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Platone: Il Cratilo
Il dialogo fondamentale per la riflessione occidentale sul linguaggio è il Cratilo di
Platone.
Gli Interlocutori del dialogo sono:
– Socrate, che è sempre il personaggio fondamentale dei dialoghi;
– Cratilo, a cui il dialogo dà il nome, che difende la posizione naturalista.
– Ermogene, antagonista di Cratilo, che difende la concezione opposta.
La posizione convenzionalista, difesa da Ermogene, riecheggia per certi aspetti
quella dei sofisti, esponenti del convenzionalismo linguistico, brillanti oratori che
insegnavano le regole del parlare persuasivo ai giovani dietro pagamento.
Mette in scena un’opposizione fra le due tesi classiche:
– quella per cui il linguaggio è per natura;
– quella secondo cui il linguaggio si dà per convenzione, attraverso un contratto tra i
parlanti per cui il linguaggio non avrebbe nessuna caratteristica naturale che riflette
un ordine del reale o del pensiero.
Socrate confuta la posizione convenzionalista di Ermogene. Secondo Formigari, il
dialogo non ha una conclusione aporetica 1 . Platone approderebbe piuttosto nel
Cratilo a una forma di strumentalismo gnoseologico 2
secondo cui il ruolo costitutivo della parola è di essere uno
strumento di distinzione di essenze. Per Platone, l'atto del denominare, del dare
nomi, ha una funzione conoscitiva, serve per classificare e categorizzare le essenze:
– il significato è anzitutto il valore generico di un segno e designa classi generali di
oggetti
– le forme linguistiche e denominative hanno un’accezione gnoseologica, non
metafisica. Il Cratilo contiene anche un breve trattato di etimologia fantastica. La
ricerca etimologica corrisponde alla tesi secondo cui i nomi devono essere in grado
di riflettere le caratteristiche dell’oggetto a cui si riferiscono. Questa posizione
definita “naturalismo linguistico” avrà molto seguito nella storia delle idee
linguistiche. Essa si ritroverà, ad esempio, nelle speculazioni glottogenetiche
settecentesche.
L'etimologia è in grado di ricostruire, nonostante le trasformazioni fonetiche e
semantiche, quelle che sono state le prime forme e quindi le cause per cui i primi
nomi hanno assunto questa forma. La teoria del simbolismo fonico che sottende le
fantasiose etimologie platoniche si fonda su una forma di ostensione mimica e
gestuale o di imitazione dei suoni emessi dai diversi oggetti. Lo Strumentalismo
gnoseologico mostra che il nome serve a classificare le cose e concepisce il
linguaggio come strumento conoscitivo che segue determinate regole; non ogni
strumento è ugualmente adeguato allo scopo che si prefigge: ad esempio, un
martello non può funzionare come un cacciavite. Il Cratilo si avvicina più di altri
dialoghi platonici a quella che sarà la concezione convenzionalista del linguaggio di
Aristotele.
Aristotele: De Interpretatione
L’opera aristotelica è stata un punto di riferimento fondamentale per le riflessioni
filosofiche successive sul linguaggio. In De Interpretatione, Aristotele afferma che “i
suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere
scritte sono simboli dei suoni della voce; allo stesso modo poi che le lettere non
sono le medesime per tutti così neppure i suoni sono i
medesimi. Tuttavia suoni e lettere risultano segni anzitutto delle affezioni dell’anima
che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti già identici per
tutti (Peri Hermeneias)”.
• Prima preposizione:
i suoni della voce sono simboli (symbola) delle affezioni (pathemata) che hanno
luogo nell’anima; le lettere scritte sono a loro volta simboli di suoni della voce.
• Seconda preposizione:
– come le lettere non sono le medesime per tutti, ma esistono diversi tipi di
scrittura, di alfabeti, così neppure i suoni sono i medesimi per tutti (posizione
convenzionalista);
– le affezioni, ossia i pathemata sono invece i medesimi per tutti gli esseri umani,
così come lo sono gli oggetti o stati di cose (pragmata) a cui le affezioni si riferiscono.
Il termine symbola in greco fa riferimento alle due metà di un oggetto, ad esempio
di una moneta, di una medaglia, di una tavoletta, che venivano spezzate per poter
servire in seguito come segni di
riconoscimento. Con symbolon si fa dunque riferimento ad un rapporto di
complementarietà tra i due elementi del rapporto semantico.
Lo Piparo osserva che la traduzione del significato del termine “simbolo” si è persa;
esso è stato assimilato a quello di semeion, “segno”, ma il semeion fa riferimento a
segni naturali, a sintomi. Nel suo saggio “Che cosa fa di una lingua una lingua.
Aristotele e il linguaggio” (Laterza 2003) Lo Piparo contesta l’interpretazione
convenzionalista del passo aristotelico sopra citato e afferma che Aristotele con
l’espressione “syntheke”, tradotta di solito con “convenzione”, fa piuttosto
riferimento a una sintesi che coinvolge la dimensione sintattica e articolatoria delle
linguestorico-naturali. Lo Piparo mette in rilievo la complessità della riflessione
aristotelica sul linguaggio che ci porta a dire con espressione contemporanea, ante
litteram, che Aristotele si è occupato del linguaggio in una prospettiva
multidisciplinare. Per quanto riguarda l’analisi della voce umana, Aristotele
introduce una distinzione essenziale tra suono in senso generico e suono umano in
quanto prodotto da organi anatomici deputati alla sua produzione.
La retorica
Essenziale per le riflessioni della modernità, in particolare per quella di Vico, è anche
la riflessione classica sulla retorica. Essa nasce nella Grecia antica come una
disciplina che si occupa delle funzioni non conoscitive del linguaggio. È la tecnica del
parlare bene, ma sviluppa anche una riflessione sui propri fondamenti. Ha una
componente etica perché insegna a controllare e modulare il linguaggio delle
passioni.In età romana, Cicerone e Quintiliano sistematizzano le partizioni canoniche
della retorica:
– l’inventio, che si occupa del reperire i diversi argomenti;
– la dispositio, che si occupa del loro ordine;
– l’elocutio, che è la tecnica per dare di essi un’enunciazione;
– la memoria, che è l’insieme dei procedimenti per la memorizzazione;
– l’actio, che è l’arte del presentare il discorso con l’ausilio dei gesti.
Nel Medioevo, la retorica diventa una delle discipline del trivio insieme alla
grammatica e alla dialettica 3. 4. Acquisisce nuovi scopi come la difesa della fede e
la ricerca di strumenti di persuasione dei fedeli; diviene dunque tecnica
dell’edificazione etico/religiosa.Inoltre alla retorica si affianca come strumento
complementare l'ermeneutica 5 : essa nasce come esegesi 6 biblica del testo sacro
ed è animata dalla tensione tra la possibilità e la necessità di una molteplicità
dell'interpretazione testuale e la riaffermazione dell'unità del verbo divino.
OTTOCENTO E NOVECENTO
Ludwig Wittgenstein
Ludwig Wittgenstein pubblica nel 1921 il “Tractatus logicophilosophicus” che avrà
un’influenza importante sul Circolo di Vienna (neopositivismo logico 14
). Postume usciranno le “Ricerche filosofiche” (1953). Nel Tractactus Wittgenstein
presenta un’immagine del linguaggio come ciò che è in grado di raffigurare il mondo
grazie a una forma logica comune a entrambi (isomorfismo logico). Il linguaggio
include anche elementi non verbali, come modellini, disegni, diagrammi.
