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TEORIA DEI LINGUAGGI

STORIA DELLE IDEE LINGUISTICHE: L’ANTICHITÀ

Teoria dei linguaggi o filosofia del linguaggio?


La disciplina denominata Teoria dei linguaggi corrisponde a quello che in altre
università si chiama filosofia del linguaggio. Si tratta di una riflessione
specificatamente filosofica. Di linguaggio si occupano discipline come la Semiotica, la
Sociolinguistica, la Psicolinguistica, la Filosofia del linguaggio o appunto Teoria dei
linguaggi, di impostazione filosofica e storico-teorica, che è
oggetto del nostro corso.

Linguaggio e lingua: definizioni


• Il termine “linguaggio” può essere usato in diverse accezioni:
– può fare riferimento alla “facoltà del linguaggio” che è alla base della capacità
simbolica umana;
– può riferirsi anche in senso generale ai diversi tipi di linguaggio, da quello verbale
ai codici comunicativi di altre specie, dalle forme espressive delle diverse arti ai
linguaggi tecnico-scientifici.
La seconda accezione del termine appartiene ad un indirizzo specifico che è quello
delle riflessioni semiologiche nelle quali i linguaggi sono equiparati a dei codici fatti
di segni.
• Con il termine “lingua” si fa invece riferimento a quella modalità comunicativa e
cognitiva che si è evoluta nella specie umana. Si parla più propriamente di “lingue
storico-naturali” per fare riferimento al doppio carattere storico e biologico delle
lingue parlate dagli esseri umani. A queste ultime si fa riferimento anche con
l’espressione “linguaggio verbale”.
Non tutte le lingue, però, fanno distinzione nel loro sistema semantico tra
“linguaggio” e “lingua”, sebbene tutte le lingue siano in grado di compiere una
distinzione concettuale tra le diverse nozioni espresse in taluni casi da un solo
termine.
Il linguaggio verbale
Al centro dell’interesse della Teoria dei Linguaggi troviamo dunque il linguaggio
verbale, ossia la facoltà che permette agli esseri umani e soltanto ad essi di parlare
le lingue, le lingue storico naturali, che sorgono e si sviluppano sempre all’interno di
comunità umane.

Linguaggio verbale e sistemi di comunicazione animali


La riflessione sul linguaggio si è sempre occupata anche di sistemi di comunicazione
posseduti anche da altre specie animali. La disciplina che si occupa di sistemi di
comunicazioni delle specie animali si chiama zoosemiotica. Trattazioni
zoosemiotiche si ritrovano nella filosofia greca: Aristotele è uno zoosemiotico e
mette in luce analogie e differenze tra il linguaggio umano e i sistemi di
comunicazione animale. Aristotele evita di scegliere tra discontinuità e analogia e ci
presenta un quadro estremamente complesso.

Il linguaggio nel pensiero greco


Parte della tradizione moderna di studi sul linguaggio si è sviluppata in un dialogo
con quelli che sono stati i principali esponenti e creatori della tradizione filosofica e
non solo filosofico/linguistica occidentale: Platone e Aristotele. Secondo la studiosa
Lia Formigari, agli esordi della filosofia greca la questione del linguaggio emerge
come “sottoprodotto” dell'ontologia (metafisica), cioè il linguaggio è
gerarchicamente subordinato all’essere, inteso come essenza. Se già per i
presocratici il tema del linguaggio viene affrontato a partire dalla questione
dell’essere, posto l'essere, si tratta di capire che tipo di rapporto intrattiene il
linguaggio rispetto alla realtà:
– secondo la posizione naturalista, il linguaggio è per natura (physei);
– secondo la posizione convenzionalista, il linguaggio non ha un legame naturale con
la realtà, ma ha origine per convenzione (thesei).

Platone: Il Cratilo
Il dialogo fondamentale per la riflessione occidentale sul linguaggio è il Cratilo di
Platone.
Gli Interlocutori del dialogo sono:
– Socrate, che è sempre il personaggio fondamentale dei dialoghi;
– Cratilo, a cui il dialogo dà il nome, che difende la posizione naturalista.
– Ermogene, antagonista di Cratilo, che difende la concezione opposta.
La posizione convenzionalista, difesa da Ermogene, riecheggia per certi aspetti
quella dei sofisti, esponenti del convenzionalismo linguistico, brillanti oratori che
insegnavano le regole del parlare persuasivo ai giovani dietro pagamento.
Mette in scena un’opposizione fra le due tesi classiche:
– quella per cui il linguaggio è per natura;
– quella secondo cui il linguaggio si dà per convenzione, attraverso un contratto tra i
parlanti per cui il linguaggio non avrebbe nessuna caratteristica naturale che riflette
un ordine del reale o del pensiero.
Socrate confuta la posizione convenzionalista di Ermogene. Secondo Formigari, il
dialogo non ha una conclusione aporetica 1 . Platone approderebbe piuttosto nel
Cratilo a una forma di strumentalismo gnoseologico 2
secondo cui il ruolo costitutivo della parola è di essere uno
strumento di distinzione di essenze. Per Platone, l'atto del denominare, del dare
nomi, ha una funzione conoscitiva, serve per classificare e categorizzare le essenze:
– il significato è anzitutto il valore generico di un segno e designa classi generali di
oggetti
– le forme linguistiche e denominative hanno un’accezione gnoseologica, non
metafisica. Il Cratilo contiene anche un breve trattato di etimologia fantastica. La
ricerca etimologica corrisponde alla tesi secondo cui i nomi devono essere in grado
di riflettere le caratteristiche dell’oggetto a cui si riferiscono. Questa posizione
definita “naturalismo linguistico” avrà molto seguito nella storia delle idee
linguistiche. Essa si ritroverà, ad esempio, nelle speculazioni glottogenetiche
settecentesche.
L'etimologia è in grado di ricostruire, nonostante le trasformazioni fonetiche e
semantiche, quelle che sono state le prime forme e quindi le cause per cui i primi
nomi hanno assunto questa forma. La teoria del simbolismo fonico che sottende le
fantasiose etimologie platoniche si fonda su una forma di ostensione mimica e
gestuale o di imitazione dei suoni emessi dai diversi oggetti. Lo Strumentalismo
gnoseologico mostra che il nome serve a classificare le cose e concepisce il
linguaggio come strumento conoscitivo che segue determinate regole; non ogni
strumento è ugualmente adeguato allo scopo che si prefigge: ad esempio, un
martello non può funzionare come un cacciavite. Il Cratilo si avvicina più di altri
dialoghi platonici a quella che sarà la concezione convenzionalista del linguaggio di
Aristotele.

Aristotele: De Interpretatione
L’opera aristotelica è stata un punto di riferimento fondamentale per le riflessioni
filosofiche successive sul linguaggio. In De Interpretatione, Aristotele afferma che “i
suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere
scritte sono simboli dei suoni della voce; allo stesso modo poi che le lettere non
sono le medesime per tutti così neppure i suoni sono i
medesimi. Tuttavia suoni e lettere risultano segni anzitutto delle affezioni dell’anima
che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti già identici per
tutti (Peri Hermeneias)”.
• Prima preposizione:
i suoni della voce sono simboli (symbola) delle affezioni (pathemata) che hanno
luogo nell’anima; le lettere scritte sono a loro volta simboli di suoni della voce.
• Seconda preposizione:
– come le lettere non sono le medesime per tutti, ma esistono diversi tipi di
scrittura, di alfabeti, così neppure i suoni sono i medesimi per tutti (posizione
convenzionalista);
– le affezioni, ossia i pathemata sono invece i medesimi per tutti gli esseri umani,
così come lo sono gli oggetti o stati di cose (pragmata) a cui le affezioni si riferiscono.
Il termine symbola in greco fa riferimento alle due metà di un oggetto, ad esempio
di una moneta, di una medaglia, di una tavoletta, che venivano spezzate per poter
servire in seguito come segni di
riconoscimento. Con symbolon si fa dunque riferimento ad un rapporto di
complementarietà tra i due elementi del rapporto semantico.
Lo Piparo osserva che la traduzione del significato del termine “simbolo” si è persa;
esso è stato assimilato a quello di semeion, “segno”, ma il semeion fa riferimento a
segni naturali, a sintomi. Nel suo saggio “Che cosa fa di una lingua una lingua.
Aristotele e il linguaggio” (Laterza 2003) Lo Piparo contesta l’interpretazione
convenzionalista del passo aristotelico sopra citato e afferma che Aristotele con
l’espressione “syntheke”, tradotta di solito con “convenzione”, fa piuttosto
riferimento a una sintesi che coinvolge la dimensione sintattica e articolatoria delle
linguestorico-naturali. Lo Piparo mette in rilievo la complessità della riflessione
aristotelica sul linguaggio che ci porta a dire con espressione contemporanea, ante
litteram, che Aristotele si è occupato del linguaggio in una prospettiva
multidisciplinare. Per quanto riguarda l’analisi della voce umana, Aristotele
introduce una distinzione essenziale tra suono in senso generico e suono umano in
quanto prodotto da organi anatomici deputati alla sua produzione.

STORIA DELLE IDEE LINGUISTICHE: L’ETÀ MODERNA


Il naturalismo linguistico
Una tradizione di riflessioni linguistiche molto presente nell’età moderna è quella di
matrice epicureo-lucreziana che delinea una “storia naturale della parola", e una
riflessione sull’origine del linguaggio umano, analizzata in una prospettiva
naturalista. Si tratta di una riflessione che afferma la continuità tra le facoltà
cognitive ed espressive umane e quelle proprie di altre specie animali, ossia una
concezione che considera il linguaggio umano come lo sviluppo graduale e
continuo di capacità comunicative proprie anche ad altri animali. La tradizione
naturalista epicurea può essere considerata dunque una tradizione di tipo
continuista. Essa si oppone a quella di origine stoica, secondo cui il linguaggio
umano è qualitativamente differente rispetto alle capacità cognitive e comunicative
degli altri animali.

La retorica
Essenziale per le riflessioni della modernità, in particolare per quella di Vico, è anche
la riflessione classica sulla retorica. Essa nasce nella Grecia antica come una
disciplina che si occupa delle funzioni non conoscitive del linguaggio. È la tecnica del
parlare bene, ma sviluppa anche una riflessione sui propri fondamenti. Ha una
componente etica perché insegna a controllare e modulare il linguaggio delle
passioni.In età romana, Cicerone e Quintiliano sistematizzano le partizioni canoniche
della retorica:
– l’inventio, che si occupa del reperire i diversi argomenti;
– la dispositio, che si occupa del loro ordine;
– l’elocutio, che è la tecnica per dare di essi un’enunciazione;
– la memoria, che è l’insieme dei procedimenti per la memorizzazione;
– l’actio, che è l’arte del presentare il discorso con l’ausilio dei gesti.
Nel Medioevo, la retorica diventa una delle discipline del trivio insieme alla
grammatica e alla dialettica 3. 4. Acquisisce nuovi scopi come la difesa della fede e
la ricerca di strumenti di persuasione dei fedeli; diviene dunque tecnica
dell’edificazione etico/religiosa.Inoltre alla retorica si affianca come strumento
complementare l'ermeneutica 5 : essa nasce come esegesi 6 biblica del testo sacro
ed è animata dalla tensione tra la possibilità e la necessità di una molteplicità
dell'interpretazione testuale e la riaffermazione dell'unità del verbo divino.

La nozione logico-semantica di universale


Nel Medioevo si discute animatamente la nozione di universale, tra le posizioni
dibattute: 1) quella logico-semantica, di cui troveremo una rielaborazione in un
autore moderno come Locke. Essa afferma che l’universale è il prodotto di
generalizzazione, di un processo di astrazione, e quindi è non relativo alle cose ma ai
concetti. È posteriore rispetto alle cose (si parla di universale post rem, dopo la
cosa). 2) L’interpretazione più prossima a quella aristotelica è quella metafisica che
vuole che l’universale sia in re, dunque immanente e garante della sintesi tra forma
e materia; 3) per i neoplatonici, invece, l’universale è ante rem, ossia precedente e
separato rispetto alle cose che partecipano di esso in misura differente

La semiotica di John Locke


Il terzo libro del “Saggio sull'intelletto umano” (1690) 7 è dedicato a una riflessione
sul segno. Locke distingue essenza reale ed essenza nominale e considera
conoscibile solamente quest’ultima. La formazione dei concetti, che Locke chiama
idee, viene ricondotta a modalità di composizione di natura arbitraria; concetti come
quello di omicidio sono dunque il frutto di una selezione e associazione arbitraria e
storicamente variabile di più idee. Locke distingue idee semplici e idee complesse.
Le prime possono essere conosciute soltanto attraverso l’atto percettivo
e dipendono dunque dall’uso corretto dei sensi. Di conseguenza, un cieco per Locke
non può possedere l’idea di rosso. L'atto ostensivo è l’elemento ultimo, non
scomponibile dell’analisi in quanto l’atto ostensivo e il deittico 8 rimandano alle
idee semplici, acquisibili attraverso l'atto percettivo.

La critica di G. W. Leibniz nei confronti di Locke


Nell’ opera “Nuovi Saggi sull'intelletto umano” (1765) Leibniz critica l’arbitrarismo
del “Saggio sull'intelletto umano” di Locke. Secondo Leibniz, le idee, antecedenti
rispetto alle cogitationes, fanno riferimento a un ordine platonico (livello delle idee)
e dunque la loro natura è innata e non frutto di composizione arbitraria come voleva
Locke. Per quanto riguarda la genesi delle cogitationes, Leibniz si rifà alla tradizione
epicurea proponendo riflessioni sul fonosimbolismo, ossia sul modo in cui l’affetto
determina forme espressive, sonore e gestuali. In questo caso, egli adotta una forma
di naturalismo linguistico che fa perno sui dispositivi simbolici legati alla corporeità.9

Il langage d´action di Etienne Bonnot de Condillac


Nel “Saggio sull'origine delle conoscenze umane” (1746) e nel “Trattato sulle
sensazioni” (1754), Condillac parte da posizioni lockiane per poi procedere a una
elaborazione originale del sensismo. Il “Trattato sulle sensazioni” propone di
immaginare una statua che prende vita via via che le si attribuiscono i diversi sensi.
Condillac difende una forma di gradualismo per cui la mente è il prodotto di processi
di categorizzazione a livello percettivo che si sviluppano attraverso la creazione di
segni artificiali. La prima forma in cui si esprime il linguaggio di segni artificiali è un
langage d’action, il linguaggio d’azione, cioè quello gestuale prodotto della prima
forma di
categorizzazione pre-verbale.

La teoria dell’origine del linguaggio di Herder


Nel suo “Saggio sull´origine del linguaggio” (1772), Herder polemizza con le teorie
dell‘origine del linguaggio di Condillac e di Süssmilch. Con il suo saggio Herder
risponde ad una domanda dell’Accademia delle scienze di Berlino e opta per una
posizione discontinuista, polemizzando con Condillac. Herder vuole sottolineare la
specificità del linguaggio umano e la sua differenza qualitativa rispetto alle forme di
comunicazione animali. Herder è tuttavia in parziale sintonia con la spiegazione
glottogenetica di Condillac, cioè l’analisi delle facoltà umane, perché ritiene
necessario partire dalla dimensione espressiva comune anche agli altri animali. Egli
critica infatti l’esito aporetico a cui conduce la posizione razionalista di Süssmilch
rispetto alla possibilità di spiegare l’origine del linguaggio a partire dalla natura
umana: secondo Süssmilch era necessario
postulare l’origine divina del linguaggio umano. Il linguaggio è espressione di una
razionalità specificamente umana: pur partendo da un’analisi delle specificità delle
facoltà umane, Herder ritiene possibile spiegare come il linguaggio si sia sviluppato
in modo naturale fino ad arrivare alle fasi di sviluppo e al grado evoluto delle
moderne lingue storico naturali. Herder sembra dunque
proporre una mediazione tra posizioni continuiste e discontinuiste.

OTTOCENTO E NOVECENTO

Il linguaggio nella Romantik


Nell’Ottocento in Germania si sviluppa il movimento romantico, lì denominato
Romantik, i cui primi sviluppi risalgono alla fine del Settecento. In questo ambito di
riflessione il linguaggio è un tema centrale; esso appare in connessione con
questioni come quelle della soggettività e dell’individualità, della nazione, della
varietà delle lingue.La centralità del linguaggio viene rivendicata, in polemica con la
filosofia critica di Kant, da autori come Herder, Hamann e W. von Humboldt, che
elaborano delle prospettive metacritiche affermando il carattere originariamente
linguistico della ragione pura kantiana. Nella filosofia dell’idealismo tedesco (Fichte,
Schelling, Hegel) il linguaggio è condizione di
possibilità per il pensiero e per qualsiasi esperienza umana. Per altro verso in autori
come Novalis e Jacobi c'è una tensione per cui il linguaggio:
– è da un lato il luogo in cui prende forma il pensiero;
– mentre dall’altro esso appare incapace di rendere la pienezza dell’intuizione
soggettiva. Nella filosofia del Romanticismo troviamo la valorizzazione della
madrelingua (Muttersprache) che sostituisce definitivamente il latino come lingua
di cultura. La madrelingua è la dimensione in cui il soggetto, anzitutto quello
collettivo, può nel modo più appropriato pensare sé stesso.
Le lingue nazionali vengono considerate le uniche capaci di esprimere pienamente la
cultura del popolo. Hegel ricorda che la madrelingua è l’unico strumento per
filosofare in maniera appropriata. La riscoperta delle lingue nazionali è declinata in
più forme tra le quali il nazionalismo linguistico,
di cui è esponente principale il filosofo Johann Gottlieb Fichte che nel 1808
pronuncia i celebri Discorsi alla nazione tedesca. In essi emerge l’idea del primato
morale e intellettuale del popolo e della lingua tedesca. Popolo e lingua appaiono
indissolubilmente legati:
– la lingua diventa l’orizzonte al cui interno gli individui sono ricompresi;
– la lingua si parla attraverso il popolo;
– la lingua viene considerata una forza spontanea, un organismo vivente.

Wilhelm von Humboldt


Dopo aver scritto saggi di antropologia nella seconda parte del Settecento,
nell'Ottocento Humboldt si occupa di linguistica e filosofia del linguaggio: ritiene
che le lingue siano delle individualità, delle soggettività in cui si esprime in maniera
unica lo spirito delle diverse nazioni. Humboldt è erroneamente considerato
l’iniziatore del relativismo linguistico, posizione secondo
cui ogni lingua costituirebbe un mondo a sé e non vi sarebbe comunicazione e
comprensione possibile tra i diversi universi linguistici. La posizione di Humboldt è in
realtà più complessa e tiene insieme sia la dimensione universale
comune a tutte le lingue sia quella individuale. In questo senso, egli sottolinea che il
linguaggio è lo stesso per tutti gli esseri umani e che possiamo dunque dire che tutti
gli esseri umani hanno la stessa lingua così come che ciascuno ha la propria. A
quest’ultimo proposito egli teorizza il modello di una linguistica del carattere che
indaghi la dimensione individuale nell’uso linguistico dei singoli
parlanti, in particolare nell’opera di poeti e letterati.

Linguistica storica e comparativismo linguistico


• Nel 1816, Franz Bopp scrisse “Studio sulla coniugazione del sanscrito”, testo
cardine della linguistica storica a cui fece seguito anche una grammatica comparata.
Bopp applica l’ipotesi di William Jones del sanscrito come lingua da cui hanno
origine le lingue indoeuropee e abbraccia il progetto di una classificazione e
riduzione delle lingue ad un numero limitato di famiglie che vengono ricondotte ad
una protolingua
La ricerca empirica del comparativismo si fonde con una particolare visione della
storia e dello spirito umano: se la ricostruzione delle famiglie e dei tipi linguistici è
un’indagine di natura empirica, per altro verso l’obiettivo di linguisti e filosofi è di
anteporre ad una storia empirica una storia a priori in cui si vede nella formazione
della lingua l’espressione di un unico spirito antecedente alla pluralità delle lingue.
• August von Schlegel (1767-1845) propone la seguente distinzione tipologica delle
lingue:
– lingue isolanti come il cinese, in cui le radici sono del tutto separate;
– lingue agglutinanti come il turco e il finnico, in cui la formazione delle parole
avviene per composizione di radici, affissi e suffissi;
– lingue flessive, come le lingue indoeuropee, di cui si affermava la superiorità sugli
altri tipi; in questo tipo di lingue le desinenze sono in grado di esprimere più
relazioni grammaticali.
• Per quanto riguarda la monogenesi 10 e poligenesi, Schelling opta per la tesi di un
originario monogenismo a cui poi si sostituirebbe il poligenismo quando si perde
l’originaria perfezione ed unità dello spirito linguistico.
Importante è sottolineare che si tratta di posizioni differenti da quelle
glottogenetiche settecentesche improntate al naturalismo ed interessate a spiegare,
a partire dalle facoltà umane, l'origine e lo sviluppo della facoltà del linguaggio
umano. La linguistica storica non è infatti interessata a speculazioni miranti a
ricostruire genesi ed evoluzione della facoltà linguistica umana. Essa si occupa
piuttosto della ricostruzione delle singole lingue, anch’essa speculativa nel caso delle
protolingue, dei loro nessi genealogici e dell’idea di lingua a priori che implica tutte
le ricerche empiriche. La linguistica si presenta quindi
come disciplina storica che guarda anche ai modelli delle scienze naturali.
Modello per la linguistica comparativa fu la paleontologia, di cui adottò il modello
ricostruttivo:
nella linguistica si trattava di ricostruire da frammenti linguistici l’intero organismo
di una lingua e
la sua collocazione genealogica, così come da un osso si cercava di ricostruire
l’animale e il suo
posto nella tassonomia zoologica.
• Grimm propone un’analogia tra leggi fonetiche e leggi di evoluzione naturale.
• Altri come Schleier stabiliscono una distinzione tra:
– il glottologo, che si occupa delle leggi di trasformazione fonetiche come se si
trattasse di leggi naturali;
– il filosofo del linguaggio, che si occupa dell'idea di lingua;
– il filologo, che si occupa della lingua in una prospettiva storica che include la
cultura dei popoli.
• Il positivismo linguistico è stato sviluppato dai Neogrammatici, il cui principale
esponente fu Karl Brugmann, autore di una grammatica delle lingue indoeuropee.
Questa corrente di pensiero
adotta il modello delle scienze della natura e sostiene l’idea che è possibile
individuare le leggi di trasformazioni fonetiche come se si trattasse di leggi naturali.

L’idealismo di Croce e la critica al positivismo linguistico


Benedetto Croce riprende la distinzione tra scienze della natura, che sono
nomotetiche 11 in quanto si occupano di individuare leggi universali, e scienze dello
spirito, che sono ideografiche12 cioè volte alla comprensione dell´individuale. Su
questa base Croce nega che si possano studiare le lingue con metodi mutuati dalle
scienze della natura, criticando quindi i neogrammatici. La posizione crociana mette
in realtà in discussione lo studio linguistico scientifico in senso più generale e
afferma che le scienze dello spirito invece di tentare di scoprire leggi linguistiche
generali, devono sforzarsi di comprendere i singoli testi.
10
Monogenesi: teoria che sostiene l’origine unica di tutte le lingue.
11
Nomotetico: che descrive i vari fenomeni comprendendoli sotto leggi universali.
12
Ideografico: indagine che studia un caso particolare e specifico, non una classe di
fenomeni

Psicologismo e antipsicologismo tra Ottocento e Novecento


Se la linguistica ottocentesca si distacca dalle spiegazioni settecentesche sull’origine
del linguaggio e si rivolge allo studio delle lingue e non delle facoltà psicologiche
generali, come precondizione per lo sviluppo di qualsiasi lingua, nella seconda metà
dell'Ottocento, risorge però nuovamente l’interesse per lo studio psicologico del
linguaggio che porta alla nascita di discipline autonome, che si spartiscono i diversi
ambiti di studio del linguaggio.
• All´indirizzo psicologista appartengono filosofi come Heymann Steinthal. Egli
ripropone una teoria dell'origine del linguaggio che ha diversi ingredienti in comune
con quelle del ´700. Scrive una storia delle teorie dell´origine del linguaggio e fonda
insieme a Lazarus la demopsicologia 13. All’indirizzo psicologista appartengono
anche:
– Hermann Paul: si occupa di trasformazioni semantiche a partire da un’indagine
psicologica sulle possibili precondizioni per l’emergere e lo svilupparsi del
linguaggio.
– Michel Bréal: fu il primo a introdurre l’ambito di studi della semantica a cui dedica
un saggio.
• All’indirizzo antipsicologista appartengono Gottlob Frege (pr. frighe) e Ludwig
Wittgenstein che affrontano la riflessione sul linguaggio dal punto di vista della
logica, che essi separano nettamente da quello della psicologia.
– Frege scrive l’“Ideografia” (1879) in cui elabora un sistema che consente un’analisi
linguistica in grado di portare alla luce ambiguità e imprecisioni per liberare il
linguaggio naturale dalle proprie costitutive mancanze.
– Wittgenstein trasformerà poi la prospettiva delle sue ricerche, ma continua a
essere fortemente critico verso le metodologie della psicologia con cui si
confronterà in scritti pubblicati postumi, le “Osservazioni sulla filosofia della
psicologia” e “Ultimi scritti. Filosofia della psicologia”.
Gottlob Frege
Frege distingue due livelli di analisi del linguaggio:
1) Senso (Sinn): è il modo in cui un significato viene presentato.
2) Referente (Bedeutung): è l’oggetto per cui un particolare nome sta.
L’esempio celebre riportato da Frege nell’opera “Senso e significato” (1892) è quello
della stella del mattino e della stella della sera: sono due modi di presentazione
diversi di uno stesso referente, il pianeta Venere. La sfera del senso è una sfera
oggettiva, valida per tutti i parlanti. A questo livello Frege aggiunge quello della
rappresentazione mentale: è una sfera psicologica in cui la rappresentazione è
qualcosa di soggettivo, di individuale e variabile da soggetto a soggetto, al
contrario della sfera del senso che è una sfera oggettiva, valida per tutti i parlanti.

