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Glottologia e Linguistica

INDICE
INDICE ___________________________________________________________________________________ 1
BERRUTO – CERRUTI: LA LINGUISTICA – UN CORSO INTRODUTTIVO_______________________ 1
CAPITOLO 1: IL LINGUAGGIO VERBALE ___________________________________________________ 1
CAPITOLO 2: FONETICA E FONOLOGIA ____________________________________________________ 7
CAPITOLO 3: MORFOLOGIA ______________________________________________________________ 16
CAPITOLO 4: SINTASSI __________________________________________________________________ 24
CAPITOLO 5: SEMANTICA, LESSICO E PRAGMATICA _______________________________________ 31
CAPITOLO 6: LE LINGUE DEL MONDO ____________________________________________________ 36
CAPITOLO 7: MUTAMENTO E VARIAZIONE NELLE LINGUE _________________________________ 44
FANCIULLO - INTRODUZIONE ALLA LINGUISTICA STORICA ______________________________ 49
INTRODUZIONE ALLA LINGUISTICA STORICA_____________________________________________ 49
CAPITOLO 1: LA PARENTELA LINGUISTICA _______________________________________________ 49
CAPITOLO 2: IL MUTAMENTO ____________________________________________________________ 52
CAPITOLO 3: CORRISPONDENZE FONOLOGICHE TRA LINGUE INDOEUROPEE ________________ 57
CAPITOLO 4: ESORDI E PRIMI SVILUPPI DELLA LINGUISTICA STORICA ______________________ 60
CAPITOLO 5: GEOLINGUISTICA E SOCIOLINGUISTICA – LA VARIABILITÀ ___________________ 62
CAPITOLO 6: GLI INDOEUROPEI __________________________________________________________ 65
CAPITOLO 7: L’EUROPA LINGUISTICA E LE LINGUE INDOEUROPEE FUORI D’EUROPA ________ 68
GRANDI - FONDAMENTI DI TIPOLOGIA LINGUISTICA _____________________________________ 75
CAPITOLO 1: LA TIPOLOGIA LINGUISTICA – NOZIONI INTRODUTTIVE _______________________ 75
CAPITOLO 2: GLI UNIVERSALI LINGUISTICI _______________________________________________ 85
CAPITOLO 3: LA TIPOLOGIA E IL CONTATTO INTERLINGUISTICO ___________________________ 88
CAPITOLO 4: LA TIPOLOGIA E IL MUTAMENTO LINGUISTICO _______________________________ 90
CAPITOLO 5: AI MARGINI DELLA TIPOLOGIA______________________________________________ 92
ADORNETTI - IL LINGUAGGIO: ORIGINE ED EVOLUZIONE ________________________________ 95
CAPITOLO 1: IN ORIGINE ERA IL SUONO __________________________________________________ 95
CAPITOLO 2: IN ORIGINE ERA IL GESTO__________________________________________________ 101
CAPITOLO 3: ORIGINE DEL LINGUAGGIO ED EVOLUZIONE DELLA MENTE__________________ 108
BERRUTO – CERRUTI: LA LINGUISTICA – UN CORSO INTRODUTTIVO
CAPITOLO 1: IL LINGUAGGIO VERBALE
1.1 LINGUISTICA, LINGUE, LINGUAGGIO, COMUNICAZIONE
La linguistica è il ramo delle scienze umane che studia la lingua. Si può dividere in due sottocampi:
• La linguistica generale, che si occupa di che cosa sono, come sono fatte e come funzionano le lingue.
• La linguistica storica, che si occupa della loro evoluzione nel tempo e dei loro rapporti. Spesso si contrappone
alla ‘linguistica generale’ la glottologia, ovvero lo studio comparato delle lingue antiche. Oggetto della linguistica
sono le lingue storico-naturali, ovvero quelle nate spontaneamente durante l’evoluzione della civiltà e usate
dagli esseri umani ora o nel passato. Tutte queste lingue sono espressione del linguaggio verbale umano, facoltà
innata nell’homo sapiens; è uno degli strumenti, dei modi e dei sistemi di comunicazione più raffinati che abbia
a disposizione.
Dialetti: Da questo punto di vista non c’è differenza tra lingue e dialetti, tutti i sistemi linguistici esistenti ed esistiti,
usati da un qualche gruppo sociale, sono manifestazione specifica del linguaggio verbale umano e sono chiamati
dialetti. La distinzione fra lingue e dialetti è basata solo sul piano sociale e storico-culturale, in funzione del prestigio
dei singoli sistemi linguistici. Nasce qui il campo della sociolinguistica: studia l’interazione tra lingua e società.
Segno: Per inquadrare il linguaggio verbale umano fra i vari tipi e modi di comunicazione bisogna partire dalla
nozione di segno. In maniera generica è un qualcosa che sta per altro e serve per comunicarlo.
Tutto può comunicare qualcosa, ogni fatto culturale può essere interpretato da altri ed essere quindi veicolo di
informazione. La comunicazione, secondo questa concezione equivale a passaggio di informazione.
Intesa invece in un senso più ristretto è fondamentale parlare di intenzionalità: si ha comunicazione quando c’è un
comportamento prodotta da un emittente al fine di far passare dell’informazione e che viene percepito da un ricevente
come tale.
Si possono distinguere tre categorie di comunicazione a seconda del carattere di chi produce il messaggio
(l’emittente) e di chi lo riceve e interpreta (il ricevente o interpretante) e dell’intenzionalità del loro
comportamento:
A. COMUNICAZIONE IN SENSO STRETTO:
o Emittente intenzionale
o Ricevente intenzionale (linguaggio verbale umano, segni e sistemi di comunicazione artificiali es:
segnali stradali)
B. PASSAGGIO DI INFORMAZIONE
o Emittente non intenzionale
o Ricevente (o interpretante) intenzionale (parte della comunicazione non verbale umana es: postura del
corpo)
C. FORMULAZIONE DI INTERFERENZE
o Nessun emittente (solo presenza di un oggetto culturale interpretato come volto a fornire
un’informazione)
o Interpretante (es: case dai tetti aguzzi e spioventi= qui nevica molto)
Da A a B a C, il codice che permette di interpretare correttamente l’informazione diventa via via meno forte, più
vago ed indeterminato. Comunicazione quindi è da intendere come trasmissione intenzionale di informazione.
1.2 SEGNI, CODICE
Il Segno quindi è l’unità fondamentale della comunicazione. Esistono diversi tipi di segni su cui si può fare una
classificazione basata su due criteri fondamentali: l’intenzionalità e della motivazione relativa, cioè rapporto
naturale tra le due facce del segno il qualcosa. Il qualcos’altro per cui il primo sta:
1. lINDICI (sintomi) = motivati naturalmente/non intenzionali (es: starnuto= avere il raffreddore; nuvole nere> sta
per piovere. Basati sul rapporto causa>effetto)
2. SEGNALI = motivati naturalmente/usati intenzionalmente (es: accendo luce sulla montagna= segnalo la mia
presenza)

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3. ICONE = motivati analogicamente/intenzionali (es: basati sulla similarità di forma o struttura= cartine
geografiche o foto)
4. SIMBOLI = motivati culturalmente/intenzionali (es: semaforo rosso= fermarsi)
5. SEGNI = non motivati (totalmente immotivati) /intenzionali (es: suono al telefono di una linea occupata)
Dalla prima all’ultima categoria, la motivazione che lega “il qualcosa” al “qualcos’altro”, diventa via via più
convenzionale. Aumenta perciò anche la specificità culturale: mentre gli indici sono di valore universale, i segni sono
dipendenti da ogni singola tradizione culturale.
Nella comunicazione perciò c’è, dunque, un emittente che emette, produce intenzionalmente un segno per un
ricevente.
Cosa aiuta il ricevente a interpretare un segno? Il fatto che esso si riconduce a un codice di cui fa parte, cioè a un
insieme di conoscenze che permette di attribuire un significato a ciò che succede. Per codice si intende l’insieme di
corrispondenze, fissate per convenzione, fra qualcosa (insieme manifestante) e qualcos’altro (insieme
manifestato) che fornisce le regole di interpretazione dei segni. Tutti i sistemi di comunicazione sono dei codici.
1.3 LE PROPRIETÀ DELLA LINGUA
Ci sono delle proprietà rilevanti presente nel codice della lingua:
1.3.1 BIPLANARITÀ
È il fatto che ci siano in un segno due facce, o due piani, il qualcosa e il qualcos’altro. Vanno perciò introdotte le
nozioni di significante e significato.
Il significante= o espressione, è la parte fisicamente percepibile del segno; ex: la parola gatto pronunciata o scritta.
Il significato= o contenuto, è la parte non materialmente percepibile; ex: il concetto o idea di “gatto”. Tutti i segni
sono indissolubilmente costituiti dal piano del significante unito al piano del significato. Un codice si può allora
definire come un insieme di corrispondenze fra significati e significanti, e un segno come l’associazione di un
significante e un significato.
1.3.2 ARBITRARIETÀ
Consiste nel fatto che non c’è alcun legame naturalmente motivato, derivabile per via di ragionamento logico, fra
significante e significato di un segno.
Il significante gatto non ha di per sé nulla a che vedere con l’animale. I legami tra significato e significante sono posti
per convenzione perciò arbitrari. Se non fosse così le parole nelle diverse lingue dovrebbero essere molto simili, cioè
chiamarsi le cose allo stesso modo, ovviamente è falso.
Lo studioso L. Hjelmslev ha distinto quattro tipi diversi di arbitrarietà, rappresentata attraverso il triangolo
semiotica.
Ai tre vertici, le tre entità: un significante, con la mediazione di un significato
con cui è associato e che veicola (e assieme al quale forma il segno), si
riferisce a un elemento della realtà esterna, extralinguistica, un referente.
La linea alla base è tratteggiata perché il rapporto tra referente e significante
non è diretto ma mediato dal significato.
QUATTRO TIPI DI ARBITRARIETA’ DELLA LINGUA:
• Il rapporto tra segno e referente: è arbitrario (non motivati naturalmente né logicamente; totalmente
convenzionale)
• Il rapporto tra significante e significato: è arbitrario, non ha nulla a che vedere con il significato al di fuori delle
convenzioni poste dalla lingua
• Il rapporto tra forma e sostanza del significato: è arbitrario il rapporto tra forma= struttura e sostanza=materia
del significato
• Il rapporto tra forma e sostanza del significante: è arbitrario, ogni lingua organizza secondo propri criteri la
scelta dei suoni pertinenti. Il significante dei segni linguistici è di carattere fonico-acustico. Fanno eccezioni le
onomatopee e gli ideofoni.

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1.3.3 DOPPIA ARTICOLAZIONE
Consiste nel fatto che il significante di un segno linguistico è articolato a due livelli diversi. A un primo livello, il
significante di un segno linguistico è scomponibile in unità ancora portatrici di significato e sono riutilizzate per
formare altri segni (prima articolazione).
Ex- “gatto” è scomponibile in due pezzi più piccoli, gatt- e –o, che recano ciascuno un proprio significato (“felino
domestico” e “uno solo”, singolare): tali pezzi costituiscono le unità minime di prima articolazione, e non sono
ulteriormente articolati in elementi più piccoli che rechino ancora un proprio significato.
Le unità minime di prima articolazione, che chiameremo “morfemi” poiché sono associazioni di un significante e
un significato, sono i segni più piccoli.
In un secondo livello (seconda articolazione) esse sono scomponibili in unità più piccole non portatrici di significato
autonomo, che combinandosi insieme in successione danno luogo alle entità di prima articolazione. Tali elementi, i
fonemi, sono le unità minime di seconda articolazione. Si noti che unità minime di prima e seconda articolazione
possono coincidere nella loro forma, come il caso di –o in “gatto”.
La doppia articolazione dei segni linguistici costituisce una proprietà cardine del linguaggio verbale umano, non
esistono altri codici di comunicazione naturali che possiedano una doppia articolazione piena come la lingua.
Questa proprietà permette un’economicità di funzionamento: poiché con un numero limitato di unità di seconda
articolazione, si può costruire un numero grandissimo di unità dotate di significato.
Di conseguenza importante è anche la combinatorietà, combinando unità minori per formare un numero indefinito
di unità maggiori. Questo permette alla lingua una produttività illimitata.
1.3.4 TRASPONIBILITÀ DI MEZZO
il significante dei segni linguistici può essere trasmesso o realizzato sia attraverso il mezzo d’aria, il canale fonico-
acustico, o attraverso il mezzo luce, il canale visivo-grafico, sotto forma di segni, tracciati su supporti. A tale proprietà
si dà il nome di trasponibilità di mezzo.
Il canale fono-acustico appare il canale primario poiché una delle priorità del linguaggio verbale umano è la fonicità.
• Il parlato è prioritario antropologicamente rispetto lo scritto. Tutte le lingue che hanno una forma e un uso
scritti sono anche parlate, mentre non tutte le lingue parlate hanno anche una forma e un uso scritti. La lingua
parlata è impiegata in una gamma più ampia di usi e funzioni più ampia.
• C’è una priorità ontogenetica del parlato, ogni individuo umano impara prima a parlare.
• C’è una priorità filogenetica, la scrittura si è sviluppata certamente molto dopo il parlare. Le prime attestazioni
di un sistema di scrittura vero e proprio risalgono al 3500a.C
BOX 1.1 SISTEMI DI SCRITTURA. (PER CAPIRE PIÙ APPROFONDITAMENTE VEDI PER I
GRAFEMI PG.17)
Occorre distinguere innanzitutto sistemi semasiografici e sistemi glottografici. La principale differenza tra i due
sistemi è che i primi non fanno uso di simboli linguistici al contrario dei secondi.
Ex. Sistemi semasiografici: pittografie e ideografie
LOGOGRAFIA O MORFOGRAFIA: Ogni carattere sta per un morfema. Ad esempio il cinese, l’egiziano
geroglifico. Il cinese ad esempio combina componenti logografiche e componenti (parzialmente) fonografiche. Ogni
carattere denota infatti un morfema e una sillaba. Ogni carattere è composto da un elemento di scrittura che indica
approssimativamente il suono. Ad esempio il carattere per “zucchero” è dato dalla combinazione del classificatore
per “cereale” e dell’elemento che sta per la sillaba tàng.
SILLABOGRAFIA: Ogni carattere sta per una sillaba. Ogni carattere rappresenta una combinazione di fonemi
diversa, quindi una sillaba diversa, senza che ci sia la possibilità di distinguere quali elementi grafici rappresentino
certi fonemi e quali altri. Ex. Giapponese
Esso usa un sistema di scrittura misto, che comprende logogrammi cinesi e sillabogrammi. Nel sillabario dei katakana
(sa, si, su, se, so), si può osservare come le combinazioni dei fonemi non sono isolabili graficamente nei singoli
fonemi.
ABJAD: Ogni carattere sta per una consonante. Tendenzialmente non segna le vocali. Sono di questo tipo: arabo,
ebraico, siriaco. Il sistema di scrittura nota di norma le sole consonanti e procede da destra a sinistra.

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Le vocali dell’arabo, in tutto tre (a, u, i), possono essere sia brevi che lunghe; nella scrittura le vocali brevi sono
considerate implicite, mentre le vocali lunghe sono segnate dalla presenza di una consonante di prolungamento.
ABUGIDA: Ogni carattere sta per una combinazione sillabica di consonante e vocale. A differenza della
sillabografia, gli elementi grafici che rappresentano le consonanti e le vocali della combinazione sono ancora
distinguibili tra loro. Si ha in genere un carattere di base, che denota una consonante accompagnata da una vocale
non marcata a cui si aggiunge qualche elemento grafico per denotare altre vocali o l’assenza di vocali. Ex. Sanscrito
e hindi
ALFABETO: Ogni carattere (o grafema) sta o per una consonante o per una vocale. Sono entrambe notate
obbligatoriamente. Il primo alfabeto della storia e quello greco da cui discendono cirillico e latino
GRAFIA DI TRATTI: Ogni carattere rappresenta, una certa conformazione articolatoria e sta per il fono o i foni
prodotti da tale conformazione. Ex. Coreano
Le origini del linguaggio sono più antiche. È ipotizzabile che qualche forma embrionale di comunicazione orale con
segni linguistici fosse già presente nell’ Homo habilis e poi erectus. Il canale fonico-acustico e l’uso del parlato della
lingua presentano vantaggi biologici:
• Purchè vi sia presenza di aria possono essere utilizzati in qualunque circostanza ambientale, consentono la
trasmissione anche in presenza di ostacoli fra emittente e ricevente e a distanza (oggi grazie alla tecnologia i
messaggi viaggiano anche in assenza di aria).
• Non ostacolano altre attività, possono essere utilizzati in concomitanza con molte altre prestazioni fisiche e
intellettive (quello grafico impegna quasi totalmente l’individuo).
• Permettono di localizzare la fonte del messaggio,
• La ricezione è contemporanea alla produzione del messaggio avviene in diretta,
• L’esecuzione è più rapida della scritta
• Il messaggio può essere trasmesso simultaneamente a un gruppo di destinatari diversi e può essere colto a ogni
direzione
• Però il messaggio ha rapida dissolvenza, ciò può essere considerato un vantaggio che uno svantaggio.
• L’energia specifica richiesta è molto ridotta, il parlare è concomitante con la respirazione e ne può essere
considerato entro certi limiti un sottoprodotto specializzato.
Lo scritto tuttavia ha priorità sociale, è lo strumento di fissazione e trasmissione del corpo della tradizione culturale
e letteraria e del sapere scientifico, è il veicolo fondamentale dell’istruzione scolastica, ha validità giuridica ecc. Lo
scritto nasce come fissazione solida del parlato, ma poi si è sviluppato con caratteri propri. Non tutto ciò che fa parte
del parlato può essere reso o avere un corrispondente nello scritto.
1.3.5 LINEARITÀ E DISCRETEZZA:
Per linearità si intende che il significante viene prodotto e si sviluppa in successione nel tempo e nello spazio.
Successione lineare tale che non possiamo decodificare il segno se non dopo che siano stati attualizzati uno dopo
l’altro tutti gli elementi che lo costituiscono. Molti altri tipi di segni sono ”globali”, percepiti come un tutto
simultaneamente. Ex. Segnali stradali.
Questo principio implica monodimensionalità del segno, giacchè il significante si sviluppa in una sola direzione.
Per discretezza dei segni si intende che la differenza tra le unità di lingua è assoluta e non quantitativa o relativa:
le unità della lingua non costituiscono una materia continua, c’è un confine preciso tra un elemento e un altro ben
distinti e separabili. In particolare, le classi di suoni. Una conseguenza della discretezza è che nella lingua non
possiamo intensificare il significante per intensificare il significato nel modo in cui lo facciamo nel parlato con urla
o intersezioni. Nella lingua, il significato non varia in proporzione al variare del significante.
1.3.6 ONNIPOTENZA SEMANTICA, PLURIFUNZIONALITÀ E RIFLESSIVITÀ
Per onnipotenza semantica che consisterebbe nel fatto che con la lingua è possibile dare un’espressione a qualsiasi
contenuto, per lo meno nel senso che un messaggio formulato in qualunque altro codice o sistema di segni sarebbe
sempre traducibile in lingua, ma non viceversa. Più semplicemente, al fatto che con la lingua si può parlare di tutto.
Poiché però risulta difficile provare ciò, è più prudente parlare di plurifunzionalità, ovvero che la lingua permettere
di adempiere a una lista molto ampia di funzioni diverse.

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Le funzioni secondo lo schema di Jakobson si identificano in sei classi di funzioni:
• Esprimere le proprie sensazioni, emozioni e stati d’animo= funzione emotiva
• Specificare aspetti del codice o calibrare il messaggio sul codice= funzione metalinguistica. Rifacendoci a
questa funzione la lingua si può usare come meta lingua, la lingua di cui parla la metalingua viene chiamata
“lingua-oggetto”. Tale proprietà viene definita “riflessività”
• Fornire informazioni sulla realtà esterna= funzione referenziale
• Far agire in qualche modo il referente ottenendo da lui un certo comportamento, interazioni sociali= funzione
conativa
• Verificare e sottolineare il canale comunicativo o il contatto fisico o psicologico fra i parlanti = funzione fàtica
• Mettere il rilievo, esplicitare, sfruttare le potenzialità nel messaggio e i caratteri interni del significante e del
significato= funzione poetica.
1.3.7 PRODUTTIVITÀ E RICORSIVITÀ
Con produttività si allude al fatto che con la lingua è sempre possibile creare nuovi messaggi e nuove cose mai
prodotte prima. Si può da un lato produrre messaggi sempre nuovi, dall’altro associare messaggi già usati a situazioni
nuove. La produttività prende forma più specifica nella creatività regolare, una produttività infinita su un numero
di principi limitato e regole applicabili ricorsivamente.
La ricorsività è posseduta in maniera evidente dalla lingua, ed è una proprietà formale molto importante; significa
che uno stesso procedimento è riapplicabile un numero teoricamente illimitato di volte. EX. applicare un suffisso a
una parola per crearne un’altra. L’applicazione alla ricorsività è teoricamente illimitata, oltre un certo grado di
lunghezza e complessità tuttavia il segno non sarebbe più economicamente maneggiabile. Noi parlanti quindi siamo
utenti finiti di un sistema infinito.
1.3.8 DISTANZIAMENTO E LIBERTÀ DA STIMOLI
Per distanziamento intendiamo una proprietà che riguarda il poter formulare messaggi relativi a cose lontane,
distanti nel tempo e/o nello spazio e dal luogo in cui si svolge l’interazione o viene prodotto il messaggio.
Perciò consiste nella possibilità di parlare di un’esperienza in assenza di essa o dello stimolo che ha provocato.
Questa nozione coincide con la “libertà da stimoli”: i segni linguistici rimandano e presuppongono una elaborazione
concettuale della realtà esterna e non semplicemente stati dell’emittente. La libertà da stimoli è un criterio importante
che distingue il linguaggio umano da quelli degli animali.
1.3.9 TRASMISSIBILITÀ CULTURALE
Dal punto di vista antropologico, ogni lingua è trasmessa per tradizione all’interno di una società come uno dei
fatti costitutivi della cultura. Le convenzioni che costituiscono il codice di una lingua, il suo patrimonio lessicale
passando di generazione in generazione per l’insegnamento e l’apprendimento spontaneo.
Questo non vuol dire che il linguaggio verbale umano sia un fatto unicamente culturale. Vi è presente infatti una
componente innata che fornisce la facoltà del linguaggio, cioè la predisposizione a comunicare mediante una lingua
e le sue regole. Il linguaggio è in tal senso universale, le lingue storico-naturali sono particolari. Un ruolo importante
nel processo di acquisizione e apprendimento è il periodo della prepubertà linguistica, se entro gli 11-12 anni un
essere umano non è esposto a stimoli, lo sviluppo della lingua è bloccato.
1.3.10 COMPLESSITÀ SINTATTICA:
Consiste nel fatto che alcuni messaggi linguistici, a differenza dei messaggi altri codici naturali, possono presentare
un alto grado di elaborazione strutturale, con una ricca gerarchia di rapporti di concatenazione e funzionali fra gli
elementi disposti linearmente. I rapporti fra gli elementi o parti del segno danno luogo a una città trama percepibile
nella sintassi del messaggio. Fra gli aspetti con maggior rilevanza ci sono:
• l’ordine degli elementi contigui (le posizioni lineari in cui si combinano),
• le relazioni strutturali e le dipendenze che vigono fra elementi non contigui,
• le incassature
• la possibilità di discontinuità nella strutturazione sintattica.
1.3.11 EQUIVOCITÀ:
La lingua è un codice tipicamente equivoco. È equivoco un codice che pone corrispondenze plurivoche fra gli
elementi di una lista e di quella associata, perciò a un unico significante possono corrispondere più significati.

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Questa proprietà non costituisce uno svantaggio dell’organizzazione del sistema linguistico, bensì un vantaggio,
poiché contribuisce a consentire la flessibilità dello strumento linguistico e della sua adattabilità ad esprimere nuove
esperienze e contenuti. I possibili problemi sono disambiguati dal contesto.
1.3.12 LINGUA SOLO UMANA?
Secondo la maggior parte degli studiosi la facoltà verbale, di esprimersi attraverso sistemi comunicativi come le
lingue, sia specie-specifica dell’uomo; solo l’uomo possiede le precondizioni anatomiche e neurofisiologiche
necessarie per l’elaborazione mentale e fisica del linguaggio verbale:
• Adeguato volume del cervello: permette la memorizzazione, l’elaborazione
• Conformazione del canale fonatorio cosiddetto a “due canne”: consente sottili distinzioni articolatorie
Riepilogo proprietà del linguaggio verbale umano, eslcusiva dei segni linguistici:
NO: SI
Biplanarità Doppia articolazione
Arbitrarietà Trasponibilità del mezzo
Linearita Onnipotenza semmantica
Discretezza Riflessività
Trasmissibilità culturale Produttività
Equivocità Ricorsività
Distanziamento e libertà da stimoli
Complessità sintattica
1.3.13 DEFINIZIONE DI LINGUA:
Potremmo allora dire che la lingua è un codice che organizza un sistema di segni dal significante in primis fono-
acustico, arbitrari ad ogni loro livello e doppiamente articolati, capaci di esprimere ogni esperienza esprimibile,
posseduti come conoscenza interiorizzata che permette di produrre infinite frasi a partire da un numero finito di
elementi.
1.4 PRINCIPI GENERALI PER L’ANALISI DELLA LINGUA
1.4.1 DIACRONIA E SINCRONIA.
I due termini vengono usati per indicare due diverse condizioni con le quali si può guardare alle lingue in relazione
all’asse del tempo. È impossibile separare nettamente la dimensione diacronica e sincronia.
Per diacronia si intende lo sviluppo delle lingue nel tempo, la loro evoluzione storica. Un esempio è l’etimologia di
una parola (cercare di ricostruire la storia di una parola).
Per sincronia si intende la descrizione delle cose così come si presentano agli occhi dell’osservatore in un dato
momento, prescindendo dall’evoluzione che le ha portate a presentarsi così. Nei fatti concreti è impossibile separare
nettamente le due dimensioni (è impossibile un’assoluta sincronia; e allo stesso tempo qualsiasi elemento della lingua
è ciò che è anche in virtù della sua storia precedente).
La distinzione tra di loro è uno dei fondamenti metodologici principali con cui ci si accosta alla lingua. Solo
l’astrazione concessa dalla visuale sincronica permette di vedere come funziona il sistema linguistico e di
descrivere le unità che lo costituiscono. La linguistica sincronica spiega com’è fatta e come funziona la lingua, il
sistema linguistico; la linguistica diacronica spiega perché le forme di una determinata lingua sono fatte così.
1.4.2 LANGUE E PAROLE.
Importante è la distinzione tra sistema astratto e realizzazione concreta. Tale distinzione si è ripresentata, nella
linguistica moderna, secondo tre terminologie principali:
• la coppia oppositiva Langue e Parole (cardini del pensiero di Ferdinand de Sassure),
• l’opposizione fra sistema e uso (L. Hjelmslev),
• l’opposizione fra competenza ed esecuzione (fa capo a Chomsky).
Con il primo termine di tutte e tre le coppie si intende l’insieme di conoscenze mentali, regole interiorizzate,
costituiscono la nostra capacità di produrre messaggi in una certa lingua e sono possedute in misura uguale come
sapere astratto. Con il secondo termine si intende l’atto linguistico individuale, la realizzazione concreta, di un
messaggio verbale in una certa lingua. Parole, uso e esecuzione per essere messi in opera richiedono l’esistenza di
Langue, sistema e competenza.

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In particolare la coppia Langue e Parole comprende una triplice opposizione fra ‘astratto’, ‘sociale’ e ‘stabile’ da un
lato e ‘concreto’, ‘individuale’ e ‘mutevole’ dall’altro. Linguisti come Coseriu pongono una terza entità intermedia
fra il sistema (langue) e l’uso (parole): la norma. Costituisce una sorta di filtro, specifica quali sono le possibilità del
sistema che vengono attualizzate nell’uso dei parlanti di una lingua in un certo momento storico.
La lingua come sistema si manifesta nell’esperienza fattuali sotto forma di atti di parole; ciò che interessa al linguista
è la langue. Per studiare e svelare la langue il linguista deve però partire dalla parole, che gli fornisce i dati da cui
ricavare le leggi del sistema.
Porre al centro dell’attenzione la langue significa porre l’astrazione e l’idealizzazione come momento necessario
dell’analisi scientifica: partendo dalla manifestazione concreta, il linguista opera su oggetti d’indagine astratti.
1.4.3 PARADIGMATICO E SINTAGMATICO.
Ogni attuazione di un elemento del sistema di segni in una certa posizione nel messaggio implica una scelta di un
paradigma di elementi selezionabili in quella posizione: l’elemento che compare esclude tutti gli altri elementi che
pur potrebbero comparire in quella posizione, e coi quali quel dato elemento ha appunto rapporti sull’asse
paradigmatico.
Contemporaneamente l’attuazione di quell’elemento in una certa posizione implica la presa in conto degli elementi
che compaiono nelle posizioni precedenti e susseguenti dello stesso messaggio, coi quali quel dato elemento ha
appunto rapporti sull’asse sintagmatico e coi quali deve sussistere una coerenza sintagmatica lungo lo sviluppo
lineare del messaggio.
L’asse paradigmatico si può dire riguarda le relazioni a livello del sistema, l’asse sintagmatico riguarda le relazioni
a livello delle strutture che realizzano le potenzialità del sistema. Queste due dimensioni quindi costituiscono una
duplice prospettiva secondo cui funzionano le strutture, le combinazioni dei segni linguistici e il modo in cui vanno
viste.
La prima costituisce i serbatoi da cui attingere le singole unità linguistiche, la seconda assicura che le combinazioni
siano formate in base alle restrizioni per ogni lingua. L’organizzazione dei due assi dà luogo alla diversa
distribuzione degli elementi della lingua, permettendo di riconoscere classi di elementi che condividono le stesse
proprietà di distribuzione in opposizione a quelli con distribuzione diversa.
1.4.4 LIVELLI DI ANALISI.
Nella lingua esistono quattro livelli di analisi, stabiliti in base alle proprietà della BIPLANARITÀ e della DOPPIA
ARTICOLAZIONE, che identificano 3 strati nel segno linguistico:
• lo strato del significante inteso come puro significante,
• lo strato del significante come portatore del significato
• lo strato del significato.
Tre livelli di analisi sono relativi al piano del significante: uno per la seconda articolazione consiste nella fonetica e
fonologia, due per la prima articolazione che riguardano entrambi, a sottolivelli diversi di taglia e di complessità
delle unità considerate, l’organizzazione del significante in quanto portatore di significato, consistono nella
morfologia e nella sintassi.
Un ulteriore livello è relativo al solo piano del significato e consiste nella semantica. Vi sono sottolivelli secondari
come la grafematica e la pragmatica e testualità. Di questi livelli di analisi la fonetica e la semantica sono i livelli
più esterni, in quanto sono le interfacce del sistema linguistico con la realtà esterna.
Morfologia e sintassi sono i livelli interni in cui il sistema si organizza secondo i principi che governano le facoltà
del linguaggio in quanto competenza specifica dell’uomo.
CAPITOLO 2: FONETICA E FONOLOGIA
2.1 FONETICA
La fonetica è quella parte della linguistica che si occupa della componente fisica, materiale della comunicazione
verbale. La fonetica si distingue in tre campi, in base a come si analizza il suono del linguaggio:
• Articolatoria →studia i suoni del linguaggio in base al modo in cui vengono articolati, cioè prodotti
dall’apparato fonatorio umano.
• Acustica →studia i suoni del linguaggio in base alla loro consistenza fisica e modalità di trasmissione, in quanto
onde sonore che si propagano nello spazio.

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• Uditiva →studia i suoni del linguaggio in base al modo con cui vengono ricevuti, percepiti dall’apparato uditivo
umano e decodificati dal cervello.
Si prenderà in considerazione solo il primo campo.
2.1.1 APPARATO FONATORIO E MECCANISMO DI FONAZIONE
Apparato fonatorio → insieme degli organi e delle strutture anatomiche fondamentali per completare il processo di
comunicazione verbale. I suoni sono normalmente prodotti in fase di espirazione, per mezzo di un flusso di aria
egressivo che parte dai polmoni e raggiunge la laringe attraversano i bronchi e la trachea; tuttavia, esistono suoni
prodotti in fase di inspirazione, per mezzo di un flusso di aria ingressivo, e suoni prodotti senza la partecipazione dei
polmoni (detti quindi apneumonici) e dunque non dipendenti dalla respirazione (detti quindi avulsivi), tipici delle
lingue africane.
Ricapitolando, il flusso d’aria:
• Parte dai polmoni, supera i bronchi e la trachea e giunge nella laringe.
• Nella laringe -più esattamente, nella glottide, incontra le corde vocali (pliche laringee), due pieghe della mucosa
laringea governate da muscoli attaccati alle cartilagini della glottide. Queste, nella normale respirazione silente,
sono separate e rilassate, mentre nella fonazione (produzione di suoni) si contraggono e tendono ad avvicinarsi
o ad accostarsi l’una sull’altra, impedendo all’aria di passare.
Dunque, lo spazio tra le due corde, la rima vocale, può essere totalmente libero, parzialmente o completamente
ostruito. I cicli rapidissimi di chiusure e aperture della rima vocale, provocati dalla pressione dell’aria che spinge
proveniente dai polmoni, sono dette vibrazioni delle corde vocali. Tutto questo processo è chiamato
meccanismo laringeo.
Le vibrazioni che caratterizzano l’onda sonora emessa costituisce la frequenza fondamentale, calcolata in Hertz
e rappresentata dal simbolo f con 0 in pedice. La frequenza descrive l’altezza dei suoni, ad esempio le voci più
chiare e acute, tipicamente femminili, arrivano ai 200 cicli al secondo (200-250 Hz), mentre le voci più scure e
basse, tipicamente maschili, arrivano ai 100 cicli al secondo (100-150 Hz).
• Passa nella faringe e in seguito nella cavità boccale: l’aria va incontro alla parte superiore della faringe e procede
prima verso il velo, poi verso il palato (propriamente detto) ed è infine pronta per uscire dalla bocca. Sul velo,
la parte posteriore del palato dove pende l’ugola può lasciare aperto il passaggio dell’aria, permettendo la
fonazione, o bloccarlo, portando l’aria verso le cavità nasali. Nella cavità orale svolgono un’importante funzione
la lingua, che presenta una radice, un palato, gli alveoli, i denti e le labbra.
I tre parametri necessari per l’identificazione dei suoni del linguaggio sono:
• il luogo in cui viene articolato un suono
• il modo di articolazione, ossia la conformazione degli organi fonatori e il restringimento relativo, che frappone
o no il passaggio dell’aria: nel caso di frapposizioni di un ostacolo completo o parziale al passaggio dell’aria in
qualche punto del percorso, sono generati suoni meglio conosciuti con il nome di consonanti, detti suoni
contoidi; nel caso di assenza di ostacoli sono prodotte le vocali, detti suoni vocoidi.
• la mobilità dei singoli organi alla formulazione dei suoni. I suoni prodotti in concomitanza alla vibrazione delle
corde sono detti sonori (vocali e una parte delle consonanti), quelli prodotti senza vibrazione sono detti sordi
(una parte delle consonanti, ma anche le vocali se pronunciate sottovoce).
2.1.2 CONSONANTI
Sono quei suoni originati dal nostro apparato fonatorio a seguito della frapposizione di un ostacolo al passaggio
dell’aria. Possiamo categorizzare le consonanti in vari gruppi usando diversi parametri:
• Modo di articolazione →
o in base al grado di chiusura del canale: l’ostacolo può essere completo o incompleto: nel primo caso,
abbiamo un blocco momentaneo totale, mentre nel secondo caso abbiamo un restringimento della cavità
laringea, ma senza che si verifichi alcun contatto.
Le consonanti originate da un ostacolo completo, da un’occlusione, sono dette occlusive, mentre quelle
da un ostacolo incompleto sono dette fricative, perché l’avvicinamento degli organi articolatori provoca
un rumore simile a quello di frizione.
Tra le fricative, vanno distinte le approssimanti (semivocali/semiconsonanti), generate da un
restringimento minore e quindi da un rumore meno sensibile. Vi sono poi consonanti che sono originate
da un’occlusione totale momentanea seguita da un restringimento del canale, dunque iniziano da
occlusive e terminano da fricative: sono le affricate.

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o in base ai movimenti o atteggiamenti della lingua o alla partecipazione della cavità nasale alla
produzione del suono: le laterali sono quelle originate quando l’aria passa solo ai due lati della lingua,
le vibranti sono quelle originate quando si hanno rapidi contatti intermittenti tra la lingua e un altro
organo articolatorio (queste due categorie caratterizzano le liquide), le nasali sono quelle originate
quando vi è il passaggio dell’aria anche attraverso la cavità nasale.
• Energia articolatoria →ossia la tensione muscolare; sono più forti quelle che richiedono una maggiore energia,
ossia le occlusive sorde, sono più leni quelle che ne richiedono di meno, come le approssimanti. Generalmente
le occlusive e le sorde sono più forti delle fricative e delle sonore.
• Presenza di aspirazione →ossia l’intervallo di tempi tra il rilascio dell’occlusione all’inizio della vibrazione
delle corde vocali tipica delle vocali, che produce un suono laringale: si parla a tal proposito di aspirate.
• luogo di articolazione →in base al punto dell’apparato fonatorio in cui sono articolate;
o le bilabiali sono prodotte dalle labbra o tra le labbra,
o le labiodentali sono prodotte fra l’arcata superiore dei denti e il labbro inferiore,
o le dentali sono prodotte a livello dei denti (sono incluse le alveolari, prodotte dalla lingua contro o
vicino agli alveoli),
o le palatali sono prodotte contro o vicino al palato duro,
o le velari sono prodotte dalla lingua contro o vicino al velo;
o le uvulari sono prodotte dalla lingua contro o vicino all’ugola,
o le faringali sono prodotte tra la base della radice della lingua e la parte posteriore della faringe
o le glottidali sono prodotte nella glottide.
2.1.3 VOCALI
I suoni vocalici sono tutti quei suoni originati senza la frapposizione di ostacoli e si differenziano tra di loro in base
alle diverse conformazioni che assume la cavità orale al passaggio dell’aria. Usiamo due parametri:
• Posizione della lingua →
o se la lingua effettua un avanzamento abbiamo le vocali anteriori,
o se effettua un arretramento abbiamo le vocali posteriori
o se la lingua si pone centralmente abbiamo quelle centrali;
o se la lingua effettua un innalzamento le vocali sono alte (o chiuse),
o se la lingua effettua un abbassamento sono basse (o aperte)
o se si pone mediamente sono medie (medio-alte, medio-basse).
Un modo per rappresentare le vocali articolate secondo il duplice asse verticale ed orizzontale è il trapezio vocalico.
• Posizione delle labbra →possono essere distese, formare una fessura o essere tese e sporte in avanti, formando
una rotondità; queste ultime sono dette arrotondate, mentre quelle senza protrusione e arrotondamento delle
labbra sono semplicemente non arrotondate.
• Passaggio contemporaneo dell’aria nella cavità orale →in tal caso sono dette nasali.
2.1.4 APPROSSIMANTI
Vi sono suoni con modo di articolazione intermedio fra vocali e consonanti fricative, prodotti con un semplice inizio
di restringimento del canale orale chiamati “approssimanti”.
Fra questi, vi sono suoni di fatto assai vicini alle vocali, di cui condividono la localizzazione articolatoria, che
vengono chiamati “semivocali” le quali vanno distinte in “anteriori” (o palatali) da quelle “posteriori” (velari).
2.1.5 TRASCRIZIONE FONETICA
I diversi sistemi di scrittura utilizzati dalle diverse lingue rendono in maniera varia nel mezzo grafico la realtà fonica
della produzione verbale.
Esistono, infatti, vari sistemi linguistici:
• quello alfabetico, tipico delle lingue europee, in cui ogni lettera è rappresentata da un grafema;
• quello sillabico, in cui ogni sillaba è rappresentata da un grafema, e
• quello ideografico, in cui ogni grafema rappresenta un concetto, un morfema, e non entità foniche.
Le scritture alfabetiche sono però tutte distinte:
• quella italiana si definisce la più fonografica, perché si legge proprio come si scrive, usando per ogni suono una
lettera,
• mentre per altre lingue come il francese e l’inglese il discorso diventa più complicato.

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Per venire incontro a tale disomogeneità, i linguisti hanno creato l'alfabeto fonetico internazionale, in inglese siglato
IPA (International Phonetic Alphabet), soggetto a continui aggiornamenti nel corso del tempo.
Per alfabeto fonetico si intende, dunque, l’insieme dei simboli impiegati per la rappresentazione grafica dei
suoni di una lingua.
La sua prerogativa essenziale è quella di associare in modo univoco un solo segno grafico a ogni fono. L’alfabeto
fonetico prescinde infatti dai sistemi ortografici in uso nelle lingue: per questo motivo è l’unica forma di scrittura che
non crei ambiguità o ridondanza.
La prima versione dell’alfabeto fonetico, riconducibile all’odierno IPA, nacque nel 1888 a Parigi nell’ambito
dell’Association phonétique internationale (API) ad opera di undici insegnanti francesi e inglesi.
L’intento era soprattutto didattico: la trascrizione fonetica si proponeva quale strumento grafico per facilitare
l’apprendimento della pronuncia delle lingue straniere. Tra i promotori dell’associazione occorre ricordare Paul
Passy, Henry Sweet, Wilhelm Viëtor e Otto Jespersen.
Nel corso degli anni, l’associazione cambiò più volte denominazione, la lingua ufficiale passò da inglese a francese,
ma il coinvolgimento degli studiosi in questa forma di trascrizione fu costante. Fu presto affiancata dalla
pubblicazione di un periodico denominato «Le maître phonétique», edito dal 1889 al 1970, in lingua francese ed in
trascrizione fonetica.
Da allora fino ai nostri giorni, l’organo ufficiale di diffusione dei criteri di trascrizione fonetica è il «Journal of the
international phonetic association» (in sigla JIPA). L’alfabeto IPA è stato soggetto a revisione nel 1949, 1979,
1989, 1996 ed infine nel 2005. Fondamentale è stata la revisione effettuata nel 1989 nell’ambito del Congresso di
Kiel; in quell’occasione, da un lato furono aggiunti nuovi simboli e diacritici, dall’altro furono soppresse alcune
ridondanze simboliche. Il manuale pubblicato nel 1999 Handbook of the International phonetic alphabet association.
A guide to the use of the International phonetic alphabet costituisce una guida essenziale per gli utenti dell’IPA.
L’IPA è essenzialmente basato sui simboli dell’alfabeto latino (per es., b d g s l m); non mancano tuttavia simboli
di altri alfabeti, come quello greco (per es., β δ ʎ) e altri di nuova creazione (per es., ɰɞ) ideati anche attraverso il
capovolgimento di lettere già esistenti (per es., ɐəʌʍɥ). Ampia è la lista dei diacritici, ovvero segni grafici che
consentono di affinare la codifica e di raggiungere un alto grado di accuratezza; il loro uso è pertanto richiesto nella
trascrizione fonetica stretta (➔ trascrizione fonetica).
La trascrizione fonetica segue regole proprie, diverse da quelle in uso nella pratica ortografica;
• la sequenza fonetica è racchiusa tra parentesi quadre,
• non si usano le maiuscole,
• non si pongono spazi tra le parole;
• la posizione dell’accento di parola è sempre indicata anteponendo il diacritico [ˈ] alla sillaba accentata (per es.
[ˈpasta]),
• mentre la lunghezza di un fono, vocalico o consonantico, è indicata con il diacritico [ː]: matita >[maˈtiːta], pacco
>[ˈpakːo].
I simboli dell’IPA sono raggruppati sotto forma di tavole, le sezioni che lo compongono sono le seguenti:
• Consonanti polmonari o egressive,
• Consonanti non polmonari o ingressive,
• Vocali,
• Diacritici,
• Altri simboli,
• Soprasegmentali,
• Toni e accenti di parola.
Dal 1989 è presente anche una tavola denominata Extended IPA for Disordered Speech, pensata per la
rappresentazione dei fenomeni relativi ai disturbi del linguaggio. Convenzionalmente, le consonanti sono classificate
per modi di articolazione lungo l’asse verticale e per luogo di articolazione su quello orizzontale.
Tra le coppie di simboli consonantici, quello posto a destra denota sempre un segmento sonoro; quando è presente
un solo simbolo esso è da intendersi come sonoro. È da sottolineare l’assenza del Modo articolatorio affricato, la
cui trascrizione si avvale della ongiunzione dei simboli occlusivi e fricativi. Il Modo approssimante è stato
introdotto solo a partire dal 1979, indicando un’articolazione più aperta rispetto a quella fricativa; i suoni
approssimanti, prima di quella data, erano classificati come semivocali, laterali non fricative o continue non
fricative.

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Nella tavola delle consonanti, dal 1989, sono state visualizzate le aree articolatorie, evidenziate in grigio, ritenute
impossibili da realizzare.
Le vocali sono presentate in uno spazio trapezoidale che riproduce le dinamiche articolatorie implicate nella loro
produzione, in primis gli spostamenti della lingua (➔vocali).
La brillante intuizione si deve a Jones (1957) il quale all’inizio del 1900 avvertì l’esigenza di definire la posizione
delle vocali cardinali, un utile riferimento da cui poter derivare tutte le altre articolazioni. Nella Tabella IPA ogni
vocale compare in coppia, a sinistra si ha sempre il fono non arrotondato, a destra quello realizzato senza protrusione
labiale.
Le vocali possono essere rappresentate anche come nasali sovrapponendo sulla lettera il segno della tilde (accento
circonflesso).
2.1.6 CONSONANTI E VOCALI
CONSONANTI

Labio- Dentali e
Bilabiali Palatali Velari Uvulari Faringali Glottidali
dentali alveolari
Sr. Sn. Sr. Sn. Sr. Sn. Sr. Sn. Sr. Sn. Sr. Sn. Sr. Sn. Sr. Sn.
Occlusive P b t d k g q ʔ
Fricative ɸ β f v s z ʃ ʒ x ɣ χ ʁ ʕ h
(Composte) θ ð
Affricate Pf ts dz tʃ ʤ
Nasali m ɱ n ɲ ŋ
Laterali l ʎ
Vibranti r R

(Sorde: sr.; Sonore: sn.)


[p] →pollo [‘pollo] (‘ va anteposta alla sillaba tonica)
[b] →bocca [‘bokː a] (: indica una lunghezza molto estesa, per le vocali allungate e le consonanti geminate, ossia
doppie)
[t] →topo [‘tɔpo] [d] →dito [‘dito]
[k] →cane [‘kane] [g] →gatto [‘gatto]
[q] → Iraq [ʔi’ra:q] (/ʔ/ è un suono assente in italiano, ma è molto spesso posto usato quando si pronuncia una parola
sillabandola: ho detto “la ama”, non “lama”: la ama →[la ‘ʔa:ʔma]; lama → [‘ʔla:ʔma]. È una occlusiva glottidale.
[ɸ] →nel dialetto fiorentino tipo [‘tiɸo]. E’ un suono che non esiste nella lingua italiana se non nel dialetto fiorentino,
nel fenomeno della “gorgia”, per cui il suono /p/ intervocalico si spiralizza. [β] →nello spagnolo cabeza [ka’βeθa].
È un suono assente in italiano (se non in qualche vocabolo in lingua sarda e sassarese) e prevalente nella lingua
spagnola. [f] →filo [‘filo]
[v] →vino [‘vino]
[s] →sano [‘sano]
[z] →sbaglio [‘zbaʎʎo]
[θ] →in inglese think [θ]. E’ un suono assente nella lingua italiana. [ð] →in inglese that [ð]. È un suono assente nella
lingua italiana.
[ʃ] →sci [ʃi]
[ʒ] →in francese jour [ʒuʁ]. E’ un suono assente nella lingua italiana, ma presente nel dialetto toscano, ad esempio
in disagio; /ʁ/ (vedi dopo).
[x] →in tedesco Buch (o Lachman) [bux]. E’ un suono assente nella lingua italiana.
[ɣ] →in spagnolo agua [aɣwa]. E’ un suono assente nella lingua italiana.

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[χ] →in arabo sceicco (suono /khu/) [ʃæjχ]. E’ un suono assente nella lingua italiana.
[ʁ] →in francese jour →è la “r” fricativa francese. E’ un suono assente nella lingua italiana. [ʕ] →suono assente in
italiano.
[h] →in inglese have [hæ:v]. E’ un suono assente in italiano e in quanto lettera /h/ non ha autonomia.
[pf] →in tedesco Apfel [‘ʔapfel]. E’ assente nella lingua italiana.
[ts] →pazzo [‘patso] [dz] →zona [‘dzɔna]
[tʃ] →cibo [‘tʃibo] [ʤ] →gelo [‘ʤelo]
[m] →mano [‘mano]
[ɱ] →invito [‘iɱ’vito]
[n] → nave [‘nave]
[ɲ] →gnocco [‘ɲɔkko]
[ɳ] →fango [‘faɳgo]
[l] →lana [‘lana]
[ʎ] →gli [ʎi]
[r] →riva [‘riva]
[ʀ] →in francese rose [‘ʀoz
VOCALI
Anteriori Semi anteriori Centrali Semi posteriori posteriori
Alte (chiuse) i y ɨ ʉ ɯ u
Semi alte ɪ ʏ ʊ
Medio alte e ø ɘ ɵ ɤ o
Medie ə
Medie basse ɛ œ ɜ ɞ ʌ ɔ
Semi basse æ ɐ
Basse (aperte) (a) ɶ a ɑ ɒ
Semivocali j w
[i] →vino [‘vino]
[y] →in francese mur [myʁ] [X] →in inglese bit [bIt] [Y] →?
[e] →meno [‘meno]
[ø] →in francese peu [pø]
[ɛ] →bene [‘bɛne]
[œ] → in francese [pœ:ʁ]
[æ] →in inglese bad [bæd] [ɶ] →?
[j] →piano [‘pjano]
[ə] →è la lettera indifferens: in inglese the e in francese je.
[a] →mano [‘mano]
[u] →muro [‘muro]
[ɤ] →in inglese full [fɤl] [o] →bocca [‘bokka]
[ʌ] →in inglese but [bʌt] [ɔ] →uomo [‘wɔmo]
[ɑ] →in inglese car [cɑ:] [w] →uomo [‘wɔmo]

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2.2. FONOLOGIA
2.2.1 FONI, FONEMI, ALLOFONI
Ogni suono che viene riprodotto dall’apparato fonatorio umano rappresenta un potenziale suono del linguaggio ed è
detto fono: si tratta quindi della realizzazione concreta di un suono del linguaggio ed è oggetto di studio della
fonetica.
La fonologia, invece, studia i foni nella loro configurazione, ossia in fonemi:
• Si tratta di piccole unità distintive di una lingua che non portano significato, ma sono funzionali per
determinare differenze di significato e rappresentano le unità prime del secondo sistema di articolazione.
• Nella trascrizione fonica, l’IPA fa uso delle [] ed essa può essere fatta in maniera larga o stretta, nella misura
in cui si cerca di riprodurre il suono nella maniera più dettagliata possibile, mentre in quella fonologica sono
usatele // ed essa può essere fatta solo in maniera larga, trascurando ogni particolarità e differenza tra i fonemi
dal momento che esse non sono ritenute indispensabili.
• Mentre per ogni fono esiste un distinto fonema, per ogni fonema può accadere che esistano più foni→si
parla in tal caso di allofoni e la diversità fonetica non provoca alcun cambiamento sul piano fonologico (si
pensi alla /r/ pronunciata “moscia” e a quella normale → rimane sempre /r/ a livello fonologico).
Per esaminare i fonemi è utile far ricorso alla prova di commutazione: prendere parole che differiscono per un
singolo fono e notare come varia il loro significato → mela/male, mela/tela, pane/cane, dato/dado.
Queste sono definite coppie minime e proprio il cambiamento semantico delle parole ci dimostra che ad esempio in
mela e male /e/ e /a/ sono fonemi e che in mela e tela lo sono /m/ e /t/. In pera-cera, la coppia minima si rappresenta
con /p~c/.
2.2.2 FONEMI E TRATTI DISTINTIVI
I fonemi, essendo unità prime, non sono ulteriormente suddivisibili, ma possono essere accomunati da comuni
proprietà articolatorie che li contrassegnano:
• ad esempio, /t/ è un’occlusiva dentale sorda,
• mentre /d/ è un’occlusiva dentale sonora.
Due fonemi sono differenziati da almeno un tratto fonetico e per visualizzare tale differenza si fa ricorso alla teoria
dei tratti distintivi, che consente di rappresentare economicamente tutti i fonemi come un fascio di alcuni tratti
distintivi con un determinato valore + o -, grazie all’uso di determinate proprietà acustiche.
I tre tratti distintivi principali, ossia che ci permettono di opporre ampie classi di foni/fonemi, sono:
• l’essere/non essere coronale →le coronali sono quei foni prodotti dalla corona, ossia dalla parte anteriore
della lingua, sollevata rispetto alla posizione di riposo, ad esempio [t].
• l’essere/non essere sonorante →le sonoranti sono quei foni prodotti a canale aperto e libero, senza ostacoli
del flusso d’aria creati dalla pressione tra l’esterno e l’interno della cavità orale, ad esempio le vocali, le
approssimanti e le consonanti liquide. I foni non sonoranti sono detti ostruenti.
• l’essere/non essere sillabico →sono foni che possono costituire una sillaba.
• l’essere/non essere ATR → (Advanced Tongue Root, radice della lingua avanzata), ossia i foni prodotti con
la radice, la parte posteriore della lingua, spostata in avanti, ad esempio [i],[e],[u],[o].

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La teoria dei tratti distintivi, quindi, si basa su un rapporto di binarietà tra i due foni/fonemi (assenza o presenza,
essenza o non essenza di una categoria linguistica) e in fonetica i tratti distintivi rappresentano movimenti e
atteggiamenti muscolari degli organi interessati alla fonazione, mentre in fonologia sono proprietà astratte realizzate
in simultaneità nella produzione dei singoli foni.
2.2.3 I FONEMI DELL’ITALIANO
Ogni lingua ha il suo numero di fonemi, raccolti nel proprio inventario fonematico.
L’italiano standard ne conta 30 (28, incluse le approssimanti); l’inventario fonematico italiano pone molteplici
problemi: per trascrivere foneticamente, è chiaro che bisogna basarsi sempre sulla pronuncia e sulla fonia, non sulla
grafia di una parola. Sono concetti problematici:
• lo statuto delle consonanti lunghe →dette anche doppie o geminate; se prendiamo le due parole /’kane/ e
/’kan:e/ (=/’kanne/), notiamo che costituiscono una coppia minima per il fonema (n:).
Oltre a tutte le normali consonanti, dunque, occorre prendere in considerazione anche le consonanti lunghe
(in tutto 15), che possono dar luogo a coppie minime basate sulla lunghezza.
Dalle 15 sono escluse le 5 consonanti che non si trovano mai in posizione intervocalica, la /z/ che non si
trova mai geminata e tutti quei foni che di natura sono già lunghi se in posizione intervocalica ([ts], [dz], [ʃ],
[ɲ] e [ʎ]).
• le differenze regionali →ad esempio, le differenze tra /s/ e /z/, tra /ts/ e /dz/, tra /j/ e /i/ e tra /w/ e /u/; non
hanno uno statuto chiarissimo e variano molto spesso, contribuendo a creare un numero non alto di coppie
minime (rendimento funzionale): si pensi a /’kjɛ:ze/ e /’kjɛ:se/, ossia tra chiese plurale di chiesa e chiese 3°
singolare del passato remoto di chiedere, nel Settentrione non si avverte questa differenza (pronunciano
entrambe con la /z/, ma in toscano e nell’italiano standard sì.
• le differenze di apertura fra vocali medio-alte e medio-basse →tra /e~ɛ/ e /o~ɔ/; (pesca frutto con /ɛ/ e
pesca da pescare con /e/, botte come percosse con /ɔ/ e botte come contenitore di vino /o/).
• il raddoppiamento fonosintattico → allungamento della consonante iniziale di una parola quando questa è
preceduta da una delle seguenti parole:
o parole con l’accento sull’ultima sillaba,
o molti monosillabi,
o alcuni bisillabi: dove vai (/v/ geminata), a Roma (/r/ geminata).
A volte, tale fenomeno ha portato a coniare nuove parole come soprattutto, davvero, cosiddetto.
2.2.4. SILLABE E FATTI FOTOTATTICI
Un ruolo importante nella strutturazione della catena parlata (prima articolazione) è svolto dalle proprietà
fonotattiche dei foni e dalle combinazioni in cui i singoli foni possono disporsi.
Alla base di tutto questo, vi è la sillaba:
• essa è l’unità minima pronunciabile utilizzata per costituire la forma fonica delle parole. Ogni sillaba è dotata
di un nucleo, il più delle volte dato da una vocale (come accade in italiano), ma in altre lingue vi sono anche
delle consonanti che da sole possono costituire il nucleo della sillaba (in tal caso saranno dotate dal tratto
distintivo sillabico).
La parte che precede la vocale è detta attacco, mentre quella che la succede è la coda; secondo alcuni studi fonologici
basati sulla sillaba, l’unione del nucleo e della coda genera la rima, quindi diremo che ogni sillaba (indicata
graficamente con la lettera greca sigma) è formata da attacco e da rima, ossia da nucleo e coda.
La combinazione nucleo-coda determina il “peso” della sillaba:
• una sillaba senza coda sarà più leggera e sono dette “aperte”,
• mentre una con la coda o che abbia una vocale lunga*(vai giù) è più pesante ed è detta “chiusa”.
• Ogni sillaba è dunque dotata di una parte formata da foni più chiusi (le consonanti) e di una con foni
più aperti (le vocali): vi deve essere almeno una vocale e non di più, ma è possibile trovare anche delle
consonanti o approssimanti.
• Più consonanti contigue non possono disporsi nella sillaba liberamente, ma devono rispettare le cosiddette
restrizioni fonosintattiche: nell’italiano standard è possibile trovare le seguenti combinazioni (C è
consonante, V è vocale):
o CV (ma-no)
o V (a-pe)
o VC (al-to)

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o CCV (sti-le)
o CVC (can-to)
o CCCV (stra-no)
Vi sono anche altre combinazioni in altre lingue, ma non presenti in italiano, con strutture molto più complesse,
tipiche dell’inglese e del tedesco. Eccezioni sono quelle parole straniere entrate in uso comune nell'italiano o nomi
di sigle o abbreviazioni: sport è un tipo di parola in cui compare il gruppo sillabico CC. Per identificare i confini
delle sillabe esistono alcuni criteri fonologici:
• ad esempio, in italiano, se vi sono all’interno di una parola vi sono due consonanti contigue, esse hanno come
nucleo sillabico la vocale successiva solo se tale combinazione compare anche ad inizio di altre parole
(potremo dividere ma-gro perché esiste gre-co);
• se ciò non accade, tali consonanti andranno divise (tan-to).
• Riguardo le consonanti geminate, la prima costituirà la coda della sillaba con nucleo di vocale che precede,
l’altra l’attacco della seguente (gat-to). Ricorda per la trascrizione fonetica: se la parola ha come sillaba
tonica una sillaba aperta (terminante per vocale), quella vocale sarà lunga (‘ma:no) *. Per rappresentare la
scansione in sillabe nella trascrizione fonetica si usano i puntini (‘man.do).
Una combinazione interessante di fonemi sono il dittongo e il trittongo:
• il primo è formato da una combinazione di approssimante e vocale (pie-no),
• il secondo è costituito da due approssimanti e vocale (a-iuo-la, miei).
In base alla posizione dell’approssimante rispetto alla vocale, distinguiamo sia il dittongo ascendente e discendente,
sia la distinzione tra semiconsonante e semivocali nell’ambito delle approssimanti.
• dittongo ascendente →AV (pia-no), semiconsonante, perché il restringimento del canale è maggiore.
• dittongo discendente →VA (zai-no), semivocale, perché il restringimento del canale è minore.
2.3 FATTI PROSODICI (O SOPRASEGMENTALI)
Occorre ora prendere in considerazione alcuni fenomeni fonetici e fonologici rilevanti che caratterizzano la catena
parlata nella sua successione lineare: si parla di fatti prosodici o soprasegmentali.
2.3.1 ACCENTO
L’accento è una particolare intensità di pronuncia di una sillaba che fa in modo che in ogni parola plurisillabica o in
ogni gruppo di parole prodotto con un’unica emissione di voce (gruppo tonale), una sillaba, detta tonica, presenti una
prominenza fonica rispetto alle altre, dette atone.
In italiano l’accento è dinamico-intensivo, ossia dipende dalla forza con cui sono pronunciate le sillabe: la sillaba
tonica è tale grazie ad un aumento del volume della voce e ad una concomitante durata relativa maggiore. In altre
lingue, l’accento è musicale e dipende dall’altezza della sillaba.
L’accento prosodico non va confuso con l’accento grafico, che è presente visibilmente nelle parole ossitone o per
marcare la differenza (valore fonematico) tra monosillabi omofoni (dà-da, si- sì) o tra vocale aperta (accento grave)
e chiusa (accento acuto).
L’accento all’interno della parola può avere una posizione fissa (accade questo in alcune lingue, come il francese, il
turco, il polacco, lo swahili etc) o libera, come accade in italiano, ossia in base alle varie circostanze. In base alla
posizione dell’accento, le parole possono essere ossitona, piana/parossitona, sdrucciola, bisdrucciola, trisdrucciola;
quest’ultimo caso è tipico delle parole composte con pronomi clitici, atto che comporta l’esisitenza di un accento
secondario (fabbricamelo →fàbbricamelò).
La successione di sillabe toniche e atone nella catena parlata è detta ritmo, variante per ogni lingua; l’italiano è una
lingua con isocronismo sillabico: la distanza tra una sillaba atona e tonica è costante, mentre in altre lingue (come
l’inglese) c’è un isocronismo accentuale, che porta alla riduzione della durata delle sillabe atone per mantenere
costante quella delle sillabe toniche.
Questo fenomeno porta alla riduzione, se non alla cancellazione, delle vocali delle sillabe atone, come anche accade
in alcune varietà regionali di italiano. L’unità fondamentale del ritmo è il piede, ossia l’associazione di una sillaba
forte (tonica) e una sillaba debole (atona); il ritmo è trocaico quando la sillaba forte precede quella debole e giambico
viceversa.

