gianni mangia una mela)
- Paziente: entità che è coinvolta senza intervento attivo, subisce o è interessata passivamente da ciò
che accade (Gianni mangia una mela); nella grammatica generativa, si differenzia il “tema”, che è
un’entità solo toccata dall’azione (come la mela), dal paziente vero e proprio che subisce ed è
interessato (Giovanni da uno schiaffo a Paolo)
- Esperiente o sperimentatore: entità toccata, o che prova, un certo stato o processo psicologico (A
Luisa piacciono i gelati. Pietro è innamorato di Giulia. Gianni è alto.)
- Beneficiario: entità che trae beneficio dall’azione (Gianni regala un libro a Luisa)
- Strumento: entità inanimata mediante la quale avviene ciò che accade, fattore non intenzionale
(Gianni taglia la mela col coltello)
- Destinazione: entità verso cui si dirige l’attività espressa dal predicato, l’obiettivo (Luisa parte per
le vacanze/per Parigi)
- Località: entità in cui sono situati spazialmente l’azione, lo stato, il processo (Gianni abita in
campagna/ a Milano)
- Provenienza (o sorgente): entità dalla quale un’entità si muove in relazione all’attività espressa dal
verbo (Ho prelevato 100 euro dal conto corrente)
- Dimensione: entità che indica una determinata estensione nel tempo, nello spazio, nella massa ecc.
(Franco pesa novanta chili)
- Comitativo: entità che partecipa all’attività svolta dall’agente (Giuseppe è andato al mare con gli
amici)
Anche per i verbi possono essere distinti diversi ruoli semantici, come “processo” (trasformare, fiorire,
invecchiare), “azione” (correre, picchiare), “stato” (esistere), ecc.
Giuseppe picchia Paolo
Sogg. pred. Verb. Compl. Ogg. (prospettiva sintattica tradizionale)
Agente V (azione) Paziente (ruoli semantici)
_____________________________________________________________
Luca mangia un panino
Sogg. Pred. Verb. Compl. Ogg. (prospettiva sintattica tradizionale)
Agente V (azione) tema (ruoli semantici)
_____________________________________________________________
Paolo è picchiato da Giuseppe
Sogg. Pred. Verb. Compl. d’agente (prospettiva sintattica tradizionale)
Paziente V (azione) Agente (ruoli semantici)

4.3.4 Struttura pragmatico-informativa


Nel governare la strutturazione del prodotto finale della sintassi, la frase, oltre all’intervento delle valenze,
dei ruoli semantici e delle funzioni sintattiche, vi è l’organizzazione pragmatico-informativa.
Dal punto di vista del valore con cui una frase può essere usata nella comunicazione, e di ciò che il parlante
vuole fare producendola si distinguono di solito cinque tipi:
- Dichiarativa: affermazione generica che può avere più valori specifici (Luisa va a Milano)
- Interrogativa: pongono una domanda, in ital. marcata dall’intonazione e dal punto interrogativo nello
scritto (Chi viene a cena stasera?)
1. Interrogative totali o polari
Con risposta “sì/no”
2. Interrogative parziali (o aperte) o WH- (who, what, why, where, when)
Con risposta libera
- Esclamativa: esprime un’esclamazione, anch’esse marcata dall’intonazione e nella resa grafica da un
punto esclamativo (Che bella giornata!)
- Imperativa o iussiva: esprime un ordine, un’istruzione, marcata dai verbi come l’imperativo (Chiudi
subito la porta!)
- Ottativa o desiderativa: esprime un desiderio, un auspicio, marcata dal congiuntivo in posizione
iniziale, da fatti intonativi ed eventuali elementi come che, se (Potessi stare due mesi in vacanza…)
La frase è un’affermazione attorno a qualcosa. Esiste un’importante distinzione tra la parte della frase che
identifica e isola il qualcosa su cui verte l’affermazione, e la parte che rappresenta l’affermazione fatta: cioè
tra tema (o topic) e rema (o comment). Il tema è l’entità intorno a cui si predica qualcosa, “ciò di cui si
parla”, indica e isola il dominio per cui vale la predicazione. Il rema è invece la predicazione che viene fatta
a proposito del tema. [“tema” assume un nuovo significato, non è inteso come in morfologia (radice
lessicale) o nella linguistica generativa (come ruolo semantico)] Esempi: Luisa va a Milano, Ieri pioveva, Un
gatto insegue il topo, Venezia, acqua alta.
Un’opposizione ritenuta corrispondente a quella tra tema e rema è quella tra dato e nuovo, cioè tra
l’elemento da considerare noto nella frase e l’elemento portato come informazione non nota (un gatto sta
giocando nel tuo giardino, un gatto è tema ma è anche nuovo, mentre noto è il tuo giardino che fa parte del
rema).
Le quattro prospettive dell’analisi sintattica (riassunte)
1. configurazionale (Bloomfield), relativa alla struttura in costituenti immediati (Luigi corre – SN + SV)
2. sintattica, relativa alle funzioni sintattiche (Luigi corre – SOGG + PRED. VERB.)
3. semantica, relativa ai ruoli semantici (Luigi corre – agente + azione)
4. pragmatico-informativa, relativa all’articolazione tema/rema (ed eventualmente in dato/nuovo) (Luigi
corre –TEMA + REMA)
L’ordine basico dell’Italiano è SVO (frasi non marcate, normali), per ragioni stilistiche, comunicative,
quest’ordine può essere cambiato (frasi marcate che non seguono l’ordine SVO).
In italiano, i tre tipi di costruzione marcata che violano l’ordine basico sono:
- Dislocazione a sinistra (ANAFORA, “ripresa”): Una mela la mangia Luigi (spostano davanti alla
frase uno degli elementi che la costituisce, l’oggetto può coincidere con il tema)
- Dislocazione a destra (CATAFORA, anticipa): La vuoi una fetta di torta? (isolare sul fondo della
frase un costituente, riprendendolo con un clitico la)
- Frase scissa: È Luigi che mangia una mela (spezza una frase in due parti portando all’inizio della
frase un costituente, seguito da una frase (pseudo)relativa)
La frase scissa serve quindi per evidenziare un elemento della frase come dotato del maggior carico
informativo. Tale elemento svolge un’altra funzione rilevante in termini di struttura informativa della
frase: è quella di ‘focus’. Per focus si intende il punto di maggior salienza comunicativa della frase,
l’elemento su cui si concentra maggiormente l’interesse del parlante e che fornisce la massima quantità
di informazione nuova.

4.5 Oltre la frase


Lungo questo percorso alla conoscenza delle lingue, si è andati dalle unità minime prive di significato a
quelle più complesse, le frasi, che funzionano da blocchi di significato.

4.5.1 Frasi complesse


Spesso le frasi non vengono realizzate come unità isolate, ma possono combinarsi in sequenze strutturate
anche lunghe, frasi complesse o “periodi”: la sintassi del periodo, o “sintassi superiore”, o “macrosintassi”,
è un ulteriore sottolivello di analisi del sistema linguistico.
È fondamentale la distinzione classica, nell’analisi del periodo, tra coordinazione e subordinazione.
- La coordinazione: si ha quando le proposizioni vengono accostate l’una all’altra senza che vi sia un
rapporto di dipendenza
- La subordinazione: si ha quando vi è un rapporto di dipendenza fra due proposizioni, una è
gerarchicamente inferiore all’altra
Le tre principali categorie di subordinate sono:
o avverbiali (o circostanziali), modificano l’intera frase da cui dipendono – Luigi mangia una
mela perché è a dieta
o completive (o argomentali), riempiono una valenza o argomento del predicato verbale
(i) soggettive – È doveroso che tutti rispettino le leggi;
(ii) oggettive – Luigi sostiene che esistono gli UFO;
(iii) interrogativa indiretta indirette – Luigi sta pensando a come pagare le tasse
o relative, modificano un costituente nominale della frase – Questo è il libro di cui ti ho
parlato
Gli elementi che eventualmente servono per coordinare o subordinare le frasi tra loro sono chiamati
connettivi, o connettori.
Nella coordinazione i connettivi sono congiunzioni coordinanti come ma, e, o, ecc. ma anche solo la
giustapposizione delle frasi (con la virgola, “asindetiche”). La subordinazione è realizzata con congiunzioni
subordinanti come che, perché, affinché, ecc., o di modi verbali non finiti (di andare, partire, tornando,
ecc.). Le subordinate si dicono “esplicite” quando il loro verbo è finito e “implicite” quando è non finito.
Esempi di rappresentazione ad albero di frasi complesse:
La zia di Marisa ha detto che sarebbe partita per Parigi col treno notturno.

4.5.2 Testi
Al di sopra dell’unità “frase” bisogna riconoscere un altro livello di analisi della sintassi, che può essere
chiamato il livello dei “testi”. Il testo (lat. textum da textere “tessere”) è dal punto di vista linguistico,
definibile come una combinazione di frasi più il contesto in cui questa combinazione funziona da unità
comunicativa. È un insieme di frasi coerente (stesso argomento) e coeso (meccanismi morfosintattici che
assicurino la tenuta testuale).
È importante considerare anche tutto ciò che c’è intorno, è per questo che si parla di contesto e co-testo: per
“contesto” si deve intendere sia il contesto linguistico tecnicamente chiamato co-testo, vale a dire la parte
di comunicazione verbale che precede e che eventualmente segue il testo in oggetto, sia il contesto
extralinguistico, la situazione comunicativa in cui la combinazione di frasi è prodotta.
All’interno del testo si trovano delle relazioni tra i vari elementi delle frasi:
- anafore/catafore: elementi per la cui interpretazione è necessario far riferimento al contesto
linguistico, rispettivamente, precedente o seguente ̶ Ho incontrato Lucia e le ho dato le chiavi / Lo
diro a tua madre quello che hai fatto
- deissi (dal gr. deîxis, da deîknymi «indicare»): elementi per la cui interpretazione è necessario far
riferimento al contesto extralinguistico
tre tipi principali di deissi:
o personale: io, tu, egli, noi, essi
o spaziale: questo, quello; qui, lì, là, a destra, a sinistra
o temporale: oggi, ieri, domani, un anno fa, fra un mese …
o sociale: tu; lei, voi
- ellissi: omissione di elementi che sarebbero indispensabili per dare luogo a una struttura frasale
completa, e che per l’interpretazione della frase sono recuperabili dal contesto linguistico ̶ A: Dove
vai? B: A casa.
- segnali discorsivi: elementi estranei alla strutturazione sintattica della frase che esplicitano
l’articolazione interna del discorso (mantenere vivo il topic) ̶ allora, senti, come dire, cioè, no? (un
po’ come la funzione fatica)
Tipologia sintattica (vai a CAP. 6.2.2)
Lingue SOV (turco, giapponese, ungherese, persiano, ecc.)
Lingue SVO (lingue romanze, lingue slave, greco, finlandese ecc.)
Lingue VSO (lingue semitiche: arabo, ebraico classico, ecc.)
Lingue VOS
Lingue OVS
Lingue OSV (…)