Ludwig Wittgenstein
Ludwig Wittgenstein pubblica nel 1921 il “Tractatus logicophilosophicus” che avrà
un’influenza importante sul Circolo di Vienna (neopositivismo logico 14
). Postume usciranno le “Ricerche filosofiche” (1953). Nel Tractactus Wittgenstein
presenta un’immagine del linguaggio come ciò che è in grado di raffigurare il mondo
grazie a una forma logica comune a entrambi (isomorfismo logico). Il linguaggio
include anche elementi non verbali, come modellini, disegni, diagrammi.
Le proposizioni possono essere vere o false a seconda che descrivano correttamente
o no stati di cose del mondo. Vi sono però anche proposizioni come le tautologie 15
e le contraddizioni che non sono né vere né false. Esse non fanno che esibire la loro
forma logica che non può mai essere detta, ma, appunto, solo esibita. Etica ed
estetica si occupano, secondo Wittgenstein, di tale esibizione e fanno parte del
dominio del mistico. Nelle “Ricerche filosofiche” Wittgenstein trasforma
profondamente la sua concezione del linguaggio umano che non ha più solo il
compito di raffigurare il mondo, ma si compone di molteplici giochi linguistici,
connessi tra di loro attraverso una serie di somiglianze di famiglia, affinità anch’esse
molteplici e non riducibili a un insieme fisso di elementi, come nella teoria
aristotelica del concetto.Il significato del linguaggio coincide dunque con il suo uso
nelle diverse pratiche linguistiche, cioè i giochi. Imparare a parlare vuole dire essere
sottoposti a un addestramento a tali pratiche, vuol dire dunque diventare capaci di
creare un gioco linguistico.Wittgenstein critica alcuni aspetti dello scenario
ontogenetico 16 descritto da Sant’Agostino nelle “Confessioni” in cui il linguaggio
sembra essere assimilato a una nomenclatura e l’apprendimento del bambino
sembra avvenire solo attraverso l’osservazione degli adulti.L’obiettivo della filosofia
è descritto da Wittgenstein come il raggiungimento di una rappresentazione
perspicua, di una visione che consente di cogliere la grammatica non solo di fatti
linguistici, ma anche di fenomeni antropologici, artistici, estetici, matematici,
geometrici...È in questo contesto che il filosofo introduce la nozione di vedere-come
e di figura ambigua.Essa consente di seguire il cambiamento di aspetto, e quindi di
configurazione grammaticale, di unaimmagine.

Burrhus Skinner
Un’altra corrente che porta alla crisi dello psicologismo è quella del
comportamentismo o behaviorismo di cui Burrhus Skinner fu uno degli esponenti
principali. Skinner sottolinea che far riferimento alla mente e a metodi come quello
introspettivo è inutile per chi voglia capire il linguaggio poiché, per comprendere
l’apprendimento della lingua, è sufficiente osservare i comportamenti e le loro
modifiche a partire da stimoli esterni.

Linguistic Turn: la svolta linguistica del Novecento


Secondo molti interpreti, la filosofia del Novecento sarebbe caratterizzata da una
svolta linguistica in cui il linguaggio diventa centrale per ogni tipo di riflessione
filosofica. Non ci si occuperebbe cioè di linguaggio come ci si può occupare di
morale, di politica o di conoscenza.La riflessione filosofica deve piuttosto partire dal
linguaggio per analizzare qualsiasi forma di esperienza umana. Il linguaggio è
insomma la condizione di possibilità di qualsiasi esperienza. Si può constatare che
sia il Novecento a conoscere per la prima volta questo tipo di svolta. Rientrano in
questa corrente Martin Heidegger, Hans Gadamer, Ludwig Wittgenstein, Gottlob
Frege. Gli indirizzi filosofici che si muovono nell’alveo del linguistic turn sono:
Ermeneutica, Strutturalismo, Post-strutturalismo, Decostruzionismo

NOZIONI SEMIOLOGICHE E LINGUISTICHE


Il triangolo semiotico (Ogden e Richards, “The meaning of meaning”, Londra 1923)
La linea che unisce il significante al referente è tratteggiata perché il rapporto che
lega il significato al significante è diretto, mentre il rapporto che lega il significante al
referente è indiretto. In questo modello, è considerato diretto anche il rapporto che
lega il significato al referente, mentre in altri modelli questo rapporto è considerato
mediato dal segno.

Charles S. Peirce
Teorico eclettico, Peirce ha dato contributi importanti alla semiotica. I suoi scritti,
per lo più pubblicati postumi, sono stati raccolti nei “Collected Papers of Ch.S.
Peirce” a partire dal 1931. In italiano sono state curate diverse selezioni di opere,
come i recenti “Scritti scelti” (UTET 2009, a cura di Giovanni Maddalena) o il volume
“Opere” (Bompiani 2003, a cura di Massimo Bonfantini).

Peirce: classificazione di segni


• Indice: riferimento segnico caratterizzato dalla relazione di contiguità con il
denotato. Ad esempio, il fumo rispetto al fuoco.
• Icona: categoria segnica della somiglianza con il denotato, suddivisa a sua volta in:
– immagine: rappresentazione per somiglianza, condivisione di alcune qualità
materiali dell’oggetto;
– metafora: relazioni analogiche di diverso tipo con l’oggetto;
– diagramma: rapporti analogici sulla base di relazioni astratte di tipo logico,
posizionale, geometrico, come nel caso dei diagrammi.
• Simbolo: segno di natura arbitraria.

Peirce: Type e token Le due nozioni sono costitutivamente correlate:


• il type equivale alla classe generale, astratta;
• il token è il caso individuale, il singolo atto di decodifica che si attua risalendo
appunto al type generale a cui esso si riferisce. Questa correlazione è per certi versi
affine a quella tra langue-parole di cui ci occuperemo tra poco, ma essa è di
carattere semiologicamente più generale e non riferita esclusivamente al linguaggio
verbale.

Ferdinand de Saussure
Fondatore della linguistica generale, Saussure non ha pubblicato mai i suoi corsi di
linguistica, la
cui edizione è il frutto della raccolta di appunti presi dai suoi allievi. La prima
edizione di alcuni corsi è del 1916: “Cours de linguistique générale”, a cura di
Charles Bally, Albert Riedlinger e Albert Sechehaye, Losanna-Parigi, Payot.

La linguistica di Ferdinand de Saussure


Saussure comincia la propria attività di linguista nella seconda metà dell'Ottocento e
all'inizio si muove nel solco della tradizione della linguistica storica. Le sue prime
opere si occupano della ricostruzione delle lingue, come nel saggio “Mémoire sur le
système primitif des voyelles dans les langues indo-européennes”, Lipsia, Teubner,
1879. Tr. it. Di G. C. Vincenzi, “Saggio sul vocalismo indoeuropeo”, Bologna, Clueb,
1978.
La creazione della linguistica generale da parte di Saussure viene dunque elaborata
attraverso un distacco critico rispetto a due modi di affrontare questioni linguistiche:
– quello della linguistica storica;
– quello delle riflessioni psicologiche sulla significazione.
Saussure ci propone una riflessione epistemologica sui fondamenti dello studio del
linguaggio, una riflessione di filosofia della linguistica. Saussure amplia e
approfondisce questa riflessione nei propri corsi all'università di Ginevra dal 1907,
editi poi attraverso la pubblicazione degli appunti degli allievi, di cui Tullio De Mauro
ha curato, nel 1967 per Laterza, un’edizione ormai divenuta classica
Saussure considera la linguistica parte di una riflessione più generale che è quella
della semiologia o, come oggi si usa dire più frequentemente, semiotica.
• Semiologia: disciplina che si occupa del segno, unità primaria della riflessione
semiologica e non;
che è a sua volta ricompresa nella psicologia sociale.
• Segno: si dà come unità indissolubile di un significato e di un significante, i quali
devono essere
considerati come il retto e il verso di un foglio. Per Saussure il significato è arbitrario,
anzitutto nel senso che nelle lingue storico-naturali il valore semantico è dato dal
rapporto di ciascun significato con gli altri significati del sistema linguistico. Non c'è
nessuna realtà extralinguistica che ponga dei vincoli all'articolazione, al livello del
significato, così come del significante, e quindi all’arbitrarietà.
Saussure è interessato alla dimensione orizzontale della significazione all'interno
delle lingue storico-naturali. In una affermazione molto discussa dagli studiosi
sostiene che il pensiero al di fuori del linguaggio è una massa amorfa. Né per quanto
riguarda la morfo-sintassi, né per quanto riguarda il lessico le lingue hanno elementi
assolutamente equivalenti. Facciamo un paio di esempi
per quanto riguarda la semantica lessicale:
– il nostro termine “legno” corrisponde in francese a “bois” che significa anche
bosco;
– il termine “capigliatura” in inglese “hair” corrisponde al nostro “capelli”, ma ha
anche una serie di accezioni che sono soltanto dell'inglese, come “peli”. E
ovviamente è necessario tenere conto anche delle diverse espressioni idiomatiche in
cui i termini possono ricorrere.

Saussure e lo strutturalismo
Dalla linguistica di Saussure si è sviluppato un modello di analisi, quello dello
strutturalismo, che dalla linguistica è stato esteso come metodologia unificante a
tutte le scienze umane ed applicato all’analisi di qualsiasi prodotto culturale.
Esponente di tale indirizzo, negli Anni Sessanta e Settanta, è stato in Italia Umberto
Eco che poi, a partire dagli anni Ottanta, ha elaborato una critica degli eccessi del
metodo strutturalista. Il modello strutturalista di matrice saussuriana è stato
applicato a una serie di fenomeni: a. ai fenomeni antropologici, come
nell'antropologia strutturale di Lévi-Strauss;
b. all'architettura; al cinema; ad ogni tipo di opere d'arte.
I limiti della posizione strutturalista sono stati individuati nello scarso valore
attribuito alla dimensione storica e alla componente naturale, iconica, elementi
considerati irrilevanti rispetto all'analisi strutturale. La fiducia di poter ridurre
qualsiasi prodotto culturale, si tratti di un film, diun edificio o di un fenomeno
antropologico, al prodotto di un codice di cui è necessario rintracciare
e rendere esplicite le regole si è rivelata eccessiva.Già dalla fine degli anni Sessanta
Pierpaolo Pasolini è stato un critico accorto degli eccessi dello
strutturalismo, in particolare per quanto riguarda la semiotica del film.
Anche Emilio Garroni ha riflettuto criticamente sulla semiologia strutturalista ad
esempio in “Semiotica ed estetica” (Laterza 1968)

Tullio De Mauro
Tullio de Mauro si è occupato dell’introduzione e cura del “Corso di linguistica
generale” di Ferdinand de Saussure (Laterza 1967). Inoltre, ha scritto “Storia
linguistica dell’Italia unita” (Laterza 1963) e “Minisemantica dei linguaggi non verbali
e delle lingue” (Laterza 1983).

Le lingue: caratteristiche specifiche


Nelle lingue storico-naturali si danno però una serie di caratteristiche specifiche. I
sinonimi nel calcolo sono sinonimi assoluti o calcolabili [2+2 o 2x2 hanno come
risultato entrambi 4].
Nelle lingue storico-naturali invece termini sinonimi (micio, gatto o felino domestico)
non sono mai sinonimi assoluti, ma assumono connotazioni diverse e vengono
utilizzati in contesti diversi (più o meno formali, nell’espressione orale più che in
quella scritta etc.).
Il caso della sinonimia delle lingue storico-naturali ci mette di fronte alla molteplicità
di dimensioni da cui le lingue vanno considerate. Nelle lingue non abbiamo solo la
dimensione sintattica, come nei calcoli determinati da regole di composizione fisse;
ma anche la dimensione semantica, quella del significato, sempre strettamente
intrecciata alla dimensione pragmatica, al modo in cui gli utenti incidono
sull'enunciazione, ad esempio attraverso le diverse connotazioni che essi possono
dare ai termini utilizzati. La dimensione che caratterizza le lingue storico-naturali è
quella della creatività chiamata anche da De Mauro dimensione della “non non-
creatività”:
– la lingua è in grado non solo di generare da un insieme finito di elementi un
insieme infinito di enunciati, ma è in grado di trasformare le regole che portano alla
creazione di nuove forme e strutture.
– la creatività o non non-creatività si manifesta nel fatto che la lingua, nella propria
evoluzione diacronica, si modifica in modi mai prevedibili in anticipo, operando
trasformazioni in tutte le dimensioni della langue: fonologica, semantica,
morfosintattica

NOZIONI E TEORIE LINGUISTICHE (NOVECENTO E OLTRE)


Funzioni linguistiche
Le lingue hanno diverse funzioni, svolte contemporaneamente all’interno della
stessa enunciazione.Karl Bühler afferma che i fenomeni linguistici sono forme
segniche polivalenti e mette in luce due funzioni fondamentali:
1) la funzione rappresentativa;
2) la funzione espressiva.
La funzione rappresentativa o referenziale fa riferimento al fatto che le lingue hanno
la funzione di rappresentare stati di cose, attraverso resoconti che possono essere
veri o falsi.
Già Aristotele distingueva due tipi di discorso:
– discorso apofantico: ciò di cui è possibile predicare il vero e il falso, presente
unicamente negli esseri umani;
– discorso semantico: esprime stati emotivi, è condiviso dalle specie animali.
Si può osservare la centralità della funzione metalinguistica che appare specifica del
linguaggio umano: capacità che si sviluppa attraverso l'uso della scrittura e della
lettura attraverso cui impariamo ad analizzare la nostra lingua e diventiamo
consapevoli ad esempio, della doppia articolazione delle lingue storico-naturali
.– primo livello di articolazione: livello delle unità semantiche delle parole
(morfemi), delle unità dotate di significato quali possono essere radici e suffissi,
desinenze e moduli flessionali;
– secondo livello di articolazione: quello dei fonemi attraverso cui arriviamo alle
unità prive di significato (fonemi).

Il linguaggio nel cognitivismo


A partire dalla seconda metà del Novecento lo studio del linguaggio subisce una
trasformazione radicale grazie al cambiamento di paradigma attuato da Noam
Chomsky: Chomsky critica il modello comportamentista e difende il carattere innato
e specie-specifico del linguaggio umano. La fondazione del cognitivismo e delle
scienze cognitive modifica l’apparato concettuale delle riflessioni sul linguaggio, e
ristruttura lo stesso sistema disciplinare delle università nel mondo. Basti pensare
che le scienze cognitive occupano oggi interi dipartimenti un tempo occupati da
altre
discipline, negli USA e non solo

Noam Chomsky
Noam Chomsky scrive nel 1959 la celebre recensione all’opera di Skinner “Verbal
Behavior”, a cui si usa far risalire la nascita del cognitivismo. Già negli anni Sessanta
due opere “Aspects of the theory of syntax” (1965) e “Cartesian linguistics” (1966)
contengono un’elaborazione matura del suo pensiero linguistico e filosofico. La
“linguistica cartesiana” è un tentativo di rileggere la storia delle idee linguistiche
rintracciando i precursori del suo pensiero.
Chomsky individua in W. v. Humboldt, secondo cui “la lingua fa un uso infinito di
mezzi finiti”, un precursore della propria concezione di creatività linguistica e
dell’idea che una teoria della grammatica deve dar conto di questa capacità.
Chomsky reagisce dunque al comportamentismo, secondo cui per spiegare il
linguaggio è sufficiente riferirsi ai comportamenti. A questo paradigma contrappone
una concezione innatista del linguaggio e della sua origine, una concezione
modularista e discontinuista del linguaggio umano, come facoltà separata da altri
tipi di facoltà cognitive e dai sistemi di comunicazione
animali. La sua posizione difende una forma specifica di modularismo in ambito
neurologico: al linguaggio umano corrisponde sul piano neurologico un modulo
isolato del cervello che è deputato soltanto allo svolgimento di compiti linguistici. Il
linguaggio è un dispositivo innato e per studiarlo occorre l’approccio della linguistica
generativa, che deve ricostruire le modalità con cui, attraverso questo dispositivo
innato, i bambini si impossessano della competenza grammaticale. Chomsky
distingue competenza ed esecuzione ed è poco interessato alla dimensione
comunicativa dell’esecuzione, che considera un derivato poco significativo rispetto
alla competenza. Dal punto di vista ontogenetico Chomsky e Pinker affermano che il
bambino è esposto ad uno
stimolo limitato e a poche correzioni e che, tuttavia, impara a parlare molto
rapidamente senza fare troppi errori. Ciò li porta a supporre la presenza nel cervello
di un dispositivo innato che permette di gestire un numero così ampio di regole
complesse, il LAD (Language Acquisition Device).
Chomsky riporta la psicologia all'interno della linguistica e riarticola entrambe
nell’ambito delle scienze cognitive. La metafora più influente del cognitivismo è
stata quella che paragona il funzionamento del linguaggio e della mente a quello dei
software, ed equipara il cervello a un computer, ossia all’hardware, in cui possono
essere implementati diversi software (le lingue)

Il linguaggio nel cognitivismo (II generazione)


La seconda generazione delle scienze cognitive prende avvio dal rifiuto della
metafora computazionale.

Lakoff e Johnson
Questo approccio cognitivista rivendica l’importanza dei dispositivi corporei e
comunicativi. Contrappone all'analogia tra cervello e computer quella della mente
incarnata (embodied mind and cognition), del corpo nella mente. Ogni cognizione è
l’elaborazione di esperienze corporee.

Terrence W. Deacon
Il neuroscienziato Terrence W. Deacon oppone alla posizione di Chomsky una
concezione dell'origine del linguaggio fondata sulla priorità della dimensione
semantica rispetto a quella sintattico-grammaticale e indica in un modello integrato
di facoltà gli elementi che concorrono all'emergere del linguaggio verbale. Pur
sottolineando l’unicità del linguaggio umano si oppone alla posizione discontinuista
di Chomsky che considera la facoltà del linguaggio verbale come del tutto isolata da
altre facoltà comunicative e cognitive evolutivamente precedenti e tuttora comuni
ad altre specie animali.
Il modello di Deacon riprende il modello semiologico di Peirce individua tre livelli di
articolazione semiotico-linguistica: quello iconico, quello indicale e quello simbolico.
Nei sistemi di comunicazione zoosemiotica più evoluti individua una componente
iconica ed una componente indicale. Deacon sostiene che il linguaggio verbale
riarticola questo tipo di organizzazione
zoosemiotica attraverso la referenza simbolica che introduce la relazione orizzontale
tra i segni del sistema, distaccandoli dal loro rapporto verticale con il referente: nelle
lingue umane ogni termine sidetermina in rapporto agli altri termini del sistema di
cui fa parte e non più in rapporto al referente.
Deacon ipotizza che le prime lingue (protolingue) fossero costituite da un lessico
elementare: pochissimi termini e una serie limitata di regole di connessione tra i
termini. Questa ipotesi è motivata dallo sviluppo neurologico e cognitivo limitato dei
bambini e probabilmente degli esseri umani che svilupparono le prime forme di
linguaggio. Sul piano ontogenetico all´idea di Chomsky della complessità linguistica
che i bambini si troverebbero a dover gestire nell´imparare a parlare Deacon
contrappone l´idea che “Less is more”,
ossia il fatto che proprio perché i bambini non sarebbero neurologicamente e
cognitivamente in grado di gestire sistemi complessi essi riescono così agevolmente
a utilizzare sistemi elementari, sfrondando, per così dire, tutto il superfluo. Anche se
si adotta, come fa Deacon, un'opzione discontinuista, sottolineando il carattere
specifico del linguaggio umano rispetto a sistemi di comunicazione animale, tale
discontinuità non implica una differenza radicale: diversi tipi di scimmie hanno
sistemi di comunicazione molto sviluppati.
Dalla seconda metà del Novecento la riflessione sul linguaggio si è avvalsa di
esperimenti fatti con le scimmie allo scopo di insegnar loro una lingua storico-
naturale:
– l’insegnamento delle lingue vocali è precocemente fallito;
– l’insegnamento delle lingue segnate, ossia le lingue gestuali di cui si servono i
sordomuti, o di unsistema di segni costituito da simboli (lessigrammi) ha invece
avuto risultati importanti
Deacon afferma che le scimmie sono in grado di comprendere la lingua dei segni, ma
la usano in maniera diversa, non accedendo, secondo la sua teoria, a quella soglia
simbolica che consente ai simboli delle lingue umane di fare riferimento anzitutto
alle relazioni sistematiche che li legano tra di loro e di dar vita a usi che non sono
legati necessariamente alla presenza del referente. Le scimmie hanno infatti una
struttura anatomo-articolatoria che impedisce l’apprendimento di
lingue vocali; l'apprendimento di sistemi linguistici diversi ha mostrato che le
scimmie hanno delle capacità linguistiche e possono imparare a comprendere e a
usare determinati segni. Tuttavia, secondo Deacon, esse hanno capacità di tipo
semantico e sintattico limitate, e non sono in grado di superare la soglia simbolica
che ha reso in grado gli esseri umani di far evolvere sistemi di
lingue semplici in lingue via via sempre più complesse. Un tipo di scimmie, i
cercopitechi, possiede un sistema di comunicazione molto evoluto a cui
Deacon ha applicato il proprio modello semiologico tripartito. Questo codice ha tre
tipi di alarm calls proferiti a seconda del tipo di predatore avvistato dalle scimmie:
– un segno per i predatori d'aria;
– un segno per i predatori che arrivano strisciando;
– un segno per i leopardi.
Deacon paragona gli alarm calls dei cercopitechi alle lingue storico-naturali per
mettere in luce le caratteristiche specifiche di queste ultime: gli alarm calls dei
cercopitechi sono vincolati alla situazione, vengono proferiti soltanto se il predatore
viene identificato nella situazione: in assenza del referente il grido di allarme non ha
più nessuna ragion d'essere. Quindi esiste un legame
denotativo tra il sistema d'allarme e l'oggetto a cui si riferisce, ma non esiste
nessuna relazione orizzontale fra i vari significati che permette di utilizzarli in
assenza del referente. La differenza tra questi segni è il corrispettivo del diverso tipo
di strategia di salvataggio che i cercopitechi devono mettere in atto per fuggire dai
diversi predatori. Questo tipo di linguaggio ha tre referenti esterni e
una funzione che è insieme referenziale e conativa (produrre una reazione di fuga).
Il sistema di comunicazione dei cercopitechi possiede dunque:
– una dimensione iconica: ogni singola emissione di un segno di allarme, un token, è
riconosciuta in quanto è ricondotta alla classe generale, al type di cui fa parte, così
come il singolo predatore viene ricondotto a quella determinata classe di predatori;
– una dimensione indicale: connette il segno di allarme, prodotto e riconosciuto
attraverso la sua determinazione iconica, e il referente a cui esso fa riferimento.
Tale sistema zoosemiotico non possiede invece la referenza simbolica che è specifica
delle lingue umane. Nelle lingue storico-naturali Deacon individua un terzo livello,
quello della referenza simbolica, che ristruttura radicalmente il livello iconico e il
livello indicale, cioè il livello iconico di classificazione del mondo percettivo in classi
generali viene connesso attraverso una relazione
indicale ai segni a cui si riferisce. I livelli vengono ristrutturati attraverso la relazione
simbolica che crea una relazione prioritaria tra i termini del sistema.
Possiamo anche osservare che, se un referente di un termine non esiste più, la
lingua continua a mantenere e utilizzare quel termine. Nella lingua è infatti centrale
la dimensione orizzontale, ossia la relazione che lega un termine agli altri termini del
sistema. Deacon utilizza, senza conoscerlo direttamente, il paradigma di Saussure e
la nozione di valore semantico, come ciò che è dato dal
rapporto e dalle opposizioni tra i diversi termini del sistema
LA RIFLESSIONE SUL LINGUAGGIO DI DANTE ALIGHIERI
Dante e Vico come iniziatori ed esponenti dell’Italian Theory?
Nella sua “Storia filosofica del pensiero italiano”, Roberto Esposito include tra gli
altri Dante, Leonardo da Vinci, Machiavelli, Bruno, Vico, Beccaria, Cuoco, Leopardi,
De Sanctis, Croce, Gentile, Gramsci, Pasolini. Secondo Esposito, la caratteristica
originale del pensiero italiano dalle origini fino ai giorni nostri è la sua capacità di
non chiudersi in sé stesso come la filosofia metafisica classica, ma piuttosto di
contaminarsi con elementi molteplici della realtà. Questo pensiero impuro è
praticato da personalità intellettuali poliedriche, i cui interessi non sono
specificamente filosofici, ma anche poetico-letterari politici, artistici, critici in
accezione ampia. Secondo Esposito esiste una continuità nella tradizione di pensiero
italiana che egli individua nella capacità del pensiero di estroflettersi e di stabilire
una relazione proficua con il proprio altro. Tale interpretazione propone il pensiero
italiano come una fonte produttiva a cui la riflessione
filosofica contemporanea, non solo nostrana, dovrebbe attingere per uscire dalla
crisi in cui oggi versano i diversi indirizzi: dalla filosofia analitica di area anglosassone
alla tradizione ermeneutica gadameriana di area tedesca, fino al decostruzionismo
praticato in area francese.

