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Fondamenti di psicologia della comunicazione

CAPITOLO 1 – LA COMUNICAZIONE UMANA

1 – La comunicazione come attività complessa

La comunicazione è un’attività eminentemente sociale infatti essa avviene soltanto


all’interno di gruppi o comunità. Socialità e comunicazione sono due dimensioni
separate ma intrinsecamente interdipendenti.

La comunicazione è partecipazione in quanto sottende l’accordo su significati condivisi


e negoziati all’interno di un gruppo o comunità, pertanto essa ha una matrice
culturale e una natura convenzionale.

La comunicazione è un’attività eminentemente cognitiva in quanto vi è una stretta


interdipendenza tra pensiero e comunicazione.

La comunicazione è strettamente connessa all’azione in quanto comunicare è sempre


fare qualcosa. In questa prospettiva la comunicazione non è disgiunta dalla
discomunicazione (comunicazione menzognera, ironica, seduttiva ecc.) in quanto
esiste un continuum tra esse

2 – L’approccio matematico: comunicazione come trasmissione di


informazioni.

Definizione di INFORMAZIONE: E’ la differenza tra due o più elementi (o dati), quindi


non è intesa come notizia o conoscenza in sè. Questa nozione è alla base
dell’informatica e della cibernetica.

Approccio matematico della comunicazione (Shannon e Weaver): Comunicazione


come comportamento spiegabile secondo logica S-R. Seguendo tale modello la
comunicazione è intesa come trasmissione di informazioni.

Questo modello è stato arricchito successivamente dalla nozione di feedback col


quale si intende la quantità di informazione che dal ricevente ritorna all’emittente.
Feedback positivo: aumenta l’informazione d’ingresso.
Feedback negativo: riduce l’informazione d’ingresso per mantenere stabilità nel
sistema comunicativo (omeostasi).

Rumore: Insieme degli elementi ambientali (e non) che interferiscono con la


trasmissione del segnale. Il rapporto segnale/rumore deve essere superiore a zero
affinchè vi sia una probabilità che il destinatario riceva il segnale.

Filtro: Altro concetto importante che indica il processo di selezione di alcuni aspetti e
proprietà del segnale rispetto ad altri nell’operazione di decodifica.

3- L’approccio semiotico: comunicazione come significazione e come segno.

La semiotica (o semiologia) studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale.
Significazione: E’ il processo attraverso cui vengono prodotti i significati. Tale
proceso fa riferimento, da un lato, al referente ( oggetti ed eventi su cui comunicare)
e dall’altro a un codice (sistemi impiegati dai attori per comunicare fra loro).

Diagramma della significazione (Ogden e Richards): esso mette in relazione tre


aspetti differenti:
SIMBOLO: per esempio il termine linguistico.
REFERENTE: l’oggetto o evento che è
comunicato.
REFERENZA: la rappresentazione mentale di tale oggeto o evento.

Il simbolo non ha alcun rapporto con la realtà (referente) ma solo con il concetto o
idea mentale (referenza). La convinzione che vi sia un legame diretto tra segno e
referente è definito da Eco fallacia referenziale.

Segno come equivalenza.

De Saussure e prospettiva strutturale: in questa prospettiva il segno è inteso come


unione di SIGNIFICANTE o espressione e SIGNIFICATO o contenuto. Il segno è
dunque inteso in termini di equivalenza in quanto vi sarebbe una corrispondenza
stabile tra espressione e contenuto.

La lingua è dunque un sistema di segni che De Saussure definisce come “un sistema
di differenze di suoni combinati a un insieme di differenze di significati”

Hjelmslev approfondisce ulteriormente la concezione strutturale di De Saussure con


la glossematica. Secondo tale prospettiva ogni segno pone in correlazione il piano
dell’espressione (E) e il piano del contenuto e entrambi oppongono – al loro livello –
sostanza e forma. La lingua è forma non sostanza, poichè la sostanza determina la
forma e non viceversa.

Segno come inferenza.

Peirce (1868; 1894): il segno è “qualcosa che per qualcuno sta al posto di
qualcos’altro, sotto qualche rispettto o capacità”. Sulla base del rapporto col referente
Peirce individua tre tipi di segni:

similarità tra segno e referente (icona)


contiguità fisica tra segno e referente (indice)
convenzionalità tra segno e referente
(simbolo)

In questa prospettiva il segno è inteso come inferenza poichè costituisce un indizio da


cui trarre una conseguenza. Importanza del contesto per spiegare la variabilità e la
plasticità nell’uso dei segni.

4 - L’approccio pragmatico: comunicazione come interazione tra testo e


contesto.
Morris (1938). Distinzione tra:
semantica: significati dei segni
sintassi: regole formali tra isegni
pragmatica: relazione tra i segni e gli attori che li usano
La pragmatica studia l’uso dei significati e i rapporti che intercorrono tra testo e
contesto. Studio dei processi impliciti della comunicazione e delle deissi (riferimenti
espliciti che il testo fa al contesto).

La Teoria degli atti linguistici.

Austin (1962). “Dire qualcosa è anche fare sempre qualcosa”. Quando parliamo
compiamo simultaneamente tre azioni:

Atti locutori: - atti di dire qualcosa - sono FONETICI (emissione sonora), FATICI
(espressione di certe parole o enunciati) e RETICI (impiego di tali aspetti con un
senso o riferimento determinato).
Atti illocutori: - atti nel dire qualcosa – si compiono nel parlare ed esprimono le
intenzioni comunicative.
Atti perlocutori: - atti con il dire qualcosa – produzione di determinati effetti anche
persuasivi sulle credenze, sentimenti e comportamenti dell’interlocutore.

Forza illocutoria: il modo in cui viene interpretato un enunciato e l’effetto che esso
produce sull’interlocutore dipendono dalla forza illocutoria.

Atti linguistici diretti e indiretti (Austin): nei primi la forza illocutoria è legata
all’esatto significato letterale dell’enunciato, nei secondi invece la forza illocutoria
deriva non dal significato letterale dell’enunciato bensì dai modi non verbali in cui è
manifestato.

Il principio di Cooperazione e le implicature conversazionali (Grice).

Distinzione tra:
significato naturale: Segni legati naturalmente agli eventi (es.: Fumo  Fuoco)
significato convenzionale (significato n-n): per es. Qualsiasi parola in una qualsiasi
lingua.
Il significato n-n per Grice è il “voler dire” qualcosa da parte di qualcuno a qualcun
altro e ciò non implica soltanto l’intenzionalità informativa ma anche una
intenzionalità comunicativa.

Distinzione tra:
Comunicazione: Scambio tra A e B in cui A intende consapevolmente rendere
consapevole B di qualcosa di cui prima non era consapevole.
Informazione: Scambio tra A e B in cui A involontariamente trasmette un segnale a B il
quale in maniera autonoma lo percepisce.
Principio di Cooperazione: Dai il tuo contributo al momento opportuno, così come è
richiesto dagli scopi e dall’orientamento della conversazione in cui sei impegnato.
Quattro massime che dovrebbero guidare la condotta dei partecipanti:
Massima di quantità: dai un contributo minimo efficace senza eccedere.
Massima di qualità: dai un contributo vero.
Massima di relazione: sii pertinente.
Massima di modo: sii chiaro, evita espressioni ambigue e oscure.

Distinzione tra logica del linguaggio e logica della conversazione e quindi la


distinzione netta tra ciò che è detto e ciò che è significato. Per colmare questa
differenza occorre che i partecipanti facciano ricorso a quella che Grice chiama
implicatura conversazionale. Tale implicatura è un impegno semantico aggiuntivo
che richiede un processo intenzionale di natura inferenziale. Ripartizione del
significato (Grice):

Il principio di pertinenza e il modello ostensivo—inferenziale di


comunicazione (Sperber e Wilson).

Gli autori sottolineano l’importanza della produzione e condivisione del significato. Per
“voler dire” qualcosa con un enunciato X il soggetto S deve avere l’intenzione:

che lenunciazione di X da parte di S produca una certa risposta r nell’ascoltatore A.


Che A riconosca la suddetta intenzione (a) di S.
Che il riconoscimento di tale inenzione da parte di A sia almeno in parte la ragione per
cui produce la risposta r.

Distinzione tra:
intenzione informativa: intenzione di informare il destinatario di qualcosa
intenzione comunicativa:intenzione di informare il destinatario sulla propria
intenzione informativa. Essa rappresenta la condizione necessaria e sufficiente per la
comunicazione.

Concetto dell’ ”Essere manifesto”:


un fatto è manifesto se e solo se il soggetto è in grado di rappresentarsi mentalmente
questo fatto e di accettare tale rappresentazione come vera (o probabilmente vera).

Concetto di “Mutuo ambiente cognitivo”:


Ambiente cognitivo in cui ogni ipotesi è reciprocamente manifesta e che assicura un
sufficiente grado di cooperazione per capirsi e comunicare.

Principio di pertinenza:
Quali di queste ipotesi riceverà la particolare attenzione di un individuo?: ciò dipende
dalla pertinenza di quell’ipotesi in quello specifico contesto. Pertinenza in questa
prospettiva significa elaborare nuove informazioni al più basso costo possibile, è
dunque una competenza.
Concetto di ostensione: è quella condotta che rende manifesta un’intenzione di
rendere manifesto un qualcosa d’altro. Un comportamento ostensivo implica una
garanzia di pertinenza.

Concetto di inferenza: è un processo logico attraverso il quale gli interlocutori


giungono a ritenere vera (o probabilmente vera) una ipotesi sulla base di altre ipotesi
date per vere (o probabilmente vere) in partenza. Tale inferenza è non dimostrativa
in quanto si basa sulle conoscenze a propria disposizione e sui vincoli cognitivi imposti
dal contesto.

Grado di pertinenza:

Sono due le condizioni che deteminano il grado di pertinenza:


una informazione è tanto più pertinente quanto maggiori sono i suoi effetti contestuali.
Una informazione è tanto più pertinente quanto minore è lo sforzo cognitivo richiesto
per elaborarla
La pertinenza riguarda sempre il contesto inteso come: l’insieme delle condizioni
delle opportunità e dei vincoli spaziali, temporali, relazionali, istituzionali e culturali
presenti in un qualsiasi scambio comunicativo.

Perinenza ottimale:
è data dalla capacità degli interlocutori di seguire l’ipotesi che ottimizzaa il contesto
impiegando il minor sforzo cognitivo possibile.

I significati presuntivi. (Levinson)

I significati presuntivi sono le interpretazioni preferite degli enunciati in un dato


scambio comunicativo. Sono interpretazioni predefinite (di default).

Implicatura conversazionale generalizzata:


E’ l’inferenza standard che si realizza usualmente dati un certo contesto e un certo
enunciato. Tale inferenza si basa su tre euristiche:
Quello che non è detto, non c’è.
Quello che è descritto in modo semplice è esemplificato in modo stereotipato.
Quello che è detto in modo inusuale è inusuale, ovvero il messaggio marcato si
riferisce a una situazione marcata.

Da queste euristiche deerivano tre Principi pragmatici:

Principio Q: Fai affermazioni che rispecchino il tuo livello di conoscenza, usa dunque
l’alternativa più forte a livello informativo a meno che la ricchezza delle informazioni
non vadano a contrastare col Principio I.
Principio I: Dai il minimo necessario per raggiungere i tuoi fini comunicativi tenendo
a mente il Principio Q.
Principio M: Segnala una situazione non usuale utilizzando espressioni marcate
diverse da quelle usate per situazioni usuali.
Riassumendo: dai il massimo possibile in termini di informazione, il minimo
indispensabile in termini di comunicazione e marca le comunicazioni inusuali con
espressioni inusuali.

5 - Il punto di vista sociologico: comunicazione come espressione e prodotto


della società.

La sociologia della comunicazione analizza l’azione sociale, l’individuo e l’interazione


sottolineando la prospettiva sociale e istituzionale. Questa prospettiva concepisce la
realtà come “costruzione sociale” abbandonando definitivamente le concezioni
ontologiche di stampo modernista. Questo discorso si riallaccia anche al concetto di
razionalità che è intesa non più come “razionalità a priori” bensì come “razionalità a
posteriori” ovvero come locale e contingente in quanto ricostruzione storica.
Distinzione tra microsociologia e macrosociologia:
La prima si occupa dei processi della vita quotidiana analizzando l’ordine e la
sequenza degli eventi con metodinaturalistici ed etnografici.
La seconda studia i processi generali, collettivi inerenti le istituzioni e le
organizzazioni complesse.

La microsociologia di Goffmann:

Goffman focalizza il suo interesse sulle condizioni dell’organizzazione necessarie alla


comunicazione e alla trasmissione delle informazioni. Egli parla di una “sociologia
delle occasioni” intesa come studio delle circostanze particolari in cui hanno luogo le
esperienze quotidiane ricorrenti. Luogo emblematico dell’interazione è la
conversazione. Esistono secondo l’autore delle regole precise che determinano le
sequenze comunicative. Tali regole sono determinate dal frame vale a dire la cornice
(o contesto) entro cui avviene lo scmbio comunicativo. Il frame consente di
condividere significati e quindi di sapere in ogni momento cosa sta accadendo e quali
siano i comportamenti da seguire in quella particolare situazione. La comunicazione è
regolata da rituali e da strategie di comunicazione.
Adottando una prospettiva drammaturgica Goffmann analizza alcuni aspetti degli
scambi comunicativi quali l’etichetta (codice formale che regola gli incontri) e il
concetto di “salvare la faccia” ovvero quelle modalità comunicative messe in atto per
salvaguardare la propria immagine e per proteggersi da errori e gaffe.

Il concetto di postmoderno e la globalizzazione:

Postmodernismo: prospettiva culturale, postindustriale e antiutopica. Si oppone ai


miti dell’età moderna: ragione, progresso, progresso.

Globailizzazione: in essa sembrano convergere le antinomie della società attuale. Si


presenta come ibridazione in quanto processo di aggregazione e accostamento di
nuove forme culturali (globali) assieme a quelle vecchie (locali).

6 - L’approccio psicologico: comunicazione come gioco di relazioni.


L’approccio psicologico intende la comunicazione come fondamento dell’identità
personale. Secondo Bateson gli individui non solo “si mettono in comunicazione”,
non solo “partecipano alla comunicazinoe” ma “sono in comunicazione” in quanto
attraverso la comunicazione giocano la propria identità.

Distinzione tra:
Notizia: il contenuto della comunicazione
Comando: l’indicazione all’interlocutore su come intendere la comunicazione

Il comando determina l’intenzione comunicativa che sta dietro la notizia e si esprime


con i gesti, col tono della vove, con la postura, con lo sguardo ecc.
La comunicazione non è dunque un processo semplice ma si articola su due livelli:
Comunicazione: i contenuti che si scmbiano
Metacomunicazione: la comunicazione che ha come oggetto la comunicazione
stessa.

La comunicazione è il tessuto che sostiene, mantiene, modifica e rinnova i legami (di


qualsiasi tipo) tra i soggetti.

La comunicazione è la dimensione psicologica che produce e sostiene la definizione di


sè e dell’altro.

La comunicazione è un processo continuo a molti livelli che genera una spirale di


messaggi in cui stimolo, risposta e rinforzo si sovrappongono e si fondono insieme.
Ogni atto comunicativo è infatti risposta a uno stimolo precedente ma anche nuovo
stimolo e rinforzo al modello comunicativo in essere.
Questa caratteristica della comunicazione è spesso alla base di conflitti
interpersonali, proprio perchè nell’atto arbitrario di segmentare la comunicazione è
difficile stabilire quali siano gli stimoli e le risposte e quindi ogni interlocutore (in
conflitto con un altro) percepiosce l’altro come causa di disagio.

Bateson ha compreso l’importanza degli scambi comunicativi nel costruire e regolare


le relazioni interpersonali e ha individuato due modelli di base:

la relazione simmetrica: si fonda sulla percezione dell’eguaglianza dei rapporti tra


partecipanti, in quanto l’atto comunicativo di un partecipante tende a rispecchiare
l’atto comunicativo dell’interlocutore (si può generare così una competizione
comunicativa)
la relazione complementare: si fonda sulla percezione della differenza dei rapporti
tra partecipanti. Generalmente questa relazione è caratterizzata da una posizione
dominante e da una sottomessa.

Non vi è relazione personale senza comunicazione e viceversa. Tale rapporto di


interdipendenza conduce alla creazione di giochi psicologici di varia natura che
riguardano tutte le manifestazioni dell’essere umano (seduzione, guerra, persuasione
ecc.)

7 - Una definizione di comunicazione.


La distinzione tra comunicazione, comportamento e interazione.

Comportamento: qualsiasi azione motoria di un individuo, percepibile in qualche


maniera da un altro.
Comunicazione: Scambio interattivo fra due o più partecipanti, dotato di
intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far
condividere un determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali
di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento.
Interazione: Qualsiasi contatto fisico o virtuale che avvenga fra due individui anche
involontariamente, in grado di modificare lo stato preesistente delle cose fra loro.

Bisogna però fare una ulteriore distinzione ovvero quella tra comunicazione e
informazione. Quest’ultima consiste nell’acquisizione di conoscenze inferite da parte
di B nei confronti di A anche se quest’ultimo non ne è consapevole. Entra in gioco
dunque la competenza di B di estrarre informazioni da A. La comunicazione invece
implica intenzionalità reciproca e un certo livello di consapevolezza.

Le funzioni di base della comunicazione.

Funzione proposizionale: La comunicazione serve ad organizzare, impacchettare e


trasmettere conoscenze fra i partecipanti sotto forma di “proposizioni” ovvero di
forme fruibili dalla comunicazione.

Conoscenza dichiarativa: totalità delle conoscenze disponibili nella memoria a lungo


termine. Essa può essere semantica o episodica.
Conoscenza semantica: Comprende conoscenze generali in cui non vengono esplicitate
le coordinate spazio-temporali.
Conoscenza episodica: Comprende conoscenze riguardandi episodi accaduti in passato
in cui vengono esplicitate le coordinate spazio-temporali.

Bisogna riconoscere la rilevanza del linguaggio per la specie umana in quanto rende
comunicabile il pensiero. Esiste infatti una stretta interdipendenza tra pensiero e
linguaggio.

Composizionalità del linguaggio: Il linguaggio è composto di unità componibili. Il


contenuto semantico di un enunciato dipende sia dalla sua disposizione globale sia dal
valore semantico delle sue unità costituenti. La componibilità non è comunque un
processo arbitrario bensì segue regole precise: a) Sistematicità, ovvero le strutture
sintattiche – b) Produttività, ovvero il linguaggio permette la creazione e la
comprensione di infiniti significati che a loro volta permettono la creazione e
comprensione di infiniti enunciati – c) Possibilità di dislocazione, ovvero la
possibilità di un enunciato di essere riferito a referenze spazio-temporali differenti.

La funzione proposizionale della comunicazione è strettamente legata alla capacità


computazionale della mente, ossia alla disposizione generale della mente di fare
calcoli, confrontare elementi diversi, cogliere le differenze nel rapportarsi con la
realtà.
La proposizionalità della comunicazione è specie-specifica in quanto appare esclusiva
della specie umana.

Funzione relazionale: La rete di relazioni in cui l’individuo è inserito è mediata,


costruita, modificata, negoziata dalla comunicazione.

La funzione relazionale svolge anche una funzione espressiva poichè consente di


manifestare emozioni, desideri, intenzioni.

Efficacia relazionale: dipende dalla stretta connessione tra interazione e relazione le


quali sono concettualmente su due livelli differenti.
Interazione: E’ una realtà tangibile ed è circoscritta spazio-temporalmente e consiste
in uno scambio comportamentale direttamente osservabile fra i partecipanti.
Relazione: E’ invece il prodotto intangibile della storia delle relazioni, in grado di
alimentare credenze, aspettative e vincoli che guideranno le relazioni in corso e quelle
future.

La relazionalità della comunicazione genera l’intersoggettivita dialogica.

CAPITOLO 2 – DALLA COMUNICAZIONE ANIMALE ALLA COMUNICAZIONE


SIMBOLICA

1 - La comunicazione animale come adattamento cognitivo e sociale

Tra antropocentrismo e antropomorfismo

Psicologia evoluzionistica: studia la comunicazione e la mente umana attraverso la


comprensione dei processi che nel corso della filogenesi ne hanno determinato
l’architettura.

I quattro criteri forniti da Tinbergen:


Meccanismi prossimi e specifici sottesi a certi comportamenti emersi come effetto della
pressione selettiva.
Ontogenesi di una determinata condotta e modello di comportamento in termini di
sviluppo individuale.
Funzione adattativa di un comportamento o di una struttura in base ai suoi effetti sulla
sopravvivenza individuale e sulla riproduzione della specie.
Storia filogenetica di un tratto o una attivvità in riferimento ai suoi passati ancestrali.

Antropocentrismo: Enfatizza le differenze e le discontinuità nei diversi sistemi di


comunicazione, considerando la comunicazione umana come un’attività privilegiata in
quanto utilizza il linguaggio che rappresenta la barriera invalicabile tra uomo e
animale ma rischia di non riconoscere agli animali capacità comunicative e cognitive
che in realtà possiedono (Errore di omissione)
Antropomorfismo: Sottolinea le somiglianze nei differenti sistemi di comunicazione
ma rischia di attribuire agli animali competenze comunicative e cognitive tipiche degli
uomini (Errore di falsa attribuzione)

Filogenesi dei sistemi di comunicazione: occorre accertare e riconoscere tanto gli


elementi di continuità filogenetica tanto quelli di discontinuità filogenetica nei
sistemi comunicativi umani ed animali.

Prospettive teoriche.

Teoria evoluzionistica di Darwin (1871): si basa sui concetti della selezione naturale
e della continuità filogenetica.
Etologia tradizionale di Lorenz (1937): comunicazione animale come dispositivo per la
sopravvivenza.
Etologia cognitiva (‘80/’90): I primati non umani sarebbero dotati di una teoria
della mente sia pure rudimentale attraverso la quale sarebbero capaci di “leggere la
mente” (mindreading) e di comprendere gli scopi di un altro organismo.
Ecologia comportamentale (’70): I segnali comunicativi sono destinati perlopiù a
nascondere piuttosto che a manifestare scopi e motivazioni, servono dunque a
manipolarre i destinatari. Vale quindi il principio dell’handicap secondo cui i segnali
“onesti” comportano degli svantaggi per l’emittente.
Approccio differenziale: Avanza l’ipotesi della rottura e della discontinuità
filogenetica fra comunicazione umana ed animale. Il linguaggio è inteso come forma
comunicativa unica ed esclusiva dell’uomo. (Chomsky) Solo l’uomo possiede l’organo
del linguaggio che è frutto di una recente mutazione filogenetica non finalizzata in
gardo di comprendere qualsiasi lingua naturale (ipotesi della grammatica universale).

