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LINGUISTICA ITALIANA

Appunti 
Lezione 2
Opposizione lingua orale/lingua scritta
Per il solo fatto di essere scritta, la lingua sottoposta nell’oralità ad una spontaneità che prescinde
da una consapevole pianificazione lessicale e sintattica preventiva (o che si accontenta di una
pianificazione più approssimativa rispetto alla lingua scritta) soggiace ad un primo livello di
riflessione, che rompe la contiguità/continuità meccanicamente stabilitasi fin dall’infanzia fra il
pensiero e la sua verbalizzazione. Secondo Ferdinand de Saussure esiste un procedimento
mentale complesso che dal cervello agli organi fonatori traduce l’indistinto del pensiero nella sua
verbalizzazione in lingua data. Dopo l’infanzia, possiamo dire che la competenza della lingua
madre è abbastanza sufficiente da consentir al  meccanismo mentale che lega pre-verbale al
verbale di venire acquisito in una forma sostanzialmente inconsapevole da permetterci di parlare
di contiguità/continuità fra input celebrale e fonazione. Questo tipo di continuità, vien messa in
discussione quando si parla del pensiero e la sua formulazione in forma scritta. Questo passaggio
è ovviamente molto meno naturale e spontaneo, quanto meno lo scrivente sarà alfabetizzato
oppure partecipi all’interno di una comunità alfabetizzata, ma anche nel caso in cui si trovi in una
situazione di alfabetizzazione, e la società che lo circonda è molto alfabetizzata, la produzione
scritta non sopravanzerà mai la produzione linguistica orale. Anche la minore frequenza della
lingua scritta conferma dunque la minore spontaneità di essa. A queste considerazioni di
carattere quantitativo si aggiungo considerazioni di carattere qualitativo: il linguaggio parlato è
generalmente coadiuvato da altri tipi di linguaggio, i cosiddetti linguaggi non verbali:
Mimico: all’espressione del volto e dello sguardo
Gestuale: insieme di gesti che compiamo soprattutto con mani e con la testa nel momento in cui
si parla
Prossemico: legato alla distanza fisica che stabiliamo rispetto all’interlocutore.
Ora come ora il parlato necessita sempre meno di questi aiuti, in quanto la tecnologia ha
permesso anche di poter parlare al telefono e sentire la lingua orale anche in radio, è un fatto
comunque che questi linguaggi mancano sempre e comunque nello scritto. Il che richiedo allo
scritto una maggiore esplicitezza, ottenuta con la pianificazione che era di porre rimedio
all’assenza di questi supporti. Inoltre, il linguaggio parlato fa uso frequente di presupposizione e
deissi: 
Conoscendo il nostro interlocutore e le sue conoscenze pregresse non c’è bisogno di esplicitare
ogni volta, all’avvio della conversazione, quello che emittente e destinatario conoscono. Quelle
conoscenze comuni vengono date per presupposte, e da quel bagaglio di conoscenze condivise
partiamo per avviare la conversazione che si configura quindi come un frammento di
conversazione che fa riferimento ad uno o più frammenti precedenti.
La deissi si riferisce al riferimento al contesto, in relazione al tempo (ieri, oggi) allo spazio (qui, lì)
o alle persone implicate.
La lingua scritta invece fa scarso uso sia di presupposizione che di deissi, pena incomprensione
del messaggio. 
L’assenza di queste cose impone allo scritto un tipo di linguaggio meno spontaneo e più riflesso
della lingua, in modo speciale l’assenza di condivisione o la minore condivisione di conoscenze
pregresse impone allo scritto di agire in maniera strategicamente diversa su entrambi gli assi
paradigmatico e sintagmatico. Altrimenti detti anche della selezione e della combinazione. Fu
proprio de Saussure a imporre questa dicotomia e rapporto fra i due assi che lui chiamava
associativo e sintagmatico. 
Asse paradigmatico (verticale) il parlante e lo scrivente sceglie fra elementi linguistici che
stabiliscono fra loro un rapporto associativo (fra tutti gli articoli, i nomi e i verbi) disponendo poi
gli elementi prescelti su un asse sintagmatico (orizzontale) in una sequenza condizionata dalle
scelte operate. Questo meccanismo complesso, composto di processo selettivo e combinatorio
funziona tanto per lo scritto che per il parlato ma i criteri non sono coincidenti. Sulla base di quel
che abbiamo detto su presupposizione e deissi, nel parlato la frase avrebbe potuto presentarsi
anche come “ha preso l’autobus con lei” e anche “con lei ha preso l’autobus”. 
Rapporto fra locatore e interlocutore che nella lingua parlata è di sincronia (cioè di
contemporaneità) e di isotopia (condivisione dello stesso spazio) e anche di sincronia e isotopia
congiunte. Nello scritto la distanza fisica e temporale che intercorre tra emittente e destinatario
condiziona l’enunciazione del messaggio. Destinato a superare lo spazio e il tempo, lo scritto deve
raggiungere il destinatario spurando la distanza geografica o cronologica, separandosi dal
produttore in maniera irrevocabile, cosicché non sarà possibile correggersi e modificare quanto
scritto nella forma e nel contenuto. Manca la possibilità di retroazione: da la possibilità di
aggiustare il tiro del discorso anche in base alle reazioni dell’interlocutore.
Lo scritto rimedia a questi handicap pianificando l’enunciato con una maggiore appropriatezza
lessicale e con una sintassi più strutturata.
La scelta tra scritto e parlato è una scelta obbligata a livello diamesico, ovvero al mezzo utilizzato
dall’emittente per inviare il proprio messaggio al destinatario. Questo termine si inserisce nella
serie di distinzioni che caratterizzano la teoria variazionistica elaborata negli anni 60 da Eugenio
Coseriu che propone di analizzare la lingua non come monolite fermo e statico, ma nei suoi
aspetti di mobilità a seconda dei mezzi, degli usi, dei contesti. Coseriu ha introdotto la seguente
nomenclatura per indicare i differenti assi della variazione linguistica. Sul modello
dell’opposizione fra analisi diacronica della lingua (relativa all’evoluzione della lingua lungo l’asse
temporale)/ analisi sincronica (che analizza lingua nel suo funzionamento in un dato momento
considerato come cronologicamente unitario).
Asse di variazione diafasico: riguarda le classi di varietà della lingua condizionate dalla situazione
comunicativa, dalla funzione del messaggio e dal contesto globale o particolare in cui si verifica
l’interazione linguistica soggette ai diversi domini della situazione comunicativa, al mezzo
impiegato agli interlocutori o ai partecipanti all’interazione, all’intenzione comunicativa,
all’argomento alla scelta espressiva e stilistica.
Asse di variazione diatopico
Riguarda la variazione nello spazio della lingua.
Asse di variazione diastratico
Riguarda le varietà della lingua selezionate da variabili di tipo sociale, o per meglio dire, a variabili
legate alla stratificazione in classi o in gruppi sociali. Sono dunque considerate tali sia le varietà
considerate come socialmente alte, sia quelle considerate come socialmente basse.

Nel 1983 A questa terminologia Mioni ha aggiunto anche l’asse di variazione diamesico a
designare il tipo di variazione condizionato dal mezzo (che sia orale o scritto) impiegato nella
comunicazione. La prima scelta che abbiamo fatto è stato appunto di questo tipo, poiché la
nostra scelta è avvenuta sulla scorta del diverso mezzo tramite il quale il messaggio viene
trasmesso dall’emittente al destinatario.

Lezione 3
Elementi principali di ogni situazione comunicativa: emittente e destinatario. 
Destinatario : nonostante la distanza che può essere cronologia e spaziale che caratterizza la
situazione comunicativa di un testo scritto, rispetto al testo orale, l’emittente di un testo di
carattere pratico possiede un identikit abbastanza chiaro e definito del proprio destinatario, che
può essere un singolo individuo oppure anche un gruppo di individui che è reso riconoscibile per
appartenenza ad una categoria sociale, ad un gruppo familiare o per un ruolo specifico. Nel testo
di carattere letterario la natura del destinatario è più sfuggente e meno definita. In questo caso
l’emittente può anche aver individuato un destinatario diretto, immediato e privilegiato, ma può
anche non averlo individuato e ha di fronte un destinatario più generico, un pubblico, un lettore,
per definizione molto vago perché sempre nuovo e differente nello spazio e nel tempo.
Emittente: nel caso di un testo di carattere pratico o l’intenzione dell’emittente si esaurisce nel
contenuto del messaggio stesso, nel suo significato letterale, nel redigere un testo letterario
invece ‘emittente non trasmette soltanto contenuto, il significato di quel messaggio ma lascia
anche traccia di ciò che ha mosso alla scrittura, e il testo porta quindi dentro di sé un contenuto
ma anche l’intenzione dell’autore ( la retorica classi a medievale parlava di intenti auctoris).
Questo però non significa necessariamente che l’autore avesse intenzione di scrivere un testo
letterario. La letterarietà di un testo dipende dalla percezione del lettore e del linguista, ed è
decretata da questioni sociali e di gusto variabili nello spazio e nel tempo che coinvolgono anche
quei criteri estetici e valutativi che necessariamente saranno esclusi nell’approccio.
Ci interessa invece che la traccia dell’intenzione dell’autore sopra il testo che per noi valenza
letteraria coinvolga il tipo di situazione comunicativa stabilita fra emittente e destinatario. I
documenti di carattere pratico utilizzano in genere una lingua che si avvicina alla contingenza e
all’uso quotidiano. Quello che caratterizza invece la comunicazione letteraria è la scelta di una
situazione comunicativa che si attua a livello diafasico, c’è dipendente dalla funzione del
messaggio e dal contesto globale o particolare in cui si verifica l’interazione linguistica.
Altra coppia oppositiva di de Saussure : langue e parole 
Per de Saussure il linguaggio è inanzi tutti un atto di fonazione dunque si configura come
processo fonetico e articolatorio individuale, che viene appunto chiamata parole. È proprio a
partire dalla parole che si deve la mobilità della convenzione su cui si fonda l’interazione
linguistica, lo scambio del messaggio, perché è a partire dalle singole scelte del parlante che si
innescano i cambiamenti sull’asse diacronico. Affinché appunto possa però funzionale, deve
essere coadiuvata dalla langue, cioè deve essere condivisa. La stretta interdipendenza fra singolo
atto linguistico e convenzione sociale che regola la langue, non impedisce che esse siano due
cose assolutamente distinte.
Per riassumere il pensiero di de Saussure: con langue si deve intendere il repertorio (fonetico,
morfologico sintattico, lessicale) di una lingua (quello che veniva chiamato da lui dizionario) in
certa parte astratto o virtuale. A questo repertorio attinge ogni parlante con il proprio concreto
atto di parole, che sarà dunque da intendere come atto linguistico che traduce in atto la
potenzialità del repertorio, la virtualità la realtà.
In quanto sistema, o codice, o dizionario, la langue accoglie in sé tutte le possibilità di
realizzazione: 
Per il lessico per esempio arcaismi, neologismi, turpiloquio, lessico scelto e astratto.
Per la sintassi o la morfologia soluzioni triviali e scontate oppure ricercate e connotate.
Registri anche molto differenziati dal punto di vista diastratico o diafasico.
La somma delle preferenze individuali coincidenti in una data società individua una lingua
dell’uso, cioè una porzione del repertorio virtuale della lingua che un alto grado di frequenza
negli atti di parole. Questo tipo di lingua corrisponde a scelte perlopiù meccaniche e contagiose,
per ragioni di moda o sulla base di condizionamenti storici, politici, sociali di varia natural
esercitati in una data società in un determinato periodo. Si può quindi parlare di italiano dell’uso
odierno.
D’altro canto però ciascuno di noi di questo potenziale repertorio preferisce in maniera
idiosincratica e peculiare, alcune zone cui attinge inconsapevolmente più di frequente e secondo
abitudini meccaniche sue proprie creando quindi quello che viene chiamato idioletto.
L’opposizione tra langue e parole vale a livello di linguistica generale. In un contesto storico dato e
in una situazione linguistica precisa, potremmo parlare più propriamente della dicotomia fra
lingua dell’uso e uso personale, standard e idioletto. 
Idioletto: varietà individuale di un codice linguistico o per meglio dire, somma delle
caratteristiche personali mediante le quali un individuo interpreta la lingua standard.
Standard: varietà della lingua parlata in modo uniforme e sostanzialmente indifferenziato
dall’intera comunità linguistica. Ogni atto di parole, prodotto dall’emittente sulla base del proprio
idioletto può essere sottoposto ad un’analisi che ne valuti lo scarto della langue o dalla norma.
Qualunque testo, che sia scritto o orale, può essere aperto all’analisi stilistica. La lingua di un
autore, è come la lingua di ciascuno di noi un atto di parole, un atto linguistico concreto che pone
in essere astrattezza del repertorio. Anche uno scrittore si inserisce nella dicotomia fra standard e
idioletto, fra adesione della lingua dell’uso e elaborazione di una lingua personale. Ma nel
momento in cui uno scrivente si propone di redigere un testo di natura letteraria, si inserisce in
un sistema di comunicazione fortemente organizzato, all’interno del quale può fare scelte non
necessariamente coincidenti con quelle che egli stesso opera per parlare o per scritti di natura
pratica. Questo inserimento inconsapevole, fa si che il ricorso del proprio idioletto e delle lingua
dell’uso non sia più sufficiente per lo scrittore. In primo luogo perché l’inserimento all’interno di
un genere dato attiva immediatamente la parole letteraria di altri autori rendendola disponibile
per gesti di adesione o di rifiuto, che condizionano scelte puntuali o generali. Inoltre lo scrivente
sarà sempre in condizione di tener conto o meno delle costrizioni del genere letterario entro il
quel si iscrive e di tener conto o meno delle attese del lettore o del pubblico. Nel proprio scritto
dunque lo scrivente potrà attingere al repertorio della langue o dello standard in maniera
inconsueta, inedita, marcata, rispetto all’uso quotidiano che ne fanno i parlanti. Potrà non
accettare passivamente gli usi quotidiani e diffusi, la parte del repertorio più banale e resa pronta
dalla diffusione sulla bocca dei parlanti e degli scriventi del suo tempo. Chiameremo quindi stile
quest’uso particolare della lingua da parte dell’autore. Per stile ci riferiamo alla definizione di
Elisabetta Soletti nel dizionario di linguistica e di filologia ecc.. : 
Gli studi.. hanno dato definizioni di stile in base al rapporto fra i fatti di stile e l’insieme da cui
questi si isolano che si possono così riassumere:
Deviazione o scarto dai modelli o schemi che costituirebbero la norma.
Aggiunta o sovrapposizione di tratti stilistici a u’espressione neutra
Connotazione: ogni tratto stilistico si precisa come tale in riferimento al contesto linguistico e alla
situazione comunicativa.
Nonostante le differenze nelle scelte lessicali dei vari studiosi, lo stile pare non poter essere
definito se non per via di comparazione, non pare poter essere interpretato cioè se non alla luce
di qualcos’altro, la lingua normale, o quella socialmente condivisa alla quale lo stile si adegua o
dalla quale si distanzia.
Per comprendere meglio quanto la lingua letteraria si differenzi dalla lingua comune e quali
possono essere i piani di analisi stilistica abbiamo un’altra distinzione di de Saussure fra
significato e significante che sono due facce del medesimo segno linguistico. in ogni lingua esiste
un rapporto particolare che lega nel segno il significato e il significante: nel linguaggio quotidiano
il significante è soltanto veicolo del significato. A differenza di quanto avviene nel linguaggio
quotidiano, nel linguaggio letterario il significante si autonomizza e si parla quindi di autonomia
del significante. In quanto anche il significante è quindi portatore di senso. Basti pensare ai
messaggi in cui forte è la funzione poetica e nel quale l’attenzione si sposta sul significante che
parla e dice anch’esso in maniera autonoma. Alla definizione di de Saussure, che aveva suddiviso
il segno in significato e significante, si sono aggiunti altri termini, col fine di evitare qualsiasi
ambiguità: da parte di Roman Jakobson e Louis Hjelmslev che suddividono cosi: sostituiscono a
significato e significante i termini contenuto ed espressione, ciascuno dei quali ripartiti in forma e
sostanza, così da poter distinguere fra sostanza del contenuto e forma del contenuto e fra
sostanza dell’espressione e forma dell’espressione.
Lezione 4
Questione storico-politica del periodo dell’ottocento in cui si inquadra la produzione letteraria di
Verga. Unità d’Italia che si risolve nel 1861 e questione della lingua nazionale, la risposta che
viene data deriva da una risposta letteraria. Seppur connotata stavolta da una scelta di tipo
linguistico ben diverso da quelle sperimentate nella storia passata. Una risposta formulata infatti
in maniera coerente, tanto nell’esperienza letteraria (come la scelta del romanzo storico e della
lingua parlata adottata nella redazione dei Promessi sposi), quanto sul versante teorico (con le
prese di posizione manzoniana per raggiungere tramite la scuola quell’unità linguistica
sperimentata in letteratura).
È con la figura di Manzoni che il verga deve fare i conti , prima di tutto dal punto di vista letterario
e poi dal punto di vista della conquista personale di una propria lingua, per la vita che per la
letteratura. Fra aspirazione patriottica de giovane Verga, e poi in età matura la sua delusione per
la politica post-unitaria manifestata, fra aspirazione ad una lingua aderente a modelli
toscano.centrici e recupero della sicilianità interiore del maturo scrittore, pare si debba leggere il
percorso coerente di una evoluzione umana, intellettuale e linguistica che segna il fil Rogue di
tutta la storia di giovani Verga.
Problematiche di periodizzazione dell’Ottocento. Il volume di Luca Serianni, storia dell’italiano
nell’Ottocento, parla di un lungo Ottocento che al suo interno vede una sostanziale bipartizione
segnata dall’evento dell’unificazione politica.
Secondo l’autore, l’ottocento coincide con a fase di più accentuato dinamismo della storia
linguistica italiana. Tale dinamismo dipende dai grandi rivolgimenti sociali e tecnologici che
segnano il secolo; le conseguenze per esempio dell’invenzione del telegrafo, e più tardi del
telefono. Per l’Italia è in primo luogo il secolo dell’unificazione statale, con le relative
conseguenze giuridiche, demografiche, economiche e soprattutto culturali: scolarizzazione,
riduzione dell’analfabetismo, erosione del monolinguismo dialettale. Il 1861 rappresenta un
naturale discrimine per la periodizzazione del secolo in due parti di quasi corrispondente
estensione. C’è quindi un ampliamento dei confini secolari: si contrassegna la fine del secolo,
secondo Serianni, con l’evento storico della Grande guerra scoppiata nel 1914, che ha anche una
grande rilevanza di tipo simbolico. Come inizio si pone data quella della rivoluzione francese e le
relative ripercussioni in Italia nel periodo giacobino.
c’è quindi un riconoscimento del primo Ottocento marcato da elementi di continuità con il secolo
precedente: cosmopolitismo che la prima metà del 19esimo secolo eredita dal 18esimo, influsso
delle lingua straniere, in particolare francese e in subordine inglese, frammentazione politica e
culturale. E un secondo ottocento, inaugurato dalla svolta politica in senso unitario, caratterizzato
da quanto quella svolta politica impone (ripiegamento sui fatti interni del nuovo stato, mobilità
interna che sostituisce la precedente mobilità verso l’estero, unificazione legislativa e dunque
ricercata omogeneizzazione delle differenti situazioni socio-economiche delle regioni italiane,
intenti di alfabetizzazione e scolarizzazione di massa, diffusione dell’italiano come lingua parlata e
non solo lingua scritta.). l’ottocento risulta quindi ripartito in due parti, è anche centrale nella
storia della lingua italiana, tanto che ad essa la disciplina si è adeguata fin da subito: il primo
panorama complessi o dell’evoluzione linguistica dell’italiano, cioè la storia della lingua italiana di
Bruno Migliorini interrompeva la consueta scansione in capitoli secondo l’andamento secolare
proprio per l’ottocento a cui dedicava due capitoli, intitolati appunto primo ottocento e mezzo
secondo di unità nazionale. 
Anche Serianni in anni più recenti ha pubblicato due distinti volumi dedicati alla lingua
nell’ottocento, confermando così quanto sia differente il quadro relativo a queste due tranches
del 19esimo secolo e le problematiche inerenti a ciascuna di esse. 
L’esperienza letteraria di Verga si colloca maggiormente nel secondo ottocento, il giovane Verga
nasce, si forma e si educa linguisticamente prima dell’unificazione italiana e da quel mondo
primo ottocentesco dovrà e saprà sganciarsi proprio al momento di prendere atto dei grandi
cambiamenti sociali, ideali e culturali di cui è spettatore immediato. Verga, come altri autori della
sua generazione, vive sulla propria pelle la crisi di identità di un uomo nato cittadino di un piccolo
stato regionale e morto cittadino italiano, con tutte le sue sfaccettature che una crisi di questo
tipo comporta: politica (cittadino ora di uno stato nazionale), geografica (aumentano e cambiano
i propri orizzonti e la propria mobilità), culturale (le abitudini e i comportamenti di un piccolo
spazio regionale devono misurarsi ora con quelli variamente condividi o censurati nello spazio
nazionale), linguistica (la dinamica fra dialetto e lingua, prima esattamente corrispondente ad una
dinamica fra parlato e scritto, si fraziona ora in una serie di opzioni diversificate:  dialetto, lingua
nazionale, italiano regionale) a seconda dei contesti e degli usi. A gran parte degli uomini della
generazione nata fra gli anni venti e quaranta del 19esimo secolo può essere esteso il senso di
spaiamento e di avvertita necessità di ricostruzione della propria immagine, icasticamente
rappresentata dall’inizio delle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo.
Le fittizie indicazioni biografiche del protagonista del romanzo (la presunta scrittura da parte di
un anziano di 80 anni) e realtà della composizione da parte dell’autore che coincide con quella
del narratore, è utile a rimarcare la dicotomia veneziano/italiano con cui si apre il romanzo, e in
secondo luogo, la netta percezione espressa da Nievo, che le vite degli uomini della sua
generazione siano state profondamente condizionate dai grandi eventi a cui hanno assistito e
viceversa come ogni singola vita contribuisca a descrivere l’epoca intera.
Ci concentriamo quindi su aspetti dell’ottocento strettamente funzionali :
Scuola ( con i connessi problemi del sistema scolastico, della scolarizzazione dell’alfabetizzazione.
Atteggiamenti e polemiche linguistiche
Panorama letterario.
Sono argomenti di snodo nel passaggio da primo a secondo ottocento, spesso intersecati gli uni
con gli altri e cruciali nel creare quel cittadino della nuova nazione.
Prospetto cronologico 
1796 Francia rivoluzionaria invade l’Italia. L’arrivo dei francesi in Italia rappresenta una sorte di
prima e preventiva unificazione nazionale ottenuta, con l’assoggettamento di tutta Italia
peninsulare alla potenza francese. Sono soggetti direttamente alla francia il Piemonte, la toscana
e le città di Genova, Parma e Roma. Sono stati vassalli della Francia il regno d’Italia comprendente
Lombardia, Emilia Romagna, veneto e marche, e il regno di Napoli.
Alla caduta di napoleone quella temporanea unità si scompagina velocemente con la
restaurazione dell’ordine pre-rivoluzionario. Tuttavia l’esperienza e le idee che l’avevano
innervata costituiranno il retaggio ideologico che anima di lì a poco i moti rivoluzionari del 1821,
1831 e infine quelli siciliani e milanesi del 1848, 1849 che innescano la cosiddetta prima guerra di
indipendenza. Quest’ultima decreta per il piemonte e la casata Savoia il ruolo di guida e di
aggregazione possibile per le istanze nazionali di indipendenza dall’Austria. 1859 seconda guerra
di indipendenza consente unione di Piemonte e Lombardia, sottratta all’austria con l’aiuto della
francia.
Poco dopo si avrà l’annessione della toscana e delle ec legazioni pontificie di Bologna, Ferrara,
Ravenna e Forlì, parte l’impresa dei Mille a maggio. Mentre Garibaldi risale dalla Sicilia lungo lo
stivale si susseguono plebisciti del regno di Napoli e della Sicilia (ottobre 1860) delle marche e
dell’Umbria (novembre 1860). 
Viene proclamato regno d’Italia nel 17 marzo 1861.
Numerosi episodi successivi di assestamento: spostamento della capitale da Torino a Firenze, poi
dal tentativo di conquistare Venezia e il veneto con la terza guerra d’indipendenza nel 1866 infine
la conquista di Roma nel 20 settembre 1870. Che determina la fine dello stato pontificio e
permise di fissarla come capitale, luogo simbolo di un’identità nazionale raggiunta prima nelle
idee che nei luoghi. Fin da questo decennio si avvia il tentativo di rendere uniforme la legislazione
civile, penale e militare, sancito dall’estensione dello statuto Albertino che era promulgato nel
1848 dalla monarchia di Savoia, a tutto il regno di Italia.
Lezione 5
Nel 600 e nel 700 la scuola è in mano alla chiesa sia per quanto riguarda l’insegnamento inferiore
sia per il livello superiore, salvo l’attività di maestri che esercitavano pubblicamente, ma senza
l’egida e il patrocinio di un’istituzione. L’insegnamento di base, da cui dipende il livello di
alfabetizzazione dei cittadini di uno stato, era affidato alle scuole di dottrina cristiana che come
intento primario era quello di insegnare catechismo, ma in qualche caso si potevano trovare
centri piccoli che si insegnava l’insegnamento della lettura, naturalmente in volgare, inoltre nei
monasteri e negli orfanotrofi si trovavano maestre in grado di insegnare a leggere e in qualche
caso a scrivere. Alla fine del sedicesimo secolo, era inizia l’opera didattica delle scuole pie,
fondata da Giuseppe Calanzio, che di lì a poco furono affidata dal Calanzio all’ordine religioso
degli Scolopi , da lui fondato a Roma nel 1617 il cui obiettivo principale era appunto l’educazione
e l’istruzione della gioventù. A questo ordine si aggiunsero nella metà del 700 l’ordine religioso
dei Redentoristi, fondato da Alfonso de’ Liguori a Napoli (a cui si deve addirittura una grammatica
volgare, stesa nel 1746 in risposta alle esigenze individuate nella sua personale esperienza
didattica) e quello dei Lasalliani o Fratelli delle scuole cristiane, fondato da Giovan Battista de la
Calle, che miravano all’insegnamento pratico relativo all’istruzione tecnica.
Alla compagnia di Gesù, fondata nel 1535 da Ignazio Loyola e soppressa nel 1773, era affidata
l’istruzione superiore rivolta ai nobili e alle classi agiate o alla erudizione della compagnia stessa,
che aveva istituito un sistema capillare di collegi. L’istruzione impartita dai gesuiti si impostava
sull’insegnamento del latino, che fra il 17esimo e il 18esimo secolo viene scalzato dal volgare.
Scacciata prima in Portogallo, e poi anche in francia e in Spagna e nel regno delle due Sicilia, fu
soppressa dal papa Clemente XIV nel 1773, a causa di intricate questioni di ortodossia religiosa e
di sottomissione del potere politico al papa. Fu poi riammessa nel 1814 dal papa Pio VII.
Si trattava comunque del periodo della francia rivoluzionaria, che si andava estendendo oltre i
confini francesi, diffondendo la rivalutazione dell’insegnamento laico, l’esigenza del controllo
dello stato sul sistema scolastico a tutela dell’uguaglianza dei cittadini e delle loro opportunità, la
necessità della formazione dei maestri e infine l’elaborazione di criteri didattici e pedagogici
attenti all’individualità dell’alunno.
Uno dei primi ad affrontare la questione dell’insegnamento pubblico e in genere l’istruzione era
stato proprio il Piemonte nel 1729 e di nuovo nel 1733, che si richiedeva la formazione di un ceto
intellettuale adeguato ad affrontare le questioni giurisdizionali del tempo. Per questo motivo ad
essere coinvolta fu la scuola superiore nella quale si patrocinava l’uso di un italiano su base
letteraria secondo la vincente tradizione filo-toscana e arcaizzante. La riforma scolastica
piemontese e la parallela redazione di strumenti didattici, come grammatiche e antologie di
modelli di bella prosa, fecero sì che l’italiano scritto alla fine del 700 dai piemontesi fosse un
italiano di marca letteraria, ma accettabile e per lo più scevro da interferenze con il dialetto.
