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La sociologia:
La psicologia:
Modello di Shannon e Weaver
Ha la funzione di spiegare e
comprendere i processi cognitivi che
regolano la comunicazione
Spiegare il ruolo della comunicazione
come elemento fondante nelle
dinamiche interpersonali e nella
manifestazione del sé
Il significato è una nozione centrale della comunicazione, studiato da molto tempo. Gli
elementi costitutivi del significato sono 3, e la loro relazione viene rappresentata
attraverso il triangolo semiotico:
Il triangolo semiotico tiene conto del fatto che il significato è dato dalla cooperazione di
questi 3 agenti. Ad esempio:
Il significato non esiste di per sé, viene infatti costruito nella relazione interpersonale
tra i partecipanti alla comunicazione. Infatti sono le le reciprocità che si instaurano tra i
soggetti (l’intenzione dell’emittente e l’interpretazione del ricevente) a costruire tale
significato.
L’intenzionalità può riflettersi su vari livelli nella comunicazione. Greys introduce tali
livelli nel 1975:
Da ciò deduciamo anche che i significati possono essere differenti a seconda del
contesto in cui avvengono. Infatti il contesto può far cambiare completamente il
significato di una frase, favorendo il ricorso, da parte dei partecipanti, all’implicatura
conversazionale ovvero all’impegno ad integrare il significato del messaggio con le
conoscenze già possedute (inferenza) che derivano appunto dal contesto.
Es.
Se lo dici a un amico con cui devi prendere il treno, capirà che bisogna sbrigarsi.
Se lo dici al collega con cui sei in ufficio, capirà che vi siete dilungati troppo.
Interazione comunicativa: si basa su alcune regole. Greys nel 1975 propone l’idea che
negli scambi verbali sia sempre individuabile uno scopo comune e che i partecipanti
agiscono rispettando un PRINCIPIO DI COOPERAZIONE, definito come la necessità di
ciascun partecipante di dare il proprio contributo al momento opportuno.
Ad esempio:
Per cedere il turno si può usare l’intonazione o strascicare l’ultima sillaba della
parola che chiude il nostro turno
Per richiedere il turno si possono usare brevi parole che possono precedere una
frase come “ma…”
Per mantenere il turno si può ricorrere a pause piene/vuote o a scambi di
intonazione
Il processo comunicazionale può anche essere visto come una sequenza di azioni nelle
quali DIRE QUALCOSA EQUIVALE A FARE QUALCOSA. Tale idea è alla base della teoria
enunciata da Austin nel 1962, che descrive gli atti linguistici:
Tali atti possono essere distinti anche in base alla forza degli atti stessi. Ad esempio il
tono della voce incide a livello locutorio e la scelta delle parole sul livello illocutorio
(verbi modali tipo “dovresti fare…”).
Trasformazionali: ad esempio dalla forma attiva della frase a quella passiva (“il
bambino mangia la mela” diventa “la mela è mangiata dal bambino”). Secondo
Chomsky la forma attiva è più facilmente comprensibile di quella passiva, e ogni
ulteriore trasformazione comporta a sua volta una maggiore difficoltà e tempo
per l’elaborazione del significato.
Bean nel 1966 dimostrò l’importanza del significato attraverso una ricerca. I
partecipanti guardavano un disegno che descriveva il significato di una frase, e il loro
compito era di rispondere a delle domande “vero o falso” nel minore tempo possibile
per dire se le frasi che comparivano corrispondevano al disegno o meno.
Uno dei disegni usati nell'esperimento
I risultati hanno dimostrato che la frase passiva (“il gatto è inseguito dal cane”)
richiedeva un tempo di risposta molto maggiore rispetto alla versione attiva. Per
un’altra immagine (una ragazza che innaffia i fiori) i tempi erano invece analoghi.
Possiamo immaginare una lingua come una struttura gerarchica piramidale, alla cui
sommità abbiamo unità linguistiche ampie e complesse come il discorso, mentre
scendendo ne troviamo sempre più specifiche e semplici come le frasi e le parole.
Due suoni vengono considerati fonemi diversi se, sostituendoli l’uno con l’altro, danno
luogo a parole diverse. Ad esempio in italiano la “s” e la “t” sono fonemi diversi.
Nessuna lingua possiede l’intero repertorio di fonemi. L’inglese ne possiede 45, una
lingua del Caucaso ne ha 70. Alcuni fonemi comuni a più lingue, altri invece esistono
solo in alcune di esse.
Le combinazioni di fonemi danno vita alle parole. Non tutte le combinazioni sono però
consentite (tipo se uso una parola inventata). Le parole che però sembrano quasi vere
(tipo “darta” che è la storpiatura di “carta”) vengono definite dagli psico-linguistici
come NON PAROLE REGOLARI.
Altre combinazioni invece non sono proprio possibili, tipo “tatza” in cui ci sono la “t” e la
“z” che non si susseguono mai nella nostra lingua. Tali parole vengono dette NON
PAROLE ILLEGALI.