Piuttosto che aderire pienamente ad una di queste teorie bisogna da un lato rifiutare
ogni ottimismo evoluzionistico (eccesso di darwinismo) dall’altro rifiutare l’ipotesi
della discontinuità fliogenetica. Bisogna dunque riconoscere sia le specificità
comunicative delle singole specie animali in funzione della loro dotazione genetica,
sia le somioglianze comunicative fra le diverse specie.

Conoscenza del mondo fisico e sociale

Capacità cognitive dei primati: Possiedono una precisa mappa mentale del
territorio, riconoscono l’eguaglianza di stimoli orientati in modo diverso (invarianza di
orientazione). Inoltre possiedono ottime capacità di categorizzazione degli oggetti
facendo ricorso a specifici indizi.

Queste capacità cognitive si manifestanonei primati nella costruzione e impiego di


strumenti. Uno strumento è un oggetto separato dal proprio substrato e
opportunamente modificato e usato rispetto alla sua funzione e in grado di modificare
un altro oggetto.

L’impiego di strumenti denota la capacità di manipolare oggetti e soprattutto la


capacità di procedere secondo un piano mentale e di coglere le relazioni causali in
base alle quali
un evento antecedente produce l’evento conseguente. La conoscenza dell’ambiente e
la padronanza cognitiva di esso sono il presupposto essenziale per la comunicazione.
Esistono poi delle specializzazioni adattive tipiche di particolari specie animali
sviluppatesi in funzione della loro nicchia ecologica o habitat.

La conoscenza del mondo sociale.

Presupposto fondamentale per la comunicazione è la conoscenza del mondo sociale di


appartenenza. Creazione di un campo sociale entro cui si definiscono le reti di
interazioni e dei rapporti.

Conoscenza e padronanza del campo sociale.

I primati sanno riconoscere gli individui della propria comunità e sono capaci di
prevedere le azioni che gli altri faranno tenendo conto delle esibizioni ritualizzate
attraverso cui viene manifestato il proprio stato motivazionale. Essi percepiscono la
spontaneità (azioni pianificate in modo discrezionale e variabile in funzione del
contesto) e la direzionalità (azioni regolari e orientate a uno scopo) dei
comportamenti altrui. I primati inoltre conoscono le relazioni tra i vari membri
della comunità per esempio le relazioni di parentela e la relazione di dominanza.
Infine essi comprendono le relazioni fra terzi nelle interazioni con gli altri. In ultimo
sono capaci di comprendere le relazioni fra terzi per esempio nella “aggressione
spostata” ovvero quando un gruppo è vittima di un attacco spesso reagisce colpendo i
piccoli degli aggressori.

In un ambito in cui si sviluppano interazioni cooperative per il cibo e l’attività sessuale


è naturale che si creino coalizioni e alleanze tra i membri di un gruppo.
Significativa è la cooperazione per la competizione che integra la dimensione
verticale (dominanza) e la dimensione orizzontale (affiliazione) della struttura sociale.
Nell’ambito dei conflitti la coalizione può essere reattiva o proattiva. Nel primo caso si
ha per esempio il sostegno degli altri individui al vincitore di una battaglia, nel
secondo caso invece gli altri individui sostengono il soggetto di rango più basso
aggredito dal dominante. Nel corso del tempo frequenti coalizioni generano vere e
proprie alleanze. Coalizioni e alleanze implicano strategie mentali.
La reciprocità riguarda invece l’alternanza di favori in una specifica attività per
esempio praticare il grooming per ottenere grooming, mentre si parla di scambio il
favore in una certa attività è ricompensata da un favore in un’altra attività. Talvolta
queste forme di scambio e reciprocità si trasformano in altruismo reciproco ovvero
una forma di favore che non prevede una contropartita (svantaggioso).

2 - Le principali competenze comunicative dei primati non umani.

I primati non umani sono in grado di scambiarsi precise informazioni su particolari


stati del mondo. Questa comunicazione referenziale (intesa come capacità di
riferirsi ad un oggetto o evento esterno in maniera precisa) implica l’abilità di
formulare il messaggio in modo univoco e di riconoscere se il messaggio è sbagliato o
meno.
La danza delle api.
Attraverso il linguaggio della danza le api bottonatrici sono in grado di acquisire e
codificare informazioni relative alla distanza, direzione e quantità di cibo presente in
un determinato luogo. Sono capaci di utilizzare l’azimut del sole per determinare la
direzione.

Segnali referenziali nelle scimmie.


I cercopitechi emettono segnali di allarme specifici a seconda del pericolo, per
esempio un segnale forte (latrato) indica la presenza di un leopardo, un segnale corto
e secco (tipo tosse) indica la presenza di un’aquila e un seganle acuto e stridulo
(Chutter) indica un serpente pericoloso. I cercopitechi mostrano anche una certa
flessibilità nell’emisione di tali segnali, per esempio emettono un segnale molto simile
a quello per il leopardo in presenza di un leone. Esiste poi un effetto audience,
ovvero i cercopitechi emettono segnali di pericolo solo quando sono presenti altri
compagni. Tali segnali hanno dunque un valore sociale.

La categorizzazione delle informazioni.


La percezione categorica dei segnali
vocali.
Essa si fonda sulla valutazione di eguaglianza tra due suoni (colori, odori ecc.). Tale
percezione rappresenta un prerequisito percettivo e cognitivo per l’aquisizione e l’uso
della comunicazione.

La costruzione di categorie mentali.


Numerose specie animali sono in grado di classificare e ordinare la loro esperienza in
categorie discrete, per poter distinguere il familiare dal nuovo, l’alleato dal
predatore ecc. Secondo Herrnstein tali categorie si formano attraverso un processo a
cinque livelli: a) Discriminazione fra gli stimoli, b) Categorizzazione per routine, c)
Costruzione di categorie indeterminate sulla base di somiglianze percettive, d)
Sviluppo del concetto definito in base a caratteristiche distintive, e) Relazioni astratte
attraverso cui si mettono in connessione due o più concetti tra loro.

La comunicazione intenzionale.
Una comunicazione intenzionale implica l’orientamento a uno scopo del segnale
dell’emittente e un certo grado di flessibilità nei mezzi espressivi per raggiungerlo.
Per cui il medesimo segnale verrà usato in modo diverso (flessibile) per raggiungere il
medesimo scopo o anche per scopi diversi.

La comunicazione attraverso i gesti.


I gesti riguardano i comportamenti facciali, manuali e posturali. Negli scimpanzè i
gesti servono a regolare le interazioni, ad attirare l’attenzione su un determinato
evento/oggetto o anche per cominciare un’attività di gioco. Hanno di solito natura
diadica cioè sono limitati ai soli emittente e ricevente.

La comunicazione intenzionale attraverso le vocalizzazioni.


Nelle scimmie reso esistono circa 25-30 vocalizzazioni relative ad un ampio spettro
di situazioni. Anche gli scimpanzè hanno un vastorepertorio di segnali vocali e per
esempio hanno tre diverse vocalizzazioni per la scoperta del cibo: pant-hoot, food-
grunt e cibo-aaa.

La comunicazione simbolica.
I primati non umani sono in grado di apprendere il linguaggio umano? I primi studi
a riguardo furono fallimentari ma ngli anni ’60 i coniugi Gardner utilizzando
l’American Sign Language insegnarono a uno scimpanzè circa 132 parole differenti
inclusi verbi pronomi e nomi. A tali studi ne seguirono altri altrettanto efficaci. In
generale si è osservato che gli scimpanzè allevati in un contesto umano sono in grado
di comprendere e produrre in maniera creativa i simboli linguistici umani. Si è inoltre
notato che a) la comunicazione gestuale di questi scimpanzè è notevolmente
aumentata, b) che l’apprendimento e l’uso dei simboli linguistici può avvenire in
modo naturale.
E’ però necessario ricordare che stiamo parlando dell’apprendimento del lessico,
ovvero di una quantità di simboli decontestualizzati. Quando dal lessico si passa alla
sintassi, ovvero alle regole che determinano l’ordine in cui i simboli devono essere
posizionati, sorgono enormi difficoltà. Per questo motivo possiamo affermare che la
comunicazione dei primati non umani e di altre specie animali è di natura
richiestiva e non dichiarativa. Per cui lo scimpanzè potrà, con la comunicazione,
dare e ricevere, capire ed eseguire ordini, esprimere desideri ma non potrà mai
raccontare i propri pensieri.

3- I primati non umani hanno una “teoria della mente”?

La Teoria della Mente (Theory of Mind – ToM) è nata all’interno della psicologia
evoluzionistica nel 1978 ed è intesa come capacità di “leggere” la mente dei consimili
nonchè di interpretare, spiegare e prevedere i loro comportamenti (Premack e
Woodruff).

La comprensione dello sguardo e dell’attenzione dei consimili.


La comprensione dello sguardo degli altri è importante per elaborare una ToM in
quanto implica:
La capacità di capire lo sguardo come atto mentale di attenzione e interesse verso un
oggetto o evento (vedere come attenzione referenziale).
La capacità di capire lo sguardo come possesso privilegiato di un definito numero di di
conoscenze rispetto a chi non guarda (vedere come atto cognitivo).
La capacità di capire lo sguardo come l’adozione di un punto di vista interno e mentale
sulle cose (vedere come prospettiva epistemica).

Il riconoscimento di sè allo specchio.


Gli scimpanzè rispondono in maniera spontanea e contingente alla presenza di uno
specchio in quanto si rendono conto che i movimenti nello specchio dipendono dai
loro stessi movimenti. L’autoriconoscimento diventa però palese grazie al “test della
macchia”: gli scimpanzè vengono sottoposti ad anestesia generale durante la quale
una parte del loro corpo viene dipinta con una macchia di colore e al loro risveglio,
posti nuovamente di fronte allo specchio, essi si toccano in maniera
significativamente maggiore, rispetto alla situazione precedente, sulla zona colorata.
Vi è dunque una rappresentazione di sè che costituisce il primo passo verso la
consapevolezza di sè.

La condotta e la comunicazione ingannevole.


Per condotta ingannevole si intende una strategia per l’interazione sociale volta a
ottimizzare le risorse disponibili a proprio vantaggio e a discapito degli altri.
Menzogna funzionale:
In un contesto definito e regolare l’animale produce un comportamento prevedibile
tale da suscitare negli altri una certa risposta. A fronte di tale condizione è possibile:
a) produrre lo stesso segnale in un contesto differente per produrre la risposta
desiderata (falsificazione attiva), b) non produrre il medesimo segnale nel
consueto contesto (occultamento di informazione).
Menzogna intenzionale:
La menzogna intenzionale è caratterizzata da comportamenti che inducono
cambiamenti nelle credenze degli altri per cui l’animale produce nel contesto C1 un
segnale S1 che produce un cambiamento nelle credenze e di conseguenza un
comportamento X, dopodichè può produrre il medesimo segnale S1 in un contesto
diverso C2 per ottenere la medesima risposta X (falsificazione attiva) oppure, in
ragione dell’associazione tra S1 e X, può non produrre il segnale S1 sapendo di
nascondere informazioni agli altri (occultamento di informazione).
Menzogna tattica:
E’ caratterizzata dall’intenzione dell’ingannatore di indurre gli altri a interpretare
erroneamente una azione. Esistono tre grandi categorie di menzogna tattica:

Occultamento attivo: occultare intenzionalmente l’espressione del volto o una attività


in cui si è impegnati.
Condotta fuorviante: Per esempio emettere un segnale di pace per poi attaccare.
Controinganno: Risposta all’inganno con altre forme di inganno.
La “teoria implicita della mente” nei primati non umani.

Il problema di fondo è capire se i primati non umani abbiano o meno una


rappresentazione secondaria o metarappresentazione, ovvero la capacità di
rappresentarsi mentalmente le rappresentazioni mentali altrui.
I primati non umani sono capaci di scambiarsi informazioni e capaci di mettere in atto
una comunicazione intenzionale. Tali capacità però non presuppongono una teoria
della mente esplicita ma si basano esclusivamente sulla percezione e comprensione
dei comportamenti altrui. Sembra dunque che i primati non umani ragionino sui
comportamenti e non sugli stati mentali altrui. Possiamo parlare dunque di una
teoria implicita della mente in quanto questi animali comprendono gli scopi e
prevedono i comportamenti ma non si chiedono perchè, non si fanno domande sugli
stati mentali degli altri.
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CAPITOLO 3 – COMUNICAZIONE E SIGNIFICATO

1- Il significato di significato.

Il significato è centrale nella comunicazione umana, esso è stato oggetto di numerosi


studi in diverse discipline. Seguono tre grandi indirizzi di studio.

Il significato come referenza oggettiva.

Semantica vero-condizionale.
Primo aspetto fondamentale è la connessione tra significato e realtà, è al centro degli
studi della semantica vero-condizionale. Questi studi nascono all’interno della
filosofia del linguaggio. La semantica vero-condizionale ritiene che il significato di una
parola o frase è dato dal rapporto che esiste tra linguaggio e realtà. Ogni enunciato è
dotato di un valore di verità in quanto esso è affermazione di uno stato di cose che
può essere vero o falso. Le condizioni di verità sono intrinsecamente diverse dalla
verità o falsità di un enunciato. Le condizioni di verità sono di natura linguistica. Il
rapporto tra un’espressione linguistica e il suo referente è stata spiegata attraverso
un rapporto diretto o una relazione mediata. I nomi propri, per es., hanno un
riferimento diretto coi loro referenti. Tuttavia la maggioranza degli studiosi opta per
una relazione mediata fra segno e referente. Frege propose la distinzione tra senso e
riferimento: è possibile fare riferimento alla stessa realtà usando espressioni
diverse, che hanno un senso diverso. Frege però afferma che il senso non è
soggettivo ma costituisce “un terzo ambito” una proprietà intermedia (e oggettiva)
della parola che garantisce l’intersoggettività comune grazie alla quale è possibile la
reciproca comprensione.

Intensione, estensione e mondi possibili.


Il concetto di intensione (Carnap) serve a spiegare le situazioni dei contesti opachi
(non vero-condizionali). Tali contesti sono generati da verbi di atteggiamento
proposizionale tipo credo che p, in essi il valore di verità fa riferimento
all’atteggiamento del parlante. Per superare tale difficoltà Carnap introduce il
concetto di mondo possibile, entro il quale il significato di una frase sia determinato
come intensione. L’estensione di un enunciato è ciò a cui si riferisce.

Limiti della semantica vero-condizionale.


Ci sono dei seri limiti nella semantica vero-condizionale dal punto di vista della
psicologia della comunicazione. Infatti tale prospettiva oggettivistica esclude qualsiasi
aspetto soggettivo e individuale (presupposto dell’indipendenza) ancorandosi in modo
esclusivo al referente, ai suoi valori di verità e al significato come realtà oggettiva e
assoluta indipendente dalla mente dei singoli individui. Siamo di fronte a una
concezione referenzialista e antipsicologica. In realtà sappiamo che è
impossibile individuare criteri oggettivi e assoluti per stabilire quali proprietà della
realtà sono da tenere in considerazione o meno e che la realtà è sempre filtrata e
mediata da un processo di categorizzazione e di conoscenza da parte degli esseri
umani.

Il significato come valore linguistico.

Semantica strutturale (de Saussure).


Il punto di partenza è il concetto di lingua naturale, intesa come sistema di segni e
come totalità in sé organizzata. Questa prospettiva rivendica l’autonomia della
semantica, svincolata da ogni ontologia e psicologia, e quindi appare sia
antireferenzialista (il significato è sganciato dalla realtà) sia antipsicologica (i
significati sono realtà squisitamente linguistiche). Il segno è inteso come unione di
significante e significato. De Saussure introduce la teoria del significato come valore,
ossia la possibilità per ogni parola di essere confrontata e opposta a qualsiasi altra
parola della medesima lingua. Quindi il significato di una parola non è dato in senso
positivo dall’identità reale ma in senso negativo grazie al confronto con tutti gli altri
termini opponibili di un dato sistema linguistico. Il significato nasce dunque dal
sistema di differenze tra una parola e tutte le altre. Si tratta di una concezione
differenziale e posizionale del significato. Il significato, più precisamente, è dato
dalle relazioni sintagmatiche e paradigmatiche che intercorrono tra le parole. Nella
relazione sintagmatica i vari elementi di un enunciato sono collegati tra loro da
un’associazione per contiguità. Un sintagma è un’unione ordinata di più parole
concatenate foneticamente, fonologicamente e sintatticamente. Si tratta di una
relazione in praesentia in quanto tutti gli elementi della relazione sono presenti. Nella
relazione paradigmatica vi è un’associazione per eguaglianza (o somiglianza) in
quanto ogni parola può essere sostituita con un’altra di valore uguale o simile. Si
tratta di una relazione in absentia in quanto solo una delle parole in relazione tra loro
può essere presente nell’enunciato, quindi le parole che hanno una relazione
paradigmatica sono sostituibili l’un l’altra.

Limiti della semantica strutturale.


Vi è un vizio di circolarità nella semantica strutturale. Se i termini linguistici sono
definiti in base ai loro rapporti e rapporti linguistici in base ai termini è chiaro che si
cade in un circolo vizioso. Inoltre la sola differenziazione dei termini non ci conduce al
significato di una parola: sapere che sbuffo è opposto a sbaffo che è contrario di
sbeffo non ci dice nulla sul significato di sbuffo.

Il significato come comprensione dell’esperienza.

Concezioni più attente sia agli aspetti psicologici sia a quelli referenziali sono la
semantica cognitiva (Fillmore) e la semantica dinamica. La semantica è intesa
come teoria della comprensione , infatti secondo questo orientamento il significato
concerne il modo in cui gli individui comprendono ciò che comunicano. Si tratta di
concezioni antioggettiviste in quanto i significati non sono più entità astratte e
universali ma dipendono dall’elaborazione mentale dei parlanti. Il giudizio di verità
viene comunque dopo la comprensione. La semantica cognitiva assume come vincolo
quello della plausibilità psicologica, in quanto parametro per accettare o meno un
determinato modello esplicativo. La semantica cognitiva integra lo studio dei
significati all’analisi dei processi psicologici a essi associati. Il linguaggio è una
funzione e un’attività cognitiva e in quanto tale non è separabile dalle altre funzioni
psicologiche bensì è strettamente interdipendente con esse. Inoltre l’uso dei
significati dipende non solo dalle conoscenze dizionariali ma anche dalle conoscenze
enciclopediche che scaturiscono dall’esperienza e dall’appartenenza a una
determinata cultura. Tali conoscenze molto spesso avvengono semplicemente per
ostensione (mostrare un oggetto per far capire cos’è spesso è meglio che spiegarlo a
parole), altre volte comportano il ricorso all’elaborazione di scripts per la
comprensione di sequenze di azioni e per l’elaborazioni di categorie mentali. Queste
ultime comportano l’impiego di processi di inferenza per interpretare gli indizi presenti
nella realtà.
La semantica cognitiva pone inoltre l’accento sulla stretta relazione tra significati e
concetti, ovvero il significato come manifestazione comunicativa della struttura
concettuale. Nella semantica cognitiva e dinamica si rifiutano forme di soggettivismo
e relativismo e si adotta una concezione realista del significato. Il significato
emerge dunque dalla elaborazione cognitiva e dalla rappresentazione mentale di un
determinato oggetto o evento da parte dell’individuo. E’ dunque una posizione
referenziale in quanto vi è un ancoraggio alla realtà ma non in senso assoluto come
nella semantica vero-condizionale.

2 - Una teoria unificata del significato.

Sono tre gli aspetti enfatizzati dalle teorie fin’ora esposte: la dimensione referenziale,
quella inferenziale e quella differenziale.

- La dimensione referenziale.
Essa sottolinea la necessità di porre un rapporto tra significato e realtà. Il vincolo o
riferimento alla realtà risulta necessario per non cadere nell’assoluto soggettivismo
e relativismo. Tale riferimento tuttavia non va inteso come realtà oggettiva
noumenica e totalmente indipendente dal soggetto, esso invece rimanda al
contenuto dell’esperienza del parlante cioè al modo in cui il parlante ha conosciuto
e percepito la realtà. Il rapporto tra significato e realtà è dunque mediato
dall’esperienza del parlante. Tale esperienza è inoltre influenzata dalla cultura di
appartenenza del parlante, essa è
paragonabile a una lente che ingrandisce, rimpicciolisce o distorce la realtà attraverso
un punto di vista comune che applicato ai fatti reali genera i significati. I significati
sono dunque l’esito di un’attività culturale.

– La dimensione inferenziale.
Essa pone in evidenza l’organizzazione cognitiva dei significati, la quale implica
che i significati rimandano a specifici concetti. I concetti sono costrutti mentali che
servono a definire e categorizzare gli oggetti e gli eventi della realtà. Significati e
concetti non coincidono ma sono interdipendenti. Non sempre un concetto ha il suo
corrispettivo lessicale, oppure può averlo in una lingua e non in un altra per cui
bisogna ricorrere a un giro di parole (scarto lessicale). Talvolta capita l’opposto,
ovvero si conosce il termine ma non il concetto (ignoranza concettuale) per es. il
concetto di numero immaginario a meno che non si sia esperti in matematica è un
termine a cui difficilmente possiamo associare il corrispettivo concetto. Anche nella
polisemia non si ha una relazione biunivoca tra termine e concetto, infatti un verbo
come consumare ha diversi significati che rimandano a diversi concetti (consumare il
patrimonio, consumare il matrimonio, consumare il pranzo ecc.). Sul piano cognitivo
dunque è importante l’inferenza per comprendere i significati di una frase o
discorso, attraverso l’analisi del contesto di uso e l’uso degli indizi che via via
emergono. Le parole in questo senso sono indizi linguistici da cui trarre ipotesi
interpretative.

- La dimensione differenziale.
Il sistema differenziale sottolinea che il sistema linguistico contribuisce a costruire i
significati attraverso i vincoli che le strutture semantiche impongono alle
rappresentazioni mentali che accompagnano l’enunciato. La lingua, in quanto sistema
di comunicazione, è un sistema di differenze attraverso cui è possibile generare
variazioni linguistiche di significato in grado di influenzare la formazione di concetti.

In sintesi il significato è un percorso interpretativo e non semplicemente un dato di


fatto da trasmettere da una mente a un’altre, esso è costruito e modificato
costantemente dai partecipanti.
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4- Componenzialità e prototipicità del significato.

La semantica a tratti.

Per la semantica a tratti il significato di una parola è scomponibile in diversi


componenti più generali di senso. Due sono le condizioni:

a) Il significato è scomponibile in tratti semantici considerati come condizioni


necessarie e sufficienti (CNS).
Il numero dei tratti semantici costituisce un inventario limitato.

La semantica a tratti impiega il metodo componenziale, per cui all’interno delle


differenze fonetiche (differenze a livello sonoro) sono le differenze fonemiche ad
avere valore linguistico. Il fonema svolge dunque una funzione distintiva. Il significato
di una parola è dunque inteso come l’insieme finito di proprietà che fissano e
determinano la sua estensione.