In Lombardia ad affrontare la questione scolastica era stata Maria Teresa d’Austria, che estese
anche in Italia il methodenbuch fur Lehrer Der deutschen schulen redatto da Johann Ignaz von
Felbiger. La riforma istituiva ordini di scuole; primaria, istruzione di base, scuole principali per
l’avviamento della professione, e avviavano anche l’attività di maestro, il ginnasio che riprendeva
le impostazioni tradizionali scuole di umanità e di retorica improntate ad avviare gli studi
universitari. Questo metodo poi era stato esteso anche al Veneto, alla Sicilia e al regno di Napoli,
dove a partire dalla metà del 18esimo secolo vide l’aumento del numero delle scuole in maniera
capillare. Tuttavia, queste riforme non diedero dappertutto gli effetti sperati: si evidenziò per
esempio una disparità tra nord e sud per quello che riguarda le condizioni dell’istruzione. Tra le
novità c’era il nuovo ruolo dell’italiano come lingua base dell’istruzione.
Un altro problema che l’italiano doveva affrontare, era chiaramente il dialetto, non solo negli
affari quotidiani, ma anche all’interno della scuola dove non sempre e non dovunque allo stesso
modo, il maestro stesso è in grado di gestire in piena consapevolezza i due strumenti linguistici e
ancora meno a insegnarne l’uso. Due tendenze opposte nella scuola italiana:
Acquisizione della lingua comporti inevitabilmente sacrificio del dialetto.
Il dialetto è un punto di partenza utile, in quanto patrimonio culturale posseduto già dagli scolari
dal quale muovere, in un processo dal noto all’ignoto, verso la conquista dell’italiano.
Il numero degli italofoni contava 2.200.000 negli anni ottanta, da Arrigo Castellani.
Questa dicotomia fra lingua e dialetto, mette a nudo due problemi di livello e natura differenti:
Le singole strategie educative; non si può non tener conto del dialetto specifico e delle sue
caratteristiche di solidarietà o alterata con la lingua comune. Il dialetto e la lingua comune è
diversamente gestibile a seconda dei cogestì geografici in cui il docente si trova ad operare. 
Quale italiano insegnare è un problema molto vivo anche oggi, se insegnare italiano standard,
formale, informale ecc… ma che paradossalmente non si poneva con urgenza attuale alla scuola
dell’800, sia per diversa maturazione alla sensibilità linguistica, sia per la diversa natura dei
problemi che caratterizzano le due epoche. L’unica opzione nell’800 era insegnamento
dell’italiano scritto, dal registro formale, di varietà diatonica modellata sui classici, magari
arcaizzante o francesizzante, a seconda delle direttrici politiche e dei contesti, ma segnata
comunque dal marchio della letteratura.
Il nuovo regno d’Italia era pronto a spostare una scuola unitaria valida nei programmi e negli
obiettivi. 13 novembre 1859 il regno di Sardegna aveva emanato un decreto, entrato in vigore poi
nel 1860, con il quale il sistema scolastico veniva riorganizzato negli ordini e gradi (la scuola
elementare era organizzata in due bienni, dei quali solo il primo era obbligatorio la scuola media
separata in due indirizzi, classico e tecnico-professionale) e delle materie di insegnamento. Dopo
l’unità di Italia questo decreto, noto come legge Casati , venne esteso a tutta la nazione, ma
nonostante gli ottimi principi come l’obbligatorietà alla frequenza scolastica per i primi due anni
di elementari fu spesso elusa a causa della pratica del lavoro minorile nel settore agricolo. Il 75%
degli uomini era analfabeta, quello delle donne raggiungeva l’84% e ancora più impressionanti al
sud.
La legge Casati viene sostituito nel 1877 dalla Legge Coppino con l’obbligo di frequenza scolastica
che viene esteso alle tre prime classi della scuola elementare unificata che ora era quinquennale.
Vengono inserite sanzioni nei confronti di chi non portava i figli a scuola, che fu un ottimo motivo
per rispettare l’obbligo. Il secolo successivo iniziava a dare già i suoi frutti: analfabetismo
notevolmente diminuito (1911 segnalata il 40% di analfabeti all’interno del territorio italiano, ma
anche stavolta sono comunque molto diversificati da regione in regione).
C’era necessità per i maestri di parlare dialetto, altrimenti c’era incomprensione totale da parte
degli alunni, difficoltà di apprendimento dell’ortografia, al pregiudizio che la lingua usata in
toscana sia naturalmente pura. Il nodo problematico rimane comunque quello della gestione
lingua/dialetto, che il glottologo Graziadio Isaia Ascoli proponeva di affrontare sulla base di un
confronto continuo e vivo fra il dialetto e la lingua, che era comunque molto di difficile
attuazione, e che richiedeva un’attenzione singolare.
Lezione 6
Il primo ottocento segna per molti aspetti una vistosa frattura con l’ideologia 700esca.
All’illuminismo cosmopolitico succede, con la riscoperta delle radici nazionali promossa dal
romanticismo, la valorizzazione del patrimonio linguistico tradizionale. Queste sono le parole di
Luca Serianni, in storia dell’italiano nell’ottocento.
Il purismo
Assume la lingua pura alle origini della sua evoluzione che si ispira perciò ad una visione
arcaizzante, in realtà si classificano posizioni, non sempre in tutto convergenti, di singole
personalità, la più nota delle quali è quella del veronese Antonio Cesari. La posizione dell’abate
può essere illustrata nei suoi caratteri oltranzisti dalla vicenda che lo indusse a pubblicare fra il
1806 e il 1811, la cosiddetta Crusca Veronese.
L’accrescimento fatto da lui de vocabolario dell’accademia della crusca, si trattava di arricchire la
lingua restituendole “la natural dote, e le native ricchezze, che il tempo o la negligenza degli
uomini le aveva fatto perdere”. Nella prefazione polemizzava contro la Firenze di oggi, tralignata
linguisticamente da quella d’un tempo, e rivendica a se stesso, il diritto di fare ciò che i Fiorentini
più non sapevano o non volevano. Come si evince da queste parole, Cesari è favorevole
all’adozione e all’insegnamento della lingua del 300, da quale però devono essere estromesse sia
le novità del fiorentino dei secoli successivi, sia i forestierismi, in nome della tutela intransigente
della purezza linguistica del secolo aureo. A sostenere questa posizione è la fiducia ingenua nella
bellezza del fiorentino trecentesco, percepita così senza nessuna dimostrazione. Siccome la
preminenza del toscano dipende da una bellezza di natura, per lui l’esempio degli scrittori
fiorentini non ha maggiore autorevolezza della lingua dei mercanti, perché in quel secolo in
toscana tutti parlavano e scrivevano bene.
Il classicismo
Il napoletano Basilio Puoti, fu il più significativo esponente del purismo meridionale. Va ricordato
per la scuola privata da lui creata a Napoli e che ebbe come frequentatori illustri anche Francesco
de Sanctis.
Anche lui contrario ai forestierismi e ai neologismi, fautore dell’insegnamento linguistico
improntato alla più rigida normatività, fiducioso anche lui dell’innata bellezza del fiorentino, ma a
differenza di Cesari, il quale non stabiliva nessun criterio di selezione all’interno del repertorio
trecentesco, il Puoti proponeva ai giovani studenti di imitare la naturalezza degli antichi, ma
evitarne anche i registri bassi e comici, convinto che la lingua e lo stile potessero imparare a
raffinare al paragone con quelli del 500 considerato il più glorioso e splendido secolo dell’italiana
letteratura. Nel suo classicismo si intravedono anche elementi che caratterizzano il classicismo
linguistico dell’ottocento, la fiducia nell’affinamento stilistico e nella possibilità di arricchirla e
perfezionarla attraverso l’esercizio letterario. Massimo esponente del classicismo linguistico
primo-ottocentesco è Vincenzo Monti che a questioni di lingua si dedicò solo in età avanzata e a
stretta collaborazione del genero Giulio Perticari. A loro si deve la scrittura Proposta di alcune
giunte e correzioni al Vocabolario della Crusca in cui alla posizione purista del vocabolario della
crusca, è contrapposta una posizione letterariamente atteggiata, che rifiuta gli arcaismi o perché
anacronistici per l’utilizzo letterario contemporaneo, o perché non di rado provenienti da scritture
popolaregguanti e dunque da rifiutare stilisticamente. Tale posizione, che accoglie per intero lo
sviluppo della letteratura successiva al Trecento, consente a Monti di valorizzare anche l’apporto
non fiorentino e non toscano alla lingua italiana, la cui matrice fiorentina è messa in discussione
da Perticari su basi filologiche e di teoria linguistica. Su analoghe posizioni è anche Pietro
Giordani , amico di Giacomo Leopardi a cui lo lega l’idea che la lingua trecentesca vada poi
innervata su uno stile che imiti la classicità greca.
Il neotoscanismo
Richiamo alla lingua come espressione di una cultura alta e selezionata, utilizzabile in primo luogo
in sede letteraria e che dunque rigetta il parlato, il comico, il demotico, il plebeo. Il latino funziona
come modello linguistico, il cui repertorio è risorsa continuamente disponibile per elevare
l’italiano letterario. Il neotoscanesimo viene rappresentato da Niccolò Tommaseo, a cui si affianca
anche Giovan Battista Niccolini. Originario di Sebenico, in Dalmazia, contraddistinto da un fiero
sentimento italiano che non gli impedì di scrivere anche in croato e di dedicare gran parte delle
sue energie alla raccolta dei Canti popolari toscani corsi e illidici e greci viaggiatore per piacere e
per necessità, è una figura complessa e poliedrica in primo luogo come scrittore e letterato. Ad
oggi sono ancora capisaldi della lessicografia italiana ottocentesca il suo dizionario dei sinonimi e
il dizionario della lingua italiana. Nella prefazione del primo citato e di Nuova proposta e
correzioni giunte al dizionario italiano, del 1841 è espressa la posizione linguistica di Tommaseo.
La norma linguistica risiede secondo lui nell’uso del toscano vivo. Si auspica anche per i giovani
italiani che imparano la lingua, il diretto contatto con toscani nativi, non necessariamente colti.
Sono tratti che ritroviamo anche nell’atteggiamento linguistico di Manzoni. Tuttavia il toscanismo
del Tommaseo, a differenza della coerente costruzione manzoniana, è tutt’altro che compatto. È
forte il legame con la tradizione letteraria, ma anche perché l’accoglimento del modello toscano è
subordinato a motivazioni di gusto personale.
Lezione 7
Ci sono analogie con Manzoni della sua lunga stesura dei Promessi Sposi. Fin dalla prima stesura
del romanzo, fra il 1821 e il 1823, Manzoni aveva preso atto del problema linguistico posto dal
nuovo genere del romanzo storico, importato dall’Inghilterra e destinato a un pubblico ampio e
nazionale. La problematica principale è quello dell’ibridismo (composto indigesto fra lombarde,
toscane e francesi, e anche un po’ latine). Cercherà di risolvere questo problema, ma gli prenderà
veramente tanto tempo, trovando soluzione in una soluzione di stampo letterario e libresco, di
necessità filo-toscana e arcaizzante, che lo vede per mesi a sfogliare e leggere la Crusca veronese
di Cesari e il Vocabolario milanese-italiano di Cherubini. Cerca e trova soluzioni autorizzate dalla
lessicografia settecentesca, di ascendenza cruscante o purista o dagli autori 500esci per lo più
comici o popolari. Durante il periodo di revisione, fino al 1825 mentre sta ancora attendendo a
completare la revisione di alcuni capitoli in vista della prima edizione, ha cominciato a
correggerne le bozze, egli progetta un viaggio a Firenze che proprio gli impegni della stampa, che
richiedono la sua presenza a Milano, lo obbligano a rinviare. Il contatto con il fiorentino parlato
produce un forte impatto nel Manzoni: il suo modello, da toscano letterario divenne il fiorentino
colloquiale e medio, vivo ma non plebeo ascoltato e apprezzato dalla bocca stessa degli amici e
dei conoscenti incontrati durante il soggiorno fiorentino, che continuarono anche a distanza a
dare consigli e sciogliere dubbi sugli usi e le abitudini del fiorentino parlato dalle classi colte del
tempo. Da questo ne sarebbe uscita la seconda e definitiva edizione dei promessi sposi che a
differenza della prima fu contrastata e censurata proprio a causa della coraggiosa e radicale scelta
linguistica adottata espressione coraggiosa di una democrazia linguistica che va oltre le posizioni
linguistiche. Pubblicata nel 1840 l’edizione definitiva dei promessi sposi, il pensiero linguistico di
Manzoni esce allo scoperto. Nel 1846 il naturalista piemontese Giacinto Carena aveva riunito nel
primo volume del suo vocabolario domestico il lessico di uso quotidiano e legato ai lavori, che egli
aveva raccolto in toscana e in particolare a Firenze. Nel 1847 Manzoni saluta l’uscita di questo
vocabolario con la lettera a Giacinto Carena in cui espone in forma concisa alcuni dei capisaldi del
suo credo linguistico.
Il fiorentino è la lingua italiana da questo il rimprovero a Carena di non aver esclusivamente
raccolto il suo Vocabolario a Firenze ma anche in altre città toscane.
La sinonimia, la pluralità di termini per indicare una medesima cosa, è una disgrazia e non una
ricchezza della lingua da qui il rimprovero di aver offerto un mezzo per sostituire l’unità del
fiorentino alla deplorabile nostra molteplicità (nella frammentazione dialettale italiana).
Questi capisaldi sarebbero espressi poi più avanti nel tempo nel 1868, quando Manzoni ormai è
un nume della letteratura e della cultura italiana, e annovera numerosi seguaci anche in fatto di
lingua.
In pochi mesi Manzoni completò la sua relazione, intitolata dall’unità cella lingua e dei mezzi per
diffonderla, in cui ribadiva i due capisaldi già esposti nella lettera. La relazione andrò in radicale
contrasto con la relazione stesa dalla sottocommissione fiorentina e il Manzoni si dimise. Ma
l’ipotesi del vocabolario vide in effetti la luce del Nòvo Vocabolario he da ministro Broglio e dal
suo coadiutore prende il nome di Giorgini-Broglio. A parte il sospetto di incostituzionalità
avanzata da Serianni riguardo i privilegi che per diritto di nascita avrebbero dovuto essere
assegnati alle maestrine toscane da far circolare per tutta Italia allo scopo di diffondere la novella
del fiorentino parlato, la proposta manzoniana non poteva che suscitare reazioni  di varia natura:
fu chi ci sostenne inutile tanto dispendio di risorse dato che un italiano scritto comunque c’era e
c’era da secoli o chi con posizioni analoghe a quelle di Lambruschini rivendicava la possibilità di
congiungere la superiorità del toscano letterario con la purezza arcaica conservata sulle bocche
dei parlanti meno colti. Di certo la proposta manzoniana non poteva non apparire ingenua a chi
per costume studio faceva il linguista di professione, come GRAZIADIO ISAIA ASCOLI.
Avvezzo a trattare la lingua secondo un metodo scientifico reso forte dalla comparatistica classica
di cui erano maestri i tedeschi, abituato nel parlare di lingua e maneggiare rigorosi strumenti
metodologici approntati proprio i quelli anni, sensibilissimo alla linguistica sul campo, egli poteva
guardare lingua e i modi con cui diffondere o creare la lingua nazionale solamente solo con occhi
da scienziato, a differenza del letterato Manzoni. Nel 1873 Ascoli fondava l’archivio glottologia
italiano, una rivista specialistica di linguistica il cui primo numero era introdotto da un proemio, il
cui fondatore prendeva posizione sulla questione dell’italiano e della proposta di Manzoni. Il
punto di partenza era l’innovazione di novo per nuovo che campeggiava come frontespizio
dell’appunto Nòvo vocabolario di Giorgini-Broglio. Fin da subito, Ascoli imposta il discorso su un
linguaggio tecnico, che si mostra nella distinzione fra pronuncia e linguaggio, nel richiamo alla
incoerenza da evitare qualora l’innovazione fonetica non fosse estesa a tutto il repertorio italiano.
Prima quindi di suggerire rimedi, occorre riflettere e aver chiare le cause dello stato presente
della lingua italiana, in Italia non c’è stato come in Francia un centro culturale e politico. Firenze
non lo ha rappresentato. In Italia non c’è stato un evento tale da determinare l’unità linguistica
qual è stata per la Germania la riforma protestante e la conseguente diffusione della bibbia
tradotta e letta per ogni casa, senza che qui ci sia stata una sede originaria, una localizzazione
geografica di quella che è diventata la lingua tedesca. Altrove c’è stata quindi una rivoluzione
politica e culturale che ha portato quindi anche a un’evoluzione linguistica. La ragione quindi
della divergenza fra la situazione linguistica italiana da una parte e quella francese e tedesca
dall’altra consiste nel fatto che agli uomini grandi non ha fatto da contorno una società civile,
ampia e articolata, che consentisse la diffusione della cultura. Tuttavia non basta riconoscere che
coi promessi sposi Manzoni è riuscito a eliminare la retorica delle lettere italiane, perché una
soluzione letteraria alla questione linguistica non serve a niente. Bisogna che anche in Italia si
formi quella società civile che solo la scuola e l’istruzione può creare. Non quindi fatta l’Italia
restano a fare gli italiani, ma esattamente il contrario.
Lezione 8
Le idee illuministiche determinarono il diffondersi di una nuova idea di letteratura, innervata da
sentimenti civili e di istanze civilizzatrici, che comportarono anche la consapevolezza di un ruolo
nuovo e attivo dell’intellettuale nella società. Dalla seconda metà del 700 cominciava a delinearsi
un’esigenza di cultura diversa: nuovo protagonisti erano politici, uomini d’affari, professionisti
ecc…si ha una caduta di interesse verso l’erudizione, la teologia, il diritto canonico e romano ed
emergono oltre alle discipline scientifiche ben individuate, anche l’economia, agraria e politica.
Durante gli anni del periodo napoleonico in italia si vede la caduta dell’antica tipologia della
“gazzetta”, a favore della nuova stampa periodica di marcata impronta politica e d’opinione.
Questa fiammata rivoluzionaria si spense con il ritorno alla situazione precedente di
frammentazione politica, ma che lasciava comunque margini di manovra a seconda che ci si
trovasse in toscana e a Milano da un lato, o in am iti provinciali e meno sensibili al mutamento
intervenuto dall’altro. Fu proprio la morte della gazzetta a consentire, quando ce ne fossero state
le condizioni, la nascita del quotidiano politico d’opinione. Il primo periodico di cultura ideato
dall’austria e affidato a Ugo Foscolo: “biblioteca italiana” fondato nel 1816 e diretta da giuseppe
acerbi, aperta da un proemio e fu firmato, oltre che dal direttore, da uomini come Pietro Giordani
e Vincenzo Monti e che accolse gli interventi di Pietro Borsieri e Silvio Pellico. Nel 1821 viene
fondata da Giovan Pietro Vieusseux “L’antologia”.
Si assiste all’incremento delle testate e alla diversificazione dell’utenza: dal giornale per la classe
colta al giornale politico, al giornale per signore, all’almanacco rivolto a singoli gruppi di
lavoratori. Foscolo ha infatti descritto il modello europeo come una grande assemblea nella quale
molti espongono le loro opinioni e tutti le ascoltano con avidità… ma nello stesso momento ha
anche costretto a constatare la grande disparità fra il numero dei lettori europei e quello degli
italiani, determinata dai livelli di analfabetismo a cui abbiamo accennato e d’altro canto
rendevano sempre più urgente la diffusione, tramite la stampa periodica e i manuali, di nozioni e
di notizie. Accadeva spesso la penetrazione di notizie presso strati di pubblico che difficilmente
avrebbero potuto gestire in maniera autonoma la lettura.
Incremento anche delle iniziative imprenditoriali e la loro dispersione geografica che spesso
frenava la diffusione su un’area più ampia della singola città e degli immediati dintorni.
Cominciano a comparire testate che ambiscono a una diffusione nazionale e la conquistano con
un sistema meno artigianale di distribuzione. Dopo l’unificazione statale il numero delle copie e il
numero dei lettori saranno ulteriormente incrementati, per effetto della sempre più diffusa
scolarizzazione, dell’ampliamento del diritto di voto, dell’industrializzazione dei sistemi
tipografici. È un cambiamento che avviene in duplice direzione: tanto il giornalismo rispondendo
ad una domanda crescente finisce per aumentare esso stesso la domanda di notizie e dunque
amplia il pubblico dei possibili lettori, inoltre l’evidente diversificazione del pubblico che il
giornale intende raggiungere determina quindi che la scrittura debba proporsi un registro
linguistico capace d’essere inteso da utenti di acculturazione molto varia. “Stile giornalistico” che
rinuncia a termini peregrini e ricorra a sintassi prevalentemente coordinativa, e che si rivolga a
lettore non specializzato, assumendosi quindi il compito di una seria divulgazione. Questo stile è
determinato dalla necessità di divulgazione e di particolari contenuti e cognizioni. Eppure questa
tendenza generale di una scrittura meno paludata e meno letterariamente atteggiata sui classici
non riguarda solamente l’ambito giornalistico. Nasce la convinzione che anche l’educazione alla
letteratura è il luogo per la creazione del sentire comune, nazionale e popolare. Fenomeno dei
romanzi d’appendice romanzi che uscivano a puntate in appendice al giornale, spesso nel numero
domenicale, che creavano un fenomeno di fidelizzazione del lettore. Si tratta di letteratura di
massa, eppure una produzione che coinvolse un’ampia fascia del pubblico e che comprendeva,
come fattore di novità assoluta, il pubblico femminile. 
Lezione 9
Verso la fine del 700 il genere del romanzo ha iniziato a farsi strada in maniera significativa perché
c’era il desiderio di creare una letteratura di carattere popolare, che comprendesse un pubblico
ampio e diversificato e non una élite di eruditi o di uomini esperti e specializzati. dall’Europa
questa nuova forma era penetrata anche in italia fin dalla fine del 700, ma con caratteri solo in
parte popolari e in forme meno speciali. Il romanzo 600esco aveva assunto le caratteristiche di un
prodotto di massa e occupava i margini della letteratura: agli occhi dei critici e dei letterati era un
genere screditato e ibrido da collocare nella “paraletteratura”. Verso la fine del 700 però anche in
italia si sono fatti tentativi per nobilitare il genere della narrazione lunga di tipo romanzesco. Fra il
1782 e il 1792 Alessandro Verri, aveva dato alle stampe Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene
e poi anche Notti romane al sepolcro dei Scipioni che costituiscono l’atto di rifondazione
nobilitante del genere in italia, operando la rivalutazione del genere tramite il contenuto e i
personaggi, in una visione neoclassica che progressivamente investe la lingua, sempre più
debitrice della tradizione dei classici italiani e della prosa di registro elevato.
Fin dal 1796 Ugo Foscolo aveva progettato Le Ultime lettere i Jacopo Ortis che verrà stampata
solo più tardi nel 1816 a Zurigo e un anno dopo a Londra, un romanzo epistolare che coniugava le
vicende private di carattere sentimentale del protagonista alle più ampie vicende di un’Italia
divisa fra aspirazioni libertarie e frustrazioni indotte dalla restaurazione. Nel 1806 Vincenzo Cuoco
pubblica il Platone in italia un romanzo filosofico nel quale il pensatore napoletano, tramite un
dialogo fittizio fra Platone e l’ateniese Cleobolo, mirava ad affermare la superiorità della cultura
italiana rispetto alla greca, varolorizzando le antiche civiltà pre-romane poste in desolante
contrasto con la decadenza presente. Tutti loro, puntando su forma e sui contenuti, sull’attualità e
sull’antico, giocano la carta dei modelli vecchi o nuovi e tentavano di trovare spazio per il
romanzo nella cultura italiana, restia ad accogliere generei che non fossero accreditati dalla
tradizione autoctona. Tuttavia, a parte il romanzo di Foscolo, non sono quelli di cuoco e Verri che
possono incidere e determinare la sconfitta delle posizioni classiciste di gran parte degli italiani
letterati.
Nel 1827 nascita effettiva del romanzo italiano moderno in questo anno c’è prima edizione di
Promessi Sposi ma escono anche romanzi meno qualificati ai nostri occhi ma al loro tempo letti
avidamente e destinati a numerose ristampe:
Il Castello di Trezzo, di Giovan Battista Bazzoni, uscito prima nel 1826 a puntate nel giornale il
raccoglitore.
La sibila Odaleta, di Carlo Varese che seguirono nel decennio successivo I prigionerei di
Pizzighettone, Folchetto Malaspina, Preziosa di Sanluri, Torriani e Visconti.
La battaglia di Benevento, storia del XIII secolo, di Francesco Domenico Guerrazzi, il quale dirigeva
un giornale che viene poi successivamente chiuso per censura.
Cabrino Fondulo, frammento della storia lombarda sul finire del secolo XIV di Vincenzo Lancetti, e
anche Alessio ossia gli ultimi giorni di Psara, di Angelica Palli Bartolomei.
Un anno quindi all’insegna del romanzo storico. Questi primi titoli, usciti in concomitanza della
prima edizione del capolavoro manzioniano, rispondeva al successo riscosso in quegli anni dai
romanzi di Walter Scott, ma con un surplus di motivazioni interne.
I primi autori italiani di romanzi storici aspirano ad una letteratura utile ed educatrice, la tematica
storica che ne contraddistingue le opere non esaurisce in senso banalmente didattico l’impegno
educatore. Nel romanzo il vero, l’ambientazione storica, accoglie e si mescola al verosimile, alla
storia dei personaggi e alle loro vicende, affetti che inserendosi nel vero lascia spazio all’umana
fantasia. Non si parla più solo di romanzo storico, verso la metà del secolo, ma di romanzo in
generale, che viene ora percepito come un prodotto letterario, polimorfo e poliedrico, polifonico
e pluridiscorsivo, dialogico e plurilingue.
Lezione 11
La massima parte della vita e dell’esperienza letteraria di Verga si può sintetizzarla nel quadro del
xix SECOLO, anche se a grosse linee.
Cosa significa nel 1860 imboccare la carriera letteraria con il romanzo storico? In che ambito si
poneva l’autore ? I giovani di solito procedono così intruppandosi nella retroguardia o
percorrendo le file, all’avanguardia. Imitando modelli ormai consolidati, procedendo perciò nel
solco della tradizione o rifiutando la tradizione.
Giovanni Verga nasce nel 1840, anno in cui Alessandro manzoni dava alle stampe la seconda
edizione dei Promessi sposi, edizione con la quale aderiva con determinazione e coraggio al
fiorentino parlato a Firenze dalle classi colte. Questo aspetto è importante perché per la lingua
della nazione unita che di lì a poco avrebbe ricevuto riconoscimento ufficiale. La seconda
edizione determinò più in generale, l’irreversibile avvicinamento fra italiano scritto e italiano
parlato fra i ceti medio-bassi, alla diffusione della lingua a sfavore del dialetto.
Giovanni Verga : formazione 
Nato a Vizzini, o a Catania alla fine di agosto o agli inizi di settembre del 1840, apparteneva ad
una famiglia di piccoli proprietari terrieri con qualche grado di nobiltà per parte di padre,
Giovanni Battista Catalano, mentre la madre, Caterina di Mauro Barbagallo, proveniva dal ceto
borghese catanese. L’ambiente familiare, specialmente nelle persone dello zio Salvatore Catalano,
e Salvatore di mauro, e anche nella figura della madre non dovette essere particolarmente
depresso dal punto di vista culturale e comunque attento alle esigenze di acculturazione dei 3 figli
maschi, cosa che sicuramente era già diversa per quanto riguardava le figlie. In famiglia c’è una
piccola storia di letterati, costituita a FEDERICO DE ROBERTO, e dallo zio paterno, che fu a quanto
pare traduttore e autore di romanzi, oltre appassionato di numismatica. La madre era per i suoi
tempi un’intellettuale. Per quanto riguarda la primissima educazione di Verga, è proprio l’amico
de Roberto a informarci con sicurezza in merito. Grazie a una lettera scritta da un verga 11enne
allo zio paterno, ci è permesso vedere la qualità linguistica del tipo di Italiano parlate dal giovane.