CAP. 5 Semantica, lessico e pragmatica


5.1 Il significato
La semantica (dal greco semaínô “significare”) si occupa del piano del significato, è un livello di analisi
meno formalizzabile rispetto agli altri. La prima attestazione del termine semantica è piuttosto recente, dal
francese sémantique, compare nel romanzo di Michelle Bréal nel 1883 (l’unico termine più antico della
lingusitica è sintassi).
Il primo problema con cui si scontra la semantica è la definizione di significato: il significato è la parte
immateriale dei segni linguistici, mentre i suoni li ascoltiamo e i grafemi li leggiamo, il significato lo
afferriamo non con i nostri sensi ma con la mente.
Gli stoici avevano definito il significato come lekótn da lego, “ciò che è dicibile/esprimibile”.
Nella linguistica recente si sono diffuse due grandi prospettive di studio:
1. Prospettiva filosofico-logica (filosofia analitica) – sviluppata nei primi decenni del Novecento, di
tipo referenziale, il linguaggio doveva definire la realtà (la neve è bianca se e solo se la neve è
bianca)
2. Prospettiva cognitivista – vede il significato come struttura cognitiva basata sull’esperienza umana,
sul modo in cui ci rapportiamo alla realtà (molto importante la percezione: i cinque sensi)
Il significato è un concetto quindi difficile da definire e dipende dalla prospettiva che adottiamo, in linea di
massima, si possono individuare due ambiti in cui intendiamo il significato:
- Concezione referenziale, o concettuale: il significato è visto in questo caso come un concetto,
un’immagine mentale, un’idea creata dalla mente (concetto: prodotto mentale) che corrisponde a
qualcosa che esiste al di fuori della lingua [referente: entità reale o immaginaria]
- Concezione operazionale, o contestuale: il significato è visto come operazione (è correlato), è una
funzione dell’uso che facciamo dei segni (contesto d’uso), per esempio un lessema ha un significato
perché è adoperato in un certo contesto lessicale, non è un significato assoluto
In un senso molto generico è possibile definire il significato come “informazione veicolata da un segno
linguistico”. Poiché questa è una definizione molto ampia è importante stabilire alcune distinzioni fra tupi
diversi di significato. I principali sono:
1. Denotativo (o denotazione in filosofia del linguaggio): è quello inteso nel senso oggettivo, ciò che
il segno descrive e rappresenta, ha un referente (gatto: felino domestico ecc.)
Connotativo (o connotazione): significato soggettivo, connesso alle sensazioni suscitate dal segno e
dalle associazioni a cui dà luogo, non ha un referente (gatto: animale dolce, furbo, pericoloso ecc.)
2. Linguistico: è il significato che un termine ha in quanto elemento di un sistema linguistico (tu
persona alla quale mi rivolgo mentre parlo)
Sociale: è il significato che un segno può avere in relazione ai rapporti tra parlanti (tu familiarità con
il parlante, oppure da informazioni sulla collocazione sociale del parlante questo è il film che ti ho
parlato ieri competenze nella grammatica italiana piuttosto basso)
3. Lessicale: è il tipo di significato dei termini che si riferiscono a oggetti concreti o astratti, entità o
concetti della realtà esterna (parole piene) (gatto, mangiare, idea ecc.)
Grammaticale: è il tipo di significato dei termini che rappresentano concetti o rapporti interni al
sistema linguistico, alle sue categorie o strutture (parole vuote) (-o di gatto, congiunzioni,
preposizioni ecc.)
È opportuno fare distinzione tra significato vero e proprio ed “enciclopedia”, che è l’insieme delle
conoscenze (extralinguistiche) che ognuno ha (di tipo generale la terra gira intorno al sole e di tipo specifico
come per una disciplina specifica appunto); il significato fa parte del sapere linguistico, l’enciclopedia del
sapere in senso generale e senza limiti (es.: “è morbido da accarezzare”, “acchiappa i topi” ecc. non rientrano
nel significato di gatto ma di attribuzioni che dipendono dalla nostra conoscenza ed esperienza).
Altra distinzione è quella tra senso e significato: per senso (o significazione) si intende il significato
contestuale, la specificazione e concretizzazione che il contenuto di un termine assume ogni volta che viene
effettivamente usato in una produzione linguistica in un certo contesto, es.: finestra ha come significato
“apertura in una parete…” ma viene usata a seconda dei contesti con più sensi, come “apertura verso
l’esterno, oppure, uno schermo di computer”. [accezione (un modo di afferrare, un senso) = dal latino
acceptio (da accipere “prendere, afferrare”)]
I nomi propri come Milano e Antonio sono etichette, termini a referente unico, designano un individuo e
non una classe (come fanno i nomi comuni), hanno solo estensione e non intensione, cioè noi possiamo avere
conoscenze enciclopediche su un certo Antonio, ma non è possibile dire da che cosa sia costituito il suo
significato. Intensione ed estensione valgono rispettivamente (tra Seicento e Settecento, Leibniz e J. S.
Mill):
- Insieme delle proprietà che costituiscono il concetto designato da un termine, es.: le proprietà che mi
permettono di parlare di sedia
- Insieme degli individui (oggetti) a cui il termine si può applicare, es.: tutti gli oggetti denominabili
come sedia

5.2 Il lessico
Anche la semantica ha stabilito un’unità d’analisi minima fondamentale ed è il lessema. Corrisponde a una
parola considerata dal punto di vista del significato.
L’insieme dei lessemi di una lingua costituisce il lessico, che è indeterminato, non ha un termine ultimo.
Lo studio dei vari aspetti del lessico è compito della lessicologia, mentre la lessicografia è lo studio dei
metodi e della tecnica di composizione dei vocabolari e dizionari.
Il lessico è il livello di analisi più ampio della linguistica, quello più superficiale in continua evoluzione e
allo stesso tempo essenziale [differenza tra parola e termine: parole sono lessemi di uso comune, termini dal
latino terminus parole con uso ben preciso in uno specifico settore].
I comuni dizionari contengono fra i 90.000 e i 130.000 lessemi (→lemmi). Grandi repertori lessicografici: S.
Battaglia (online) è un dizionario storico; il GRADIT Grande dizionario italiano dell’uso (T. De Mauro,
1999) il più ampio è completo repertorio, conta 270.000 lessemi (→ lemmi); altro dizionario importante è il
VOLIT (Treccani).
Esiste una distinzione tra lessico produttivo e lessico recettivo:
- produttivo: sono le parole che noi effettivamente usiamo
- ricettivo: sono le parole che noi conosciamo ma non necessariamente usiamo
Si stima che il lessico posseduto da un parlante colto si aggiri mediamente attorno alle 40-50.000 unità.
Naturalmente non tutte queste unità lessicali vengono utilizzate.
Tullio de Mauro ha delineato un “vocabolario di base” cioè un nucleo centrale di lessemi che occorre con
altissima frequenza.
Per l’italiano, esso risulta costituito da meno di 7000 unità: comprende ⁠lessemi di altissima frequenza
nell’uso (circa 2000, che costituiscono il cosiddetto ‘vocabolario fondamentale’ (FO)) e altri lessemi di
frequenza relativamente alta o di alta disponibilità pratica.
FO: 2000 parole
Alto uso: +3000 parole
Vocabolario di altra disponibilità: + 2000 parole
Vocabolario comune: 50000/60000 parole
Termini specifici: riferiti a campi specifici come per esempio la medicina, l’ingegneria informatica ecc.
Uso letterario: come speme
Parole obsolete: non molto usate
Hapax legomenon: parole dette una sola volta

5.3 Rapporti di significato fra lessemi


Vari studi dimostrano che le parole tra loro presentano diverse relazioni di significato.

5.3.1 Omonimia e polisemia


• Omonimia: lessemi con stesso significante ma significati diversi non imparentati tra loro e non
derivabili l’uno dall’altro (es. 1riso «atto di ridere» e 2riso «cereale» – porta «apertura nel muro…» e
porta «3a pers. sing. dell’ind. pres. di portare);
si distinguono termini “omografi” (pesca “frutto”, pesca “pescare”) e “omofoni” (pianta/pianta
“albero”/“mappa”).
• Polisemia: lessemi con stesso significante ma significati diversi imparentati tra loro e derivabili l’uno
dall’altro (corno “protuberanza del capo di animali” / “strumento musicale a fiato”; penna “elemento
del piumaggio degli uccelli”/”strumento per scrivere”).
Enantiosemia: significati diversi dello stesso termine sono tra loro in rapporto di opposizione
(ospite “chi ospita”, “chi viene ospitato”).

5.3.2 Rapporti di similarità


Alcuni rapporti sono basati sulla compatibilità o somiglianza, vicinanza, semantica tra lessemi.
Rapporti di carattere paradigmatico
• Sinonimia: lessemi diversi aventi stesso significato (pietra/sasso, viso/volto, dono/regalo ecc.)
• Iponimia (o iperonimia): si tratta di una relazione di inclusione semantica, il significato di un
lessema rientra in un significato più ampio e generico rappresentato da un altro lessema, è un
rapporto “TIPO DI” (gatto/felino, armadio/mobile, mela/frutto ecc.)
Catene iponimiche: è possibile costruire una catena iponimica es.: siamese – gatto – felino –
mammifero – animale
• Meronimia: relazione semantica basata sul rapporto fra la parte (specifica) e il tutto, rapporto
“PARTE DI” (mese di anno, braccio di corpo)
Rapporti di carattere sintagmatico
• Solidarietà semantica: basata sulla co-occorrenza obbligatoria, o fortemente preferenziale, di un
lessema con un altro (miagolare/gatto, leccare/lingua, raffermo/pane)
• Collocazioni: combinazioni di parole che si trovano regolarmente vicine sull’asse sintagmatico, cioè
che co-occorrono spesso l’una accanto all’altra (bandire/concorso, madornale/errore)

5.3.3 Rapporti di opposizione


Mentre nei rapporti precedenti i lessemi sono sostituibili in un discorso dai lessemi con cui instaurano un
rapporto, esistono invece relazioni semantiche in cui ciò non può avvenire, dato che i significati sono opposti
(incompatibilità semantica).
• Antonimia: due lessemi di significato contrario, due estremi di una dimensione graduale
(buono/cattivo, caldo/freddo)
• Complementarità: due lessemi di cui uno è la negazione dell’altro (dimensione non graduale)
(vivo/morto, aperto/chiuso, maschio/femmina)
• Inversione: due lessemi che esprimono la stessa relazione semantica vista da due direzioni opposte
(marito/moglie, comprare/vendere, insegnante/allievo)
5.3.4 Insiemi lessicali
Oltre alle coppie è possibile individuare gruppi di lessemi che costituiscono complessi organizzati, in cui
ogni elemento è unito agli altri da rapporti di significato.
• Campo semantico: l’insieme dei lessemi che coprono le diverse sezioni di un determinato spazio
semantico (per esempio gli aggettivi di età giovane, vecchio, antico, recente, i termini di colore, i
nomi dei felini ecc.)
• Sfera semantica: ogni insieme di lessemi che abbiano in comune il riferimento a un certo ambito
semantico (per esempio, l’insieme delle parole della musica, dell’agricoltura, della scuola ecc.)
• Famiglia semantica: insieme di lessemi imparentati nel significato e nel significante, derivate da
una stessa radice lessicale (es. pace, pacare, pacatezza, ecc.).
• Gerarchia semantica: insieme in cui ogni termine è una parte determinata di un termine che
nell’insieme lo segue in una certa scala di misura (es. secondo, minuto, ora, giorno, mese, anno,
lustro, secolo).

