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Psicologia sociale

La comunicazione è un’attività complessa che si sviluppa nelle relazioni interpersonali.


Sono necessarie almeno 2 persone affinché la comunicazione possa svilupparsi.

La comunicazione avviene in un ambiente sociale. La dinamica comunicazionale si


sviluppa in una relazione tra partecipanti che condividono:

 Un sistema di suoni significativi


 Un sistema di segni e significati
 Un insieme di regole e convenzioni

La comunicazione è stata oggetto di studio da parte della linguistica (costruzione,


mezzi che veicolano il messaggio e regole che governano la comprensione di questi
mezzi).

La semiotica ha un ruolo particolare in questo contesto. Essa è la disciplina che si


occupa delle modalità con cui si costruisce il significato e di come i soggetti coinvolti
attribuiscono un senso ai contenuti.

Anche la sociologia e la psicologia hanno un ruolo importante.

La sociologia:

 Ha aiutato gli studiosi a comprendere il ruolo della comunicazione nel


determinare l’azione sociale
 Ha aiutato a evidenziare le modalità con cui interagiscono le strutture sociali e
del comportamento linguistico

La psicologia:
Modello di Shannon e Weaver
 Ha la funzione di spiegare e
comprendere i processi cognitivi che
regolano la comunicazione
 Spiegare il ruolo della comunicazione
come elemento fondante nelle
dinamiche interpersonali e nella
manifestazione del sé

Il modello più famoso che descrive la struttura


della comunicazione è quello di Shannon e
Weaver del 1949, dove la comunicazione è
vista come un sistema in cui una sorgente
invia un messaggio al destinatario.
Il messaggio viene trasformato in un segnale attraverso un apparato trasmettitore, e
quest’ultimo viene poi nuovamente trasformato in messaggio da un apparato
ricevitore prima di raggiungere il destinatario.

Il trasmettitore codifica il segnale, mentre il ricevente lo decodifica. Affinché la


comunicazione abbia successo, i segnali devono essere trasformati in un codice
comune a entrambi. Inoltre, il modello lineare introduce anche il concetto di rumore,
inteso come qualsiasi elemento che può interferire con la corretta trasmissione del
segnale.

I rumori possono essere di natura:

 Esterna (impediscono la corretta percezione di ciò che viene detto)


 Fisiologica (legati al funzionamento degli apparati di trasmissione e ricezione dei
messaggi)
 Psicologica (interferiscono con l’abilità di esprimere e comprendere i messaggi)

Il modello tiene conto anche dell’intenzionalità (associata all’espressione dei


messaggi) e il contesto (in cui essi si trasmettono).

Il significato è una nozione centrale della comunicazione, studiato da molto tempo. Gli
elementi costitutivi del significato sono 3, e la loro relazione viene rappresentata
attraverso il triangolo semiotico:

1. Simbolo o segno: i sistemi segnici usati negli scambi comunicativi


2. Referenza: l’idea corrispondente al simbolo
3. Referente: la realtà rappresentata dal simbolo

Il triangolo semiotico tiene conto del fatto che il significato è dato dalla cooperazione di
questi 3 agenti. Ad esempio:

Simbolo= la parola “tavolo”

Referente= l’elemento reale, l’oggetto della comunicazione

Referenza= la rappresentazione mentale di ciò che viene comunicato


Importante sottolineare che il simbolo non ha un rapporto diretto con il referente
(l’oggetto concreto, infatti la linea è tratteggiata), ma solo con il concetto ovvero la
referenza.

Il significato non esiste di per sé, viene infatti costruito nella relazione interpersonale
tra i partecipanti alla comunicazione. Infatti sono le le reciprocità che si instaurano tra i
soggetti (l’intenzione dell’emittente e l’interpretazione del ricevente) a costruire tale
significato.

L’intenzionalità può riflettersi su vari livelli nella comunicazione. Greys introduce tali
livelli nel 1975:

1. Primo livello: intenzione informativa, chi emette il messaggio vuole trasmettere


un determinato contenuto consentendo al ricevente di incrementare la propria
conoscenza (es. A dice a B che Ebay vende anche i trenini elettrici)
2. Secondo livello: intenzione comunicativa: chi emette il messaggio vuole
coinvolgere il destinatario al fine di favorire la condivisione del contenuto del
messaggio stesso (es. A dice a B che per comprare un treno elettrico bisogna
passare per forza attraverso Ebay)

Da ciò deduciamo anche che i significati possono essere differenti a seconda del
contesto in cui avvengono. Infatti il contesto può far cambiare completamente il
significato di una frase, favorendo il ricorso, da parte dei partecipanti, all’implicatura
conversazionale ovvero all’impegno ad integrare il significato del messaggio con le
conoscenze già possedute (inferenza) che derivano appunto dal contesto.

Es.

“Sono già le 8!”.

Se lo dici a un amico con cui devi prendere il treno, capirà che bisogna sbrigarsi.

Se lo dici al collega con cui sei in ufficio, capirà che vi siete dilungati troppo.

Interazione comunicativa: si basa su alcune regole. Greys nel 1975 propone l’idea che
negli scambi verbali sia sempre individuabile uno scopo comune e che i partecipanti
agiscono rispettando un PRINCIPIO DI COOPERAZIONE, definito come la necessità di
ciascun partecipante di dare il proprio contributo al momento opportuno.

Tale principio si articola in 4 regole (massime conversazionali):

 Massima della quantità: i partecipanti devono fornire solo le informazioni


necessarie a comprendere il messaggio
 Massima della qualità: i partecipanti devono fare affermazioni vere e che
possano essere sostenute da prove adeguate
 Massima della relazione: i partecipanti devono fornire informazioni pertinenti
con intenzione comunicazionale
 Massima del modo: gli interlocutori devono considerare il modo in cui il
contenuto della comunicazione deve essere espresso, cercando quindi di essere
chiari

Il principio di cooperazione viene applicato in particolare alla CONVERSAZIONE.


L’avvicendamento dei turni è necessario per evitare sovrapposizioni e ottenere una
comunicazione comprensibile.

Ad occuparsi di tale avvicendamento è stato Duncan nel 1972, analizzando le


registrazioni di diverse conversazioni. Egli ha individuato una serie di indizi verbali (e
non) che suggerivano la volontà del parlante di cedere il turno, piuttosto che di
richiederlo o di mantenerlo.

Ad esempio:

 Per cedere il turno si può usare l’intonazione o strascicare l’ultima sillaba della
parola che chiude il nostro turno
 Per richiedere il turno si possono usare brevi parole che possono precedere una
frase come “ma…”
 Per mantenere il turno si può ricorrere a pause piene/vuote o a scambi di
intonazione

Il processo comunicazionale può anche essere visto come una sequenza di azioni nelle
quali DIRE QUALCOSA EQUIVALE A FARE QUALCOSA. Tale idea è alla base della teoria
enunciata da Austin nel 1962, che descrive gli atti linguistici:

 Locutori: ciò che viene detto


 Illocutori: coincidono con le intenzioni comunicative del parlante
 Perlocutori: gli effetti prodotti dal parlante sull’interlocutore

Tali atti possono essere distinti anche in base alla forza degli atti stessi. Ad esempio il
tono della voce incide a livello locutorio e la scelta delle parole sul livello illocutorio
(verbi modali tipo “dovresti fare…”).

Cosa si intende per competenza comunicativa? Secondo Parks (1994) la competenza


comunicativa rappresenta il grado con cui gli individui soddisfano e percepiscono di
aver soddisfatto i loro scopi in una data situazione sociale.

In tale definizione sono fondamentali i concetti di intenzionalità e consapevolezza.

La competenza comunicativa si divide in 3 dimensioni:

 Competenza sintattica: l’aspetto formale del messaggio, consiste nella


capacità di produrre frasi formalmente corrette e di saperle comprendere (ruolo
delle parole e relazioni tra esse, cambiando una parola la frase cambia
completamente)
 Competenza semantica: gli aspetti del contenuto, la capacità di associare le
parole agli oggetti o agli eventi a cui corrispondono (in modo che coincidano
con l’associazione che viene fatta anche dall’interlocutore, il che dipende dal
contesto. Una parola in un contesto può essere infatti intesa diversamente da un
soggetto all’altro, minando la comprensione)
 Competenza pragmatica: il contesto comunicativo, la capacità di comunicare
tenendo conto del contesto della comunicazione (il modo in cui una cosa viene
detta)

La psicolinguistica si occupa dei meccanismi sottesi alla comprensione del linguaggio.


Noam Chomsky nel 1957 ipotizza l’esistenza di un meccanismo innato definito LAD
(Language Acquisition Device), in grado di attivarsi come risposta allo stimolo di
qualunque lingua parlata.

La TEORIA GENERATIVO-TRASFORMAZIONALE di Chomsky contiene le regole:

 Di riscrittura: mettono in luce la descrizione strutturale di una frase, consistono


in una riscrittura della frase stessa con simboli diversi in modo ciclico fino ad
ottenere una frase composta da simboli che non sono ulteriormente
scomponibili

 Trasformazionali: ad esempio dalla forma attiva della frase a quella passiva (“il
bambino mangia la mela” diventa “la mela è mangiata dal bambino”). Secondo
Chomsky la forma attiva è più facilmente comprensibile di quella passiva, e ogni
ulteriore trasformazione comporta a sua volta una maggiore difficoltà e tempo
per l’elaborazione del significato.

Bean nel 1966 dimostrò l’importanza del significato attraverso una ricerca. I
partecipanti guardavano un disegno che descriveva il significato di una frase, e il loro
compito era di rispondere a delle domande “vero o falso” nel minore tempo possibile
per dire se le frasi che comparivano corrispondevano al disegno o meno.
Uno dei disegni usati nell'esperimento

I risultati hanno dimostrato che la frase passiva (“il gatto è inseguito dal cane”)
richiedeva un tempo di risposta molto maggiore rispetto alla versione attiva. Per
un’altra immagine (una ragazza che innaffia i fiori) i tempi erano invece analoghi.

Altra teoria di Chomsky è legata alla distinzione tra la competenza comunicativa e la


sua esecuzione (ciò che si pensa e ciò che poi si produce a livello comunicativo),
evidenziando che spesso le due cose non coincidono a causa di errori di produzione o
di comprensione.

La formulazione linguistica è ambigua, e spesso e volentieri aperta a più


interpretazioni. È facile non notare le ambiguità presenti all’interno del linguaggio.

Linguaggio, percezione, attenzione, memoria e pensiero sono gli elementi che


compongono il sistema cognitivo umano. In particolare, è sorprendente come i
bambini imparino il linguaggio in così poco tempo.

La possibilità di creare un numero infinito di frasi partendo da un numero finito di


parole viene definita PRODUTTIVITA’ LINGUISTICA, una capacità straordinaria.

La conoscenza sintattica è una conoscenza implicita, infatti i bambini sono capaci di


creare frasi sintatticamente correte ancor prima di essere scolarizzati, e vale lo stesso
per gli adulti non alfabetizzati.