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2.3.2 TONO E INTONAZIONE
Il tono è l’altezza relativa di pronuncia di una sillaba, dipendente dalla tensione delle corde vocali e dalla velocità
delle loro vibrazioni, che determinano la frequenza fondamentale, il principale parametro dei fenomeni di tonalità.
Molte lingue, dette tonali, hanno come carattere fondamentale con valore distintivo il tono: è il caso del cinese, dello
svedese, del serbo- croato (etc), ma non è ovviamente il caso dell’italiano, in cui una parola, se pronunciata con un
tono diverso o con un allungamento della sillaba (vedi dopo, alla lunghezza), non varia di significato, ma al massimo
viene enfatizzata.
L’intonazione →è l’andamento melodico con cui è pronunciato un gruppo tonale, o ritmico
(parte di una sequenza o catena parlata pronunciata con una sola emissione di voce). Le intonazioni hanno valore
pragmatico e permettono di capire se si tratta di un’affermazione, di un ordine, di una domanda (intonazione
ascendente), di un’esclamazione (intonazione discendente) o di un enunciato dichiarativo (intonazione neutra).
Fondamentali nella forma scritta sono alcuni segni di punteggiatura (punto esclamativo o interrogativo, puntini).
2.3.3 LUNGHEZZA
La lunghezza è l’estensione temporanea relativa con cui i foni e le sillabe sono prodotti; ogni fono può essere breve
o lungo.
Abbiamo visto che la quantità delle vocali o delle consonanti può avere valore distintivo: in italiano, le consonanti
possono avere funzione distintive quando per natura possono essere sia lunghe che brevi (cane, canne); le vocali
allungate non hanno funzione distintiva, ma tendono ad enfatizzare quella stessa parola per mezzo dell’allungamento
della sillaba tonica: non è un caso che molto spesso le vocali toniche in sillaba libera/aperta sono sempre
tendenzialmente lunghe.
Nella fonetica sperimentale su base acustica, ci sono alcuni apparecchi e programmi di analisi del suono che
permettono di fornire delle rappresentazioni dei caratteri fisici della catena parlata per mezzo di tracciati; uno di
questi è lo spettrogramma, che permette di rappresentare sull’asse delle x il tempo (la durata) della catena, sull’asse
delle y le frequenze con cui essa è pronunciata e con il grado di annerimento del tracciato la sua intensità.
CAPITOLO 3: MORFOLOGIA
3.1 PAROLE E MORFEMI
Studieremo le unità minime di prima articolazione e il modo in cui queste si combinano per dare luogo ai segni che
fungono da entità autonome della lingua, le parole.
Tale livello di analisi si chiama “morfologia” (dal greco morphè “forma” e logìa “studio”, la logos “discorso”)
Ambito d’azione della morfologia: la struttura della parola. Definizione di parola: la minima combinazione di
elementi minori dotati di significato, i morfemi, costruita spesso attorno a una base lessicale (cioè un morfema
recante significato referenziale), che funzioni come entità autonoma della lingua e possa quindi rappresentare
isolatamente un segno linguistico compiuto, o comparire come unità separabile costitutiva di un messaggio.
Criteri che portano ad una definizione più precisa nella definizione di parola:
A. Il fatto che all’interno della parola l’ordine dei morfemi che la costituiscono è rigido e fisso, inscindibile – i
morfemi non possono essere invertiti o cambiati di posizione, pena la distruzione della parola stessa
B. Il fatto che i confini di parola sono punti di pausa potenziale nel discorso
C. Il fatto che la parola è di solito separata nella scrittura (almeno nella scrittura moderna: fino al 700 era normale
trovare scritture continue)
D. Il fatto che foneticamente la pronuncia di una parola non è interrotta ed è caratterizzata da un unico accento
primario
Una parola è allo stesso tempo un’unità fonologica (data da una particolare combinazione di suoni), semantica (con
un particolare significato) e grammaticale (cioè morfosintattica):
• Definizioni basate su criteri ortografici: per cui è una parola ogni elemento che in un testo scritto compare
tra due separatori (spazi) sono applicabili soltanto a lingue che hanno una forma scritta. Oltretutto non
valgono per tutti i sistemi di scrittura. (I soli criteri ortografici non sono sempre sufficienti a decretare se si
tratta realmente di più parole oppure di una parola unica (ex. Pesce spada/ luna di miele).
• Sul piano fonologico esistono alcuni criteri che consentono di identificare i confini di una parola nella catena
parlata: uno di questi è dato dalla posizione fissa dell’accento, in lingue che presentano tale caratteristica.

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(Ex. Francese. Accento fisso sulla sillaba finale; Svedese: accento fisso sulla Sila a iniziale).
Ma non sarebbero distinguibili elementi non accentati nella catena parlata (Ex. Elle est petite, ha l’accento
sulla sillaba finale del gruppo risulterebbe costituire un’unica parola)
• Sul piano morfologico, una data combinazione di morfemi è individuata come una parola sulla base del
grado di coesione interna.
Per valutare la coesione tra morfemi, 4 criteri:
1) La non interrompibilità della combinazione: una parola non può essere liberatamene interrotta da
materiale morfologico
2) La posizione fissa dei singoli morfemi: l’ordine non può essere modificato
3) La mobilità della combinazione: una parola può assumere posizioni diverse all’interno di un enunciato, nei
limiti della relativa libertà o rigidità di ordine dei costituenti di una data lingua.
4) L’enunciabilità in isolamento della combinazione: una parola può costituire un enunciato da sola (senza
considerare i contesti metalinguistici)
Il confronto tra lingue mostra però una così ampia gamma di tipi diversi di parola; si potranno così riconoscere alcun
combinazioni di morfemi che rispettano tutti i criteri sopra menzionati e altre che ne rispettano soltanto alcuni; queste
potranno definirsi ancora parole ma in modo meno tipico.
Le unità costitutive della parola: i morfemi
Se proviamo a scomporre parole in pezzi più piccoli tali che vi sia ancora associato un significato proprio isolabile,
troviamo allora dei morfemi.
Ex. Dentale: scomponibile in “dent-“ con significato “organo della masticazione”, “al-“ col significato “relativo a”
ed “-e” col significato “singolare”.
La parola dentale è dunque formata da tre morfemi.
Ogni morfema può entrare come componente in altre parole portando lo stesso significato. Ex. Dente, dentario,
dentatura, dentista
Ex. “Al” stradale, mortale, globale; Ex. “E” gentile, feroce, studente.
Occorre ricordare che la semplice presenza di parti di significante identiche nelle parole non vuol dire che si
tratti di uno stesso morfema.
Ex. In “studente” non c’è affatto un morfema “dent”: la parola scompone in stud-ent-e. Il morfema deve ricomparire
come isolabile con lo stesso significato.
PROCEDIMENTO PRATICO PER SCOMPORRE UNA PAROLA IN MORFEMI:
• Data la parola, la si confronta via via con parole simili, dalla forma molto vicina, che contengono
presumibilmente uno per uno i morfemi che vogliamo individuare.
• Cominciare con la forma più vicina: dentali
• Il confronto ci permette di identificare, per sottrazione della parte uguale, il morfema -e col valore di
“singolare”
• Confrontando poi con “stradale” abbiamo che “al” e “dent” sono presumibilmente altri due morfemi
Tale procedimento viene chiamato “prova di commutazione”
DEFINIZIONE DI MORFEMA: morfema è dunque l’unità minima di prima articolazione, il più piccolo pezzo di
significante di una lingua portatore di un significato proprio, di un valore e una funzione precisi ed individuabili, e
riusabile come tale. Il significato di una parola, è dato dalla somma e combinazione dei significati dei singoli morfemi
che la compongono.
Morfema e monema: un termine sinonimo di morfema a volte usato nella linguistica è “monema”. I monemi vanno
distinti in “semantemi” quando sono elementi lessicali, e “morfemi” quando sono elementi grammaticali.
Definizione di morfo: il morfo è un morfema inteso come forma, prima e indipendentemente dalla sua analisi
funzionale e strutturale. Dovremmo ad esempio dire che “il morfema del singolare è realizzato dal morfo -e”.
Definizione di allomorfia: l’allomorfo è la variante formale di un morfema, che realizza lo stesso significato di
un altro morfo equifunzionale con cui è in distribuzione complementare.
(in parole più semplici) È ciascuna delle forme diverse in cui si può presentar uno stesso morfema, che sia suscettibile
di comparire sotto forme parzialmente diverse.

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Possiamo dire si tratti di uno stesso morfema se: l’elemento individuato ha sempre lo stesso significato e si trova
nella medesima posizione nella struttura della parola.
Esempi di allomorfia: Quello che troviamo nel verbo “venire”, appare in italiano nelle cinque forme ven-; venn-;
veng-; vien-; ver-: ciascuna di esse è un allomorfo dello tesso morfema. Diremo allora che il morfema ven- si
presenta in cinque allomorfi diversi.
Le cause dei fenomeni di allomorfia: sono solitamente da cercare nella diacronia (trasformazioni avvenute nella
forma delle parole e dei morfemi spesso per ragioni fonetiche lungo l’asse del tempo) O anche, in sincronia, a
modificazioni fonetiche derivanti dall’incontro di determinanti foni, o più tecnicamente da “fonemi
fonosintettici”.“il-“ in “illecito” sono allomorfi dello stesso morfema, il prefisso con valore di negazione in-:
• davanti a una vocale la (n) finale del prefisso rimane invariata, mentre
• davanti a consonanti laterali, vibranti e nasali la (n) si assimila alla consonante iniziale della parola a
cui il prefisso si applica.
(Ex. In- + lecito dà illecito e non inlecito)
Il fenomeno del suppletivismo: Si hanno anche casi in cui un morfema lessicale in certe parole derivate viene
sostituito da un morfema dalla forma totalmente diversa ma ovviamente con lo stesso significato:
• Per ex. nel nome “acqua” e nell’aggettivo “idrico” troviamo che il morfema lessicale per “acqua” si
manifesta in due forme completamente diverse, acqu- e idr-, l’una proveniente dal latino e l’altra dal greco.
A tale fenomeno si da il nome di “suppletivismo”
3. 2 TIPI DI MORFEMI
I morfemi e la loro combinazione in parole presentano una fenomelogia molto vasta e complicata. Esistono due punti
di vista principali per individuare differenti tipi di morfemi:
• Classificazione funzionale: in base alla funzione svolta, al tipo di valore che i morfemi recano nel
contribuire al significato elle parole
• Classificazione posizionale: basata sulla posizione che i morfemi assumono all’interno della parola e sul
modo in cui essi contribuiscono alla sua struttura
3.2.1 TIPI FUNZIONALI DI MORFEMI
Nella classificazione funzionale la prima distinzione da fare è tra morfemi “lessicali” e “grammaticali”.
Morfema lessicale: Stanno nel lessico, nel vocabolario di una lingua e costituiscono una classe aperta, continuamente
arricchibile di nuovi elementi in maniera non predicibile.
Morfema grammaticale: stanno nella grammatica a e costituiscono una classe chiusa, non suscettibile ad accogliere
nuove entità.
Si suddividono in “derivazionali”: formano una classe chiusa e derivano parole da altre parole e “flessionali”:
formano una classe chiusa e danno luogo alle diverse forme di una parola
La differenza tra i valori dei morfemi lessicali e dei morfemi grammaticali si vede bene. Per ex. Nella parola “breco”,
inesistente in italiano e di cui non sappiamo il significato; sappiamo che “brechi” ne sarebbe il plurale, che “brecoso”
vorrebbe dire “dotato di brecoso” ecc. Sappiamo sempre qual è il contributo di significato di un morfema
grammaticale aggiunto ad un morfema lessicale.
Le parole funzionali: son sempre la distinzione fra morfemi lessicali e morfemi grammaticali è del tutto chiara e
applicabile senza problemi:
• in italiano è questo il caso di molte parole funzionali come gli articoli, pronomi personali, preposizioni,
congiunzioni che formano classi grammaticali chiuse ma che difficilmente possono definirsi morfemi
grammaticali a pieno titolo. (alcuni sono scomponibili in altri morfemi come l’articolo uno (un-o) o lo (l-o))
• Una distinzione che si fa è tra morfemi liberi (lessicali) e morfemi legati (grammaticali): i secondi non possono
mai comparire in isolamento, ma solo in combinazione, legati con altri morfemi.
LA DERIVAZIONE: dà luogo a parole regolandone i processi di formazione. Agisce prima della flessione: prima
costruiamo parole, a cui poi applichiamo le dovute flessioni.
In lingue come l’italiano, la forma di parola corrispondente alla radice lessicale nuda non esiste (ex. Can-). Esistono
sempre le forme di parola generate dalla flessione (can-e,can-i). In lingue come l’inglese, non essendovi nei sostantivi
un morfema di singolare ma solo uno di plurale, al singolare dog costituito dalla radice nuda si oppone al plurale
dog-s.
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LA FLESSIONE: dà luogo a forme di una parola regolandone il modo in cui si attualizzano nelle frasi. Mentre la
derivazione non è obbligatoria, la flessione è obbligatoria, cioè si applica invariabilmente a qualunque base lessicale
ad essa soggetta.
3.2.2 TIPI POSIZIONALI DI MORFEMI
Dal punto di vista della posizione, i morfemi grammaticali si suddividono in classi diverse a seconda della
collocazione che assumono rispetto al morfema lessicale o radice, che costituisce la “testa” della parola e fa da
perno della costruzione.
Quando siano considerati dal punto di vista posizionale, i morfemi grammaticali possono essere globalmente
chiamati “affissi”: un affisso è ogni morfema che si combini con una radice. Esistono diversi tipi di affissi.
• Prefissi: affissi che nella struttura della parola stanno prima della radice
• Suffissi: quelli che stanno dopo la radice
• Desinenze: suffissi con valore flessionale
• Infissi: affissi inseriti dentro la radice (in italiano non esistono)
• Circonfissi: affissi che sono formati da due parti, una che sta prima della radice e l’altra che sta dopo la
radice
• Transfissi: affissi che si incastrano alternativamente dentro la radice, dando quindi luogo a discontinuità sia
dell’affisso che della radice.
La trascrizione morfematica: la forma dei morfemi si può scrivere fra graffe indicando nella riga sottostante, con
opportune sigle e abbreviazioni in maiuscoletto il loro significato e valore.
3.2.3 ALTRI TIPI DI MORFEMI
Morfemi sostitutivi: morfemi i cui morfi non sono isolabili segmentalmente. Si manifestano con la sostituzione di
un fono ad un altro fono. (Ex. “Foot”sing. “Feet” plurale) Morfema zero: dove una distinzione obbligatoriamente
marcata nella grammatica di una certa lingua viene eccezionalmente a non essere rappresentata in alcun modo nel
significante. Un esempio classico è quello dei plurali invariabili. (Sheep SG/sheep PL pecora/pecore).
Si usa dunque introdurre il morfo 0. Un morfo 0 si ha in nomi della terza declinazione in latino, in cui ogni caso ha
una sua desinenza ma il nominativo non è marcato da una desinenza, coincide con il “tema nudo”.
Morfemi soprasegmentali: un determinato valore morfologico si manifesta attraverso un tratto soprasegmentale
come la posizione dell’accento. (Ex. Rècord “registrazione” e recòrd “registrare”).
In ogni caso certi valori morfologici in alcune lingue vengono affidati a processi, non riducibili a specifici morfemi
segmentali: per esempio la “reduplicazione” che consiste nella ripetizione della radice lessicale (o di una sua parte).
In indonesiano: “anak” bambino “anak anak” bambini.
Morfemi cumulativi: spesso morfemi grammaticali recano contemporaneamente più di un significato o valore: ex.
“Nuov-e” la -e vale come femminile e plurale.
Amalgama: dato dalla fusione di due morfemi in maniera tale che nel morfema risultante non è più possibile
distinguere i due morfemi all’origine della fusione.
3.3 DERIVAZIONE E FORMAZIONE DELLE PAROLE
I morfemi derivazionali mutano il significato della base cui si applicano, aggiungendo nuova informazione
rilevante, integrandolo, modificando la classe di appartenenza della parola e la sua funzione semantica.
Ex. Nella parola derivata “dormitorio” viene aggiunto al significato della radice lessicale di “dormire” il significato
di “luogo in cui si fa” la cosa designata dalla radice lessicale.
In “dormicchiare” viene aggiunta al significato della stessa radice lessicale la sfumatura di “fare la cosa” in maniera
parziale e discontinua.
Le famiglie di parole: i morfemi derivazionali svolgono una funzione assai importante, quella di permettere la
formazione di un numero teoricamente infinito di parole a partire da una certa base lessicale.
In ogni lingua esiste una lista finita i moduli di derivazione che danno luogo a famiglie di parole.
Una famiglia di parole è formata da tutte le parole derivate da una stessa radice lessicale.
Ex. Da “socio” > sociale > socializzare > socializzabile > socializzabilità.
La vocale tematica: la vocale iniziale della desinenza dell’infinito dei verbi

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Prefissoidi: quale è la natura dei morfemi che costituiscono la parola “sociologia”? A prima vista, sembra che ci
siano due morfemi lessicali, soci-, il capostipite della famiglia lessicale in causa, e -log-(i-a), col valore di “studio
di” (come in geologia, astrologia).
Occorre notare che sociologia non vuol dire “studio dei soci” ma “studio della società”: socio- è il morfema in gioco
e non soci- che sta per società e rappresenta quindi una radice lessicale che si comporta come un prefisso attaccandosi
davanti a un’altra radice lessicale per modificarne il significato.
Suffissoidi: morfemi con significato lessicale, come le radici, ma che si comportano come suffissi nella formazione
delle parole
Prefissoidi e suffissoidi per lo più provengono da parole delle lingue classiche, specie dal greco
• che funzionano in sincronia come affissi, morfemi derivazionali
• ma recano il significato tipico dei morfemi lessicali ereditato dalle parole piene da cui sono tratti, vengono
anche chiamati nel loro complesso “semi parole”.
• Altro termine utilizzato per designare questi formativi di parola è “confissi”.
Un caso interessante è il prefissoide auto-:
Dal greco “autos” “se stesso” si sono formate parole in cui tale prefissoide vale, ovviamente, “da se stesso”:
autonomia, autocritica ecc automobile “veicolo che si muove da se”. Questa ultima parola, frequentemente utilizzata,
se ne è fatta l’abbreviazione “auto” che a sua volta può dare luogo a nuove formazioni contenenti l’elemento auto-
col significato “relativo alle automobili”: autostrada, autonoleggi.
Le parole composte: parole che si sono agganciate fra loro a formare un’entità unica in cui i due membri sono
perfettamente riconoscibili e recano il loro significato lessicale normale. Ex. Nazionalsocialismo (nazionalismo
sociale). Procedimento particolarmente comune in tedesco.
Unita lessicali plurilessematiche: costituite da sintagmi fissi che rappresentano un’unica entità di significato: gatto
selvatico, gatto delle nevi. Spesso tali formazioni hanno valore idiomatico: ex. essere al verde. Vi sono anche verbi
sintagmatici: andare via, buttare giù, o binomi coordinati: sale e pepe, anima e corpo.
BOX - LE PAROLE COMPOSTE IN ITALIANO
Come la derivazione anche la composizione permette la formazione di parole nuove a partire da una certa radice
lessicale (da cassa, ex. Cassaforte, cassapanca).
• Ciò che distingue la derivazione dalla composizione è che la parola derivata contiene una sola radice
lessicale;
• una parola composta contiene più radici lessicali ciascuna delle quali suscettibile di comparire come parola
autonoma (i cosiddetti composti neoclassici)
In italiano la maggior parte delle parole composte appartiene alla classe di parola dei nomi.
• Nella gran parte dei casi, la composizione di due parole di qualsiasi classe che partecipa alla composizione
(nome, verbo, aggettivo, preposizione, avverbio) dà un nome.
• Si ha invece un aggettivo quando entrambe le parole della composizione sono aggettivi.
È centrale qui la nozione di testa di un composto:
• Il costituente che funziona da testa assegna al composto la propria classe di parola e gli conferisce le
proprie caratteristiche di significato (una camera oscura è una “camera”), oltre ai tratti della flessione
(camera oscura è di genere femminile perchè camera è femminile)
Per quanto riguarda la posizione della testa, i processi di formazione di parola più produttivi in italiano generano
composti con la testa a sinistra.
I composti con testa a destra invece, sono tendenzialmente di origine latina oppure frutto del contatto di altre lingue
(ex. Ferrovia, inglese railway)
• Sono possibili anche composti senza testa. È questo il caso di “bagnasciuga”. Se applichiamo il test “è un”,
non è possibile riconoscere una testa categoriale o semantica. (non è né un “bagna” ne un “asciuga”).
I composti con una testa: endocentrici
Composti senza testa: esocentrici.
Sigle o acronimi: sono formate in generale dalle lettere iniziali delle parole piene che costituiscono un’unità
plurilessematica, la cui pronuncia compitata è promossa a parola autonoma. Ex. FS > ferrovie dello stato
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Parole macedonia: l’unione con accorciamento dà luogo a quelle che sono state chiamate “parole macedonia”: ex.
cantautore (cantante e autore).
Il processo di suffissazione: in italiano, il più importante e produttivo dei procedimenti di formazione di parola è la
suffissazione.
Fra i suffissi derivazionali più comuni ricordiamo:
• -Zion- (con i suoi allomorfi -azion-,-izion-,-Union-) e -ment- (con allomorfi -imene-, -utenti) che formano nomi
di azione o processo a partire da basi verbali, come in “spedizione”, “spegnimento”;
• -ier-, -a(r)i- e -tor- (e i suoi allomorfi) che formano nomi di agente o di mestiere a partire da basi nominali o
verbali, come in “barbiere, fornaio, giocatore”;
• -ità, che forma nomi astratti a partire da basi aggettivali, come in “abilità”;
• -abil-, -os-, -al-, -an-, -evol-, -es-, -ic-, -ist-, che formano aggettivi a partire da verbi o da nomi; -Izz-, che forma
verbi a partire da nomi o aggettivi.
Spesso i suffissi derivazionali vengono designati, per semplicità, comprendendo in essi anche la desinenza,
obbligatoria in italiano, e tralasciando la vocale tematica: per cui si dice più spesso, i suffissi -zione, -mento, -tore.
Il processo di prefissazione: è peraltro in italiano assai produttiva la prefissazione. Al contrario di quello che avviene
di solito con la suffissazione, non muta in italiano la classe grammaticale di appartenenza alla parola.
Fra i prefissi più comuni, vanno ricordati:
• In- (con vari allomorfi causati dall’adattamento fonetico della consonante nasale di “in” con la consonante
iniziale della parola a cui viene unit il prefisso: ex. In+legale= illegale, con allomorfo il-)
• S- e dis- con valore di negazione Ad- con valore di “verso”
• Con- con valore di “insieme”
• A- con valore di “senza”
• Ri- con valore di “di nuovo”
• Anti- con valore di “anteriorità”o di “contro” (due morfemi diversi, uno proveniente dal latino, l’altro dal greco)
L’alterazione: con i suffissi alterativi si creano parole che aggiungono al significato della base lessicale un valore
generalmente valutativo e associato a particolari contesti pragmatici. Può essere “diminutivo” (ex. Gattino,
finestrella) o “accrescitivo” (ex. Donnone, librone) o “peggiorativo” (ex. Robaccia).
Verbi parasintetici: verbi formati con prefissazione e suffissazione consistente nella desinenza di una delle classi di
coniugazione (-are, -ere,-ire: abbellire, inaridire).
La conversione: Ovvero la presenza di coppie di parole, un verbo e un nome o un aggettivo, aventi la stessa radice
lessicale ed entrambi privi di suffisso, fra i quali quindi in termini meramente derivazionali non è possibile stabilire
quale sia la parola primitiva e quale la parola derivata: lavoro, lavorare; stanco, stancare.
Derivazione zero: quando la coppia è costituita da un verbo e da un nome è spesso da assumere che la base sia il
verbo, in quanto il nome designa l’atto indicato dal verbo (ex. Cambiare, cambio; giocare, gioco)
Invece quando la coppia è costituita da un verbo e da un aggettivo si può intendere che il termine primitivo sia
l’aggettivo, in quanto il verbo indica l’azione di far assumere lo stato o la qualità denotata dall’aggettivo: calmo,
calmare.
Tipi morfologici di parole (riassumendo):
• Parole basiche o primitive (ex. Mano)
• Parole alterate (ex.manona)
• Parole derivate (suffissante: maniglia; prefissate: rimaneggiare),
• Parole composte (corrimano)
• Unita plurilessematiche (mano morta)
3.4 FLESSIONE E CATEGORIE GRAMMATICALI
La funzione dei morfemi flessionali:
• Non modificano il significato della radice lessicale su cui operano: la attualizzano nel contesto di
enunciazione, specificandone la concretizzazione in quel particolare contesto. (Ex. “Mangiavamo” dice che,
dell’azione designata dalla radice lessicale, che era attualizzata nel passato in maniera continuativa, e che
erano più persone, compresa quella che parla.).

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• I morfemi flessionali intervengono solamente nelle parole che possono assumere tali specificazioni: operano
sulle classi “variabili” di parole (in italiano, nomi, verbi, aggettivi, articoli ed in parte pronomi), suscettibili
di accogliere la flessione.
• I morfemi flessionali realizzano valori delle categorie grammaticali, sono la marca di quel valore. Le
categorie grammaticali a loro volta danno espressione ad alcuni significati fondamentali, più comuni e
frequenti, di portata generale che diventano categorici per una determinata lingua e che devono essere
obbligatoriamente espressi.
Le categorie grammaticali flessionali
In generale si distinguono le categorie flessionali in due grandi classi: quelle che operano un nomi e quelle che
operano sui verbi. In italiano, la morfologia nominale ha come categorie fondamentali il genere e il numero.
In italiano la categoria del genere si esprime coi due morfemi del “maschile” e “femminile”; in altre lingue, com’è
noto il genere può essere marcato per più valori: ex. Maschile, femminile, neutro.
Il numero: la categoria del numero è marcata in italiano con i due morfemi del singolare e del plurale. (Alcuni nomi
hanno solo la forma del plurale). Anche qui, altre lingue possono avere più valori.
Il caso: svolge l’importante funzione di mettere in relazione la forma della parola con la funzione sintattica che
essa ricopre nella frase.
In italiano esistono resti fossili di flessione casuale nel sistema dei pronomi personali (ex. “Tu” e “te” sono distinti
per essere l’uno soggetto al caso nominativo, e l’altro oggetto al caso accusativo). Nelle lingue che possiedono un
sistema casuale, il numero dei casi può variare. (Ex. Latino: sei casi; greco classico: 5 classi)
Reggenza: il processo attraverso il quale un verbo assegna il caso al suo complemento viene
chiamato “reggenza”: si dice cosi per es. che in latino il verbo “utor” regge l’ablativo. Nelle lingue che hanno casi,
anche le preposizioni possono assegnare il caso (in latino ad esempio la preposizione “cum” regge anch’essa il
caso ablativo”.
I gradi dell’aggettivo: in molte lingue gli aggettivi possono poi essere marcati per “grado”, ovvero comparativo,
superlativo.
L’italiano affida però alla flessione soltanto l’espressione del superlativo, ammesso che accettiamo che “bellissimo”
sia una delle forme della parola “bello” e non un’altra parola.
(In latino per es. si esprime con mezzi flessionali anche il comparativo di maggioranza).
I comparativi di maggioranza, di minoranza e uguaglianza sono realizzati con mezzi lessicali.
Altre lingue marcano poi con morfemi appositi sui nomi la “definitezza” (distinzione tra “la libreria” al nominativo
singolare definito e “una libreria” al nominativo singolare indefinito) o il “possesso” (distinzione tra “mio fratello”
e “tuo fratello”) che vanno considerate dunque anch’esse categorie grammaticali.
LE CATEGORIE DEL VERBO
La morfologia verbale ha cinque categorie flessionali principali:
• Modo: esprime la “modalità” nella quale il parlante si pone nei confronti del contenuto di quanto vien detto e
della realtà della scena o evento rappresentati nella frase: per es. indicativo, mangio vs. Condizionale, mangerei
• Tempo: colloca nel tempo assoluto e relativo quanto viene detto: per es. presente, vedo, vs futuro, vedrò, vs.
Passato, ho visto/vidi.
• Aspetto: riguarda la maniera in cui vengono osservati e presentati in relazione al loro svolgimento l’azione o
l’evento o il processo espressi dal verbo: per es. “perfettivo” vs. “Imperfettivo”, che oppongono l’azione vista
come compiuta all’azione vista come in svolgimento. In italiano tale opposizione è resa da passato prossimo, ho
visto vs. Imperfetto, vedevo.
• L’azionalità: che riguarda il modo oggettivo in cui si svolge nello sviluppo temporale l’azione o l’evento o il
processo espressi dal verbo: una distinzione importante in questo caso è quella fra verbi “telici” (denotano
un’azione dotato di un punto culminante, che ha una fine, un momento in cui si conclude: verbi di compimento,
come “invecchiare” e verbi di realizzazione “raggiungere”) e verbi “atelici” (senza un momento finale
conclusivo: verbi di stato, come “sapere”, e verbi di attività come “camminare”.
• Diatesi: esprime il rapporto in cui viene rappresentata l’azione o l’evento rispetto ai partecipanti e in particolare
rispetto al soggetto (attivo vs. Passivo).
• Persona: indica chi compie l’azione o più generale riferisce e collega la forma verbale al suo soggetto e si
manifesta con morfemi dietetici o di accordo.

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BOX 3.4 – TEMPO E ASPETTO
Il tempo come categoria grammaticale, localizza l’evento espresso dal verbo nel fluire del tempo fisico e lo
colloca in una rete di relazioni temporali.
Fondamentale è la relazione che si istituisce tra il “momento dell’avvenimento” (MA), ossia il momento in cui
l’evento si verifica, e il “momento dell’enunciazione” (ME), vale a dire il momento in cui l’enunciato viene prodotto
dal parlante.
In un tempo presente: MA coinciderà con ME In un tempo passato: MA precederà ME In un tempo futuro: MA
seguirà ME
(Occorrerebbe inoltre tener conto del momento di riferimento, MR, rispetto al MA)
L’aspetto, considera l’evento espresso dal verbo non sul piano della collocazione temporale ma secondo il punto di
vista che il parlante assume nei riguardi dell’evento stesso, ossia il modo in cui l’evento viene o osservato.
I due valori principali che può assumere l’aspetto verbale sono imperfettivo e perfettivo. L’aspetto imperfettivo
considera un evento da una prospettiva interna al suo svolgimento, senza fornire indicazioni circa la sua eventuale
prosecuzione. Può avere tre accezioni:
• Progressiva: quando un evento iniziato precedentemente è colto in un singolo momento del suo svolgimento
e si verifica in una sola occasione (quando sei entrato ascoltavo la radio)
• Continua, quando un evento è colto nella sua durata, tipicamente rispetto a un certo periodo di tempo e si
verifica in una sola occasione (mentre leggevi ascoltavi la radio)
• Abituale, quando un evento è colto nella sua durata e si ripete con consuetudine (ogni sera ascoltavo la
radio)
L’aspetto perfettivo considera invece un evento da una prospettiva esterna al suo svolgimento, nella sua globalità,
visualizzandone il momento finale (ascoltai la radio).
Si vedano i seguenti esempi: A. Quando arrivò la notizia, Ivo telefonò al maresciallo; B. Quando arrivò la notizia,
Ivo telefonava al maresciallo.
L’evento descritto dal verbo si colloca in un tempo passato; ciò che cambia è l’aspetto verbale: il verbo della frase
principale ha aspetto perfettivo in A. e imperfettivo progressivo negli enunciati B.
Le parti del discorso o categorie lessicali: classificano le parole raggruppandole in classi a seconda della natura del
loro significato, del loro comportamento nel discorso e delle loro caratteristiche flessionali e funzionali.
Nella grammatica tradizionale le parti del discorso sono nove:
• nome/sostantivo
• Aggettivo
• Verbo
• Pronome
• Articolo
• Preposizione
• Congiunzione
• Avverbio
• Interiezione
L’assegnazione delle parole a categorie o classi lessicali diverse avviene in base a tre criteri fondamentali:
• Un criterio semantico, il tipo di significato
• Un criterio morfologico, dato dal comportamento delle parole in relazione alle categorie morfologiche
presenti in una lingua
• Un criterio sintattico, dato dal contesto in cui le parole possono comparire, dalla loro collocazione
all’interno dei sintagmi e delle frasi e dalle funzioni sintattiche che esse possono svolgere
L’insieme dei tre criteri consente per lo più di stabilire l’appartenenza di ogni parola. Una determinata classe; ma
non mancano le eccezioni.
ex. Le preposizioni articolate del, degli ecc. possono funzionare come preposizioni (l’albero del giardino) sia come
articoli partitivi (prendo del pane).

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CAPITOLO 4: SINTASSI
4.1 ANALISI IN COSTITUENTI
Il termine sintassi ha un’origine antica, si trova già presso i grammatici greci dell’epoca alessandrina.
Dal punto di vista etimologico significa “mettere insieme”, ovvero prendere delle unità, combinarle per formare
unità diverse più grandi.
PRECISAZIONI:
• Questi elementi non possono essere combinati tra loro in modo causale, devono rispettare le regole vigenti
• Quando possiamo scegliere degli elementi, combinarli e formare unità più grandi, è esito della proprietà
composizionale della lingua: questo effetto combinatorio non è esclusivo della specie umane ma anche gli
uccelli come con i ritornelli.
Già Apollonio Greco discolo, in un suo trattato mette questo elemento come oggetto di riflessione.
Ha avuto successo negli anni 70, quando Ciomsky pubblica un famoso trattato creando il modello della grammatica
generativa trasformazionale. (Oggi c’è ancora un gruppo molto fecondo di generativisti nel mondo, sfiancato dalle
forti critiche.)
La sintassi è il livello di analisi che si occupa della struttura delle frasi.
L’oggetto di studio: come si combinano fra loro le parole e come sono organizzate in frasi. La frase è il costrutto
che fa da unità di misura per la sintassi.
DEF. DI FRASE. Entità linguistica che funziona come unità comunicativa; costituisce un messaggio o blocco
comunicativo autosufficiente nel discorso.
• Contiene una predicazione: un’affermazione riguardo qualcosa, l’assegnazione di una proprietà ad una
variabile o di una relazione fra più variabili.
• In valore di predicare è affidato in genere ai verbi: ogni verbo autonomo coincide con una frase.
Frasi nominali: frasi senza verbo, funzionano come messaggi autosufficienti, contengono una predicazione. (Ex.
Buona, questa torta). Per identificare il numero delle frasi in un testo è necessario contare non i verbi ma le
predicazioni.
Differenza fra frase e preposizione: nel parlato è difficile individuare la frase al contrario dello scritto dove è
evidenziato dal punto fermo.
Secondo Gloomfille la frase è un’unità linguistica indipendente che gode di un senso autonomo.
Con frase si designano anche costrutti dall’estensione più ampia e complessa di una frase semplice costruito da
un’unica predicazione: questa si chiama “proposizione”(: la frase semplice)
Per analizzare la struttura delle frasi è necessario scomporre i diversi “COSTITUENTI” della frase. Tale analisi fu
introdotta dallo strutturalismo americano degli anni 30 e 40 del 900 con il nome di “analisi in costituenti immediati”
Il criterio mediante il quale attuare la scomposizione ed individuare i costituenti è quello della prova di
commutazione.
Data una frase, il primo taglio si attua confrontando la frase con un’altra più semplice dalla stessa struttura.
Ex. FRASE 1 – “mio cugino ha comprato una macchina nuova”
FRASE 2 – “Gianni legge”: i suoi costituenti immediati sono “Gianni” e “legge”
Si ricava dunque che la FRASE 1 ha come costituenti immediati “mio cugino” (che svolge lo stesso ruolo del
costituente “Gianni”) e “ha comprato una macchina nuova” (che ha lo stesso ruolo di “legge”).
Lo stesso ragionamento si ripete con “mio cugino” confrontata con “il gatto”: vengono individuati i costituenti “mio”
e “cugino” (arrivando al termine dell’analisi)
Confrontando poi “ha comprato una macchina nuova” con “legge un libro”: individuiamo “ha comprato”(con lo
stesso ruolo di “legge”) e “una macchina nuova” (con lo stesso ruolo di “un libro”)
Esistono diversi modi per rappresentate schematicamente l’analisi di una frase nei suoi costituenti:
• Diagrammi o grafi ad albero
• Boxes (scatole o caselle)
• Parentesi

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• Parentesi indicizzate o etichettate
Il metodo di rappresentazione più diffuso è quello degli alberi etichettati, che
meglio permette di rendere visivamente la struttura della frase sia nel suo
sviluppo lineare che nei rapporti gerarchici tra costituenti.
Un albero: grafo costituito da nodi da cui si dipartono i rami, ogni nodo
rappresenta un sottolivello di analisi della sintassi e reca il simbolo della
categoria a cui appartiene il costituente di quel sottolivello. Un albero del
genere è “l’indicatore sintagmatico” della frase.
Simboli di categoria nei grafi ad albero
• F = frase
• SN = sintagma nominale
• SV = sintagma verbale
• N = nome
• V = verbo
• Art = articolo
• Agg = aggettivo
• Poss = possessivo
• Det = determinante (sono tutti gli elementi che occorrono davanti a un nome e svolgono la funzione di
determinare il referente da esso indicato. Ex. In “il cugino”: il primo elemento ha appunto questo ruolo di
identificazione Aus = ausiliare
• PP = participio passato
Ogni nodo con relativo simbolo di categoria,
“domina” i nodi dei rami che si dipartono da esso:
F domina SN e SV; SN domina Art e N, ecc.
La parentesizzazione: per rappresentare la struttura
interna di costrutti non molto complessi.
Ogni parentesi aperta e chiusa corrisponde a un
sottolivello di analisi sintattica. Le parentesi
possono essere anche numerate o etichettate con gli
opportuni simboli di categoria.
(F(SN Gianni)(SV corre))
Il SN dominato direttamente dal nodo f è la posizione tipica del soggetto della frase. Questa posizione può anche non
essere riempita da materiale linguistico; va in ogni caso rappresentata nella struttura
dell’albero. Ex. “Corro”
Ambiguità: vi è la possibilità di disambiguazione di frasi o costrutti che
all’apparenza sembrano identici ma hanno una duplice interpretazione
semantica.
Un esempio classico è “sono invitate tutte le ragazze e le signore col cappellino”
Che possono essere interpretate.
A. ((((sono invitate)))(((tutte))((le ragazze) e (le signore col cappellino))))
B. ((((Sono invitate)))(((tutte))((le ragazze e (le signore))((col cappellino))))
4.2 SINTAGMI
L’analisi in costituenti immediati individua tre diversi sottolivello di analisi sintattica
• Sottolivello della frase
• Dei sintagmi
• Delle singole entrate lessicali (parole)
Il più importante di questi sottolivelli, per quanto riguarda il funzionamento della sintassi, è il livello dei sintagmi.
Un sintagma è definibile come la minima combinazione di parole (costituita da almeno una parola) che funzioni
come un’unità della struttura frasale.
I sintagmi sono costituiti attorno ad una “testa”, sulla cui base vengono classificati e da cui prendono il nome.
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“Testa” è la classe di parole che rappresenta il minimo elemento che da solo possa costituire sintagma. Se si elimina
l’elemento che fa da testa e che determina il tipo di sintagma, il
gruppo di parole viene a perdere la natura di sintagma di quel tipo.
Ex. Nel SN “la copertina blu” se eliminiamo “la” o “blu” abbiamo ancora un SN; ma se eliminiamo “copertina”
rimane “la blu” che non è un SN.
UN SINTAGMA NOMINALE è quindi costruito attorno a un nome:
• N è la testa di SN
• I PRO (pronomi) possono sostituire in tutto un nome, posso dunque essere la testa di un sintagma nominale.
• Il sintagma nominale minimo è un N (o PRO)
Un sintagma nominale massimo potrebbe avere la seguente struttura lineare: (Quant) (Det) (Poss) (Num) (Agg) N
(Agg)
Tutti Quei Miei Quattro bei polli grassi
Quant = quantificatore
Num = numerale
Le parentesi indicano gli elementi non necessari per identificare il sintagma
La testa di SV è V
La testa di SPrep è Prep
Per riconoscere quali parole facciano gruppo tra di loro, e quindi costituiscano un sintagma, è possibile fare
riferimento ad alcuni “test di costituenza”
1)MOBILITÀ: un gruppo di parole rappresenta un sintagma se le parole che lo costituiscono si muovono
congiuntamente all’interno di una frase.
Ex. “La scorsa settimana mio cugino ha comprato una macchina nuova”
Possiamo muovere il gruppo di parole “la scorsa settimana” dalla posizione iniziale a finale = mio cugino ha comprato
una macchina nuova la scorsa settimana
Il gruppo “la scorsa settimana” è perciò un sintagma nominale. Se provassimo a muovere separatamente o la testa
“settimana” o i suoi modificatori “la scorsa” otterremmo frasi agrammaticali:
“La scorsa mio cugino ha comprato una macchina nuova settimana”
Il criterio, va detto, rimane valido anche quando lo spostamento modifichi il significato della frase; si veda ad
esempio: Mio cugino ha denunciato il vicino di casa > il vicino di casa ha denunciato mio cugino
2) SCISSIONE: un gruppo di parole rappresenta un sintagma se può essere separato dal resto della proposizione
costruendo una struttura chiamata frase scissa.
A partire dalla frase 1, possiamo isolare possiamo isolare il gruppo di parole “mio cugino”, che rappresenta il
sintagma nominale, ma non le singole parole che lo costituiscono.
• È mio cugino che ha comprato una macchina nuova la scorsa settimana
• È mio che cugino ha comprato una macchina nuova la scorsa settimana
• È cugino che mio ha comprato una macchina nuova la scorsa settimana
3) ENUNCIABILITA’ IN ISOLAMENTO: un gruppo di parole rappresenta un sintagma se da solo può costituire
un enunciato, cioè se può essere pronunciato in isolamento.
4) COORDINABILITÀ:s intagmi diversi sono dello stesso tipo se possono essere coordinati
I sottocostituenti dei sintagmi: ovvero gli elementi che possono attaccarsi alla testa; Dipendono da questa; possono
dare luogo a sintagmi anche assai complessi.

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4.3 FUNZIONI SINTATTICHE, STRUTTURAZIONE DELLE FRASI E ORDINE DEI COSTITUENTI
4.3.1 FUNZIONI SINTATTICHE
Ai sintagmi vengono assegnati diversi valori. Il modo in cui i diversi costituenti si combinano nel dare luogo alle
frasi è infatti governato da principi piuttosto complessi, che interagiscono fra di loro nel determinare l’ordine in cui
si susseguono gli elementi e la gerarchia dei loro rapporti e a conferire alle frasi la struttura sintattica di superficie
con cui queste ci appaiono.
Occorre distinguere chiaramente a questo proposito tre ordini o classi diversi di principi, riconducibili a piani
diversi che intervengono nel determinare il funzionamento della sintassi.
1) FUNZIONI SINTATTICHE: riguardano il ruolo che i sintagmi assumono nella struttura sintattica della frase,
in cui, essenzialmente, i sintagmi nominali possono valere da soggetto o (complemento) oggetto, i sintagmi
preposizionali possono valere da oggetto indiretto o da complemento, i sintagmi verbali possono valere da
predicato.
• SOGGETTO: chi compie l’azione
• PREDICATO VERBALE: l’azione
• OGGETTO: chi subisce l’azione
• COMPLEMENTI: numerosissimi, individuati in asse il loro valore semantico; introdotti in genere da
un’apposita preposizione
4.3.2 SCHEMI VALENZIALI
Le funzioni sintattiche vengono assegnate a partire da “schemi valenziali” che costituiscono l’embrione iniziale
della strutturazione delle frasi e configurano il quadro minimale.
Quando pronunciamo una frase è ragionevole pensare che partiamo dalla selezione di un verbo mentale per
rappresentare l’azione che vogliamo descrivere. Questo verbo è associato a delle valenze che sono implicate dal tipo
di significato del verbo: ogni predicato configura un quadro di elementi chiamati in causa.
Tali elementi sono appunto le valenze. Ogni verbo stabilisce il numero e la natura delle valenze (detti anche “attanti”)
che esso richiede, rappresentate linguisticamente dai sintagmi nominali: ha quindi un certo schema valenziale.
La maggior parte dei verbi sono “monovalenti”(camminare), “bivalenti”(lodare) e “trivalenti”(spedire).
Esistono anche verbi “zerovalenti” (verbi meteorologici) o tetravalenti (spostare).
Valenze omesse: non tutte le valenze devono essere espresse con materiale nella struttura sintagmatica
obbligatoriamente.
“Mangiare” è un verbo bivalente, ma la valenza può non essere espressa. In questi casi si dice che non tutte le
posizioni dello schema valenziale sono saturate.
Soggetto: si può definire come la prima valenza di ogni verbo.
La seconda valenza: coincide con la funzione sintattica di complemento oggetto nel caso dei verbi transitivi.
I circostanziali: in una frase si possono trovare anche costituenti che realizzano altri elementi, che non fanno parte
dello schema valenziale. Questi sono detti “circostanziali”/“avverbiali”.
Non essendo implicati dal significato del verbo, non rientrano nelle configurazioni di valenza dei predicati
verbali: non fanno quindi parte delle funzioni sintattiche fondamentali ma aggiungono informazioni.
Godono di una certa libertà di posizione e sono possibili permutazioni: ordini diversi dei costituenti con diversa
collocazione dei circostanziali.
BOX. LA VALENZA VERBALE
1. Quando in una frase è presente un verbo, questo è sempre l’elemento centrale.
2. Esso determina la struttura della frase
Questi sono due dei presupposti teorici di un modello frasale elaborato dal linguista francese Tesniere. Il termine
valenza è mutato dalla lingua alla chimica, dove fa riferimento alla capacità degli atomi di combinarsi tra di loro
nella composizione delle molecole, e sta ad indicare il numero di elementi linguistici la cui presenza all’interno
di una frase è necessaria affinché la stessa frase risulti ben formata, ossia grammaticale. Tali elementi sono detti
attenti.

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Il numero di argomenti è determinato dal verbo della frase e questi permettono di riconoscere classi diversi di verbi.
Possono fungere da argomenti sintagmi nominali e sintagmi preposizionali. Ex. Un verbo bivalente come “andare”
avrà come primo argomento un sintagma nominale e poi preposizionaale: Paolo va a Stoccarda. O possono valere
come argomenti intere frasi (Paolo sa che non tornerà).
• Il verbo ed i suoi argomenti costituiscono il “nucleo” della frase.
• Gli elementi che aggiungono informazioni “di corredo” all’evento descritto dal verbo sono detti
circostanziali
• La proprietà importante che consente di distinguere argomenti e circostanziali è a relativa rigidità vs.
Libertà di posizione nella frase (l’ordine dei circostanziali è soggetto a libertà)
4.3.3 RUOLI SEMANTICI
Altri principi che intervengono nella costruzione ed interpretazione di una frase è dato da principi semantici che
concernono il modo in cui il referente di ogni sintagma contribuisce e partecipa all’evento rappresentato dalla
frase. Per individuare tali funzioni, chiamate “ruoli semantici” occorre dunque spostarsi dalla considerazione della
frase come struttura sintattica, concatenazione di sintagmi governata da regole grammaticali generata da uno schema
valenziale
Per considerare : la frase come rappresentazione di una scena o evento, in cui i diversi elementi presenti hanno una
certa relazione gli uni con gli altri in termini di che cosa succede nella scena.
Le parti volte sono appunto i ruoli semantici. Non esiste un procedimento formale di definizione e individuazione,
nè una lista completa e condivisa dei possibili ruoli semantici. C’è un accordo tuttavia, sulle categorie che vengono
usate per designare i ruoli semantici principali:
• AGENTE: è il ruolo semantico dell’entità animata che nell’evento o scena si fa parte attiva ed
intenzionalmente provoca ciò che accade (Gianni mangia una mela)
• PAZIENTE: ruolo dell’entità che nell’evento rappresentato è coinvolta senza intervento attivo, in quanto
subisce o è interessata passivamente da ciò che accade, o si trova in una certa condizione (Gianni mangia
una mela).
• SPERIMENTATORE: è il ruolo semantico dell’entità toccata da un certo stato o processo psicologici (A
Luisa piacciono i gelati)
• BENEFICIARIO: è il ruolo semantico dell’entità che trae beneficio dall’azione, a vantaggio della quale va
a ricadere quanto succede nell’avvenimento (Gianni regala un libro a Luisa)
• STRUMENTO: è il ruolo semantico dell’entità inanimata mediante la quale avviene ciò che accade, o che
interviene nell’attuarsi dell’evento, o che è fattore non intenzionale dell’azione. (Gianni taglia la mela col
coltello)
• DESTINAZIONE: è ruolo semantico dell’entità verso la quale si dirige l’attività espressa dal predicato, o
che costituisce l’obiettivo o la meta di uno spostamento (Luisa parte per le vacanze)
In una frase passiva è diversa la distribuzione del rapporto fra ruoli semantici e funzioni sintattiche: l’agente, che
normalmente fa da soggetto, è mandato a, appunto, complemento d’agente, mentre il paziente, che normalmente è
oggetto, diventa soggetto. Sono passivizzabili solo i verbi “transitivi”.
Nei verbi intransitivi si distinguono anche, sulla base della selezione del verbo ausiliare che ammettono o
richiedono, le due sottoclassi dei verbi cosiddetti “inaccusativi”: quelli che richiedono come ausiliare essere, e dei
verbi cosiddetti “inergativi” che richiedono come ausiliare avere che presentano comportamenti sintattici differenti.
4.3.4 STRUTTURA PRAGMATICO-INFORMATIVA
Utilizzandole nozioni sinora viste, potremmo concepire nel modo seguente le operazioni che conducono alla
produzione di frasi.
• Una frase collega la rappresentazione di un evento a una catena fonica costituita dai suoni del linguaggio
che danno forma la materia grezza del segnale.
• A seconda dell’evento che vogliamo rappresentare verbalmente con una predicazione, scegliamo nel patrimonio
lessicale un verbo, che reca con sè uno schema valenziale.
• Questo è l’embrione, la prima fase (A) della generazione di una frase, che dà il quadro strutturale di riferimento.
• A questo schema valenziale viene fornita una interpretazione semantica attraverso l’assegnazione di ruoli
semantici ai diversi elementi che esso contiene (B).
• I ruoli semantici vengono tradotti in funzioni sintattiche (C).

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• Tutto questo viene infine espresso un indicatore sintagmatico retto dai principi della teoria X-barra (D):
Quest’ultima è la frase cosi come viene pronunciata, è il prodotto finale e visibile.
Le fasi A, B e C sono astratte. Di qui la distinzione tra “struttura profonda” e “struttura superficiale”.
Nel governare la strutturazione del prodotto finale della sintassi vi è anche il piano dell’organizzazione pragmatico-
informativa.
Si distinguono 5 tipi di frasi:
• Dichiarative: fanno un’affermazione generica che pio avere più valori specifici
• Interrogative che pongono una domanda e si distinguono in interrogative totali (con risposta si/no) o
polari (a risposta aperta)
• Esclamative
• Iussive o imperative che esprimono un ordine
• Ottative che esprimono un desiderio
TEMA (dal greco “thema” “ciò che è posto”): la parte della frase che identifica e isola il qualcosa sul quale verte
l’affermazione. È ciò su cui si fa un’affermazione, l’entità attorno cui si predica qualcosa;
REMA: la parte della frase che affermazione fatta, l’informazione propriamente fornita. Vengono anche spesso usati,
come sinonimo di tema e rema rispettivamente, i termini inglesi topic e comment.
In “Luisa va a Milano”, Luisa è il tema (o topic) e pioveva il rema (o comment).
Un’opposizione che spesso viene considerata corrispondente a tema/rema, quella fra “dato” e “nuovo”, concerne
invece un altro punto di vista da cui è possibile considerare l’informazione data nelle frasi, relativo al supporto col
contesto precedente e alle conoscenze condivise presupposte di parlante ed ascoltatore.
DATO: è l’elemento della frase da considerare noto.
NUOVO: è l’elemento portato come informazione non nota.
Nelle frasi “normali”, soggetto, agente e tema tendono spesso a coincidere sullo stesso costituente frasale, quello
in prima posizione. Ex. “un gatto insegue il topo” (con ordine lineare SVO): “un gatto” è contemporaneamente
soggetto, agente, tema e “il topo” oggetto, paziente e parte della rema.
Le lingue possiedono dispositivi per separare le tre funzioni e mutare o invertire l’ordine non marcato dei
costituenti; in italiano possono svolgere tale compito le costruzioni note come “dislocazioni a sinistra”, che
spostano davanti alla fase, cioè alla sua sinistra, uno degli elementi che la costituiscono. Ex. Il topo lo insegue un
gatto. Anticipa all’inizio della frase in costituente riprendendolo con un pronome clitico sul verbo, che ne rappresenta
la funzione sintattica.
La costruzione passiva: fa diventare tematico l’oggetto anch’essa. Questa però muta anche la correlazione fra ruoli
semantici e funzioni sintattiche. Ex. Il topo è inseguito da un gatto; il soggetto diventa “il topo” che è paziente.
La dislocazione a destra: consiste nell’isolare “sulla destra” un costituente, riprendendolo anche qui con un clitico
sul verbo (lo vuole un caffè?) e attuando un’inversione dell’ordine naturale tema+rema
Frase scissa: consiste nello spezzare una frase in due parti, portando all’inizio della frase, introdotto dal verbo essere,
un costituente, e facendolo seguire da una frase (pseudo)relativa (è il gatto che insegue il topo)
La frase scissa serve quindi per evidenziare un elemento della frase come dotato del maggior carico
informativo. Tale elemento svolge anche la funzione di “focus”.
Per focus si intende il punto di maggior salienza comunicativa della frase; in genere il focus è contrassegnato da
una particolare curva intonativa enfatica In conclusione, possiamo analizzare sintatticamente una frase secondo 4
diverse prospettive che interagiscono tra loro:
• La prospettiva configurazionale, relativa alla struttura in costituenti
• La prospettiva sintattica
• La prospettiva semantica
• La prospettiva pragmatico-informativa, relativa all’articolazione in tema/rema
4.4 CENNI DI GRAMMATICA GENERATIVA E LE REGOLE IN SINTASSI
Nella linguistica degli ultimi 40 anni ha acquistato sempre maggiore importanza un’impostazione teorica particolare
dello studio in primo luogo della sintassi, nota come “grammatica generativa”, legata al nome del grande linguista
americano Noam Chomsky.
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La trattazione generativa della sintassi presenta un grado molto elevato di tecnicità, per questa ragione possiamo
individuare solo alcune nozioni utili.
Nozione di grammatica generativa: è una grammatica che intende predire in maniera esplicita e formalizzata le
frasi possibili di una lingua. “Generativa” si rifa al senso logico-matematico del verbo generare, che vale “definire
ed enumerare esplicitamente”.
Il ruolo centrale per la “generazione” è svolto dalla sintassi, la parte “interna” della lingua, che ha il compito di
accoppiare ed interpretare significati e significanti, le parti “esterne” della lingua e che è basata su un sostrato comune
a tutte le lingue, una “grammatica universale”.
Alcuni fondamenti
Il linguaggio verbale è concepito come un sistema cognitivo.
• È specifico del genere umano, ossia presenta caratteristiche che i sistemi di comunicazione che degli altri
esseri animati non possiedono ed è costituito da quell’insieme di conoscenze e tali che consentono a un
parlante nativo ideale di produrre messaggi verbali nella propria lingua. L’insieme di tali conoscenze è
chiamato competenza.
La competenza
o È un’entità interna alla mente umana
o È in larga misura inconscia
o È individuale
o È innata
Scopo della grammatica generativa è quindi costruire una teoria della competenza; esplicitare e formalizzare
mediante regole e principi, l’insieme di intuizioni che costituisce la conoscenza implicita che un p.n. ha della propria
lingua.
Occorre in primo luogo rendere conto di quali frasi siano grammaticali e quali no. A partire poi dalle competenze
di singoli p.n di lingue specifiche, la teoria generativa mira a costruire una grammatica universale, ossia a definire
esplicitamente l’insieme delle capacità linguistiche innate che costituiscono la facoltà di linguaggio degli esseri
umani.
Un ruolo rilevante è svolto dalla cosiddetta teoria dei principi e dei parametri. Le lingue del mondo condividono
alcuni principi universali mentre differiscono tra di loro rispetto a alcuni parametri.
Una grammatica universale definisce quindi qual è lo stato iniziale della facoltà di linguaggio della specie
umana. Si è già menzionato che per la teoria generativa l’acquisizione del linguaggio ha luogo per effetto di una
capacita innata. Una concezione “mentalista” che si contrappone decisamente a quella propria prima del
comportamentismo. Secondo il modello comportamentista:
• l’acquisizione di qualunque tipo di conoscenza avviene in risposta agli stimoli prodotti all’ambiente e per
mezzo di procedimenti elementari di analisi dell’esperienza basati su induzione, associazione analogica;
• alla nascita la mente umana si presenterebbe sostanzialmente come una tabula rasa, provvista soltanto di una
generica propensione ad apprendere dall’esperienza.
Per la concezione mentalità invece:
• l’individuo dispone nel proprio corredo genetico non soltanto di procedimenti generali di analisi
dell’esperienza ma anche di una capacità innata, preposta all’acquisizione del linguaggio che gli permette di
costruire un sistema astratto di conoscenze linguistiche attivate dai dati a cui è esposto.
• Se un bambino non fosse esposto ad alcuna lingua umana semplicemente non acquisirebbe alcuna lingua
materna.
• L’esperienza linguistica consente di attivare quella capacita innata che porta il bambino alla formazione di
un sistema astratto di conoscenze linguistiche,
• L’attivazione di questa capacità deve poi avvenire entro un certo periodo di tempo, determinato
biologicamente (tra i 18 mesi e l’età pubertale); oltre questo periodo l’acquisizione del linguaggio a livello
di lingua materna non è più possibile.

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CAPITOLO 5: SEMANTICA, LESSICO E PRAGMATICA
5.1 IL SIGNIFICATO
La parte della linguistica che si occupa del piano del significato è la “semantica” (dal greco semainò “significare”)
Il primo problema con cui si scontra la semantica è la definizione stessa di che cosa sia il significato:
• il significato non è “visibile” ed è il punto di sutura fra la lingua, la mente e il mondo esterno.
• Può essere considerato in termini di operazioni astratte con le quali si costruisce la rappresentazione mentale
della realtà
• O essere considerata una struttura cognitiva basata sul complesso dell’esperienza umana, con particolare
riguardo ai suoi aspetti fisico-percettivi.
Vi sono due modi di concepire il significato:
• Concezione referenziale del significato
• Concezione concettuale del significato: il significato è visto come un concetto, un’immagine mentale,
un’idea o operazione creata dalla nostra mente, corrispondente a qualcosa che esiste al di fuori della lingua
In un’altra prospettiva, vi è una concezione operazionale del significato, secondo cui esso è funzione
dell’uso che si fa dei segni, vale a dire ciò che accumuna i contesti d’impiego di un segno e ne permette l’uso
appropriato; o anche in maniera più descrittiva, la totalità dei contesti in cui esso può comparire.
Ciascuna delle due concezioni presenta problemi; sembra preferibile attenersi alla visuale del significato come
concetto.
Significato: informazione veicolata da un segno o elemento linguistico.
Ma è molto importante stabilire subito quali tipi di informazione possono veicolare i segni linguistici? Molto corrente
è la distinzione fra significato “denotativo” e “connotativo”.
Il significato denotativo: è quello inteso nel senso oggettivo, di ciò che il segno descrive e rappresenta; corrisponde
al valore di identificazione di un elemento della realtà esterna, un “referente”.
Il significato connotativo: significato per cosi dire indotto, soggettivo, connesso alle sensazioni suscitate da un
segno e alle associazioni a cui esso da luogo e da queste inferibile, non ha valore di identificazione di referenti.
Un’altra distinzione rilevante è quella fra significato “linguistico” e significato “sociale”: mentre il significato
linguistico è il significato che un termine ha in un’auto elemento di un sistema linguistico codificante una
rappresentazione mentale
Il significato sociale è il significato che un segno può avere in relazione ai rapporti fra i parlanti, ciò che esso
rappresenta in termini di dimensione sociale.
Un’altra distinzione è quella fra significato “lessicale” e significato “grammaticale”. Hanno significato lessicale i
termini che rappresentano oggetti concreti o astratti, entità, fatti o concetti del modo esterno
Hanno significato grammaticale i termini che rappresentano concetti o rapporti interni al sistema linguistico, alle
categorie che questo prevede o alle strutture a cui esso da luogo.
I termini del significato lessicale vengono anche chiamati “parole piene”, quelli dal significati grammaticale “parole
vuote” o “parole funzionali”.
Inoltre è opportuno tenere distinto il significato vero e proprio, in tutti i suoi vari aspetti, da quella che si usa chiamare
“enciclopedia”: il significato fa parte della lingua e non va identificato con la conoscenza del mondo esterno che noi
abbiamo in quanto esseri viventi .
Il significato fa parte del sapere linguistico, l’enciclopedia fa invece parte del sapere in senso generale; come tale il
sapere enciclopedico non ha confini delimitabili.
Un’altra distinzione che si fa spesso e che può tornare utile in molti casi è quella fra significato e senso, dove per
“senso” si intende il significato contestuale, vale a dire la specificazione e concretizzazione che il contenuto di un
termine assume ogni volta che viene effettivamente usato in un produzione linguistica in un certo contesto.
I nomi propri: sono etichette, termini a referente unico, che designano un individuo e non una classe. Basso solo
estensione e non intenzione.
Intenzione: l’insieme delle proprietà che costituiscono iil concetto designato da un termine.
Estensione: l’insieme degli individui a cui il termine si può applicare.