I principi del modello CNS sono:

a) nessun tratto può essere eliminato in quanto ognuno di essi è necessario


b) nessun tratto può essere aggiunto in quanto i tratti semantici sono condizioni
sufficienti.
c) tutti i tratti hanno la medesima rilevanza, sono sullo stesso piano non organizzati
gerarchicamente.
d) il significato di qualsiasi termine presenta confini netti e precisi di natura binaria
(tutto o niente).

Tale modello dunque si presenta come modello binario in cui ogni tratto semantico è
trattato in maniera dicotomica e privativa: la presenza di un tratto implica l’assenza
del tratto opposto. Il modello CNS implica la distinzione netta tra conoscenze
dizionariali costitutive del significato e conoscenze enciclopediche intese come
conoscenze accessorie e secondarie.
In quest’ottica le componenti basilari del significato costituiscono proprietà analitiche,
assolute non soggette a cambiamenti nel tempo. Il significato è dunque univoco,
assoluto e determinato dalle sue componenti costitutive.

-Limiti della semantica a tratti.

I significati hanno confini definiti e sono considerati unità discrete per cui non sono
concepibili sfumature o posizioni intermedie. Inoltre l’ipotesi che il significato sia
costituito da un limitato e chiuso numero di tratti semantici non regge di fronte ad
alcuni aspetti della realtà, per es. se indichiamo come tratto semantico per un cane
l’avere quattro zampe come ci comportiamo di fronte a un cane che ha perso una
zampa? Inoltre risulta impraticabile anche una distinzione netta tra i tratti semantici
necessari e quelli accidentali, per ogni parola esiste una gradualità delle proprietà
semantiche. Anche la netta distinzione tra conoscenze dizionariali e enciclopediche
risulta inconsistente, in quanto sono entrambe costruzioni culturali nate da processi di
convenzionalizzazione comunicativa esistenti in una data società. Dunque i dizionari
non sono separabili dalle enciclopedie anzi sono enciclopedie in formato ridotto. Un
altro fenomeno che mette in crisi il modello CNS è la vaghezza semantica
attraverso cui è possibile classificare un oggetto ora come bicchiere, ora come tazza
oppure come ciotola a seconda dell’uso che se ne fa. La linea di confine tra un
significato e un altro molto spesso è vaga.

La semantica del prototipo.

La semantica del prototipo rimanda al concetto di categoria mentale e al processo di


classificazione.
Il processo di categorizzazione: consiste nella segmentazione del flusso continuo della
realtà e dell’esperienza in categorie (o classi) ed è un vincolo psicologico che rende
possibile il funzionamento mentale degli esseri umani. Consente un notevole
risparmio
di energie cognitive (economia) e consente di organizzare il mondo secondo una serie
di criteri (tassonomia). Le categorie possono essere analizzate secondo due
dimensioni: una verticale, l’altra orizzontale.
La dimensione verticale consente di collegare fra loro diverse categorie attraverso il
processo di inclusione. Quanto più la categoria è inclusiva tanto più alto è il suo livello
di astrazione. Rosch ha individuato tre livelli di inclusione dalla più inclusiva alla meno
inclusiva: il livello sovraordinato (per es. l’arredamento), il livello di base (per es. la
sedia) e il livello subordinato (per es. sedia da cucina, sedia a dondolo ecc.).

La dimensione orizzontale riguarda il modo in cui ogni categoria è organizzata al suo


interno. Fondamentale è il concetto di prototipo inteso come miglior rappresentante
di una data categoria. Esistono due concezioni di prototipo:

Teoria standard del prototipo.


Questi studi considerano il prototipo come migliore esemplare di una data categoria,
quello che al rappresenta meglio. Per esempio nella categoria uccello il passero,
l’aquila o la rondine sono maggiormente rappresentativi di pollo o struzzo. I vari
elementi di una categoria si confrontano fra di loro in base al principio di somiglianza
e analogia, cioè in base alla maggiore o minore somiglianza al prototipo, procedendo
in maniera graduale ovvero dal più somigliante al meno somigliante o viceversa,
attraverso attività logiche di natura inferenziale. Il prototipo presenta un’elevata
stabilità intersoggettiva all’interno di una cultura che non si basa né sulla familiarità
delle esperienze ne sulla frequenza lessicale, per es. il pollo che ha elevata familiarità
ha scarsa rappresentatività nella categoria uccello.

Limiti della teoria standard del prototipo.


In questa teoria si confondono i concetti di rappresentatività e appartenenza alla
categoria. Essi sono infatti due processi distinti. Un conto è la rappresentatività
ovvero possedere il maggior numero di proprietà tipiche di una categoria, un conto è
l’appartenenza a una categoria. L’appartenenza a una categoria va fondata su criteri
più robusti e precisi come il possesso di alcune proprietà essenziali comuni a tutti i
membri della medesima categoria.
Inoltre bisogna separare il concetto di prototipo da quello di struttura categoriale, il
prototipo non rappresenta la struttura categoriale.

Teoria estesa del prototipo.


Più recentemente è stata elaborata una teoria “estesa” del prototipo, che rivede
diverse assunzioni della teoria standard. In primo luogo si passa da un prototipo
inteso come istanza reale a un prototipo inteso come costrutto mentale. In questo
senso il prototipo diventa un insieme di proprietà astratte. Il prototipo diviene la
configurazione degli effetti prototipici, ossia l’insieme delle proprietà che distinguono
una categoria da un’altra. E’ possibile distinguere tra prototipicità della categoria e
tipicità di significato. La prima corrisponde alla maggiore o minore presenza di effetti
prototipici; al seconda rimanda al concetto di valore medio.
Occorre inoltre distinguere tra le proprietà essenziali e le proprietà tipiche. Le prime
sono quelle comuni a tutti i membri di una categoria anche per quelli meno
rappresentativi (per es. il pinguino per la categoria uccello), esse definiscono
l’appartenenza categoriale non in senso positivo (come nel modello CNS) ma in senso
negativo ovvero se un animale non possiede becco e non è oviparo non può
appartenere alla categoria uccello.
Le seconde, le proprietà tipiche, sono intese come proprietà specifiche aggiunte,
soggette a eccezioni e cancellabili. Per es. avere le piume è una proprietà tipica ma
non essenziale in quanto i pinguini sono uccelli ma senza piume, oppure volare (lo
struzzo non vola ed è un uccello). Al pari delle proprietà essenziali, quelle tipiche
sono definite dalla cultura di appartenenza.

Il caso della polisemia e la somiglianza di famiglia.


I termini dotati di polisemia semantica sono quelle parole che hanno significati diversi
lungo dimensioni distinte. Per es. la parola FRESCO significa: a) nuovo, recente,
appena dato (dimensione temporale), b) in condizioni ottimali, incontaminato, puro
(dimensione di stato positivo), c) “non caldo” (dimensione termica). Si nota che
alcune dimensioni sono in parte sovrapponibili per es. a con b, e b con c. La
spiegazione di questo fenomeno sembra essere la somiglianza di famiglia. Per il
concetto di gioco per esempio non esiste un prototipo, né un insieme di proprietà
comuni, ma soltanto somiglianze parziali e locali.

5- Stabilità e instabilità del significato.

Il significato di qualsiasi parola presenta al contempo elementi di stabilità e di


instabilità, ovvero da un lato una certa costanza dall’altro una certa flessibilità o
adattabilità in contesti diversi.

La variabilità e la flessibilità del significato.

I significati di una parola o di un gesto non sono dati una volta e per tutte (come
previsto nel modello CNS) ma la loro elaborazione è il risultato di una elaborazione
eterogenea contingente e dinamica fra due o più persone. Ci sono diversi elementi
che intervengono nella creazione dei significati in un determinato atto comunicativo:
le scelte semiotiche, il genere discorsivo, le convenzioni comunicative, gli scopi dei
parlanti ecc.
Numerosi fenomeni sono implicati in questo processo tra cui:
La cancellabilità dei tratti semantici in quanto essa si basa sulla natura
convenzionale del significato (storicamente e culturalmente definito) per cui è
impossibile determinare le proprietà semantiche per i generi naturali e per gli artefatti.
Confini sfumati e continui. Un enunciato è sfumato quando è dotato di opacità
referenziale, ovvero quando i qualificatori e i quantificatori pongono il significato lungo
un continuum semantico. Per es., una lezione può essere non male, Paola può essere
abbastanza simpatica ecc. Quindi una parola può avere confini sfumati attraverso un
rafforzamento o una diminuzione del valore semantico. In questa prospettiva il
significato consiste in un fuzzy set cioè una classe di unità comunicative con una
gradazione semantica continua.
Vaghezza semantica. Essa entra in gioco quando man mano ci allontaniamo dai
casi standard (o prototipici) per cui il medesimo oggetto può essere alternativamente
definito ora come bicchiere, ora come scodella oppure come ciotola.
Questi fenomeni conducono alla graduabilità semantica, per esempio la parola
morto veicola significati diversi a seconda del contesto di uso e del suo impiego in
espressioni popolari o modi di dire: completamente morto, quasi morto, stanco
morto, morto di sonno, morto stecchito ecc. Queste espressioni definiscono significati
molto diversi fra loro che vanno da uno stato biologico ad una condizione psicologica.
L’importanza del contesto risulta molto evidente nel fenomeno della
risemantizzazione contestuale. In questo caso il parlante può attribuire tratti
semantici a un oggetto che di per sé non li possiede. Per es. posso chiamare sedia un
tavolo, una pila di libri, una cassa ecc, posso dire addirittura: non occupare la mia
sedia. Il tavolo resta tavolo ma in quel particolare contesto funge da sedia ovvero
consente l’azione del “sedersi”. La risemantizzazione pone in evidenza l’estrema
flessibilità dei significati. I fenomeni comunicativi sottesi all’instabilità e variabilità dei
significati fin’ora menzionati sono alla base della plasticità dei significati. Essa
consente ai parlanti di impiegare in modo flessibile i significati a seconda del contesto
e delle intenzioni.

La regolarità dei significati.


Se i fenomeni di instabilità e flessibilità dei significati venissero considerati in maniera
esclusiva, essi condurrebbero certamente ad una prospettiva di incomunicabilità e di
caos comunicativo. In realtà i fenomeni di instabilità semantica sono compensati da
processi di stabilità semantica. Essi sono alla base dell’intellegibilità e
comprensione reciproca fra i parlanti. Il significato di si presume la competenza è
quello condiviso all’interno di una comunità di comunicatori. Si tratta dei significati
presuntivi di Levinson. La stabilità semantica implica una qualche forma di
convenzione tra i parlanti in quanto appartenenti alla medesima cultura di
riferimento. La cultura è un sistema di mediazione che fornisce griglie di categorie, di
simboli e rappresentazioni mentali con cui interpretare il mondo, apprendere e
condividere i processi di significazione. Si tratta di un processo di
convenzionalizzazione. Esso richiede la partecipazione attiva degli interlocutori, la
negoziazione delle regole, delle pratiche, dei valori e dei significati e conduce alla
formazione ed elaborazione di una serie di format comunicativi. Ogni format è dato
da una sequenza strutturata di scambi interattivi che consente di raggiungere insieme
uno scopo, di seguire le medesime procedure e sistemi di regole, nonché di
condividere il significato di ciò che si sta dicendo o facendo. In particolare i format
comunicativi oscillano tra processi di riproduzione e processi di produzione. I
format comunicativi grazie al primo tipo di processi tendono a ripetersi nel tempo in
maniera stereotipata, generando vere e proprie “routine comunicative”, nonché a
stabilire una continuazione con le convenzioni semantiche e comunicative del passato.
Tale ripetizione rende stabili e regolari i significati. La regolarità e stabilità dei
significati si basa sulla regolarità e stabilità dei contesti. Il contesto standard è il
contesto che presenta una elevata regolarità nelle interazioni, negli eventi e negli
scambi comunicativi. Possiamo dire che la regolarità dei contesti è la regolarità dei
significati. Mentre grazie ai processi di produzione, i format comunicativi non sono
totalmente vincolati né determinati dal passato e dalla regolarità dei contesti ma
prevedono e producono variazioni e deviazioni in base agli elementi di novità che ogni
situazione comunicativa potenzialmente racchiude in sé. Tali processi di produzione
richiedono un lavoro di riaggiustamento e negoziazione. Dunque componenti
essenziali del significato sono: regolarità e variazione, che si presuppongono a
vicenda e si completano. In sintesi stabilità e instabilità del significato creano lo
spazio comunicativo dei significati e il loro equilibrio garantisce una comprensione
ottimale tra i comunicanti. Se ci si accosta troppo alla stabilità si cade nel formalismo
e nella rigidità, viceversa se ci si accosta troppo all’instabilità si cade nella confusione,
nella contraddizione e nel caos comunicativo.

6 - Significato, contesto e indessicalità.

L’impostazione teorica fin qui esposta ci consente di superare la concezione additiva


del contesto, ovvero la concezione secondo cui testo e contesto siano due realtà
indipendenti e che il contesto subentri ala testo per completarlo. Testo e contesto in
realtà sono due aspetti del significato che interagiscono fra loro. Non c’è testo senza
contesto (e viceversa).
Il contesto va inteso come l’insieme delle condizioni, delle opportunità e dei vincoli
spaziali, temporali, relazionali, istituzionali e culturali che assieme a un dato testo
genera il significato come unità comunicativa. Il contesto non un a priori oggettivo né
tanto meno un contenitore vuoto, già dato, universale e uguale per tutti, bensì è il
risultato di scelte e negoziazioni fatte dai comunicatori in un data situazione. Il
contesto dipende anche dai numerosi punti di vista che si possono assumere di fronte
a una data situazione (molteplicità contestuale) e dall’ordine gerarchico in cui ogni
contesto particolare è inglobato in un altro più generale (gerarchia contestuale), il
passaggio da un livello contestuale a un altro si chiama slittamento di contesto. Nel
rapporto tra testo e contesto si fa riferimento a tre prospettive:

a) Prospettiva esternalista. Priorità del contesto sul testo. Il contesto è inteso


come matrice del significato.
b) Prospettiva internalista. Priorità del testo sul contesto. La parola vincola
l’applicabilità di taluni contesti, ovvero ogni parola o frase è applicabile ad alcuni
possibili contesti e non ad altri.
c) Prospettiva interazionista. Tale prospettiva è quella in uso nella psicologia della
comunicazione. Testo e contesto sono due entità che si integrano in modo intrinseco
e dinamico. Il significato è la sintesi di un testo e di un contesto. Il significato è il
risultato di una collaborazione fra gli interlocutori nell’uso del linguaggio in un dato
contesto. Il significato emerge dalla partecipazione attiva a uno scambio comunicativo
quindi non è prodotto da principi generali e astratti ma attivato in maniera
contingente nel flusso delle interazioni degli interlocutori, per questo occorre parlare
di gestione locale del significato.
Gli interlocutori possono gestire al meglio il fuoco comunicativo che riguarda il
modo in cui essi orientano il loro interesse e l’attenzione sugli aspetti prominenti di un
certo atto comunicativo. Si tratta di un processo attivo, dinamico e reciproco di
condivisione che fornisce anche una cornice interpretativa di ciò che è detto in una
data circostanza. Particolare importanza ha anche la deissi, costituito da
numerosissime espressioni linguistiche che fanno riferimento diretto alla situazione
comunicativa nel tempo e nello spazio. Il significato delle espressioni deittiche (o
indessicali) può indicare un
referente solo se è definito in modo preciso il contesto in cui ha luogo la frase, per es.
la frase: Fatti trovare qui fra dieci minuti, non può essere compresa se non si
conoscono gli indici spaziali, temporali e contestuali. L’indice è un segno da cui
inferire il significato. L’indessicalità ancora il significato e l’interpretazione di una frase
al suo contesto d’uso.

7 - Significato letterale e significato figurato.

Significato denotativo e significato connotativo.

Per denotazione s’intende l’attribuzione di un significato ovvio (o primario),


convenzionale e neutro a una certa parola o espressione e implica l’insieme delle
proprietà di base di una data categoria semantica. La connotazione è invece
l’attribuzione di un significato associato o secondario a una parola in aggiunta a quello
primario. Per es. le parola piccino, bimbo, pupo, bambino hanno lo stesso significato
denotativo ma differente connotazione. Tuttavia questa distinzione appare superata
considerando ciò che è stato detto fin’ora, ovvero parlare di un significato denotativo
significa ammettere l’esistenza di un significato di base assoluto e oggettivo condiviso
da tutti cosa che risulta impraticabile. In realtà in ogni parola o espressione
coesistono diversi significati connotativi e denotativi interponessi in modo
inestricabile.

Oltre il significato letterale.

Il significato letterale concerne il significato linguistico generato dalla combinazione


delle singole parole presenti in un enunciato ed è il risultato di operazioni
esclusivamente linguistiche. Si tratta del significato primario, semplice e immediato e
rappresenta la base per qualunque interpretazione successiva. Il significato
figurato invece implica l’uso simbolico e traslato del significato letterale
attribuendogli un significato secondario.
Distinzione tra logica del linguaggio e logica della conversazione, la prima si
riferisce ai significati letterali mentre la seconda si riferisce alle regole che le persone
usano per inferire ciò che l’interlocutore intende comunicare e che sono alla base
delle implicature conversazionali.
In realtà il significato letterale non è unicamente il risultato di una decodifica
linguistica ma anch’esso è sottoposto a una interpretazione semantica. La
comprensione del significato figurato è rapida quanto quella del significato letterale.

Il significato metaforico.

Il significato figurato si manifesta attraverso l’uso di una vasta gamma di figure


retoriche (metonimia, sineddoche, iperbole, allegoria, anafora ecc.) e figure
grammaticali (ellissi, pleonasmo, asindeto ecc.). Discorso a sé deve essere fatto per
la metafora per cui si parla di significato metaforico. Tre sono i modelli per
spiegare la metafora:

a) Modello semantico. Metafora intesa come anomalia o deviazione semantica: in


essa vi è un errore denotativo poiché non può significare ciò che afferma
direttamente.
Deve essere operata una correzione che trasformi quest’anomalia attraverso una
parafrasi letterale di senso compiuto.
b) Modello della comparazione. Risale ad Aristotele, esso prevede un confronto
implicito e indiretto tra un primo termine (topic) e un secondo termine (vehicle) sulla
base di una condivisione di determinate proprietà (ground). Es.: Il lavoro è una
prigione dove lavoro è il topic, prigione è il vehicle e le proprietà implicite condivise
(ground) sono costrizione, chiusura in una realtà circoscritta ecc.
c) Modello dell’attribuzione di proprietà. In questo caso al topic vengono
attribuite direttamente qualità del vehicle, per es.: Il mio avvocato è uno squalo.

CAPITOLO 4 – INTENZIONE E COMUNICAZIONE

1- Il concetto di intenzionalità

In linea di principio possiamo affermare che il significato non esiste se non vi è un’intenzione
comunicativa. Il significato infatti non è altro che il collante tra certi contenuti mentali e
l’intenzione di comunicarli. La condotta di una ricerca di senso è guidata dall’intenzionalità.

L’essere umano è naturalmente dotato di intenzionalità. Dennett parla di


atteggiamento intenzionale inteso come predisposizione ad interpretare l’azione di
qualsiasi entità come se fosse pianificata in modo consapevole e intenzionale. Tale
atteggiamento pone le basi per creare la prevedibilità nel corso delle interazioni
umane in quanto siamo addestrati a riconoscere l’intenzionalità altrui anticipandone le
azioni. Quando la comunicazione procede in maniera naturale e automatica vuol dire
che le nostre aspettative sono state confermate (comunicazione per default), ma
molto spesso accade che si verifichino delle rotture o deviazioni che generano
sorpresa o anche allarme che innescano comportamenti di controllo e verifica.
Esistono in generale due modi di intendere l’intenzionalità:

a) Proprietà essenziale della coscienza umana in quanto coscienza di qualcosa


(Brentano). Intenzionalità intesa come direzionalità degli stati mentali verso un
qualche aspetto del mondo fenomenico.

b) Proprietà di un’azione compiuta in modo deliberato, volontario e “di proposito” per


raggiungere un certo scopo. In questo senso si contrappone ad “accidentale”, “non
fatto apposta”.

In entrambi i casi l’intenzionalità è una proprietà di certi stati mentali. In psicologia si


distinguono due tipi di intenzioni:

Intenzione antecedente: intesa come progettazione di un’azione.

b) Intenzione-in-azione: intasa come capacità di intervenire in circostanze impreviste.

Bisogna precisare che tutte le azioni intenzionali prevedono intenzioni-in-azione ma


non necessariamente delle azioni antecedenti, ovvero non necessariamente tutte le
intenzioni sono state pianificate. L’elaborazione dell’intenzionalità richiede uno stato
di
coscienza, ovvero consapevolezza sia della direzionalità che della volontarietà
dell’azione. Il concetto di coscienza presenta diverse accezioni:

a) Consapevolezza percettiva e cognitiva, ovvero delle percezioni e dei pensieri.


b) Consapevolezza metacognitiva e introspettiva, ovvero dei propri processi mentali.
c) Funzione di monitoraggio e di controllo, ovvero condizione di vigilanza focalizzata.

Nei processi comunicativi la coscienza va intesa pragmaticamente, ovvero come un


insieme di proprietà necessarie a far si che uno stato cosciente esista. Essa agisce in
maniera seriale, ovvero un’azione alla volta a differenza dell’inconscio i cui processi
operano contemporaneamente e in parallelo.
Bisogna inoltre fare una distinzione tra intenzione e desiderio: il desiderio è
soddisfatto nel momento in cui si raggiunge il risultato desiderato, in qualunque modo
esso sia raggiunto mentre per soddisfare l’intenzione è sufficiente mettere in atto
quelle azioni necessarie a raggiungere lo scopo. Ancora bisogna distinguere tra
intenzione e scelta: l’intenzione è un sottoinsieme di ciò che uno sceglie, una scelta
può avere diverse conseguenze positive e negative quindi l’effetto indesiderato (ma
previsto) di una scelta consapevole non è comunque oggetto dell’intenzione.
Nello scambio comunicativo tra i partecipanti si attua un gioco reciproco costituito da
una “intenzionalizzazione” del parlante, ovvero la manifestazione di una data
intenzione comunicativa, e da una “re-intenzionalizzazione” ovvero una
interpretazione di questa da parte del destinatario. Occorre dire dunque che in uno
scambio comunicativo non esiste chi conduce e chi è condotto, e che può parlarsi
di comunicazione solo quando vi è intenzionalità: senza la presenza di un
comportamento intenzionale il messaggio è soltanto informativo e non comunicativo.
Vi è dunque una differenza tra il valore comunicativo e il valore informativo di un
messaggio.

2- L’intenzione comunicativa da parte del parlante.

Livelli di intenzione.