Secondo Chomsky le regole della sintassi rendono unico il linguaggio comunicativo


umano. Egli elaborò la linguistica trasformativo-generazionale nella seconda metà del
900. Chomsky affermava che le differenze tra le lingue sono per la maggior parte
superficiali.

Tutte le lingue conosciute si basano su un numero ristretto di elementi comuni, definiti


come UNIVERSALI LINGUISTICI.

Possiamo immaginare una lingua come una struttura gerarchica piramidale, alla cui
sommità abbiamo unità linguistiche ampie e complesse come il discorso, mentre
scendendo ne troviamo sempre più specifiche e semplici come le frasi e le parole.

Tutte le lingue possiedono un SISTEMA FONOLOGICO, ovvero un sistema di fonemi


s/t/a che sono le parti più piccole che compongono le parole. I fonemi non
corrispondono alle lettere. La corrispondenza tra fonemi e grafemi varia da una lingua
all’altra.
L’italiano e lo spagnolo sono classificate come lingue trasparenti, in virtù della buona
corrispondenza tra fonemi e grafemi. L’inglese e il francese sono invece definite lingue
opache, perché in esse la realtà fonologica è spesso lontana da quella grafica.

Due suoni vengono considerati fonemi diversi se, sostituendoli l’uno con l’altro, danno
luogo a parole diverse. Ad esempio in italiano la “s” e la “t” sono fonemi diversi.

In particolare, la lingua italiana possiede un totale di 30 fonemi, derivati sia dalle


parole che compongono l’alfabeto sia dai suoni provenienti da combinazioni di lettere
(es. “sogno”).

Nessuna lingua possiede l’intero repertorio di fonemi. L’inglese ne possiede 45, una
lingua del Caucaso ne ha 70. Alcuni fonemi comuni a più lingue, altri invece esistono
solo in alcune di esse.

Le combinazioni di fonemi danno vita alle parole. Non tutte le combinazioni sono però
consentite (tipo se uso una parola inventata). Le parole che però sembrano quasi vere
(tipo “darta” che è la storpiatura di “carta”) vengono definite dagli psico-linguistici
come NON PAROLE REGOLARI.

Altre combinazioni invece non sono proprio possibili, tipo “tatza” in cui ci sono la “t” e la
“z” che non si susseguono mai nella nostra lingua. Tali parole vengono dette NON
PAROLE ILLEGALI.

Sequenze di fonemi formano i morfemi, la unità più piccole dotate di significato. Un


esempio è “gatt” (morfema libero), la radice di tante parole tra cui “gatto”. Più morfemi
formano le parole, tipo il morfema “gatt” + il morfema “o” crea “gatto” (morfemi legati).

La struttura in cui le parole si dispongono in una frase è definita CATENA SINTATTICA,


e il SINTAGMA è l’unità minima di tale sistema. All’interno del sintagma, la parola
fondamentale viene chiamata TESTA, mentre le altre parole sono dette MODIFICATORI.

Possiamo avere:

 Sintagmi nominali: la testa è un oggetto/soggetto


 Sintagmi verbali: la testa è un verbo
 Sintagmi preposizionali: la testa è una preposizione

La maggior parte delle frasi è composta da un sintagma nominale e uno verbale.

Gli universali linguistici:

1. 1° universale: ciascuna lingua ha un numero finito di fonemi


2. 2° universale: da un numero finito di fonemi è possibile costruire un numero
infinito di parole
3. 3° universale: la relazione tra ciascuna parola e il suo significato è arbitraria,
infatti lo stesso significato può essere espresso in modo diverso da una lingua
all’altra (cane=dog)
4. 4° universale: in qualsiasi lingua è possibile produrre un numero infinito di frasi.

Nella produzione di una frase, le combinazioni di parole seguono precise regole,


ovvero le REGOLE DELLA SINTASSI, le quali governano il modo in cui le parole si
dispongono in una frase. Tali regole possono però cambiare da una lingua all’altra
(tipo gli aggettivi in italiano si mettono dopo il nome, in inglese si mettono prima).

Per comprendere una frase non basta la sintassi, bisogna anche conoscere il
significato delle parole. Fanno eccezione poche parole, come le ONOMATOPEE che
hanno un suono che imita ciò che significano. In tutti gli altri casi vige l’arbitrarietà,
ovvero non c’è nessun nesso particolare tra la sintassi delle parole e il loro significato.

La comprensione di una frase è il risultato di un processo complesso che può essere


scomposto più livelli di analisi. Abbiamo infatti 3 tipi di elaborazione:

 Fonologica/ortografica: vengono identificati e riconosciuti i singoli fonemi o


lettere che compongono la frase
 Sintattica: a ciascun elemento della frase viene assegnato uno specifico ruolo
sintattico
 Semantica: per ogni parola viene recuperato il corrispondente significato

Il risultato finale derivante dalle diverse elaborazioni è l’interpretazione della frase.

A livello scientifico esistono 2 classi di modelli:

1. Modelli seriali: stabiliscono l’autonomia e l’indipendenza tra i diversi livelli di


elaborazione.
2. Modelli interattivi: propongono l’interdipendenza tra le componenti coinvolte
nella comprensione di una frase.

Quindi, mentre i modelli interattivi prevedono che l’elaborazione sintattica e semantica


procedano in parallelo, quelli seriali suggeriscono invece che le due analisi avvengono
sequenzialmente, prima l’analisi sintattica e dopo quella semantica.

Strategia dell’attaccamento minimale: elaborata da Frazier nel 1978, assume che


l’elaboratore sintattico funzioni in modo da costruire strutture sintattiche il più possibile
semplici.

Es. “Il poliziotto guardava il ladro con il binocolo”. Secondo la strategia, l’oggetto
“binocolo” viene associato per attaccamento minimale all’unico verbo semplice
presente nella frase, ovvero “guardava”.
In un esperimento hanno fatto leggere la frase alle persone, sostituendo “binocolo” con
“pistola”. Le persone si soffermavano maggiormente proprio su questa ultima parola,
per cercare di comprendere il senso della frase (che diventava ambigua). Ciò
confermava la presenza di questa strategia dell’attaccamento minimale (e dell’idea
che quando la mente elabora una frase ambigua o non plausibile, la rilegge e trova il
modo di rielaborarla in modo plausibile (“il poliziotto ha la pistola e guarda il ladro”)

Strategia della chiusura differita: introdotta sempre da Frazier nel 1978. Essa afferma
che gli elementi della frase che vengono man mano elaborati, vengono associati ai
nodi in corso di elaborazione.

Es. “Prima che il re cavalchi il suo meraviglioso cavallo bianco, questo viene strigliato”.
La strategia della chiusura differita porta ad associare il verbo “cavalchi” a “il suo
meraviglioso cavallo bianco”.

Si pensa che entrambe le strategie presentate rispondano a un principio cognitivo che


prevede il minor carico di lavoro possibile in memoria.

Parliamo della strategia della catena minima: proposta da De Vincenzi nel 1991,
prevede che il sistema funzioni in modo da evitare di costruire nodi non necessari nella
catena sintattica.

Es. “Chi ha chiamato Andrea?”. Nella frase, “chi” può assumere sia il ruolo di chi chiama,
sia il ruolo di chi viene chiamato. In accordo con tale strategia, i risultati dimostrano
che a “chi” viene associata la prima posizione strutturale disponibile e quindi esso
viene interpretato come soggetto principale che chiama (e Andrea viene chiamato).

Prosodia: il ritmo dell’intonazione dell’enunciato. Essa è stata approfondita solo negli


ultimi anni, prima era meno considerata. Infatti si è constatato che gli INDICI
PROSODICI sono molto utili poiché favoriscono e facilitano la comprensione degli
ascoltatori.

È stata evidenziata la complessa relazione tra sintassi e prosodia, il che rende


necessario integrare queste due dimensioni in un modello adeguato.

L’informazione prosodica ha 2 compiti:

 Elimina o riduce le ambiguità presenti nei messaggi


 Fornisce un significato ulteriore, che può precisare o modificare il risultato
letterale

Comprensione e produzione sono complementari tra loro nell’atto comunicativo,


infatti i partecipanti a una conversazione sono impegnati in entrambe le attività.

Nella comprensione è coinvolto il sistema uditivo, mentre nella produzione è coinvolto il


sistema fonatorio. Gli studi si sono concentrati maggiormente sulla comprensione,
dando meno peso alla produzione soprattutto perché c’è una certa difficoltà
metodologica nel controllare sperimentalmente l’enunciato.

Le nuove tecniche di indagine hanno però permesso di approfondire meglio lo studio


della produzione. Il principale modello di riferimento è quello di Garrett (1975), secondo
cui nella produzione di una frase sono coinvolti 3 diversi livelli di elaborazione:

1. Concettualizzazione: responsabile dell’elaborazione del contenuto del


messaggio da trasmettere
2. Formulazione linguistica: viene elaborata la struttura della frase
3. Articolazione: traduzione della rappresentazione frasale nella struttura
articolatoria, che consente l’esecuzione della sequenza verbale

Il livello più interessante è quello della formulazione linguistica, che si articola a sua
volta in 3 sottolivelli:

 Funzionale: l’assegnazione dei diversi ruoli grammaticali e la scelta delle parole,


in pratica la funzione stessa dei diversi elementi che compongono la frase
(invertendo l’ordine logico delle parole, cambia completamente la loro funzione,
es. “Oggi faccio gli auguri, non mi fai gli anni?” )
 Posizionale: avviene all’interno del singolo sintagma e si occupa dei processi
fonologici (es. “i torni contano”) e sintattici
 Fonetico: responsabile della realizzazione fonetica dell’enunciato (es. “un tempo
di settimana”)

La mente è assimilabile al software di un computer, una serie di meccanismi che


funziona indipendentemente dal tipo hardware (il cervello/corpo).

Di recente si sta facendo strada una teoria secondo cui lo studio dei processi cognitivi
può essere affrontato separatamente da quello del corpo e degli organismi.

Infatti è stato proposto che la cognizione sia incarnata (EMBODIED), ovvero che il tipo
di corpo che possediamo non influenzi i nostri processi cognitivi, e che quindi essi
possano essere studiati indipendentemente da esso.

Si dice invece che la cognizione è GROUNDED, fondata sui sistemi senso-motori.

Caratteristiche della teoria embodied:

 Rifiutare l’idea della separazione tra processi di livello presunto “basso” (come
quelli motori) e processi di presunto “alto” (come il pensiero)
 Rilevare profonda continuità esistente tra percezione, azione e cognizione
 Percezione e azione non sono considerati processi periferici (input o output)
rispetto ai processi centrali ovvero il pensiero
 Si rifiuta anche l’idea che i processi si susseguano in modo seriale, ovvero che la
percezione avvenga sempre prima dell’azione
 Non si accetta il ruolo marginale e semplicemente esecutivo che viene
assegnato al comportamento motorio (l’azione)
 Viene proposto che la cognizione vada intesa come “situata”, ovvero il fatto che i
processi mentali dipendono dal contesto in cui si sviluppano
1. Questi processi vengono considerati molto flessibili e dinamici, proprio perché
dipendono dal contesto

L’idea di Fodor del 1975 afferma invece che esiste un LINGUAGGIO DEL PENSIERO, i cui
mattoni sono i concetti del pensiero stesso. Tali concetti vengono intesi come simboli
dati dalla combinazione di un insieme di tratti di natura proposizionale simil-
linguistica.