5.4 L’analisi del significato


5.4.1 Semantica componenziale
Uno dei metodi per l’analisi del significato dei lessemi che si è dimostrato fra i più praticabili è quello
dell’analisi componenziale.
Il principio su cui si basa è del tutto simile alla scomposizione dei numeri in fattori primi in algebra, ed è
analogo a quello dell’analisi dei fonemi in tratti distintivi. Si tratta infatti di scomporre il significato dei
lessemi, comparandoli gli uni con gli altri e cercando di cogliere in che cosa differisca il loro rispettivo
significato, in pezzi o unità (‘atomi’) di significato più piccoli, più elementari e generali, tali che siano
ricorrenti nel costituire il significato di più lessemi.

In maiuscolo fra barre sono indicate le proprietà di significato necessarie e sufficienti per dar conto del
significato di ciascuno dei quattro lessemi considerati. ⁠
Esse costituiscono appunto i pezzi di significato minimi, le proprietà semantiche elementari che
combinandosi in simultaneità danno luogo al significato dei lessemi. Il loro nome tecnico è ‘componenti
semantici’ (o ‘tratti semantici’, o ‘semi’, sing. ‘sema’; da cui anche il nome di ‘analisi semica’ dato al
procedimento). Ogni lessema, secondo questo metodo, è analizzabile in (e rappresentabile come) un fascio di
componenti semantici realizzati in simultaneità: uomo = /+ UMANO + ADULTO + MASCHIO/, bambina =
/+ UMANO – ADULTO – MASCHIO/, eccetera. È convenzione scrivere in maiuscoletto i tratti o
componenti semantici e tra “ ” i significati.
Con un numero relativamente non elevato di tratti si riesce ad analizzare il significato di un numero molto
elevato di lessemi.
I tratti semantici di solito sono⁠ binari, cioè ammettono i due valori + e – (= Sì e No); ma si possono
utilizzare anche tratti non binari, a più valori.
L’analisi componenziale non è priva di problematiche: sebbene funzioni su insiemi lessicali delimitati e
indicanti cose e azioni concrete, analizzare in tratti termini astratti diventa complicato.

5.4.2 Semantica e prototipica


La semantica componenziale concepisce il significato di un lessema come costituito da un insieme di tratti
semantici categorici, tutti ugualmente necessari e sufficienti a ⁠descriverlo. Il che presuppone una concezione
particolare dei concetti, o categorie, che i lessemi rappresentano, di matrice aristotelica: presuppone cioè che
una data categoria (“albero”, “uccello”, ecc.) sia da intendersi come un’entità:
a) definita da proprietà tutte necessarie e sufficienti
b) delimitata da confini rigidamente netti
c) costituita da membri tutti ugualmente rappresentativi di quella categoria.
[Impostazione logica categoriale classica (aristotelica): CNS (condizioni necessarie e sufficienti)]
A partire da alcuni studi di psicologia cognitiva sulla natura e formazione dei concetti, si è andata formando
una concezione in contrapposizione a tale visuale. Secondo questa nuova concezione, una categoria andrebbe
piuttosto intesa come un’entità:
a) definita sia da un nucleo di proprietà di carattere categorico, necessarie e sufficienti, sia da proprietà di
carattere graduale, non essenziali
b) delimitata da confini sfumati, in sovrapposizione con quelli di altre categorie
c) costituita da membri più tipici e altri meno rappresentativi.
A questa concezione, nota come teoria dei prototipi, fa riferimento il metodo di descrizione e analisi del
significato denominato ‘semantica prototipica’.
Il significato di un lessema è concepito qui come ‘prototipo’. Il prototipo rappresenta l’immagine mentale
immediata che per i parlanti di una certa cultura e società corrisponde più tipicamente a un dato concetto,
l’immagine mentale a cui si pensa subito se non vengono fornite indicazioni ulteriori per l’identificazione
[es.: il membro più tipicamente rappresentativo della categoria “frutta” è mela]. Il prototipo occupa il punto
focale di un concetto.
Il significato di, ⁠per esempio, uccello può essere definito in analisi componenziale da un fascio di tratti come
/+ ANIMALE – MAMMIFERO + ALATO + CON PIUME/; ogni membro della categoria “uccello”, che sia
“passero”, “aquila”, “pollo” o “struzzo”, è ugualmente rappresentativo di questa categoria. In un’analisi
prototipica, invece, il significato di uccello è dato dal concetto di volatile che per un certo ambiente e una
certa cultura e società è il più tipico, viene a coincidere cioè con l’immagine prototipica di “uccello”; per la
nostra cultura, molto probabilmente, il “passero”, o magari il “piccione”. Difatti se prendessimo pipistrello a
livello d’analisi componenziale non rientra nei tratti della categoria “uccello” essendo un mammifero, ma in
analisi prototipica non è escluso dalla categoria.
In questa prospettiva, i tratti semantici in gioco vengono visti non come tutti necessari e sufficienti e di
uguale importanza nel determinare il significato di un lessema, bensì come dotati di un diverso
potere identificativo e disposti in gerarchia di ⁠importanza. Alcuni tratti rappresentano criteri necessari a
definire l’appartenenza a una data categoria, e devono perciò essere condivisi da tutti i suoi membri; altri
invece, non essenziali a decretare l’appartenenza categoriale, sono posseduti in numero diverso dai vari
membri non prototipici.
Si parla di un modello radiale: membro più rappresentativo (prototipo) centrale, è uno schema aperto, il
posto della categoria è dato dal grado di vicinanza rispetto al prototipo.
Nonostante sia un modello più efficace d’analisi, risulta comunque adatto solo per le cose concrete.
[– La differenza sostanziale tra i tratti semantici tratti semantici tratti semantici della semantica componenziale e le
proprietà tipiche proprietà tipiche proprietà tipiche della semantica dei prototipi e dunque la seguente:
– i tratti semantici dell’analisi semica sono condizioni necessarie e sufficienti per l’appartenenza alla categoria,
– le proprietà tipiche sono la misura della somiglianza delle entità alla categoria che non ne esclude però l’appartenenza
in caso di somiglianza non perfettamente conforme]

5.4.3 Cenni di semantica frasale


È opportuno introdurre alcuni concetti che riguardano il significato globale delle frasi.
Enunciato: una frase considerata dal punto di vista del suo concreto impiego in una situazione
comunicativa (Vieni al cinema? Si. Non è necessario ripetere l’intera frase)
Elementi cruciali per l’interpretazione del valore degli enunciati:
Connettivi: per esempio congiunzioni coordinanti e subordinanti, operatori logici
Funzionano da operatori logici anche:
Quantificatori: tutti, nessuno, qualche, ecc.
Negazione: (non) per cui la trattazione occorrerebbe rifarsi, appunto, alla logica

5.5 Elementi di pragmatica


Un aspetto del significato degli enunciati è quello pragmatico [pragmatica: conditio sine qua non ci sia
comunicazione, studia il rapporto tra i segni e i loro utenti,1838, Charles Morris], che chiama in causa
direttamente l’intenzione del parlante. In questa visuale la lingua è studiata come modo d’agire, e non più
come sistema di comunicazione o come riflessione verbale del pensiero. Gli enunciati prodotti costituiscono
degli atti linguistici (speech acts, J. Austin), che costituiscono l’unità di base dell’analisi pragmatica.
Produrre un enunciato equivale a compiere tre atti in uno:
a. Atto locutivo (locutorio), formare una frase in una data lingua, con la sua struttura fonetica,
grammaticale, ecc. (Gianni scappa SN + SV, con un suo significato denotativo ecc.)
b. Atto illocutivo (illocutorio), l’intenzione con cui si produce una frase (Gianni corre nel suo valore
di “dare un’informazione”)
c. Atto perlocutivo (perlocutorio), l’effetto che si vuole provocare nel destinatario del messaggio [non
basta decodificare, bisogna cogliere l’intenzione] (Giani corre può avere l’effetto di “allarme alla
polizia”, “richiesta di soccorso”)
Verbi performativi (to perform), prima persona singolare o plurale del presente indicativo: compiono (essi
stessi) un’azione, un atto (promettere, autorizzare, battezzare ecc.)
Significato implicito (non detto)
A: andiamo al cinema stasera?
B: ho mal di testa (no. MIND READING)
Oltre ad Austin, un altro autore importante della pragmatica è Paul Grice, che identifica il principio di
cooperazione nella comunicazione, cioè: “conforma il tuo contributo a quanto richiesto, nel momenti in cui
avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato”.
Questo principio è articolato in quattro massime:
1. Massima della quantità, dare un contributo tanto informativo quanto richiesto
2. Massima della qualità, dare un contributo che sia vero
3. Massima della relazione, sii pertinente
4. Massima del modo, esprimersi chiaramente evitando confusione, ambiguità, prolissità
La presupposizione è quel qualcosa che noi assumiamo come vero e noto all’ascoltatore, è il tipo più
rilevante di significato “non detto” (Gianni ha smesso di fumare, presuppone che prima fumasse)

CAP. 6 Le lingue del mondo


6.1 Le lingue del mondo
Le lingue storico-naturali che rappresentano la realizzazione della facoltà del linguaggio presso le diverse
comunità oggi presenti nel mondo sono numerose. Il sito www.ethnologue.com, “Languages of the world”,
del Summer Institute of Linguistics di Dallas (USA), censisce a febbraio 2021 più di 7100 lingue.
È tutt’altro che semplice stabilire se diverse parlate tra loro simili sono da considerare varietà o dialetti di
una stessa lingua (e quindi contare come una sola unità nel computo), oppure sono lingue a sé stanti (e quindi
contano come più unità).
In Italia, ad esempio, oltre alla lingua nazionale comune occorre tener conto delle lingue delle minoranze
(tedesco, francese, sloveno ecc.) [legge a tutela nel 1999] e dei dialetti (napoletano, piemontese, veneto ecc.)
italiani, che dal mero punto di vista della storia e della⁠ distanza linguistica avrebbero le carte in regola per
essere considerati sistemi linguistici a sé stanti, autonomi rispetto all’italiano e non sue semplici varietà,
anche se di solito non sono computati separatamente. Se li calcoliamo ciascuno come lingua a sé, arriviamo
già ad almeno una trentina di lingue ‘indigene’ (non di recente immigrazione) presenti in Italia, quindi si
ritengono come varietà di tipo diatopico.
Si noti anche che le lingue romanze o neolatine, derivate dal latino vengono ovviamente considerate ciascuna
una lingua a sé stante, mentre in altri gruppi linguistici sistemi con una distanza strutturale del tutto
analoga a quella fra le diverse lingue romanze vengono a volte considerati varietà della stessa lingua (è
questo, molto spesso, il caso del cinese, termine che viene volentieri usato per indicare, come se fosse
un’unica lingua, un gruppo di lingue tra loro strettamente imparentate).
Ma in base a quali criteri possiamo dire che due lingue sono diverse o sono invece due varietà della stessa
lingua (cioè dialetto)? Non esiste una sogna precisa da varcare secondo cui delle lingue sono varietà o lingue
vere e proprie.
Da un punto di vista semiotico lingue e dialetti non differiscono in nulla [dialetto: dal latino tardo dialectos
“lingua, parlare”], si distinguono da un punto di vista sociolinguistico.
Le lingue del mondo sono alcune migliaia (7100), e la maniera principale per mettere in ordine i sistemi
linguistici consiste nel raggrupparli in famiglie, secondo criteri di parentela genealogica, che si nasano sul
poter riportare le lingue ad un antenato comune (attestato storicamente o ricostruito induttivamente a partire
dalle lingue odierne).

