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Biblioteca di Sinestesie

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Questo volume è stato approvato dal CTS della SSML Internazionale
(Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Internazionale) di Benevento

Responsabile di redazione: Gennaro Volturo

In copertina: Pillole di saggezza,


progetto grafico di Carlotta di Cerbo e Adriano Taglialatela

Proprietà letteraria riservata


2020 © Associazione Culturale Internazionale
Edizioni Sinestesie
Via Tagliamento, 154 – 83100 Avellino
www.edizionisinestesie.it – info@edizionisinestesie.it

ISBN 978-88-31925-46-4
Teresa Agovino

ELEMENTI DI LINGUISTICA ITALIANA

Per il Corso di Laurea SSML

Edizioni Sinestesie
A Lia Palombi e Franco Agovino, i miei genitori.
Porto sicuro nel mare in tempesta della vita.

A Clara Borrelli.
Maestra e donna straordinaria.
La lingua va dove vuole ma è sensibile ai
suggerimenti della letteratura.
U. Eco

«L’italiano: ero piuttosto debole in italiano.


Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio:
sono qui, procuratore della Repubblica …».
«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare» disse
il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe
forse ancora più in alto».
L. Sciascia
INDICE

Introduzione 13
Simboli 15

capitolo i
la comunicazione e la conversazione 17
1. Le sei componenti della comunicazione
2. La conversazione 23
2.1 Logica della conversazione 23
2.2 Massime della conversazione 24
2.3 Analisi della conversazione 26

capitolo ii
la lingua italiana 31
1. Il toscano come lingua d’Italia 31
2. Il purismo 36
3. Calchi e prestiti 38
4. Parole straniere entrate nell’italiano e italianismi in altre lingue 40
5. Le varietà della lingua 48
6. Lingua e dialetti 54

capitolo iii
elementi di fonetica articolatoria dell’italiano 59
1. Le vocali dell’italiano 62
1.1 Vocalismo tonico italiano 64
1.2 Vocalismo atono italiano 65
2. Le semivocali dell’italiano 66
3. Consonanti dell’italiano 67

capitolo iv
il passaggio dal latino all’italiano 71
1. Il latino volgare 71
2. L’Appendix Probi 76
3. Sostrato, superstrato, adstrato 78

capitolo v
elementi di grammatica storica dell’italiano
e dei suoi dialetti 81
1. Vocalismo tonico 81
2. Dittonghi tonici 88
3. Anafonesi 89
4. Metafonesi 91
5. Vocalismo atono: aggiunte e cadute di suono 95
6. Consonantismo 99
7. Nessi consonantici 102
8. Consonanti finali di parola 105

capitolo vi
brevi cenni di storia della lingua italiana 107
1. Chi crea la lingua italiana parlata e scritta? 107
2. I primi documenti della lingua italiana 115
3. La lingua italiana attraverso i secoli 127
3.1 Teorie sulla formazione dell’italiano 128
4. Breve storia della lingua italiana 137
4.1 Il Trecento: Dante Alighieri e Giovanni Bocaccio 140
Curiosità: i modi di dire inventati da Dante
che usiamo ancora oggi 145
4.2 Il Quattrocento: Leon Battista Alberti 147
4.3 Il Cinquecento: Pietro Bembo, Niccolò Machiavelli,
Baldassarre Castiglione e Gian Giorgio Trissino 150
4.4 Il Seicento e Il Settecento 158
4.5 L’Ottocento: Alessandro Manzoni e Graziadio Isaia Ascoli 162
4.6 Il Novecento: dal ventennio fascista a Pier Paolo Pasolini 168
4.7 L’età contemporanea e i nuovi media 174

capitolo vii
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica 179
1. Minoranze linguistiche in Italia 187
1.1 Tutela delle minoranze linguistiche in Italia 188
1.2 Minoranze linguistiche in Italia, qualche esempio pratico 197
2. Diritto del parlante 199

appendice
curiosità 201
A – 1 Le parole straniere entrate
nel dialetto napoletano nel corso dei secoli 201
A – 1.1 La Tammurriata nera 203
A – 2 Etimologia popolare, ipocoristico, enantiosemia 205

Bibliografia Parziale 207


Ringraziamenti 209
INTRODUZIONE

Da italianista, mi sento innanzitutto in dovere di chiedere perdono


ai linguisti per questo volume. Questo libro non è un manuale, né
ambisce ad esserlo; si tratta semplicemente di una raccolta delle più
importanti teorie in ambito di linguistica italiana, elaborata in maniera
semplificata e molto ridotta: uno strumento didattico e una guida per
i miei studenti della SSML Internazionale1 di Benevento, totalmente
impreparati alla storia della nostra lingua e quasi sempre del tutto sprov-
visti di formazione classica. Lo ho scritto unicamente per loro (come
potrebbe scriverlo un’italianista) senza alcuna pretesa scientifica2. Ho

1
Scuola Superiore per Mediatori linguistici Internazionale.
2
Mi si permetta anche una spiegazione relativa alle note presenti nel testo.
Tutti i manuali che vengono citati direttamente sono annotati all’italiana. Sebbene
in ambito linguistico sia preferibile utilizzare la notazione anglosassone, la
destinazione di questo volume (studenti neodiplomati con poca pratica di note e
citazioni scientifiche) rende preferibile una disposizione delle note in fondo alla
pagina così da non confondere i fruitori. Si noti anche che quando la citazione
non è diretta dal testo, ma relativa al pensiero dell’autore ivi illustrato, la nota
prevederà semplicemente il cognome dell’autore in maiuscoletto. Trattandosi di
pochi manuali di riferimento, per giunta molto noti e più volte citati, in alcuni casi
si è dimostrata sufficiente un’indicazione generica che richiamasse direttamente
al testo in bibliografia.

13
teresa agovino

cercato di adeguare il corso3 alle esigenze linguistiche e agli interessi


degli studenti di mediazione linguistica; per questo alcuni capitoli
rientrano in ambiti anche leggermente differenti rispetto allo spe-
cifico ssd di appartenenza. Questo libro, infine, non è completo:
non raccoglie (che, difatti, sarebbe impossibile) tutte le nozioni di
grammatica storica, i mutamenti fonetici dal latino all’italiano, i
dettagli sulla storia della nostra lingua. Per tutto questo e molto
altro si rimanda a ben altre penne. Quanto segue va considerato,
insomma, come una dispensa semplificata, una sorta di “appunti di
lezione” da affiancare ai testi di alto valore scientifico, regolarmente
citati in bibliografia e inseriti nel programma.

Teresa Agovino

3
Il corso Lingua e linguistica italiana, nella sua totalità, è sviluppato in due
parti: una dedicata alla lingua italiana scritta, composta principalmente da
esercitazioni in aula (i migliori elaborati degli studenti vengono regolarmente
pubblicati nella sezione del sito della SSML Benevento intitolata Elaborati
da voi…); l’altra (linguistica) relativa agli argomenti qui inseriti, che quindi
rappresentano soltanto la metà dei temi inerenti l’intero corso da 8 cfu totali.

14
SIMBOLI

La forma indicata a sinistra si sviluppa in


> focus > fuoco
quella indicata a destra

La forma indicata a sinistra deriva da quella


< fuoco < focus
indicata a destra

Racchiudono la trascrizione fonematica,


// /e/
cioè i fonemi

Racchiudono la trascrizione fonetica, cioè i


[] [e]
foni

Indica una voce ricostruita, non documenta-


* *fumus
ta, oppure agrammaticalità
=≠ Uguaglianza e disuguaglianza [ ]=è

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CAPITOLO I

LA COMUNICAZIONE E LA CONVERSAZIONE

1. Le sei componenti della comunicazione

Comunicare è un atto naturale, che compiamo fin da piccoli


praticamente senza neanche rendercene conto.
La competenza comunicativa è quella capacità posseduta
naturalmente dai parlanti di utilizzare la lingua nei diversi modi
che le varie situazioni richiedono. Non si tratta di un fatto sociale,
ma individuale del parlante: ogni parlante varia lo “stile” (registro)
del proprio parlare a seconda delle diverse situazioni comunicative
in cui si viene a trovare di volta in volta. Insieme alla competenza
comunicativa, nel nostro parlare quotidiano mettiamo anche in atto
quella che in sociolinguistica si chiama funzione di presentazio-
ne: cioè ogni volta che parliamo “presentiamo” noi stessi (sesso, età,
provenienza, livello di istruzione, ecc…); di questo aspetto siamo
assolutamente inconsapevoli in prima persona; ci risulta, invece,
più facile notarlo quando ascoltiamo parlare gli altri1.

1
Per questo capitolo cfr., tra gli altri, Giorgio Graffi, Sergio Scalise, Le
lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica, Il Mulino, Bologna, 2003, pp.
229 e seg. (il seguito: Graffi, Scalise).