Lettera risale al 1851. Lo zio si era interessato qualche giorno prima dei progressi negli studi di
Mario e Giovanni. Questa lettera o scambio epistolare è tratta da Lettere alla famiglia (1851-
1880) . Dal tono che viene usato nella lettera, si adegua al tono deferente che spetta al ruolo del
nipote e del figlio ben educato, affermando di condividere le attese che la famiglia ripone in lui e
nel fratello. Dopo una serie di formule stereotipate che ci informano delle possibilità che lo zio
visiti presto a Catania la famiglia Verga, si sofferma a illustrare lo stato di avanzamento dei suoi
studi. Afferma di aver avviato gli studi secondari in particolare lo studio del patio, con letture
come historia romaine depuis la fondation de Rome jusq’à la bataille d’Actium pubblicata in
cinque volumi tra il 1738 e il 1741 da Rollin, che fino al 1761 era stato tradotto in italiano
godendo di notevole fortuna e di numerose ristampe. Un testo quindi manualistico vecchio di un
secolo, che lo zio di Mauro gli ha dato in prestito. Della formulario delle buone maniere che viene
adottata per sottolineare la deferenza verso lo zio letterato, fanno parte le maiuscole per le
formule allocutore di cortesia, l’appellativo VOSTRA ECCELLENZA e soprattutto l’utilizzo del
pluralis modestiae costante nei primi due capoversi e nell’ultimo, al quale non si adeguano del
tutto le frasi di commiato usate. Dal punto di vista fono-morfologico tutto viene adeguato alla
lingua e non traspare niente della provenienza siciliana del ragazzo, se non per due caratteristiche
che ad un primo sguardo potrebbero sembrare scorsi di penna : “LE baciamo le mani come pure
alle sig.r zie alle quale non scrivo per farmi le cosi della scuola”. Si tratta di ipercorrettismo :
coerente con le abitudini articolatxorie del dialettologo le cosi in luogo di le cose; nel timore di
cadere nell’errore di rendere con -i quello che doveva uscire in -e, il giovane eccede nella
correzione preventiva e restituisce come -e quello che invece doveva essere in -i. Colpisce molto
l’impaccio, le aberrazioni sintattiche che si rintracciano nella lettera. Verga usa in maniera
corretta il passato prossimo toscano che il siciliano non conosce, ma al momento di dover
individuare un tempo che indichi posteriorità rispetto a quel passato prossimo, ricorre al
trapassato remoto che sembra illogico e sgrammaticale.
Lezione 12
Poco importano gli errori che sono prevedibili data anche la giovane età di Verga nel 1851, più
importanti sono i modelli che vengono educati a verga. 
I dati presi dalla lettera sono contraddittori: abbiamo formule colte, letterarie confermate a
alcune formule sintattiche o alcuni lessemi arcaici o antiquati, o addirittura poetici, abbiamo però
anche verificato la presenza del toscanismo vivo (pigliarsi) e d’altro lato un calco semantico
francesizzante come la parola “favorire”. Si tratta quindi di una lingua italiana fatta di molte anime
e di modelli differenti e variegati, composita per necessità piuttosto che eclettica per scelta
consapevole. Eclettismo e contaminazione che verga, assume dal contesto in cui sta apprendendo
l’italiano. L’educazione linguistica nella Sicilia di quel periodo si articolava fra fiorentinismo
Manzonista e toscanismo purista. Il modello di lingua viva proposto da Manzoni si contemperava
con il toscano 500esco di commedie ed epistolari, o addirittura quello 300esco, con risultati
stridenti nella pratica linguistica. Antonino Abate, insegnante di Verga. 
Al momento di diventare suo maestro, aveva alle spalle un passato eroico: repubblicano e
carbonaro, aveva preso parte diretta ai moti siciliani, durante i quali era rimasto ferito da una
pallottola. Fuggito a Palermo, poi rientrato nella città di origine, nel 1850 aveva cominciato a
pubblicare a dispense il romanzo storico il progresso e la morte, subito bloccato dalla censura che
lo esautorò dall’insegnamento pubblico che aveva da poco ottenuto in uno dei collegi cittadini.
Abate esercitava il suo insegnamento privato travasando i propri sentimenti politici e patriottici
nelle scelte letterarie che comprendevano letture quotidiane agli scolari dell’ortis foscoliano, dei
versi di Byron e dei romanzi di Dumas. Negli anni successivi, lo videro intento nella scrittura del
suo poema la rigenerazione della Grecia a cui attese per un quindicennio e della sua
autobiografia racconto di un esule pubblicato poi nel 1860. In questo anno , Garibaldi liberava
Catania dall’esercito borbonico ma abate si dissociò dall’attacco garibaldino ritenuto un inutile
spargimento di sangue, preludio all’ascesa di una nuova classe dirigente moderata. Dopo qualche
anno diventa prima fautore della sinistra garibaldina, poi filo-governativo, continuando a scrivere
sui giornali da lui diretti, a produrre, poemi e tragedie. Si candida invano alle elezioni politiche nel
1876, diventato acrimonioso ancora più battagliero almeno a parole, continuò a scrivere poemi e
poemetti fino alla morte, prendendo spunto da fatti di cronaca e vicende locali, senza mai
abbandonare la sua vena retorica. L’eclettismo di Verga quindi sembra essere coerente con
l’eclettismo, se non l’indifferenza e sordità ai problemi della lingua, del maestro. l’insegnamento
passava certamente tramite l’emulazione , piuttosto che attraverso regole e precetti. Delle
limitatezze della sua scuola non poteva accorgersi l’undicenne Verga ma è anche improbabile che
non ne abbia avuto il sentore o la certezza man mano che proseguiva gli studi. Poi i rapporti con
l’insegnante si incrinarono all’arrivo di Garibaldi a catania: in quell’occasione si trovarono in
posizioni opposte. Posizione filo-sabauda di Verga, favorevole all’annessione della Sicilia al
Piemonte , si contrappose alla fede repubblicana e anti-unitaria del maestro. A questo si
accompagna anche la consapevolezza linguistica dell’italiano, ormai indispensabile all’interno
della nuova nazione, e ancora di  più alla conquista di una lingua che potesse soddisfare l’intima
vocazione di narratore, non poteva contentarsi della scuola di Abate. Quando questa
consapevolezza interna sia stata raggiunta e come abbia tentato di porvi rimedio non sappiamo
con assoluta certezza, ma possiamo farvi delle ipotesi a riguardo.
Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana di Tommaseo, uscito per la prima volta nel
1830 a Firenze e in edizione definitiva a Milano nel 1867. Verga ne possedeva un’edizione non
autorizzata dell’autore, di Napoli 1855.
Saggio intorno ai sinonimi della lingua italiana di giuseppe Grassi uscito nel 1821 e poi ristampato
molto spesso. Possiede l’edizione con Giunte ed osservazioni di Di Stefano, Napoli, 1856.
Istituzioni di retorica e belle lettere tratte dalle lezioni di Ugo Blair dal padre Francesco soave.
Anche questo testo scolastico fortunato di cui possedeva l’edizione di Napoli 1850. Manca nella
sua biblioteca invece il nuovo dizionario siciliano-italiano .
Le copie possedute dall’autore potevano essere acquistate ancora durante la frequentazione
della scuola di Abate, come del resto pare confermare la consultazione da parte di Verga del
dizionario di Tommaseo, fin dalla prima stesura dei primi romanzi.
Lezione 13
Fra il 23 dicembre 1856 e il 26 agosto 1857 il giovane Verga scriveva il primo romanzo chiamato
Amore e patria, la cui trama prendeva spunto dalla guerra di indipendenza americana. Poco dopo
la sua morte, nel 1928, molto del materiale conservato nella sua casa fu dato in prestito
temporaneo da Giovanni Verga Patriarca, nipote dello scrittore ai fratelli Lino e Vito Perroni, amici
del Bottai. Questi avevano ricevuto l’incarico di studiare quelle carte e di pubblicarle,
approntando un’edizione critica complessiva dell’opera verghino che non giunse mai al termine,
nonostante vari contatti editoriali prima con Bemporad e poi con Mondadori. Vari tentativi legali
da parte della famiglia nella speranza di convincere Vito a restituire quel materiale di cui non se
ne conosceva, e tuttora oggi non se ne conosce, la reale consistenza andarono a vuoto, perché la
consegna era avvenuta su basi amichevoli e in assenza di un completo ed esauriente censimento.
Nel 2012 la figlia di vito ha cercato di mettere sul mercato internazionale i manoscritti che fino a
quel momento erano a prendere la polvere in uno scantinato. La biblioteca regionale di catania,
contattata dalla cassa d’aste Christie’s, ha fatto in modo che la vendita fosse bloccata dallo stato
italiano e il patrimonio bibliografico confiscato fosse depositato presso il Fondo manoscritti
dell’Università di Pavia . Fra molti preziosi documenti è stato recuperato anche amore e patria.
Federico de Roberto ci fornisce una notevole quantità di informazioni relative alla scrittura del
romanzo che disposte in bella prosa e ampliate dispendono comunque direttamente da racconti
trasmessi oralmente da verga all’amico. De Roberto ricorda l’autore parlare proprio di questo
romanze di cui se ne ignorava anche l’esistenza. Egli racconta anche che completata la scrittura
del romanzo, l’avrebbe anche mostrata ad Abate.
La trama, esemplata su modelli tardo-romantici europei, è costellata di colpi di scena duelli alla
pistola e all’arma bianca, incendi e incontri notturni, muove da un momento di difficoltà degli
indipendentisti americani nella guerra contro l’esercito inglese. I personaggi impersonano in
maniera contrapposta il bene e il male: Eduardo, amante fedele, patriota e soldato coraggioso,
non cede alle insidie di una donna scaltra e corrotta Clary, che vorrebbe strapparlo all’amore per
Eugenia. Si affianca la figura del bandito Pierotto Wolff, fuorilegge per necessità ma non per
sentimenti e ideale, che salva Eduardo per due volte dalla ferocia dell’ufficiale inglese Butchilid e
che alla fine sarà egli stesso salvato da lui che lo ha condannato inconsapevolmente alla pena
capitale.
Lezione 14
Abbiamo ipoteticamente fatto risalire il desiderio del giovane verga di colmare le lacune di un
insegnamento provinciale e disattento, sopperendo con la consultazione di grammatiche e di
lessici al bisogno di impossessarsi di una lingua comune utile alla scrittura letteraria. Non
sappiamo perché Abate abbia distolto lo studente dalla pubblicazione della sua prima prova
letteraria, ma sabbiamo che a questo giudizio negativo evidentemente deve aver preso atto che
occorreva affiancare l’iniziativa personale all’insegnamento. Il romanzo è un prolisso
componimento di scuola, pieno di imparaticci, scritto in un italiano approssimativo e
caratteristico pe ala sua enfasi partitica e civile. (Petronio): è questione di cultura, che significa
essere in possesso degli strumenti moderni, della possibilità di individuare i problemi dell’oggi e
di analizzarli con i mezzi più adatti. Basterà che si affacci a Firenze, perché cambi registro (…)
letteratura di consumo o di intrattenimento più che letteratura alta, ma sono moderni, italiani,
europei non più catanesi. Questo giudizio fa riferimento a un’intera stagione letteraria del Verga
esordiente che viene definita “catanese”.
Nel 1858 si iscrive alla facoltà di legge dell’università di catania, obbedendo al desiderio del
padre, ma senza interesse, in quanto abbandonerà gli studi nel 1861, quando ormai anche
l’attività politica e giornalistica hanno contribuito a distoglierlo della carriera di avvocato. Durante
questi anni, nel pieno fervore della passione risorgimentale che lo vede schierato in favore
dell’unificazione politica sotto la monarchia sabauda, comincia così a scrivere I carbonari della
montagna.
Questo romanzo viene pubblicato a spese dell’autore nel 1861-1862 in 4 tomi. De Roberto
sostiene che sopravvivono 4 copie, troppe, a giudizio dell’autore, il quale si rammarica perchè
morto don Mario torrisi l’Abate, non fu con esso tanto severe quanto era stato col primo l’altro
suo maestro, e questo rammarico dell’autore a sul giudizio che negli anni venturi esprimerà sulla
propria produzione giovanile torneremo di nuovo.
I carbonari della montagna è anche in questo caso un romanzo storico, organizzato in 54 capitoli
preceduti da un brano introduttivo, privo di titolazione autonoma, ciascuno contraddistinto da un
titolo tematico.
I capitoli 29 e 42 hanno ulteriore didascalia sovraordinata memorie di un carbonaro, e
rappresentano un sottogeneri del romanzo storico, il romanzo-memoriale, corrispondente alla
trascrizione del libro di memorie del protagonista Corrado. Questi capitoli rappresentano un
cambio di strategia narrativa: la voce narrante, che dice io, è diversa dalla voce del narratore di
primo grado, che si nasconde dietro la prima persona plurale e che gestisce il resto del romanzo.
Il narratore di primo grado è onnisciente e etero-diegetico mentre chi parla in questi capitoli è un
narratore di secondo grado omodiegetico. 
Il narratore di primo grado gestisce una narrazione opaca, nella quale l’immanenza del narratore
è costantemente rimarcata da interventi o commenti rivolti al lettore.
Trama
La storia è ambientata in Calabria nel 1810 e racconta la lotta contro il governo di Murat,
condotta dai carbonari calabresi guidati dal protagonista Corrado, deluso dalla parabola
involutiva dell’esperienza napoleonica e disposto ad assecondare l’infido governo borbonico pur
di scrollarsi di dosso i francesi. Col romanzo si assiste quindi al primo passo di quel viaggio di
progressivo avvicinamento alla contemporaneità. Nel contesto storico si inserisce la vicenda del
protagonista del romanzo, che paga il proprio tributo alle letture romanzesche del giovane Verga.
Dietro lo spirito antifrancese del protagonista si cela il risentimento del giovane Verga, e dell’italia
filo-sabauda, suscitato dall’armistizio di Villafranca nel luglio 1859, con esso, per iniziativa
unilaterale di Napoleone III, la francia determinava la fine della guerra con l’austria senza tenere
conto della volontà del regno di Sardegna, che voleva annettersi l’intero Lombardo Veneto, ma
che ottenne solo la Lombardia.durante gli altri due anni di scrittura del romanzo molti altri
avvenimenti nella storia politica italiana contemporanea erano venuti a mutare il quadro di
riferimento: le annessioni del marzo 1860 di toscana e Romagna, l’impresa dei mille, la sconfitta
dei Borboni e i plebisciti dell’ottobre infine l’annessione plebiscitaria delle marche e dell’Umbria
nel novembre dello stesso anno. La scrittura de romanzo era stata interrotta proprio dagli eventi
del 1860, dall’impresa garibaldina in Sicilia e nel sud dell’Italia. La definitiva cacciata dei Borboni
l’aveva indotto a riprendere la narrazione e terminarla. Le insurrezioni popolari che assunsero le
caratteristiche di moti di brigantaggio dopo l’unificazione nelle ex provìni del regno delle due
Sicilia e Che nella lettura che ne da il Verga in questa occasione, chiarirono quanto lontani negli
ideali e nei comportamenti fossero gli antichi briganti del 1810 dai loro omologhi moderni che
mettendo in discussione e dunque cercando di frenare il processo inarrestabile verso
l’unificazione, si alleavano con i borboni in Nome di un’eteronomia antiitaliana. (Gli stranieri
erano i piemontesi). Questo viene reso noto dall’autore stesso nel breve capitolo introduttivo, in
cui il confronto fra i fatti del 1810 e quelli del 1859 è reso esplicito. La testimonianza dell’autore
circa le due fasi di scrittura è considerata anche illuminante dal punto di vista interpretativo da
Nicolò Mineo che ha riconosciuto come il primo dei due movimenti polemici di scrittura del
romanzo (che esprime odio antifrancese per effetto della delusione di Villafranca, occupa infatti i
capitoli dal 1 al 48, che non esprimono in alcun modo il tradimento borbonico e la depredatori
condanna da parte dell’autore, che invece si svolge verso i seguenti capitoli). Si può presumere
che l’intento iniziale fosse non la linea di collisione nei confronti della monarchia napoletana ma
anzi il suo coinvolgimento nella prospettiva nazionale e liberale. Ipotesi poi scartata con la realtà
dei fatti, per il comportamento di Francesco 2 al momento dello sbarco di Garibaldi in Sicilia che
avrebbe indotto il verga a introdurre la polemica anti-borbonica nei capitoli finali.
Lezione 15
Verga inviò il romanzo anche a Domenico Guerazzi e Alexandre Dumas, e sebbene il Verga maturo
preferiva dimenticarlo e farlo dimenticare, fu recensito sulla stampa nazionale. De Roberto, nel
saggio dedicato al nostro romanzo, riassume il contenuto delle recensioni sulla Nuova Europa del
23 maggio 1862, su Il lombardo agosto 1862 e sulla Rivista Italiana de, 1 settembre 1862. 
Per quanto riguarda la lingua usata : “lingua buona ma non troppo pura”.
Brano da leggere preso da I Carbonari.
Fonetica si inserisce completamente nelle caratteristiche del 800
Riga 47: sagrifizii sonorizzazione del nesso cr- esito culto dell’antico nesso latino -ti- è forma ben
attestata nella lingua ottocentesca. Ricerca mirata riguardo la sua diffusione a paragone con
allotropo sacrifizio, sacrifizi(i) dimostra però una ben precisa connotazione in senso culto. Le
forme prive di sonorizzazione sono molto più consuete e diffuse delle corrispondenti con
sonorizzazione. (443 contro i 47). I dati dimostrano anche che il plurale in -ii è molto più raro
rispetto alla forma grafica che assorbe in un unico suono vocalico il dittongo etimologico. Se
estendiamo la ricerca anche al resto del romanzo , avremmo conferma di questo elemento colto
della lingua verghiana ricavato dalla consuetudine scolastica sui classici della tradizione letteraria.
Per quanto riguarda il vocalismo tonico si segnalano forme antiquate come intieramente (il
dittongo poteva essere mantenuto solo per fedeltà dell’antica separatezza fra i due componenti
dell’avverbio, ma che a questa data contraddiceva la regola del dittongo mobile) e capriuolo (il
dittongo dopo elemento palatale era scomparso dall’uso fiorentino già dall’epoca antica).
Riguardo a questo si ricorda che, nella scelta di Manzoni a favore del fiorentino parlato dalle
classi colte che aveva caratterizzato la revisione linguistica imposta nel 1840 ai promessi sposi, era
stato coinvolto il dittongamento toscano, sono solo perché in forma misurata e con grande
attenzione agli aspetti disastratici della lingua di Firenze, manzoni aveva aderito al
monottongamento che nei secoli recenti aveva colpito l’antico dittongo bono, novo rispetto a
buono e nuovo, ma anche perché il monottongo era stato accolto appunto dopo il suo palatale, in
muricciolo, spagnolo rispetto a forme come muricciuolo e spagnuolo.
Per quanto riguarda il consonantismo si segnalano nel romanzo la sonorizzazione e conseguente
spirantizzazione di coverte, coverto, covrirsi; l’esito di natura originariamente francesizzante in
cangiamenti o la forma 300esca e primo 400esca di mugghiare (poi sostituito alla normale -gl- in
mugliare, reattiva ad innovazioni avvenute nel fiorentino 400esco).
Riga 52: dippiù estensione impropria del raddoppiamento fonosintattico, che si inserisce in una
più diffusa incertezza di Verga e dell’italiano di Sicilia a gestire l’alternanza doppia/scempia del
toscano (analogamente ma all’inverso, nel romanzo incorre per esempio sopranome.)
Riga 45: esacrazione non è un vocalismo atono, ma piuttosto una corretta interpretazione
etimologica con sacro.
Avea: questa forma era nata in Toscana come fenomeno di dissimilazione di pertinenza fonetica a
partire da contesti in cui si dava la sequenza v-v (come per esempio doveva, dovevano> dovea,
doveano). A partire da questi verbi, la desinenza ea-eano si era estesa come opzione fonetica
possibile a tutti i verbi della 2 coniugazione italiana e dunque anche ai verbi della 3.
Queste opzioni c’erano nell’ottocento, sebbene nell’orso dei secoli esse si sono specializzate l’una
(ea-eano, -ia-iano) nella poesia, l’altra nella prosa. La grande diffusione 800esca della opzione
poetica era stata incrementata poi dalla sistematica adozione del melodramma, sempre
disponibile ad arcaismi e forme culte e letterarie. Si deve ritenere che l’uso di avea non avesse più
carattere fonetico a metà ottocento ma piuttosto rilievo stilistico confermato da combattevano,
pervertivano, servivano e avevano nel testo. Avea (nella doppia valenza di 1 e 3 persona
singolare, come nel resto del romanzo anche poter, dovea) è ormai un fossile, lo stigma di una
lingua che si vuole alta e formale, modellata sulla tradizione letteraria, e dunque una forma che
guarda al passato. Si capisce quindi che la lingua del Verga non aderisce completamente alle
scelte manzoniane che si dimostra in bilico fra adesione alla rivoluzione della lingua proposta dai
promessi sposi, e fedeltà alla tradizione. Nel romanzo infatti la prima persona dell’imperfetto, è
quella imposta dall’etimologia e ratificata dalla tradizione.
L’antica forma etimologica della prima persona dell’imperfetto in -a si era affiancata a Firenze alla
fine del 300 la forma analogica in -o che aveva cercato di porre rimedio all’omofonia, non era
stata però accolta dalla letteratura e dalla lingua scritta italiana condizionata dalla prospettiva
linguistico-letteraria arcaizzante di matrice bembiana. Apprezzata nella sua capacità distintiva,
l’ingresso nella lingua comune dell’innovazione fiorentina fu determinato dalla sua adozione con
il fiorentino parlato colto nell’edizione Quaranta dei promessi sposi e di conseguenza dai seguaci
e imitatori.
Questo tuttavia fa contrasto con l’arcaismo di avea con le forme in -a della prima persona
dell’imperfetto, un tratto che connota la lingua verghiana in senso regionale. Nella morfologia
verbale coisce la frequenza delle forme cosiddette forti di prima persona plurale dei perfetti per
esempio 
“ebbimo” 17, 33
“Ripresimo” 20,21.
L’origine di queste forme è analogica, rifatte come sono sulla 1 persona singolare, così da creare
mediante la desinenza personale “-mo” caratteristica della 2 persona plurale, la coppia binaria io
ebbi, noi ebbimo, io ripresi, noi ripresimo.
La presenza di queste forme è stata segnalata nella lingua giovanile di Verga da Luigi Russo, nel
capitolo dedicato a La lingua di Verga, a proposito del primo dei romanzi analizzati da lui nel suo
saggio (Una Peccatrice). Infatti sostiene che fin dalle prime pagine incontriamo un “conobbimo” e
un “rimasimo”. Secondo questa testimonianza di Russo la forma, sull’autorità di episodiche
attestazioni 400esce o 500esce, era “prediletta dai padri”, aveva cioè avuto singolare fortuna
nell’italiano di Sicilia, ovvero il cosiddetto italiano regionale. Si annota comunque che questa
regolarità, che aveva presieduto alla nascita di queste forme, ne determinò la fortuna anche al di
fuori dei confini isolani. Si nota che queste forme di passato remoto sono molto diffuse in un
altro scrittore marginale, come Ippolito Nievo, infatti nelle sue confessioni di un italiano troviamo
forme come per esempio fecimo, giunsimo, scesimo, misimo, rimasimo anche se maggior fortuna
nella sua diffusione ebbe sicuramente la forma “ebbimo” .
Altre incertezze di flessione del passato remoto testimoniano, nel resto del romanzo, per esempio
costrusse, che sarebbe un evidente influsso dell’antonimo distrusse, svolse invece di svoltò,
create su pressione analogica esercitata dai perfetti stigmatici, che rispetto alla base tematica del
presente, presentano una base con -s-: riprendo, ripresi, distruggo, distrussi.
Lezione 16
Alternanza del presente e dell’imperfetto nella descrizione dei luoghi e dei personaggi, in un
gioco di prospettiva vario e coordinato, questo riguarda la tecnica narrativa di Verga. Si segnala
quindi un uso del presente storico. Questo deve essere rimodulato per il brano nel quale l’aspetto
narrativo, ovvero il riferimento cronologico al tempo della narrazione e i fatti che sono
contemporanei all’autore nel 1860, è ulteriormente connotato da un tono retorico-oratorio.
Presente che compare in un’interrogativa retorica : che vale? 17
E si concentra su due capoversi: righe 52-56 oppure anche 69-72. 
Il resto è predominato dal passato remoto e dall’imperfetto. La distribuzione e il loro uso è a
livello sintattico e non solo stilistico o di pertinenza narrativa. Il trapassato prossimo indica
l’anteriorità rispetto al piano cronologico fissato dal perfetto (avea fulminato 2,3. Avea sventolato
18, avevamo conosciuto 34) all’imperfetto è attribuito il valore aspettare della continuità
dell’azione. (Correva, 6-7, si trattava 11, pensava 17, dormivano 20, parevano… 22-23).
Particolarmente connotata, soprattutto a livello stilistico, risulta l’uso dell’imperfetto di
scrivevamo e aspettavamo , dove ci si aspettava un banale passato remoto, oppure anche in
bastava ci si aspettava un è bastato.
L’uso dell’imperfetto risalta ancora di più perché l’adozione avviene a svantaggio del passato
remoto, la cui presenza è preponderante, e del passato prossimo che invece è assente in maniera
quasi del tutto totale. L’alta incidenza del passato remoto e l’assenza del passato prossimo si
inquadrano di concerto nel retaggio siciliano della lingua dell’autore, infatti tale distinzione
temporale, è sconosciuta al dialetto siciliano che conosce solo l’opposizione presente/passato,
quest’ultimo è espresso solamente tramite la forma grammaticale del passato remoto.
Verga è cosciente di questa caratteristica dialettale della propria lingua e reagisce censurando
l’eccesso dei perfetti e ricostruendo un sistema solo apparentemente a 3 tempi cronologici. Nella
momentanea incapacità di gestire il passato prossimo, amplia le condizioni d’uso dell’imperfetto,
che adotta in sostituzione del perfetto che viene così censurato, poiché viene percepito come un
tratto marcato della propria dialettali soggiacente e comunque tanto frequenta sollevare la
varatio.
STILE E ANDAMENTO
Andamento sincopato, franto, costituito da periodi estrema brevità e nella parte iniziale
addirittura mono frasali, privi di legami logici fra l’uno e l’altro, la separatezza ulteriormente
marcata dall’andata a capo o della lineetta che accompagna o sostituisce il punto fermo. Un
modo di scrivere i periodi che discende dal modello francese chiamato style coupé, ma che nel
momento storico nel quale Verga scrive, mima anche la stringatezza dei proclami, dei dispacci di
agenzia e insomma lo stile giornalistico della notizia dell’ultim’ora. 
Tuttavia, bisogna tenere in considerazione che si tratta del capitolo proemiale, il cui andamento
non può essere esteso all’intero romanzo che per sua natura richiede una sintassi più distesa nei
brani narrativi e descrittivi. Il primo capitolo per esempio è di evidente sapore manzoniano come
per esempio l’avvio paesaggistico, che ha anche richiami lessicali ai promessi sposi: diramazione
(quel ramo del lago di como), prolunga (in qualche parte boschi, che si prolungano su per la
montagna), catena (tra due catene non interrotte di monti). Gioghi per esempio sta per il
manzoniano giogaia, ai tempi in cui scriviamo - ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a
raccontare ecc.. 
Il brano dell’attacco dei Carbonari mostra notevoli differenze dallo stile spezzato del brano
introduttivo. Non c’è quindi una struttura paratattica come nel capitolo introduttivo, che però
tenta di riprodurre il periodare lungo dell’attacco manzoniano più con l’interpunzione, che non
con la varietà di soluzioni sintattiche, qui ridotte alle subordinate relative e ad una causale.
Questi due modelli e modo di scrivere sono accostati talora da verga con effetto di contrasto, per
esempio tramite l’artificio della posposizione del soggetto al verbo che ricorre in un numero
limitato di casi perlopiù concentrati nella parte iniziale del brano. Si nota per esempio un
contrastante effetto dei primi due (di enfasi retorica e di matrice letteraria, all’effetto dell’ultimo
inserito in una frase di tono colloquiale, ironica e figurata. Questo effetto pare attribuibile
piuttosto che a una consapevolezza stilistica, a una sovrapposizione di modelli che vengono
tenuti entrambi presenti per far fronte a una sostanziale insicurezza linguistica, alla quale fanno
pensare casi diversificati che possiamo classificare come inappropriatezza rispetto agli usi della
lingua:
Nelle reggenze verbali (o in generale nell’uso delle preposizioni)
ad una matrice dialettale va fatto risalire il costrutto : 23-24 secondo un fenomeno sintattico di
generica diffusione meridionale, il complemento oggetto è introdotto dalla preposizione a
quando l’oggetto sia un essere animato.
Meno caratterizzata in senso diatopico è la costruzione “al 1810, come al 1860” si sottintende AL
come al tempo del… in luogo del più consueto NEL, o meglio l’interferenza fra la costruzione con
in davanti a un numerale indicante l’anno e quella con a per indicare altre relazioni temporali.