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5.2 IL LESSICO
Anche per il livello semantico il linguista pone un’unità d’analisi basilare: tale unità è il lessema. Un lessema
corrisponde a una parola considerata dal punto di vista del significato:
• Studiare il lessema gatto o rivoluzione significa studiare i significati linguistici “gatto” e“rivoluzione”.
• Nell’analisi del significato, non hanno pertinenza i valori che sono codificati nella morfologia flessionale
anche se la forma esterna del lessema è sempre indicata con la parola completa nella forma di citazione,
comprensiva di desinenza flessionale.
• L’insieme dei lessemi di una lingua costituisce il suo “lessico”.
Lo studio dei vari aspetti del lessico è compito della “lessicologia”, che si pone per molti versi a cavallo fra
semantica e morfologia derivazionale.
La “lessicologia” è lo studio dei metodi e della tecnica di composizione dei vocaboli e dizionari, cioè le opere che
raccolgono e documentano il lessico di una lingua. Da un lato, il lessico è uno dei componenti essenziali di una
lingua; senza lessico non esisterebbe una lingua, non potremmo comunicare verbalmente, i messaggi sarebbero
strutture vuote.
Allo stesso tempo pero il lessico è lo strato più esterno e superficiale di un sistema linguistico, più esposta alle varie
circostanze extralinguistiche e più condizionata da fattori estranei all’organizzazione del sistema.
Il lessico è inoltre lo strato della lingua più ampio, comprendente un inventario incomparabilmente più numeroso di
elementi; e meno strutturato, composto di elementi eterogenei.
• È inoltre la parte suscettibile di essere continuamente incrementata con nuove unità.
• Tenendo conto di tutte le possibili entrate, si stima che il lessico di lingue come italiano, inglese ecc. ammonti
ad alcune centinaia di migliaia di lessemi. I comuni dizionari di consultazione contengono fra i 90.000 e
130.000 lessemi, o meglio “lemmi”.
Il GRADIT, curato da T. De Mauro è il più ampio e completo repertorio del lessico italiano, conta circa 270.000
entrate.
Il lessico posseduto da un parlante colto si agirà intorno alle 40-50.000 unità. Naturalmente non tutte queste unita
lessicali si pongono sullo stesso piano:
• la frequenza d’uso, e la disponibilità immediata dividono le parole in classi che si comportano in maniera
molto differenziata.
• Associando alla frequenza la disponibilità si individua nel lessico un nucleo centrale.
• Per l’italiano è costituito da meno di 7000 unità. (Vocabolario di base)
5.3 RAPPORTI DI SIGNIFICATO FRA LESSEMI
Un primo compito della semantica è pertanto quello di cercare di mettere ordine in questo insieme disordinato.
Bisogna dunque cercare di individuare relazioni di significato, rapporti semantici fra più lessemi.
5.3.1 OMONIMIA E POLISEMIA
Sono omonimi lessemi che abbiano lo stesso significante ma a cui corrispondono significati diversi, non imparentati
fra di loro e non deriva bili l’uno dall’altro.
Ex. “Riso”: atto di ridere, cereale “Pianta”: albero,mappa
A seconda che l’omonimia concerna solo la grafia, il modo in cui sono scritte le parole, oppure anche la pronuncia,
possiamo distinguere fra termini “omografi” (ex. “Pesca”: atto di pescare, frutto) e termini omofili come “pianta”.
Se i diversi significati associati ad uno stesso significante sono imparentati fra loro e derivati l’uno dall’altro,
abbiamo la “polisemia”. Ex. “Corno”: protuberanza di molti animali, strumento musicale, cima aguzza di una
montagna.
In questo caso, non si può parlare di lessemi formalmente uguali aventi un diverso significato, come nell’omonimia,
ma di un unico lessema avente più significati.
Gli omonimi spesso non appartengono alla stessa categoria lessicale e di solito hanno anche diversa origine
etimologica.
Enantiosemia: quando significati diversi dello stesso termine sono tra di loro in rapporto di Opposizione. Ex.
“Tirare” può avere i due sensi in certo grado di invertirsi, di “lanciare” (tirare la palla) e di “trarre, attrarre verso di
se” (tirare la barca a riva).
32
5.3.2 RAPPORTI DI SIMILARITÀ
Basati sulla compatibilità o somiglianza semantica fra lessemi.
SINONIMIA: sono sinonimi lessemi diversi aventi lo stesso significato. Ex urlare/gridare.
In realtà, avere propriamente lo stesso significato implicherebbe l’essere intercambiabili in tutti i possibili contest, il
che è un requisito impossibile da soddisfare compiutamente. Occorre quindi valutare la sinonimia nei confronti del
sono significato denotativo. Sarebbe più corretto parlare di “quasi sinonimia”.
IPONIMIA: si tratta di una relazione di inclusione semantica: il significato di un lessema rientra in un significato
più ampio e generico rappresentato da un altro lessema. Si ha iponimia fra due lessemi x e y quando “tutti gli x sono
y ma non tutti gli y sono x”. X è l’iponimo di y, il quale è “iperonimo” rispetto a x. (Ex. Armadio iponimo di mobile)
CATENE IPONIMICHE: I rapporti iponimici possono costituire delle serie che percorrono il lessico. È possibile
costruire una catena in cui ogni termine è iponimo diretto del successivo: siamese – gatto – felino – mammifero –
animale.
La catena può essere ancora espansa verso destra e sinistra MERONIMIA: è il rapporto che si ha fra i termini che
designano una parte specifica di un tutto unico e il termine che designa il tutto. Ex. Braccio, testa, piede sono
metonimia di corpo.
SOLIDARIETA’ SEMANTICA: basata sulla cooccorrenza obbligatoria, o fortemente preferenziale, di un lessema
con un altro. Il significato di un lessema risulta in questo caso predeterminato dall’altro, dato che il lessema in ustione
può riferirsi nel discorso solo a questo secondo significato. Ex. Miagolare/gatto
COLLOCAZIONI: rapporti fra lessemi fondati su cooccorrenze regolri nel discorso, ma meno semanticamente
determinate si hanno nelle collocazioni, come bandire/concorso, porta/scorrevole Il rapporto di collocazione riflette
però piuttosto convenzioni tipiche dell’uso della singola lingua. Tale nozione quindi non sembra ben definibile dal
punto di vista linguistico.
5.3.3 RAPPORTI DI OPPOSIZIONE
ANTONIMIA: sono antonimi due lessemi di significato “contrario” nel senso che designano i poli opposti di una
scala, i due estremi di una dimensione graduale. Ex. Alto/basso, buono/cattivo. Essere alto implica il “non essere
basso”.
Esistono sempre gradini intermedi lessicalizzabili: si può essere “abbastanza alto” , “poco alto”
COMPLEMENTARITA’: sono complementari due lessemi di cui uno è la negazione dell’altro, in quanto
spartiscono uno stesso spazio semantico in due sezioni opposte. Ex vivo/morto,maschio/femmina “x implica non -y
e non -y implica x”
INVERSIONE: sono inversi due lessemi di significato relazionale che esprimono la stessa relazione semantica vista
da due direzioni opposte,secondo la prospettiva dell’una o dell’altra parte. Ex. Dare/ricevere, comprare/vendere
5.3.4 INSIEMI LESSICALI
Finora abbiamo visto rapporti semantici che uniscono per lo più coppie di lessemi. È anche possibile individuare
insiemi o sottoinsiemi lessicali, in cui ogni elemento è unito agli altri da rapporti di significato.
Il concetto più noto e più usato in questo ambito è quello di “campo semantico”.
Tale termine polisemico, usato a volte con valori diversi rispetto a quello più tecnico che stiamo definendo qua:
• Si può trovare un “campo semantico” per indicare l’insieme dei significati che un certo lessema può
assumere.
• L’insieme dei lessemi che coprono le diverse sezioni di un determinato spazio semantico: ogni termine
corrisponde a una delle sezioni in cui lo spazio semantico in oggetto è suddiviso in una data lingua.
• L’insieme dei lessemi che hanno tutti uno stesso iperonimo immediato
Ex. Sono un campo semantico gli aggettivi di età (giovane, vecchio, anziano, antico) ecc.
SFERA SEMANTICA: designare ogni insieme di lessemi che abbiano in comune il riferimento a un certo ambito
semantico, un’area di oggetti o concetti, un insieme di attività fra loro collegate. Ex. Insieme delle parole della moda
o musica ecc.
Le sfere semantiche per la loro natura sono in parziale sovrapposizione fra loro, e contengono sempre numerosissimi
termini.

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FAMIGLIA SEMANTICA: è un insieme di lessemi imparentati nel significato e imparentati nel significante. Si
tratta cioè dell’insieme delle parole derivate da una stessa radice lessicale.
GERARCHIA SEMANTICA: è costituita da un insieme in cui ogni termine è una parte determinata di un termine
che nell’insieme gli è superiore in una certa scala di misura. Ex. I nomi delle unità di misura del tempo: secondo,
minuto, ora, giorno,mese,anno, secolo.
5.4 L’ANALISI DEL SIGNIFICATO
5.4.1 SEMANTICA COMPONENZIALE
L’analisi del significato dei lessemi pone problemi delicati e insolubili. Uno dei metodi che si è dimostrato fra i più
praticabili ed è ancora basilare è quello della “analisi componenziale”.
• Il principio su cui si basa tale metodo è del tutto simile alla scomposizione di numeri in fattori primi in
algebra, ed è analogo a quello dell’analisi dei fonemi in tratti distintivi.
• Si tratta di scomporre il significato dei lessemi, comparandoli gli uni con gli altri e cercando di cogliere in
che cosa differisca il loro rispettivo significato, in pezzi o unità di significato più piccoli, elementari e
generali.
Prendiamo per esempio alcuni dei lessemi del campo semantico degli esseri umani.
Ex. Uomo, donna, bambino, bambina e cerchiamo di esprimere che cosa hanno in comune di significato e che cosa
li distingue l’uno dall’altro.
Tutti hanno in comune di designare un essere umano (il significato dell’iperonimo è per forza contenuto
nell’iponimo). Per vedere cosa li distingua, confrontiamoli a coppie:
• Uomo e donna sono differenziati dal fatto che uomo è di sesso maschile, donna dell’opposto.
• Uomo e bambino sono differenziati dal fato che un uomo è di età adulta e un bambino è di età non adulta.
Ripetendolo per ogni coppia lo stesso ragionamento arriviamo a una matrice come nello schema:
/UMANO/ /ADULTO/ /MASCHIO/
UOMO + + +
DONNA + + -
BAMBINO + - +
BAMBINA + - -
In maiuscolo fra barre sono indicate le proprietà di significato necessarie e sufficienti per dar conto del significato
di ciascuno dei quattro lessemi considerati. Si definiscono come “componenti semantici”. Ogni lessema è
analizzabile secondo questo metodo come un fascio di componenti semantici realizzati in simultaneità.
L’analisi componenziale assume quindi che il significato di un lessema sia disaggregabile in elementi di
significato più piccoli e più semplici, proprietà astratte che intervengono nel significato di più lessemi.
I tratti semantici di solito sono binari, cioè ammettono i due valori “più” e “-“ (=si e no); ma si possono utilizzare
anche tratti non binari, a più valori.
È possibile inoltre estendere l’analisi anche ad altre classi di lessemi, per esempio i verbi, per esempio ai verbi, per
analizzare i quali spesso occorre far ricorso a tratti di natura diversa rispetto a quelli sin qui esemplificati. Ex .
“Uccidere”: /(X causa)(((y diventa)(-vivete))/ “Qualcuno fa si che qualcun altro diventi non vivente”
L’analisi componenziale non è tuttavia scevra di problemi: tutt’altro.
• Il metodo diventa molto problematico quando si vogliano analizzare in tratti termini astratti.
• E le difficoltà divengono praticamente insormontabili man mano che si estende la quantità di lessico
sottoposta ad analisi.
5.4.2 SEMANTICA PROTOTIPICA
Una categoria andrebbe piuttosto intesa come un’entità
A. Definita sia da un nucleo di proprietà di carattere categorico, necessarie e sufficienti, sia da proprietà di
carattere graduale, non essenziali
B. Delimitata da confini sfumati, in sovrapposizione con quelli di altre categorie
C. Costituita da membri più tipici e altri meno rappresentativi

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A questa concezione, nota come teoria dei prototipi, fa riferimento il metodo di descrizione e analisi del significato
denominato “semantica prototipica”.
Il significato di un lessema in semantica prototipica è concepito come “prototipo”. Il prototipo rappresenta
l’immagine mentale immediata che per i parlanti di una certa cultura e società corrisponde più tipicamente a un dato
concetto, l’immagine mentale a cui si pensa subito.
Di un concetto il prototipo occupa il punto focale, i membri non prototipici si allontanano tanto più al punto focale,
avvicinandosi invece alla periferia del concetto, quante meno caratteristiche del prototipo possiedono. Ex.
“Uccello”: volatile che per un certo ambiente e una certa cultura è il più tipico, per la nostra, molto probabilmente
il passero o piccione
I tratti semantici in gioco vengono visti non come tutti necessari e sufficienti e di uguale importanza nel
determinare il significato di un lessema, bensì come dotati di un diverso potere identificativo e disposti in
gerarchia di importanza.
I componenti semantici diventano un insieme di criteri più o meno importanti nell’identificare una categoria. I
concetti hanno una struttura interna basata sulla gradualità e non soltanto sulla categoricità. Un concetto importante
nella semantica prototipica è dunque anche quello di “grado di esemplarità” di un termine a una categoria.
A titolo di esempio, si veda la graduatoria qui di seguito, in cui si chiedeva a un certo numero di informatori non di
menzionare le proprietà presenti in un certo significato ma di pronunciarsi circa l’appartenenza di esemplari diversi
a una data categoria: frutto/a
I tratti semantici in gioco vengono visti non come tutti necessari e sufficienti e di uguale importanza nel
determinare il significato di un lessema, bensì come dotati di un diverso potere identificativo e disposti in gerarchia
di importanza.
I componenti semantici diventano un insieme di criteri più o meno importanti nell’identificare una categoria. I
concetti hanno una struttura interna basata sulla gradualità e non soltanto sulla categoricità. Un concetto importante
nella semantica prototipica è dunque anche quello di “grado di esemplarità” di un termine a una categoria.
A titolo di esempio, si veda la graduatoria qui di seguito, in cui si chiedeva a un certo numero di informatori non di
menzionare le proprietà presenti in un certo significato ma di pronunciarsi circa l’appartenenza di esemplari diversi
a una data categoria: frutto/a.
FREQUENZA GRADO DI ESEMPLARITÀ
MELA 429 1.3
ANANAS 98 2.3
FRAGOLA 58 2.3
Ne risulta che mela è visto come il frutto più tipico, vicino al prototipo. Una conseguenza importante della
semantica prototipica consiste nel rendere sfumati e in sovrapposizione i confini delle categorie.
Anche la semantica prototipica, comunque, pur avendo messo in rilievo alcuni aspetti assai importanti della natura
dei significati, è lungi dall’aver risolto la maggior parte dei problemi connessi con l’analisi del significato in
linguistica. Si scontra con problemi usando si debba applicare a valutazioni o processi psicologici e in genere concetti
astratti.
5.4.3 CENNI DI SEMANTICA FRASALE
In prima ipotesi il significato di una frase è la somma e combinazione dei significati dei lessemi che la
compongono. Questo non esaurisce pero il senso globale di una frase, l’informazione che essa veicola e il valore
comunicativo con cui viene impiegata.
Una prima distinzione terminologica da fare a questo proposto è quella tra “frase”, che come abbiamo visto è
un’importante unità di analisi massimale nella sintassi ed enunciato. L’ENUNCIATO è una frase considerata dal
punto di vista del suo concreto impiego in una situazione comunicativa, come segmento di discorso in atto; enunciato
è dunque il corrispettivo della frase, unita del sistema linguistico.
Elementi cruciali per l’interpretazione del valore degli enunciati sono anzitutto i connettivi che hanno spesso anche
il valore di operatori logici.
Pustejovsky, un autore che esamina il significato lessicale secondo una prospettiva generativista, mirante a prevedere
in maniera dinamica le modifiche che un significato di base di un lessema può assumere nel contesto linguistico in
cui è attivato, ha individuato quattro di questi principi.

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• Il primo principio è la semplice “composizione”: il significato della frase è la somma dei significati di base di
ogni singolo elemento.
• Il secondo principio è la “co-composizione” in base a cui il significato degli argomenti di un verbo contribuisce
a definire il significato del verbo.
• Il terzo principio è chiamato “coercizione” e riguarda i casi in cui è il significato del verbo a condizione il
significato di un suo argomento.
Poi “il legamento selettivo” in cui un nome seleziona e determina il valore di un aggettivo dal significato non
specifico: in “un treno veloce” significa che va velocemente. Mentre “in un lavoro veloce” l’aggettivo significa “che
si esegue rapidamente”
CAPITOLO 6: LE LINGUE DEL MONDO
6.1 LE LINGUE DEL MONDO
Le lingue storico-naturali presso le diverse comunità oggi presenti nel mondo sono numerose, nell’ordine delle
diverse migliaia.
• Le cifre proposte dagli studiosi sono tuttavia assi contrastanti.
• L’enorme differenza fra queste cifre ha delle buone ragioni.
• Enumerare tutte le diverse lingue del mondo è un compito molto difficile. Anzitutto, certe aree
linguistiche sono tuttora insufficientemente studiate; ed inoltre è anche difficile stabilire se diverse parlate
tra loro simili sono da considerare varietà o dialetti di una stessa lingua oppure sono lingue a se stanti.
L’Italia è già un caso esemplare per questo problema.
Quante lingue si parlano in Italia? Bisogna tener conto non solo della lingua nazionale comune, ma anche delle
lingue delle minoranze parlate da gruppi più o meno consistenti di parlanti in alcune aree.
• Italiano > lingua ufficiale parlata da circa 70 milioni di persone
• 15 lingue di minoranza (oltre 2 milioni di abitanti)
• Decine di dialetti (diglossia) per molti versi autonomi e che andrebbero considerati lingue a se, e non varietà
dell’italiano.
I dialetti italiani: Eè dubbio lo statuto dei vari dialetti italiani che dal mero punto di vista della storia e della distanza
linguistica potrebbero benissimo essere considerati sistemi linguistici a se stanti, autonomi rispetto l’italiano e non
sue semplici varietà. (Arriveremmo a circa una trentina)
Si noti anche che le lingue romanze o neolatine, derivate dal latino vengono considerate ciascuna una lingua a se
stante, mentre talvolta sistemi con una distanza strutturale del tutto analoga a quella fra le diverse lingue romanze
vengono a volte considerati varietà della stessa lingua.
La differenza tra una lingua e un dialetto non è mai una differenza linguistica: è una lingua a tutti gli effetti, ha
una propria fonologia, lessico. Le varietà sono tutte extralinguistiche come quella della diffusione territoriale.
Dialetti:
• varietà linguistiche ristretti geograficamente
• di norma non scritte
• prive di letteratura rilevante
• non usate in condizioni formali
la lingua è usata in tutte le possibilità espressive un dialetto non nasce, lo diventa (es volgari italiani) > per motivi
storici, culturali, prestigio, politici.
Lingue e dialetti:
• criterio diacronico: il dialetto deriva da una lingua madre
• c’è una comprensione reciproca
• criterio lessico-statistico: condividono almeno 80% del loro lessico, altrimenti sono due lingue diverse
• presenza letteratura
• lingua ufficiale è sovraregionale, rappresenta la norma, ha tradizione scritta, è codificata
Le lingue sono classificabili in diversi modi:
• Statistica
• Tipologica (che è una analisi descrittiva e sincronica, guardando le lingue in un momento specifico)

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• Areale
• Genealogica (analisi storico-diacronica; avviata nel 1800 anche se già da prima si sente l’esigenza di mettere
ordine tra le lingue
La classificazione delle lingue per famiglie (numerico – statistica): si occupa dei numeri associati alle lingue;
alla loro distribuzione geografica; quale è la loro vitalità.
Essi si identificano come aspetti correlati: più numeri presuppongono una vitalità maggiore. Le lingue del mondo
sono alcune migliaia, molte in via di estinzione.
La maniera principale per mettere ordine in questo coacervo di sistemi linguistici consiste nel raggrupparli in
famiglie, secondo criteri di parentela genealogica: basato sulla possibilità di riportare le lingue ad un antenato
comune.
Un metodo assai semplice ma rozzo da utilizzare è quello basato sul cosiddetto lessico fondamentale: un insieme di
circa 200 termini designati nozioni comuni (numeri, fenomeni meteorologici, parti del corpo) da considerare non
esposti a interferenze fra le lingue.
L’assunzione di base è che se per questi termini troviamo lo stesso simile significante (fatte salve differenze
fonetiche) vorrà dire che questo emana a una forma originaria condivisa: le due lingue hanno dunque un antenato
comune.
In realtà, la ricostruzione linguistica, la comparazione fra le lingue e il riconoscimento di parentele più o meno
strette è un compito assai più complesso. Che si deve avvalere di ragionamenti basato anche su affinità e differenze
lessicali, morfologiche e sintattiche.
Le lingue romanze o neolatine: l’italiano ha stretti rapporti di parentela con tutte le lingue provenienti, come
l’italiano, dalla comune base del latino, e costituisce assieme a queste il ramo delle lingue romanze che comprende:
• Italiano
• Francese
• Spagnolo
• Portoghese
• Romeno
Il ramo romanzo, assieme a altri rami con cui le lingue romanze hanno una parentela, più remota ma sempre
dimostrabile, come
• Le lingue germaniche
• Le lingue slave
• Le lingue baltiche
• Le lingue celtiche
• Le lingue indo arie
• Le lingue iraniche
• E tre lingue isolate: il neo greco, l’albanese, l’armeno
Forma la grande famiglia delle lingue indoeuropee: il livello della famiglia rappresenta il più alto livello di
parentela. All’interno di una famiglia di lingue, a seconda dei gradi più o meno stretti di parentela, si possono
riconoscere dei “rami” che a loro volta si possono dividere in “gruppi”.
L’italiano quindi si può classificare come una lingua del sottogruppo italo-romanzo del gruppo occidentale del
ramo neolatino della famiglia indoeuropea.
La linguistica comparativa riconosce oggi fino a un massimo di 18 famiglie linguistiche, più alcune lingue singole
isolate di cui non si è riusciti a provare la parentela con altre lingue.
• A queste andrebbero aggiunte alcune decine di lingue pidgin e creole, nate dall’incontro e mescolanza in
situazioni particolari di lingue per lo più tra loro assi diverse e distanti e dunque spesso difficili da collocare.
• Un pidgin, sistema linguistico semplificato che non ha parlanti nativi, si sviluppa quando diventa lingua materna
in una comunità. (Ex. WAPE parlato in Nigeria o Ghana).
Le grandi lingue: sono solo alcune decine.
Criteri per valutare l’importanza delle lingue:
• Il numero di paesi e nazione in cui una lingua è una lingua ufficiale
• L’impiego della lingua nei rapporti internazionali, della scienza, nella tecnica, nel commercio
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• L’importanza politica e il peso economico dei paesi dove la lingua è parlata
• La tradizione letteraria e culturale e il relativo prestigio di cui gode la lingua
• L’insegnamento della lingua a scuola quale lingua straniera
• Numero dei parlanti non nativi: porterebbe l’inglese al pari del cinese mandarino con 1 miliardo di parlanti.
Le famiglie linguistiche in Europa sono 5:
1. Uraliche del ramo ugrofinnico (ungherese, finlandese ecc)
2. Altri che (turco, tartaro ecc)
3. Caucasiche (georgiano, ceceno ecc)
4. Semitiche (ramo della famiglia afro-asiatica)
5. Lingua isolata: basco
CLASSIFICAZIONE STATISTICA
Quando si classificano si fa riferimento alle lingue parlate non scritte:
• la scrittura non è un aspetto necessario alla comunicazione linguistica
• per migliaia di anni gli uomini hanno parlato senza scrivere
• lingua e scrittura non sono collegate nell’evoluzione delle comunità linguistiche, (secondo l’Unesco 650
milioni nel mondo non scrivono)
• oralità e scrittura non si evolvono di pari passo (vd pronuncia e scrittura)
LINGUE VIVE E LINGUE MORTE
Lingua morta: non è mai completamente morta, perchè anche quando non ha più parlanti nativi, vuol dire che è
confluita altrove. E morendo è diventata sostrato per altre lingue. È un codice di comunicazione che non ha più
parlanti nativi > sostrato
• è difficile quantificare con certezza il numero delle lingue morte, conosciamo solo quelle che hanno
lasciato documentazione storico letteraria
• molte lingue morte si sono estinte prima dell’avvio della scrittura (nata 5000 anni fa), noi non possiamo
sapere nulla in questo caso, perdendo questo elemento classificatorio anche in una classificazione statistica
non potendo andare pIù indietro nel tempo.
Molte altre lingue, oggi censite come viventi, sono rischio estinzione
Linguasphere: organizzazione che studia le lingue del mondo e propone 10 ordini di grandezza ed ha come finalità
classificare le lingue in base al numero di parlanti ad essa attribuite.
Italiano: indice 7 (+ di 10 milioni ma meno di 100) per la precisione 70 milioni. (60 milioni abitanti nell’Italia e 10
milioni al di fuori del territorio) non contando le sovrapposizioni delle lingue secondarie.
• Cinese mandarino: 1 miliardo (tutti nativi per lo più) : 1 miliardo
• Hindi: 900 milioni
• Spagnolo: 450 milioni
• Russo: 320 milioni
• Bengali: 250 milioni
• Arabo: 250 milioni
• Portoghese: 200 milioni
• Maleo-indonesiano: 160 milioni
• Giapponese: 145 milioni
• Francese: 125 milioni
• Tedesco: 125 milioni
La distribuzione di queste lingue nel pianeta non è però omogenea (ex. Inglese).
Emerge che il numero delle lingue è di gran lunga superiore al numero degli Stati (250) in quanto vi possono
essere più lingue ufficiali ad esempio (in tot. 7100).
• Difficile è spesso stabilire un confine tra una lingua ed un'altra (svedese e norvegese).
• Quindi si assume il criterio della distanza strutturale: se ci si comprende vicendevolmente vi è una lingua
unica.
Inizialmente norvegese e svedese erano uguali, nel corso del tempo hanno acquistato distanze strutturali.

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Le lingue: distribuzione geografica
• questo parametro produce risultati sorprendenti: scopriamo che ci sono dei territori molto più densi di lingue
storico naturali rispetto ad altri
• due terzi delle lingue storico naturali si trova in Asia (2269, 32%) e in Africa (2092, 30%) seguono Oceania
(1310,20%), Americhe (1002, 15%), Europa (239, 3,5%).
Questo perche? 1) Fattori di omogenizzazione europei; 2) le zone vicine all’equatore sono piu ricche, clima stabile,
alimentazione continua.
Ethnologue
• È un osservatorio linguistico
• È un catalogo linguistico: sono elencate e conteggiate 7100 lingue parlate in 228 nazioni.
Queste lingue sono classificate per gradi di vitalità:
• lingue in fase di sviluppo lingue attive/robuste
• lingue in difficolta/in trouble
• lingue dying/moribonde propone mappe geografiche
Indicatori di sviluppo:
• accesso alla scrittura (permette la veicolazione e conservazione della lingua)
• standardizzazione
• portalità esterna (tramite traduzione, broadcasting, nuovi media)
• uso come L2
• attività culturali
• amministrazione e governo
o Le lingue viventi: 7117
o Developing: 1549
o Dying: 982; 205 dormienti, 431 estinte
o In trouble: 1944
o Il 60% delle lingue parlate è a rischio estinzione
6.2 TIPOLOGIA LINGUISTICA
Classificazione secondo tipologia linguistica: settore della linguistica generale che studia le lingue in base alle loro
caratteristiche strutturali. precursori: Friedrich e Wilhelm Schlegel, sulla scia verso l’inizio dell’800 è stata avviata
una riflessione linguistica sulla diversità.
Scoperta di lingue non europee, non inquadrabili all’interno di modelli grammaticali a matrice greca o latina.
Gli studi di tipologia nascono ad inizio 1800 > riflessioni sulla diversità linguistica.
Il presupposto della tipologia linguistica:
• La somiglianza tra lingue è un dato osservabile, riconducibile a vari fattori: parentela, contatto, tipologia,
tendenze universali
• La linguistica deve discernere le diverse condizioni
• Quando le convergenze o divergenze soddisfano principi strutturali > vanno ricondotti a tipo linguistici
• Fino al 1800 le osservazioni tipologiche erano sostanzialmente morfologiche.
Ex. Tra italiano e francese, sorelle in quanto figlie del latino. Essendoci una serie di tratti comuni.
La “tipologia linguistica” si occupa di individuare che cosa c’è di uguale e che cosa c’è di differente nel modo in
cui, a partire dai principi generali che governano le lingue, le differenti lingue storico-naturali sono organizzate e
strutturate attuando scelte tra loro compatibili nella realizzazione di fenomeni universali che ammettono più
soluzioni.
Si parte dallo studio degli “linguistici”: proprietà ricorrenti nella struttura delle lingue. (Ex. Tutte le lingue hanno sia
consonanti che vocali)
Sulla base di tratti strutturali comuni si possono classificare le lingue non più dal punto di vista genealogico, della
loro origine storica, bensì dal punto di vista della loro appartenenza a tipi diversi e della somiglianza relativa
della loro organizzazione strutturale.

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Un “tipo linguistico” si può definire come un insieme di tratti strutturali correlati gli uni con gli altri; in concreto
equivale all’incirca a un raggruppamento di sistemi linguistici aventi molti caratteri comuni.
Classificazione tipologica (analisi decrittivo-sincronica; che non si avvale del principio del tempo) Classificazione
areale (tiene contro della distribuzione e vicinanza tra lingue) Sono classificazioni fondamentalmente linguistiche.
Nonostante ciò delle lingue possono avere delle strutture comuni pur non essendo imparentate. Il linguista che
si approccia in un confronto interlinguistico deve avere un panorama molto ampio e deve cercare di discernere le
cause di un certo processo linguistico.
La tipologia classifica le lingue (vive e morte, se si dispone di materiale scritto sufficiente) in base alle convergenze
o divergenze strutturali. L’analisi tipologica non può essere effettuata considerando soltanto una lingua o due
lingue; per questo motivo questo tipo di analisi si basa su un approccio comparativo di ampia portata. Tanto piu è
ampio il campione tanto piu l’analisi avrà una propria validità. Questo perchè emergono dei processi convergenti
o divergenti (tipi) la cui presenza deve essere giustificata.
Non è solo una scienza descrittiva, ma anche predittiva. La tipologia non descrive solo la variazione interlinguistica,
ma deve spiegare ed interpretare le configurazioni. Una volta individuati dei tipi, molti di questi ricorrono più
volte di altri
Perchè alcune caratteristiche strutturali sono piu frequenti di altre? Probabilmente per cause di ordine
funzionale > risolvere difficolta legate alla comunicazione
TIPI
• Insieme di più proprietà strutturali reciprocamente indipendenti, ma in correlazione
• Sono entità astratte, strutturali > semplificazione realtà
• Sono modelli di descrizione, configurazioni strutturali, aventi diverso impatto statistico e diversa diffusione
• Alcuni hanno elevata occorrenza, altri risultano infrequenti, rari o persino inesistenti.
Uno dei principali di movimenti del 900 è quello dello strutturalismo: concepisce la lingua come un sistema con
una struttura. Una struttura: un sistema di relazioni.
Soussure: un sistema di un sistema.
Ogni lingua ha tanti sistemi, e tali sottostrutture non sono altro che reti di relazioni. Ex. Italiano: 4 consonanti affricate
che costituiscono il sistema delle nostre affricate. Se per qualche motivo si perdesse una affricata, questo sottosistema
perderebbe un’identità. Ecco perchè si fa sempre riferimento ad un’identità.
Hanno dei diversi tipi di indici di incidenza statistica. Per capire se quel tipo è più rilevante di altri.
Cosa è emerso da questi studi? Alcuni tipi sono frequenti, altri rari, altri non vi sono.
Ex. Categoria del Genere Categoria del Numero
• Lingue con + GENERE + NUMERO (it)
• Lingue con – GENERE + NUMERO (ingl)
• Lingue con – GENERE – NUMERO (vietnamita)
• Lingue con + GENERE – NUMERO (non attestata)
Se il tipologo si trova in una situazione simile, queste configurazioni sono esempi di tipi; ex il Tipo4 non è
attestata e bisogna dare una spiegazione.
CRITERI
• Diffusione/frequenza
• Stabilità
• Le lingue non appartengono mai a un solo tipo questo perchè le lingue tipologicamente sono sempre delle
lingue miste e tra l’altro nel corso della sua evoluzione i diversi tipi possono anche spostarsi verso altre
configurazioni tipologiche e mostrare anche comportamenti un po’ strani ed inconsueti tra un tipo ed un altro.
CI SONO TIPI:
• Probabili (che vuol dire ovvio) come “tutte le lingue hanno parole” “tutte le lingue hanno vocali”
• Improbabili: “assenza di vocali o consonanti”” assenza di una categoria relativa il nome”
• Stabili: rappresentano unità o processi resistenti e duraturi nel tempo, meno soggetti a trasformazioni/mutamenti
• Instabili
• Frequenti: tipi frequenti hanno maggiori possibilita di realizzazione tra le lingue del mondo

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• Infrequenti
GLI INCROCI
• TIPI STABILI E FREQUENTI: diffusi geograficamente e geneticamente
• TIPI STABILI MA INFREQUENTI: diffusi in singole famiglie ma non geograficamente
• TIPI INSTABILI E FREQUENTI: molto presenti come la nasalizzazione vocalica
• TIPI INSTABILI ED INFREQUENTI: rari, poco diffusi
Inizialmente gli studiosi si sono concentrati prima sulla morfologia poi sulla sintassi; la fonologia è stata ampiamente
trascurata addirittura considerata impenetrabile; il lessico invece fornisce risultati vani. EX. Metafora dell’uovo: il
lessico è il guscio dell’uovo, ovvero il rivestimento esterno della lingua, essendo all’esterno è soggetto maggiormente
al cambiamento.
Viene intaccato più volte e dunque cambiare. La fonologia invece rappresenta il nucleo più interno della lingua: il
tuorlo dell’uovo che meno risente delle influenze e dunque meno adatto agli studi tipologici. Morfologia e sintassi
rappresentano l’albume, si trovano in uno stato intermedio e mediano, accessibile ed ottimale per uno studio
tipologico.
Quali sono vantaggi e limiti di questa analisi?
• L’analisi tipologica è per alcuni versi insoddisfacente, perchè ogni lingua realizza più tipi; per questo si opera
con “gli universali” ovvero proprietà presenti nelle lingue.
• Il tipo è dunque un costrutto teorico descrittivo, ideale
• Per questo, più recentemente, la tipologia linguistica opera in sinergia con la linguistica degli universali
• Gli universali sono proprieta o correlazioni di proprieta che connotano ogni lingua
Linguistica tipologia ed universale: sincronica, descrittiva, funzione normativa ed esplicativa.
Ma la linguistica degli universali cerca le invarianti, mentre quella tipologica cerca la cariazione
interlinguistica. Nonostante le divergenze, tutte le lingue sono ritagliate dallo stesso modello > uniformità di portata
universale. Perchè nascono da una facoltà innata del linguaggio.
GLI UNIVERSALI
• Gli universali sono tutto cio che è comune a tutte le lingue
• Diversi punti di contatto con la tipologia linguistica
UNIVERSALI ASSOLUTI
Assoluti: tratto universale che non stabilisce alcuna correlazione con altri tratti. Ex. Tutte le lingue possiedono Vocali
orali Tutte le lingue possiedono la vocale /a/. L’universale assoluto è indotto da restrizioni articolatorie, neurologiche
o cognitive, vincoli percettivi > memoria a breve termine
Le motivazioni delle presenze degli universali: legati ad una economia articolatoria (mentre parliamo affidiamo
il nostro articolato ad un principio di un minimo sforzo, riducendo le ridondanze) economia cognitiva (lo sforzo
cognitivo è uguale a tutti gli uomini che ci permette di distinguere gli oggetti), economia funzionale (rispondere alle
esigenze della comunicazione stessa) queste tre economia hanno portato a tre approcci.
1. Approccio biologico (chomsky, fondatore della Grammatica Universale, tutti gli uomini nascono con tale
dispositivo innato): gli uomini mentre parlano sfruttano gli stessi meccanismi, per questa ragione alcuni processi
sono universali
2. Approccio pragmatico: colui che parla e deve codificare il messaggio devono connettersi
3. Approccio storico-genetico (ipotesi monogenetica): si ritiene che originariamente tutte le lingue del mondo
siano derivate da un'unica lingua.
Nel corso dei secoli questa ipotesi è stata duramente contestata. Ma nel 1900 Cavalli sforza (genetista) compiendo
uno studio dell’evoluzione e ramificazione delle migrazioni nota come la partenza del primo ceppo, ci si ricollegano
le differenti famiglie linguistiche. Portando questa ipotesi di nuovo in gioco.
UNIVERSALI IMPLICAZIONALI:tali universali sono implicati solo se vi è anche un altro.
• Se A, allora b
• Se una lingua ha le vocali nasali allora avrà le vocali orali
• Se una lingua ha le consonanti fricative, allora avrà anche le occlusive
Ma non viceversa: se una lingua ha la flessione, avrà anche la derivazione (macchina-e)

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Gli studi di tipologia non sono numerosi.
• Johseph Greenberg 1966 considerò un campione di 30 lingue, appartenenti a 15 diverse famiglie linguistiche
• Individua 45 universali, dei quali molti di questi sono ancora validi.
Voleva identificare piu tipi di generalizzazione:
• Sulla natura degli affissi
• Sui morfemi
Universale 28: sia la flessione che derivazione seguono sempre la radice, la derivazione si trova sempre tra la radice
e la flessione.
Ex. Giardin-ier-i Garden-er-s
Universale 34: nessuna lingua ha un numero triale se non ha un duale.
6.2.1 TIPOLOGIA MORFOLOGICA
Un primo modo di individuare tipi linguistici diversi e di classificare quindi tipo logicamente le lingue è basato sulla
morfologia, sulla struttura della parola.
Si distinguono 4 tipi morfologici fondamentali di lingua:
1) Lingue isolanti: lingua in cui la struttura della parola è la piu semplice possibile. Ogni parola è costituita
tendenzialmente da un solo morfem. Il rapporto tra morfemi:parole è generalmente 1:1.
L’indice di sintesi che rappresenta il numero di morfemi per parola: si ottiene dividendo il numero dei morfemi
con quello delle parole.
Più è basso e più il numero dei morfemi tende a coincidere con quello delle parole, più la lingua è detunta “analitica”;
al contrario “sintetica”
Caratteristiche:
• Il nome “isolanti” si giustifica col fatto che tali lingue non solo isolano in blocchi unitari le singole prole, ma
anche esprimono spesso significati complessi scindendoli in lessemi semplici giustapposti
• Non presentano tendenzialmente morfologia flessionele
• Le parole sono spesso monosillabiche (l’inglese presenta alcuni caratteri di lingua isolante; vietnamita lingua
isolante per eccellenza)
2) Lingue agglutinanti: agglutinare vuol dire incollare. Lingue in cui le parole hanno una struttura complessa, sono
formate dalla giustapposizione di più morfemi. Tali lingue presentano quindi un alto indice di sintesi, spesso attorno
al 3:1.
• I morfemi di solito hanno un valore univoco ed una sola funzione
• All’interno della parola i morfemi sono facilmente individuabili.
• Sono rari fenomeni di allomorfia e di omonimia e nel complesso c’è un notevole regolarità nella
grammatica.
• Le parole si presentano nelle frasi come stringhe compatte di morfemi, ciascuno ben riconoscibile. (Turco,
basco, giapponese)
Caratteristiche: le parole possono essere anche molto lunghe e sono costituite da una radice lessicale e cui sono
attaccati più affissi. Es. turco, ungherese, giapponese, finlandese
Turco
• Kus (uccello) nominativo singolare
• Kus-lar (gli uccelli) nom pl
• Morfo del plurale: -ler
• Morfo del possessivo: -i
• Morfo dell’ablativo: -den
• Casa> ev
• Le case>evler
• La sua casa>evi
• Le sue case>evleri Dalla casa>evden
• Dalle case>evlerden Dalla sua casa>evinden

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Ogni morfema esprime una funzione. Tutti i morfi mantengono la loro identità. Sono facilmente scomponibili. In
questa lingua non ci sono gli allomorfi come anche nelle lingue isolanti (non c’è morfologia flessiva)
3) Lingue flessive: lingue con parole internamente abbastanza complesse, costituite tendenzialmente da una base
lessicale semplice (una radice) o derivata e
da uno o anche più affissi flessione li che spesso sono morfemi cumulativi, veicolando ciascuno più valori
grammaticali assieme e assommando diverse funzioni
• Hanno un indice di sintesi minore (circa 2),
• Ma l’indice di fusione è massimo
• le parole hanno una struttura meno complessa,
• i confini tra i morfemi perdono spesso visibilità (segmentazione difficile)
• le relazioni grammaticali sono espresse da un unico suffisso
• sono lingue non facilmente segmentabili in morfi
• la loro struttura interna è complessa
• ma vi sono molti fenomeni di allomorfia e di fusione, cosi che l’articolazione in morfemi delle parole risulta
meno trasparente e la loro scomposizione non sempre evidente.
• Non sono rari fenomeni di omonimia, sinonimia.
Per tutte queste ragioni tali lingue vengono anche chiamate “fusive”. (la maggior parte delle lingue indoeuropee ex.
Greco, latino, russo, italiano ecc) Ex. PUELL-arum (il suffisso flessionale –arum condensa più informazioni:
genitivo, plurale, femminile, prima declinazione)
IL SOTTOTIPO INTROFLESSIVO: caratterizzato dal fatto che i fenomeni di flessione a vengono anche dentro
la radice lessicale. I morfemi si intrecciano, tale fenomeno va sotto il nome di incastro a pettine. Perchè i morfemi si
incastrano anche nella radice.
Un esempio tipico è l’arabo
4) Lingue polisintetiche: hanno la struttura della parola più complessa.
• Come le agglutinanti, hanno la parola formata a più morfemi attaccati assieme,
• ma presentano la peculiarità che in una stessa parola compaiono due o più radici lessicali, morfemi pieni.
• Le parole di queste lingue tendono a corrispondere spesso a ciò che nelle altre lingue sarebbero delle frasi
intere; realizzano nella morfologia valori semantici che di solito sono affidati al lessico.
• L’indice di sintesi medio è quindi 4:1 o superiore. (Ex. Groenlandese occidentale)
• Sono a volte chiamate “incorporanti”.
Ex. Lingua inuit “non sono in grado di sentire bene” espressa in un’unica parola. Con l’unione di più suffissi
5) Lingue incorporanti: per alcuni, le lingue incorporanti sarebbero un sottotipo delle lingue polisintetiche,
caratterizzato dalla sistematicità con cui il complemento diretto è incorporato dalle radici verbali.
La differenza tra le polisintetiche e agglutinanti. Nelle polisintetiche l’indice di sintesi è alto ma anche l’indice
di fusione.
Volendo rappresentare in modo sintetico:
+ANALITICHE
1. Isolanti – rapporto 1:1
2. Flessive/fusive
3. Agglutinanti
4. Polisintetiche +SINTETICHE
Nella realtà le lingue non mantengono rapporti estremamente rigidi.
Distinzione tra lingue analitiche lingue sintetiche: Passando dal tipo linguistico isolante al tipo linguistico
polisintetiche vi è dunque un progressivo complicarsi della struttura della parola: le lingue isolanti sono lingue
tipicamente analitiche, le lingue agglutinanti e ancor più le lingue polisintetiche sono lingue, tipicamente sintetiche.
Il tipo flessivo o fusi o occupa una posizione intermedia tra analiticità e sinteticità.
6.2.2 TIPOLOGIA SINTATTICA
Un secondo fondamentale criterio per classificare le lingue in tipi linguistici è basato sulla sintassi, e precisamente
sull’ordine basico i costituenti principali della frase, quello che si ha nelle frasi canoniche.

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Tale criterio è divenuto sempre più importante e rappresenta il cardine della tipologia linguistica. I costituenti
sintattici fondamentali presi in considerazione sono quelli che realizzano il soggetto, il verbo e il complemento
oggetto o diretto.
Sono possibili sei ordini diversi:
• SVO: secondo per frequenza (italiano come tutte le altre lingue romanze
• SOV: è l’ordine più frequente (turco, giapponese).
Entrambi i due ordini predominanti hanno il soggetto in prima posizione. Inoltre sembrano agire due principi:
• Principio di precedenza: fra i costituenti nominali il soggetto, data la sua prominenza e priorità logica, deve
precedere l’oggetto
• Principio di adiacenza: per cui verbo e oggetto debbono essere contigue, in ragione della loro stretta relazione
sintattico-semantica e della dipendenza diretta del secondo dal primo.
Avremmo quindi che SOV e SVO obbediscono ad entrambi i principi. VSO realizza il primo ma non il secondo
principio:
• VSO: è il terzo (arabo, ebraico)
• VOS: è il quarto
• OVS
• OSV
Le lingue VO: costruiscono a destra (gaelico) Le lingue OV: costruiscono a sinistra (turco)
ERGATIVITA’ E PROMINENZA TROPICALE
L’ergatività: riguarda l’organizzazione dei sistemi di casi che traducono in superficie i ruoli semantici connessi al
verbo. Esistono infatti delle lingue che assegnano una marcatura diversa di caso al soggetto a seconda che esso
sia soggetto di un verbo transitivo o di un verbo intransitivo. Queste lingue si chiamano “ergative”(lingua tipica
ergativa: l’avaro), perché attribuiscono una rilevanza particolare alla funzione o ruolo semantico di “agente”.
(Ex. Ergon vale appunto “opera, attività, lavoro” e il verbo “ergazomai” come “compiere”)
La struttura topic-comment del cinese: costituita dal mero accostamento di una parte tematica e una parte tematica,
che fa da rema.
CAPITOLO 7: MUTAMENTO E VARIAZIONE NELLE LINGUE
7.1 LA LINGUA LUNGO L’ASSE DEL TEMPO
7.1.1 IL MUTAMENTO LINGUISTICO
Una proprietà delle lingue, quando sono considerate come entità calate negli usi di una concreta comunità sociale, è
costituita dalla variazione. Una lingua non è un blocco uniforme, si presenta in forme diverse, mostra possibilità e
modi diversi di realizzazione delle unità del sistema, di usi differenti.
Questo si manifesta in ogni lingua è visibile lungo l’asse del tempo, nella diacronia. Ogni lingua conosce
cambiamenti con il passare del tempo, le strutture e i paradigmi si modificano, nascono nuove abitudini, parole e
costrutti. Altri invece cadono in disuso. All’insieme di tali cambiamenti si dà il nome di mutamento linguistico, il
settore che si occupa di questo è la linguistica storica.
Una lingua è di fatto continuamente in movimento, i cambiamenti che avvengono in una lingua sono graduali e
progressivi, conferiscono a uno stato di lingua in un certo periodo temporale, un aspetto diverso in almeno alcuni
dettagli rispetto allo stato della stessa lingua in un periodo storico precedente.
Cambiamenti locali multipli in parti diverse del sistema possono sommarsi e ingrandire via via le differenze fra uno
stato di lingua e l’altro, quando uno stato di lingua risulti così cambiato, si è in presenza di una nuova lingua.
Uno dei criteri è la mancanza di comprensibilità, quando ciò avviene è nata una lingua. È il caso dell’italiano e delle
altre lingue romanze, nate dal latino e per una somma di mutamenti che sono via via intervenuti fino a farne una
lingua diversa. Il fenomeno è avvenuto gradualmente. Le nuove lingue, i volgari, hanno cominciato ad essere
documentati in usi scritti.
• Il primo documento di volgare italiano è il Placito capuano, del 960

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• Il meccanismo di mutamenti segue una trafila che inizia con un’innovazione e prosegue con una fase in cui
l’innovazione si diffonde e l’elemento innovante coesistere nel sistema con l’elemento preesistente, così
l’innovazione può essere accettata dalla comunità parlante, a questo punto il mutamento è compiuto.
• Le cause e i fattori del mutamento linguistico sono molteplici. A dare origine e fornire una certa direzione ai
mutamenti linguistici vi sono sia ragioni e motivazioni interne alla lingua, sia fatti esterni.
• Una causa esterna è l’estinzione o morte di lingue. Assieme al fenomeno opposto della nascita di una nuova
lingua, costituisce in effetti il caso più macroscopico di mutamento linguistico.
La lingua che si estingue lascia tracce, si tratta di fenomeni di sostrato. Il termine Sostrato si usa per indicare in
generale l’influenza di una lingua precedente sulla lingua successiva in una comunità parlante.
Fattori interni del mutamento linguistico sono sia le tendenze del sistema a regolarizzare, acquistare coerenza e
simmetria, ottimizzare le strutture, sia le operazioni inconsce del parlante volte a semplificare, sia nella produzione
sia nella ricezione, le strutture della lingua.
I singoli mutamenti che avvengono in una lingua sembrano tuttavia seguire una logica interna, un percorso dinamico
che collega i vari mutamenti nei diversi settori della lingua. Tale direzione è chiamata deriva.
7.1.2.FENOMENI DI MUTAMENTO
Molti fenomeni del mutamento fonetico sono anche validi in sincronia, dando conto dei rapporti fra diverse forme
che parole e morfemi possono assumere, e delle modificazioni che si hanno tra realizzazioni dell’italiano standard e
di altre varietà d’italiano.
Vengono usati i simboli < e >; la forma che sta dal lato aperto della freccia è l’etimo, ovvero la forma originaria più
antica da cui la forma attuale proviene.
Nel mutamento fonetico, frequenti sono i fenomeni di assimilazione: due foni diversi nel corpo della parola possono
diventare simili con l’acquisizione da parte di uno dei due foni di uno o più tratto comuni con l’altro fono. È un caso
di assimilazione anche la palatalizzazione delle consonanti velari davanti a vocali anteriori.
L’assimilazione può avvenire anche tra foni non contigui nella catena parlata, come nella metafonia, la
modificazione del timbro di una vocale interno per effetto della vocale finale. Esiste anche il fenomeno contrario
all’assimilazione, la dissimilazione, differenziazione tra foni che si ha quando due foni simili o uguali non contigui
in una parola diventano diversi.
Altri fenomeni di mutamento sono:
• La metatesi, spostamento dell’ordine dei foni di una parola
• La soppressione o caduta di foni, in particolare di vocali, in una parola. Queste possono avvenire in posizione
iniziale, aferesi, in posizione interna, sincope, in posizione finale, apocope
• L’inserzione o aggiunta di foni: epentesi nel corpo di una parola, protesi all’inizio e epitesi alla fine dove
si nota un altro fenomeno nel passaggio dal latino all’italiano, la dittongazione.
Molta importanza hanno avuto le leggi fonetiche, ovvero i mutamenti fonetici regolari che nell’evoluzione delle
lingue toccano intere serie di parole, nelle quali un fono si trasforma sistematicamente in un altro fono.
La loro scoperta ha consentito di giungere a una classificazione dei rapporti di parentela fra esse. Nella linguistica di
fine Ottocento, erano ritenute agire senza eccezioni, mentre presto è stato constatato che non sono totalmente
predittive ma ammettono numerose eccezioni. A livello fonologico, alcuni fenomeni sono:
• Allofoni di un fonema acquistano valore distintivo e diventano fonemi autonomi, fonologizzazione
• Fonemi perdono il valore distintivo e diventano allofoni di un altro fonema, defonologizzazione, che non
raramente porta a una fusione di fonemi
• Perdita di fonemi
L’insieme di questi può portare a un mutamento dell’inventario fonematico della lingua. I mutamenti fonetici-
fonologici possono anche consistere in spostamenti a catena.
Fra i più noti le rotazioni consonantiche, la prima è nota come la Legge di Grimm:
• il passaggio delle occlusive sorde a fricative sorde,
• delle occlusive sonore a occlusive sorde,
• delle occlusive sonore aspirate a occlusive o fricative sonore.
Riguarda principalmente il ramo germanico delle lingue indoeuropee.

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La seconda rotazione invece riguarda l’evoluzione del tedesco fra le lingue germaniche.
• Le occlusive sorde p, t, k, diventano affricate in inizio di parola e in posizione postconsonantica, e fricative in
posizione postvocalica
• Le fricative sonore diventate occlusive passano a sorde
• La fricativa dentale sorda diventa occlusiva sonora
Nella morfologia, possono cadere categorie o distinzioni morfologiche e nascerne di nuove, e i morfemi possono
cambiare le regole di impiego.
• Uno dei principali meccanismi nella morfologia è l’analogia, consiste nell’estensione di forme a contesti in
cui esse non sono appropriate sul modello di contesti più frequenti e normali.
• Altro fenomeni importanti sono la rianalisi, la formazione nelle lingue romanze del passato prossimo,
inesistente in latino.
• La grammaticalizzazione, mutamento per cui un elemento del lessico diventa un elemento della
grammatica: un lessema perde il suo valore semantico lessicale ed è assorbito dalla grammatica come parola
funzionale o come morfema. Ex. Suffiso –mente non è altro che il sostantivo latino mens, mentis
I fenomeni più rilevanti nel mutamento sintattico concernono di solito l’ordine dei costituenti. Il mutamento
sintattico coincide quindi con un mutamento tipologico. Nella semantica lessicale, il mutamento si manifesta in
primis come arricchimento del lessico, con l’ingresso di nuove parole (neologismi) nell’inventario dei lessemi.
• L’arricchimento può avvenire con materiali e mezzi interni alla lingua, utilizzando i meccanismi di formazione
di parola a partire da lessemi già esistenti.
• Avviene ovviamente anche il fenomeno opposto, la perdita dei lessemi.
• Avvengono poi cambiamenti nelle associazioni fra significanti e significati, quando un diverso significante è
riferito a un significato già esistente, o viene attribuito un nuovo significato a un significante esistente.
• I meccanismi si basano su vari tipi di rapporti fra i significati, in primo luogo rapporti di somiglianza (metafora)
e rapporti di contiguità (metonimia).
• Un genere analogo alla rianalisi nella morfosintassi, è la paretimologia ovvero la risemantizzazione di una
parola tramite la rimotivazione del suo significato, che la rende più trasparente attraverso l’apparentamento a
una parola nota.
• Spesso quello che cambia è l’area semantica coperta da una parola, così si hanno estensioni o generalizzazioni,
o al contrario restringimenti o specializzazioni.
In questo ambito rientrano anche i mutamenti semantici per tabuizzazione (da tabù), che riguardano l’interdizione
di parole relative a determinate sfere semantiche e ai concetti a esse attinenti, sostituite da altre parole di significato
non diretto, dette eufemismi.
I mutamenti possono anche coinvolgere i campi semantici portando a una loro ristrutturazione. In latino ad esempio
il campo semantico dei colori era strutturato anche secondo una distinzione di brillantezza.
Mutamenti si hanno anche nella pragmatica, come ad esempio il sistema di allocuzione. Nel modo in cui si
interagisce con gli interlocutori, il sistema dell’allocuzione è passato dal latino “tu” sing/”vos” plurale per ogni tipo
di interlocutore alla bipartizione fra “tu” confidenziale e “voi” allocutivo di rispetto singolare; poi nel 600 tripartita
anche in “lei” formale.
7.2 LA VARIAZIONE SINCRONICA
7.2.1 VARIETÀ DI LINGUA E VARIABILI SOCIOLINGUISTICHE
La proprietà di variare è più evidente in sincronia in un dato periodo temporale. La ragione della variazione linguistica
sta nell’essere funzionale ai diversi bisogni comunicativi e sociali a cui per i suoi parlanti una lingua deve rispondere
un certo periodo storico in una certa comunità. La variazione interna della lingua è il campi specifico di azione della
sociolinguistica.
La sociolinguistica studia cosa accade quando un sistema linguistico è calato nella realtà concreta degli usi che ne
fanno i parlanti nelle loro interazioni verbali, quindi mette in correlazione la lingua con la società e con gli usi
linguistici delle persone. Un insieme di forme linguistiche, ai vari livelli di analisi considerate paritarie costituisce
una varietà di lingue.
Per individuarla occorre fare riferimento ai fatti linguistici e ai fatti sociali, extralinguistici, con i quali i fatti
linguistici correlano. Varietà di lingua è un concetto essenziale nella prospettiva sociolinguistica:
• una lingua si presenta o si manifesta sempre, nei concreti usi comunicativi in una comunità sociale.

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• È costituita da un insieme di varianti tra loro solidali
• Le variabili sociolinguistiche danno luogo sul versante linguistico, alle varietà di lingua.
Una variabile sociolinguistica è un punto o un’unità del sistema linguistico che ammette realizzazioni diverse
equipollenti (cioè che non mutano il valore di quell’unità del sistema e non ne cambiano il significato) ciascuna delle
quali è in correlazione con qualche fatto extralinguistico.
• Ex. Le differenti realizzazioni regionali di certi fonemi dell’italiano
• Ex. A livello morfologico, la forma del pronome clitico di terza persona obliquo: al singolare gli maschile/ le
femminile
• Ex. A livello lessicale, le coppie sinonimiche ma collegate a diversi ambiti di uso della lingua: come
papà/padre/babbo
7.2.2 DIMENSIONI DI VARIAZIONE
Esistono quattro dimensioni di variazione:
La DIATOPIA riguarda la variazione nello spazio geografico, attraverso i luoghi in cui una lingua è parlata e in cui
i suoi parlanti risiedono o da cui provengono. Le varietà diatopiche dell’italiano sono gli “italiani regionali”,
numerosi sono anche i geosinonimi, termini differenti in diverse regioni d’Italia per designare lo stesso oggetto o
concetto.
Frequenti i regionalismi semantici, significati particolari assunti da un lessema in una determinata area. Alla
variazione diatopica sono connesse anche morfologia e sintassi. Ex morfologico. Il suffisso –aro è di Roma, di contro
al toscano –aio > benzinaro/benzinaio.
Ex sintassi. Nel Sud esiste l’accusativo preposizionale: viene impiegata la preposizione “a” per complemento oggetto
rappresentato da oggetto animato (hai visto a maria?) La differenziazione diatopica può anche superare i confini
geografici di una singola nazione, quando una lingua sia parlata come lingua nazionale in più paesi.
LA DIATRASIA riguarda la variazione nello spazio sociale, attraverso le classi o strati sociali e i gruppi di parlanti
e reti sociali in una società. La variazione diastratica emerge anch’essa ai vari livelli di analisi. Nella fonetica, è
evidente in casi di pronunce italiane influenzate dal dialetto, che tengono a comparire soprattutto in parlanti con
scarso grado di istruzione.
Nella morfologia si hanno per es. generalizzazioni di forme e regolarizzazioni analogiche di paradigmi complessi,
come per es. nel caso dell’articolo (i amici, dei svizzeri). Tutti questi fenomeni sono caratteristici delle varietà
diastratiche incolte, basse. Molti di questi fenomeni dipendono infatti dal cattivo padroneggiamento della lingua
standard da parte di parlanti non colti i semicolti che parlano per lo più dialetto. Nel loro insieme tali varietà sono
chiamate italiano popolare.
La DIAFASIA riguarda la variazione attraverso le diverse situazioni comunicative. È più complesse dalle altre,
vanno in effetti riconosciute al suo interno due sottodimensioni: l’asse dei registri e quello dei sottocodici.
I registri sono le varietà diafasiche dipendenti dal carattere formale/informale dell’interazione comunicativa e dal
ruolo reciproco di parlanti e interlocutori. I registri si dispongono su una scala che va da un estremo alto, quello delle
situazioni formali, a un estremo basso.
I sottocodici sono le varietà diafasiche dipendenti dall’argomento di cui si parla e dalla sfera di contenuti ed attività
a cui si fa riferimento. Sono caratterizzati soprattutto da termini tecnici o scientifici dei rispettivi settori.
La DIAMESIA riguarda la variazione attraverso il mezzo o canale della comunicazione. Ha tratti in comune con la
diafasia. La lingua parlata tende a coincidere con il registro informale, e la lingua tipicamente scritta con il registro
formale. Si può così distinguere nella produzione e struttura dei messaggi da un lato un modo fonico opposto al modo
grafico, dall’altro lato un modo parlato opposto a un modo scritto.
Ogni dimensione rappresenta un asse di variazione della lingua su cui si possono collocare le diverse varietà di lingua.
L’insieme di queste lungo in cui si articola una lingua storico-naturale in un periodo preciso e della loro collocazione
lungo i diversi assi di variazione può essere chiamato architettura di quella lingua.
L’insieme delle varietà di lingua presenti presso una certa comunità sociale costituisce il repertorio linguistico di
quella comunità. Le varietà che formano il repertorio possono essere varietà della stessa lingua o più lingue diverse.
Si hanno quindi repertori monolingui e plurilingui.
Quando in più paesi coincide la stessa lingua presente nel repertorio diventa lingua ufficiale, perciò lingua standard.