Dante e Vico come filosofi del linguaggio e delle lingue


Nel caso di Dante e di Vico (ma non solo), le caratteristiche messe in luce da Esposito
(pensiero impuro, attenzione al mondo della vita e alla storia, rapporto complesso
con la modernità) dipendono dall’aver posto al centro della loro riflessione il
linguaggio e le lingue, la loro origine e il loro rapporto con il soggetto, la società e la
storia. Il linguaggio consente:
– da un lato, di tenere insieme il corpo e la mente;– dall’altro, di mettere in
relazione gli esseri umani e di sfuggire in questo modo sia al dualismo
metafisico (mondo intelligibile e mondo sensibile) che alla dimensione monologica
17 in cui spesso si è trincerata la riflessione filosofica.
Jürgen Trabant ha osservato che il De vulgari eloquentia di Dante è il primo trattato
di filosofia del linguaggio della tradizione occidentale moderna, e che Dante era
orgogliosamente consapevole di compiere un passo ancora mai tentato dal pensiero
filosofico (“nemo ante nos!”). Sebbene il suo
saggio si rivolga per certi aspetti alla situazione linguistica della penisola italiana,
Dante considerava tali elementi come esemplari di una riflessione linguistica
generale, e si concepiva dunque non come un autore italiano o toscano, ma come
un pensatore globale (“nos autem, cui mundus est patria, velut piscibus equor”18)
che riflette sulla costitutiva mutevolezza delle lingue
storico-naturali e sulle strategie da adottare per farvi fronte in modo adeguato.
Già Erich Auerbach nel 1929 considera l’opera di Dante:
– il prodotto più alto del pensiero medievale;
– l’espressione di una nuova soggettività, che nasce dalla capacità di rappresentare
l’individualità attraverso una nuova forma di espressione linguistica (plurilinguismo)
e di pensare il linguaggio all’interno di una complessa costruzione antropologica,
politica, teologico-religiosa.
La filosofia di Vico è per più aspetti in una situazione di continuità rispetto al
pensiero dantesco. Vico si trova in una particolare situazione storica che lo porta a
confrontarsi criticamente con quella che è per eccellenza la filosofia della
modernità, quella di René Descartes (Cartesio).
È proprio per superare la prospettiva dualista e monologica del cogito cartesiano che
Vico attua, secondo l’originale proposta interpretativa di Jürgen Trabant, la prima
svolta linguistica della modernità. Non è dunque nel Novecento che la filosofia
mette per la prima volta al centro il linguaggio, attuando quello che è stato chiamato
“linguistic turn” o “sprachanalytische Wende”; ma, già alla fine del XVIII secolo, un
filosofo italiano risponde a Descartes che il linguaggio si situa tra il corpo e la mente,
e si impegna a pensare origine e natura della dimensione linguistica o più
ampiamente semiologica del pensiero umano.

Dante e Vico tra etica, religione e linguaggio


Dante e Vico sono due autori profondamente religiosi che, da buoni cattolici, si
confrontano con le posizioni dell’ortodossia religiosa, in primis con il modello fornito
dalla Bibbia dell’onomatesia adamitica, ossia l’attribuzione dei primi nomi da parte
di Adamo descritta nella Genesi.La dimensione teologico-religiosa investe in modo
profondo anche la meditazione sul linguaggio,
sulla sua origine e sul suo sviluppo.
• In Vico vedremo come tale dimensione sia connessa alla possibilità di cogliere
nella genesi e nel dispiegarsi della natura delle lingue e delle società umane un
“ordine ideale” che consente una visione perspicua di tali eventi.
• In Dante la visione divina e la possibilità della sua rappresentazione linguistica
diventano un tema fondamentale nell’ultima cantica della Commedia, in cui si
ripensano le questioni affrontate nel De vulgari eloquentia e nel Convivio. La
tensione tra il silenzio a cui è necessariamente connessa la visione di Dio e la sua
comunicabilità danno vita a una mistica del totum simul (tutto insieme) che si
esprime poeticamente attraverso un’espressione poetica squisitamente impura,
plurilinguistica per eccellenza, in cui riemerge la dimensione corporea e affettiva
dell’infanzia. In particolare negli ultimi canti abbondano le immagini
dell’allattamento e della relazione tra madre e figlio assunta nel Paradiso dal
rapporto tra Dante e Beatrice.
ORIGINE DEL VOLGARE E DEL LATINO NEL DE VULGARI ELOQUENTIA

Il volgare, lingua materna Il primo aspetto che colpisce nella caratterizzazione che
Dante propone del volgare è il riferimento concreto alla situazione in cui si apprende
il volgare, alla relazione fisica del bambino con la madre
o con la nutrice: «Onde sì come nato, tosto lo figlio a la tetta de la madre
s’apprende, così tosto come alcuno lume d’animo in esso appare, si dee volgere a la
correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare.» (Convivio IV, xxiv,14).
Il volgare, lingua mutabile, è la lingua della prossimità con la madre o con la nutrice;
per opposizione il ritratto di Adamo, la cui lingua è considerata immutabile e
sottratta dunque alla variazione multidimensionale dei volgari, è quello di colui che è
senza madre e senza latte, senza infanzia e senza età adulta: «vir sine matre, vir sine
lacte, qui nec pupillarem etatem nec vidit
adultam.» (DVE,1.6.1).
Il paragone tra il volgare e un tipo di lingua immutabile è compiuto facendo
riferimento a una lingua donata direttamente ad Adamo da Dio, e a una lingua
artificiale creata dagli esseri umani per evitare la variabilità linguistica, qual è il latino
o, come viene chiamato, gramatica. Nel paragone tra latino e volgare proposto da
Dante, colpisce che, se da un lato a vantaggio del latino sta certamente la sua
immutabilità e perfezione, dall’altro il volgare è superiore a causa del ruolo
fondamentale rispetto a eventi naturali, biologici come la generazione, che negli
esseri umani hanno sempre un carattere eminentemente culturale e che richiedono
dunque l’uso del linguaggio: «Questo mio volgare fu congiungitore delli miei
generanti, che con esso parlavano, sì come ´l
fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello: per che manifesto è lui
essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere.»
(Convivio I, xiii, 4).
Qui Dante sembra fare riferimento a una dimensione per così dire ontologica che lo
connette al volgare. In questa raffigurazione del volgare che ha unito i genitori di
Dante possiamo vedere anche il prodotto dell’immaginazione del poeta. Vedremo
che, nella Commedia, Dante porrà in relazione strettissima volgare e soggettività.
L’opposizione di volgare e latino o gramatica come lo chiama
Dante è dunque quella tra una lingua storico-naturale appresa spontaneamente che
accompagna l’essere umano nel suo sviluppo biologico e culturale e una lingua
culturale. Il volgare è dunque lingua di desideri e bisogni, mentre il latino è una
lingua artificiale, le cui regole sono immutabili e il cui scopo è quello di essere
utilizzato per la produzione intellettuale, filosofica o poetica che sia:
«Vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus
cum primitus distinguere voces incipiunt; vel, quod brevius dici potest, vulgarem
locutionem asserimus quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus. Est et
inde alia locutio secundaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt. Hanc
quidem secundariam Greci habent et alii, sed non omnes: ad habitum vero huius
pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem
regulamur et doctrinamur in illa.» (DVE, I, i, 2-3).

Traduzione:
«Chiamiamo lingua volgare quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li
circonda quando incominciano ad articolare i suoni; o, come si può dire più in breve,
definiamo lingua volgare quella che riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di
alcuna regola. Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani
chiamarono ‘grammatica’. Questa lingua seconda la possiedono pure i Greci e altri
popoli, non tutti però: in realtà anzi sono pochi quelli che
pervengono al suo pieno possesso, poiché non si riesce a farne nostre le regole e la
sapienza se non in tempi lunghi e con uno studio assiduo.» (DVE, I, i, 2-3).

Latino, locutio secundaria


Il latino, o gramatica è dunque una lingua artificiale le cui regole sono state create
ad hoc dai “gramatice positores” (fondatori della “gramatica”). Mentre il volgare è
un idioma universale che si ritrova in tutte le comunità umane, la creazione di una
locutio secundaria è propria solo di alcune comunità. Dante menziona il greco come
caso analogo al latino di locutio secundaria che è in una
relazione affine di diglossia 19 con le lingue volgari dello stesso ceppo.
La locutio secundaria non è però creata, per così dire, ex nihilo (dal nulla) e, come fa
osservare lo studioso Mirko Tavoni, Dante tiene a sottolineare la somiglianza tra il
latino e il volgare del sì, affermando così al tempo stesso la latinità di questo volgare
e il fatto che i suoi parlanti sono i veri eredi dei Romani. Dante sostiene che i tre
volgari d’oc, d’oïl e del sì 20 risalgono allo stesso idioma babelico, altrimenti non si
potrebbero spiegare le affinità lessicali tra di essi. Tali affinità li legano anche al
latino, locutio secundaria comune; Dante afferma che il latino è stato creato dai
positores all’interno dell’ʺydioma tryphariumʺ (triplice idioma), il ceppo a cui
appartiene anche il suo
volgare. Fra i tre idiomi quello del sì ha avuto un ruolo predominante visto che i
positores nello scegliere la particella affermativa scelsero sic, corrispondente
dunque al termine sì. Secondo l’ipotesi di Tavoni è dunque plausibile che Dante
ritenesse che il latino fosse divenuto lingua intellettuale universale dell’Occidente
non perché fosse stato un esperanto creato in maniera
del tutto arbitraria, ma perché i Latini lo importarono poi nell’Europa del Nord. In
ogni caso esso rimane per Dante lingua nostra in quanto è il frutto di composizione e
regolamentazione a partire dalla materia fornita dai volgari romanzi.

La maledizione di Babele
Vi è dunque una tensione costante nelle prime opere dantesche tra la preferenza
accordata al latino in quanto lingua che “non è altro che una sorta di inalterabile
identità della lingua attraverso tempi e luoghi diversi” (DVE, I, ix, 2) e quella
accordata al volgare per la sua dimensione naturale e per il nesso profondo che esso
intrattiene con l’individualità del parlante. L’aspetto che Dante nel De
vulgari eloquentia sembra invece guardare in maniera univocamente negativa è la
molteplicità dei volgari e, in particolare, quella dei volgari italiani.
Jürgen Trabant ha osservato che la forte avversione di Dante verso la varietà e
variabilità dei volgari è da ricondurre in primis alla maledizione babelica che Dante
reinterpreta in modo originale continuando però a giudicare la moltiplicazione delle
lingue un fatto negativo. Tuttavia, secondo Trabant, l’orrore dantesco nei confronti
della varietà e della diversificazione delle lingue
corrisponde anche a un atteggiamento specificamente filosofico estremamente
diffuso, un atteggiamento legato al sospetto verso uno strumento, il linguaggio
verbale, che si considera troppo malleabile e fluido e che si vorrebbe sostituire con
uno strumento solido, rigido, intrasformabile. Per questo la narrazione di Babele
prende avvio con un’esclamazione sofferente: “Dispudet, heu,
nunc humani generis ignominiam renovare”21 (DVE, I, vii, 1).
All’immenso cantiere di Babele Dio infligge una pena che segue già secondo Dante
una specie di principio del contrappasso, che poi ritroveremo per le pene in Inferno
e Purgatorio: quanto più si diversificano le attività del cantiere, tanto più numerose
diventano le lingue che separano gli uomini(“Quot quot autem exercitii varietates
tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humanum
disiungitur” (DVE, I, vii, 1)).Lo scenario babelico della diversità e confusione
linguistica ha in Dante anche una connotazione diversa, potremmo dire
anacronistica, messa in evidenza da alcuni studiosi: quella della molteplicità
e separatezza dei vari linguaggi tecnici che fanno corpo con le diverse pratiche nel
Medioevo.A essere incomunicabili tra di loro dunque sarebbero i diversi linguaggi
tecnici parlati dalle diverse maestranze e direttamente dipendenti da forme di
sapere differenti, solo in parte verbalizzati, ma perlo più trasmessi per imitazione. A
proposito dello scenario babelico dantesco, Giorgio Stabile ha osservato:“A guardar
bene […] la comunità si dissolve per effetto di un capovolgimento improvviso
nell’uso del linguaggio che, unico finché si subordina alla ratio o “principio formale”
dell’opus a cui tutti concorrono, cessa di esserlo non appena è asservito ai materiali
molteplici di cui l’opus è composto. È per effetto di questa inversione – dalla forma
del progetto alle materie della sua produzione – che il linguaggio si scompone in
tanti idiomi per quante sono le operazioni e le tecniche asservite a queste materie;
da ciò consegue inevitabile il simmetrico frantumarsi della comunità dei parlanti in
altrettanti gruppi asserviti ai rispettivi idiomi di lavoro.” 22 Riguardo alle
caratteristiche di questo linguaggio Giorgio Stabile scrive:
“L’artigiano e il maestro d’arte accumula e ritrasmette all’apprendista il proprio
sapere, specie il sapere tecnico, attraverso un linguaggio scarsamente e
sommariamente verbalizzato. Il suo vero linguaggio non è quello
dell’indottrinamento verbale, ma è quello muto dei gesti e delle operazioni
manuali tramandati per imitazione e a prezzo di una prolungata convivenza nella
bottega o nel cantiere”23 La molteplicità delle lingue è in questa prospettiva
connotata in senso etico (negativo) dall’asservimento a un fine tecnico-pratico che
diviene l’unico obiettivo di un determinato gruppo
professionale. Se dal punto di vista di uno storico della scienza qual è Giorgio Stabile
è naturale guardare con interesse a questi linguaggi tecnici e alla loro evoluzione in
età moderna è chiaro che per Dante, alla ricerca di una lingua universale con cui
poter parlare dei temi più alti nelle forme piùnobili, questo tipo di comunicazione
appare del tutto inadeguata.Dopo Babele, solo gli ebrei mantengono la lingua
primigenia data da Dio ad Adamo, gli altri,
proprio in seguito alla moltiplicazione delle lingue, si disperdono e occupano diverse
parti della terra. La variazione linguistica è connessa antropologicamente all’essere
l’uomo “instabilissimum atque variabilissimum animal”24 (DVE, I, ix, 6); per questa
ragione dopo l’oblio della lingua
originaria parlata nell’Eden le lingue sono create “a nostro beneplacito”
La variazione è, sottolinea Dante, sia diatopica25 che diastratica.26
Trabant ci ricorda che il testo
del De vulgari eloquentia ripete in modo martellante questo concetto attraverso una
scelta lessicale
in cui si avvicendano: variari, variatio, varietas, variabilis, variatus, varie.

Alla ricerca del VICAC (Volgare Illustre, Cardinale, Aulico, Curiale)


Poiché, secondo il De vulgari eloquentia, il volgare è più nobile rispetto al latino,
Dante si propone di individuare all’interno dell’«Ytalia silva» quell’idioma adatto agli
alti scopi intellettuali e poetici che egli intende attribuirgli. La strategia seguita in
questa ricerca è una strategia per esclusione. Dante comincia con l’eliminare i
volgari che gli appaiono più aberranti, come il romano e il sardo, e
procede via via l’indagine senza mai trovare però un idioma veramente adeguato.
Sul piano linguistico il testo esprime un vero orrore per queste varietà, ed è come se
proprio il carattere naturale sulla base di cui è stata affermata la superiorità del
volgare sul latino mostri il suo volto grottesco, fatto di tratti bestiali, o troppo
femminili o troppo maschili. Jürgen Trabant osserva che ciò che è in primo piano qui
è il suono; è a esso che si riferisce per lo più la connotazione negativa.La naturalità
del volgare orienta anche il linguaggio dantesco del De vulgari eloquentia, in latino,
portando alla scelta di immagini di grande sensualità, sia in negativo che in
positivo.Così, alla fine della sua disanima, Dante paragona il volgare ricercato a una
affascinante pantera che fa sentire il suo odore ovunque, ma non si lascia trovare da
nessuna parte: “redolens ubique et necubi apparens”. La lingua cercata deve in
realtà essere inventata perché non esiste. Dante la teorizza denominandola Volgare
Illustre, Cardinale, Aulico, Curiale (VICAC):
1. Illustre perché illumina i dotti che lo adoperano e a sua volta è illuminato dalle
loro opere (illustrare in latino significava anche «illuminare», «dare luce»), ma qui
può anche voler dire «purificare» (da lustrum), cioè «muovere gli animi», secondo la
metafisica neoplatonica della luce; insomma «illustre» perché raffinato dai rozzi
vocaboli, accenti e costruzioni dei volgari municipali,
nonché reso chiaro, perfetto e di urbana finezza.
2. Cardinale perché è il punto di riferimento di tutta la famiglia dei volgari italiani
(come la porta gira intorno al cardine, così i volgari italiani girano intorno al volgare
illustre); un volgare è «cardinale» anche quando a livello locale gli girano attorno le
minori parlate locali, i volgari municipali.
3. Aulico perché, se in Italia ci fosse una corte regale (detta in latino aula) esso
sarebbe il volgare parlato nel Palazzo. Un'unica corte regale e un unico Senato
ancora l'Italia non li aveva, però le forze intellettuali, secondo Dante, costituivano
potenzialmente la curia imperial-culturale d'Italia.
4. Curiale perché adatto all'uso di un'assemblea legislativa o senato o tribunale,
quell'insieme di funzionari che lavorano sotto la guida di un Principe; curiale perché
proprio della «curia» italiana, cioè di quella comunità spirituale e civile,
politicamente dispersa nelle sue membra, ma idealmente unita per ingegno
culturale; «curiale» anche in quanto norma e misura di ogni locuzione, quindi
«razionale».
Il VICAC è una lingua ideale. Dante la presenta come unità di misura che ha la
capacità di servire da metro di valutazione per reperire le forme di espressione più
adeguate. Se il latino è una lingua artificiale che serve per la dottrina, il VICAC è
pensato come lingua per la poesia e le si attribuisce dunque, anzitutto, una
dimensione estetica: illustre in quanto capace di rappresentazioni evidenti,
poeticamente luminose, perspicue; il VICAC serve inoltre da cardine e dunque da
guida e orientamento, e ha come correlato un potere regale e una curia (una corte
associata all’impero) Il compimento della teoria dantesca è affidato al secondo libro
in cui viene affrontata la questione dell’uso del VICAC, delle persone che devono
utilizzarlo, degli argomenti che devono essere
trattati da esso e della forma poetica da adottare.
È qui che emerge la differenza tra il latino, lingua per la conoscenza, (scientia) e il
VICAC che è destinato ai più eccellenti (excellentissimi) dottori che scrivono poesia
facendo leva soprattutto sull’ingegno. I loro temi sono i più alti (dignissima) e sono
quelli della poesia medievale: arma, amor et rectitudo. La forma che essi devono
adottare è la canzone che Dante giudica la più alta tra
le forme liriche. Mentre la scienza, a cui i doctores si sono dedicati usando il latino, è
affidata al logos apophantikos (discorso apofantico), ossia al discorso che può essere
vero o falso, l’oggetto della poesia è la finzione; essa ha carattere retorico, in quanto
fa uso di ornamenti, e musicale, poiché sfrutta i tratti ritmici, prosodici della
dimensione sonora delle lingue. Se questo sembra essere l’esito raggiunto alla fine
del percorso del De vulgari eloquentia è necessario sottolineare che si tratta di un
approdo che non avrà seguito negli sviluppi successivi dell’attività dantesca.
VICAC non è il linguaggio della Commedia, che non ricerca l’idealità di una lingua
immutabile, ma realizza un plurilinguismo che sfrutta anche le componenti rigettate
nel De vulgari eloquentia in quanto esteticamente inadeguate, dissonanti, bestiali.
A una pratica linguistica radicalmente innovativa corrisponde nella Commedia una
nuova visione del linguaggio. Come vedremo, persino l’idea del carattere inalterabile
della lingua di Adamo viene sostituita, e all’idioma adamitico viene estesa la
concezione convenzionalista che nel De vulgari eloquentia era ancora limitata alla
condizione post-babelica

IL NATURALISMO LINGUISTICO DI DANTE


La variabilità linguistica in Dante: un’interpretazione alternativa Se in precedenza
abbiamo presentato una interpretazione della variabilità linguistica in Dante come
fatto negativo connesso alla maledizione babelica, qui vorremmo presentare
un’interpretazione diversa. Come ha sottolineato Irène Rosier-Catach, gli
innumerevoli studi critici che sono stati dedicati a quest’opera possono essere divisi
in due grandi gruppi: quello, più ampio, di coloro che
sostengono la tesi che abbiamo già analizzato (variabilità come dato negativo, da
superare) e quello più esiguo, di cui fa parte il grande dantista Bruno Nardi, che
afferma che la variabilità linguistica è, già nel De vulgari eloquentia, un fatto positivo
o piuttosto un dato antropologicamente costitutivo. Quest´ultimo tipo di
interpretazioni connette la concezione dantesca del linguaggio alla dimensione
sociale e politica dell´animale umano e la riconduce all´idea aristotelica della Politica
che motiva appunto l´uso del linguaggio degli esseri umani con il fatto che sono
“animali politici” e, in quanto tali, sono portati a unirsi ai propri simili per formare
delle comunità. Più in generale questi studiosi individuano molteplici nessi che
connettono il naturalismo linguistico dantesco con l’attenzione di Aristotele alle basi
biologiche del linguaggio.
Prima di inoltrarci nelle questioni appena menzionate vorremmo spiegare su quali
evidenze argomentative si fonda un’interpretazione che sembra non tener conto di
certi elementi testuali che appaiono abbastanza incontrovertibili.
• Una prima spiegazione è che esiste certamente in Dante una tensione rispetto alla
valutazione della variabilità linguistica. Del resto, se Dante non nutrisse già ora una
ambivalenza rispetto alla dimensione naturale e variabile, caratteristica del volgare,
sarebbe difficile motivare la radicale trasformazione filosofica e linguistica che
avviene con la Commedia.
• Un’altra spiegazione plausibile viene proposta dal dantista statunitense Albert
Ascoli, autore di “Dante and the Making of a Modern Author” (Cambridge University
Press 2008), un’opera voluminosa e importante in cui Ascoli analizza le strategie
attraverso cui Dante nel corso della sua intera attività di scrittore si costruisce come
un autore moderno. Secondo Ascoli, la drammatizzazione della variabilità linguistica
dei volgari italiani corrisponderebbe alla volontà di
Dante di presentare il proprio linguaggio poetico come l’unico adeguato a realizzare
gli obiettivi più nobili, obiettivi a cui è dedicata l’indagine del secondo libro, in cui
molti esempi di versi poetici adatti a costituire il VICAC sono in effetti di Dante.
• Vi è infine un’altra spiegazione proposta da Rosier-Catach, secondo la quale la
piena accettazione della variabilità linguistica si accompagna anche con la necessità
(anch’essa di matrice aristotelica) della reductio ad unum 27, ossia con la necessità
di individuare all’interno di ogni genere una misura comune per ogni cosa che
appartiene a tale genere. Si tratta di un noto principio che Aristotele propone nel X
libro della Metafisica, quando si sofferma sui diversi sensi del concetto di essere e
sulle diverse prospettive a partire da cui una stessa cosa può essere oggetto di
studio. Rosier-Catach ricorda che tale principio ha anche una declinazione etica nella
presentazione aristotelica dell’uomo virtuoso come misura per tutti gli esseri umani,
e una declinazione politica che corrisponde all’affermazione dell’esigenza che un
gruppo con uno stesso fine debba avere un unico governante. Dante utilizza il
principio aristotelico della reductio ad unum nella sua teoria politica del De
Monarchia, in cui tale principio è essenziale per argomentare la necessità di un
unico imperatore da un lato, e dall’altro della separazione di Chiesa e Impero, due
poteri indipendenti in quanto appunto appartenenti a generi diversi.