Possiamo avere:
Per comprendere una frase non basta la sintassi, bisogna anche conoscere il
significato delle parole. Fanno eccezione poche parole, come le ONOMATOPEE che
hanno un suono che imita ciò che significano. In tutti gli altri casi vige l’arbitrarietà,
ovvero non c’è nessun nesso particolare tra la sintassi delle parole e il loro significato.
Es. “Il poliziotto guardava il ladro con il binocolo”. Secondo la strategia, l’oggetto
“binocolo” viene associato per attaccamento minimale all’unico verbo semplice
presente nella frase, ovvero “guardava”.
In un esperimento hanno fatto leggere la frase alle persone, sostituendo “binocolo” con
“pistola”. Le persone si soffermavano maggiormente proprio su questa ultima parola,
per cercare di comprendere il senso della frase (che diventava ambigua). Ciò
confermava la presenza di questa strategia dell’attaccamento minimale (e dell’idea
che quando la mente elabora una frase ambigua o non plausibile, la rilegge e trova il
modo di rielaborarla in modo plausibile (“il poliziotto ha la pistola e guarda il ladro”)
Strategia della chiusura differita: introdotta sempre da Frazier nel 1978. Essa afferma
che gli elementi della frase che vengono man mano elaborati, vengono associati ai
nodi in corso di elaborazione.
Es. “Prima che il re cavalchi il suo meraviglioso cavallo bianco, questo viene strigliato”.
La strategia della chiusura differita porta ad associare il verbo “cavalchi” a “il suo
meraviglioso cavallo bianco”.
Parliamo della strategia della catena minima: proposta da De Vincenzi nel 1991,
prevede che il sistema funzioni in modo da evitare di costruire nodi non necessari nella
catena sintattica.
Es. “Chi ha chiamato Andrea?”. Nella frase, “chi” può assumere sia il ruolo di chi chiama,
sia il ruolo di chi viene chiamato. In accordo con tale strategia, i risultati dimostrano
che a “chi” viene associata la prima posizione strutturale disponibile e quindi esso
viene interpretato come soggetto principale che chiama (e Andrea viene chiamato).
Il livello più interessante è quello della formulazione linguistica, che si articola a sua
volta in 3 sottolivelli:
Di recente si sta facendo strada una teoria secondo cui lo studio dei processi cognitivi
può essere affrontato separatamente da quello del corpo e degli organismi.
Infatti è stato proposto che la cognizione sia incarnata (EMBODIED), ovvero che il tipo
di corpo che possediamo non influenzi i nostri processi cognitivi, e che quindi essi
possano essere studiati indipendentemente da esso.
Rifiutare l’idea della separazione tra processi di livello presunto “basso” (come
quelli motori) e processi di presunto “alto” (come il pensiero)
Rilevare profonda continuità esistente tra percezione, azione e cognizione
Percezione e azione non sono considerati processi periferici (input o output)
rispetto ai processi centrali ovvero il pensiero
Si rifiuta anche l’idea che i processi si susseguano in modo seriale, ovvero che la
percezione avvenga sempre prima dell’azione
Non si accetta il ruolo marginale e semplicemente esecutivo che viene
assegnato al comportamento motorio (l’azione)
Viene proposto che la cognizione vada intesa come “situata”, ovvero il fatto che i
processi mentali dipendono dal contesto in cui si sviluppano
1. Questi processi vengono considerati molto flessibili e dinamici, proprio perché
dipendono dal contesto
L’idea di Fodor del 1975 afferma invece che esiste un LINGUAGGIO DEL PENSIERO, i cui
mattoni sono i concetti del pensiero stesso. Tali concetti vengono intesi come simboli
dati dalla combinazione di un insieme di tratti di natura proposizionale simil-
linguistica.
Il vantaggio di tale natura simbolica dei concetti è che i simboli, grazie alle loro
proprietà combinatorie, consentono la creatività e la produttività del pensiero.
Combinare i simboli ci permette ad esempio di immaginare un drago verde a pois,
anche se non lo abbiamo mai visto veramente.
In sintesi:
Esiste quindi uno stretto legame soggetto-azione, che porta all’attivazione delle aree
del cervello adibite all’atto stesso. È come se stessimo simulando mentalmente
l’attività che di solito svolgiamo con quell’utensile o oggetto. La simulazione è
fondamentale nella teoria embodied, e si lega alla scoperta dei neuroni specchio che
si attivano quando vengono svolte azioni orientate a uno scopo.
Un punto di svolta per quanto riguarda invece la SIMULAZIONE DEL LINGUAGGIO UMANO
è stata l’implementazione di reti in grado di processare input nel tempo, tenendo
conto dei pattern presentati nell’unità di tempo precedente.
A un certo punto però è necessario compiere ulteriori errori per ridiscendere lungo la
curva.
Davanti a una parola nuova infatti (es. “bivo”) il bambino (che ha poche reti neurali)
dirà “bivone”. L’adulto invece non saprebbe come comportarsi, incappando appunto in
un minimo locale.
Uno dei nodi cruciali emersi dopo l’implementazione della rete di Elman è legato
all’idea di un’ORIGINE GESTUALE, invece che vocale, del linguaggio. A sostegno di tale
ipotesi, si parla spesso dei neuroni specchio.