Nella costruzione del periodo, quando una sfumatura ipotetica richieda la scelta del congiuntivo
come per esempio 55-56, dove il congiuntivo imperfetto sostituisce il presente posto al
congiuntivo per sottolineare l’ipoteticità secondo un uso anch’esso siciliano, già segnalato da
Russo. Secondo Rohlfs nell’Italia meridionale il presente congiuntivo è praticamente ignoto,
sostituito nell’uso dall’indicativo presente o dall’imperfetto congiuntivo.
Verga cerca quindi di opacizzare queste incertezze sintattiche convogliando altrove l’attenzione
del lettore mediante un tono enfatico di matrice retorico-oratoria che si esprime mediante:
Formule più o meno fisse: vedi 5,72,33-34,71,46,58-59
Mediante l’uso dei puntini di sospensione che di volta in volta:
esprimono la retorica reticenza che prelude ad una confessione (22-23)
Alludono a fatti o sentimenti noti e condivisi dal pubblico (42-43)
3.    Mediante le esclamative ( si veda per esempio 73).

Gli usi linguistici concreti mostrano anche stavolta due modelli in qualche modo contrastanti,
posti l’uno accanto all’altro, la cui convivenza è stridente:
Uso formale, ingessato dalla lingua scritta imparata a scuola o dalla personale lettura.
Il modello di una lingua naturale e spontanea, parlata e quotidiana che risente della lingua
giornalistica e del francesismo.
L’uso del noi al posto di io ha un ruolo più vario, coprendo ancora una volta l’antico ruolo di
mascherare il dato biografico ma anche assolvendo il ruolo di plurale collettivizzante, che
inserisce l’esperienza del singolo in un momento condiviso della storia regionale e nazionale e
dunque risponde all’istanza di comunione in senso italiano. (8-17)
Lezione 17
È nel lessico che le diverse componenti dell’oratoria e della retorica risorgimentale, della cultura
arcaizzante e letteraria della tradizione, della componente moderna francese e alla moda si
accostano senza una accorta omogeneizzazione di tono.
L’adesione alla cultura moderna (anzi alla letteratura alla moda) è ostentata mediante la citazione
di parole francesi ed inglesi, tali e quali. Nel brano abbiamo dessert 15, e altrove nel romanzo
compare FOX HOUNDS e più spesso MYLORD ma anche berceu, cascemir, segreti, comfortable,
groom, steeple-chasse, gutter, coupé. Ma la letteratura e la lingua francese sono testimoniati
anche da prestiti acclimatati all’italiano come nel brano aggiornare e sfogliazzare. 
15. Aggiornò: il significato non è più quello come veniva usato da Petrarca ovvero di FARSI
GIORNO né quello che risale al XIII secolo di assegnare una data, stabilire un giorno nel futuro,
ma quello di rinviare a un’altra data che deriva dall’Inghilterra e in francia e daqui si diffonde in
Italia e nelle altre lingue europee.
62. Sfogliazzò: assente dalla lessicografia tradizionale, è prestito dal francese FEUILLETER in questi
casi usato anche da Ippolito Nievo in confessioni di un italiano con il medesimo significato di
sfogliare. 
Accanto a questi termini di origine moderna e francese, sta un lessico tecnico o scientifico come
per esempio equinoziale, osservatorio, diametro, bugnato che è stato censito per categorie da
Francesco Branciforti che lo interpreta come il muline della sua puntigliosa curiosità di
presentazione ambientale ed insieme ornamento più elaborato e in definitiva più genuino del suo
linguaggio letterario.
Inoltre, rare non sono forme arcaiche e letterarie come errare, poltrone, villano.
Per quanto riguarda 16 abbrucciare: la forma prefissata con a(d) è di gran lunga preferita alla
forma bruciare nella prosa antica, 300esca, ed è ancora vitale nell’800. Nella 700 grammatica
ragionata della lingua italiana di Francesco Soave il verbo è usato per esemplificare i verbi
transitivi e del resto la V edizione del vocabolario della crusca distingue il valore attivo e l’uso
transitivo della forma prefissata da quello di bruciare dal valore aspettare medio. L’uso che ne fa
Verga è opposto però a quello indicato dagli accademici della crusca. 
Compare anche l’uso di forme dialettali e un lessico basso colloquiale e comunque moderno
svignarsela coi bagagli 25, formule modernissime della conversazione come sul più bello mancò il
vino al dessert, si aggiornò la partita. E locuzioni fisse come bestemmiare in turco che
testimoniano l’aspirazione di verga ad una lingua spontanea, naturale, parlata e insieme
l’inesperienza a gestire registri di lingua stilisticamente divergenti.
Abuso di fulminare in 3-4, 15-16, 61, 72 nel doppio significato di “colpire qualcosa con rapidità di
un fulmine ponendovi fine, annientandolo” e anche “decretare una condanna.” Gli usi sintattici
nel brano : intransitivo che regge complemento di termine aver fulminato+ a, intransitivo che
regge complemento di mezzo : si fulminarono col brigantaggio; transitivo: fulminare lo stato
d’assedio, nella forma passiva con l’indicazione dell’agente fulminata dalla giustizia di Dio, si
adeguano a questa pluralità di accezioni.
Lezione 18
Lo spirito patriottico che aveva animato i carbonari della montagna e anche amore e patria, è alla
base anche dell’invenzione di Sulle Lagune, che compose ad un dipresso nello stesso giro di anni
dei carbonari e cominciò ad uscire sulla “Nuova Europa” del 1862. Le prime due puntate furono
pubblicate il 15 e il 19 agosto, ma poi la pubblicazione si interruppe per ragioni ignote, che
Federico de Roberto attribuisce alla campagna a favore di Garibaldi che il giornale prese parte. La
pubblicazione si riprese il 9 gennaio.
Il tema politico di Sulle Lagune è quello della redenzione di Venezia, che dopo la delusione
dell’armistizio di Villafranca e dopo la proclamazione del regno, attendeva ancora di
ricongiungersi al resto d’Italia. 
Il romanzo è costituito da un Prologo a venti capitoli che alcune didascalie raggruppano in 6
sezioni narrative ciascuna intitolata ad un luogo. Il capitolo XX costituisce l’epilogo della storia e
riferisce il commento dell’autore. Il romanzo è molto più breve dei precedenti a testimonianza di
un tono meno effusivo e di una misura che il giovane verga ora sa imporsi.
Il romanzo era stato pensato come romanzo di appendice a causa della doppia suddivisione di
quest’ultimo in capitoli e in più ampie sezioni narrative che li raggruppano. Era destinato quindi a
una pubblicazione a puntate. Tecnica della narrazione ora a che si spesso di colora di istanze
spettacolari, inserendo il “triangolo autore-protagonisti-lettori” in una dimensione squisitamente
teatrale che coinvolge lo statuto del narratore, secondo quanto rilevato da Francesco Branciforti.
Stefano de Keller è un giovane militare ungherese che nonostante le idee libertarie che professa,
è costretto a prestare servizio a Venezia nell’esercito asburgico. Un incontro casuale, durante il
quale si è rifiutato di percuotere una giovane italiana che partecipa a una manifestazione a favore
di Garibaldi, lo rende sospetto ai suoi superiori e lo fa innamorare della sconosciuta. Questo viene
narrato nel prologo, mentre l’azione vera inizia dal primo capitolo. La conoscenza della situazione
nella quale vive Giulia, il duello di Stefano che rimane ferito con il conte di Kruenn, la ritorsione di
questo’ultimo contro la giovane, cacciata insieme alla madre inferma dalla casa in cui l’aveva
accolta interessatamente, il riconoscimento di Giulia come la sorella del più fidato amico di
Stefano, la decisione di Giulia di sfuggire al suo persecutore raggiungendo Stefano e
concedendosi a lui prima di suicidarsi con l’amante.
Il quadro politico rimane in secondo piano e possiamo dire, fa da sfondo al romanzo che iniziato
sulla manifestazione antiasburgica, termina con una tirata patriottica. L’enfasi romantica e
romanzesca si scarica sui sentimenti e sulle passioni dei personaggi e il romanzo si avvia ad
assumere connotati propri del romanzo psicologico e intimo. Nel romanzo si vede anche
l’intrusione del genere del romanzo epistolare. La sezione (Da Oderzo alla Giudecca) che risente
molto del modello foscoliano dell’Ortis, dall’albo anticipa gli sfoghi epistolari della Capinera.
*testo in pdf*
Sopracoperta 22-23
Di più 40, 88 sembrano accennare alla conquista di un tono meno letterario e rispettivamente
meno dipendente dalle incertezze derivanti dalla fonetica dialettale. In realtà si alterna anche
dippiù, come forma minoritaria, ancora in storia di una capinera (7occorrenze) e in Eros (4),
occasionalmente anche in Vita dei campi, novelle rusticane, per le vie, novelle sparse e i
Malavoglia a testimonianza dell’epurazione che riesce ad essere pienamente efficace solo in Eva e
nel Mastro don-Gesualdo.
Scempie/doppie: Brettagna 16, è condivisa da altri scrittori coevi (Foscolo per esempio usa
alternativamente l’una e l’altra variante fonetica). In eros però userà Bretagna. 
Nel romanzo uffiziale-i si alterna a ufficiale.
È costante in verga l’esito pienamente volgare nei composti con chiudere (ti acchiudo 83, altrove
anche conchiudere) per piena percezione etimologica del composto. Le forme latineggianti oggi
normali si sono stabilizzate nella lingua solo nella seconda metà del XX secolo, mentre per tutto
l’ottocento entrambe le forme sono legittime e concorrenti.
Vocalismo e consonatismo (mancato dittongamento e esito non toscano del nesso -ri- davanti a
vocale) si denuncia come non fiorentino barcarolo 49-50 (altrove nel romanzo troviamo barcaiolo
ma non barcaiuolo).  Nei promessi sposi Manzoni aveva sostituito barcaiolo a Barcaiuolo
nell’edizione 27ana tenendo fede alla generalizzazione del monottongo dopo elemento palatale.
Nella prima occorrenza del capitolo 2 il termine è contraddistinto dal corsivo, e dunque segnalato
come elemento connotato in senso geolinguistico (tale espediente però o manca nelle
occorrenze successive di barcaiolo, come in quella del capitolo 16 o è adottato anche per
barcaiolo.
Morfologia nominale
Si notano qualche incertezza di genere: per esempio nel prologo: “l’onore del nostro uniforme”,
analogo al maschili per amazzone in capitolo 2, scelta che viene poi confermata anche in Eros.
Mentre sciallo si assimila ai nomi della 2 classe. Riguardo ai critici si avverta che Verga usa sempre
la forma letteraria ve, vi (io devo pensarvi 42, mi atterriva a pensarvi 72) per l’avverbio locativo, in
luogo di ce, ci che è invece esclusivamente deputato a svolgere la funzione di pronome di 1
persona plurale (37 recarci, 55 che ci resta, 58 ci scrive). 
Morfologia verbale
Io lo sentivo e mi atterriva 72, conferma l’oscillazione fra forma in -o e forma in -a della 1 persona
dell’imperfetto già riscontrata nei carbonari. 
Veggo fa macchia in senso arcaico, fo in senso fiorentino: e non fo altro che starle inginocchiata,
77-78, presente monosillabico rifatto su ho, sto, do e che insieme a vo nel senso di vado,
caratterizza ancora oggi il fiorentino e il senese contemporanei. L’uso dei tempi verbali risulta
essere più articolato che in precedenza, grazie all’acquisizione del passato prossimo, assente
quasi del tutto nei Carbonari. Nel primo capoverso il presente 3-4 è l’autunno, noi ritroviamo, 7
vive nascosto, per quanto lo può, 8 non può fuggire, si alterna con il passato prossimo 3 sono
scorsi, abbiamo descritto, 5 è disertato e con il trapassato prossimo 5-6 aveva scoperto. Il
presente e il passato prossimo però si riferiscono per qualche ambiguità indifferentemente al
presente della storia narrata e al presente della narrazione, il che annulla qualsiasi profondità
prospettica e genere l’impressione di complanari fra i due piani narratologicamente distinti. Il
presente prosegue, questa volta con il valore di presente storico fino al rigo 18. Nelle righe 19-20
invece si affaccia l’imperfetto dovevano, baciava, che a sua volta fa luogo al passato remoto al
rigo 21 cominciò (ma nella stessa riga l’imperfetto è adibito a sottolineare la continuità
cronologica, espressa anche dalla perifrasi di andare+ gerundio: le andava ordinando 22, mentre
il trapassato prossimo indica l’anteriorità rispetto al piano cronologico di cui si racconta, come in
area scritto 23.
Questo scivolamento dal presente storico al passato remoto (cui assistiamo nella porzione
narrativa del brano, è funzionale a far si che il presente riassuma il pieno ed effettivo suo ruolo
quando esso ricomparirà nella scrittura epistolare. A partire dal rigo 26 infatti il presente non è
più il presente del narratore, e nemmeno il presente di Stefano ma quello di Giulia, la nuova voce
che si esprime nelle lettere. Eppure, dato l’atteggiamento in cui abbiamo appena lasciato Stefano
in piedi presso il verone che si apre sul terrazzo 12-13 il presente di Giulia appare contemporaneo
al nostro di lettori e a quello del protagonista maschile che Giulia finge nella lettera. 30-31 …
Nonostante l’acquisizione del livello cronologico intermedio fra presente e passato remoto, l’uso
connotato in senso dialettale del passato remoto riaffiora in 58 ieri ricevemmo, e infine in altri
luoghi di Sulle lagune assistiamo a quella estensione d’uso dell’imperfetto già notata nella prosa
dei carbonari.
Lezione 19
Il brano è per lo più costituito da periodi brevi, normalmente ridotti ad una principale e a una
subordinata di primo grado “alcuni mesi sono scorsi dall’ultima scena che abbiamo descritto”
O da una principale e una sua coordinata collegate, per asindeto, solo tramite interpunzione. Riga
9-11
È raro invece che la principale sia accompagnata da subordinate che superino il terzo grado di
subordinazione. Quando questo avviene emerge la difficoltà di verga a gestire periodi complessi
ed articolati, talvolta unita alla incertezza nell’uso della reggenza preposizionale dei verbi.
Esempio: 4-7
Va rimarcata sia nascondersi alle (la preposizione a è determinata dall’interferenza con sfuggire
alle…) sia l’eccessiva lontananza del segmento “in una graziosa… S.Biagio” dal verbo nascondersi
da cui dipende; lontananza che, a tutta prima indurrebbe a stabilire un erroneo collegamento
logico fra il più vicino gl’intrighi dei giovani e in una graziosa casina.
Della medesima impacciata collocazione degli elementi frasali o parentetici in un periodo
complesso è prova anche (righe 26-28) nel quale, contro l’interpretazione che verrebbe
spontanea, non è il più vicino tavolino ad essere frastagliato bensì il raggio che si trova più
lontano.
Manca ancora allo scrittore la sicura padronanza della lingua nella sua varia mobilità d’uso
quotidiano. Come avviene per esempio a 10. Più propriamente avrebbe dovuto essere o “la
laguna si stende lucida e immobile sotto il terrazzo, ai suoi piedi” o “la laguna si stende lucida ed
immobile ai piedi del terrazzo”.
Nella sezione narrativa che apre il capitolo 16 si avverte la tensione insoddisfatta ad essere chiaro
e inequivoco mostrata dal ricorso ridondante ai deistici, siano essi aggettivi dimostrativi ( quelle
19,20,21; questo-a 29,30) anche a breve o brevissima distanza l’uno dall’altro, o aggettivi
possessivi (sue 9, suoi 10, sua 11, loro 13). Sul piano lessicale la ripetizione di termini che
degnano referenti concreti e privi di sinonimi crea un effetto riscrittura scolastica, che però
collabora a rafforzare la coesione testuale e la chiarezza che lo scrittore sente o teme non
pienamente raggiunte: terrazzo 10,13 lettere 13,21, data 13,19,20 finestra 30,35 ma anche piedi
10 e in piedi 12.
Dal punto di vista della sintassi è diversa la sezione epistolare del capitolo 16. Rari sono i
capoversi più ampi e distesi (righe 26-31,35-41,49-52,58-63)ma anche loro come i presto di
questa sezione sono costituiti da allocuzioni, frasi esclamative e interrogative, interiezioni, puntini
di sospensione a connotare il tono di sfogo e di lamento. Quesì’ultimo si esprime tramite periodi
brevi o brevissimi di solito monofrasali, o tramite frasi nominali, e dunque ellittiche, che anziché
legarsi per il mezzo di connettivi logici si affidano ad una sintassi paratattica e slegata tenuta
insieme sulla pagina dall’interpunzione marcata, esplicito segnale di emotività.
Le allocuzioni rivolte da Giulia all’amante (mio buon amico 37, 52,64,91,100; mio povero fratello
di sventura 39, Stefano…) segnano nel loro disporsi reciproco sulla pagina l’aumento di
confidenza fra i due amanti. Il nome proprio si concentra nella lettera del 7 giugno, mentre dal voi
della lettera del 4 maggio si passa al tu nella lettera del 7 giugno. Pur nel ricorrere alla medesima
risorsa grafica, i puntini sospensivi rimarcano di volta in volta l’ineffabilità dell’emozione, il
pudore, la vergogna il dolore e l’apprensione.
Mentre nei carbonari erano state adottate a scopo enfatico-oratorio a esprimere posizioni
ideologiche e politiche, nella sezione epistolare del capitolo 16 di Sulle lagune, esse paiono
rivitalizzare e comunque rifunzionalizzate. Il cambiamento è indotto più che dal genere della voce
che esprime emozione, dal differente statuto di quella voce: non più l’autore/narratore che parla
direttamente ad un lettore generico che con lo scrittore condivide idee politiche e posizione
ideologica, ma un personaggio che parla ad un altro personaggio in un dialogo effettivo che in
quanto dialogo, incoraggia e Giustina il tentativo di mimare l’oralità e il parlato, con un di più di
testata spontaneità linguistica che si manifesta in volute e consapevoli scelte stilistiche, quali
l’utilizzo cataforico del pronome in un periodo altrimenti ridondante e scorretto (80-81).
Nel lessico compaiono gli elementi individuati nella miscela linguistica verghino, che impasta il
repertorio arcaico con il lessico fiorentino e con quello francese. Non si assiste più al solenne
contrasto di solennità e colloquiali, letterarietà e formule orali che avevamo notato in Carbonari.
In singole occasioni pare poter scorgere il proposito del giovane autore a tener separati i vari
livelli lessicali e registri in suo possesso. 
Appartengono alla voce dell’autore i lemmi dal sapore fortemente letterario come cerulea 12,13
Poscia 24, verone 14 e come, appartengano alla voce di Giulia nel dialogo confidente con Stefano
il marcato fiorentinismo mamma 38 o locuzioni toscane percepite come appartenenti alla lingua
viva (mia madre va meglio).
Verone 14: nonostante la forte connotazione, assunta dal lemma nell’ottocento, il termine
proprio della poesia e del melodramma. Dell’estraneità del termine alla competenza attiva di
Verga è testimonianza l’uso improprio dell’intera frase del brano poiché verone è appunto quello
che a Firenze si chiama terrazzo o loggia, secondo la definizione del vocabolario della crusca.
Evidentemente verga attribuisce al Verone il significato di finestra, porta finestra. In questa
occasione al verone verga non affianca il balcone della sua Sicilia ma il terrazzo di diffusione
tosco-fiorentina.
Poscia : fa uso fino a Eva e Eros, così come anche di ceruleo che sopravviverà nel vocabolario
verghiamo fino a Eva e Storia di una capinera. Viceversa, fo e mamma che ricorrono nelle lettere
fra Stefano e Giulia, attribuiscono al fiorentino lo statuto di lingua viva, spontanea e dunque in
grado di rispondere meglio all’espressione dei sentimenti e delle emozioni, come accenna anche
l’uso di modi di dire toscani. Si tenga però presente che mamma che gode del supporto del
mammà siciliano, alterna con madre e che l’uso della locuzione toscana attestata a 83 è
improprio. Il modo di dire in toscana conosce solo l’uso neutro o impersonale (va meglio) è
contaminato da mia madre sta meglio.
Anche qui si interfaccia l’adozione di parole straniere : dandy, punch cui si affiancano ora termini
dialettali come selizade, pardon, sior, e l’intera citazione della canzoncina ti xe bella, ti xe zovene,
barcaiolo o di parole esclusive dell’ambiente veneziano in cui si svolge la storia (traghetto) e
neologismi semantici o locuzioni alla moda e perciò segnalate mediante il corsivo come i
dialettismi.
Garzone : cameriere è un antico francesismo che nel significato di giovane che i contadini
tengono in casa perché accudisca ai lavori del podere era entrato nel fiorentino 800esco e di lil
era stato desunto da Manzoni per i Promessi sposi nel significato più specifico di “cameriere che
serve ai tavoli è un francesismo recente.
Scancellare : si connota come un toscanismo. Compare di nuovo in Storia di una capinera.
Raccattare: toscanismo marcato. In verga compare fino a I malavoglia, e al Mastro don Gesualdo.
Incrocicchiare le braccia: ad autorizzare l’arcaismo sta la prima edizione dei promessi sposi dove
era usato nella formula fissa, poi eliminata nella 40ana “colle braccia incrocicchiate sul petto”da
confrontare con “incrocicchiò le braccia con la sciabola sul petto” del prologo di Sulle Lagune.
Lezione 20
Dopo la pubblicazione di Sulle Lagune verga pubblica a Torino presso l’editore Federico Negro,
Una Peccatrice, che porta la data del 1866, ma la scrittura risale ad almeno 2 anni prima perché
abbiamo lettera ad Adolfo Gujon. Con questo romanzo si denota un percorso letterario più
maturo rispetto ai precedenti romanzi. L’amico di verga ovvero Nicolò Niceforo ha raccontato che
la storia prende spunto da una vicenda di cronaca e che i protagonisti del romanzo esistono
veramente. Da qui si è arrivato a pensare che dietro la storia si nascondi una vicenda
autobiografica. Certo è che nel romanzo si manifestano chiaramente elementi sensibili della
poetica verghiana e temi che più tardi si svilupperanno a pieno:
Riappropriazione del paesaggio siciliano. L’autore sceglie un’ambientazione siciliana, alla Sicilia
tornerà con maggiore consapevolezza dopo il soggiorno fiorentino con storia di una capinera e
durante e dopo il soggiorno milanese con la svolta verista.
Il rapporto (affascinante e deludente) fra uomo e donna, che torna in maniera emblematica nel
romanzo Eva.
Rappresentazione del giovane artista sul punto di perdere se stesso e la propria vocazione al
contatto con il mondo e con l’amore.
Il romanzo si suddivide in 9 capitoli, ai quali è premesso un capitolo iniziale non numerato che
narra con flash back l’epilogo della vicenda: tre giovani, fra i quali il futuro narratore, si imbattono
in una stradina di campagna fra Aci Castello e Cannizzano, nel funerale della bellissima contessa
di Prato, Narcisa Valderi. Nel corteo c’è il medico che l’ha assistita nell’agonia, amico dei tre
giovani e di Pietro Brusio, l’uomo per cui Narcisa è morta. Il medico Angiolini promette un
dettagliato resoconto della vicenda, poi messo per iscritto dall’anonimo narratore. 
La sua auto-rappresentazione nel capitolo iniziale dove parla in 1 persona, non lo esime da quella
strategia di narrazione opaca che conosciamo già dai precedenti romanzi. Anche qui viene
caratterizza dall’assunzione del noi e dall’intervento commentante. Nel capitolo iniziale assume il
noi perché si fa portavoce dei sentimenti dell’intero gruppo di giovani. Nei capitolo successivi
assume la funzione narratologica.
Si assiste inoltre a una maggiore fiducia nella capacità di tenere insieme la compagine
romanzesca. Mancano nel romanzo i titoli introduttivi dei capitoli, secondo un processo di
progressivo allentamento dei segnali paratestuali che giungerà al massimo grado in storia d’una
capinera.
Pietro brusio è un donnaiolo 22 alla moda, avido lettore dei romanzi di Eugène Sue, e insegue per
proprio conto sogni di gloria letteraria come drammaturgo. Durante una passeggiata con l’amico
Angiolini incontra e si infatua di Narcisa Valderi, più che della donna fisica, della sua immagine
pubblica, della sua eleganza, tanto affascinante finché rimane un desiderio e un sogno frustrato
di possesso. Innamorato, inizia a trascurare gli studi di legge, la famiglia ad abbrutirsi nel vino e
nelle feste perché Narcisa, nobile e sposata, egli non può avvicinarsi. Tornato temporaneamente
sulla retta via, a Napoli, dove ha appena colto un modesto successo teatrale, egli viene
presentato a Narcisa, che si innamora di lui ora che Pietro è entrato a far parte della società a cui
la contessa appartiene. La corte di brusio induce il marito della contessa a sfidare a duello il rivale
e allora Narcisa decide, contro i condizionamenti della società, di lasciare il marito e di andare a
vivere con Pietro.
La convivenza si trasforma presto in una prigione per il protagonista alla quale non riesce a
sfuggire. La delusione e la noia dell’amante inducono Narcisa ad uccidersi con l’oppio. Alla fine
Pietro torna in seno alla famiglia e alla città natale, rientro emblematico nel nido da cui l’amore e
la speranza di gloria lo avevano allontanato. La storia non è trascorsa invano perché ormai le
energie giovanili e le grandi speranza sono state interamente dissipate.
Il modello esplicito del romanzo è Dame aut caàmélias di Alexandre Dumas, romanzo pubblicato
nel 1848, e un decennio dopo usato da Verdi per la Traviata. Verga tiene presenti sia l’originale, di
cui sono citati i nomi di Margherita e Armando, diventati poi Violetta e Alfredo da Piave, e dal
quale dipende l’escamotage narrativo del flash back con cui è introdotto la storia di Narcisa e
Pietro, quanto la versione melodrammatica.
Lezione 21
Lingua più comune e scorrevole, elementi siciliani o provinciali, che rimangono comunque qua e
là, sia nel lessico che nella morfologia sono macchie isolate che nulla tolgono all’impressione di
appropriatezza lessicale ormai generalizzata e di ordinata chiarezza espositiva e sintattica. Scelte
in favore del toscano sono misurate e per lo più limitate al lessico, poco indulgenti al
fiorentinismo fonetico o sintattico. Tutte le solite componenti dei romanzi precedenti, sono
associate a una maggiore padronanza e a una più consapevole distribuzione, e contribuiscono a
creare una lingua di gran lunga più omogenea delle prove precedenti.
Dal punto di vista morfologico 
Si sono fatti dei grandi passi in avanti. Nella morfologia verbale si concentrano forme o antiquate
o connotate regionalmente, oppure destinate a scomparire dagli usi comuni:
passati remoti forti come riconobbi 33, rimasimo 55
Di sapore letterario è nella coniugazione dei verbi, ricevei 137, forme che stabiliscono esatta
analogia con i perfetti della prima coniugazione in -ai, registrando tali forme anche in carboanari.
Francesco Branciforti notava l’assoluta assenza delle forme analogiche -etti, -ette… sentite
probabilmente come forme del parlato.
Continua anche in questo romanzo la compresenza più o meno casuale fra uscite in -o e uscite in
-a della prima persona dell’imperfetto indicativo
Usa anche abbi anziché abbia per la seconda persona del congiuntivo presente del verbo avere,
ma tale forma, sebbene condannata da Francesco Soave nella sua grammatica, era confortata
dall’uso, letterario e non.
Nella morfologia nominale si segnala l’uso errato di quegli in funzione diversa da quella di
soggetto. Riguardo gli usi dei pronomi è ancora impressionantemente incerto. Prevale il gusto per
le forme più togate, i lei manzoniano gli pare forse troppo familiare e borghese e usa spesso Ella.
Che è un termine siciliano di enfasi e sorpresa. Tuttavia, la scioltezza linguistica è dimostrata a
livello del lessico dalla ricca variazione sinonimica: convoglio funebre, feretro, convoglio,
mortorio, bara, quattro tavolette anche dalla gestione accorta degli alterati, come si può
esemplificare con chiesa, che nei momenti di massima concentrazione alterna con chiesuola,
chiesetta.
Ancora una volta vige la ricerca lessicografica o la lettura degli autori italiani contemporanei,
oppure tramite la lettura di romanzi stranieri da cui derivano forestierismi alla moda, in
particolare inerenti all’abbigliamento: pardessus, reine-blanche, pince-nez, tarlatane… questi utili
quando si tratta di prestiti non acclimatati sono rimarcati in corsivo.