Le proposizioni possono essere vere o false a seconda che descrivano correttamente
o no stati di cose del mondo. Vi sono però anche proposizioni come le tautologie 15
e le contraddizioni che non sono né vere né false. Esse non fanno che esibire la loro
forma logica che non può mai essere detta, ma, appunto, solo esibita. Etica ed
estetica si occupano, secondo Wittgenstein, di tale esibizione e fanno parte del
dominio del mistico. Nelle “Ricerche filosofiche” Wittgenstein trasforma
profondamente la sua concezione del linguaggio umano che non ha più solo il
compito di raffigurare il mondo, ma si compone di molteplici giochi linguistici,
connessi tra di loro attraverso una serie di somiglianze di famiglia, affinità anch’esse
molteplici e non riducibili a un insieme fisso di elementi, come nella teoria
aristotelica del concetto.Il significato del linguaggio coincide dunque con il suo uso
nelle diverse pratiche linguistiche, cioè i giochi. Imparare a parlare vuole dire essere
sottoposti a un addestramento a tali pratiche, vuol dire dunque diventare capaci di
creare un gioco linguistico.Wittgenstein critica alcuni aspetti dello scenario
ontogenetico 16 descritto da Sant’Agostino nelle “Confessioni” in cui il linguaggio
sembra essere assimilato a una nomenclatura e l’apprendimento del bambino
sembra avvenire solo attraverso l’osservazione degli adulti.L’obiettivo della filosofia
è descritto da Wittgenstein come il raggiungimento di una rappresentazione
perspicua, di una visione che consente di cogliere la grammatica non solo di fatti
linguistici, ma anche di fenomeni antropologici, artistici, estetici, matematici,
geometrici...È in questo contesto che il filosofo introduce la nozione di vedere-come
e di figura ambigua.Essa consente di seguire il cambiamento di aspetto, e quindi di
configurazione grammaticale, di unaimmagine.
Burrhus Skinner
Un’altra corrente che porta alla crisi dello psicologismo è quella del
comportamentismo o behaviorismo di cui Burrhus Skinner fu uno degli esponenti
principali. Skinner sottolinea che far riferimento alla mente e a metodi come quello
introspettivo è inutile per chi voglia capire il linguaggio poiché, per comprendere
l’apprendimento della lingua, è sufficiente osservare i comportamenti e le loro
modifiche a partire da stimoli esterni.
Charles S. Peirce
Teorico eclettico, Peirce ha dato contributi importanti alla semiotica. I suoi scritti,
per lo più pubblicati postumi, sono stati raccolti nei “Collected Papers of Ch.S.
Peirce” a partire dal 1931. In italiano sono state curate diverse selezioni di opere,
come i recenti “Scritti scelti” (UTET 2009, a cura di Giovanni Maddalena) o il volume
“Opere” (Bompiani 2003, a cura di Massimo Bonfantini).
Ferdinand de Saussure
Fondatore della linguistica generale, Saussure non ha pubblicato mai i suoi corsi di
linguistica, la
cui edizione è il frutto della raccolta di appunti presi dai suoi allievi. La prima
edizione di alcuni corsi è del 1916: “Cours de linguistique générale”, a cura di
Charles Bally, Albert Riedlinger e Albert Sechehaye, Losanna-Parigi, Payot.
Saussure e lo strutturalismo
Dalla linguistica di Saussure si è sviluppato un modello di analisi, quello dello
strutturalismo, che dalla linguistica è stato esteso come metodologia unificante a
tutte le scienze umane ed applicato all’analisi di qualsiasi prodotto culturale.
Esponente di tale indirizzo, negli Anni Sessanta e Settanta, è stato in Italia Umberto
Eco che poi, a partire dagli anni Ottanta, ha elaborato una critica degli eccessi del
metodo strutturalista. Il modello strutturalista di matrice saussuriana è stato
applicato a una serie di fenomeni: a. ai fenomeni antropologici, come
nell'antropologia strutturale di Lévi-Strauss;
b. all'architettura; al cinema; ad ogni tipo di opere d'arte.
I limiti della posizione strutturalista sono stati individuati nello scarso valore
attribuito alla dimensione storica e alla componente naturale, iconica, elementi
considerati irrilevanti rispetto all'analisi strutturale. La fiducia di poter ridurre
qualsiasi prodotto culturale, si tratti di un film, diun edificio o di un fenomeno
antropologico, al prodotto di un codice di cui è necessario rintracciare
e rendere esplicite le regole si è rivelata eccessiva.Già dalla fine degli anni Sessanta
Pierpaolo Pasolini è stato un critico accorto degli eccessi dello
strutturalismo, in particolare per quanto riguarda la semiotica del film.
Anche Emilio Garroni ha riflettuto criticamente sulla semiologia strutturalista ad
esempio in “Semiotica ed estetica” (Laterza 1968)
Tullio De Mauro
Tullio de Mauro si è occupato dell’introduzione e cura del “Corso di linguistica
generale” di Ferdinand de Saussure (Laterza 1967). Inoltre, ha scritto “Storia
linguistica dell’Italia unita” (Laterza 1963) e “Minisemantica dei linguaggi non verbali
e delle lingue” (Laterza 1983).
Noam Chomsky
Noam Chomsky scrive nel 1959 la celebre recensione all’opera di Skinner “Verbal
Behavior”, a cui si usa far risalire la nascita del cognitivismo. Già negli anni Sessanta
due opere “Aspects of the theory of syntax” (1965) e “Cartesian linguistics” (1966)
contengono un’elaborazione matura del suo pensiero linguistico e filosofico. La
“linguistica cartesiana” è un tentativo di rileggere la storia delle idee linguistiche
rintracciando i precursori del suo pensiero.
Chomsky individua in W. v. Humboldt, secondo cui “la lingua fa un uso infinito di
mezzi finiti”, un precursore della propria concezione di creatività linguistica e
dell’idea che una teoria della grammatica deve dar conto di questa capacità.
Chomsky reagisce dunque al comportamentismo, secondo cui per spiegare il
linguaggio è sufficiente riferirsi ai comportamenti. A questo paradigma contrappone
una concezione innatista del linguaggio e della sua origine, una concezione
modularista e discontinuista del linguaggio umano, come facoltà separata da altri
tipi di facoltà cognitive e dai sistemi di comunicazione
animali. La sua posizione difende una forma specifica di modularismo in ambito
neurologico: al linguaggio umano corrisponde sul piano neurologico un modulo
isolato del cervello che è deputato soltanto allo svolgimento di compiti linguistici. Il
linguaggio è un dispositivo innato e per studiarlo occorre l’approccio della linguistica
generativa, che deve ricostruire le modalità con cui, attraverso questo dispositivo
innato, i bambini si impossessano della competenza grammaticale. Chomsky
distingue competenza ed esecuzione ed è poco interessato alla dimensione
comunicativa dell’esecuzione, che considera un derivato poco significativo rispetto
alla competenza. Dal punto di vista ontogenetico Chomsky e Pinker affermano che il
bambino è esposto ad uno
stimolo limitato e a poche correzioni e che, tuttavia, impara a parlare molto
rapidamente senza fare troppi errori. Ciò li porta a supporre la presenza nel cervello
di un dispositivo innato che permette di gestire un numero così ampio di regole
complesse, il LAD (Language Acquisition Device).
Chomsky riporta la psicologia all'interno della linguistica e riarticola entrambe
nell’ambito delle scienze cognitive. La metafora più influente del cognitivismo è
stata quella che paragona il funzionamento del linguaggio e della mente a quello dei
software, ed equipara il cervello a un computer, ossia all’hardware, in cui possono
essere implementati diversi software (le lingue)
Lakoff e Johnson
Questo approccio cognitivista rivendica l’importanza dei dispositivi corporei e
comunicativi. Contrappone all'analogia tra cervello e computer quella della mente
incarnata (embodied mind and cognition), del corpo nella mente. Ogni cognizione è
l’elaborazione di esperienze corporee.
Terrence W. Deacon
Il neuroscienziato Terrence W. Deacon oppone alla posizione di Chomsky una
concezione dell'origine del linguaggio fondata sulla priorità della dimensione
semantica rispetto a quella sintattico-grammaticale e indica in un modello integrato
di facoltà gli elementi che concorrono all'emergere del linguaggio verbale. Pur
sottolineando l’unicità del linguaggio umano si oppone alla posizione discontinuista
di Chomsky che considera la facoltà del linguaggio verbale come del tutto isolata da
altre facoltà comunicative e cognitive evolutivamente precedenti e tuttora comuni
ad altre specie animali.
Il modello di Deacon riprende il modello semiologico di Peirce individua tre livelli di
articolazione semiotico-linguistica: quello iconico, quello indicale e quello simbolico.