Il naturalismo linguistico di Dante


Esistono diverse tradizioni di naturalismo linguistico. Nella sua indagine sul
naturalismo linguistico di Dante, Stefano Gensini ne presenta diverse:
– quella platonica che abbiamo incontrato nella sezione del Cratilo, in cui Socrate
propone un’indagine etimologica mirante a individuare in certi suoni le presunte
radici originali del linguaggio;
– quella secondo cui al di sotto della superficie delle lingue storiche si può ancora
rintracciare la lingua originaria, lingua adamica caratterizzata dalla trasparenza o
iconicità del significante. Esponente principale di questo indirizzo è il mistico tedesco
Jacob Böhme.
I due primi tipi di naturalismo sopra descritti sono caratterizzati da una “posizione
riduzionista” che non valuta positivamente la molteplicità delle lingue. Diverso il
caso del naturalismo linguistico dantesco che è possibile caratterizzare attraverso i
seguenti elementi:
– il linguaggio è una capacità che fa parte del “bíos fisico e psichico dell’essere
umano” (Gensini, 70);
– il linguaggio umano è compreso in rapporto a e in opposizione con le forme
espressive degli altri animali;
– le differenze tra le lingue non sono considerate imperfezioni, ma parte del corredo
fisiologico, aspetti costitutivi della facoltà linguistica umana.
Dante rientra dunque, secondo Gensini, in quest’ultimo tipo di naturalismo che egli
definisce con espressione ossimorica molto appropriata un naturalismo
storicizzante. Gli aspetti del De vulgari eloquentia che sembrano confermare tale
tesi sono diversi:
– anzitutto una nozione di locutio di matrice aristotelica, ossia di diálektos,
linguaggio articolato;
– Dante ripropone, sia pure in modo meno dettagliato, la distinzione aristotelica tra
diálectos, phoné e psóphos che risale alla Historia animalium;
– in Aristotele, questa tripartizione conduce a un’analisi comparata tra
comunicazione umana e comunicazione animale.
In Aristotele psóphos è il suono emesso da animali senza polmoni, la phoné è
propria di animali con polmoni, mentre la diálectos è un tipo particolare di
espressione vocale che è specifico degli animali che posseggono un apparato
sopralaringeo sufficientemente complesso per modulare la voce in grammata
28 ben differenziati. In questo gruppo egli inserisce gli esseri umani e alcuni tipi di
uccelli,la specie linguisticamente più vicina all’uomo.
È solo all’interno della diálectos che si ritrovano variazioni individuali legate ai
luoghi; anche negli uccelli essa può variare sia pure in modo limitato nello spazio e
nel tempo. E negli uccelli, così come negli esseri umani, la diálectos deve essere
imparata attraverso un addestramento. Aristotele nel De partibus animalium
osserva che alcune specie di uccelli sembrano istruirsi reciprocamente. Tuttavia
questo processo della comunicazione degli uccelli non ha nulla a che
vedere con la dimensione storica degli esseri umani. Dante segue Aristotele
soprattutto nella differenziazione tra comunicazione animale e lógos
specifico degli esseri umani. Egli sembra ripercorrere l’argomentazione del primo
libro della Politica in cui Aristotele oppone il linguaggio umano, in quanto essenziale
alla realizzazione del carattere politico dell’uomo, alla voce animale come segno per
esprimere piacere e dolore. Se dunque gli animali della stessa specie sono in grado
di comunicare reciprocamente le sensazioni
di piacere e di dolore attraverso segni, attraverso il lógos gli esseri umani riescono a
raggiungere il fine di esprimere ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Ed è proprio
questa capacità di condividere e comunicare il sentimento etico del giusto e
dell’ingiusto quello che fonda le comunità umane, dalla famiglia alla pólis. Secondo
Aristotele chi non possiede questa capacità non può avere una vita politica; è il caso
di coloro che appartengono a una specie animale determinata dall’istinto oppure di
Dio che, in quanto autosufficiente, non ne ha bisogno. Secondo Lo Piparo,
l’argomentazione dantesca nel De vulgari eloquentia, sulle ragioni per cui è inutile
che angeli e animali possiedano il linguaggio, è costruita in modo analogo a quella
aristotelica. Dante insiste sul fatto che il bisogno di parlare deriva dalla diversità
cognitiva tra gli individui e che dunque gli angeli, in quanto cognitivamente identici,
poiché tutti si rispecchiano nella divinità, non ne hanno bisogno. Non ne hanno
bisogno neppure gli animali, perché tutti gli individui di una stessa specie
condividono gli stessi atti, passioni e bisogni e sono in grado di comunicarli ai loro
simili in maniera istintiva; mentre sarebbe stato svantaggioso un linguaggio che
unisse individui di specie diverse. Negli esseri umani il bisogno di parlare nasce
dunque dalla diversità cognitiva e dalla non autosufficienza degli individui. Questi
caratteri fanno sì che il linguaggio sia costitutivamente dialogico.
Quando Dante, nel De vulgari eloquentia, si interroga sulla prima parola pronunciata
da Adamo, conclude che la prima parola deve essere stata “El”, cioè “Dio”, termine
che deve essere stato proferito in dialogo con Dio, come domanda o come risposta,
“vel per modum interrogationis, vel per modum responsionis.”
29 (DVE, I, iv, 4). Per questo Dante, nel De vulgari eloquentia, ricorda che l’uomo
non è guidato dall’istinto come l’animale, ma dalla ragione che è “differente in
ciascun singolo individuo per quanto riguarda la capacità di discernere, giudicare,
scegliere e la diversità è tale che sembra quasi che l’individuo
goda della propria specificità.” (DVE, I, iii, 1). Subito dopo torna il paragone con gli
angeli che introduce la dimensione corporea come strettamente connessa alla
comunicazione linguistica umana: “E neppure si dà che l’uno si immedesimi
nell’altro per mezzo di un rispecchiamento spirituale, come avviene agli angeli,
perché lo spirito umano è gravato dallo spessore e dall’opacità di un corpo mortale.”
(DVE, I, iii, 1). Ma la dimensione corporea non è concepita da Dante come un
ostacolo alla comunicazione, né come un mezzo imperfetto per esprimere i concetti.
Dimensione sensibile e dimensione spirituale
non possono essere separate nella locutio, il linguaggio articolato specifico degli
esseri umani. È nella definizione dantesca di segno come entità, che è al tempo
stesso mentale e sensibile, che Lo Piparo individua la continuità della riflessione di
Dante con quella di Aristotele. Lo Piparo sottolinea che Dante si discosta invece dalla
tradizione agostiniana che mantiene separati e gerarchicamente correlati il verbum
cordis, linguaggio interiore e il verbum vocis, linguaggio
esteriore che ha solo la funzione di manifestare il primo all’esterno.

“Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod


rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in
rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil
deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. Quare, si tantum
rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale
nec a ratione accipere nec in rationem deponere potuisset” (DVE, I,iii, 2).

Traduzione:
“Perché gli umani potessero comunicarsi ciò che pensavano fu necessario disporre di
un segno che fosse contemporaneamente mentale e sensibile. Fu necessario che
fosse mentale perché doveva ricevere i propri contenuti da una mente e portarli in
un’altra; e, poiché non è possibile trasferirsi
da una mente all’altra se non per una mediazione sensibile, fu necessario che fosse
anche sensibile. Perciò, se fosse solo mentale non potrebbe transitare, se fosse
soltanto sensibile non potrebbe ricevere i suoi contenuti da una mente e deporli in
un’altra mente.” (DVE, I,iii, 2).

Secondo Lo Piparo, Dante sarebbe dunque aristotelico non nel senso del
convenzionalismo che la tradizione attribuisce ad Aristotele. La definizione dantesca
del “signum rationale et sensuale” equivarrebbe all’uso metalinguistico del termine
symbolon proposto da Aristotele proprio per fare riferimento alla necessaria
complementarità di dimensione mentale e dimensione fonica nelle lingue umane.
Tale definizione dantesca porta a modificare il senso del carattere ad placitum (a
piacere) del linguaggio verbale. Il linguaggio sarebbe cioè differenziato e variabile
proprio a causa della dimensione mentale, della ratio. La convenzionalità non
riguarderebbe dunque tanto la dimensione sonora, ma inciderebbe piuttosto in
primis su quella concettuale, rendendo dunque la variabilità storica e geografica un
tratto costitutivo della lingua volgare.
In questo senso la naturalità della facoltà linguistica umana sarebbe complementare
alla variabilità degli idiomi, al loro essere prodotti ad placitum. Stefano Gensini ha
osservato a tale proposito che Dante insiste sul fatto che l’esercizio dell’arbitrio che
porta ad adottare una lingua e che determina
le sue trasformazioni nel tempo e nello spazio è a sua volta un dono di natura.
In questo senso, si può dire che l’originalità del pensiero linguistico di Dante consiste
proprio nel riuscire a pensare dimensioni opposte mostrandone il carattere
complementare e sottolineando la necessità di integrare entrambe all’interno di una
riflessione adeguata sulla specificità del linguaggio umano.

LA RIVOLUZIONE TEORICA E POETICA DELLA DIVINA COMMEDIA


Il naturalismo linguistico della Commedia
Il progetto della Commedia è esemplare più di ogni altro di quel pensiero vivente
che Esposito propone di considerare caratteristico della storia intellettuale italiana.
Nell’opera dantesca si fondono infatti dimensione poetica, filosofica e religiosa; la
Commedia è l’espressione del nuovo soggetto cristiano che rivendica per sé una
concezione del mondo profondamente rinnovata. Quest’ultimo elemento ci
consente anche di comprendere le ragioni dell’abbandono da parte di Dante del
progetto filosofico del Convivio, il cui metodo e le cui modalità argomentative
ripercorrevano ancora quelle della filosofia scolastica del tempo. La radicalità della
Commedia si riflette anche nelle posizioni filosofico-linguistiche che elaborano un
naturalismo linguistico più maturo di quello individuabile sia nel De vulgari
eloquentia che nel Convivio. All’esposizione di tesi teoriche di natura filosofico-
linguistica corrisponde nel poema dantesco una esemplificazione poetica che
conferisce a esse una maggiore efficacia e perspicuità. In particolare, la concezione
di naturalismo linguistico che andremo a esaminare rafforza e legittima il progetto
plurilinguistico della Commedia e la nuova visione di soggetto parlante, di cui viene
proposta una originalissima riflessione attraverso una forma poetica.

Analisi della forma che assume il naturalismo linguistico nella Commedia


Dante affida ad Adamo il compito di descrivere la natura della propria lingua
assimilandola a quella di qualsiasi altra lingua e associandola a caratteri
antropologici universali. Adamo, che Dante incontra nel XXVI canto del Paradiso,
parla necessariamente della propria lingua e delle lingue umane in generale
utilizzando il volgare della Commedia: mossa esemplare per sottolineare la
mutabilità costitutiva dei parlari umani, ma anche il carattere relativamente stabile
che la grande poesia conferisce alle lingue, una forma di eternità che è propria
dell’arte.

“La lingua ch’io parlai fu tutta spenta


innanzi che all’ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta” (124-26)

Qui Adamo contraddice l’idea secondo cui è la confusione babelica a produrre l’oblio
dell’ebraico (che è appunto la lingua adamica). Essa è già estinta prima che cominci
la costruzione della torre di Babele (“ovra inconsummabile”).

“ché nullo effetto mai razïonabile,


per lo piacer uman che rinovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile”
(127-29)

La trasformazione e l’estinzione delle lingue umane sono considerati suoi tratti


costitutivi; le lingue sono assimilate a oggetti biologici; le descrizioni dei loro
meccanismi di corruzione, come osserva Gensini, sono riprese da Dante dalla
tradizione aristotelica, in particolare da De coelo30 e De Generatione
“Opera naturale è ch’uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella”
(130-32)
La dimensione naturale della linguisticità apre la terzina, ma a essa è associata
immediatamente quella della storicità e del carattere convenzionale delle lingue. Si
osservi che la terminologia tecnica utilizzata nel De vulgari eloquentia per fare
riferimento alla posizione convenzionalista, “a nostro beneplacito”, si trasforma qui
in un’espressione concretissima, che adotta la forma dell’esemplificazione (così o
così) per rendere conto della variabilità linguistica; “abbella” contiene
una connotazione estetica che sembra integrare anche la componente poetico-
letteraria.
“Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
I s’appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso de’ mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene”
(133-138)
La variabilità linguistica viene descritta attraverso il caso del nome che fa riferimento
a Dio, e dunque all’entità a cui per eccellenza dovrebbe convenire un nome
immutabile. Si ribadisce invece la normalità di questo fenomeno riecheggiando una
formula oraziana (“si volet usus…”31) e riprendendo motivi epicureo-lucreziani.

Il naturalismo linguistico della tradizione umanistica


Commentando il passo sopra citato, Gensini afferma che se la facoltà linguistica
umana è considerata naturale, tale facoltà rende possibile “in linea teorica
l’apprendimento linguistico, ma determina anche la disposizione delle singole
nazioni a adottare liberamente (secondo le opportunità culturali e storiche) questa o
quella lingua.” (Gensini, 73).La forza teorica della posizione dantesca sarà alla base
del ruolo che tale posizione avrà nell’umanesimo italiano. Secondo un saggio ormai
classico di Karl Otto Apel “L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo italiano.
Da Dante a Vico” (Il Mulino 1975, ed. Or. 1963), Dante è
l’iniziatore della tradizione umanistica per quanto riguarda la riflessione sulla lingua.
La seconda parte del saggio di Gensini “Le idee linguistiche di Dante” si sofferma in
particolare sulla trasmissione e la rielaborazione delle idee linguistiche dantesche in
Niccolò Machiavelli nel “Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua”, in Claudio
Tolomei nel “Cesano della lingua italiana”, e in Benedetto Varchi nell’“Ercolano”. Per
Machiavelli, che non conobbe irettamente il De vulgari eloquentia, le fonti
dantesche a cui fare riferimento sono il Convivio e soprattutto la Commedia. Gli
elementi che egli fa propri sono soprattutto quelli che connettono la lingua materna
alla cittadinanza e all’identità culturale. Gensini osserva che è fondamentale per
Machiavelli il fatto che la Commedia mostri che la stessa appartenenza eticopolitica
della persona possa rivelarsi
attraverso la lingua. Facendo riferimento alla complessa situazione politica del
Cinquecento di un’Italia frammentata politicamente e attraversata da molteplici
conflitti, Gensini osserva che in Machiavelli “questo riconoscersi attraverso il
linguaggio, questo esibito radicamento in uno spazio e in un tempo
determinato, potevano funzionare come un vero e proprio vessillo ideologico.”
(Gensini, 76). Sulla linea Dante-Machiavelli, è possibile individuare in Tolomei una
riflessione che individua all’origine dell’evoluzione linguistica l’interazione tra tre
fattori: la Natura, l’Arte e il Caso. L’innovazione teorica rispetto al modello dantesco
di naturalismo linguistico consiste nell’inserire, accanto alla natura e all’arte, anche
un elemento di imponderabilità che insieme ai primi due
governa l’uso in tutte le comunità di parlanti, uso che non dipende mai dall’arbitrio
del singolo, ma piuttosto dalla collettività. Sebbene Tolomei pensi l’estinzione e la
trasformazione delle lingue attraverso il paradigma aristotelico della corruzione dei
fenomeni naturali, egli ha viva coscienza della dimensione storica del cambiamento
linguistico. Anche in Varchi sono presenti una serie di motivi danteschi classici, da
una trattazione zoosemiotica che mira a porre in evidenza la specificità della
“favella”, linguaggio articolato umano, alla riflessione sulla varietà delle lingue
umane all’interno di un paradigma naturalista. In particolare, Varchi:
– integra questi elementi con una classificazione delle lingue a seconda dei modi in
cui esse si originano, classificazione in cui trova posto l’opposizione tra lingue
articolate in quanto “assoggettabili alla scrittura” e lingue non articolate perché in
esse non è presente tale carattere;
– sottolinea che anche lingue prive di scrittura sono a tutti gli effetti lingue, la
“scrivibilità” è infatti un aspetto derivato rispetto al parlato.

Il plurilinguismo della Commedia: il caso dell’Inferno


“Diverse lingue, orribili favelle
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira”
(Inferno III, 25-27)
Proponiamo la convincente interpretazione che ha dato di questo passo una
dantista, Elena Lombardi. 32 Le due terzine citate descrivono in maniera precisa la
dimensione linguistica peculiare del regno infernale. Come ha osservato Lombardi,
troviamo qui anzitutto un riferimento alla molteplicità delle lingue che risuonano
nell’Inferno (“diverse lingue”); poi si introducono le “favelle” nel senso meno tecnico
di modi di parlare che vengono connotati in maniera fortemente negativa “orribili
favelle”; il sintagma successivo “parole di dolore” vira verso una modalità
espressiva, esclamazione di dolore più che parole vere e proprie. In modo analogo si
procede a ritroso verso sonorità non linguistiche che esprimono sentimenti negli
“accenti d’ira” e nelle “voci alte e fioche” a cui si accompagnano gesti delle mani
(comunicazione non verbale). Quello che
produce questa molteplicità caotica di voci non ha più nulla a che vedere con le
“diverse lingue” con cui si è aperto il passo; si tratta piuttosto di un “tumulto”,
rumore che è sottofondo costante in quella dimensione atemporale e che Dante
paragona, con immagine molto corporea, alla sabbia sollevata da una bufera di
vento Le individualità infernali hanno tutte un tratto di non trasformabilità che è
reso anche attraverso un
linguaggio verbale e non verbale che manifesta tale fissità, l’incapacità di
trasformazione che sarà invece tipica della soggettività nelle altre cantiche e che
avrà come corrispondente un’espressione linguistica fluida, polisemica, inclusiva. La
descrizione delle interazioni linguistiche in questa cantica convergono nel mettere in
evidenza la dimensione non umana, bestiale a cui è ridotta la capacità linguistica dei
dannati. Esemplare di questo atteggiamento poetico la raffigurazione del “bestial
segno” di Ugolino nel XXXII e XXXIII canto, in cui Dante mette in scena l’inversione
del più importante di tutti i segni: l’Eucarestia. Ciò accade perché Ugolino mangia
per odio, per fame, per dolore e non per amore. Se dunque Ugolino sarebbe stato
nella condizione di seguire in maniera esemplare il cammino di Cristo, la sua
incapacità di amare raffigurata in modo unico nella descrizione del rapporto con i
figli rinchiusi con lui che muoiono di fame lo condanna eternamente a una posizione
bestiale: “riprese ‘l teschio misero co’ denti / che furo a l’osso come d’un can forti”.
Se questa è la tessitura linguistica della prima cantica, Dante autore si trova a dover
legittimare una scelta che è ben diversa da quella del VICAC ipotizzata nel De vulgari
eloquentia. Nel contesto infernale, l’introduzione dei dialetti descritti nel De vulgari
eloquentia con connotazioni estetiche grottesche assume un carattere appropriato
ed è parte integrante della strategia plurilinguistica praticata da Dante. Ad esempio,
nel XXVII canto troviamo il garrulo lombardo parlato da Guido da Montefeltro che
Virgilio mostra di considerare con un certo sussiego, mentre precedentemente,
nell’incontro con Ulisse, aveva suggerito a Dante di lasciar parlare lui temendo che
Ulisse avrebbe disprezzato il suo modo di parlare. Proprio in rapporto a Virgilio e al
poema epico di cui è autore,
Dante deve legittimare le proprie scelte di autore che fa poesia in un volgare ancora
del tutto privo di tradizione e prestigio. Secondo Elena Lombardi, che riprende le tesi
di un saggio di Sander Gilman, Dante opterebbe per una strategia tipica di un
“minority author”, un autore appunto di una lingua “minore”. Tale strategia consiste
nello scrivere in una maniera che include una molteplicità
di elementi ma al tempo stesso è capace di trascenderli. Questo doppio movimento
è particolarmente evidente nella prima cantica in cui Dante da un lato dipinge il
regno infernale come qualcosa di grottesco da cui deve imparare con fatica a
prendere completamente le distanze, dall’altro nei confronti di Virgilio, ma anche
dei propri lettori, sottolinea ripetutamente la sua posizione di inferiorità, la sua
incapacità, una strategia che Lombardi, seguendo Gilman, definisce masochista. Nel
secondo canto dell’Inferno Dante indica con chiarezza
quali sono i due modelli a cui il suo viaggio nel regno dei morti guarda, senza che egli
presuma di poterli eguagliare: “Io non Enea, io non Paulo sono” (Inf, II, 33)

La strategia di potere a lui sfavorevole dipende dal fatto che Dante è un "minority
author", ossia un autore che si serve di una lingua che sta creando lui stesso e che
non gode dunque di alcun prestigio pregresso. È proprio quest'operazione, che
enfatizza l'inferiorità del poeta sia rispetto ai modelli
classici che a quelli cristiani, che consente a Dante di legittimare la propria opera,
sottolineandone allo stesso tempo il carattere innovativo e dunque anche il valore
connesso a questo aspetto. È nel proseguire del viaggio ultraterreno che Dante
autore riesce a cambiare di segno, per così dire, al carattere di impotenza e di
incompletezza e alla molteplicità di elementi del linguaggio di cui fa
uso. L’opposizione tra latino e volgare appare superata in nome della tradizione
biblico-cristiana del sermo humilis a cui Dante fa appello. Sebbene a ogni cantica
corrispondano scelte linguistiche almeno in parte specifiche, che intendono
corrispondere alla dimensione ontologica del regno che Dante si trova a raffigurare,
la scelta plurilinguistica non viene mai meno. Persino nel Paradiso Cacciaguida,
l’antenato di Dante il cui eloquio è descritto come chiaro e preciso “per chiare
parole e con preciso/latin” (Par, XVII, 34), utilizza un’espressione di stile basso e
volgare, la celebre “lascia grattar dov’è la rogna”.
Lombardi osserva che è la stessa ispirazione religiosa a mettere sullo stesso piano
volgare e latino, espressioni basse ed espressioni alte. Il volgare è però connotato da
una dimensione affettiva specifica, descritta facendo appello alle relazioni familiari e
corporee più strette: “lingua che chiami mamma o babbo” (I, XXXII, 9) o “favella […]
d’un fante che bagni ancor la lingua alla mammella” (Par, XXXIII, 107-108)

LINGUA, SOGGETTIVITÀ E CORPOREITÀ NELLA DIVINA COMMEDIA


Testualità e soggettività: Gerione e la Commedia Molti interpreti della Commedia
hanno messo in evidenza la capacità di quest’opera di riflettere su sé stessa e quella
di Dante di connettere questo aspetto con la propria soggettività di poeta.
La dimensione della self-reflectivity è presente già nella prima cantica, ma è nel
Purgatorio e nel Paradiso che Dante mette a tema il nesso tra testualità, lingua e
soggettività, facendo emergere come esso sia connotato da un’affettività che
include necessariamente anche la dimensione corporea. Descriviamo un caso
esemplare in cui Dante si serve di una figura mostruosa con tratti squisitamente
metaforici per riflettere sulla propria opera poetica, la figura di Gerione.
Seguiamo l’originale proposta interpretativa di Carlo Ginzburg. 33 Ginzburg prende
avvio da un’ipotesi ermeneutica 34 già proposta da diversi dantisti: quella secondo
cui l’immagine di Gerione, il mostro che Dante e Virgilio incontrano nel XVI canto, sia
una metafora del poema dantesco. Gerione conduce Virgilio e Dante nelle
Malebolge 35 dove sono puniti i peccatori fraudolenti ed è lui stesso
personificazione della frode: “sozza imagine di froda”. Secondo Ginzburg, Dante
introduce inconsapevolmente anche una connessione con l’usura, il cui meccanismo
sarebbe dunque paragonato alla Commedia.

“Sempre a quel ver ch’ha faccia di menzogna


de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte,
ch’ i’ vidi per quell’aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso
maravigliosa ad ogne cor sicuro.”
(I, XVI, 124-32)

Ginzburg ricorda che il critico Franco Ferrucci è stato il primo ad avanzare l’ipotesi
che, attraverso la mostruosa apparizione di Gerione e l’enfatica affermazione della
veridicità della sua visione, Dante ponga in connessione la mostruosità di Gerione
con quella della Commedia, mostruosità legata in primis al suo carattere linguistico
spurio (ibrido), all’adozione del plurilinguismo.
Se già Benedetto Croce mette in evidenza l’altissimo “tasso di poeticità” della figura
di Gerione, un poeta russo, Osip Mandelstam, già nel 1933 coglie la dimensione
autoriflessiva del canto di Gerione. Nel mettere in scena l’estrema ricchezza
metaforica di questa figura, Dante parlerebbe al tempo stesso delle caratteristiche
della propria poesia.