Prendendo come esempio una tabella relativa a come si dicono i numeri 2 e 3 in una serie di lingue casuali, si
nota come possano essere raggruppate in base alla somiglianza del significante: a, b, d, e, h, j, k, l, m sono
lingue indoeuropee, c e f sono parte della famiglia uralica, e g e i che sono rispettivamente il swahili della
famiglia niger-cordofaniana e il basco lingua geologicamente isolata. Nel primo gruppo inoltre sembrano
esserci lingue più strettamente imparentate tra loro, difatti esistono dei sottolivelli della famiglia.
Il livello della famiglia rappresenta il livello più alto di parentela ricostruibile con i mezzi della linguistica
storico-comparativa. Gerarchicamente lo schema è quello di un albero: la famiglia è il tronco, ci sono i
rami, poi gruppi e sottogruppi.
Per esempio, l’italiano: ha parentela con tutte le lingue provenienti dalla comune base del latino, e con queste
costituisce il ramo delle lingue romanze (neolatine) che comprende: italiano, francese, spagnolo,
portoghese, romeno e altre lingue minori come gallego, catalano ecc. Il ramo romanzo, assieme ad altri rami
con cui le lingue romanze hanno parentela, come le lingue germaniche, le lingue slave, le lingue baltiche
ecc., forma la famiglia delle lingue indoeuropee.
Più precisamente l’italiano si può quindi classificare come: lingua del sottogruppo italo-romanzo, del gruppo
occidentale, del ramo neolatino (romanzo) della famiglia indoeuropea.
[1816 data di nascita della linguistica, Franz Bopp, in Germania (linguistica storica) scrive sulle
problematiche di classificazione delle lingue]
Gli studiosi dell’Ottocento cambiano rotta di studi e inaugurano un nuovo metodo della linguistica che si
basa su dati concreti, quello comparativo, per individuare somiglianze e differenze nel lessico nell’aspetto
fonico delle lingue (significati e significanti), nel caso dell’indoeuropeo infatti si parla di lingua ricostruita e
non attestata.
La linguistica comparativa riconosce fino a 18 famiglie linguistiche (vedi lista sotto). A queste famiglie
andrebbero aggiunte alcune decine di lingue pidgin e creole, nate dall’incontro e mescolanza di lingue tra
loro molto diverse (varietà miste di contatto). L’etimologia di pidgin si suppone sia o la parola buisness
“commercio/affari” pronunciata male, o che derivi da pidgeon “piccione” per linvio dei messaggi. I pidgin
quindi sono varietà linguistica di funzionalità ridotta con una grammatica e un inventario lessicale molto
semplificati, e la maggior parte dei pidgin è di origine europea (sono il portato della storia della
coloizzazione).
Un pidgin si sviluppa poi in creulo quando diventa lingua materna di una comunità (a partire dalla seconda
generazione), la lingua si consolida lungo le generazioni.
Fra i pidgin più noti: pisin, WAPE, ecc. Fra i creoli più noti: gamaicano, creolo haitiano, ecc.
Non esiste il monolinguismo, ogni lingua ha influenze di altre lingue.
Lingue indoeuropee
circa 140 lingue
Lingue uraliche
● 24 lingue
● lingue ugrofinniche: ungherese o magiaro, finlandese o finnico (suomi), lappone (saami), estone, ecc.; votiaco, lingue
samoiede, ecc.
Lingue altaiche
● 63 lingue
● lingue turchiche: turco, azero, tataro, casaco (kazako), uzbeco; mongolo, evenki (o tunguso);
calmucco; giapponese (nihongo), coreano, ecc. (l’appartenenza di queste ultime due lingue alla famiglia altaica è tuttavia
controversa)
Lingue caucasiche
● 38 lingue
● georgiano, àvaro, abcaso, ceceno, ecc.
Lingue dravidiche
● 28 lingue
● tamil, kannada, malayalam, telugu, ecc.
Lingue sinotibetane
● circa 300 lingue
● cinese (meglio, il gruppo di lingue cinesi: pŭtōnghuà o mandarino, cantonese, wú, xiang, ecc.), tibetano, birmano, karen, ecc.
Lingue paleosiberiane
● una quindicina di lingue
● ciukcio, camciadalo (secondo alcuni queste due lingue costituiscono un ramo autonomo che andrebbe considerato famiglia a
sé), coriaco, ecc.
Lingue austroasiatiche
● circa 150 lingue
● vietnamita, khmer (cambogiano), ecc.
Lingue kam-thai
● circa 60 lingue
● thai o thailandese (o siamese), laotiano (o lao), kam, li, ecc. (da alcuni queste lingue vengono considerate far parte con le lingue
austroasiatiche di una stessa famiglia, detta austrica)
Lingue austronesiane
● circa un migliaio di lingue
● malese-indonesiano, tagalog (o, nella forma standardizzata, pilipino), giavanese, malgascio, ilocano, sundanese, samoano,
tongano, figiano, maori, motu, hawaiano, tahitiano, ecc.
Lingue australiane
● circa 200 lingue, molte delle quali in via di estinzione
● dyirbal, warlpiri, nunggubuyu, tiwi, ecc. (le lingue australiane, parlate oggi per lo più da poche centinaia, o addirittura decine,
di parlanti ciascuna, rappresentano una delle aree linguistiche più complesse e intricate del mondo)
Lingue indo-pacifiche (anche lingue papua, o papuane)
● circa 730 lingue, per un totale di meno di 3 milioni di parlanti (lo statuto di questa famiglia linguistica è comunque controverso)
● lingue della Nuova Guinea e di isole vicine: tasmaniano (estinta), enga, iatmul, asmat, ecc. (anche quest’area linguistica è
eccezionalmente frammentata e complessa)
Lingue afro-asiatiche
● circa 240 lingue
● lingue semitiche: arabo, ebraico, maltese, tigrino, amarico, ecc.; lingue cuscitiche: somalo, galla, oromo, ecc.; lingue
ciadiche: hausa, ecc.; lingue berbere: kabilo, tuareg, tamazight, ecc.
Lingue nilo(tico)-sahariane
● circa 140 lingue
● nubiano, dinka, kanuri, luo, ecc.
Lingue niger-cordofaniane
● circa 1060 lingue (è la famiglia più numerosa, con aree in cui la distribuzione delle diverse lingue è molto intricata e
sovrapposta, e complessa da studiare)
● lingue bantu: swahili (più propriamente, kiswahili), zulu, lingala, kikongo, shona, ruanda, ecc.; yorúba, ewe, igbo, fulani,
fulfulde, bambara, ecc.
Lingue khoisan (ottentotto-boscimane)
● circa 30 lingue
● nama, sandawe, ecc.
Lingue amerindiane
● circa 610 lingue
● lingue nordamericane: eschimesi (inuit, groenlandese), aleutino (queste lingue, con alcune altre, vengono a volte considerate un
ramo indipendente, chiamato eschimo-aleutino, imparentato alla lontana con le lingue paleosiberiane); navaho, apache (assieme a
una trentina di altre lingue, queste due vengono da alcuni considerate costituire una famiglia a sé, detta na-dene); lingue
algonchine: cree, cheyenne, ojibwa; cherokee, dakota, ecc.
● lingue centroamericane: hopi, nahuatl (o azteco), yucateco (o maya), zapoteco, otomi, mohave, ecc.
● lingue sudamericane: lingue caribiche, cuna, quechua, aymarà, tupi, guaranì, arawak, ecc.
Anche le lingue amerindiane mostrano una situazione complessa e intricata, per la quale sono stati proposti raggruppamenti
diversi
Lingue isolate:
● basco, burushaski, ket, chiliaco, nahali, ainu (?)

Delle migliaia di lingue esistenti, soltanto alcune decine possono essere considerate grandi lingue, con un
numero sostanzioso di parlanti e appoggiate a una tradizione culturale di ampio prestigio.
I parlanti nativi sono coloro che apprendono la lingua nelle prime forme di socializzazione, parliamo anche
di lingua materna [Lingua materna: primissima socializzazione, nel nostro caso l’italiano
Lingua madre: la lingua da cui derivano altre lingue, prospettiva genealogica, l’indoeuropeo nel caso
dell’italiano è la lingua madre della famiglia indoeuropea].
È solo uno dei criteri con cui definiamo una lingua “grande lingua” (valutiamo l’importanza di una lingua),
gli altri sono:
• numero di paesi in cui questa è lingua ufficiale o è comunque parlata;
• uso della lingua nei rapporti internazionali, nella scienza, nella tecnica ecc.;
• importanza politica e peso economico dei paesi in cui la lingua è parlata;
• tradizione letteraria e culturale della lingua;
• insegnamento della lingua nella scuola come lingua straniera;
• numero di parlanti non nativi.
Lingue del mondo in base al numero dei parlanti nativi
1. cinese mandarino 902 (+21%)
2. hindi-urdu (India, Pakistan) 457 (+32%)
3. inglese 384 (+24%)
4. spagnolo 366 (+32%)
5. arabo 254 (+36%)
6. bengali 198 (+28%)
7. portoghese 171 (+27%)
8. russo 160 (+1,2%)
9. indonesiano-malese 157 (+33%)
10. giapponese 132 (+6,8%)
22. italiano 70 (+5,7%)
La maggior parte delle lingue del mondo 85% sono parlate da meno di 100.000 parlanti ciascuna.