Nei sistemi di comunicazione zoosemiotica più evoluti individua una componente
iconica ed una componente indicale. Deacon sostiene che il linguaggio verbale
riarticola questo tipo di organizzazione
zoosemiotica attraverso la referenza simbolica che introduce la relazione orizzontale
tra i segni del sistema, distaccandoli dal loro rapporto verticale con il referente: nelle
lingue umane ogni termine sidetermina in rapporto agli altri termini del sistema di
cui fa parte e non più in rapporto al referente.
Deacon ipotizza che le prime lingue (protolingue) fossero costituite da un lessico
elementare: pochissimi termini e una serie limitata di regole di connessione tra i
termini. Questa ipotesi è motivata dallo sviluppo neurologico e cognitivo limitato dei
bambini e probabilmente degli esseri umani che svilupparono le prime forme di
linguaggio. Sul piano ontogenetico all´idea di Chomsky della complessità linguistica
che i bambini si troverebbero a dover gestire nell´imparare a parlare Deacon
contrappone l´idea che “Less is more”,
ossia il fatto che proprio perché i bambini non sarebbero neurologicamente e
cognitivamente in grado di gestire sistemi complessi essi riescono così agevolmente
a utilizzare sistemi elementari, sfrondando, per così dire, tutto il superfluo. Anche se
si adotta, come fa Deacon, un'opzione discontinuista, sottolineando il carattere
specifico del linguaggio umano rispetto a sistemi di comunicazione animale, tale
discontinuità non implica una differenza radicale: diversi tipi di scimmie hanno
sistemi di comunicazione molto sviluppati.
Dalla seconda metà del Novecento la riflessione sul linguaggio si è avvalsa di
esperimenti fatti con le scimmie allo scopo di insegnar loro una lingua storico-
naturale:
– l’insegnamento delle lingue vocali è precocemente fallito;
– l’insegnamento delle lingue segnate, ossia le lingue gestuali di cui si servono i
sordomuti, o di unsistema di segni costituito da simboli (lessigrammi) ha invece
avuto risultati importanti
Deacon afferma che le scimmie sono in grado di comprendere la lingua dei segni, ma
la usano in maniera diversa, non accedendo, secondo la sua teoria, a quella soglia
simbolica che consente ai simboli delle lingue umane di fare riferimento anzitutto
alle relazioni sistematiche che li legano tra di loro e di dar vita a usi che non sono
legati necessariamente alla presenza del referente. Le scimmie hanno infatti una
struttura anatomo-articolatoria che impedisce l’apprendimento di
lingue vocali; l'apprendimento di sistemi linguistici diversi ha mostrato che le
scimmie hanno delle capacità linguistiche e possono imparare a comprendere e a
usare determinati segni. Tuttavia, secondo Deacon, esse hanno capacità di tipo
semantico e sintattico limitate, e non sono in grado di superare la soglia simbolica
che ha reso in grado gli esseri umani di far evolvere sistemi di
lingue semplici in lingue via via sempre più complesse. Un tipo di scimmie, i
cercopitechi, possiede un sistema di comunicazione molto evoluto a cui
Deacon ha applicato il proprio modello semiologico tripartito. Questo codice ha tre
tipi di alarm calls proferiti a seconda del tipo di predatore avvistato dalle scimmie:
– un segno per i predatori d'aria;
– un segno per i predatori che arrivano strisciando;
– un segno per i leopardi.
Deacon paragona gli alarm calls dei cercopitechi alle lingue storico-naturali per
mettere in luce le caratteristiche specifiche di queste ultime: gli alarm calls dei
cercopitechi sono vincolati alla situazione, vengono proferiti soltanto se il predatore
viene identificato nella situazione: in assenza del referente il grido di allarme non ha
più nessuna ragion d'essere. Quindi esiste un legame
denotativo tra il sistema d'allarme e l'oggetto a cui si riferisce, ma non esiste
nessuna relazione orizzontale fra i vari significati che permette di utilizzarli in
assenza del referente. La differenza tra questi segni è il corrispettivo del diverso tipo
di strategia di salvataggio che i cercopitechi devono mettere in atto per fuggire dai
diversi predatori. Questo tipo di linguaggio ha tre referenti esterni e
una funzione che è insieme referenziale e conativa (produrre una reazione di fuga).
Il sistema di comunicazione dei cercopitechi possiede dunque:
– una dimensione iconica: ogni singola emissione di un segno di allarme, un token, è
riconosciuta in quanto è ricondotta alla classe generale, al type di cui fa parte, così
come il singolo predatore viene ricondotto a quella determinata classe di predatori;
– una dimensione indicale: connette il segno di allarme, prodotto e riconosciuto
attraverso la sua determinazione iconica, e il referente a cui esso fa riferimento.
Tale sistema zoosemiotico non possiede invece la referenza simbolica che è specifica
delle lingue umane. Nelle lingue storico-naturali Deacon individua un terzo livello,
quello della referenza simbolica, che ristruttura radicalmente il livello iconico e il
livello indicale, cioè il livello iconico di classificazione del mondo percettivo in classi
generali viene connesso attraverso una relazione
indicale ai segni a cui si riferisce. I livelli vengono ristrutturati attraverso la relazione
simbolica che crea una relazione prioritaria tra i termini del sistema.
Possiamo anche osservare che, se un referente di un termine non esiste più, la
lingua continua a mantenere e utilizzare quel termine. Nella lingua è infatti centrale
la dimensione orizzontale, ossia la relazione che lega un termine agli altri termini del
sistema. Deacon utilizza, senza conoscerlo direttamente, il paradigma di Saussure e
la nozione di valore semantico, come ciò che è dato dal
rapporto e dalle opposizioni tra i diversi termini del sistema
LA RIFLESSIONE SUL LINGUAGGIO DI DANTE ALIGHIERI
Dante e Vico come iniziatori ed esponenti dell’Italian Theory?
Nella sua “Storia filosofica del pensiero italiano”, Roberto Esposito include tra gli
altri Dante, Leonardo da Vinci, Machiavelli, Bruno, Vico, Beccaria, Cuoco, Leopardi,
De Sanctis, Croce, Gentile, Gramsci, Pasolini. Secondo Esposito, la caratteristica
originale del pensiero italiano dalle origini fino ai giorni nostri è la sua capacità di
non chiudersi in sé stesso come la filosofia metafisica classica, ma piuttosto di
contaminarsi con elementi molteplici della realtà. Questo pensiero impuro è
praticato da personalità intellettuali poliedriche, i cui interessi non sono
specificamente filosofici, ma anche poetico-letterari politici, artistici, critici in
accezione ampia. Secondo Esposito esiste una continuità nella tradizione di pensiero
italiana che egli individua nella capacità del pensiero di estroflettersi e di stabilire
una relazione proficua con il proprio altro. Tale interpretazione propone il pensiero
italiano come una fonte produttiva a cui la riflessione
filosofica contemporanea, non solo nostrana, dovrebbe attingere per uscire dalla
crisi in cui oggi versano i diversi indirizzi: dalla filosofia analitica di area anglosassone
alla tradizione ermeneutica gadameriana di area tedesca, fino al decostruzionismo
praticato in area francese.
Il volgare, lingua materna Il primo aspetto che colpisce nella caratterizzazione che
Dante propone del volgare è il riferimento concreto alla situazione in cui si apprende
il volgare, alla relazione fisica del bambino con la madre
o con la nutrice: «Onde sì come nato, tosto lo figlio a la tetta de la madre
s’apprende, così tosto come alcuno lume d’animo in esso appare, si dee volgere a la
correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare.» (Convivio IV, xxiv,14).
Il volgare, lingua mutabile, è la lingua della prossimità con la madre o con la nutrice;
per opposizione il ritratto di Adamo, la cui lingua è considerata immutabile e
sottratta dunque alla variazione multidimensionale dei volgari, è quello di colui che è
senza madre e senza latte, senza infanzia e senza età adulta: «vir sine matre, vir sine
lacte, qui nec pupillarem etatem nec vidit
adultam.» (DVE,1.6.1).