17
teresa agovino

Sin dalla nascita, viviamo costantemente immersi in conte-


sti comunicativi e per questo la trasmissione e ricezione di un
messaggio ci appare un qualcosa di semplice e poco articolato.
Nonostante ciò la comunicazione, in tutte le lingue del mondo,
segue delle norme precise: cioè nel comunicare noi attuiamo una
serie di regole specifiche senza accorgercene, regole che il linguista
Roman Jakobson (1896-1982) ha così classificato, identificando
innanzitutto sei diverse componenti necessarie alla comunicazione.
Esse sono:

1. emittente: è il parlante (o lo scrivente), colui che emette il


messaggio;
2. destinatario: è il ricevente (il lettore, ad esempio, o l’ ascol-
tatore) di ciò che viene comunicato;
3. messaggio: si tratta ovviamente del messaggio che passa tra
emittente e destinatario (ad esempio: Passami il sale per chiedere
una saliera);
4. contesto: è la realtà cui ci si riferisce. Se cioè chiedo Passami il
sale certamente il contesto di riferimento sarà un pasto a tavola,
altrimenti la comunicazione andrà a fallire (immaginando la
stessa richiesta mentre nuoto in piscina con un amico, capiremo
che il contesto in quel caso è totalmente sbagliato e ciò farà fallire
la comunicazione);
5. canale: non è altro che il canale fisico attraverso il quale il
messaggio viene trasmesso: aria, filo telefono, carta, ecc…
6. codice: è il sistema linguistico di riferimento. Esso deve essere
necessariamente conosciuto da emittente e ricevente altrimenti,
ancora una volta, la comunicazione fallirà: se, ad esempio chie-
derò in cinese di passarmi il sale, ad un commensale che parla
solo la lingua russa il contesto (la tavola durante un pasto) sarà
appropriato, il canale (l’aria) anche, così come il messaggio, ma
la comunicazione fallirà poiché il codice linguistico è differente
(cioè l’interlocutore, semplicemente, non mi capisce e non può
soddisfare la mia richiesta). Di seguito uno schema delle sei
componenti della comunicazione individuate da Jakobson:

18
la comunicazione e la conversazione

Nella pagina seguente, una tabella che riassume le fasi fisiologiche e


psicologiche in fase sia di trasmissione che di ricezione di un messaggio.
Come illustrato nella tabella, vediamo che nella normale trasmissione
e ricezione un messaggio le fasi sono molteplici e, ovviamente, imme-
diate. Si parte da una fase di trasmissione del messaggio, suddivisa
a sua volta in una fase psicologica, legata a cervello e nervi motorii
del parlante (cioè il pensiero del messaggio che voglio comunicare e
l’input a inviare tale messaggio agli organi di fonazione) e una fase
fisiologica relativa agli organi di fonazione (cioè l’impostazione di
bocca, laringe, ecc. per parlare e trasmettere il messaggio). Attra-
versando il canale, ovviamente, ci si ritroverà in una fase fisica (il
messaggio che attraversa, ad esempio, l’aria) per poi tornare, in fase
di ricezione, alla suddivisione in fase fisiologica e psicologica
legata rispettivamente agli organi uditivi, ai nervi sensorii e al cervello
del ricevente che ascolta e comprende il messaggio di partenza.
Ognuna delle sei componenti elencate in precedenza assolve, sempre
secondo Jakobson, ad una precisa funzione. Vediamole in dettaglio:

1. la funzione emotiva – Riguarda, ovviamente, lo stato d’animo


che viene espresso dal parlante nel comunicare qualcosa (gioia,
rabbia, delusione, attesa, ecc.). Ad esempio un parlante che chiede

19
20
EMITTENTE RICEVENTE

NERVI ORGANI ORGANI NERVI


CERVELLO CANALE CERVELLO
MOTORII FONOARTICOLATORI UDITIVI SENSORII
teresa agovino

fase psicologica fase fisiologica fase fisica fase fisiologica fase psicologica

FASE DI TRASMISSIONE FASE DI RICEZIONE


la comunicazione e la conversazione

“Come è andato l’esame?” oppure risponde “Alle sette e mezza!”


o ancora comanda “Chiudi la finestra!” avrà necessariamente tre
diversi livelli emotivi nel comunicare con l’interlocutore di turno.
Vi corrisponde il genere letterario della poesia lirica.
2. la funzione referenziale – Questa è una funzione neutra,
puramente informativa, che riguarda il contesto di riferimen-
to: cioè se dico l’aereo parte alle 18.40 sappiamo che il contesto
probabilmente sarà un aeroporto, un volo da prendere, ecc. non
certo, per esempio, un ordine in pasticceria per una torta.
3. la funzione poetica – Questa funzione è la più complessa: si
realizza quando il messaggio del parlante costringe l’ascoltatore
a tornare sul messaggio stesso. Prendiamo come esempio una
poesia, Il 5 Maggio: nei versi Stette la spoglia immemore/orba di
tanto spiro il mittente del messaggio (il poeta Manzoni, in questo
caso) obbliga il ricevente (chi legge o ascolta la poesia) a tornare
su quel messaggio per decifrarlo (farne, cioè, una parafrasi). Ciò
vale non solo in poesia ma anche nei messaggi pubblicitari, in cui
il ricevente deve interrogarsi sulla struttura del messaggio stesso.
4. la funzione fàtica – Questa funzione è legata al canale di
comunicazione e si realizza quando chiediamo all’interlocutore:
Mi senti? Mi stai ascoltando? Mi segui? In questo caso vogliamo
controllare se il canale è aperto: cioè che mentre parliamo non ci
siano interferenze telefoniche, vento, ecc. ad ostacolare il canale
attraverso cui passa il messaggio inviato.
5. la funzione metalinguistica – Si tratta della funzione rife-
rita al codice che, ricordiamolo, deve essere necessariamente
condiviso tra i due parlanti. La funzione metalinguistica nasce
quando un codice parla di sé stesso: la grammatica italiana,
per esempio, usa la lingua italiana per spiegare le regole della
lingua italiana.
6. la funzione conativa – Riguarda il destinatario del mes-
saggio. Questa è una funzione relativa alla forma di comando
o esortazione rivolta a chi ascolta per modificarne un compor-
tamento (ad esempio un galateo, un invito a non calpestare le
aiuole, ad allacciare le cinture, ecc…).

21
teresa agovino

Quando Jakobson analizzò ed espresse le componenti della co-


municazione e in generale le loro funzioni aveva in mente, come
avremo notato, principalmente il riferimento a testi di natura let-
teraria. Ciò però, come abbiamo visto, non vuol dire che tali norme
non valgano nella normale comunicazione quotidiana.
Solitamente nella quotidiana comunicazione una funzione pre-
vale sulle altre (quindi ogni tipo di testo scritto, ad esempio, rea-
lizza una delle funzioni di Jakobson); ma è anche vero che in ogni
testo si possono realizzare più funzioni insieme (ad es. un manuale
di scuola guida assolve alla funzione referenziale (I cartelli rotondi
indicano divieto) ma anche a quella conativa (Non puoi passare con
il semaforo rosso).
Di seguito, uno schema riassuntivo delle componenti e funzioni
illustrate in questo paragrafo:

22
la comunicazione e la conversazione

2. La conversazione

2.1 Logica della conversazione

SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO – Prima di addentrarci nella logica


della conversazione sarà bene analizzare innanzitutto il concetto di
segno linguistico, inteso come unione di significante e significato.
Ferdinand de Saussure (1857-1913) è stato uno dei maggiori
linguisti della fine del secolo XIX ed ha codificato il segno lingui-
stico come segue:

segno = significante + significato

Il significante è un qualcosa di concreto: è l’insieme degli


elementi fonetici o grafici di un dato concetto. Cioè se scrivo o dico
la parola /libro/ l’insieme delle lettere che scrivo o dei suoni che
emetto sarà il significante del concetto mentale libro.

significante: /l.i.b.r.o./ – /b.o.o.k/ – /l.i.v.r.e/

Il significato è invece un concetto astratto. Si tratta dell’idea


mentale che chi mi ascolta, o legge, quando dico (o scrivo) libro si
fa dell’oggetto-libro (cioè non: oggetto con quattro gambe e uno
schienale utile a sedersi, ma: oggetto con copertina, pagine, ecc.):

significato:

Attenzione a non confondere il significato con la mera


raffigurazione grafica: il significato non è un semplice disegno
dell’oggetto menzionato, ma è l’idea astratta del concetto di libro
che abbiamo in mente e ci fa capire a cosa si riferisce l’insieme
di lettere l-i-b-r-o; b-o-o-k; ecc. quando la leggiamo, ascoltiamo,
pronunciamo.

23
teresa agovino

La lingua, quindi, non è altro che un sistema di segni (cioè di


elementi composti da significante e significato). Questo concetto vale,
ovviamente, per tutte le lingue: se dico /book/ in inglese o /livre/, in
francese, avrò il significante relativo al significato dell’immagine
mentale di un libro, e così via…. avremo, quindi, nelle diverse lingue
significanti diversi per uno stesso significato.

LOGICA DELLA CONVERSAZIONE – In ogni normale conversazione


quotidiana esistono sintomi e segnali:

sintomi: indicano il significato naturale di qualcosa (macchie


rosse = morbillo); non hanno quindi carattere intenzionale; cioè non
è la comunità linguistica che sceglie volontariamente di attribuire il
morbillo alle macchie rosse della pelle. Al contrario, i segnali hanno
un significato convenzionale; cioè la comunità italofona o quella
anglofona decide che l’insieme di lettere /libro/ o /book/ indica un
libro, o ancora che sull’autobus lo squillo indica la prenotazione
della fermata successiva, e così via…
A differenza dei sintomi, quindi, i segnali sono frutto di una con-
venzione cioè di un accordo tra i parlanti di una determinata comunità.