I dati su tale precocità di attivazione non sono però sempre chiari. È invece abbastanza
certo che l’attivazione del sistema motorio avviene in modo SOMATOTOPICO
(leggendo qualcosa che riguarda un gesto da fare con la mano, nel mio cervello si
attivano i moto-neuroni legati al movimento della mano stessa).
Non possiamo comunque escludere che una persona paralitica dalla nascita (quindi
senza nessun controllo sulla corteccia motoria primaria) possa imparare e
comprendere il linguaggio.
Questo però non significa necessariamente che il sistema motorio non sia coinvolto
nella comprensione del linguaggio, piuttosto significa che:
Problema: come simuliamo le unità lessicali che non hanno un referente, come la
NEGAZIONE?
Kaup, Zwaan e Ludtke (2007) hanno proposto una teoria embodied della negazione in
base a cui la comprensione di frasi negative sarebbe un processo composto da 2
stadi.
Secondo questi studi esiste quindi una spiegazione embodied di fenomeni complessi
come la negazione.
Secondo le teorie embodied i significati delle parole astratte non hanno uno statuto
differente da quelli delle parole concrete.
Esistono 3 diverse spiegazioni a ciò:
Per apprendere una lingua non occorre una grammatica universale in dotazione, ciò
che serve è:
Riconoscono che ci sono prove concrete che i simboli linguistici sono embodied
Riconoscono che ci sono altre prove che confermano che i simboli possono
derivare il loro significato dalle loro relazioni con altri simboli
Propongono l’ipotesi dell’interdipendenza dei simboli, secondo cui la
comprensione linguistica è un processo misto, sia embodied sia simbolico
Le dimostrazioni più chiare che i simboli sono embodied sono ottenute con compiti che
comportano un’elaborazione semantica profonda, come ad esempio la
categorizzazione, la valutazione della sensatezza di una frase ecc.
Tale postulazione è necessaria perché l’idea è che le parole astratte non rimandano
necessariamente a una particolare esperienza corporea, bensì all’insieme di
esperienze che co-occorrono all’uso della stessa parola astratta (esperienze
linguistiche).
Negli ultimi anni alcune teorie embodied hanno iniziato a riconoscere il ruolo del
linguaggio per la conoscenza. Secondo la teoria LASS (language and situated
simulation) la conoscenza è rappresentata da sistemi multipli, in particolare da un
sistema basato sulle simulazioni e da un sistema basato sul linguaggio.
Prince (2002) propone una teoria embodied più vicina alla nostra. Essa afferma che
una parola astratta (es. democrazia) viene compresa in parte associando ad essa
immagini concrete, in parte richiamando definizioni che rimandano ad altre parole.
Si tratta di un compromesso che dà la stessa importanza sia all’esperienza
linguistica sia a quella non linguistica.
Le teorie embodied hanno trascurato una cosa importante: il fatto che noi siamo
ESSERI PARLANTI. Esse si sono concentrate solo sulle relazioni tra le parole e i loro
referenti, trascurando il fatto che il linguaggio è frutto della cultura in cui siamo
immersi e può influenzare il nostro pensiero e l’organizzazione della nostra conoscenza.
Altra idea è quella delle PAROLE COME UTENSILI, delle protesi, estensioni del nostro
corpo. Osservando la nostra mano, essa è per noi un oggetto ma anche una parte del
nostro corpo. Allo stesso modo sono le parole.
È stato dimostrato che quando usiamo uno strumento, il nostro cervello risponde in un
modo particolare, al punto da percepire lo strumento come un’estensione del nostro
corpo che ci permette di ampliare la portata delle cose che possiamo fare.
I risultati mostrano che, se alcuni modi di concettualizzare il tempo sono universali (ad
esempio il riferirsi al tempo con metafore spaziali come la freccia), la lingua parlata ha
un effetto notevole sulla cognizione.
Occorre capire se tale risultato vale solo per la nozione di tempo e se può essere esteso
anche ad altri domini.
CODICI VISIVI E CODICI VERBALI
L’universalità del linguaggio visivo è caratteristica di quei segni che mantengono una
stretta relazione di somiglianza strutturale/percettiva con l’oggetto a cui si riferiscono (i
più classici sono i pittogrammi, tipici dei cartelli stradali).
Linguaggio visivo e verbale non sono equivalenti, ognuno ha un suo scopo e una sua
efficacia in determinati contesti piuttosto che in altri.
Il linguaggio verbale richiede uno sforzo cognitivo maggiore, che può portare a
maggior probabilità di commettere errori.
Anche l’uso del computer è un chiaro esempio di linguaggio visivo (prima invece era
necessario il linguaggio verbale per fini di programmazione).
Il linguaggio visivo ha però anche dei limiti, poiché non cattura tutte le caratteristiche
degli oggetti che rappresenta. Ad esempio una foto descrive solo la prospettiva in cui è
stata scattata.
Tipo le frecce che puntano verso il basso o l’alto? Talvolta il verso della freccia si usa
per dire di salire al piano superiore o scendere all’inferiore, altre volte invece la freccia
in alto indica che bisogna proseguire dritti. Ciò può essere motivo di confusione.