Termini lessicalmente connotati:
Rozze : cavalli di infima qualità: nella crusca il termine viene registrato come lemma autonomo
per rinviare a carogna, tanto nella 1 che nella 2 edizione, edizioni nelle quali però il termine è
usato nella definizione di cavallaccio. La parola appartiene a quella’italiano letterario
raccogliticcio che i verga deve aver imparato da abate. Tuttavia potrebbe anche averla imparata
dalla lettura dei lessici contemporanei.
Stradone: il termine corrisponde al siciliano stratuni, ovvero sera carrozzabile o strada sterrata di
campagna.
A paro: al pari, nel senso topografico e dunque alla stessa altezza. Il sintagma identico comprare
nella prosa di cesare Balbo e in leopardi, la forma, autorizzata da dante e Petrarca in paesi, è un
arcaismo.
Mortorio : funerale o più concretamente Onoranza o cerimonia nel seppellire i morti, è un
toscanismo marcato, che verga userà di nuovo in Il mistero e pane nero comprese nelle Novelle
rusticane, in Eros, e infine nei Malavoglia.
Discolo: sulla scorta di esempi 300eschi del vocabolario della crusca lo registra oltre che nel
significato di idiota, anche nell’accezione più generale di uno di costumi poco lodevoli e riottoso,
incomparabile, insofferente.
Nell’uso dei piani verbali e cronologici il brano si adegua agli standard di lingua, stabilito
dall’incontro di 3 giovani con il corteo funebre e si fa riferimento con il passato remoto, il
trapassato prossimo e l’mperfetto, che assolvono l’esigenza di anteriorità e connotazione
aspettare di continuità dell’azione.
Il passato prossimo indica la posteriorità rispetto al passato remoto. Il presente o si riferisce al
momento della pubblicazione del romanzo oppure ha valore acronico e universale.
Nel dialogo abbiamo discorsi diretti legati, introdotti da verbi come dicendo, gridò al cocchiere, fu
la risposta, esclamammo, fu ripetuto, esclamò, ma non mancano anche discorsi diretti liberi,
ovvero privi di introduzione. Alle domande riferite in discorso diretto si associano casi di
domande riferiti maniera indiretta. A seconda che il verbum dicendo sia espresso oppure no il
verga adotta un modulo colloquiale e spontaneo che rende il congiuntivo imperfetto con il
corrispondente indicativo domandammo che c’era, domandammo chi era morto, oppure si
adegua alla imposizione dell’uso del congiuntivo nelle interrogative indirette.
Si possono rintracciare incertezze sintattiche di un certo rilievo: sostituzione del trapassato
congiuntivo con il condizionale passato. Si tratta di una comparsa di condizionali per
ipercorrezione, al posto dei congiuntivi. Riaffiora l’incertezza fra presente e imperfetto
congiuntivo (il primo ignoto in siciliano).
Continua a prediligere uno stile lineare sintatticamente poco complesso. Periodo monofrasale.
Ma questo, piuttosto che dipendere, come nei romanzi precedenti, da incapacità di gestire la
sintassi complessa, paiono assumere in apertura di romanzo, precise valenze stilistiche. Alla
climax della situazione corrisponde un incremento di complessità sintattica cui segue
un’anticlimax che inizia con l’incontro con il corteo funebre. Rimangono ovviamente improprietà
e approssimazioni: “quella fata, che aveva fatto io fascino di tutti”, “quando quel bel, sole”invece
di mentre quel bel sole.
Lezione 22
L’inedito Frine
Giudicava e condannava il romanzo una Peccatrice, specie anche quando venne ripubblicato
senza il consenso dell’autore nel 1893. Nella lettera al Martini, l’intera produzione giovanile è
ricordata, sommariamente e per accenni, senza mai citare un titolo, in una sorta di damnatio
memoriae che colpisce l’intero periodo che va dal 1856 al 1866, da AMORE E PATRIA a UNA
PECCATRICE, che non solo manca di qualsiasi menzione del primo romanzo inedito, ma anche
qualsiasi accenno del romanze Sulle Lagune, mentre a Una peccatrice si allude con una perifrasi.
Nella lettera invece designa con il loro titolo i romanzi successivi, che corrispondono ad una
svolta insieme stilistica e culturale e che dal punto di vista biografico coincide con il secondo
soggiorno fiorentino che iniziò nel 1869. Dichiara di aver tempestato per tre anni, cioè dal 66 al
69 gli editori affinché pubblicassero il romanzo Eva, siccome il romanzo omonimo che
conosciamo fu scritto e riscritto a Milano negli anni 70, e comunque dopo Storia di una capinera,
l’Eva che verga propose agli editori nella seconda metà degli anni 60 è diverso dal romanzo
successivo.
Nel 1865 esce per la prima volta dalla Sicilia per soggiornare per poco più di un mese a Firenze,
diventata da poco capitale del regno. Il viaggio è stato a volte messo in dubbio dai critici perché
testimonianze non solo indirette e perché alcuni documenti citati dai biografi sono oggi
irreperibili. Il primo soggiorno di verga a Firenze fu troppo breve per determinare un cambio di
gusti, di poetica, di cultura come vedremo. Eppure l’impressione lasciata dalla nuova capitale del
regno sul giovane provinciale dovette essere profonda se di lì a poco trovò spazio in un romanzo,
Frine, nel quale l’autore fa continuo ed insistito riferimento alla toponomastica della città
toscana. Verga inoltre dimostra una singolare conoscenza di Pitti, dei quadri ivi conservati e della
loro collocazione nelle varie sale della Galleria. Al momento della stesura di Frine, verga è
insomma un buon conoscitore di Firenze e della vita mondana che vi si conduce, tanto da
confermare il soggiorno toscano nel 1865.
Lezione 23
Sia i dati interni che esterni coniugati con la cronologia della scrittura e poi alla pubblicazione di
Una peccatrice confermano la stretta vicinanza cronologica, se non addirittura la
contemporaneità parziale fra i due romanzi. 
Sono testimonianza di questa appartena al medesimo nucleo ispirato l’abuso di parole straniere
(francesi e inglesi) a volte storpiate, l’attenzione maniacale per gli abbigliamenti femminili, fatti
oggetto in entrambi i romanzi di accurate ed insistite descrizioni, la cultura musicale spesso
ostentata sia in uno che nell’altro romanzo, il riferimento sia esplicito sia implicito e comunque
ricorrente alla Dame aut camélias. Inoltre le note e didascalie apposte da verga in entrambi i
manoscritti classificano Una peccatrice come “bozzetti del cuore”, Frine fra “schizzi del cuore”,
che indicano omogeneità ispirata e posteriorità cronologica di questo nuovo romanzo rispetto al
precedente.
Trama 
Luigi Deforti, giovane pittore catanese di modesta condizione sociale, conosce a Firenze Eva
Manili, femme fatale che unisce alle bellezze esteriori la sensibilità ostentata, dell’artista
dilettante. L’amore e l’interesse per l’arte, che serve alla Manili da paravento per la sua
condizione da mantenuta, fa breccia nel cuore dell’artista, pregiudizialmente ostile, in
conseguenza della propria origine provinciale, alle cortigiane. Innamorato, egli si allontana
sempre più dallo studio, si indebita gravemente per entrare in modo dignitoso negli ambienti
lussuosi frequentati da Eva, che sapientemente, di. Alta in volta, lo lusinga e lo respinge finché
non gli preferisce un altro, il conte Fontanarossa. Deforti decide di vendicarsi.
Inizia così la sua discesa vertiginosa verso il degrado morale: Luigi, diventato baro per vivere, è
costretto da tale attività a girovagare per l’Italia e, ossessionato dalla vendetta, sostituisce la
spada al pennello, trasformandosi in un temibile spadaccino. Torna quindi a Firenze, scommette
con un gruppo di amici che il conte non è l’amante di Eva, vince la scommessa dopo aver pagato
profumatamente Eva perché faccia la commedia ed infine, dopo aver inseguito la coppia sul lago
maggiore, sfida l’avversario a duello, ferendolo gravemente. Gran parte della storia viene narrata
dallo stesso Luigi ad un amico catanese che farà da secondo a Deforti, che lo assisterà moribondo
quando sarà rientrato dalla famiglia, che infine ne difenderà la memoria contro il cinismo di Eva
che fa ormai da ruffiana ad una giovinetta. 
Secondo una tecnica narrativa usata di frequente dal giovane Verga, l’anonimo mio di Deforti, che
ha preso parte diretta alla vicina o l’ha sentita narrare dallo sfortunato protagonista, diventa
l’estensore del racconto.
Risultano evidenti quelli che sono i contatti con il successivo Eva. Luigi assomiglia in maniera
impressionante a Enrico Lanti, anch’egli pittore, anch’egli al centro di una scommessa e di un
duello. È identica inoltre l’ambientazione fiorentina, e a parte la persistenza di alcuni altri
antroponimi, rimane costante nei due romanzi il nome della protagonista femminile. Tuttavia il
nome rinvia ad archetipi differenti nelle due compagini narrative: mentre in Frine il modello è la
donna tentatrice e seducente, in Eva il personaggio è più complesso, meno lineare, rinviando in
momenti diversi del romanzo alla ballerina tentatrice e alla donna-angelo del focolare che alla
fine delude.
Nonostante queste analogie, Frine è inconfrontabile con Eva che sarà completamente riscritto,
salvo il recupero di un capitolo il 30esimo, che costituirà l’epilogo del romanzo di Eva dato alle
stampe.
Frine è composto da 31 capitoli, numerati progressivamente, ma come già in una peccatrice sono
privi di titolazione autonoma, il romanzo desume il titolo dal nome della cortigiana amata dallo
scultore greco Prassitele. Questo richiamo dovette essere cancellato a favore di un più
trasparente Eva, insieme nome del personaggio e nome simbolico dell’eterno femminino. Questo
cambio di titolo non è attestato dal manoscritto cui è possibile attingere, ma soltanto dalla lettera
al Martini del 1880 e da una lettera al treves del 14 giugno 1869.
Si deve tenere presente che Verga non rivide il romanzo per la definitiva pubblicazione e dunque
il caso di Frine diverge, dal punto di vista linguistico oltre che quello testuale, da tutti i documenti
presi in esame in precedenza. Dal punto di vista linguistico è normale per un autore, scrivere e
trascrivere senza dare importanza a fatti grafico-fonetici, uniformati e corretti poi in extremis,
nelle fasi successive e magari addirittura sulle bozze di stampa. Si tratta di una tendenza generale
per lo più scandisce e la rielaborazione secondo una gradazione che va dal macro-testuale e che
riserva òa definizione di fatti morfologici, fonetici e soprattutto grafici all’ultima fase correttiva.
Nel determinare il desiderio e la necessità di definire e uniformare la superficie linguistica grafico-
fonetica ha grande peso l’impatto dell’autore con il momento di produzione del proprio testo a
stampa, impatto che agisce sia a livello oggettivo sia a livello psicologico.
A livello oggettivo: si tiene presente che per tutto il periodo in cui alla trasmissione tipografica si
associa l’assenza di una comune regolamentazione ortografica. Mandare un manoscritto in
tipografia significa entrare in un rapporto dialogico con compositori, redattori editori che in
maggiore e in minore misura, interferiscono con gli usi grafici e fonetici dell’autori e interagiscono
con le abitudini micro-linguistiche.
A livello psicologico: il contatto con la stampa e con la correzione delle bozze comporta una
visione stranita del testo, che ora si presenta agli occhi dell’autore count a nuova distribuzione
sulla pagina, anche i questo caso si tratta di un a tendenza generale alla quale il nostro autore
non si sottrae.
Il manoscritto di Frine al quale noi abbiamo la possibilità di accedere e che costituisce l’unica
testimonianza del romanzo, è infatti un autografo che servì direttamente per l’elaborazione, su
cui Verga intervenne poi per correzioni ed integrazioni. Non è invece conservato il manoscritto
successivo, nel quale l’autore copiò in bella tale lavoro per poterlo mandare in tipografia.
Che una bella copia del romanzo sia esistita possiamo desumerlo dal fatto che verga insistette per
anni con gli editori perché pubblicassero Frine, ma anche per il fatto che della bella copia rimane
un frammento (il 30esimo capitolo) ora conservato nel manoscritto di Eva, dove quel capitolo fu
riutilizzato. Questo manoscritto ci da quindi testimonianza su come verga scrivesse intorno al
1866-1869 in forma semi-spontanea. Non ci dice invece come Verga intendesse consegnare al
pubblico i propri testi né di quale lingua Frine avrebbe avuto qualora anche questo romanzo fosse
andato in stampa.
Lezione 24
Fonetica capitolo 1 di Frine
Aderenza alla forma latineggiante (priva del raddoppiamento della nasale bilabiale introdotto dal
volgare) in imaginazione 48: le forme senza raddoppiamento sono alla nostra percezione
fortemente connotate in senso letterario e addirittura poetico, ma uno sguardo al corpus dei testi
800eschi ci consente di scoprirne l’uso diffuso e testualmente variegato nella prosa storiografica,
nel romanzo, nella scrittura privata, negli epistolari e persino nella scrittura tecnica, oltre che in
poesia. Nel fermo e lucia di Manzoni adotta solo la forma con -mm-, nella 27ana dei promessi
sposti compare 16 volte la forma senza doppie, ma 62 la forma raddoppiata. Infine nella 40ana il
Manzoni tornerà all’uso esclusivo della forma più volgare e colloquiale.
Non abbiamo uno spoglio linguistico esauriente dei romanzi precedenti per poter dire quale sia la
preferenza dell’autore. È difficile stabilire se la scelta nell’inedito corrisponda all’estrema fedeltà
ad una forma meno colloquiale, poi definitivamente abbandonata nelle novelle e nei romanzi
successivi, oppure se questa forma sia imputabile allo statuto particolare della documentazione
in nostro possesso (destinata magari alla correzione al momento della stampa).
Vocalismo atono in Frine la chiusura in protonia non è accolta in remoto (delle due occorrenze
nel romanzo, quella del brano deriva dalla correzione del precedente rimoto). Anche la forma
quistione 74: per noi risulta antiquata, ma agli orecchi dei contemporanei di verga essa doveva
piuttosto risultare come tratto fiorentino. Che la forma in -i. Avesse un particolare sapore
nell’italiano dell’800 è verificabile dall’evidente minoranza dei suoi usi contro la molto più ampia
diffusione di quest-. Sulla base della produzione successiva si può affermare che verga preferisce
la forma più connotata in senso fiorentino fino agli avanzati anni 80, alla fine dei quali si comincia
ad avvertire l’inversione di tendenza a favore della forma più diffusa.
Lessico di Frine
Termini che appartengono a lingue straniere e nell’ambito di abbigliamento femminile, mezzi di
trasporto.
Appartengono alla categoria mezzi di trasporto: palichaisse 6, americaine 22, Victoria 39,
mecklenburgo 7 
Per quanto riguarda l’abbigliamento, sia maschile che femminile, oltre a molti termini italiani
della moda del tempo i francesismi bernous, tarlatane 13, fichu, bijouterie, bijou, anglicismi come
cachemire. Ci sono anche modi e costumi di società e al linguaggio alla moda termini come lionne
26, tigrasse, maîtresse, lansquenet, chic bon-ton, bon mot, shocked, jockey, groom, miss, kaut…
più propriamente dell’arredamento abbiamo duchesse, étagère, console, tabouret, boudoir, fra le
bevande si trovano champagne, absinthe, punch Bischoff. Accanto ai singoli termini possiamo
avere anche intere locuzioni , frasi per lo più francesi: question d’argent?
È una vera e propria ostentazione che inoltre si coniuga:
con la scarsa aderenza alla fonetica e alla ortografia corrette dei termini forestieri citati (si noti
per esempio l’errata adozione degli accenti, bernous riproduce in maniera inesatta il nome del
“barracano, mantello di lana con cappuccio, allora di moda e che propriamente è bournous o
burnous.
Con la variabilità ortografica da un luogo all’altro del romanzo: palichaisse per esempio ricompare
nella grafia fonetica palichesse, il già citato boudoir è corretto su baudoir, shoked alterna
shockee, jockey a jockey ecc..
Si tratta di forestierismi che sia per la loro concentrazione sia per la loro incerta riproduzione
dimostrano da un lato come verga, rappresentando il mondo ricco ed elegante con il quale è
momentaneamente entrato in contatto a Firenze, aspiri a entrare a farne parte, e dall’altro il
provincialismo dell’autore. A questo mondo appartiene il lessico alla moda acclimatato
all’italiano:
Passeggio: 5, luogo dove si passeggia, 12 insieme delle persone che passeggiano e passeggianti in
29, il significato in 5 è attestato fin dal 1600, il significato in 12 è registrato per la prima dal
tommaseo-Bellini nel 1871 che registra anche passeggiante.
Equipaggio: 13 è un francesismo penetrato in italia fin dal 17esimo secolo nel significato primario
di “complesso di oggetti che servono per viaggiare” che ha assunto nel 18esimo secolo anche il
senso di “insieme del personale imbarcato su una nave”, mentre nel 1680 risale la prima
attestazione dell’accezione “carrozza signorile a cavalli” che è il significato delle occorrenze
verghiate nel nostro brano. Il vocabolario della lingua italiana di Rigutini glossava la parola come
“corredo, fornimento di cose necessarie a un esercito di cammino, o a un naviglio.”specificando
che si tratta di voce prettamente francese e da evitarsi.
Elegante 29: trattando dell’aggettivo nel tommaseo-Bellini si trova in senso raffinissimo al
moderno e come sostantivo l’usa Plinio. 
In frine si dispiega per effetto del primo contatto con il mondo elegante della città capitale, va
ricondotto anche quando verga sottolinea mediante il corsivo, distacco 30 che non ha il significato
proprio e tradizionale, di “L’atto di separasi da persone e luoghi diletti” ma quello, nuovo e
inedito, di “separatezza, inconciliabilità”.
L’attacco del romanzo mira a creare un’aspettativa resa solenne e artificiosa tramite:
La predominante anteposizione dell’aggettivo al nome cui si riferisce: elegante palichaisse.
Le frequenti dittologie aggettivali : disanimato e stanco, arditi e sorridenti, audace e libertina,
preoccupata e quasi mesta, briosa e spensierata ecc..
L’espediente iterativo volto allo scopo di innalzare letterariamente la prosa del romanzo è
particolarmente evidente nelle coppie e nelle terne che costellano i righi 32-36.
Una leggera incongruenza fra i piani cronologici si stabilisce fra avevo incontrato e il passato
remoto che invece contraddistingue le righe 2-36, nelle quali i due incontri sono narrati anche se
in 32 avevo incontrato viene attribuito solo al primo incontro e l’imperfetto invece solo al
secondo.
Incertezza relativa alla consecutio si registra a 11-12 ambiguo fra non c’era cosa alcuna che
dovesse colpirmi e non c’era cosa alcuna che avrebbe dovuto colpirmi.
Scommettere richiedere il congiuntivo nella subordinata retta da che (scommetto che lo sappi a
anche troppo) impaccio sintattico si ritrova in 44-46 nell’uso del gerundio incorniciando privo di
soggetto.
Lezione 25
Per quanto riguarda il vocalismo tonico: dittongazione. 
In frine compare costante ancora una volta intieramente in 10 occorrenze ma anche intiero, -a, -i,
-e in 7 occorrenze, a fronte di 1 occorrenza di intere che sia affiancano al francesismo
primieramente. 
Accanto a figliuolo, nel sintagma figliuol prodigo, stanno anche camiciuola, barcaiuolo, vaiolo e
via Legnaiuoli, spagnuola, giuoco e giuocare. 
Queste ultime due assicurano che la dittongazione fiorentina è desunta per via scritta, perché
non è pienamente rispettata la norma del dittongo mobile. E infatti compaiono buonissima,
risuonare, suonai, suonò, suonarono, infuocato, nuotanti, nuotavano, muovevano, vuotai,
vuotate la regola del dittongo mobile in realtà vige nelle forme abbonate, abbonerò, abbonavano
nelle quali però l’antica regola collabora a specializzare un senso tecnico il significato del
composto. Sono invece arcaiche le forme dittongate niega e tuono (di voce).
Vocalismo atono si veda quanto detto a proposito di remoto, rimoto, e questione, quistione (si
aggiunge che la preferenza o l’accoglienza dell’una o dell’altra variante, dipende in larga misura
dalla diffusione del termine interessato). Vocalismo atono finale e quindi messi da parte i casi in
cui nel dittongo è coinvolta una vocale tonica del tipo udii, sentii ecc…, si rintracciano delirii,
desiderii, studi, gonfii, rinunzii, tripudii, testimonii, esempii, servigii, avversarii, tutti senza
alternativa.
Continuità coi romanzi precedenti si intravedono anche nel consonantismo, a testimonianza in
genere di una lingua antiquata e connotata letterariamente. Scoverto non tiene il passo con le
forme più colloquiali come coprire, secreto contrasta con segreto, ma sacrificio, è la nuova forma
ora esclusiva che evidentemente si certifica sul verbo sacrificare, sebbene compaia anche come
sagrifica. E infine lagrima, con ben 46 attestazioni non ha concorrenti.
Esito toscano adottato in sacrificio e denuncia, non mancano esiti culti in -zi- come in rinunzii,
coerente con rinunziare, rinunziamo, al quale possiamo aggiungere le forme dei verbi
pronunziare e annunziare, in verità comprare una volta il participio passato annunciate, ma con il
significato di reclamizzate (e non con il significato consueto di “segnalare il nome dell’ospite al
padrone di casa prima di ammetterlo alla sua presenza”).
Cangiare (5 forme) si alterna con cambiare, si conferma esito volgare in acchiusi. 
Nel romanzo abbiamo possibilità di assaggiare fenomeni di alternanza fra scempie e doppie. 
Obligo, oblighi, obligato (4 occorrenze) alternano con obbligo, ma compaiono anche nella prima
stesura con cassati: obbligatoria, obbligava e cosa che più conta, tutte e quattro le occorrenze con
scempia derivano da correzione sulla precedente scrittura con -bb-. Il tentativo di censurare la
forma con consonante intensa, oltre come tendenza francesizzante, si giustifica per l’adesione
nella grafia all’autorità del latino.
Spesso verga dimostra di confidare nella lingua classica come guida per la rese delle intense
dell’italiano: pubblica, pubblicamente, pubblicato, pubblicità si alternano con publico, ma in due
casi la forma scempia è instaurata sulla consonante intensa. Abbietto, alternato con abietta.
Costante la consonante intensa in ubbriaco, e del resto il riscontro con il latino non è sufficiente a
scongiurare neppure obbliare, nonostante obliati, o fibbre, nonostante fibre.
L’incidenza dell’oscillazione è ancora più evidente nei casi composti: dippiù in fine compare 11
volte, cui andrebbero aggiunte 4 occorrenze poi cancellate, possiamo aggiungere anche diggià,
sebbene, ebbene (prima si trovava anche ebene, che compariva due volte nel testo, corretta con
ebbene che compare 20 volte).
Morfologia nominale per influsso del siciliano :
Sciallo adeguato anche ai nomi di 2 classe, e l’oscillazione dei plurali labbra, labbri, dita, diti con
sperequazione a favore della forma colta e a svantaggio di quella più colloquiale. 
Il presente monosillabico fo fiorentino, compare solo 3 volte, dunque un numero maggiore
rispetto a faccio. 
Meno sintomatica la valutazione dell’incidenza quantitativa delle forma dell’imperfetto: sia per
quanto riguarda le uscite di tipo colto con -ea, -eano, sia per quanto riguarda l’uscita della 1
persona in -o, -a. Si verifica una forte resistenza della forma antica solo per avea, confermando
l’impressione di fossile che avevamo diagnosticato già per quota forma. Un puntuale riscontro su
tutto il romanzo conferma che non solo l’innovazione fiorentina è accolta in maniera sistematica
nella fase ultima dell’elaborazione attestata dal manoscritto, ma che essa è già stata introdotta
nella primitiva scrittura, tanto da poter affermare con sicurezza che Verga si è autoimposto di
aderire alla funzionalità della diversa desinenza fra 1 e 3 persona singolare, fra la scrittura di Una
peccatrice e la composizione di Frine.
Nell’ultima fase di elaborazione troviamo solo un dovettimo. Fra il 1866 e il 1869 dunque è
ancora fedele alle precedenti modalità di coniugazione del perfetto, ma nella fase di revisione di
frine inizia a eliminare le forme antiche per quelle della lingua comune.
Assistiamo anche alla prima penetrazione di quelle forme analogiche in -etti, -ette che invece
erano completamente assenti in Carbonari. Troviamo ancora potei, sedei, ma anche ricevetti,
sedetti, dovetti, credetti, temetti, vendetti, mentre nella 3 persona troviamo solo potè, altrimenti
sedette, dovette ecc.. per il congiuntivo presente la 2 persona singolare è abbi, sappi.. la 3 plurale
del verbo essere è sieno, senza alternative.
La letterarietà viene ancora pesantemente la lingua verghino in materia di uso dei pronomi. Al
normale egli, si associa ancora l’ormai disusato e letterario ei, ella, già segnalato come un
elemento arrugginito e letterario, mentre solo occasionalmente affiora lei, ma solo come forma di
cortesia. In funzione di soggetto, al maschile compare quegli, costui, colui. 
Ancora un a volta l’uso del passato remoto tradisce ancora la sicilia nell’autore.
Un elemento di congiunzione interfrasale impacciato e rigido che è attestato in tutti i romanzi
catanesi, consiste nella formula di cui + sostantivo articolato per esprimere appartenenza. 
Elementi di sicilianità, si intravedono ancora nella reggenza preposizionale dei verbi, come : oh
signora, son galantuomo e non tocco alla roba altrui.
Lezione 27

Tra il 1865 e il 1869 si supponeva che per questi anni un unico soggiorno interamente fiorentino
più volte interrotto dai ritorni presso casa. Dopo la pubblicazione di Una peccatrice, non si hanno
per 3 anni alcuna notizia dello scrittore. Ora sappiamo che in questo periodo si è dedicato non
solo all’elaborazione di Frine, che sarebbe poi diventato Eva, ma anche alla composizione della
commedia I nuovi Tartufi, nella quale mise in scena l’acceso antagonismo che caratterizzò la
campagna elettorale in vista delle elezioni politiche dell’ottobre 1865. L’interesse di verga per il
teatro, inaugurato da questa opera, proseguirà negli anni successivi, anche se gli esiti pubblici
tarderanno a venire. Dal 1869 è rose caduche, anche’essa rimasta inedita a lungo, nonostante
fosse stata apprezzata da dall’Ongaro. Negli stessi anni ci sono progetti per L’onore, mai portato a
termine ma ci sono stati solo abbozzi inediti.
Se la visita nel 65 non aveva consentito a verga di entrare nei salotti che animavano la vita
intellettuale di Firenze capitale, così non fu per i soggiorno del 69, protrattosi dalla fine di aprile e
gli inizi di settembre. Delle frequentazioni che aveva intrapreso in quei mesi abbiamo
testimonianza grazie alle lettere alla madre, in realtà a tutta la famiglia, che verga scrisse
regolarmente, di solito due a settimana, ma anche più spesso.
Fin dalla lettera del 1 maggio alla madre, menziona le lettere di presentazione che dovevano
indurlo nell’ambienta fiorentino. Dopo qualche tempo verga iniziò ad usare i biglietti di
presentazione che l’amico Mario rapisardi aveva indirizzato a Francesco Dell’Ongaro e a Rosa
Ludmilla Assing, i cui salotti erano il luogo di ritrovo di numerosi letterati, fiorentini o residenti di
Firenze. 
Dell’Ongaro, di origine friulana, ex sacerdote e attivo protagonista dei moti del 48 e della
repubblica romana, si stabilì a Firenze dopo anni di esilio a Bruxelles nel 1859, dove si manteneva
insegnando letteratura drammatica presso la scuola di declamazione e dove pubblicò le sue
novelle. L’ambiente democratico e repubblicano che caratterizzava casa sua era quello del salotto
della Assing. Abbiamo testimonianza quindi dalle sue lettere che gli incontri con la famiglia
dell’Ongaro divennero quasi giornalieri. Francesco inoltre aveva proposto subito a verga di fargli
leggere i suoi lavori, editi e in corso di elaborazione e il giovane verga lo fece, ricevendone in
cambio consigli ed incoraggiamento.