Il significato del parlante, allora, potrà risultare:

– convenzionale condiviso di norma da tutti i parlanti;


– non convenzionale in questo caso l’interlocutore deve rico-
struire le intenzioni comunicative del parlante, cioè deve sapere
in precedenza a cosa il parlante si sta riferendo nello specifico
per poterlo comprendere.

2.2 Massime della conversazione

Le massime della conversazione, individuate dal filosofo


inglese Paul Grice (1913-1988), sono quattro e indicano la corretta
norma per una conversazione appropriata. Vediamole in dettaglio:

24
la comunicazione e la conversazione

1. quantità – fornisci un contributo tanto informativo


quanto richiesto.
2. qualità – di’ ciò che ritieni essere vero.
3. relazione – sii pertinente.
4. modo (o modalità) – sii perspicuo, cioè esprimiti nel modo
più efficace possibile.

Ricordiamo, inoltre, che la conversazione è sempre soggetta


al principio di cooperazione tra parlante e ascoltatore. Risulta
cioè necessario che i partecipanti ad una conversazione cooperino
tra loro per comprendersi, rispondersi ecc., altrimenti (ancora una
volta) la comunicazione fallirà.
A volte chi comunica può violare le massime sopra descrit-
te. In tal caso, ovviamente, la conversazione fallisce. Qualora,
però, il parlante violi solo apparentemente tali massime (non
utilizzando cioè le espressioni nel loro significato letterale, ma
in quello figurato) la comunicazione funzionerà ugualmente.
In questo caso, dice Grice, si realizza una implicatura con-
versazionale.
Ad esempio: se diciamo qualche studente ha superato l’esame, la
conclusione più semplice per chi ci ascolta è che alcuni studenti
lo abbiano superato e altri no. Questa, nella logica della conver-
sazione, è un’implicatura anche se non lo è nel senso della logica
formale. Cioè: se so che tutti gli studenti hanno superato l’esame
e dico qualche sto violando la massima della quantità, cioè non
fornisco l’informazione necessaria.
Dico la verità, quindi non violo regole logiche, ma violo una
massima della conversazione perché il messaggio non arriva cor-
rettamente.
Se, invece, durante un temporale dico: Ah, che bel sole! la con-
versazione funziona anche se ne violo apparentemente le massime,
perché sto utilizzando il linguaggio in modo non letterale. Ho
trasmesso cioè l’implicatura che il mio messaggio non va inteso nel
senso letterale del termine, ma nel suo significato contrario. Ciò
grazie all’uso di figure retoriche. In questo specifico caso sto

25
teresa agovino

usando la figura retorica dell’ironia; ma posso utilizzare metafore,


iperboli, litoti, ecc.2

2.3 Analisi della conversazione3

L’analisi della conversazione comprende quattro concetti


chiave: turno linguistico, mosse conversazionali, potere,
faccia. Vediamoli in dettaglio:

TURNO LINGUISTICO – I turni sono le porzioni di discorso com-


prese tra un parlante e quello successivo. I turni sono socialmente
regolati (cioè esistono i cosiddetti meccanismi di riparazione
in caso di interruzione o sovrapposizione: se interrompiamo per
sbaglio qualcuno, ce ne accorgiamo e chiediamo scusa).
La norma quindi, come è ovvio, prevede la non sovrapposi-
zione tra i parlanti.

Esistono, poi, i cosiddetti punti di rilevanza transizionale:


sono quei momenti in cui ogni parlante in una conversazione può
iniziare il suo personale turno e prendere la parola.
Vi sono 3 regole (da leggere in ordine cronologico) relative ai
punti di rilevanza transizionale:

A. Il parlante deve smettere di parlare al punto di rilevanza transi-


zionale, per dare così la possibilità a un nuovo turno di comin-
ciare e cioè a un nuovo parlante di iniziare il suo turno;
B. Se al punto di rilevanza transizionale nessuno è selezionato
e nessuno parla, chiunque può parlare: se cioè in un gruppo

Graffi, Scalise.
2

Sul tema di questa sezione cfr, tra gli altri, Alessandro Duranti,
3

Antropologia del linguaggio, Maltemi 2005; H. Sacks, E. Schegloff, G.


Jefferson, A simplest systematics for the organisation of turn taking for conversation,
in Language, 50, 1974, pp. 696-735.

26
la comunicazione e la conversazione

chiediamo genericamente Sapete che ore sono?, tutti i membri del


gruppo possono rispondere.
C. In caso si verifichi il punto b., ovviamente, chiunque parli per
primo si assicura il turno successivo.

Le interruzioni in una conversazione possono essere di due tipi:

– volontarie
– involontarie

Dipendono, ovviamente, dalla volontà o meno dell’interlocutore


di interrompere chi sta parlando.
Possono, infine, nascere alcuni problemi nelle conversazioni a
distanza (come per esempio al telefono, o in una chat). Esistono,
comunque, anche in questo caso specifici meccanismi di riparazione.

MOSSE CONVERSAZIONALI – Rappresentano quella che si defi-


nisce la routine di ogni conversazione.
Ogni turno può contenerne più di una, vediamo un esempio in
una telefonata standard:

– Pronto? – (Apertura)
– Carlo? – (Riconoscimento)
– Sono Maria – (Identificazione)
– Ciao – (Saluto)

Ad ogni mossa conversazionale seguono, ovviamente, repliche


attese cioè risposte predefinite. Si può immaginare facilmente,
infatti, nell’esempio sopra descritto ogni risposta di Carlo alle mosse
conversazionali di Maria.
Vediamo anche il funzionamento delle cosiddette sequenze di
prechiusura. Si tratta di quelle mosse conversazionali che ci si
accinge di norma ad attuare prima di chiudere una conversazione.
Ad esempio, in una conversazione telefonica una sequenza di pre-
chiusura tipica potrebbe essere: Ok, allora ci sentiamo domani per …

27
teresa agovino

POTERE – Si tratta, come dice il nome stesso, del potere del


parlante all’interno di una conversazione.
Esistono tre diversi tipi di dominanza in una conversazione
standard:

– quantitativa: è la dominanza relativa al numero di parole e


turni. Ad esempio un professore durante una lezione avrà una
dominanza quantitativa cioè avrà un numero di parole e turni
più ampio di uno studente, poiché lo studente interverrà soltanto
in caso di dubbi o domande; al contrario durante un esame la
dominanza quantitativa passerà allo studente che dovrà esporre
i contenuti del corso in risposte più o meno ampie, mentre il
docente si limiterà e quesiti e brevi interventi.
– interazionale: è la dominanza che riguarda il controllo delle
sequenze interazionali, ad esempio il ruolo di un moderatore
in un talk show.
– semantica: è la dominanza di significato, cioè quella che indica
un controllo, da parte di chi detiene in quel momento il potere,
sugli argomenti e un’ imposizione del punto di vista.

Si tenga sempre presente il fatto che la dominanza non è con-


nessa all’ampiezza dei turni. Le differenze di ruolo, ovviamente,
si possono creare on-line (cioè nel corso della conversazione, una
persona può prendere e perdere potere). Si tratta della cosiddetta
rinegoziazione del ruolo.

i pronomi di cortesia e solidarietà4 – All’interno della di-


scussione relativa al potere in una conversazione, rientra il concetto
legato ai pronomi di cortesia e solidarietà.
Le lingue esprimono l’asimmetria del potere (anche sociale o
relazionale, non solo strettamente linguistico); per questo avremo:

4
Cfr. Graffi, Scalise, cit. p. 232.

28
la comunicazione e la conversazione

pronomi di cortesia: (Lei, Voi, Usted, Vous, Sie…)

pronomi di solidarietà: (Tu, Toi, Du…)

I pronomi di solidarietà, ovviamente, vengono di norma uti-


lizzati per relazioni simmetriche tra i parlanti, mentre quelli di
cortesia per le relazioni asimmetriche. Vediamo qualche esempio
nell’immagine sottostante5 in cui il pronome di cortesia è indicato
con V e quello di solidarietà con T:

Il sistema varia a seconda del Paese e della lingua. Ad esempio


in Olanda, in ambito accdemico, si tende a dare sempre del tu a
chiunque, indipendentemente dal tipo di relazione tra i parlanti;
in inglese, invece, come sappiamo, la mancata differenziazione tra
you (tu) e you (voi) non permette grosse distinzioni nel quotidiano.
Notiamo, inoltre, che in Italia si tende spesso a dare del tu agli
immigrati; ciò indipendentemente dal tipo di relazione che si ha
con il parlante. Può sembrare una mossa dettata da razzismo (e in
alcuni casi non è detto che non lo sia), in realtà però spesso essa
corrisponde alla volontà di adottare un sistema semplificato per
aiutare la comprensione: non solo con gli immigrati, ma con tutti gli
stranieri tendiamo naturalmente ad utilizzare il tu e a semplificare le

5
L’immagine si trova in ibidem.

29
teresa agovino

strutture sintattiche della nostra lingua semplicemente per renderci


maggiormente comprensibili. Si tratta di quello che in linguistica
viene definito foreigner talk.

FACCIA – Si tratta, molto semplicemente, del sé espresso durante


una conversazione. Lo scopo del parlante in ogni conversazione è
sempre quello di salvare la faccia, ovvero di non dare una brutta
impressione di sé in una conversazione che sia pubblica, privata,
formale o informale.
Esiste, in questo caso, anche una massima di cortesia che si
realizza, ad esempio con l’evitare forme imperative

Chiudi la finestra! NO;


Per favore, potresti chiudere la finestra? SI.