In Europa sono tradizionalmente parlate lingue di cinque famiglie linguistiche diverse:


Criteri di classificazione delle lingue: oltre alle lingue indoeuropee troviamo quelle uraliche, quelle altiche,
quelle caucasiche e quelle semitiche; oltre a una lingua isolata, il basco.
LINGUE INDOEUROPEE
Ramo: lingue celtiche
GAELICO IRLANDESE
Repubblica d’Irlanda [Regno Unito: Irlanda del Nord]
ca. 100.000
flessiva, VSO
GAELICO SCOZZESE
Scozia
ca. 80.000
flessiva, VSO (cfr. irlandese e gallese); presenza di tonemi.
GALLESE
Galles [Regno Unito: Gran Bretagna]
ca. 500/600.000
flessiva, VSO (cfr. gaelico irlandese e scozzese).
BRETONE
[Francia]
ca. 700.000
flessiva, SVO
Ramo: lingue germaniche
DANESE
Danimarca, Far Ør, Islanda
ca. 5.200.000
flessiva, SVO
SVEDESE
Svezia [Finlandia]
ca. 8.500.000
flessiva, SVO; presenza di tonemi
NORVEGESE (bokmål e nynorsk)
Norvegia
ca. 4.200.000
flessiva (ma con caratteri isolanti; tra le lingue germaniche, il danese, lo svedese, il norvegese e il feringio –
ossia tutte le lingue del gruppo scandinavo, ad eccezione dell’islandese –, oltre all’inglese, si caratterizzano,
seppure in misura diversa, per una tendenza comune all’analiticità), SVO; presenza di tonemi
ISLANDESE
Islanda
ca. 250.000
flessiva, SVO
TEDESCO
Germania, Austria, Liechtenstein, Lussemburgo [Svizzera, Belgio, Ungheria, Italia, Francia, Romania, Polonia]
ca. 100.000.000
flessiva, SVO (ma SOV nelle frasi subordinate); sistema a quattro casi (unica lingua germanica ad avere
mantenuto un sistema di casi); lunghezza vocalica con valore distintivo
NE(D)ERLANDESE (o olandese; fiammingo in Belgio)
Olanda (Paesi Bassi) [Belgio]
ca. 21.000.000
flessiva, SVO (ma con ordini diversi da subordinata a principale), lunghezza vocalica con valore distintivo
INGLESE
Regno Unito, Repubblica di Irlanda, Gibilterra, Malta
ca. 60/70.000.000 (parlanti nativi)
flessiva, ma con caratteri anche di lingua isolante (SVO, relativamente rigido)
altre: feringio, lussemburghese, frisone, yiddish.
Ramo: lingue romanze
PORTOGHESE
Portogallo
ca. 10.000.000
flessiva, SVO; inventario fonematico con 13 vocali, di cui 5 nasali; clitici mai a inizio frase
GAL(L)EGO
[Spagna]
ca. 2.500.000
flessiva, SVO
SPAGNOLO (castigliano)
Spagna, Gibilterra
ca. 46.000.000
flessiva, SVO
CATALANO
[Spagna, Francia, Italia]
ca. 8.000.000
flessiva, SVO
FRANCESE
Francia [Belgio, Svizzera, Lussemburgo, Italia]
ca. 62.000.000
flessiva (con caratteristiche isolanti nel parlato), SVO (relativamente più rigido rispetto alle altre lingue
romanze); pronomi clitici soggetto obbligatori (unica tra le lingue romanze); accento in posizione fissa, sulla
sillaba finale di parola o di sintagma (mentre ha posizione generalmente libera nelle altre lingue romanze);
inventario fonematico con 16 vocali, di cui 4 nasali
ITALIANO
Italia, San Marino, Città del Vaticano, Croazia, Slovenia, Malta [Svizzera]
ca. 57.000.000
flessiva, SVO; inventario fonematico standard particolarmente conservativo (pressoché identico a quello
trecentesco, caso eccezionale tra le lingue europee)
ROMENO
Romania, Moldavia [Ucraina, Ungheria]
ca. 20.000.000
flessiva, SVO; presenza di un sistema bicasuale; articolo determinativo in enclisi (unica tra le lingue romanze)
altre: asturiano, aragonese, occitano, francoprovenzale, còrso, romancio (lingua nazionale ma non ufficiale in
Svizzera), ladino dolomitico, friulano, sardo, dialetti italoromanzi, varietà aromune, ecc.
Ramo: lingue baltiche
LITUANO
Lituania
ca. 3.000.000
flessiva, prevalentemente SVO; lunghezza vocalica con valore distintivo, presenza di tonemi
LETTONE
Lettonia
ca. 1.500.000
flessiva, prevalentemente SVO; lunghezza vocalica con valore distintivo, presenza di tonemi
Ramo: lingue slave
POLACCO
Polonia [Lituania, Bielorussia, Ucraina]
ca. 35/40.000.000
flessiva, SVO; inventario fonematico con vocali nasali (unica tra le lingue slave)
CECO
Repubblica Ceca
ca. 12.000.000
flessiva, SVO
(ceco e slovacco sono due varietà molto vicine di una stessa lingua, che si sono rese autonome per ragioni
politiche)
SLOVACCO
Slovacchia, Repubblica Ceca
ca. 5.000.000
flessiva, SVO
(slovacco e ceco sono due varietà molto vicine di una stessa lingua, che si sono rese autonome per ragioni
politiche)
RUSSO
Russia [ex-URSS]
ca. 270.000.000 (compresi i parlanti non nativi)
flessiva, prevalentemente SVO; sistema a sei casi, inventario fonematico con 35 (o 33 o 38, a seconda delle
analisi) consonanti, di cui una quindicina di palatali, e 6 (o 5) vocali (il sistema di casi vitale, l’inventario
consonantico ricco, l’inventario vocalico povero, e le numerose opposizioni di palatalità sono caratteri generali
delle lingue slave, qui più spiccate)
UCRAINO
Ucraina, Crimea [Bielorussia, Russia]
ca. 50.000.000
flessiva, SVO
BIELORUSSO
Bielorussia [Polonia, Ucraina, Russia]
ca. 10.000.000
flessiva, SVO
SLOVENO
Slovenia [Italia]
ca. 2.500.000
flessiva, SVO
SERBO-CROATO
Serbia, Croazia, Montenegro, Bosnia Erzegovina
ca. 20.000.000
flessiva, SVO; lunghezza vocalica con valore distintivo, presenza di tonemi; sistema a sei casi (cfr. russo);
alfabeto cirillico (serbo) e alfabeto latino (croato): oggi serbo e croato si sono rese lingue autonome per ragioni
politiche
BULGARO
Bulgaria, [Grecia, Moldavia, Ucraina]
ca. 9.000.000
flessiva, SVO
MACEDONE
Macedonia [Grecia]
ca. 2.000.000
flessiva, SVO
altre: serbo bosniaco, sòrabo, casciubo, ecc.
Ramo: lingue indo-iraniche
CURDO
[Turchia]
12-14.000.000
agglutinante (con caratteri di lingua flessiva); SOV
ROMANÌ (lingua della popolazione romanì - rom, sinti e altre)
Romania, Bulgaria, Ungheria, Slovacchia, Serbia, Montenegro, Spagna, Francia, Germania, Italia (questi i
paesi europei con presenza più consistente)
ca. 3.500.000
prevalentememente agglutinante, prevalentememente SOV (caratteri tuttavia non uniformi)
Lingue indoeuropee “isolate”
(‘figlie uniche’ delle proprie lingue antenate)
GRECO (neogreco)
Grecia, Cipro [Italia, Albania]
ca. 12.000.000
flessiva, SVO; morfologia flessionale di diatesi medio-passiva, alfabeto greco
ALBANESE
Albania [Italia, Serbia, Macedonia, Montenegro, Grecia]
ca. 4.000.000
flessiva, SVO
ARMENO
[Turchia]
ca. 100.000
flessiva, SOV
LINGUE NON INDOEUROPEE
Famiglia: lingue afro-asiatiche
Ramo: lingue semitiche
MALTESE
Malta
ca. 370.000
introflessiva (unica tra le lingue non indoeuropee d’Europa, tendenzialmente agglutinanti), SVO (tra le lingue
non indoeuropee d’Europa prevale invece SOV); alfabeto latino (unica tra le lingue semitiche); molto lessico di
provenienza romanza
Famiglia: lingue uraliche
Ramo: lingue ugro-finniche
UNGHERESE (o magiaro)
Ungheria [Slovacchia, Romania, Ucraina]
ca. 14.000.000
agglutinante, tipo misto SOV/SVO; inventario fonematico con 15 vocali (l’inventario vocalico ricco è una
caratteristica generale delle lingue ugro-finniche; cfr. finnico); sistema con più di 20 casi; coniugazione
soggettiva e coniugazione oggettiva
FINNICO (o finlandese, o suomi)
Finlandia [Russia, Svezia]
ca. 5.500.000 parlanti
prevalentemente agglutinante e SVO;
sistema di casi complesso per le numerose classi di declinazione; inventario fonematico con 16 vocali (cfr.
ungherese); lunghezza sia vocalica sia consonantica con funzione distintiva
ESTONE
Estonia
ca. 1.500.000
prevalentemente flessiva (con casi di flessione interna che lo avvicinano al tipo introflessivo), SVO
altre: lappone, mordvino, ceremisso, votiaco, sirieno, ostiaco, vogulo, ecc.
Famiglia: lingue altaiche
Ramo: lingue turchiche
TURCO (turco osmanli o ottomano)
Turchia, Cipro del Nord [Bulgaria, Grecia]
ca. 50.000.000
agglutinante, SOV
TATARO
Tataria [Russia]
ca. 6/7.000.000
agglutinante, SOV
altre: ciuvascio, baschiro, azero, gagauso, turkmeno, ecc.
Ramo: lingue mongole
CALMUCCO
Calmucchia
ca. 125/150.000
agglutinante, SOV
Famiglia: lingue caucasiche
Ramo: lingue caucasiche meridionali
GEORGIANO
Georgia
ca. 3.000.000
agglutinante, SVO; ergativa; tipi sillabici molto complessi; alfabeto georgiano (mxedruli), non derivato da
quello cirillico
altre: abkhaso, circasso, ceceno, inguscio, àvaro, lak, ecc.
LINGUE GENEALOGICAMENTE ISOLATE
BASCO
(sostrato pre-indoeuropeo; la lingua più antica dell’Europa occidentale)
[Spagna, Francia]
ca. 6/700.000
agglutinante, SOV; ergativa
I principali criteri di classificazione delle lingue sono:
- Genealogico: somiglianze per parentela, mira a individuare le famiglie linguistiche; es.: dall’italiano
si risale alla famiglia indoeuropea
- Tipologico (isolanti, agglutinanti ecc.): - timologia morfologica
-tipologia sintattica
- Areale (caratteristiche in comune per contiguità): si somigliano per posizione geografica ma non per
appartenenza alla stessa famiglia; es.: lingue baltiche (indoeuropee) e lingue uraliche (uraliche)
hanno rami e famiglie diversi

6.2 Tipologia linguistica


La tipologia linguistica si occupa di individuare somiglianze e differenze nel modo in cui le lingue storico-
naturali sono organizzate e strutturate, attuando scelte tra loro compatibili nella realizzazione di fatti o
fenomeni universali che ammettono più soluzioni.
La tipologia è dunque strettamente connessa con lo studio degli universali linguistici, proprietà che hanno
tutte le lingue indipendentemente dai loro rapporti genealogici, es.: tutte le lingue hanno sia consonanti che
vocali.
Sulla base di tratti strutturali comuni si possono classificare le lingue non più dal punto di vista genealogico,
della loro origine storica e della riconducibilità ad un unico progenitore, bensì dal punto di vista della loro
appartenenza a tipi diversi e della somiglianza relativa della loro organizzazione strutturale. Un ‘tipo
linguistico’ si può definire come un insieme di tratti strutturali correlati gli uni agli altri.
6.2.1 Tipologia morfologica
Un primo modo di individuare tipi linguistici diversi e di classificare quindi tipologicamente le lingue è
basato sulla morfologia, più precisamente sulla struttura della parola. A seconda di come è fatta una parola
in una data lingua, del rapporto tra parole e morfemi, distinguiamo quattro tipi:
• Lingue isolanti: la struttura della parola è più semplice possibile; ogni parola è costituita da un solo
morfema (vietnamita) – indice di sintesi 1:1
Es.: vietnamita
sách ây hay = “quel/quei libro/-i è/sono bello/-i” (a seconda del contesto)
“libro” DIM.DIST. “bello” (lett.: “libro, quello, bello”)
Es. inglese (ha pochi morfemi flessionali, presenta caratteri agglutinanti NON ESISTONO TIPI
PURI)
-s (plurale) cat / cats
-er (comparativo di maggioranza) tall /taller
-s (3a persona presente) he, she loves
-ed (passato e participio pass.) play /played