Lezione 28
La capinera uscì prima in 15 puntata fra il 16 maggio e il 22 agosto del 1870 sul “Corriere delle
dame”, pubblicato a Milano da Alessandro lampugnani, poi presso il medesimo editore in volume
nel 1871. Storia di una capinera fu il primo grande successo di Verga. Emilio Treves, editore che
aveva rifiutato ne 1869 Frine e anche la Capinera, nel 1873 si ravvide e allo stesso momento in cui
pubblicava i successivo romanzo verghiamo, ripubblicava in rivista sin volume Storia di una
capinera di cui curava il battage pubblicitario con grande avvedutezza commerciale.
L’edizione di Lampugnani era stata recensita su un numero abbastanza alto di giornali, ma a parte
i casi di Vittorio Bersezio e di Angelo de Gubernatis si era trattato di giornali e nomi di provincia,
secondari e poco diffusi. Quando il romanzo fu ceduto gratuitamente a Treves per cinque anni nel
1873 l’editore sollecitò e scrisse lui stesso recensioni presso i principali giornali milanesi e
nazionali, tanto che Salvatore Farina, nel 1910, ricordava quella inondazione promozionale.
Il tema della monacazione forzata, che si trova al centro del romanzo di verga era stata
inaugurato in francia da Denis Diderot con il romanzo memoriale La RÉligieuse terminato nel
1780 ma pubblicato postumo nel 1796, il tema era poi stato centro anche della vicenda della
monaca di Monza. Ciò che rendeva la storia di Maria-capinera di attualità palpitante era il clima
politico e le decisioni dei governi dell’Italia post-unitaria. Non si trattava quindi soltanto di aderire
a modelli ideologici e letterari di matrice illuministica ravvivati dall’immaginario romantico, ma
piuttosto di condurre una battaglia al fianco di quei partiti anticlericali che avevano patrocinato la
soppressione di conventi e monasteri. l’impegno sociale non fu né l’unico né i principale motivo
di ispirazione di verga ormai distante dai proclami politici con cui aveva aperto all’inizio della sua
carriera i Carbonari. Nella vicenda di Maria cercava di tratteggiare il dramma intimo e personale
della protagonista. Nelle lettere alla famiglia inviate da Firenze nel 1869 verga chiedeva alla
madre alcune informazioni storiche o relative agli usi dei monasteri. La zia era stata educata nel
monasteri di santa Maria dei Greci e la madre nella badia di Santa Chiara.
Nell’introduzione, scritta in prima persona, il narratore racconta di aver visto una capinera
imprigionata che muore per il desiderio di libertà- i due bambini che la volevano in gabbia, ne
hanno decretato inconsapevolmente la morte. La madre dei due bambini poi gli ha raccontato la
storia di Maria, e a quel momento, la corrispondenza fra la morte della capinera e quella della
monaca gli è parsa evidente. Il lettore può dare due interpretazioni:
Una reale che identifica il narratore con l’autore
Una letteraria, e dunque realistica, che distingue l’autore dal narratore.
Nel primo caso risalta l’invenzione della storia da parte di un autore, ne discende anche
l’interpretazione sociale del romanzo nella costruzione del quale la parte preponderante è svolta
dal rapporto di quello’autore con il contesto storico in cui egli l’ha inventata.
Nel secondo caso il lettore accetta la convenzione del romanzo, accetta di condividere la finzione
di veridicità e nel realismo interpretativo che ne consegue, collega il narratore dell’introduzione
alla storia ipotizzando che la “madre due due bambini” sia quella Marianna a cui Maria scrive in
questa ambiguità si rimane anche quando nell’introduzione il narratore-autore afferma di aver
intitolato la storia, averle cioè attribuito un’etichetta tutta letteraria.
Lezione 29
Elementi fonetici che si rivedono anche negli altri romanzi:
Il vocalismo confermati i dittonghi dopo elemento palatale. Nella serie palatale si riconfermano
anche intieramente e intieri. Eppure in questo caso tuono sta solo come evento atmosferico e
non si riferisce nel senso tono della voce. Mentre la regola del dittongo mobile pare essere
rispettata in rincorarmi. 
Nel consonantismo non compaiono più le forme antiquate e colte come Scovrire ecc.. sostituite
ora sistematicamente da scoprire. Cambiamento pareggia cangiata una sola volta compare
sacrificio che conferma il rifiuto della sonorizzazione.
Per quanto riguarda la morfologia 
Diggià, dippiù, si affiancano anche 4 occorrenze di di più, anche se continuano ad esistere
oscillazioni fra abbietta e abietta, mentre è isolato obbligata. Chieggo non ha altre alternative, ma
veggo si affianca anche a vedo.
Compaiono inoltra 47 uscite di avo contro le 5 di ava. Si precisa però che in questi dati si trova la
conferma della tendenza verghino a sostituire con -o l’antica desinenza della prima persona
dell’imperfetto, secondo quanto verificato sull’autografo di Fine. Non è lecito fare troppo
affidamento sui dati numerici dati dai risultati della ricerca. Per fare un esempio nella
quindicesima ristampa dell’edizione Treves del 1873 che pure era uscita preso il medesimo
editore senza che verga intervenisse neppure a rivederne le bozze, l’introduzione comincia con
aveva visto, anziché con avevo visto.
Alta concentrazione di diminutivi nella prosa del romanzo dovuta probabilmente alla volontà di
rappresentare il mondo dalla parte di Maria e di caratterizzarne la semplicità, è imputabile anche
alla mimesi del fiorentino ascoltato per le strade della città: -ino (scodellino, cornicino, testolina,
fiorellini, altarino, poverina, scatolino, cappellini, stanzino, risolino).
-etto (uccelletto, casetta, camerata, deschetto, figlioletto, maliziosetto)
-uccio (capannuccia).
-ello (meschinella, Monticelli, grandicello)
Altri toscanismi che si attestano nel romanzo sono : piccino (3 occorrenze contro le 23 di piccolo),
ruzzare, babbo ( 45 occorrenze che superano quelle di padre, che sono invece 43), desinare e
gretole. 
Componenti colte e letterarie del lessico
Castaldo: 12 occorrenze per “fattore”, 1 per fantesca, abbrucciare 1 si alterna con bruciare. 
Mi fu d’uopo.
Sul piano della sintassi permane la formula arcaica e impacciata di cui+ nome articolato per
indicare possesso.
Novità morfo-sintattica a favore di un linguaggio informale e quotidiano di marca toscana,
l’adozione della forma impersonale per esprimere la 1 persona plurale: “si mena, si chiacchiera
ecc..”
La studiata struttura del brano si manifesta fin dall’organizzazione spazio testuale dei capoversi: 4
paragrafi di differente lunghezza (indicati con a,b,c,d) distribuito secondo un modulo di
alternanza (ad un paragrafo più lungo segue uno più breve ecc…). Il riconoscimento di tale
struttura consente di verificare a livello di impaginato la sostanziale bipartizione semantica e
testuale: la storia vera della capinera posta in gabbia, con il commento finale che ne sancisce la
fine corrisponde, nella concretezza della pagina e del testo, alla storia inventata della suora-
capinera, anch’essa commentata, stavolta però a livello metatestuale. La coesione fra i capoversi
e il parallelismo fra i due paragrafi più lunghi A e C è ottenuta mediante la cosciente ripetizione di
singoli elementi lessicali o più ampi elementi frasali che rafforzano quanto, a livello semantico
viene affermato circa la correlazione fra l’uccellino e Maria.
La principale opposizione /correlazione fra i paragrafi A+B, C+D avviene contemporaneamente sul
piano cronologico e su quello esperienza. Le due sezioni infatti collocano l’esperienza visiva della
prima sezione e uditiva della seconda su due livelli cronologici diversi, tenuti sapientemente
distinti. Verga sa ora gestire i tempi con calcolata gradazione. Il trapassato prossimo è sostituito
dal passato remoto e infine, nel paragrafo d dal passato prossimo con il progressivo
avvicinamento al presente della storia raccontata giorno per giorno dalla protagonista. 
La descrizione della capinera, proprio perché si tratta di un uccellino suscita compassione
piuttosto che senso della tragedia, esprime condivisione simpatetica con le sofferenze
dell’animale ma senza mai oltrepassare la soglia che ci condurrebbe dritti al dramma. I diminutivi
per la gran parte, tutte le iterazioni e tutte le disposizioni finali di partecipazione emotiva son
concentrati nei capoversi a o b, sono dunque focalizzati sulla tapinerà e non su Maria. Ed è solo
sulla capinera che si attribuiscono i qualificativi che esprimono compassione del narratore.
Lezione 30
Periodo fra rientro a Catania nel 1869 e il 1872 ci sono solo 4 lettere di verga. Una a Francesco
dall’ongaro, una a Caterina Percoto e una a Luigi Capuana con il quale l’amicizia era iniziata
proprio a Firenze e infine una allo zio Salvatore. Le lettere sono tutte scritte a Catania.
Il 13 novembre del 1872 però annuncia a Capuana che sarebbe partito per Milano. Gli chiede
anche se potesse presentarlo a qualche editore o direttore di qualche giornale. Capuana fornisce
quindi a verga una lettera di presentazione per Salvatore Farina allora già redattore della “Rivista
musicale” e della “Rivista Minima”, poiché nella lettera del 7 febbraio 1873 Verga, da Milano ,
scrive all’amica il sindaco di Mineo. Concluso quindi i primi del mese, il 21 febbraio successivo il
nuovo romanzo poteva essere promesso all’amico. È probabile quindi che soltanto a ridosso del 5
aprile fosse stata scritta la premessa che accompagna il romanzo a stampa, come si deduce dalla
lettera inviata da verga a Capuana proprio quel giorno.
Eva uscì nell’estate del 1873 con una premessa con la quale verga spera di prevenire le obiezioni
moralistiche sul romanzo. La premessa interpretava la storia d’amore della ballerina Eva e del
pittore Enrico Lanti per tanti tratti narrativi e tematici affine alla storia raccontata in Frine. Gli
articoli scritti dal martini all’uscita di Eva erano due delle molte recensioni che aveva sollecitato
l’autore all’uscita congiunta della seconda edizione di storia di una capinera e di Eva., non mendo
di 14 recensioni che avevano salutato, nel bene o nel male, il nuovo romanzo, perché il martini ne
avesse scritto addirittura 2 lo raccontava lui stesso nel secondo suo intervento dal titolo domando
la parola. Tutte le recensioni toccarono la questione della trama e della morale, ma talora
affrontavano anche quello della lingua. Carlo d’ormeville tocca anche l’argomento della lingua :
stile facile, lingua italianissima, ma di quella che tutti conoscono, di quella che si parla dalle
persone ammodo, non di quella che si pesca fatica nei vortici della Crusca. Questo è l’unico
commento positivo sulla lingua ma ci sono molte riserve di lingua e di stile parecchio pesanti.
Forma scorretta, là dove il pensiero si eleva sulle ineleganze del linguaggio parlato, siamo ancora
a quelle ineleganze. Lo stile è rotto asmatico, abbondante di francesismi e di idiotismi. Ed è pure
povero. Si ripetono con molta frequenza in una pagina, in un periodo, in una linea, gli stessi modi
di dire, le stesse parole.
Angelo de Gubernatis punta il dito tanto sullo stile quanto sul lessico: espressioni conformi,
improprie o ineleganti, o false o esagerate più contorte e forzate che energiche, le quali sentono
forse l’ebbrezza, la voluttà, lo spasimo, il delirio, il fascino o qualsiasi altra consimile
perturbazione dell’animo, ma ancora più l’assenzio forestiero.
E ancora “la narrazione procede rapida, viva, colorita… e se ne togli forme e immagini
strampalate, le frasi e voci di cattiva lega”- “le immagini, accavallandosi l’unica sull’altra in un
barocchismo inelegante, tolgano Goni evidenza al pensiero”.
Verga seguiva molto attentamente le recensioni su Eva, doveva essere da poco uscita quella
anonima sulla rivista minima quando il 4 settembre 1873, lo scrittore inviava a Treves un biglietto.
“ sono convinto di non essere del tutto fuori di via, e non vorrei scrivere come Fanfani, neanche
se mi facessero accademico della crusca.”
Il purismo di Fanfani patrocinava il modello d’uso toscano e fiorentino, avverso ai francesismi e ai
forestierismi, convinto dell’esistenza di fatto di una lingua italiana già esistente su base fiorentina
che rendeva inutili le lamentele di quanti, dietro Manzoni, rivendicavano la necessità di interventi
a favore di un’unità linguistica da conquistare che per lui già c’era nei fatti tanto da fargli
pubblicare nel 1868 un volume la lingua italiana c’è stata, c’è e si muove.
Della difesa a suo nome sulla moralità di Eva, Verga ringrazia il Martini dalla Sicilia, dove era
rientrato il 10 ottobre 1873 e da quell’episodio nacquero reciproca stima e amicizia.
Lezione 31
Le obiezioni fatte sul romanzo riguardavano vari aspetti; il lessico in primo luogo, ma anche
soprattutto contorsione sintattica : barocchismo di immagini in cui si riaffaccia l’enfasi romantica
della giovinezza, magari rinfocolata dalla rilettura di Frine al momento di riscriverlo in Eva. La
critica tuttavia ha riconosciuto uno snodo artistico importante, sia nella gestione sapiente dei
momenti di dinamicità e di stasi, sia nella piena percezione dell’autonomia dei tempi della storia
narrata e dei tempi del racconto, sia nella costruzione del discorso riportato.
L’analisi linguistico-stilistica del romanzo può proseguire per 2 livelli:
Carattere micro-testuale secondo il quale il testo viene valutato per scelte linguistiche puntuali,
sia che lo si guardi in maniera statica, dinamica. In tale prospettiva possiamo infatti: a) descrivere
la lingua di Eva oppure b) individuare il percorso fatto da verga nel riscrivere Frine in Eva. Si userà
quindi b1) una prospettiva più generale, mettendo a confronto il capitolo 1 del vecchio romanzo e
la prima partizione testuale di Eva, ma anche b2) un approccio più dettagliato che metta a frutto il
movimento variantistico che è possibile ricostruire comparando il capitolo 30 di Frine, che è
l’unico ad essere riusato, sebbene in una nuova e più efficace collocazione narrativa, con l’epilogo
di Eva.
Macro-testuale che analizzi le strategie narrative di Eva e che analizzi quindi a= il rapporto fra
autore e narratore e le modalità di narrazione, b) la gestione dei tempi narrativi in rapporto al
tempo della narrazione, c) il rapporto fra discorso riportato, discorso riferito e narrazione vera e
propria.
La presenza anche in questo romanzo di un pezzo iniziale con funzione di introduzione o
premessa mostra tentativi vergini di chiarire a se stesso i diversi ruoli delle voci che si intersecano
nel romanzo moderno. A parlare nei carbonari è l’autore storico, non implicito che si
autorappresenta appunto all’atto della scrittura, parziale e intenta per un periodo e poi ripresa,
coinvolto com’è negli eventi del suo tempo.
Assenza di una premessa in Una peccatrice nella quale campeggia solo il narratore, personaggio
interno, che conduce una narrazione opaca e che il fatto è che si tratta dell’autore della redazione
scritta della storia d’amore di Narcisa e Pietro. L’ onniscenza del narratore è almeno in parte
tutelata dall’ambiguità del suo statuto.
Centrale è la presenza del narratore (anche in storia di una capinera), sebbene con caratteristiche
divergenti. In storia di una capinera infatti il narratore si rappresenta come un personaggio nella
premessa ma nel testo delega la conduzione della storia alla voce di Maria, a suo modo
conseguendo una sorta di oscuramento del narratore a cui viene attribuito solo un ruolo
editoriale delle lettere della protagonista.
In frine il romanzo è gestito da un narratore-personaggio interno amico del protagonista di cui
riceve le confidenze, ma egli stesso personaggio attivo stavolta, non solo perché anche in questo
caso egli conosce gli personaggi e dialoga con essi, ma soprattutto perché egli prende parte
all’azione sia accompagnando Deforti sul lago maggiore e poi facendogli da secondo in occasione
del duello, sia visitandolo quando ormai è moribondo. Infine difendendone la memoria dopo la
morte.
Eva non ha partizioni interne fortemente strutturate, ma è scandito da un tripletta di asterischi
che pausano la narrazione, senza mai bloccarla. Differenza con frine: non riguarda solo l’aspetto
paratestuale, ma la conquista di una libertà e scioltezza nell’organizzazione delle pause e
dell’avanzamento della storia che corrisponde alla conquistata distinzione fra tempo cronologico
della storia narrata e tempo letterario della sua narrazione.
La velocità e la naturalezza del dialogo si può misurare sia nella dislocazione dei verba dicendi che
con varia disposizione si collocano, prima, al centro e dopo il discorso diretto, sia nella tentata
variazione lessicale per introdurlo. Sia infine l’aggiunta di dettagli sulla recitazione delle battute.
Ma soprattutto l’alta incidenza del discorso diretto libero in cui il verbo introduttivo è omesso e lo
scrittore confida nei soli indicatori grafici per segnalare il cambio di emittente.
Lezione 32
Il primo dato quantitativo ci dice del prosciugamento che vaga ha capito imporre alla propria
prosa giovanile rivendendola a distanza di tempo. Dalle 901 parole che costituivano il primo
capitolo di Frine si è passati a 712 parole nel corrispondente tratto di eva.
Riduzione delle dittologie, abusate in Frine, così come della maggiore asciuttezza
nell’aggettivazione rigogliosa e sovrabbondante del romanzo inedito e infine della cancellatura
dell’ostentata esposizione dei dettagli descrittivi che caratterizzavano la redazione del romanzo
giovanile. (Sono quasi scomparsi del tutto i forestierismi alla moda) e delle varie ripetizioni inutili
alla progressione del racconto. Ma la maggiore concisione è ottenuta anche tramite la
cancellazione del dialogo finale fra il narratore e Vittorine e delle considerazioni del narratore
sulle proprie impressioni. Il brano è più ordinato, organizzato com’è in Eva in quattro capoversi
che descrivono la protagonista femminile, ne forniscono i dati anagrafici, raccontano le condizioni
del duplice incontro e infine registrano il mutismo finale della compagna del narratore. 
Il narratore assume un’aria più scanzonata, ne consegue che il giudizio piattamente moralistico
espresso in Frine viene sostituito dal riconoscimento, oggettivo e a posteriori, con cui il narratore
dichiara di aver subito anche lui il fascino esercitato dalla donna.
Divaricazione temporale fra il momento della narrazione e il momento in cui sono svolti i fatti
narrati. Il narratore in Eva scrive a distanza di tempo prende dunque le distanze da un tempo in
cui egli era altro da quello che è ora e dalla vicenda alla quale ha partecipato, ma che egli
racconta più in presa diretta e che rianalizza alla luce di un’esperienza maturata nel frattempo. 
Dal punto di vista linguistico micro-testuale va segnalato che verga :
Ha sanato le incongruenze temporali che avevamo notato nell’uso dei tempi del capitolo 1 di
Frine
Ha risolto la fatica sintattica di Frine 45-46
Ha esteso anche a eva la formula pseudo impersonale per esprimere la 2 persona plurale che
aveva imparato ad usare in storia di una capinera.
Per quanto riguarda la parte finale di eva: la storia dell’ultima lassa è lunga: scritta fra il 1866 e il
1869 come capitolo 30, e penultimo di Frine, essa fu poi riutilizzata nel nuovo romanzo fra la fine
del 1872 e i primi mesi del 1873. Le modifiche imposte dall’autore si tratta di aspetto lessicale e
sintattico, piuttosto che fono-morfologico e che si concentrano per lo più nel passaggio da Frine a
Eva ma che non mancano neppure nell’ultima fase, relativa alla correzione delle bozze.
È evidente che mira a quella disinvoltura e spontaneità che ammirava, proprio in quegli stessi
anni, negli scritti di Martini. 
Il percorso di lento avvicinamento alla lingua viene concluso con questo romanzo per quanto
riguarda i passati remoti flessi secondo la coniugazione dei verbi forti: usati nella prima scrittura
di Frine, cancellati per la revisione del romanzo. Rimaneva dovettimo, che alla fine viene mutato
in eva 14 in Bisognò. A parte questo, la censura nei confronti del siciliano si manifesta nel lessico:
in eva 200 stradone viene corretto in Treves con stradale poiché stradone viene percepito come
corrispondente con fonetica toscana del siculo STRATUNI. Ancora per due volte, viottolo viene
sostituito con viottola. Alla primitiva scelta avrà contributo il genere maschile del corrispondente
siciliano violu.
Costante atteggiamento anti-dialettale dello scrittore, mentre alcune correzioni confermano le
acquisizioni di toscanismi e fiorentinismi. Assistiamo quindi all’introduzione di mamma, figliuolo,
rifinito, mica, cotesto, e altri ancora. 
Mamma compariva fin da Frine, con il valore allocutivo e nello stesso uso viene inserito in Eva in
sostituzione di Madre mia! 
Madre invece comprare 9 volte nel nostro capitolo e altre cinque volte nel resto del romanzo,
mentre mamma compare in eva altre 3 volte, sempre con connotazione fortemente patetica e
colloquiale. 
La correzione di figliuolo su figlio si configura come ricorrente, ma non sistematica. Figliuolo è
introdotto sulla stampa a 20, e 175, ma era già stato usato come allocutivo a partire da frine a
185. Altrove sempre figlio.
Rifinito è introdotto in 111 in eva su sfinito ma rifinite appare anche in un brano poi cancellato in
corrispondenza di eva 113,
Mica introdotto in frine 73, è stato poi cassato in eva, anche l’adozione di cotesto risale a eva
risultando coevo ad alcune della altre acquisizioni fiorentine.  Ricorre in eva altre 39 volte,
frequenza molto alta confrontandola con quella di questo. Si rileva un uso complessivo improprio
di cotesto che dimostra le sostituzioni operate nell’elaborazione stilistica non indica, come in
toscano, la contemporanea vicinanza dell’oggetto all’interlocutore e la sua lontananza come
emittente, ma sostituisce questo, toscanamente, perciò anche a 105 in cui l’uso di cotesto
sarebbe corretto se fosse riferito alla sanità e alla robustezza dell’amico a cui Enrico si rivolge,
andrà inteso come meccanica traduzione toscana di questa.
Sinonimi restare/rimanere : la prima stesura mostrava una preferenza per restare, con un
rapporto 5 a 3 in favore di quest’ultimo. Il testo definitivo rivela il volontario capovolgimento dei
rapporti, recando restare in 1 solo caso, in seguito a cassatura o sostituzione con rimanere, o
introduzione di quest’ultimo all’altezza di eva. Non c’è dubbio che per verga abbia funzionato in
prima istanza la volontà di inserire un toscanismo concomitante, però l’urgenza di eliminare un
termine che consuonava troppo vicino con il siciliano ristari arristari.
Levarsi nel significato di alzarsi in piedi. In eva si identifica una netta preferenza di levare, contro
alzare, quando significa “tirar su, alzarsi in piedi”. In questo senso la forma riflessiva alzarsi ricorre
in 8 casi, mentre levarsi compare solo in 3 casi, fra i quali i due del nostro capitolo sono il risultato
di correzione da alzarsi. Che in questi casi stia cercando di sganciarsi da scelte lessicali che gli
sono più naturali pare confermato.
Occorre considerare anche l’ipotesi esplicativa unificante, già accennata sopra, che attribuisce
quelle correzioni alla ricerca di una lingua sostanzialmente asinonimica.
Poco significativo è il caso della riduzione della forte occorrenza di dire, mentre più interessante è
la sostituzione quasi totale di aggiungere con soggiungere. La preferenza accordata a soggiungere
non può essere altrimenti spiegata che con l’aspirazione dello scrittore ad una lingua puntuale ed
univoca. In questo senso va spiegata la correzione di dopo un momento a dopo alcuni istanti e le
cassature. La censura di momento non può spiegarsi con un solo aspetto lessicale, data la
parallela ma inversa correzione di 163. Si tratterà invece di censura semantica, che riserva a
momento un esclusivo valore temporale puntuale, mentre a istante è delegato il valore durativo
riservato anche a secondo.
Lezione 33
Verga aveva etichettato i propri romanzi giovanili una peccatrice e Frine fra i bozzetti e gli schizzi,
denominazioni spesso adottate nella seconda metà dell’ottocento, per la narrazione breve, la
novella piuttosto che per la forma lunga. Nell’ottocento, la narrazione breve aveva recuperato
vigore per il bisogno di realismo sempre più percepito che si rifletteva anche nel tipo di metafore
adottate per la designazione del genere, sempre più di frequente desunte dall’ambito pittorico e
della rappresentazione figurativa. Per designare la narrazione breve si ricorre a scenetta, racconto
e raccontino ma anche bozzetto e schizzo, mediante i quali rappresentare il colore di un
ambiente. La nascita del bozzetto e della sua denominazione sono da attribuire a Roberto Fedi.
Egli ne vede una correlazione cronologica e ambientale con la maturazione dei primi anni 60 a
Firenze della corrente figurativa dei macchiaioli.  Traccia la diffusione del termine nel senso
letterario di certi brevi scritti, nei quali si ritrae la indole di qualcuno, l’aspetto di un luogo e i
costumi di un popolo. Nel definire il romanzo una peccatrice come un “bozzetto” verga si
dimostra molto avanti con i tempi perché è solo negli anni successivi che si estende come moda
dalle riviste fiorenti a quelle di tutta italia. Mancano infatti tutti quelli che sono i caratteri propri
del bozzetto maturo, quelli che invece si denotano in De Amicis.
Verga riconosce la superiorità ideologica al genere del romanzo. Per questo motivo che dilaziona
al 1874 la sua scrittura della prima novella.
Rientrato a Catania dopo la pubblicazione di Eva, nella città di origine si trattiene fino al gennaio
dell’anno successivo per poi ripartire per Milano, fiducioso di proporre al Treves un nuovo libro
scritto da lui Tigre reale. Il romanzo invece non piacque all’editore che invece di rischiare di fargli
mettere a repentaglio il successo ottenuto da Eva gli propone di scrivere qualche racconto corto
per i suoi giornali, ipotesi che verga prendeva in considerazione solamente se le condizioni
economiche fossero state vantaggiose.
Il 29 gennaio Verga riferisce della proposta fattagli da Samuele Ghiron di collaborare ad una
nuova rivista con l’invio di racconti, egli parla quindi di novellette e anche a fronte di un vantaggio
economico certo, esprime la propria perplessità: gli rincrescere doversi “ridurre” a queste
pubblicazioni di poco conto, specie il nome che si era costruito con Eva. Tuttavia, ormai una
buona fonte di guadagno era fare questi brevi racconti per i giornali e quindi non poteva tirarsi
indietro. Tuttavia già a febbraio di quell’anno scrive alla madre, dipende che sta collaborando per
rivista italiana, e ha già scritto una novella in 3 giorni, che gli frutteranno il guadagno di un mese.
Verga stesso definiva il suo lavoro come una cosa minore, definita da lui più volte come lavoretto,
cosettina, vera miseria ecc.. e nemmeno lui meno di tutti si aspettava l’enorme successo di
Nedda. Pubblicata per la prima volta in rivista italiana di scienze, lettere e arti il 15 giugno 1874,
venne ristampata più e più volte e anche contenuta in altre raccolte. Stupisce come verga, a
ridosso della scrittura e della pubblicazione di Nedda, sul momento non fosse in grado di
riconoscere il valore intrinseco dell’esercizio appena terminato, ma nemmeno di intravedere la
fertilità di un tema e di un ambienta che affrontava per la prima volta. Insomma, ha sempre
sottovalutato il potenziale della novella.
Lezione 34
Stupisce la nascita di nedda, in quanto molto diversa dai personaggi femminili finora creati da
Verga, come per esempio basti pensare ad Eva, Nedda è invece una povera raccoglitrice di olive,
che ben si distanzia dalle donne di alta classe e piene di fascino dei romanzi precedenti. La data
viene considerata come un momento importante di svolta dell’arte verghiana. Inizia così il
capitolo del verismo, la cosiddetta conversione. Cambiano le tematiche, si passa da contenuti
riguardanti grandi duelli, amori raffinati e artisti, a passioni semplici, tragedie silenziose e
modeste di povere contadine, guerre sanguinose di uomini primitivi ecc… secondo Luigi Russo
oltre a molte novità ci sono tuttavia ancora numerosi difetti, che sono come squame di vecchie
abitudini letterarie.
Per difetti si intende probabilmente che all’occasionale adesione sentimentale delle classi umili
non ha fatto seguito un cambio di stile e di lingua.
Russo individua i difetti:
Nelle strategie narrative ovvero nella natura del punto di vista, infatti l’artista è ancora un uomo
di alta società che si interessa della vita dei poveri diavoli, e nella tipologia di narrazione che
ancora consente al narratore di intervenire con commenti e prese di posizioni.