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La lingua standard è una lingua codificata con un repertorio di manuali di riferimento e di testi esemplari, per lo più
con una tradizione letteraria prestigiosa e di lunga data.
• È tendenzialmente unitaria, è adottata come modello per l’insegnamento scolastico, ed è ritenuta dai parlanti
della comunità la buona e corretta lingua.
• Contrapposti alla lingua standard ci sono i dialetti.
Per dialetto si intende un concetto meno univoci di quel che sembra. Viene utilizzato per designare due tipi di casi
almeno. Possono essere dialetti sistemi linguistici imparentati con la lingua standard, ma aventi una struttura e storia
autonoma, è il caso dei dialetti italiani più precisamente Italo- romanzi. E possono ugualmente essere dialetti varietà
risultanti dalla diversificazione su base territoriale di una certa lingua dopo che questa si è diffusa in un paese.
In un repertorio spesso vi sono anche lingue di minoranza, lingue non imparentate e rappresentanti una cultura e una
tradizione etnica diverse, le minoranze linguistiche.
(BOX 7.2 SU LINGUE D’ITALIA; È SOLO UNA TABELLA, POCO IMPORTANTE, PG. 293)
In repertori plurilingui è assai raro che i diversi sistemi linguistici stiano sullo stesso piano negli usi e negli
atteggiamenti della comunità parlante e svolgano le medesime funzioni. A una situazione di bilinguismo in cui le due
lingue coprano ambiti e ruoli socialmente differenziati, diglossia.
La situazione in cui sono compresenti italiano e dialetto è un po’ diversa.
Le due varietà di lingue sono proprie di differenti ambiti, la varietà bassa è del parlato informale, l’italiano negli usi
scritti e amministrativi e nell’insegnamento scolastico appare solo come varietà alta, formale.
Quest’ultima è impiegata nel parlato quotidiano ed è per la maggioranza della popolazione lingua di socializzazione
primaria. In questo caso si parla di dilalia. Fra i principali fenomeni è conseguenze del contatto linguistico vanno
menzionati interferenza e prestiti.
Interferenza riguarda l’influenza e l’azione che in sistema linguistico può avere su un altro, e il termine è spesso
usato per coprire tutta la gamma di fenomeni che avvengono e che consistono essenzialmente nel trasporto di
materiali linguistici da una lingua a un’altra.
Prestito è quando ciò che viaggia da una lingua a un’altra è materiale linguistico di superficie e si tratta di elementi
lessicali. L’uso dei prestiti non implica per forza il bilinguismo. Il prendere unità lessicali da un’altra lingua è
fisiologico e normale nella storia di tutte le lingue. Il lessico di una lingua è un insieme composto da parole della
tradizione e provenienti da altre lingue, i forestierismi.
Quando ciò che passa da una lingua a un’altra non è una parola o espressione nei suoi aspetti formali, ma il suo
significato o la sua struttura interna, resi con mezzi propri della lingua ricevente, si parla di calchi.
Mentre interferenze, prestiti e calchi sono fenomeni che avvengono sul piano del sistema linguistico, il vasto insieme
di fatti indicati con l’etichetta di Commutazione di codice riguarda i fenomeni che avvengono sul piano del discorso
ed è tipico dei bilingui. Il termine indica L’USO ALTERNATO DI DUE DIVERSE LINGUE NELLA STESSA
INTERAZIONE COMUNICATIVA DA PARTE DI UNO STESSO PARLANTE, in linea di principio anche fra
lingua e dialetto.

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FANCIULLO - INTRODUZIONE ALLA LINGUISTICA STORICA
INTRODUZIONE ALLA LINGUISTICA STORICA
Le lingue cambiamo col trascorrere del tempo, non solo dopo un lasso di tempo notevole, ma anche su archi
cronologici assai più ristretti, compresi nella vita di una persona. La LINGUISTICA STORICA O DIACRONICA
studia il mutamento delle lingue in relazione al trascorrere del tempo o, in altre parole, in diacronia.
La LINGUISTICA SINCRONICA seleziona e studia un qualunque momento cronologico indipendentemente dal
suo evolversi diacronico. (Il cambiamento delle lingue può avvenire anche a livello diatopico e geografico). Inoltre,
non è possibile distaccare sincronia e diacronia in modo netto, ognuna, nella sua particolarità, tiene conto dell’altra.
DI COSA SI OCCUPA LA LINGUISTICA STORICA? Innanzitutto bisogna partire dicendo che questa è una
disciplina nata verso la fine del 700 e specializzata nel secolo successivo. L’orizzonte della linguistica storica può
essere vastissimo. Il suo fine è quello di dare una spiegazione organica delle stupefacenti affinità che, ad un certo
punto della storia, si scoprono legare un numero sorprendentemente ampio di lingue antiche e moderne. Si inizierà a
parlare di FAMIGLIA LINGUISTICA.
CAPITOLO 1: LA PARENTELA LINGUISTICA
1. LA FAMIGLIA LINGUISTICA
Tutte le lingue del mondo possono essere classificate in base a diversi criteri, uno di questi è quello
GENEALOGICO: DARE UNA PARENTELA, LINGUISTICAMENTE PARLANDO, A DELLE LINGUE
AFFINCHE’ SI POSSA PARLARE DI UNA DETERMINATA FAMIGLIA LINGUISTICA.
COME SI FA AD INDIVIDUARE UNA FAMIGLIA LINGUISTICA? Individuare una famiglia linguistica
significa risalire ad una lingua-capostipite, da cui, come una cascata, derivano tutte le altre, cioè derivano le varie
lingue-madri e di conseguenza le varie lingue-figlie.
COSA SONO LE LINGUE-FIGLIE E LE LINGUE-MADRI? Nel caso delle lingue indoeuropee, per lingue-
figlie intendiamo le lingue di ultima generazione: lingue neolatine o romanze, lingue germaniche, slave, celtiche
e baltiche. Per ciascuna di queste bisogna individuare una lingua-madre:
• Il latino per le lingue romanze e neolatine
• Il germanico comune per le lingue germaniche
• Lo slavo comune per le lingue slave
• Il celtico comune per le lingue celtiche
• Il baltico comune per le lingue baltiche
Nel caso delle lingue romanze, possiamo dire di conoscere abbastanza la lingua-madre, cioè il latino, perché ne
abbiamo conoscenza diretta. Ma non possiamo dire lo stesso per le altre.
Perciò si possono riscontrare molte difficoltà nel porre ordine ad una famiglia linguistica della quale si conoscono
direttamente solo i membri definiti “ultima generazione” e solo pochi membri attribuibili alla “generazione
precedente”.
2. LESSICO CONDIVISO E CORRISPONDENZE FONETICHE
Le lingue che appartengono alla stessa famiglia linguistica hanno diverse corrispondenze. Prendiamo come esempio
il francese e l’italiano, entrambe appartengono alla stessa lingua- madre (latino) e hanno molte somiglianze sotto
diversi punti di vista:
• LESSICO CONDIVISO O LESSICO (IN) COMUNE: Vale a dire: percentuale più o meno elevata di
voci che danno realmente l’idea di “corrispondersi” in qualche modo nelle due lingue. Infatti, avvertiamo
che, tra francese e italiano, la somiglianza è visibile a livello grafico (scrittura) assai più che a livello fonico
(pronuncia); l’attuale grafia del francese è attardata di alcuni secoli rispetto alla molto più evoluta pronuncia
effettiva. Se non ci fossero state somiglianze lessicali non si sarebbe neanche fatta l’indagine. Il lessico
condiviso però può non bastare per individuare la parentela. Bisogna studiare l’origine di queste
corrispondenze che NON È AFFATTO CASUALE.
• SISTEMATICITA’ COSTANTE: Questo ci fa capire come l’aria di famiglia che corre fra italiano e
francese non solo non è frutto di una più o meno vaga somiglianza, ma risulta “innervata” da corrispondenze
sistematiche, tali da rivelare, a volte, un’identità formale anche sotto quella corrispondenza che si
presenterebbe come irrimediabile diversità.

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Per capire questa affermazione, prendiamo come esempio l’occlusiva velare sorda [k]. Questa consonante
inizialmente veniva usata, da entrambe le lingue, seguita da a, o, u:
1. Questa è la sequenza che viene ancora utilizzata dalla lingua italiana come tale dai primordi della lingua e
resti immutata fino ai giorni nostri.
2. Vediamo come la lingua francese si sia distaccata da questa sequenza e che abbia cambiato la [k] in [ s
allungata,ved pag27] (graficamente ch), (quindi si indebolisce) quando è seguita da a. Diventa una
fricativa. Mentre con la ‘o’ e con la ‘u’ l’occlusiva velare [k] resta tale.
QUESTO AMMETTE UNA SOLA SPIEGAZIONE: Entrambe le lingue hanno avuto un medesimo punto di
partenza, rispetto al quale, da un certo momento in poi, una delle due abbia preso a divergere in ben
individuabili circostanze e solo in quelle. Cambia il modo e il punto di articolazione.
3. LESSICO CONDIVISO E CORRISPONDENZE MORFOLOGICHE
Prendendo sempre come esempio le corrispondenze tra lingua francese e italiana, vediamo che ci sono alcune parole
che all’apparenza sono simili, che presentano qualche differenza, ma che hanno lo stesso significato. ATTRAVERSO
DEGLI ESEMPI CAPIREMO CHE: ENTRAMBE LE LINGUE HANNO UNA MEDESIMA FORMA DI
APPARTENZA, DIVERSAMENTE EVOLUTA NELLE DUE LINGUE.
Prendendo in analisi le due parole: fr. MARCHÈ e l’it. MERCATO: Ammesso che significhino la stessa cosa,
notiamo ovviamente delle differenze e ci poniamo delle domande.
• Perchè in francese la a tonica è divenuta [‘e] (marché)?
• Perché la [t] intervocalica dell’italiano corrisponde zero in francese?
La risposta a questi interrogativi ci mostra che le corrispondenze non sono casuali:
• La a tonica italiana corrisponde alla [‘a] francese se in italiano la a accentata è in sillaba chiusa.
• La a tonica italiana corrisponde alla [‘e] francese (aperta o chiusa) se in italiano la a accentata è in sillaba
aperta.
E PERCHE’ LA LINGIA FRANCESE TIENE CONTO DELLA STRUTTURA SILLABICA ITALIANA? In
qualche lontana fase della sua storia, il francese deve aver conosciuto una struttura sillabica assai simile se non uguale
a quella che, ancora oggi, si riscontra in italiano.
• In altre parole: Il francese ha dato vita ad una struttura tale da poter giustificare. Tutte le alternanze e
differenze. Solo dopo l’instaurarsi di queste alternanze, il francese avrà imboccato la deriva che lo ha
portato ad allontanarsi dall’italiano: un forte indebolimento delle vocali a fine parola, unito ad altri processi
fonetici, ha completamente sovvertito la struttura sillabica che il francese condivideva con l’italiano, e ne
ha instaurato una nuova e diversa, al cui interno le alternanze non hanno più possibilità di spiegazioni, ma
ne sono parte integrante.
Altre corrispondenze che ci fanno capire il processo dalla medesima forma di partenza allo sviluppo delle
lingue di ultima generazione (it. e fr.):
• Sempre nelle due parole marchè e mercato, vediamo un’altra corrispondenza: la [t] italiana e la non
rappresentazione francese di questa t. Non sappiamo quali sono i motivi di questo corrispondersi, ma
sappiamo che la corrispondenza c’è. Capiamo che entrambe derivano dalla sequenza latina -ATU (come
quella del participio passato di prima coniugazione MERCATU). Vediamo quindi come questa origine
latina comune abbia preso piega diversa nel francese e nell’italiano. (fr.chantè; it. Cantato)
• Il francese [-‘y] corrisponde all’italiano -UTO: VOULU; VOLUTO
• Il francese [-‘i] corrisponde all’italiano -ITO: DORMI; DORMIRE
4. IL RUOLO DELLA MORFOLOGIA
Fino ad ora sono stati rilevati, tra italiano e francese, un certo numero di corrispondenze di tipo fonetico-fonologico,
sufficienti a dare parentela linguistica. Ma un’ulteriore conferma viene dalla MORFOLOGIA.
Lungo l’arco diacronico delle lingue, i MORFEMI, quanto meno quelli FLESSIVI (relativi a genere, numero…)
SONO FRA GLI ELEMENTI PIU’ STABILI IN ASSOLUTO, MENO SOGGETTI AL CAMBIAMENTO, a
differenza del lessico che può mutare con estrema facilità.

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GLI ELEMENTI MOROFOLOGICI:
1. Devono esprimere RELAZIONI senza rinviare a elementi extralinguistici. COSA SI INTENDE PER
RELAZIONI? Il morfema femminile singolare -a dell’italiano casa, barca, gatta deve relazionarsi con il
morfema femminile plurale -e dell’italiano case, barche, gatte; e ancora, deve relazionarsi con il
morfema maschile singolare -o gatto, libro, palazzo. SI TRATTA DI RELAZIONI STABILI SUL
LUNGHISSIMO TEMPO SENZA MUTARE CON ELEMENTI EXTRALINGUISTICI.
2. Devono avere TENDENZA ALLA CONSERVATIVITA’: Questo significa che i morfemi flessivi non
possono essere trasmessi da una lingua ad un’altra (tranne per casi eccezionali). Questo passaggio è inutile,
non praticato per il semplice fatto che, nel sistema linguistico ricevente, entra in crisi l’identità stessa del
morfema.
LA MORFOLOGIA È ESSENZIALE PER LA CLASSIFICAZIONE DELLE LINGUE SU BASE
GENEALOGICA. PERCHÈ?
Perché la stabilità dei morfemi flessivi (rispetto al lessico) fa nascere delle concordanze morfologiche essenziali per
indiziare la comune origine di due o più lingue anche quando queste non presentino (quasi) più lessico in comune.
Ritornando all’esempio dell’italiano e del francese: La loro corrispondenza reciproca è visibile sia in ambito lessicale
che morfologico. Inoltre, le corrispondenze sincroniche fra italiano e francese sono conseguenza del differenziarsi
diacronico fra latino e italiano da una parte e latino e francese dall’altra. Il diverso modo dell’italiano e del francese
di reagire in diacronia alla comune eredità latina si trasforma in sincronia nella sistematicità delle corrispondenze fra
le due lingue. (es.it.[k+a] e fr.[s+a]).
5. LA PARENTELA LINGUISTICA IN SENSO VERTICALE
Dopo aver studiato la parentela linguistica in maniera orizzontale (italiano e francese=lingue-sorelle) mediante
lessico e morfologia condivisa e sistematicità di corrispondenze fonetiche-fonologiche, ora è arrivato il momento di
analizzare la parentela linguistica in senso verticale= l’italiano e le altre lingue romanze rispetto al latino.
PARENTELA LINGUISTICA VERTICALE TRA ITALIANO E LATINO
L’idea della loro parentela è suggerita in prima istanza dal lessico condiviso (lat.TERRA e it.terra; lat.PATRE-
MATRE e it.padre-madre; lat.PLANTA e it.pianta).
È precisamente sulla base di corrispondenze lessicali di questo tipo che si testa la sistematicità delle corrispondenze
fonetiche-fonologiche. Questo però non basta per identificare la parentela (come già detto) occorre adesso precisare
le corrispondenze:
Ci sono dei motivi fondati per cui una determinata parola latina sia diventata tale in italiano: es.: - lat. di PLANTA
corrisponde all’it. pianta. Questa non è una cosa casuale, ma ci fa capire che evidentemente ad ogni nesso latino PL-
in posizione iniziale, in italiano debba corrispondere pi-.
Quanto alla morfologia condivisa, si consideri che la morfologia italiana dei nomi tipicamente femminili, maschili
e ambigeneri si basa, rispettivamente, sulla prima, seconda e terza coniugazione latina.
6. LA STRATIFICAZIONE DEL LESSICO
Il lessico è un altro parametro di studio delle lingue delle loro appartenenze ed è costituito da quattro strati.
1. STRATO EREDITARIO
Lessico che ogni lingua riceve dal suo immediato antecedente (lingua-madre). Il lessico si rinnova facilmente in
base alle esigenze, ma esistono settori lessicali più stabili di altri: i numerali, la terminologia parentale, i nomi delle
parti del corpo ecc…
Esempio di settore lessicale stabile: i numeri che le lingue romanze hanno ereditato dal latino sono, per la maggior
parte, uguali tranne per il rumeno che possiede qualche eccezione.
Esempio di termine latino che è stato modificato in base alle esigenze dei parlanti delle lingue diverse: DOMUS.
Questo termine in italiano (e anche in altre lingue) è diventato casa (casetta), in francese, invece, maison(alloggio) e
così via.
Inoltre, lo strato ereditario svolge il ruolo fondamentale di fornire la morfologia flessiva (cioè le “marche
grammaticali”) a tutto il resto del lessico (prestiti, onomatopee, neoformazioni). Ad esempio, il fonosimbolismo
zigzag, viene reso come un verbo italiano zigzagare e coniugato esattamente come il verbo amare. Quindi vediamo
come lo strato ereditario ha donato a questa parola la morfologia flessiva per renderlo un termine della lingua a tutti
gli effetti.
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Questa cosa accade anche con i prestiti: il latino TUNICA, deriva da un prestito commerciale fenicio, ma ha la
morfologia di un qualunque nome latino di prima declinazione. Questo ultimo aspetto ci rinvia al punto successivo.
2. STRATO DEI PRESTITI
Si tratta di voci che una data lingua assume dalle lingue con le quali è più a contatto, strato altamente variabile. I
prestiti linguistici provocheranno che una delle due lingue sia dotata di un prestigio nettamente superiore a quello
dell’altra. Questo prestito avviene non solo per effettiva necessità (italiano che assimila tecnicismi angloamericani),
ma anche per un
intento “mimetico” ossia dettato dal desiderio di partecipare, usando il lessico.
I prestiti possono avere diverse conseguenze:
• La lingua che riceve i prestiti non diventa altro che varietà della lingua che dona: questo avviene nel caso
in cui il contatto tra le lingue a favore della prima e il flusso dei prestiti a senso unico si prolunghino nel tempo;
lo strato lessicale ereditario non riesce più ad imporre la sua morfologia alle voci del prestito (questo è il caso
dell’italianizzazione dei dialetti in Italia).
• Alle nuove generazioni non viene più trasmessa una determinata lingua perché considerata dannosa e
inutile. I genitori, in questo caso, decidono di non trasmetterla più ai figli per i motivi sopra citati
Le lingue madri hanno un duplice compito:
• Funzione di serbatoio lessicale nei confronti delle lingue figlie (il greco e latino nei confronti delle lingue
europee occidentali) e di incremento lessicale in conseguenza del progredire delle arti, scienze ecc…
• Devono offrire CULTISMI. Questi ultimi, rispetto ai normali elementi ereditari, non subiscono mutamenti a
livello fonetico, al contrario, presentano minime differenze o non ne presentano affatto.
3. STRATO DELLE FORMAZIONI ONOMATOPEICHE E FONOSIMBOLICHE
Si tratta di tutte quelle formazioni che, nella loro successione fonica, tentano di riprodurre suoni e rumori di animali,
naturali o di altro tipo (chicchirichì), oppure cercano di suggerire l’idea di quello che si vuole indicare (zigzag per
indicare una linea spezzata).
In questo strato l’arbitrarietà del rapporto tra significante (cioè la sua struttura fonica veicolante una nozione) e
significato (cioè la nozione veicolata da una struttura fonica) è ridotta al minimo. Ma ci sono delle avvertenze:
• Anche nel rapporto significante-significato delle onomatopee esiste un certo grado di arbitrarietà
(l’abbaiare del cane può essere concepito in maniera diversa dalle diverse lingue)
• Le formazioni onomatopeico-fonosimboliche possono presentarsi sia come ideofoni (successioni foniche che
suggeriscono un qualcosa in virtù della loro fonìa=din don) sia strutturate in vere e proprie parole (ticchettare=
verbo; ticchettio=sostantivo).
• L’evoluzione fonetica può tanto oscurare precedenti formazioni onomatopeiche quanto rimotivare su base
onomatopeico-fonosimbolica elementi viceversa di tutt’altra origine: così il toscano succiare ‘succhiare’ è
stato modificato in cucciare favorito dalla rappresentazione onomatopeica dell’atto del succhiare.
4. STRATO DELLE NEOFORMAZIONI (QUELLE DERIVATE, PER MEZZO DI REGOLE
SINCRONICAMENTE PRODUTTIVE, DA FORME COMPRESE IN UNO QUALUQUE DEGLI STRATI
PRECEDENTI)
A mezzo di regole sincronicamente produttive, le quali si applicano a voci provenienti a tutti e tre gli altri strati.
REGOLE SINCRONICAMENTE PRODUTTIVE: sono quelle regole che, in un momento isolabile a piacere
lungo l’arco diacronico di una lingua, il parlante riconosce per l’appunto come regole e le usa normalmente.
CAPITOLO 2: IL MUTAMENTO
1. IL MUTAMENTO
Noi non sappiamo se una lingua che non entra in contatto con nessun’altra possa rimanere tale anche sui tempi lunghi
e lunghissimi. Questo non si può affermare perché non esiste nessuna lingua che sia rimasta isolata per poter
affermare o smentire ciò. Ciò di cui si può essere certi è che le lingue cambiano, e a quest’ultimo è interessato ogni
livello della lingua ma, l’analisi del mutamento a livello fonetico/fonologico è quella che ha segnato l’avvio della
linguistica storica.

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2. FONI E FONEMI
Distinzione tra:
• LIVELLO FONETICO: riguarda la produzione concreta dei suoni (foni) che vengono segnati
convenzionalmente fra parentesi quadre. Essi si collocano a livello della concretezza articolatoria, ad esempio
ci interessa sapere in che modo i suoni vengono articolati, in quale punto dell’apparato fonatorio, con l’intervento
di quali organi articolatori (labbra, denti ecc…) e così via. Perciò sapremo se si tratta di una fricativa o di una
labiodentale, di una nasale o di una dentale ecc…
• LIVELLO FONOLOGICO O FONEMATICO: riguarda quei particolari foni che ciascuna lingua si sceglie
per farne i “mattoni”, ovvero i fonemi, con cui costruire le sequenze dei significanti, cioè le sequenze foniche
in grado di veicolare i significati. I fonemi, segnalati per convenzione tra le barre oblique, si collocano invece
a un livello soprattutto mentale. Si tratta degli elementi che un parlante di una lingua “sa” di dover utilizzare se,
in quella lingua, vuole costruire un significante (=stringa fonica veicolante un certo significato).
Quindi, in poche parole:
IL FONO, ESSENDO LA REALIZZAZIONE CONCRETA DI UN QUALSIASI SUONO DEL
LINGUGGIO, PUR CAMBIANDO LA PRONUNCIA DI UNA PAROLA NON CAMBIA IL SIGNIFICATO.
IL FONEMA SI HA QUANDO, CAMBIANDO IL SUONO DELLA PAROLA, IL SIGNIFICATO DI
QUESTA CAMBIA.
A questo punto, dovrebbe essere chiara anche la definizione tecnica di fonema, che è unità distintiva minima: vuol
dire che il fonema è l’unità fonica più piccola che, pur non avendo, di per sé, un suo significato, tuttavia permette di
distinguere tra significati diversi: (mare, care). Queste coppie di parole che si distinguono per un solo punto della
sequenza si dicono coppie minime.
Inoltre, poiché i fonemi si susseguono l’un l’altro nella catena fonica, può succedere che la loro realizzazione concreta
venga condizionata da elementi circostanti (contesto) e che, dunque, in certe situazioni, si “pronunciano in modo
diverso” rispetto alla realizzazione standard: è il caso della n nasale dentale che, a causa del contesto, viene
pronunciata come nasale velare= vino (n, nasale dentale) e vinco (n, nasale velare) perché condizionata
dall’articolazione consonantica che viene dopo (k).
Tutto questo, cioè i diversi modi, determinati dal contesto, di realizzare uno stesso fonema si dicono:
• Varianti contestuali (o combinatorie; o allofoni contestuali ovvero combinatori) di quel fonema.
Quando le varianti di fonema sono determinate dal contesto si dice che presentano una:
• Distribuzione complementare
Ad esempio: /k/ presenta due varianti= [k] e [c].
Particolarità:
• Il fatto che, in una lingua L, due foni siano varianti contestuali d’un medesimo fonema non esclude che in un’altra
lingua L1 quei due foni possano invece funzionare come fonemi. E’ il caso dell’italiano parlato a Firenze dove
la /k/ si realizza in [x] quando è fra due vocali, indipendentemente dal fatto che le due vocali appartengano a
parole diverse oppure no: ami[x]a ‘amica’.
• Se gli allofoni che si riscontrano più frequentemente sono quelli contestuali (determinati dal contesto), non
mancano neppure i cosiddetti allofoni liberi (varianti libere), ossia indipendenti dal contesto. In italiano ad
esempio possiamo trovare [r]oma (con [r] dentale) oppure [R]oma (con r uvulare, cioè la “r moscia”), ma il
significato resterà sempre Roma.
3. TIPOLOGIA DEI MUTAMENTI FONETICI
Fermo restando che i mutamenti fonetici e mutamenti fonologici sono strettamente interrelati, nel senso che se i
mutamenti fonetici non è detto debbano necessariamente avere conseguenze fonologiche, però i mutamenti
fonologici sono di solito innescati da mutamenti fonetici.
Ci sono diversi mutamenti a livello fonetico:
• L’assimilazione
• La dissimilazione
• L’inserzione

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• La cancellazione
• La metatesi
• La coalescenza
• La scissione
ASSIMILAZIONE
Prevede che due elementi fonici contigui (o comunque vicini) nella catena fonica e fra loro diversi o in tutto o in
parte, si avvicinino in parte (assimilazione parziale) o in tutto ( assimilazione totale) La gamma dei fenomeni
assimilatori è vastissima:
1. Assimilazione regressiva: lat. FA[kt]u - it. fa[tt]o= il secondo elemento condiziona il primo.
2. Assimilazione progressiva: lat. Mu[nd]U – nap. Mu[nn]ə, è il primo elemento a condizionare il secondo.
3. Assimilazione bidirezionale: lat. AM[iku] – sp. Amigo, quqi è l’azione congiunta delle due vocali, quella
prima e quella dopo l’elemento modificato.
4. Armonia vocalica: certi suffissi armonizzano, vale a dire assimilano, in tutto o in parte, la loro vocale
all’ultima vocale della parola alla quale vengono uniti.
Metafonia o metafonesi: fenomeno presente nei dialetti italiani dal nord al centro sud, ma non il toscano (né di
conseguenza l’italiano). Questo fenomeno riguarda le sole vocali accentate medie, ossia le medio-chiuse e le
medio-aperte.
IN COSA CONSISTE: Per effetto di vocali alte ([-i] e [-u])* di norma in posizione finale di parola, le vocali accentate
medie si modificano: le medio-basse si innalzano alle medio-alte (passando quindi a [‘e] e [‘o]), oppure dittongano
(in [‘je] e [‘wo]); le medio-alte si innalzano alle alte (passando quindi in [‘i] e [‘u]).
*le vocali alte derivano dal latino -I (lunga) e dal latino -U[M] (u-breve).
Questo meccanismo è più chiaro nei dialetti laziali, umbri e aquilani ma, nella gran parte dei dialetti non lo è. Nella
maggior parte dei dialetti questo meccanismo risulta oscurato dal fatto che le vocali finali si sono ridotte di numero,
o si sono ridotte ad un’unica vocale indistinta – ə. o addirittura sono cadute. A queste condizioni il meccanismo
continua ad agire ma, le vocali finali essendosi ridotte di numero o essendo scomparse, il parlante finisce per “non
sapere più” perché in certi casi il meccanismo si applichi e in altri no. In molti dialetti questo fenomeno si è
trasformato in un tipico caso di morfologia non concatenativa.
DISSIMILAZIONE
Prevede che due elementi contigui o vicini e articolatoriamente uguali si diversifichino in misura maggiore o minore.
Fenomeni dissimilatori: lat pe[r]eg[r]inu >it. pe[ll]eg[r]ino / fr. Pe[l]e[r]in= ([r-r] > [l-r]):
DUE FENOMENI OPPOSTI L’UN L’ALTRO:
INSERZIONE
Aggiunta di materiale fonico etimologicamente ingiustificato. E’ il caso di: it. ca[v]olo o sp.
[e]scuela rispetto ai punti di partenza lat CAULE e lat. SCHOLA.
CANCELLAZIONI
Sottrazione di materiale fonico che invece dovrebbe essere presente. E’ il caso di it. caldo o sp. Siglo rispetto ai punti
di partenza lat. CLIDU e lat. SAECULU.
Il gioco combinatorio delle cancellazioni e inserzioni può portare molto lontano:
Nel nome dell'isola di Ischia, risalente al latino insula e perciò essa era 'l'isola per eccellenza': lat insula >*isula
(cancellazione di [n] nel gruppo [ns] come in mense> mese) > isla (cancellazione della vocale postonica di parola
accentata in terzultima sillaba come lat frigidu
> *frigdu > it freddo) > iscla (inserzione dell'occlusiva velare nel gruppo [s] + [l]
=isglanda > Islanda) > Ischia
METATESI
Spostamento di materiale fonico in un punto della catena diverso rispetto a dove dovrebbe ritrovarsi in base
etimologica. È il caso dell’it. dial. Crapa ‘capra riferito a persone tarate’ rispetto al punto di partenza lat. CAPRA.

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COALESCENZA
Funzione di due elementi fonici contigui in un terzo elemento, diverso dai primi, ma che, di solito, presenta
caratteristiche di ciascuno degli elementi di partenza. E’ il casi dell’it. vi[ňň]a ‘vigna’, dove c’è il fono nasale palatale
[ňň] nato dalla fusione della nasale dentale [n] col legamento palatale [j] presente nel lat. “parlato” VINJA per il
classico VINEA.
SCISSIONE
Opposto alla coalescenza. Un fenomeno fonico si scinde in due elementi distinti. Un esempio classico è la
dittongazione italiana: [ε] e [ͻ] se sotto accento e in sillaba aperta, diventano rispettivamente [jε] e [wͻ]: lat. leve >
lieve. lat bonu > buono.
Frequente è la scissione come mezzo col quale la lingua ricevente adatta suoni, che le sono estranei, di un'altra lingua.
Es: la [y] francese, vocale alta, anteriore arrotondata assente in it., in questa lingua viene scissa nelle sue due
componenti (vocale alta anteriore (i) e vocale alta arrotondata (u) e vengono articolate non simultaneamente ma in
successione: men['ju] > men[y ] in fr.
4. ANALOGIA, ETIMOLOGIA POPOLARE, TABÙ LINGUISTICO
I mutamenti fino ad ora esaminati possiamo definirli meccanici, ma non nel senso di universali, bensì nel senso che,
all’innesco di tali mutamenti, è sufficiente che i foni coinvolti si trovino in una data concatenazione all’interno della
sequenza fonica. Esistono però mutamenti che non sono spiegabili in termini meramente fonotattici, ma
presuppongono condizionamenti di astratta natura. Tra i mutamenti dal contesto troviamo:
• Analogia
• Paretimologia (detta anche etimologia popolare)= consiste nella modificazione fonica di un certo significante
(significante 1) per effetto di un altro significante(significante 2) al quale, per torto o ragione, il parlante associa
il primo significante.
Esempio: la parola italiana “vedetta” si identifica con ‘luogo elevato dal quale si può sorvegliare’. Perciò ogni
italiano attribuirebbe questo nome al verbo ‘vedere’. Ma in realtà, il termine ‘vedetta’, nasce dalla terminologia
marinaia per indicare l’altezza su cui il marinaio si issava durante il suo turno di guardia. Questo termine però, al di
fuori dell’ambito marinaio, risultava poco prospicuo, quindi il parlante ‘di terra’ ha pensato bene di correggerlo= da
veletta si passa a vedetta.
SI PUO’ CHIARAMENTE CAPIRE CHE, AD ESSERE COINVOLTI NELLA PARETIMOLOGIA SONO
IN PRIMA ISTANZA I SIGNIFICANTI COI QUALI IL PARLANTE MEDIO HA SCARSA
DIMESTICHEZZA, O PERCHE’ SI TRATTA DI PRESTITI DA ALTRE LINGUE, O PERCHE’ SONO
VOCI CHE PROVENGONO DA SETTORI SPECIALISTICI: IL PARLANTE MEDIO USA UN LESSICO
RIDOTTO.
Ora vediamo il processo per cui dei significanti ben noti al parlante vengono distorti consapevolmente:
• Tabù linguistico o interdizione
Questo processo affonda le sue radici nella credenza universale del potere evocatore, se non direttamente creatore,
della parola. Poiché nominare è (anche) evocare, è bene non nominare affatto, o almeno non nominare
correttamente, ciò che incute paura, timore e cose simili.
La voce che non si vuole nominare viene rimpiazzata da un eufemismo, un sostituto ‘inoffensivo’. Esempi:
o Nel greco cristiano per indicare il ‘diavolo’ si usava ‘diablos’ che significa calunniatore.
o Nelle società moderne il perpetuarsi della credenza nel potere demiurgico delle parole è evidente ad esempio
in quel che concerne la malattia e la morte: ‘neoplasìa’ invece che ‘tumore’.
5. TIPOLOGIA DEI MUTAMENTI FONOLOGICI
Dal punto di vista fonologico, abbiamo diversi tipi di mutamenti:
• FONOLOGIZZAZIONE: Realizzazione diverse del medesimo fonema, condizionate dal contesto, si
svincolano dal condizionamento contestuale e diventano fonemi distinti.
Esempio: Offerto dal sanscrito in cui la labiovelare sorda [*kʷ] (come in 'cinque': cin[kw]e), si sviluppava
in una velare semplice, che restava tale davanti a vocale non palatale, ma si palatalizzava secondariamente
davanti a vocale palatale:

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o i.e. (indoeuropeo) *kʷos 'chi' > sscr. *kos; i.e. *kʷid 'che cosa' > sscr. *kit > sscr. čit (come čera)
In questa situazione la scelta tra [k] e [č] dipendeva unicamente dal contesto ([k] + a, o, u; [č] + e, i). A un
certo punto della storia del sanscrito però, tutte le *e e tutte le *o ereditate dall' i. e. sono divenute 'a': sscr.
*kos si presenta ora come 'kas', oppure: i.e. *kʷe
(congiunzione enclitica 'e') > sscr. *ke > sscr. * če > oggi si presenta ča. La scelta tra [k] e [č] non è quindi
rapportabile al contesto. Ciò che fa la differenza semantica, e si configura come fonologico, è la
contrapposizione tra la [k] e la [č] per esempio di 'karati' e 'čarati', ormai non più varianti contestuali di 'k',
ma fonemi autonomi /k/, /č/.
• DEFONOLOGIZZAZIONE: Antitetico rispetto al primo, si ha quando due o più fonemi diversi, dunque
realizzazioni foniche non dipendenti dal contesto, finiscono col disporsi in un rapporto di
complementarità contestuale e divengono varianti combinatorie d'uno stesso fonema (è il contesto fonico a
stabilire quando compare un elemento e quando invece l'altro).
Un esempio è il confronto tra italiano e latino rispetto alle vocali: In latino, le vocali brevi e lunghe
funzionavano come fonemi: l'opposizione di lunghezza vocalica aveva valore fonologico sia in sillaba aperta
che in sillaba chiusa e in posizione atona e tonica. In italiano, al contrario, la vocale si presenta lunga solo
se: 1.è accentata; 2.è in sillaba aperta; 3.è in penultima sillaba. In tutti gli altri casi, la vocale si presenta
obbligatoriamente breve. Dunque in italiano:
o l'opposizione di lunghezza vocalica dipende strettamente dal contesto;
o in quanto dipendente dal contesto, tale opposizione non può avere valore fonologico.
In confronto al latino, l'italiano mostra una defonologizzazione: Se in latino qualsiasi vocale breve poteva
opporsi fonologicamente alla corrispettiva lunga senza alcun riguardo al contesto, in italiano abbiamo un
solo fonema, che si realizza come lungo o breve a seconda del contesto.
• RIFONOLOGIZZAZIONE O TRANSFONOLOGIZZAZIONE: Non c’è incremento né riduzione del
numero di fonemi, ma cambia la sostanza fonica con cui i fonemi sono realizzati. Esempi:
o In francese, fra 800 e 900, l’opposizione era fra /a/ normale o lievemente palatizzata e /a/ velarizzata;
ora è fra /a/ breve e /a:/ lunga= CAMBIA IL MODO ARTICOLATORIO DEI FONEMI, MA IL
LORO NUMERO E’ RIMASTO LO STESSO.
o La cosiddetta “legge di Grimm” che descrive i mutamenti subiti dalle occlusive indoeuropee nel
passaggio al germanico comune.
6. DIVERSA VISIBILITÀ DEI MUTAMENTI
Oggi sappiamo che il mutamento fonetico non è:
• ineccepibile (cioè senza eccezioni, nel senso che in una data lingua, se x passa a y allora virtualmente ogni
x deve fare la stessa cosa)
• istantaneo (nel momento in cui la lingua si rivolge al passaggio da x a y virtualmente ogni x di quella lingua
può considerarsi divenuto y in quel momento).
Il mutamento può sorgere in un punto qualunque della lingua e di qui diffondersi progressivamente nel resto del
sistema, di solito generalizzandosi (cioè arrivando a coinvolgere ogni punto suscettibile d'essere coinvolto), ma a
volte interrompendo la sua espansione e dunque mancando di raggiungere la totalità dei casi.
Primo esempio:
Mutamento bloccato e parzialmente regredito:
La sonorizzazione toscana e italiana delle occlusive sorde poste tra vocali: ripa> riva; lito > lido; aco >ago, innescata
dall'imitazione dei più prestigiosi (un tempo) modelli fonetici settentrionali, provenzali e francesi. Questa regola di
sonorizzazione, poco per volta, si è estesa anche a voci contenenti un'occlusiva sorda in posizione intervocalica ma
prive di modelli ispiratori settentrionali. La regola tuttavia non è riuscita a generalizzarsi: Così abbiamo dal lat. -P a
volte [p] e a volte [v]; dal lat. -T a volte [t] e a volte [d]; dal lat. -C a volte [k] e a volte [g].
Un confronto fra la situazione italiano tre-quattrocentesca e quella moderna mostra come non siano rari i casi di voci
che, modernamente, hanno articolazione sorda mentre qualche secolo fa avevano articolazione sonora: dall’antico
AGUTO, oggi è ammesso solo ‘acuto’ con la sorda.
Le strategie che il mutamento mette in atto si colgono molto più nelle lingue vive che nelle lingue morte. Nelle
lingue vive, le quali sono direttamente controllabili, è possibile fare in maniera diretta la ricerca e la spiegazione.

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Secondo esempio:
Caso di mutamento fonetico colto che non ha coinvolto subito e simultaneamente tutte le possibili occorrenze:
Nei dialetti salentini la CJ si sviluppa in [tts], mentre in italiano l’esito è [cc] (vedi fine pag 73) = lat. FACIO, sal.
fa[tts]u, it. faccio. In Salento, questo [tts] avviene sempre, tranne quando il suffisso risulta attaccato ad antropomi e
in questo caso avremmo u[cc]u [le c sono affricate palatali=cci] (vedi inizio pagina 74) (es Donatucciu).
Ora, se dei dialetti salentini conoscessimo solo i dati linguistici, vedremo sicuro la correlazione fra il suffisso -u[cc]u
(con affricata palatale anziché dentale) e gli antropomi; ma, con altrettanta sicurezza, i motivi reali di questa
correlazione ci sfuggirebbero. I reali motivi si possono trovare in ambito storico. Noi sappiamo che, per molto tempo,
studenti salentini si recavano nel Regno di Napoli per studiare presso l’università, e feudatari vi si recavano per
villeggiatura. A Napoli, a partire dal 300, il dialetto aveva sostituito [tts] con [cc] (esito italianeggiante).
Quindi questo ci schiarisce le idee: Quando i nobili e gli studenti salentini tornavano in patria, dopo aver passato del
tempo tra la gente che parlava il dialetto del Regno di Napoli, iniziavano anch’essi a utilizzare la forma italianeggiante
[cc] anziché [tts] (senza però esagerare). Che il mutamento non si sia generalizzato dipende dai mutati orientamenti
culturali (come lingua di riferimento del salentino, oggi vale l’italiano).
CAPITOLO 3: CORRISPONDENZE FONOLOGICHE TRA LINGUE INDOEUROPEE
1. PREMESSA
Per conoscere e studiare una lingua è necessario il contatto diretto. Questo però non può sempre avvenire e, in questo
caso, dobbiamo fare riferimento ai documenti linguistici superstiti. Data una lingua di cui non abbiamo testimonianza
alcuna, dobbiamo fare innanzitutto un confronto sistematico delle varietà linguistiche che dalla detta lingua sono
derivate, ma questo non basta. Questo ci serve per comprendere solo quello che le lingue- figlie hanno ereditato dalla
lingua-madre, MA A NOI INTERESSANO TUTTE QUELLE CARATTERISTICHE CHE NON SONO STATE
EREDITATE PER COMPRENDERE LA REALE ARCHITETTURA LINGUISTICA. Questo è il processo da
applicare ad esempio alla lingua INDOEUROPEA.
2. UN ESEMPIO DI CORRISPONDENZE: I NUMERALI
Dopo aver fatto un confronto tra i numerali 3,5,6,7,8,10,100 (schema 1 pag 85) del latino, greco, sanscrito e gotico,
si possono fare innumerevoli osservazioni. Fra questi è possibile parlare di ‘aria di famiglia’ sostenuta da precise
corrispondenze sia tra vocali che consonanti e nella loro articolazione, tuttavia, la situazione in qualche modo
originaria è quella che troviamo in greco e latino con le vocali [a], [e], [o], oppure tra le consonanti in cui troviamo
l’occlusiva velare sorda [k] e le rispettive ‘reazioni’ delle altre lingue (ad esempio: lat/gr. [k], per la quale troviamo,
in gotico una [x] trascritta come [h], ossia un’articolazione pur sempre velare, ma fricativa).
Tutte le corrispondenze non possono essere fortuite: sono sviluppi reciprocamente divergenti di uno stesso punto
di partenza.
Per quanto riguarda il latino, noi lo conosciamo abbastanza tanto da poter smentire o affermare le argomentazioni
(ad esempi: le due lingue romanze, l’italiano e lo spagnolo, presentano forme verbali uguali come ‘pongo’. Ciò ci
indurrebbe a pensare che in latino sia esistita una forma simile, mantenuta dall’italiano e dallo spagnolo e persa dalle
altre, ma sappiamo per certo che non è cosi e sappiamo che in latino esisteva PONGO. Quindi le forme italiane e
spagnole sono innovazioni specifiche).
Questo però non può avvenire per l’indoeuropeo di cui non ci è rimasto assolutamente nulla e dobbiamo solo
attenerci al buon senso. Questo buon senso può portare a falsificare qualsiasi discorso da acquisizioni successive.
3. IL BUON SENSO DEI LINGUISTI
IN COSA CONSISTE QUESTO BUON SENSO?
Cominciamo col dire che se è vero che dell’indoeuropeo non possediamo alcuna documentazione diretta, è pur vero
che, dal punto di sta dell’organizzazione in qualunque livello, noi non abbiamo motivi per ritenere che l’i.e. fosse
una lingua radicalmente diversa da quelle che conosciamo.
COSA POSSIAMPO FARE? Possiamo attenerci al criterio di attribuire all’i.e. l’elemento (o il processo) che, fra le
lingue del mondo, si riscontra di più. A questo punto possono esserci più soluzioni (SOLUZIONE A e SOLUZIONE
B). Un esempio concreto di ciò è la questione della s o h in posizione iniziale:
• SOLUZIONE A: Se supponiamo che l’i.e. abbia avito una -s iniziale e che, quindi, nel passaggio alla lingua
greca, quella -s sia diventata -h

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• SOLUZIONE B: Se invece supponiamo che l’i.e. abbia avuto una -h in posizione iniziale e ammette il
passaggio da h a s nelle lingue che ne derivano
DOBBIAMO STABILIRE QUALE DELLE DUE SOLUZUONI SI RISCONTRA CON MAGGIORE FACILITÀ.
Nel caso dell’esempio è la SOLUZIONE A a prevalere (si parla anche di maggioranza). SI ARRIVERÀ QUINDI A
STABILIRE UNA SOLUZIONE C (la più complessa, a causa di tutti gli elementi che mette in gioco): l’i.e., la
lingua da cui si sarebbe sviluppato l’esito (-s).
4. LINGUE CENTUM E LINGUE SATEM
Si tratta dei due lessemi che indicano il numerale ‘cento’: CENTUM (100 in latino) – SATEM (100 in avestico). SI
TRATTA DI ISOGLOSSE.
Lo studio della trascrizione dei numerali 8, 10, 100 (schema 1, pag85), ha permesso di stabilire delle equivalenze tra
lat/gr, sanscrito e gotico ( in lat./gr. troviamo -k =in sscr. troviamo-s = in got. troviamo -h [x]).
Abbiamo qui una partizione che coinvolge la totalità delle lingue i.e. e le divide in DUE BLOCCHI in base ai diversi
modi di articolazione del numerale 100 (il punto di articolazione rimane lo stesso):
• LINGUE CENTUM: le lingue caratterizzate da articolazioni (posteriorizzate) velari ([k]; e [x]articolata
come h). Queste lingue sono il latino con le lingue romanze, il greco, le lingue germaniche, il gotico, lingue
italiche)
• LINGUE SATEM: le lingue caratterizzate da articolazioni anterioririzzate (affricate palatati) o nettamente
anteriori (sibilanti; interdentali) [s] (quindi suoni fricativi). Queste lingue sono le baltiche, slave, albanese
armeno ecc..
IL PUNTO DI ARTICOLAZIONE RESTA LO STESSO PER ENTRAMBE, MA CAMBIA IL MODO.
Per sintetizzare:
• Indoeuropeo = presentava consonanti palatali (indicate con i segni k,kh,g,gh)
• velari nelle lingue centum
• affricate palatali o sibilanti nelle lingue satem.
Possiamo, quindi, individuare una anche una DIVISIONE GEOGRAFICA:
• LINGUE CENTUM AD OVEST
• LINGUE SANTEM AD EST TRA EUROPA ORIENTALE ED ASIA
A lungo si è creduto che già l’i.e. in fase unitaria si presentasse diviso fra un ramo occidentale di tipo centum e un
ramo orientale di tipo satem. Quanto appena detto è stato smentito agli inizi del 900 quando in Cina vennero trovati
due testi religiosi del I millennio d.C. di lingue ora estinte: TOCARIO A e TOCARIO B (LINGUE
INDOEUROPEE) che, pur essendo nella zona i.e. dell’est, si rivelano sorprendentemente lingue centum (e quindi
come ovest). Questo suggerisce che:
• IPOTESI A:
o In origine le lingue i.e. dovessero essere tutte centum.
o Ad un certo punto, le lingue i.e. centro-orientali abbiano anteriorizzato in vario modo le occlusive
velari, diventando quindi, da lingue centum, a lingue satem.
o Però, quest’ultima innovazione tipicamente centro-orientale, non abbia raggiunto la zona occidentale
e neppure il margine orientale
• IPOTESI B:
o L’i.e. era una lingua satem, poi il ramo occidentale adotta progressivamente una pronuncia occlusiva
(posteriorizzata).
A livello fonologico e di geografia areale, questa seconda ipotesi è improbabile: secondo la fonologia è più naturale
anteriorizzare piuttosto che posteriorizzare.
Perciò: La soluzione finale è quella A: le lingue i.e. fossero tutte centum; e che solo in un secondo momento una
parte di essa si sia satemizzata. (Toscana, Sardegna e Sicilia non vengono considerate prettamente lingue i.e.
centum perché sono stati trovati sostarti non i.e. ).
9. LA MUTAZIONE (ROTAZIONE) CONSONANTICA DELLE LINGUE GERMANICHE (O LEGGE DI
GRIMM)
Nelle lingue germaniche le occlusive sorde, sonore e sonore aspirate dell’i.e. sono state riorganizzate in maniera
radicale:
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• A occlusive sorde delle altre lingue i.e., nelle lingue germaniche corrispondono, prodotte nello stesso
luogo delle occlusive, articolazioni fricative sorde (o succedanei)
• A occlusive sonore delle altre lingue i.e., nelle lingue germaniche corrispondono occlusive sorde (o
succedanei)
• A occlusive sonore aspirate (o succedanei) delle altre lingue i.e., nelle lingue germaniche corrispondono,
semplificando alquanto i dati, occlusive sonore (o succedanei).
Schema (35) presente a pagina 116.
Questa organizzazione delle occlusive operata dal germanico viene definita LEGGE DI GRIMM (dal nome dello
studioso tedesco che, nei primi decenni dell’Ottocento, la formalizzò per primo). Altre definizioni utilizzate per
questa legge sono: prima LAUTVERSCHIEBUNG (spostamento di suono) o anche prima MUTAZIONE
(ROTAZIONE) CONSONANTICA.
LEGGE DI GRIMM = PROCESSO DISSIMILATORIO CON L’INTENTO DI EVITARE L’IMMEDIATO
SUSSEGUIRSI DI DUE ARTICOLAZIONI FRICATIVE; SE UN’OCCLUSIVA SORDA E’ PRECEDUTA
DA UNA FRICATIVA (S), NON DIVIENE FRICATIVA (SORDA), MA RESTA OCCLUSIVA.
ESEMPIO: TED.IST (EGLI È) DERIVA DALL’I.E.ÉSTI. IN QUESTO CASO LA [T] (OCCLUSIVA SORDA)
NON PASSA A FRICATIVA, MA RESTA OCCLUSIVA IN QUANTO PRECEDUTA DA [S], CHE È UNA
FRICATIVA.
Le cose si complicano se: in corrispondenza di occlusive sorde delle altre lingue i.e., le lingue germaniche presentano
non le fricative sorde attese, ma le corrispettive fricative sonore. ESEMPIO: ‘PADRE’. IN LATINO ERA ‘PATER,
IN GRECO PATÉR ECC… IN GOTICO, INVECE, SI PRESENTA COME ‘FADAR’ (PERCIÒ NON COME CI
ASPETTEREMMO DALLA LEGGE DI GRIMM) E AD ESSO SI ACCODANO ANCHE L’INGLESE ‘FATHER’
E IL TEDESCO ‘VATER’.
La spiegazione di questa anomalia è data dalla: LEGGE DI VERNER. In cosa consiste:
Offerta alla seconda metà dell’Ottocento da K. Verner, il quale determina gli esiti ‘sordi o sonori’. Evidenzia, in
questo aspetto, due cose importanti per la loro determinazione (degli esiti sordi o sonori):
• L’importanza del contesto
• Il ruolo dell’accento.
L’accento che lui prende in considerazione non è quello protosillabico (posto in prima sillaba), ma l’accento mobile
dell’i.e. (che si è conservato nel greco e nel sanscrito). Per accento mobile intendiamo quel tipo di accento che il
parlante colloca in maniera libera, non è legato a un posto fisso nella parola e solo quello.
Partendo da questo presupposto possiamo dire che:
La LEGGE DI VERNER, si è andata ad applicare ad un certo momento della storia e ha come bersaglio le fricative
sorde, che il germanico possedeva le quali diventano sonore. Vediamo come avviene processo: Nelle lingue
germaniche le occlusive originarie (cioè dell’i.e.), pur evolvendo di norma in fricative sorde (come dice la legge di
Grimm), evolvono in fricative sonore, quando avviene questo?
• Quando le occlusive sorde si trovano, in origine, fra elementi sonori (quindi non solo fra vocali, ma anche
fra liquide o nasali e vocali)
• Quando le occlusive sorde erano immediatamente precedute dall’accento i.e. (quando le antiche occlusive
sorde erano immediatamente seguite dall’accento i.e.)
Esempio : la *s di origine i.e. passa alla sibilante sonora *z, a sua volta modificabile in *r.
La legge di Verner viene vista come una correzione e completamento della legge di Grimm, ma invece essa è
INDIPENDENTE. RIEPILOGANDO:
• IL GERMANICO COMUNE SI STACCA DALL’I.E. E COMINCIA A EVOLVERSI
AUTONOMAMENTE, CONSERVANDO L’ACCENTAZIONE MOBILE DI TIPO I.E.
• A UN DATO MOMENTO DI QUESTA FASE, SI INSTAURA LA LEGGE DI GRIMM, LA QUALE
CREA LE NUOVE FRICATIVE SORDE (schema 35 pag. 116) E LE AFFIANCA ALLA FRICATIVA *S
(EREDITATA DALL’I.E.)
• SI INSTAURA QUINDI LA LEGGE DI VERNER CHE VA A COLPIRE LE FRICATIVE SORDE DEL
GERMANICO

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• L’ACCENTO DEL GERMANICO COMUNE, DA MOBILE CHE ERA, SI FOSSA SULLA PRIMA
SILLABA. Questo ci oscurerebbe le motivazioni della legge di Verner: se ci limitassimo alla considerazione del
gotico e basta, non riusciremmo a capire e ragioni per cui quelle parole sono tali (non riusciamo a capire perché
abbiamo ‘bropar’ (fratello) o ‘fadar’ (padre), ma ci limitiamo a vederle superficialmente e possono quindi
apparire forme tutte uguali senza capire il perché)
• IL FATTO CHE, DURANTE LA SUA PRIMA FASE, IL GERMANICO CONSERVASSE L’ACCENTO
MOBILE I.E., CHIARISCE IL MOTIVO PER CUI ANCORA OGGI, NELLE LINGUE
GERMANICHE, ALL’INTERNO DELLO STESSO PARADIGMA POSSIAMO TROVARE TANTO
FORME CHE MOSTRANO GLI EFFETTI DELLA LEGGE DI GRIMM, QUANTO FORME CHE
MOSTRANO GLI EFFETTI DELLA LEGGE DI VERNER.
CAPITOLO 4: ESORDI E PRIMI SVILUPPI DELLA LINGUISTICA STORICA
1. GLI ESORDI E LA GRAMMATICA COMPARATA
Contesto storico:
• Scoperte geografiche e colonialismo
• Romanticismo = favorisce il gusto per l’esotico, il remoto, lo studio delle lingue e delle civiltà orientali (tra
cui il sanscrito)
In questo contesto possiamo definire in maniera convenzionale la data di inizio della moderna linguistica storica:
1786, anno in cui William Jones (funzionario dell’inglese Compagnia delle Indie) tenne a Calcutta una conferenza,
nella quale si evidenziano le corrispondenze tra latino, greco e sanscrito (lingua di cultura dell’India) e avanzava
l’idea che discendessero da un antenato comune.
Dopo Jones: Friedrich von Schlegel, intellettuale tedesco fondatore del movimento romantico, teorizza che:
• La lingua-madre da cui derivano le lingue indoeuropee (termine che verrà utilizzato dopo) è il sanscrito
(ammirato per la sua struttura flessiva).
• Getta le basi per la grammatica comparata (vergleichende Grammatik) o linguistica comparata.
(Jacob Grimm e Rasmus Rask indentificano le prime corrispondenze sistematiche tra le lingue a livello fonetico, che
prima si diceva a livello di ‘lettere’; Franz Bopp si interessa alla comparazione soprattutto delle unità portatrici di
significato grammaticale o morfemi, con speciale riguardo alla morfologia verbale).
2. L’ALBERO GENEALOGICO E LA TEORIA DELLE ONDE
All’interno della grammatica comparata ci sono state diverse figure di spicco: August Schleicher.
Secondo August, le lingue non sono organismi storici, ma organismi naturali con leggi da un lato immutabili,
dall’altro operanti al di fuori della volontà dei parlanti (i quali hanno la possibilità di poter intervenire sulla lingua).
Schleicher si ispira anche al rigorismo delle scienze naturali influenzate dalle rivoluzionarie teorie di Charles Darwin,
il quale ricostruì gli alberi genealogici di sottospecie ->specie –> famiglie animali e vegetali. Schleier quindi da
vita alla teoria dell’albero genealogico. All’interno del quale egli dice (come Jones) che il sanscrito e le altre
lingue i.e. derivino da una più antica lingua originaria comune attingibile mediante la ricostruzione. Postula
quindi che da questa lingua-madre, le lingue i.e. siano derivate per ramificazioni successive a somiglianza dei
rami di un albero.
Inoltre, egli recupera anche la preesistente classificazione delle lingue in base ai tipi: isolante, agglutinante e
flessivo; e interpreta questi tipi non come modelli, ma come stadi successivi di sviluppo (il tipo agglutinante
rappresenterebbe l’evolversi naturale di quello isolante; e il tipo flessivo, a sua volta, l’evolversi di quello
agglutinante). Si tenga presente che:
• Nessuna lingua è totalmente isolante o agglutinante o flessiva,ma lo è prevalentemente
• L’evoluzione tipologica non è affatto, come dice Schleier, isolante -> agglutinante->flessivo, ma può
procedere in qualunque direzione.
L’albero genealogico di Schleier ha subito molte critiche: essendo molto meccanico dava la possibilità solo di poter
cogliere le somiglianze ereditarie, ma non è in grado di catturare le connessioni che possono stabilirsi da ramo a ramo
anche a prescindere dall’origine comune (come i dialetti italiani e l’italiano: pur derivando dalla stressa base latina,
hanno in comune caratteristiche stabilite secondariamente dal momento in cui, per i dialetti, l’italiano è divenuta
lingua di riferimento.

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TEORIA DELLE ONDE di Schmidt: Le innovazioni linguistiche, dipartono da centri che possono essere di volta
in volta diversi e si diffondono nello spazio geografico, via via attenuandosi, come le onde concentriche provocate
da un sasso che cade in uno stagno.
Innovazioni apportate:
• La lingua passa dall’essere un organismo astorico (al di fuori dei parlanti) a UN PRODOTTO STORICO (le
onde che si irradiano successivamente sono innovazioni operate dai parlanti ad una lingua) – lingua come
incessante divenire
• Il riferimento spaziale: gli elementi comuni saranno di più fra lingue spazialmente vicine
• L’interesse verso lo studio di fasi linguistiche-latino volgare- di cui possediamo informazioni e su cui possiamo
fare argomentazioni. (Prima invece si cercava di studiare una lingua originaria i.e. e sulla sua ricostruzione senza
documentazione).
3. I NEOGRAMMATICI: L’INECCEPIBILITÀ DELLE LEGGI FONETICHE
Il movimento dei neogrammatici nasce nella seconda metà dell’Ottocento e i fondatori ne sono considerati Osthoff
e Brugmann.
I NEOGRAMMATICI ESALTANO LA INECCEPIBILITA’ DELLE LEGGI FONETICHE. Questo concetto
era stato già affrontato da Grimm, Rask e Bopp: legge fonetica intesa come constatazione di regolarità nel
corrispondersi fonetico tra due fasi storiche del medesimo continuum linguistico.
Ma i neogrammatici aggiungono un altro aspetto: Se in una data lingua, a diventa b nel contesto X, allora ogni a
che si trovi nel contesto X deve passare a b ineccepibilmente presso tutti i parlanti di quella lingua. L’ineccepibilità,
a sua volta, è giustificata dalle abitudini articolatorie. Infatti, una particolare applicazione de principio delle abitudini
articolatorie porta in Italia, nella seconda metà dell’800, alla formulazione della teoria del sostrato etnico (sostrato):
se è vero che le abitudini articolatorie tendono a restare immutate, allora determinate caratteristiche fonetiche
permarranno anche nel caso in cui i parlanti cambiano lingua. Per converso, in presenza di mutamenti fonetici in
qualche modo ‘insoliti’ è lecito pensare che questi nascano da un condizionamento articolatorio operato da una
qualche lingua precedente (sostrato).
Rigidità delle leggi per i neogrammatici: Le eccezioni però esistono perciò devono essere spiegate. Proprio per
questo motivo, tra il 1860 e il 1880 si trovarono le soluzioni alle apparenti eccezioni della legge di Grimm, risolte
da:
• Grassmann (1863). Riguarda l’esistenza riscontrata di alcune forme esistenti nel prototipo i.e., ma che sono state
‘aberrate’ dal greco e sanscrito. Questo può essere spiegato come dissimilazione, processo per cui: in sanscrito
e greco, una sequenza di occlusiva sonora aspirata + occlusiva sonora aspirata, in sillabe contigue si sia
dissimilata in una sequenza di occlusiva sonora non aspirata + occlusiva sonora aspirata.
• Verner (1877) (nel precedente capitolo)
• Collitz-De Saussure. Legge che riguarda il sanscrito, del quale si era sempre ritenuto che conservasse al meglio
le caratteristiche fonetiche della lingua-madre(i.e.). Ma in questo caso non è così perché, secondo questa legge,
l’i.e. ha avuto tre timbri *a, *e, *o, che sono rimasti più o meno in greco e latino e che ha avuto anche il sanscrito
pre-documentario. Infine, il sanscrito e l’indoiranico hanno fuso i tre timbri nell’unica *a, ma soltanto dopo che
la vocale *e (palatale) aveva palatalizzato la labiovelare o la velare pura precedente. i.e. ‘penkwe’> (per
delabializzazione della labiovelare) sscr.’penke’> (per palatizzazione della velare da originaria labiovelare)
sscr.’pence’> (con passaggio di *e ad ‘a’)sscr.panca.
SI RITIENE DI AVERE COSI’ LA PROVA CONCRETA CHE LE LEGGI FONETICHE NON
CONOSCONO ECCEZIONI E CHE SALTERA’ FUORI LA SUB-REGOLA IN GRADO DI SPIEGARE
L’ECCEZIONE APPARENTE.
4. I NEOGRAMMATICI, IL PRESTITO, L’ANALOGIA
Due alternative che i neogrammatici offrono per spiegare le eccezioni:
• PRESTITO: Da una diversa tradizione linguistica entrano nella lingua che li adotta mantenendo all’ingrosso le
caratteristiche fonetiche presenti nella lingua di partenza.
• ANALOGIA: Processo di regolarizzazione in base al quale al posto delle forme attese ne troviamo altre, ottenute
in due modi:
Mediante allineamento a moduli all’inizio loro estranei ma che, a un certo punto e per motivi diversi, hanno
incontrato il favore dei parlanti.