O ancora con lo scusarsi per un’interruzione involontaria:

Riparazione “Scusi” + Conforto “Di nulla”

30
CAPITOLO II

LA LINGUA ITALIANA

1. Il toscano come lingua d’Italia1

Perché, a un certo punto della nostra Storia, si è scelto il toscano


come lingua nazionale? Che peso ha in tutto questo la letteratura
italiana delle origini? Cerchiamo di fare chiarezza.
Va detto, innanzitutto, che l’italiano è una lingua che si basa
su un costante rapporto tra centro e periferia 2 e non rappresenta
qualcosa di unitario o un blocco monolitico e inerte ma al contrario
è un sistema in continuo e progressivo mutamento.
Il fatto che in Italia sia stato scelto il toscano come lingua na-
zionale rappresenta un evento di portata eccezionale, non la norma.
Nelle altre nazioni europee, come la Francia o l’Inghilterra, già in
epoca medievale la lingua della burocrazia e del potere (cioè quella

1
n.b. L’intera sezione di questo volume dedicata alla storia della lingua è da
considerarsi un mero riassunto, alla stregua di semplici appunti di lezione. Per
una conoscenza dettagliata del tema si rimanda, quindi, tra gli altri a Claudio
Marazzini, La lingua italiana, Il Mulino, Bologna, 2002; Bruno Migliorini,
Storia della lingua italiana, Bomipiani, Milano, 2016. (Il seguito: Marazzini,
Migliorini).
2
Marazzini

31
teresa agovino

parlata e scritta nelle capitali e nei centri del governo) si impone


come lingua nazionale. In Francia, ad esempio, già nel Trecento
si afferma il dialetto dell’ Île-de-France, che in meno di duecento
anni arriva anche a raggiungere lo status di unica lingua utilizzata
a livello letterario. In Inghilterra, invece, già in epoca medievale
troviamo che la lingua nazionale ha soppiantato i vari dialetti locali.
In Germania, con la Bibbia di Lutero3, nel Cinquecento i dialetti
vengono emarginati in favore di una lingua unitaria nazionale.
Questo in Italia non accade, principalmente (ma non solo) a
causa della tardissima unificazione nazionale (1861).
Il toscano, quindi, non vince sugli altri dialetti nazionali per
una naturale imposizione politica (se la scelta della lingua standard
fosse dipesa dal potere politico e dalla burocrazia, ad oggi avremmo
il dialetto piemontese o il romanesco della capitale come forme di
italiano standard) ma per un libero consenso da parte di tutte le
altre regioni. Perché?
La scelta del toscano deve molto alla letteratura: il toscano si
impone sul territorio nazionale già dal Trecento e non come lingua
governativa o burocratica, ma come lingua letteraria (grazie soprat-
tutto a Dante, Petrarca e Boccaccio) e ben cinque secoli prima che
esista un concetto di Nazione in Italia.
Quando, in pieno Ottocento, il Piemonte si pone a capo del
movimento unitario per formare il Regno d’Italia non impone
alla burocrazia del neonato regno (bandi, leggi, cancellerie, ecc.)
il proprio dialetto, adotta invece direttamente il toscano, poiché
esso risulta già da secoli regolarizzato e riconosciuto (grazie alla
letteratura) come “la lingua degli italiani”.
Quindi, a differenza del resto d’Europa, in Italia la capitale
politica (Roma) non coincide con quella linguistica (Firenze)4.

3
La Bibbia di Lutero è una traduzione della Bibbia dal latino in tedesco
realizzata da Martin Lutero tra il 1522 e il 1534.
4
Firenze, dopo Torino (1861-1865), fu la seconda capitale del neonato Regno
d’Italia, ma solo per sei anni, tra il 1865 e il 1871, anno questo in cui Roma entra

32
la lingua italiana

Al netto di tali considerazioni non si può allora parlare propriamen-


te di “lingua” e “dialetto” fin quando (nel corso del Quattrocento) il
toscano non si impone sulle altre parlate della penisola. Ogni dialetto,
infatti, fino a quel momento ha avuto la stessa probabilità del toscano
di venire assunto al rango di lingua standard a livello letterario. Par-
leremo quindi, in questa prima fase di sviluppo della lingua, non di
dialetti ma di volgari italiani5, considerati tutti sullo stesso piano.
L’imposizione letteraria del toscano, però, non implica automa-
ticamente che la letteratura dialettale non esista: pensiamo a poeti
come Carlo Porta (1775-1821), Giuseppe G. Belli (1791-1863),
Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950) autori di poesie in
dialetto romanesco o milanese. E il fenomeno non si arresta al Sette
-Ottocento, anzi: nel 1974 (in tempi, quindi, recentissimi) Raffaele
Pisani realizzerà una versione in poesia dialettale napoletana dei
Promessi sposi. Di seguito ne possiamo leggere i primi versi:

Na sera ’autunno (tiempo n’è passato),


se ne turnava a’ casa, cuoncio cuoncio,
nu certo don abbondio, era ’o curato
’e nu paisiello aggrazzïato e accuoncio.

Nun era n’ommo ’e chille traseticce,


nun era onesto e manco disonesto,
vuleva sta’ cujeto, senza mpicce:
e s’era fatto prevete pe’ chesto.

Pe’ don Abbondio ogni ghiurnata eguale:


’a messa, ’e ffunzïone, ’e sacramente.
’a stessa vita, sempe tale e quale:
poca fatica senza accucchià niente.

a far parte del Regno e ne diventa la capitale, con la fine dello Stato Pontificio
(Settembre 1870).
5
Marazzini.

33
teresa agovino
Ma pe’ sfurtuna, propio chella sera,
’a sciorta, tanta nfama e tanta ngrata,
le cumbinaie na carugnata nera
ch’ ’ammappuciaie peggio ’e na paliata6

Come si spiega, quindi, tutta la letteratura in dialetto sviluppa-


tasi parallelamente a quella in toscano (italiano)?
Una giusta risposta ci viene fornita nel 1927 da Benedetto
Croce (1866-1952), che analizza i vari tipi di letteratura dia-
lettale. Croce distingue due diversi tipi di letteratura dialettale,
che definisce rispettivamente “spontanea” e “riflessa”:

letteratura dialettale spontanea: è tutta quella lettera-


tura scritta in dialetto che precede la letteratura nazionale. Fiabe
popolari, canti popolari, ecc. Si tratta, quindi, di una produzio-
ne che non si può neanche definire pienamente letteraria, poiché
composta da autori che non conoscono la lingua standard (italiano)
o che scrivono le loro opere quando la lingua non è ancora stata
codificata a dovere.

letteratura dialettale riflessa: si tratta, invece, di pro-


duzioni letterarie che prevedono un uso cosciente del dialetto. È un
tipo di letteratura che si afferma pienamente intorno al 1600. Un
vero boom in tal senso, si è avuto in letteratura dagli anni Sessanta
del Novecento. Ciò non certo per sostituire la lingua con il dialetto,
ma allo scopo di creare una lingua mediana che fosse a metà tra
l’aulico e l’incolto e che potesse dar voce alle classi popolari emer-
genti dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Per comprendere bene cosa sia la letteratura spontanea riflessa
possiamo pensare al Commissario Montabano di Andrea Camil-
leri o, ancor prima, a un autore come Trilussa, che scrive poesie

6
Raffaele Pisani, I promessi sposi in poesia napoletana, Adriano Gallina
Editore, Napoli, 1980, p. 17.

34
la lingua italiana

in romanesco pur conoscendo benissimo la lingua italiana; egli,


dunque, come Camilleri, sceglie volontariamente di comporre
in dialetto. Di seguito un esempio tratto dalla poesia di Trilussa
L’uguaglianza:

Fissato ne l’idea de l’uguajanza


un Gallo scrisse all’Aquila: – Compagna,
siccome te ne stai su la montagna
bisogna che abbolimo ‘sta distanza:
perchè nun è nè giusto nè civile
ch’io stia fra la monnezza d’un cortile,
ma sarebbe più commodo e più bello
de vive’ ner medesimo livello. –

L’Aquila je rispose: – Caro mio,


accetto volentieri la proposta:
volemo fa’ amicizzia? So’ disposta:
ma nun pretenne’ che m’abbassi io.
Se te senti la forza necessaria
spalanca l’ale e viettene per aria:
se nun t’abbasta l’anima de fallo
io seguito a fa’ l’Aquila e tu er Gallo.

– Che superbia che cià! Chi sarà mai!


– disse er Gallo seccato de la cosa –
Lei nun se vô abbassà’! Brutt’ambizziosa!
L’ommini, in questo qui, so’ mejo assai.
Conosco, infatti, un nobbile romano
che a casa se dà l’aria d’un sovrano:
ma se je serve la democrazzia
lassa er palazzo e corre all’osteria.7

7
Trilussa, L’uguaglianza, in Tutte le poesie, Mondadori, 2004, p. 435.

35
teresa agovino

Va detto, comunque, che gli scrittori italiani di ogni epoca hanno


spesso attinto al panorama dialettale (si pensi a Verga, Sciascia,
Pasolini, Camilleri, De Cataldo…).
Possiamo allora inquadrare tre diverse tipologie di letteratura
legata al dialetto:

1. testo scritto propriamente in dialetto (è il caso dei poeti


dialettali già citati sopra: Trilussa, Porta, Belli…);
2. testo che utilizza il dialetto qua e là in un contesto non
dialettale (come il romanesco in Romanzo Criminale di Giancarlo
De Cataldo);
3. testo che rifiuta il dialetto (come I promessi sposi di Man-
zoni, per esempio).