Il vantaggio di tale natura simbolica dei concetti è che i simboli, grazie alle loro
proprietà combinatorie, consentono la creatività e la produttività del pensiero.
Combinare i simboli ci permette ad esempio di immaginare un drago verde a pois,
anche se non lo abbiamo mai visto veramente.

La teoria embodied va contro questa idea, affermando che i concetti si fondano


sull’attività senso-motoria. In tal senso il concetto è inteso come qualcosa che si
riattiva quando viene stimolato dalla nostra interazione con una data entità (richiamo
delle esperienze vissute).

In sintesi:

 La teoria tradizionale propone che, una volta richiamata un’entità o un oggetto


(es. lampada), questa esperienza venga tradotta in simboli di natura simil-
verbale che vanno a formare i costituenti del nostro pensiero
 La teoria embodied propone che l’esperienza della lampada non venga tradotta
in simboli simil-verbali, ma ce manteniamo traccia delle esperienze percettive e
motorie avute con la lampada stessa

Studio comportamentale: un esperimento di rilevazione che sfruttava la PET


(emissione di positroni) ha rilevato che l’osservazione e l’azione sono strettamente
correlate, infatti quando le persone vedevano dei diversi utensili e li nominavano,
anche senza afferrarli si attivavano le aree senso-motorie del cervello come se li
stessero afferrando e manipolando per davvero.

Ciò è adattivo e funzionale alla nostra sopravvivenza, permettendoci di rispondere agli


stimoli esterni nel minor tempo possibile.

Esiste quindi uno stretto legame soggetto-azione, che porta all’attivazione delle aree
del cervello adibite all’atto stesso. È come se stessimo simulando mentalmente
l’attività che di solito svolgiamo con quell’utensile o oggetto. La simulazione è
fondamentale nella teoria embodied, e si lega alla scoperta dei neuroni specchio che
si attivano quando vengono svolte azioni orientate a uno scopo.

Tale simulazione si può attivare vedendo l’oggetto, ma spesso anche soltanto


nominandolo.

Corpo e mente formano quindi un tutt’uno.

Superare il metodo sperimentale: serve un metodo analitico, il quale presuppone che i


fenomeni studiati abbiano tra loro interazioni lineari. Il linguaggio è però complesso,
quindi basato su interazioni non lineari.

In un sistema non lineare l’interazione tra le parti dà vita a caratteristiche EMERGENTI,


che non si ritrovano nelle parti che lo pongono. Nell’interazione tra sistemi lineari la
risultante è invece prevedibile, poiché è data dalla somma dei singoli sistemi lineari.

Inoltre, il modello sperimentale è sincronico e acontestuale. Infatti al suo interno è


possibile controllare tutte le possibili variabili, purché il soggetto sia isolato dal contesto
senza interagirvi.

Un’altra strada è lo studio di organismi artificiali attraverso un metodo sintetico. Ciò


deriva dall’idea che la mente sia assimilabile a un computer, e che come tale possa
essere simulata per poi studiarne gli effetti.

Negli anni 80 si afferma poi il PARADIGMA CONNESSIONISTA, un’idea che cerca di


riprodurre il funzionamento di una rete neurale attraverso un sistema composto dai 3
strati più semplici che compongono la mente:

 Sistema di input: riceve informazioni


 Sistema di output: emette informazioni
 Sistema interno: elabora le informazioni ricevute

Sta emergendo anche un altro approccio, ovvero quello delle NEUROSCIENZE


COMPUTAZIONALI, che hanno l’obiettivo di simulare il più possibile la fisiologia del
cervello umano.

Un punto di svolta per quanto riguarda invece la SIMULAZIONE DEL LINGUAGGIO UMANO
è stata l’implementazione di reti in grado di processare input nel tempo, tenendo
conto dei pattern presentati nell’unità di tempo precedente.

La RETE DI ELMAN ad esempio si è dimostrata in grado di apprendere abbastanza bene


le regole sintattiche.
Secondo Deacon (1997) la nostra abilità nell’apprendere il linguaggio non poggia su
abilità cognitive innate, bensì sembra che apprendiamo per generalizzazione
dapprima di regole molto globali, e poi man mano sempre più dettagliate.

Questa capacità ci impedisce di incappare, durante l’apprendimento, in un MINIMO


LOCALE, ovvero ciò che avviene quando la curva di apprendimento scende, portano la
rete a fare meno errori.

A un certo punto però è necessario compiere ulteriori errori per ridiscendere lungo la
curva.

Esempio: un bambino non riuscirà a memorizzare ogni singolo accrescitivo di una


parola (gattone, cagnone…) perché non dispone dei mezzi cognitivi necessari. Quindi
cercherà di ricavare regole generali da quello che ascolta, tenterà di generalizzare a
ogni nuovo oggetto linguistico (aggiungendo il suffisso –one a tutto quello che
incontra).

Questo significherebbe (per un individuo già cognitivamente maturo, a differenza del


bambino) che non sarebbe necessario imparare ogni singola parola e cercare
continuamente nuove regole. Questo porta così il soggetto a fermarsi a un minimo
locale.

Davanti a una parola nuova infatti (es. “bivo”) il bambino (che ha poche reti neurali)
dirà “bivone”. L’adulto invece non saprebbe come comportarsi, incappando appunto in
un minimo locale.

Uno dei nodi cruciali emersi dopo l’implementazione della rete di Elman è legato
all’idea di un’ORIGINE GESTUALE, invece che vocale, del linguaggio. A sostegno di tale
ipotesi, si parla spesso dei neuroni specchio.

In una rassegna critica, Hutchins e Johnson (2009) si interrogano su come i modelli


simulativi possano render conto di come si possano sviluppare i gesti simbolici a
partire da azioni quotidiane.

Questo aspetto è fondamentale, perché la sua dimostrazione porterebbe alla luce il


fatto che diverse modalità sensoriali possono concorrere al formarsi di un sistema
simbolico.

Ci sono alcuni problemi irrisolti per quanto riguarda la teoria embodied:

 Problemi ritenuti risolvibili attraverso nuove evidenze sperimentali


 Problemi che richiedono un cambiamento di prospettive e un’estensione della
teoria stessa

Problema: l’attivazione del sistema motorio è necessaria per la comprensione del


linguaggio? Diversi studi dicono di no. Infatti si è potuto osservare che l’attivazione del
sistema motorio avviene molto precocemente, quindi senza che le persone si rendano
conto di aver letto i verbi di azione che portano all’attivazione dei movimenti.

I dati su tale precocità di attivazione non sono però sempre chiari. È invece abbastanza
certo che l’attivazione del sistema motorio avviene in modo SOMATOTOPICO
(leggendo qualcosa che riguarda un gesto da fare con la mano, nel mio cervello si
attivano i moto-neuroni legati al movimento della mano stessa).

Tutte queste considerazioni portano a pensare che la comprensione linguistica (o


almeno quella legata agli enunciati che si riferiscono ad azioni) passi attraverso
l’attivazione del sistema motorio, il quale deve però essere intatto (malattia dei moto-
neuroni di Hawking).

Non possiamo comunque escludere che una persona paralitica dalla nascita (quindi
senza nessun controllo sulla corteccia motoria primaria) possa imparare e
comprendere il linguaggio.

Questo però non significa necessariamente che il sistema motorio non sia coinvolto
nella comprensione del linguaggio, piuttosto significa che:

 La comprensione del linguaggio è complessa e coinvolge molti sistemi diversi


 Il nostro cervello è plastico ed è un sistema distribuito

Problema: come simuliamo le unità lessicali che non hanno un referente, come la
NEGAZIONE?

Kaup, Zwaan e Ludtke (2007) hanno proposto una teoria embodied della negazione in
base a cui la comprensione di frasi negative sarebbe un processo composto da 2
stadi.

Es. “La porta non è aperta”.

1° stadiocosa è negatouna porta aperta

2° stadiocancellazione di ciò che viene negato, ovvero la porta aperta

Nel nostro cervello la negazione corrisponde a un’attivazione ridotta delle aree


dell’informazione che viene negata.

Secondo questi studi esiste quindi una spiegazione embodied di fenomeni complessi
come la negazione.

Problema: come spiegare i significati di parole astratte?

Secondo le teorie embodied i significati delle parole astratte non hanno uno statuto
differente da quelli delle parole concrete.
Esistono 3 diverse spiegazioni a ciò:

 Durante l’esperienza senso-motoria ci formiamo schemi di immagine, che


poi trasferiamo ad ambiti non propriamente senso-motori
 I significati delle parole astratte attivano azioni, come le parole concrete
 I significati delle parole astratte rimandano a situazioni e ad esperienze
introspettive (es. “rischio” ci fa pensare a situazioni di rischio)

Forse però la vera risposta a questo problema potrebbe consistere nell’estendere le


teorie embodied, facendo riferimento non solo al fatto che il comportamento
linguistico si fonda su processi senso-motori, ma anche al fatto che è un’ESPERIENZA
SOCIALE.

Il peso dell’esperienza linguistica è quindi determinante per le parole astratte,


mentre per le parole concrete ha peso maggiore l’esperienza senso-motoria.
Entrambe le esperienze sono comunque classificate come sensoriali, motorie,
EMBODIED.

Si pensa che i bambini imparino prima le parole concrete di quelle astratte.

Le teorie embodied, come abbiamo visto, affermano che il comportamento linguistico


si basa sul sistema senso-motorio, trascurando invece il contesto linguistico che porta
a un’esperienza sensoriale e sociale.

L’intenzione del creatore non è cruciale. Ad esempio se io scolpisco un oggetto che


chiamo teiera, può essere che qualcun altro guardandola pensi che sia un innaffiatoio,
e che usi tale termine per spiegare ad altri di cosa si tratta. Generalmente si preferisce
scegliere il nome che viene dato da chi ha creato l’artefatto, ma la scelta è comunque
condizionata dal contesto e dagli scopi comunicativi dei soggetti.

Le lingue quindi hanno primariamente scopi comunicativi e sociali, il che significa


che le volontà e le intenzioni di chi ha creato gli oggetti possono anche venire meno.

La dimensione sociale del linguaggio è quindi importante, e lo è divenuta ancor di più


con la scoperta dei NEURONI SPECCHIO, i quali rivelano le basi sociali del linguaggio.

Addirittura, secondo Tomasello (2005) i bambini apprendono la lingua


semplicemente perché sono esposti esposti a essa continuamente, in tutti i contesti
sociali (ISTINTO DI LINGUAGGIO INNATO).