“E quella sozza imagine di froda


sen venne, e arrivò la testa e ‘l busto,
ma ‘n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
nè fuor tai tele per Aragne imposte.”
(I, XVII, 7-18)

In particolare, nelle terzine sopracitate è evidente la connessione tra la


configurazione del mostro e la testualità della Commedia. La dantista americana
Teodolinda Barolini ha ricordato che il riferimento ai tappeti e alla loro complessa
tessitura richiama il termine polisemico “textus” in cui è congiunto il riferimento alla
testualità letteraria e quello al tessuto.Secondo Barolini, la self-reflectivity permea
l’intero episodio di Gerione. Attraverso di essa Dante
si propone di attrarre l’attenzione su una qualità propria di qualsiasi opera letteraria,
il suo carattere finzionale, immaginativo, ma al tempo stesso di persuadere il lettore
della veridicità della visione poetica che egli gli propone, proprio perché la
Commedia, ispirata da Dio, sarebbe in grado di trascendere la dimensione finzionale.
Ginzburg si riconnette a queste ipotesi critiche per proporre un elemento
aggiuntivo: l’idea secondo cui Dante coglie una connessione tra la produttività
poetica del suo capolavoro e il meccanismo dell’usura, ossia della “creazione del
denaro attraverso il denaro”, meccanismo che Dante seguendo Aristotele e diversi
filosofi del suo tempo, anzitutto
Tommaso, condannava in quanto creazione contro natura, paragonata per questo
alla sodomia. Secondo Ginzburg, Dante è consapevole che l’immagine mitologica di
Gerione, già presente nell’Eneide, ha alcuni tratti dell’arpia che per la sua sterilità
commentatori medievali come Bernardo Silvestre connettono in modo esplicito
all’usura. Dante non riuscirebbe però a elaborare questa connessione tra Gerione e
l’usura in modo conscio perché egli condivide la concezione negativa e la condanna
dell’usura; non è dunque per lui accettabile un paragone tra la propria Commedia e
l’usura. Petrus Olivi, filosofo che Dante conosceva, considera diversamente il
fenomeno degli interessi monetari suggerendo che la moneta avesse una ratio
seminalis 36, nozione
affine al logos spermatikos 37 degli stoici e riferita alla riproduzione biologica.
Dante utilizza l’immagine della generazione biologica per le proprie opere e spiega
nel Convivio perché ha parlato in un verso di una relazione di sorellanza tra due sue
poesie. Affermare che nella Commedia è presente una connessione indesiderata tra
due elementi, cioè la Commedia, o piuttosto la sua costruzione testuale, e il
meccanismo dell’usura, significa affermare che si tratta in un certo
senso di un lapsus da parte di Dante. Sul piano metodologico, tale asserzione implica
un’assunzione di tipo psicoanalitico, che considera l’inconscio attivo nella tessitura
del testo letterario, così come lo è nella produzione onirica. Ginzburg stesso si
confronta con la problematicità di questo assunto e con le difficoltà che gli indirizzi
psicoanalitici nell’ambito della critica letteraria pongono, nonostante il fascino che
essi possono esercitare sul lettore.
Critico raffinato, Ginzburg fonda la legittimità della propria interpretazione sulla
continuità della tradizione retorica e della connessa dottrina dei tropi dall’età
classica al Medio Evo fino all’epoca contemporanea, in cui essa viene innestata
appunto nella teoria psicoanalitica sulle produzioni simboliche, oniriche e letterarie.
Il fatto che Gerione sia un’immagine metaforica consente di connettere tale
immagine all’elaborazione teorica sui tropi 38 a cui Dante ha avuto accesso e, in
particolare, a una trattazione di Boncompagno da Signa, Rethorica novissima, in cui
si mette in relazione in modo esplicito la produzione di metafore con i sogni e con le
interpretazioni che gli esseri umani danno di essi. Secondo Ginzburg, Dante stesso
avrebbe segnalato ai suoi lettori il carattere onirico della figura di
Gerione, di cui Virgilio annuncia la venuta a Dante con le seguenti parole:

“Tosto verrà di sovra/ ciò ch’io attendo


e che ‘l tuo pensier sogna”.
(I, XVI, 121-22)

Possiamo dire che, in quanto sogno, Gerione si propone al lettore come metafora
inesauribile offerta alla capacità interpretativa dei lettori e dei critici, così come il
poema dantesco si è rivelato il motore di un’esegesi sempre rinnovata e di una
produzione linguistica che, come osservava il filologo Gianfranco Contini, è rimasta il
nucleo maggiore della nostra lingua italiana.
Soggettività, lingua e corporeità nel Purgatorio
Come ha mostrato il dantista Gragnolati, il Purgatorio elabora una relazione tra
corpo e anima che riflette in maniera originale i cambiamenti escatologici 39
dell’epoca. A partire dal XII secolo, l’enfasi tradizionale sul Giudizio Universale alla
fine dei tempi e sull’esperienza in Inferno e in Paradiso dopo la resurrezione del
corpo viene progressivamente sostituita dall’idea di un giudizio individuale
dell’anima dopo la morte e dall’attenzione al tempo escatologico in cui l’anima è
separata dal corpo. Si tratta di una nuova forma di attenzione al destino dell’anima
separata che pone l’accento sulla pienezza della sua esperienza anche senza il corpo.
Momenti ufficiali di questa transizione sono:
– il riconoscimento del dogma del Purgatorio nel 1274;
– la bolla Benedictus Deus del 1336 sulla visione beatifica prima della resurrezione
finale.
In piena sintonia con la nuova enfasi escatologica, la Commedia non si concentra sul
momento del giudizio finale, che alla fine dei tempi decreterà la punizione dei
malvagi o la premiazione dei giusti in uno scenario collettivo, ma propone piuttosto
uno scenario in cui l’anima separata viene giudicata individualmente non appena
arriva nell’aldilà. Questo giudizio produce anche la specifica modalità della sua
esperienza di dolore in Inferno e Purgatorio o di beatitudine in Paradiso. Nella
Commedia è descritta l’esperienza di anime separate dal corpo, ma questa
esperienza è ancora rappresentata come corporea: l’anima separata infatti irraggia
un corpo d’aria che le dà una forma e la possibilità di continuare a esercitare facoltà
sensoriali. Quando concepisce l’anima separata, Dante si rifà alla posizione tomistica
40 che considera l’anima razionale garante dell’identità della persona nella sua
dimensione anche corporea. Per questo
immagina che, quando con la morte l’anima si distacca dal corpo e arriva nell’aldilà,
le sia possibile creare un corpo d’aria che le dà una forma e le consente di esprimere
«ciascun sentire» (Pur, XXV, 102). L’anima e il corpo aereo da essa prodotto
costituiscono ciò che Dante chiama «ombra»;
questa consente che le anime in Inferno e Purgatorio abbiano una fisionomia
percepibile, possano provare sofferenza ed esperire la vita nell’aldilà prima della
resurrezione del corpo.

Tuttavia, Dante tiene anche a:


– ricordare il carattere temporaneo delle ombre;
– sottolineare l’importanza della resurrezione del corpo: l’anima senza il suo vero
corpo è infatti ancora imperfetta. La pienezza si raggiungerà solo con la resurrezione
e dunque dopo il ritorno del corpo alla fine dei tempi.
Alcuni passi del Purgatorio, come l’incontro tra Casella e Dante nel canto II o quello
tra Virgilio e Stazio nel canto XXI, utilizzano il motivo già virgiliano e omerico
dell’abbraccio mancato per dimostrare la “vanità” delle ombre, vale a dire il loro
carattere incorporeo e aereo che non permette l’abbraccio tra amici:

“Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto! / tre volte dietro a


lei le mani avvinsi, / e tante mi tornai con esse al petto.”
(Pur, II, 79-81)

Nel Paradiso è Salomone a spiegare a Dante che le fattezze umane dei beati sono
nascoste dalla luce, che è segno della gloria dell’anima, e che esse saranno
nuovamente visibili col ritorno del corpo glorioso (Par. XIV, 52-60). All’udire le parole
sulla resurrezione, le altre anime beate esultano all’idea di recuperare la loro carne:

“Tanto mi parver sùbiti e accorti


e l’uno e l’altro coro a dicer “Amme!”,
che ben mostrar disio d’i corpi morti:
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme”
(Par. XIV, 61-66)

È interessante che sia proprio la dimensione affettiva e relazionale ciò che muove i
beati a rallegrarsi di poter avere nuovamente il loro corpo; è la possibilità di avere
nuovamente relazioni corporee con le persone più care. Questa dimensione affettiva
e relazionale è caratteristica della lingua adottata nel Purgatorio. Ed è in particolare
alla fine della cantica, quando Dante incontra infine Beatrice e si confronta con “le
memorie triste” di un periodo della propria vita che il nesso
soggettività, corporeità e lingua è presentato in maniera poeticamente e
teoricamente esemplare. Secondo l’interpretazione di Francesca Southerden, qui
Dante raffigura da un lato il blocco linguistico di un soggetto malinconico e i
fenomeni corporei a cui si connette attraverso una forma di regressione che lo
riporta alle modalità espressive proprie delle origini dell’umanità:

“Era la mia virtù tanto confusa,


che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.
Poco sofferse; poi disse: “Che pense?
Rispondi a me; che le memorie triste
in te non sono ancor da l’acqua offense”
(Pur, XXXI, 7-12)
Dall’altro lato, poiché il contesto in cui Dante si trova è quello dell’Eden, luogo
d’origine della lingua primigenia, prebabelica, Southerden interpreta anche la
dimensione prelinguistica della voce, sopraffatta dalle memorie e dal senso di colpa,
come quel grado zero del linguaggio umano in cui esso esprime i sentimenti più
intensi, siano essi positivi o negativi, attraverso interiezioni,
esclamazioni, suoni frammentari. Southerden legge la raffigurazione di questa forma
linguistica facendo riferimento alla teoria freudiana dell’afasia (incapacità di
esprimersi) con origine traumatica e alle teorie dell’origine del linguaggio come
quella di Vico che indicano nel balbettio, nell’espressione ancora inarticolata mossa
da passioni intense, le prime forme di linguaggio umano.

“Confusione e paura insieme miste


mi pinsero un tal “sì” fuor de la bocca,
al qual intender fuor mestier le viste.
Come balestro frange, quando scocca
da troppa tesa, la sua corda e l’arco,
e con men foga l’asta il segno tocca,
sì scoppia’ io sottesso grave carco,
fuori sgorgando lagrime e sospiri,
e la voce allentò per lo suo varco.”
(Pur, XXXI, 13-21)

Secondo Southerden, il passo precedentemente citato conterrebbe dunque sia un


riferimento alle origini del linguaggio umano, che riecheggia alcune posizioni del De
vulgari eloquentia, sia un riferimento alla regressione linguistica individuale di
Dante, come condizione indispensabile per procedere, grazie al pentimento e alla
confessione, a una nuova soggettività linguistica interamente
rinnovata, pronta a intraprendere il viaggio del regno dei beati scortato da Beatrice:

“Io ritornai da la santissima onda


rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle”
(Pur, XXXIII, 142-45)

Soggettività, lingua e corporeità nel Paradiso


Il dantista americano Gary Cestaro ha sostenuto in maniera convincente che il
momento centrale della formazione del nuovo soggetto cristiano nella Commedia è
appunto segnato dalla sostituzione di Virgilio con Beatrice nei canti finali del
Purgatorio: da una parte il passaggio dalla prima alla seconda guida può essere
considerato, secondo il modello “classico”, quello dalla madre al padre, in questo
caso dalla figura protettiva di Virgilio, verso il quale Dante si volge «col respitto / col
quale il fantolin corre a la mamma» (Pur, XXX, 43-44, dove «mamma» sarebbe da
intendere in modo ambivalente sia nel senso di madre sia in quello latino di
mammella), alla figura autoritaria e severa di Beatrice, presentata come un
«ammiraglio» (ivi, 58). D’altra parte, però, si può considerare l’arrivo di Beatrice
come avvio dell’integrazione della figura paterna e di quella materna, e di quella
poetica dell’ossimoro che troverà il suo culmine nella preghiera alla vergine. Se
infatti Virgilio recupera, dopo la sua scomparsa, anche la sua dimensione paterna
(«Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per
mia salute die’mi»: Pur, XXX, 49-51]), Beatrice, nonostante la sua durezza iniziale,
assume poi nuovamente in tutto il Paradiso tratti materni, simbolo della carità
cristiana. In questa dimensione fluida (in movimento) di continui scambi di genere,
nell’ipotesi critica di Cestaro, si rappresenta la formazione di un nuovo soggetto
cristiano, che integra il modello classico” di sviluppo con il recupero della
dimensione corporea e materna legata all’immagine della suzione. E infatti, a questa
integrazione messa in scena con l’arrivo di Beatrice nel giardino dell’Eden
corrisponde, nella Commedia, un paradigma di identità che combina l’idea che
l’anima razionale sembra contenere in sé l’identità completa della persona con
l’idea che l’anima senza il suo vero corpo è imperfetta e che la materialità della
carne è necessaria per il completamento ultimo dell’esperienza e dell’identità della
persona. Nel Paradiso il motivo dell’allattamento costituisce un’immagine
frequentissima. Nell’ipotesi di Cestaro il fatto che nell’ultima cantica del poema
dantesco ritorni l’immagine della suzione al seno materno è da connettere con la
stessa testualità del Paradiso che il critico, riprendendo un modello evolutivo
psicolinguistico della studiosa francese Julia Kristeva, considera una “rivoluzione del
linguaggio poetico”. Essa consiste nella capacità di far riemergere una componente
protolinguistica che Kristeva chiama “semiotico”, componente che nel paradigma
classico di sviluppo ontogenetico dovrebbe essere abbandonata e superata per
poter accedere al “simbolico”, ossia affinché possa avvenire lo sviluppo razionale e
linguistico del soggetto adulto.Presente, ad esempio, in Paradiso (XXIII, 121-124)
dove si riferisce all’amore dei beati per Maria «E come fantolin che ’nver’ la mamma
/ tende le braccia poi che ’l latte prese, / per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma; /
ciascun di quei candori in su si stese», il motivo dell’allattamento torna nuovamente
nel momento in cui, entrando nell’Empireo, Dante vede un fiume di luce rasformarsi
progressivamente in un cerchio, che diverrà poi la «candida rosa» formata dai beati.

“Non è fantin che sì subito rua


col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli;
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.”
(Par. XXX, 82-90)

L’immagine del bambino affamato che cerca il seno materno esprime qui il desiderio
di vedere Dio e viene utilizzata nel momento fondamentale in cui Dante, ormai
prossimo alla visione finale, sta abbandonando la dimensione lineare della
temporalità per entrare in quella circolare ed extra-temporale dell’eternità, in cui
tutto è simultaneamente presente. È significativo che nella «candida rosa», in cui si
trasformerà il cerchio di luce, a Dante sarà concesso il privilegio di vedere i beati con
l’aspetto che essi avranno dopo la resurrezione del corpo.Al recupero della
dimensione corporea, rappresentata dal motivo della resurrezione del corpo,
corrisponde il riemergere dell’immagine della suzione, ma anche la scelta linguistica
di un volgare che accentua al massimo apertura e fluidità. L’operazione linguistica
della Commedia, e in particolare del Paradiso, non è più quella “riduttiva”
e “raziocinante” della teorizzazione del De vulgari eloquentia, ma potenzia le
capacità del volgare di abbracciare ed esprimere tutta la realtà, anche quella più
umile e concreta e tutte le forme linguistiche, dalle espressioni latine ai neologismi.
Nella parte finale del Paradiso, l’immagine dell’allattamento compare anche nel
canto XXIII, vale a dire in quel canto in cui, come ha sostenuto Barolini, il poema
teorizza una «jumping textuality»

“e così figurando il paradiso,


convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin reciso”
(Par, XXIII)

Si tratta di scegliere, ricorda Barolini, un modo narrativo che si discosta dalla


modalità comune della testualità, non è più discorsivo, logico, lineare,
“cronologizzato”, ma invece lirico, cioè non-discorsivo, non-lineare o circolare,
“decronologizzato”. In altre parole, si tratta di un modo antinarrativo che “resiste
alla suddivisione e dunque all’esposizione logica ed è caratterizzato da apostrofi,
esclamazioni, linguaggio pesantemente metaforico, similitudini intensamente
affettive.” 41Una testualità antinarrativa, che assume un ritmo
discontinuo, si fluidifica e fa così saltare la coerenza logico-sintattica e una testualità
inclusiva che fa proprio l’atteggiamento mistico del totum simul

“Omai sarà più corta mia favella,


pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella”
(Par. XXXIII, 106-108)

Nel suo commento alla terzina sopra citata Anna Maria Chiavacci Leonardi nota che,
se questa immagine sembrerebbe riferirsi alla mancanza di cui soffre il linguaggio
nel cercare di rappresentare l’esperienza della visione di Dio, allo stesso tempo essa
riecheggia un verso dei Salmi secondo cui sono le bocche degli infanti ancora legate
al seno materno che possono compiere una vera lode di Dio: «ex ore infantium et
lactentium perfecisti laudem [...]» 42 (Ps. 8.3).
Cestaro sostiene che, dopo essersi aperto con la preghiera di San Bernardo a Maria,
il canto affermerebbe la concezione metaforica della carità cristiana non solo come
femminile, ma anche come corporea e fonte di nutrimento: incapace di esprimere
pienamente la forza della visione finale, il poeta può solo tornare alla scena primaria
della suzione 43 al seno della madre

ORIGINE DEL LINGUAGGIO E DELLE LINGUE: GIAMBATTISTA VICO


Vico e la critica
Il capolavoro filosofico di Giambattista Vico, la Scienza Nuova, è il prodotto di
diverse rielaborazioni. Un primo nucleo teorico dell’opera è già individuabile nel
Diritto universale, opera in due volumi scritta in latino e pubblicata tra il 1720 e il
1721. La prima edizione della Scienza Nuova è del 1725, seguono l’edizione del 1730
e quella definitiva del 1744. Il titolo completo dell’edizione definitiva del 1744 recita:
“Principi di una Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni”. Questa
opera è uno dei grandi classici della filosofia occidentale.
Innumerevoli gli studi critici ad essa dedicati e gli autori che da essa hanno tratto
ispirazione per le loro riflessioni. Un aspetto degli studi critici che attira
immediatamente l’attenzione è la molteplicità e persino la discordanza delle diverse
interpretazioni che sono state date di quest’opera.
È come se agisse nei diversi studiosi un desiderio di appropriazione nei confronti del
pensiero vichiano. Una mossa esegetica caratteristica che accomuna molti studi
critici è quella che fa di Vicoun precursore:
– dell’idealismo tedesco e italiano nei lavori classici di Benedetto Croce;44
– della filosofia trascendentale di Kant, 45 secondo una tesi dello studioso tedesco
Stephan Otto;
– del positivismo, 46 ad esempio nel contributo critico di Auguste Comte;
– del relativismo o pluralismo delle culture, nello studio classico di Isaia Berlin su
Vico e Herder,
– paradigmi più recenti vedono in Vico un antesignano dei post-colonial studies e
della nozione di multiculturalismo, ad esempio nella lettura di Edward Said.
Vico è stato considerato platonico e metafisico o materialista e marxista;
radicalmente moderno o antimoderno e teorico politico reazionario. Questa
molteplicità di interpretazioni potrebbe destare perplessità e indurre a credere che
la filosofia di Vico sia caratterizzata da un eclettismo spinto.Come tutti i pensieri
complessi e innovatori, quello di Vico si presta a essere letto in modo
unilaterale in particolare da coloro che sono affetti da quella che abbiamo già
chiamato in altre occasioni “sindrome da aut aut”. È facile piegare una filosofia ricca
di elementi e di tensioni interne in un indirizzo assai meno articolato estrapolando
da essa solo alcuni elementi.

La sematologia di Vico come “scienza nuova di segni antichi”


È inevitabile, tuttavia, abbracciare una determinata prospettiva ermeneutica per
interpretare una riflessione filosofica. È essenziale però che si tratti di un punto di
vista adeguato, la cui elaborazione sia individuabile nello stesso autore di cui ci si
occupa. Il modo in cui ci accostiamo qui alla filosofia di Vico adotta un paradigma
interpretativo che pone al centro della sua riflessione il linguaggio o, per meglio, dire
la capacità simbolica umana. Gli studi di semantica storica ormai classici di Antonino
Pagliaro e quelli di Eugenio Coseriu hanno dedicato a Vico trattazioni importanti,
aprendo per così dire la strada a questo indirizzo
ermeneutico. Uno dei frutti più maturi di tale indirizzo è costituito dagli studi su Vico
di Jürgen Trabant che ha dedicato al filosofo napoletano una monografia dal titolo
“Neue Wissenschaft von alten Zeichen: Vicos Sematologie” (1994) di cui è uscita la
traduzione italiana nel 1996: “La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di
Vico” (Laterza). Trabant ripercorre l’intero percorso della filosofia vichiana
mostrando come, attraverso di esso, prendano corpo intuizioni fondamentali sulla
capacità simbolica degli esseri umani, sul suo
funzionamento e sulla sua evoluzione. È a partire da questa riflessione che è
possibile delineare un percorso che include e articola in modo nuovo tutte le
dimensioni culturali, religiose, storico- politiche dell’umanità. Trabant considera Vico
l’autore della prima svolta linguistica della modernità. Ma quello che il filosofo
napoletano pone al centro del proprio pensiero non sono le lingue storico-naturali,
ma una capacità simbolica che si esprime anzitutto nei semata, espressione che Vico
trae dall’Iliade di Omero per fare riferimento a una modalità segnica di tipo visivo
che è attiva nelle prime fasi dell’umanità.La Scienza nuova si occupa certo anche
delle lingue che chiama “parlari convenuti”, ma la sua grande scoperta filosofica, la
difficile “discoverta” di cui Vico parla più volte in maniera enfatica, consiste proprio
nella comprensione della dimensione simbolica dei semata. Seguendo l’ipotesi
interpretativa di Trabant, leggeremo la Scienza Nuova mostrando come il suo nucleo
sematologico sia, da un lato, il prodotto di un geniale ripensamento della tradizione
retorica, dall’altro venga generato da un confronto critico con la filosofia di René
Descartes, ossia con il pensiero fondatore della modernità. In questo modo non
viene analizzato solo un elemento filosofico-linguistico della filosofia di Vico, ma se
ne propone anche una presentazione generale. Infatti, come scrive Trabant “la via
della problematica sematologica” costituisce “la via maestra per comprendere Vico”.
Vico contro Descartes
Il confronto di Vico con Descartes è all’origine della fondazione della sua “scienza
nuova”. È nell’autobiografia, la “Vita scritta da se medesimo” che, come osserva
Trabant, tale confronto assume un tratto più personale che si riflette anche nella
forma della scrittura. Vico scrive cioè la sua autobiografia in opposizione
consapevole a quella contenuta in maniera più implicita, e secondo
Vico astuta, nel “Discours de la méthode” di Descartes. Le stesse scelte stilistiche e
argomentative riflettono l’intenzione vichiana. Se il Discours è scritto
in prima persona, Vico opta invece per la terza persona per opporsi al prezioso io
pensante dell’avversario e all’intima complicità con esso di cui risuona la scrittura
cartesiana. Per accentuare la distanza Vico adotta persino l’appellativo signore per
riferirsi a sé stesso: «Il signor Giambattista Vico egli è nato a Napoli l’anno 1670 da
onesti parenti». Ma se l’io cartesiano rimane un soggetto astratto di cui non si danno
nome, origine e storia, Vico punta fin dal principio a situare storicamente la propria
figura e a fornire un resoconto privo di reticenze sulle proprie esperienze. La Vita di
Vico non punta però solo a mettere in evidenza le divergenze rispetto a Descartes,
che è sì il grande avversario filosofico, ma anche una figura percepita come vicina e
per certi versi affine. Indice di questa intimità è l’italianizzazione completa del suo
nome, Renato Delle Carte. Sebbene infatti Vico sia uso a queste italianizzazioni,
come osserva Trabant, il caso di Descartes è il più estremo. Vico tiene a sottolineare
le affinità biografiche con il suo antagonista: entrambi hanno disperato nella
giovinezza di quello che hanno imparato e hanno abbandonato gli studi Se Descartes
racconta che il periodo di dubbio scettico lo porta all’abbandono completo
dell’erudizione e degli studi della giovinezza, Vico ritiene che questa affermazione
non corrisponda a verità e che sia piuttosto una “favola”, una finzione elaborata allo
scopo di accentuare la novità della propria filosofia; a essa il filosofo napoletano
oppone un resoconto verace del proprio percorso: “Non fingerassi qui ciò che
astutamente finse Renato Delle Carte d’intorno al metodo de’ suoi studi, per porre
solamente su la sua filosofia e mattematica ed atterrare tutti gli altri studi che
compiono la divina e umana erudizione; ma, con ingenuità dovuta da istorico, si
narrerà fil filo e con ischiettezza la serie di tutti gli studi del Vico, perché si
conoscano le propie e naturali cagioni della sua tale e non altra riuscita di litterato”
Si comprende dunque già qual è l’obiezione che Vico muove a Descartes, quella di
pretendere di poter fare a meno della “divina e umana erudizione” allo scopo di
fondare in maniera più certa il sapere filosofico. Per Vico questa credenza è illusoria
ed è semmai dettata dall’ambizione.
Al tempo stesso, però Vico è cartesiano nel senso che egli fa proprio il gesto radicale
di Descartes, l’atto di gettare la zavorra, di rinunciare per intero alla tradizione. Per
Vico, si tratta però solo di una tappa, di un momento che viene nella Scienza Nuova
drammatizzato per sottolinearne l’essenzialità. In seguito a questa crisi profonda, è
possibile recuperare tutto il sapere storico e culturale che Vico chiama filologia,
dando a esso un nuovo fondamento epistemologico. È in particolare la prima
Scienza Nuova a mantenere l’impronta del Discours cartesiano nel descrivere i passi
che hanno condotto Vico alla sua scoperta. È qui che viene affermato che, per uscire
dalla notte densa di tenebre in cui ci si trova è necessario “ridurci in uno stato di
somma ignoranza di tutta l‘umana e divina erudizione” (SN1, §40) o, come scrive
nell’ultima Scienza Nuova, fare “come se non vi fussero libri nel mondo” (SN2,
§330).