2. Il purismo

Analizzata la situazione relativa ai dialetti nazionali; vediamo


ora la posizione degli intellettuali e degli accademici nei confronti
dei prestiti da lingue straniere. Storicamente si è tentato più volte
(e ovviamente invano) di combattere l’ingresso si parole straniere
all’interno lingua italiana. Si tratta di un fenomeno che va sotto il
nome di purismo.
Il purismo non si può considerare certamente un problema
di natura strettamente scientifica. Come sappiamo la lingua è
un fenomeno in continua evoluzione che sottosta continuamen-
te all’utilizzo che ne fanno i parlanti: risulta quindi impossibile
costringere la comunità dei parlanti all’utilizzo di alcuni termini
al posto di altri.
In pieno Ottocento, quando diverse aree italiane sono soggette
a dominazioni straniere, il purismo si impone in senso patriottico.
Ad esempio i piemontesi, sotto il dominio napoleonico, utilizzavano
la lingua italiana in segno di protesta contro un governo straniero.
Va da sé che, in quel caso, tutti i francesismi erano assolutamente
banditi. Si trattava, in questo caso, di un accordo tra parlanti di

36
la lingua italiana

una stessa comunità linguistica: i piemontesi, cioè, volevano parlare


italiano come reazione politica.
Diversa la situazione che si ripropone, invece, in ambito fascista
durante il Ventennio8. In quel caso, infatti, fu il governo a imporre
l’abolizione di alcuni forestierismi. Per cui ai parlanti si vietava di dire,
per esempio, Film preferendo la traduzione italiana Pellicola9, e così
via10… Ovviamente, tale imposizione non funzionò, poiché non si può
imporre la scelta linguistica a una comunità di parlanti. Scarso successo
ebbero tutti i tentativi del governo fascista di abolire i forestierismi,
soprattutto perché molte parole (come Sport, per esempio) erano tal-
mente radicate nel vocabolario italiano comune che risultava ormai
impossibile estirparle o sostituirle con equivalenti in traduzione italiana.
Dalle differenze tra i due momenti storici sopra menzionati,
possiamo quindi introdurre il concetto di lingua come simbolo di
identità nazionale. Innanzitutto va precisato che non è necessa-
ria un’unica lingua per fare uno Stato: la Svizzera, ad esempio, ha 4
lingue nazionali (Francese, Italiano, Tedesco, Retoromanzo), anche se
solitamente l’unità linguistica e quella politico-geografica coincido-
no. Allo stesso modo, abbiamo intuito che è un concetto ingenuo
quello di voler tentare di fermare la penetrazione di forestierismi
in qualsiasi lingua, perché essi funzionano naturalmente solo ed
esclusivamente se ottengono il consenso dei parlanti.
Se i prestiti fossero casuali o non avrebbero senso di esistere
oppure incontrerebbero la censura collettiva (cioè nessuno li uti-
lizzerebbe all’interno della comunità di parlanti).
Molti forestierismi, d’altra parte, sono di breve durata. Possia-
mo pensare a parole come eskimo (il cappotto utilizzato durante le
manifestazioni del ’68), floppy (il disco “nonno” dei supporti usb

8
Riprenderemo questo passaggio nel capitolo dedicato alla Storia della lingua
italiana.
9
Ricordiamo che in inglese film si dice movie; mentre pellicola è l’esatta
traduzione italiana della parola film.
10
Riprenderemo questo passaggio nel capitolo dedicato alla Linguistica
Applicata.

37
teresa agovino

nei computer), walkman (l’antesignano dell’i-pod). Tutte queste


parole, insieme a tanti altri prestiti da altre lingue, sono cadute o
stanno cadendo in disuso, man mano che passa il tempo, insieme
all’oggetto che designavano in un determinato periodo storico;
ciò accade semplicemente perché la comunità dei parlanti (cioè in
questo caso gli italiani, ma non solo, ovviamente) non utilizzando
più quegli oggetti non avverte il bisogno di utilizzare la parola che
essi designano. Diremo quindi che la lingua elimina automa-
ticamente ciò che è inutile.

3. Calchi e prestiti

Vediamo ora come funziona il sistema di calchi e prestiti nella


lingua italiana.
Possiamo innanzitutto, dividere i calchi da lingue straniere in
due diverse categorie:

calco traduzione: avviene quando una parola straniera viene


tradotta alla lettera nella lingua di arrivo, in questo caso l’italiano:
Sky-scraper < Grattacielo;

calco semantico: si ha invece quando la parola straniera, en-


trata nell’italiano, assume un nuovo significato. Autorizzare: in un
primo momento, entrata dal francese, aveva lo stesso significato
che ha in quella lingua, cioè “rendere autorevole”; solo in un secondo
momento ha assunto il significato italiano che utilizziamo normal-
mente, cioè “permettere”.

Leggermente diversa e un po’ più complessa è la questione legata


ai prestiti da lingue straniere. I prestiti possono giungere da lingue
cronologicamente e culturalmente poste sullo stesso livello (inglese,
francese, ecc.); da una lingua morta a una parlata (latino > italiano)
oppure si posso verificare anche tra dialetto e lingua standard.
La prima grande distinzione va fatta tra prestiti:

38
la lingua italiana

adattati (o integrati): ciò avviene quando il termine viene


integrato alla lingua che lo riceve e rischia di non diventare più
neanche distinguibile: treno < trainer (fr); beef-steak > bistecca;
n.b. Se bistecca fosse un calco, come grattacielo nell’esempio so-
prastante, lo avremmo tradotto letteralmente con “Costola di bue”,
invece abbiamo adattato la parola inglese alla nostra lingua.
Il prestito adattato, insomma, non si distingue più come prestito,
ma “sembra” una parola italiana.

non adattati: in questo secondo caso il prestito non viene


modificato in base alle tendenze della lingua che lo riceve; la parola
mantiene così la forma originale e si riconosce come parola non
autoctona. Un esempio è tram (> tramway car) che è rimasto come
era nella lingua originale.
In italiano non abbiamo, di norma, parole che finiscono in con-
sonante11, quindi, quando diciamo tram identifichiamo immediata-
mente questo vocabolo come una parola non italiana, entrata cioè
come prestito da un’altra lingua (diversamente da bistecca che, invece,
essendo adattato alla nostra lingua risulta ormai indistinguibile).
Si può, inoltre, fare una seconda distinzione tra i tipi di prestito
che una lingua riceve dal di fuori. Parleremo allora di prestiti:

di necessità: si hanno quando la parola arriva insieme all’oggetto


che designa: caffè, patata, mais, router. Cioè la lingua che riceve quella
parola non ha alternative e acquisisce l’oggetto insieme alla parola
straniera che lo designa, adattandola o meno a seconda dei casi.

di lusso: in questo secondo caso l’alternativa alla parola stra-


niera che entra in una data lingua già esiste. Succede allora che
due parole (una italiana e una straniera) vanno a designare la stessa
cosa; in questo caso o si usano entrambe indifferentemente: corner/

11
Rare le eccezioni, come nel caso di “Per”; vi sono inoltre alcune preposizioni
o articoli “Nel”, “Il”, ecc.

39
teresa agovino

calcio d’angolo, oppure una delle due varia leggermente il significato


iniziale: rimessa/garage.

Può, infine, accadere che i prestiti da altre lingue (ma non solo)
subiscano nel tempo mutamenti semantici (ovvero accade che
cambino di significato). Vediamo qui soltanto i due casi più emble-
matici, cioè degenerazione e innalzamento12.
Un esempio di degenerazione lo possiamo riscontrare nella
parola italiana facchino che, come vedremo anche oltre, deriva dall’a-
rabo faqīh. Ma, in lingua araba, faqīh non significava “portatore di
pesi”, bensì “giureconsulto”. Il “facchino” in arabo era praticamente
un alto esperto di giurisprudenza; il significato è quindi degenerato
quando è passato nell’ italiano.
Il caso inverso, quello definito dell’innalzamento, si può invece
riscontrare in ministro. In latino minister significava servo; la parola
ha dunque subito un innalzamento di grado nella lingua italiana,
da “servo” a “capo di un Ministero”.

4. Parole straniere entrate nell’italiano e italianismi in altre lingue13

I forestierismi entrati nella lingua italiana nel corso dei secoli


sono moltissimi e spesso come abbiamo visto indistinguibili dalle
stesse parole italiane. Ci concentreremo principalmente su parole
derivate da Francese, Inglese, Tedesco e Spagnolo14. Vedremo qui
soltanto le parole entrate in epoca relativamente recente (dal Me-
dioevo in poi); più avanti, invece, analizzeremo anche i termini

12
Graffi, Scalise.
13
Per questo paragrafo si veda Marazzini, cit., Migliorini, cit.; Francesco
Sabatini, Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e
meridionale, estratto da Aristocrazie e società fra transizione romano-germanica e alto
medioevo, Atti del convegno internazionale di studi Cimitile – S. Maria Capua
Vetere, 14-15 giugno 2012, Tavolario edizioni, 2015, (il seguito: Sabatini).
14
Le quattro lingue oggetto di studio in questo corso di laurea triennale.