Il paragone tra il volgare e un tipo di lingua immutabile è compiuto facendo
riferimento a una lingua donata direttamente ad Adamo da Dio, e a una lingua
artificiale creata dagli esseri umani per evitare la variabilità linguistica, qual è il latino
o, come viene chiamato, gramatica. Nel paragone tra latino e volgare proposto da
Dante, colpisce che, se da un lato a vantaggio del latino sta certamente la sua
immutabilità e perfezione, dall’altro il volgare è superiore a causa del ruolo
fondamentale rispetto a eventi naturali, biologici come la generazione, che negli
esseri umani hanno sempre un carattere eminentemente culturale e che richiedono
dunque l’uso del linguaggio: «Questo mio volgare fu congiungitore delli miei
generanti, che con esso parlavano, sì come ´l
fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello: per che manifesto è lui
essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere.»
(Convivio I, xiii, 4).
Qui Dante sembra fare riferimento a una dimensione per così dire ontologica che lo
connette al volgare. In questa raffigurazione del volgare che ha unito i genitori di
Dante possiamo vedere anche il prodotto dell’immaginazione del poeta. Vedremo
che, nella Commedia, Dante porrà in relazione strettissima volgare e soggettività.
L’opposizione di volgare e latino o gramatica come lo chiama
Dante è dunque quella tra una lingua storico-naturale appresa spontaneamente che
accompagna l’essere umano nel suo sviluppo biologico e culturale e una lingua
culturale. Il volgare è dunque lingua di desideri e bisogni, mentre il latino è una
lingua artificiale, le cui regole sono immutabili e il cui scopo è quello di essere
utilizzato per la produzione intellettuale, filosofica o poetica che sia:
«Vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus
cum primitus distinguere voces incipiunt; vel, quod brevius dici potest, vulgarem
locutionem asserimus quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus. Est et
inde alia locutio secundaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt. Hanc
quidem secundariam Greci habent et alii, sed non omnes: ad habitum vero huius
pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem
regulamur et doctrinamur in illa.» (DVE, I, i, 2-3).
Traduzione:
«Chiamiamo lingua volgare quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li
circonda quando incominciano ad articolare i suoni; o, come si può dire più in breve,
definiamo lingua volgare quella che riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di
alcuna regola. Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani
chiamarono ‘grammatica’. Questa lingua seconda la possiedono pure i Greci e altri
popoli, non tutti però: in realtà anzi sono pochi quelli che
pervengono al suo pieno possesso, poiché non si riesce a farne nostre le regole e la
sapienza se non in tempi lunghi e con uno studio assiduo.» (DVE, I, i, 2-3).
La maledizione di Babele
Vi è dunque una tensione costante nelle prime opere dantesche tra la preferenza
accordata al latino in quanto lingua che “non è altro che una sorta di inalterabile
identità della lingua attraverso tempi e luoghi diversi” (DVE, I, ix, 2) e quella
accordata al volgare per la sua dimensione naturale e per il nesso profondo che esso
intrattiene con l’individualità del parlante. L’aspetto che Dante nel De
vulgari eloquentia sembra invece guardare in maniera univocamente negativa è la
molteplicità dei volgari e, in particolare, quella dei volgari italiani.
Jürgen Trabant ha osservato che la forte avversione di Dante verso la varietà e
variabilità dei volgari è da ricondurre in primis alla maledizione babelica che Dante
reinterpreta in modo originale continuando però a giudicare la moltiplicazione delle
lingue un fatto negativo. Tuttavia, secondo Trabant, l’orrore dantesco nei confronti
della varietà e della diversificazione delle lingue
corrisponde anche a un atteggiamento specificamente filosofico estremamente
diffuso, un atteggiamento legato al sospetto verso uno strumento, il linguaggio
verbale, che si considera troppo malleabile e fluido e che si vorrebbe sostituire con
uno strumento solido, rigido, intrasformabile. Per questo la narrazione di Babele
prende avvio con un’esclamazione sofferente: “Dispudet, heu,
nunc humani generis ignominiam renovare”21 (DVE, I, vii, 1).
All’immenso cantiere di Babele Dio infligge una pena che segue già secondo Dante
una specie di principio del contrappasso, che poi ritroveremo per le pene in Inferno
e Purgatorio: quanto più si diversificano le attività del cantiere, tanto più numerose
diventano le lingue che separano gli uomini(“Quot quot autem exercitii varietates
tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humanum
disiungitur” (DVE, I, vii, 1)).Lo scenario babelico della diversità e confusione
linguistica ha in Dante anche una connotazione diversa, potremmo dire
anacronistica, messa in evidenza da alcuni studiosi: quella della molteplicità
e separatezza dei vari linguaggi tecnici che fanno corpo con le diverse pratiche nel
Medioevo.A essere incomunicabili tra di loro dunque sarebbero i diversi linguaggi
tecnici parlati dalle diverse maestranze e direttamente dipendenti da forme di
sapere differenti, solo in parte verbalizzati, ma perlo più trasmessi per imitazione. A
proposito dello scenario babelico dantesco, Giorgio Stabile ha osservato:“A guardar
bene […] la comunità si dissolve per effetto di un capovolgimento improvviso
nell’uso del linguaggio che, unico finché si subordina alla ratio o “principio formale”
dell’opus a cui tutti concorrono, cessa di esserlo non appena è asservito ai materiali
molteplici di cui l’opus è composto. È per effetto di questa inversione – dalla forma
del progetto alle materie della sua produzione – che il linguaggio si scompone in
tanti idiomi per quante sono le operazioni e le tecniche asservite a queste materie;
da ciò consegue inevitabile il simmetrico frantumarsi della comunità dei parlanti in
altrettanti gruppi asserviti ai rispettivi idiomi di lavoro.” 22 Riguardo alle
caratteristiche di questo linguaggio Giorgio Stabile scrive:
“L’artigiano e il maestro d’arte accumula e ritrasmette all’apprendista il proprio
sapere, specie il sapere tecnico, attraverso un linguaggio scarsamente e
sommariamente verbalizzato. Il suo vero linguaggio non è quello
dell’indottrinamento verbale, ma è quello muto dei gesti e delle operazioni
manuali tramandati per imitazione e a prezzo di una prolungata convivenza nella
bottega o nel cantiere”23 La molteplicità delle lingue è in questa prospettiva
connotata in senso etico (negativo) dall’asservimento a un fine tecnico-pratico che
diviene l’unico obiettivo di un determinato gruppo
professionale. Se dal punto di vista di uno storico della scienza qual è Giorgio Stabile
è naturale guardare con interesse a questi linguaggi tecnici e alla loro evoluzione in
età moderna è chiaro che per Dante, alla ricerca di una lingua universale con cui
poter parlare dei temi più alti nelle forme piùnobili, questo tipo di comunicazione
appare del tutto inadeguata.Dopo Babele, solo gli ebrei mantengono la lingua
primigenia data da Dio ad Adamo, gli altri,
proprio in seguito alla moltiplicazione delle lingue, si disperdono e occupano diverse
parti della terra. La variazione linguistica è connessa antropologicamente all’essere
l’uomo “instabilissimum atque variabilissimum animal”24 (DVE, I, ix, 6); per questa
ragione dopo l’oblio della lingua
originaria parlata nell’Eden le lingue sono create “a nostro beneplacito”
La variazione è, sottolinea Dante, sia diatopica25 che diastratica.26
Trabant ci ricorda che il testo
del De vulgari eloquentia ripete in modo martellante questo concetto attraverso una
scelta lessicale
in cui si avvicendano: variari, variatio, varietas, variabilis, variatus, varie.
Traduzione:
“Perché gli umani potessero comunicarsi ciò che pensavano fu necessario disporre di
un segno che fosse contemporaneamente mentale e sensibile. Fu necessario che
fosse mentale perché doveva ricevere i propri contenuti da una mente e portarli in
un’altra; e, poiché non è possibile trasferirsi
da una mente all’altra se non per una mediazione sensibile, fu necessario che fosse
anche sensibile. Perciò, se fosse solo mentale non potrebbe transitare, se fosse
soltanto sensibile non potrebbe ricevere i suoi contenuti da una mente e deporli in
un’altra mente.” (DVE, I,iii, 2).
Secondo Lo Piparo, Dante sarebbe dunque aristotelico non nel senso del
convenzionalismo che la tradizione attribuisce ad Aristotele. La definizione dantesca
del “signum rationale et sensuale” equivarrebbe all’uso metalinguistico del termine
symbolon proposto da Aristotele proprio per fare riferimento alla necessaria
complementarità di dimensione mentale e dimensione fonica nelle lingue umane.