• Lingue agglutinanti: le parole (hanno una struttura complessa) sono formate da catene anche lunghe
di morfemi; ogni morfema ha di solito un solo valore, una sola funzione (es. turco) – indice di sintesi
3:1
Es. turco:
ev – ler – im -e
“casa” PL POSS DAT = alle mie case
1a SG
adam -lar = uomini (adamlar)
“uomo” PL

• Lingue flessive o fusive: le parole sono costituite da una base lessicale semplice o derivata e da uno
o più affissi flessionali; questi sono spesso morfemi cumulativi (es. italiano) [Parole più lunghe,
molti casi di allomorfia e morfema negazione]– indice di sintesi 2:1 e 3:1
Es. italiano
Gatt- -o (maschile + singolare) - 2 : 1
Gatt- -il- -e (maschile + singolare) – 3 : 1
Casi in cui l’italiano presenta caratteristiche di altri tipi morfologici:
auto civetta (esempio di lingua isolante)
scuola pilota (esempio di lingua isolante)
capotreno (esempio di lingua polisintetica o agglutinante)
capostazione
portacenere

Lingue introflessive (sottotipo delle flessive): i fenomeni di flessione avvengono anche all’interno
della radice lessicale (es. arabo)
Es. arabo
K _ t _ b “scrivere/scrittura”
k i t a b “libro”
k u t u b “libri”
k a t a b u “scrissi”

• Lingue polisintetiche: le parole sono formate da lunghe catene di morfemi e in una stessa parola
compaiono più radici lessicali (es. groenlandese) – indice di sintesi 4:1
Es. groenlandese
illuminiippuq “è a casa sua”
illu - mi - nii(p) - puq
“casa” poss.3a sg.rifl “essere in” 3a sg.ind

Lingue incorporanti (per alcuni, sottotipo delle polisintetiche): sono caratterizzate dalla
sistematicità con cui il complemento oggetto è incorporato dalle radici verbali
Es.:
tlqoyanmátekln = “io macello (abitualmente) renne”
tl - qoya - nm - átek - ln
PRO.1A SG “renna” PRES “ammazzare” ACC

Indice di sintesi: è dato dal rapporto morfemi:parole, più è basso più una lingua è “analitica”, più è alto più è
“sintetica”.

6.2.2 Tipologia sintattica


Un secondo fondamentale criterio o principio per classificare le lingue in tipi linguistici è basato sulla
sintassi, e precisamente sull’ordine basico (normale, non marcato) dei costituenti ⁠principali della frase,
quello che si ha nelle frasi dichiarative canoniche. I costituenti sintattici fondamentali presi in considerazione
come fondamento della classificazione tipologica sono quelli che realizzano il soggetto (S), il verbo o
predicato verbale (V) e il complemento oggetto o complemento diretto (O). [non marcato è la forma più
usuale, la categoria più semplice/neutra es.: leone/leonessa, utile/inutile, dog/dogs]
Gli ordini sono:
- SOV (turco, giapponese, ungherese, ecc.)
- SVO (italiano, inglese, tedesco, greco, ecc.)
Il tedesco ha uno statuto incerto:
Es. Hans ißt einen Apfel, weil er hungrig ist
Hans mangia una mela perché ha fame (verbo alla fine)
- VSO (arabo, ebraico classico, gaelico, ecc.)
- VOS
- OVS
- OSV
Almeno i 2/3 delle lingue del mondo hanno un ordine basico col soggetto in prima posizione, perché
tendiamo a mettere al primo posto il topic, il tema, che spesso coincide con il soggetto. [L’italiano, che viene
dal latino che era SOV, ha avuto un processo di evoluzione diventando SVO]
Perché SOV e SVO sono gli ordini più diffusi? Secondo due principi, cioè:
1. Principio di precedenza: il soggetto, data la sua prominenza logica, deve precedere l’oggetto
2. Principio di adiacenza: verbo e oggetto devono essere contigui, data la loro stretta relazione sintattico-
semantica
A seconda della tipologia sintattica possiamo aspettarci dei fenomeni, è il caso degli universali
implicazionali [conseguenza della struttura sintattica di quella lingua], cioè principi generalmente validi che
collegano tra loro le posizioni di diversi elementi nella frase e nei sintagmi.
- Lingue VO, che ‘costruiscono a destra’, o postdeterminanti, con l’ordine, in termini logici,
operando/operatore (o testa/modificatore, dato che V è la testa del sintagma verbale; tali lingue sono
anche dette ‘a testa iniziale’);
Es.: VO → NA, NG, NPoss, Nrel
Una ragazza simpatica, il libro di Paolo, La casa che si trova in collina
Un uomo buono / un buon uomo
Una donna buona / una buona donna
Un film molto bello
- Lingue OV, che ‘costruiscono a sinistra’, predeterminanti, o ‘a testa finale’, con l’ordine
operatore/operando (modificatore/testa).
Es.: OV → AN, GN
Lat. placidus homo – dominae culpa est avaritia
Vi sono delle lingue ergative (dal greco érgon «azione, opera, attività») assegnano una marcatura diversa di
caso al soggetto a seconda che esso sia il soggetto di un verbo transitivo o intransitivo:
- al caso ergativo: il soggetto di frasi transitive (normalmente agente) – es. i pirati affondano la nave;
- al caso assolutivo: il soggetto di frasi intransitive e l’oggetto (normalmente paziente) – es. la nave
affonda e i pirati affondano la nave.
Lingue subject-prominent: costruiscono la frase in base alle funzioni sintattiche, secondo lo schema
soggetto-predicato (es. lingue indoeuropee, turco, arabo ecc.)
Lingue topic-prominent: costruiscono la frase non secondo lo schema soggetto-predicato ma secondo lo
schema tema-rema, isolando il tema in prima posizione (es. cinese).
Lingue subject- che topic-prominent: es. il giapponese.

CAP. 7 Mutamento e variazione delle lingue [26 pag]


7.1 La lingua lungo l’asse del tempo
7.1.1 Il mutamento linguistico
Una proprietà evidente nelle lingue, considerate come entità calate negli usi di una comunità sociale è la
variazione. La variazione di una lingua è visibile anzitutto lungo l’asse del tempo, nella diacronia.
Le strutture e i paradigmi si modificano, nascono nuove abitudini, nuove parole; l’insieme di tali
cambiamenti è chiamato mutamento linguistico, e il settore della linguistica che se ne occupa è quella
storica.
Cambiamenti locali multipli in settori diversi del sistema possono ingrandire le differenze fra uno stato di
lingua e l’altro, e quando uno stato di lingua risulti tanto cambiato da non essere più riconoscibile, si crea,
nel corso del tempo, una nuova lingua (es.: l’italiano è nato dal latino per una somma di mutamenti). Sono
cambiamenti graduali, che avvengono dopo più di una generazione, e di cui prendiamo coscienza una volta
finiti. [Il primo documento in volgare italiano è il Placito Capuano del 960]
Una lingua nasce per molteplici cause e fattori, si tratta sia di fattori esterni (politici, economici, ambientali),
sia di ragioni e motivazioni interne alla lingua (tendenza a semplificare*).
Il caso più macroscopico di mutamento è, così come quando nasce, quando una lingua muore, questo può
succedere quando non ha più un parlante e viene completamente rimpiazzata nell’uso di una comunità.
Spesso la lingua che si estingue lascia tracce sulla lingua che le subentra, nella fonetica, nella morfosintassi,
nel lessico: si tratta di fenomeni di sostrato. ‘Sostrato’ è ⁠infatti il termine che, nello studio del contatto fra
lingue, si impiega per indicare in generale l’influenza di una lingua precedente sulla lingua successiva in una
comunità parlante. La presenza di vocali anteriori arrotondate (come /y/, per es. in [tyt] “tutto”) nei dialetti
dell’Italia di Nord-Ovest viene per es. spesso riportata a un presunto sostrato celtico (le lingue delle tribù
galliche precedenti all’invasione romana e alla diffusione del latino), così come l’assimilazione -nd- > -nn-
(monne/munno per mondo) nei dialetti dell’Italia Centro-Meridionale viene ricollegata a un sostrato osco (la
lingua italica colà parlata prima del latino).
*semplificazione:
Principio di economia
Principio di minimo sforzo