Quando produce un atto comunicativo il soggetto ha un’intenzione globale di


comunicare qualcosa a un destinatario. In questo processo comunicativo Grice
distingue tra intenzione informativa, ovvero la semplice trasmissione di un
contenuto, e intenzione comunicativa ovvero la volontà di rendere consapevole il
destinatario di qualcosa di cui prima non era consapevole. Jaszczolt ha inoltre
aggiunto il principio dell’intenzione primaria che consiste nell’intenzione referenziale
ovvero la volontà di far riferimento a determinati aspetti dell’oggetto dello scambio
comunicativo. L’intenzione globale va comunque intesa come intenzione unitaria,
punto di sintesi tra mondo interno (ciò che il soggetto intende dire), mondo esterno
(la realtà a cui si fa riferimento) e il messaggio prodotto (ciò che viene detto
attraverso un sistema di comunicazione).

La graduabilità della intenzione comunicativa.

L’intenzione comunicativa non è un’entità discreta, non è caratterizzata da un


meccanismo del tipo “on-off” ma è una variabile continua ovvero caratterizzata da
gradualità. Parliamo dunque di graduabilità intenzionale. Essa consente di mettere
a fuoco i diversi atti comunicativi. Parlando di graduabilità si può parlare dunque di
forza dell’intenzione. Essa dipende dall’importanza dei contenuti, dalla rilevanza
dell’interlocutore e dalla natura del contesto. La forza dell’intenzione consiste nella
messa a fuoco dell’atto comunicativo e nella precisione e puntualizzazione del
messaggio. Esiste inoltre, all’interno di una comunicazione, una pluralità di intenzioni
incastrate l’una nell’altra regolate da una gerarchia delle intenzioni. Per es. nel
caso della comunicazione menzognera si ha una duplice intenzionalità: una nascosta
e una manifesta, quest’ultima suddivisa in intenzione informativa (l’informazione
falsa) e intenzione di sincerità ovvero il desiderio del parlante di essere creduto. Altro
esempio è il principio “pars pro toto” ovvero il semplicissimo principio per cui
l’uomo non può esprimere pienamente e totalmente tutte le sue intenzioni
comunicative e giocoforza dovrà selezionare solo alcune delle opzioni possibili
tenendo conto, appunto, della gerarchia delle intenzioni. Questa gradualità delle
intenzioni richiede un complesso processo di regia cognitiva ed emotiva, da un lato
ed è soggetto a sfumature, incertezze e ambiguità dall’altro, infatti un solo atto
comunicativo può veicolare diverse intenzioni e l’interpretazione di tali intenzioni può
portare a diversi esiti comunicativi. Tale pluralità comporta inevitabilmente l’opacità
intenzionale poiché l’intenzione comunicativa è limitata, parziale e sfumata.

3- La sintonia semantica e pragmatica

Intenzione comunicativa e attenzione.

La gradualità e l’articolazione dei processi intenzionali consentono al parlante di


manifestare un’intenzione comunicativa unitaria e globale. Contribuisce a tale
unitarietà anche la stretta interdipendenza tra intenzione comunicativa e attenzione.
L’attenzione presiede all’elaborazione delle informazioni attraverso due tipi di
processamento: il processamento automatico e il processamento controllato. Il
primo più rapido coinvolge solo la memoria a breve termine e non richiede risorse
attentive di conseguenza tali processi si svolgono in parallelo e quindi possono
svolgersi più processi contemporaneamente. Il secondo è più lento e richiede
maggiori risorse attentive e si svolge in modo seriale quindi un processo per volta
sotto il diretto controllo del soggetto (attenzione assidua). Il passaggio da un
processamento controllato ad uno automatico avviene attraverso l’acquisizione delle
abitudini. Un esempio di processamento automatico sono i saluti, mentre uno
controllato è la comunicazione menzognera. Questi processi si dispongono lungo un
continuum entro il quale possiamo individuare tre livelli (o categorie):
- Livello 0: Informazione. Ovvero quando il soggetto non ha una specifica
intenzione comunicativa e reagisce in modo automatico a uno stimolo esterno.
- Livello 1: Intenzioni di primo livello. Vi è già comunicazione, queste intenzioni
comprendono sia gli atti stereotipati (quali i saluti) sia gli atti comunicativi abituali e
quotidiani. E’ la comunicazione per default.
- Livello 2: Intenzioni di secondo livello. Ovvero quando il soggetto ha la
consapevolezza di comunicare comunicando. E’ la comunicazione focalizzata, per
esempio la battuta di spirito, la comunicazione ironica, menzognera ecc. In questo
caso
entra in gioco l’attenzione focalizzata assidua.

4 - La generazione del messaggio.

L’intenzione comunicativa è strettamente legata alla generazione del messaggio


che consiste nell’organizzazione e collocazione di un atto comunicativo nel corso di
una interazione fra due o più partecipanti.

Il modello olistico-funzionale di Levelt.

Tale prospettiva identifica e categorizza le diverse unità dell’interazione comunicativa


come entità globali aventi ciascuna la propria funzione. La comunicazione prevede
l’intervento di diverse funzioni quali: la concettualizzazione del messaggio, la sua
formulazione grammaticale e fonetica e la sua articolazione effettiva.
I processi di selezione e monitoraggio delle informazioni e la loro organizzazione
costituiscono il Concettualizzatore. Per elaborare mentalmente un messaggio il
soggetto deve avere accesso alle conoscenze dichiarative (proposizioni che
mettono in relazione due o più elementi o idee) e alle conoscenze procedurali (che
concernono i modi e i procedimenti necessari allo svolgere delle azioni) ovvero la
“conoscenza in azione”. Successivo alla concettualizzazione (rappresentazione
mentale di quanto si intende comunicare) è il messaggio preverbale che è il
risultato di una macro e micropianificazione. Tale messaggio preverbale (che
costituisce l’output del concettualizzatore) diviene, una volta articolato, l’input del
Formulatore. Quest’ultimo traduce la struttura concettuale in struttura linguistica,
attraverso una codifica grammaticale che attraverso una costruzione sintattica del
messaggio ne elabora una struttura di superficie e una codifica fonologica la cui
funzione è quella di individuare il piano fonetico per ogni lemma. Tale piano fonetico
diviene l’input per l’Articolatore che attraverso i muscoli facciali, la respirazione e gli
organi di fonazione produce il discorso. Poiché il parlante è in grado di ascoltare ciò
che dice, egli può compiere un’azione di auto-monitoraggio su quanto sta dicendo.
Il modello di Levelt segue una pianificazione top-down (o prescrittiva)
sottolineando il piano cognitivo sotteso alla generazione del messaggio. Il limite più
importante di questo modello è la scarsa aderenza al contesto, ovvero una
comunicazione intesa come attività decontestualizzata.

- Il modello della gestione locale del messaggio.

In questo modello la gestione di ogni messaggio dipende dalla capacità di gestione


locale dei pensieri e delle condizioni contestuali da parte del parlante in rispondenza
a una data intenzione comunicativa. Qui il contesto diviene molto importante e il
messaggio costituisce il risultato di una scelta di certi pensieri e intenzioni al posto di
altri. Tale scelta è collegata al “fuoco comunicativo” che è un processo attivo di
concentrazione dell’attenzione e dell’interesse del parlante su certi aspetti della realtà
e che produce pertinenza comunicativa. Il messaggio non è frutto di una
pianificazione o un atto unificato e confezionato nella sua interezza ma è un insieme
di pensieri che generano un certo percorso comunicativo entro il quale emerge il
fuoco comunicativo guidato da una specifica intenzione. La differenza nei messaggi
dipende dalle differenze
dei soggetti che hanno diverse intenzioni e dalla varietà dei contesti e delle situazioni
interattive.

5- Intenzioni e strategie comunicative.

La generazione e la pianificazione di un messaggio comporta l’adozione di una


strategia comunicativa. Ogni strategia è la scelta dell’azione comunicativa più
appropriata in una data situazione. In tal senso ogni strategia è contingente in quanto
pone a confronto diverse situazioni precedenti simili e adatta alla situazione la
condotta ritenuta più opportuna. Vi è dunque in ogni strategia un elemento di novità
poiché le strategie non seguono sequenze preordinate o preconfezionate ma si
adattano alle situazioni sempre nuove. La scelta di una strategia implica un processo
di calibrazione comunicativa che consiste in una organizzazione coerente e dinamica
dei molteplici aspetti semantici, sintattici, espressivi, motori e fisici che costituiscono
l’atto comunicativo. Purtroppo l’efficacia di tale processo è verificabile soltanto a
posteriori in quanto solo dopo l’attuazione di una determinata strategia comunicativa
siamo in grado di valutarne gli effetti.

6 - L’intenzione comunicativa da parte dell’interlocutore

Tradizionalmente al destinatario si dava molto poca importanza in quanto veniva


descritto come semplice terminale ricevente del messaggio comunicativo. Tale visione
passiva del destinatario verrà negli anni sensibilmente cambiata.

- Intenzionalismo e trasparenza intenzionale.

Secondo la psicologia del senso comune il significato di un atto comunicativo dipende


dall’intenzione del parlante e compito del destinatario è comprendere l’intenzione
originale del parlante medesimo. Questa concezione è nota come intenzionalismo,
ovvero l’intenzione del parlante pone dei vincoli al suo riconoscimento da parte del
destinatario.
Grice a sua volta introduce il concetto della meaning-intention ovvero lo scambio
comunicativo si spiega attraverso la reciproca consapevolezza tra parlante e
destinatario ovvero A sa che B sa che A sa che B sa (e così via) che A ha
un’intenzione comunicativa. Tale trasparenza intenzionale e l’intenzionalismo
tuttavia non spiegano i meccanismi che sono alla base della produzione di senso nel
corso degli scambi comunicativi.

Dalla reciprocità intenzionale all’attribuzione dell’intenzione.

Grice ha basato l’analisi del significato e della conversazione sulla reciprocità


intenzionale. Lo scambio comunicativo per avere successo deve essere
caratterizzato non solo dalla manifestazione di un’intenzione comunicativa da parte
del parlante ma anche dal suo riconoscimento da parte del destinatario. Questo
concetto mette in luce il fatto che il destinatario è importante quanto il parlante in
uno scambio comunicativo, ma per capire meglio il concetto di reciprocità intenzionale
dobbiamo rifarci all’interazionismo simbolico di Mead. Presupposto per il
riconoscimento dell’intenzione è
l’analogia con il sé, ovvero: ”Egli è come me. Di conseguenza, sono nella situazione di
capire la sua intenzione.” Tuttavia in questo scambio bidirezionale vi è una
suddivisione asimmetrica della responsabilità comunicativa, ovvero il parlante risulta
in un certo senso predominante sul destinatario in quanto conduce una sorta di
“lavoro filologico” che il destinatario deve interpretare. Vi è una dipendenza
semantica rispetto al parlante. L’atto comunicativo presenta una certa opacità
intenzionale, di fronte alla quale il destinatario può commettere errori di
interpretazione sia in eccesso che in difetto. Interpretare un’intenzione è come
“leggere la mente dell’altro”, tale attività è però parziale e limitata in quanto sempre
mediata attraverso indizi e dispositivi comunicativi e ancora essa segue il principio
del “totum ex parte” ovvero attribuire un’intenzione completa e coerente sulla base
di indizi parziali.
Il riconoscimento di un’intenzione è dunque molto diversa dall’interpretazione,
bisogna infatti introdurre il concetto di attribuzione di un’intenzione. Tale processo
è autonomo, attivo, e soggettivo. Si procede dunque dal riconoscimento di
un’intenzione e successivamente alla sua attribuzione. L’attribuzione di un’intenzione
può essere anche volutamente lontana da quella riconosciuta, per raggiungere i
propri scopi.

La pluralità delle interpretazioni dell’intenzione comunicativa.

Il destinatario nell’attribuire un’intenzione ha sempre a disposizione diverse


alternative interpretative fra le quali scegliere, ovvero si troverà di fronte a una
pluralità di interpretazioni. Ricordiamo per es. la distinzione tipica tra “significato
letterale” e “significato autentico” che rimandano a interpretazioni più superficiali o
più profonde. Secondo Bach il destinatario segue il “principio dell’assumere per
garantito” ovvero la tendenza a cogliere il primo senso dell’atto comunicativo che gli
viene in mente e che non è immediatamente contraddetto da un altro significato.
Molto spesso nei giochi comunicativi è necessario andare a fondo nella ricerca della
giusta interpretazione, poiché molto spesso si cade in errore se si segue sempre
l’interpretazione più superficiale. Il significato dunque appartiene all’atto
comunicativo per la sua posizione intermedia fra i partecipanti: esso è frutto
dell’attività congiunta del parlante, che produce l’intenzione comunicativa e del
destinatario che la interpreta.

7 – Inferenza e attribuzione delle intenzioni

Ricordiamo che i segni comunicativi hanno valore di indizio per cui nel processo di
attribuzione di un’intenzione il destinatario deve necessariamente mettere in atto
processi di inferenza. Si tratta dunque di una conoscenza inferenziale in quanto
basata su ipotesi formulate sul significato del messaggio. Parliamo dunque di
inferenza intesa come forma di ragionamento. Il destinatario inoltre fa riferimento ad
una serie di modelli mentali, ovvero rappresentazioni mentali di situazioni reali,
ipotetiche o immaginarie.

L’inferenza non dimostrativa nell’attribuzione delle intenzioni

Nell’ambito del processo di attribuzione di un’intenzione Sperber e Wilson hanno


introdotto il concetto di inferenza non dimostrativa. L’inferenza dimostrativa
consiste nell’applicare un insieme di regole deduttiva a un insieme di premesse di
partenza. Ma nell’attività di attribuzione di un’informazione un’ipotesi può essere
confermata ma non deduttivamente dimostrata per cui si fa ricorso ad una inferenza
non dimostrativa. Nella comunicazione la forza di un’ipotesi non è nella sua validità
logica ma nella sua plausibilità, efficacia e riuscita. L’inferenza non dimostrativa fa
ricorso a procedimenti logici sia pur non perfetti, per spiegare in modo attendibile e
verosimile ciò che è stato detto dal parlante procedendo secondo le cosiddette regole
di eliminazione. Tra queste regole ricordiamo il modus ponendo ponens e il modus
tollendo ponens. In base a queste regole il destinatario è in grado di fare delle
implicazioni su quanto detto, cioè di inferire più di quanto venga detto.

L’inferenza abduttiva ed euristiche nell’attribuzione delle intenzioni.

Peirce nell’analisi dei dispositivi razionali utilizzati per la comprensione dei messaggi
comunicativi individua tre forme fondamentali di inferenza: deduzione, induzione e
abduzione. Esse combinano in modo differente tre aspetti: una regola, un esempio
particolare (o caso) e il risultato.
- La deduzione: E’ un tipo di inferenza monotonica in cui si passa da una regola
(generalizzazione) a un caso particolare.
- L’induzione: E’ un tipo di inferenza non monotonica in cui si passa da un insieme
di casi particolari a una generalizzazione (regola).
- L’abduzione: E’ un tipo di inferenza non monotonica in cui si procede a ritroso
dagli effetti alle cause nel tentativo di spiegare qualcosa che è già accaduto. In
ambito scientifico si fa ricorso all’induzione ma in ambito comunicativo le persone
ricorrono per lo più all’abduzione ovvero fanno congetture su quanto viene detto. Tale
procedimento non è però esente da rischi infatti l’abduzione è influenzata da processi
di fissazione comunicativa, ovvero una concentrazione attentiva eccessiva su
aspetti parziali della comunicazione assumendo tali aspetti come la totalità del
messaggio. Entrano qui in gioco dei procedimenti logici detti euristiche, ovvero delle
forme semplificate di ragionamento che servono a ridurre la complessità degli
elementi a disposizione per spiegare meglio quanto comunicato. Ricordiamo inoltre il
ragionamento controfattuale che consiste in una simulazione mentale di un
evento per modificarne gli esiti. Sono ragionamenti del tipo SE…ALLORA. Per es. Se
avessi fatto la solita strada, non sarei rimasto bloccato nel traffico. Il pensiero
controfattuale viene usato per esempio dai magistrati per valutare la ricostruzione dei
fatti e per qualificare le intenzioni sul piano giuridico al fine di quantificare le
responsabilità dei soggetti. Tali procedimenti (abduzione, euristiche e ragionamento
controfattuale) messi in atto dal destinatario sono dunque basati su una razionalità
limitata, imperfetta che procede attraverso un’esplorazione locale e progressiva dello
scambio comunicativo.

8 - La sincronia comunicativa.

Nei processi di produzione e attribuzione dell’intenzione comunicativa il parlante e il


destinatario condividono la medesima responsabilità nella gestione della intenzione
comunicativa. La comunicazione consiste infatti essenzialmente in una forma di
partecipazione, poiché essa è il frutto di una collaborazione fra gli interlocutori.
Quando due persone comunicano devono essenzialmente adattare reciprocamente i
propri stili di comunicazione e sincronizzare i tempi stabilendo un ritmo
comunicativo. Siamo di
fronte a fenomeni di coordinazione interattiva e adattamento reciproco. A questo
riguardo possiamo parlare di una proprietà globale e fondamentale della
comunicazione che è la sincronia comunicativa. A tal proposito Giles e Smith
hanno proposto la teoria dell’accomodazione comunicativa (CAT), secondo la
quale gli interlocutori mettono in atto strategie di sintonizzazione e accomodazione
attraverso l’uso di segnali linguistici e non linguistici, i quali possono essere
convergenti o divergenti. Quando vi è convergenza le modalità comunicative dei
partecipanti sono più omogenee mentre se vi è divergenza le differenze diventano
sempre più grandi. Questi concetti risultano cruciali nelle fasi di transizione
relazionale, infatti maggiore è la convergenza maggiori sono le possibilità che una
comunicazione abbia esito positivo, per es. nella seduzione o nel rapporto medico-
paziente.

9 - Le intenzioni collettive.

La comunicazione non è sempre diadica ma può, come sappiamo, coinvolgere molte


persone. In questo caso, in termini di intenzionalità, si parla di intenzioni collettive.
Secondo Searle vi sono essenzialmente due concezioni di intenzione collettiva, una
capitalista e una socialista. La prima consiste nella somma di tutte le intenzioni
presenti, la seconda consiste nella presenza di una coscienza di gruppo. Entrambe
queste concezioni risultano impraticabili, quella capitalista perché additiva e
meccanicistica che esclude il concetto di cooperazione che non è la semplice somma
delle singole intenzioni, quella socialista perché attribuisce una coscienza al gruppo
quando in realtà soltanto il singolo individuo ne è dotato. Sono da evitare dunque
tutte le concezioni riduttive. I gruppi possono avere scopi condivisi e l’intenzione
individuale risulta essere il mezzo attraverso cui raggiungere tale scopo. Ovviamente
vi è una forma di interdipendenza e influenza reciproca fra i partecipanti.

CAPITOLO 5 – LA COMUNICAZIONE NON VERBALE

La comunicazione è un’attività complessa che fa riferimento ad una molteplicità di


sistemi di segnalazione tra cui ricordiamo la comunicazione non verbale (CNV),
detta anche “comunicazione extra-linguistica”. In questo ambito esistono diverse aree
e ciascuna costituisce un campo di ricerca a parte, per es. mimica facciale, i gesti, la
postura, lo sguardo ecc.

Occorre innanzitutto indagare le origini della CNV. Secondo la psicologia ingenua la


CNV è più spontanea e naturale della comunicazione verbale in quanto lascia
trapelare stati d’animo anche contro la volontà ed è universale in quanto frutto
dell’evoluzione filogenetica. A questo riguardo esistono posizioni differenti:
- La concezione innatista e la teoria neuroculturale : La concezione innatista della
CNV fa riferimento alla prospettiva di Darwin secondo cui le espressioni facciali sono
il risultato dell’evoluzione della specie umana e per questo universali. Si tratta di
espressioni che permangono per abitudine ma la cui utilità è ormai svanita ed
esprimono emozioni ancestrali. Nello stesso ambito si è sviluppata la teoria
neuroculturale, secondo cui esiste un “programma nervoso” specifico per ogni
emozione in grado di attivare l’azione coordinata dei muscoli facciali. Tale
“programma nervoso” pur essendo prevalente può essere modificato o “inquinato”
dalle cosiddette
regole di esibizione, si tratta di regole apprese culturalmente e che consistono in:
intensificazione, attenuazione, inibizione e mascheramento delle espressioni. In tal
modo è possibile avere un controllo sulle espressioni facciali.
- La prospettiva culturalista: Secondo la prospettiva culturalista, “ciò che è mostrato
dal volto è scritto nella cultura”. In tal senso la CNV è appresa nel corso dell’infanzia
al pari della lingua e quindi mostra differenze tra cultura e cultura. L’enfasi è posta
sui processi di differenziazione.
- La prospettiva dell’interdipendenza fra natura e cultura : Sia l’innatismo che il
culturalismo sono visioni parziali e unilaterali che tengono conto di un unico punto di
vista. Oggi prende sempre più piede una prospettiva della interdipendenza fra
natura e cultura per spiegare la CNV. Le strutture nervose e i processi
neurofisiologici connessi alla CNV sono organizzati in maniera differente da cultura a
cultura. Tali strutture sono sia il sistema piramidale sia il sistema extrapiramidale,
che agiscono in modo coordinato e sincrono e in tale attività si integrano sia processi
elementari automatici, sia processi volontari e consapevoli. Pertanto la CNV pur
essendo vincolata a processi automatici di base non esula da processi di regolazione
volontaria. Proprio grazie a tale plasticità della CNV è possibile l’apprendimento delle
diverse forme di CNV, attraverso processi di condivisione convenzionale. In tal modo
osserviamo che alcune culture inibiscono la comunicazione emotiva incoraggiando
condotte soppressive per es. in Giappone mentre nelle culture latine è incoraggiata la
comunicazione emotiva.

2 - Rapporto fra comunicazione verbale e comunicazione non verbale.

Quando il destinatario interpreta un atto comunicativo del parlante fa riferimento,


oltre che al codice linguistico, a una serie di sistemi non verbali di significazione
e segnalazione come quello vocale, quello cinesico (movimenti del corpo, degli occhi
e del volto), quello prossemico e quello cronemico. Ogni sistema contribuisce a
definire una porzione di significato che partecipa alla configurazione del significato
finale. Esistono due posizioni antitetiche in merito: a) una che contrappone
dicotomicamente ciò che è linguistico da ciò che non è linguistico, b) un’altra che
prevede processi di integrazione tra i diversi sistemi di segnalazione.