Tale definizione dantesca porta a modificare il senso del carattere ad placitum (a
piacere) del linguaggio verbale. Il linguaggio sarebbe cioè differenziato e variabile
proprio a causa della dimensione mentale, della ratio. La convenzionalità non
riguarderebbe dunque tanto la dimensione sonora, ma inciderebbe piuttosto in
primis su quella concettuale, rendendo dunque la variabilità storica e geografica un
tratto costitutivo della lingua volgare.
In questo senso la naturalità della facoltà linguistica umana sarebbe complementare
alla variabilità degli idiomi, al loro essere prodotti ad placitum. Stefano Gensini ha
osservato a tale proposito che Dante insiste sul fatto che l’esercizio dell’arbitrio che
porta ad adottare una lingua e che determina
le sue trasformazioni nel tempo e nello spazio è a sua volta un dono di natura.
In questo senso, si può dire che l’originalità del pensiero linguistico di Dante consiste
proprio nel riuscire a pensare dimensioni opposte mostrandone il carattere
complementare e sottolineando la necessità di integrare entrambe all’interno di una
riflessione adeguata sulla specificità del linguaggio umano.
Qui Adamo contraddice l’idea secondo cui è la confusione babelica a produrre l’oblio
dell’ebraico (che è appunto la lingua adamica). Essa è già estinta prima che cominci
la costruzione della torre di Babele (“ovra inconsummabile”).
La strategia di potere a lui sfavorevole dipende dal fatto che Dante è un "minority
author", ossia un autore che si serve di una lingua che sta creando lui stesso e che
non gode dunque di alcun prestigio pregresso. È proprio quest'operazione, che
enfatizza l'inferiorità del poeta sia rispetto ai modelli
classici che a quelli cristiani, che consente a Dante di legittimare la propria opera,
sottolineandone allo stesso tempo il carattere innovativo e dunque anche il valore
connesso a questo aspetto. È nel proseguire del viaggio ultraterreno che Dante
autore riesce a cambiare di segno, per così dire, al carattere di impotenza e di
incompletezza e alla molteplicità di elementi del linguaggio di cui fa
uso. L’opposizione tra latino e volgare appare superata in nome della tradizione
biblico-cristiana del sermo humilis a cui Dante fa appello. Sebbene a ogni cantica
corrispondano scelte linguistiche almeno in parte specifiche, che intendono
corrispondere alla dimensione ontologica del regno che Dante si trova a raffigurare,
la scelta plurilinguistica non viene mai meno. Persino nel Paradiso Cacciaguida,
l’antenato di Dante il cui eloquio è descritto come chiaro e preciso “per chiare
parole e con preciso/latin” (Par, XVII, 34), utilizza un’espressione di stile basso e
volgare, la celebre “lascia grattar dov’è la rogna”.
Lombardi osserva che è la stessa ispirazione religiosa a mettere sullo stesso piano
volgare e latino, espressioni basse ed espressioni alte. Il volgare è però connotato da
una dimensione affettiva specifica, descritta facendo appello alle relazioni familiari e
corporee più strette: “lingua che chiami mamma o babbo” (I, XXXII, 9) o “favella […]
d’un fante che bagni ancor la lingua alla mammella” (Par, XXXIII, 107-108)
Ginzburg ricorda che il critico Franco Ferrucci è stato il primo ad avanzare l’ipotesi
che, attraverso la mostruosa apparizione di Gerione e l’enfatica affermazione della
veridicità della sua visione, Dante ponga in connessione la mostruosità di Gerione
con quella della Commedia, mostruosità legata in primis al suo carattere linguistico
spurio (ibrido), all’adozione del plurilinguismo.
Se già Benedetto Croce mette in evidenza l’altissimo “tasso di poeticità” della figura
di Gerione, un poeta russo, Osip Mandelstam, già nel 1933 coglie la dimensione
autoriflessiva del canto di Gerione. Nel mettere in scena l’estrema ricchezza
metaforica di questa figura, Dante parlerebbe al tempo stesso delle caratteristiche
della propria poesia.
Possiamo dire che, in quanto sogno, Gerione si propone al lettore come metafora
inesauribile offerta alla capacità interpretativa dei lettori e dei critici, così come il
poema dantesco si è rivelato il motore di un’esegesi sempre rinnovata e di una
produzione linguistica che, come osservava il filologo Gianfranco Contini, è rimasta il
nucleo maggiore della nostra lingua italiana.
Soggettività, lingua e corporeità nel Purgatorio
Come ha mostrato il dantista Gragnolati, il Purgatorio elabora una relazione tra
corpo e anima che riflette in maniera originale i cambiamenti escatologici 39
dell’epoca. A partire dal XII secolo, l’enfasi tradizionale sul Giudizio Universale alla
fine dei tempi e sull’esperienza in Inferno e in Paradiso dopo la resurrezione del
corpo viene progressivamente sostituita dall’idea di un giudizio individuale
dell’anima dopo la morte e dall’attenzione al tempo escatologico in cui l’anima è
separata dal corpo. Si tratta di una nuova forma di attenzione al destino dell’anima
separata che pone l’accento sulla pienezza della sua esperienza anche senza il corpo.
Momenti ufficiali di questa transizione sono:
– il riconoscimento del dogma del Purgatorio nel 1274;
– la bolla Benedictus Deus del 1336 sulla visione beatifica prima della resurrezione
finale.
In piena sintonia con la nuova enfasi escatologica, la Commedia non si concentra sul
momento del giudizio finale, che alla fine dei tempi decreterà la punizione dei
malvagi o la premiazione dei giusti in uno scenario collettivo, ma propone piuttosto
uno scenario in cui l’anima separata viene giudicata individualmente non appena
arriva nell’aldilà. Questo giudizio produce anche la specifica modalità della sua
esperienza di dolore in Inferno e Purgatorio o di beatitudine in Paradiso. Nella
Commedia è descritta l’esperienza di anime separate dal corpo, ma questa
esperienza è ancora rappresentata come corporea: l’anima separata infatti irraggia
un corpo d’aria che le dà una forma e la possibilità di continuare a esercitare facoltà
sensoriali. Quando concepisce l’anima separata, Dante si rifà alla posizione tomistica
40 che considera l’anima razionale garante dell’identità della persona nella sua
dimensione anche corporea. Per questo
immagina che, quando con la morte l’anima si distacca dal corpo e arriva nell’aldilà,
le sia possibile creare un corpo d’aria che le dà una forma e le consente di esprimere
«ciascun sentire» (Pur, XXV, 102). L’anima e il corpo aereo da essa prodotto
costituiscono ciò che Dante chiama «ombra»;
questa consente che le anime in Inferno e Purgatorio abbiano una fisionomia
percepibile, possano provare sofferenza ed esperire la vita nell’aldilà prima della
resurrezione del corpo.
Nel Paradiso è Salomone a spiegare a Dante che le fattezze umane dei beati sono
nascoste dalla luce, che è segno della gloria dell’anima, e che esse saranno
nuovamente visibili col ritorno del corpo glorioso (Par. XIV, 52-60). All’udire le parole
sulla resurrezione, le altre anime beate esultano all’idea di recuperare la loro carne:
È interessante che sia proprio la dimensione affettiva e relazionale ciò che muove i
beati a rallegrarsi di poter avere nuovamente il loro corpo; è la possibilità di avere
nuovamente relazioni corporee con le persone più care. Questa dimensione affettiva
e relazionale è caratteristica della lingua adottata nel Purgatorio. Ed è in particolare
alla fine della cantica, quando Dante incontra infine Beatrice e si confronta con “le
memorie triste” di un periodo della propria vita che il nesso
soggettività, corporeità e lingua è presentato in maniera poeticamente e
teoricamente esemplare. Secondo l’interpretazione di Francesca Southerden, qui
Dante raffigura da un lato il blocco linguistico di un soggetto malinconico e i
fenomeni corporei a cui si connette attraverso una forma di regressione che lo
riporta alle modalità espressive proprie delle origini dell’umanità:
L’immagine del bambino affamato che cerca il seno materno esprime qui il desiderio
di vedere Dio e viene utilizzata nel momento fondamentale in cui Dante, ormai
prossimo alla visione finale, sta abbandonando la dimensione lineare della
temporalità per entrare in quella circolare ed extra-temporale dell’eternità, in cui
tutto è simultaneamente presente. È significativo che nella «candida rosa», in cui si
trasformerà il cerchio di luce, a Dante sarà concesso il privilegio di vedere i beati con
l’aspetto che essi avranno dopo la resurrezione del corpo.Al recupero della
dimensione corporea, rappresentata dal motivo della resurrezione del corpo,
corrisponde il riemergere dell’immagine della suzione, ma anche la scelta linguistica
di un volgare che accentua al massimo apertura e fluidità. L’operazione linguistica
della Commedia, e in particolare del Paradiso, non è più quella “riduttiva”
e “raziocinante” della teorizzazione del De vulgari eloquentia, ma potenzia le
capacità del volgare di abbracciare ed esprimere tutta la realtà, anche quella più
umile e concreta e tutte le forme linguistiche, dalle espressioni latine ai neologismi.