Per apprendere una lingua non occorre una grammatica universale in dotazione, ciò
che serve è:

 La capacità di comprendere le intenzioni altrui


 La capacità di categorizzare
Alcuni autori affermano che la cognizione è sia embodied sia simbolica. Louwerse e
Jeuniaux (2008) in particolare:

 Riconoscono che ci sono prove concrete che i simboli linguistici sono embodied
 Riconoscono che ci sono altre prove che confermano che i simboli possono
derivare il loro significato dalle loro relazioni con altri simboli
 Propongono l’ipotesi dell’interdipendenza dei simboli, secondo cui la
comprensione linguistica è un processo misto, sia embodied sia simbolico

I simboli sono grounded, fondati sul sistema senso-motorio, ma non lo sono


necessariamente.

Le dimostrazioni più chiare che i simboli sono embodied sono ottenute con compiti che
comportano un’elaborazione semantica profonda, come ad esempio la
categorizzazione, la valutazione della sensatezza di una frase ecc.

Tale teoria però non è del tutto esatta.

Diverse ricerche recenti mostrano infatti che durante la comprensione linguistica il


sistema motorio è attivato assai precocemente, e anche con compiti come la
decisione lessicale, che dunque comportano un’elaborazione semantica superficiale.

In ogni caso viene evidenziata l’importanza delle relazioni semantiche (soprattutto


per le parole astratte) e anche di qualche forma grounded per spiegare il significato.

Un’altra proposta recente è quella del PLURALISMO RAPPRESENTAZIONALE di Dove


(2009), secondo cui le teorie embodied sono in grado di spiegare i concetti concreti,
mentre occorre postulare l’esistenza di simboli amodali per spiegare i concetti astratti.

Tale postulazione è necessaria perché l’idea è che le parole astratte non rimandano
necessariamente a una particolare esperienza corporea, bensì all’insieme di
esperienze che co-occorrono all’uso della stessa parola astratta (esperienze
linguistiche).

Negli ultimi anni alcune teorie embodied hanno iniziato a riconoscere il ruolo del
linguaggio per la conoscenza. Secondo la teoria LASS (language and situated
simulation) la conoscenza è rappresentata da sistemi multipli, in particolare da un
sistema basato sulle simulazioni e da un sistema basato sul linguaggio.

Questo amplia la visione embodied, ma resta il problema della poca considerazione


del ruolo dell’esperienza linguistica sull’apprendimento del linguaggio.

Prince (2002) propone una teoria embodied più vicina alla nostra. Essa afferma che
una parola astratta (es. democrazia) viene compresa in parte associando ad essa
immagini concrete, in parte richiamando definizioni che rimandano ad altre parole.
Si tratta di un compromesso che dà la stessa importanza sia all’esperienza
linguistica sia a quella non linguistica.

Le teorie embodied hanno trascurato una cosa importante: il fatto che noi siamo
ESSERI PARLANTI. Esse si sono concentrate solo sulle relazioni tra le parole e i loro
referenti, trascurando il fatto che il linguaggio è frutto della cultura in cui siamo
immersi e può influenzare il nostro pensiero e l’organizzazione della nostra conoscenza.

Altra idea è quella delle PAROLE COME UTENSILI, delle protesi, estensioni del nostro
corpo. Osservando la nostra mano, essa è per noi un oggetto ma anche una parte del
nostro corpo. Allo stesso modo sono le parole.

È stato dimostrato che quando usiamo uno strumento, il nostro cervello risponde in un
modo particolare, al punto da percepire lo strumento come un’estensione del nostro
corpo che ci permette di ampliare la portata delle cose che possiamo fare.

Le parole fanno la stessa cosa, ampliando le nostre capacità cognitive. Dobbiamo


però distinguere tra:

 Estensione: usando un’agenda/rubrica estendiamo le nostre capacità cognitive


 Incorporamento: usando un bastone, esso viene in qualche modo incorporato
in noi e lo percepiamo come parte del nostro corpo

Le parole possono costituire sia un caso di incorporamento sia di estensione.

Dagli anni 60 la visione dominante della psicologia si è concentrata sugli aspetti


universali della cognizione, trascurando i potenziali effetti delle culture e delle lingue.

Questo universalismo è caratteristico anche delle teorie embodied. Solo di recente


c’è stata una ripresa di interesse per questi argomenti.

Le domande che ci si pone spesso su questo tema sono:

 Pensare per parlare è diverso dal semplice pensare?


 L’influenza della lingua differisce a seconda del dominio considerato?

A seconda della lingua che parliamo, rappresentiamo diversamente la linea del


tempo. Lera Boroditsky (2001) ha svolto diversi esperimenti confrontando parlanti cinesi
(lingua in cui la linea del tempo viene concepita verticalmente) e parlanti inglesi
(orizzontalmente).

I risultati mostrano che, se alcuni modi di concettualizzare il tempo sono universali (ad
esempio il riferirsi al tempo con metafore spaziali come la freccia), la lingua parlata ha
un effetto notevole sulla cognizione.

Occorre capire se tale risultato vale solo per la nozione di tempo e se può essere esteso
anche ad altri domini.
CODICI VISIVI E CODICI VERBALI

Codice visivo: ad esempio le hostess in aereo che ci fanno i segni

Il linguaggio visivo è accessibile a tutte le persone, indipendentemente dalla lingua


parlata. Tale universalità è una sua peculiarità rispetto al linguaggio verbale.

Inoltre esso ha una maggior facilità di comprensione.

L’apprendimento può avvenire in diversi modi:

 Provando più volte a eseguire un’attività


 Imitando qualcuno
 Consultare una guida che contiene istruzioni scritte e che può avvalersi sia del
linguaggio verbale sia di quello visivo

Il grado di comprensione più elevato deriva dall’integrazione di entrambi i linguaggi.


Basti pensare delle illustrazioni anatomiche del corpo umano, in cui mostrare le
immagini abbinate ai nomi è il modo più efficace per spiegare.

Il contenuto che vogliamo trasmettere potrebbe essere indipendente dal tipo di


linguaggio usato, e in questo caso possiamo decidere se usare un linguaggio o un altro
(meglio sceglierlo in funzione di ciò che dobbiamo comunicare, tipo per telefono
possiamo usare solo quello verbale).

L’universalità del linguaggio visivo è caratteristica di quei segni che mantengono una
stretta relazione di somiglianza strutturale/percettiva con l’oggetto a cui si riferiscono (i
più classici sono i pittogrammi, tipici dei cartelli stradali).

Il significato totale viene dato dalla comunicazione tra pittogramma e parole.

Linguaggio visivo e verbale non sono equivalenti, ognuno ha un suo scopo e una sua
efficacia in determinati contesti piuttosto che in altri.

Il linguaggio verbale richiede uno sforzo cognitivo maggiore, che può portare a
maggior probabilità di commettere errori.

Anche l’uso del computer è un chiaro esempio di linguaggio visivo (prima invece era
necessario il linguaggio verbale per fini di programmazione).

Il linguaggio visivo ha però anche dei limiti, poiché non cattura tutte le caratteristiche
degli oggetti che rappresenta. Ad esempio una foto descrive solo la prospettiva in cui è
stata scattata.

Inoltre, ad esempio per un’auto, caratteristiche come cilindrata e velocità massima


richiedono necessariamente il linguaggio verbale per essere espresse.
Il disegno di una freccia viene usato molto di frequente, ed essa rimanda a un
significato preciso inequivocabile. Ma siamo certi che non generi ambiguità?

Tipo le frecce che puntano verso il basso o l’alto? Talvolta il verso della freccia si usa
per dire di salire al piano superiore o scendere all’inferiore, altre volte invece la freccia
in alto indica che bisogna proseguire dritti. Ciò può essere motivo di confusione.

Simbolo e segno non sono la stessa cosa. L’uso dei simboli è maggiormente soggetto
a differenze culturali. Es. in occidente il crisantemo è simbolo dei defunti, in oriente
invece si usa ai matrimoni.

Esistono delle leggi che governano il linguaggio visivo, tuttavia alcuni tipi di
organizzazione percettiva sono considerati innati. Questi ultimi sono stati studiati dagli
esperti della scuola della Gestalt.

Il processo più elementare legato alla capacità visive consiste nel riuscire a isolare
diverse configurazioni presenti nel campo visivo. Tale abilità è chiamata
ARTICOLAZIONE FIGURA-SFONDO.

Tale principio è attivo sia per forme che hanno un significato, sia per forme prive di
significato (come la prima immagine a sinistra, in cui qualcuno potrebbe attribuire il
ruolo centrale alla macchia nera piuttosto che allo sfondo grigio).

Figure ambigue: le diverse componenti del campo percettivo


assumono ruoli diversi a seconda del significato globale che si
assegna all’immagine.

Es. nell’immagine a destra possiamo vedere una donna anziana


di profilo, ma anche una giovane donna di scorcio.

Non possiamo vedere contemporaneamente le due figure perché


è lo stesso segno ad assumere 2 ruoli diversi (tipo il naso della
nonna diventa la guancia della giovane).
Principi di organizzazione percettiva della psicologia Gestalt:

 Principio di somiglianza: stimoli simili tra loro (es. per colore o forma) vengono
concepiti come un’unica configurazione
 Principio di vicinanza: tende a unificare degli elementi tra loro
vicini (piuttosto che lontani) in un’unica configurazione
 Principio di chiusura: assume che venga percepita come
un’unità la porzione di campo in cui gli elementi formano o
tendono a formare una figura chiusa
 Principio di continuità: gli elementi del campo percettivo vengono unificati in
modo da percepire elementi coerenti nella forma e nella direzione

Le ricerche di Nisbett (2001) mettono invece in evidenza come le persone appartenenti


a culture diverse percepiscono, categorizzano e memorizzano in modo diverso le
stesse scene:

 Le persone del mondo occidentale tendono ad affidarsi a processi percettivi


analitici (indipendenti dal contesto)
 Le persone del mondo orientale tendono ad affidarsi a processi percettivi olistici
(privilegiano le relazioni tra gli oggetti, risultando molto più dipendenti dal
contesto)

Es. nel video di una scena marina con pesci e alghe, i partecipanti dovevano dire cosa
avevano visto. Gli americani descrivevano la scena partendo dagli oggetti salienti,
ovvero i pesci. I giapponesi invece iniziavano a descrivere partendo dallo sfondo.

Nel complesso le informazioni fornite dai giapponesi erano molto più complete di
quelle degli americani.

In un altro esperimento si mostrava un’immagine con sfondo originale e poi con


sfondo modificato. È stato constatato che gli americani non risentivano dello sfondo
diverso, mentre i giapponesi sì. Ciò fu interpretato ipotizzando che i giapponesi tendono
a percepire oggetti e sfondo come un’immagine unitaria, a differenza degli americani.

Ciò indica chiaramente il ruolo del contesto culturale e la sua capacità di influenzare i
processi percettivi.