Il principio fondante della nuova scienza vichiana


È a partire da questa mossa radicale che diventa possibile far brillare nelle tenebre
un’unica luce e far emergere nell’immenso oceano del dubbio “questa sola picciola
terra dove si possa fermare il piede” (SN1, §40). L’assioma vichiano che emerge alla
fine di questo percorso di dubbio e disperazione è “che ‘l mondo delle gentili nazioni
egli è stato pur certamente fatto dagli uomini”. È questo approdo a costituire la
soluzione alle “difficoltà de‘ mezzi” per “ritruovare una nuova scienza” (ibidem).
Riflettendo a posteriori sull’oscurità e la confusione che regnano nel sapere umano
Vico la riconduce alla separazione tra filosofia e filologia.Vico descrive le due
principali fonti di ignoranza nel campo del sapere umano definendole boria dei dotti
e boria delle nazioni.
a) La prima, la boria dei dotti, fa riferimento all’arroganza degli eruditi e alla
presunzione dei filosofi, posizione che Trabant propone di assimilare a ciò che oggi
chiamiamo logocentrismo. 49
b) La seconda, la boria delle nazioni, è ricondotta alla pretesa delle diverse nazioni di
detenere, fin dalle origini, una profonda sapienza, posizione che ha alcuni tratti in
comune con ciò che oggi chiamiamo etnocentrismo. 50 La matrice di questi errori è
la separazione tra filosofia e filologia 51: se la prima, isolata, resta speculazione
astratta ed è incapace di tener conto della dimensione storico-empirica, la seconda è
condannata all’assolutizzazione del particolare quando rinuncia a nutrirsi della
riflessione filosofica.
La Scienza Nuova di Vico si genera dunque dall’integrazione delle due componenti:
essa è “filologia condotta filosoficamente” e “filosofia fondata filologicamente” La
condizione perché tale integrazione sia metodologicamente efficace è il vero e
proprio assioma vichiano, presentato con tratti profondamente affini a quelli con cui
si arriva nel Discours alla chiave di volta della filosofia di Descartes, il “Cogito ergo
sum”: “Ma in tal densa notte di tenebre, ond‘è coperta la prima da noi lontanissima
Antichità, apparisce
questo lume eterno, che non tramonta, di questa Verità, la quale non si può a patto
alcuno chiamar in dubbio; che questo mondo civile egli è certamente stato fatto
dagli uomini” (SN2, §331).
La tavola dello spirito che Descartes aveva reso una tabula rasa e identificata con il
cogito e con l‘idea di Dio innata nella cogitatio viene dunque nuovamente scritta da
Vico. Trabant osserva che Vico avverte la mossa cartesiana da lui stesso riprodotta
come estremamente violenta, essa necessita di “violentissima forza”. Nella Scienza
Nuova prima essa è paragonata, significativamente, alla caduta dei figli di Noè nella
ferinità (ferocia, bestialità), al loro errare,
dimentichi della lingua di Adamo e della religione del vero Dio. Paragone che rivela
anche come sia proprio dal cammino dei bestioni e dalla comprensione di come essi
abbiano creato le prime lingue e società dei popoli gentili che Vico vuole partire
nella propria scienza del mondo civile.

MODELLI PEDAGOGICI, RETORICA E COGITO: VICO E DESCARTES


La critica dei saperi del Discours de la méthode
La critica dei saperi sviluppata nel Discours de la méthode ha come obiettivo
l’identificazione di un metodo che consenta di raggiungere una “connaissance claire
et assurée”. A tale scopo, Descartes ripercorre la propria autobiografia intellettuale
dall’ottimistico avvio fino all’approdo al dubbio scettico. Descartes racconta di aver
avuto una formazione classica e di essere stato istruito nelle lettere fin dalla
fanciullezza. Ciò che quel percorso di studi gli prometteva di acquisire era “una
conoscenza chiara e sicura di tutto ciò ch’è utile alla vita”; tuttavia alla fine di tale
percorso egli si ritrova invece in preda al dubbio, certo solamente di una cosa: la sua
ignoranza. Egli ricorda di aver studiato le lingue classiche necessarie per la
comprensione dei libri antichi, così come le favole, la storia, l’eloquenza, la
matematica, la poesia. Di ciascun oggetto di studio egli
menziona le qualità positive in modo leggero ed ironico, ma, quando arriva a parlare
della filosofia, la sua lode appare tinta di un sarcasmo particolarmente accentuato:
“la filosofia ci mette in grado di parlare con verosimiglianza di ogni cosa e di farci
ammirare dai meno dotti” (DM, p.46). Descartes dichiara anche di aver amato in
particolare la poesia, ma di ritenere che essa non si apprenda dai libri, essendo
piuttosto un dono dello spirito, frutto dell’ispirazione personale.
Come osserva Trabant, “la scoperta cartesiana della soggettività è anche il principio
del concetto moderno di genio” (Trabant, p.19). Il giudizio complessivo di Descartes
sulle scienze del suo tempo è negativo; egli decide perciò di abbandonare
interamente gli studi e di cominciare a leggere “nel gran libro del mondo”. Trascorre
il resto della sua giovinezza viaggiando, intendendo “far tesoro di una diversa
esperienza per mettere me stesso alla prova nei casi che la fortuna mi offrisse e
trarne, così, con la riflessione, qualche profitto” (DM, p.46).
Descartes si concede quello che Vico non può invece permettersi, un lungo viaggio
di formazione, ma anche i suoi viaggi non hanno un esito positivo. Infatti, sebbene la
molteplicità dei costumi con cui entra in contatto lo aiuti a relativizzare le proprie
esperienze culturali, egli deve constatare che tra i diversi popoli c‘è quasi altrettanta
differenza di vedute che tra i filosofi. Per questa ragione Descartes cambia
nuovamente strada e prende la decisione di studiare sé stesso. Questo nuovo
percorso dà frutti migliori. Egli radicalizza il dubbio estendendolo a tutto ciò di cui ha
avuto fino a quel momento esperienza:
“Ma poiché io allora intendevo dedicarmi soltanto alla ricerca della verità, ritenni
necessario far tutto il contrario: rigettare, cioè, come interamente falso tutto ciò in
cui potessi immaginare il menomo dubbio, per vedere se, così facendo, alla fine,
restasse qualcosa, nella mia credenza, di assolutamente indubitabile.” (DM, p.80).

Il Cogito e il linguaggio
L’esito di questa strategia porta Descartes a salvare un’unica verità, quella del “je
pense, donc je suis”, penso dunque sono. Dopo un lungo periodo di tenebre
Descartes approda a una verità chiara e distinta, quella per cui: “[io sono] una
sostanza di cui tutta l‘essenza o natura consiste solo nel pensare, e che per esistere
non ha bisogno di luogo alcuno, né dipende da cosa alcuna materiale” (DM, p.82).
Cartesio suddivide la realtà in res cogitans e res extensa. Con res cogitans si intende
la realtà psichica a cui Cartesio attribuisce le seguenti qualità: inestensione, libertà e
consapevolezza. La res extensa rappresenta invece la realtà fisica, che è estesa,
limitata e inconsapevole. La res cogitans è del tutto separata dalla res extensa e per
spiegare come l’una possa agire sull’altra
Descartes arriverà a postulare l’esistenza della ghiandola pineale, 52
soluzione artificiosa per poter mantenere un dualismo estremo. La concezione del
linguaggio di Descartes radicalizza quella aristotelica proprio per l’opposizione che
stabilisce tra res cogitans e res extensa. I concetti vengono infatti creati in maniera
indipendente rispetto alle voces (nomi che diamo alle cose). La designazione
mediante esse è arbitraria. Per questa ragione, Descartes non attribuisce alle singole
lingue alcun valore cognitivo particolare, al
contrario di quanto era accaduto nell’Umanesimo in cui si era esaltato il valore
spirituale legato alla semantica di una lingua. Il linguaggio, infatti, ha per Descartes
una funzione meramente comunicativa e non cognitiva. I concetti sono produzione
della sola res cogitans; tuttavia il linguaggio si rivela uno strumento indispensabile
affinché essi possano venire trasmessi ad altri esseri umani. Ma il linguaggio è anche
qualcosa di più: esso è al tempo stesso, ricorda Trabant, un
testimone del pensiero. Questa testimonianza si rivela necessaria per poter essere
certi della presenza in altri esseri umani del cogito e dunque della loro umanità. Al
soggettivismo della filosofia cartesiana corrisponde una prospettiva monologica che
produce un dubbio costitutivo rispetto all’esistenza delle altre menti. Nulla
dell’aspetto esteriore di un essere, né la fisionomia, né i gesti, garantisce che non si
tratti di un automa. Secondo Descartes solo negli esseri umani è possibile trovare un
linguaggio che sia espressione della cogitatio, specificamente umana. Né una
macchina né gli animali sono in grado di rispondere a un‘interrogazione, disponendo
le parole in forma sempre nuova come sono in grado di fare gli esseri umani. Il
linguaggio umano è dotato per Descartes di creatività; ma tuttavia essa è una
creatività del pensiero che si riflette sì nel linguaggio, ma che è in via di principio da
esso indipendente. Se dunque il linguaggio è per Descartes antropologicamente
essenziale in quanto è
l’unica traccia della res cogitans nella dimensione corporea, la sua importanza non
mette però in discussione il dualismo e dunque neanche la distinzione netta tra
componente sensibile e componente spirituale, tra significante e significato, per
usare una terminologia saussuriana.È proprio alla concezione del linguaggio che
sottende la filosofia cartesiana che si rivolge con particolare veemenza la critica di
Vico che propone un modello pedagogico del tutto antitetico
rispetto a quello proposto da Descartes e oppone a quest‘ultimo l’idea che la
“favella” è “posta in mezzo alla mente e al corpo” (SN2, §1045).

Retorica e modello pedagogico in Vico


Nel De nostri temporis studiorum ratione, orazione pronunciata a Napoli nel 1708 in
occasione della inaugurazione della regia università del Regno di Napoli, Vico rivolge
una critica feroce alle degenerazioni dei modelli pedagogici dovute al diffondersi del
cartesianesimo e alle illusioni che esso aveva sollevato rispetto alla capacità di
raggiungere una conoscenza chiara e certa con il minimo sforzo. Il cartesianesimo ha
attecchito ormai in tutta Europa, è la filosofia della modernità tout court. Giovani
filosofi cartesiani, membri delle nuove accademie, ritengono che la dimostrazione
sia la chiave di ogni verità e trascurano ogni altra forma di sapere. Secondo Vico, tale
moda intellettuale è il frutto dell’astuta propaganda di Descartes che, negando
recisamente il ruolo che la sua formazione umanistica e filosofica ha avuto nella
fondazione della sua filosofia, allo scopo di rafforzarne il prestigio, ha generato
l’illusione che la verità sia alla
portata di tutti e che pochi gesti filosofici, in assenza di ogni sapere ed erudizione,
siano sufficienti alla formazione dei giovani e al raggiungimento di grandi risultati
intellettuali. L’impostazione dell’orazione vichiana, ampia ed articolata, divisa in
quindici capitoli, è quella comparativa: si tratta cioè di paragonare i metodi degli
studi dell’antichità con quelli moderni. Considerata la vis (forza) polemica
anticartesiana, potrebbe sembrare che Vico si ponga nella
posizione dell’antimoderno, che oppone i vantaggi della topica 53 degli antichi ai
danni compiuti in ambito pedagogico dalla critica; in effetti non è così: egli precisa
fin dal principio che il suo obiettivo non è quello di difendere un metodo contro un
altro, ma di delinearne uno che combini i vantaggi di entrambi. Questo metodo,
come ha osservato lo studioso di Vico Davide Luglio, ha piuttosto la forma di “una
nuova critica” che integra aspetti fondamentali dell’arte topica e propone una
prospettiva metafisica rinnovata dalla ricerca di un determinato ordine capace di
riorganizzare i saperi. Per questa ragione Vico esordisce sostenendo la necessità che
il metodo degli studi venga articolato e trattato secondo la suddivisione in
strumenti, sussidi e fini. I sussidi sono i rapporti che vengono impiegati negli studi e
sono costituiti da prodotti e attività della cultura umana. Quattro sono i sussidi su cui
Vico si sofferma: le arti, i modelli ideali degli
artisti, i caratteri tipografici e le università. Tra gli strumenti il primo e fondamentale
è proprio l’ordine, mentre il fine di tutte le scienze è la verità.
Il nuovo metodo critico è in questo senso superiore perché “ci dà quel primo vero
del quale si è certi anche nell’atto di dubitare” (DNT, p.99). Allo scopo di liberare la
verità genuina non solo da ogni errore, ma anche da ciò che può suscitare “il minimo
sospetto di errore” il nuovo metodo prescrive “che siano allontanati dalla mente
tutti i secondi veri, ossia i verisimili, al modo stesso
che si allontana la falsità” (DNT, p.105). Vico giudica tale prescrizione un grave
errore pedagogico; egli ritiene infatti che “la prima cosa che va formata negli
adolescenti è il senso comune, affinché, giunti con la maturità al tempo
dell’azione pratica non prorompano in azioni strane e inconsuete” (DNT, p.105).
Il senso comune è generato appunto dal verosimile che Vico definisce come ciò che
è intermedio tra il vero e il falso. Il fatto che il senso comune rischia di essere
soffocato dal nuovo metodo criticoè considerato anzitutto uno svantaggio per
quanto riguarda l’eloquenza. Ma c’è anche un aspetto teoricamente più rilevante.
Porre come fanno “i nostri critici”, il vero “come anteriore, estraneo e
superiore ad ogni immagine corporea” si rivela particolarmente deleterio dal punto
di vista pedagogico (ibidem). Infatti fare appello alla “ragione pura”, incorporea,
nella formazione dei giovani significa non tenere conto del fatto che in loro è
soprattutto attiva la fantasia che agisce in modo congiunto con la memoria. Tale
doppia facoltà deve essere coltivata con grande attenzione
attraverso le arti che maggiormente la richiedono: pittura, poesia, oratoria,
giurisprudenza. In questo senso Vico sottolinea la maggiore saggezza del metodo
degli antichi che consideravano la geometria la “logica dei fanciulli” e che
insegnavano questa scienza proprio allo scopo di coltivare la grande attitudine dei
più giovani a formare immagini in un’epoca in cui l’uso della ragione
astratta è ancora immaturo. Vico suggerisce dunque che l’insegnamento della topica
sia precedente rispetto a quello della critica. Ma la sua argomentazione non è
solamente di tipo pedagogico e dunque riferita soltanto a una fase della formazione
dei giovani. Il De nostri temporis studiorum ratione propone anche una riflessione
sull’impossibilità di applicare il metodo geometrico cartesiano alla fisica che anticipa
quello che sarà il principio del verum ipsum
factum
54
elaborato in un’opera successiva, il De antiquissima Italorum sapientia.
Secondo Vico è impossibile studiare il mondo fisico nella sua estrema complessità
attraverso tale metodo perché gli esseri umani non l’hanno creato, al contrario di
quanto accade appunto con la geometria. A tale proposito Vico scrive: “Dimostriamo
le cose geometriche perché le facciamo, se potessimo dimostrare le cose fisiche, noi
le faremmo” (DNT, p.117). In questo contesto Vico oppone il modo di discussione
dei fisici, conciso e privo di ornamenti, a “quella facoltà che, propria dei filosofi, fa
scorgere analogie tra cose di gran lunga disparate e differenti” (ibidem). E per
sottolineare il carattere euristico di questa capacità distingue sottigliezza e acutezza
ricordando che “il sottile consta di una sola linea, l’acuto di due, e tra le molte
acutezze il primo posto è tenuto dalla metafora, la più insigne finezza e l’ornamento
più splendido di ogni parlare ornato” (ibidem). Sebbene il riferimento esplicito sia
all’eloquenza, il contesto, che è quello delle scoperte in ambito fisico, connette
indirettamente l’idea della metafora come procedimento ingegnoso al
procedimento euristico, e dunque ne fa un dispositivo di natura cognitiva oltre che e
prima di un ornamento retorico. Nei capitoli successivi, Vico torna a sottolineare
come sia l’ingegno esercitato attraverso il metodo geometrico e inaridito attraverso
l’adozione precoce del
metodo analitico a risultare essenziale nell’esercizio di numerose discipline e attività
teorico-pratiche: dall’architettura alla meccanica fino alla medicina.
Ma l’elemento che ritiene più dannoso nel metodo dei moderni è proprio il
riferimento quasi esclusivo alle scienze naturali. È proprio l’insufficiente formazione
dei giovani per quanto riguarda la dimensione morale e politica, la “prudenza civile”,
ciò che Vico rimprovera maggiormente ai cartesiani. Adottare il metodo scientifico
nel giudicare in questo ambito di azione si rivela
particolarmente erroneo perché “essi misurano i fatti secondo la retta ragione,
mentre gli uomini, per essere in gran parte stolti, non si regolano secondo decisioni
razionali, ma secondo il capriccio e il caso. E poiché non hanno mai coltivato il senso
comune né mai perseguito la verisimiglianza, contenti della sola verità, non
apprezzano come in concreto la pensino gli uomini” (DNT, p.135). Nella sua orazione
Vico rivendica inoltre l’influenza delle lingue, nelle loro caratteristiche specifiche,
sulle elaborazioni filosofiche e intellettuali e dedica un’analisi dettagliata al genio
della lingua francese per mostrare come essa sia stata all’origine della nuova arte
critica. Nel proporre una sintesi di questo percorso Vico si pone orgogliosamente
all’interno di una grande
tradizione filosofica, quella dell’Umanesimo: “Se dunque è vero, come pare ai più
grandi filosofi, che le indoli dei popoli si formano con le lingue e non le lingue con le
indoli, solamente i francesi potevano, nel mondo intero, in virtù del
loro sottilissimo idioma, escogitare questa nuova critica, tutta piena di spirito, e
l‘analisi che, fin quando poteva, ha svestito le grandezze matematiche di ogni
corpulenza” (DNT, 141).
L’italiano è opposto con fierezza al francese in quanto “lingua sempre suscitatrice di
immagini” e proprio per questo, per eccellenza, lingua ingegnosa “onde gli italiani da
soli hanno superato sempre tutti i popoli della terra per la pittura, scultura,
architettura e musica; noi, dotati di una lingua che, sempre vivace, per il fascino
delle similitudini trasporta gli animi degli uditori alla
comprensione di cose diverse e lontane fra loro […]” (DNT, p.141) Il procedimento
analogico è qui presentato come una caratteristica interna a una lingua, l’italiano,
che, formando la mente dei suoi parlanti, rende loro più agevole essere attivi in
maniera creativa in diversi ambiti artistici. Abbiamo ripercorso i passi più significativi
della più complessa delle orazioni vichiane, perché troviamo qui in nuce (allo stato
nascente) alcuni elementi centrali che
avranno poi la loro elaborazione più matura nella Scienza Nuova:
– La retorica assume già qui una veste rinnovata attraverso la prospettiva integrata
attraverso cui Vico considera topica e critica.
– Lo stesso metodo filosofico della Scienza Nuova può essere meglio compreso a
partire da questo saggio dove già troviamo un tentativo di cogliere la specificità
della mente in una fase aurorale dello sviluppo degli esseri umani
– La prospettiva del De nostri temporis studiorum ratione si riferisce naturalmente
allo sviluppo degli individui e in particolare alla prima adolescenza, mentre la
Scienza Nuova adotterà una prospettiva filogenetica, quella delle origini
dell’umanità.

VERUM FACTUM, ORDINE DIVINO E GEROGLIFICI DEL MONDO CIVILE


Verum factum convertuntur
Abbiamo visto come Vico ripercorra il cammino di dubbio e scetticismo proposto dal
Discours de la méthode di Cartesio per poter arrivare alla certezza del Cogito. Per
Vico però la certezza raggiunta riguarda l’esperienza del fare nel mondo storico-
culturale degli esseri umani. Questo è l’approdo della Scienza Nuova; tuttavia la
prima formulazione di questo principio risale a un’opera
del 1710, il De antiquissima Italorum sapientia, ed è appunto quella per cui verum
factum convertuntur, il vero e il fatto sono convertibili. Questo principio
gnoseologico è però qui riferito alla matematica e alla geometria e non ancora al
mondo civile secondo quanto già era avvenuto nella tradizione del manu-fatto che
riconduceva la certezza della mano a quella della sua creazione. Nella Scienza
Nuova, Vico estende questo principio al mondo civile: si tratta appunto di
un’estensione che consente di dare alla matematica e alla geometria un ruolo
importante; esse costituiscono un modello per la scienza nuova vichiana: “così
questa scienza procede appunto come la geometria” (SN2, §349). Gli oggetti
culturali però vengono considerati “più reali” (ibidem) di quelli matematici e
geometrici e più degni dal punto di vista etico dell’attenzione del filosofo.
La critica ai “filosofi monastici”, ossia ai cartesiani è anche quella di rinserrarsi nella
propria soggettività e di non tener conto che gli esseri umani sono costitutivamente
degli esseri sociali, nati per vivere in collettività. Per comprendere meglio la nozione
vichiana del verum factum può essere utile introdurre le considerazioni semantiche
che Vico elabora intorno alle diverse modalità di conoscenza. Vico distingue
“intelligere”, che è il conoscere in modo evidente, e il “cogitare”, che corrisponde
all’italiano “pensare” ed è piuttosto l’atto di raccogliere diversi elementi, operazione
specificamente umana. La possibilità dell’«intelligere» ossia del “perfecte legere” è
data soltanto a Dio.
Davide Luglio osserva che, allo scopo di capire il principio vichiano e la sua
applicazione, è essenziale tener presente, oltre alla distinzione di ordine teologico
sopra menzionata anche quella che oppone un “verum creatum” e un “verum
increatum”, che corrisponde a ciò che le Scritture chiamano Verbo. Se il verum
increatum contiene la totalità infinita delle idee a partire da cui Dio
potrebbe creare infiniti mondi, il verum creatum corrisponde alla creazione del
nostro, la cui comprensione sfugge completamente agli esseri umani.
Questa distinzione, osserva Luglio, fa sì che all’uomo sia inaccessibile ogni verità
metafisica che non sia quella della verità rivelata che corrisponde a quella della
religione cristiana. Ciò che deriva dall’abbracciare questa prospettiva metafisica è
una forte enfasi sui limiti della mens, che è, nuovamente, in forte polemica con il
cartesianesimo. Pretendendo di poter conoscere in modo chiaro e distinto tutta la
realtà fisica, esso finisce per ignorare l’infinito che tale realtà sottende.
Se dunque, come già nel De nostri temporis studiorum ratione, Vico mira, nel De
antiquissima Italorum sapientia, a sottolineare i limiti del sapere umano in
opposizione alla perfezione della conoscenza divina, è su questo sfondo che egli
ritaglia per l’azione umana un dominio in cui l’uomo padroneggia l’intero processo
di conoscenza, cioè quello della matematica e della geometria.
La verità che tali scienze permettono di raggiungere è una verità umana che deriva
dal passaggio da una concezione contemplativa e una concezione operativa che
consente dunque un paragone rispetto al procedere della conoscenza divina. Da
questo nuovo punto di vista Vico torna ad
attaccare il Cogito cartesiano affermando l’insufficienza radicale dell’evidenza
razionale in quanto appunto essa non ha in sé la dimensione operazionale.
All’interno di questo contesto, in cui si sottolinea la dimensione attiva del conoscere,
Vico torna a dedicare la sua attenzione alla facoltà dell’ingenium, di cui si era già
occupato nel De nostri temporis studiorum ratione. Ingenium e ingegno sono
termini specifici delle lingue che li hanno elaborati e intraducibili in altre, come il
francese, in cui esprit corrisponde all’inclinazione all’analisi di questa cultura e non
può tradurre dunque “ingegno”.L’attività dell’ingegno si muove infatti in direzione
opposta, punta a una sintesi prodotta attraverso
la capacità di introdurre un’unità in ciò che è separato e diverso e al tempo stesso di
cogliere relazioni tra le cose, percependo ciò che è conveniente sia in ambito etico,
sociale e politico che estetico. Inoltre all’ingenium viene riconosciuta una essenziale
funzione poetica che assume anch’essa in sé più operazioni:– quella mimetica che
permette sia di individuare le somiglianze sia di riprodurle;
– quelle di tipo più specificamente creativo, attraverso cui si creano nuovi rapporti
tra le cose e si inventano nuove entità. Tale capacità è particolarmente accentuata
nei bambini che imitano con grande perizia e colgono
somiglianze in maniera costante, ad esempio chiamando tutte le donne “mamma” e
tutti gli uomini “papà”. I filosofi antichi dell’Italia, in quanto pensatori del verum
factum, privilegiano il metodo induttivo su quello deduttivo perché appunto è il solo
a procedere in modo sintetico.