Nella parte finale del Paradiso, l’immagine dell’allattamento compare anche nel
canto XXIII, vale a dire in quel canto in cui, come ha sostenuto Barolini, il poema
teorizza una «jumping textuality»
Nel suo commento alla terzina sopra citata Anna Maria Chiavacci Leonardi nota che,
se questa immagine sembrerebbe riferirsi alla mancanza di cui soffre il linguaggio
nel cercare di rappresentare l’esperienza della visione di Dio, allo stesso tempo essa
riecheggia un verso dei Salmi secondo cui sono le bocche degli infanti ancora legate
al seno materno che possono compiere una vera lode di Dio: «ex ore infantium et
lactentium perfecisti laudem [...]» 42 (Ps. 8.3).
Cestaro sostiene che, dopo essersi aperto con la preghiera di San Bernardo a Maria,
il canto affermerebbe la concezione metaforica della carità cristiana non solo come
femminile, ma anche come corporea e fonte di nutrimento: incapace di esprimere
pienamente la forza della visione finale, il poeta può solo tornare alla scena primaria
della suzione 43 al seno della madre
Il Cogito e il linguaggio
L’esito di questa strategia porta Descartes a salvare un’unica verità, quella del “je
pense, donc je suis”, penso dunque sono. Dopo un lungo periodo di tenebre
Descartes approda a una verità chiara e distinta, quella per cui: “[io sono] una
sostanza di cui tutta l‘essenza o natura consiste solo nel pensare, e che per esistere
non ha bisogno di luogo alcuno, né dipende da cosa alcuna materiale” (DM, p.82).
Cartesio suddivide la realtà in res cogitans e res extensa. Con res cogitans si intende
la realtà psichica a cui Cartesio attribuisce le seguenti qualità: inestensione, libertà e
consapevolezza. La res extensa rappresenta invece la realtà fisica, che è estesa,
limitata e inconsapevole. La res cogitans è del tutto separata dalla res extensa e per
spiegare come l’una possa agire sull’altra
Descartes arriverà a postulare l’esistenza della ghiandola pineale, 52
soluzione artificiosa per poter mantenere un dualismo estremo. La concezione del
linguaggio di Descartes radicalizza quella aristotelica proprio per l’opposizione che
stabilisce tra res cogitans e res extensa. I concetti vengono infatti creati in maniera
indipendente rispetto alle voces (nomi che diamo alle cose). La designazione
mediante esse è arbitraria. Per questa ragione, Descartes non attribuisce alle singole
lingue alcun valore cognitivo particolare, al
contrario di quanto era accaduto nell’Umanesimo in cui si era esaltato il valore
spirituale legato alla semantica di una lingua. Il linguaggio, infatti, ha per Descartes
una funzione meramente comunicativa e non cognitiva. I concetti sono produzione
della sola res cogitans; tuttavia il linguaggio si rivela uno strumento indispensabile
affinché essi possano venire trasmessi ad altri esseri umani. Ma il linguaggio è anche
qualcosa di più: esso è al tempo stesso, ricorda Trabant, un
testimone del pensiero. Questa testimonianza si rivela necessaria per poter essere
certi della presenza in altri esseri umani del cogito e dunque della loro umanità. Al
soggettivismo della filosofia cartesiana corrisponde una prospettiva monologica che
produce un dubbio costitutivo rispetto all’esistenza delle altre menti. Nulla
dell’aspetto esteriore di un essere, né la fisionomia, né i gesti, garantisce che non si
tratti di un automa. Secondo Descartes solo negli esseri umani è possibile trovare un
linguaggio che sia espressione della cogitatio, specificamente umana. Né una
macchina né gli animali sono in grado di rispondere a un‘interrogazione, disponendo
le parole in forma sempre nuova come sono in grado di fare gli esseri umani. Il
linguaggio umano è dotato per Descartes di creatività; ma tuttavia essa è una
creatività del pensiero che si riflette sì nel linguaggio, ma che è in via di principio da
esso indipendente. Se dunque il linguaggio è per Descartes antropologicamente
essenziale in quanto è
l’unica traccia della res cogitans nella dimensione corporea, la sua importanza non
mette però in discussione il dualismo e dunque neanche la distinzione netta tra
componente sensibile e componente spirituale, tra significante e significato, per
usare una terminologia saussuriana.È proprio alla concezione del linguaggio che
sottende la filosofia cartesiana che si rivolge con particolare veemenza la critica di
Vico che propone un modello pedagogico del tutto antitetico
rispetto a quello proposto da Descartes e oppone a quest‘ultimo l’idea che la
“favella” è “posta in mezzo alla mente e al corpo” (SN2, §1045).
IL SAPERE POETICO
Struttura dell´opera La Scienza Nuova ha una struttura articolata e complessa ed è
concepita in modo tale che il lettore sia condotto a ripercorrere più volte la stessa
riflessione filosofica a partire da prospettive diverse. L’idea di Vico è che una
comprensione adeguata della Scienza Nuova sia possibile solo se si fa
appello a facoltà e modalità conoscitive diverse che devono tutte essere coinvolte.
Anche in questo caso Vico traferisce anche a livello della forma compositiva della
sua opera i principi filosofico-linguistici che presenta in essa. Abbiamo visto che
l’opera si apre con un’introduzione che ha la forma di commento a un’immagine: la
Dipintura.
• Dopo l’originale introduzione comincia il primo libro, dal titolo “Dello stabilimento
dei principi”. Il primo libro è introdotto dalla “Tavola cronologica, descritta sopra le
tre epoche de´ tempi degli egizi, che dicevano tutto il mondo innanzi essere scorso
per tre età: degli dèi, degli eroi e degli
uomini”. La Tavola cronologica segue il corso degli eventi dal Diluvio universale
presso sette popoli: anzitutto gli ebrei, seguiti da caldei, sciti, fenici, egizi, greci e
romani. A essa segue la sezione prima “Annotazioni alla tavola cronologica nelle
quali si fa l’apparecchio delle materie”, in cui Vico riespone in senso cronologico gli
eventi di cui si occupa la sua Scienza Nuova. A questa sezione segue la seconda
intitolata “Degli elementi”, in cui Vico si propone di mettere in rilievo gli aspetti più
teoretici della sua riflessione. Vico paragona questa trattazione al
sangue che scorre in un corpo animato: gli elementi, anche chiamati assiomi o
degnità, sono sia filosofici che filologici e sono 114 paragrafi numerati, di lunghezza
molto variabile. Il primo libro si compone di altre due brevi sezioni:
– nella terza, intitolata “De’ principi”, Vico espone in maniera drammatica la propria
scoperta di una nuova scienza a partire dall’intuizione che il mondo civile è stato
fatto dagli uomini;
– nella quarta, intitolata “Del metodo”, si riepilogano i principali punti teorici esposti
nelle Degnità sottolineando che tutto il percorso storico prende avvio da una prima
conoscenza della divinità.