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Esempio: Rispetto agli antecedenti latini PONO/PONUNT, in italiano abbiamo PONGO/PONGONO, presentano
una velare [g] foneticamente ingiustificabile (nel passaggio dal latino all’italiano, la N intervocalica corrisponde,
infatti, ad una -n, non ad una -ng). Ciò che qui è successo è che il paradigma dei verbi in questione è stato allineato
a un altro paradigma , quello dei verbi come ‘vengo/vengono.
Modellate su forme concorrenti all’interno dello stesso paradigma: Esempio: In certe varietà lucchesi troviamo
‘ tu dichi’ al posto di ‘tu dici’. E’ evidente che l’esito [k] sia avvenuto per pressione della k che troviamo in ‘io dico’,
assolutamente regolare = PRESSIONE PARADIGMATICA. PRESSIONE SINTAGMATICA = Si stabilisce fra
due elementi che vengano a trovarsi in stretta successione nella catena fonica. Esempio: giù e su sono diventati simili
perché si trovano sempre vicini.
5. GLI INIZI DEL NOVECENTO E LA SVOLTA DI DE SAUSSURE
La linguistica storica si sviluppa nell’800, ma nel 900 avvengono al suo interno una serie di rivoluzioni. Ora la
linguistica si apre a ventaglio e da origine a un vero e proprio fascio di discipline (dalla sociolinguistica alla
semiologia), al cui interno la linguistica storico- comparata è solo uno dei tanti modi di occuparsi delle lingue.
PRIMA IMPORTANTE RIVOLUZIONE ALL’INTERNO DELLA LINGUISTICA:
QUELLA DI SAUSSURE:
La prima rivoluzione coincide con la pubblicazione postuma del ‘Corsi di linguistica generale’ dello studioso
ginevrino Ferdinand de Saussure: opera che, si badi, non è stata scritta direttamente dall’autore ma è stata messa
assieme dagli allievi Bally e Sechehaye.
In che cosa consiste: Saussure non si accontenta di ricostruire, egli si interroga sulla natura delle lingue e sui
principi generali e universalmente validi, i quali, al di là dei particolarismi di ciascuna varietà, regolano delle
lingue l’organizzazione. Concepisce le lingue come un insieme di relazioni (système, cioè sistema, che da
Saussure verrà chiamato ‘struttura’ = ogni lingua è un sistema nel quale tout se tient, cioè tutto è
reciprocamente collegato). Egli quindi esalta che: ogni elemento linguistico, a qualunque livello, in tanto esiste
in quanto si oppone al suo contrario o comunque entra in una rete ordinata di opposizioni.
A questo proposito, ci presenta una serie di dicotomie (importanti per la moderna linguistica):
o Articolatorio (relativo a ciò che produciamo con gli organi fonatori) e acustico (ciò che percepiamo con
l’udito). Si badi che quello che può sembrare simile dal punto di vista acustico può non esserlo dal punyo di vista
articolatorio.
o Significante e significato
o Sintagmatico e paradigmatico
o Diacronico e sincronico
o Langue e parole
I neogrammatici individuano il mutamento fonetico e le modalità, ma non le motivazioni, dunque esaminano i
mutamenti ognuno per sé atomisticamente. La considerazione della struttura nella quale i mutamenti sono calati non
sempre mostra le motivazioni dei singoli mutamenti o del mutamento generale, ma può aiutarci a capire certi
meccanismi.
CAPITOLO 5: GEOLINGUISTICA E SOCIOLINGUISTICA – LA VARIABILITÀ
1. GLI ATLANTI LINGUISTICI
La geografia linguistica, implicita già nella teoria delle onde di Schmidt, nasce con gli atlanti linguistici: atlanti
in cui, per un certo numero di località selezionate, sono riportate delle serie di forme, scelte in modo da dare
un’idea delle principali caratteristiche (fonetiche, morfologiche, lessicali e sintattiche) della parlata di ciascuna
delle località prescelte. Origine e atlanti più importanti:
o Origine: quello di George Wenker (si tratta di carte degli anni Settanta dell’Ottocento), riguarda le parlate
tedesche e raccoglie materiale necessario per corrispondenza, vale a dire inviando agli interlocutori (in genere
insegnanti delle scuole) un questionario in lingua standard con una serie di frasi, formulate ‘ad hoc’, da tradurre
nella parlata locale.
o L’atlas linguistique de la France (ALF) di Jules Gilliéron, pubblicato tra 1902 e 1910.
o L’atlante linguistico ed etnogtrafico dell’Italia e della Svizzera meridionale (AIS) di Karl Jaberg e Jakob
Jud, pubblicato fra il 1928-40.
Il principio dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche comporta automaticamente che i confini linguistici debbano
essere netti, ma possiamo vedere che non sempre funziona così: Se in un dato territorio abbiamo una determinata
lingua (L1), in un altro territorio a lui confinante avremo un’altra lingua (L2).
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Entrambe le lingue derivano da una lingua comune (L0) e, entrambe le lingue, si differenziano per caratteristiche
fonetiche. Questo mutamento avviene grazie ai parlanti perciò dovremmo pensare che L1 e L2 non possano esistere
nello stesso territorio (i confini devono essere netti).
Ma vediamo invece come sia possibile che questo accada:
2. LA GEOGRAFIA LINGUISTICA
La geografia linguistica è nata dalle basi gettate dalla teoria delle onde e dall’introduzione del concetto di SPAZIO.
Per spiegare ciò che è stato appena annunciato, è stato fatto un esempio: Wenker studiò le due varietà basilari del
tedesco, l’alto tedesco, parlato al sud, e il basso tedesco, parlato a nord. Le due varietà si distinguono per la
presenza/assenza della seconda rotazione (mutazione) consonantica che caratterizza L’ALTO TEDESCO (e
quindi anche il tedesco standard).
La seconda mutazione consonantica prevede che ad articolazioni occlusive sorde delle restanti lingue germaniche e
dello stesso basso tedesco, l’alto tedesco opponga realizzazioni affricate o fricative a seconda della posizione ->
Esempio tra il germanico e il tedesco/inglese per spiegare la presenza/assenza della seconda mutazione. PAG 187
Germanico: occlusiva sorda – Alto tedesco: affricata (inizio parola/interno parola e dopo consonanti liquide e
nasali o in prosecuzione di antiche geminate) Germanico: occlusiva sorda – Alto tedesco: fricativa
Ci aspettiamo dunque una coincidenza di tre confini:
o Fra parlate che conservano ‘p’ e parlate che lo modificano (basso-alto tedesco)
o Fra parlate che conservano ‘t’ e parlate che lo modificano (basso-alto tedesco)
o Fra parlate che conservano ‘k’ e parlate che lo modificano (basso-alto tedesco)
Questa coincidenza si riscontra nella parte orientale del dominio linguistico tedesco, ma non si riscontrano nella
parte occidentale: Lungo il corso del Reno, i tre confini, allontanandosi l’uno dall’altro per duecento
chilometri e più, si aprono in una sorta di ventaglio (VENTAGLIO RENANO): Il confine più a sud separa ‘p’
mantenuta da ‘p’ sottoposto a mutazione (appel-apfel); quello più a nord è il confine fra ‘k’ intatto e ‘k’ modificato
(maken-machen). Questa differenza è avvenuta come conseguenza del fatto che, fa basso medioevo e inizi dell’età
moderna, esistevano una serie di staterelli più o meno autonomi attraverso i quali la libertà di movimento era
disomogenea. Inoltre:
La lingua emerge come un organismo non omogeneo, ma come una stratificazione a più livelli, nella quale ciò che
manca è appunto la pretesa all’uniformità.
LA LINGUA È STORIA =SI COMPORTANO ALLO STESSO MODO; DA UNO STESSO PUNTO DI
PARTENZA, SI POSSONO AVERE CONSEGUENZE NON OMOGENEE (A CAUSA AD ESEMPIO DI
FATTORI ‘SOCIALI’).
Esempio: Nella prima metà del 200, c’è stato l’allontanamento degli arabi dalla Sicilia per opera di Federico II, questo
ha portato al crollo della lingua araba in Sicilia e la sua sopravvivenza solo nelle isole di Malta e Pantelleria; Queste
due isole hanno un punto di partenza comune che poi si divide: a Pantelleria l’arabo cede al siciliano, a Malta resiste
fino ai nostri giorni e, col nome di maltese, diviene la lingua ufficiale.
Grazie a questo esempio capiamo le diversità che possono avvenire dopo un punto di partenza a causa di fattori
sociali, politici, religiosi ecc…
CONCETTO DI ISOGLOSSA E CONFINE LINGUISTICO:
Ritornando al concetto del ventaglio renano; questa distribuzione disordinata della seconda mutazione è avvenuta
come conseguenza del fatto che, fra basso medioevo e
inizi dell’età moderna, esistevano una serie di staterelli più o meno autonomi attraverso i quali la libertà di movimento
era disomogenea. Qui subentra il concetto di confine linguistico e dei criteri con i quali esse vengono stabiliti:
ISOSLOSSA: termine che la linguistica ha modellato sulla terminologia preesistente e designa la linea immaginaria
che, su una carta geolinguistica, unisce i punti estremi ai quali arriva un dato fenomeno, segnando dunque il confine
fra il territorio al cui interno si dà quel fenomeno e il territorio che invece ignora quel fenomeno.
CONFINE LINGUISTICO: formato da più isoglosse che vengono a coincidere nel medesimo tracciato. Il confine
linguistico sarà tanto più marcato quanto maggiore è il numero di isoglosse che, coincidendo, contribuiscono a
formarlo. Inoltre i confini tengono conto sia delle barriere naturali che sociali.

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3. LINGUISTICA STORICA E LINGUISTICA ROMANZA
La geografia linguistica è possibile solo con le lingue vive, quelle cioè osservabili grazie al contatto diretto con i
parlanti.
STUDIO DELLE LINGUE VIVE: è possibile stabilire le forme in uso e quelle non in uso, bisogna tener conto
della stratificazione linguistica (fornita dagli atlanti linguistici). Infatti, quando all’interno dell’atlante abbiamo due
risposte (parlante-informatore), la seconda di queste, ove data come ‘correzione’ della prima, rinvia allo strato
linguistico più autentico ma minacciato dai nuovi modelli.
STUDIO DELLE LINGUE MORTE: Non è possibile applicare ciò che si applica alle lingue vive anche alle lingue
morte, perché non si ha il diretto contatto con i parlanti. Esse si presentano come lisce, senza eccezioni e irregolarità
(ma così non è) esse si presentano come lingue standardizzate. Esempio di studio su testi una lingua standardizzata:
LO STUDIO DEL LATINO: Se volessimo fare una carta geolinguistica del latino, non sapremo mai da dove
cominciare. Noi non conosciamo nulla dei vari tipi di latino parlati nelle varie località (variabilità diatopica) e dei
vari tipi di latino parlati nella stessa località a seconda dello status dei parlanti (variabilità diastratica).
Possiamo dire però che le documentazioni ci sono arrivate e, a prescindere da come ci siano arrivate (per puro caso
o in modo frammentario, ad esempio: sappiamo da sant’Agostino che nel quarto e quinto sec d.C, i contadini che
abitavano intorno a Cartagine parlavano il punico, non il latino), il latino ci è arrivato distribuito lungo un arco
temporale di mezzo millennio e più, dunque in nessun modo utilizzabile per un quadro sincronico.
4. UN PROBLEMA DI FONOLOGIA ROMANZA: LA SORTE TOSCO-ITALIANA DELLE
OCCLUSIVE SORDE LATINE
In prosecuzione di occlusive sorde latine intervocaliche, nel toscano/italiano possiamo avere esiti sia sordi che sonori.
Sono state fatte diverse teorie a riguardo:
Prime due teorie di fine Ottocento:
• Graziadio Isaia Ascoli attribuisce l’occlusiva sorda ad un fenomeno causato dall’effetto sonorizzante della
[‘a], accentata e in penultima sillaba, che viene subito prima; e riconduce la contrapposizione fra la sonora e
la sorda a un diverso punto di partenza fonomorfologico.
• Wilhelm Meyer-Lubke elabora ‘la teoria degli accenti’, in base a cui le occlusive sorde resterebbero sorde
se ricorrono dopo la vocale tonica in parola accentata sulla penultima sillaba (amì[k]o), ma diventerebbero
sonore se ricorrono:
o Prima della vocale tonica, in parole con accento sulla penultima sillaba (pa[d]èlla)
o Dopo la vocale tonica, in parole con accento sulla terzultima sillaba (pé[g]ola)
Non sono rari i casi in cui, partendo da una stessa base latina con occlusiva sorda, nel toscano/italiano troviamo
entrambi gli esiti, vale a dire quello sordo e sonoro: da lat. STIPARE abbiamo stipare e stivare. Perciò questo non
può essere ricondotto a condizionamento esercitato dal contesto; infatti:
Teorie del Novecento:
• Clemente Merlo considera toscano/italiano l’esito sonoro. Giustifica quello sordo con una pressione colta
esercitata dal latino.
• Gehard Rohlfs considera toscano/italiano l’esito sordo. Giustifica quella sonoro con una pressione esercitata
dalle parlate del nord Italia (galloitaliche) nonché dal francese provenzale (galloromanze).
A favore di questa teoria ci sono diversi punti a favore:
• Nella morfologia flessiva dell’italiano non riscontriamo alcuna tendenza alla sonorizzazione delle occlusive
sorde originarie
• L’influenza nordica è vera. Infatti è da considerare che nel 200 e 300, ma anche oltre, l’influsso esercitato
sul toscano e sul nascente italiano da parte delle varietà nord-italiane nonché provenzale del francese è fuori
discussione e notevolissimo.
Come è avvenuto questo influsso galloitalico/galloromanzo? Influsso cominciato con un numero più o meno
elevato di prestiti lessicali. Ad un certo punto questi prestiti si fecero molto numerosi e l’influsso sarebbe proseguito
con l’innesco di una vera e propria regola di sonorizzazione: QUALUNQUE OCCLUSIVA TOSCANA, A
PRESCINDERE DALLA SUA ORIGINE, POTEVA, DI CONSEGUENZA, ESSERE SONORIZZATA PURCHE’,
AL MOMENTO DEL PROCESSO SONORIZZANTE, SI TROVASSE IN POSIZIONE INTERVOCALICA.

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Questo è un concetto abbastanza lontano dall’ineccepibilità delle leggi fonetiche (come per i neogrammatici). Infatti,
a differenza della legge di Grimm e Verner, complementari l’una dall’altra, queste due teorie sulle occlusive sorde
latine, sono indipendenti l’una dall’altra. Perciò il processo è molto meno meccanico rispetto a quello che avveniva
sulle lingue antiche e questo avviene perché, per quanto riguarda le lingue moderne, abbiamo molta più
documentazione.
5. LA LINGUISTICA SPAZIALE (LE NORME AREALI)
La dislocazione geografica di forme linguistiche concorrenti permette inferenze sulla loro cronologia.
Le lingue possono conservarsi oppure no in base alla loro modalità di diffusione. Esiste quindi una dialettica di
conservazione/innovazione delle lingue nello spazio geografico. A proposito di questo, lo studioso Matteo Bartoli
formulò le quattro norme areali (spaziali, inaugurando così la linguistica spaziale). Si tratta di quattro principi
che permettono di stabilire tra più lingue quale sia la forma più arcaica.
Essa di solito è:
1. La forma conservata nell’area meno esposta alle comunicazioni (area isolata). Questa è una norma intuitiva:
se le novità linguistiche si diffondono seguendo le vie di comunicazione, è ovvio che le aree al di fuori delle
grandi vie sono quelle in cui le novità difficilmente riusciranno ad arrivare.
2. La forma conservata nelle aree laterali (periferiche). Anche questa è una norma intuitiva: se in due o più aree
periferiche e non comunicanti troviamo uno stesso tipo linguistico che si oppone al tipo nell’area centrale, la
spiegazione è che il tipo attestato delle aree laterali rappresenti l’ultima sopravvivenza del tipo un tempo comune
all’intera area, ma successivamente messo all’angolo dalle innovazioni sorte nell’area centrale.
3. La forma conservata nell’area maggiore del territorio preso in esame. Stabilisce che la forma più arcaica sia
quella arealmente maggioritaria, mentre l’altra sarà un’innovazione a raggio limitato.
4. La forma conservata nell’area seriore, vale a dire quella in cui una data varietà linguistica è arrivata più
tardi ( ad es. a seguito di immigrazioni) rispetto al momenti in cui è arrivata, o si è formata, nel territorio
in cui tradizionalmente è connessa. Questa è la norma meno intuitiva. Supponiamo che un nucleo di coloni
abbandoni la madrepatria e che raggiunga un altro posto (luogo seriore) portando con se la sua lingua. Questa
lingua verrà raggiunta con molta difficoltà dalle innovazioni apportate alla lingua originaria nella madrepatria.
Queste sono norme e non leggi e non escludono il fatto che possano avvenire capovolgimenti. Ad esempio la Sicilia
(area meno esposta alle comunicazioni, isolata, periferica) si è smeridionalizzata dal siciliano e si è avvicinata al
toscano e alle parlate italiane settentrionali.
6. DALLA VARIABILITÀ DIATOPICA ALLA VARIABILITÀ DIASTRATICA: LA
STRATIFICAZIONE SOCIALE DEI PARLANTI
La lingua non è sensibile solo alle coordinate spazio e tempo, ma anche alla stratificazione (articolazione diastratica)
dei parlanti. I parlanti si distribuiscono in fasce e, in ognuna di queste, utilizzano un registro linguistico specifico,
ossia una specifica varietà d’uso della stessa lingua, fermo restando che ogni parlante sia in grado di usare anche tutti
gli altri registri. Perciò, a questo proposito, all’interno della geografia linguistica, nella seconda metà del 900, nacque
dallo studioso statunitense William Labov: LA SOCIOLINGUISICA:
Quella branca della linguistica che studia l’interazione fra usi linguistici e, appunto, profilo sociologico dei
parlanti. La ripartizione dei parlanti per fasce può dipendere da svariati condizionamenti:
• fasce d’età (anziani fanno fatica a recepire le innovazioni)
• problematiche di identità di gruppo (un gruppo, sentendosi minacciato nella propria identità da un altro gruppo,
sviluppa delle caratteristiche linguistiche per differenziarsi)
• su base sessuale
• sullo status sociale
• in base alle occasioni
Un prestigio di cui gode un certo registro linguistico, o anche godono, certe particolarità fonetiche o morfologiche o
lessicali ecc. è tutt’altro che immutabile a livello sia diacronico che diatopico (geografico).
CAPITOLO 6: GLI INDOEUROPEI
1. COME USARE I DATI LINGUISTICI PER RICOSTRUIRE IL QUADRO AMBIENTALE, SOCIALE,
CULTURALE DEGLI INDOEUROPEI
Termine indoeuropeo coniato nel 1813 da Thomas Young. La denominazione coglie il riferimento sia alle lingue
europee (area occidentale) che alle lingue asiatiche (area orientale). Per la ricostruzione dell’i.e. è necessario farsi

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numerose domande (qual è stata la sua area di origine?), tenendo in considerazione il fatto che stiamo studiando una
lingua senza documentazioni dirette.
Come operare? Qualunque lingua, se esaminata nell’ottica opportuna, può fornire ai suoi parlanti un certo numero di
indicazioni: ad esempio riusciremmo a capire, o supporre, l’ambiente in cui tale lingua si è sviluppata, in base anche
alle conoscenze che possediamo sulle popolazioni e sulle circostanze.
Ma, naturalmente, non tutto è così lineare: Se ci trovassimo nel 20.000 d.C. e se non conoscessimo, ad esempio, nulla
dei popoli inglesi e francesi attuali se non un segmento delle loro lingue, cosa succederebbe?
In questa posizione, e in base a questo segmento linguistico che conosciamo, dovremmo renderci conto che in inglese
esistono due modi diversi per denominare un certo numero di animali domestici, distinguendo l’animale vivo
dall’animale macellato. Ciò che ci sarà chiaro è che i termini relativi all’animale macellato siano di derivazione
francese, ciò che invece non ci è chiaro è il tipo di contatto che abbiano avuto l’Inghilterra e la Francia. Si tratta di
prestiti da un’altra lingua che entrano in competizione con voci indigene e che possono avvenire in tre diversi modi:
• I prestiti riescono a rimpiazzare gli indigenismi
• Le voci indigene riescono comunque ad averla vinta sulle voci di prestito
• Le voci indigene e i prestiti instaurano una forma di convivenza, dividendosi i compiti semantici =
POLARIZZAZIONE LESSICALE.
Ciò che si potrebbe riscontrare con le lingue inglesi e francesi nel 20.000 d.C , cioè che si conosce la lingua ma non
la storia linguistica, è esattamente ciò che si riscontra al giorno d’oggi con l’i.e., e, in questo caso, avremo un
aggravante in più: tale lingua la conosciamo non direttamente ma solo di riflesso, vale a dire in base a ciò che,
conservato nelle singole lingue i.e., possiamo attribuire anche all’i.e., in maniera ragionevole e non con certezza.
Esempio: in un certo numero di lingue i.e. si conserva una base lessicale attribuibile con certezza all’i.e. e che sia
stata ereditata in seguito dalle varie lingue europee con il significato di ‘faggio’ (sia da parte del latino, del germanico
ecc, seppur in maniera diversa).
Adesso ha quindi il significato di fitonimo (nome di pianta) e si è giunti a ciò non con certezza, ma perché è il
significato che prevale nelle lingue che lo hanno ereditato. Perciò, nell’800, nacque la credenza che l’indoeuropeo
fosse nato in un territorio con la coltivazione del faggio, quindi non l’Asia, bensì l’Europa. (Al giorno d’oggi non si
è ancora certi riguardo al significato di ‘faggio’ anche nella forma indoeuropea. Sorge quindi il sospetto che, quale
sia stata la forma di partenza, lo slittamento dello stesso significante da una lingua all’altra sia motivato da altre
peculiarità).
2. METODO LESSICALE E METODO TESTUALE
Basi più solide invece possono essere raggiunte con il metodo lessicalistico, ovvero utilizzando al meglio e
‘spremendo’ le unità lessicali. A questo metodo è possibile aggiungere le conferme del metodo testuale, che consiste
nel mettere a confronto non singoli lessemi ma i contenuti semantici che troviamo nelle tradizioni scritte delle varie
lingue per risalire nel senso più ampio possibile che li ha prodotti.
Il metodo testuale è sicuramente più attendibile rispetto a quello lessicale, ma bisogna aver fiducia in entrambi allo
stesso modo e prendere il buono che ci giunge da entrambi. Infatti, le considerazioni da entrambi i metodi ci hanno
restituito una certa idea degli indoeuropei: popolo nomade, patriarcale, dedito all’allevamento, con una religiosità
celeste, organizzato per tribù e sottomesso al re (figura umana e divina).
3. L’EUROPA, IL MEDITERRANEO E L’AREA D’ORIGINE DEGLI INDOEUROPEI
Attraverso delle considerazioni di base esclusivamente linguistica, abbiamo potuto farci
un’idea della geografia degli indoeuropei. Prendendo in considerazione l’Europa, che vediamo essere un continente
marittimo perché compenetrato dal mare su tre lati, dovremmo riscontrare il fatto che le lingue indoeuropee che si
trovano al suo interno, debbano presentare una denominazione simile per la parola ‘mare’. Ma così non è. La
conclusione più realistica per tale affermazione è che l’i.e. non avesse una sua specifica denominazione per il termine
‘mare’ perché evidentemente non conoscevano il mare così com’è, ma che evidentemente, anticamente, facevano
riferimento al mare non aperto, ma chiuso, ovvero una palude (Mar Nero). Questo ci porterà a pensare che gli
indoeuropei fossero originari della terraferma. Sono nate diverse ipotesi contrastanti a riguardo:
• Le varie lingue i.e. abbiamo avuto una voce i.e. originaria per ‘mare’ che successivamente l’abbiano perduta per
motivi che oggi ci sfuggono e che, avendola perduta, abbiano ovviato come potevano.
• Nelle lingue i.e. d’Europa, molti nomi di piante mediterranea e tutto ciò che abbia a che fare con le caratteristiche
di climi marittimi, abbia un’origine non i.e., affermando così che, in origine, l’ambiente mediterraneo doveva
essere estraneo. Perciò, si pensa che per indicare le caratteristiche temperate e mediterranee, le lingue i.e.

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affacciate sul mediterraneo abbiano voci di origine non i.e.: segno che, in origine, gli indoeuropei non
conoscevano tutto ciò (mediterraneo, temperato) e che abbiano dovuto apprenderlo dalle popolazioni le quali,
con le delle piante, avevano familiarità.
Per spiegare l’abbaglio nello studio delle lingue i.e.: Subentra il CONCETTO DI TABU’ LINGUISTICO = quando
abbiamo l’assenza della terminologia di un qualcosa in particolare. Ad esempio, per quanto riguarda la terminologia
funeraria comune alla maggior parte delle lingue i.e., troviamo una certa assenza di terminologia.
Questo aspetto è stato causato da:
• Gli indoeuropei devono essersi separati prima dell’instaurarsi delle prime forme di culto dei morti (100000 a.C)
• TABU’ LINGUISTICO: correlato al bisogno di non nominare cose di cui si ha paura.
4. GLI INDOEUROPEI E GLI INDOMEDITERRANEI
Con quanto appena detto, siamo arrivati alle seguenti conclusioni:
• Gli indoeuropei non conoscevano il mare aperto (il termine ‘mare’ infatti anticamente alludeva al mare chiuso).
• Gli indoeuropei non conoscevano le piante tipiche delle zone temperate
• Gli indoeuropei, quando dovevano dare il nome a nuove realtà, o allargavano la portata semantica con voci che
facevano parte del loro bagaglio culturale o ricorrevano a prestiti dalle lingue delle popolazioni non i.e. che già
conoscevano quella realtà
Quest’ultimo punto (C) stabilisce che:
• Nel corso della loro espansione, gli indoeuropei hanno trovato territori non spopolati, ma con popolazioni
preesistenti, che parlavano una loro lingua.
• È sicuro che nelle lingue affacciate sul mediterraneo, ci siano nomi che hanno un’origine pre i.e., e che questi
nomi siano accumunati da caratteristiche formali che, da un lato indiziano la loro l’origine pre i.e. e, dall’altro,
accumunando queste voci così diverse, si contribuisca a dare un’idea della geografia in cui queste lingue pre i.e.
si distribuivano. (Grecia, Italia, Anatolia, Epiro cc).
Quali sono le caratteristiche di questa popolazioni pre indoeuropee che hanno incontrato gli indoeuropei
arrivando in Europa?
Si tratta di genti sedentarie, matriarcali, dedite all’agricoltura e dedite al comfort domestico: come si può testimoniare
dalla terminologia delle lingue classiche. Inoltre, questa terminologia (e non solo) si può riscontrare non solo nelle
lingue mediterranee, ma arriva fino all’India (lingue semitiche) = C’E’ UN COLLEGAMENTO DI CULTURA, DI
LINGUA.
Questo strato preesistente (PRE I.E., che riguarda sia il bacino del mediterraneo quanto quello del Medio
Oriente) è quello a cui ci riferiamo quando parliamo di SOSTRATO INDOMEDITERRANO e a cui gli
indoeuropei si sono sovrapposti.
5. DATAZIONI INDOEUROPEE DI MINIMA E DI MASSIMA
Ci sono diverse domande che ci possiamo porre riguardo alla situazione degli indoeuropei e dei pre indoeuropei:
Come facciamo a giustificare il fatto che queste popolazioni nomadi e meno evolute siano riuscite ad imporsi
su quelle solide già esistenti?
Non abbiamo testimonianze dirette che possano darci informazioni certe riguardo. Ma ciò che possiamo dire è che:
Tra gli elementi che hanno assicurato il successo agli indoeuropei c’è l’addomesticazione del cavallo (V millennio
a.C), testimoniato dal fatto che l’antico nome del ‘cavallo’ si continua nel grosso delle lingue che derivano
dall’indoeuropeo. Altri elemento di successo sono: l’incremento della velocità di locomozione, la capacità di
controllare estensioni territoriali ampie, l’uso dei carri da guerra ecc.
Come facciamo a stabilire quando gli indoeuropei sono arrivati in Europa? (datazione minima)
Anche a questo proposito non abbiamo testimonianze certe perché non abbiamo testimonianze scritte, perciò
possiamo stabilire che: L’i.e. unitario si colloca prima che la scrittura, quanto meno quella che noi siamo in grado di
interpretare, faccia la sua comparsa (IV millennio a.C) Il momento della frammentazione unitaria dell’i.e. non può
essere posteriore al III millennio a.C.
Per quando riguarda invece la datazione massima indoeuropea (nel caso non ci accontentassimo di quella
minima): BISOGNA DARE SPAZIO AGLI ARCHEOLOGI.

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Sono state fatte diverse teorie riguardo il culto della sepoltura dei morti con collinette di terra e identificato con gli
indoeuropei:
• Maria Gimbutas (archeologa), nella seconda metà del 900, ha associato gli indoeuropei alla cultura del
KURGAN (colinetta per la sepoltura). Questo tipo di cultura risale al quarto-quinto millennio a.C a nord del
mar Nero e del mar Caspio e, da quest’area, dove sono state trovate ossa di cavallo, fra V e III millennio a.C
i portatori di questa cultura (indoeuropei) l’abbiano portata in Europa e in Asia sud occidentale. (Questa
teoria ha avuto molte critiche e molti appoggi in USA). David Anthony fornisce nuovi elementi riguardo alle
ossa di cavallo: analizzando i denti di cavallo, vediamo come mostrano i segni dell’imbrigliamento.
• Colin Renfrew (archeologo) stabilisce che gli indoeuropei sarebbero da identificare con gli agricoltori
neolitici che, partendo dalla regione anatolica, si sarebbero mossi verso l’Europa nel VIII millennio a.C.
(Questa teoria ha avuto molte critiche perché non ha basi né linguistiche i.e. in Anatolia, né culturali; non è
grazie all’agricoltura che si scopre la lingua).
• Maria Alinei (linguista) elabora la Teoria della Continuità, secondo la quale gli indoeuropei andrebbero
identificati con l’homo sapiens arrivato in Europa, sicchè questo continente sarebbe indoeuropeo dall’inizio.
CAPITOLO 7: L’EUROPA LINGUISTICA E LE LINGUE INDOEUROPEE FUORI D’EUROPA
1. L’EUROPA LINGUISTICA
La situazione linguistica che troviamo oggi in Europa affonda le sue radici nella divisione maturata nel III sec. d.C.
e ufficializzata nel 395 = DIVISIONE TRA IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE E IMPERO ROMANO
D’ORIENTE. Si tratta di un dualismo europeo su basi linguistiche, economiche, religiose (cattolici e latino in
Occidente; ortodossi e greco in Oriente), culturali ecc. Questa divisione è avvenuta sia in parallelo che non (in
Occidente si sono stanziati i germani con le lingue germaniche, in Oriente gli slavi e le loro lingue; caratteristiche
che, su per giù, sono state tramandate seppur con variazioni).
CONCETTO DI MONOLINGUISMO:
Un tratto dell’Europa linguistica è il fatto che, oggi come oggi, si sia sviluppata la concezione che le varie aree
(politicamente intese) siano caratterizzate da un monolinguismo come un qualcosa di naturale. Ma questo concetto
è sbagliato. La scelta europea di monolinguismo è una scelta di tipo politico, culturale, ‘nazionale’.
Infatti, nella storia, si più notare il fatto che fosse molto solito parlare più di una lingua all’interno dello stesso
territorio. Ad esempio nella Sicilia normanna-sveva, le lingue della cancelleria normanna erano tre (caratterizzate
dalle diverse influenze): il latino, il greco e l’arabo. All’interno di una cornice plurilingue, esistevano in realtà gruppi
in prevalenza monolingui. Inoltre, la coesione fra le varie componenti era assicurata da una più o meno ampia
percentuale di popolazione che era in grado di maneggiare più codici linguistici nello stesso tempo. QUANDO LA
COSA È INIZIATA A CAMBIARE?
A partire dal basso medioevo, le grandi monarchie cominciano a ricorrere alla lingua come un ‘collante’ nazionale.
(quest’uso politico della lingua ha portato anche alla diffusione degli ideali romantici e alle lotte per l’indipendenza).
Tutto questo può essere utilizzato in maniera estrema: la commistione di lingue e politica da luogo a miscele
altamente esplosive.
2. LE LINGUE INDOEUROPEE D’EUROPA
Le lingue d’Europa appartengono alla macrofamiglia indoeuropea. Si possono raggruppare in:
• Tre grandi (sotto)famiglie: lingue romanze o neolatine, lingue germaniche, lingue slave;
• Tre piccole (sotto)famiglie: lingue celtiche, lingue baltiche, lingue zingariche;
• Due lingue ‘isolate’ (cioè di cui non si trovane le ‘sorelle’): neogreco e albanese
La suddivisione ‘grandi’ e ‘piccole’ dipende dal numero dei parlanti, ma il parere degli studiosi non coincide con
quello dei parlanti e neppure con quello dei politici (es. il còrso è considerato dai linguisti una varietà del toscano,
ma i parlanti vorrebbero riconoscerlo a livello ufficiale). Inoltre la suddivisione fra lingua e dialetto è quanto mai
sfumata.
La definizione di lingua non deve essere legata ad una solida struttura statale (questa definizione sembrerebbe essere
legata solo al moderno). Basta pensare all’italiano, che prima dell’unità d’Italia, non aveva bisogno di un’istituzione
per essere tale, ma si legava solo a un’espressione geografica, secondo la definizione che dell’Italia, suddivisa in stati
e staterelli. A dire il vero non esiste un criterio universalmente valido per distinguere le lingue dal dialetto e

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l’obiettività è difficile da conseguire. (Ad esempio, il veneto era la lingua ufficiale della Repubblica Veneta, la quale
occupava anche la Grecia, perciò molte caratteristiche del neogreco non si capirebbero se non si prendesse in
considerazione il veneziano. Perciò: Bisogna tener conto dei trascorsi storici oppure no?).
2. 1 LE LINGUE ROMANZE
È possibile fare un elenco (approssimante per difetto) delle lingue romanze, uno dei rari casi in cui, di una famiglia,
conosciamo anche l’antecedente diretto: IL LATINO. Appartengono alla famiglia:
• Le lingue ibero-romanze: il portoghese (lingua ufficiale in Portogallo), il castigliano (spagnolo; lingua
ufficiale della Spagna), il gallego o galiziano (Galizia, della quale il gallego è lingua ufficiale assieme allo
spagnolo), il catalano (Catalogna e Baleari. Lingua ufficiale, assieme allo spagnolo, della Catalogna).
• Le lingue galloromanze: il francese (lingua ufficiale in Francia, una delle lingue ufficiali in Belgio, Svizzera e
Valle d’Aosta assieme all’italiano), il provenzale (Provenza, valli alpine cuneesi e, nel medioevo, una delle
grandi lingue letterarie in Europa) il guascone (Guascogna), il franco-provenzale (Valle d’Aosta e alcune valli
alpine del torinese).
• L’italiano: in Italia, assieme ai suoi dialetti forma il gruppo italoromanzo, al quale va aggiungo anche il còrso,
che è parlato in Corsica e che è di per se una varietà del toscano coloniale, non diversamente dalle parlate sassaresi
e galluresi del nord della Sardegna.
• Il sardo: in Sardegna (escluse le regioni Sassari e Gallura). Si tratta di una lingua con caratteristiche proprie
(unica lingua romanza ad aver ereditato dal latino l’articolazione velare delle occlusive sorda e sonora anche
davanti a /e/ /i/
• Reto-romanzo: con i suoi tre tronconi superstiti, cioè il romancio svizzero, ladino (Veneto e Alto Adige e valli
trentine) e friulano.
• Il rumeno: Lingua ufficiale della Romania e della confinante repubblica ex sovietica della Moldavia ma parlato
anche, come dialetto, in svariate zone dei Balcani e suddiviso in quattro varietà principali: dacorumeno (Romania
e Moldavia); macedorumeno (penisola balcanica); meglenorumeno (Grecia); istrorumeno (Istria, a ovest di
Fiume). Inoltre, con l’estinto dalmatico, il rumeno costituisce il gruppo balcano-romanzo.
Sardo e dalmatico condividevano l’articolazione velare di /k/ e /g/ davanti a /e/ e /i/. Quindi in questo vuol dire che
in passato, c’era stata un’anteriorizzazione, fino ad un’articolazione interdentale, di lat, /k/ e /g/ quando seguiti da
vocale palatale, ma questo non vuol dire che le lingue romanze siano ‘satem’ (dove il processo di anteriorizzazione
è acontestuale, ricorrendo a qualunque vocale) , tranne che per il sardo e dalmatico.
Esiste un’altra varietà romanza difficile da individuare, intermedia fra italo-romanzo e balcano-romanzo: l’istrioto
o istro-romanzo. E’ noto quindi come si sia sviluppata questa variante in Istria (non più regione italiana, ma slovena
e croata) per motivi soprattutto politici e nazionalistici in posizione anti italiana (innescata da Vienna).
2.1.1 ROMÀNIA OCCIDENTALE E ROMÀNIA ORIENTALE
Il territorio in cui sono sviluppate le lingue romanze viene definito : Romània. La Romània è suddivisa in due parti,
grazie ad una demarcazione che avviene all’altezza di La Spezia-Rimini (ISOGLOSSA, medesima che divide i
dialetti italiani settentrionali da quelli meridionali).
• Romània occidentale: lingue parlate a nord ovest della demarcazione (il sardo è ambiguo perché ha
caratteristiche occidentali e si unisce anche a quelle orientali). Caratteristica: Le occlusive sorde intervocaliche
subiscono indebolimento articolatorio > sonorizzazione, fricativizzazione, cancellazione; Conservazione della -
s finale latina con conseguenze morfologiche, verbali e nominali.
• Romània orientale: lingue parlate a sud est della demarcazione (italiano e toscano inclusi quindi il còrso,
sassarese e gallurese; e i dialetti italiani centro-meridionali, il rumeno e l’estinto dalmatico) Caratteristica:
conservazione delle occlusive sorde latine in posizione intervocalica (opposto al romanzo occidentale). Esempio
dell’indebolimento dell’occlusiva sorda latina andando dalla romània orientale alla romània occidentale: LAT
AMICAM, It amica, Sp amiga, Fr amie.
Inoltre, si può fare un’ulteriore suddivisione della Romània:
• Romània nuova: quei territori extraeuropei in cui sono state portate e sono ancora parlate nativamente lingue
romanze (Brasile).
• Romània sommersa: tutte quelle aree comprese entro i confini dell’impero romano, nelle quali le varietà
romanze sviluppatesi sono state sopraffatte dal sopraggiungere di altre lingue (ad esempio varie zone della
Svizzera e dell’Italia soppiantate dal tedesco; oppure nell’Africa di nord-ovest c’erano più varietà romanze – afro
romanze o romanzo africano – le quali si sono sviluppate dal latino ma poi, poco per volta, sono state soppiantate
dal berbero e arabo).

69
Come fare ad identificare la Romània sommersa:
1. Usare testimonianze dirette
2. Studiare i prestiti passati dalle lingue romanze sommerse alle lingue sopravvenute
3. Studiare la toponomastica (moderna e antica)
2.2 LE LINGUE GERMANICHE (CENTUM)
La seconda grande famiglia è quella delle lingue germaniche. A differenze delle lingue romanze, delle quali
conosciamo il latino, delle lingue germaniche non conosciamo il germanico comune per mancanza di
documentazione (tranne che per delle iscrizioni runiche risalenti al III sec d.C. ritrovate in Danimarca e Norvegia).
Quali sono queste lingue:
• Lingue germaniche settentrionali: il danese, svedese, norvegese (con l’aggiunta di un dano-norvegese ai tempi
di Napoleone), islandese e feringio (isole appartenenti alla Danimarca).
• Lingue germaniche occidentali: tedesco, che si divide in alto tedesco (nelle zone montuose del sud) e basso
tedesco (nelle terre basse del nord), frisone (mare del Nord, Olanda), olandese o nederlandese (con una
varietà, l’afrikaans portato dai coloni boeri nell’Africa del sud e ancora parlato nella Repubblica Sudafricana),
il fiammingo e inglese; in più lo yiddish (varietà dell’alto tedesco con influssi ebraici sul lessico e morfologia,
adottato dagli ebrei in fuga a partire dall’alto medioevo a causa delle repressioni. Nel Novecento i parlati di
lingua yiddish sono diminuiti e mantengono consistenza negli Stati Uniti)
• Lingue germaniche orientali: nessuna sopravvissuta e tra le più importanti il gotico, utilizzato per la prima
redazione di un testo lungo in lingua germanica (traduzione della Bibbia fatta dal vescovo Wulfila); il gotico
aveva anche una varietà, il gotico di Crimea.
La totalità delle lingue germaniche è caratterizzata dalla prima rotazione consonantica (legge di Grimm). Le
varietà alto-tedesche(e quindi il tedesco standard) sono caratterizzate dalle seconda rotazione consonantica; a
differenza del basso-tedesco, che ne è immune. Il tedesco è presente anche in Italia: si parlano il tedesco standard e
varietà alto-tedesche, assieme all’italiano, in Alto Adige come lingue ufficiali; inoltre i dialetti alto-tedeschi si parlano
anche sulle Prealpi venete e fra Piemonte e Valle d’Aosta.
2.3 LE LINGUE SLAVE (SATEM)
Terza grande famiglia che deriva dallo slavo comune (senza documentazione). Sono:
• Lingue slave occidentali: (in alfabeto latino) polacco, ceco, slovacco (parte est della Germania), il sòrabo
superiore e inferiore.
• Lingue slave orientali: (in alfabeto cirillico) russo, russo bianco o Bielorusso, l’ucraino.
• Lingue slave meridionali: sloveno (alfabeto latino), croato (alfabeto latino), serbo (alfabeto cirillico),
macedone (alfabeto cirillico), il bulgaro (alfabeto cirillico).
Quest’ultima è la prima lingua slava ad essere messa per iscritto nel IX sec dai fratelli monaci Cirillo (da cui cirillico,
alfabeto di base greca erroneamente attribuito al santo) per tradurre in lingua slava la Bibbia e la liturgia greca.
Bulgaro: lingua slava di più antica documentazione e lingua letteraria. Con l’eccezione del polacco, le lingue slave
sono poco differenziate (differenze basate sostanzialmente su fattori politici). Per quanto riguarda quelle meridionale,
i confini linguistici, infatti, solo approssimativamente coincidono con quelli politici (causa di guerre). Queste lingue
vengono parlate anche in Italia (minoranze): Gorizia e Trieste e Molise.
2.4 LINGUE CELTICHE (CENTUM)
Derivano dal celtico comune (senza documentazione). Prima venivano parlate in un territorio vastissimo (dalla
Turchia alla penisola iberica), ora notevolmente diminuito. Prima si distingueva in celtico continentale (penisola
iberica, Italia settentrionale, Gallia) andato completamente estinto. L’altro celtico era il il celtico insulare (delle isole
britanniche) che ancora sopravvive e si suddivide in:
• Lingue gaeliche o goideliche: irlandese, il manx o mancio (estinto), scozzese (non autoctono)
• Lingue britanniche: gallese, cornico (estinto), il brettone (in Bretagna francese)
Le lingue celtiche sono estinte in passato e anche oggi rischiano: l’Irlandese, nonostante sia lingua nazione, viene
parlato da un numero ristretto di persone, la maggior parte sono di madrelingua inglese.
2.5 LINGUE BALTICHE (SATEM)

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Derivano dal celtico comune di cui non abbiamo nessuna documentazione. Comprendono: lituano, lèttone (o antico
prussiano, estinto nel 700 e che ci è giunto da piccoli lessici e per la traduzione di tre catechismi luterani). Queste
lingue sono di recente documentazione (500); inoltre sono stati l’ultimo popolo a cristianizzarsi.

2.6 LE LINGUE ZINGARICHE (SATEM)


Sono le cosiddette lingue dei rom. Si tratta di lingue di tipo indoario e che sono state importate in Europa da zingari
originari dell’India, probabilmente dalla fine del 200. Gli zingari sono caratterizzati dal nomadismo e dalla
lavorazione dei metalli. Solo una minoranza degli zingari conserva attualmente la lingua d’origine, prive di qualsiasi
forma di standardizzazione. Il lessico di queste lingue funge, nei confronti delle lingue europee, da serbatoio di voci
a sfondo gergale.
2.7 LE DUE LINGUE ISOLATE: ALBANESE E GRECO MODERNO
2.7.1 L’ALBANESE (SATEM)
Suddiviso nelle due varietà: il ghego e il tosco (di moderna documentazione). L’albanese è la lingua ufficiale in
Albania, ma parlato anche: nella penisola balcanica – Montenegro, Serbia, Macedonia, Grecia -, nel sud Italia –
Molise, Puglia, Lucania, Campania, Calabria, Sicilia. In Italia l’albanese (che parlavano la varietà tosca) sono arrivati
tra 400-500-600 e sono stati capaci di dare vita ad una letteratura albanese tout court.
2.7.2 IL NEOGRECO
Si tratta dell’unico erede del greco antico (lingua centum) e della koiné, cioè la varietà greca a base attica che divenne,
grazie ad Alessandro Magno, la lingua comune. (Inoltre esiste lo zaconico, una varietà sprovvista di tradizione scritta
e valore sociolinguistico parlata nel Peloponneso orientale e sembra derivare direttamente dall’antico dialetto dorico;
ma il neogreco è effettivamente l’unico erede del greco antico).
STORIA DEL NEOGRECO: L’impero romano superstite nell’Oriente europeo divenne greco (bizantino) e,
anche se andava riducendosi territorialmente a causa dell’avanzata degli arabi e poi dei turchi, rimase comunque
unitario. Anche qui, come per il latino nell’Occidente europeo, troviamo la divaricazione tra greco scritto (mantenuto
dalla burocrazia di Costantinopoli e dalla chiesa ortodossa, mantenuto in uno stadio assai prossimo alla koiné) e greco
parlato (con le diverse varietà). Vediamo però che, anche dopo la frantumazione dell’impero a causa dei crociati
latini e poi dei turchi, non c’era nessun tipo di contesto favorevole alla piena emancipazione del greco parlato (come
invece vedremo per il latino in Occidente con la nascita delle lingue romanze).
La situazione però poi inizia a cambiare: È proprio nei domini latini in oriente che, ad un certo punto, hanno
cominciato a essere redatti componimenti in un greco tendenzialmente ‘popolare’. Molti di questi componimenti,
spesso anonimi, sono evidenti rifacimenti di composizioni prettamente romanzi (ad esempio l’anonima Cronaca di
Morea suggerisce che l’autore fosse non greco, ma latino).
SIAMO DI FRONTE UN TENTATIVO DI FARE ANCHE IN GRECO QUANTO SI FACEVA IN ROMANZO, E
CIOE’ DI USARE IN FUNZONE LETTERARIA CODICI LINGUISTICI DI PER SE’ POPOLARI (INFATTI E’
STATA CONFERMATA LA SUBALTERNITA’ AI MODELLI OCCIDENTALI).
Le due lingue, che servivano a fare da collante ai greci durante un periodo di dipendenza politica, erano:
• Katharévousa, la quale restava uguale a se stessa ovunque si parlasse greco
• Dhimotikì, la quale non restava uguale a se stessa
Con la conquista dell’indipendenza del nuovo stato greco, ci si chiedeva quale delle due sarebbe stata quella più
appropriata. La prima era candidata al ruolo ufficiale ma non tutti la sapevano parlare; inoltre poi a causa anche di
scelte politiche, si capisce come la seconda possa averla vinta sulla prima dichiarata nel 1976 lingua ufficiale. Tutto
ciò appena detto, mostra come il greco, con il passare del tempo, abbia avuto una drastica riduzione dello spazio
geografico e che oggi sia solo lingua ufficiale della Grecia nonché di Cipro. Inoltre, la guerra greco-turca nel 1923,
ha portato alla scomparsa della grecità linguistica in Anatolia.
Il greco, invece, persiste nelle due isole greche della penisola salentina. Queste due areole sono quanto resta d’una
grecofonìa che, fra alto e basso medioevo, doveva coinvolgere variamente il Salento e l’origine di questa grecità
molto probabilmente risale alla Magna Grecia. Gli attuali dialetti italiani di questa zona (Puglia, Sicilia, Calabria ecc)
comprendono grecismi più o meno a tutti i livelli, anche nella toponomastica.
3. L’EUROPA LINGUISTICA ALL’INIZIO DELL’ERA CRISTIANA

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Il mondo che si considera civilizzato è costituito da un unico, gigantesco, organismo politico, l’impero romano,
multietnico e multilingue e che ha come baricentro il Mediterraneo. Il latino era la lingua dell’esercito e
dell’amministrazione, ma, per quanto riguarda la lingua d’uso, la situazione era divisa: in occidente prevale il latino,
in oriente prevale il greco.

Oltre a queste due lingue, se ne parlano tantissime altre in Europa sia di origine i.e. che non i.e.. Tra cui:
• Celtico (i.e.) in Italia settentrionale e Gallia
• Celtiberico (i.e.) in Hiberia
• Punico
• Egiziano (non i.e.) e la sua trasformazione in copto
• Aramaico in Palestina
• Frigio (i.e.) in Anatolia
• Tracio e illirico (i.e.) nei Balcani
In Italia (accanto al latino) si parlavano:
• Lingua italiche (osco, umbro, le quali discenderebbero da una lingua in comune, l’italico, ma, a riguardo, ci
sono opinioni discordanti). Nell’Italia antica troviamo due gruppi linguistici: Osco-umbro; Latino-falisco.
Venetico in Italia nord-orientale
• Messapico nella penisola salentina , imparentato con illirico e albanese
• Greco in sud Italia
• In Corsica e in Sardegna c’erano lingua non i.e. delle quali si discute l’appartenenza
• Etrusco fra Lazio settentrionale e Toscana. L’etrusco si legge benissimo perché si basa su alfabeto greco; i
problemi subentrano quando si riscontrano iscrizioni più lunghe. L’etrusco è sicuramente una lingua non i.e. e
isolata (i numerali non sono simili alle altre lingua i.e.). Bisognerebbe studiare questa lingua con il metodo
combinatorio: combinare le caratteristiche del testo che cerchiamo di interpretare, le caratteristiche del
manufatto sul quale il testo è riportato, le voci della cui interpretazione siamo sicuri, le voci che vorremmo cercare
di chiarire ecc.
Ciò che, in definitiva, si può dire è che l’etrusco (dal quale è venuta fuori Roma) ha giocato un ruolo
importante, sul quale si basano molte voci latine .
3.1 IL GRECO ANTICO
Lingua di più antica attestazione (si estende per 35 secoli). STORIA DEL GRECO ANTICO. C’è una distinzione
tra:
• Greco del II millennio a.C. o miceneo con un alfabeto sillabico (ad ogni segno corrisponde una sillaba) =
LINEARE B
• Greco del I millennio a.C. con un alfabeto storico
Se il greco del II millennio prende il nome di LINEARE B, questo implica l’esistenza di una LINEARE A, utilizzata
non per il greco, ma per una lingua pregreca, il minoico (non i.e.). Partendo dalla LINEARE A, la LINEARE B,
va considerata un adattamento espressamente operato dai greci onde mettere per iscritto il greco. Si tratta di un
adattamento grafico testimoniato dal fatto che: se il greco è ricco di nessi consonantici quanto sillabe di tipo CVC
(consonane + vocale + consonante), la LINEARE B, al contrario, possiede segni per indicare o le sole vocali oppure
le sillabe del tipo CV (consonante + vocale). Questo fatto implica un faticoso adeguamento delle complesse strutture
sequenziali tipiche del greco alla semplicità CV della LINEARE B.
Quindi, dal II millennio, e dopo un intervallo di quattro secoli circa, il greco riemerge nel I millennio, all’inizio
dell’VIII secolo a.C., e riemerge suddiviso in un certo numero di varietà, che tuttavia non impediscono la
comprensione reciproca (che permette loro, inoltre, di distinguere ciò che è propriamente greco, da ciò che non lo è,
definito barbaro o balbuziente). Le principali varietà del greco sono:
• Ionico attico
• Eolico
• Dorico
• Arcadico-cipriota
• Panfilo

72
Inoltre, la conquista delle colonie, garantiva il mantenimento della lingua della madrepatria all’interno di queste
colonie (come in Italia meridionale e in Sicilia, dove la maggior parte parlavano il dorico).
Tutte queste varietà finirono con l’annullarsi nella koiné, ossia la varietà linguistica su base attica che divenne
comune a tutto il mondo greco grazie ad Alessandro Magno. (aspetto più politico che linguistico). Bisogna
tener conto però che Alessandro Magno e i suoi uomini parlavano una varietà greca, il macedone, di cui ci è arrivato
pochissimo e, ciò che ci è arrivato, ci permette di capire che era diversa dal greco comune.
3.2 IL LATINO
Di attestazione più recente. La documentazione più recente risale al VI-V secolo a.C. in forma epigrafica. Diffuso
vicino il Tevere, era la lingua degli agricoltori e pastori. Finisce con identificarsi con la lingua di Roma, poi lingua
della parte occidentale del Mediterraneo e poi, grazie alla cristianità, si identifica come lingua dell’umanità. È sempre
stata nota la dicotomia tra latino scritto e latino parlato (colloquiale, detto volgare). Infatti, quando una lingua
viene fortemente standardizzata, la traiettoria dello standard rispetto alla lingua d’uso si divaricano.
Tramite dei ritrovamenti (ad esempio delle iscrizioni pompeiane) notiamo come una stessa frase viene espressa in
due modi diversi (quello standard ‘astratto’ e quello in uso ‘concreto’ che risulta più evoluta rispetto all’uso
standard).
Esistono diverse varietà di latino usate in maniera ‘concreta’ (latino parlato), ed è proprio da queste che, poco alla
volta, hanno avuto origine le lingue romanze, considerate immeritevoli di essere messe per iscritto. Sta di fatto che,
se è possibile anche a noi moderni scrivere in un latino perfettamente ciceroniano, ci è invece molto più difficile
metterci d’accordo su quali possano essere state le forme latine colloquiali, che hanno dato origine a voci romanze.
4. LE LINGUE NON INDOEUROPEE D’EUROPA
I flussi migratori del II millennio a.C hanno portato alla diffusione in Europa di lingue non appartenenti alla famiglia
i.e. Tra queste abbiamo:
• Appartenenti al ramo ugro-finnico della macrofamiglia uralica: làppone, finlandese, l’èstone e l’ungherese.
• Appartenenti al ramo turcico della macrofamiglia (uralo)altaica diffusa dai turchi ottomani a partire dal 300.
Attualmente parlato in Turchia e in altre zone (ad esempio Montenegro). Fino alla dissoluzione dell’impero
ottomano (1918) era parlato in molte zone della penisola balcanica.
• Appartenenti al ramo mongolico della macrofamiglia (uralo)altaica, il calmucco.
• Appartenenti alla grande famiglia semitica: il maltese, arabo, ebraico.
• Il basco parlato a ridosso dei Pirenei. Lingua isolata con un possibile rapporto con le lingue prelatine di Sardegna
e Corsica.
4.1 L’ARABO D’EUROPA
Travagliata è stata la storia dell’arabo in Europa, oggi il maltese rappresenta la sua sopravvivenza europea.
Storia dell’islam: Portato in Spagna nel VIII sec. e in Sicilia nel IX sec., ed è strettamente collegato all’espansione
dell’Islam. In Spagna durò sette secoli, fino al 1492 quando, Ferdinando e Isabella, essendo cristiani, presero l’ultimo
regno arabo di Granada e costrinsero gli arabi alla conversione o espulsione.
In Sicilia, gli arabi restarono fino alla conquista dei normanni. Da questo momento in poi iniziò una convivenza tra
cattolici, ortodossi e musulmani. Gli arabi erano liberi di professare la loro fede fino a quando giunse Federico II, il
quale, sconfiggendoli, li concentrò a Lucera, luogo in cui arabi e sovrano divennero alleati.
Questa situazione continuò fino a Manfredi ma, dopo essere stato sconfitto dagli Angioini, i quali conquistarono il
regno normanno-svevo e assediarono Lucera (1301), uccidendo uomini o riducendoli in schiavi. In Sicilia, essendo
dominio spagnolo, l’arabo continuò a esistere grazie agli ebrei fino al 1492. Dopo di che, l’arabo continuò ad essere
lingua d’uso nelle isole di Malta e Pantelleria: in quest’ultima venne sostituito con un dialetto siciliano; a Malta
invece, pur prendendo l’influsso siciliano, italiano e inglese, l’arabo è giunto fino a noi.
Nella penisola iberica e in Sicilia troviamo tanti arabismi (ad esempio lo sp. ‘alcazàr’ che vuol dire ‘fortezza’ e il sic.
‘càssaru’ che sta per ‘via principale del centro abitato’, derivano entrambi da ar. ‘qasr’=’fortezza’). Inoltre, numerosi
sono anche i toponimi (Palermo, risale al lat. Panhormus, attraverso l’ar. Balarm). Gli arabismi non sono presenti
solo in Sicilia e nella penisola iberica, ma anche nelle Repubbliche marinare (Genova e Venezia), le quali hanno
ereditato dall’arabo l’origine della parola ‘darsena’.
4.2 L’EBRAICO IN EUROPA

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L’ebraico in Europa non è mai stato concretamente parlato, se non come lingua religiosa e culturale, attraverso le
parlate locali degli ebrei e sono riuscite a giungere lessicalmente fino alle varie lingue nazionali. Così, in italiano è
d’origine ebraica ‘fasullo’.
5. LE LINGUE INDOEUROPEE FUORI D’EUROPA
5.1 LE LINGUE ANATOLICHE
In Anatolia (attuale Turchia), fra il XVII e il XIII secolo a.C. si parlava l’ittita (centum) con alfabeto cuneiforme.
Si inserisce nel sottogruppo i.e. delle lingue anatoliche. Assieme al greco, è la lingua di più antica attestazione.
5.2 L’ARMENO
Documentato dal V secolo d.C. Si tratta di una lingua satem, ufficiale dell’Armenia (e altri territori confinanti, in
Turchia e in Iran).
5.3 LE LINGUE INDOIRANICHE
Parlate tra gli altopiani iranici e il subcontinente indiano, facenti parte del gruppo indoiranico (satem). E’ necessario
fare una suddivisione:
• Lingue iraniche: attestate dal VI secolo a.C. con l’avestico (lingua di predicazione di Zarathustra) e con l’antico
persiano, da cui si sono sviluppati il medio persiano e il persiano moderno (specialmente in Iran). Il persiano,
assieme all’arabo e al turco, è diventato una delle tre grandi lingue dell’islam (con alfabeto arabo).
• Lingue indoarie: tra cui il vedico (1000 a .C.); il sanscrito: lingua letteraria indiana, altamente formalizzata,
codificata nel V-IV secolo a.C. e rimasta in uso fino alle soglie dell’età moderna.
• Dialetti pracriti: a partire dal III sec. a.C. tra cui il pali (lingua del canone buddhista).
Queste tre lingue hanno tre tradizioni parallele che hanno portato alla formazione delle lingue dell’India moderna.
Ad esempio dai pracriti, vengono fuori le lingue zingariche; particolare importanza è attribuita alla lingua hindi
(Nuova Delhi), lingua dell’induismo con alfabeto sillabico (col quale si scriveva il sanscrito) e urdu (Pakistan),
lingua deli musulmani con alfabeto arabo.
5.4 IL TOCARIO
Lingua i.e. più orientale di tutte (centum), risale al I millennio d.C. e ci è giunta grazie a testi religiosi (buddhismo).
Si suddivide in tocario A e tocario B.