40
la lingua italiana

legati alle invasioni barbariche succedute alla caduta dell’Impero


(iv. 3 – sostrato, superstarto, adstrato).
Il dizionario Treccani online riporta attualmente i seguenti pre-
stiti attestati in italiano: 6292 anglicismi (1989 adattati + 4303
non adattati); 4982 prestiti dal francese (3517 adattati + 1465
non adattati); dallo spagnolo 1055 voci (792 adattate + 263 non
adattate); dal tedesco 684 voci (430 adattate + 203 non adattate);
dall’arabo 633 voci (430 adattate + 203 non adattate).
Noteremo che in molti casi non siamo più in grado di distin-
guerne l’origine non autoctona, ci sembrano cioè parole italiane, e
che l’ingresso di determinati termini è soggetto a specifici momenti
storico-politici che hanno coinvolto la nostra penisola.

dal francese: entrano, innanzitutto, dalle letterature d’Oc


e d’Oïl (che si sono pienamente sviluppate già molto prima della
nostra) parole che riguardano la vita mondana del Medioevo: caccia,
groppa, cavallo, galoppo…
Entrano anche nella nostra lingua i suffissi -aggio, -iere e -ardo
che si sviluppano talmente bene da diventare produttivi in italiano
(formano cioè nuove parole a loro volta): coraggio, viaggio, cavaliere,
omaggio, cameriere, mestiere, codardo…
Intorno al Cinque-Seicento (quando l’Italia è terra di conquista,
soprattutto per francesi e spagnoli, pensiamo ai Promessi sposi che
narrano della dominazione spagnola della Lombardia nel 1628-30, ad
esempio) entrano invece dal francese termini di ambito militare (mare-
sciallo, brigadiere, batteria, convoglio, plotone, reggimento, distaccamento)
e termini di moda o cucina (ragù, bignè, besciamella, parrucca, lacchè).
Nei due secoli successivi (Sette-Ottocento), soprattutto dopo
la Rivoluzione francese e l’influenza del movimento Illuminista e
Giacobino in Italia (si pensi alla Rivoluzione napoletana del 1799, ad
esempio), entrano parole legate a quel contesto, riguardanti quindi
principalmente la politica e la burocrazia, come: rivoluzione, giaco-
bino, terrorismo, fanatico, timbro, votazione, burocrazia…
Ricordiamo anche che per tutto il Settecento il francese era la
lingua di prestigio delle corti europee e non solo (anche di quella

41
teresa agovino

Russa, ad esempio), quindi ampio spazio ai francesismi viene lasciato


nelle diverse lingue d’Europa e non. Tra i termini entrati nel corso
del Settecento ricordiamo: bleu (blu), lillà, zinco, cerniera, conto corrente,
marionetta, rondò, minuetto. Nel primo Ottocento, come sappiamo,
l’influenza francese sulla lingua italiana (soprattutto al Nord) è for-
tissima. Ciò, anche e soprattutto in epoca napoleonica, quando si
avvierà anche quel meccanismo inverso di chiusura purista (vedi sopra)
in aperto contrasto al dominio francese, per esempio in Piemonte,
di cui abbiamo già accennato. Qualche esempio di vocaboli entrati
in questo periodo si può riscontrare in molteplici ambiti della vita
quotidiana, come ad esempio: ambulanza, avamposto, marmitta, club,
timbro, pompiere, comò, griglia, serra, pon-pon, furgone, crampo, pinguino.
Intorno alla fine del xix secolo, cioè agli albori del Novecento,
parole francesi prestate alla nostra lingua sono: menu, petroliere,
estradare, décolleté, pedicure, glassare, bomboniera, garage, automobile,
oblò, passerella, vernissage, cancan.

dallo spagnolo: come abbiamo detto sopra, molti termini giun-


gono nel Cinque-Seicento grazie non solo alle conquiste ispaniche
sulla nostra penisola, ma anche alla scoperta di nuovi territori (1492,
scoperta dell’America). Mediati dallo spagnolo entrano quindi ter-
mini esotici in italiano come caffè, patata, banana, cioccolato, mais,
bambù (prestiti di necessità: designano oggetti mai visti prima che
quindi arrivano insieme alla parola che li definisce). Si aggiungano
parole relative al comportamento come brio o disinvoltura e i titoli
di signore e don. Ancora, nel corso del Seicento possiamo incontrare
parole come posata, baule, recluta. Va detto, però, che diversi iberismi
entrati in italiano nel xvii secolo tendono a scomparire nel tempo
soprattutto quelli legati a oggetti caduti in disuso15 come polviglio
(droga in polvere) o candiero (bevanda di uova, latte e zucchero).
Pochissime le entrate spagnole in italiano nel corso del Sette-
cento, ricordiamo fandango e flottiglia.

15
Migliorini.

42
la lingua italiana

Entrano nel corso del primo Ottocento: corrida, torero, matador 16.

dall’inglese: si tratta di una lingua che ad oggi immette con-


tinuamente termini nuovi in italiano, ma storicamente non aveva
tutto questo peso sulla nostra lingua, quindi le parole inglesi entrate
in italiano sono relativamente recenti (due secoli circa). In passato
(cioè fino all’Ottocento) molte parole inglesi arrivavano in Italia
mediate dal francese che, lo ricordiamo, era lingua di cultura. Un
elenco completo sarebbe impossibile, ma ricordiamo che esistono
addirittura in italiano anglicismi sintattici come day after day che
diventa giorno dopo giorno.
Nel corso del Cinquecento «gli anglicismi sono scarsi, e quasi
tutti riferiti a cose dell’isola di cui trasmettono la conoscenza quelli
che vi sono stati (gli ambasciatori, gli esuli…)»17.
Nel Settecento arrivano nella lingua italiana molti anglicismi che
sono difficilmente riconoscibili o perché alterati dalla mediazione
del francese o perché si tratta di anglolatinismi. Per quanto concerne
gli anglicismi puri possiamo ricordare: milord, milady, pamphlets,
lillipuziano (da Swift, I viaggi di Gulliver).
Dal primo Ottocento si riscontra un sostanziale aumento di
anglicismi nella lingua italiana, possiamo incontrare parole come:
budget, leader, meeting, speech, conservatore, radicale, assenteismo,
bulldog, tunnel, locomotiva, viadotto, tram, dandy, fashion, comfort,
roastbeef, punch18.
Con la fine del xix secolo e l’inizio del Novecento, gli anglicismi
si fanno sensibilmente più numerosi (almeno fino alla brusca frenata
imposta dal Fascismo, per poi vedere una nuova fioritura dagli anni
Sessanta), qualche esempio lo può trovare in: check, smoking, gin,
bridge, poker, flirt, bluff, snob, goal, derby, film.

16
Pensiamo qui, ad esempio, alla comparsa dei “mattadori” nella Traviata di
Giuseppe Verdi (1853, libretto di F. M. Piave) – Di Madride non siam mattadori,
Atto II, Scena XI, Festa a casa di Flora.
17
Migliorini, cit., p. 383.
18
Migliorini.

43
teresa agovino

dal tedesco: è questa forse la lingua europea che ha meno im-


patto sulla nostra. L’influenza germanica si era fatta sentire in fase di
formazione della lingua (quando cioè cade l’Impero romano e le po-
polazioni germaniche invasero la penisola- v. oltre: iv.3). Nel corso del
Medioevo qualche parola germanica si radica così bene da soppiantare
l’equivalente latino, come guerra (che in latino invece si diceva bellum,i).
In pieno Settecento giunge qualche nuovo vocabolo di matrice
scientifica come cobalto e nickel.
La parola walzer, invece, entrerà nell’italiano nei primi anni
del xix secolo.
Ad oggi, effettivamente, il numero di parole germaniche è
abbastanza ridotto. Germanismi molto antichi (li analizzeremo
in un capitolo a parte) sono parole come: panca, stecca, schiena,
faida, nastro.
Germanismi moderni sono invece: lager, bunker, diesel, würstel…
Notiamo come le parole entrate ai tempi della caduta dell’Impero
romano siano ormai adattate (non le distinguiamo come stranie-
re), mentre quelle più recenti sono invece prestiti non adattati (ne
riconosciamo facilmente l’origine germanica).

altre lingue: vi sono diversi prestiti da altre lingue entrati


nell’italiano nel corso dei secoli, vediamone alcuni di esempio.
Dall’ebraico entrano per lo più poche parole di ambito liturgico
(perché il latino riesce a soppiantare quasi completamente il lessico
ecclesiastico): Osanna, alleluia, amen.
Dall’arabo giungono nella nostra lingua parecchie parole in
epoca medievale (grazie anche ai moltissimi scambi commercia-
li). Si tratta di termini appunto commerciali, marinari, medici,
matematici: Zero (> Sifr = vuoto), dogana, azzurro, sciroppo, tariffa,
ammiraglio. Nel corso del Cinquecento entrano anche sofà, diva-
no, chiosco, serraglio, turbante, sorbetto, insieme a termini legati alla
scienza in evoluzione, come alcohol > alcol.
In pieno Trecento, dal persiano giungono le parole gelsomino
e arancio. Dall’ungherese, esclusi i termini culinari come gulasch
e vino tokai, arriva (non direttamente, ma attraverso il tramite del