• Il secondo libro è dedicato alla Sapienza poetica. Dopo l’introduzione, il primo
capitolo è dedicato alla metafisica poetica ed è intitolato “Della metafisica poetica,
che ne dà l’origini della poesia, dell’idolatria, della divinazione e de´ sacrifici”. Il
secondo capitolo della Scienza Nuova è dedicato alla Logica poetica e rappresenta il
cuore concettuale di questo libro e in un certo senso di tutta la Scienza Nuova: esso
è anche molto più lungo di tutti gli altri capitoli, inclusa la metafisica poetica, che
può essere considerata una trattazione complementare di questa
sezione sematologica. Alla “Logica poetica” seguono la “Morale poetica”,
l’“Iconomica poetica”56,
la “Politica poetica”, la “Storia poetica”, la “Fisica poetica”, la “Cosmografia poetica”,
l’“Astronomia poetica”, la “Cronologia poetica”, la “Geografia poetica”.
La relazione tra le prime due sezioni, Metafisica poetica e Logica poetica e quelle a
esse successive, corrisponde a quella tra le prime sessanta degnità che delineano la
novità teoretica della Scienza Nuova e quelle successive che si soffermano su
specifici elementi storico-filologici. Il secondo libro finisce con una conclusione che
ricorda il merito della Sapienza poetica di aver saputo prendere le distanze da un
lato dalla boria dei dotti dall’altro da quella delle nazioni, riconoscendo che la prima
sapienza umana fu il prodotto di menti “rozzissime”.
• Il terzo libro è dedicato a una originale interpretazione dei poemi omerici ed è
intitolato “Della discoverta del vero Omero”. Si tratta di un tassello estremamente
importante nell’impresa filosofica di Vico tanto che la statua di Omero compare in
posizione piuttosto centrale nella Dipintura e Vico
decide di dedicare una trattazione sistematica all’argomento, sebbene il materiale
filologico e la sua interpretazione filosofica dei poemi omerici siano naturalmente
confluiti anche in altre sezioni. A Vico importa poco di essere ridondante, memore
certamente del detto latino: repetita iuvant.
• Il quarto libro è intitolato “Del corso che fanno le nazioni”. È diviso in brevi sezioni
ed è dedicato ad approfondire il carattere triadico che Vico ha dato alla propria
scienza: la prima sezione è intitolata “Tre spezie di nature”; la seconda “Tre spezie di
costumi”; la terza “Tre spezie di diritti naturali”; la quarta “Tre spezie di governi”; la
quinta “Tre spezie di lingue”; la sesta “Tre spezie di
carattari”: in queste due ultime sezioni si affronta il tema linguistico.
Si procede con l’esposizione delle modalità triadiache fino all’undicesima sezione
dedicata a tre forme di tempi. Seguono poi diversi capitoli dedicati alle “pruove” di
quanto asserito nelle sezioni precedenti, ossia a fornire dimostrazioni di tipo
filologico tratte dalle storie delle diverse nazioni.
• Il quinto e ultimo libro è dedicato alla dottrina dei ricorsi ed è intitolato “Del
ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni”. Esso espone la celebre
tesi secondo cui il Medio Evo costituisce una forma di ricorso. Nel periodo medievale
si ritornerebbe cioè a una forma di barbarie analoga a quella dei primi tempi divini
ed eroici. Vico presenta dunque una riflessione comparativa sul mondo antico e su
quello moderno che tiene conto naturalmente anche degli aspetti specifici e delle
differenze del “ricorso” analizzato. L’intero percorso viene ancora una volta
ricostruito in modo sintetico nella “Conchiusione dell’opera”.
Cronologia
Il modello cronologico presentato da Vico è in tutto e per tutto conforme a quello
della storia biblica. Paolo Rossi nei suoi saggi ha mostrato come l’adesione di Vico a
questo modello si iscriva in un dibattito ampio in cui molti pensatori cristiani si
impegnarono a confutare la tesi delle “antichità sterminate”, del mondo in nome
dell’ortodossia cristiana. È per questa ragione che Vico sostiene la tesi,
evidentemente improbabile, secondo cui l’età del mondo non arriva ai seimila anni e
afferma che la storia ebraica è l’unica ad aver mantenuto
memoria del vero corso delle cose, mentre tutti gli altri popoli dopo il diluvio
universale, insieme alla conoscenza del vero Dio, hanno perduto anche la memoria
degli eventi precedenti. Da questa tesi deriva la separazione netta tra storia sacra e
storia profana e la contrapposizione della religione e della lingua degli ebrei da un
lato e di quelle dei popoli della gentilità dall’altro.
La cesura è costituita appunto dal Diluvio e dalla separazione tra i discendenti di
Noè; mentre i semiti, discendenti di Sem, mantengono la vera religione e dunque
anche la memoria della loro storia, i discendenti di Cam e Iafet (camiti e iafetiti) si
dispersero per le selve e costituirono l’umanità che errò per due secoli conducendo
una vita ferina. Anche la statura degli uomini della gentilità diverge dalla statura
“normale” degli ebrei. I “bestioni” delle origini, come li chiama Vico, furono dei
giganti. È interessante notare che, rispetto alla separazione e contrapposizione tra
ebrei e gentili, ci sono delle oscillazioni nelle diverse redazioni della Scienza Nuova, a
partire anzi dal Diritto Universale, proprio per quanto riguarda la lingua. Da un lato,
Vico distingue da subito in modo netto la conoscenza del vero Dio degli ebrei, che
poi sarà quella del mondo cristiano, da quella dei gentili che inventano delle divinità
a partire dalla
percezione di fenomeni naturali, anzitutto il cielo che tuona e che è divinizzato nella
figura di Giove, che ha equivalenti presso tutti i popoli della gentilità; dall’altro, Vico
sostiene nel Diritto Universale e nella Scienza Nuova del 1725 che anche l’ebraico è
una lingua poetica come le lingue della gentilità. La tesi della poeticità dell’ebraico
avrebbe consentito un quadro comparativo capace
di includere tutte le lingue delle origini e di sottoporle alle stesse regole.
Vico finisce però per comprendere l’intrinseca contraddittorietà di questa tesi
rispetto al quadro teologico-metafisico in cui inserisce la propria riflessione: la
poeticità dell’ebraico avrebbe implicato una corrispondente capacità creativa
rispetto all’intuizione della divinità, quella insomma attraverso cui tutti i popoli delle
origini inventano il loro Giove e fanno uso della divinazione;
mentre gli ebrei hanno una conoscenza diretta e puramente spirituale del vero Dio.
Per questa ragione, nell’ultima versione della Scienza Nuova nella sezione “Della
Logica poetica” Vico distingue nettamente il carattere puro della lingua ebraica,
creata attraverso l’onomatesia di Adamo per rispecchiare la vera essenza delle cose,
dalle lingue poetiche dei popoli gentili: “cotal primo parlare, che fu de´ poeti teologi,
non fu un parlare secondo la natura di esse cose
(quale dovett´esser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Iddio concedette la
divina onomathesia ovvero imposizione de´ nomi delle cose secondo la natura di
ciascheduna), ma fu un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte
immaginate divine” (SN, §34).
Assiomi o degnità
La prima e la seconda degnità della sezione “Degli Elementi” sintetizzano in maniera
efficace la dimensione critica e profondamente innovativa del progetto filosofico di
Vico:“L’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci
nell’ignoranza, egli fa séregola dell’universo” […] (SN, §120)
“È altra propietà della mente umana ch’ove gli uomini delle cose lontane e non
conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose conosciute e
presenti” (SN, §122). Queste due degnità formulano implicitamente una critica della
boria dei dotti e di quella delle nazioni, nel proporre un principio cardine sulle
modalità delle origini dell’umanità. La boria delle nazioni consiste nella credenza che
esse per prime avessero creato “i comodi della vita umana” conservando la
memoria della loro storia fin dalle lontanissime origini. A questa forma di vanagloria
che accomuna tutti i popoli “caldei, sciti, egizi, chinesi” Vico contrappone la verità
della storia sacra secondo cui l’età del mondo è “quasi giovine” (SN, §126). Della
boria delle nazioni è complementare quella dei dotti che proiettano all’indietro nel
tempo il loro sapere e vogliono “che sia antico quanto che ‘l mondo” (SN, §127).