Specifici fatti formali e linguistici ancora fortemente connotati in senso letterario.
Giuseppe lo Castro sostiene che non siamo ancora a una svolta vera e propria del verismo, ma più
che altro la grande svolta si denota nei contenuti. La svolta rappresentata da nedda è soprattutto
di carattere tematico. L’adesione di Verga al mondo degli umili e l’ingresso letterario nel genere
rusticate che nedda rappresenta, non corrispondono a mutamenti sostanziali nelle strategie
narrative messe in atto, nemmeno nelle scelte linguistiche nell’autore. Nedda ha un narratore che
si autorappresenta come appartenente a una classe superiore e differente al mondo narrato,
geograficamente distante da quello delle campagne siciliane in cui la vita si svolge, appartenente
infine ad un milieu culturale e intellettuale che fin da subito viene caratterizzato come superiore
rispetto a quello della ragazza.
Un parallelo interessante è per esempio la figura del focolare che lo vediamo sia dal punto di vista
del narratore di alta borghesia che non lo percepisce come un amico appunto perché non ne
vede l’utilità materiale, dall’altro lato il focolare percepito dalle raccoglitrici di olive che bagnate e
infreddolite si scalderebbero volentieri di fronte al caminetto, e per questo motivo il focolare per
loro è “amico”. L’ alterità del narratore rispetto all’ambiente di nedda è del resto anche culturale
se fin dall’inizio si presenta come un personaggio educato alla lettura e alle belle lettere o meglio
egli stesso letterato e scrittore.
Alla letteratura il narratore si rivolge non solo nel ritratto di Nedda ma cena nella retorica
costruzione del brano iniziale ritmato da tricola, così come è sapientemente gestita l’alternanza
dei tempi che si tripartiscono nel brano: imperfetto, passato remoto e infine il presente. E delle
persone che si dividono in due: la prima persona viene sostituita dal voi. Letteraria è anche la
costruzione del brano ma anche la sua lingua: più precisamente è la lingua che il narratore adotta
tanto nel brano d’esordio quanto nella narrazione della novella.
Analisi linguistica di Nedda
Enclisi pronominali a forme finite del verbo come per esempio : sembravami, nell’esordio e nella
novella vera e propria : cuocevasi, stimansi, voltavasi, sembrolle, sempre in brani descrittivi che
possono essere attribuiti al narratore.
Forme ingessate di participi presenti con funzione aggettivale al posto delle frasi relative: scintille
correnti, faville fuggenti, terra bruciante, vacillanti chiaroscuri…
Toscanismi di tradizione letteraria come cepperello, castaldo e castalda, cotesta, gragnuola, rezzo,
concio e da forme foneticamente antiquate come tuono e intuonò e i soliti figliuolo e
inferraiuolati, il monottongo assiolo, muricciolo che si interpretano come adesione al parlato
fiorentino, come manzonismi.
Non è da escludere che la cultura del narratore penetri anche nel dialogo riportato e finisca così
sulla bocca dei poveri personaggi del bozzetto:
Sebbene altrove la prima persona dell’imperfetto esca in -o, in Nedda esce in -a
Scodella compare, oltre che nei brani riferibili alla voce del narratore, anche sulla bocca dei
personaggi. 
“Da banda” ovvero da parte, viene detto da Janu a zio Giovanni e Janu usa anche codesto, nello
stesso uso improprio che ne fa il narratore
Ricorre spesso il modulo sintattico fiorentino di sottolineatura dell’interrogazione mediante
introduttivo O (o che fai tu costà?)
È sempre nedda a mutuare dall’imitazione del fiorentino del narratore l’uso di reduplicare il
soggetto in forma pronominale (fiorentimismo femminile la) in posizione iniziale con valore
assertivo: la è una cosa assai amara.
A dare il colore locale al bozzetto intervengono oltre ai nomi propri di persona ma anche quelli
indicati in corsivo e la canzoni di corteggiamento di Janu, ma i sicilianismi si innestano sulla trama
linguistica come delle vere e proprie macchie di colore, senza consentire un’omogeneità di resa
che forse non ci si aspetta più data la maturità di Verga.
Il narratore conduce una narrazione opaca. Questo è avvertibile lungo la novella dalla ricorrenza
dei commenti: il primo l’atteggiamento di condivisione filantropica e al contempo di onniscienza
nei confronti della vita passata di Nedda, il secondo mostra l’appartenenza nel narratore ad un
livello sociale differente da quello di Nedda.
Accanto al discorso del narratore e accanto al discorso riportato del dialogo esistono dei momenti
numerati nei quali Verga inaugura uno stile nuovo e possibile senza che se ne renda quasi conto ,
tanto esso è congiunto e si interseca con il discorso tradizionale. Utilizza il discorso al quale si
unisce un commento degli astanti o un inespresso giudizio del fattore sul proprio operato.
Lezione 36
Novelle di vita dei campi
Dal punto di vista tematico, senza dubbio Nedda apre la strada a un tipo di narrativa che si pone
l’obiettivo di indagare la realtà delle classi più basse del mondo siciliano. Tuttavia, inaugura anche
il laboratorio novellistico verghiamo in quanto rappresenta la scoperta di una misura breve,
concentrata in cui lo stile può essere sperimentato quasi in vitro, e che consentirebbe proprio per
la sua misura di tenere ancora dischiuso il mondo elegante del romanzo. 
La novella si rivela così il nuovo banco di prova, il terreno delle sperimentazioni stilistiche e
tematiche più ardue. Continua a impegnarsi nella redazione e riscrittura di eros e tigre reale, nella
seconda metà del 1874 e per tutto l’anno successivo verga pubblica su varie riviste alcune novelle
che nel 1876 verranno riunite in un volume con il titolo di Primavera ed altri racconti .
Tuttavia, dal 1876 al 1879 abbiamo un momento di silenzio in quanto coincidono con gli anni di
morte rispettivamente della sorella, e poi della madre.
Nel 1875 aveva cominciato però a scrivere il bozzetto marinaresco padron ‘Ntoni, rammentato in
una lettera di quell’anno a treves che lo aveva giudicato ancora insoddisfacente. Nel 1878
pensava già di tramutarlo da bozzetto a romanzo vero e proprio e includerlo in un ciclo che si
sarebbe chiamato i malavoglia e che cercava documentazione paremiologica siciliana per poterla
poi utilizzarla nel romanzo.
La raccolta vita dei campi esce nel 1880 salutata dalla recensione di Capuana che mette accento
anche sul silenzio di Verga per diversi anni, durante i quali stava anche scrivendo padron ‘Ntoni.
La raccolta è costituita da:
1 Fantasticheria
2 Jeli il pastore
3 Rosso malpelo
4 Cavalleria rusticana
5 La lupa
6 L’amante di gramigna
7 Guerra di santi
8 Pentolaccia
La prima edizione andò a ruba e fu editata nuovamente nella primavera del 1881, includendo
anche una novella che era stata scartata l’anno prima. Alla compagine originaria si torna nel
1897, quando ancora presso Treves fu pubblicata una edizione di lusso completamente illustrata. 
Le novelle presenti nella raccolta sono state pubblicate precedentemente su diverse riviste fra il
1878 e il 1880.
Quanto questa raccolta fosse importante si desume dalla concentrazione con cui nelle novelle
che compongono la raccolta si affollano le dichiarazioni di poetica: basti pensare come
nell’Amante di gramigna esponga la teoria dell’impersonalità o come in Fantasticheria invece parli
della lucida presa d’atto dell’alterità dello scrittore rispetto al mondo narrato.
Nell’amante di Gramigna
Enunciazione di una corrispondenza fra fatto reale e sua rappresentazione verbale. Possiamo
notare qui come Verga pensi che la perfezione dell’opera di scrittura sta nella naturalezza del
reale, la mano dell’autore deve infatti quasi sparire, essere impercettibile.
In Fantasticheria
Viene enunciato il cambio del punto di vista adottato dallo scrittore e proposto ai lettori.
(Rappresentati dalla donna elegante che ha passato 48 ore ad ali Trezza annoiandosi).
***
Verga deriva dalle riflessioni e dagli esperimenti letterari francesi di quegli stessi anni (ad esempio
Gustave Flaubert, Emile Zola) la teoria dell’impersonalità che è un’etichetta piuttosto che una
strategia ben delineata e univoca di tipo narrativo, stilistico o linguistico. Questo consente di
mettere l’accento sulla posizione dell’autore rispetto alla realtà narrata. Compito dell’artista è
registrare la natura del mondo e dei suoi eventi senza intervenire a modificarli.
Ogni autore tuttavia poi interpretava la sua scrittura a proprio modo. Zola per esempio concepiva
l’impersonalità come un metodo di laboratorio, la sua impersonalità è l’atteggiamento distaccato
e impassibile dello scrittore che si vuole scienziato e osserva con rigore sperimentale e neutralità
gli accadimenti del racconto.
Romano luperini nel suo pessimismo e verismo in Verga individuò tracce fin dai romanzi giovanili
di un atteggiamento che potremmo definire di impassibilità piuttosto che di impersonalità. Si
tratta si un atteggiamento diverso da quello che poi Verga teorizza. L’impersonalità in questo caso
consiste nella possibilità di servirsi di narratori interni alla rappresentazione che di questa
condividano in parte la realtà e che siano lontanissimi dall’autore. C’è possibilità quindi per una
scrittura fitta al contrario dei modelli francesi, di interventi e opinioni della voce narrante che
attivano una certa cautela del lettore. A perdere la propria personalità è l’autore che scompare in
quanto tale, perché da produttore diventa mero strumento.
Per conseguire tale effetto Verga deve perdere la propria lingua e i propri connotati per assumere
la lingua degli altri. Le lingue degli altri, di volta in volta strumenti diversi a seconda degli
ambienti e degli strati sociali rappresentati.
Lezione 37
Alla ricerca della caratterizzazione stilistico-espressiva di Pentolaccia partire da un dato come
quello del numero e le caratteristiche delle apocopi. Questo fenomeno fonetico, noto nell’Italia
centro-settentrionale e diffuso nelle condizioni toscane per il tramite della letteratura, si era
specializzato e connotato nella lingua letteraria per l’ampia funzionalità detenuta a scopo metrico
nella poesia. Hanno quindi in Verga una connotazione fortemente letteraria soprattutto nella
lingua di un autore meridionale. Si riconosce quindi nelle apocopi una traccia della lingua
letteraria faticosamente conquistata da Verga per liberarsi del suo dialetto. Tuttavia è soltanto al
momento della revisione sull’autografo che introduce la forma apocopata su quella intera.
Tutte le correzioni introdotte da Verga colpiscono infiniti verbali, categoria grammaticale per la
quale la diffusione dell’apocope era massima nella lingua. A queste apocopi se ne affiancano altre
che interessano forme per le quali la lingua non offriva alternative, o per quelle per le quali
l’alternativa non apocopata esisteva. 
Si può ipotizzare che quasi il 50 per cento dei trentacinque casi di infiniti verbali non apocopati,
trovandosi davanti a vocale iniziale, potessero essere mentalmente elisi. Questa ipotesi mette la
novella come un testo pronunciabile, eseguibile seppure mentalmente, o da un altro punto vista
che per verga la finzione, che stavolta il narratore sia non più uno scrittore di storie ma un
narratore popolare che racconta oralmente.
Dettagli sulla ricerca dello stile:
Piagnuccolare/ piagnucolare : vale la pena in questo caso prendere Ferruccio Cecco a proposito
dei malavoglia. Nell’autografo del capolavoro la forma con la cc è molto frequente ma
nell’edizione treves del 1881 essa rimane solo una volta. Ciò avviene anche per Vita dei Campi,
delle 4 occorrenze della forma con doppia consonante, nessuna sopravvive all’edizione treves del
1897.
Scomparsa forma di -v- nelle forme imperfetto: alla fine del 19esimo secondo l’imperfetto in -ia
era ormai scomparso, anche in quello in -ea, pur non potendo essere considerato un tratto
decisamente aulico o poetico, era limitato ad alcuni verbi di uso frequente, e in particolare avere,
dovere, potere e volere. In Pentolaccia si riscontra la forma piena di va- fatto salvo per due
eccezioni. Piaceva risulta da una correzione precedente di Piacea. Non è un verbo di uso
frequente quindi la sua presenza forse è dovuta a un residuo di quella lingua letteraria che il
verga aveva imparato dal suo precedente tirocinio letterario ma che egli intendeva censura dalla
sua esperienza verista.
Per quanto riguarda invece il secondo caso di veniva che è poi corretto con venia, decisamente
arcaico, si deve far ricordo alla somiglianza della scena di Don Liborio che si dirige verso casa di
Venera per il consueto incontro, e la scena di Don Abbondio nei Promessi sposi, appena prima di
incontrare i bravi. In questo caso la scelta della forma più letteraria venia collaborerebbe a
rendere meno opaca questa allusione.
Per quanto riguarda la morfologia
Vegga: Luca Seranni ha diagnosticato con riscontri la diffusione durante tutto il 19esimo secolo
delle forme del verbo vedere con tema in consonante velare. Ma poiché in vita dei campi Verga
usa vedo e non veggo, Daria Motta propone di giustificare la scelta del termine veggo in questo
caso con il fatto che qui il verbo sia in congiuntivo. Tuttavia, poiché le forme in go sono state
sostituite già in Eva con le forme in -do, c’è da chiedersi come mai qua invece fa il contrario,
andando anche a correggere veda che aveva già scritto in vegga.
Importanza in questo caso contribuisce anche il contesto, che ha innescato un gioco linguistico
con traveggole. Questo avverte quindi che forme percepite dall’autore stesso come arretrate
all’interno della personale acquisizione linguistica possono essere riusate con effetto marcato o
come forme appartenenti a livelli cronologici diversi dall’idioletto dell’autore.
Per quanto riguarda invece i pronomi personali soggetto di 3 persona. Si alternano egli (5
occorrenze) ei (3 occorrenze) e lui (7 ricorrenze). Ei,  pur essendo una forma letteraria e antiquata
è ancora molto in voga nell’800 e Verga se ne libererà solamente nei tardi anni 80, anche se già
qui si avverte la tendenza a utilizzare criteri di variatio con tutte e tre le forme disponibili.

Dal punto di vista sintattico


Cancella due casi di enclisi a forme verbali finite : dovevasi pagare: doveva pagarsi, già facevasi:
cominciava a farsi. Risponde così all’esigenza di eliminare forme percepite come letterarie e
ingessate anche se per noi doveva pagarsi risulta molto formale a causa della mancata risalita del
clitico. 
L’espunzione dell’enclisi a forme verbali finite, che viene sentita come arcaica, corrisponde in
positivo a una lingua parlata e caratterizzata da :
Che polivalente: utilizzato di volta in volta con valore causale, temporale, conclusivo al posto di
oppure come connettivo di valore semantico indistinto (corrisponde al ca siciliano).
Da un abuso di e al posto di connettivi subordinanti: spesso usato per esprimere subordinazione
Da marcature attualizzanti: sottolineatura attualizzante ottenuta di frequente con CI che compare
come locativo ridondante.
Riduplicazioni pronominali e avverbiali e ripetizioni lessicali: ridondanza si veda in primo luogo il
caso di ci avverbio locativo. In “e lui ci masticava così bene” non è propriamente pleonastico, ma
il luogo va segnalato perché l’avverbio rinvia, allusivamente a “con quelle cose”, cioè con quel tipo
di denti che sono le corna. Ridondanze pronominali invece occorrono in occasione delle
dislocazioni a destra o a sinistra.

Lezione 38
Vita dei campi: Pentolaccia
Attiene alle mimesi di una lingua parlata la ripetizione lessicale. Tanto più evidente il caso in cui la
ripetizione a breve distanza, viene introdotta lungo l’iter redazionale.
Per quanto riguarda il lessico, si assiste a una sostanziale indifferenza riguardo alla provenienza
geografica delle forme, mentre mostra particolare sensibilità nei confronti della loro
connotazione diastratica. L’abbassamento di tono è evidente in negativo:
Neanche a colpi di martello > neanche a ficcarcela col cavicchio
Quando egli era di soverchio > quando egli era di troppo
Le doleva il mal di gola > si sentiva una spina nella gola
Come se presentisse > come quando deve accadere
Sia nelle scelte a favore del toscano come : testa diventa capo, sia nel siciliano galantuomo
anzichè signore, sia nelle forme tosco-siciliane come cristiano e buscarsi.
Il massimo della colloquialità, viene data tramite delle numerose frasi idiomatiche che
punteggiano tutto il testo:
Il giudizio nelle calcagna, mangiarsi il suo pane in santa pace, non avere né re né regno, averci
qualcosa nello stomaco, avere la briglia sul collo, essere contento come una pasqua, farne tante e
poi tante, essere bianca e rossa come una mela, pace degli angeli e casa del diavolo, averci la
mosca…

Mentre i proverbi sono collocati in posizione marcata, alla fine di un capoverso, quasi a siglare e
confermare, con l’autorità degli antichi, il discorso del narratore.
I vecchi ne sanno più di noi e bisogna ascoltarli pel nostro meglio
Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e non fa buona fine
Il diavolo non è brutto come si dipinge
Quando mangi chiudi l’uscio, e quando parli guardati d’attorno.
Una tale scelta di questo registro informale non può essere attribuita all’autore reale nemmeno
all’autore implicito, ma a colui che parla della narrazione, dunque al narratore, che porta una
particolare situazione comunicativa all’interno del testo. Il narratore dice noi fin dall’inizio, ma
non è assolutamente una figura retorica, come poteva fare il verga giovanile, quel noi invece
rimanda ad una comunità di astanti che coinvolge i narratori, membri al pari del narratore, di una
medesima comunità che consente loro di essere a conoscenza dell’antefatto. 
Questa particolare situazione comunicativa è stata evidentemente ricercata con attenzione e lo si
capisce dal fatto che nel rigo 18 ci sia stata una correzione: originariamente si era fatto scappare
un “io”. Il narratore dunque è espressione di vox populi, che parla piuttosto che scrivere e che
intende atteggiarsi a narratore popolare e dunque orale. In questo caso l’oralità è diretta
conseguenza di una scelta comunicativa speciale: una novelletta tra amici, in occasione di un
turno narrativo che una comunità di compagnoni si scambia l’uno con l’altro.
In una situazione narrativa e comunicativa si spiega quindi il non detto, quanto certe formulazioni
allusive che contribuisco a caratterizzare il tipo di razione. Solo più avanti il letto camicia a capire
che il “brutto fatto” che ha dato al personaggio il nome di pentolaccia sono le corna che la moglie
Venera gli ha fatto credere, corna paragonate ai denti il cui nascere fa male ma poi ci si abitua a
farle funzionare a proprio vantaggio quando ormai sono cresciuto. Proprio questo ha fatto
Pentolaccia, sopportando le corna per anni senza protestare. È proprio il non detto a rafforzare
l’impressione di una lingua orale, che dunque fa appello alla presupposizione.
Il narratore gestisce il discorso orale in cui si alternano il presente della narrazione, l’imperfetto o
il passato remoto della vicenda narrata. I proverbi e i commenti del narratore riconducono
periodicamente alla narrazione concreta.
La modalità di attacco dei periodi, apparentemente non pianificati, mostrano la condizione di
oralità sia quando apre in medias res sia quando cadenzi il discorso.
Il fatto che manchi l’uso dell’indiretto libero, quella commistione fra discorso diretto riferito e
discorso indiretto, non è casuale: prevede l’esistenza di un narratore che parla con un gruppo di
ascoltatori, il discorso della novella per iscritto non è né un discorso indiretto legato, bensì un
discorso diretto libero (il discorso è quindi riferito ma senza segni di avvertenza su chi riferisce).
Pentolaccia è quindi la trascrizione in diretta di una narrazione. 
Lezione 39
Dopo la fortuna del romanzo di Nedda, Verga decide di scrivere per le edizioni di treves altri
bozzetti e novelle. In una lettera del 18 dicembre 1876 dice all’editore che sta scrivendo in bella
un’altra novella che aveva preso il titolo di Padron Ntoni. Originariamente sarebbe dovuta essere
un bozzetto marinaresco. La tarda primavera del 1878 segna una svolta decisiva. In quell’anno
verga annuncia a luigi capuana che aveva intenzione di abbandonare il bozzetto in favore di un
romanzo, il cui titolo potrebbe essere i Malavoglia.  Sempre in questa lettera chiede anche
consiglio e si dimostra alla ricerca di una raccolta di proverbi e modi di dire che dimostra una
ricerca in atto che è soprattutto di linguaggio, la fonte paramiologica è sentita come
indispensabile per la ricchezza di suggestioni che può offrire. Di questa frattura ideologica
evidentemente non si era ancora reso conto, in fatti cercò in un primo momento di utilizzare
ancora il manoscritto su cui aveva lavorato in precedenza per adattarlo alla nuova prospettiva:
riscrive ex novo e ripetutamente le pagine iniziali e inizia a prefigurare per la prima volta la
divisione in capitoli. Ma si rende conto che l’operazione è impossibile. C’è troppa distanza che
separa i due testi, tale che comporta non solo aggiustamenti ma un ripensamento vero e proprio
della pagina. In questi mesi il bozzetto, divenuto romanzo, si inserisce in quel ciclo di cui verga
parla per lacrima volta in una lettera all’amico salvatore verdura. Questa lettera mostra la prima
idea del ciclo dei vinti, la sua dichiarazione poetica del realismo. La netta affermazione che
l’operaio della letteratura per raggiungere quell’effetto di rappresentazione coscienziosa della
realtà che si propone dovrà di volta in volta in maniera differente misurarsi sulla forma.
L’elaborazione della forma, avviene sia all’interno del romanzo vero e proprio, con la scrittura e la
riscrittura, sia nel cantiere delle novelle, in cui il bisogno di farsi piccini, enunciato a livello teorico
nella novella fantasticheria prende forma con l’artificio della regressione nella scrittura
contemporanea di Rosso Malpelo. Se l’impostazione teorica è chiara, se il progetto complessivo
entro il quale inserire il romanzo ha ormai assunto connotati ben definiti, il. Problema della forma
occuperà continuativamente due anni, in cui si alternano momenti di pausa e di inazione. Nella
lettera al fratello del 27 giugno 1880 verga fissa precisamente la data in cui il romanzo è stato
terminato ma contrariamente a questo prevedeva, la revisione occupò lo scrittore per qualche
mese.
Lezione 40
I timori di Verga sulla accoglienza che il pubblico e i critici avrebbero riservato al nuovo romanzo
non erano infondati. Il romanzo ha fatto fiasco. Il panorama delle reazioni suscitate dai malavoglia
è stato tracciato con grande dettaglio da Rossana Melis
La prima reazione fu quella di un amico, Tullo Massarani, in una lettera del 22 febbraio 1881 che a
suo dire il romanzo era molto bello ma avrebbe dovuto utilizzare meno proverbi. Felice Cameroni
in una recensione del 25 febbraio pubblicata sul Sole oltre a censurare in modo garbato
l’eccessiva presenza dei dialoghi e la scarsa presenza di descrizioni scriveva anche : poiché i suoi
pescatori e contadini devono in un romanzo italiano parlare italiano e non siciliano, non poteva
astenersi da certe espressioni, scorrette a bella posta ed abusare un po’ meno dei proverbi?.
Carlo del balzo, allora direttore di rivista nuova, recensì i malavoglia nel numero del 5 marzo della
sua rivista esprimendo questo giudizio sulla lingua: si legge di malavoglia per un abuso di certi
che messi ad intralciare i periodi, per un abuso di vi e ci, per un ripetere continuo dell’oggetto
dopo di aver usato il pronome relativo. Eppure proprio le obiezioni di carattere linguistico che
caratterizzarono dal più al meno le razioni a caldo dei lettori, ribadirono in Verga la giustezza della
propria scelta, che la espresse per ringraziare i suoi recensori. I discorsi dei suoi personaggi a frasi
monche, arditamente intricate, o liberamente contorto, l’una impigliata nell’altra, con una sintassi
tanto semplice quanto scorretta. Tentativo ardito ma di difficile riuscita, specie per chi non è
toscano, avvicina il suo stesso linguaggio quando parla a nome proprio, a quello dei suoi
personaggi, così fa Verga. È una teoria come un’altra, ma ad un italiano avvezzo da tanto tempo a
volere negli scrittori la forbitezza e l’eleganza non piace molto, che l’autore si esprima per via di
proverbi, di immagini e traslati popolari a fin plebei, se deve raccontare o fare una osservazione
per conto suo.
Lezione 41
Le critiche riguardano specialmente la forma linguistica adottata. Emerge in primo luogo il
sovrabbondare del dialogo rispetto alla narrazione, la constatazione che il romanzo non è più
regolato da una voce narrante, ma piuttosto era una rappresentazione mimetica che non una
narrazione vera e propria, a seconda dei punti di vista dei critici, questo tratto costituiva un
impoverimento delle risorse tradizionalmente attribuite al romanzo oppure il tentativo ardito e
variamente coronato dal successo di raggiungere il massimo dell’impersonalità.
Ricorrono le prime recensioni l’imbarazzo o viceversa la soddisfazione per nuovo rapporto
stabilito da un lato con la tradizione letteraria e con la grammatica, dall’altro con il dialetto.
L’esperimento di Verga nel quale il dialetto anziché affiancarsi o giustapporsi alla lingua, la
forzava, la penetrava dall’interno scompaginandone l’assetto grammaticale, di lingua regolata.
L’uso letterario del dialetto era stato connotato in senso basso, comico e osceno, a vario titolo
carnevalesco, con effetto mimetico. C’è stata qualche innovazione nella produzione narrativa
dell’800 proprio in clima bozzetto e pittoresco in cui il dialetto aveva fatto il suo ingresso per
fornire il colore locale. Nei malavoglia invece il sicilianismo integrale compare solo
sporadicamente, come una macchia lessicale, rimarcato di solito con il corsivo a sottolinearne
l’estraneità rispetto alla compagine italiana nella quale si inserisce e soltanto laddove mancavano
diretti e appropriati corrispondenti nell’italiano della realtà regionale e locale. Le episodiche
inserzioni di sicilianismi integrali sono quelle che connotano il dialetto dei pesatori idi aci terza in
senso diatopico, ma la maggiore e più marcata presenza del dialetto, si riscontra sul piano
sintattico come elemento del parlato e soprattutto come espressione di pensiero, utile a
caratterizzare il modo di organizzare il pensiero dei personaggi e del loro mondo. La dialettali
sintattica detiene quindi una marcata connotazione diastratica.
La sintassi dialettale non è diabolicamente connotata bensì costituita da tratti che si ritrovano
nell’italiano dei sericoli di qualunque regione. 
Il che polivalente usato per indicate qualunque rapporto di subordinazione e spesso senza un
solo e univoco valore logico sintattico
La dislocazione a sinistra e a destra e conseguente ripresa dell’elemento anticipato o posticipato
mediante un pronome analogico
La ridondanza pronominale
L’uso del ci attualizzante con il verbo avere.
Predominanza del dialogo: si tratta del discorso o dello stile indiretto libero, tecnica sperimentata
con varie soluzioni stilistiche già da Flaubert e Zola, e dunque caratteristiche di un humus
culturale e ideologico specifico, ma non ignota ad autori precedenti e non francesi. 
Narrazione e discorso sono rigorosamente separati quando la narrazione si interrompe per far
spazio al discorso diretto, legato o libero che sia, che nello scritto viene rimarcata da segnali quali
i due punti, le virgolette o le lineette. Uno stacco netto fra narrazione e discorso non sussiste
quando la narrazione accoglie al suo interno il discorso che nella forma indiretta legata è segnato
comunque da verbi nel dire o nel ritenere. Diventa problematico quando i confini fra narrazione e
discorso sono ancora più labili, quando la narrazione ingloba dentro di se il discorso senza
segnalarne l’avvenire mediante i verbi introduttori.
Il discorso indiretto libero fu analizzato per la prima volta in maniera esauriente da Charles bally,
che vi riconobbe un procedimento letterario finalizzato a rappresentare l’oralità in letteratura: per
l’assenza di segni esterni di subordinazione, lo stile indiretto libero offre un’immagine di fluidità
che si attribuisce alla lingua parlata. In francia è spesso associato al monologo interiore e
pertanto è stato tradotto dalla stilistica tedesca come erlebte Rede.
Il discorso indiretto libero è individuabile mediante tratti pertinenti che si distinguono in rilevatori
primari e secondari. I primari sono la trasposizione, che investe tempi, modi e persone del verbo,
trasformandoli da elementi formali del discorso diretto in elementi formali del discorso indiretto.