Linguaggio visivo e verbale:

 Entrambi sono considerati codici, cioè sistemi di segni e regole che permettono
di rappresentare, interpretare e trasmettere le informazioni
 I due codici differiscono principalmente nella relazione che lega il segno
(parola e immagini) al corrispondente significato
 Nel linguaggio verbale tale relazione è arbitraria
 Nel linguaggio visivo tale relazione deriva da un’associazione intrinseca tra le
immagini e i concetti corrispondenti

Il modo in cui le conoscenze sono rappresentate nella nostra mente è uno degli
argomenti di maggiore interesse per gli psicologi, soprattutto per quanto riguarda i
concetti astratti (come le parole “libertà” o “sirena”, ma anche le sensazioni derivanti
dal gusto come “dolce” o “salato”).

MEMORIA

Cos’è la conoscenza? Come è rappresentata nella nostra mente? La psicologia si è


interrogata sul modo in cui essa è organizzata e le forme in cui è rappresentata.

Il concetto di memoria si intreccia con questo tema. Distinguiamo diversi tipi di


memoria:

 Sensoriale
 A breve termine
 A lungo termine
 Episodica: riguarda eventi ed episodi, quindi con uno stretto legame alle
coordinate spazio-temporali in cui si creano (es. “Londra” può essere
memorizzata dal punto di vista semantico come capitale dell’Inghilterra, ma i
ricordi di essa derivano dalla memoria episodica (trasmissioni televisive, visite in
prima persona etc.)
 Semantica: insieme delle rappresentazioni mentali a lungo termine che
riguardano parole, concetti e simboli (es. “il cane è un animale”). Racchiude le
conoscenze enciclopediche di un individuo, e si pensa che sia slegata dalle
coordinate spazio-temporali in cui si è creata.
 Dichiarativa
 Procedurale

Per quanto riguarda il sistema semantico, alcuni pensano che esistano due sistemi
semantici indipendenti, uno verbale e uno non verbale (modello del doppio codice di
Paivio), altri credono invece che ci sia un sistema semantico unico.

Il primo modello prevede che i due sistemi dialoghino tra loro attraverso una serie di
connessioni. Prima l’elemento viene catturato dal sistema visivo, e poi viene trasferito in
quello verbale (vedo una sedia, e poi recupero l’espressione lessicale della parola
“sedia”).

In sintesi questo modello ritiene che informazioni di natura diversa e/o provenienti da
sistemi sensoriali diversi siano codificati attraverso sistemi di memoria specializzati.

La critica più forte che si può fare a questo modello è legata alla ridondanza delle
informazioni. Infatti secondo questa idea dovrebbero anche esistere tanti sistemi
verbali quante sono le lingue parlate da un individuo, il che va contro il principio di
economia cognitiva legato all’impiego minimo possibile di risorse da parte del cervello.

Per aggirare questo ostacolo alcuni studiosi credono appunto che le conoscenze siano
invece organizzate in un unico sistema di rappresentazione semantico.

In quale linguaggio sono codificate le informazioni nel sistema di rappresentazione


delle conoscenze? Secondo la teoria di un unico sistema semantico, esse sono
rappresentate attraverso un LINGUAGGIO AMODALE, ovvero un codice astratto
indipendente da:

 Il tipo di stimolo
 La lingua usata
 La modalità di presentazione dello stimolo

Un sistema del genere deve avere un qualche tipo di organizzazione. Le persone


adottano infatti diversi criteri per organizzare i contenuti e le azioni compiute. Altrimenti
recuperare le informazioni memorizzate sarebbe troppo difficile e dispendioso.

Per la mente umana l’ipotesi più accettata circa tale organizzazione del sistema
semantico è che i concetti siano rappresentati come nodi in una rete. Ciascun nodo
corrisponde a un concetto, e le connessioni tra i nodi rappresentano le relazioni tra i
vari concetti.

In tale spazio multi-dimensionale esistono diversi tipi di relazione:

 Categoriale (topo-leone)
 Gerarchico (topo-animale)
 Associativo (topo-formaggio)
 Misto (cane-gatto)

Le relazioni si differenziano inoltre in base alla loro forza. Infatti i concetti più vicini per
significato lo sono anche dal punto di vista dello spazio semantico.

Tale modello “a rete” prevede che il recupero delle


informazioni dipenda dall’attivazione dei nodi concettuali
attraverso il meccanismo della diffusione (se ne attiva uno
che ne fa attivare un altro e così via).

A sostenere tale ipotesi troviamo il fenomeno cognitivo di


facilitazione noto come EFFETTO PRIMING.

Esso è un compito di decisione lessicale molto semplice: ai partecipanti viene mostrato


uno stimolo bersaglio (target) e viene loro chiesto di decidere se si tratti di una parola
(es. luna) o di una sequenza di lettere senza senso.
Lo stimolo target è preceduto da uno stimolo chiamato PRIMER. Prime e target
possono essere associati semanticamente oppure no. I risultati mostrano che i tempi di
risposta al target sono inferiori quando è preceduto da un primer associato
semanticamente.

Es. è più facile decidere che “luna” è una parola quando è preceduta da “stella” rispetto
a quando è preceduta da “scarpa”.

Questi risultati sperimentali sono in accordo con la teoria del modello a rete.

In sintesi, il modello di memoria semantica è costituito da:

 Un sistema amodale di rappresentazione


 Dei sistemi di accesso e riproduzione specifici per stimolo e modalità
 Procedure di elaborazione funzionalmente distinte

Ciascuna componente è
autonoma, e assolve a uno
specifico compito nel
processo.

A livello pre-semantico il
modello prevede 3
componenti specifiche per la
modalità di accesso:

 Lessico ortografico per


l’analisi delle parole
scritte
 Lessico fonologico per
l’analisi delle parole
udite
 Sistema di descrizione
strutturale per l’elaborazione di immagini

Il lessico (sia ortografico che fonologico) è praticamente un vocabolario delle parole


scritte e udite.

Ecco come si svolge la comprensione di una parola:

1. Prima la stringa di lettere viene analizzata dal punto di vista visivo e ortografico,
riconoscendo tutte le lettere che compongono la parola
2. Poi si entra nel lessico ortografico, recuperando il significato della parola
attraverso l’attivazione del nodo corrispondente
Nel lessico mentale non si verifica un semplice accesso ad una parola, ma è
necessaria appunto un’attivazione.

Le figure vengono invece elaborate secondo un processo definito DESCRIZIONE


STRUTTURALE, in cui sono rappresentate le forme degli oggetti conosciuti. Tale modello
si articola in 3 stadi, in base al grado di dettaglio con cui gli oggetti sono memorizzati
(da un abbozzo fino a una forma tridimensionale):

1. Stadio 1: una rappresentazione bidimensionale


2. Stadio 2: vengono integrate le informazioni relative alla profondità
3. Stadio 3: rappresentazione tridimensionale dell’oggetto

Per quanto riguarda la produzione avremo un lessico fonologico in uscita (per le


risposte orali) e un lessico ortografico in uscita (per le risposte scritte).

Nella lettura ad alta voce l’informazione viene trasmessa a un componente in uscita


che mantiene l’informazione stessa solo temporaneamente. Tale componente è
chiamato BUFFER FONEMICO. Per la scrittura avremo invece un BUFFER GRAFEMICO.

Infine è necessario prevedere anche delle operazioni mentali che permettano di


passare da un modello di rappresentazione agli altri. Infatti per leggere una parola
possiamo usare 2 vie:

1. Via non lessicale: ciascun grafema viene tradotto nel corrispondente fonema.
Fondendoli insieme otteniamo il codice fonologico della sequenza. Tale
procedure è indispensabile per leggere parole nuove (anche se questo può
causare difetti di pronuncia proprio perché è una via non lessicale)
2. Via lessicale: prevede il riconoscimento dell’intera forma di una parola, prima
nel lessico ortografico e poi in quello fonologico. Le parole irregolari possono
essere lette correttamente solo usando questa via.

COMUNICAZIONE NON VERBALE

La differenza principale da quella verbale è l’ASSENZA DEL VERBO o parola, tipico della
comunicazione verbale.

La forza della comunicazione non verbale è la sua immediatezza. Un esempio sono i


cartelli stradali. In situazioni contraddittorie, generalmente prevale la comunicazione
non verbale su quella verbale.
I segnali non verbali permettono, grazie alla loro immediatezza, di comunicare idee e
atteggiamenti che spesso l’interlocutore non vuole o non pensa di trasmettere
esplicitamente.

L’inconsapevolezza può essere presente anche nel ricevente, che potrebbe anche
decodificare alcuni segnali non verbali in modo inconsapevole (ad esempio imitando
la postura di chi ha di fronte).

La comunicazione non verbale è distinta in sistemi:

 Sistema vocale: le caratteristiche paralinguistiche della voce, ovvero intonazione


della voce (tono), volume della voce (intensità) e tempo (ritmi, pause, silenzi)
 Sistema cinesico: mimica facciale, postura. Coinvolge tutta la muscolatura
corporea, sia invia intenzionale sia in via inconsapevole. Le espressioni facciali
hanno una loro semantica, anche in base al contesto in cui avvengono. Altro
elemento molto importante in questo sistema è lo SGUARDO, dimostrato dalla
conformazione stessa dei nostri occhi
 Sistema prossemico: contatto fisico e gestione dello spazio interpersonale
 Sistema visivo: immagini, illustrazioni, grafici. È molto importante per la sua
facilità di riproducibilità e diffusione, oltre che immediatezza. Esempi sono i
cartelli stradali e le emoticon.

Il silenzio in particolare è molto importante. Esso si può dividere in:

 Silenzio sociolinguistico: interrompe la continuità del parlato è può essere


legato a interruzioni o esitazioni
 Silenzio interattivo: legato all’interazione tra i partecipanti, consentono di
passare il turno all’altra persona
 Silenzio socioculturale: legato alle norme sociali, in occidente i turni sono veloci
e i silenzi brevi, mentre in oriente i silenzi sono più lunghi per ispirare riflessione

Secondo Jensen (1973) gli ambiti di silenzio sono 5:

1. Funzione di creazione o scioglimento di un legame: ad esempio si fa un minuto


di silenzio per ricordare qualcuno che è venuto a mancare
2. Funzione affettiva: il silenzio può rinforzare o indebolire un legame affettivo a
seconda del contesto
3. Funzione rivelatrice: si tace per nascondere un’informazione o rivelare una
verità
4. Funzione di giudizio: si tace per esprimere un’approvazione o disapprovazione
5. Funzione di attivazione: può suggerire che la persona si sta preparando a dire
qualcosa, oppure che è solo distratta

Il silenzio è quindi caratterizzato da AMBIGUITA’, che deve essere risolta attraverso la


lettura del contesto.

Nel 2011 il concetto di silenzio è stato ampliato da alcun studiosi, includendo anche le
pause colmate da vocalizzazioni (es. “ehhhm”).