L’ipotesi della contrapposizione fra verbale e non verbale

Si tratta di una impostazione meccanicistica e additiva, in quanto ipotizza una


distinzione dicotomica tra ciò che è linguistico e ciò che è extra-linguistico. Il
significato emerge dalla semplice somma dl verbale con il non verbale. In tale
prospettiva si è molto dibattuto su quanto ciascun elemento incida nella produzione di
significato, da un lato c’è chi sostiene una netta predominanza del verbale sul non
verbale dall’altra chi sostiene il contrario, alimentando notevolmente il concetto che vi
sia contrapposizione tra i due aspetti. Le differenze tra verbale e non verbale sono
state analizzate attraverso tre dimensioni:
Funzione denotativa vs. funzione connotativa: Il verbale avrebbe il compito di
denotare, in quanto il codice linguistico fornisce conoscenze in modo preciso e
definito, mentre il non verbale avrebbe il compito di connotare non avendo funzione
semantica
bensì espressiva. Per cui il verbale fornisce la configurazione semantica della
comunicazione mentre il non verbale fornisce il solo aspetto affettivo. Tale ipotesi
risulta insostenibile in virtù della sintonia semantica (Cap.7).
Arbitrario vs. Motivato: Il segno linguistico è arbitrario in quanto regolato da un
rapporto di semplice contiguità, infatti basterebbe cambiare un semplice fonema e il
significato cambia totalmente (es. lana / luna). Per contro gli elementi della CNV
hanno un valore motivato, ovvero vi è un rapporto di similitudine tra l’unità non
verbale e quanto viene detto.
Digitale vs. Analogico: Il codice linguistico è considerato digitale in quanto i segni
linguistici sono diacritici distintivi e oppositivi per es. tra luna e lana non vi è un
continuum ma una precisa distinzione. La CNV è invece considerata analogica in
quanto suscettibile di variazioni continue (emotive per es.).

Autonomia e interdipendenza semantica fra i sistemi non verbali

La prospettiva tradizionale appare ormai insostenibile poiché non spiega i fenomeni di


composizione e articolazione del significato. Oggi prevale una concezione che rimanda
a una interdipendenza fra i fenomeni verbali e quelli extra-linguistici, ovvero una
visione integrata. Tale integrazione avviene grazie al processo della sintonia
semantica. Tuttavia è bene ricordare che ognuno dei sistemi di segnalazione non
verbale è dotato di una relativa autonomia, in quanto concorre in modo specifico e
distinto a generare il profilo finale del significato. Tale autonomia rimanda al principio
della modularità, poiché ogni sistema rimanda a un “modulo comunicativo”
indipendente. Un modulo comunicativo è un processo di segnalazione dotato di
specificità di dominio (classe di stimoli) e di dissociabilità funzionale (possibili
dissociazioni funzionali specifiche). I contributi provenienti da ciascun sistema
contribuiscono sincronicamente alla produzione del significato insieme alle
caratteristiche contingenti della situazione. Entra in gioco qui l’interdipendenza
semantica che è l’esito della sintonia semantica. Grazie a tale interdipendenza
l’individuo ha la possibilità di attribuire pesi diversi alle singole componenti dell‘atto
comunicativo. Egli può accentuare il valore di una componente rispetto a un’altra
ponendo le condizioni per una focalizzazione di un determinato percorso comunicativo
e per la definizione del fuoco comunicativo. Sintonia e interdipendenza semantica
consentono al parlante di giungere a una attenta calibrazione situazionale, ovvero
alla produzione del “Messaggio giusto al momento giusto”. Interdipendenza e sintonia
semantica, focalizzazione comunicativa e calibrazione situazionale sono alla base
dell’efficacia comunicativa.

3 - Il sistema vocale.

La voce manifesta e trasmette numerose componenti di significato oltre alle parole.


Nell’atto di pronunciare una parola vengono fuori gli elementi segmentali ovvero
quelli linguistici, e gli elementi soprasegmentali ovvero quelli paralinguistici relativi al
tono, al ritmo, all’intensità dell’eloquio. La sintesi degli aspetti verbali e non verbali
della voce costituisce l’atto fonopoietico. Esso fa riferimento al canale vocale-
uditivo e consente la trasmissione e la ricezione di segnali a distanza anche in
assenza di visione, è caratterizzato da rapida evanescenza e assicura un feedback
completo.
La voce intesa come sostanza fonica è composta da una serie di fenomeni e
processi vocali tra cui ricordiamo: a) i riflessi (starnuto, rutto, sbadiglio, ecc.), i
caratterizzatori vocali (riso, piano, singhiozzo) e le vocalizzazioni (uhm, ah, eh); b) le
caratteristiche extra-linguistiche che possono essere organiche (anatomia
dell’apparato fonatorio) e fonetiche (modalità con chi è impiegato l’apparato
fonatorio); c) le caratteristiche paralinguistiche ovvero quelle proprietà acustiche
transitorie che accompagnano la pronuncia e che possono cambiare da
situazione a situazione. Le caratteristiche paralinguistiche sono determinate
da:
Il tono. Esso è dato dalla frequenza fondamentale Fo. Più le corde vocali sono tese
più acuto è il tono, viceversa il tono è più grave.
L’intensità. E’ il volume della voce. E’ connesso all’accento enfatico con cui il
soggetto intende sottolineare un determinato segmento comunicativo di un
enunciato.
3) Il tempo. Esso si differenzia in durata ovvero il tempo impiegato ad esporre un
enunciato, velocità di eloquio ovvero il numero di sillabe al secondo comprese le
pause, velocità di articolazione ovvero in numero di sillabe al secondo escluse le
pause, la pausa intesa come interruzione del parlato che è distinta in pause piene
(con vocalizzazioni uhm…, ehm…) e pause vuote (cioè periodi di silenzio).
Quindi l’atto fonopoietico è composto da:
Una componente vocale verbale: che comprende a) la pronuncia (fonologia), b) il
vocabolario (lessico e semantica), c) la grammatica (morfologia e sintassi), d) il
profilo prosodico (tonìa conclusiva, interrogativa, esclamativa ecc.), e) la prominenza
(rilievo enfatico o accentuazione di un elemento).
Una componente vocale non verbale: che determina la qualità della voce di un
individuo. Essa va intesa come “impronta vocalica” definita da a) fattori biologici
(differenze fra uomo e donna, adulto e bambino ecc.), b) fattori sociali connessi alla
cultura e la regione di provenienza o anche al ruolo professionale, c) fattori di
personalità, connessi a tratti psicologici relativamente permanenti, d) fattori
psicologici transitori collegati ad esperienze emotive o a fenomeni di
discomunicazione quali menzogna, humour, ironia ecc.

La voce delle emozioni.

Passiamo ora allo studio delle proprietà vocali per esprimere le emozioni,
analizzando sia la fase di encoding che quella di decoding.
Fase di encoding. In questa fase vengono esaminati e misurati i correlati acustici
dell’espressione vocale delle emozioni per porre in evidenza come ogni emozione sia
caratterizzata da un preciso e distinto profilo vocale. La collera ad esempio è
caratterizzata da un incremento della Fo, da un aumento dell’intensità della voce,
dalla presenza di pause molto brevi o assenti, da un ritmo elevato. Gli studi
sull’encoding vocale delle emozioni conferma la capacità del sistema vocale di
trasmettere autonomamente precise e distinte informazioni sugli stati affettivi
dell’individuo.
Fase di decoding. Le ricerche sulla fase di decoding concernono la capacità di
riconoscere e inferire le emozioni del parlante prestando attenzione alle sole sue
caratteristiche vocali. Da una rassegna della letteratura emerge un’accuratezza media
nel riconoscimento pari al 60% (che scende al 56% eliminando le scelte corrette
dovute
al caso). Le emozioni più riconoscibili sono quelle negative come collera e paura in
quanto legate alle condizioni di sopravvivenza degli individui.

Il silenzio

Il silenzio in quanto assenza di parola costituisce un modo strategico di comunicare


ed il suo significato varia in relazione al contesto e alle situazioni. Il valore
comunicativo del silenzio è da attribuire alla sua ambiguità in quanto può essere il
segnale di un ottimo rapporto e di comunicazione intensa oppure di una pessima
relazione e di una comunicazione deteriorata. Gli aspetti comunicativi del silenzio
riguardano: 1) i legami affettivi (il silenzio può essere indice di un legame profondo),
2) la funzione di valutazione (il silenzio può indicare approvazione o dissenso), 3) il
processo di rivelazione (il silenzio può manifestare qualcosa o nascondere qualcosa),
4) una funzione di attivazione (il silenzio può indicare una forte concentrazione
mentale o distrazione). Il silenzio è governato da un complesso di standard sociali che
costituiscono le regole del silenzio. In generale il silenzio è associato a situazioni
sociali in cui la relazione fra i partecipanti è incerta, poco conosciuta, vaga o ambigua.
Inoltre il silenzio è associato a quelle situazioni sociali in cui vi è una distribuzione
nota e asimmetrica del potere sociale fra i partecipanti, può infatti essere indice di
superiorità sociale o inferiorità e quindi indicare lo status. Il silenzio inoltre presenta
importanti variazioni culturali, nelle culture occidentali il silenzio viene evitato in
quanto percepito come minaccia, invece in quelle orientali il silenzio è inteso
positivamente come momento di riflessione.

4 - Il sistema cinesico.

Esso comprende i movimenti del corpo, degli occhi e del volto. I nostri
movimenti non sono soltanto strumentali alle esecuzione di un compito o un’azione
ma implicano la produzione e trasmissione di significati.

La mimica facciale.

I movimenti del volto costituiscono un sistema semiotico privilegiato in quanto il


volto è una regione elettiva del corpo per attirare l’attenzione e l’interesse altrui. Essi
possono manifestare stati mentali, emozioni e atteggiamenti.
Ipotesi globale e ipotesi dinamica delle espressioni facciali. Un primo aspetto degno di
nota riguarda i meccanismi sottesi alla produzione delle espressioni facciali. L’ipotesi
globale ritiene che le configurazioni espressive del volto per manifestare i diversi
stati emotivi sono Gestalt unitarie e chiuse, universalmente condivise,
sostanzialmente fisse, di natura discreta, specifiche per ogni emozione e controllate
da definiti e distinti programmi neuromotori innati. In tale visione si distinguono due
livelli di analisi: 1) Livello molecolare, che riguarda i movimenti singoli e distinti dei
muscoli facciali, 2) Livello molare, ovvero la configurazione finale che ne risulta
(Ekman). Ekman e Frisen hanno elaborato il Facial Action Coding System (FACS) in
riferimento al livello molecolare. Con questo sistema hanno individuato un continuum
dei movimenti facciali in 44 unità di azione mediante le quali è possibile analizzare
7000 espressioni facciali nelle loro combinazioni. La teoria neuroculturale di Ekman ha
combinato insieme il
livello molecolare e il livello molare, attribuendo al primo l’azione del programma
nervoso e affidando al secondo le regole di esibizione e modificazione dell’espressione
emotiva. In alternativa a questa visione meccanicistica e additiva è stata proposta
l’ipotesi dinamica per illustrare la genesi delle espressioni facciali. Essa prevede un
processo sequenziale e cumulativo in ogni espressione facciale in quanto risultato
dell’integrazione dinamica degli esiti delle singole fasi di valutazione della situazione
interattiva ed emotiva. Le espressioni facciali costituiscono dunque configurazioni
motorie momentanee, dotate di una notevole flessibilità e variabilità in virtù delle
diverse situazioni e contesti.

Il valore emotivo vs. comunicativo delle espressioni facciali. Nell’ambito della


psicologia delle espressioni facciali sono sorte due prospettive: una emotiva e una
comunicativa. La prospettiva emotiva ritiene che le espressioni facciali hanno
prevalentemente un valore emotivo in quanto sono immediate, spontanee e
involontarie. Vi è isomorfismo tra espressione facciale ed emozione. L’emozione
intesa come categoria e la relativa espressione facciale corrispondono ad una Gestalt
unica, da qui i concetti di invariabilità culturale e universalismo. Secondo Ekman,
sostenitore di tale prospettiva, le espressioni facciali sono un “segnale panculturale
distintivo per ogni emozione”. Una versione più “debole” della prospettiva emotiva è
l’ipotesi dell’universalità minima ovvero l’ipotesi secondo cui esiste un certo
grado di somiglianza tra culture diverse nel riconoscimento delle emozioni senza però
prevedere un sistema di segnalazione innato delle emozioni. In opposizione alla
prospettiva emotiva si pone la prospettiva comunicativa. In questa prospettiva le
espressioni facciali hanno un valore eminentemente comunicativo poiché manifestano
le intenzioni del soggetto il quale manifesta le diverse espressioni a seconda dei
contesti e delle situazioni. Le espressioni facciali hanno valore sociale in quanto
attraverso di esse i soggetti comunicano i loro obbiettivi e il fatto che tali espressioni
permangano anche quando si è da soli è spiegato con il concetto della socialità
implicita. Questa prospettiva pone una distinzione tra le espressioni facciali e stati
interni in quanto non tutto ciò che appare sul volto è manifestazione di stati interni,
inoltre ogni stato interno può essere espresso in modi differenti. Scompaiono dunque
espressioni come “espressione autentica” ed “espressione falsa” in quanto ogni
espressione è “messaggio”. Il contesto assume una notevole importanza in questa
prospettiva, infatti un’espressione facciale estrapolata dal suo contesto può risultare
molto difficile da interpretare. La prospettiva comunicativa però non si contrappone in
maniera imprescindibile dalla prospettiva emotiva anzi il dibattito attuale propone
un’integrazione di quest’ultima nella prima.
Il sorriso. Il sorriso è uno dei segnali fondamentali della specie umana. Esso è simile
filogeneticamente al “mostrare i denti in silenzio” delle scimmie come atto di
sottomissione per acquietare e rasserenare il partner. Ekman e Frisen hanno
individuato diciannove configurazioni diverse di sorriso tra cui ricordiamo il sorriso
spontaneo (sorriso di Duchenne) in cui sono coinvolti tutti i muscoli facciali e vengono
mostrati i denti, o il sorriso simulato (sorriso non-Duchenne) che coinvolge solo i
muscoli zigomatici senza una partecipazione completa del volto. Studiosi come
Darwin ed Ekman ritengono che il sorriso sia associato ad una esperienza di gioia o
felicita, ciò però non sembra corretto in quanto non sempre tali emozioni si
esprimono con il sorriso ovvero non c’è un legame necessario tra sorriso e d
emozioni. Il sorriso è invece connesso all’interazione sociale in quanto promotore
dell’affinità relazionale e
regolatore dei rapporti sociali.
- Lo sguardo. Al pari del sorriso lo sguardo rappresenta un potente segnale
comunicativo a livello non verbale. L’occhio è una struttura nervosa molto complessa
infatti sei dei dodici nervi cranici sono coinvolti nell’attività oculare. Inoltre i muscoli
extraoculari sono i più innervati dell’organismo. La percezione visiva di un altro
individuo è basilare per la sopravvivenza individuale e della specie. In particolare il
contatto oculare (o sguardo reciproco) aumenta l’attivazione nervosa in molte specie,
compresa quella umana.
Sguardo e conversazione. Nelle culture occidentali, durante la conversazione
quotidiana, lo sguardo occupa una posizione preponderante e serve a catturare
l’attenzione e l’interesse dell’interlocutore e a inviare e ricevere informazioni. Lo
sguardo è un segnale efficace per gestire la regolazione dei turni. Lo sguardo funge
da segnale di appello col quale si mostra la propria disponibilità a iniziare
un’interazione. Nell’ambito della regolazione dei turni lo sguardo svolge una funzione
di sincronizzazione (per evitare sovrapposizioni nell’avvicendamento dei turni), di
monitoraggio (come dispositivo di controllo dell’interazione) e di segnalazione (mezzo
con cui manifestare le proprie intenzioni).
Lo sguardo e la gestione dell’immagine personale. L’uso dello sguardo è inoltre
strettamente legato alla determinazione di una propria immagine personale. Esso
dimostra maggiore competenza, intelligenza, credibilità infatti si ha la convinzione
(erronea) che chi guarda negli occhi non dica menzogne. Lo sguardo inoltre regola i
rapporti di vicinanza e distanza nella gestione dell’intimità. Con lo sguardo possiamo
cercare e ottenere consenso al proprio punto di vista in una conversazione. Anche le
emozioni influiscono sullo sguardo nel senso che le emozioni positive incrementano i
contatti oculari mentre quelle negative provocano un abbassamento dello sguardo.
La fissazione oculare. La fissazione oculare è un sguardo prolungato fra due
persone che non può essere ignorato. Esso può avere valore diverso a seconda delle
situazioni e dei contesti. Può essere percepito infatti come minaccia di pericolo da cui
l’avvertenza popolare di non guardare in faccia agli estranei oppure nell’ambito della
seduzione come “colpo di fulmine” o “amore a prima
vista”. I gesti. I gesti, a differenza degli altri movimenti, sono azioni motorie
coordinate e circoscritte, volte a generare un significato e a raggiungere uno scopo. E’
opportuno procedere a una classificazione dei gesti anche allo stato attuale non c’è
una categorizzazione condivisa tra gli studiosi.

Tipologia dei gesti:


Gesticolazione (gesti iconici o lessicali). Tali gesti sono definiti anche
“illustratori” in quanto accompagnano il discorso. Possono essere “iconici” quando si
riferiscono a realtà concrete o “metaforici” quando si riferiscono a concetti astratti. I
questa categoria rientrano i gesti regolatori che servono alla sincronizzazione degli
scambi nel corso della conversazione. Tutti questi gesti sono poco o per nulla
convenzionalizzati in quanto ogni individuo tende a realizzare la propria serie
idiosincratica di gesti.
Pantomima. Sono i gesti che costituiscono l’imitazione o rappresentazione motoria di
un’azione, di una scena o di una situazione.
Emblemi (gesti simbolici). Sono gesti notevolmente convenzionalizzati come il
segnale OK. Sono gesti solitamente compiuti a distanza e in assenza di linguaggio.
d) Gesti deittici. Sono movimenti di norma compiuti con l’indice per indicare un
certo oggetto, una direzione o un evento a distanza. Anch’essi sono notevolmente
convenzionalizzati.
e) Gesti motori (o percussioni). Sono movimenti semplici, ripetuti in successione e
ritmici (per es. il tamburellare con le dita) che possono o meno accompagnare il
discorso. Possono essere gesti di auto-contatto o di auto-manipolazione e anche se
molto diffusi sono poco convenzionalizzati.
f)Linguaggio dei segni. E’ il linguaggio utilizzato dai sordomuti e ha le proprietà di
un linguaggio vero e proprio in termini di arbitrarietà nella relazione fra segno e
referente. E’ pienamente convenzionalizzato all’interno della comunità dei partecipanti
ed è interessante notare che ogni linguaggio dei segni presenta variazioni dialettali in
funzione delle comunità locali.

Gesti e parole. I gesti contribuiscono in maniera attiva alla precisazione del significato
di un enunciato. Essi costituiscono un modo spaziale di rappresentazione simbolica e
integrano il percorso proposizionale del significato attivato dal linguaggio, infatti il
parlante produce gesti anche in assenza dell’interlocutore (per es. al telefono). E’
interessante notare che nell’afasia scompaiono simultaneamente il linguaggio e i gesti
iconici associati. I gesti iconici rendono più preciso e completo un significato in quanto
possono offrire una rappresentazione spaziale di ciò che si sta enunciando o
descrivendo. Inoltre i gesti hanno un valore pragmatico in quanto costituiscono dei
marcatori dell’atteggiamento, possono infatti trasmettere irritazione, perplessità,
disapprovazione di quanto un altro sta dicendo. Gesto e discorso sono generati
simultaneamente dalla stessa rappresentazione di ciò che si comunica, manifestano la
stessa intenzione comunicativa.
Gesti e culture. I gesti, più degli altri sistemi non verbali, presentano notevoli
variazioni culturali. Infatti anche i cenni di dire sì o no col capo non sono universali,
per esempio in Europa settentrionale scuotere il capo in senso verticale vuol dire si e
in senso orizzontale vuol dire no, in Bulgaria accade il contrario oppure in Italia
meridionale un colpo di testa all’indietro vuol dire no.

5 - Il sistema prossemico e aptico.

Il sistema prossemico e il sistema aptico sono sistemi di contatto. La prossemica


concerne la percezione, l’organizzazione e l’uso dello spazio della distanza e del
territorio nei confronti degli altri; l’aptica fa riferimento all’insieme di azioni di
contatto corporeo con gli l’altro.

Prossemica e territorialità.

L’uso dello spazio e della distanza implica un equilibrio instabile tra processi affiliativi
(di avvicinamento) ed esigenze di riservatezza (di distanziamento). Viviamo dunque
cercando il contatto con gli altri quindi la vicinanza spaziale ma allo stesso tempo
abbiamo bisogno di difendere il nostro spazio personale, la nostra privatezza. Questo
equilibrio tra distanza e vicinanza è mediato attraverso la gestione della propria
territorialità. Il territorio è un’area geografica che ha importanti risvolti psicologici.
Esso si distingue in territorio pubblico e territorio domestico. Il primo è regolato da
norme e vicoli ufficiali, il secondo è il territorio in cui l’individuo sente la libertà di
muoversi in maniera regolare e abituale. Il territorio pubblico e quello domestico sono
divisi da confini ben precisi sia fisici che psicologici. Il territorio pubblico può essere
“marcato” attraverso la CNV, quindi attraverso segnali ben precisi. La gestione del
territorio concerne anche la regolazione della distanza spaziale, che è un buon
indicatore della distanza comunicativa tra gli individui. Solitamente distinguiamo tra:

Zona intima: (da 0 a 0,5 metri circa), è la distanza delle relazioni intime, ci si può
toccare e si può sentire l’odore dell’altro.
Zona personale: (da 0,5 a 1 metro circa), è l’area invisibile che circonda
continuamente il nostro corpo, è possibile il contatto ma non è possibile sentire
l’odore dell’altro.
Zona sociale: (da 1 a 3,5/4 metri circa), è la zona dei rapporti meno personali ma
dove l’individuo sente di potersi muovere liberamente come nell’ufficio o nel club degli
amici.
Zona pubblica: (oltre i 4 metri), è la distanza tenuta in situazioni pubbliche.

La distanza ha un alto valore comunicativo in quanto può favorire l’intimità o


comunicare la propria disposizione a relazionarsi o meno con l’altro. Anche la
prossemica presenta notevoli differenze culturali e in generale possiamo distinguere
tra culture della vicinanza e culture della distanza.

L’aptica e il contatto corporeo.