L’indipendenza del costrutto dal verbum dicendo o putandi. I secondari sono elementi del
parlato, principalmente di carattere enfatico o idiomatico che collaborano al riempimento
lessicale o sintattico del costrutto. Sono legato al contenuto, dall’altro ricorrono con più o meno
frequenza a seconda che lo scrittore inclini più o meno al discorso diretto. 
Si distingue quindi un rapporto di fattura, passaggio netto e un rapporto di fusione quando
indiretto libero si inserisce nella narrazione.
Lezione 42
Prendiamo il capitolo xv dei Malavoglia in cui possiamo notare un enorme numero di verba
dicendo, che non solo reggono il discorso diretto, ma anche quello indiretto. Il più comune è dire
che lo troviamo in diverse forme, ma anche con le perifrasi tornò a dire oppure arrivava a dire… 
Tra quelli meno diffusi abbiamo: domandava, rispondeva, chiedergli, rispose, credeva, ribatteva,
raccontò, raccontando, confermava, parlava, sparlava, strillando, predicava, giurava, ripeteva,
rammentar, corse notizia…
Notiamo quindi un’altissima incidenza dei discorsi dei personaggi entro la narrazione, se
prendiamo chiaramente anche in considerazione i monologhi interiori.
Questa pervasività del discorso è insomma tale da creare l’impressione di una narrazione che si fa
mero strumento di trasmissione dei discorsi o dei pensieri del mondo raccontato, puro canale di
trasferimento del messaggio dal locutore, personaggio al lettore. A seconda della reggenza il
discorso indiretto è legato al verbo introduttore da che (dire, rispondere, credere ecc… oppure da
elementi variabili come perché, cosa, dove, o di… 
Questi connettori servono per marcare il punto preciso a partire dal quale viene riferito il discorso
diretto, si assiste tuttavia all’omissione del connettore di massima ricorrenza, il che dichiarativo, o
alla sua sostituzione con e o con un semplice elemento di interpunzione.
Ci sono casi in cui la frattura interpunta forte prova l’impressione che il discorso indiretto sia
introdotto ex abrupto come discorso diretto, dal quale è distinto solo per il diverso utilizzo di
modi e tempi verbali e di persone grammaticale. In questi casi a indirizzare a favore dell’indiretto
libero sono:
Gli elementi deistici che rimarcano nel tempo e nello spazio la concretezza e quasi fisicità del
parlante non annullata dal filtro del narratore. (Già, ora, di qua e di là, adesso, ora…)
La natura olofrastica, ovvero capace di costituire da solo una frase, come ad esempio sì o no,
dell’elemento su cui si regge il periodo “meglio che non ci fosse mai stata al mondo la casa dei
malavoglia”.
Entrambi costituiscono i rilevatori secondari.
In particolare ci sono degli esempi: “ma di lui non volevano saperne…” e anche “e quando suo
marito aveva chinato il capo..” Che si induce a intenderli non come forme di ripresa del che
precedente, e dunque come connettori, ma piuttosto come elementi appartenenti a pieno titolo
al discorso indiretto secondo moduli di attacco tipici dell’oralità. 
“Diceva che aveva perso il riso della bocca, perché non aveva tempo di stare allegra, colla famiglia
che aveva sulle spalle, e rocco che tutti i giorni bisogna a andare a cercare di qua e di là, per le
strade davanti la bettoria, e cacciarlo verso casa come un vitello vagabondo.” Nel quale si passa
senza continuità dal discorso indiretto legato, che viene retto da diceva che al discorso indiretto
libero, questo’ultimo riportato ex abrupto, con un effetto pienamente dimentico. Infine il modo
indicativo anziché condizionale denuncia l’indiretto libero.
Indipendente quindi dal diceva in “ gli diceva che avrebbero comprato un vitellino a san
Sebastiano ed ella bastava a procurargli l’erba e il mangime per l’inverno.”
Il discorso indiretto libero, proprio perché non sottoposto alla regolamentazione sintattica propria
dello scritto, detiene uno statuto che con altri discorsi stabilisce un rapporto dai confini fluidi,
d’altro canto il suo riconoscimento ci consente di individuare più precisamente l’identità del
locutore, che si tratti di un singolo o di un gruppo. 
Non è sempre facile riconoscere chi sta parlando. È difficile distinguere quando parla un
personaggio o quando interviene il narratore popolare.
Per quanto riguarda l’indiretto libero invece l’individuazione è molto più semplice.
“Stavolta non potevano dargli nemmeno un bicchiere di vino, per ben tornato” che sostituisce la
risposta dei malavoglia al discorso che compare Alfio ha appena fatto loro.
“Adesso quando l’incontrava per le strade lo salutava e cercava di mandargli anche la vespa per
parlargli di quell’affare, chissà che non si fossero rammentati dell’amore antico, nello stesso
tempo, e compare Mosca non riuscisse a levargli quella croce sulle spalle”
“E non avrebbe cangiato lo zio crocifisso con Vittorio Emanuele in carne ed ossa, anche se
l’avessero tirata per capelli” si riferiscono le parole stesse della Vespa.
“A maggio si sarebbe venduto… sicuro con compare Naso” (prosegue qui il discorso di Mena al
nonno)
“Almeno lei non gli faceva mancar nulla al padre, adesso che era invalido, e se lo teneva
sull’uscio.” Prosegue il discorso della Santuzza, come dimostra la risposta di Piedipapera che si
riferisce proprio a questa porzione del discorso della Santuzza.
“Quell’asparago verde… la lira al giorno” continua il giudizio di don franco lo speziale, sul quale si
innesta un discorso indiretto legato riferito a don Giammaria dopo di che riprende il discorso di
don franco.
“ E don Silvestro disse che avevano fatto bene, per questo il comune pagava la sua rata
all’ospedale. Questo esempio mostra il trapasso dal discorso indiretto legato al discorso indiretto
libero: “ ora lo speziale non teneva più cattedra. E quando veniva don Silvestro, andava a pestare i
suoi unguenti nel mortaio, per non compromettersi. Già tutti quelli che bazzicano col Governo, e
mangiano il pane del re, son tutta gente da guardarsene. Spiega bene l’affinità che esiste con il
monologo interiore, mentre l’uso del presente induce piuttosto a parlare di discorso diretto libero
che il narratore riproduce in persona propria riferendo, senza elementi grammaticali distintivi, la
battuta interiore di don franco.
Lezione 43
L’istituto del discorso indiretto prevede che il tempo del discorso venga aggiornato al momento
del trapasso da discorso diretto a discorso indiretto, uno dei rilevatori primari definito da
Nencioni trasposizione. In questo vengono quindi coinvolti:
Le persone grammaticali prima, seconda e terza singolare espresse in forma personale o
possessiva, confluiscono nella terza persona singolare, mentre le corrispondenti plurali nella terza
plurale. 
I tempi verbali, che devono essere rimodulati alla luce del piano cronologico di riferimento. Nel
discorso indiretto il presente, il passato e il futuro del parlante vengono misurati, sul tempo
dell’enunciazione e dunque sul rapporto cronologico che il narratore imposta rispetto ai fatti che
narra. Il passaggio dal presente dei personaggi e quel medesimo presente riferito dal narratore
tramite l’imperfetto è rilevante perché rende espliciti al lettore i rapporti fra il piano cronologico
della narrazione e della storia.
La frequenza dell’imperfetto determinata da ragioni stilistiche si aggiunge alle normali funzioni
del tempo verbale che esprime durabilità iterativi e dunque imperfettività. La caratteristica, fu
notata subito dai contemporanei e subito censurata come abuso. La prevalenza dell’imperfetto
sul passato remoto è verificabile anche nel capitolo 15 nel quale il rapporto è di 4 volte superiore.
Nencioni sottolinea l’alternanza del tempo grammaticale generi un effetto prospettico che
attribuisce il tempo durativo (imperfetto) allo sfondo corale e il tempo percettivo (passato
remoto) ai personaggi della famiglia Malavoglia.
Verga era cosciente della totale assenza di descrizione dei personaggi come dei luoghi e degli
spazi in cui essi agiscono, anch’essi noti e conosciuti come se il lettore fosse nato e vissuto in
mezzo a loro. Questa sensazione di già noto è ottenuta mediante la dissi che si manifesta in
maniera reiterata e sistematica attraverso l’uso dell’aggettivo o pronome dimostrativo questo o
quello con valore ostensivo, o con valore più generico di condivisione.
Lezione 44
Dopo i malavoglia, si apre perla narrativa verghino un periodo molto fecondo: nel 1881-82 verga
inizia la stesura degli abbozzi di Mastro-don Gesualdo, il primo tentativo vero di impostare il
secondo romanzo del ciclo dei vinti, seguendo uno schema di genere quasi picaresco, cui la
vicenda si snoda attraverso tutte le principali tappe della vita del protagonista, dall’infanzia alla
povertà alla adolescenza avventurosa, dalla maturità appagata dal successo economico, ma fallita
sul piano degli affetti domestici e dei rapporti umani, fino alla morte, di nuovo in miseria e
solitudine. Sulla base dei primi abbozzi si può affermare che:
La narrazione è dispersiva e monotona a causa del materiale sovrabbondante. Manca un taglio
sicuro e netto della storia, il cui tema centrale non è ancora individuato, le soluzioni stilistiche
sono banali ed eccessivamente legate a un tipo di scrittura tradizionale. Manca del tutto il
discorso indiretto libero e il discorso diretto è usato con parsimonia. Frequente è l’indiretto
tradizionale. A livello lessicale si nota ad esempio il ritorno ad incertezze che erano tipiche della
fase primitiva della ricerca verghiana in particolare della Nedda.
Il problema del romanzo si pone a verga sotto un duplice aspetto:
Propriamente narrativo, di sistemazione dei materiali e degli episodi che si affollano e si
accumulano senza distribuirsi armonicamente in un organismo narrativo coerente.
Propriamente stilistico e linguistico, che chiede elaborazione di una lingua e di uno stile adeguati
al nuovo ceto socioculturale borghese che viene rappresentato.
Così come era successo per i malavoglia, il verga utilizza il laboratorio della novella per
sperimentare un nuovo stile e una nuova tecnica narrativa e per riusare temi, nomi, figure, storie
originariamente ideate in servizio del mastro, ma che egli decide di tagliare via dal nuovo
organismo. Proprio in quegli anni era uscito anche Novelle rusticane che comprendevano dodici
novelle: il reverendo, cos’è il re, don licciu Papa, il mistero, malaria, gli orfani, la roba, storia
dell’asino di s. Giuseppe, pane nero, i galantuomini, libertà e di di là del mare. Secondo riccardi: le
novelle assumono anche se pienamente indipendenti e funzionali di per sé, l’identità di cartoni
preparatori del disegno più vasto e complesso del romanzo, come era già accaduto per vita dei
campi nei confronti dei malavoglia, a riprova del metodo di lavoro tipicamente verghiano.
Dal punto di vista dell’elaborazione del romanzo, sempre secondo la studiosa, le rusticane si
presentano come i risultato di un’indagine svolta da Verga prima della grande prova del romanzo
per individuare e mettere a fuoco le componenti e le motivazioni di un sistema sociale complesso
e in rapida evoluzione.
Lezione 45
Il lavoro esce dopo una serie di lavori preparatori e di rielaborazione fino al 1883. Nella prima
metà del 1884 l’autore doveva già considerare conclusa questa fase se decideva di riutilizzare
parte di quanto si trovava ad avere già scritto per costruire la novella vagabondaggio, la cui prima
redazione fu pubblicata dal fanfulla della domenica in due puntate successive: la prima il 22
giugno 1884 con il titolo come Nanni rimase orfano e la seconda il 6 luglio con il titolo definitivo.
La crisi relativa al mastro si protrae ben oltre il 1884 che testimonia la dismissione dell’antico
progetto. Verga ricomincia a parlarne con il treves che aveva assistito alla nascita dei malavoglia,
e al quale manda un assaggio del nuovo romanzo nel 1887 ricevendo in cambio un giudizio poco
entusiasta. Nel 1888 sceglie una nuova strada editoriale, proponendo a Ferdinando martini di
pubblicarlo in una rivista, ovvero la fiorentina Nuova antologia, questo però non accade per via
della morte del proprietario della rivista spostando la prima puntata anziché a maggio, nel luglio
1888 e proseguirà con un undici puntate complessive, fino al 16 dicembre dello stesso anno.
Leggendo l’epistolario verghiano si inizia a pensare che quando inizia ad uscire nel 1888 non era
stato ancora completato o almeno non ne era completata la revisione, uscita quindicinale delle
puntate, obbligarono verga a lavorare a ritmi serrati, sia che si trattasse di rivedere e riscrivere
quanto già preparato, sia di scrivere ex novo intere parti del romanzo come risulta chiaro da indizi
sui vari fogli aggiunti al manoscritto in questa fase elaborativa. Infatti il capitolo xiv che avrebbe
dovuto essere ultimo, era diventato troppo ampio e viene quindi all’ultimo momento scisso in
due. Una serie di malintesi condussero nell’agosto 1888 a rescindere il contratto con l’editore
Casanova e a stipulare di nuovo con Treves un nuovo contratto. Durante la pubblicazione in
rivista, verga si apprestava a rivedere il romanzo dal punto di vista stilistico per consegnarlo
all’editore milanese per la prevista edizione in volume. Contrariamente a quanto tutti pensavano,
la revisione occupò verga per un anno intero. Il mastro-don Gesualdo editto in volume 1889 è
tutto un altro romanzo dal medesimo titolo uscito l’anno prima in rivista.
Viene rivista la suddivisione in capitoli per esempio, nella versione rivista ne erano 16, in questa
sono venuto capitoli distribuiti in 4 parti, ciascuna delle quali corrispondente a 4 fasi della vita di
Gesualdo. Riccardi: “la diversità fra il primo e il secondo mastro, fu avvertita anche dai
contemporanei. Già l’editore nell’annunciare la pubblicazione del volume ne parlava come di un
libro affatto nuovo perché l’autore aveva dedicato un anno a rifarlo completare.”
Furono i primi recensori a sottolineare questo aspetto.
Raffaello barbiera: non ha nulla in comune con quella del libro. Non si tratta di un lavoro riveduto,
ma di un lavoro completamente rifatto da un artista elevatissimo, che insegue e vuol raggiungere
l’idea della perfezione possibile.
Eugenio Cecchi:
Non è leggenda editoriale la notizia diffusa, che l’ultimo romanzo di verga sia stato scritto due
volte, l’autore non ha dubitato di rifare da cima a fondo tutto il libro.
Anche questo romanzo fu accolto da un elevato numero di recensioni, in particolare anche di
Luigi Pirandello, con per la solita question della lingua usciti nella rivista fiorentina vita nuova nel
1890. Nel saggio prosa moderna pur prendendo spunto dalle lettura del nuovo romanzo di verga,
non lo menziona, ma le sue parole vanno certamente interpretate come una denuncia
dell’italiano, anzi dell’italiano regionale, di verga si può vedere esplicitamente ne per la solita
questione della lingua. In questo articolo, che è fedele una volta di più alle tesi ascolane,
Pirandello distingue, fra italiano e fiorentino. “Un siciliano e un piemontese messi insieme a
parlare, parleranno… proprio come parlano ma dio! Il siciliano press’a poco come il verga scrive i
suoi romanzi, per il piemontese mi manca il termine di paragone.”
Nel 1920 verrà incaricato di pronunciare il discorso celebrativo per gli 80 anni di Verga e saprà
distinguere in maniera più chiara gli aspetti sociolinguistici da quelli stilistici e individuerà uno dei
punti di forza nell’elaborazione dello stile verghiano proprio in quella dialettali immanente, ma la
valorizzazione da parte di Pirandello maturo di questa componente di lingua verghiana libererà
dalla censura i Malavoglia non il Mastro-don Gesualdo. 
Con i malavoglia rompeva con la tradizione letteraria in maniera rivoluzionaria. Nell’avvicinarsi
con il mondo. Borghese del mastro quella dialettalità diviene meno marcata, la lingua torna ad
assumere più evidenti venature letterarie e proprio per ciò la lingua del mastro poteva non
apparire una stilsprache, una lingua elaborata in sede letteraria consapevolmente adottata ai fini
stilistici, ma un coacervo incondito di sicilianità e letteratura.
Delle caratteristiche compromissorie della lingua usata dei veristi si era mostrato pienamente
cosciente Luigi Capuana che nel 1885 scriveva appunto: aveva bisogno di una prosa viva, efficace,
adatta a rendere tutte le quasi impercettibili sfumature del pensiero moderno, e i maestri non
facevano che dire studiate i trecentisti! Fu forza decidersi a cercare qualcosa da noi, a tentare, a
ritentare, quella prose moderna quel dialogo moderno bisognava insomma inventarlo di sana
pianta. Dovevamo rimanere colle mani in mano aspettando la prosa nuova di là a venire? E ne
abbiamo imbastita una pur che sia mezza francese, mezza regionale, mezza confusionale, come
tutte le cose messe su in fretta. 
Lezione 46
Sia l’antimanzioniano Pirandello e il manzoniano Petrocchi concordavano nel censurare la lingua
del mastro da entrambi considerata non italiana o perché regionale (secondo il pensiero di
Pirandello) o perché non tosco-fiorentina (come nel caso di Petrocchi). Per quanto riguarda le
obiezioni rivolte dal Petrocchi nei confronti del mastro erano di tipo logico (riguardando
l’appropriatezza delle scelte verghiate o di tipo sintattico (relative alle reggenze preposizionali o
infine erano di carattere vocabolaristi, quando non autorizzate dalla lessicografia di marca
toscana. Tra le contestazioni abbiamo per esempio l’alba che cominciava a schiarire commentata
da lui “come si può dire se l’alba è già chiara, e quando la luce aumenta, rosseggia, non
schiarisce” oppure per esempio dei sorrisetti che volevano dire proponendo un molto più scialbo
sorrisetti significativi.
Dal punto di vista delle reggenze : critica verga pr aver usato sala di ballo  oppure vestite di casa
anziché usare sala da ballo e vestite da casa. Le critiche maggiori arrivano sicuramente in merito
alle scelte lessicali che il lessicografo contesta soprattutto l’uso di termini generici in luogo di
termini specifici, o l’inappropriatezza della scelta nel contesto specifico in cui essa è adottata,
facendo ricorso alle risorse del vocabolario.
Ecco alcuni esempi
Scure da far legna denuncia la perifrasi che mostra ignoranza verghiana dei termini tecnici, che
sarebbero per esempio accetta o pennato. Inappropriato il termine verrebbero lassù in quanto
una contraddizione in termini della lingua quando è una località estranea ai due che parlano. Non
è corretto dire anelava come un mantice invece di dire ansava, si rizzò sul busto anziché dire sulla
vita. È inappropriato usare il verbo rimboccare posto in relazione a vestito sottana, in quanto per
lui l’uso va circoscritto solamente a maniche, calzoni, lenzuola e coperte. Censura l’espressivo
“cinghiata” riferito a una donna in quanto sarebbe da usare solo in riferimento ad animali. Non
comprende il punto di vista di Gesualdo quando elogiando la moglie bianca, la definisce Buona,
interessata ed ubbidiente. 
Infine critica la resta di fichi secchi perché il termina resta sarebbe da usare solo con cipolle e agli.
Propone sprugnone in luogo di spugnò, bruciore in luogo di brucio. 
Dal punto di vista verbale contesta l’uso del riflessivo di spurgare, sbiancare. Per quanto riguarda
le locuzioni infine contesta dormire della grossa anziché dormire la grossa. 
Su tutto riguarda l’adozione e l’uso corretto di termini toscani farebbe meno di locuzioni tratte poi
dal siciliano.
La recensione del Petrocchi viene studiata da Francesco bruni che ne indica le contraddizioni e le
piccinerie. Il Petrocchi infatti censura delle forme e delle locuzioni che egli stesso stava
autorizzando proprio in quegli anni nel suo novo dizionario universale della lingua italiana :
proprio caso di spugnò, prugnole o di rimboccare attribuito alle sottane. Il fronte toscano
dimostrava, con questa recensione, il suo frastagliamento interno e i rischio che i toscani,
inalzassero a norma il proprio idioletto, le proprie personali preferenze.
Mastro-don Gesualdo
Si entra in ambiente urbano, socialmente diversificato e geograficamente molto ben
caratterizzato. Anche se il nome del paese non viene mai citato, la topografia, i dati culturali, gli
antroponimi sono indiscutibilmente quelli della cittadina di Vizzini, nella quale la famiglia verga
aveva una casa nobiliare e dei possedimenti. Un ambiente e una vicenda molto fortemente
caratterizzati, dalla mobilità sociale di cui è emblema il protagonista che è passato dall’essere
mastro ad essere don. S tratta dei moti antiborbonici del 1820 e i moti risorgimentali del 1848.
Si tratta quindi di tornare ad attingere ad un registro e ad un livello di lingua uniforme, secondo
gli usi sociali dai quali si era sottratta la lingua dei pescatori dei malavoglia perché lontani dai
centri urbani, ad un livello di lingua educata. Lingua uniforme, educata significa per l’autore
rientrare su quei percorsi e riallinearsi a quella direttrice che aveva condotto verga ai primi
tentativi di scrittura giovanile fortemente intrisi di sicilianità, di istanze forestiere e di toscanismi,
verso una lingua più spontanea ma comune marcata di letteratura. Affrontare il tono medio della
lingua di un ambiente medio in senso sociale significava fare di nuovo i conti con quella lingua
compromissoria di cui parlava pirandello. A un esame sommario risulta tutt’altro che scarsa,
l’incidenza del fiorentino in Verga. Bruni registra elementi fiorentini coevi con il moderno
monottongamento in ovo, ova (che si alternano con uova, che si tratta di un momento di
modernità che troviamo solo in Mastro), continuano ad essere utilizzati i dittonghi dopo
consonante palatale (figliuolo, legnaiolo, fumaiolo, piuolo che si alterna invece con piolo forse
anche per la presenza di pioletto). La regola del dittongo mobile è disattesa (si alternano sonare e
suonare, sono costanti suonò, suonava e suonato).
Scompare nel mastro la forma antiquata ei e la corrispondente e, egli, contesto e così (i primo
usato anche in maniera inappropriata, come usato anche in Eva), sono usati anche nelle lettere
che nei malavoglia, ma sono assenti totalmente in mastro. Per quanto riguarda il lessico, i
fiorentinismi evidenti sono usati anche quando sarebbe stat a possibile una scelta a favore di un
sinonimo presente nel dialetto, soprattutto nel regionale di Sicilia. Si basta pensare all’uso intesto
di uscio, insieme a quello di porta, e anche di sasso, rispetto all’uso di pietra, radicato nel dialetto
siciliano e nell’italiano regionale meridionale. Sempre un altro esempio fo, accanto a faccio anche
usati nello stesso contesto. Così anche per vo, invece di vado. l’alternanza manifesta comunque
un’avanzata del fiorentino anche nei malavoglia l’uso di fo manca, e di vo c’è solo una occorrenza.
Tuttavia sappiamo che fo faceva parte, ancora prima dei malavoglia della competenza linguistica
del nostro autore. La ridotta presenza dei presenti monosillabici nei malavoglia verrà quindi
imputata a una consapevole censura, per quanto imperfettamente attuata, di un elemento
sentito come letterario perché fiorentino.
Lezione 47
Bruni prosegue il suo confronto fra le scelte linguistiche del mastro e le tipologie delle scelte
manzoniane nel passaggio dai promessi sposi del 1827 e del 1840. L’italiano di verga è misto
forme del fiorentino moderno come di tratti arcaici della lingua letteraria. Verga non appartiene
alla serie degli scrittori che com Manzoni, mostrano una forte tendenza nelle correzioni di lingua
e stile. Le forme sentite come letterarie ed ingessate da Manzoni, vengono invece utilizzate senza
remore dal Verga nel mastro. Così accade per onde poscia, e tosto. Ricompare nel mastro
l’elemento letterario costituito dall’enclisi pronominale a forme finite del verbo e di cui abbiamo
notato la presenza fino a Nedda. Verga usa talmente tanto l’enclisi che si arriva a pensare e
concludere che la sua presenza o assenza del fenomeno equivalga a una variante non marcata. Ci
sono nel romanzo registri espressivi distinti in modo consapevole, ma tra questi non rientra
certamente l’enclisi.  Se si va ad analizzare il mastro con i malavoglia invece abbiamo un netto
ridimensionamento rispetto alle prove letterarie precedenti. Erano rimaste come esempio di
enclisi solamente spingevasi e dicevasi, mentre nel Mastro essa ricorre per ben 98 volte. È quindi
chiaro ed evidente che questo elemento sintattico appartiene a pieno titolo all’italiano di verga
così come il nostro autore è venuto man mano conquistandolo nel suo lento avvicinamento per
via letteraria alla lingua comune. Non significa però che non riconosca la sostenutezza di registro
tanto da considerarlo inadatto al momento in cui attinge ad un registro più basso della media e
dunque a censurarlo nel momento cui aveva trattato del mondo degli abitanti di Trezza. Se ne
ricava dunque, per quanto attiene al livello diafasico, una connotazione dell’enclisi di registro
medio ma certo non basso. Rarissimi sono i sicilianismi lessicali nel mastro, ancora più rari di
quanto essi fossero nei malavoglia. Meno rari sono invece alcuni elementi lessicali o sintattici che
possono assegnarsi all’italiano regionale della Sicilia, o più ampiamente dell’Italia meridionale:
assai,,, la determinazione di giù, assieme a scendere giù… non sono marcati a livello regionale ma
fanno blocco, in certo modo con quelli regionali. Tra i regionalismi sintattici non si dimentica il
passato remoto per il passato prossimo. Accanto al regionalismo lessicale o sintattico compare
anche nel mastro quella etnificazione della lingua che trae spunto e si rafforza tramite il richiamo
a usi e pratiche regionalmente connotati. Nell’edizione in volume Verga cercò un prodotto più
colorato localmente e quindi invece di scrivere “donna Marianna che cercava l’acqua di colonia”
scrisse quindi “ donna Agrippina che cercava l’aceto dei sette ladri”… che sarebbe intraducibile
perché è un aceto aromatico molto rinomato nelle bassi classi sociali siciliane.
Il registro è sicuramente più sostenuto, ma troviamo comunque alcuni tratti del parlato che aveva
elaborato entro l’esperienza espressiva dei Malavoglia.
Ricorrente è sicuramente il ci attualizzante, che crea ridondanza pronominale. “Nei seminati ci si
affondava”. Nel pezzo da analizzare compare, per tre volte su cinque nel discorso diretto, un’altra
volta in un discorso indiretto.
Ridondanza pronominale percepibile con tratti emotivi del parlato dell’uso del pronome
personale a rafforzare la partecipazione (viene chiamato dativo etico) come esempi: se ne va in
fiamme tutto il quartiere; e me la mettono poi contro il mio muro!
Sporadicamente il fenomeno della dislocazione tematizzante (ovvero anticipazione di un
elemento che si intende sottolineare, ripreso a suo luogo con pronome che risulta essere
ridondante. “Nei seminati ci si affondava” nel quale il già citato ci ha funzione anaforica. Questo
non accenna necessariamente a tratti dell’oralità, denuncia l’intento di ottenere effetti di
spontaneità e di distanziamento da una pianificazione propria della scrittura.
È attribuito al parlato anche l’interrogativa diretta introdotta da che: che siete tutti morti? Oppure
anche da cosa: cosa verrebbero a fare lassù? Cosa siete venuto a fare dunque?
Nel brano non compare molto l’uso del che polivalente, che era super utilizzato nei malavoglia e
tendeva a mimare il siciliano ca. si tratta di una casualità ma che allude a una concentrazione
meno alta di quel che era dato verificare nei malavoglia.
Molto diversa dai malavoglia è la gestione dei tempi. Non si tratta di una differenza quantitativa
rispetto al romanzo precedente, ma di qualità nell’uso dei due tempi. Non c’è tanta differenza a
livello di quantità dei verbi usati (il rapporto si mantiene in entrambi i romanzi dell’80% incidenza
di imperfetti con il 20% circa del passato remoto), ma ciò che colpisce è l’adibizione del passato
remoto e dell’imperfetto per i tradizionali usi della lingua. Il passato remoto è utilizzato per eventi
di cui si vuole sottolineare la puntualità e l’unicità eventiva mentre l’imperfetto è adibito a
segnalare l’iteratività continuità. Se ne trae quindi la contrapposizione fra narrazione di eventi
tramite l’uso del passato remoto e descrizione di stati tramite 

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