44
la lingua italiana

tedesco) la parola cocchio (> kocsi: Kocs è il nome della città in cui
questa vettura veniva costruita) alla fine del Quattrocento, a desi-
gnare una carrozza aperta.
Dal russo, oltre a mammut, giungono molte parole legate alla
Rivoluzione d’Ottobre come zar, nichilista, bolscevico, soviet, appa-
rato, stacanovista.
Poche parole come chicco, bricco, sorbetto, arrivano invece dalla
lingua turca, mentre dal giapponese l’italiano importa (in tempi
recenti) parole come bonsai, kamikaze, judo.
Dal croato nel Cinquecento arriva la parola sciabola. Nel corso
del Settecento, invece, entra in italiano la parola vampiro (ma non
si sa se direttamente dal serbocroato o attraverso la mediazione
del francese o dello spagnolo)19. Dall’america, appena dopo la sua
scoperta, nel corso del xv e xvi secolo, insieme alle parole di cibi
che abbiamo già visto (e sempre filtrate dallo spagnolo e dal por-
toghese) arrivano parole esotiche come caimano, condor, iguana. Più
di recente, tra Otto e Novecento troviamo invece pullman e motel.
Voci africane, riscontrate dall’inizio del xx secolo sono: ras,
negus, tucul.
La parola té viene, invece, ovviamente dal cinese intorno al
xvii secolo.
Sci, è una parola importata dal norvegese intorno alla fine
dell’Ottocento.

n.b. Bisogna fare attenzione alle parole derivate dal greco e


dal latino. Come vedremo anche oltre, infatti, non tutte le parole
italiane sono naturalmente derivate dal latino, molte di esse vennero
introdotte successivamente come prestiti dalle due lingue morte di
prestigio, soprattutto in ambito medico, scientifico, tecnico quando
il volgare italiano non disponeva di vocaboli adeguati per questi
specifici ambiti. Sono quelle che oggi distinguiamo facilmente e
definiamo di matrice colta.

19
Migliorini.

45
teresa agovino

In tal caso possiamo incontrare i cosiddetti allòtropi: cioè


coppie di parole italiane derivate dalla stessa matrice latina ma en-
trate nella nostra lingua per vie diverse: una attraverso l’evoluzione
naturale, l’altra per derivazione dotta.
Un esempio20 si può trovare nella parole plebem (popolo), che
attraverso l’evoluzione naturale ha dato in italiano pieve, e per via
dotta plebe.
Qualche rapido esempio di parole entrate dal greco lo possiamo
trovare in: paragonare (xiv secolo); entusiasmo (xvi secolo); analfa-
beta; analisi (xvii secolo); manicomio (xix secolo).

italianismi accolti in altre lingue: Come appare evidente,


la nostra lingua nel corso dei secoli non ha soltanto importato termi-
ni dalle altre lingue ma ne ha anche abbondantemente esportati, per
lo più nei settori marittimo, commerciale, alimentare, letterario e
artistico. Di seguito qualche interessante esempio21 degli italianismi
presenti nelle lingue straniere sin dal Cinquecento.

Cinquecento: profumo (fr: parfum); soldato (fr: soldat; spa: sol-


dado; ted: Soldat); bussola (spa: brùxula; fr: boussole); calamita (fr:
calamite; spa: calamita); sonetto (spa: soneto; fr: sonnet; ing: sonnet);
balcone (fr: balcon; spa: balcòn; ing: balcony). Durante questo secolo,
gli italianismi si diffondono principalmente attraverso le classi colte,
seppur con una significativa partecipazione popolare.

Seicento: Continua in questo secolo l’influenza linguistica


dell’Italia in ambito artistico e soprattutto musicale. Ricordiamo
opera (fr: opera; ing: opera); adagio (ing. adagio); girandola (fr: giran-
dole; ing: girandola); fattura (ted: Factura; fr: facture); violino (ted:
Violin; sved: violin); lazzaretto (sved: lasarett); bandito (sved: bandit).

20
Graffi, Scalise.
21
Migliorini.

46
la lingua italiana

Settecento: molti termini in questo secolo sono legati alla


musica o alla vita sociale come casino (fr: casino; ted: Casino; ing:
casino); pittoresco (fr: pittoresque; ing: picturesque; ted: pittoresk); pia-
noforte (fr: pianoforte, abbreviato in piano; ted: Fortepiano/Pianoforte;
sved: fortepiano); mandolino (fra: mandolino; ing: mandolino; ted:
Mandoline); cicerone (fr: cicerone; ted: Cicerone; ing: cicerone).

Ottocento: durante la prima metà del secolo l’influenza della


lingua italiana non è fortissima all’estero; diverse voci si attestano
in Francia in ambito musicale operistico: maestro (fr: maestro; ing:
maestro); libretto (franc: libretto; ing: libretto; ted: Libretto); diva (fr:
diva; ted: Diva); vendetta (fr: vendetta; ing: vendetta); soprano (sved:
sopran); cupola (ungh: kupola).
La seconda metà del secolo vede la diffusione di termini legati
alla politica e all’unificazione nazionale come garibaldejka (bulg),
un particolare tipo di camicia; irredentismo (fr: irrédentisme; ing:
irredentism); mafia (fr: maffia); risotto (ing: risotto; fr: risotto); malaria
(fr: malaria; ing: malaria).

n.b. attenzione. La lingua, lo abbiamo detto più volte, è un siste-


ma in continuo mutamento e quindi anche i prestiti subiscono l’effetto
del tempo e delle situazioni sociali e politiche di un Paese. Non tutte
le parole vengono importate ed esportate contemporaneamente: può
succedere per esempio che una parola italiana entri nella lingua inglese
nel Settecento e in quella francese nel secolo successivo, e così via. Può
accadere anche che, nel corso del tempo alcune parole siano entrate
in una lingua come forestierismi e poi a loro volta siano arrivate in
lingue diverse attraverso il tramite della lingua “di mezzo”; ad esempio:
l’italiano facchino passa nel Cinquecento nel francese faquin, e nello
spagnolo faquín, ma a sua volta la parola non era italiana; sappiamo
infatti che essa rappresenta un prestito dall’arabo faqīh.
Il percorso quindi, in questo caso, sarà:
faqīh > facchino > faquin; faquín;
cioè arabo > italiano > francese; spagnolo.

47
teresa agovino

5. Le varietà della lingua

Come abbiamo ormai appurato non esiste omogeneità lingui-


stica assoluta.
Pensiamo innanzitutto alla grande differenza (che pure negli
ultimi tempi si va affievolendo) che esiste tra lingua scritta e parlata.
Va da sé che la lingua scritta è più controllata a livello di lessico
e sintassi, si può correggere, dura nel tempo.
Lo storico della lingua andrà a lavorare principalmente su questo
tipo di lingua, cioè quella scritta, anche perché non sempre è facile
lavorare sul parlato: innanzitutto è impossibile o quasi farlo prima
dell’invenzione di supporti di registrazione vocale; in secondo luogo,
se si volesse registrare, ad esempio, una conversazione spontanea
tra due amiche, entrambe, sapendo di essere registrate, certamen-
te non parlerebbero come davvero fanno nella vita reale, magari
per inibizione o mera formalità. L’oralità possiede anche elementi
assenti nella scrittura (lo abbiamo visto nel capitolo dedicato alla
comunicazione e alla conversazione), come ad esempio la gestualità,
l’espressione facciale, ecc.
Esistono studi sull’oralità solo a partire dal Novecento, che per-
mettono di analizzare linguaggi specifici come il gergo di caserma,
il dialetto specifico di un piccolo paese, ecc.
Non è facile, insomma, riuscire a cogliere la lingua viva e in
evoluzione.
Quindi diremo che una caratteristica intrinseca della lingua è
proprio la sua varietà. Ovviamente questo è un concetto che vale
per ogni lingua e per ogni epoca, non solo nell’italiano e non solo
in epoca contemporanea. La lingua è un qualcosa di estremamente
vario: varia tra scritto e parlato, varia a seconda della regione ge-
ografica in cui è parlata, varia ancora in base agli strati sociali che
la parlano; addirittura, come vedremo, ognuno di noi utilizza la
lingua a più livelli (registri) nell’arco di una sola giornata media.
Vediamo quindi quali sono le diverse varietà della nostra lingua.