7.1.2 Fenomeni del mutamento


I fenomeni attraverso cui si manifesta il mutamento linguistico sono molteplici e di carattere eterogeneo.
Diamo qui una ⁠lista esemplificativa dei tipi di fenomeni più comuni e frequenti ai diversi livelli di analisi.
[diventa: ˃, proviene da: <; la forma che sta dal lato aperto della freccia è l’etimo, la forma originaria]
Nel mutamento fonetico:
- Assimilazione: due foni articolatoriamente diversi nel corpo della parola tendono a diventare simili
o uguali mediante l’acquisizione da parte di uno dei foni di uno o più tratti comuni con l’altro fono –
es.: lat. nocte(m) > ital. notte; lat. lacte(m) > ital. latte; ital. quando > [‘kwannə] nei dialetti
meridionali; lat. kentu(m) > ital. cento [‘ʧɛnto]: lat. gente(m) [‘gɛnte] > ital. gente [‘ʤɛnte].
- Metafonia: modificazione del timbro di una vocale interna per effetto della vocale finale
(assimilazione tra foni non contigui). Es.: [‘nirə] «nero» < lat. nĭgru(m) – [‘nera] «nera» < lat.
nĭgra(m).
- Dissimilazione fenomeno contrario all’assimilazione: due foni simili o uguali non contigui in una
parola diventano diversi. Es.: venenu(m) > ital. veleno, con dissimilazione delle due [n] dell’etimo
latino; v. lat. peregrinus > lat. volg. pelegrinus > ital. pellegrino.
Altri fenomeni di mutamento fonetico, frequenti anche nel passaggio dal latino alle lingue romanze sono:
- Matatesi: spostamento dell’ordine dei foni di una parola. Es.: lat. fābula(m) > lat. volg. *flaba > it.
fiaba, spagn. peligro “pericolo” < lat. periculu(m), con inversione della r e della l.
- Caduta: di foni (specie di vocali) in una parola, possono avvenire in posizione:
iniziale, aferesi (lat. apothēca(m) > ital. bottega),
interna, sincope (lat. domīna(m) > ital. donna),
finale, apocope (lat. civitate(m) [kivi’tatem] > ital. città, secondo una trafila civitate > *civtate >
*cittate > cittade > città.
- Aggiunta fenomeno contrario alla caduta: di foni nel corpo di una parola:
interna, epentesi (lat. baptismum > ital. battesimo);
iniziale, protesi (lat. stătu(m) > spagn. estado «stato»);
finale, epitesi (lat. cŏr > ital. cuore).
- Altro fenomeno fonetico, dittongazione di ŏ tonica latina in –uo- [wɔ] es.: homo.
Alla fine dell’Ottocento, gli studiosi hanno stabilito delle vere e proprie leggi fonetiche, che intendono
mutamenti fonetici regolari, tra cui la legge di Grimm che riguarda per es. il passaggio dal fono dentale
sonoro [d] (ricostruito) indoeuropeo originario al fono sordo [t] tipico delle lingue germaniche, come si può
riscontrare confrontando per es. forme latine (che presentano il suono originario) con le corrispondenti forme
inglesi: duo/two (“due”), dens/tooth (“dente”), edo/eat (“mangiare”), pes gen. pedis/foot (“piede”).
A livello fonologico, fenomeni ricorrenti sono:
- Fonologizzazione: allofoni di un fonema acquisiscono un valore distintivo e diventano fonemi
autonomi – es. lat. cingěre /’kingere/ > ital. /’ʧinʤere/.
- Defonologizzazione: fonemi perdono il loro valore distintivo e diventano allofoni di un altro fonema
– es. ā (mālum «mela») e ă (mălum «male») fonemi diversi in latino che in italiano si fondono in un
unico fonema /a:/ ~ /a/ > /a/
- Perdita di fonemi: es. /h/ dal latino all’italiano – es. habēre «avere» > ital. avere.
L’insieme di questi fenomeni, e altri che qui non sono menzionati, può portare al mutamento dell’inventario
fonematico di una lingua. L’italiano, rispetto al latino, ha per es., per quanto riguarda le consonanti, una
nuova serie di fonemi postalveolari e palatali: fricativa sorda (/ʃ/), affricate (/tʃ/, /dʒ/), laterale (/ʎ/), nasale
(/ɲ/).
I mutamenti fonetici-fonologici possono anche consistere in spostamenti a catena, che coinvolgono intere
serie di ⁠foni o fonemi. Fra gli esempi più noti di mutamento a catena vi sono le cosiddette ‘rotazioni
consonantiche’.
La prima di queste (nota come ‘legge di Grimm’, dal nome di Jakob ⁠Grimm, uno degli studiosi protagonisti
nei primi decenni dell’Ottocento della scoperta scientifica dell’indoeuropeo) riguarda il passaggio delle
occlusive sorde a fricative sorde, delle occlusive sonore a occlusive sorde e delle occlusive sonore aspirate
(cfr. § 2.1.2) a occlusive o fricative sonore, e caratterizza il ramo germanico delle lingue indoeuropee rispetto
agli altri rami. La seconda rotazione consonantica caratterizza invece l’evoluzione del tedesco fra le lingue
germaniche: le occlusive sorde p, t, k diventano affricate in inizio di parola e in posizione postconsonantica
(cfr. ted. zehn “dieci”, Herz “cuore”, rispetto a ten, heart dell’inglese, che non conosce la seconda rotazione),
e fricative in posizione postvocalica (ted. Wasser “acqua” contro ingl. water); le fricative sonore diventate
occlusive passano a sorde (ted. Gott “dio” contro ingl. god); e la fricativa dentale sorda diventa occlusiva
sonora (ted. Bruder “fratello” contro ingl. brother).
Ci sono stati importanti fenomeni anche a livello morfologico:
- Analogia: estensione di forme a contesti in cui esse non sono appropriate, sul modello dei contesti
più frequenti e normali – es. habui : habēre = volui : *volēre (al posto di velle). [formula del quarto
proporzionale habui:habere=volui:x]
- Rianalisi: diversa analisi e interpretazione del valore semantico e del comportamento sintattico di
una parola (o di un morfema) – es. lat. habēre «possedere» non aveva ruolo di ausiliare →
indebolimento semantico del verbo → verbo complesso che regge un compl. oggetto, con valore di
tempo passato habeo scriptum epistulam «ho scritto una lettera» (prima era epistulam scripsi).
- Grammaticalizzazione: un elemento del lessico diviene un elemento della grammatica – es.:
suffisso ital. -mente, dal lat. mens, mentis.
I fenomeni più rilevanti nel mutamento sintattico concernono di solito l’ordine dei costituenti:
Il latino ha come ordine dei costituenti un ordine non marcato, basico, SOV, o comunque OV. Le lingue
romanze sono invece di tipo SVO. Es.: lat. legatos miserunt (OV), ital. mandarono ambasciatori (VO).
Nella semantica lessicale, il mutamento si manifesta in primo luogo come arricchimento, vale a dire con
l’ingresso nell’inventario dei lessemi di una lingua di nuove unità (‘neologismi’).
L’arricchimento del lessico può avvenire:
- con materiali e mezzi interni alla lingua, utilizzando meccanismi di formazione⁠ di parola
(derivazione, composizione, ecc.; v. § 3.3) a partire da lessemi già esistenti: con i suffissi molto
produttivi -ism- e -ist- da buono per es. si sono coniati buonismo “comportamento o atteggiamento
tollerante e benevolo” e buonista “chi esibisce buonismo”;
- o ricorrendo a materiali di altre lingue (cfr. § 7.2.4), nelle forme del prestito (assunzione di parole
straniere, sia con adattamenti morfologici al sistema d’arrivo, come chattare <
ingl. chat “chiacchierare in rete”, sia senza, come computer) o del calco (attribuzione a una parola o
combinazione di parole esistente di un nuovo significato, sul modello di un lessema straniero: fine
settimana < ingl. week end)
Avviene ovviamente,⁠⁠ lungo l’asse del tempo, anche il fenomeno opposto, la perdita di lessemi. Molte parole
latine, ad es., si sono perdute, non hanno lasciato continuatori in italiano: così per es. cunctus “tutto intero”,
ōs “bocca” (che però è rimasto come radice in parole dotte o tecniche: orale; mentre ŏs “osso” è continuato);
e durante i secoli l’italiano ha perduto parole che esistevano in italiano antico, per es. donzello “giovane
uomo di nobile famiglia / domestico di un nobile” (ma si mantiene nell’italiano regionale fiorentino, nel
senso di “usciere comunale”), maniato “effigiato in un ritratto”, mantenenza “difesa”.
Avvengono poi cambiamenti (trasferimenti, estensioni, riduzioni) nelle associazioni fra significanti e
significati, quando un diverso significante è riferito a un significato esistente, o viene attribuito un nuovo
significato a un significante esistente. I meccanismi di tali⁠ mutamenti si basano su vari tipi di rapporti fra i
significati:
- in primo luogo, rapporti di somiglianza (metafora), come in lat. testa “vaso di terracotta” >
ital. testa “capo”, ital. antico gentile “nobile” (da lat. gens, gentis “famiglia, stirpe”) > ital. moderno
“cortese, di modi garbati”, ital. gorilla “guardia del corpo” < “grande scimmia antropomorfa”;
- e rapporti di ⁠contiguità (metonimia), come in lat. volumen “rotolo di pergamena (su cui si scriveva)”
> ital. volume “libro, tomo”, penna “piuma di uccello” > “strumento per scrivere (anticamente, una
penna d’oca appuntita)” (in dialetto piemontese, per es., lo stesso sviluppo per [ˈpjyma] “piuma” >
“strumento per scrivere”).
Analoga alla rianalisi nella morfosintassi, è la paretimologia (etimologia popolare), la risemantizzazione di
una parola mediante la rimotivazione del suo significato (lat. cŭbāre «giacere» > ital. covare «stare
accovacciato sulle uova», ricollegato a ŏvum «uovo»).
Spesso quello che cambia è l’area semantica coperta da una parola (e quindi il suo ambito di impiego): così,
si hanno estensioni o generalizzazioni, come in lat. dŏmina “signora, padrona ⁠di casa” (da dŏmus “casa”) >
ital. donna, o al contrario restringimenti o specializzazioni, come in lat. dŏmus “casa” > ital. duomo “casa
del Signore” > “cattedrale”.
I mutamenti possono anche coinvolgere⁠ campi semantici (per cui v. § 5.3.4), portando a una loro
ristrutturazione. In latino per es. il campo semantico dei colori era strutturato anche secondo una
distinzione di brillantezza e intensità luminosa. Ater era “nero, come gamma cromatica”, o niger, come “nero
brillante”; albus era “bianco, come gamma cromatica”, o candidus, come “bianco brillante”. L’opposizione
si è mantenuta in italiano per il bianco, con bianco (< germanico blank “lucente”, che ha sostituito albus)
opposto a candido, mentre si è annullata per il nero, ridotto al solo nero (< nĭgru(m)).
Mutamenti si hanno anche nella pragmatica. Come per il caso dell’allocuzione: si è passato dal
latino tu sing. / vos “voi” plurale, seconda persona generalizzata per tutti gli interlocutori, alla bipartizione
italiana dapprima fra tu allocutivo confidenziale e voi (con referenza singolare) allocutivo di rispetto; poi, fra
Cinquecento e Seicento, a una tripartizione tra tu di confidenza e solidarietà, voi di cortesia e lei di formalità
(introdotto grazie al diffondersi di espressioni come la Vostra Signoria, che implicavano una ripresa
pronominale di terza persona); finché in italiano moderno si è fissata l’opposizione fra tu confidenziale e
informale e lei formale, con voi che funge da plurale per entrambi, annullando l’opposizione (in contesti
molto formali il plurale di lei può essere loro; mentre in usi regionali è ancora presente il voi di rispetto con
referenza singolare, che era stato fra l’altro rimesso in auge nel periodo fascista, contrario al lei considerato
di modello straniero).