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GRANDI - FONDAMENTI DI TIPOLOGIA LINGUISTICA
CAPITOLO 1: LA TIPOLOGIA LINGUISTICA – NOZIONI INTRODUTTIVE
1.1 AMBITO DI STUDIO, METODO DI INDAGINE E OBIETTIVI
1.1.1 L’OGGETTO DELLA TIPOLOGIA LINGUISTICA E LA DEFINIZIONE DI “TIPO”
La tipologia linguistica rappresenta un approccio ai problemi connessi allo studio scientifico delle lingue alternativo
alla più nota classificazione genealogica. La tipologia linguistica si occupa essenzialmente dello studio della
variazione Inter linguistica. Questa affermazione, presuppone due condizioni necessarie:
• La prima condizione risponde a una constatazione evidente a tutti, anche a chi non si occupa abitualmente di
lingue: le lingue del mondo, circa 6000 sono diverse tra loro.
• La seconda condizione è intuitivamente meno immediata, ma piu rilevante in chiave teorica : questa variazione
non è frutto del caso, ma obbedisce a principi generali.
La tipologia linguistica ambisce in sostanza a individuare proprio questi principi. Se la tipologia linguistica si propone
di capire fino a che punto ole 6000 lingue attualmente parlate sulla terra sono diverse, allora essa si colloca, almeno
in una prima fase su un piano puramente sincronico. In un approccio di natura tipologica, l’interesse dello studioso è
rivolto essenzialmente all’impianto strutturale delle lingue: le lingue vengono classificate in base ad affinità (o
divergenze) sistematiche sul piano strutturale, indipendentemente sia dalla famiglia linguistica di appartenenza, sia
dalla loro attestazione storica.
Tuttavia, se la tipologia linguistica studia le lingue senza fare riferimento alla loro attestazione storica, allora non
può limitarsi a prendere in esame solo le 6.000 lingue che oggi popolano la Terra, ma deve farsi carico anche di tutte
le lingue che hanno visto la luce nel passato. (In questo senso, l'ittita, lingua estintasi attorno al 1300 a.C., ha la stessa
legittimità del cinese mandarino, la lingua più parlata oggi al mondo).
La tipologia linguistica si occupa della variazione interlinguistica, classificando le lingue storico- naturali in
base ad affinità (o divergenze) strutturali sistematiche. I raggruppamenti tra i quali le lingue vengono ripartite
prendono il nome di tipi linguistici.
Def. di tipo linguistico: una combinazione di proprietà strutturali logicamente indipendenti le une dalle altre, ma
reciprocamente correlate.
Questa definizione, pone una serie di problemi che è necessario risolvere.
1. come avviene la scelta delle proprietà su cui si fondano i tipi e in base alle quali le lingue vengono classificate?
2. In riferimento a quali criteri è possibile discriminare tra proprietà più o meno pertinenti in chiave tipologica?
3. Che rapporto c'è tra i tipi linguistici e le lingue storico-naturali?
Per quanto attiene alla prima questione, si può asserire che risultano pertinenti quelle proprietà la cui combinazione
consenta di operare previsioni attendibili sulla struttura delle lingue indagate. (se un tipo è un insieme di più
proprietà reciprocamente indipendenti, ma poste in correlazione, ciascuna di queste proprietà risulterà pertinente
qualora permetta di prevedere la presenza delle altre proprietà del tipo) ex. I cani, come è noto, possono essere
classificati in razze. Appartengono alla stessa razza se condividono molti tratti, tra i quali l'aspetto esteriore. Non,
tuttavia, il carattere. Vi sono, cioè, cani della medesima razza con caratteri differenti. Le razze possono essere
considerate l'equivalente delle famiglie linguistiche. I cani possono però essere classificati anche in virtù di
parametri differenti, cioè su base comportamentale.
• Un cane da compagnia, ad esempio, mostrerà un forte attaccamento al padrone ecc
• Un cane da difesa, invece, avrà una diversa soglia di reattività, una predisposizione alla protezione del padrone'
molto marcata.
• Un cane da guardia, poi, avrà un forte senso del territorio e un notevole istinto alla difesa dello stesso, ecc.
Mentre le razze sono realtà naturali, cioè esistono come entità a sé stanti.
Le categorie comportamentali sono astratte, create cioè dall'uomo in base a parametri di ordine funzionale (fondati
soprattutto sulla natura dell'interazione che l'uomo instaura con il cane). Esse, dunque, costituiscono l'equivalente dei
tipi.
Due cani della stessa razza potranno quindi collocarsi categorie 'comportamentali' diverse oppure, due cani di razze
diverse potranno essere parte della stessa categoria comporta mentale. Analogamente, due lingue della stessa
famiglia potranno essere collocate in tipi diversi e due lingue di famiglie diverse nello stesso tipo.

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I tipi devono avere valore predittivo; devono, cioè, consentire di prevedere la natura degli elementi che vengono
collocati in essi.
• immaginiamo di suonare alla porta di un'abitazione; di sentire un latrato provenire dalla casa.
• Il cane, che non vediamo, continua ad abbaiare.
• Il padrone di casa ci esorta ad entrare, rassicurandoci: 'entrate, il mio cane è da compagnia'.
• Anche se non lo abbiamo mai visto, ignoriamo razza e taglia, entriamo senza timore, in quanto possiamo
prevedere che il cane non avrà una reazione aggressiva nei nostri confronti.
In sostanza, l'indicazione del tipo (cioè della categoria comportamentale') è sufficiente per tracciare,
mentalmente, una sorta di identikit e prevedere le caratteristiche salienti del cane anche senza averlo mai visto.
(Allo stesso modo per le lingue; conoscerne il tipo significa prevedere quali caratteristiche avrà, anche senza aver
indagato a fondo la sua grammatica). Dal momento che i tipi sono categorie astratte, possiamo preventivare
situazioni incerte; una lingua potrà esibire segmenti della sua struttura imprevisti rispetto alla natura del tipo cui
afferisce.
Immaginiamo, un'altra situazione: Classifichiamo i cani in base ad un parametro percettivamente rilevante: il colore
del pelo. Creeremo, dunque, classi molto uniformi: da una parte tutti i cani bianchi, dall'altra quelli neri ecc.
• Suoniamo alla solita porta
• Il padrone ci invita ad entrare, rassicurandoci: 'salite, il mio cane è bianco.
• Questa affermazione, però, non ci permette di prevedere nulla.
Il parametro usato in questo caso è privo di qualunque potenzialità predittiva. La classificazione che si basa su esso,
perciò, non è una tipologia. Riportando il discorso sul piano linguistico, un parametro che dimostra una piena
pertinenza tipologica è quello relativo all'ordine dei costituenti di alcune strutture sintattiche come il sintagma
verbale, il sintagma nominale ecc.
Partendo dall'ordine dei costituenti di ciascuna di queste strutture, si può prevedere, con soddisfacente attendibilità,
l'ordine dei costituenti delle altre strutture. Ex. una lingua che pone il verbo prima dell'oggetto (come l'italiano:
mangio la mela) tende in genere a collocare il nome prima del genitivo (la casa di Andrea), a disporre le frasi relative
dopo il nome reggente (la mela che ho mangiato) ecc.
Dunque possiamo costruire tipi linguistici in cui la rete di correlazioni tra le singole proprietà rivela una buona
potenzialità predittiva. Un'indagine in chiave tipologica non può prescindere da un'accurata selezione dei
parametri di riferimento, basata essenzialmente sulle correlazioni che è possibile stabilire tra essi.
• Per la tipologia linguistica non sono rilevanti le singole caratteristiche in sé (livello puramente descrittivo), ma
la ratio profonda che spiega i rapporti che intercorrono tra esse: è solo in questo caso che la tipologia diviene
predittiva.
• Le lingue tuttavia, come ogni fenomeno umano, sono soggette nel loro divenire storico a molteplici
condizionamenti che spesso imprimono, da un punto di vista tipologico, imprevedibili deviazioni.
• La tipologia ha infatti come oggetto d'indagine le lingue storico-naturali; su esse devono essere verificate le sue
capacità predittive; ma gli strumenti di indagine di cui la tipologia si avvale, cioè i tipi, sono entità astratte che si
configurano sostanzialmente come una semplificazione della realtà osservabile e come tali, non sono fedelmente
riprodotti da alcuna lingua storico-naturale.
I tipi linguistici dunque non sono lingue storico naturali, ma modelli di descrizione delle lingue storico-
naturali.
1.1.2 L’INDAGINE TIPOLOGICA: METODI E OBIETTIVI
Il primo passo è quello di circoscrivere l'oggetto dell'indagine attraverso l'individuazione dei segmenti del sistema
lingua su cui si intende fondare la ricerca tipologica.
Il passaggio successivo, di fondamentale rilevanza, consiste nella selezione dei parametri davvero pertinenti,
essenzialmente in base alla loro potenzialità predittiva. Poi è il momento di valutare quante e quali correlazioni
tra i parametri d'indagine siano effettivamente attestate.
Al termine dell'indagine si osserverà che non tutte le correlazioni logicamente possibili tra i parametri d'indagine
(quindi non tutti i tipi possibili) hanno la medesima diffusione tra le lingue storico-naturali: alcuni tipi esibiranno
un elevato indice di occorrenza nella realtà linguistica, altri avranno rarissime attestazioni o addirittura saranno del
tutto inesistenti. A questo punto, il compito della tipologia diviene quello più arduo di cogliere la ratio profonda
del fenomeno; capire quali fattori possano giustificare la distribuzione interlinguistica dei tipi.

76
La tipologia deve abbandonare il livello descrittivo e spostarsi sul livello esplicativo e poi predittivo. Dove va cercata
la logica interna alla distribuzione interlinguistica dei tipi? Gli studiosi si sono schierati nel corso degli anni, su
posizioni diverse e il dibattito ha prodotto molte ipotesi, non sempre convergenti.
La più plausibile pare quella che induce a rintracciare la spiegazione profonda delle classificazioni tipologiche in
fattori di natura essenzialmente semantica o pragmatica. (proprio perchè la lingua è in ultima analisi un fatto
sociale; la sua funzione primaria è essenzialmente quella di consentire alle comunità umane di comunicare; la ratio
profonda delle correlazioni osservate potrebbe essere spiegata in un'ottica funzionale). In questo quadro, le singole
configurazioni tipologiche sarebbero il riflesso delle strategie che la lingua predispone per risolvere i problemi legati
appunto alla comunicazione.
Lo scopo essenziale della tipologia linguistica: stabilire, ove possibile se essa sia soggetta a limiti e restrizioni e, in
caso di riscontro positivo di capire quale sia la natura di questi limiti e di queste restrizioni. Studiare le occorrenze
sistematiche di specifiche affinità (o divergenze) strutturali tra le lingue dovrebbe condurre il tipologo a svelare le
ragioni dell'esistenza di configurazioni strutturali.
1.1.3 LA COSTRUZIONE DEL CAMPIONE
Come si è detto, la tipologia si prefigge in ultima analisi il compito di esplicitare i principi generali che governano la
variazione interlinguistica. Questa dichiarazione di intenti, piuttosto ambiziosa, si scontra però con una constatazione
assolutamente oggettiva: è umanamente impossibile pensare di procedere alla comparazione di tutte le lingue
del mondo.
• dovremmo aggiungere quelle estinte
• tutte le lingue sono ugualmente documentate.
Come si può pensare di tracciare un quadro davvero esauriente e attendibile della variazione interlinguistica quando
si è nell'oggettiva impossibilità di esaminare tutte le lingue del passato e del presente?
Per tracciare un quadro esauriente della variazione interlinguistica, su scala mondiale o rispetto al quadro
geolinguistico che si intende indagare, è necessario selezionare un campione che sia altamente rappresentativo
dell'esuberante varietà delle lingue e che, soprattutto, eviti accuratamente quelle che tecnicamente vengono
definite "distorsioni”. Dovrebbe essere immune da:
• distorsioni genetiche: un campione rappresentativo non deve dare eccessiva rappresentazione ad alcune famiglie
linguistiche a scapito di altre. Infatti l'assenza di un legame di parentela tra le lingue indagate rafforza la possibile
caratterizzazione tipologica delle affinità riscontrate.
• distorsioni areali: un campione rappresentativo deve tenere conto del fatto che lingue non imparentate, ma
parlate nel medesimo contesto geografico, possono sviluppare tratti comuni in virtù dei contatti tra i rispettivi
gruppi di parlanti
• distorsioni tipologiche: un campione rappresentativo non deve apparire sbilanciato a favore di determinate
configurazioni tipologiche a svantaggio di altre.
Ovviamente un campione di lingue dovrebbe riprodurre fedelmente questa varietà. Il rischio maggiore che un
campione scarsamente calibrato in ottica tipologica può produrre è quello di indurci a giudicare come tendenze
indipendenti comportamenti tipologici in realtà reciprocamente correlati.
• distorsioni legate alla consistenza numerica delle comunità parlanti: il rischio di incappare in distorsioni di
questo tipo è davvero elevato, se si pensa che, delle 6.000 lingue in uso oggi sulla Terra, circa 100 sono parlate
da più dell'80% della popolazione umana.
In questo senso, un atteggiamento prudente da parte del tipologo è quello di "dimenticare" il numero di parlanti
di ciascuna lingua, non per negare un valore in sé a questo dato, ma poiché esso rischia di essere altamente fuorviante
in chiave tipologica.
Molto spesso, almeno in una prima fase dell'indagine, la scelta cade su quelle lingue per le quali la
documentazione è più accessibile e per le quali si può contare sull'apporto di parlanti nativi, cui sottoporre
questionari mirati.
(Uno dei padri degli studi tipologici, Joseph H.Greenberg, che agli inizi degli anni 60 ha inaugurato il filone di
ricerca sugli universali linguistici confessava di aver selezionato le lingue del campione “per convenienza”,
scegliendo lingue con cui egli stesso avesse una certa familiarità o per le quali disponesse di una grammatica
adeguata.
Lo stesso Greenberg poneva in risalto la "natura provvisoria” delle conclusioni della sua ricerca. Tuttavia i risultati
raggiunti sono da considerare davvero straordinari e hanno segnato un'epoca.)
77
Ben diverso è lo scenario nel quale opera il tipologo oggi: le innovazioni tecnologiche e la velocità con cui oggi
circola il sapere offrono opportunità che solo pochi decenni or sono apparivano quasi utopiche. ex. il World Atlas
of Language Structures: ambisce a tracciare un quadro attendibile su vasta scala della variabilità interlinguistica
rispetto a molteplici parametri d'indagine, relativi ai principali livelli di analisi della lingua (struttura della sillaba,
posizione dell'accento, sistemi di caso, di genere, di aspetto e di modo ecc.). Il campione è composto da cento lingue.
1.2 TIPOLOGIA E SINTASSI
1.2.1 L’ORDINE DEI COSTITUENTI
Un parametro che ha dato risultati convincenti nella ricerca tipologica è rappresentato dall'ordine in cui gli elementi
della frase dichiarativa o di particolari sintagmi vengono disposti. In sostanza, secondo l'ipotesi di partenza di questo
approccio si può supporre che l'organizzazione del materiale linguistico in costrutti diversi avvenga in base a principi
largamente condivisi.
LA POSIZIONE DEL SOGGETTO
La frase indipendente dichiarativa, può essere segmentata in tre costituenti:
• il soggetto (S),
• il verbo (V) e
• l'oggetto diretto (O).
I parametri su cui fonderemo, in questo primo approccio, le basi della tipologia sintattica sono dunque tre:
• posizione di S
• posizione di V
• posizione di O nella frase indipendente dichiarativa.
Premesse.
• I tre costituenti assunti a riferimento non sono una classe del tutto omogenea: il verbo, infatti, è una categoria
sintattica (o una parte del discorso), mentre il soggetto e l'oggetto rappresentano funzioni che possono essere
svolte da più categorie sintattiche.
Ex. (nella frase Luca legge un libro il soggetto è un nome, mentre nella frase “passeggiare sulla spiaggia al
tramonto è molto romantico” il soggetto è a sua volta una frase).
• Ciascuno dei costituenti in questione può essere realizzato da più parole.
Ex. Due frasi italiane come “Luca ama Teresa” e “il ragazzo moro che da poco si è trasferito nel quartiere ama
la figlia del farmacista” sono assolutamente equivalenti.
Entrambe si aprono con l'indicazione del soggetto seguito dal verbo e si chiudono con l'espressione dell'oggetto
diretto. Emerge una netta prevalenza di due tipi:
• il tipo SOV (attestato ad esempio in turco, in basco, in parte delle lingue ugrofinniche, in coreano, in giapponese,
in varie lingue caucasiche, nelle lingue dravidiche ecc.)
• il tipo SVO (cui ricorrono le lingue dei gruppi romanzo, germanico, slavo e baltico della famiglia indoeuropea,
il finnico e l'estone della famiglia ugrofinnica, le lingue bantu, alcune lingue della famiglia camito-semitica, il
vietnamita, il cinese ecc.).
Si suppone che circa il 45% delle lingue del mondo afferisca al primo tipo; circa il 42% il secondo. Poco meno del
10% delle lingue storico-naturali adotta invece l'ordine VSO (presente ad esempio nelle lingue celtiche, in ebraico,
in aramaico, in arabo classico, in berbero, in masai, nelle lingue polinesiane ecc.). I tre tipi appena esemplificati,
coprono circa il 97% della variazione interlinguistica mondiale. I restanti VOS, OVS e OSV trovano riscontro in
una manciata di lingue.
La scarsa occorrenza di questi ultimi tre tipi consente di ribadire che non tutti i tipi logicamente possibili sono
effettivamente attestati tra le lingue storico-naturali. La tipologia deve poi farsi carico dell’esplicitazione di un
principio organizzativo in grado di giustificare la difforme diffusione dei tipi in questione.
• La quasi totalità delle lingue del mondo antepone il soggetto all’oggetto nella frase indipendente
dichiarativa.
Quale può essere la ragione di questa uniformità? Deve essere considerata come il prodotto dell’azione congiunta
di più condizionamenti:
• il soggetto è di norma l’entità che da il via all’azione espressa dal verbo e che esercita su di esso un alto
grado di controllo.
78
Queste prerogative assegnano al soggetto una preminenza cognitiva rispetto all’oggetto che invece subisce
l’azione e non esercita su di essa alcun controllo. Nell’organizzazione mentale dell’informazione il soggetto
si caratterizza per una salienza particolare.
È naturale attendersi che anche a livello linguistico si riproduca questa disparità di peso cognitivo ponendo il
soggetto prima dell’oggetto.
• Una seconda possibile concausa risiede nell'ipotesi secondo cui la disposizione lineare del materiale
linguistico è, almeno in parte, legata all'organizzazione mentale dell'informazione che si intende
veicolare.
Il soggetto corrisponde a quella che tecnicamente viene definita come l'informazione data (il tema o topic),
mentre nel resto della frase si trasmette l'informazione nuova (il rema o comment, vale a dire ciò che si dice
del tema).
In un'interazione comunicativa l'informazione data fa parte di una sorta di background comune e,
conseguentemente, pare naturale collocarla all'inizio della frase, giusto per chiarire preventivamente di chi o
di cosa si intenda parlare, prima di entrare nel vivo.
Collocare l'informazione nuova prima del tema può invece pregiudicare il successo della comunicazione.
ORDINE DEI COSTITUENTI E SISTEMA DI CASI
Precisazione. Il parametro che analizza la posizione del soggetto e dell’oggetto rispetto al verbo non ha la stessa
rilevanza in tutte le lingue, in quanto l'ordine dei costituenti non ha sempre la funzione di marcare i ruoli sintattici.
Nella frase latina “puer puellam amat”, è possibile identificare il soggetto attraverso il caso nominativo (puer) e
l'oggetto attraverso la desinenza -am del caso accusativo (puellam). L'inversione dei due nomi non altera il significato
della frase. Il compito di marcare i ruoli sintattici spetta alla morfologia flessiva, non all’ordine dei costituenti (cioè
alla sintassi).
ORDINE NATURALE E ORDINE MARCATO
In ogni lingua, è possibile individuare più ordine dei costituenti. Ex. L’ungherese gode di un’ampia libertà concessa
ai costituenti della frase, che possono mutare posizione senza pregiudicare la grammaticalità della frase. Quale è
dunque l’ordine dei costituenti dell’ungherese?
In generale, in base a quali criteri si determina l’ordine dei costituenti di una struttura sintattica?
Nell’ungherese ad esempio le diverse sequenze possibili (OVS; VSO ecc) non condividono il medesimo statuto
in ottica comunicativa.
• la prima frase, costruita sullo schema SOV, è sostanzialmente "neutra" in prospettiva pragmatica (e per questo
ben si adatta a ogni situazione comunicativa), tutte le altre richiedono situazioni particolari e trasmettono
specifiche sfumature
Per dar conto di questa discrepanza, si ricorre alla distinzione tra ordine naturale e ordine marcato dei costituenti.
Quando un ordine dei costituenti può dirsi marcato? Dati due (o più) costrutti linguistici, uno di essi viene definito
marcato in rapporto all'altro (o agli altri) se in esso compare un elemento in più, detto appunto marca, vale a
dire un elemento assente nell'altro costrutto.
Ex. Sul piano sintattico, l'ordine naturale è quello in cui vengono disposti i costituenti in un contesto comunicativo
“pragmaticamente neutro", quando cioè si intende trasmettere esclusivamente l'informazione che deriva dalla somma
dei significati parziali degli stessi costituenti.
Ex. La sequenza naturale in italiano è SVO: il bimbo mangia una mela.
Tuttavia, anche una sequenza OVS come una mela, mangia il bambino risulta del tutto accettabile. Essa, tuttavia,
è meno frequente e può essere pronunciata solo in condizioni pragmatiche particolari, ad esempio per contraddire
un'affermazione precedente (Il bambino mangia una pesca; (No.) Una mela, mangia il bambino). Infine, il suo
contorno intonativo è decisamente particolare. Questa pausa è assente nella frase di tipo SVO e si configura dunque
come una marca.
La sequenza OVS risulta, in italiano, marcata rispetto alla sequenza SVO: essa veicola alcune informazioni
aggiuntive di natura pragmatica (ex il valore avversativo).
• Una natura sintattica può essere definita naturale se in essa non compaiono marche, se esibisce una
sostanziale neutralità pragmatica e risulta più frequente

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TESTA E MODIFICATORI
Per quanto riguarda la posizione del soggetto, si è visto che la quasi totalità del mondo adotta la medesima strategia.
Lo spazio per la variazione interlinguistica è limitato: un’indagine basata solo su questo parametro sarebbe
destinata all’insuccesso perchè porterebbe a collocare quasi tutte le lingue nello stesso tipo. Gli altri costituenti della
frase dichiarativa invece V e O, sono individuati altri costrutti molto più articolati e differenziati.
I principali parametri in correlazione con la posizione di V e O sono la presenza di preposizioni o di posposizioni,
la posizione dei suoi ausiliari, della negazione e degli avverbi rispetto il verbo, la collocazione dei pronomi
interrogativi ecc. In base alla loro combinazione, possono essere trovati due tipi ideali di riferimento VO e OV:
• TIPO VO:
o sintagma verbale: verbo – oggetto
o sintagma nominale: nome – genitivo/aggettivo/dimostrativo/frase relativa
o sintagma adposizionale: preposizioni
• TIPO OV:
o sintagma verbale: oggetto – verbo
o sintagma nominale: genitivo/aggettivo/dimostrativo/frase relativa – nome
o sintagma adposizionale: posposizioni
Per pura semplicità, ci concentriamo solo sui primi parametri (V e O), in realtà osserviamo che le lingue del mondo
si distribuiscono in circa 15 tipi.
Tra essi, 7 si caratterizzano per una diffusione interlinguistica significativa. G(enitivo), N(ome), O(ggetto),
Po(sposizione), Pr(eposizione), S(oggetto), V(erbo)
1. V(S)O, Pr, NG, NA lingue celtiche, ebraico, aramaico, arabo
2. (S)VO, Pr, NG, NA lingue romanze, albanese, neogreco
3. (S)VO, Pr, NG, AN una parte delle lingue germaniche (tedesco)
4. (S)VO, Pr, GN, AN norvegese, svedese, danese
5. (S)VO, Po, GN, NA finnico, estone
6. (S)OV, Po, GN, AN lingue turche, hindi, giapponese
7. SOV, Po, GN, NA basco, tibetano
Se prendiamo in esame il tipo VO,
• nel sintagma verbale, l’elemento che appare dominante (definito testa) è il verbo.
• Nel sintagma nominale, la testa è ovviamente il nome.
• Nel sintagma adposizionale, la testa del sintagma compare alla sinistra dei complementi in quanto introdotti
da una preposizione.
Il secondo tipo (OV) adotta la strategia opposta: in esso la testa segue sempre i suoi complementi/modificatori.
Quindi, riepilogando, il principio organizzativo soggiacente ai due tipi "ideali” riprodotti sopra concerne la posizione
reciproca di testa e complementi/modificatori:
• il tipo VO obbedisce al principio “testa a sinistra (o iniziale)",
• il tipo OV si conforma al principio “testa a destra (o finale)".
Questa generalizzazione ha conseguenze sul piano sia teorico che empirico.
• A livello teorico, alcuni costrutti differenti e reciprocamente indipendenti adottano il medesimo principio
organizzativo, cioè posizionano sempre la testa o prima o dopo i complementi/modificatori.
• Dal lato empirico, consente ai parlanti un considerevole risparmio di energie al momento
dell'acquisizione e dell'uso della lingua: essi, infatti, possono apprendere un unico principio generale (cioè
le sequenze testa-complemento o complemento-testa) e in base ad esso costruire e interpretare molteplici
strutture complesse di varia e differente natura.

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Tuttavia gli aggettivi raramente si conformano ai due principi in questione (come nei tipi III, IV e VII; cfr. supra).
Lo stesso può dirsi dell'articolo, che nelle lingue VO precede la propria testa, cioè il nome, e che nelle lingue OV di
norma la segue. Per dar conto di queste e altre situazioni anomale” si è affermata negli ultimi anni un'ipotesi
alternativa, la cosiddetta Branching Direction Theory (teoria della direzione della ramificazione).
• Essa prevede che la coerenza tipologica nei costrutti che compongono i due tipi VO e OV sia rispettata
rigorosamente solo dai costituenti che in una rappresentazione ad albero esibiscono una ramificazione.
• Al contrario, i costituenti di tipo puramente lessicale (privi di struttura sintattica) sarebbero meno propensi
ad occupare rigidamente una specifica posizione.
Ex. L’inglese è una lingua VO, in cui tuttavia l’aggettivo e l’articolo non si conformano al principio “testa a sinistra”:
“a table”: la testa è a destra.
Il genitivo (ad eccezione del genitivo sassone) invece seguono il nome e
dunque si mostrano coerenti rispetto al criterio di fondo che regola la struttura
dei costituenti del tipo VO: the leader of the party.
Notiamo però che il modificatori della testa nominale leader, ha una struttura
di tipo sintattico in quanto realizzati mediante un sintagma preposizionale. La
ramificazione avviene sempre dalla stessa parte; in questo senso l’inglese è
una lingua con ramificazione sempre a destra. Spiega così presunte anomalie.
1.3 TIPOLOGIA E MORFOLOGIA
1.3.1 I TIPI MORFOLOGICI
Già all’inizio dell’800 vennero da più parti avanzate proposte per una classificazione delle lingue più note in “tipi
morfologici”. Nonostante il trascorrere del tempo i presupposti di fondo di questa classificazione sono rimasti in
buona parte invariati. La tipologia morfologica presuppone l’azione di due parametri, l’indice di sintesi e l’indice
di fusione:
1) Il primo di essi concerne il numero di morfemi individuabili all’interno di una parola;
2) il secondo riguarda la segmentabilità della parola stessa, ovvero il grado di difficoltà con cui vengono individuati
i confini tra i morfemi (e di conseguenza tra le singole unità di significato di cui essi sono portatori).
La combinazione dei due indici consente di individuare almeno 4 tipi di riferimento:
• il tipo isolante,
• il tipo polisintetico,
• il tipo agglutinante e
• il tipo fusivo.
LINGUE ISOLANTI:
Nelle lingue isolanti l’indice di sintesi ha il valore minimo: ogni parola tende ad essere monomorfemica, ogni
morfema è invariabile nella forma e in genere esprime un solo significato.
Non ha senso parlare di indice di fusione: dal momento che ogni parola è composta da un solo morfema, i morfemi
non si combinano mai tra loro e dunque non esistono confini tra morfemi, ma solo confini tra parole.
Ex. Cinese e Mandarino (famiglia sinotibetana) e il vietnamita (famiglia austroasiatica)
Cinese Mandarino:
ta zai tushuguan kan bao
egli presso biblioteca leggere giornale
“egli sta leggendo il giornale in biblioteca”
Ogni parola è formata effettivamente da un unico morfema. Anche per pluralizzare un nome ad esempio, si utilizza
la giustapposizione di un’altra parola monomorfemica, priva di un vero significato lessicale, ma portatore
dell’informazione grammaticale (plurale)
Ex. “toi”: io
“chung toi”: noi (PL. + io)
81
Le parole tendono ad essere del tutto invariabili nella forma:
• a differenza dell’italiano, dove la categoria sintattica di una parola può essere modificata mediante l'aggiunta di
suffissi derivazionali (veloce AGG > velocizzare V), nelle lingue isolanti una stessa parola può svolgere più
funzioni sintattiche senza alterare la propria configurazione formale.
• Il processo della conversione è una delle caratteristiche del tipo isolante.
• Un altro aspetto fondamentale del tipo isolante sta nella corrispondenza biunivoca tra morfemi (parole) e
unità semantiche: ogni morfema/parola esprime uno e un solo significato, sia esso lessicale e grammaticale.
LINGUE POLISINTETICHE: Le troviamo come opposte a quelle isolanti; l’indice di sintesi assume il valore
massimo. Esse concentrano all’interno della stessa unità lessicale un numero piuttosto elevato di morfemi, giungendo
a condensare in una sola parola informazioni che in italiano normalmente richiederebbero la costruzione di una intera
frase.
Eschimese siberiano:
angya-ghlla-ng-yug-tuq
barca-ACCRESCITIVO-coprare-DESIDERATIVO-3ps. Sing
“egli vuole comprare una grande barca”
La sequenza è allo stesso tempo una parola e una frase di senso compiuto. I due tipi che esemplificano i valori estremi
dell’indice di fusione sono quello agglutinante e quello fusivo. In questo caso l’indice di fusione si colloca di norma
su valori intermedi.
All’interno del tipo polisintetico, viene in genere individuato il sottotipo incorporante, cui vengono ascritte le lingue
che tendono a giustapporre in una sola parola numerosi morfemi di natura essenzialmente lessicale (mentre nelle
lingue polisintetiche i morfemi sono sia lessicali che grammaticali).
LINGUA AGGLUTINANTE:
• Esibiscono il minor indice di fusione.
• La parola consta generalmente di più morfemi e di norma la segmentazione non presenta particolari
difficoltà;
• vi è una marcata tendenza a disporre i morfemi in sequenza senza che i rispettivi confini si confondano.
• Vi è (come nelle lingue isolanti) una corrispondenza biunivoca tra il livello della forma e quello del
contenuto.
Turco:
“adam”: l’uomo
“adam-lar”: gli uomini (uomo-PL) “adam-a”: all’uomo (uomo-DAT)
“adam-lar-a”: agli uomini (uomo-PL-DAT)
Ogni forma è invariabile e portatrice di un solo significato.
L’indice di sintesi si attesta in genere su valori medio-alti: le parole tendono a dotarsi, al loro interno, di un buon
numero di morfemi, in quanto è impossibile esprimere più categorie semantico-funzionali con un unico morfema.
LINGUE FUSIVE
• Il valore dell’indice di fusione è massimo.
• I confini tra un morfema e l’altro perdono visibilità e ciò determina una serie di relazioni a catena: la
segmentazione diviene particolarmente ostica;
• le categorie semantico-funzionali si concentrano (fondono) in un unico morfema.
Lingue indoeuropee:
“homo”: uomo “homin-es”: uomini “homin-i”: all’uomo
“homin-ibus”: agli uomini
La differenza con il turco è lampante.

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Spesso i morfemi nelle lingue fusive hanno anche forma variabile: la terminazione –es del nominativo plurale
homines non può essere estesa ai nomi maschili della seconda declinazione ad esempio, per i quali le medesime
funzioni grammaticali sono realizzate dalla marca –i ecc.
Oltre alla situazione “più forme > una funzione”, è attestata anche la situazione opposta “una forma > più funzioni”
Ex “hominibus”: dativo plurale e ablativo plurale
L’indice di sintesi si caratterizza di norma per valori medio-bassi: la possibilità di far convergere più unità semantiche
su un singolo morfema, infatti, consente di ridurre il numero complessivo dei morfemi all’interno della parola.
All’interno di questo tipo si è soliti individuare il “sottotipo introflessivo”: lingue in cui il rapporto tra unità del
contenuto e unità dell’espressione ricalca lo schema appena delineato, senza che tuttavia i morfemi vengano disposti
in ordine lineare. Principalmente prevedono una collocazione “a pettine” dei morfemi.
L’arabo ad esempio costruisce le parole “intrecciando” una radice (tri)consonantica, con una lettura semantica
piuttosto generica, priva di ogni implicazione di natura grammaticale (ad esempio specificazioni rispetto le categorie
di genere) e particolari sequenze vocaliche, collocate tra le consonanti della radice, cui spetta la mansione di
esprimere ulteriori specificazioni lessicali e grammaticali.
1.3.2 MARCATURA DELLA DIPENDENZA SULLA TESTA VS SUL MODIFICATORE
Una seconda classificazione tipologica concerne le strategie morfologiche che le lingue storico- naturali adottano per
codificare la relazione di dipendenza. Può essere espressa mediante dispositivi di natura sintattica (ordine reciproco
dei costituenti in questione) o attraverso il ricorso ad affissi, cioè a strumenti di natura morfologica.
Le lingue che adottano strategie morfologiche per codificare la relazione sintattica in esame possono in effetti marcare
la relazione di dipendenza sulla testa, sugli elementi dipendenti oppure sia sulla testa che sugli elementi dipendenti
(ricorrendo dunque ad una doppia marcatura).
A. Marcatura sulla testa
a-ckdn yd-ynd
il-ragazzo 3SING-casa: lett. “il ragazzo sua-casa” “la casa del ragazzo”
B. Marcatura sulla dipendenza
Filius Ascan-i
Figlio Ascanio-GEN: “il figlio di Ascanio”
C. Doppia marcatura
Ev-in kapi-si
Casa-GEN porta-3SING: lett. “della casa porta-sua” ”la porta della casa”
La marcatura sulla testa sembra la strategia ricorrente anche tra le lingue che non consentono di identificare alcun
ordine basico dei costituenti. Al contrario, le lingue in cui il verbo occupa la posizione centrale o finale della frase
indipendente dichiarativa paiono più propense a marcare la dipendenza sintattica sui modificatori e i complementi
della testa.
1.4 TIPOLOGIA E FONOLOGIA
Tipologia e Fonologia
Il componente fonetico-fonologico della grammatica è stato per decenni penalizzato nelle indagini di impronta
tipologica. Solo recentemente è tornato a occupare una posizione centrale. In questo quadro vi sono però alcune
questioni attorno alle quali dibattito tra gli studiosi non si è mai esaurito. Tra esse quella relativa a un elemento
soprasegmentale, cioè il tono.
• Il tono è una proprietà che caratterizza i suoni sonori, cioè i suoni che prevedono, nella loro articolazione, la
vibrazione delle corde vocali.
• Tanto più elevata è la frequenza con cui vibrano le corde vocali, tanto più alto (o acuto) è il tono del suono
prodotto.
• Il tono si realizza in tutte le lingue storico-naturali, seppur con modalità differenti.
Tuttavia, solo in circa metà delle lingue parlate oggi sulla Terra esso è fonologicamente pertinente ed ha valore
distintivo.

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Ex. In cinese mandarino vi sono 4 toni, per la rappresentazione si utilizza una combinazione di due o più valori
numerici: si suppone che l’estensione massima delle variazioni di tono possa essere racchiusa in un intervallo
numerico che ha i suoi estremi nei valori 1 e 5.
TONO 1: 55 (parte da un livello massimo e si mantiene costante)
TONO 2: 35 (parte da un livello medio-alto e raggiunge poi il livello massimo)
TONO 3: 214 (parte da un livello medio-basso, scende al minimo e risale quasi al massimo)
TONO 4: 51 (da un livello massimo a minimo)
I toni in cinese sono fonologicamente pertinenti, consentono di distinguere i significati delle parole.
Lingue di questo tipo vengono generalmente indicate come "lingue a toni” o “lingue tonali”. In termini areali, esse
paiono concentrate nell’Africa subsahariana, nell'America centrale e nell'Asia sudorientale.
• In un'indagine tipologica sui sistemi di tono, il primo passo coincide con l'identificazione di due macrotipi,
appunto le lingue tonali vs le lingue non tonali.
Le lingue a toni costituiscono un tipo internamente piuttosto disomogeneo, che non consente l'elaborazione di un
profilo tipologico unitario e omogeneo, ma che, anzi, può essere scandagliato in base a diversi parametri. Due paiono
largamente prevalenti nelle più note tipologie proposte: l'unità cui è associato il tono e la funzione cui il tono deve
assolvere.
Per quanto concerne il primo parametro, la distinzione più frequente è quella tra toni associati a vocali (come in
somalo: qaálin 'giovane cammello' vs qaalin ‘giovane cammella') e toni associati a sillabe. Rispetto a questi ultimi,
poi, è possibile discriminare ulteriormente i toni associati a una sola sillaba dai toni che invece arrivano a coprire
più sillabe. Rispetto invece alla funzione dei toni, la più importante suddivisione è tra i toni che distinguono morfemi
lessicali (come in cinese mandarino) e quelli che distinguono invece morfemi con valore più specificamente
grammaticale (ex. Espressione del numero).
I toni possono svolgere anche una funzione derivazionale.
1.5 TIPOLOGIA E LESSICO
Il lessico condivide una posizione di sostanziale marginalità nell’ambito degli studi di impronta tipologica. Il lessico
appare vulnerabile rispetto a perturbazioni provenienti dall’esterno.
• Gli studi tipologici a base lessicale che hanno prodotto i risultati più convincenti sono quelli che hanno
scandagliato a fondo la terminologia utilizzata per codificare le relazioni di parentela e il lessico dei colori.
In una ricerca notissima di Berlin e Kay, sono stati individuati 11 colori che sembrano essere riconosciuti e indicati
nello stesso modo dai parlanti di oltre 100 lingue. L’aspetto più rilevante della questione risiede nel fatto che queste
undici classi cromatiche paiono disporsi in una gerarchia organizzata in modo rigidamente implicazionale; essa
implica che se non si può accede a un livello senza essere passati per quelli precedenti.
Bianco/nero > rosso > giallo/verde > blu > marrone > rosa, arancio
È impossibile che una lingua abbia un termine per il bianco, uno per il nero e uno per il blu, senza avere il rosso, il
giallo o il verde.
1.6 NON ESISTONO TIPI PURI
I tipi sono artifici teorici che filtrano la concreta realtà linguistica semplificandola sensibilmente. Essi, dunque, non
sono oggetti concretamente osservabili e non si realizzano integralmente in alcun sistema linguistico.
Le lingue storico-naturali si caratterizzano dunque come tipologicamente miste. In questo senso, l'analisi
tipologica dovrà tener conto, ove possibile, delle tendenze prevalenti. ex. l'inglese esibisce un ricco campionario di
incongruenze e contraddizioni tipologiche.
• Riprendiamo, a titolo esemplificativo, le due principali classificazioni descritte: ordine dei costituenti,
identificazione dei tipi morfologici.
In chiave sintattica, l’inglese si configura come una lingua VO. In questo senso ci aspetteremmo di trovare i
modificatori e i complementi sempre alla destra della testa. Questa aspettativa tuttavia viene in parte smentita dai
fatti. Ex. The black dog. L’aggettivo precede il nome.
Per quanto riguarda il tipo morfologico, l’inglese viene spesso ascritto al tipo isolante. (utilizza infatti anche
copiosamente il processo di conversione).

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Tuttavia, basta allargare un po' il campo dell'indagine perché sorgano i primi dubbi sulla natura isolante dell'inglese.
Il plurale dei nomi e il comparativo degli aggettivi vengono realizzati con strategie di natura agglutinante. (Forme
come boys ‘ragazzi' e taller 'più alto/a’ prevedono l'aggiunta di un morfema legato (-s e -er) a una forma libera (boy
e tall)).
In entrambi i casi i due morfemi si combinano senza che il confine interno venga alterato e, soprattutto, veicolando
ciascuno una sola funzione semantica o grammaticale.
Si potrebbe dunque tracciando un bilancio, in inglese troviamo numerosissime strutture di tipo isolante, molte
formazioni di matrice agglutinante, una quantità non indifferente di elementi fusivi e qualche forma
introflessiva. Di fronte a questo groviglio pressoché inestricabile, il tipologo non può far altro che rimanere senza
risposta e non assegnando all’inglese un tipo morfologico.
1.7 CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA E GENERICA DELLE LINGUE
La classificazione su base genealogica, con l’ausilio delle ipotesi ricostruttive operate dalla linguistica storico-
comparativa, mira ad individuare, risalendo il corso del tempo, rapporti di parentela tra le lingue, in virtù di
concordanze riscontrate a vari livelli di analisi. Possiamo stabilire alcuni importanti punti di contatto tra questi
due settori della linguistica.
• In primo luogo, essi ricorrono di norma al medesimo procedimento di analisi, quello comparativo.
• Un secondo aspetto per il quale la tipologia non può prescindere dall'apporto della linguistica storico-comparativa
sottolinea che, una volta riscontrata una particolare occorrenza di più tratti linguistici, per sancire l'esistenza di
una tendenza tipologica più o meno generale, è necessario escludere, preventivamente, che questi tratti siano la
conseguenza di una comune filiazione genealogica, quindi che siano stati ereditati da una medesima/proto lingua
madre.
• La ricerca tipologica non può prescindere dai risultati conseguiti dalla linguistica storico- comparativa, almeno
per quanto concerne la ricostruzione dei legami di parentela tra le lingue.
Ma anche la tipologia, può supportare la linguistica storico-comparativa.
• Innanzitutto, la tipologia può suggerire alla linguistica storico-comparativa una sorta di "gerarchia di pertinenza”
di tratti linguistici nei processi di ricostruzione dei legami di parentela.
• In secondo luogo, la tipologia può contribuire o avvalorare o smentire le ipoteri ricostruttive della linguistica
storico-comparativa.
• Infine, la classificazione tipologica può sostenere la genealogica in aree geolinguistiche particolarmente intricate.
1.8 IL RUOLO DELLA TIPOLOGIA IN UNA TEORIA DEL LINGUAGGIO
- VEDI LIBRO
CAPITOLO 2: GLI UNIVERSALI LINGUISTICI
GLI UNIVERSALI LINGUISTICI: Gli universali linguistici indicano una proprietà, o correlazioni di proprietà
che si suppone contraddistinguano ogni lingua storico-naturale, del presente come del passato.
TIPOLOGIA LINGUISTICA E RICERCA DEGLI UNIVERSALI - Entrambe hanno due obiettivi opposti:
• Tipologia linguistica: studia la variazione interlinguistica, cioè di come le lingue si differenziano le une dalle
altre.
• Ricerca degli universali: studia ciò che è comune a tutte le lingue, concentrandosi sulle proprietà rispetto alle
quali le lingue non possono variare (abbiamo gli universali a diversi livelli: universali morfologici, universali
sintattici…)
Inoltre delimitano il campo d’azione della tipologia; ciò significa che gli universali sanciscono che rispetto a quei
tratti comuni a tutte le lingue l’indice di variazione interlinguistica è pari a zero. Siamo quindi nel punto zero
della variazione tipologica. Per punto zero si intende quell’universale assoluto, cioè quel tratto da non poter mettere
in correlazione con altri (ex. L’esistenza delle vocali orali).
All’apparenza possa sembrare che abbiano obiettivi opposti, ma in realtà vanno di pari passo, hanno aspetti comuni:
o entrambe si collocano sul livello sincronico, prescindendo dalla componente tempo
o entrambe hanno un carattere, almeno inizialmente, descrittivo e non normativo né esplicativo
o nessuna delle due ha in sé la ragione della sua esistenza (non si sa perché si distingue un nome da un verbo);
perciò bisogna spingersi oltre l’esistenza per trovare le giustificazioni.
Gli universali che interagiscono con la tipologia possono essere assoluti e implicazionali.

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2.1 GLI UNIVERSALI ASSOLUTI
Sanciscono la presenza (o l’assenza) di una particolare proprietà in ogni lingua storico-naturale, senza far riferimento
ad alcun altro parametro (ad esempio l’esistenza delle vocali orali).
Gli universali assoluti non lasciano alcun spazio alla variabilità: essi consentono di identificare un unico tipo
linguistico, cui afferiscono tutte le lingue storico-naturali del passato e del presente = hanno davvero poche
occasioni di collaborazione con la tipologia.
CARATTERISTICHE DEGLI UNIVERSALI ASSOLUTI: Forniscono, seppur indirettamente informazioni
sulla natura profonda del linguaggio umano. Rimandano a condizionamenti che la lingua subisce oggettivamente,
cioè in rapporto alla conformazione fisica dell’apparato fonatorio e alle costrizioni neurologiche e psicologiche
nell’atto comunicativo.
Questo implica: LA MEMORIA A BREVE TERMINE, che rende davvero problematico il recupero di
informazioni legate a strutture sintattiche. Difficoltà dovute a meccanismi percettivi è, ad esempio: la propensione
universale a privilegiare l’aggiunta di subordinate ai due estremi della frase. Quindi fa riferimento a quegli aspetti
universali della lingua nell’ambito della comunicazione, che non si possono spiegare perché sono a livello
neurologico, articolatorio ecc.
2.2 GLI UNIVERSALI IMPLICAZIONALI
Affermano che un tratto linguistico può realizzarsi in una lingua storico-naturale solo se nella medesima lingua è
attestato anche un altro tratto linguistico. Una cosa implica un’altra (se una lingua ha una flessione avrà una
derivazione). Per la tipologia, il contributo degli universali implicazionali ha un rilievo decisamente maggiore di
quello offerto dagli universali assoluti: gli universali implicazionali offrono parametri affidabili e attendibili per
lo studio della variabilità interlinguistica; stabiliscono, in termini ampi, i limiti estremi della variazione
interlinguistica, indicando i terreni sui quali le lingue non possono avventurarsi.
2.3 COME SPIEGARE GLI UNIVERSALI? (DAL PUNTO DI VISTA SCIENTIFICO)
Bisogna rinunciare all’ambizione di spiegare unitariamente tutti gli universali e bisogna convincersi del fatto che in
essi possano obbedire fattori di origine diversa. Però, a questo proposito, è possibile fare almeno una
generalizzazione: Se ogni lingua storico-naturale ha come scopo la comunicazione, gli universali possono essere
concepiti come strategie comunicative così efficaci da essere concepiti come strategie comunicative. Un
approccio di questo tipo è etichettato come ‘funzionale’. QUALI SONO I TRE FATTORI PIU’ INFLUENTI IN
QUESTA CHIAVE ‘FUNZIONALE’ DEGLI UNIVERSALI?
2.3.1 ECONOMIA, ICONICITA’ E MOTIVAZIONE COMUNICATIVA
La presenza di un universale ha più motivazioni; qui le tre più influenti al suo essere ‘funzionale’ alla
comunicazione:
1. ECONOMIA (ECONOMIA ARTICOLATORIA): tendenza a snellire l’apparato formale di un sistema
linguistico = ottenere il massimo risultato comunicativo con il minimo sforzo.
Cosa prevede:
• Contenimento entro i limiti compatibili per la memoria umana
• Limitazione delle strutture ridondanti (strutture in cui l’informazione viene esplicitata anche se
superflua).
2. ICONICITA’(ECONOMIA COGNITIVA): tendenza a riprodurre, sul piano della struttura linguistica, le
sequenze in base a cui viene organizzata, a livello mentale, l’informazione da trasmettere.
3. MOTIVAZIONE COMUNICATIVA (ECONOMIA FUNZIONALE): la lingua, assieme alle sue strutture,
ha come fine ultimo l’adeguare il suo sistema alle esigenze comunicative della comunità parlante. Infatti nessuna
lingua dovrebbe porre limiti alle proprie potenzialità comunicative, privando determinate categorie di un’efficace
espressione formale.
Queste tre motivazioni hanno fatto nascere tre approcci diversi:
• Approccio biologico (Chiomsky): secondo cui tutti gli uomini sono muniti e usano tutti gli stessi
meccanismi = processi universali tra le lingue del mondo (vocale A).
• Approccio funzionale: sincronizzazione tra chi parla e chi ascolta (comunicazione).
• Approccio storico-genetico: ipotesi che tutte le lingue del mondo derivino da un’unica lingua. Ipotesi
inizialmente contestata, ma poi, nel 900, uno studioso realizzò che tutti appartengono ad un unico ceppo.
(Non sappiamo quale, fra questi approcci, sia quello più efficace, forse esistono più verità).

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2.3.2 L’UNIVERSALE 38: LA MARCATURA DEL SOGGETTO NEI SISTEMI DI CASO
Siamo all’interno dell’inventario degli universali di Greenberg (spiegato nel paragrafo successivo). L’universale in
questione afferma che in presenza di un sistema di casi, l’unico caso che può essere espresso mediante suffisso zero
(privo di desinenza specifica) è quello che include, tra le sue funzioni, quella di SOGGETTO del VERBO
INTRANSITIVO. Questo caso svolge anche altre funzioni (quindi non con suffisso zero) in base ai sistemi di lingue
differenti:
• Sistema nominativo-accusativo: soggetto marcato al nominativo; oggetto diretto marcato all’accusativo. Quindi
avremo sia soggetto transitivo e soggetto intransitivo. Dovremmo attenderci l’eventualità che il nominativo sia
privo di desinenze.
• Sistema ergativo-assolutivo: marcatura del soggetto vincolata dalla valenza del verbo; se il verbo è transitivo il
soggetto assume il caso ergativo; se il verbo è intransitivo il soggetto assume la desinenza del caso assolutivo,
che contraddistingue anche l’oggetto diretto.
Questi due sistemi non sono né ridondanti, né lacunosi. Vediamo perché: Ci troviamo davanti le tre funzioni
sintattiche di SOGGETTO TRANSITIVO, SOGGETTO INTRANSITIVO, OGGETTO DIRETTO; immaginiamo
di trovarci in un’ipotetica frase e sicuramente noteremo che:
• SOGGETTO TRANSITIVO E OGGETTO DIRETTO possono trovarsi insieme.
• SOGGETTO INTRANSITIVO E SOGGETTO INTRANSITIVO non possono trovarsi insieme
• SOGGETTO INTRANSITIVO E OGGETTO DIRETTO non possono trovarsi insieme
Il soggetto transitivo ha bisogno di desinenze perché altrimenti coi sarebbero fraintendimenti ad esempio tra il
soggetto e l’oggetto. Gli altri fraintendimenti, invece, sarebbero superflui;
Perciò da quest’analisi capiamo che: l’unico caso che possa realizzarsi a marca zero sia quello che corrisponde
a SOGGETTO INTRANSITIVO = il soggetto transitivo è l’unico argomento di un verbo transitivo e perciò
non è necessario che venga distinto da altri elementi. Non ha bisogno di desinenze particolari perché non può
essere confuso con altri elementi, non ha rivali. In questo caso il fattore più influente è quello dell’economia.
ALTRO UNIVERSALE: 41
Stabilisce quali sono le lingue che hanno bisogno dei casi:
• Le lingue SOV presentano soggetto transitivo e oggetto diretto affianco, per evitare fraintendimenti è necessario
distinguerle utilizzando casi (desinenze).
• Le lingue SVO presenta il soggetto e l’oggetto distanziati e la presenza del verbo in posizione intermedia ne
agevola l’identificazione.
2.4 UNIVERSALI E TENDENZE (JOSEPH H. GREENBERG)
Nel 1966 pubblicò i risultati della sua ricerca sugli universali.
• Considera 30 lingue appartenenti a 15 famiglie differenti e individua 45 universali
• Vuole identificare più tipi di generalizzazione sulla natura o ordine degli affissi, sui morfemi e le loro
correlazioni, sulla distribuzione delle categorie di parole
• Identifica gerarchie implicazionali.
Il suo studio risale a 50 anni fa e, certamente, lo scenario in cui opera la tipologia è cambiato. Molti dopo di lui hanno
testato lo studio di Greenberg grazie all’allargamento delle lingue prese in esame; e l’aspetto cruciale su cui gli studi
degli ultimi decenni hanno modificato la concezione di Greenberg è quello relativo alla supposta universalità di
alcuni costrutti e correlazioni:
Il problema principale è quello delle eccezioni; basterebbe una sola eccezione per invalidare un universale. Di fronte
alle eccezioni bisogna tener conto della distinzione tra:
• UNIVERSALI: correlazioni che senza alcuna eccezione ricorrono in ogni lingua storico- naturale.
• TENDENZE UNIVERSALI: correlazioni che sono attestate in una porzione statisticamente rilevante
delle lingue storico-naturali. Questo dimostra che la distribuzione di tali correlazioni con è casuale,
ma obbedisce ad una ratio rigorosa. La presenza di ‘casi anomali’ dipende spesso dal fatto che la
lingua, nella sua evoluzione, subisce il forte condizionamento di fattori storici, sociali e legati alle
vicende delle comunità dei parlanti.

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Un esempio per spiegare questo: l’esistenza dell’universale SO (soggetto-oggetto) invece che OS (oggetto-soggetto).
Prima si credeva che tutte le lingue collocassero il soggetto prima dell’oggetto; quest’ultima ipotesi tramontò quando
venne scoperta l’esistenza dell’oggetto prima del soggetto (nelle prime descrizioni grammaticali dello hixkaryana) e
quindi utilizzano la sequenza OVS. Le lingue con la sequenza OS non superano il 2% delle lingue storico- naturali;
essa non contraddice il valore di fondo dell’universale, ma esiste, perciò va considerata una tendenza universale.
CAPITOLO 3: LA TIPOLOGIA E IL CONTATTO INTERLINGUISTICO
Nel ‘Discorso intorno alla nostra lingua’ di Machiavelli del 1515 annotava che ‘le lingue non possono essere semplici,
ma conviene che siano miste con l’altre lingue’. Questa, infatti, è un’affermazione innegabile. Le lingue interagiscono
fra di loro e questa interferenza interlinguistica può manifestarsi a più livelli: attraverso semplici prestiti lessicali,
mediante l’assimilazione di regole morfologiche o con l’adozione di costrutti più complessi. In generale, quando due
lingue mostrano somiglianza, ci sono tre spiegazioni:
• Origine genetica comune (spiegazione genealogica)
• Contatto tra comunità linguistiche (spiegazione areale)
• Tendenze universali (spiegazione tipologica)
3.1 LA TIPOLOGIA AREALE E LA NOZIONE DI AREA LINGUISTICA
Le lingue non sono entità isolate e inalterabili, esse si evolvono di continuo sotto l’azione di svariati fattori. Fra i più
importanti fattori di mutamento, vanno considerate le vicende storiche. Infatti, quando due lingue entrano in contatto
tra loro si determinano processi di vario tipo, come: l’interferenza.
Quando parliamo di una lingua, parliamo soprattutto della storia di questa lingua e, di conseguenza, della storia delle
comunità che parlano questa lingua. Nessuna lingua, nella sua storia, può sottrarsi al contatto interlinguistico, i
quali, sono tra i processi più importanti di evoluzione, trasformazione e persino morte di una lingua.
Perciò, con il termine interferenza, intendiamo quella manifestazione di un contatto linguistico, la quale prevede
l’imitazione elementi facenti parte di una lingua-modello in un contesto diverso da quella di pertinenza. Questo
fenomeno può essere:
• occasionale o duraturo (in quest’ultimo caso, si può venire a creare un continuum di fenomeni)
• consapevole o inconsapevole (se involontario è definito code switching, riferito a quegli stranieri che si
esprimono in una lingua diversa e non nativa)
In ogni caso: il perdurare di una situazione di contatto non si risolve sempre in un cambio radicale della lingua; la
vicinanza geografica può innescare processi graduali di convergenza tra lingue, non necessariamente imparentate e
spesso geneticamente distanti.
Questi fenomeni di convergenza possono riguardare diversi livelli: fonologico, morfologico, sintattico e lessicale =
è proprio per questo che nasce la linguistica areale (tipologia areale), come sottotipo della classificazione
tipologica.
CLASSIFICAZIONE AREALE: Si tratta dell’analisi delle somiglianze tra lingue parlate in una stessa area
geografica, dovute proprio alla vicinanza fisica e al conseguente contatto reciproco di diversi gruppi di parlanti.
L’insieme dei tratti linguistici che si sono imposti in una data regione geografica a seguito di una profonda
contaminazione interlinguistica costituisce un TIPO AREALE e, a ben vedere, la nozione di tipo areale rientra a
pieno diritto nella definizione generale di tipo.
I FATTORI NECESSARI PER FAR SI CHE CIO’ ACCADA:
1. Le lingue devono trovarsi in uno stesso territorio geografico
2. Devono esserci contatti prolungati non occasionali
3. Deve esserci l’assenza di confini e barriere insormontabili
Le lingue che possiedono questi tratti in comune formano una lega linguistica (Sprachbaund).
In sintesi -> Sprachbaund: lingue parlate nello stesso territorio geografico, non devono essere imparentate e
devono avere tratti in comune. Tuttavia, tutte queste caratteristiche sono importanti, ma bisogna tener conto di
un altro fattore necessario: la storia -> rapporto tra linguistica e storia.
Infatti, per poter essere tale, un’area linguistica, deve aver assistito, nel corso della propria storia, a movimenti di
popoli di vaste proporzioni e alla conseguente creazione di aree bilingui o addirittura plurilingui tramite il contatto
di tratti linguistici. Perciò è necessario il rapporto linguistica/storia e bisogna attribuire alla storia un ruolo di
preminenza = UN’AREA LINGUISTICA DEVE ESSERE PRIMA DI TUTTO UN’AREA CULTURALE.

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3.2 ALCUNE AREE LINGUISTICHE
3.2.1 I BALCANI
I balcani rappresentano una stratificazione etnica senza pari in Europa, come conseguenza di una serie di ripetute
ondate migratorie, che hanno più volte stravolto l’assetto complessivo della regione. I balcani presentano un destino
difficile: sono divenuti il limes naturale tra Occidente e Oriente e perciò, inevitabilmente, luogo di scontri. La
complessità delle vicende storiche e sociali dei Balcani ha un suo inevitabile riscontro anche sul terreno linguistico.
L’area balcanica, infatti, è il territorio europeo in cui si concentra il maggior numero di lingue appartenenti a gruppi
linguistici diversi: neogreco, albanese, lingue slave meridionali, una lingua romanza, una lingua altaica e una lingua
uralica. Tra i tratti essenziali del tipo areale balcanico (balcanismi), possono essere indicati i seguenti:
• Sistema vocalico neogreco
• Sincretismo tra i casi genitivo e dativo (tendenza a far confluire nel genitivo le funzioni precedentemente
esercitate dal dativo)
• Formazione di un futuro perifrastico
• Formazione dei numerali da 11 a 19 con numero+prep.su+dieci
• Perdita dell’infinito (sostituito da proposizioni finite di natura finale, consecutiva e dichiarativa)
• Postposizione dell’articolo definito
Come spiegare tutte queste correlazioni? Due ipotesi:
• Effetto dell’azione delle antiche lingue di sostrato della penisola balcanica
• Effetto causato dalla convergenza interlinguistica in ambito balcanico essenzialmente all’azione del greco
(bizantino e medievale)
In ogni caso bisogna abbandonare l’idea di dare una spiegazione univoca: i modelli principali sono quello GRECO
E LATINO.
3.2.2 L’EUROPA CENTRO- OCCIDENTALE (L’AREA DI CARLO MAGNO)
Anche questo territorio può essere definito area linguistica:
• DAL PUNTO DI VISTA GEOGTAFICO:
o Non ci sono barriere davvero invalicabili
o Alpi e Pirenei non hanno mai impedito il contatto
o L’assenza di mare interno ha favorito il contatto
• DAL PUNTO DI VISTA STORICO:
o Ci sono testimonianze dei rapporti dei popoli che vivevano al suo interno
o Omogeneità dovuto prima all’espansione romana
o Omogeneità dovuta all’espansione di Carlo Magno
• DAL PUNTO DI VISTA LINGUISTICO
o Tutti i fattori qui sopra annunciati, hanno portato ad una uniformazione linguistica.
In Europa si attesta la presenza di oltre cento lingue diverse, non tutte immediatamente imparentate, ma
caratterizzate da una serie di tratti comuni condivisi.
PROGETTO DI RICERCA EUROTYP – TYPOLOGY OF LANGUAGES IN EUROPE: Si tratta di un
progetto che ha studiato questi tratti in comune tra le varie lingue europee negli anni 90 del secolo scorso. L’insieme
di questi tratti comuni costituisce il tipo linguistico europeo noto come STANDARD AVERAGE EUROPEAN
(S.A.E.).
QUALI SONO QUESTI TRATTI IN COMUNE ALLE LINGUE EUROPEE:
o Somiglianze lessicali di matrice greca e latina
o Ordine dei costituenti SVO
o Presenza di preposizioni e di genitivi postnominali
o Uso di ‘avere’ ed ‘essere’ come ausiliari nella formazione di alcuni tempi verbali
o Presenza di articoli definiti e indefiniti
o Carattere non pro-dop delle lingue:
§ LINGUE PRO-DOP: si tratta di quelle lingue a ‘soggetto nullo’, caratterizzate dall’omissione del
pronome personale in posizione di soggetto nella frase dichiarativa.