Simbolo e segno non sono la stessa cosa. L’uso dei simboli è maggiormente soggetto
a differenze culturali. Es. in occidente il crisantemo è simbolo dei defunti, in oriente
invece si usa ai matrimoni.
Esistono delle leggi che governano il linguaggio visivo, tuttavia alcuni tipi di
organizzazione percettiva sono considerati innati. Questi ultimi sono stati studiati dagli
esperti della scuola della Gestalt.
Il processo più elementare legato alla capacità visive consiste nel riuscire a isolare
diverse configurazioni presenti nel campo visivo. Tale abilità è chiamata
ARTICOLAZIONE FIGURA-SFONDO.
Tale principio è attivo sia per forme che hanno un significato, sia per forme prive di
significato (come la prima immagine a sinistra, in cui qualcuno potrebbe attribuire il
ruolo centrale alla macchia nera piuttosto che allo sfondo grigio).
Principio di somiglianza: stimoli simili tra loro (es. per colore o forma) vengono
concepiti come un’unica configurazione
Principio di vicinanza: tende a unificare degli elementi tra loro
vicini (piuttosto che lontani) in un’unica configurazione
Principio di chiusura: assume che venga percepita come
un’unità la porzione di campo in cui gli elementi formano o
tendono a formare una figura chiusa
Principio di continuità: gli elementi del campo percettivo vengono unificati in
modo da percepire elementi coerenti nella forma e nella direzione
Es. nel video di una scena marina con pesci e alghe, i partecipanti dovevano dire cosa
avevano visto. Gli americani descrivevano la scena partendo dagli oggetti salienti,
ovvero i pesci. I giapponesi invece iniziavano a descrivere partendo dallo sfondo.
Nel complesso le informazioni fornite dai giapponesi erano molto più complete di
quelle degli americani.
Ciò indica chiaramente il ruolo del contesto culturale e la sua capacità di influenzare i
processi percettivi.
Entrambi sono considerati codici, cioè sistemi di segni e regole che permettono
di rappresentare, interpretare e trasmettere le informazioni
I due codici differiscono principalmente nella relazione che lega il segno
(parola e immagini) al corrispondente significato
Nel linguaggio verbale tale relazione è arbitraria
Nel linguaggio visivo tale relazione deriva da un’associazione intrinseca tra le
immagini e i concetti corrispondenti
Il modo in cui le conoscenze sono rappresentate nella nostra mente è uno degli
argomenti di maggiore interesse per gli psicologi, soprattutto per quanto riguarda i
concetti astratti (come le parole “libertà” o “sirena”, ma anche le sensazioni derivanti
dal gusto come “dolce” o “salato”).
MEMORIA
Sensoriale
A breve termine
A lungo termine
Episodica: riguarda eventi ed episodi, quindi con uno stretto legame alle
coordinate spazio-temporali in cui si creano (es. “Londra” può essere
memorizzata dal punto di vista semantico come capitale dell’Inghilterra, ma i
ricordi di essa derivano dalla memoria episodica (trasmissioni televisive, visite in
prima persona etc.)
Semantica: insieme delle rappresentazioni mentali a lungo termine che
riguardano parole, concetti e simboli (es. “il cane è un animale”). Racchiude le
conoscenze enciclopediche di un individuo, e si pensa che sia slegata dalle
coordinate spazio-temporali in cui si è creata.
Dichiarativa
Procedurale
Per quanto riguarda il sistema semantico, alcuni pensano che esistano due sistemi
semantici indipendenti, uno verbale e uno non verbale (modello del doppio codice di
Paivio), altri credono invece che ci sia un sistema semantico unico.
Il primo modello prevede che i due sistemi dialoghino tra loro attraverso una serie di
connessioni. Prima l’elemento viene catturato dal sistema visivo, e poi viene trasferito in
quello verbale (vedo una sedia, e poi recupero l’espressione lessicale della parola
“sedia”).
In sintesi questo modello ritiene che informazioni di natura diversa e/o provenienti da
sistemi sensoriali diversi siano codificati attraverso sistemi di memoria specializzati.
La critica più forte che si può fare a questo modello è legata alla ridondanza delle
informazioni. Infatti secondo questa idea dovrebbero anche esistere tanti sistemi
verbali quante sono le lingue parlate da un individuo, il che va contro il principio di
economia cognitiva legato all’impiego minimo possibile di risorse da parte del cervello.
Per aggirare questo ostacolo alcuni studiosi credono appunto che le conoscenze siano
invece organizzate in un unico sistema di rappresentazione semantico.
Il tipo di stimolo
La lingua usata
La modalità di presentazione dello stimolo
Per la mente umana l’ipotesi più accettata circa tale organizzazione del sistema
semantico è che i concetti siano rappresentati come nodi in una rete. Ciascun nodo
corrisponde a un concetto, e le connessioni tra i nodi rappresentano le relazioni tra i
vari concetti.