Dal Diritto Universale alla Scienza Nuova


Il Diritto Universale contiene già in abbozzo i principali nuclei teorici che saranno
sviluppati nella Scienza Nuova. Vico scrive già in quest’opera che “nova scientia
tentatur”. Il Diritto Universale, scritto in latino, è diviso in due volumi:
– il primo, De uno universi iuris principio et fine uno, esce nel 1720;
– il secondo, De constantia iurisprudentis, viene pubblicato nel 1721.
Per anticipare il contenuto dei due libri Vico scrive un opuscolo pubblicato nel 1720
senza titolo, che si è soliti designare come “Sinopsi del Diritto Universale”. Nel
Diritto Universale, la maggior parte del materiale della “filologia” utilizzato è tratto
dalla storia romana, sebbene Vico affermi che le leggi che ricava dalla sua analisi di
questi avvenimenti storici possono essere estese alle origini e
agli sviluppi di tutti i popoli. Formigari ha osservato che la riflessione vichiana sulle
forme primitive di linguaggio ha origine da una filosofia del diritto che vede in azione
nelle prime forme contrattuali del popolo romano delle modalità simboliche non
convenzionali, “tutte scrupolosità di parole” come si dirà nella Scienza Nuova,
modalità che si affidano a gesti, a rituali che devono essere osservati rigorosamente.
Dal punto di vista del metodo, invece il De Uno pone in massimo rilievo l’idea di
ordine: si tratta cioè di rinvenire il giusto ordine che coincide con le leggi universali
della storia umana. L’ordine delle cose umane è il riflesso di quell’indirizzo che Dio
stesso ha impresso sulla storia e la natura degli uomini. Condizione di possibilità
della conoscenza dell’ordine è una nozione di senso comune che è relativa alle
nozioni comuni che risiedono nella mente di tutti gli esseri umani e che consentono
a essi di comunicare tra di loro. Ma sul piano metafisico tale senso comune è la
conseguenza di quell’ordine eterno che le rende appunto possibili, e che è
immediatamente connesso all’idea di uno
spirito infinito e quindi all’idea di un Dio eterno, autore di verità universali.
È significativo che il De Uno elabori tale nozione a partire da una prospettiva dualista
che oppone il corpo e la mente e che riferisca il senso comune esclusivamente alla
mente. Vico stesso ricorda che la prospettiva teologico-metafisica del De Uno gli è
stata ispirata dalla lettura del De civitate Dei di Sant’Agostino, in particolare per
quanto riguarda la concezione dell’esistenza umana come tensione verso la verità
infinita e della storia dell’umanità come ritorno progressivo a Dio attraverso un
movimento che è dunque circolare. La dimostrazione vichiana dell’esistenza di tale
movimento si fonda su tre punti:
– la conferma dei principi della storia sacra;
– la definizione del ruolo della Provvidenza;
– la prova della naturalità del diritto.
La conferma dei principi della storia sacra si limita a presentare il modello cristiano
di evoluzione della storia umana dopo il peccato originale; per Vico essa fornisce un
quadro di riferimento all’interno del quale, nelle successive elaborazioni della
Scienza Nuova, la storia sacra verrà separata in maniera sempre più netta da quella
della gentilità 55, così come alla lingua ebraica
verranno attribuite caratteristiche diverse rispetto alle lingue dei popoli gentili.
Nel Diritto Universale invece, così come nella prima edizione della Scienza Nuova,
l’ebraico è considerato una lingua poetica ricca di metafore e tropi come le altre
lingue delle origini. Per quanto riguarda il ruolo della Provvidenza, che comincia a
essere delineato nel Diritto Universale, Vico insiste sul fatto che, nella sua divina
saggezza, Dio sceglie di governare l’universo e il mondo umano in particolare
scegliendo il cammino di maggiore facilità ed efficacia e agendo
attraverso un ordine che è intrinseco alle cose stesse. Il motore della storia è
dunque interno alle stesse vicende e alla costituzione antropologica degli
esseri umani. E se in generale gli uomini, attenti solo a perseguire i loro obiettivi,
non sono consapevoli dell’ordine provvidenziale che muove la storia umana, si può
dire che il cristianesimo rappresenta per Vico la possibilità di avere infine accesso
alla comprensione del senso, del movimento della verità divina nelle cose terrene.
Per quanto riguarda il diritto, Vico lo identifica con gli elementi fondamentali di una
storia dell’autorità, ossia con la storia dei modi in cui l’autorità degli uomini ha
tradotto l’ordine eterno nell’ordine umano. Infatti nella ricostruzione genetica che
Vico propone dell’evoluzione delle
società umane, l’autorità giuridica assume un ruolo fondamentale. Vico considera le
prime forme di diritto legate alla violenza esercitata dai primi patres, diritto delle
genti maggiori che porterà alla costituzione dei primi nuclei familiari e poi alla
nascita delle prime clientele. Ma il corrispondente della violenza è l’uscita
dall’empietà e dalla ferinità che caratterizzava la forma di vita dell’umanità eslege.
Vico individua nella formazione delle prime famiglie il nucleo sociale più originario
che coincide con la stessa nascita dell’umanità. L’origine della famiglia, e ancor
prima dell’istituzione su cui essa si fonda il matrimonio, è ricondotta al carattere
naturale del pudore che corrisponde alla consapevolezza dell’errore degli esseri
umani e che spinge i primi
uomini a rifiutare gli accoppiamenti all’aria aperta che Vico chiamerà nella Scienza
Nuova “venere bestiale”. Questa decisione corrisponde alla prima intuizione della
divinità che viene identificata nel cielo in tempesta. È questa intuizione del divino
che spinge gli uomini a interrompere la vita raminga e ad accoppiarsi in modo
stabile e nascosto con un’unica donna

La Dipintura commentata come introduzione della Scienza Nuova


La Dipintura “proposta al frontispizio” che compare dall’edizione della Scienza
Nuova del 1730 fu commissionata da Vico stesso al pittore Domenico Vaccaro.
L’immagine e la sua spiegazione si proponevano di presentare al lettore, in maniera
sintetica e perspicua, l’intera totalità dell’opera, dal metodo alla struttura fino a tutti
gli elementi di cui essa si compone. Nelle prime righe della spiegazione che, come
recita il titolo, “serve per l’introduzione dell’opera” Vico parla della Dipintura come
“Tavola delle cose civili”, una scelta terminologica che, ancora una volta, intende
opporre alla tabula rasa del cogito cartesiano una filosofia che si propone di
indagare l‘ordine del mondo storico umano.
Le facoltà a cui fa appello l’immagine sono quelle che abbiamo già incontrato in
connessione con il modello pedagogico della retorica: memoria e immaginazione
ossia, come la chiama Vico, fantasia. “Il triangolo luminoso con ivi dentro un occhio
veggente egli è Iddio con l’aspetto della sua provvidenza, per lo qual
aspetto la metafisica in atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle cose
naturali, per lo quale finora l’hanno contemplato i filosofi” (SN2, §2).
Con questo passo comincia la descrizione dettagliata che Vico dedica alla Dipintura.
Comincia dall’immagine in alto a sinistra che rappresenta in maniera classica la
Divinità in una prospettiva
determinata che è quella della Provvidenza. L’occhio nel triangolo irradia una
luminosità diffusa all’interno della quale un fascio di raggi raggiunge il petto di una
donna dalla testa alata il cui profilo è rivolto alla contemplazione del triangolo
luminoso. La donna alata è la metafisica che ha un piede poggiato sul globo
terrestre, che simboleggia il mondo fisico, posto nell’estremità sinistra di un altare.
Attraverso queste posizioni, Vico vuole ancora una volta fare riferimento allo
sbilanciamento della riflessione filosofica che si è occupata
del mondo naturale e non di quello civile, collettivo, storico degli esseri umani.
I “geroglifici” di cui è composta la Dipintura assumono in realtà un carattere
polisemico, funzionale al ruolo di estrema sintesi del progetto filosofico vichiano che
essi devono esercitare. Per questo se il globo terrestre si riferisce all’inizio alla
materia prevalente delle indagini filosofiche a cui Vico si oppone, esso passa in un
secondo tempo a significare la forma di divinità che si finsero
i primi esseri umani. Vico fa riferimento a due immagini semi-invisibili nella
Dipintura, il “Lione” e la Vergine, posti sulla fascia dello zodiaco attorno al globo per
fare riferimento a due eventi fondatori presso tutte le popolazioni della gentilità:
– il leone fa riferimento alla principale fatica di Ercole, carattere degli eroi politici
che resero coltivabili le terre;
– la Vergine fa riferimento all’età dell’oro, età in cui “i primi uomini del gentilesimo,
semplici e rozzi, per forte inganno di robustissime fantasie, tutte ingombre di
spaventose superstizioni, credettero veramente vedere in terra gli eroi” (SN2, §3).
Già dai passi sopra citati è possibile cogliere la differenza fondamentale tra il Diritto
Universale e la Scienza Nuova e comprendere per quale ragione quest’ultima sia un
capolavoro filosoficoVico stesso, nel mettere in evidenza i limiti del Diritto
Universale, fa riferimento al suo metodo di esposizione, metodo che non è ancora
volto a mostrare con perspicuità la propria materia.
La sinergia che si crea tra la Dipintura e la sua illustrazione consiste proprio nel
rendere evidenti le nozioni introdotte attraverso una presentazione vivida e incisiva
che lascia all’immaginazione il compito della comprensione e alla ragione quello
della ricostruzione di un’argomentazione e articolazione gerarchica dei concetti,
elementi questi che Vico, fedele all’ordine pedagogico difeso nel De nostri temporis
studiorum ratione, rimanda all’esposizione nella seconda sezione degli Elementi o
Degnità, i principi fondamentali della sua scienza che sono ordinati more geometrico
(con ordine geometrico).

IL SAPERE POETICO
Struttura dell´opera La Scienza Nuova ha una struttura articolata e complessa ed è
concepita in modo tale che il lettore sia condotto a ripercorrere più volte la stessa
riflessione filosofica a partire da prospettive diverse. L’idea di Vico è che una
comprensione adeguata della Scienza Nuova sia possibile solo se si fa
appello a facoltà e modalità conoscitive diverse che devono tutte essere coinvolte.
Anche in questo caso Vico traferisce anche a livello della forma compositiva della
sua opera i principi filosofico-linguistici che presenta in essa. Abbiamo visto che
l’opera si apre con un’introduzione che ha la forma di commento a un’immagine: la
Dipintura.
• Dopo l’originale introduzione comincia il primo libro, dal titolo “Dello stabilimento
dei principi”. Il primo libro è introdotto dalla “Tavola cronologica, descritta sopra le
tre epoche de´ tempi degli egizi, che dicevano tutto il mondo innanzi essere scorso
per tre età: degli dèi, degli eroi e degli
uomini”. La Tavola cronologica segue il corso degli eventi dal Diluvio universale
presso sette popoli: anzitutto gli ebrei, seguiti da caldei, sciti, fenici, egizi, greci e
romani. A essa segue la sezione prima “Annotazioni alla tavola cronologica nelle
quali si fa l’apparecchio delle materie”, in cui Vico riespone in senso cronologico gli
eventi di cui si occupa la sua Scienza Nuova. A questa sezione segue la seconda
intitolata “Degli elementi”, in cui Vico si propone di mettere in rilievo gli aspetti più
teoretici della sua riflessione. Vico paragona questa trattazione al
sangue che scorre in un corpo animato: gli elementi, anche chiamati assiomi o
degnità, sono sia filosofici che filologici e sono 114 paragrafi numerati, di lunghezza
molto variabile. Il primo libro si compone di altre due brevi sezioni:
– nella terza, intitolata “De’ principi”, Vico espone in maniera drammatica la propria
scoperta di una nuova scienza a partire dall’intuizione che il mondo civile è stato
fatto dagli uomini;
– nella quarta, intitolata “Del metodo”, si riepilogano i principali punti teorici esposti
nelle Degnità sottolineando che tutto il percorso storico prende avvio da una prima
conoscenza della divinità.
• Il secondo libro è dedicato alla Sapienza poetica. Dopo l’introduzione, il primo
capitolo è dedicato alla metafisica poetica ed è intitolato “Della metafisica poetica,
che ne dà l’origini della poesia, dell’idolatria, della divinazione e de´ sacrifici”. Il
secondo capitolo della Scienza Nuova è dedicato alla Logica poetica e rappresenta il
cuore concettuale di questo libro e in un certo senso di tutta la Scienza Nuova: esso
è anche molto più lungo di tutti gli altri capitoli, inclusa la metafisica poetica, che
può essere considerata una trattazione complementare di questa
sezione sematologica. Alla “Logica poetica” seguono la “Morale poetica”,
l’“Iconomica poetica”56,
la “Politica poetica”, la “Storia poetica”, la “Fisica poetica”, la “Cosmografia poetica”,
l’“Astronomia poetica”, la “Cronologia poetica”, la “Geografia poetica”.
La relazione tra le prime due sezioni, Metafisica poetica e Logica poetica e quelle a
esse successive, corrisponde a quella tra le prime sessanta degnità che delineano la
novità teoretica della Scienza Nuova e quelle successive che si soffermano su
specifici elementi storico-filologici. Il secondo libro finisce con una conclusione che
ricorda il merito della Sapienza poetica di aver saputo prendere le distanze da un
lato dalla boria dei dotti dall’altro da quella delle nazioni, riconoscendo che la prima
sapienza umana fu il prodotto di menti “rozzissime”.
• Il terzo libro è dedicato a una originale interpretazione dei poemi omerici ed è
intitolato “Della discoverta del vero Omero”. Si tratta di un tassello estremamente
importante nell’impresa filosofica di Vico tanto che la statua di Omero compare in
posizione piuttosto centrale nella Dipintura e Vico
decide di dedicare una trattazione sistematica all’argomento, sebbene il materiale
filologico e la sua interpretazione filosofica dei poemi omerici siano naturalmente
confluiti anche in altre sezioni. A Vico importa poco di essere ridondante, memore
certamente del detto latino: repetita iuvant.
• Il quarto libro è intitolato “Del corso che fanno le nazioni”. È diviso in brevi sezioni
ed è dedicato ad approfondire il carattere triadico che Vico ha dato alla propria
scienza: la prima sezione è intitolata “Tre spezie di nature”; la seconda “Tre spezie di
costumi”; la terza “Tre spezie di diritti naturali”; la quarta “Tre spezie di governi”; la
quinta “Tre spezie di lingue”; la sesta “Tre spezie di
carattari”: in queste due ultime sezioni si affronta il tema linguistico.
Si procede con l’esposizione delle modalità triadiache fino all’undicesima sezione
dedicata a tre forme di tempi. Seguono poi diversi capitoli dedicati alle “pruove” di
quanto asserito nelle sezioni precedenti, ossia a fornire dimostrazioni di tipo
filologico tratte dalle storie delle diverse nazioni.
• Il quinto e ultimo libro è dedicato alla dottrina dei ricorsi ed è intitolato “Del
ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni”. Esso espone la celebre
tesi secondo cui il Medio Evo costituisce una forma di ricorso. Nel periodo medievale
si ritornerebbe cioè a una forma di barbarie analoga a quella dei primi tempi divini
ed eroici. Vico presenta dunque una riflessione comparativa sul mondo antico e su
quello moderno che tiene conto naturalmente anche degli aspetti specifici e delle
differenze del “ricorso” analizzato. L’intero percorso viene ancora una volta
ricostruito in modo sintetico nella “Conchiusione dell’opera”.

Cronologia
Il modello cronologico presentato da Vico è in tutto e per tutto conforme a quello
della storia biblica. Paolo Rossi nei suoi saggi ha mostrato come l’adesione di Vico a
questo modello si iscriva in un dibattito ampio in cui molti pensatori cristiani si
impegnarono a confutare la tesi delle “antichità sterminate”, del mondo in nome
dell’ortodossia cristiana. È per questa ragione che Vico sostiene la tesi,
evidentemente improbabile, secondo cui l’età del mondo non arriva ai seimila anni e
afferma che la storia ebraica è l’unica ad aver mantenuto
memoria del vero corso delle cose, mentre tutti gli altri popoli dopo il diluvio
universale, insieme alla conoscenza del vero Dio, hanno perduto anche la memoria
degli eventi precedenti. Da questa tesi deriva la separazione netta tra storia sacra e
storia profana e la contrapposizione della religione e della lingua degli ebrei da un
lato e di quelle dei popoli della gentilità dall’altro.
La cesura è costituita appunto dal Diluvio e dalla separazione tra i discendenti di
Noè; mentre i semiti, discendenti di Sem, mantengono la vera religione e dunque
anche la memoria della loro storia, i discendenti di Cam e Iafet (camiti e iafetiti) si
dispersero per le selve e costituirono l’umanità che errò per due secoli conducendo
una vita ferina. Anche la statura degli uomini della gentilità diverge dalla statura
“normale” degli ebrei. I “bestioni” delle origini, come li chiama Vico, furono dei
giganti. È interessante notare che, rispetto alla separazione e contrapposizione tra
ebrei e gentili, ci sono delle oscillazioni nelle diverse redazioni della Scienza Nuova, a
partire anzi dal Diritto Universale, proprio per quanto riguarda la lingua. Da un lato,
Vico distingue da subito in modo netto la conoscenza del vero Dio degli ebrei, che
poi sarà quella del mondo cristiano, da quella dei gentili che inventano delle divinità
a partire dalla
percezione di fenomeni naturali, anzitutto il cielo che tuona e che è divinizzato nella
figura di Giove, che ha equivalenti presso tutti i popoli della gentilità; dall’altro, Vico
sostiene nel Diritto Universale e nella Scienza Nuova del 1725 che anche l’ebraico è
una lingua poetica come le lingue della gentilità. La tesi della poeticità dell’ebraico
avrebbe consentito un quadro comparativo capace
di includere tutte le lingue delle origini e di sottoporle alle stesse regole.
Vico finisce però per comprendere l’intrinseca contraddittorietà di questa tesi
rispetto al quadro teologico-metafisico in cui inserisce la propria riflessione: la
poeticità dell’ebraico avrebbe implicato una corrispondente capacità creativa
rispetto all’intuizione della divinità, quella insomma attraverso cui tutti i popoli delle
origini inventano il loro Giove e fanno uso della divinazione;
mentre gli ebrei hanno una conoscenza diretta e puramente spirituale del vero Dio.
Per questa ragione, nell’ultima versione della Scienza Nuova nella sezione “Della
Logica poetica” Vico distingue nettamente il carattere puro della lingua ebraica,
creata attraverso l’onomatesia di Adamo per rispecchiare la vera essenza delle cose,
dalle lingue poetiche dei popoli gentili: “cotal primo parlare, che fu de´ poeti teologi,
non fu un parlare secondo la natura di esse cose
(quale dovett´esser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Iddio concedette la
divina onomathesia ovvero imposizione de´ nomi delle cose secondo la natura di
ciascheduna), ma fu un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte
immaginate divine” (SN, §34).

Assiomi o degnità
La prima e la seconda degnità della sezione “Degli Elementi” sintetizzano in maniera
efficace la dimensione critica e profondamente innovativa del progetto filosofico di
Vico:“L’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci
nell’ignoranza, egli fa séregola dell’universo” […] (SN, §120)
“È altra propietà della mente umana ch’ove gli uomini delle cose lontane e non
conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose conosciute e
presenti” (SN, §122). Queste due degnità formulano implicitamente una critica della
boria dei dotti e di quella delle nazioni, nel proporre un principio cardine sulle
modalità delle origini dell’umanità. La boria delle nazioni consiste nella credenza che
esse per prime avessero creato “i comodi della vita umana” conservando la
memoria della loro storia fin dalle lontanissime origini. A questa forma di vanagloria
che accomuna tutti i popoli “caldei, sciti, egizi, chinesi” Vico contrappone la verità
della storia sacra secondo cui l’età del mondo è “quasi giovine” (SN, §126). Della
boria delle nazioni è complementare quella dei dotti che proiettano all’indietro nel
tempo il loro sapere e vogliono “che sia antico quanto che ‘l mondo” (SN, §127).
Conseguenza di questa illusione è l’interpretazione erronea dei miti delle origini su
cui vengono proiettati significati molto posteriori. Nella V degnità, Vico prende le
distanze dai “filosofi
monastici o solitari”. Sotto tale categoria rientrano anche i filosofi cartesiani,
tuttavia qui Vico fa riferimento solo ai filosofi antichi e considera un modello
negativo di filosofi monastici che negano la Provvidenza: gli stoici, che lo fanno in
nome del fato, e gli epicurei, che lo fanno in nome del caso. A essi Vico contrappone
i filosofi politici e, in particolare, i platonici e sostiene che tutti i filosofi politici
“convengono con tutti i legislatori in questi tre principali punti: che si dia
provvedenza divina, che si debano moderare l’umane passioni e farne umane virtù,
e che l’anime umane sien immortali” (SN, §130). La filosofia che considera
tradizionalmente l’uomo “quale dev’essere” deve dunque ispirarsi al diritto che
considera l’uomo qual è, riuscendo a trasformare, attraverso la legislazione, i vizi
connaturati nella natura umana (in primis ferocia, avarizia e
ambizione) in attività utili alla vita collettiva. È la provvidenza a consentire che le
passioni degli uomini, invece di condurli a vivere in solitudine vite di bestie,
producano ordini e virtù civili. Se dunque il libero arbitrio umano è debole, esso
riceve un aiuto naturale dalla provvidenza divina e uno soprannaturale dalla grazia.
Tale aiuto consiste nell’indirizzarli in modo tale che essi, non essendo ancora in
grado di conoscere la verità, si attengano al certo. Certo è l’ambito della filologia che
si occupa di come determinate forme di autorità abbiano
indirizzato la condotta umana. Essa deve però farsi indirizzare dalla filosofia che
contempla la ragione, mentre quest’ultima deve superare la propria contemplazione
astratta nutrendola con i contenuti fatti emergere dalla filologia. La Scienza Nuova si
incarica proprio di attuare questa sintesi di dimensioni, integrando filosofia e
filologia. Per questa ragione, Vico arriva a introdurre
una serie di nozioni che sono il frutto diretto di questa integrazione. La prima è
quella di senso comune che viene definito: “un giudizio senz’alcuna riflessione,
comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o
da tutto il genere umano” (SN, §142). Complementare al concetto di senso comune
è la tesi secondo cui “idee uniformi nate appo intieri
popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero” (SN,
§144). È su questa tesi e sull’idea di senso comune che Vico costruisce una “nuova
arte critica” che si propone di portare alla luce l’uniformità dei sensi comuni in tutte
le nazioni. Essi non sono il prodotto di
trasmissione o di scambi, ma si sviluppano autonomamente in tutti i popoli secondo
sequenze analoghe. Ed è proprio la modalità della genesi di tali sensi comuni a
determinare la natura di essi e anche le modalità di sviluppo e le caratteristiche
permanenti della dimensione simbolica umana. “Natura di cose altro non è che
nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali,
indi tali e non altre nascon le cose” (SN, §147).
Questa degnità, la quattordicesima, connette in maniera forte la dimensione
genetica con quella ontologica: le cose hanno una certa natura perché sono nate in
certe determinate condizioni e sotto determinate forme. Tale connessione si rivelerà
particolarmente rilevante per quanto riguarda la riflessione sull’origine e la natura
delle lingue umane e più in generale della capacità simbolica
umana a cui, non casualmente, sono dedicate le degnità immediatamente
successive.

Metafisica e logica poetica


Il libro secondo della Scienza Nuova “Della Sapienza poetica” si apre con una
trattazione dedicata alla metafisica poetica in cui si spiega come “i primi uomini
delle nazioni gentili”, paragonati a “fanciulli del nascente genere umano” (SN, §376),
crearono le divinità. Tale creazione è connessa da un lato alla divinizzazione di un
fenomeno pauroso di cui gli uomini delle origini ignorano le cause, il temporale,
dall’altro alla loro stessa natura, mossa da violente
passioni che essi proiettano sui fenomeni naturali, animandoli e attribuendo a questi
l’intenzione di comunicare con loro. Ecco il passo in cui Vico descrive questo
momento cruciale che segna il passaggio dalla ferinità alla dimensione umana: “E
perché […] la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all´effetto la sua
natura, come si è detto nelle Degnità, e la natura loro [dei giganti membri dell
´umanità eslege delle
origini] era, in tale stato, d’uomini tutti robuste forze di corpo, che urlando,
brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un
gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti
dette “maggiori”, che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse dir loro
qualche cosa” (SN, §377). La creazione di Giove è la creazione di un carattere
poetico, e dunque essa coincide con il primo atto linguistico dei popoli della
gentilità. Essi sono “poeti” nel senso etimologico di “poiein”, verbo
greco che significa “fare”. Se dunque la “Metafisica poetica” contiene la descrizione
dello scenario filogenetico che lega insieme origine della prima divinità gentilesca e
origine delle lingue poetiche, sarà la sezione successiva dedicata alla Logica poetica
a descrivere le forme di tali lingue, il loro
funzionamento e la loro evoluzione. Il termine “logica”, spiega Vico all’inizio della
sezione, fa riferimento al termine greco “logos”, che vuol dire “linguaggio” e
“ragione”. L’aggettivo “poetico” distingue nettamente la logica di cui si tratterà nella
Logica poetica da quella dei popoli con una razionalità interamente dispiegata e una
lingua ricca di termini astratti. Vico distingue tre tipi di linguaggio: lingua degli eroi,
lingua degli dei e lingua degli uomini.
La lingua degli dei e quella degli eroi hanno però una serie di caratteristiche comuni
che le fanno rientrare nella dimensione poetica distinguendole dalla lingua degli
uomini in cui prevalgono razionalità e convenzionalità. Vico non separa nettamente
le prime due epoche e neppure le lingue che le caratterizzano. Entrambe sono opere
di poeti che si esprimono in maniera analogica e che sono i creatori dei semata,
ossia dei caratteri poetici. In questo senso, come osserva Trabant, “parlare” per Vico
significa “dare a qualcuno qualcosa da capire”. Le prime forme linguistiche sono
piuttosto “mutole”, come le chiama Vico, mute, ossia gestuali o anche oggettuali. La
lingua verbale vera e propria è preceduta dal canto e dai segni visivi che hanno una
funzione cognitiva.