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§ LINGUE NON PRO-DOP: sono quelle lingue per cui, la mancata espressione del soggetto, può causare
fraintendimenti. Se una lingua ha terminazioni differenti per le sei persone del paradigma verbale può
esimersi dall’esprimere il soggetto pronominale, il quale lo stesso può essere identificato in base alla
desinenza del verbo.
o Agente e soggetto possono divergere
o La forma passiva consente l’espressione dell’agente
La diffusione dei tratti simili in Europa è tutt’altro che omogenea, lo STANDARD AVERAGE EUROPEAN presenta
diversi gradi di europeismo (in ordine discendente):
• Quelle definite aree più europee perché presentano il maggior numero di tratti ed è la zona da cui sono nati
questi tratti: questi territori si collocano nella zona centrale del Vecchio Continente (Regione renana, Francia,
Germania, Olanda e Italia settentrionale) = (francese, tedesco e nederlandese) CENTRO DI IRRADIAZIONE.
• In una posizione intermedia troviamo quei territori in cui i tratti si sono sviluppati e propagati, lasciando tracce
evidenti (inglese, italiano, lingue slave, le altre lingue germaniche e romanze, il neogreco e l’albanese, le lingue
baltiche, celtiche, il maltese) = ZONA DI TRANSIZIONE
• All’estremo opposto troviamo quei territori solo marginalmente toccati dai fenomeni di interferenza (lingue
uraliche, basco, turco) = ZONA RELITTO
Tutto questo viene definito area linguistica di carlo magno perche’ coincide con i territori controllati da carlo
magno, dal centro della sua espansione che coincide con la zona renana (centro di irradiazione), passando per
i territori non controllati originariamente da lui, ma poi dopo si (zona di transizione) e infine, fino ad arrivare
alle regioni collocate ai margini dell’impero (zona relitto). Carlo Magno non ha incentivato deliberatamente la
formazione di quest’area linguistica, ma egli è stato il motore di alcuni eventi sociali e storici che hanno creato i
presupposti per la formazione di un’area linguistica.
3.3. DUE SOGNI INFRANTI: IL MEDITERRANEO E IL BALTICO
Non bisogna dare per scontato che un’area storico-culturale si trasformi automaticamente in area linguistica. Nel
mondo esistono diversi luoghi che presentavano tutte le carte in regola per essere considerati aree linguistiche: come
ad esempio il mar Mediterraneo e il mar Baltico; infatti in entrambe le regioni sono in uso lingue non
immediatamente imparentate e, storicamente, sono stati attestati contatti duraturi tra le comunità. Ma questo non
basta. Queste due regioni sono state oggetto di studio di due progetti:
1. MEDTYP – Languages in the Mediterranean Area: Typology and Convergence (Università di Pisa)
2. Language Typology around the Baltic Sea (Università di Stoccolma)
Questi due progetti hanno fatto una mappa tipologica e hanno portato alla luce svariati fenomeni di contatto
linguistico all’interno di queste regioni, ma ciascuno di essi coinvolge solo una piccola porzione delle lingue
esaminate. Dunque, in entrambe le regioni, sono stati rilevati fenomeni di contatto, ma mancano tratti condivisi
globalmente.
CAPITOLO 4: LA TIPOLOGIA E IL MUTAMENTO LINGUISTICO
4.1 IL PARADIGMA DINAMICO
Quando parliamo di linguistica tipologica, parliamo di una classificazione delle lingue puramente sincronica. Ma,
ultimamente, la tipologia ha tentato di aprirsi anche alla diacronia, infatti si cerca di trovare un punto di incontro e
di riunire linguistica storica e tipologia linguistica. Per unire queste ultime due discipline (sincronia e diacronia),
bisogna porsi delle domande:
• I tipi sono coinvolti nel cambiamento/mutamento linguistico? Se l’evento storico accaduto è abbastanza
radicale, anche la configurazione tipologica di una lingua viene travolta dagli eventi e, poiché ogni lingua è un
sistema in lento ma perenne movimento, se ne deve dedurre che nessuna configurazione tipologica può essere
considerata come definitiva.
• Cosa bisogna fare per capire se i tipi sono coinvolti nel mutamento linguistico? Bisognerebbe inquadrare
ogni singolo mutamento linguistico nell’ambito di una più ampia transizione, progressiva e graduale, da uno stato
tipologico a un altro, all’interno di un sistema in lenta, ma continua trasformazione. Questo tipo di approccio
viene definito: dinamicizzazione della tipologia.
• Cosa si potrebbe dedurre da ciò? Partendo dal presupposto che la transizione tipologica implichi un passaggio
tra due lingue coerenti di tipo X e Y. Ora, dal momento che questo slittamento avviene grado per grado, si deve
prevedere una fase intermedia tutt’altro che congruente in ottica tipologica, in cui caratteristiche del tipo X
convivono con caratteristiche del tipo Y. In casi estremi, la transizione può anche arrestarsi a metà, determinando
situazione bizzarre, come, ad esempio, le lingue tipologicamente miste.

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4.2 TIPI STABILI E TIPI FREQUENTI
I tipi linguistici non hanno la medesima probabilità di occorrenza e quest’ultima dipende solo in parte dalla loro
coerenza interna. I fattori, indipendenti tra di loro, in grado di influenzare la distribuzione, in parte disomogenea, dei
tipi linguistici sono:
• STABILITÀ: probabilità che un determinato tipo venga abbandonato o mantenuto dalle lingue che ad esso
possono essere ascritte. Più l’indice di stabilità di un tipo è alto, più esso tende a essere mantenuto nelle
lingue-storico naturali. Il tipo stabile è in grado di superare indenne il mutamento linguistico, trasmettendosi
da una lingua madre alle lingue figlie. In termini genealogici, i tipi stabili esibiscono di norma una diffusione
omogenea all’interno delle famiglie linguistiche. (Perciò i tipi stabili hanno una diffusione verticale)
• FREQUENZA: probabilità che un determinato tipo venga assunto della lingua storico- naturali. I tipi più
frequenti hanno maggiore probabilità di concretizzarsi nella realtà. Il tipo frequente mostra una diffusione
più uniforme in termini areali, ma non necessariamente coincide con le scansioni individuate in base a
parametri genealogici. (Perciò i tipi frequenti hanno una diffusione orizzontale). Non bisogna confondere
‘frequente’ con diffuso, al contrario, le aree in cui si trova possono essere circoscritte.
La combinazione dei due criteri appena menzionati dovrebbe consentire di giustificare la diffusione di tutti i tipi
linguistici, comprendendo l’intera gamma delle possibilità logiche:
• Tipi stabili e frequenti: ad esempio le vocali anteriori non arrotondate, ormai universali.
• Tipi stabili e infrequenti: diffusi in singole famiglie linguistiche, ma non geograficamente; ad esempio
l’armonia vocalica, essendo resistente al mutamento, ma attestata solo nelle lingue che appartengono a poche
famiglie.
• Tipi instabili e frequenti: diffusi geograficamente, ma in modo disomogeneo e sporadico nelle varie
famiglie linguistiche; ad esempio la nasalizzazione vocalica, la quale non caratterizza specificamente alcuna
famiglia linguistica, ma compare nelle lingue parlate in contesti areali omogenei.
• Tipi instabili e infrequenti: piuttosto rari sia nelle famiglie linguistiche che arealmente: ad esempio le
consonanti ‘click’ ( che corrispondo al bacio), le quali non caratterizzano nessuna famiglia in particolare e
hanno anche una sporadica diffusione territoriale.
4.2.1 TENDENZE TIPOLOGICHE E AREALI NEL MUTAMENTO LINGUISTICO
I concetti di stabilità e frequenza possono rivelarsi strumenti efficaci per prevedere quali strategie entrino in gioco
nei singoli mutamenti linguistici:
• TIPI STABILI: hanno una diffusione in chiave genealogica; il massimo grado di stabilità coincide con
l’universalità, ciò significa che un tipo caratterizza tutte le lingue di tutte le famiglie linguistiche. Inoltre, un tipo
molto stabile ha seguito, nella sua evoluzione, sempre le stesse tappe.
• TIPI FREQUENTI: hanno una diffusione in chiave areale, a ‘macchia di leopardo’ e in modo trasversale. I tipi
frequenti hanno subito un processo di evoluzione autonomo in rapporto ai singoli contesti areali nei quali si sono
sviluppati.
Esempio: DIMINUTIVI E ACCRESCITIVI = sono, rispettivamente, un esempio di tipo stabile e di tipi frequente e
spiegano perfettamente i diversi processi di evoluzione. Essi si sviluppano diacronicamente secondo una matrice
tipologica piuttosto generale e interlinguisticamente diffusa. Gli accrescitivi, piuttosto frequenti, ma instabili, (a
differenze dei diminutivi che, essendo dei tipi stabili, nel loro processo evolutivo seguono sempre il medesimo
percorso e si sviluppano in chiave genealogica) non seguono, nella loro evoluzione, un copione predefinito, ma
ricorrono a cliché diversi e fortemente connotati in senso areale. Nei tipi frequenti non è la parentela tra le lingue, ma
l’interferenza con i sistemi geograficamente adiacenti, a indirizzare il processo evolutivo.
4.3. I TIPI DEVIANTI: QUANDO LA DIACRONIA SPIEGA LA SINCRONIA
Dal momento che il cambiamento linguistico non avviene bruscamente, ma si diffonde nel sistema a macchia d’olio,
è naturale prevedere l’esistenza di fasi intermedie in cui le forme o le strutture in regresso convivano con le forme o
le strutture in via d’affermazione, dando origine a configurazioni tipologicamente stravaganti. Ciò spiega l’esistenza
di lingue tipologicamente miste. Se queste ultime vengono analizzate utilizzando un approccio in grado di far
coincidere sincronia e diacronia, si può notare come esse abbiano una loro ragion d’essere.
Esempio. Lo studio del passaggio dal latino al volgare:
• Per analizzare il passaggio dal latino al volgare servirebbero delle fonti orali perché, come sappiamo, la
lingua è principalmente orale. Noi possediamo testimonianze scritte, le quali, per comprendere il modo in
cui si parlava all’epoca, sono in parte lacunose.

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Non mancano delle eccezioni: attraverso delle iscrizioni ritrovate sui muri di Pompei ai tempi dell’eruzione
del Vesuvio nel 79 d.C., possiamo, in linea generale, comprendere come essi parlavano. Si tratta di messaggi
che presentano queste caratteristiche:
o Oscillazione tra due tipi di ordini dei costituenti: è presente sia l’ordine SOV che SVO
o La collocazione postnominale della relativa e l’assoluta prevalenza delle preposizioni: entrambi
rispondono al principio ‘testa-complemento’ o nell’ambito della Branching Direction Theory, a
una coerente ‘ramificazione a destra’.
Branching Direction Theory (Dryer 1992) secondo cui: la coerenza tipologica è rispettata in primo luogo dai
costrutti aventi una struttura interna -> ramificazione. I costrutti lessicali, di norma senza struttura interna,
mostrano maggiore libertà di posizione. Es. articoli e aggettivi non ramificano.
Tornando allo studio del passaggio dal latino al volgare: di fronte alle scoperte fatte, se operassimo su un livello
sincronico, non potremmo fare altro che notare l’incoerenza del latino pompeiano che non utilizzava più solo SOV,
che era proprio del latino tradizionale, ma iniziava ad operare anche SVO, che è proprio delle lingue romanze; ma se
operassimo a livello diacronico, potremmo capire che: il latino pompeiano si trova in una posizione intermedia e
che, quindi, la formazioni dei primi volgari era già avviata del I secolo d.C.. Semplicemente in esso (latino
pompeiano) convivono entrambe le forme, quella in regresso (SOV) e quella in ascesa (SVO).
4.4. UNIVERSALI IMPLICAZIONALI E MUTAMENTO LINGUISTICO
La ricerca degli universali, e in particolare degli universali implicazionali, da un contributo sia alla tipologia che allo
studio sul mutamento linguistico.
UNIVERSALE IMPLICAZIONALE: dati due tratti linguistici, X e Y, essi sono in un rapporto di implicazione se la
presenza di X richiede necessariamente la presenza di Y. (Sono universali se trovano riscontro in tutte le lingue
storico-naturali).
Questo è esattamente ciò che accade nel rapporto implicazionale che c’è tra ‘accrescitivi’ (X) e ‘diminutivi’(Y) = se
una lingua dispone di un procedimento morfologico per realizzare gli accrescitivi, allora dispone necessariamente
anche di un procedimento morfologico per realizzare i diminutivi, ma non viceversa = NON può esistere presenza di
X e assenza di Y. Quindi gli universali (come le fondamenta di un edificio) ci dicono che alcune proprietà linguistiche
sono ‘più fondamentali’ o più basiche di altre (i diminutivi sono più basici degli accrescitivi).
4.5. SI PUÒ PREVEDERE LA DIREZIONE DEL MUTAMENTO LINGUISTICO?
Sempre e solo in chiave probabilistica. Si possono fare probabilità, ma bisogna sempre tener conto dei fattori esterni.
Infatti, è vero che esistono dei mutamenti più naturali di altri e, in base a questi, si possono fare delle previsioni, ma
è anche vero il fatto che nulla garantisce che il mutamento giunga al suo compimento.
Edward Spair ha definito ‘alla deriva’ la lenta trasformazione delle lingue = movimento libero e incontrollato, guidato
da forze esterne, come quello della barca che si muove sospinta solo dalla corrente del mare.
La storia delle lingue è in parte governate anche dalle comunità che possono intervenire e possono imporre deviazioni.
Perciò, in questo senso, l’evoluzione delle lingue rimane misteriosa.
CAPITOLO 5: AI MARGINI DELLA TIPOLOGIA
5.1. TIPOLOGIA E DIALETTI
La lingua cambia nello spazio. La differenza più evidente è sicuramente quella inerente all’accento (in luoghi posti
anche a breve distanza si parla con una cadenza diversa). Ma le discrepanze sono molto più profonde e si insinuano
in ogni livello del sistema. In genere questa variazione nello spazio geofisico viene indicata come variazione
dialettale.
Quanto devono essere distanti due sistemi per poter essere definiti due dialetti distinti della stessa lingua? Il dialetto
è posseduto da quasi ogni parlante di una lingua e corrisponde più o meno all’uso linguistico di una comunità
geograficamente ristretta facente parte, a sua volta, di una realtà sociale e politica più ampia ed è circoscritto di norma
a pochi contesti comunicativi. Il dialetto, deve essere geneticamente imparentato alla lingua di cui è considerato
una variante.
La tipologia in genere fonda le proprio generalizzazioni sulle ‘lingue ufficiali’, ma, d’altro canto, è innegabile
che i dialetti costituiscano una miniera di dati e, proprio perché sono inesplorati, inducono a prevedere
interessanti sviluppi anche in chiave tipologica.
Per chiarire la questione si può fare un esempio relativo alla struttura della frase negativa.

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Rispetto alla collocazione reciproca del verbo e della negazione, possono essere identificati almeno tre tipi:
• La negazione precede il verbo (in portoghese)
• La negazione segue il verbo (in nederlandese)
• La negazione precede e segue il verbo (in francese)
L’italiano, in effetti, dispone abitualmente la negazione prima del verbo. Ma, in realtà, in alcuni sistemi linguistici
che vengono generalmente definiti dialetti italiani trovano ampia attestazione anche gli altri due. Infatti, le ‘varietà
dialettali’ prefigurano uno scenario tipologico omogeneo di quello che forse ci saremmo aspettati e si può dire che
le lingue ufficiali e i cosiddetti dialetti hanno, almeno in chiave tipologica, la medesima legittimità e, in effetti,
la variazione dialettale (o variazione diatopica) svela spesso tendenze tipologiche di grande interesse.
Inoltre, per quanto riguarda i dati relativi alla formazione della frase negativa, possiamo notare che la negazione
discontinua e quella postverbale si concentrano soprattutto nell’Europa centrale (dovremmo dunque forse sostenere
che si tratti dell’area linguistica di Carlo Magno).
5.2. TIPOLOGIA E VARIAZIONE SOCIOLINGUISTICA
Conoscere e parlare una lingua significa anche essere in grado di adeguare la propria produzione linguistica alle
diverse situazioni comunicative e il rapporto tra gli interlocutori influisce sulle scelte linguistiche del parlante.
Quindi, la lingua è un sistema che cambia in base a diversi fattori:
• Variazione diacronica = nel tempo
• Variazione diatopica = nello spazio
• Variazione diafasica = in base alla situazione comunicativa
• Variazione diastratica = in base alla caratterizzazione sociale dei parlanti
• Variazione diamesica = in base al mezzo utilizzato (lingua scritta o parlata)
La variazione può produrre scarti anche notevoli tra strutture linguistiche che condividono la medesima lettura
semantica: ad esempio all’interno della stessa lingua, lo stesso concetto può essere espresso in due modi ‘differenti’.
La lingua ufficiale e standard potrebbe utilizzare, ad esempio, un pronome relativo flesso (cui) e la lingua ‘parlata’
potrebbe utilizzare nello stesso punto e per dire la stessa cosa, ad esempio, un pronome relativo invariabile (che).
Entrambe le strategie, in chiave tipologica, sono affermate.
Ma se avessimo per le mani una grammatica, troveremo rappresentata la prima strategia (cui), questo perché le
grammatiche rappresentano una sola varietà della lingua, quella che si è soliti definire standard (ovvero quella
‘ufficiale’, non marcata e orientata verso la scrittura). Di contro però, le grammatiche trascurano le varianti diafasiche,
diastratiche, diamesiche e anche diatopiche, che invece caratterizzano le comunità dei parlanti.
MA QUESTO PORTA AD UNA CONTRADDIZIONE PERCHÈ:
Ciascun parlante impara la propria lingua nativa in ambito familiare ed è quindi esposto a stimoli linguistici non
standard. L’avvicinamento alla lingua standard avviene di norma nel contesto scolastico.
Questa situazione crea un paradosso nella tipologia perché i tipologi si nutrono delle grammatiche e le
generalizzazioni raggiunte vengono poi testate interrogando parlanti nativi. Ma sono proprio questi nativi a non
parlare una lingua standard ma la lingua appresa nella loro famiglia. QUINDI QUAL E’ L’APPROCCIO
TIPOLOGICO AL PROBLEMA LINGUA?
Esso tende molto spesso ad estrarre la lingua dal contesto sociale da cui essa invece trae linfa vitale. In effetti, la
lingua è un organismo dinamico e articolato non solo a livello formale, ma anche a livello sociale:
LINGUA COME DIASISTEMA = UN SISTEMA DEI SISTEMI. La tipologia dovrebbe anche studiare queste
variazioni.
5.3. TIPOLOGIA E ACQUISIZIONE
5.3.1. GLI UNIVERSALI IMPLICAZIONALI E L’APPRENDIMENTO LINGUISTICO
INTERLINGUE O VARIETA’ DI APPRENDIMENTO = sono le produzioni linguistiche di un apprendente,
vale a dire di chi sta affrontando lo studio di una lingua straniera.
Supponiamo che la lingua di appartenenza (lingua madre) dell’apprendente sia la lingua L1 e, invece, la lingua che
sta apprendendo sia L2: gli studi degli ultimi anni hanno posto in evidenza una serie di tratti linguistici comuni a tutte
le interlingue, indipendentemente dal punto di partenza e dal punto di arrivo del percorso acquisizionale (che
prescindono, quindi, sia dalla lingua madre L1, sia dalla lingua d’arrivo L2).

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Questo concetto induce quindi a pensare che: le interlingue siano sistemi linguistici autonomi e che dovrebbero
conformarsi con i principi universali delle lingue storico-naturali.
A questo punto dovremmo supporre che questi universali esistenti tra le interlingue, essendo appunto universali,
dovrebbero indicare percorsi di apprendimento più o meno naturali, individuando sequenze acquisizionali
improbabili. QUAL È QUESTO PERCORSO DI APPRENDIMENTO?
• Partendo dal concetto di universale implicazionale: X implica Y (es.genere implica numero), dovremmo
dedurre che non esiste nessuna interlingua in cui si registra la presenza di X senza Y;
• Cosa succede a livello acquisizionale: questa correlazione (x implica Y) indica infatti che la proprietà
antecedente, cioè X, deve essere appresa dopo la proprietà conseguente, vale a dire Y, o contestualmente
ad essa.
Il conseguente deve essere acquisito prima dell’antecedente perché:
• Si possono commettere più errori nell’uso della proprietà antecedente rispetto a quelli che si contraddistinguono
nell’uso delle proprietà conseguenti.
• L’ambito di impiego del conseguente, ma non dell’antecedente, possa essere sovraesteso: il conseguente può
essere usato in luogo dell’antecedente e non viceversa.
5.3.2. LA TIPOLOGIA MORFOLOGICA E LE INTERLINGUE
Una delle proprietà ricorrenti nelle interlingue, indipendentemente dalla L1 e dalla L2, riguarda la conformazione
morfologica dell’interlingua stessa:
Le parole che caratterizzano le prime produzioni di parlato spontaneo di un apprendente sono invariabili (negazione
invariabile : ‘io no freddo’)e hanno un valore essenzialmente lessicale e non grammaticale (come la quasi totalità
assenza di articolazioni e preposizioni): QUESTE CARATTERISTICHE SEMBRANO RIPRODURRE UN TIPO
ISOLANTE.
Per comprendere una lingua tipologicamente distante bisogna tener conto che:
• La padronanza di un processo sul piano formale (ad esempio a livello morfologico) non può prescindere
dalla piena padronanza delle categorie cognitive corrispondenti.
• Un apprendente troverà difficoltà nel comprendere nella lingua nuova (L2) sistemi che siano lontani
dalla sua lingua madre (L1)
In conclusione, si può affermare che non esiste un metodo didattico eccezionale per insegnare una lingua straniera,
piuttosto dovrebbero esistere tanti percorsi didattici quanti sono gli apprendenti e quante sono le L1 degli apprendenti.
Inoltre si può dire che la tipologia svolge un ruolo importante nei percorsi didattici in italiano/L2.

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ADORNETTI - IL LINGUAGGIO: ORIGINE ED EVOLUZIONE
CAPITOLO 1: IN ORIGINE ERA IL SUONO
Secondo la tradizione di pensiero cartesiana, ciò che distingue gli esseri umani dal resto del mondo animale è il
linguaggio in quanto facoltà di parola; tale posizione implica l’idea che comunicazione umana e verbalizzazione
umana coincidano, identificando lo studio del linguaggio con quello della produzione-comprensione verbale
(insieme dei meccanismi anatomici e neurali che permettono all’Homo sapiens di generare e interpretare espressioni
linguistiche).
Premesso che il linguaggio è il prodotto congiunto sia dei processi alla base della produzione espressiva sia della
sua interpretazione, bisogna innanzitutto analizzare i meccanismi responsabili della produzione sonora. Alla base
di tale indagine vi è l’idea che i precursori del linguaggio umano vadano rintracciati nelle vocalizzazioni di animali
non umani anche molto distanti dall’Homo sapiens nella scala evolutiva.
1.1 IL CANTO DEGLI UCCELLI
Già dall’antichità, come testimoniano gli scritti di Aristotele, era nota la differenza fra l’emissione di voci articolate
e non articolate nel mondo animale, cosi come il fatto che uccelli cresciuti lontani dai genitori producevano canti
simili a quelli a cui sono stati esposti nell’ambiente di allevamento e non a quelli propri della loro specie di
appartenenza. Anche Darwin, svariati secoli più tardi, ne “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”, sottolineerà
le analogie fra linguaggio vocale e canto degli uccelli.
Tali intuizioni verranno confermate dalle scoperte neuroscientifiche, genetiche e biolinguistiche, le quali
evidenzieranno parallelismi fra il modo in cui i bambini apprendono il parlare e gli uccello canori imparano a
cinguettare, infatti tale apprendimento risulta essere il prodotto dell’iterazione fra predisposizioni biologiche innate
ed esperienze specifiche. Così come gli uccelli, se esposti simultaneamente al canto tipico della propria specie e ad
uno di un'altra specie, tendono a imitare quello dei conspecifici pur potendo riprodurre altrettanto bene l’altro, allo
stesso modo i bambini tendono ad imitare la lingua dei genitori qualora vengano esposti contemporaneamente ad
un’altra lingua oltre a questa.
Nel caso degli uccelli cresciuti in allevamento, pur non essendo esposti al canto di conspecifici, si possono notare
componenti tipiche nel canto della specie di appartenenza; se invece tale canto isolato viene introdotto nella specie
originaria, gli esemplari, pur imitandolo, tendono a correggerne le anomalie e tale “canto migliorato” viene
trasmesso alle generazioni successive, le quali tendono a riportarlo progressivamente a quello originario.
Tale processo secondo alcuni studiosi è assimilabile alla creolizzazione delle lingue umane, fenomeno che si verifica
quando due o più comunità parlanti lingue diverse entrano in contatto fra loro e inventano ex-novo un codice di
comunicazione composto da un lessico mutuato in maniera mista dalle lingue di partenza e privo di una struttura
grammaticale, dando origine al pidgin.
Se un pidgin viene appreso dai bambini di una comunità come lingua nativa, tenderà ad evolversi nel corso di
pochissime generazioni nel creolo, un codice comunicativo più complicato da punto di vista sintattico-lessicale che
col tempo assumerà i connotati di una lingua vera e propria. Dunque il punto in comune è costituito dal fatto che in
entrambi i casi viene probabilmente fatto ricorso a un “bioprogramma” contenente le caratteristiche essenziali
del proprio sistema comunicativo per far evolvere tali “basi di linguaggio” in “linguaggio corretto” vero e
proprio.
Un altro punto in comune è costituito dal periodo cosiddetto “critico” all’interno del quale avviene
l’apprendimento sonoro-uditivo: infatti cosi come per gli uomini dopo la prima adolescenza risulta difficile
apprendere i suoni di una nuova lingua con la competenza e l’accento propri di un madrelingua, avviene pressochè
lo stesso fenomeno per gli uccelli, i quali dopo un certo periodo dopo la nascita non riescono più ad assimilare nuove
melodie. Questo fa dunque desumere che la capacità di apprendimento acustico sembra decrescere con l’età.
Ulteriori analogie possono essere osservate nel campo della sintassi, termine con cui intendiamo l’insieme delle
regole che permettono di organizzare gerarchicamente gli elementi espressivi (suoni o parole) al fine di produrre una
sequenza ordinata (stringa): pare infatti che anche gli uccelli abbiano la capacità di combinare e discriminare le
eventuali sequenze uditive sulla base di regole grammaticali, dimostrando talvolta che strutture sintattiche
particolarmente complesse.
È stato possibile in alcune specie identificare delle sillabe, identificate come suoni specifici preceduti e seguiti da
una pausa, le quali possono essere ordinate in sequenze (i cosiddetti “motivi”), a loro volta ordinabili per formare i
“periodi” di un canto. Tali regole sono paragonabili ai principi grammaticali delle lingue umane e il loro utilizzo
coinvolge anche la dimensione della comprensione.

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In un articolo degli studiosi Abe e Watanabe viene dimostrata la capacità di tali uccelli di discriminare sequenze
di sillabe sulla base di principi sintattici; infatti all’ascolto di stringhe a-grammaticali gli uccelli hanno smesso di
muoversi e di cantare mentre ascoltano quelle corrette il loro comportamento restava normale.
Tale esperimento ha dunque rivelato la capacità in alcune specie canore di analizzare il contenuto sintattico
dell’informazione uditiva, scardinando l’idea che tale capacità potesse essere esclusivamente umana.
1.1.1 OMOLOGIE, ANALOGIE, SIMILARITÀ GENETICHE
Queste similitudini comportamentali sono state spiegate in riferimento ad omologie (sono uguali) e analogie (sono
simili) fra cervello dei volatili e quello umano in alcune aree neurali responsabili dell’apprendimento uditivo-
vocale e senso-motorio; tali corrispondenze comportamentali si configurano quindi come il risultato del
funzionamento di due sistemi neuroanatomici simili.
Nel caso delle omologie, queste sono il risultato di un’eredità di un antenato comune fra uccelli e mammiferi;
nel caso delle analogie invece le similarità funzionali si sono evolute indipendentemente nelle due categorie (dette
taxa). In quest’ultimo caso, le affinità tra l’apprendimento uditivo-vocale e lo sviluppo sensomotorio negli umani e
nei volatili sono il prodotto di una evoluzione dettata dalle stesse pressioni selettive legate alla risoluzione di
analoghi problemi adattativi.
Nell’ambito prettamente genetico, si è scoperto nel DNA dei volatili è presente il gene FOXP2 che negli esseri umani
è implicato nel controllo oro-motorio. Tale gene appartiene alla famiglia delle proteine forkhead (FOX) che
codificano i fattori di trascrizione coinvolti nel programma genetico delle cellule, cioè accendono e spengono gli
altri geni regolatori. La mutazione di FOXP2 negli umani è legata a un disturbo della parola chiamato disprassia
verbale i cui soggetti affetti hanno problemi nell’articolazione verbale e disturbi nel dominio della grammatica; gioca
quindi un ruolo fondamentale nello sviluppo del linguaggio articolato.
Varianti di questo gene sono presenti nel corredo genetico di animali filogeneticamente imparentati con gli esseri
umani, come oranghi e scimpanzè, ma anche di animali molto distanti come topi e uccelli. Il funzionamento scorretto
del gene negli uccelli è associato a un ridotto apprendimento vocale, dimostrando di contribuire all’apprendimento
canoro degli stessi. Secondo Schaff e Petri FOXP2 farebbe parte di un kit di strumenti molecolari he ha effetti su
aree cerebrali e cruciali per lo sviluppo sensomotorio sia negli umani che negli uccelli.
Dunque il gene costituisce un esempio di “omologia profonda”, un tratto condiviso da taxa filogeneticamente
distanti tra loro, implicato sia nell’apprendimento del linguaggio articolato umano sia nell’apprendimento del canto
degli uccelli.
1.2 LA COMUNICAZIONE VOCALE NEI PRIMATI NON UMANI
Le similitudini fra linguaggio umano e comunicazione animale si fanno sempre più stringenti quando prendiamo in
analisi i primati, che secondo alcuni studiosi possono essere considerati precursori ancestrali della verbalizzazione
umana grazie ai loro sistemi comunicativi vocali particolarmente complessi.
La comunicazione vocale dei mammiferi è caratterizzata da unità funzionali discrete, i cosiddetti “richiami” o
“segnali”, e in riferimento ad essi è possibile determinare la complessità vocale del sistema comunicativo in base al
numero di vocalizzazioni discrete presenti nel repertorio di una certa specie. Il sistema comunicativo si definisce
come complesso se è caratterizzato da un ampio numero di elementi funzionalmente e strutturalmente (cioè
acusticamente) distinti in grado di comunicare una gran quantità di informazioni.
La diretta proporzionalità tra la complessità del sistema sociale di una data specie e la complessità della
comunicazione vocale è sicuramente uno dei risultati più importanti emersi dallo studio comparativo dei sistemi di
comunicazione dei primati. Nei sistemi sociali complessi gli individui interagiscono frequentemente e in contesti
differenti con numerosi altri individui del gruppo: le femmine di babbuino ad esempio passano tutta la loro vita nel
gruppo di nascita, in cui mantengono stretti rapporti con le parenti materne, specie mediante il grooming, lo
spulciamento reciproco, che rafforza il legame sociale fra animali.
Al contrario, nei sistemi sociali semplici, gli animali interagiscono raramente fra loro e quando lo fanno mettono in
atto relazioni legate ad un unico contesto e un unico individuo. Secondo l’ipotesi della complessità sociale per la
comunicazione quindi l’organizzazione di gruppi sociali complessi richiede la presenza di sistemi comunicativi
complessi, quindi determina la pressione selettiva a favore dello sviluppo della comunicazione stessa, come
proposto già da Darwin nel 1872.

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1.2.1 SEGNI FUNZIONALMENTE REFERENZIALI
Il caso di comunicazione vocale nelle scimmie più famoso è stato studiato dall’etologo Struhausaker e riguarda la
capacità dei cercopitechi verdi di usare richiami d’allarme acusticamente distinti per segnalare la presenza di
predatori diversi, il che presuppone che ad ogni richiamo sia associata una specifica risposta appropriata da parte
sia dell’emittente che degli eventuali riceventi. Anche la primatologa Gouzules ha condotto ricerche sulle
vocalizzazioni delle scimmie reso, evidenziando 5 tipi di segnali diversi che tali scimmie emettono in situazioni
agonistiche, ognuna legata ad una particolare informazione:
• Noisy screams, quando l’aggressore ha un rango superiore rispetto all’emittente oppure quando è implicato il
contatto fisico
• Arched screams, quando l’aggressore è di rango inferiore all’emittente oppure in situazioni che non implicano
contatto fisico
• Tonal screams e Pulsed screams, quando gli aggressori e l’emittente sono imparentati
• Undulated screams, esclusivamente quando l’oppositore è di rango superiore e non vi è contatto fisico nello
scontro
Tali vocalizzazioni funzionano quindi da indicatori, ma sono anche funzionali al reclutamento di alleati, per cui
gli individui del gruppo utilizzano l’informazione acustica per valutare la natura dell’incontro agonistico e la
eventuale necessità di intervenire. Una possibile obiezione all’idea che tali espressioni abbiano un carattere
referenziale (cioè un significato) è che il comportamento delle scimmie possa dipendere più dallo stimolo visivo
che dal contenuto delle vocalizzazioni; per escludere tale possibilità si sono sottoposti gli animali all’ascolto dei
segnali senza corrispondente scena visiva e si è visto come i loro comportamenti erano gli stessi del primo
esperimento, confermando quindi l’idea della referenzialità delle vocalizzazioni.
Anche i primatologi Crockford e Boesh hanno attestato l’uso di richiami contesto-specifici anche negli scimpanzè,
distinti in contesti di caccia e in presenza di serpenti. È inoltre emersa la capacità di combinare queste
vocalizzazioni con altri tipi di richiami e accompagnarle battendo le mani e i piedi contro i tronchi d’albero
aumentando la specificità del segnale. Analogamente, Slocombe e Zuberbuler hanno documentato all’interno di
una comunità di scimpanzè in cattività la capacità di produrre suoni distinti in risposta a due differenti tipi di cibo,
il pane e le mele, dimostrando anche di rispondere diversamente ai due tipi di richiamo andando a cercare il cibo
segnalato nei posti dove veniva solitamente riposto.
Tali fenomeni si pensa potrebbero costituire i precursori delle parole del linguaggio umano in quanto condividono
con le parole il carattere referenziale, cioè la capacità di riferirsi a oggetti ed eventi del mondo esterno. Infatti è
stata definita “comunicazione funzionalmente referenziale” la capacità degli animali non umani di produrre segnali
in grado di comunicare ad altri individui “messaggi” relativi a oggetti o eventi della realtà esterna; se accogliamo
questa tesi si possono considerare referenziali i segnali prodotti in risposta a determinati stimoli contestuali in grado
di causare nei riceventi, che non hanno ancora avuto esperienza diretta di tale stimolo, comportamenti adattativi; ne
consegue che l’uso dei segnali vocali per ottenere informazioni sugli eventi esterni si sia probabilmente evoluto
prima che gli esseri umani si separassero dai primati.
1.2.2 LIMITI DEL RIFERIMENTO FUNZIONALE ANIMALE
Sebbene a livello superficiale i comportamenti delle scimmie e degli umani possano sembrare simili, non è invece
chiaro se i meccanismi psicologici alla base della comunicazione nei due casi siano gli stessi. Si ritiene infatti che
l’uso delle vocalizzazioni da parte degli animali sarebbe finalizzato non tanto a comunicare messaggi specifici
quanto a suscitare una risposta emotiva nei riceventi alterando i loro comportamenti, dunque l’espressione
“comunicazione funzionalmente referenziale” denota il modo in cui vengono usati i segnali e vengono generate le
risposte comportamentali, ma non i meccanismi cognitivi coinvolti.
Un’altra importante differenza la troviamo nelle flessibilità delle associazioni segnale-significato, infatti a
differenza degli umani che sono in grado si produrre sempre corrispondenze nuove tra segnali (parole) e referenti
esterni (significati), i primati hanno un repertorio vocale estremamente povero, poiché le loro vocalizzazioni sono
per la maggior parte determinate geneticamente e non apprese e aperte all’esperienza come per gli umani.
Ogni specie possiede un repertorio relativamente limitato di segnali le cui caratteristiche acustiche sono fissate in
prevalenza alla nascita e mostrano minime modificazioni durante lo sviluppo, infatti alcune specie fin dai primi giorni
di vita possono produrre vocalizzazioni acusticamente simili a quelle degli adulti, così come se i piccoli vengono
allevati da madri di specie diverse non riescono ad apprendere i richiami del nuovo gruppo e conservano i richiami
della specie di appartenenza, pur non avendone mai ascoltati.

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Deacon tuttavia ha evidenziato un ulteriore problema costituito dall’errato uso del termine “riferimento”, in quanto
nell’ambito animale è un’associazione meccanicamente determinata tra l’espressione proferita e l’entità
designata, cosa che non può dirsi nel linguaggio umano. Infatti in questo caso ad attribuire alle parole la capacità di
riferirsi alle cose è il processo interpretativo che avviene nella mente degli individui, ma soprattutto la parole
possono riferirsi al mondo in virtù del loro carattere sistemico, grazie a una relazione referenziale tra le parole
(cioè le parole possono sistematicamente indicare altre parole).
Quindi secondo Deacon, le parole sono entità combinatorie il cui potere referenziale dipende dalla posizione
occupata in un sistema organizzato di altri simboli, che in questo caso è la lingua parlata in una determinata
comunità, e ne consegue che solo gli umani sono capaci di riferimento in senso proprio. Così, la posizione dello
studioso si configura come discontinuista e pone come il riferimento simbolico come barriera invalicabile per gli
animali non umani.
1.2.3 MESSAGGI OLISTICI E MANIPOLATIVI
Sono state comunque proposte altre teorie in linea con una visione più continuista e gradualista, in merito a cui
citiamo quella della linguista Wray, la quale sostiene che i segnali d’allarme delle scimmie non debbano essere
paragonati alle parole vere e proprie ma debbano essere considerati messaggi completi di per sè, quindi dotati di
una natura “olistica”. Infatti sono privi di una struttura interna e non vengono mai combinati con altri segnali
per creare messaggi a più componenti (a differenza delle parole, che hanno spiccatamente carattere analitico quindi
possono essere combinate secondo una grammatica). Secondo Wray le vocalizzazioni animali dovrebbero essere
considerate “manipolative” anziché referenziali: non tentano di informare i compagni ma di influenzare il loro
comportamento. Partendo da queste considerazioni si può ipotizzare che dai segnali delle scimmie si sia sviluppato
un protolinguaggio olistico, cioè un sistema di comunicazione costituito da messaggi e non da parole, che ha in
qualche modo costituito il precursore del linguaggio moderno.
BOX NECESSARIO SULLA SUCCESSIONE CRONOLOGICA DEGLI OMININI
Homo erectus (†)
Homo ergaster (†)
Homo floresiensis (†) Homo habilis (†)
Homo heidelbergensis (†) Homo neanderthalensis (†) Homo sapiens
N.B. Perché OMININI e non OMINIDI?
Famiglia: Hominidae (comprende l’uomo moderno, i gorilla e gli oranghi)
Sottofamiglia: Homininae (comprende gorilla, scimpanzè e umani)
Tribù: Hominini (umani e progenitori estinti. Quelli che nella vecchia classificazione erano Hominidae)
Il termine hominini si riferisce dunque al nome della tribù comparsa nella nuova classificazione. Ma continuare a
chiamarli “ominidi” è dunque sbagliato? No, perchè tutti gli ominini sono comunque anche ominidi
1.3 COMUNICAZIONE VOCALE NEGLI OMINI
Il principale ostacolo per la prospettiva continuista e gradualista su impronta darwiniana è costituita dal fatto che il
divario fra noi e gli altri primati ci appare molto ampio, specie dato che tutti gli ominini antecedenti all’homo Sapiens
sono estinti.
Mithen, unendo dati paleoantropologici e primatologici, sostiene che la comunicazione degli ominini abbia ereditato
dalla comunicazione delle scimmie il carattere olistico e la natura manipolativa in primis, ma anche la
multimodalità e musicalità. La multimodalità deriva dalle grandi scimmie e consiste nell’utilizzo contemporaneo
a fini comunicativi di suoni e gesti, mentre la musicalità deriva da specie di scimmia comune e gibbone, le quali
producono vocalizzazioni contraddistinte da ritmo e melodia e includono sincronizzazione e turnazione. Mentre
nei primati non umani queste caratteristiche sono presenti singolarmente, nei primi ominini si integrano fra loro in
un sistema di comunicazione definibile con l’acronimo HMMMM (Holistic, MultiModale, Manipolativo,
Musicale).
Di base pero la prima differenza fra scimmie e ominini sta nell’ampliamento del repertorio delle vocalizzazioni,
favorito da alcune differenze anatomiche e dall’acquisizione della postura eretta. La diminuzione delle dimensioni
di denti e mascelle, con conseguente aumento della mobilità di lingua e labbra, ha creato la possibilità di produrre
“gesti articolatori” grazie a specifiche posizioni dei muscoli di lingua, labbra, mascelle e palato molle.

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Ogni produzione sonora implica una particolare configurazione del tratto vocale e il controllo del flusso
dell’aria in modo da produrre uno specifico pattern sonoro. Ogni parola è quindi caratterizzata da un gesto
articolatorio.
Secondo lo psicologo Studdert-Kennedy i gesti articolatori sono le unità fondamentali sia del linguaggio articolato
moderno quanto delle vocalizzazioni di scimmie e ominini. Quindi non essendo specificatamente linguistici,
costituiscono un elemento di continuità fra umani e moderni e ominini estinti. Infatti i movimenti articolatori, in
quanto azioni motorie, derivano da movimenti oro-facciali basilari dei mammiferi come succhiare, leccare,
ingoiare e masticare.
Nel corso dell’evoluzione umana si sarebbe evidenziata la differenziazione neuroanatomica della lingua che ne
avrebbe poi permesso un utilizzo più preciso e mirato che avrebbe dato origine poi a suoni specifici.
Tale differenziazione parrebbe collocarsi fra Homo ergaster e Homo erectus, determinata dalla necessità di far
fronte a esigenze comunicative più complesse dovute a un aumento delle dimensioni dei gruppi e quindi della
complessità delle relazioni sociali fra individui.
Mithen ritiene quindi possibile ipotizzare che la diminuzione delle dimensioni di denti e mascelle nelle prime specie
Homo abbia reso possibile una gamma differente e più diversificata di gesti articolatori rispetto a quella usata dagli
Australopitechus. Le vocalizzazioni olistiche degli Homo dovevano essere costituite da sillabe derivanti da
peculiari movimenti della bocca, sillabe che nel tempo avrebbero potuto essere riconosciute come unità discrete
potenzialmente utilizzabili in un linguaggio composizionale.
BOX L’EVOLUZIONE UMANA
Per ominini intendiamo tutte le specie appartenute alla stessa traiettoria evolutiva avvenuta dopo la separazione
dalle grandi scimmie, tra i 7 e i 6 milioni di anni fa nel continente africano. La prima grande novità derivata da tale
scissione è il bipedismo, cioè il progressivo sviluppo di strutture anatomiche funzionali alla locomozione su due
piedi.
Ad oggi siamo a conoscenza di circa 20 specie di ominini estinti, raggruppati in 7 generi; il terzo, quello degli
australopiteci, he hanno popolato l’Africa fra 4,2 e 2,5 milioni di anni fa, è quello da cui si sono probabilmente
sviluppate le specie del genere dei parantropi e i primi esemplari del genere Homo, che fanno la loro comparsa circa
2,5 milioni di anni fa e si distinguono per le dimensioni del cervello.
A partire da 1,8 milioni di anni fa gli ominini iniziano a migrare dall’Africa; l’Homo heidelbergensis, vissuto fra
700mila e 300mila anni fa sarà l’ultimo antenato in comune fra tra l’H. neanderthalensis (unico a essersi originato in
Europa) e H. sapiens (nato in Africa e diffuso nel resto del mondo a partire da 60mila anni fa).
1.3.1 L’EVOLUZIONE DEL TRATTO VOCALE
L’anatomia del tratto vocale sopralaringeo (TVS) umano è caratterizzata negli esseri umani adulti dalla laringe in
posizione più bassa rispetto alle grandi scimmie e da una cavità orale più allungata (nei primati la laringe sbocca
nella cavità orale mentre negli umani termina nella faringe). Nello specifico, il TVS umano è diviso in una porzione
orizzontale con lingua e orofaringe e una verticale con gola, faringe posizionata dietro la lingua e sopra la
laringe. Negli esseri umani queste due porzioni formano un angolo retto e hanno circa la stessa lunghezza, motivo
per cui il TVS umano è definito “a due canne”.
Negli scimpanzè invece la laringe non è sovrastata dalla faringe e quindi è più in alto nella gola, in
corrispondenza o prossimità della mandibola, e la lingua è lunga e limitata alla cavità orale, quindi il TVS, definito
in questo caso “a canna unica” è sproporzionato nella forma. Tale conformazione permette di respirare e ingoiare
alle scimmie e ai neonati umani di succhiare il latte con la bocca e respirare col naso contemporaneamente.
Nell’ontogenesi (sviluppo biologico da embrione a adulto, figlio dell’iterazione fra genoma e ambiente) umana, dai
3 mesi di vita avviene la discesa della laringe verso la gola fino a raggiungere verso i 3-4 anni di età la posizione
definitiva.
Gli studi condotti da Liebermann, Klatt e Wilson, hanno messo in luce il significato “acustico” della configurazione
del TVS umano, mostrano che la posizione ribassata della laringe permette di ampliare enormemente il repertorio
fonetico; infatti essa è il principale organo della fonazione in quanto le vibrazioni necessarie per creare i suoni sono
prodotte con le corde vocali, i due lembi che circondano la laringe.
I suoni vocalici dipendono dal modo in cui è filtrata l’aria attraverso il tratto vocale e in tale filtraggio vengono
prodotte alte frequenze sotto forma di armoniche: la loro ampiezza è maggiore di altre e le frequenze di picco sono
dette formanti. Modificando la forma del tratto vocale, cambiando ad esempio la posizione di lingua e labbra, è
possibile alterare le formanti per produrre la gamma completa di suoni vocalici.

99
Le proprietà acustiche delle vocali /a/, /i/ e /u/, vocali dette cardinali, sono date dalla diversa forma e lunghezza
assunte dal TVS durante la loro articolazione e i primati non umani non riescono a produrre le ultime due. Tali
vocali sono distintive e cruciali per una efficiente produzione del linguaggio articolato.
RICOSTRUIRE LA POSIZIONE DELLA LARINGE
L’apparato fonatorio è costituito prevalentemente da tessuto molle che non lascia tracce nel record fossile, tuttavia
alcuni elementi dello scheletro degli ominini indirettamente consentono di ricostruire la conformazione del loro TVS.
Secondo l’antropologa Aiello la conformazione del TVS umano è stata una conseguenza degli adattamenti
anatomici necessari per l’andatura bipede.
Cruciale è in questo senso la posizione del foro occipitale, l’apertura alla base del cranio attraverso la colonna
vertebrale si innesta nella testa, che nei quadrupedi è nella parte posteriore mentre negli esseri umani moderni è
collocata in basso e in avanti, col risultato di una mandibola più piccola, un allungamento del TVS e
l’abbassamento della laringe. Tali cambiamenti sono stati graduali man mano che si affinava il bipedismo e si sono
conclusi con l’Homo ergaster e l’Homo erectus: per quanto questi non fossero in possesso di un apparato fonatorio
simile a quello degli umani moderni è probabile che l’acquisizione della posizione eretta abbia avuto l’accidentale
effetto di allungare il TVS e accrescere la varietà dei suoni che essi erano in grado di produrre. In tale scenario
l’abbassamento della laringe sarebbe un pennacchio, cioè una conseguenza biomeccanica e fisiologica di
un’alterazione strutturale. Tale alterazione ha favorito la vocalità, pur essendosi prodotta in maniera
indipendente dalla vocalizzazione.
Gli studi di Lieberman e Crelin hanno inoltre messo in evidenza che il basicranio di un H. neanderthaensis era in
base alla sua curvatura più simile a quello di uno scimpanzè o di un neonato umano che di un umano adulto,
sostenendo che la laringe doveva trovarsi in posizione analoga a quella di una scimmia e che la cavità orale doveva
essere più profonda rispetto agli umani moderni, mentre la faringe più corta. Su tali basi si è convenuto pensare che
le capacità fonetiche del neanderthelensis dovessero essere molto limitate in quanto incapace di produrre le
frequenze formanti delle vocali. Ne consegue che mentre molti aspetti della capacità linguistica hanno un passato
evolutivo, la capacità di produrre linguaggio articolato non è apparsa prima di 50mila anni fa.
In realtà al giorno d’oggi l’idea di paragonare il TVS dei neanderthalensis a quello dei moderni scimpanzè è stata
accantonata in seguito all’analisi dell’osso ioide, fissato alla cartilagine della laringe, di un esemplare di
Neanderthal rinvenuto a Kebara. Esso fornisce indizio diretto della posizione della laringe nella gola e appare
sostanzialmente identico nella forma a quello di un umano moderno, portando a ipotizzare che anche la laringe
fosse in basso nella gola e quindi potesse avere un apparato vocale simile a quello dell’H. sapiens.
Due ulteriori reperti di H.heidelbergensis, ultimo antenato comune tra neanderthelensis e sapiens, hanno dimostrato
che anche qui l’osso ioide da evidenza di confermare la tesi appena citata. Inoltre costituisce un indizio per spiegare
un altro potenziale elemento cruciale dell’evoluzione del TVS, cioè la perdita delle sacche d’aria della laringe,
ampie cavità gonfiabili situate al di sopra delle corde vocali presenti in tutte le grandi scimmie ma assenti negli
esseri umani moderni. Il suono da esse prodotto influenza quello generato dalle corde vocali dando loro maggiore
risonanza ed energia, effetti molto vantaggiosi per le grandi scimmie, ma controproducenti per gli effetti
percettivi dei gesti articolatori nel momento in cui sono agganciate al tratto vocale e usate per la comunicazione
complessa. È dunque credibile pensare che la perdita delle sacche d’aria sia legata nella filogenesi umana
all’evoluzione della comunicazione vocale complessa.
In realtà la presenza o assenza delle sacche è determinata dalla presenza o assenza di una piccola estensione dell’osso
ioide detta bolla ioide, in cui si estendono le sacche d’aria delle grandi scimmie. La bolla ioide è assente in esemplari
di H.heidelbergensis e neanderthealensis, quindi è avvenuta anch’essa in un periodo intermedio dell’evoluzione del
genere homo, sostenendo l’ipotesi che specie diverse dal sapiens potessero aver sviluppato una forma di
linguaggio articolato.
Fitch e Reby invece hanno evidenziato che l’abbassamento della laringe non è una caratteristica propria del
Sapiens ma è presente temporaneamente anche in altri mammiferi ed è correlata alla produzioni di
vocalizzazioni che permettono all’animale farsi percepire come più grande. Infatti la laringe bassa ha l’effetto
di allungare il tratto vocale rendendo più profondi i suoni emessi, cosa possibile anche in un TVS diverso da
quello umano.
In realtà ciò non mette in discussione l’importanza dell’abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola, ma
suggerisce che sia avvenuto potenzialmente molto prima della comparsa degli ominini e solo dopo abbia
interessato la linea di discendenza umana. Quindi potrebbe non essere stato un adattamento per il linguaggio
articolato ma essere stato frutto dell’intenzione di farci sembrare più grandi e spaventare eventuali predatori.

100
In uno scenario del genere l’utilizzo del TVS a fini comunicativi è detto exaptation: è un adattamento nato per una
funzione ma poi affinato per un’altra.
RICOSTRUIRE LE BASI NEURALI DEL CONTROLLO VOCALE
La produzione del linguaggio articolato comporta un controllo motorio sofisticato sugli articolatori vocali: i
movimenti fini e rapidi del corpo della lingua che modificano le frequenze delle formanti devono essere
strettamente sincronizzati con quegli articolatori. Per ricostruire le strutture neurali alla base del controllo motorio
vocale si sono prese in analisi le aree corticali legate al linguaggio utilizzando i calchi endocranici dei nostri
antenati, in base alle cui dimensioni si possono determinare eventuali proporzioni delle varie parti della corteccia
cerebrale.
Grazie a questa metodologia gli studiosi sono stati indotti a credere che le aree neuronali legate alla produzione
(area di Broca) e comprensione (area di Wernike) del linguaggio siano state già presenti nell’H. habilis e persino
Australopitechus, ma purtroppo non è stata considerata abbastanza affidabile.
Richard Kay e il suo team invece hanno condotto analisi sulle dimensioni del canale dell’ipoglosso ipotizzando che
potesse dare indicazioni sul controllo motorio della lingua, in quanto attraversato dai nervi che la collegano al
cervello. Negli esseri umani tale canale è più largo rispetto a quello dei primati evidenziando che un maggior
controllo richiede maggior innervazione. Le dimensioni di questa struttura negli Australopitechus africanus e negli
H. habilis sono simili a quelli delle scimmie mentre negli neanderthalensis è equivalente a quella degli umani
moderni, quindi potrebbero aver avuto capacità vocali simili ai sapiens.
Tuttavia studi successivi hanno evidenziato che le dimensioni del canale dell’ipoglosso negli esseri umani moderni
sono altamente variabili e tendono a sovrapporsi con quelle riscontrate nelle grandi scimmie, dimostrando che
quindi questo non è un parametro valido su cui basare le possibili abilità linguistiche degli ominini estinti. Un
indicatore fossile più affidabile potrebbe essere il canale delle vertebre toraciche attraverso il quale passano i nervi
che controllano il diaframma e quindi la respirazione, il cui aumento delle dimensioni si è ipotizzato possa
costituire un adattamento per il controllo fine delle vocalizzazioni e della parola. MacLarnon e Hewitt hanno
evidenziato dimensioni simili fra scimmie e H. ergaster, ma altrettanto simili fra neanderthalensis e sapiens,
rendendo quindi plausibile tale ipotesi.
1.4 CONCLUSIONI
Le evidenze etologiche e paleontologiche hanno mostrato che la produzione vocale richiede varie abilità, condivise
in vario grado anche con animali non umani, ciascuna delle quali è frutto di una storia evolutiva differenziale, non
avvenuta in modo progressivo e uniforme ma spesso frastagliato. Per quanto riguarda gli uccelli, la capacità di
imitazione è commutabile a un meccanismo in comune nei 2 taxa, elemento non condiviso dalle scimmie, in
quanto i loro richiami sono invece geneticamente determinati.
Nonostante ciò, sanno utilizzare le vocalizzazioni a fini comunicativi e/o manipolativi, pur non essendo in possesso
di strutture anatomiche e neurali per produzioni più complesse. Tali strutture si sono affinate nel corso della filogenesi
umana, non sempre essendo state selezionate inizialmente per finalità comunicative. Il processo di ottimizzazione
dell’apparato vocale pare essere iniziato probabilmente nell’Homo heidelbergensis, circa 600mila anni fa,
suggerendo un’origine relativamente tarda della parola, dato che il genere Homo fa la sua comparsa attorno ai
2,5 mln di anni fa.
Risulta tuttavia difficile credere che ominini come l’ergaster o l’erectus, che costruivano strumenti in pietra e avevano
un’organizzazione sociale molto più articolata rispetto alle scimmie, non avessero sviluppato sistemi comunicativi
complessi. Ciò induce a pensare che probabilmente l’emergere della parola sia stato preceduto da forme di
comunicazione basate su modalità espressive diverse dal suono.
CAPITOLO 2: IN ORIGINE ERA IL GESTO
Oltre alla parola, anche i gesti, azioni visibili che i riceventi percepiscono come governati da un intento
comunicativo chiaro e riconosciuto, giocano un ruolo fondamentale nei processi interazionali umani.
• I bambini cominciano a comunicare in maniera intenzionale dal 9 mesi di vita prevalentemente attraverso i gesti,
sia di natura deittica (dare, mostrare, richiedere, indicare) sia rappresentativa (mimare).
• Dai 15-17 mesi gesti e parole vengono utilizzati indifferentemente in modo simbolico (equipotenziali) e il
numero di gesti e di combinazioni gesto-parola predice il numero di parole prodotte a 20 mesi.
• Dai 23 mesi avviene il passaggio dalla comunicazione simbolico-rappresentazionale gestuale a quella
vocale: le parole prendono il sopravvento sui gesti.
• La modalità gestuale però non scompare: resta parte integrante della comunicazione fra adulti e concorre col
linguaggio parlato.
101
In particolare, è stato osservato che l’uso parallelo di gesti e parole permette di acquisire informazioni
semantiche complementari o aggiuntive non presenti nel solo formato verbale. Quindi data la sincronia fra i due
sistemi il linguaggio si può definire come un sistema integrato gesto-parola. Secondo alcuni studiosi le
osservazioni sulla commistione di gesto e parola nell’ontogenesi (sviluppo biologico dall’embrione all’adulto,
frutto del genoma e l’ambiente) costituiscono un indizio utile per ricostruire la filogenesi (ramificazione delle linee
di discendenza evolutive della specie) della comunicazione umana. Ma vi sono in realtà due prospettive teoriche:
• Gesture-first, per cui l’evoluzione del linguaggio sarebbe stata caratterizzata da una prima fase in cui i nostri
antenati comunicavano utilizzando prevalentemente il medium visivo: secondo questa visione la gestualità
avrebbe costituito il precursore del linguaggio parlato.
• L’altra prospettiva invece pone gestualità e parlato in evoluzione sincronica considerandoli
“equiprimordiali”.
2.1 LE TEORIE GESTURE – FIRST
L’idea che il linguaggio abbia avuto origine gestuale viene fatta risalire alle speculazioni del filosofo francese del
18esimo secolo Condillac, il quale per evitare di entrare in contrasto con la Chiesa, la espresse mediante una fiaba:
immagina due bambini, maschio e femmina, che senza aver ancora imparato a parlare vagano nel deserto dopo il
diluvio universale e descrive l’invenzione del linguaggio attraverso la comunicazione spontanea mediante gesti e
vocalizzazioni inarticolate fra i due bambini. Da espressioni private del pensiero, questi gesti e vocalizzazioni
diventano segni comunicativi codificati fino a trasformarsi in linguaggio in senso proprio. Tale trasformazione
è secondo l’autore il prodotto della combinazione di grida naturali con segni gestuali: i bambini articolano nuovi
suoni e ripetendoli diverse volte e accompagnandoli con gesti, abituano sè stessi a dare nomi alle cose.
Le idee di Condillac ebbero grande influenza e furono d’ispirazione per Diderot, Rousseau e Smith, finchè nella
seconda metà del ‘800 le riflessioni sull’origine dell’argomento non subirono una brusca frenata in seguito al famoso
divieto della Società di Linguistica di Parigi che impedì ogni forma di comunicazione in merito. Tale proibizione
cessò dieci anni dopo, ma trasformò il tema dell’origine del linguaggio in tabù per tutto il ‘900, fino agli anni ’70,
che furono segnati dalla rinascita delle teorie gestuali a partire dall’opera dell’antropologo Gordon Hewes che
costituirà una pietra miliare negli studi sull’evoluzione del linguaggio.
Spinto dai dati relativi al fallimento dei tentativi di insegnare agli scimpanzè una lingua vocale e dai successi con la
lingua dei segni, delineò un quadro in cui fece convergere dati provenienti dalla primatologia, paleoantropologia e
dalle neuroscienze, e introdusse il termine “protolinguaggio” ad indicare i primi stadi filogenetici della
comunicazione degli ominidi.
La ripresa degli studi delle teorie gestuali è frutto anche del lavoro di Strokoe sulle lingue dei segni utilizzate nelle
comunità sorde, che ha mostrato come esse posseggano tutte le sofisticazioni grammaticali, semantiche e pragmatiche
di quelle parlate e quindi sono strumenti comunicativi al pari dei sistemi vocali.
2.1.1 EVIDENZE NEUROSCIENTIFICHE VINCOLATE
Uno dei principali punti a favore di questa teoria è fornito dalla primatologia, nel confronto tra sistemi comunicativi
vocali e gestuali delle grandi scimmie, da cui emerge che le grandi scimmie sono in grado di utilizzare i gesti in
maniera molto più flessibile e comunicativamente più efficace rispetto alle vocalizzazioni. Queste ultime
sappiamo essere determinate geneticamente e non sottoposte a forme di apprendimento, quindi limitate; inoltre
sappiamo che il loro TVS in ogni caso non ha la conformazione anatomica per emettere una più ampia varietà di
vocalizzazioni.
Tuttavia le limitazioni vocali dei primati non umani dipendono anche dalla impossibilità di esercitare un completo
controllo volontario dei segnali emessi, in quanto evidenze neuropsicologiche dimostrano che essi sono legati
prevalentemente agli stati emotivi. Ploog ha mostrato l’esistenza di 2 percorsi neurali che regolano l’apparato
vocale:
• Uno subcorticale, filogeneticamente antico, che comprende sia nei primati che negli umani le regioni limbiche
(che regolano le emozioni); se vengono danneggiate, entrambi perdono la capacità di produrre suoni e
diventano muti.
• Uno neocorticale, che fa parte del tratto piramidale emerso nei primati non umani e successivamente si è
sviluppato in scimmie e umani ed è indispensabile per la produzione vocale per gli umani in quanto consente di
esercitare un eccezionale controllo volontario sui suoni prodotti dalla laringe e un eventuale danno causa
deficit nella verbalizzazione, mentre nelle scimmie si osserva una paralisi dei muscoli orali e facciali che
rende incapace di mangiare, inducendo a pensare che tale area controlli i movimenti della bocca, lingua e
labbra nella preparazione e consumo del cibo; nonostante ciò tuttavia riescono comunque a esprimere
richiami non troppo difformi dalla norma.
102
Tali evidenze suggeriscono basi neurali delle vocalizzazioni differenti per umani e primati: solo negli umani il
sistema neocorticale si è sviluppato per il controllo volontario dei muscoli di corde vocali, lingua, labbra, mandibola
e laringe; ergo, l’ultimo antenato comune fra ominini e grandi scimmie non possedeva preadattamenti tali da
garantire lo sviluppo di un sistema comunicativo basato sul medium sonoro, che si è sviluppato solo a partire
dal distacco nella linea evolutiva.
2.1.2 LA COMUNICAZIONE GESTUALE NELLE GRANDI SCIMMIE
A differenza delle vocalizzazioni, che sono involontarie espressioni di emozioni, i gesti manuali nei primati
possono essere prodotti deliberatamente e utilizzati in modi molto più flessibili rispetto alle vocalizzazioni,
motivo per cui sono considerati la più probabile piattaforma naturale per l’evoluzione del linguaggio.
L’intenzionalità di tali gesti è riferita alla volontà di influenzare il comportamento di uno specifico destinatario
ed è definita attraverso diversi criteri:
• Sensibilità allo stato attentivo del destinatario
• Attesa di una risposta dopo la produzione dei gesti
• Evidenza che l’animale che crea il gesto stia perseguendo uno specifico obiettivo
• Flessibilità nell’uso di un gesto
• Perseveranza nel raggiungimento dell’obiettivo.
Il criterio della perseveranza comunicativa è considerato uno degli indicatori più evidenti del carattere
intenzionale della produzione gestuale delle grandi scimmie e si ha nel momento in cui l’animale che produce il gesto
cerca di far fronte a un fallimento comunicativo deducibile dal comportamento del destinatario, che mostra
come lo scopo comunicativo non sia stato raggiunto o raggiunto solo parzialmente. Per superare l’enpasse
comunicativa viene atto ricorso quindi alla ripetizione o all’elaborazione, cioè alla sostituzione del segnale
prodotto all’inizio con un altro equivalente.
Un’altra importante caratteristica della comunicazione fra primati è la flessibilità, cioè la dissociazione fra
significato di un gesto e realizzazione fisica: gesti con differenti significati vengono usati per il raggiungimento di
uno stesso fine e obiettivi diversi sono associati a diversi tipi di gesto. In pratica, uno stesso gesto può avere
significati diversi a seconda del contesto sociale dove viene prodotto.
La produzione dei gesti, d’altronde, tiene conto dello stato attentivo del ricevente, infatti gli animali scelgono il
gesto da produrre in base allo stato in cui si trovano gli interlocutori a cui si sta rivolgendo: seguendo questa logica,
vengono utilizzati gesti visivi (quindi senza suono) se il ricevente sta prestando attenzione al segnalatore, oppure
tattili e uditivi se vi è bisogno di attirarne l’attenzione. In uno studio di Leavens, Hopkins e Bard è stato inoltre
evidenziato come scimpanzè e altre scimmie allevate in cattività abbiano imparato, volontariamente e senza
addestramento esplicito, ad additare qualcosa agli umani per indicare loro ciò che desiderano ma non possono
raggiungere da soli (additamento referenziale); nello specifico orientavano il corpo verso il cibo desiderato
protendendo verso di esso le dita e le mani attraverso le sbarre.
Tale abilità è stata in realtà osservata anche in stato di natura da Pika e Mitami, in una situazione di grooming tra
scimpanzè: uno dei soggetti infatti segnalava all’altro la zona specifica che voleva gli venisse spulciata e questo
reagiva in modo appropriato. Tale comprensione mostra dunque l’esistenza di una forma primordiale di
comunicazione referenziale.
Nonostante alcuni gesti abbiano una componente genetica, la maggior parte è frutto di apprendimento, in quanto
svariati studi hanno dimostrato la capacità nelle grandi scimmie di inventare e acquisire nuovi gesti che poi vengono
integrati nel repertorio gestuale del gruppo. Secondo Tomasello e Call, l’incorporazione di gesti idiosincratici (dei
neologismi praticamente) nel sistema di comunicazione condiviso avviene mediante una ritualizzazione
ontogenetica, cioè un processo per cui un segnale creato da due individui diventa comunicativo nel corso del
tempo. La forma generale di tale processo può essere descritta in 4 fasi:
• L’individuo A mette in atto un comportamento X
• L’individuo B reagisce ripetutamente con il comportamento Y
• B anticipa A prima che questo completi il comportamento X, mettendo in atto Y avendo osservato solo un
frammento iniziale di X che chiamiamo X’
• A anticipa B e produce il frammento iniziale in una forma ritualizzata che chiamiamo X* al fine di indurre B a
produrre Y
QUINDI LE VOCALIZZAZIONI:
• Sono determinate geneticamente
• In genere non hanno uno specifico ricevente