Categoriale (topo-leone)
Gerarchico (topo-animale)
Associativo (topo-formaggio)
Misto (cane-gatto)
Le relazioni si differenziano inoltre in base alla loro forza. Infatti i concetti più vicini per
significato lo sono anche dal punto di vista dello spazio semantico.
Es. è più facile decidere che “luna” è una parola quando è preceduta da “stella” rispetto
a quando è preceduta da “scarpa”.
Questi risultati sperimentali sono in accordo con la teoria del modello a rete.
Ciascuna componente è
autonoma, e assolve a uno
specifico compito nel
processo.
A livello pre-semantico il
modello prevede 3
componenti specifiche per la
modalità di accesso:
1. Prima la stringa di lettere viene analizzata dal punto di vista visivo e ortografico,
riconoscendo tutte le lettere che compongono la parola
2. Poi si entra nel lessico ortografico, recuperando il significato della parola
attraverso l’attivazione del nodo corrispondente
Nel lessico mentale non si verifica un semplice accesso ad una parola, ma è
necessaria appunto un’attivazione.
1. Via non lessicale: ciascun grafema viene tradotto nel corrispondente fonema.
Fondendoli insieme otteniamo il codice fonologico della sequenza. Tale
procedure è indispensabile per leggere parole nuove (anche se questo può
causare difetti di pronuncia proprio perché è una via non lessicale)
2. Via lessicale: prevede il riconoscimento dell’intera forma di una parola, prima
nel lessico ortografico e poi in quello fonologico. Le parole irregolari possono
essere lette correttamente solo usando questa via.
La differenza principale da quella verbale è l’ASSENZA DEL VERBO o parola, tipico della
comunicazione verbale.
L’inconsapevolezza può essere presente anche nel ricevente, che potrebbe anche
decodificare alcuni segnali non verbali in modo inconsapevole (ad esempio imitando
la postura di chi ha di fronte).
Nel 2011 il concetto di silenzio è stato ampliato da alcun studiosi, includendo anche le
pause colmate da vocalizzazioni (es. “ehhhm”).
Per quanto riguarda il sistema cinesico, i gesti vengono suddivisi da Annoli (2002) in 6
tipi:
Abbiamo infine le posizioni di apertura (esprimono positività, come fare sì con la testa
o avvicinarsi per prendere un oggetto) e le posizioni di chiusura (esprimono negatività,
come abbassare lo sguardo e ingobbirsi su sé stessi).
Questa classificazione vale per la cultura americana degli anni 60. Ma tra le diverse
culture la cosa cambia. Ad esempio tra i popoli arabi sembra ci sia più propensione a
mantenere la vicinanza fisica.
I messaggi però non sono sempre di univoca catalogazione all’interno dei sistemi di
cui abbiamo parlato. Ad esempio, in base alla situazione la postura potrebbe
appartenere sia al sistema cinesico sia a quello prossemico o visivo.
I diversi sistemi possono quindi unirsi e contribuire alla costruzione del significato.
I segnali non verbali regolano invece i processi cognitivi a vari livelli: a livello individuale
(es. processi di autopersuasione), a livello interpersonale e anche di intergruppi.
I segnali non verbali non si limitano a segnalare un contenuto. Essi infatti sono cruciali
nel segnalare i nostri stessi atteggiamenti e stati d’animo (es. quando sorridiamo
sveliamo il nostro stato psicologico).
Angeli (1972) afferma che i segnali non verbali non sono solo conseguenze, possono
anche essere le cause dei corrispondenti stati psicologici (es. spesso ci sentiamo più
felici dopo aver sorriso, o più arrabbiati dopo aver messo il broncio).
Secondo Brinol e Petty (2008) l’influenza degli stati corporei sugli atteggiamenti può
avvenire su 3 principali processi:
1. Fungendo da semplici indizi (es. un oggetto neutro viene valutato più piacevole
se osservato mentre si flette un braccio verso sé stessi piuttosto che
allontanandolo dal corpo)
2. Sul modo e la quantità di elaborazione delle informazioni (es. stare sdraiati
mentre si parla promuove un’elaborazione più persuasiva del messaggio
rispetto a stare in piedi)
3. Influenzare la sicurezza delle persone nelle proprie idee
EVOLUZIONE CULTURALE
Ad esempio per noi 2+2=4, mentre per loro fa “quasi 4”. Gli studi sul numero rivelano
che il fatto di possedere termini non ambigui per designare i numeri, influenzi in modo
forte la capacità di contare e ragionare coi numeri.
Si pensa anche che il contare e il sommare possano essere intesi come modi di
“pensare per parlare”, diversi da altre forme di pensiero.
Altri studi rivelano che siamo sensibili alle relazioni spaziali codificate
linguisticamente. Questo significa che in base alla lingua, codifichiamo la
concettualizzazione dello spazio in modo diverso.
Ad esempio in un esperimento con bambini inglesi e coreani è stato constatato che gli
inglesi distinguono tra collocare un oggetto su un piano o in un contenitore, mentre i
coreani non possiedono questa distinzione.
Altro esempio per capire il concetto sono i quadri di riferimento spaziali, che
cambiano in base alla lingua:
I gesti sono tipicamente legati al quadro di riferimento proprio della lingua madre,
dunque la lingua influenza anche forme non verbali come appunto i gesti.