Conseguenza di questa illusione è l’interpretazione erronea dei miti delle origini su
cui vengono proiettati significati molto posteriori. Nella V degnità, Vico prende le
distanze dai “filosofi
monastici o solitari”. Sotto tale categoria rientrano anche i filosofi cartesiani,
tuttavia qui Vico fa riferimento solo ai filosofi antichi e considera un modello
negativo di filosofi monastici che negano la Provvidenza: gli stoici, che lo fanno in
nome del fato, e gli epicurei, che lo fanno in nome del caso. A essi Vico contrappone
i filosofi politici e, in particolare, i platonici e sostiene che tutti i filosofi politici
“convengono con tutti i legislatori in questi tre principali punti: che si dia
provvedenza divina, che si debano moderare l’umane passioni e farne umane virtù,
e che l’anime umane sien immortali” (SN, §130). La filosofia che considera
tradizionalmente l’uomo “quale dev’essere” deve dunque ispirarsi al diritto che
considera l’uomo qual è, riuscendo a trasformare, attraverso la legislazione, i vizi
connaturati nella natura umana (in primis ferocia, avarizia e
ambizione) in attività utili alla vita collettiva. È la provvidenza a consentire che le
passioni degli uomini, invece di condurli a vivere in solitudine vite di bestie,
producano ordini e virtù civili. Se dunque il libero arbitrio umano è debole, esso
riceve un aiuto naturale dalla provvidenza divina e uno soprannaturale dalla grazia.
Tale aiuto consiste nell’indirizzarli in modo tale che essi, non essendo ancora in
grado di conoscere la verità, si attengano al certo. Certo è l’ambito della filologia che
si occupa di come determinate forme di autorità abbiano
indirizzato la condotta umana. Essa deve però farsi indirizzare dalla filosofia che
contempla la ragione, mentre quest’ultima deve superare la propria contemplazione
astratta nutrendola con i contenuti fatti emergere dalla filologia. La Scienza Nuova si
incarica proprio di attuare questa sintesi di dimensioni, integrando filosofia e
filologia. Per questa ragione, Vico arriva a introdurre
una serie di nozioni che sono il frutto diretto di questa integrazione. La prima è
quella di senso comune che viene definito: “un giudizio senz’alcuna riflessione,
comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o
da tutto il genere umano” (SN, §142). Complementare al concetto di senso comune
è la tesi secondo cui “idee uniformi nate appo intieri
popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero” (SN,
§144). È su questa tesi e sull’idea di senso comune che Vico costruisce una “nuova
arte critica” che si propone di portare alla luce l’uniformità dei sensi comuni in tutte
le nazioni. Essi non sono il prodotto di
trasmissione o di scambi, ma si sviluppano autonomamente in tutti i popoli secondo
sequenze analoghe. Ed è proprio la modalità della genesi di tali sensi comuni a
determinare la natura di essi e anche le modalità di sviluppo e le caratteristiche
permanenti della dimensione simbolica umana. “Natura di cose altro non è che
nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali,
indi tali e non altre nascon le cose” (SN, §147).
Questa degnità, la quattordicesima, connette in maniera forte la dimensione
genetica con quella ontologica: le cose hanno una certa natura perché sono nate in
certe determinate condizioni e sotto determinate forme. Tale connessione si rivelerà
particolarmente rilevante per quanto riguarda la riflessione sull’origine e la natura
delle lingue umane e più in generale della capacità simbolica
umana a cui, non casualmente, sono dedicate le degnità immediatamente
successive.
LA RIFLESSIONE GLOTTOGENETICA
Il dizionario mentale comune
La dottrina del dizionario mentale comune ha una rilevanza all’interno della
riflessione vichiana che non gli è stata sempre riconosciuta. Vico stesso sottolinea
con enfasi la sua importanza quando ricorda, nell’ultima Scienza Nuova, che il
dizionario mentale comune è uno degli approdi teorici
fondamentali che erano già stati raggiunti nell’edizione del 1725.
Nel paragrafo 32 dell’edizione del 1744 afferma che le tre lingue che sono state
parlate nelle tre epoche “compongono il vocabolario di questa Scienza”, mentre nel
paragrafo 34 si aggiunge che un “tal lessico si truova esser necessario per sapere la
lingua con cui parla la storia ideal eterna, sulla quale corrono in tempo le storie di
tutte le nazioni […]”. L’esempio di una porzione di tale dizionario è stato fornito nella
Scienza Nuova prima quando Vico individua dodici proprietà che caratterizzano i
patres nelle prime forme di organizzazione comunitaria comuni a tutte le nazioni di
cui essi sono i fondatori.La prima proprietà è quella di “fantasticare deitadi” seguita
da quella a essa strettamente associata
“del fare certi figliuoli con certe donne con certi auspici divini”. Queste proprietà
sono definite “qualità eterne” perché appunto sono proprie di tutti i fondatori delle
prime nazioni e per questo costituiscono una “lingua ideale comune”. Tuttavia, le
diverse lingue possono compiere scelte diverse e in alcune di esse potrebbero anche
comparire qualità inedite. Vico enuclea tali qualità essenzialmente a partire dalla
mitologia greca e dunque da figure come
Ercole, Orfeo e Odisseo presupponendo che esse costituiscano un aspetto di un mito
originario comune a tutte le nazioni. Trabant sostiene che nella concezione del
dizionario mentale comune di Vico c’è un elemento circolare: il momento filologico-
empirico ne costituisce infatti la base e dunque l’elemento universale è strettamente
dipendente da esso mentre ne dovrebbe costituire la condizione. È utile ricordare a
tale proposito che il dizionario mentale comune nel progetto
vichiano viene fatto dipendere direttamente dai sensi comuni, ossia da quei giudizi
senza alcuna riflessione attraverso cui, come abbiamo visto occupandoci delle
Degnità, la Provvidenza governa il corso storico delle nazioni secondo percorsi affini.
Il dizionario mentale comune procede dunque a mostrare l’identità simbolica o,
come la chiama Trabant, sematologica di tutte le nazioni e attraverso di essa
l’uniformità degli istituti giuridici e delle forme politiche nello sviluppo storico. Come
ha osservato Formigari, in Vico si stabilisce una
connessione teoreticamente produttiva tra filosofia del diritto e filosofia del
linguaggio, ove il primo, il diritto, è subordinato al secondo; dunque i principi posti
per le lingue vengono estesi anche al diritto. Ancora una volta, da questa
prospettiva, Vico critica la boria delle nazioni che è incline a credere che sia stato un
popolo a trasmettere agli altri determinate forme giuridiche e determinati
termini e concetti. È importante osservare che la ricostruzione storico-empirica del
dizionario mentale comune è per Vico assai meno importante del principio
metodologico e della visione universalistica a essa sottesi. Il principio metodologico
è quello, già presentato, di una integrazione tra filosofia e filologia che richiede alla
filosofia di non limitarsi alla contemplazione di un’universale astratto e alla filologia
di associare lo studio dei particolari a un’operazione
interpretativa attraverso griglie concettuali generali. Sarebbe vano cercare una
precisione filologica nei tentativi che Vico propone di ricostruire il dizionario
mentale comune o almeno porzioni di esso. Non è un caso che proprio nel
ricostruire il dizionario mentale comune Vico manchi di precisione: nel §35 della
Scienza Nuova egli afferma di aver indicato la designazione di qualità eterne in
quindici diverse lingue, ma in realtà, come ricorda nel suo commento storico alla
Scienza Nuova Fausto Nicolini, questa indicazione non è esatta ed è possibile
arrivare solo a dodici qualità dei padri, mentre le nazioni citate e le corrispettive
lingue sono solo otto. Quello che conta per Vico non è insomma l’esattezza
filologica, ma il carattere esemplificativo della propria ricostruzione, che mira a far
emergere la dimensione universale nei diversi particolari presentati.
1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
1
Aporia: problema per il quale non c’è
soluzione perché sono presenti
contraddizioni.
2
Gnoseologia: studio della conoscenza
sono geometria, aritmetica, astronomia
e musica.
5
Ermeneutica: interpretazione di testi
antichi, spec. religiosi
6
Esegesi: interpretazione critica di un
testo, spec. biblico o giuridi
13
Demopsicologia: disciplina che studia la psicologia dei diversi popoli attraverso i
costumi, i miti e le tradizioni.
14
Neopositivismo logico: corrente di pensiero che sostiene che la filosofia debba
aspirare al rigore metodologico