Caratteri poetici e universali fantastici


I caratteri poetici con cui si esprimono gli uomini delle origini indicano anzitutto
corpi, fenomeni naturali che, come abbiamo visto nel caso del cielo in tempesta che
assume la fisionomia di Giove, vengono animati. Oppure i loro gesti, “atti” nella
terminologia vichiana, mimano quel che vogliono designare. Il termine “carattere” fa
riferimento etimologicamente al nome greco “charax”
che è il “palo acuminato” e dunque lo strumento per incidere, ma si riferisce anche a
ciò che è coniato. E infatti tra i caratteri poetici Vico include emblemi incisi su
blasoni, stemmi, monete. Il carattere poetico ha anzitutto una componente visiva e
tattile: per questa ragione, Vico fa riferimento a esso anche con il termine “gramma”
e parla di caratteri come di segni della scrittura.
I caratteri poetici sono dunque elementi diversi ed eterogenei: possono essere
“corpi” a cui viene attribuita una dimensione simbolica, oppure gesti, movimenti di
danza o anche “cenni”, come li chiama Vico, attraverso cui i poeti delle origini
cominciano a “scrivere” le loro prime idee. Sul piano semantico, i caratteri poetici
hanno una dimensione mitica, sono cioè elementi di una storia, di un mito: così
Ercole, come abbiamo già visto nel commento alla Dipintura, è il carattere poetico
degli eroi politici, Orfeo è il carattere dei primi poeti, Achille il carattere del giovane
eroe in un’epoca in cui il diritto si impone con la violenza delle armi. Lo stesso
Omero, nella originale interpretazione proposta da Vico, non è una figura storica
realmente esistita, ma il carattere poetico dei poeti dei primi popoli. Essenziale è per
Vico che la modalità significativa dei caratteri poetici precede la formazione di ogni
significato astratto e costituisce la condizione di quest’ultima. I caratteri poetici sono
definiti anche “generi fantastici” o “universali fantastici”: quest’ultima espressione
è, analogamente a “logica poetica”, una sorta di ossimoro, in quanto associa la
dimensione astratta dell’intelletto a quella della fantasia che crea rappresentazioni
particolari e concrete. Vico parla di universali perché i caratteri poetici si ritrovano in
forme e fisionomie affini nei popoli delle origini che possiedono tutti la figura di un
Ercole e di un Giove. Questa uniformità dipende dalle “stesse umane necessità e
utilità comuni” che si ritrovano in tutte le nazioni. Il fatto che sia possibile
individuare gli universali fantastici prodotti da tutti i popoli sulla spinta di
analoghe necessità storiche, è la condizione per cui il progetto vichiano possa avere
una forma scientifica. Per Vico infatti, che inscrive in questo senso la propria
riflessione nella tradizione aristotelica, si dà scienza solo dell’universale. Tuttavia,
accanto alla dimensione generale, comune, l’universale fantastico ha anche un
tratto individuale legato alle determinate circostanze in cui viene
creato: in questo senso, Vico fa riferimento alle “diverse modificazioni” o ai “diversi
aspetti” sotto i quali è declinato l’universale fantastico dai diversi popoli.

LA RIFLESSIONE GLOTTOGENETICA
Il dizionario mentale comune
La dottrina del dizionario mentale comune ha una rilevanza all’interno della
riflessione vichiana che non gli è stata sempre riconosciuta. Vico stesso sottolinea
con enfasi la sua importanza quando ricorda, nell’ultima Scienza Nuova, che il
dizionario mentale comune è uno degli approdi teorici
fondamentali che erano già stati raggiunti nell’edizione del 1725.
Nel paragrafo 32 dell’edizione del 1744 afferma che le tre lingue che sono state
parlate nelle tre epoche “compongono il vocabolario di questa Scienza”, mentre nel
paragrafo 34 si aggiunge che un “tal lessico si truova esser necessario per sapere la
lingua con cui parla la storia ideal eterna, sulla quale corrono in tempo le storie di
tutte le nazioni […]”. L’esempio di una porzione di tale dizionario è stato fornito nella
Scienza Nuova prima quando Vico individua dodici proprietà che caratterizzano i
patres nelle prime forme di organizzazione comunitaria comuni a tutte le nazioni di
cui essi sono i fondatori.La prima proprietà è quella di “fantasticare deitadi” seguita
da quella a essa strettamente associata
“del fare certi figliuoli con certe donne con certi auspici divini”. Queste proprietà
sono definite “qualità eterne” perché appunto sono proprie di tutti i fondatori delle
prime nazioni e per questo costituiscono una “lingua ideale comune”. Tuttavia, le
diverse lingue possono compiere scelte diverse e in alcune di esse potrebbero anche
comparire qualità inedite. Vico enuclea tali qualità essenzialmente a partire dalla
mitologia greca e dunque da figure come
Ercole, Orfeo e Odisseo presupponendo che esse costituiscano un aspetto di un mito
originario comune a tutte le nazioni. Trabant sostiene che nella concezione del
dizionario mentale comune di Vico c’è un elemento circolare: il momento filologico-
empirico ne costituisce infatti la base e dunque l’elemento universale è strettamente
dipendente da esso mentre ne dovrebbe costituire la condizione. È utile ricordare a
tale proposito che il dizionario mentale comune nel progetto
vichiano viene fatto dipendere direttamente dai sensi comuni, ossia da quei giudizi
senza alcuna riflessione attraverso cui, come abbiamo visto occupandoci delle
Degnità, la Provvidenza governa il corso storico delle nazioni secondo percorsi affini.
Il dizionario mentale comune procede dunque a mostrare l’identità simbolica o,
come la chiama Trabant, sematologica di tutte le nazioni e attraverso di essa
l’uniformità degli istituti giuridici e delle forme politiche nello sviluppo storico. Come
ha osservato Formigari, in Vico si stabilisce una
connessione teoreticamente produttiva tra filosofia del diritto e filosofia del
linguaggio, ove il primo, il diritto, è subordinato al secondo; dunque i principi posti
per le lingue vengono estesi anche al diritto. Ancora una volta, da questa
prospettiva, Vico critica la boria delle nazioni che è incline a credere che sia stato un
popolo a trasmettere agli altri determinate forme giuridiche e determinati
termini e concetti. È importante osservare che la ricostruzione storico-empirica del
dizionario mentale comune è per Vico assai meno importante del principio
metodologico e della visione universalistica a essa sottesi. Il principio metodologico
è quello, già presentato, di una integrazione tra filosofia e filologia che richiede alla
filosofia di non limitarsi alla contemplazione di un’universale astratto e alla filologia
di associare lo studio dei particolari a un’operazione
interpretativa attraverso griglie concettuali generali. Sarebbe vano cercare una
precisione filologica nei tentativi che Vico propone di ricostruire il dizionario
mentale comune o almeno porzioni di esso. Non è un caso che proprio nel
ricostruire il dizionario mentale comune Vico manchi di precisione: nel §35 della
Scienza Nuova egli afferma di aver indicato la designazione di qualità eterne in
quindici diverse lingue, ma in realtà, come ricorda nel suo commento storico alla
Scienza Nuova Fausto Nicolini, questa indicazione non è esatta ed è possibile
arrivare solo a dodici qualità dei padri, mentre le nazioni citate e le corrispettive
lingue sono solo otto. Quello che conta per Vico non è insomma l’esattezza
filologica, ma il carattere esemplificativo della propria ricostruzione, che mira a far
emergere la dimensione universale nei diversi particolari presentati.

La gemellarità di lingue e lettere


Abbiamo analizzato gli elementi teorici che consentono di comprendere la celebre
tesi della gemellarità di lingue e lettere. Vico la introduce già nella parte introduttiva
dell’opera in cui, discutendo le interpretazioni “mostruose” date fino a quel
momento dai filologi, afferma: “L’infelice cagione di tal effetto si osserverà ch’i
filologi han creduto nelle nazioni esser nate prima le lingue, dappoi le lettere;
quando […] nacquero esse gemelle e camminarono del pari, in
tutte e tre le loro spezie, le lettere con le lingue” (SN, §33). In questa citazione le
lettere non corrispondono alla scrittura alfabetica o ad altre forme di scrittura
ma a quel “parlare fantastico per sostanze animate” e per caratteri poetici di cui ci
siamo già occupati. “I mutoli mandan fuori i suoni informi cantando, e gli scilinguati
pur cantando spediscono la lingua a prononziare. Gli uomini sfogano le grandi
passioni dando nel canto […] gli autori delle nazioni gentili – […] non si fussero
risentiti ch’a spinte di violentissime passioni – dovettero formare le loro prime
lingue articolate cantando” (SN, §228-30). Questo tipo di espressioni vocali
corrispondono alle onomatopee e alle interiezioni e sono il correlato di quelle
produzioni mutole che danno forma ai caratteri poetici. Entrambe le forme sono
manifestazioni delle passioni umane e sono dunque segnate dalla “corpolenza” delle
espressioni simboliche delle origini. Vico sottolinea che la correlazione tra lingue e
lettere si mantiene nel corso di tutte e tre le epoche ed è caratterizzata da
proporzioni diverse tra le tre dimensioni: “la lingua degli dèi fu quasi tutta muta,
pochissimo articolata; la lingua degli eroi, mescolata
egualmente e di articolata e di muta, e ’n conseguenza di parlari volgari e caratteri
eroici co’ quali scrivevano gli eroi, che sémata dice Omero; la lingua degli uomini,
quasi tutta articolata e pochissimo muta perocché non vi ha lingua volgare cotanto
copiosa ove non sieno più le cose che le sue voci” (SN, §446).
Tuttavia è bene osservare che, se qui la mutezza è opposta alle lingue vocali della
terza epoca, anche in quest’ultima abbiamo una forma specifica di lettere che sono
quelle dell’alfabeto. A proposito dell’alfabeto Vico scrive che esso “dinota l’origine
delle lingue e delle lettere che sono dette volgari, che si truovano essere venute
lunga stagione dopo fondate le nazioni, ed assai più
tardi quella delle lettere che delle lingue” (SN, §21). Ma se quella dell’alfabeto è
un’invenzione tarda, l’alfabeto e le lingue volgari o, come le chiama anche Vico,
parlari convenuti, intrattengono pure una relazione di gemellarità condividendo
entrambi quella dimensione astratta della linguisticità che è un approdo tardo e
fortemente agevolato proprio dall’uso della scrittura

Le tre lingue: prospettiva genetica e funzionale?


Se si considera adesso la tesi delle tre lingue all’interno della filosofia della storia
vichiana si comprende che, accanto alla prospettiva genetico-evolutiva, essa deve
fare posto a quella funzionale. Come infatti hanno fatto osservare diversi interpreti,
la tesi vichiana non spiega come sia possibile il passaggio dall’una all’altra lingua,
ossia come le facoltà simboliche umane possano evolvere dalla dimensione degli
universali fantastici dell’epoca divina ed eroica a quella delle
lingue della terza epoca caratterizzate da capacità logico-astrattive.
La soluzione a questa apparente aporia è data da Vico nel considerare la genesi delle
tre lingue contemporanea così come lo è quella di lingue e lettere: “Ora, per entrare
nella difficilissima guisa della formazione di tutte e tre queste spezie e di lingue e di
lettere, è da stabilirsi questo principio: che, come dallo stesso tempo cominciarono
gli dèi, gli eroi e gli uomini (perch’eran pur uomini quelli che fantasticaron gli dèi e
credevano la loro natura eroica mescolata di quella degli dèi e di quella degli
uomini), così nello stesso tempo cominciarono
tali tre lingue. […]. In seguito del già detto, nello stesso tempo che si formò il
carattere divino di Giove, che fu il primo di tutt’i pensieri umani della gentilità,
incominciò parimente a formarsi la lingua articolata con l’onomatopea, con la quale
tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i fanciulli” (SN, §447).
Si possono dunque considerare le tre lingue anche in una prospettiva funzionale
come diverse modalità simboliche che interagiscono fin dall’inizio e di cui nel corso
del tempo si invertono le proporzioni: il prevalere delle “lingue mutole” delle origini
è sostituito nell’età degli uomini dalla dominanza dei parlari convenuti e dalla
razionalità astratta a essi correlata. Tuttavia anche in quest’ultima fase le due prime
modalità simboliche, soprattutto la seconda,
quella dell’età eroica, che si esprime attraverso forme analogiche, non vengono
abolite. Per Vico questo è un elemento importante che egli presenta attraverso una
bella immagine: “La favella poetica, com’abbiamo in forza di questa logica poetica
meditato, scorse per così lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi
fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi con la
violenza del corso” (SN, §412). Si osservi che dall’immagine emerge la connotazione
positiva attribuita alla favella poetica: la dolcezza delle acque del fiume che si
conserva nel mare. Questa connotazione ha una dimensione estetica, ma
soprattutto viene legata da Vico a una specifica forma di eticità che l’epoca della
riflessione e dei parlari convenuti tende facilmente a dimenticare. Sebbene la tesi
della coesistenza delle tre lingue fin dall’origine costituisca una soluzione alla
questione della modalità di transizione dall’una all’altra, si tratta di una soluzione
che resta generica e che Vico integra con una spiegazione più precisa di come la
lingua degli uomini introduca una modalità astrattiva specifica che modifica le forme
espressive delle lingue anteriori.
Tale spiegazione è fornita attraverso un esempio tratto dal dominio dell’espressività
naturale e dell’ambito emozionale. L’esempio del concetto di ira presentato da Vico
è particolarmente significativo perché si tratta di n’emozione che si manifesta in
maniera particolarmente accentuata nei popoli delle origini di cui viene più volte
sottolineata l’estrema passionalità: “Perocché, essendo i poeti, innanzi, andati a
formare la favella poetica con la composizione
dell’idee particolari (come si è appieno qui dimostrato), da essa vennero poi i popoli
a formare i parlari da prosa con contrarre in ciascheduna voce, come in un genere,
le parti ch’aveva composte la favella poetica; e di quella frase poetica, per esemplo:
“Mi bolle il sangue nel cuore” (ch’è parlar per propietà naturale, eterno e universale
a tutto il genere umano), del sangue, del ribollimento e del cuore fecero una sola
voce, com’un genere, che da’ greci fu detto stómachos, da’
latini “ira ”, dagli italiani “collera” (SN, §460) Anche in questo caso gli interpreti
hanno messo in rilievo le difficoltà insite in questa soluzione vichiana. L’idea che il
termine astratto “ira” si generi per contrazione o accorciamento (“accorcio”
nella terminologia vichiana) dell’immagine squisitamente corporea “mi bolle il
sangue nel cuore”, non tiene conto del fatto che anche quest’ultima frase è
composta di termini generali che presuppongono capacità astrattive e che, in ogni
caso, alla base della genesi delle parole non c’è un procedimento predicativo.
Tuttavia, Vico coglie un elemento importante che è il carattere olistico 57
dell’espressione delle origini: se riportato alla comunicazione “mutola” della prima
lingua, “mi bolle il sangue nel cuore” può essere identificato con una comunicazione
gestuale che riproduce aspetti della manifestazione espressiva naturale dell’ira.
Inoltre, la tesi della contemporaneità genetica delle tre lingue e del loro costante
agire in modo integrato aiuta ad aggirare la difficoltà facendo sì che le espressioni
analogiche, attraverso cui si esprimono i popoli delle origini ancora privi di concetti
astratti, siano comunque formate anche attraverso procedimenti analitici e l’uso di
termini generali, resi possibili dalla presenza della dimensione convenzionale o
piuttosto arbitraria.
Il ruolo delle figure retoriche nella glottogenesi
Ripercorriamo anzitutto due punti essenziali della “Logica poetica”.
Nel primo viene definito lo stesso termine “logica”, nel secondo si descrive il modo
di procedere della lingua detta mutola:
1) “Logica” vien detta dalla voce lógos, che prima e propiamente significò favola, che
si trasportò in italiano favella
– e la favola dai greci si disse anco mýthos, onde viene a’ latini “mutus”, - la
quale ne’ tempi mutoli nacque mentale, che in un luogo d’oro dice Strabone essere
stata innanzi della vocale o sia dell’articolata: onde logos significa “idea” e “parola”
(SN, §401).
2) “La prima, nel tempo delle famiglie, che gli uomini gentili si erano di fresco
ricevuti all´umanità; la qual si truova essere stata una lingua muta per cenni o corpi
ch’avessero naturali rapporti all’idee ch’essi volevano significare” (SN, §32).
Per spiegare il carattere delle lingue delle origini, Vico fa inoltre riferimento a una
carenza linguistico-cognitiva da un lato e, dall’altro, a un’esigenza di tipo
comunicativo che spinge gli esseriumani che vivono in gruppo a farsi comprendere:
“Inoltre, i fonti di tutta la locuzione poetica si truovano questi due, cioè povertà di
parlari e necessità di spiegarsi e farsi intendere” (SN, §34).
La natura analogica, metaforica delle lingue poetiche affermata da Vico si deve
comprendere all’interno di questo quadro: la metafora e gli altri tropi non si
affiancano all’espressione letterale che li precede, ma derivano dall’atto di
simbolizzare a partire dagli eventi, trasferendo su oggetti e fenomeni significati.
Analizziamo il seguente passo che descrive il messaggio che il re scita
Idantura mandò al re Dario; tale messaggio è composto esclusivamente di tre
animali e due oggetti: “La ranocchia significava ch’esso era nato dalla terra della
Scizia, come dalla terra nascono, piovendo l’està, le ranocchie, e sì essere figliuolo di
quella terra. Il topo significava esso, come topo, dov’era nato aversi fatto la casa,
cioè aversi fondato la gente. L’uccello significava aver ivi
esso gli auspici, cioè, come vedremo appresso, che non era ad altri soggetto ch’a
Dio. L’aratro significava aver esso ridutte quelle terre a coltura, e sì averle dome e
fatte sue con la forza. E finalmente l’arco da saettare significava ch’esso aveva nella
Scizia il sommo imperio dell’armi, da dover e poterla difendere” (SN, §435).
Si potrebbe pensare che a questi oggetti viene attribuito un significato metaforico
aggiuntivo o che essi hanno un valore allegorico, ossia che stanno per qualcos’altro.
Tuttavia ciò significherebbe fraintendere la concezione vichiana dei procedimenti
analogici delle origini che connette a tre tropi metafora, metonimia, sineddoche a
cui aggiunge una quarta figura quella dell’ironia, riferita esclusivamente all’età degli
uomini: “[…] tutti i tropi (che tutti si riducono a questi quattro), i quali si sono finora
creduti ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi [di]
tutte le prime nazioni poetiche, e nella loro origine aver avuto tutta la loro natia
propietà” (SN §409).
Vico dà anche un’articolazione ulteriore alla sua teoria attribuendo a sineddoche e
metonimia l’organizzazione simbolica e cognitiva delle lingue mutole:
“A questa fatta, tutti i tropi poetici della parte per lo tutto, che son posti sotto la
spezie della sineddoche, si ritruovarono aver dovuto essere i primi parlari delle
nazioni” (SN1, §307).
La metafora invece, a cui già in scritti precedenti Vico aveva attribuito un ruolo
privilegiato, è in particolare attiva nella lingua eroica: “La seconda si parlò per
imprese eroiche, o sia per somiglianze, comparazioni, immagini, metafore
e naturali descrizioni, che fanno il maggior corpo della lingua eroica, che si truova
essersi parlato nel tempo che regnarono gli eroi” (SN, §32).
Ma in un altro passo il procedimento metaforico viene identificato da Vico con la
stessa capacità di dare senso e animare cose insensate. Dunque lo stesso primo atto
mutolo con cui si crea il carattere poetico di Giove è considerato metaforico:
“Di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa e,
perché più luminosa, più necessaria e più spessa è la metafora, ch’allora è vieppiù
lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione, per la metafisica sopra
qui ragionata: ch’i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, sol di
tanto capaci di quanto essi potevano cioè di senso e di
passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora vien a essere una picciola
favoletta” (SN, §404).
Il fatto che i primi poeti diano i nomi alle cose dalle idee più particolari e sensibili
viene d’altro canto identificato con metonimia e sineddoche (SN, §406). I primi
uomini della gentilità concepiscono le idee delle cose “per caratteri fantastici di
sostanze animate, e, mutoli, di spiegarsi per atti o corpi ch’avessero naturali rapporti
all’idee (quanto, per esemplo, lo hanno l’atto di tre
volte falciare o tre spieghe per significare “tre anni”) (SN, §431).
L’elemento essenziale della teoria dei tropi è che essa delinea una spiegazione della
genesi dei concetti astratti a partire dall’organizzazione corporea. Vico fornisce di
questo procedimento una serie ampia di esempi tratti dall’italiano che può essere
estesa a molte altre lingue: “Quello è degno di osservazione: che’n tutte le lingue la
maggior parte dell’espressioni d’intorno a
cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli
umani sensi e dell’umane passioni. Come capo, per cima o principio, fronte, spalle,
avanti e dietro; occhi delle viti e quelli che si dicono lumi ingredienti delle case;
bocca, ogni apertura; labro, orlo di vaso o
d’altro; dente d’aratro, di rastrello, di serra, di pettine; barbe, le radici; lingua di
mare; fauce o foce di fiumi o monti; collo di fiume, mano, per picciol numero, seno
di mare, il golfo […]” (SN, §405).
La citazione è molto più lunga ed è estremamente interessante osservare che
esempi analoghi sono stati proposti da George Lakoff nella sua teoria della
metafora, che appartiene alla seconda generazione delle scienze cognitive. Dopo
aver sviluppato la propria teoria, Lakoff si è anche occupato di rintracciarne i
precursori, ma non è riuscito ad arrivare a Vico. È stato uno studioso
candese Marcel Danesi che in diversi studi ha messo in luce le grandissime analogie
tra la riflessione teorica di Vico e la teoria della metafora di Lakoff.
In uno scritto miscellaneo da lui curato, “Giambattista Vico and Anglo-American
Science. Philosophy and Writing”, 58
Marcel Danesi ha chiesto a diversi studiosi di approfondire le affinità tra il pensiero
di Vico e diverse trattazioni interne alle scienze cognitive contemporanee. Un saggio
di Aldo d’Alfonso 59 si è occupato di mostrare che gli studi sull’ontogenesi del
linguaggio e sulla pedagogia linguistica hanno messo in luce la centralità del
pensiero metaforico e della priorità delle immagini rispetto all’organizzazione logico-
concettuale propria degli usi linguistici più evoluti. Nella stessa miscellanea, Renzo
Titone 60 ha ricordato come la dimensione immaginifica e metaforica si sia rivelata
particolarmente essenziale nell’educazione linguistica di bambini con disturbi
linguistico-cognitivi e come un apprendimento centrato sull’interazione tra racconto
verbale e rappresentazione grafica si sia rivelato particolarmente produttivo.

La barbarie della riflessione


Per concludere, vorremmo rendere esplicita una tensione interna al pensiero di Vico
che, da un lato, delinea un movimento ascendente guidato dalla Provvidenza, che va
dalle origini ferine al mondo umano dell’uguaglianza e della vita democratica,
dall’altro considera la dimensione poetica delle origini un elemento negativo
anzitutto dal punto di vista etico. Per questo ci sembra possibile parlare di una
forma di etica che scaturisce proprio dalla logica
poetica e che ha come polo positivo ciò che Vico chiama nelle conclusioni della sua
opera “barbarie della riflessione”. Esiste cioè una forma di barbarie che non è legata
alla ferinità dei “bestioni”, alla scarsa razionalità e al prevalere delle passioni, ma è
prodotta proprio dalla riflessione e dal distacco dalla logica poetica delle origini. Lo
stesso uso dell’ironia, possibile solo nella terza età, essendo il prodotto di un
distacco riflessivo, ha questa connotazione negativa:
“L’ironia certamente non poté cominciare che da’ tempi della riflessione, perch’ella
è formata dal falso in forza di una riflessione che prende maschera di verità. E qui
esce un gran principio di cose umane, che conferma l’origine della poesia qui
scoverta: che i primi uomini della gentilità essendo stati semplicissimi quanto i
fanciulli, i quali per natura son veritieri, le prime favole non poterono
fingere nulla di falso; per lo che dovettero essere necessariamente, quali sopra ci
vennero diffinite, vere narrazioni” (SN, §408) Sul piano linguistico, è l’incapacità di
distinguere e separare significato e significante a rendere impossibile l’uso
dell’ironia. L’incapacità di mentire è legata al fatto che la creazione simbolica
delle origini ha anche un carattere ontologico: nello stesso tempo vengono prodotti
mondo e linguaggio e i creatori dei caratteri poetici possono solo con grande fatica
stabilire tra di essi una distinzione. A questo tipo di atteggiamento Vico contrappone
nelle ultime pagine della Scienza Nuova “le malnate ottigliezze degli ingegni
maliziosi, che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione che
non era stata la prima barbarie del senso” (SN, §1106).
Vico prende dunque commiato dai suoi lettori ribadendo la priorità della dimensione
etico-religiosa e collegandola in maniera originale a quella “primiera semplicità del
primo mondo de’ popoli […] religiosi, veraci e fidi” (ibidem).

1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
sono geometria, aritmetica, astronomia
e musica.
5
Ermeneutica: interpretazione di testi
antichi, spec. religiosi
6
Esegesi: interpretazione critica di un
testo, spec. biblico o giuridi

13
Demopsicologia: disciplina che studia la psicologia dei diversi popoli attraverso i
costumi, i miti e le tradizioni.
14
Neopositivismo logico: corrente di pensiero che sostiene che la filosofia debba
aspirare al rigore metodologico

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