Altra domanda: il sole in italiano è maschile, mentre in tedesco è femminile. Ciò può
influire sulla rappresentazione del sole tra italiani e tedeschi? La risposta è sì, i tedeschi
tendono a vedere il sole come un’entità femminile, gli italiani maschile.
Quindi la lingua influenza anche questo fattore, portandoci a credere che essa non
influenzi soltanto il pensare per parlare ma anche il pensare e basta.
Quindi un gruppo di oggetti in una cultura differisce spesso dal medesimo gruppo in
un’altra cultura. In sintesi, lingua e pensiero non sono indipendenti, ma si integrano, ed
è difficile dire se effettivamente esista un “pensare per parlare” o semplicemente un
“pensare e basta”.
Questo perché l’effetto della lingua non sembra estendersi oltre certi compiti, ma
pare limitarsi soltanto ai compiti di natura linguistica o simil-linguistica (come
contare), quindi diventa difficile dare una risposta univoca.
Per i colori c’è un discorso particolare. Si potrebbe pensare che per essi gli aspetti
cognitivi dovrebbero dominare su quelli linguistici, tuttavia secondo gli studi sembra
che sia la lingua a influenzarne la percezione.
Va comunque specificato che, secondo altri studi, sembra che le categorie che si
formano nel cervello a livello di reti non linguistiche, vengano poi influenzate da quelle
linguistiche.
Nella psicologia contemporanea c’è l’idea che il pensiero viene prima e determina il
linguaggio. A sua volta, il linguaggio non sarebbe altro che la sotto-componente di
un’abilità cognitiva più generale che è la CAPACITA’ SIMBOLICA.
La scuola sovietica crede invece che il pensiero e il linguaggio seguano due percorsi
autonomi, per poi andare a incontrarsi (ovvero nel momento in cui il bambino usa il
linguaggio come uno strumento, risolvendo problemi pratici).
Le funzioni linguistiche sono nell’emisfero sinistro del cervello. Ci sono aree ben
precise, connesse tra loro. Gazzaniga ha svolto diversi esperimenti i cui risultati
affermano che l’emisfero sinistro è il luogo in cui risiede il processo semiotico
responsabile dell’interpretazione, pronto a colmare le lacune della nostra coscienza
(una serie di catene interpretanti che si attivano una in relazione all’altra).
Altri studi sui due emisferi dimostrano che, in certe condizioni, i processi percettivo-
esperienziale e linguistico possono dimostrarsi come processi parzialmente autonomi.
In pratica si tratta di stimoli diversi a cui il cervello risponde allo stesso modo. Tale
somiglianza non è arbitraria, ma funzionale e dipende dall’interazione tra l’organismo e
l’ambiente circostante.
Gli innatisti, secondo cui sia la percezione dei colori sia le categorie percettive
sono processi universali, frutto di qualcosa di superiore
Gli empiristi, secondo cui le categorie percettive non sono innate, ma sono il
frutto della nostra esperienza
I culturalisti, secondo cui è la cultura (mediata dalla lingua) a influenzare la
formazione delle categorie percettive
Alcune simulazioni fatte con robot autonomi hanno cercato di verificare quale delle 3
correnti avesse ragione. I risultati suggeriscono che la lingua abbia un ruolo importante
in questo processo.
Secondo altri studi, l’evoluzione del linguaggio avviene grazie a 2 processi differenti:
Quando questi due processi vengono messi in competizione tra loro, sembra che
quello più efficace sia quello legato al linguaggio, quindi possiamo dedurre che
quest’ultimo offre un VANTAGGIO ADATTATIVO.
La lingua permette inoltre di pianificare meglio le nostre azioni, riferendoci quindi non
ad azioni presenti ma rappresentando invece il futuro da pianificare.
Per quanto riguarda gli animali, essi non hanno la capacità di formare una categoria la
cui relazione sia basata su altre relazioni (si fermano al primo livello). Se però
insegniamo alle scimmie un sistema di comunicazione simbolico (esperimento
avvenuto nel 1997), lo loro struttura percettiva cambia e iniziano a vedere relazioni
anche laddove prima vedevano semplici oggetti.
Infatti ricordare una parola è molto meno costoso rispetto a ricordare tutte le
esperienze percettive connesse ad essa. Ciò è testimoniato anche dal frequente
utilizza della lingua scritta (libri, telefoni, computer) come strumento per una MENTE
ESTESA.
Il ruolo della lingua è stato simulato da Lupian (2005), e i suoi esperimenti lo hanno
portato a dire che l’uso della lingua comporta un forte risparmio di risorse cognitive.
Infatti non ci serve ricordare un oggetto nel dettaglio, poiché sono sufficienti solo i suoi
COMPONENTI PROTOTIPICI.
Ciò avviene nella fase di apprendimento. Quando però la rete deve testare due diversi
input per capire quanto siano simili tra loro, le reti non linguistiche offrono risultati
migliori con categorie ad alta variabilità interna.