7.2 La variazione sincronica


7.2.1 Varietà di lingua e variabili sociolinguistiche
La proprietà di variare, di mostrare realizzazioni diverse, insita nella lingua è altrettanto, e ⁠ancor più,
evidente in sincronia, in un dato periodo temporale.
La variazione interna della ⁠lingua è il campo specifico di azione della sociolinguistica. La sociolinguistica,
branca della linguistica, che studia le correlazioni di una lingua con la società e con gli usi linguistici delle
persone.
In una lingua, per esempio, riusciamo a notare da una pronuncia diversa la regione di origine dei parlanti, si
tratta di variabili sociolinguistiche, una variabile sociolinguistica è un’unità del sistema linguistico (una
pronuncia, un morfema, una parola, un costrutto ecc.) che ammette realizzazioni diverse. Un insieme di
varianti (fonologiche, lessicali, sintattiche ecc.) solidali tra loro parliamo varietà di lingua [Ogni lingua si
manifesta sempre sotto forma di una determinata varietà (lingua come insieme/somma di varietà)].
Variabili fonologiche: le differenti realizzazioni regionali di certi fonemi dell’italiano sono ⁠tutti esempi di
variabili sociolinguistiche a livello fonologico: così per es. la realizzazione velare, [ŋ], della consonante
nasale in posizione preconsonantica davanti a consonante non velare è una variante di /n/ che ha come
correlato sociale ‘provenienza settentrionale del parlante’ (e individua quindi una varietà di lingua ‘italiano
settentrionale’) [oppure, nella pronuncia standard la fricativa alveolare intervocalica è sorda [s], nell’Italia
settentrionale è sonora [z]: casa/caza; o persone del centro-sud per un fenomeno di ipercorrettismo usino
anche loro la fricativa dentale sonora].
Variabili morfologiche: A livello ⁠morfologico, per es., è una variabile sociolinguistica la forma del
pronome clitico di terza persona obliquo (dativo): al singolare gli (maschile) / le (femminile) in italiano
standard, ci (con generalizzazione del clitico locativo e neutralizzazione dell’opposizione di genere) in
varietà non colte di italiano, come per es. in a mio zio ci ho regalato un libro, che ha come correlato sociale
‘appartenenza del parlante a un ceto basso o comunque a una fascia sociale con scarsa istruzione’.
Variabili lessicali: A livello lessicale, per esempio, possono essere considerate variabili sociolinguistiche le
coppie o serie di lessemi sinonimici per quanto riguarda il significato denotativo ma collegati a diversi ambiti
di uso della lingua: sogliola/branzino, papà/babbo.

7.2.2 Dimensioni di variazione


Le varietà di lingua si caratterizzano secondo diverse dimensioni di variazione, a seconda del tipo generale di
fattore sociale con cui correlano. Si riconoscono quattro fondamentali dimensioni di variazione [dia-, dal
greco: attraverso]:
• Diatopia (topos, luogo): riguarda la variazione nello spazio geografico (regionalismi, dialetti, ecc.)
• Diastratìa (strato, spazio sociale): riguarda la variazione nello spazio sociale (livello di istruzione,
sesso)
• Diafasia (femi, parlare): riguarda la variazione attraverso le diverse situazioni comunicative, e legata
ai linguaggi tecnico-specialistici (tipi di registri, colloquiale, formale ecc.)
• Diamesia (mesos, mezzo): riguarda la variazione attraverso il mezzo o canale di comunicazione
(aria, carta, telefono ecc.)
[Differenza tra variazione, variabile (o variante), varietà: la conditio sine qua non che le lingue variano,
singoli fenomeni, il risultato]

Esempi di variazioni diatopiche: sono i cosiddetti “italiani regionali”


Ragione ital. standard [ra.’ʤo:.ne] – affricata postalveolare intervocalica sonora /dʒ/
tosc. [ra.’ʒo:.ne]
rom. [rad.’ʤo:.ne]
Pace ital. standard [‘pa:.tʃe] – affricata postalveolare intervocalica sorda /tʃ/
tosc. rom. [‘pa:.ʃe]
A Napoli e a Palermo, e in altre zone del Sud, la fricativa dentale sorda davanti a consonante viene
frequentemente palatalizzata, vale a dire realizzata come postalveolare: [ˈʃkoːpa] scopa, [ˈʃtaːre] stare.
Nel lessico, sono numerosi i geosinonimi, cioè termini differenti usati in diverse regioni d’Italia per
designare lo stesso oggetto o con286cetto (cfr. padre/babbo sopra): l’anguria del Nord è il cocomero della
Toscana e del Centro e il mel(l)lone (d’acqua) del Sud.
Sono anche frequenti i regionalismi semantici, cioè significati ⁠particolari assunti da un lessema in una
determinata area: salire in Campania e in altre zone dell’Italia meridionale ha anche valore transitivo, con il
significato di “portare su, far salire” (sali la valigia!); chiamare in Piemonte vale anche “chiedere” (chiama a
Gianni se vuole un caffè).
Ma sono interessate alla variazione diatopica anche la morfologia e la sintassi. Qualche esempio
morfologico: il suffisso -aro è di Roma e del Centro, di contro al toscano -aio; benzinaio quindi è forma
toscana (e standard), benzinaro forma romana.
Per la sintassi: nelle varietà di italiano del Sud, in particolare della Campania e della Sicilia, e della
Sardegna, esiste il cosiddetto accusativo preposizionale, vale a dire viene impiegata la preposizione a per il
complemento oggetto rappresentato da un essere animato (hai visto a Maria?, salutami a tuo fratello);

Esempi di variazioni diastratica:


La variazione diastratica emerge anch’essa ai vari livelli di analisi. Nella fonetica, è evidente in casi di
pronunce italiane influenzate dal dialetto, che tendono a⁠ comparire soprattutto in parlanti con scarso grado
di istruzione come per esempio:
Borsa ital. standard [bor.’sa] – birra [‘bir.ra]
rom. [bor.’tsa] – [‘bi:.ra] (diastricamente basso)
Nella morfologia, oltre a quanto detto sopra circa l’estensione del clitico ci alla terza persona, si hanno per
es. generalizzazioni di forme e regolarizzazioni analogiche di paradigmi complessi, come per es. nel caso
dell’articolo: la gente dicono (concordanza ad sensum); oppure un uso improprio della consequtio temporum:
se io avrei…potrei; la formazione dei comparativi: più meglio ecc.
Tutti questi fenomeni sono caratteristici delle varietà diastratiche incolte, infatti dipendono dal cattivo
padroneggiamento della lingua standard da parte di parlanti non colti o semicolti che parlano per lo più
dialetto. Nel loro insieme tali varietà sono state chiamate italiano popolare.

Esempi di variazioni diafasica:


La dimensione diafasica è più complessa delle altre, vanno riconosciute al suo interno due sottodimensioni
parallele ma indipendenti:
-registri: sono le varietà diafasiche dipendenti dal carattere formale o informale
-sottocodici (linguaggi settoriali): sono le varietà diafasiche legate a un particolare campo di esperienza,
(linguaggio della fisica, della moda, dell’architettura), dipendenti dall’argomento di cui si parla. I sottocodici
sono caratterizzati soprattutto da termini tecnici o scientifici (tecnicismi): es. morfema, fonema, sintagma…
sottocodice della linguistica.

Esempi di variazioni diamesica:


Anche nella diamesia conviene considerare due sottodimensioni incrociate, riguardanti una il supporto fisico
del messaggio, l’altra l’organizzazione linguistica interna del messaggio:
-il modo fonico o parlato
-il modo grafico o scritto
Il parlato è prioritario rispetto alla scrittura, si impara prima a parlare in maniera naturale, imitando, e poi
solo dopo a scrivere, facendo uno specifico “addestramento”.
[molti tipi di parlato: parlato-parlato: informale, parlato-recitato: teatro, parlato-prepararto: lezione
universitaria] [Nello scritto c’è un’assenza del destinatario e una programmazione, nel parlato c’è possibilità
di interazione] [il mezzo condiziona il risultato]
Ogni dimensione⁠ rappresenta un asse di variazione della lingua, su cui si possono collocare le diverse varietà
di lingua. L’insieme delle varietà di lingua lungo in cui si articola una lingua storico-naturale in un dato
periodo temporale e della loro collocazione lungo i diversi assi di variazione può essere chiamato
‘architettura’ di quella lingua.

7.2.3 Repertori linguistici


Non esiste quindi ‘unica e sola lingua in nessuna comunità, si parla a questo proposito della nozione di
repertorio linguistico. Il repertorio linguistico è l’insieme delle varietà di lingua presenti presso una certa
comunità sociale. Per esempio, nel repertorio linguistico dell’Italia troviamo l’italiano ma anche le
minoranze linguistiche, le varietà regionali; poi esiste un repertorio individuale di ciascuno di noi: la lingua
materna, il dialetto, altre lingue straniere, le lingue antiche ecc.
Parlando di comunità almeno una delle lingue presenti nel repertorio ha varietà standard. Una lingua
standard è una lingua codificata (normata), dotata di una norma prescrittiva, con dei manuali di riferimento
(dizionario) di testi esemplari (Dante, Petrarca, Boccaccio ecc.), per lo più con una tradizione prestigiosa e di
lunga data; è adottata come modello per l’insegnamento scolastico ed è ritenuta la “buona” e “corretta”
lingua. Nel repertorio troviamo la lingua standard, i dialetti (sistemi linguistici imparentati con la lingua
standard) e le minoranze linguistiche (varietà di una lingua non imparentate con la lingua standard). In ogni
comunità non abbiamo il monolinguismo ma dei repertori plurilingui, individuiamo:
-bilinguismo: uso di due lingue diverse in condizioni di parità (es. genitori originari di due nazioni diverse
parlanti due lingue diverse, Alto Adige italiano-tedesco)
-diglossia: coesistenza, nella stessa comunità o in uno stesso parlante di due sistemi linguistici di diverso
prestigio (mondo arabo magrebino, l’arabo alto lo parlano in pochi, l’arabo moderno è costituito dalle varietà
locali come tunisino, marocchino ecc.)
-dilalia (duplicità nel parlare): uso concomitante di due idiomi, affine alla diglossia, da cui diverge per una
meno marcata differenziazione degli ambiti d'uso, come avviene negli anni più recenti tra italiano e dialetti in
molte aree del paese, in cui da una parte il dialetto sia o tenda a una posizione alta (almeno negli usi letterari)
e l’italiano si affacci comunemente anche nell'uso più colloquiale e perfino volgare.

7.2.4 Il contatto linguistico


Fra le lingue che esistono in un repertorio c’è un fenomeno costante chiamato contatto linguistico, non
esiste una lingua pura ci sono sempre delle influenze; le lingue sono il prodotto della convergenza,
dell’interferenza, con altre lingue. Si parla appunto di interferenza: ogni mutamento fonetico, morfologico,
sintattico o lessicale generato dall'influenza di un sistema linguistico su un altro sistema con cui sia in diretto
contatto (es.: interferenza dell’inglese nell’italiano), fenomeni dell’interferenza sono:
-prestito: fenomeno per cui una lingua trae da un'altra lingua un elemento, di solito un vocabolo, più o meno
adattandolo al suo sistema fonologico e morfologico (film, mouse, bistecca)
-calco: forma di influenza di una lingua su un'altra, consistente nell'introduzione o nell’ampliamento del
significato di una parola o di una locuzione di una lingua, secondo un modello corrispondente di un'altra, e il
risultato di tale processo (skyscraper = grattacielo)
Infine, mentre interferenze, prestiti e ⁠calchi sono fenomeni che avvengono sul piano del sistema linguistico,
il vasto insieme di fatti indicati con l’etichetta di ‘commutazione di codice’ (code-switching) riguarda
invece i fenomeni che avvengono sul piano del discorso ed è tipico del comportamento di parlanti bilingui; si
riferisce all’uso alternato di due lingue diverse (codici) nella stessa interazione comunicativa da parte di uno
stesso parlante, e si manifesta nel passaggio nel discorso da una lingua a un’altra. La commutazione di
codice può avvenire in linea di principio fra due qualunque delle varietà di lingua presenti in ⁠un repertorio e
a disposizione di un parlante, e quindi anche fra lingua e dialetto (es.: Luigi good morning, come stai?).

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