103
• Sono legate alle emozioni
• Non sono soggette ad apprendimento o modifica
INVECE I GESTI:
• Quasi tutti sono frutto di apprendimento individuale
• Sono rivolte a uno specifico individuo
• Sono utilizzate in maniera intenzionale e flessibile
Dunque nonostante la comunicazione vocale fra primati e umani abbia in comune il canale vocale-uditivo, la
comunicazione gestuale condivide aspetti fondamentali delle modalità di funzionamento linguistico umano, quali
intenzionalità e flessibilità. Di conseguenza si può ipotizzare che l’antenato comune, vissuto fra 7 e 6 mln di anni fa,
sia stato predisposto allo sviluppo di un sistema di comunicazione volontaria basato su gesti visibili piuttosto che su
suoni.
2.2 LA COMUNICAZIONE GESTUALE NEGLI OMINI
Partendo dal presupposto che gli ominini estinti utilizzassero sistemi comunicativi di tipo gestuale, possiamo dire
che il linguaggio umano si è sviluppato prevalentemente tramite i gesti manuali e facciali a partire da circa 2 milioni
anni fa cioè con la comparsa dei primi Homo e che la comunicazione intenzionale sia sorta sfruttando i sistemi
di comprensione delle azioni e raffinatisi durante l'evoluzione umana. Tale teoria si basa sugli studi condotti
negli anni '90 dai ricercatori dell'università di Parma i quali hanno evidenziato la presenza dei cosiddetti neuroni
specchio nel cervello dei macachi: sono associati con l’azione di afferrare e sono stati definiti “specchio” poiché
permettono un rispecchiamento tra percezione e azione, in quanto si attivano sia nel momento in cui avviene un
movimento intenzionale, sia quando tale movimento viene osservato.
Questo meccanismo è presente anche nel cervello umano e costituisce una prova evidente a sostegno dell'origine
gestuale del linguaggio in virtù del ruolo che svolgono questi neuroni, la cui primaria funzione è legata alla
comprensione delle azioni poiché permettono al soggetto di proiettarle su opzioni che lui stesso si rende conto
di poter compiere.
Per comprensione non si intende necessariamente la consapevolezza esplicita da parte dell'osservatore
dell'identità o somiglianza tra l'azione vista ed eseguita, ma un’immediata capacità di riconoscere negli “eventi
motori” osservati un determinato tipo di azione caratterizzato da una specifica modalità di interazione con gli
oggetti, di differenziare questo tipo da altri ed eventualmente di utilizzare una simile informazione per
rispondere nella maniera più appropriata.
Il meccanismo di funzionamento dei neuroni specchio si basa sull’idea che, quando un individuo osserva un
un'azione eseguita da un altro, nella sua corteccia premotoria si attivano i neuroni che permettono di simulare
internamente e quindi di rappresentare l’azione osservata. Eseguendo internamente lo schema motorio
dell'azione si acquisisce la conoscenza dell'obiettivo per il quale l'azione stessa è stata eseguita che quindi in
tal modo l'informazione visiva viene trasformata in conoscenza dal sistema specchio.
In particolare sono stati scoperte nell’aria F5 della corteccia premotoria ventrale dei macachi delle somiglianze
evidenti rispetto all'area di Broca gli umani, la quale nasce originariamente come area deputata alla
comprensione delle azioni manuali legate al grasping. A partire da questo tipo di considerazioni si è potuto
sostenere che il sistema specchio abbia costituito una piattaforma naturale per l'origine e l'evoluzione del
linguaggio favorendo lo sviluppo di un sistema comunicativo fondato inizialmente sulla gestualità a cui
gradualmente si sia affiancata in una seconda fase la vocalità.
Secondo Corballis, il sistema specchio per il grasping è stato particolarmente importante per lo sviluppo della
“mimesi” cioè della capacità di mimare azioni ed eventi del mondo esterno, capacità che si sarebbe evoluta a
partire da 2 milioni anni fa con l’H. ergaster ed erectus. Il bipedismo ha permesso di liberare le mani per un
ulteriore sviluppo della comunicazione manuale mediante il movimento in quattro dimensioni (tre nello spazio
e una nel tempo), consentendo così di mimare l'attività nel mondo esterno.
In realtà, mentre nei macachi il sistema specchio per il grasping risponde solo a quelle situazioni in cui l’animale
cerca di raggiungere un oggetto effettivamente presente (atti transitivi), negli umani si attiva anche in risposta agli
atti intransitivi, cioè in situazioni in cui non è presente il soggetto per su cui il movimento è diretto: si tratta di un
cambiamento chiave nella evoluzione del linguaggio. La mimesi infatti è intrinsecamente comunicativa in quanto
è messa in atto per indurre l'osservatore a pensare azioni, eventi o oggetti specifici distanti dal qui e ora della
situazione attuale.

104
Detto ciò, il come si è passati dalla mimesi, la cui natura è prevalentemente iconica, al linguaggio umano, la cui
natura è prevalentemente arbitraria, resta effettivamente una questione aperta. Secondo Corballis i gesti che mimano
azioni ed eventi sono diventati con il tempo sempre più astratti ed arbitrari (simbolici) e hanno perso il legame
iconico (di somiglianza) originario con l'oggetto/evento che rappresentano attraverso un processo che prende
il nome di “convenzionalizzazione”.
Una volta che il segno diventa convenzionalizzato, il ricevente non può più fare affidamento per comprenderlo
sulla somiglianza che il segno a o aveva con oggetti o eventi esterni.
Utilizziamo il verbo al passato in quanto i segni arbitrari spesso finiscono col discostarsi da quelli originari e
quindi allontanarsi dal legame più intuitivo e diretto con l'oggetto a cui si riferiscono al fine di essere più brevi
e funzionali. Una volta compiuto questo processo, il linguaggio perde il suo aspetto mimetico e non è più
necessariamente limitato alla modalità visiva.
È possibile ipotizzare quindi che la descrizione gestuale di oggetti ed eventi sia stata accompagnata gradualmente
dalle vocalizzazioni; una volta acquisito il gesto brachiomanuale iconico, è possibile progressivamente
modularlo/simbolizzarlo associando adesso una vocalizzazione. Appresa la vocalizzazione, il gesto manuale di
supporto al suono viene meno lasciando spazio al simbolo orale, il quale non necessita più della relazione iconica
originaria con il suo referente. A questo punto, le vocalizzazioni sostituiscono gli atti manuali come mezzo
principale per la comunicazione.
2.2.1 DALLA MANO ALLA BOCCA
Date le analogie tra l'area F5 e l'area di Broca, è possibile ipotizzare che nel corso della filogenesi umana le
vocalizzazioni siano state gradualmente incorporate all’interno del sistema specchio. In una prima fase si è verificato
il processo di incorporazione nel sistema specchio dei gesti facciali, solo successivamente quello di
incorporazione delle vocalizzazioni. Nelle scimmie i gesti manuali e gesti facciali sono fortemente legati tra
loro, infatti sono stati individuati neuroni motori della bocca nell’area F5 della scimmia i quali si attivano quando
l’animale osserva un altro individuo che compie con la bocca azioni legate sia funzioni ingestive sia gesti oro-facciali
comunicativi.
Di conseguenza possiamo dire che l'area deputata alla produzione verbale negli umani rappresenta l'evoluzione
di un sistema originariamente adibito al controllo fine delle azioni oro facciali delle scimmie. Sono inoltre stati
attestati legami tra i movimenti oro-facciali e movimenti della mano anche negli esseri umani i quali hanno
portato alla conclusione che i primi gesti comunicativi nei nostri antenati abbiano coinvolto sia i gesti facciali
che quelli manuali.
La prima fase nel passaggio dai gesti alle parole preferibilmente coincide con un aumento del coinvolgimento della
faccia nella comunicazione; nella seconda fase invece è avvenuto il processo dalla mano alla bocca che ha portato
all’incorporazione delle vocalizzazioni nel sistema specchio.
Corballis per spiegare questo processo ha fatto riferimento alla teoria motoria della percezione del parlato (MTSP)
la cui idea alla base è che percepire suoni è percepire gesti, laddove si intendono per gesti anche i movimenti non
visibili dell’apparato articolatorio attraverso l'azione di labbra, vello, laringe e dorso, corpo e punta della lingua.
Da questo punto di vista, i suoni verbali vengono compresi in riferimento alla maniera in cui sono articolati e
non alla percezione acustica degli stessi.
Una conseguenza di questa teoria è che l'attivazione del sistema motorio risulta essenziale per la percezione del
parlato in quanto la percezione del linguaggio articolato può essere considerata una funzione naturale del
sistema specchio. Ciò è stato confermato dal coinvolgimento del sistema motorio deputato al riconoscimento
delle azioni sia nella generale percezione dei suoni che in quella del parlato.
Per quanto riguarda la percezione dei suoni è stata rilevata l'esistenza nelle scimmie di neuroni specchio definiti
“audiomotori” i quali si attivano non solo in vista di un’azione, ma anche in risposta a un suono caratteristico
che accompagna l'azione in questione.
Per la percezione del parlato, studi condotti con la stimolazione magnetica transcranica hanno attestato negli umani
l'attivazione durante la percezione di suoni linguistici delle aree neurali che controllano i muscoli implicati
nell’articolazione vocale. Ricerche condotte con la tecnica della risonanza magnetica funzionale hanno mostrato
una sovrapposizione tra le aree corticali motorie attive durante la produzione del parlato e quelle attive
durante l’ascolto di suoni linguistici. Sulla base di tali risultati è possibile sostenere una continuità tra linguaggio
manuale e vocale.

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Nel corso della filogenesi umana si potrebbe dire che è il passaggio dalla mano alla bocca può essere concepito
come una transizione all’interno della stessa modalità gestuale con i gesti manuali che sono stati gradualmente
soppiantati da quelli articolatori. Il linguaggio si sarebbe evoluto come un sistema gestuale basato sui movimenti
delle mani, delle braccia e del volto, compresi i movimenti delle labbra, della bocca e della lingua.
Come abbiamo già visto gli adattamenti anatomici e neurali necessari a produrre vocalizzazioni articolate si collocano
a partire da 600.000 anni fa, pertanto è possibile ipotizzare che a partire da questo momento grazie all’incorporazione
delle vocalizzazioni nel sistema specchio, la modalità vocale abbia iniziato gradualmente a prendere il
sopravvento su quella gestuale.
2.3 L’ORIGINE MULTIMODALE DEL LINGUAGGIO
Il riconoscimento del ruolo della gestualità nella comunicazione è stato sviluppato in maniera alternativa a partire
dalle teoria proposte da McNeil, il quale critica le teorie gesture-first, che a suo avviso poggiano su una analisi non
adeguata dei processi di evoluzione del linguaggio, in quanto in generale tutti i modelli interpretativi che
assumono che all'origine del linguaggio incorrono nella difficoltà di spiegare il carattere multimodale, cioè
caratterizzato da gestualità e parlato, del sistema di comunicazione umano moderno.
Idea di questo studioso è infatti che se il linguaggio avesse avuto una origine gestuale, il protolinguaggio dei nostri
antenati avrebbe dovuto dar luogo a un sistema di comunicazione simile alle lingue moderne dei segni e non a
un linguaggio sonoro. Inoltre nella sua opinione i modelli dell'origine gestuale riscontrano il problema della
pantomima, sebbene abbiamo visto come Corballis e Arbib abbiano delineato proprio la mimesi come una fase
importante del processo che ha condotto dalla mano alla bocca. McNeil sostiene che ipotizzare che la pantomima
abbia invece rappresentato un precursore del linguaggio parlato costituisce un grave errore concettuale poiché la
pantomima ripudia la parola.
Al contrario della gesticolazione, incompleta senza il parlato, nella pantomima le parole non contribuiscono al
significato dell'atto comunicativo, quindi l'unica relazione che essa ha con il linguaggio vocale è di riempire i
vuoti , cioè di apparire quando non vi è la parola. In pratica, è solo ammettendo un'evoluzione simultanea di
gestualità e vocalità che si può spiegare il linguaggio umano come un sistema multimodale integrato di gesto e
parola.
2.3.1 IL CIRCUITO DI MEAD
La co-occorrenza di gesto e parlato nella comunicazione chiama in causa simultaneamente un processo
interpretativo di tipo immaginativo, attuato mediante la gestualità, e uno di tipo linguistico, mediante la parola. Tali
processi sono antitetici da un punto di vista semiotico poiché il gesto ha un carattere globale, a differenza del
carattere combinatorio del codice linguistico. Si definisce globale in quanto il significato delle sue componenti è
determinato dal contesto di gesticolazione generale in cui esso occorre, quindi le parti di un gesto non possono
essere considerate isolabili, motivo per cui la determinazione del significato di un gesto procede dall’intero alle
parti cioè mediante un sistema top-down.
Il codice linguistico invece è scomponibile in unità minime dotate di significato dette morfemi virgola che devono
essere combinate tra loro per creare il messaggio globale; l'elaborazione linguistica quindi procede in senso
contrario cioè bottom-up: il punto di partenza sono le unità minime la cui combinazione permette di risalire al
significato globale.
Sulla base di queste osservazioni McNeil sostiene che sia plausibile pensare che nelle fasi iniziali della
comunicazione queste due modalità immaginativa e linguistica, fossero compresenti. L'ipotesi è che nelle prima
fasi del protolinguaggio vi fossero elementi ricorrenti basati sul codice, quindi potenzialmente scomponibili e
riutilizzabili in altre situazioni, ed elementi determinati dal contesto quindi globali, olistici e basati
sull’immaginazione mentale.
Per spiegare la compresenza di linguaggio e immaginazione lo studioso chiama in causa il circuito di Mead. Secondo
Mead i gesti diventano simboli dotati di significato nel momento in cui suscitano in modo implicito nell’individuo
che li produce la stessa risposta che in modo esplicito producono nei riceventi. Dunque l'ipotesi è che sia stato
questo circuito ad aver dato origine a un nuovo adattamento negli umani: nello specifico possa avere selezionato la
capacità non presente nel cervello degli altri primati, dei neuroni specchio di rispondere ai propri gesti come
se questi venissero eseguiti da qualcun altro.
Tale capacità nasce da una sorta di inversione funzionale dei neuroni specchio che permette al soggetto non solo
di rispondere alle azioni altrui simulando le in prima persona ma anche alle proprie simulando che siano
eseguite da altri.

106
I risultati che ne conseguono sono innanzitutto la trasformazione di gesti individuali in oggetti sociali e pubblici,
ma anche il fatto che questa funzione renda disponibili il gesto e la sua immagine nell’area di Broca, deputata
all'organizzazione delle azioni sequenziali complesse orientate a uno scopo.
In tal modo i movimenti in vocali presenti nell'area di Broca possono essere gestiti in nuovi modi sfruttando
l'immagine testuale: infatti il parlato e la gestualità convergono con l'immagine testuale che costituisce
l'elemento di integrazione tra le due e li sincronizza al punto tale da diventare coespressivi dell'immagine
gestuale e del suo significato. Riassumendo, il protolinguaggio dei nostri antenati era costituito da elementi globali
e unità discrete; ad un certo punto, probabilmente con l'avvento di Homo habilis e successivamente ergaster ed
erectus, hanno avuto inizio l'inversione funzionale dei neuroni specchio e la riconfigurazione dell’area di Broca
grazie a cui i gesti hanno acquistato il potere di orchestrare azioni sia manuali che vocali attribuendo ad esse un nuovo
significato.
Tale processo implica una compresenza di gesto e parlato che a partire da questo momento si sono evoluti
sincronicamente dando origine al linguaggio odierno.
2.3.2 MULTIMODALITÀ NELLA COMUNICAZIONE DELLE SCIMMIE
Le evidenze primatologiche hanno in effetti dimostrato che:
1. La produzione vocale delle scimmie, per quanto limitata, non è così automatica e involontaria come si è
sostenuto precedentemente
2. le grandi scimmia utilizzano un sistema di comunicazione multimodale dove i gesti suono spesso
accompagnati da vocalizzazioni
3. negli scimpanzè la combinazione tra gesti e suoni comunicativi attiva aree cerebrali omologhe all'area di
Broca
Ricerche condotte negli ultimi anni hanno infatti dimostrato che le vocalizzazioni dei primati possono essere
utilizzate in maniera intenzionale al pari dei gesti e tale teoria è stata dimostrata osservando come la produzione
vocale delle scimmie sia sensibile al cosiddetto “effetto audience”, subendo quindi l'influenza del tipo di partner
sociale a cui è rivolta.
Nel particolare caso dei richiami d'allarme si è visto come questi non siano stati guidati solo dalla percezione del
pericolo incombente, ma anche da una valutazione della conoscenza dei membri dell'altro gruppo: risultato
particolarmente importante poiché implica che gli scimpanzé tengono traccia delle informazioni di cui sono in
possesso i riceventi e intenzionalmente informano chi non ha non ha determinate conoscenze, dimostrando di
esercitare un certo controllo sull’emissione delle proprie vocalizzazioni. In particolare è stata rilevata una attitudine
ad avvertire i conspecifici in caso di pericolo in maniera particolare se questi erano individui socialmente
rilevanti o con i quali il segnalatore aveva un rapporto di amicizia.
Mostrando che i primati non umani questo controllo vocale è stato fortemente indebolito l’assunto fondamentale dei
modelli gesture-first, mettendo in discussione in particolare l'idea secondo cui il sistema vocale dei primi
ominini non fosse adeguato a garantire lo sviluppo di un sistema comunicativo intenzionale. In tal modo viene
aperta la strada all’ipotesi che il linguaggio umano si sia sviluppato da un sistema multimodale caratterizzato dalla
compresenza di gesti e suoni e a sostegno di tale ipotesi è stata attestata l'esistenza nei primati di un sistema
comunicativo multimodale in cui i gesti sono accompagnati anche da movimenti oro-facciali e da vocalizzi.
Nel caso dei bonobo si è osservato come si producano vocalizzazioni acusticamente complesse definite “contest
hoots”, che vengono combinate con gesti altri segnali corporei e sono indirizzate verso un particolare individuo
in contesto specifico. Abilità simili sono state rilevate anche in altri tipi di primati anche cresciuti in cattività, i quali
hanno dimostrato la caratteristica multimodale del proprio sistema comunicativo anche in relazione agli umani stessi
come riceventi.
Le evidenze comportamentali sull'integrazione crossmodale di gesto e suono trovano conferme anche sul piano
neurale: è emerso infatti che la produzione congiunta di vocalizzazioni da richiamo dell'attenzione e gesti
manuali comunicativi attiva nel cervello degli scimpanzé è deputata a un'area omologa a quella di Broca negli
esseri umani.
Questi dati suggeriscono che l'area di Broca possa essere stata implicata nella produzione di segnali oro-facciali/
vocali nell’ultimo antenato comune tra umani e scimpanzé mettendo quindi in discussione sia l'ipotesi di
un'origine esclusivamente vocale, sia prevalentemente gestuale; sembrano suggerire nel complesso uno scenario
multimodale secondo cui i gesti manuali e comunicativi e i segnali vocali, sottoposti al controllo di una stessa area
cerebrale, sono andati incontro a una coevoluzione nel corso della filogenesi umana, che ha dato vita al linguaggio
odierno.
107
2.4 CONCLUSIONI
L'idea alla base dei modelli che pongono i gesti all'origine del linguaggio suono supportate prevalentemente da
evidenze primatologiche e neuroscientifiche:
• le prime chiamano in causa la maggiore flessibilità con cui le scimmie utilizzano i gesti per fini comunicativi
rispetto alle vocalizzazioni.
• le seconde riguardano la scoperta che alcune aree del cervello degli esseri umani moderni coinvolte
nell’elaborazione del linguaggio sono omologhe nei primati ad aree deputate alla produzione e
riconoscimento di azioni manuali, incluse quelle comunicative.
Secondo questa teoria il linguaggio vocale si sarebbe innestato su aree cerebrali che inizialmente avrebbero
garantito lo sviluppo di un sistema comunicativo basato sul mezzo visivo e solo successivamente su quello
sonoro.
I modelli dell'origine multimodale invece partono dal riconoscimento del fatto che il linguaggio umano è un sistema
integrato tra gesti e parole, i quali rappresentano due facce non separabili dello stesso processo comunicativo; dal
punto di vista evoluzionistico si traduce nell’ipotesi che gestualità e vocalità siano equiprimordiali, cioè abbiano
avuto uno sviluppo sincronico nel corso della filogenesi e a sostegno di questa ipotesi studi primatologici mostrano
che le grandi scimmie utilizzano un sistema comunicativo multimodale caratterizzato dalla produzione congiunta di
vocalizzazioni e gesti manuali comunicativi.
Tuttavia bisognerebbe chiedersi se questo tipo di analisi sia sufficiente per dar conto dell’evoluzione della
comunicazione umana: ci sono buone ragioni per ritenere che i modelli teorici che spiegano l'evoluzione del
linguaggio in riferimento all’evoluzione del mezzo espressivo raccontino solo una parte sulla storia dell'origine della
comunicazione umana. Infatti il linguaggio dell'uomo sapiens è contraddistinto da alcune proprietà che
contribuiscono a renderlo specifico rispetto alla comunicazione animale che non possono essere spiegate
esclusivamente con il funzionamento del mezzo espressivo.
L’esigenza di dar conto di tale proprietà alla base del passaggio della comunicazione animale a quella umana
giustifica la necessità di spostare l'attenzione dall'analisi del mezzo espressivo a quella del contenuto trasmesso
negli scambi comunicativi. Infatti suoni e gesti acquistano funzione comunicativa solo nel momento in cui
vengono sottoposti a un processo interpretativo cioè solo nel momento in cui viene attribuito loro un certo
contenuto: queste due dimensioni del linguaggio, del significante e del significato, non sono naturalmente
separabili in maniera netta, cosa che avviene anche nel caso del sistema specchio, il quale è responsabile sia della
produzione dei gesti manuali comunicativi che della comprensione di quegli stessi gesti.
Detto ciò, un sistema di questo tipo è comunque troppo debole per giustificare i complessi processi interpretativi che
caratterizzano il funzionamento del linguaggio e che lo distinguono in modo specifico dalla comunicazione animale.
CAPITOLO 3: ORIGINE DEL LINGUAGGIO ED EVOLUZIONE DELLA MENTE
Dopo aver analizzato il medium espressivo utilizzato negli scambi comunicativi, sposteremo la nostra attenzione
sulle capacità cognitive che permettono di spiegare il passaggio dalla comunicazione animale al linguaggio umano.
Infatti ogni modello interpretativo proposto finora deve dar conto anche e soprattutto dei processi cognitivi attraverso
i quali i segnali acquistano significato. Ovviamente non si può fare affidamento su prove dirette, ma si può ricostruire
l'evoluzione cognitiva degli ominini estinti grazie alla primatologia e l’etologia cognitiva.
Analizzare il tema dell’origine del linguaggio all’interno di una prospettiva cognitiva equivale a verificare se e fino
a che punto la comunicazione delle grandi scimmie è basata su dispositivi cognitivi simili a quelli che presiedono al
funzionamento della comunicazione umana. Quindi partiamo dallo studio dei sistemi di elaborazione alla base
della produzione e comprensione del linguaggio umano.
3.1 IL MODELLO DEL CODICE
Secondo una idea intuitiva, la comunicazione consiste in un processo di trasmissione delle informazioni: in tal
modo si ha comunicazione quando una informazione viene codificata da un emittente, inviata lungo un canale
ed è decodificata da un ricevente. Se i meccanismi di codifica e decodifica sono ben calibrati tra loro, ciò che viene
codificato all'inizio è identico a ciò che viene decodificato alla fine quindi l'informazione è perfettamente trasferita
dall’emittente al ricevente.
Questo modo di concepire la comunicazione è tradizionalmente chiamato “modello del codice” e combina tra loro:
• la metafora del canale, cioè la concezione per cui i segnali sono dei messaggi che vengono impacchettati,
inviati a ricevente attraverso un canale di trasmissione e alla fine spacchettati dal ricevente al fine di
comprendere il messaggio

108
• la teoria matematica della comunicazione, secondo cui i segnali sono stringhe di informazioni trasmesse
attraverso un canale lungo il quale si possono verificare interferenze.
Applicato ai processi comunicativi umani, questo modello consiste nel codificare i pensieri in una successione di
suoni in modo tale che chi ascolta possa decodificarli e condividere i pensieri di chi parla.
Da questo punto di vista la comprensione è possibile grazie alla condivisione del codice (la lingua verbale) che
permette all’ascoltatore di decodificare il messaggio ricevuto associando la rappresentazione fonologica della
frase (il suono) con la rispettiva rappresentazione semantica (il significato).
La comunicazione è quindi un processo totalmente esplicito basato su meccanismi esclusivamente linguistici e
tutto ciò che si vuole comunicare è codificato nell’enunciato proferito. A fondamento di questo modello ci sono
due importanti assunti teorici:
• l'idea che tutti gli enunciati hanno un significato che dipende dai significati delle parole che lo
compongono e dalle regole sintattiche in accordo a cui questi elementi sono combinati
• l'idea che il significato di un enunciato è dipendente da ciò che il parlante intende significare attraverso
l'uso di quell’enunciato.
Quindi l'analisi della struttura in costituenti dell’enunciato è condizione necessaria e sufficiente per
comprendere le espressioni linguistiche: ogni informazione “esterna” all’enunciato è considerata irrilevante ai fini
della comprensione.
Tuttavia per comprendere se questo modello fondato sul significato letterale sia effettivamente riscontrabile nella
realtà dei processi di comprensione linguistica bisogna liberarla da tutte le impurità dovute al contesto di enunciazione
in modo tale da cogliere gli aspetti essenziali del linguaggio umano; infatti ci sono ottimi motivi per ritenere che tale
tentativo non regga alla prova dei fatti.
Sebbene parlante e ascoltatore condividono un codice, questo permette solo l'estrazione delle pure proprietà
linguistiche dell'enunciato proferito, attraverso le quali si arriva alla rappresentazione semantica della frase; la
grammatica lascia non specificato molti aspetti dell'interpretazione di un enunciato, motivo per cui spesso gli
enunciati possono non essere interpretati in modo univoco.
Di conseguenza non è possibile sostenere che il significato letterale di una frase corrisponda strettamente ai pensieri
comunicati dall'enunciato che la esprime: c'è un gap tra la rappresentazione semantica di una frase e
l'interpretazione dell'enunciato.
3.2 PRAGMATICA E COMUNICAZIONE
3.2.1 INTENZIONI E INFERENZE
La teoria della pertinenza viene invece proposta da Sperber e Wilson a partire dagli anni '80 del ‘900 ed è un modello
pragmatico della comunicazione umana fortemente legato allo studio delle capacità cognitive che permettono
agli esseri umani di produrre e comprendere le espressioni linguistiche; le loro ipotesi sulla natura della
comunicazione sono state soggette a conferma, confutazione o riformulazione alla luce dei lavori sperimentali in
merito alla natura della cognizione.
Vengono infatti adottati i metodi della psicologia cognitiva: oltre ad argomenti prettamente filosofici o linguistici, il
richiamo alla plausibilità cognitiva vincola gli autori a costruire modelli dei processi comunicativi in linea con le
evidenze sperimentali prodotte dagli studi sui deficit comunicativi e cognitivi o dalle ipotesi interpretative della
psicologia evoluzionistica.
Viene dunque proposto un modello della comunicazione umana in linea con alcune intuizioni del filosofo Paul Grace
alla base del cui modello vi è l'idea che la caratteristica essenziale della maggior parte della comunicazione umana
sia costituita dall'espressione e dal riconoscimento di intenzioni per cui è centrale la distinzione tra il significato
dell'espressione (il significato letterale) e il significato del parlante (il significato con cui il parlante utilizza
l'espressione). Il primo corrisponde al significato codificato linguisticamente, mentre il secondo a quello che il
parlante vuole in realtà dire, a ciò che intende comunicare al proprio interlocutore in seguito al quale si aspetta un
comportamento appropriato. Tale comportamento si basa sulla capacità di riconoscere da parte del ricevente
intenzione comunicativa dell’emittente.

109
Assumendo la centralità della distinzione tra significato dell'espressione e del parlante, Sperber Wilson concepiscono
la comunicazione umana come un processo inferenziale di produzione e riconoscimento delle intenzioni
comunicative: propongono un “modello ostensivo-inferenziale” della comunicazione in cui il parlante fornisce
all’ascoltatore solo un indizio (stimolo ostensivo), della sua intenzione di comunicare un certo significato e
l'ascoltatore comprende quel significato mediante una serie di inferenze guidate dall’indizio prodotto dal
parlante.
In uno scambio comunicativo di questo tipo vi sono due tipi di intenzione:
• l’intenzione informativa, attraverso cui chi parla informa i destinatari di qualcosa
• l’intenzione comunicativa, attraverso cui il parlante informa i destinatari della propria intenzione informativa.
Come locutori la nostra intenzione è che i nostri ascoltatori riconoscano la nostra intenzione di informarli di un certo
stato di cose, come ascoltatori invece, cerchiamo di riconoscere ciò di cui il locatore ha intenzione di informarci.
La comunicazione riesce non solo quando l'ascoltatore coglie l’intenzione informativa del parlante, ma anche
quando riconosce l’intenzione comunicativa di quest'ultimo, cioè quando riconosce che il parlante ha
esplicitamente usato un indizio per comunicare la propria intenzione informativa; a tal fine, l'indizio deve
poter catturare l'attenzione dell'ascoltatore e dirigerla sulle intenzioni del parlante, dunque la pertinenza di
uno stimolo per l'individuo è la proprietà in grado di determinare quale informazione particolare riceverà
l'attenzione di quell’individuo in un dato momento.
La pertinenza è quindi una proprietà potenziale di stimoli esterni o rappresentazioni interne che costituisce l’input
dei processi cognitivi: la pertinenza di un input per un individuo in un dato momento è la funzione positiva dei
benefici cognitivi derivanti dall’elaborazione dell'input, e funzione negativa dello sforzo di elaborazione
necessario per ottenere tali benefici.
La pertinenza si definisce attraverso due nozioni di effetto cognitivo, cioè una differenza significativa nella
rappresentazione del mondo dell'individuo, e di sforzo di elaborazione necessario per elaborare un dato stimolo,
dove a parità di condizioni
• maggiore è l'effetto cognitivo ottenuto dall’elaborazione di un’informazione, maggiore sarà la pertinenza di
quell’informazione in quel dato momento per l'individuo
• maggiore sarà lo sforzo di elaborazione richiesto minore sarà la pertinenza dell’informazione in quel dato
momento per l'individuo
Quindi il grado di pertinenza di un’informazione dipende dal rapporto inversamente proporzionale tra effetto
cognitivo e sforzo di elaborazione.
L'interpretazione di un indizio linguistico invece avviene in due fasi:
• una decodifica in cui i processi linguistici elaborano la rappresentazione semantica dell'enunciato
• una inferenziale in cui processi pragmatici forniscono l'interpretazione in senso proprio dell'espressione del
locutore
3.2.2 MIND-READING RICORSIVO E COMUNICAZIONE OSTENSIVA
Secondo i teorici della pertinenza, la comunicazione ostensiva-inferenziale è resa possibile dalla
teoria della mente: la capacità cognitiva che permette di rappresentare mentalmente gli stati mentali propri e
altrui. Infatti quando comunichiamo dobbiamo avere una qualche conoscenza delle menti dei nostri interlocutori per
riuscire a comprendere i significati che si intendono esprimere e per poterlo adattare agli altri i nostri provvedimenti
verbali.
Di conseguenza in ogni atto di comunicazione ostensiva è necessario un esercizio di mind-reading altrui che implica
non solo la rappresentazione mentale degli stati mentali altrui ma anche la rappresentazione mentale dei propri stati
mentali. È possibile definire mind-reading ricorsivo l'abilità di elaborare i livelli multipli di rappresentazioni
incassate (metarappresentazioni).
Nella prospettiva della teoria della pertinenza la comunicazione è espressione e il riconoscimento di intenzioni
comunicative le quali sono esse stesse stati mentali.
RIMANDA AD ESEMPIO DI PAGINA 84-85.
In altri termini senza il mind-reading ricorsivo non ci sarebbero né intenzioni informative né intenzioni
comunicative, dunque non ci sarebbe comunicazione ostensiva. Da questo punto di vista quindi il mind-reading
ricorsivo costituisce le fondamenta stesse della comunicazione.

110
3.2.3 ONTOGENESI DEL MIND-READING RICORSIVO
Lo studio della capacità di lettura della mente costituisce un settore specifico di riflessione all’interno della scienza
cognitiva sviluppatosi attorno a un paradigma sperimentale noto come “test della falsa credenza”, una prova
empirica in grado di dar conto dello sviluppo della capacità di mentalizzazione dei bambini piccoli.
Il test prevede l’uso di due bambole, Sally e Anne, le quali possiedono una biglia, una scatola e un cestino:
• Sally mette la biglia nel cestino
• In assenza di Sally, Anne sposta la biglia nella scatola
• Quando Sally torna cerca la biglia nel cestino dove la aveva lasciata.
I risultati di tali studi sono stati replicati più volte nel corso degli anni e hanno dimostrato nel complesso che solo a
partire dai quattro anni di età i bambini sono in grado di rappresentare lo stato mentale di un'altra persona,
quindi sanno distinguere la situazione attuale da essi percepita da quella (falsa) degli altri. Tali risultati tuttavia
sono in contrasto con il fatto che i bambini più piccoli di questa età esibiscono sofisticate doti comunicative che
sembrano richiedere una valutazione della mente altrui.
Bambini di 12 mesi sono stati posti in varie situazioni in cui osservano un adulto che cerca un oggetto caduto da una
mensola e in tali situazioni indicavano tramite gesti il punto in cui si trova l'oggetto desiderato solo se l’adulto non
aveva precedentemente visto l'oggetto cadere. Dunque in realtà sembravano già essere in grado di comprendere
se gli altri avessero o meno determinate conoscenze sulla base di ciò capaci di stabilire se fornire o meno
informazioni utili.
Recentemente è stato mostrato che i bambini 18 mesi sono in grado di comprendere anche gli atti comunicativi
ostensivi: gli autori hanno osservato una situazione di gioco in cui i bambini avevano bisogno di un certo giocattolo
(una chiave) per continuare (aprire un contenitore).
Le condizioni al cui interno i bambini venivano posti erano 3:
1. lo sperimentatore, dopo aver chiamato il bambino li mostrava le chiavi, guardava le chiavi prima e poi il
bambino e poi nuovamente le chiavi (condizione ostensiva)
2. dopo aver chiamato il bambino, accidentalmente e senza guardarlo, lo sperimentatore spingeva le chiavi nella
sua direzione (condizione accidentale)
3. dopo aver chiamato il bambino lasciava cadere le chiavi ed esclamava “ops”, quindi le raccoglieva e la
portava la vista del bambino senza però guardarlo (condizione intenzionale)
I risultati dell'esperimento hanno mostrato che i bambini prendevano le chiavi solo nella condizione ostensiva,
mostrando di comprendere direttamente tale atto di ostensione come una richiesta indiretta da parte del comunicatore
di raccogliere le chiavi e continuare il gioco, dunque di comprendere in modo inferenziale l’intenzione
comunicativa dell’adulto. Il problema sembra ammettere i due possibili soluzioni: o si sostiene che la
comunicazione estensiva non richieda un mind-reading ricorsivo oppure si accetta il fatto che anche i bambini
molto piccoli esibiscono sofisticata abilità di mentalizzazione.
A far pendere l'ago della bilancia la seconda interpretazione è il nuovo approccio implicito al test della falsa credenza.
Il comportamento degli infanti viene utilizzato per dedurre che cosa essi hanno compreso delle credenze delle altre
persone: i bambini venivano incoraggiati ad aiutare lo sperimentatore Sally a trovare la biglia, basandosi sull’ipotesi
che i bambini avrebbero corretto lo sperimentatore se avesse cercato la biglia nel posto sbagliato.
Le evidenze hanno suggerito che il mind-reading ricorsivo, oltre a essere una capacità a cui gli esseri umani
fin da piccoli abitualmente fanno ricorso per dar il senso al mondo che li circonda, rappresenta una capacità
cruciale per lo sviluppo genetico della comunicazione ostensiva inferenziale.
3.3 MIND-READING E ORIGINE DEL LINGUAGGIO
Il passaggio dalla comunicazione animale ai caratteri di flessibilità e creatività tipici del linguaggio umano è
rintracciabile nei dispositivi di mentalizzazione che rendono possibile dedurre le intenzioni comunicative del
parlante. Di questa opinione è Tomasello, che considera il lettore della mente come unico adattamento biologico
fondamentale di cui devono disporre gli esseri umani per poter dar vita al linguaggio.
Il riferimento alla mentalizzazione alla base dei normali processi d'uso del linguaggio permette di abbandonare il
vecchio modello del codice e di raccontare una nuova storia sull’avvento delle capacità comunicative umane. Sperber
sostiene che la comunicazione umana sia infatti un effetto collaterale delle capacità metarappresentazionali
umane, perché la capacità di eseguire sofisticate inferenze circa gli stati mentali degli uni con gli altri si è evoluta
nei nostri antenati come mezzo per comprendere e predire il comportamento degli uni con gli altri, cosa che a sua
volta ha fatto emergere la possibilità di agire in modo palese al fine di rivelare i propri pensieri agli altri.

111
La conseguenza di ciò è la creazione delle condizioni per l'evoluzione del linguaggio, che ha reso la
comunicazione inferenziale immensamente più efficace.
Origgi e Sperber hanno ipotizzato il caso in cui due nostri parenti ancestrali fossero stati dispersi nel deserto e dotati
di un sistema primitivo di comunicazione: se la comprensione delle loro espressioni fosse stata affidata solo un
sistema funzionante secondo il modello del codice, la comunicazione messa in atto dei due non si sarebbe mai evoluta
in un linguaggio vero e proprio; se al contrario, invece di utilizzare un codice così rudimentale, fossero stati dotati
anche di capacità inferenziali, l'attivazione nella loro mente attraverso la decodifica di un singolo concetto
avrebbe potuto facilmente produrre tutta l'evidenza necessaria per ricostruire in maniera completa il
significato proposizionale del parlante.
Sullo sfondo di una comprensione inferenziale è possibile capire perché le mutazioni di linguaggio che portano alla
specificazione sempre più fine e articolata delle intenzioni comunicative del parlante diventano adattativamente
vantaggiose. Usando questo schema interpretativo è possibile spiegare il passaggio da forme semplici di
comunicazione a un linguaggio vero e proprio; quindi l'esistenza della lettura della mente nei nostri antenati è
una precondizione per l'emergenza del linguaggio.
Poichè sostenere che la capacità di mentalizzazione è a fondamento del linguaggio comporta sostenere che il
mind-reading preceda logicamente e temporalmente linguaggio, la prima mossa da fare per dare credibilità
empirica questa ipotesi è chiedersi se attribuire stati mentali agli altri sia una capacità di cui dispongono anche
gli animali non umani hanno strettamente imparentati.
3.3.1 TEORIA DELLA MENTE DEI PRIMATI NON UMANI
L'espressione “teoria della mente” è stata coniata nell’articolo di Premack e Woodruff nel quale i due autori
sostengono che gli scimpanzé siano in grado di interpretare il comportamento degli umani attribuendo loro
stati mentali.
Per valutare le capacità di mentalizzazione dei primati elaborarono un esperimento nel quale lo scimpanzé Sarah,
dopo aver visto un video che mostrava un essere umano intanto a recuperare un oggetto inaccessibile, doveva
scegliere tra due fotografie per completare la sequenza di azioni necessarie alla risoluzione del problema. Una ritraeva
l'individuo con una sedia e l'altra con un lungo bastone: la scimmia sceglieva la seconda, quindi doveva aver
compreso che l'individuo nel filmato voleva afferrare la banana ma non ci riusciva, scegliendo dunque lo strumento
più appropriato per soddisfare questo desiderio. Secondo gli studiosi quindi Sarah era in grado di risolvere il
compito poiché sapeva attribuire stati mentali all’essere umano, il che proverebbe la presenza di una teoria
della mente nei primati.
L'articolo aveva dato avvio a un serrato dibattito tuttora controverso e Premack stesso successivamente aveva
condotto un nuovo studio basato su un paradigma sperimentale diverso rispetto a quello utilizzato nelle ricerche
originaria del ‘78. Nel nuovo studio gli sperimentatori non montarono sul muro di fronte alla gabbia di Sarah un
piccolo armadietto che lo scimpanzè riusciva perfettamente a vedere, diviso in una metà destra e una sinistra
rispettivamente dipinte di bianco e di nero e riempite rispettivamente una esclusivamente di cose buone e l'altra solo
di cose cattive.
Le cose buone erano i pasticcini che Sarah e la sua addetta preferita Bonnie condividevano durante il momento del
tè quotidiano, mentre le cose cattive erano un serpente di gomma marcia e una tazza di escrementi verso i quali
Bonnie aveva manifestato il proprio disgusto con gesti plateali.
Dopo la stabilizzazione dell’intervallo temporale tra l'apertura dello sportello da parte di Sarah e l'ingresso della sua
addetta nella stanza attorno ai 7 secondi, viene introdotta una variazione sperimentale, costituita da una persona
mascherata e camuffata con una tuta la quale provava a forzare l'armadietto, metteva tutto il materiale davanti a Sarah
e poi riposizionava tutto all'interno degli armadietti invertendo l'ordine originario. All'arrivo della addetta il
comportamento di Sara non manifestò nessun cambiamento.
Per rispondere in maniera appropriata al nuovo test, Sarah avrebbe dovuto avere due distinti tipi di
rappresentazioni, una relativa a quello che ella sa, e una relativa a ciò che sa un'altra persona. Un requisito del
genere non era però richiesto nel testo originario, nel quale Sarah non era obbligata a rappresentarsi la propria
conoscenza da una parte e quella dello sperimentatore dall'altra: infatti quando l'esperimento originario vennero
formulate in maniera tale che lo scimpanzè per risolvere il compito dovesse rappresentare separatamente la propria
conoscenza e quella degli altri, l'animale non passò il test.
Dati di questo tipo suggeriscono che ci sono solo prove indirette dell'esistenza di una teoria della mente negli
scimpanzè e che, semmai le scimmie attribuiscono stati mentali, questi sono certamente un piccolo sottoinsieme
di quelli che vengono attribuiti dagli esseri umani.

112
Negli ultimi 15 anni la situazione si è spostata su posizioni meno pessimistiche più articolate; in effetti quando ci si
chiede se le grandi scimmie abbiano la capacità di attribuire stati mentali agli altri non ci si sta domandando se si
hanno la stessa capacità degli umani, ma si cerca piuttosto di capire se la teoria della mente possa rappresentare uno
sbarramento di tipo qualitativo che separa bruscamente il pensiero animale da quello umano o se sia invece possibile
distinguere gradi diversi di capacità di mentalizzazione .
Negli ultimi anni si è attestata l'idea che il mind-reading non sia una capacità “tutto o nulla” e che pertanto sia
possibile rintracciare alcuni precursori della mentalizzazione anche in specie animali appunto valutando la
capacità di mentalizzazione delle grandi scimmie in situazioni di competizione piuttosto che di cooperazione,
arrivando a considerazioni meno rigide.
Si è infatti osservato che quando gli scimpanzé lottano tra loro per il cibo prendono in considerazione del fatto che il
loro concorrente veda o meno il cibo conteso. Le grandi scimmie in particolare sfruttano la capacità di comprendere
di che cosa gli altri hanno o non hanno esperienza anche a fini manipolatori. Altre ricerche hanno mostrato che
gli scimpanzé sono sensibili anche alle intenzioni alla base delle azioni altrui dimostrandosi eventualmente anche
più pazienti, nel caso in cui ad esempio qualcuno falliva nell’intenzione di condividere cibo con loro.
Sembra dunque possibile sostenere che la capacità di valutare gli stati psicologici altrui non si è evoluta
interamente da zero dopo la separazione tra la linea di discendenza umana e quella delle grandi scimmie.
Sebbene a un grado diverso rispetto a quello degli esseri umani, anche gli scimpanzé sono in grado di valutare i
comportamenti altrui sulla base dell’attribuzione di stati psicologici.
Nello specifico, secondo Call e Tomasello, i scimpanzé sembrano possedere una teoria della mente in senso ampio,
cosa che non è invece possibile attribuire a loro nel senso più stretto. Anche se non comprendono la falsa credenza,
chiaramente non percepiscono solo gli aspetti di superficie del comportamento altrui, quindi si può dire che
abbiano una teoria della mente. Probabilmente non comprendono gli altri utilizzando un sistema di credenze e
desideri simile a quello umano, ma hanno rappresentazioni mentali del mondo che guidano le loro azioni anche
quando queste non corrispondono alla realtà.
Quindi, assumendo una definizione più stretta di teoria della mente intesa come comprensione di false credenze, la
risposta la alla domanda dovrebbe essere: no, non ne hanno una. Sostenere che ogni dispositivo cognitivo come
lettura della mente è presente anche negli animali non umani a noi più prossimi costituisce una prova a favore
dell’ipotesi secondo cui tale dispositivo ha svolto un ruolo cruciale nell’avvento della comunicazione umana; quindi
il sistema la base della mentalizzazione, nato originariamente per interpretare i comportamenti, sarebbe stato poi
cooptato per finalità comunicative tramite un processo di exaptation.
Quindi un sistema come il mind-reading, che in origine non aveva nulla a che fare con il linguaggio, ha assunto nel
corso della filogenesi un ruolo cruciale per la comunicazione umana, dando vita a un nuovo adattamento per le
capacità linguistiche. Probabilmente la capacità metarappresentazionale si sviluppa nelle specie ancestrali per
ragioni legate alla competizione, allo sfruttamento e alla cooperazione, ma non per la comunicazione in quanto
tale.
Questa capacità rende possibile una forma di comunicazione inferenziale inizialmente come effetto secondario, il
cui carattere positivo crea un ambiente favorevole per l'evoluzione di un nuovo adattamento, una capacità
linguistica, che tende ad evolversi, e dunque è facile immaginare un mutuo incremento coevolutivo di entrambe
le capacità.
3.3.2 ORIGINI DELLA COMUNICAZIONE INTENZIONALE
Una delle caratteristiche fondamentali della comunicazione gestuale delle scimmie è l’intenzionalità: i gesti prodotti
da questi animali sono segnali creati volontariamente per influenzare il comportamento di uno specifico destinatario.
Emerge dunque con maggiore evidenza il fatto che per poter influenzare il comportamento di un destinatario è
cruciale tenere conto e valutare i comportamenti altrui sulla base dell’attribuzione di stati psicologici. A
seconda della loro funzione comunicativa è possibile individuare i movimenti di intenzione e i richiami all'attenzione.
I primi, i movimenti di intenzione, riguardano il caso in cui un individuo esegue solo il primo passo di una
sequenza comportamentale e ciò è sufficiente a suscitare una risposta dalla ricevente. Nelle grandi scimmie i
gesti correlati ai movimenti di intenzione derivano dall'intenzione sociale di comunicare al ricevente la richiesta
di fare qualcosa, quindi l’individuo che produce il gesto si aspetta che se il ricevente vede il suo gesto allora farà la
cosa desiderata perché ciò che ha sempre fatto in passato, processo che rappresenta la base della ritualizzazione.
Il ricevente, da parte sua, sa che il comunicatore vuole che lui faccia qualcosa in particolare, basandosi sulla capacità
di lettura delle intenzioni e sulla sua esperienza pregressa in situazioni analoghe.

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Al contrario, i gesti di richiamo dell'attenzione derivano dall'intenzione sociale del comunicatore che il ricevente
veda qualcosa; il comunicatore in questo caso si aspetta, sulla base della comprensione intenzionale, che il vedere
qualcosa indurrà il ricevente a fare quello che lui vuole che faccia. Ciò crea una struttura intenzionale a due livelli
che include l’intenzione sociale del comunicatore come fine fondamentale e la sua intenzione referenziale come
mezzo rivolto a quel fine.
Poiché i movimenti di intenzione sono abbreviazioni ritualizzate dei passi iniziali delle azioni intenzionali, il loro
significato è adesso intrinseco, mentre la struttura intenzionale a due livelli dei richiami dell’attenzione crea una
distanza tra il mezzo di comunicazione esplicito (l’atto di riferimento) e il fine comunicativo implicito
(l’intenzione sociale); il ricevente è potenzialmente in grado di inferire da quello che vede ciò che il comunicatore
desidera.
L'uso dei segnali comunicativi in modo intenzionale da parte delle grandi scimmie non è limitato al dominio gestuale,
ma è stato dimostrato che anche le vocalizzazioni possono essere utilizzate intenzionalmente osservando il
cosiddetto “effetto audience”, il quale si basa sulla presunta capacità da parte degli scimpanzé di produrre
vocalizzazioni per informare i conspecifici di qualcosa del quale non sono a conoscenza.
È importante sottolineare che i primati sono in grado di mettere in atto un comportamento del genere perché grazie
al sistema di lettura della mente riescono a valutare ciò che gli altri sanno e sulla base di ciò stabilire se l'acquisizione
di una nuova conoscenza può essere loro utile. Sono stati classificati come intenzionali anche alcuni segnali vocali
detti “travel hoots”, prodotti da scimpanzé allo stato di natura in contesti di spostamento. La produzione di tali
segnali è infatti conforme a tre dei principali criteri comportamentali richiesti per classificare un segnale come
intenzionale: il controllo dell’audience, l'attesa della risposta e la persistenza del segnale.
Nelle osservazioni sul campo è emerso che tali segnali sono stati utilizzati per dare avvio agli spostamenti nella loro
produzione era finalizzata al reclutamento di alleati, cioè individui impegnati fino a quel momento in altre attività
che in seguito all’ascolto del segnale si univano al comunicatore per dare avvio ho uno spostamento di gruppo. In
situazioni di questo tipo, i ricercatori hanno osservato nel segnalatore anche comportamenti di attesa e di
monitoraggio. Generalmente i comportamenti di attesa erano una conseguenza di un reclutamento non andato a buon
fine caso in cui lo scimpanzè ripeteva più volte il segnale; il punto rilevante è anche qui che è la produzione dei
segnali comunicativi è subordinata a una qualche valutazione degli stati psicologici degli altri individui resa
possibile dal sistema della lettura della mente.
Le ricerche presentate quindi da quando nel complesso a favore dell’idea che una proprietà importante del linguaggio
umano, l’intenzionalità, sia rintracciabile anche nei sistemi comunicativi gestuali e vocali delle grandi scimmie.
L’utilizzo di gesti e vocalizzazioni per i primati non dipende da caratteristiche del codice espressivo in sé ma dai
piani cognitivi, nello specifico il mind-reading, che permettono di utilizzare il codice espressivo in modo
flessibilmente intenzionale e che garantiscono un piano di continuità tra comunicazione animale e linguaggio
umano.
3.3.3 ORIGINI DELLA COMUNICAZIONE OSTENSIVA
Pur riconoscendo l’intenzionalità e la flessibilità alla comunicazione delle grandi scimmie, questa è comunque
interpretabile nei termini del modello del codice, vale a dire in termini associazionistici. Infatti la comunicazione
delle grandi scimmie può essere considerata un sistema reso possibile da meccanismi di associazione, e reso
espressivamente più potente dalle abilità metapsicologiche, le quali permettono al codice naturale di essere
utilizzato in maniera flessibile. Nel linguaggio umano avviene esattamente l'opposto, in quanto esso è reso
possibile da meccanismi metapsicologici e potenziato da meccanismi associazionistici.
Il motivo per cui Scott-Phillips (che sostiene questa teoria) assume una posizione discontinuista dipende dal fatto
che la comunicazione delle grandi scimmie a suo avviso sia intenzionale ma non ostensiva. La comunicazione
umana si definisce ostensiva in quanto caratterizzabile nei termini dell'espressione e del riconoscimento di
intenzioni comunicative, quindi si definisce tale in quanto comunicazione intenzionalmente manifesta.
Sulla base di tale definizione si sostiene che solo la comunicazione umana possa essere caratterizzata in termini
ostensivi, in quanto ciò richiede un mind-reading ricorsivo epistemico che le grandi scimmie non possiedono. Inoltre
viene sottolineato che al momento non esistono studi sperimentali che provino in modo conclusivo che le grandi
scimmie sono in grado di maneggiare i quattro aspetti della comunicazione ostensiva (espressione e
riconoscimento dell’intenzione informativa, espressione e riconoscimento dell’intenzione comunicativa).

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La prospettiva di Scott-Philips è stata messa in discussione da Moore, il quale sostiene a che non ci sono ragioni per
dubitare del fatto che la comunicazione di gestuale delle grandi scimmie sia ostensiva in quanto i criteri
minimali generalmente utilizzati per attestare nei bambini molto piccoli tale presenza sono rintracciabili anche
nella comunicazione delle grandi scimmie, e uno fra questi è la presenza di contatto visivo con un interlocutore
sia prima che durante la produzione del segnale.
Uno studio condotto nel 2001 ha mostrato che scimpanzé in cattività producevano gesti comunicativi ed espressioni
facciali prevalentemente quando lo sperimentatore era rivolto verso di loro piuttosto che quando gli dava le spalle.
In maniera analoga una ricerca del 2003 ha evidenziato che gli scimpanzè modificavano la posizione di produzione
dei loro gesti in base all’orientamento assunto dall’interlocutore badando a compierli in punti in cui potevo essere
visibili agli altri; ciò sembra dimostrare che le scimmie comprendono che un gesto funziona se viene prodotto
lungo la linea di direzione dello sguardo del destinatario e poiché l'atto di muoversi intenzionalmente lungo
tale direzione può essere considerato una forma di sollecitazione dell’attenzione, è possibile che gli scimpanzè
rivolgano loro gesti agli interlocutori in modi che sembrano giustificare l'attribuzione di un intenzione
comunicativa.
Nonostante non sia effettiva una difficoltà per il modello, la possibilità di interpretare la comunicazione dei
primati non umani attraverso lo strumentario concettuale della teoria della pertinenza rende la teoria
ostensivo-inferenziale estremamente plausibile da un punto di vista evoluzionistico ed è proprio tale plausibilità
a costituire un presupposto irrinunciabile per tutti i ricercatori tutt’ora impegnati a studiare il linguaggio all’interno
di una prospettiva naturalistica.
3.4 CONCLUSIONI
Nei primi due capitoli abbiamo circoscritto in analisi alla discussione del dibattito relativo all’evoluzione del mezzo
espressivo utilizzato negli scambi comunicativi: tale dibattito si è concentrato da un lato nell’ipotesi che identifica
il linguaggio con la verbalizzazione e ricostruisce l'evoluzione delle facoltà linguistiche a partire dalla capacità
articolatoria responsabile della produzione dei suoni, dall'altro è stato proposto un modello che assume una
concezione più ampia del linguaggio rintracciando l'origine delle capacità linguistiche nella gestualità. Ad oggi è
necessaria l'integrazione di queste due opzioni interpretative all’interno di un modello multimodale il quale
restituisce un’idea del linguaggio come fenomeno complesso e sfaccettato reso possibile da un mosaico di capacità
ognuna delle quali è frutto di una storia evolutiva differenziale.
In questo ultimo capitolo è stato invece affrontato il dibattito sul sistema cognitivo alla base dell'espressività del
linguaggio, il quale si basa sull'attribuzione di un significato senza il quale le parole e i gesti sarebbero destinati a
rimanere puri suoni e movimenti. Aderendo al modello pragmatico della teoria della pertinenza, abbiamo mostrato
il ruolo di primo piano nell’elaborazione linguistica giocato dal sistema di lettura della mente, sistema presente in
vario grado anche nelle moderne grandi scimmie e fondamentale per dar conto del passaggio della comunicazione
animale al linguaggio umano.
Fondare l'avvento del linguaggio nelle capacità cognitive e comunicative degli animali a noi più prossimi e degli
uomini istinti a un doppio vantaggio: da una parte apre la strada a un modello interpretativo in grado di tenere
insieme sia gli elementi di continuità quanto i caratteri di specificità del linguaggio umano, dall’altra permette
di spiegare l'origine e l'evoluzione del linguaggio nel pieno rispetto dei principi darwiniani del gradualismo e del
continuismo, dando corpo a una concezione naturalisticamente fondata del linguaggio umano.

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