Lupian spiega infatti che l’etichetta linguistica consente un processo di astrazione che
enfatizza i tratti comuni agli oggetti, rendendo meno rilevanti i tratti che li differenziano.
Sempre Parisi ha svolto ulteriori esperimenti con altri studiosi, sempre coinvolgendo i
robot. Egli ha dimostrato che l’acquisizione del linguaggio offre un vantaggio nell’uso
delle abilità senso-motorie.
La cultura, come un DENTE D’ARRESTO, impedisce che ogni conquista venga infatti
persa nel passaggio alla generazione successiva. Grazie all’imitazione ogni
innovazione è non solo comunicabile, ma anche insegnabile e tramandabile.
Luc Steel (2003) ha studiato il linguaggio privato, enfatizzandone il ruolo sociale poiché
esso permette di simulare il pensiero altrui e porre le basi per nuovi comportamenti
sociali più complessi.
Tale capacità è detta TEORIA DELLA MENTE e secondo molti è una condizione
necessaria anche per l’apprendimento del linguaggio stesso.
Infatti i bambini sviluppano la loro abilità linguistica subito dopo aver sviluppato
un’altra abilità, l’ATTENZIONE CONDIVISA. Essa è la capacità di condividere
l’attenzione con qualcuno su un altro soggetto o elemento.
Il linguaggio permette infatti di riferirsi a cose o eventi anche in assenza spaziale e
temporale degli stessi. Quindi esso diventa fondamentale per la pianificazione degli
eventi futuri. Lo stesso Steel ritiene che il linguaggio richieda di essere pianificato per
l’utilizzo.
Steel ha svolto una simulazione in cui gli agenti usavano solo nomi e verbi semplici,
rudimentali, causando ambiguità.
Steel propone una via di apprendimento che cerca di conciliare l’evoluzione biologica
con quella culturale.
Che ci sia una popolazione dove gli individui abbiano diverse possibili strategie
per negoziare e usare sistemi di comunicazione
Che alcune strategie possano essere più efficaci di altre, con conseguenti
difficoltà e successi diversi in base alla strategia adottata
Che gli agenti tentino di massimizzare la potenza espressiva, ottimizzare il
successo comunicativo e minimizzare lo sforzo, cercando la strategia più
adattativa che diventerebbe quindi quella dominante in grado di spiazzare
quelle dei rivali
Infatti di solito le nuove conoscenze del lessico vengono trasmesse da parlanti più
esperti a parlanti meno esperti.
È stato quindi proposto un nuovo esperimento con vere e proprie popolazioni adulte
esperte contrapposte a popolazioni con un lessico molto limitato. Queste ultime, una
volta appresi nuovi significati, diventavano a loro volta le popolazioni adulte pronte a
insegnare il linguaggio ai nuovi nati.
Per Pierce la relazione che un segno può avere con l’oggetto a cui si riferisce può
essere di 3 tipi:
Una parola potrebbe non riferirsi necessariamente a un solo oggetto. Essa può anche
avere riferimenti diversi, come nei casi di polisemia e omonimia.
Alcuni studiosi ritengono addirittura che la semantica non esista. Da un lato ci sono
le parole, dall’altro ci sono gli oggetti del mondo a cui si riferiscono. Le parole sono
quindi soltanto etichette, come quelle esposte da un commerciante al mercato.
C’è un altro modo per fare a meno della semantica, e quindi dei significati. Secondo
Chomsky il bambino ha a disposizione i concetti prima ancora di aver appreso la
lingua. Quando impara la lingua, il bambino sta semplicemente apprendendo delle
etichette da applicare a concetti che sono già parte del suo apparato concettuale.
Per Chomsky i concetti sono quindi comuni a tutte le lingue della terra, e fanno da
riferimento agli altri sistemi come la lingua.
Perché nella nostra dotazione psicologica c’è una sola FACOLTA’ DEL LINGUAGGIO, ma
esistono anche migliaia di lingue umane tutte diverse.
Questa diversità mette in crisi l’identificazione della psicologia con la semantica. Infatti
se esistesse una sola lingua, non ci sarebbe bisogno della semantica.
Quando interviene la lingua, questi due piani vengono combinati tra loro. Queste due
facce sono interdipendenti, non può esistere una senza l’altra. La loro unità corrisponde
al segno.
I concetti non variano, restano gli stessi per tutte le lingue (convenzionalità), variano
invece i segnali attraverso cui i concetti si esprimono.
De Saussure sostiene invece che nel passaggio da una lingua all’altra cambiano
anche i contenuti del pensiero. Quindi secondo questa idea chi pensa nella lingua A,
pensa in modo diverso da chi pensa nella lingua B.
In ogni caso è sempre possibile stabilire un terreno comune tra lingue diverse,
estendendo e contraendo i confini tra i diversi segni per trovare questo punto di
incontro e permettere una traduzione.
È possibile isolare una certa porzione di PNL, a patto che si disponga di una porzione di
SNL e viceversa.
L’uso congiunto dei due piani avviene attraverso il sistema dei segni. Le forme di
pensiero non potrebbero esistere se non si incarnassero nei segni delle lingue.