L’aptica concerne le azioni di contatto corporeo nei confronti di altri. Si tratta di un


bisogno fondamentale nella specie umana ma anche in quella di alcune specie
animali. L’attività di grooming nelle scimmie occupa gran parte della giornata e serve
a stabilire rapporti di affiliazione, di dominanza o sottomissione. Il tatto nel bambino
piccolo è il principale veicolo comunicativo sia fisiologico (allattamento) che
psicologico (rassicurazione). Nell’ambito dell’aptica distinguiamo le sequenze di
contatto reciproco, che consistono nella successione di due o più azioni di contatto, e
il contatto individuale che è unidirezionale ed è rivolto da un soggetto a un altro. Per
entrambi i tipi di contatto distinguiamo regioni del corpo “vulnerabili” e “non
vulnerabili”, le prime possono essere toccate solo dagli intimi o dagli specialisti, le
seconde come mani, spalle, braccia possono essere toccate anche dagli estranei.
Toccare gli altri comunque è un atto comunicativo non verbale che influenza la qualità
della relazione tra due individui. Nei rapporti amorosi il contatto corporeo invia
segnali di affetto e di attrazione sessuale, tali atteggiamenti in pubblico comunicano
un segno di legame che individua la coppia che desidera essere lasciata sola. Il
contatto può anche regolare rapporti di dominanza e potere poiché di solito chi
occupa una posizione sociale dominante può toccare chi ritrova in una posizione di
minor potere e non viceversa. In numerose circostanze il contatto è regolato da
rituali, per esempio le congratulazioni nello sport, la stretta di mano in occasioni
convenzionalizzate (religiose o laiche). Il contatto fisico può avere una serie di effetti
contrapposti, in generale la persona che tocca è ritenuta più cordiale, simpatica,
disponibile e estroversa. Esistono però anche per l’aptica notevoli differenze culturali.
Anche in questo caso possiamo distinguere le
culture del contatto (arabe e latine) dalle culture del non contatto (nordiche,
giapponese e indiana).

6 - Il sistema cronemico.

La cronemica concerne il modo in cui gli individui percepiscono e usano il tempo per
organizzare le loro attività e per scandire la propria esperienza. La cronemica fa parte
della cronobiologia ed è influenzata dai ritmi circadiani ovvero quei cicli fisiologici e
psicologici del soggetto nelle 24 ore. Distinguiamo i cicli infradiani (cicli superiori a un
giorno come il ciclo mestruale) e i cicli ultradiani (diversi cicli al giorno come il ritmo
respiratorio). Tali ritmi sono influenzati da agenti sincronizzatori ambientali tra cui il
più importante e il ciclo luce/buio. Ma esistono anche numerosi sincronizzatori
connessi a fattori culturali, per cui possiamo distinguere tra culture veloci e culture
lente. Le prime più tipicamente occidentali sono caratterizzate da clima freddo,
orientamento individualistico teso al successo, progettualità orientata al futuro,
equiparazione tempo/denaro, tendenza a svolgere un’attività alla volta nel minor
tempo possibile. Le seconde invece sono più ancorate al presente e al passato, sono
caratterizzate da clima più caldo, bassa industrializzazione, possibilità di svolgere pi
attività contemporaneamente senza porsi limiti temporali, importanza notevole data
alle pause come occasione di riflessione.

7 - Le funzioni della comunicazione non verbale.

La CNV, come abbiamo già detto, contribuisce in maniera attiva alla produzione del
significato accompagnando il sistema linguistico. Bisogna però precisare i limiti della
CNV. Innanzitutto è necessario sottolineare un aspetto importante ovvero che la
rappresentazione proposizionale appartiene soltanto al sistema linguistico, eccezion
fatta per il linguaggio dei segni. Per cui la CNV può fornire soltanto una
rappresentazione spaziale e motoria della realtà, ciò è dovuto a un grado limitato di
convenzionalizzazione. Infatti esclusi i gesti emblematici, tutti i gesti sono poco o
nulla convenzionalizzati. Dobbiamo chiederci dunque come mai continuiamo ad usare
la CNV. Non può essere spiegata con Darwin che definiva i gesti come “inutili vestigia
di abitudini ancestrali” ma possiamo affermare che la CNV costituisce la componente
relazionale della comunicazione. Infatti la comunicazione non è costituita soltanto da
“che cosa” è comunicato (componente proposizionale) ma anche dal “come” è
comunicato (componente relazionale). Infatti nel comunicare non solo trasmettiamo
consapevolmente informazioni agli altri ma intessiamo con loro relazioni sociali.
Questa dunque è la funzione di base della CNV (metafunzione). Infatti i segnali non
verbali servono a generare e sviluppare un’interazione con gli altri, a mantenere e
rinnovare le relazioni nel corso del tempo, a cambiare una relazione, a estinguere una
relazione. In generale l’efficacia relazionale della CNV dipende dalla stretta
connessione tra interazione e relazione.

La CNV risulta fondamentale sul piano relazionale e interviene in diversi aspetti


psicologici.
La manifestazione delle emozioni e dell’intimità:
Anzitutto al CNV serve a esprimere le emozioni. Infatti se esse fossero affidate
esclusivamente al sistema linguistico non troverebbero modo di manifestarsi.
L’enunciato Ti amo può assumere significati moto diversi tra loro a seconda dei gesti,
delle espressioni facciali e del tono con cui viene detto. L’insieme dei segnali non
verbali fornisce un quadro generale da cui è possibile operare le opportune inferenze
per l’attribuzione di una certa emozione all’interlocutore. I segnali non verbali di
segnalazione e significazione presentano un certo grado di universalità in quanto i
movimenti sottesi ai segni sono governati da strutture e meccanismi neurobiologici
geneticamente definiti, ma anche una notevole variabilità dovuta a differenze
culturali, di personalità e situazionale. I segni non verbali possono essere o meno
sottoposti a un certo controllo, e possono variare da un grado assai ridotto di
controllo a un grado elevato di volontarietà. Nel primo caso si tratta di
esternalizzazione più o meno automatica di quanto il soggetto prova dentro di sé (per
es. trasalire in caso di forte rumore) oppure in altre circostanze, per es. in situazioni
ufficiali, formali e solenni, possiamo governare e gestire i segnali non verbali guidati
da una precisa intenzione per raggiungere un determinato scopo. In modo analogo la
CNV svolge una funzione fondamentale nelle relazioni d’intimità. Quando la distanza
interpersonale si riduce, aumentano la frequenza e l’intensità dei sorrisi, dei contatti
oculari e corporei; si riduce lo spazio prossemico, la voce diventa flessibile, modulata
e calda, aumenta la sincronizzazione degli scambi.
Relazione di potere e persuasione:
Per la specie umana come per quella animale la CNV assume una funzione essenziale
nella definizione, difesa e mantenimento della dominanza. Sono numerosi i segnali
non verbali che stabiliscono rapporti di dominanza e sottomissione. L’abbigliamento,
la postura, lo sguardo: per es. tenere il mento proteso in avanti è un segnale di
dominanza. Chi domina inoltre tiene il turno e interrompe più frequentemente gli altri
per imporre il proprio ritmo di eloquio. Anche la territorialità è un segno non verbale
di potere. Chi è dominante segnala la sua posizione con un uso attento dello spazio in
termini di quantità e qualità. Dispone di uno spazio più ampio e limita notevolmente
l’accesso agli altri. Analogamente il processo di persuasione è influenzato da segnali
non verbali. Chi guarda più l’interlocutore, lo tocca lievemente ogni tanto, veste in
modo appropriato ed elegante, non si tiene a distanza ha maggiori probabilità di
ottenere condiscendenza.

CAPITOLO 6 – DISCORSO E CONVERSAZIONE

Ogni disciplina scientifica è un universo di discorso soggetto a continue riformulazioni.


Ogni sapere scientifico è una pratica discorsiva regolata da specifiche procedure di
produzione di senso o significazione. Curvare l’intero sistema scientifico
nell’orizzonte del discorso significa sottolineare la dinamicità, l’apertura, la
provvisorietà e l’inarrestabilità della ricerca. Parliamo di scienza discorsiva in
contrapposizione alla scienza cognitiva sviluppatasi con l’avvento dell’informatica.
In entrambi i casi gli studiosi sono aperti all’interdisciplinarità, in quanto interessati a
due dimensioni della comunicazione umana decisive quanto rispondenti a logiche
differenti: l’informazione e il significato. Nelle culture occidentali notiamo una
polisemia che assegna al “discorso” il compito di dare consistenza alla razionalità e di
prendersi cura degli eventi, infatti in greco logos significa tanto “parola” quanto
“ragione” e in ebraico parola si dice dabar
che significa anche “evento”. Nel suo senso più ristretto “discorso” significa due cose:
1) Il parlare di qualcuno, ovvero la pratica di costruzione di senso che avviene
negli scambi comunicativi con gli altri (per es. Il Presidente ha tenuto un importante
discorso alla Camera). 2) Un “parlare comune”, ovvero una qualsiasi pratica
semiotica tesa a determinare intenzioni globali proiettate su un unico orizzonte di
riferimento per es. politico, religioso, scientifico ecc. (per es. “discorso di Sinistra”,
“discorso di Destra”, “discorso Positivista” ecc.). Se ci soffermiamo a considerare il
discorso come qualsiasi pratica di produzione di senso ci rendiamo conto che la
società umana è costruita discorsivamente.

La recente “svolta discorsiva” delle scienze umane è in sintonia con le istanze del
postmoderno, orientamento teorico teso a rivedere i fondamenti del sapere umano
ancorato al modernismo meccanicistico. Nella tradizione moderna la psiche è
considerata una “macchina” autosufficiente, dotata di procedure autonome per
rapportarsi al mondo; la psicologia moderna infatti tende ad analizzare
separatamente le singole funzioni della mente come se fossero entità autonome. La
psicologia postmoderna invece studia il funzionamento della mente nei contesti
effettivi di vita quotidiana delle persone. Il modernismo studia il linguaggio come
specchio della mente, della sua organizzazione, delle intenzioni, motivazioni e
sentimenti. Il postmoderno ricorre al termine “discorso” come ragnatela tessuta
autopoieticamente da cui l’uomo trae il senso globale della sua identità e della sua
appartenenza a una comunità socioculturale. Si ha dunque uno slittamento dal
linguaggio specchio della “realtà” al discorso che crea la realtà.

Il postmodernismo mette quindi in discussione l’oggettivismo del modernismo


opponendo, alla realtà come “dato”, una realtà come “costrutto”. La scienza
moderna si è costruita intorno all’oggettivismo che costituisce una “posizione
predefinita”, più che una teoria, che pone la realtà come qualcosa che esiste al di
fuori dell’uomo e che è conoscibile in maniera, appunto, oggettiva. Invece per il
costruzionismo sociale sono le pratiche discorsive che creano l’orizzonte di
riferimento attraverso cui l’uomo definisce ciò che è reale, in parole povere la realtà
emerge dalle pratiche discorsive. Nella sua versione radicale il costruzionismo sociale
sfocia nel relativismo, nel solipsismo e nell’idealismo. Nella versione debole il
sociocostruzionimo rifiuta il relativismo approdando a un “realismo critico” (è possibile
conoscere qualcosa della realtà quale essa è) opposto a un “realismo ingenuo” tipico
del modernismo e del senso comune.

2 – Analisi critica del discorso

Entro l’orizzonte del costruzionismo sociale ha preso forma negli ultimi trent’anni un
orientamento di studio noto come Analisi del Discorso (AD). Si tratta dello studio
della produzione di senso attraverso pratiche discorsive. Pur nella varietà degli
approcci gli studiosi condividono due assunti di base: 1) la natura socio-costruttiva
della conoscenza, 2) il carattere interazionale del significato. Gli studi sulla
discorsività umana cominciano ad avere maggiore salienza nel 1964, ma ci vorranno
altri dieci anni
per vedere i primi risultati essendo all’epoca molto in voga la posizione innatista di
Chomsky. L’opposizione al paradigma di Chomsky produsse due principali direzioni di
ricerca caratterizzabili come Analisi del Discorso: l’una è la linguistica testuale
che sottolinea l’aspetto Gestaltico del parlare, l’altra è la pragmatica linguistica che
analizza il parlare come azione.
- Foucault collega la produzione dei discorsi alle forme di potere. La finalità ultima
del discorso è il raggiungimento di un ordine: la regolarità del mondo una volta
enunciata dà alla sua parvenza di ragionevolezza il valore di comando.
- Habermas invece collega alla nozione di “discorso” l’aspirazione ad un’etica sociale.
Il discorso individua quella “situazione linguistica ideale” che possiamo riconoscere
come istanza regolatrice suprema della socialità umana.
- Van Dijk invece introduce una nuova direzione di ricerca chiamata Analisi Critica
del Discorso (ACD).

Principali premesse teoriche all’analisi critica del discorso

- Il dialogismo di Bachtin. Intorno agli anni ’20 e ’30 del Novecento opera a
Pietroburgo e a Vitebsk un gruppo di intellettuali noto come Circolo di Batchin, dal
nome dello studioso che lo anima. Nelle loro discussioni vennero filtrati i principi del
marxismo per adattarli alle scienze del linguaggio e della letteratura. Il punto di
partenza è il dialogismo, secondo cui il significato di un testo – da una frase a un
romanzo – è dato non solo dal suo autore ma anche dalla relazione col suo
destinatario. Esiste dunque una sorta di dialogo tra autore e destinatario. Il
dialogismo si specifica nel concetto di eteroglossia, che mia ad evidenziare la trama
polifonica sottesa all’atto comunicativo. Secondo Batchin il significato di una parola è
una mera potenzialità che si realizza allorché la parola incontra un “contesto di
enunciazione”. Il dialogo è il modello di comunicazione umana anche della
comunicazione interiore dove il monologo interno della coscienza è un confronto di
più voci. Batchin ha elaborato la distinzione del discorso in generi primari e generi
secondari. I primi danno vita alla comunicazione così come avviene quotidianamente
nella vita di tutti i giorni, i secondi invece sono definiti istituzionalmente (dibattiti
parlamentari, comizi, seminari ecc.). Batchin è certamente un precursore del
sociocostruzionimo in quanto sostiene che “l’espressione organizza l’esperienza”.

4 - Analisi della conversazione.

Nell’ambito delle pratiche discorsive un posto di rilievo è occupato dalla


conversazione, ovvero quelle forme di interazioni discorsive in cui due o più
partecipanti si alternano spontaneamente a parlare. Si tratta di un’attività polifonica
che occupa buona parte del tempo libero ma anche di quello lavorativo. In generale si
può intendere la conversazione come il risultato di un’interazione tra due o più
individui, spesso caratterizzati da interessi divergenti, orientati al raggiungimento di
uno scopo. L’analisi della conversazione ha lo scopo di individuare regolarità,
routine e procedure della conversazione e di rendere leggibili i fenomeni comunicativi
sottesi a questa pratica ricorrente.

- Organizzazione complessiva della conversazione.


Innanzitutto la conversazione è un’interazione comunicativa caratterizzata da una
enorme variabilità e flessibilità, ovvero può coinvolgere due o più partecipanti, essere
più o meno formale, durare pochi minuti o delle ore, riguardare qualsiasi argomento.
Nonostante la sua apparente caoticità, dovuta essenzialmente al suo carattere
spontaneo, la conversazione presenta una organizzazione complessiva che risponde a
una struttura socialmente condivisa. In linea di massima la conversazione è
caratterizzata da tre fasi: 1) Apertura (identificazione e riconoscimento reciproco dei
partecipanti), 2) Argomentazioni (sviluppo di uno o più argomenti), 3) Chiusura.
La sezione di apertura comprende l’avvio della conversazione da parte di uno dei
due partecipanti attraverso saluti più o meno formali. Essi hanno una funzione
introduttiva e rispondono a regole convenzionali, esempio di apertura:

A: Ciao Paola! Come stai?


B: Io bene, e tu?
A: Anch’io, tutto bene. E’ da un po’ che non ci si vede.

Il saluto implica il riconoscimento reciproco fra le persone, invece qualora i due fossero
estranei di solito c’è un terzo che introduce i due.

Argomenti. Dopo i saluti la conversazione prevede lo sviluppo di uno o più


argomenti. La durata di tale sviluppo varia a seconda dell’argomento, può essere
molto breve se si tratta di chiedere una semplice informazione. Lo sviluppo degli
argomenti implica un impegno comunicativo personale e diretto dei partecipanti
soprattutto se sono due, se invece sono numerosi qualcuno può rimanere
maggiormente in secondo piano. L’articolazione degli argomenti non segue regola o
una sistematicità, essa infatti è per lo più casuale soprattutto se si procede per
associazione libera. Ogni argomento affrontato ha un potenziale di continuità più o
meno cogente che dà la possibilità all’interlocutore di proseguire e manifestare il suo
punto di vista. L’argomento ha dunque una sua inerzia comunicativa che da a tutti la
possibilità di discorrere nel medesimo ambito. Tale continuità consiste essenzialmente
nella condivisione di un dato fuoco comunicativo, ovvero la condivisione del
medesimo percorso di senso. Un cambiamento di argomento può essere marcato e
segnalato sul piano comunicativo sia a livello verbale, sia a livello non verbale. In
sostanza si può comunicare esplicitamente la volontà di introdurre un nuovo
argomento oppure implicitamente attraverso un gesto o un cambiamento di tono
della voce.
Sezione di chiusura. La chiusura di norma avviene in maniera dolce con la presenza
di coppie adiacenti e simmetriche, come in:
A: Ok Paola, allora ci vediamo alle tre al bar.
B: Va bene.
A: Va bene?
B: D’accordo. Ci vediamo là.
A: Va bene. Ciao.
B: Ciao.

Tale ripetizione serve a gestire il momento della chiusura e della separazione, anche se
momentanea.
L’avvicendamento dei turni.

Si ha una conversazione quando si ha un avvicendamento dei turni: i turni in una


conversazione a due si susseguono secondo una sequenza del tipo A-B-A-B ecc.
Possono verificarsi delle sovrapposizioni tra i due parlanti me è singolare notare che
esse occupano, normalmente, meno del 5% della conversazione e durano pochi
decimi di secondo ciascuna. La conversazione dunque, nonostante le apparenze, è
una interazione molto ordinata. A riguardo è stato osservato un sistema a gestione
locale che consente l’alternanza fluida dei turni. Ogni parlante è responsabile della
costruzione del turno, inteso come unità minima di parole compresa tra due possibili
segnali di intesa fra i partecipanti. Il turno diviene così una unità comunicativa che è
frutto di una azione coordinata tra i partecipanti. Il punto finale di tale unità è il punto
in cui i partecipanti possono avvicendarsi nel turno: si tratta di un punto di rilevanza
transizionale (PRT) che segna il momento in cui è possibile che si verifichi uno
scambio del turno fra parlante e ascoltatore. Tale passaggio è regolato dalla
minimizzazione della pausa fra i turni (gap) nell’ordine dei decimi di secondo, nella
cultura Occidentale, al fine di rendere più fluida la conversazione. I PRT sono regolati
da una serie di regole che consentono uno spazio di negoziazione fra i parlanti.
Riportiamo alcune di queste regole (valide per lo più nella cultura Occidentali):
- Conservazione del turno. Un parlante può comunicare di voler conservare il
turno e quindi di proseguire a parlare innalzando la media di intensità della voce alla
fine di un enunciato e/o incrementando la velocità di articolazione impedendo così
un’eventuale interruzione. Anche una pausa piena può indicare che è terminato un
pensiero ma non tutto il discorso.
- Cessione del turno. Quando un parlante vuole cedere il turno solitamente lo fa
utilizzando le pause vuote. Tali pause indicano che la presa del turno da parte
dell’interlocutore è accettata o richiesta. L’interlocutore può anche essere invitato
esplicitamente a prendere il turno attraverso una vera e propria richiesta di
intervento con domande del tipo: Giusto? D’accordo? Non è vero? Ecc.
- Richiesta del turno. E’ una situazione standard cercare di interrompere il
parlante per prendere la parola ma può succedere che il parlante non faccia pause
abbastanza lunghe da consentire uno scambio di turno. L’interlocutore fa dunque
ricorso ai cosiddetti inizi balbettanti (ad es. io…io…io… , ma…ma…ma…) oppure con
continui cenni di assenso verbali e non o ancora impadronendosi del turno alzando la
voce in modo da superare quella del parlante.
- Rifiuto del turno. Altra situazione è quella in cui il parlante manifesta la sua
intenzione di cedere il turno e l’ascoltatore rifiuta incoraggiandolo a proseguire con
cenni di assenso ed espressioni facciali di approvazione.
- Conversazione continua o discontinua. La continuità o la discontinuità di una
conversazione dipende dalla frequenza e dalla durata dei silenzi fra un turno e quello
successivo. Il silenzio interno durante un turno è considerato una pausa che per
essere tollerata non deve essere troppo lunga. Di norma il silenzio viene minimizzato
con la presa di turno da parte dell’interlocutore. Un silenzio prolungato può costituire
una scorrettezza comunicativa che può esprimere scarso interesse per l’interazione,
disattenzione o anche un rifiuto non ancora esplicitato a seguito di una proposta o un
invito.
Il silenzio inoltre serve ad evitare le sovrapposizioni e, qualora si verifichino, entrano
in gioco un sistema di risoluzione rapida per cui uno dei due smette di parlare e l’altro
sintetizza ciò che è risultato incomprensibile a causa della sovrapposizione. La
gestione dei turni è dunque l’esito di un processo di negoziazione comunicativa.

Le sequenze complementari e le sequenze preferenziali

Le sequenze complementari rappresentano un altro processo conversazionali a


gestione locale. Sequenze complementari tipiche sono le coppie domanda/risposta,
saluti/saluti, invito/accettazione, scuse/minimizzazione ecc. Queste sequenze hanno
le seguenti caratteristiche: a) sono adiacenti fra loro, b) sono prodotte da parlanti
diversi, c) si distinguono in una “prima parte” e una “parte complementare”, d)
costituiscono routine comunicative.
- Il concetto di preferenza. Le componenti complementari possono essere
preferenziali o non preferenziali. Preferenza è intesa a livello comunicativo come
marcatezza. Le componenti preferenziali sono “non marcate” ovvero semplici e
fluenti, quelle non preferenziali sono invece “marcate” e più complesse ed elaborate.
- Secondi turni non preferenziali . In linea generale dall’analisi di protocolli di molte
conversazioni emerge che i complementi preferenziali sono solitamente i consensi
mentre quelli non preferenziali sono i rifiuti. D solito i secondi turni non
preferenziali sono caratterizzati da alcuni indizi quali: a) indugio, b) prefazione
prima di manifestare il rifiuto, c) spiegazione per giustificare il rifiuto.
- Le sequenze preferenziali e la correzione . Il concetto di preferenzialità si estende
anche ad altri fenomeni comunicativi quali la correzione in caso di errori o
fraintendimenti. La procedura di correzione serve a mantenere la continuità della
conversazione e ad affrontare eventuali incomprensioni. Le sequenze preferenziali
della correzione prevedono questo ordine: a) correzione spontanea, b) correzione
sollecitata attraverso l’iniziatore di correzione del turno successivo, c) correzione
sollecitata dall’interlocutore.

Le presequenze.

Le presequenze sono scambi comunicativi che prevedono turni preliminari


come: A: Che fai Giorgio?
B: Niente.
A: Hai voglia di venire al bar con me?

In sostanza l’appello preliminare di A anticipa il turno successivo in cui spiega le


ragioni dell’appello. Le presequenze si manifestano anche nei preannunci dove: a) Il
turno preliminare serve a richiamare l’attenzione e l’interesse dell’interlocutore, b)
l’interlocutore si mostra interessato, c) il parlante finisce di spiegare ciò che ha
preannunciato. Se però l’interlocutore è già a conoscenza di ciò che è stato
preannunciato lo scambio perde il suo valore conversazionale. Anche le prerichieste
costituiscono un modo di gestire uno scambio delicato fra i partecipanti e preparano il
parlante a un accoglimento o a un rifiuto.