Per quanto riguarda il sistema cinesico, i gesti vengono suddivisi da Annoli (2002) in 6
tipi:

 Gesticolazione: i gesti che servono a illustrare un concetto che si sta


esprimendo con il linguaggio verbale
 Pantomima: rappresentazione gestuale di una situazione o di un’azione (es.
giochi dove bisogna indovinare una parola senza usare il linguaggio verbale)
 Emblemi: gesti convenzionali dal significato ben preciso (es. indice sulla bocca
significa silenzio)
 Gesti deittici: usati per indicare qualcosa e spostare l’attenzione
dell’interlocutore in una direzione specifica
 Gesti motori: semplici movimenti ripetuti (tipo far tremare una gamba),
segnalano ansia o servono per mantenere la concentrazione
 LINGUAGGIO DEI SEGNI: ha un livello di complessità e convenzionalità pari a
quello del linguaggio verbale, usato da grandi collettività come la comunità dei
muti

Abbiamo infine le posizioni di apertura (esprimono positività, come fare sì con la testa
o avvicinarsi per prendere un oggetto) e le posizioni di chiusura (esprimono negatività,
come abbassare lo sguardo e ingobbirsi su sé stessi).

Per quanto riguarda il sistema prossemico, Hall (1966) lo suddivide in 4 intervalli:


1. Spazio dell’intimità: da 0 a 50 cm, la distanza delle relazioni intime, che stimola il
contatto fisico
2. Spazio personale: da 50 a 120 cm, la distanza mantenuta nei dialoghi con
persone con cui si ha confidenza
3. Spazio sociale: dai 120 ai 140 cm, la distanza mantenuta con persone con cui
non si ha un rapporto confidenziale, non permette il contatto, violare tale
distanza può significare la creazione di disagio
4. Spazio pubblico: oltre 140 cm, la distanza che si tiene quando si parla in pubblico

Questa classificazione vale per la cultura americana degli anni 60. Ma tra le diverse
culture la cosa cambia. Ad esempio tra i popoli arabi sembra ci sia più propensione a
mantenere la vicinanza fisica.

Fa parte del sistema prossemico anche il CONTATTO CORPOREO, l’esplorazione


attraverso il contatto. Esso è indispensabile per le relazioni fisiche, e man mano che la
confidenza diminuisce, la gestione del contatto diventa sempre più succube delle
convenzioni sociali (ad esempio con uno sconosciuto c’è la convenzione di stringersi
la mano).

I messaggi però non sono sempre di univoca catalogazione all’interno dei sistemi di
cui abbiamo parlato. Ad esempio, in base alla situazione la postura potrebbe
appartenere sia al sistema cinesico sia a quello prossemico o visivo.

I diversi sistemi possono quindi unirsi e contribuire alla costruzione del significato.

I segnali non verbali regolano invece i processi cognitivi a vari livelli: a livello individuale
(es. processi di autopersuasione), a livello interpersonale e anche di intergruppi.

I segnali non verbali non si limitano a segnalare un contenuto. Essi infatti sono cruciali
nel segnalare i nostri stessi atteggiamenti e stati d’animo (es. quando sorridiamo
sveliamo il nostro stato psicologico).

Tali segnali possono essere infatti interpretati come manifestazioni psicologiche


degli stati soggiacenti (es. aumento del battito cardiaco può indicare ansia o paura o
eccitazione).

Angeli (1972) afferma che i segnali non verbali non sono solo conseguenze, possono
anche essere le cause dei corrispondenti stati psicologici (es. spesso ci sentiamo più
felici dopo aver sorriso, o più arrabbiati dopo aver messo il broncio).

Secondo Brinol e Petty (2008) l’influenza degli stati corporei sugli atteggiamenti può
avvenire su 3 principali processi:
1. Fungendo da semplici indizi (es. un oggetto neutro viene valutato più piacevole
se osservato mentre si flette un braccio verso sé stessi piuttosto che
allontanandolo dal corpo)
2. Sul modo e la quantità di elaborazione delle informazioni (es. stare sdraiati
mentre si parla promuove un’elaborazione più persuasiva del messaggio
rispetto a stare in piedi)
3. Influenzare la sicurezza delle persone nelle proprie idee

In sintesi, la comunicazione non verbale serve a:

 Regolare l’interazione interpersonale


 Segnalare degli atteggiamenti
 Creare degli atteggiamenti
 Cambiare gli atteggiamenti
 Autopresentarsi in modo espressivo
 Autopresentarsi in modo strategico
 Nei gruppi può segnalare le appartenenze sociali oppure mantenere/scalzare le
differenze sociali
 Nella comunicazione di massa può trasmettere valori/stereotipi (es. di genere, i
media fanno risaltare i primi piani degli uomini e fanno vedere le donne da più
lontano) e fornire informazioni in modo rapido e sintetico, oltre a persuadere e
orientare il comportamento al consumo (es. aromi nei negozi per spingere le
persone ad acquistare)

EVOLUZIONE CULTURALE

Parlanti di diverse culture possiedono la stessa rappresentazione non verbale dei


numeri. I soggetti di culture che possiedono la nozione di numero possiedono
un’intuizione precisa dell’uguaglianza numerica, mentre non è proprio così per le tribù
indigene.

Ad esempio per noi 2+2=4, mentre per loro fa “quasi 4”. Gli studi sul numero rivelano
che il fatto di possedere termini non ambigui per designare i numeri, influenzi in modo
forte la capacità di contare e ragionare coi numeri.

Si pensa anche che il contare e il sommare possano essere intesi come modi di
“pensare per parlare”, diversi da altre forme di pensiero.

Alcuni studi indagano sull’effetto delle lingue sulla concettualizzazione di azioni ed


eventi. Ad esempio è stata fatta un’analisi dei verbi “tagliare” e “rompere” in 28 lingue
diverse, i cui risultati indicano che tali verbi costituiscono una classe a sé rispetto ad
altri verbi di separazione, dunque esiste una base comune alle diverse lingue.
Tuttavia esiste un’ampia differenziazione. Ad esempio alcune lingue utilizzano un
verbo piuttosto che un altro quando lo strumento usato è provvisto o meno di una
lama. Tale varietà rende difficile che i bambini possiedano già tutte le conoscenze sulle
diverse categorie concettuali. È più probabile che l’apprendimento di tali differenze
avvenga sotto la guida dell’input linguistico.

Altri studi rivelano che siamo sensibili alle relazioni spaziali codificate
linguisticamente. Questo significa che in base alla lingua, codifichiamo la
concettualizzazione dello spazio in modo diverso.

Ad esempio in un esperimento con bambini inglesi e coreani è stato constatato che gli
inglesi distinguono tra collocare un oggetto su un piano o in un contenitore, mentre i
coreani non possiedono questa distinzione.

Laddove i bambini inglesi si concentrano maggiormente su nozioni di contenimento e


supporto, quelli coreani distinguono più tra le forme di contenimento con aderenza o
meno.

Altro esempio per capire il concetto sono i quadri di riferimento spaziali, che
cambiano in base alla lingua:

 Relativo, ovvero egocentrico (es. “ la forchetta è a destra del cucchiaio”, tipico


degli inglesi)
 Intrinseco (incentrato sull’oggetto, es. “la forchetta è in un angolo rispetto al
cucchiaio”)
 Assoluto (basato su punti di riferimento fissi come i punti cardinali, usato in
Australia)

I gesti sono tipicamente legati al quadro di riferimento proprio della lingua madre,
dunque la lingua influenza anche forme non verbali come appunto i gesti.

Altra domanda: il sole in italiano è maschile, mentre in tedesco è femminile. Ciò può
influire sulla rappresentazione del sole tra italiani e tedeschi? La risposta è sì, i tedeschi
tendono a vedere il sole come un’entità femminile, gli italiani maschile.

Quindi la lingua influenza anche questo fattore, portandoci a credere che essa non
influenzi soltanto il pensare per parlare ma anche il pensare e basta.

La lingua influenza la categorizzazione, ovvero i nomi rimandano a gruppi di oggetti


differenti a seconda delle culture. Noi ad esempio tendiamo a dare nomi simili agli
oggetti soprattutto in base alla forma e a cosa assomigliano, altre culture invece
danno i nomi in base al materiale di cui gli oggetti sono fatti.

Quindi un gruppo di oggetti in una cultura differisce spesso dal medesimo gruppo in
un’altra cultura. In sintesi, lingua e pensiero non sono indipendenti, ma si integrano, ed
è difficile dire se effettivamente esista un “pensare per parlare” o semplicemente un
“pensare e basta”.

Questo perché l’effetto della lingua non sembra estendersi oltre certi compiti, ma
pare limitarsi soltanto ai compiti di natura linguistica o simil-linguistica (come
contare), quindi diventa difficile dare una risposta univoca.

Per i colori c’è un discorso particolare. Si potrebbe pensare che per essi gli aspetti
cognitivi dovrebbero dominare su quelli linguistici, tuttavia secondo gli studi sembra
che sia la lingua a influenzarne la percezione.

Va comunque specificato che, secondo altri studi, sembra che le categorie che si
formano nel cervello a livello di reti non linguistiche, vengano poi influenzate da quelle
linguistiche.

Nella psicologia contemporanea c’è l’idea che il pensiero viene prima e determina il
linguaggio. A sua volta, il linguaggio non sarebbe altro che la sotto-componente di
un’abilità cognitiva più generale che è la CAPACITA’ SIMBOLICA.

La scuola sovietica crede invece che il pensiero e il linguaggio seguano due percorsi
autonomi, per poi andare a incontrarsi (ovvero nel momento in cui il bambino usa il
linguaggio come uno strumento, risolvendo problemi pratici).

Le funzioni linguistiche sono nell’emisfero sinistro del cervello. Ci sono aree ben
precise, connesse tra loro. Gazzaniga ha svolto diversi esperimenti i cui risultati
affermano che l’emisfero sinistro è il luogo in cui risiede il processo semiotico
responsabile dell’interpretazione, pronto a colmare le lacune della nostra coscienza
(una serie di catene interpretanti che si attivano una in relazione all’altra).

L’emisfero destro invece è deputato al ragionamento percettivo-esperienziale, la


percezione dello spazio e il riconoscimento di volti nuovi.

Altri studi sui due emisferi dimostrano che, in certe condizioni, i processi percettivo-
esperienziale e linguistico possono dimostrarsi come processi parzialmente autonomi.

CATEGORIZZAZIONE PERCETTIVA: in ambito simulativo, è l’operazione con cui una serie


di dati sensoriali vengono organizzati in insiemi di dati ritenuti somiglianti tra loro.

In pratica si tratta di stimoli diversi a cui il cervello risponde allo stesso modo. Tale
somiglianza non è arbitraria, ma funzionale e dipende dall’interazione tra l’organismo e
l’ambiente circostante.

Diverse correnti si sono scontrate sul tema della categorizzazione percettiva:

 Gli innatisti, secondo cui sia la percezione dei colori sia le categorie percettive
sono processi universali, frutto di qualcosa di superiore
 Gli empiristi, secondo cui le categorie percettive non sono innate, ma sono il
frutto della nostra esperienza
 I culturalisti, secondo cui è la cultura (mediata dalla lingua) a influenzare la
formazione delle categorie percettive

Alcune simulazioni fatte con robot autonomi hanno cercato di verificare quale delle 3
correnti avesse ragione. I risultati suggeriscono che la lingua abbia un ruolo importante
in questo processo.