Quindi un significato non esiste di per sé, ma solo con alla base un PENSIERO
CONCETTUALE (che va oltre la lingua) e un PENSIERO VERBALE (che è legato in modo
indissolubile alla lingua).
Ogni segno è una miscela di porzioni particolari di PNL e SNL. Esso non è quindi
un’entità statica, ma un’entità temporale.
LEGGENDA DELLA NEVE: la lingua degli eschimesi conterrebbe decine se non centinaia
di termini diversi per riferirsi alla nave. Ciò renderebbe questa lingua non traducibile
nella nostra, che possiede solo il termine “neve”.
Per un eschimese la neve è molto importante, quindi questo fatto di valorizzarla non ci
sorprende.
Ma questo significa sostenere che una differenza culturale influenza la fisiologia stessa!
Sapir Whorf ha sviluppato un’ipotesi su questa teoria, che parla del rapporto tra
natura e cultura.
Avviene un caso particolare con i colori, che ci porta a chiederci se le persone pensino
alla stessa variante cromatica ad esempio sentendo la parola “rosso”. Possiamo
individuare il campo dell’ESPERIENZA CROMATICA e le FUNZIONI DELLA LINGUA, le quali
segmentano questo campo in modo arbitrario. A ciascuna porzione ogni lingua
attribuisce poi una parola e questo porta alla nascita di più o meno varianti di uno
stesso colore tra una lingua e l’altra.
La critica più importante a questa teoria è l’idea che in realtà l’esperienza cromatica
contiene degli UNIVERSALI SEMANTICI, ovvero zone che attirano il nostro sguardo a
prescindere dalla loro eventuale associazione con le parole.
Su tali zone andrebbero quindi a concentrarsi anche le lingue, assegnando delle parole
proprio a tali PUNTI PRIVILEGIATI dello spettro visivo.
Questa teoria esposta da Berlin e Kay è definita BASIC COLOUR TERM, e individua 11
nomi basici di colore nelle lingue umane, 11 punti privilegiati. Ma tale teoria cade nel
momento in cui ci rendiamo conto che non possiamo trovare tutte e 11 le categorie in
tutte le lingue del mondo. Ergo non sono universali.
Se mettiamo un frutto davanti a una scimmia, lei vedrà anche quello che potrà fare
con quel frutto, e non solo il frutto in sé.
Infatti noi umani non è che prima prendiamo l’oggetto e poi ci viene in mente cosa
farci. Già nel momento in cui lo vediamo, la nostra mente ci offre le possibilità d’azione
che abbiamo con l’oggetto stesso, ciò che esso potrebbe diventare.
L’uomo vede sì con la mano e gli occhi, ma anche attraverso le parole della lingua. Il
linguaggio da questo punto di vista non è altro che un deposito di pezzi con cui è
possibile costruire una serie di ipotesi.
Una tazzina non è solo un oggetto da afferrare, essa infatti diventa tutto ciò che
possiamo fare con essa.
L’intuizione teorica della tesi di Sapir Whorf è che un pensiero come quello umano,
capace di vedere in una tazzina anche quello che ancora non è, è:
Il concetto di spazio varia con la lingua, come anche quello di tempo e di materia.
Infatti noi non pensiamo agli oggetti come fini a sé stessi, ma li relazioniamo in un
contesto spazio-temporale ben preciso che è a sua volta condizionato dai segni
linguistici.
Per quanto riguarda i colori, essi vengono generalmente identificati non tanto da ciò
che positivamente indicano, bensì da che cosa si differenziano.
Tutte le lingue hanno almeno 2 BASIC COLOUR TERMS. In esse si stabilisce appunto il
campo di applicazione di un termine di colore differenziandolo appunto da almeno
quello di un altro termine di colore.
Le operazioni di categorizzazione sono guidate dalle funzioni della lingua e non dalla
percezione, motivo per cui molti bambini fanno fatica a iniziare a parlare dei colori. Essi
infatti devono imparare a suddividere quel determinato spettro in base alle regole
della loro lingua madre.
Questo non significa che le diverse lingue fanno vedere colori diversi alle persone,
bensì tale teoria influisce sulla diversa concentrazione che si assume nei confronti di
un colore rispetto a un altro.
Dobbiamo prendere atto che gli umani mostrano un pensiero diverso da quello degli
altri animali, poiché esso subisce l’influenza della lingua e l’esempio dei colori ne è
una prova.
Anche i daltonici o chi soffre di acromatopsia non hanno comunque problemi nel
parlare di colori. Semplicemente, il daltonico utilizza un campione di colore nella sua
mente che è completamente diverso dal nostro, che lo porterà a valutazioni diverse
quando la utilizzerà per confrontarla con i colori degli oggetti che vede.
Questo porta l’individuo ad accettare solo coloro che gli sono simili, e a rifiutare coloro
che si differenziano da lui secondo i parametri scelti.
Il sociocentrismo è una variabile continua, presente anche solo in minima parte in ogni
persona. Questo porta spesso a fenomeni più o meno rilevanti di distorsione nella
valutazione delle proprietà presenti in un gruppo (ingroup) e negli altri gruppi
(outgroup).