Variazioni culturali nella conversazione.


La conversazione rappresenta un sistema comunicativo universale in quanto si
ritrova in tutte le culture. Tuttavia alcune differenze e variazioni culturali sono
presenti. Emergono differenze soprattutto in termini di loquacità e di frequenza
nell’attività di conversare. Le popolazioni africane, sudamericane e latine sono molto
loquaci e considerano il silenzio pesante e minaccioso mentre alcune popolazioni
dell’India meridionale parlano pochissimo e anzi considerano offensive le persone
loquaci. In alcune culture (asiatiche, indiane) è fondamentale conoscere la status
sociale dell’interlocutore per stabilire che forme linguistiche usare. Nelle culture
occidentali la gerarchia sociale non ha più alcuna importanza. Anche nella gestione
delle coppie adiacenti come i saluti troviamo notevoli differenze culturali. In alcune
culture chi è socialmente inferiore deve salutare per primo. Inoltre molto spesso il
saluto è legato alle condizioni di salute dell’interlocutore per es. Come stai? How do
you do? Comment ca va? Ecc. In Giappone una domanda del genere è altamente
offensiva. Ci sono differenze culturali anche nella durata media delle pause tra un
turno e l’altro, negli USA è di circa 0,5 secondi mentre in Francia e in Italia è di 0,3,
ciò può provocare sovrapposizioni tra interlocutori di culture diverse.

CAPITOLO 7 – DISCOMUNICAZIONE E COMUNICAZIONE PATOLOGICA

1 - Una definizione di discomunicazione.

Innanzitutto dobbiamo sottolineare quanto la comunicazione possa essere efficace


pur non dovendo essere necessariamente esplicita. Dobbiamo altresì dire che la
comunicazione è sempre un’attività a rischio per cui l’idea di base della psicologia del
senso comune della trasparenza semantica e intenzionale va superata. Rispetto alla
comunicazione per default parliamo di discomunicazione in tutti quei casi in cui
gli aspetti impliciti e indiretti della comunicazione prevalgono su quelli espliciti e
diretti. E’ un dire per non dire. La discomunicazione non è soltanto una mancanza o
violazione delle regole di comunicazione, ma comprende anche la comunicazione
ironica, menzognera, deduttiva il linguaggio figurato, della finzione e la parodia. Non
è possibile tracciare un confine preciso tra comunicazione per default e
discomunicazione, fra esse infatti c’è un continuum che impedisce una separazione o
dicotomia. Più che nella comunicazione per default, nella discomunicazione abbiamo
una condizione di opacità intenzionale in quanto l’intenzione comunicativa
dell’attore risulta essere diversa da quella espressiva (o informativa). La
discomunicazione conduce dunque a un messaggio plurivoco lasciando al destinatario
la responsabilità di sciogliere l’ambiguità e di scegliere un percorso di senso fra quelli
suggeriti dall’attore. Per cui la discomunicazione non va vista solo come una
mancanza o violazione di regole comunicativa ma anche come un’opportunità di
arricchire la comunicazione. La discomunicazione è alla base della comunicazione
intrigante, intesa come dimensione peculiare della
comunicazione umana.

2 -La comunicazione ironica.

Tradizionalmente l’ironia è considerata al pari di altre figure retoriche come


l’antinomia, la metafora, l’iperbole ecc. Essa è basata sull’antifrasi: cioè esprimere
un
enunciato per fare intendere l’opposto del suo significato lessicale. Osserviamo infatti
un’inversione semantica tra il significato lessicale (manifesto) e il significato implicito.
Ironia deriva del Greco , che significa “finzione”. L’ironia non è solo
una figura retorica o uno stratagemma linguistico ma è anche uno strumento per
gestire significati e relazioni.

La famiglia delle ironie.

L’ironia non è un fenomeno unico e fisso, bensì compre una famiglia di processi
discomunicativi che qui elenchiamo:
L’ironia sarcastica: consiste nel disprezzare il partner attraverso parole di elogio, ha
lo scopo di mantenere un atteggiamento fortemente critico ma senza scomporsi.
L’ironia bonaria: consiste nell’elogiare il partner con espressioni di critica, serve a
stemperare l’euforia e a mitigare l’imbarazzo che deriverebbe da un elogio esplicito.
L’ironia socratica: è un modo di esprimersi elegante, garbato e ingegnoso per
criticare mode e dogmi senza sbilanciarsi né compromettersi.
L’ironia scherzosa: è la classica battuta di spirito che serve a sdrammatizzare una
situazione
conveniente o conflittuale.
Nelle società occidentali pare si faccia uso più spesso dell’ironia sarcastica poiché,
secondo l’ipotesi dell’asimmetria dell’affetto, la natura intrinseca dell’ironia è nella
volontà di attaccare o di aggredire.

Principali teorie sulla comunicazione ironica.

La prospettiva razionalista. Impostazione avanzata da Grice che ha formalizzato il


concetto di antifrasi. L’enunciato ironico consiste nel “dire p facendo capire non-p”;
l’ironia consiste dunque nella trasgressione della massima di Qualità. L’ironia
comunque è una strategia comunicativa indiretta ma chiara, non equivoca.
La prospettiva machiavellica. L’ironia può essere considerata come un’azione
comunicativa volta ad ottenere degli effetti sul partner senza considerare il rispetto
delle regole formali della conversazione e della veridicità di ciò che si dice.
L’attenzione si sposta dunque dall’analisi della composizione linguistica ai processi
relazionali. L’ironia in questo caso è una violazione delle attese contestuali. E’ in gioco
un tipico cambiamento di “passo”, ovvero il passaggio dal serio allo scherzoso o dal
letterale all’ironico.
La teoria ecoica (o della menzione). Sperber e Wilson hanno individuato altri
aspetti psicologici dell’ironia e la hanno intesa come rievocazione di pensiero, azione
e atteggiamento tipico del partner. Con un commento ironico il parlante produce un
enunciato che fa da eco a quanto detto in precedenza dal partner. In questo caso la
comunicazione ironica è sia una menzione implicita(eco) di quanto detto dal partner,
sia la manifestazione di un atteggiamento verso il pensiero del partner. In questo
ambito si pone la cosiddetta ironia citazionale, ovvero l’ironia intesa come citazione
di quanto avvenuto prima.
La prospettiva teatrale. La comunicazione ironica è stata interpretata anche come
“finzione”. Si tratta di una finzione trasparente in quanto il parlante fa finta di
credervi e al contempo, attraverso segnali paralinguistici, fa capire che si tratta di
una finzione.
Anche la simulazione rientra in questa prospettiva e consiste nell’enunciare una frase
in tono serio (per es. un elogio) ma che in realtà nasconde un significato sarcastico
per il reale destinatario che , da complice, riesce a comprenderlo. Per es. la frase di
A: Ottima questa cena a base di funghi porcini risulta essere un elogio per B (un
estraneo qualunque) ma non per C che insieme ad A condivide la conoscenza del
fatto che D (un amico comune) è allergico ai funghi. C comprende, in quanto
complice, il significato ironico che quella frase ha per D. In tal senso l’ironia si
avvicina alla parodia, che si fonda sul principio dell’antinomia. La parodia mette in
chiaro una contrapposizione tra due termini, per es. tra un personaggio e un
avvenimento (o evento, circostanza). Ma ironia e parodia implicano una forma di
complicità tra parlante e destinatario che consiste nella condivisione di uno specifico
patrimonio di conoscenze.

Funzioni psicologiche della comunicazione ironica.

La comunicazione ironica è una comunicazione obliqua in quanto mostra ciò che


nasconde e nasconde ciò che dice. E’ un dire per non dire. L’ironia è una maschera
densa di senso che rende molto flessibili i confini del significato. Essa rappresenta
emblematicamente la dialogicità discorsiva secondo cui la parola non è
unidimensionale (monosemia) ma plurivoca (polisemica). Sul piano psicologico essa
svolge alcune funzioni.
- Comunicazione ironica come rispetto delle convenzioni (come aggirare la censura
in modo culturalmente corretto).
Si può ricorrere all’ironia per dire efficacemente ma implicitamente
(diplomaticamente) ciò che risulterebbe sconveniente e scorretto se detto nelle forme
esplicite. Ciò serve anche a gestire in maniera ottimale le relazioni interpersonali ,
l’immagine di sé e l’autocontrollo rispettando appieno le norme della desiderabilità
sociale e i canoni impliciti della propria cultura. Lo humour inglese risponde proprio a
queste caratteristiche e inoltre ha la funzione di separarsi dalle emozioni
controllandole.
- Comunicazione ironica come confine di riservatezza (come proteggere lo spazio
personale).
Si può usare l’ironia anche per conservare dignità e contegno. Infatti l’ironia serve
anche a tutelare il proprio spazio personale e a proteggere la propria riservatezza
(Privacy). L’ironista in questo senso non scopre apertamente le sue carte proprio per
tutelare una sua posizione lasciando spazio aperto alle interpretazioni.
- Comunicazione ironica come ambiguità relazionale (come rinegoziare i significati).
Un vantaggio dell’ironista sta nel fatto che la comunicazione è in bilico tra l’esplicito e
l’implicito, in modo tale egli può spostare il confine semantico fra le diverse possibili
interpretazioni. L’ironista gode dell’efficacia della parola e dell’innocenza del silenzio,
per cui possiamo parlare di polisemia pragmatica in quanto il messaggio ironico
offre diversi percorsi di senso lasciando al destinatario la responsabilità di dare una
interpretazione. In tal modo l’ironista si libera della responsabilità comunicativa.
L’ironia quindi serve a regolare il peso dell’implicito attraverso una mitigazione
dell’implicito o una accentuazione dell’implicito. Un commento sarcastico a una brutta
figura è più leggero di un insulto aperto (mitigazione), oppure può essere più mirato e
calcolato (accentuazione) e quindi più incisivo di una critica aperta.
La voce dell’ironia.
Anche l’intonazione della voce caratterizza un enunciato ironico. Studi sperimentali
sulla voce dell’ironia dimostrano che, in generale, il tono di voce utilizzato nella
comunicazione ironica è acuto e modulato , di intensità elevata e dal ritmo rallentato.
Ci sono poi differenze a seconda se si tratta di ironia sarcastica o bonaria. Differenze
di tono esistono anche tra la comunicazione ironica e quella menzognera, infatti le
parole dell’ironia sono finte mentre quelle della menzogna sono false.

Lo script ironico.

Occorre illustrare come, a livello psicologico, l’ironia sia un gioco comunicativo di


“fioretto”. Infatti i duellanti impugnano il fioretto, non la spada e infatti colpiscono
pungendo con eleganza. Il commento ironico segue uno script ironico (un copione)
che si svolge in diverse fasi:
- Premessa. E’ il bagaglio di conoscenze (testuali o contestuali) reciproche
condivise dagli interlocutori e costituisce l’orizzonte di riferimento all’interno del quale
si colloca lo scambio ironico.
- Evento focale. Tale evento costituisce l’oggetto del commento ironico. Esso può
accadere in maniera indipendente dagli interlocutori.
- Commento ironico. E’ la manifestazione di una determinata intenzione
comunicativa da parte dell’autore con la quale può elogiare, disprezzare,
sdrammatizzare l’evento focale.
- Effetto ironico. Il commento ironico produrrà un certo effetto. La natura di
questo effetto dipende dall’interpretazione che il destinatario fa del commento ironico.
Le contromosse del destinatario infatti possono essere tre: a) il fraintendimento,
ovvero il destinatario non coglie l’intenzione ironica e si ferma al significato letterale,
b) il disconoscimento, ovvero il destinatario comprende l’intenzione ironica ma per
convenienza fa finta di nulla e si ferma di proposito al significato letterale, c) il
touchè, l’ironia coglie nel segno e il destinatario accetta di essere stato colpito
mostrandosi divertito o ferito.

3 - La comunicazione seduttiva.

Lo studio dei processi comunicativi che regolano la vicinanza e la distanza fisica e


psicologica tra gli individui è un ambito molto importante in psicologia della
comunicazione. La regolazione di tali processi è complessa, dinamica e suscettibile di
continue variazioni. La seduzione è un importante processo di avvicinamento tra le
persone il cui esito sperato è quello di una riduzione drastica della distanza
psicologica fra due individui. Essa può essere definita come una sequenza strategica
e intenzionale di mosse il cui traguardo è quello di attrarre (anche sul piano sessuale)
un’altra persona (di solito, di sesso opposto). La seduzione ha lo scopo di raggiungere
una relazione intima con il partner e può essere guidata da sentimenti forti quali
l’innamoramento o dall’esigenza di provare la propria competenza interattiva. La
seduzione è accompagnata da un processo comunicativo specifico che chiamiamo
comunicazione seduttiva.

“Dall’essere qualunque all’essere qualcuno”.


Nella specie umana come in quella animale il corteggiamento assume particolare
rilevanza che ha come fine ultimo quello di avere una discendenza. In generale
possiamo parlare di differenze di genere nella pratica del corteggiamento (effetto
Coolidge). Infatti le femmine sono più attente alla cura della prole e prediligono il
maschio dominante e forte quale protezione per se e per la prole, i maschi invece
sono attenti alla riproduzione e quindi prediligono la quantità di accoppiamenti. Per la
specie umana l’effetto Coolidge si traduce in una ostentazione di forza e di ricchezze
da parte del maschio quale promessa implicita di mantenimento della prole e di una
cura per la bellezza, per la giovinezza e la salute da parte delle donne per
manifestare la propria fertilità. Entro questa cornice si svolge la danza del
corteggiamento. Il punto di partenza è la individuazione e selezione del partner, in
secondo luogo si cerca di stabilire un contatto attraverso strategie di esibizione per
farsi notare e per farsi scegliere, poi stabilire un reciproco avvicinamento riducendo
progressivamente il grado di incertezza e concludere con la decisione di mantenere il
legame più o meno stabilmente.

La paradossalità della comunicazione seduttiva.

Il primo obiettivo del seduttore è quello di emergere dall’anonimato e di cambiare


status: dall’essere qualunque all’essere qualcuno. In questa fase di esibizione
emergono gli aspetti “estetici” della comunicazione. In questa fase il seduttore tende
ad esaltare le qualità e i punti di forza in suo possesso e a mascherare i limiti e i
difetti fino a diventare oggetto del desiderio per l’altro. Durante il corteggiamento il
seduttore tende ad apparire diverso e migliore di quello che è in realtà; da questo
punto di vista la seduzione presenta analogie con la comunicazione menzognera.
Tuttavia lo scopo non è quello di ingannare bensì di esaltare la propria immagine per
esaltare l’immagine dell’altro. L’interazione seduttiva è simile alla recitazione teatrale,
in quanto il seduttore assume un certo ruolo nel palcoscenico relazionale riuscendo a
camuffare in modo positivo la propria identità. Si tratta della strategia dell’apparenza
dove si crea uno spazio comunicativo intermedio tra il falso, il finto e il reale, come il
trucco che maschera i lineamenti del volto lasciandoli intravedere o esaltandoli.
Siamo di fronte ad una esibizione paradossale poiché pur essendo esplicita non è
dichiarata. La finalità della non formalizzazione sta nel proteggersi da un rifiuto netto
ed esplicito ma anche nell’evitare una invadenza eccessiva che risulterebbe
controproducente. Una volta stabilito un contatto con il partner segue la fase di
avvicinamento reciproco, che favorisce l’apertura graduale e reciproca attraverso
uno scambio di conoscenze sulla propria vita. Tale narrazione di sé favorisce una
graduale riduzione dell’incertezza.

L’obliquità della comunicazione seduttiva.

L’interazione seduttiva si avvale di una comunicazione obliqua e indiretta. Il


seduttore deve dire abbastanza ma non troppo. Infatti dichiarazioni esplicite e aperte
possono risultate azzardate e testimoniare una scarsa abilità seduttiva. Bisogna infatti
lasciare margini di negoziazione, ovvero dare la possibilità al partner di intervenire
nella contrattazione relazionale e di entrare nel gioco della seduzione. In questo
senso parliamo di comunicazione intrigante ovvero di forme allusive che dicono
senza dire.
Il processo di seduzione deve dunque essere un processo di conquista reciproca, in
cui entrambi i partner hanno la possibilità di fare la propria parte. Una strategia
obliqua è per esempio quella della vulnerabilità, ovvero il seduttore si mostra debole
e sottomesso come un bimbo in modo da favorire l’avvicinamento del partner e
raggiungere un maggiore livello di intimità.

Modalità non verbali nella comunicazione seduttiva.

La comunicazione seduttiva si avvale anche delle modalità non verbali per attirare
l’attenzione e sedurre l’eventuale partner. Lo scambio degli sguardi è un segnale
preciso di attrazione verso il partner e la dilatazione della pupilla né è la
testimonianza concreta. Le donne ricercano e lanciano gli sguardi più degli uomini.
Anche il sorriso timido (coy smile) è un segnale ricorrente nella seduzione,
soprattutto nelle donne. Inoltre in un incontro iniziale la sincronizzazione dei gesti
favorisce molto l’interesse reciproco. Anche la voce attraente è associata ai giudizi di
piacevolezza e desiderabilità sociale. Esiste un profilo di voce dei seduttori efficaci e
uno dei seduttori non efficaci. I primi sanno modulare la voce in modo più flessibile e
mutevole durante l’interazione seduttiva e sanno esibire vocalmente la loro
socievolezza, entusiasmo e virilità. I non efficaci hanno invece una voce debole,
monotona e piatta che pur risultando calda viene considerata noiosa. Il buon
seduttore deve inoltre sintonizzarsi con il partner attraverso una attenta valutazione
dei suoi feedback.

4 - La comunicazione menzognera.

Riguardo alla comunicazione menzognera possiamo individuare due ambiti di


ricerca: a) Studi naturalistici sul campo (studi sui comportamenti ingannevoli nella
vita quotidiana), b) Studi sperimentali di laboratorio ( studio degli aspetti cognitivi,
emotivi e comunicativi dell’agire menzognero. Tale comportamento è molto più
diffuso di quanto non si creda.

La “famiglia” degli inganni.

Le proprietà essenziali della comunicazione ingannevole sono tre: a) la falsità di


contenuto di quanto si è detto, b) la consapevolezza di tale falsità, c) l’intenzione di
ingannare il destinatario. Per cui l’inganno si differenzia dall’errore (falso non
consapevole) e dalla finzione (parodia, barzelletta, far finta ecc.). La menzogna
dunque è un atto comunicativo consapevole e deliberato di ingannare
qualcuno che non è consapevole e non desidera essere ingannato. L’intenzione di
ingannare sta nel far credere al destinatario ciò che il parlante sa non essere vero.
Tuttavia l’inganno non è una categoria comunicativa omogenea, infatti esistono
diverse sottocategorie: Omissione. Il parlante omette, di proposito, di fornire alcune
informazioni essenziali per gli scopi del destinatario.
Occultamento. Il parlante nasconde alcune informazioni essenziali fornendone altre
secondarie – anche se vere – in modo da creare false credenze nel destinatario.
Falsificazione. Il parlante fornisce informazioni che sa essere false.
Mascheramento. Il parlante cela informazioni pertinenti fornendone altre false.
Le categorie di menzogna qui riportate non sono da considerarsi discrete e separate
da confini precisi, infatti esiste un continuum di fenomeni ingannevoli che possono
essere caratterizzati da “somiglianze di famiglia”.

Principali teorie sulla comunicazione menzognera.

- La manipolazione dell’informazione. Information Manipulation Theory


Proposta da McCornack, secondo questa teoria i comunicatori manipolano e
trasformano le informazioni lungo diverse dimensioni andando da una
rappresentazione distorta degli eventi fino a una vera e propria falsificazione.
Partendo dal principio di Cooperazione e dalle massime di Grice (Qualità, quantità,
Pertinenza e Modo) questa teoria considera l’inganno come la violazione di una o più
di tali massime.
- L’interazione interpersonale. Interpersonal Deception Theory. Elaborata da
Buller e Burgoon. Questa teoria considera l’inganno alla luce di una impostazione
strategica e lo considera una forma di comunicazione a sé stante distinta da quella
veritiera. In tal senso la menzogna serve a controllare strategicamente le
informazioni. Nell’interazione ingannevole la teoria prevede la comunicazione
strategica e quella non strategica. La prima è l’attuazione predeterminata di uno
scopo che consiste fondamentalmente nel presentarsi come persona onesta e
affidabile mentre si sta dicendo il falso. Mentre la comunicazione non strategica
della menzogna è caratterizzata da indizi di smascheramento. Essa si configura
specialmente nelle situazioni impreviste. Gli indizi sono principalmente legati alla
manifestazione di emozioni e nervosismo, da espressioni facciali di spiacevolezza e
disagio e da segnali di incompetenza comunicativa come ripetizioni, pause piene e
vuote ecc.
- La discomunicazione menzognera. Deceptive Miscommunication Theory.
di Anolli, Balconi e Ciceri. Questa teoria considera la menzogna un fenomeno
eterogeneo distinguendo menzogne ad alto contenuto e menzogne a basso
contenuto. Le prime si distinguono dalle seconde per le conseguenze serie che
provocano sia per il parlante che per il destinatario. Questa teoria ritiene che vi sia
una gestione locale della menzogna attraverso regole connesse al contesto e alla
condivisione di un fuoco comunicativo.

L’intenzione di mentire.

La comunicazione menzognera è caratterizzata da una rilevante complessità


intenzionale. Infatti esistono diversi livelli intenzionali che caratterizzano il mentire:
a) intenzione nascosta (il parlante falsifica e manipola le informazioni ma tale
intenzione non deve trapelare), b) intenzione manifesta (il parlante intende
trasmettere l’informazione falsificata e manipolata al destinatario). Questo livello si
articola in due livelli: b1) intenzione informativa (il parlante desidera che il
destinatario accolga l’informazione manipolata come se fosse vera), b2) intenzione di
“sincerità” (il parlante desidera che il destinatario creda che ciò che egli ha detto è
vero. “Voglio che tu creda che io credo a ciò che dico”. Esiste tuttavia una
gradazione intenzionale nel mentire che va dalla menzogna convenzionale a basso
contenuto, alla menzogna spudorata ad
alto contenuto. L’intenzione di mentire non è un atto gratuito o un atto di follia bensì
il frutto di una valutazione della situazione al fine di raggiungere uno stato di cose
desiderabile ovvero un ottimo locale. Per cui le menzogne sono guidate da svariate
motivazioni che vanno da quelle per mantenere uno stato di cose (una relazione, la
privacy, salvare la reputazione ecc.) con menzogne benevole, fino a quelle per
ottenere vantaggi a discapito degli altri con menzogne di sfruttamento.