Secondo altri studi, l’evoluzione del linguaggio avviene grazie a 2 processi differenti:

 Il primo è legato alla derivazione di concetti e categorie dalla nostra esperienza


senso-motoria
 Il secondo, simbolico, consente di acquisire nuove categorie per trasmissione
orale, tramite la lingua

Quando questi due processi vengono messi in competizione tra loro, sembra che
quello più efficace sia quello legato al linguaggio, quindi possiamo dedurre che
quest’ultimo offre un VANTAGGIO ADATTATIVO.

La lingua ci consente di dirigere l’attenzione su determinati aspetti di un input e di


stabilire gerarchie delle informazioni.

La lingua permette inoltre di pianificare meglio le nostre azioni, riferendoci quindi non
ad azioni presenti ma rappresentando invece il futuro da pianificare.

Infine la lingua ci permette di potenziare la nostra memoria.

Per quanto riguarda gli animali, essi non hanno la capacità di formare una categoria la
cui relazione sia basata su altre relazioni (si fermano al primo livello). Se però
insegniamo alle scimmie un sistema di comunicazione simbolico (esperimento
avvenuto nel 1997), lo loro struttura percettiva cambia e iniziano a vedere relazioni
anche laddove prima vedevano semplici oggetti.

Secondo Parisi (2007) la quantità di informazioni non linguistiche presenti nel


cervello è superiore a quelle linguistiche. Questo significa che ricordare attraverso le
parole è assai più economico che ricordare interi pattern percepiti visivamente.

Infatti ricordare una parola è molto meno costoso rispetto a ricordare tutte le
esperienze percettive connesse ad essa. Ciò è testimoniato anche dal frequente
utilizza della lingua scritta (libri, telefoni, computer) come strumento per una MENTE
ESTESA.

Il ruolo della lingua è stato simulato da Lupian (2005), e i suoi esperimenti lo hanno
portato a dire che l’uso della lingua comporta un forte risparmio di risorse cognitive.
Infatti non ci serve ricordare un oggetto nel dettaglio, poiché sono sufficienti solo i suoi
COMPONENTI PROTOTIPICI.

In questo contesto di memoria, le reti neurali hanno 2 diversi strati intermedi:

1. Il primo, che può essere collegato (condizione linguistica) o non collegato


(condizione non linguistica) con il secondo
2. Il secondo, che serve ad assegnare nomi agli oggetti categorizzati

Ciò avviene nella fase di apprendimento. Quando però la rete deve testare due diversi
input per capire quanto siano simili tra loro, le reti non linguistiche offrono risultati
migliori con categorie ad alta variabilità interna.

Lupian spiega infatti che l’etichetta linguistica consente un processo di astrazione che
enfatizza i tratti comuni agli oggetti, rendendo meno rilevanti i tratti che li differenziano.

Sempre Parisi ha svolto ulteriori esperimenti con altri studiosi, sempre coinvolgendo i
robot. Egli ha dimostrato che l’acquisizione del linguaggio offre un vantaggio nell’uso
delle abilità senso-motorie.

Infatti, le popolazioni che sviluppano un sistema di comunicazione interagiscono


meglio con gli oggetti del loro mondo.

Inoltre la capacità umana di imitare le azioni altrui dà all’essere umano la capacità


dell’apprendimento culturale.

La cultura, come un DENTE D’ARRESTO, impedisce che ogni conquista venga infatti
persa nel passaggio alla generazione successiva. Grazie all’imitazione ogni
innovazione è non solo comunicabile, ma anche insegnabile e tramandabile.

La lentissima evoluzione biologica è stata quindi affiancata da quella culturale, basata


appunto sull’uso del linguaggio.

LINGUAGGIO PRIVATO: l’uso non comunicativo che il parlante fa del linguaggio.

Luc Steel (2003) ha studiato il linguaggio privato, enfatizzandone il ruolo sociale poiché
esso permette di simulare il pensiero altrui e porre le basi per nuovi comportamenti
sociali più complessi.

Tale capacità è detta TEORIA DELLA MENTE e secondo molti è una condizione
necessaria anche per l’apprendimento del linguaggio stesso.

Infatti i bambini sviluppano la loro abilità linguistica subito dopo aver sviluppato
un’altra abilità, l’ATTENZIONE CONDIVISA. Essa è la capacità di condividere
l’attenzione con qualcuno su un altro soggetto o elemento.
Il linguaggio permette infatti di riferirsi a cose o eventi anche in assenza spaziale e
temporale degli stessi. Quindi esso diventa fondamentale per la pianificazione degli
eventi futuri. Lo stesso Steel ritiene che il linguaggio richieda di essere pianificato per
l’utilizzo.

Steel ha svolto una simulazione in cui gli agenti usavano solo nomi e verbi semplici,
rudimentali, causando ambiguità.

Steel propone una via di apprendimento che cerca di conciliare l’evoluzione biologica
con quella culturale.

I fondamenti dell’approccio socio-culturale all’evoluzione del linguaggio sono:

 Che ci sia una popolazione dove gli individui abbiano diverse possibili strategie
per negoziare e usare sistemi di comunicazione
 Che alcune strategie possano essere più efficaci di altre, con conseguenti
difficoltà e successi diversi in base alla strategia adottata
 Che gli agenti tentino di massimizzare la potenza espressiva, ottimizzare il
successo comunicativo e minimizzare lo sforzo, cercando la strategia più
adattativa che diventerebbe quindi quella dominante in grado di spiazzare
quelle dei rivali

Questo significa che:

 Il miglioramento della lingua non avviene per successo riproduttivo e quindi


come conseguenza a cambiamenti del corredo genetico della popolazione, ma
per scelta culturale
 L’innovazione è sociale, culturale e non data da mutazioni genetiche

Vogt e Coumans (2003) hanno svolto una simulazione mettendo a confronto


l’apprendimento del linguaggio in 3 diversi tipi di giochi linguistici, ognuno dei quali
legato a uno specifico tipo di apprendimento linguistico presente nella psico-
linguistica:

1. Apprendimento associativo: l’attenzione condivisa guida l’apprendimento del


bambino attraverso l’associazione tra un comportamento e uno stimolo esterno
2. Apprendimento per rinforzo: avviene con l’intervento attivo di correzioni da
parte dell’adulto
3. Apprendimento isolato: non c’è nessun intervento attivo dell’adulto, il bambino
sembra apprendere implicitamente osservando gli adulti stessi

Nessuno di questi tipi di apprendimento è universale. Per metterli a confronto, sono


stati appunto usati 3 giochi:
1. Gioco di osservazione: viene usata l’attenzione condivisa per attivare
l’apprendimento associativo
2. Gioco di supposizione: il parlante decide l’argomento senza comunicarlo
all’ascoltatore
3. Gioco isolato: non ci sono input, l’ascoltatore ascolta il parlante cercando di
raggiungere i significati forniti dal contesto

Generalmente l’associazione delle parole ai significati avviene in modo


probabilistico, con l’ascoltatore che valuta empiricamente in base a quante volte una
parola è stata nominata in presenza di uno specifico significato, se essa corrisponda
proprio a quel significato o meno.

Osserviamo che, quando una situazione comunicativa ha successo, viene


incrementato (sia nei parlanti sia negli ascoltatori) il tasso di associazione di una
parola al suo significato.

Questo fa emergere l’importanza del linguaggio per l’apprendimento. Un problema


dell’esperimento dei 3 giochi è che i parlanti erano tutti dello stesso livello, situazione
poco plausibile.

Infatti di solito le nuove conoscenze del lessico vengono trasmesse da parlanti più
esperti a parlanti meno esperti.

È stato quindi proposto un nuovo esperimento con vere e proprie popolazioni adulte
esperte contrapposte a popolazioni con un lessico molto limitato. Queste ultime, una
volta appresi nuovi significati, diventavano a loro volta le popolazioni adulte pronte a
insegnare il linguaggio ai nuovi nati.

Per Pierce la relazione che un segno può avere con l’oggetto a cui si riferisce può
essere di 3 tipi:

 Iconica: l’icona, in cui c’è somiglianza tra significante e significato


 Indicale: l’indice, un segno che ha con il suo oggetto un rapporto di contiguità
(es. l’atto di indicare)
 Simbolica: il simbolo è un segno convenzionale, che ha significato solo se viene
appunto interpretato come simbolo qual è

Una parola potrebbe non riferirsi necessariamente a un solo oggetto. Essa può anche
avere riferimenti diversi, come nei casi di polisemia e omonimia.

Il significato di un segno non coincide con un concetto:

 Il concetto è un’entità mentale legata alla psicologia, che non ha bisogno di


alcuna mediazione linguistica per formarsi
 Il significato è un’entità specificamente linguistica che si forma solo con la
mediazione di una lingua

Quindi dobbiamo imparare a distinguere la semantica dalla psicologia.

Es. il concetto di “mela” si forma attraverso un’esperienza NON linguistica con la


mela. Infatti conoscere il concetto di mela significa saperla ad esempio distinguere da
una pera.

Il significato si forma invece quando un concetto non linguistico viene riorganizzato


attraverso la lingua. Quindi la lingua aggiunge un’organizzazione ulteriore a una già
esistente.

Quindi, se possiamo esprimere in certi casi l’universalità di alcuni concetti, non


possiamo fare lo stesso per i significati che sono invece specifici per ogni lingua.

Alcuni studiosi ritengono addirittura che la semantica non esista. Da un lato ci sono
le parole, dall’altro ci sono gli oggetti del mondo a cui si riferiscono. Le parole sono
quindi soltanto etichette, come quelle esposte da un commerciante al mercato.

Sono le zucchine che ci interessano, non la parola “zucchina”.

C’è un altro modo per fare a meno della semantica, e quindi dei significati. Secondo
Chomsky il bambino ha a disposizione i concetti prima ancora di aver appreso la
lingua. Quando impara la lingua, il bambino sta semplicemente apprendendo delle
etichette da applicare a concetti che sono già parte del suo apparato concettuale.

Per Chomsky i concetti sono quindi comuni a tutte le lingue della terra, e fanno da
riferimento agli altri sistemi come la lingua.

Perché distinguiamo psicologia (concetto) e semantica (significato)?

Perché nella nostra dotazione psicologica c’è una sola FACOLTA’ DEL LINGUAGGIO, ma
esistono anche migliaia di lingue umane tutte diverse.

Questa diversità mette in crisi l’identificazione della psicologia con la semantica. Infatti
se esistesse una sola lingua, non ci sarebbe bisogno della semantica.

Prima della comparsa della lingua, esistono originariamente 2 piani distinti:

1. PNL: piano concettuale, che è psicologico e individuale


2. SNL: l’insieme dei suoni che l’apparato umano può produrre

Quando interviene la lingua, questi due piani vengono combinati tra loro. Queste due
facce sono interdipendenti, non può esistere una senza l’altra. La loro unità corrisponde
al segno.

SEGNO= significato (SNL)+significante (PNL)


Tuttavia è bene sottolineare che, per De Saussure, il segno non nasce dalla somma di
significato e significante. Bensì VIENE PRIMA IL SEGNO, e solo successivamente
possiamo parlare di cosa quel segno mette in mostra.

La relazione tra significante e significato è però del tutto arbitraria.

I concetti non variano, restano gli stessi per tutte le lingue (convenzionalità), variano
invece i segnali attraverso cui i concetti si esprimono.

De Saussure sostiene invece che nel passaggio da una lingua all’altra cambiano
anche i contenuti del pensiero. Quindi secondo questa idea chi pensa nella lingua A,
pensa in modo diverso da chi pensa nella lingua B.

In ogni caso è sempre possibile stabilire un terreno comune tra lingue diverse,
estendendo e contraendo i confini tra i diversi segni per trovare questo punto di
incontro e permettere una traduzione.

È possibile isolare una certa porzione di PNL, a patto che si disponga di una porzione di
SNL e viceversa.

L’uso congiunto dei due piani avviene attraverso il sistema dei segni. Le forme di
pensiero non potrebbero esistere se non si incarnassero nei segni delle lingue.

Quindi un significato non esiste di per sé, ma solo con alla base un PENSIERO
CONCETTUALE (che va oltre la lingua) e un PENSIERO VERBALE (che è legato in modo
indissolubile alla lingua).

Ogni segno è una miscela di porzioni particolari di PNL e SNL. Esso non è quindi
un’entità statica, ma un’entità temporale.

LEGGENDA DELLA NEVE: la lingua degli eschimesi conterrebbe decine se non centinaia
di termini diversi per riferirsi alla nave. Ciò renderebbe questa lingua non traducibile
nella nostra, che possiede solo il termine “neve”.

Per un eschimese la neve è molto importante, quindi questo fatto di valorizzarla non ci
sorprende.

Secondo la leggenda, un eschimese vede il mondo (e in particolare la neve) in modo


molto diverso dagli altri. Quindi, da questo punto di vista, le parole influenzerebbero
molto la nostra percezione.

Ma questo significa sostenere che una differenza culturale influenza la fisiologia stessa!
Sapir Whorf ha sviluppato un’ipotesi su questa teoria, che parla del rapporto tra
natura e cultura.

Avviene un caso particolare con i colori, che ci porta a chiederci se le persone pensino
alla stessa variante cromatica ad esempio sentendo la parola “rosso”. Possiamo
individuare il campo dell’ESPERIENZA CROMATICA e le FUNZIONI DELLA LINGUA, le quali
segmentano questo campo in modo arbitrario. A ciascuna porzione ogni lingua
attribuisce poi una parola e questo porta alla nascita di più o meno varianti di uno
stesso colore tra una lingua e l’altra.

Questa è l’ipotesi di Hjelmslev, secondo cui le lingue sono in grado di formare


qualsiasi materia e, citando Kierkegaard, “soltanto nella lingua è possibile lottare con
l’inesprimibile fino ad esprimerlo”.

La critica più importante a questa teoria è l’idea che in realtà l’esperienza cromatica
contiene degli UNIVERSALI SEMANTICI, ovvero zone che attirano il nostro sguardo a
prescindere dalla loro eventuale associazione con le parole.

Su tali zone andrebbero quindi a concentrarsi anche le lingue, assegnando delle parole
proprio a tali PUNTI PRIVILEGIATI dello spettro visivo.

Questa teoria esposta da Berlin e Kay è definita BASIC COLOUR TERM, e individua 11
nomi basici di colore nelle lingue umane, 11 punti privilegiati. Ma tale teoria cade nel
momento in cui ci rendiamo conto che non possiamo trovare tutte e 11 le categorie in
tutte le lingue del mondo. Ergo non sono universali.

I due studiosi hanno cercato di difendersi citando come “colpevole” l’influenza di


tecnologia e civiltà. Essi affermano inoltre che se i colori focali sono universali, non lo
sono però i confini di queste categorie.

Esiste un compromesso: da un lato ammettiamo l’ipotesi di Hjelmslev che le lingue


possono liberamente costruire categorie percettive che raggruppano porzioni diverse
del campo percettivo, dall’altro però si sostiene che questa libertà non sia senza vincoli.

Il solo parametro libero è quello di DOVE TRACCIARE I CONFINI TRA LE CATEGORIE.

TESI SAPIR WHORF

Se mettiamo un frutto davanti a una scimmia, lei vedrà anche quello che potrà fare
con quel frutto, e non solo il frutto in sé.

Infatti noi umani non è che prima prendiamo l’oggetto e poi ci viene in mente cosa
farci. Già nel momento in cui lo vediamo, la nostra mente ci offre le possibilità d’azione
che abbiamo con l’oggetto stesso, ciò che esso potrebbe diventare.

L’uomo vede sì con la mano e gli occhi, ma anche attraverso le parole della lingua. Il
linguaggio da questo punto di vista non è altro che un deposito di pezzi con cui è
possibile costruire una serie di ipotesi.

Una tazzina non è solo un oggetto da afferrare, essa infatti diventa tutto ciò che
possiamo fare con essa.
L’intuizione teorica della tesi di Sapir Whorf è che un pensiero come quello umano,
capace di vedere in una tazzina anche quello che ancora non è, è:

 Un pensiero diverso da quello degli altri animali perché si stacca dall’aderenza


percettivo-motoria a cui si limitano le altre creature
 Un pensiero ipotetico, (pensare per ipotesi), quindi pensare e agire in frasi e
parole, il quale non può realizzarsi senza il necessario supporto linguistico
 Realizzare pensieri e azioni diverse per un medesimo oggetto, in base a chi le
realizza, al suo modo di pensare e alla sua cultura ed esperienza

Ciò che ci interessa non riguarda direttamente il vedere, bensì il pensare e


immaginare quel che si vede. Quindi, se il nesso percezione-azione è unico e
indipendente, il modo di pensare varia invece storicamente.

Il concetto di spazio varia con la lingua, come anche quello di tempo e di materia.
Infatti noi non pensiamo agli oggetti come fini a sé stessi, ma li relazioniamo in un
contesto spazio-temporale ben preciso che è a sua volta condizionato dai segni
linguistici.

Per quanto riguarda i colori, essi vengono generalmente identificati non tanto da ciò
che positivamente indicano, bensì da che cosa si differenziano.

Ad esempio tendiamo a pensare al bianco come il contrario del nero e viceversa.

Tutte le lingue hanno almeno 2 BASIC COLOUR TERMS. In esse si stabilisce appunto il
campo di applicazione di un termine di colore differenziandolo appunto da almeno
quello di un altro termine di colore.

Le operazioni di categorizzazione sono guidate dalle funzioni della lingua e non dalla
percezione, motivo per cui molti bambini fanno fatica a iniziare a parlare dei colori. Essi
infatti devono imparare a suddividere quel determinato spettro in base alle regole
della loro lingua madre.

Questo fa entrare in crisi l’ipotesi universalista, poiché le diverse lingue categorizzano


lo spettro cromatico in modo differente.

Questo non significa che le diverse lingue fanno vedere colori diversi alle persone,
bensì tale teoria influisce sulla diversa concentrazione che si assume nei confronti di
un colore rispetto a un altro.

Dobbiamo prendere atto che gli umani mostrano un pensiero diverso da quello degli
altri animali, poiché esso subisce l’influenza della lingua e l’esempio dei colori ne è
una prova.

Secondo Vygotskij invece esistono due tipi di percezione:


 Naturale: quella usata dai bambini prima che imparino a parlare
 Artificiale: articolata mediante la lingua

Quindi la lingua non è solo un mezzo di comunicazione, ma viene anche incorporata


all’interno del pensiero trasformandolo dall’interno. L’uomo pensa e immagina con le
parole.

Anche i daltonici o chi soffre di acromatopsia non hanno comunque problemi nel
parlare di colori. Semplicemente, il daltonico utilizza un campione di colore nella sua
mente che è completamente diverso dal nostro, che lo porterà a valutazioni diverse
quando la utilizzerà per confrontarla con i colori degli oggetti che vede.

A parte i daltonici, tutti noi non possediamo le medesime rappresentazioni cognitive


interne, motivo per cui a volte può capitare che un colore rosso venga percepito da
qualcun altro come arancio o viceversa.

La differenziazione categoriale favorisce la produzione di modelli comunicativi distinti


per la condizione INGROUP rispetto alla comunicazione OUTGROUP:

 Comunicazione ingroup: forme comunicative legate agli aspetti affettivi e alle


relazioni sociali, distanza sociale ridotta per lasciare spazio alla condivisione
delle esperienze
 Comunicazione outgroup: scambi comunicativi in cui c’è una distanza sociale
relativamente grande, raggiunge gli obiettivi di comunicazione attraverso
schemi di routine e procedure codificate

La differenziazione sociale ci aiuta a comprendere a sua volta il fenomeno del


SOCIOCENTRISMO, ovvero la tendenza dell’individuo a ritenere sé stesso come punto
di riferimento centrale in termini sociali e culturali.

Questo porta l’individuo ad accettare solo coloro che gli sono simili, e a rifiutare coloro
che si differenziano da lui secondo i parametri scelti.

La persona socio-centrica si ritiene quindi un’UNITA’ DI MISURA SOCIALE.

Il sociocentrismo è una variabile continua, presente anche solo in minima parte in ogni
persona. Questo porta spesso a fenomeni più o meno rilevanti di distorsione nella
valutazione delle proprietà presenti in un gruppo (ingroup) e negli altri gruppi
(outgroup).

Tutti questi processi di differenziazione categoriale portano alla nascita degli


STEREOTIPI SOCIALI e CULTURALI, un insieme di credenze e giudizi superficiali/imprecisi
che tendono alla generalizzazione o esagerazione.
Tali stereotipi nascono in virtù di 2 parametri:

 Vicinanza: legata a caratteristiche di prossimità, amicizia, e risponde alla


domanda “amico o nemico?”
 Competenza: è associata alla capacità, efficacia, e risponde alla domanda
“l’altro è in grado di mettere in atto ciò che intende fare?”

A livello outgroup, gli stereotipi sono generalmente negativi. Le diverse culture


comportano cambiamenti nella creazione di questi stereotipi e negli approcci ingroup
e outgroup.

Gli stereotipi hanno un’elevata resistenza cognitiva, sono difficili da modificare e


vengono creati per differenziare il più possibile un gruppo da un altro, esaltandone una
particolare caratteristica o sminuendone un’altra.

Essi servono per affermare la propria identità e rafforzare la propria autostima.

Le conoscenze che si oppongono agli stereotipi vengono definite CONTROSTEREOTIPI.


Esse si dimostrano efficaci solo se sono concentrate e diffuse da pochi membri del
gruppo.

Quanto più si discute dei controstereotipi, tanto maggiore è la probabilità di annullare


gli stereotipi.

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