L’impegno cognitivo della comunicazione menzognera.

Secondo alcuni studiosi la comunicazione menzognera è più impegnativa di quella


veritiera sul piano cognitivo, in quanto l’elaborazione di una menzogna coerente con
la situazione contingente è molto complessa. Quest’affermazione è oggi oggetto di
dibattito
- L’ipotesi del “carico cognitivo”.
Alcuni ritengono che la comunicazione menzognera sia più impegnativa di quella
veritiera perché si tratta di costruire dal nulla un messaggio in modo coerente,
compatibile con le conoscenze del partner e rispettando i vincoli della situazione
contingente. McCornack dimostra che queste condizioni non sono valide in quanto
anche il messaggio veritiero deve essere coerente, compatibile con le conoscenze del
partner e rispettoso dei vincoli della situazione. In sostanza McCornack ritiene che
talvolta può essere molto più impegnativo dire la verità che mentire.
- La variabilità dell’impegno cognitivo nella comunicazione menzognera.
Bisogna innanzitutto distinguere tra menzogne preparate e menzogne impreparate
ma soprattutto tra menzogne a basso contenuto e menzogne ad alto
contenuto. Le prime sono dette nelle conversazioni quotidiane e non hanno lo
specifico intento di ingannare, esse sono le bugie pedagogiche e le bugie “innocenti”.
Le seconde comportano conseguenze serie sia per chi mente, esponendosi ad alto
rischio, sia per il destinatario che viene pesantemente ingannato. Nelle menzogne ad
alto contenuto emerge che l’impegno cognitivo è considerevolmente maggiore.
- La pianificazione e l’elaborazione cognitiva del messaggio menzognero.
Le qualità emergenti della relazione comunicativa sono create dalla dinamica delle
reciproche azioni dei due comunicanti. Quindi il messaggio menzognero risulta
sempre ancorato al contesto e riflette il flusso di pensieri e di azioni esistenti tra gli
interlocutori. Si tratta dunque di una gestione locale della sequenza degli scambi
comunicativi. Importante per il mentitore è la spontaneità che può essere
compromessa da condizioni di ipercontrollo o di mancanza di controllo. Nel primo
caso il mentitore, per un eccesso di forme di controllo, rimane immobile e mostra
scarse variazioni di intensità del tono vocale, mentre nel secondo caso il mentitore
non riesce a controllarsi manifestando incertezza dell’esprimersi e una notevole
automanipolazione. In entrambi i casi parliamo di mentitori ingenui, mentre i
mentitore abili hanno una impostazione vocale e posturale del tutto simile a quella
che hanno nella comunicazione veritiera.

Modi di dire e di scoprire la menzogna.


Si può mentire in tanti modi diversi, non esiste un repertorio fisso e stabile di modi di
mentire. Tuttavia è possibile parlare di stili comunicativi ricorrenti nella
comunicazione menzognera.
Stile linguistico. Uno stile linguistico va inteso come un’organizzazione articolata e
dinamica di micro e macro-componenti del linguaggio con la quale produrre
determinati effetti sul destinatario. C’è uno stile improntato sull’ambiguità e
prolissità in cui il mentitore utilizza spesso modificatori con valenza dubitativa
(forse, circa, un po’ ecc.), livellatori (tutti, nessuno) e predicati epistemici (penso,
suppongo, credo ecc.), oppure frasi lunghe piene di informazioni secondarie e
irrilevanti. In tal modo il mentitore diluisce la falsità rendendola meno identificabile.
Vi è poi uno stile improntato all’assertività e all’evitamento ellittico con cui il
mentitore utilizza forme reticenti per esprimersi, in sostanza il mentitore si propone di
esimersi dal dire utilizzando frasi brevi e pause vuote e piene più lunghe. Il terzo stile
è quello dell’impersonalizzazione attraverso un uso limitato di auto-riferimenti e
l’utilizzo di forme impersonali quali “si dice”, “pare che” con le quali il mentitore si
deresponsabilizza da ciò che sta dicendo.
- Stili non verbali della menzogna.
Anche per gli indizi non verbali non esiste un repertorio fisso e stabile. Per quanto
riguarda l’attività motoria vi sono mentitori che attuano condotte guidate
dall’ipercontrollo, quindi staticità nei gesti e nella postura, o da mancanza di controllo
con frequenti cambi di postura, sguardo basso, frequente automanipolazione. Di
conseguenza gli indizi di smascheramento sono molto variabili poiché individuali e
contingenti. Anche la voce è stata oggetto di analisi, ma anche qui si riscontra una
notevole variabilità.
- L’abilità di scoprire la menzogna.
L’abilità di scoprire la menzogna è connessa all’abilità di mentire. In realtà non
esistono dati certi circa la possibilità di scoprire la menzogna ma in linea generale le
persone più abili a smascherare i mentitori sono quelle che in qualche modo hanno a
che fare con la pratica del mentire (delinquenti, spie, poliziotti, psicologi clinici).

Quale miglior mentitore che il mentitore sincero?

Altro aspetto importante è la competenza della comunicazione menzognera.


L’ipotesi strutturale della capacità menzognera è legata alla personalità machiavellica,
l’ipotesi funzionale all’autoinganno.
- Personalità machiavellica e comunicazione menzognera . La personalità
machiavellica è un costrutto psicologico che identifica quelle persone che tendono a
manipolare gli altri per scopi di adattamento. Sono abili quindi nell’inganno,
mostrandosi sinceri ed affidabili ma soprattutto impassibili mentre mentono. Sono
meno coinvolti sul piano emotivo e meno preoccupati di salvare la faccia in situazioni
imbarazzanti.
- L’autoinganno. Riguarda soprattutto la possibilità di mentire agli altri in modo
credibile, poiché se il falso diventa vero ai miei occhi perché non dovrebbe apparire
varo agli occhi degli altri? In tal modo si incappa in due paradossi: a) Paradosso
statico, ovvero il mentitore accetta sia P(vero) che non-p(falso), b) Paradosso
dinamico, il mentitore, che conosce il vero, inventa una falsa credenza a cui credere.
Questi
paradossi vengono esplicati in vario modo. In base alla teoria della razionalità
limitata chi si autoinganna sceglie le ragioni più funzionali ai suoi scopi piuttosto che
quelle più valide. Il modello della divisione mentale invece fa una distinzione tra
coscienza primaria e coscienza secondaria, introducendo l’inconscio come base per
l’inconsapevolezza dell’autoinganno. Il modello “deflazionistico” introduce il
concetto di distorsione cognitiva attraverso cui l’autoingannatore reinterpreta la
credenza ritenuta minacciosa.

5 - La comunicazione patologica.

La comunicazione è una attività relazionale che va a toccare le radici della identità


personale e della posizione sociale di ciascun individuo. Alla comunicazione è legato il
benessere e il disagio psicologico. Infatti la sofferenza psicologica è legata a
quanto gli altri ci comunicano e alle difficoltà comunicative.

La comunicazione schizofrenica.

La schizofrenia, com’è noto, è una grave forma di disagio psichico. Il soggetto


schizofrenico si mostra estremamente sospettoso e vive in uno stato di ipervigilanza e
di iperintenzionalità, ovvero si mostra attento ad ogni piccolo particolare dando ad
ognuno un significato particolare e bizzarro. Egli crea uno stacco abissale tra il suo
mondo interno e la realtà che interpreta continuamente secondo la sua “logica”. La
comunicazione dello schizofrenico è contraddittoria, frammentaria, ricca di neologismi
e sgrammaticata. Il risultato è una comunicazione inafferrabile e incomprensibile.
Occorre dunque comprendere i modelli schizofrenici di comunicazione.
Innanzitutto dobbiamo precisare che lo stile schizofrenico di comunicazione non
appartiene soltanto al soggetto schizofrenico ma anche agli altri membri della famiglia
entro cui si genera un “sistema modello” di comunicazione patologica. Ciò è dovuto
all’impossibilità di definire le relazioni tra i partecipanti in quanto si tratta di una
relazione instabile e fluttuante per via di inafferrabili giochi psicologici. Mancando una
definizione di relazione viene a mancare la relazione stessa e la comunicazione risulta
impossibile. La comunicazione schizofrenica dunque si basa sulla richiesta assurda
e paradossale di cambiare una definizione di relazione che non è mai stata
definita. In un contesto del genere i significati evaporano in quanto la
contraddittorietà, la vaghezza e l’ambiguità rendono la situazione relazionale caotica
e imprevedibile, caratterizzata da impenetrabilità e imprendibilità. Queste condizioni
sono alla base dei giochi psicotici, quali tradimenti e alleanze tra il soggetto
schizofrenico e i membri della famiglia che possono generare vere e proprie tempeste
emotive dagli esisti infausti.

La comunicazione paradossale.

Vi sono tre tipi di paradosso nella comunicazione: a) l’antinomia logica, b)


l’antinomia semantica, c) il paradosso pragmatico, consistente in ingiunzioni e
predizioni. Analizzeremo quest’ultimo tipo di paradosso. L’ingiunzione “Sii spontaneo”
è un
esempio paradigmatico del paradosso pragmatico, infatti chiunque riceva questo
messaggio si trova in una posizione insostenibile in quanto per obbedire a tale
ingiunzione deve di fatti disobbedirgli. Queste forme di comunicazione paradossale
sono molto frequenti in gruppi che prevedono dilemmi fra appartenenza leale e
autonomia, sottomissione e indipendenza, obbedienza e spontaneità come famiglie,
sindacati partiti ecc. La teoria del doppio legame è un modello esplicativo di queste
forme di comunicazione. Quando ad esempio il bambino che vede la mamma irritata
le domanda il perché e la mamma risponde che si è sbagliato e anzi gli chiede di
riconoscere che non è irritata si stabilisce una comunicazione di doppio legame in
quanto ciò che è manifesto a livello non verbale (irritazione) viene smentito e
contraddetto al livello verbale. In tal modo si crea una desincronizzazione e una
desintonizzazione tra livello verbale e non verbale ottenendo come risultato una
frammentazione e dispersione del significato.

Le squalifiche conversazionali.

Si parla di squalifica conversazionale quando, durante la conversazione, il


destinatario attua un passaggio di argomento introducendone uno incoerente con
quello precedente e in maniera del tutto arbitraria, ovvero non rispettando gli inserti,
gli incassamenti e le associazioni libere che regolano la turnazione. Il risultato è una
disconferma attraverso cui il destinatario ignora il parlante disconoscendo
l’argomento che egli ha introdotto.

CAPITOLO 8 – LA COMUNICAZIONE NEI E FRA I GRUPPI

1 – La comunicazione nei gruppi

La comunicazione è connessa all’interazione e costituisce la sostanza delle relazioni


interpersonali.
Svolge quindi una funzione centrale nella formazione e nel funzionamento dei gruppi.

Gruppo sociale= insieme di più soggetti che interagiscono fra loro in modo
interdipendente, che si percepiscono come membri del gruppo e che sono percepiti
come tali da individui di altri gruppi.

Ogni gruppo definisce la propria cultura non solo in termini di riferimento all’orizzonte
culturale della società di appartenenza, ma come elaborazione della idiocultura
(microcultura).

2 - Comunicazione e influenza sociale

Influenza sociale e potere

Nei gruppi e fra i gruppi la comunicazione concerne innanzitutto l’influenza sociale


(=modalità di base per orientare e dirigere in modo reciproco il sistema delle
credenze, desideri, atteggiamenti, scopi,…dei membri di un gruppo).
Influenza sociale informativa: concerne la disposizione ad accettare un’informazione
proveniente da un altro come vera. Serve a ridurre l’ambiguità nella valutazione di
una situazione.
Influenza sociale normativa: induce l’individuo a conformarsi alle norme e agli
standard vigenti nel gruppo.

_Esperimento di Asch per illustrare la combinazione tra influenza sociale informativa


e normativa (3 linee confrontate con 1 campione)

Il conseguimento dell’influenza sociale richiede anche una base di potere, intesa come
distribuzione diseguale delle risorse e come capacità di controllo nei confronti degli
atteggiamenti e delle decisioni degli altri.

In questa prospettiva il potere non è il possesso oggettivo di risorse che attribuisce al


soggetto una posizione di superiorità, ma va definito come una relazione
asimmetrica, riguardante ambiti specifici, nella qual A, in virtù delle risorse che si
presume disponga, appare in grado di influenzare e indirizzare in modo intenzionale
la condotta di B verso la realizzazione dei propri obiettivi.
Relazione asimmetrica ma bidirezionale, A influenza B, ma anche viceversa.

Gli effetti dell’influenza sociale

L’influenza sociale implica pressione sociale da parte del gruppo nei confronti del
soggetto.
L’influenza sociale ha una funzione di normalizzazione per mantenere condizioni di
prevedibilità, per far fronte alla minaccia della devianza e per evitare il conflitto.
La norma del gruppo non è data dalla somma delle norme individuali, ma da un
processo di negoziazione.

Effetti dell’influenza sociale:


_conformità, conversione
_reattanza psicologica: quando la pressione è valutata come costrizione
_esigenza di differenziazione: per rivendicare la propria unicità
_conformità superiore del sé: adesione perfetta alle norme per essere percepiti come
un prototipo, un ideale per gli altri membri.

L’influenza sociale quindi produce due categorie di effetti: coesione, differenziazione.

- Influenza maggioritaria e influenza minoritaria

Influenza maggioritaria: (prospettiva funzionalista)l’influenza prodotta dalla


maggioranza genera una condizione di livellamento e omogeneizzazione.
I fattori dell’influenza maggioritaria sono: numerosità delle maggioranza,
immediatezza della pressione, consistenza della maggioranza (intesa come coesione e
unanimità).
L’esito è l’ottenimento della conformità che spesso assume la forma dell’acquiescenza
opportunistica (accettazione anonima e acritica) che può dare luogo all’ignoranza
pluralistica; affinché una norma si perpetui non è necessario che la maggioranza la
sostenga, ma basta che creda che la maggioranza la sostenga, si continua ad
accogliere come dominante una credenza solo perché non se ne parla.
Si crea la spirale del silenzio che conduce a forme di falso consenso.

Influenza minoritaria: (prospettiva interazionista) l’influenza sociale è bidirezionale


e reciproca, come l’inf.maggioritaria anche quella minoritaria può essere valida.
La minoranza attiva ha un pdv alternativo e forti convinzioni in grado di mettere in
discussione quelle dominanti nel gruppo.
Si ha così un conflitto a cui di norma segue una negoziazione.
La minoranza punta all’innovazione attraverso un processo di conversione.

4 - Il pettegolezzo e le dicerie

I gruppi vivono di comunicazione, il bisogno di comunicazione è così forte che avviene


anche quando gli scambi non sono necessari; il pettegolezzo è una manifestazione di
questo bisogno di comunicare.
E’ una pratica universale, si ritrova, anche se in forme diverse, in tutte le culture.
Serve ad alimentare i rapporti interpersonali nei gruppi sociali, a far circolare una
certa immagine dei singoli membri, a sostenere l’identità del gruppo nei confronti
degli altri gruppi.

- Funzioni psicologiche del pettegolezzo

Il pettegolezzo implica una serie di dicerie, cioè pacchetti informativi circoscritti e


definiti che tendono a rimanere stabili nel loro nucleo centrale nonostante il passaggio
da un individuo all’altro; sotto questo aspetto il pettegolezzo ricalca la trasmissione
orale dei miti.
C’è asimmetria sociale nel pettegolezzo perché i bersagli sono soprattutto personaggi
pubblici; questo voyerismo comunicativo soddisfa le esigenze di curiosità e di novità
delle perone in posizione subalterna.
Il pettegolezzo assume un valore normativo perché svolge un’azione di conferma e
rafforzamento dell’assetto dei valori presso una data comunità.
Ha anche un valore ostensivo perché anagrafizza e rende pubblico ciò che è privato.
Costituisce un indicatore dell’invidia sociale in quanto i pettegoli di solito non sono
nelle condizioni di fare ciò che il bersaglio del pettegolezzo è in grado di fare. Ha poi
valore conservativo perché rafforza implicitamente l’assetto culturale esistente.

- Elaborazione semantica del pettegolezzo

In che modo si forma il pettegolezzo come sistema comunicativo?


Ciò è stato studiato da Bartlett con il metodo della riproduzione seriale (far ripetere
un racconto complesso da una catena di soggetti in successione da un individuo
all’altro). Si sono notati vari fenomeni:
_riduzione: al 3°/4° passaggio le info si riducono ad 1/3
_accentuazione: mentre molti particolari tendono a sparire, altri diventano più salienti.
_processo di assimilazione: cioè modalità di conservazione, deformazione, omissione
o aggiunta di degli elementi informativi.
_ciò porta ad una rappresentazione stereotipata della situazione (le info vengono
trasformate e assimilate secondo le categorie cognitive, affettive, normative del
gruppo)
_subisce processi di soggettivizzazione

- La diffusione del pettegolezzo

Il pettegolezzo sorge con la comparsa di novità o situazioni insolite, la trasmissione è


molto rapida, si è infatti fatto ricorso alla metafora dell’epidemia.
Nella seconda guerra mondiale si sono sperimentate “cliniche del pettegolezzo”.

5 - Comunicazione e decisione di gruppo

La comunicazione rientra nei processi di presa di decisione che spesso un gruppo


deve prendere per raggiungere uno scopo.

- Comunicazione come mezzo vs.comunicazione come fattore costitutivo


della presa di decisione

La comunicazione come mezzo: serve come mezzo per influenzare i fattori strutturali
(dimensione del gruppo, preferenze dei membri…) e gli aspetti contestuali sulle
interazioni del gruppo
La comunicazione può anche essere considerata come costitutiva delle decisioni del
gruppo.

- La polarizzazione nelle decisioni di gruppo

La scoperta che le decisioni collettive sono spesso polarizzate nella direzione del
rischio rappresenta una sfida all’opinione del senso comune secondo cui le decisioni di
gruppo sono più conservative e prudenti di quelle prese individualmente.

Si può spiegare questo fenomeno di polarizzazione delle decisioni collettive con uno
spostamento verso l’estremo facendo riferimento a tre fattori:
_discussione di gruppo che implica una riformulazione dell’opinione individuale
favorendo uno spostamento verso posizioni estreme, si crea un pensiero di gruppo
(groupthink) che conduce i membri del gruppo alla illusione di invulnerabilità,
invincibilità e unanimità; entra in azione un processo di autoconvincimento e
autoesaltazione che conduce ad una minimizzazione del rischio e all’adozione di una
scelta estrema.
_una divergenza iniziale di opinioni favorisce l’esaltazione delle differenze nel corso
della discussione; si creano una maggioranza e una minoranza che verrà poi convinta
con pressioni o si autocensurerà.
_deve esserci un notevole impegno dei membri del gruppo nella comunicazione
reciproca.
- Comunicazione e consenso di gruppo nella presa di decisione

Se in alcune circostanze la decisione collettiva conduce ad una polarizzazione verso


un estremo, in altre condizioni favorisce il consenso e la coesione di gruppo. (es. del
cambiamento delle abitudini alimentari)
In questo ambito gli scambi comunicativi nei gruppi di discussione hanno comportato
non solo una evidente attivazione personale, ma soprattutto una maggiore
assunzione di responsabilità nei confronti di quello che ciascuno affermava.

6 - Comunicazione e relazione fra i gruppi

La comunicazione fra i membri di gruppi differenti è il fenomeno sociale più


complesso nella specie umana, perché non implica solo l’insieme delle diversità
individuali che influenzano la condotta sociale, ma comporta anche la somma delle
variabili intergruppo.

- Differenziazione categoriale e identità sociale

Teoria dell’identità sociale: l’identità sociale è la consapevolezza di appartenere ad un


certo gruppo sociale con i significati, le emozioni, le norme e i valori che tale
appartenenza comporta.
E’ sufficiente un grado limitato di consapevolezza di far parte di un gruppo per
mettere in moto i processi psicologici dell’identità sociale.

Confronto sociale: un gruppo è quello che è solo se si differenzia dagli altri gruppi
sociali. Questo meccanismo richiede che un individuo abbia una rappresentazione
mentale della mappa dei gruppi sociali

Categorizzazione sociale: serve a classificare e a dare ordine alla realtà in base ad un


sistema di categorie sociali.
L’esito della categorizzazione è l’elaborazione di una griglia in base alla quale
l’individuo riesce a identificare la posizione sociale che occupa il proprio gruppo.

Differenziazione categoriale: processo di definizione delle differenze tra i gruppi e le


categorie sociali.
Gli individui tendono ad accentuare le somiglianze fra i membri di un gruppo e a
minimizzare le differenze, contemporaneamente tendono ad accentuare le differenze
rispetto ai membri degli altri gruppi e a minimizzare le somiglianze.

- Sociocentrismo e stereotipi

La differenza categoriale porta a modelli comunicativi distinti per comunicazione in-


group e out-group
Per individui che hanno buona appartenenza e identificazione con il gruppo:
_com. out-group: centrata sul compito, finalizzata al raggiungimento di obiettivi
_com. in-group: accanto a scambi comunicativi centrati sul compito, c’è spazio per
forme comunicative concernenti aspetti affettivi e relazioni sociali

Sociocentrismo: tendenza dell’individuo a ritenere sé stesso come punto di


riferimento centrale in termini sociali e culturali e quindi ad accettare solo i simili. Il
sociocentrico pensa di essere l’unità di misura sociale rispetto alla quale gli altri
devono misurarsi.

Una certa dose di sociocentrismo è attiva in ogni individuo e comporta fenomeni più o
meno rilevanti di distorsione nella valutazione delle proprietà presenti nel proprio
gruppo e negli altri.

Stereotipi sociali e controstereotipi


Stereotipo= insieme di credenze circa le proprietà tipiche e distintive di un gruppo di
persone, che consistono in giudizi superficiali e imprecisi.
Si formano nel corso degli scambi comunicativi attraverso un’azione di selezione di
info che favoriscono fenomeni di polarizzazione dei giudizi.
Controstereotipo= conoscenze che si oppongono agli stereotipi; sono efficaci solo se
sono concentrate e diffuse da pochi membri del gruppo.
Gli stereotipi predispongono all’azione in quanto sono strettamente associati ai
pregiudizi (atteggiamenti negativi e ostili nei confronti dei membri di un altro gruppo
in quanto appartenenti a quel gruppo).

Teoria dell’auto-affermazione: poiché il confronto tra gruppi rappresenta una


minaccia all’identità sociale in culture sempre più competitive e più eterogenee, la
creazione degli stereotipi serve a difendere e ad affermare la propria identità.

La comunicazione contribuisce alla generazione e mantenimento degli stereotipi(in


particolare il linguaggio).
Distorsione linguistica di gruppo:
_autostereotipi + ed eterostereotipi-: forme linguistiche astratte (fanno riferimento ad
una disposizione psicologica più o meno permanente)
_ autostereotipi- ed eterostereotipi+: forme linguistiche concrete (sottolineano il
valore occasionale e contingente)

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