48
la lingua italiana

varietà diastratiche: si tratta delle diverse varietà della lingua


esaminate ad un livello culturale e sociale. Parleremo di italiano
popolare come di quella lingua parlata da chi commette errori e
non riesce a staccarsi dal proprio dialetto neanche in contesti formali.
L’errore è considerato una contaminazione del codice e spesso i
linguisti studiano anche quello (riprenderemo questo concetto quando
analizzeremo l’Appendix Probi). Quindi varietà diastratiche (n.b. il
prefisso dia-, dal greco, vuol dire attraverso) vuol dire le diverse varietà
della lingua a seconda degli strati socio-culturali che la utilizzano. Per
studiare tali varietà della lingua in tempi remoti, affini più al parlato
che allo scritto, gli studiosi si affidano a supporti come lapidi (lo
vedremo con Celso Cittadini già nel Seicento), graffiti, ex voto, ecc.
Si tenga anche presente che la lingua italiana, fino al Cinque-
cento, non aveva una norma ortografica definita. Negli anni che
precedono il lavoro di Pietro Bembo (lo vedremo oltre) la mancanza
di una norma precisa nella scrittura faceva sì che anche i più colti
potessero commettere errori ortografici. Ad esempio: se non è de-
ciso ufficialmente come si scrive in italiano la parola aiuto, anche
un copista esperto potrà trovarsi a scriverla ajuto, agliuto, ecc.: pur
non essendo incolto, egli semplicemente farà ricorso alla lingua
viva, quella che parla e sente ogni giorno aiutandosi, quindi, con la
pronuncia della parola. Questa situazione, dicevamo, varia dopo il
Cinquecento quando, con la lingua italiana dotata di norme precise,
chi si discosta da tali norme è facile che le ignori del tutto e sia
quindi uno scrivente popolare o semicolto.
Attenzione anche al fatto che non sempre, nel corso della storia,
i ceti potenti e ricchi coincidono necessariamente con quelli colti:
Carlo Magno, ad esempio, fu un grande promotore culturale proprio
a causa del suo personale analfabetismo; egli, infatti, non sapeva
né leggere né scrivere altro che la sua stessa firma. Di norma, e per
molti secoli, non sempre la classe nobiliare coincise con quella colta;
a detenere la cultura erano, in passato, soprattutto gli ecclesiastici.
Ancora a partire dal Cinquecento l’italiano letterario si impone
anche come lingua di comunicazione, così anche i nobili si aprono
alla corretta ortografia della lingua italiana e si avvierà quel processo

49
teresa agovino

in atto ancora oggi per il quale più è modesto il livello culturale dello
scrivente più alto sarà il margine di errore nello scrivere e parlare.

varietà diatopiche: sono le diverse varietà geografiche (dia


– topoi = attraverso i luoghi). L’italiano è una lingua dalle innume-
revoli varietà geografiche e non è parlata uniformemente in tutte
le zone della penisola.
La lingua che parliamo (e scriviamo) tutti, da Nord a Sud, è il
cosiddetto italiano standard, cioè quello che assolve alla fun-
zione di lingua ufficiale.
Come ben sappiamo, però, in Italia possediamo un’innumerevole
quantità di dialetti. Ciò vale più o meno per ogni Paese del mondo.
In Italia, però, notiamo come un milanese che parla italiano standard
lo fa in modo diverso da un catanese o da un romano. Ciò perché ogni
parlante porta con sé una “patina” che ne denuncia la provenienza,
anche nel parlare la lingua standard. Questo tipo di italiano viene
definito italiano regionale. Ovviamente esistono tanti italiani
regionali, quante regioni avremo in Italia (20, nel nostro caso)22:

22
Immagine reperita utilizzando il motore di ricerca Google Immagini.

50
la lingua italiana

In Italia esistono due principali linee di demarcazione che in-


dividuano i vari dialetti (isoglosse)23: la Linea La Spezia-Rimini,
che divide i dialetti del Nord da quelli del Centro-Sud, e La linea
Roma-Ancona che invece separa i dialetti del Centro da quelli
meridionali.
Semplificando, vedremo che esistono (guardando al generale)
tre grandi italiani regionali: Nord, Centro, Sud.
Avremo così una situazione linguistica come questa:

italiano standard
italiano regionale
dialetti locali

L’italiano regionale ingloba in sé una serie di elementi propri


della parlata locale, ma “italianizzati”. Come per l’italiano, inoltre,
anche le altre lingue risultano stratificate sia a livello sociale, come
abbiamo già visto, che geografico.

varietà diafasiche – I parlanti di una lingua, nella loro quo-


tidianità, utilizzano più registri linguistici e possono passare
velocemente da uno all’altro (prima di fare un esame parlo con un
amico di fuori regione, telefono a mia madre, svolgo un compito
scritto, ecc…: mi troverò di fronte a quattro diversi registri linguisti-
ci in una sola mattinata); questo continuo mutare registro si chiama
code switching. Vediamo quali sono questi registri nello specifico:

23
Cfr. tra gli altri, Massimo Palermo, Linguistica italiana, Il Mulino,
Bologna, 2020, p. 253 e seg. (il seguito: Palermo): «L’isoglossa è una linea
immaginaria che separa una porzione di territorio in cui un certo tratto si presenta
nella forma A dalla porzione di territorio in cui lo stesso tratto si presenta nella
forma B. In alcuni casi le isoglosse corrono molto vicine, formando dei fasci di
isoglosse, un addensamento di differenze a cui corrisponde un confine tra aree
dialettali».

51
teresa agovino

italiano scritto – è la forma più austera della lingua standard


(vi sono scritte le leggi della Repubblica, per esempio)
italiano parlato formale – si usa nelle occasioni formali (un
esame orale, ad esempio). Si tratta di una forma di parlato molto
controllata, che infatti si attua tendenzialmente a velocità moderata,
articolando distintamente anche i suoni.
italiano parlato informale – si tratta della lingua che uti-
lizziamo in famiglia, tra amici, ecc. Questo tipo di italiano viene
parlato abbastanza velocemente, prestando poca cura alla scelta
lessicale e a velocità accelerata rispetto al formale. Contiene spesso
molti regionalismi.
italiano regionale – (v. sopra)
dialetto di koinè – Questo tipo di dialetto identifica una re-
gione dialettale: il lombardo; il toscano; il campano, il siciliano, ecc.
dialetto del capoluogo di Provincia – Come è facile in-
tuire, se prendiamo il dialetto regionale siciliano, esso varierà a
livello geografico a seconda delle province: a Messina si parlerà un
siciliano diverso rispetto a Palermo, Catania, e così via.
dialetto locale – Questa è, ovviamente, la forma più stretta
di dialetto, che distingue anche la città dalle sue province o addi-
rittura le zone di una stessa città, i vari quartieri.

Si deve comunque sempre tener presente che un dialetto non


è un sistema linguistico secondario ma un vero e proprio codice,
esattamente come la lingua. Se prendiamo ad esempio la situazione
italiana (ma vale per tutte le lingue parlate) prima che il toscano
fosse scelto come italiano standard, lo abbiamo già detto, ogni
dialetto aveva le stesse possibilità di diventare lingua nazionale.
Alle varietà diafasiche (dià – phasis = differenza nello stile), po-
tremmo, semplificando, attribuire i seguenti stili, che utilizziamo
quotidianamente, o quasi:

1 – aulico
2 – colto
3 – formale

52
la lingua italiana

4 – medio
5 – colloquiale
6 – informale
7 – popolare
8 – familiare
9 – basso-plebeo

Ognuno di questi registri richiederà, come è ovvio, una diversa


forma di parlato.
Esempio – in treno, se sentiamo dire: Chiudi un po’ il finestrino!
comprenderemo immediatamente che chi parla si rivolge ad un amico
o a un familiare, poiché utilizza un tipo di registro popolare/familiare.
Se invece, la stessa persona dicesse: Per favore, potrebbe chiudere
il finestrino? capiremmo altrettanto immediatamente che la perso-
na che parla si rivolge a qualcuno che non conosce e utilizza un
registro formale.
Si tenga presente che al giorno d’oggi molte tendenze innovative
della lingua si presentano ad un livello medio-basso: se sapevo; c’hai;
gli (a lei) ho detto, eccetera…
Va da sé che un parlante può adottare tutte le forme in diversi
contesti. Ognuno di noi in una giornata tipo passa da un tono fami-
liare con i propri amici o parenti, ad uno formale quando si trova in
classe, ad uno informale o colloquiale con un conoscente, e così via.
Introdurremo ora anche il concetto di mistilinguismo. Si tratta
di un fenomeno di lingua mista, contaminata cioè da elementi di
natura diversa.
Ad esempio, come abbiamo spiegato sopra relativamente ai vari
registri linguistici, un parlante italiano utilizza latinismi (colti),
l’italiano letterario, quello colloquiale regionale, il proprio dialetto,
il toscano standardizzato, e così via…
n.b. i parlanti toscani, invece, in questo specifico caso si trovano
di fronte ad una situazione di diglossìa (ci torneremo nel capitolo
dedicato alla linguistica applicata): perché parlano il proprio dialetto
dell’uso che però si trova in una condizione di prestigio inferiore a
quella della lingua standard.

53
teresa agovino

Il fenomeno del mistilinguismo può essere di due diversi tipi:


volontario: è una scelta volontaria di stile (es. le commedie
del Cinquecento erano cariche di vocaboli gergali o dialettali per
espressa volontà degli scrittori);

involontario: è un errore involontario di chi parla (più raro


in chi scrive per i motivi che abbiamo visto sopra, relativamente al
controllo elevato sulla scrittura dell’italiano standard).

6. Lingua e dialetti24

In questo paragrafo cercheremo di riassumere brevemente la


questione legata a lingua e dialetto che, come vedremo, tornerà a
più riprese nei prossimi capitoli.
Innanzitutto va ribadito il concetto che il dialetto non è una
forma corrotta della lingua.
Tendiamo erroneamente a pensare che dal latino si sia forma-
to l’italiano, poi degeneratosi nei vari dialetti; il processo reale è
invece esattamente al contrario: dal tardo latino parlato (latino
volgare) si sono formati tutti i vari volgari (dialetti) nazionali tra i
quali il toscano è stato scelto e riadattato letterariamente prima e
burocraticamente poi.

LATINO VOLGARE (TARDO LATINO PARLATO)

emiliano TOSCANO lombardo campano …

ITALIANO STANDARD

24
Cfr, tra gli altri Graffi, Scalise, pp. 233 e seg.; Manlio Cortelazzo,
Avviamento critico allo studio della dialettologia italiana, Bagini, Pisa, 1969; (il
seguito: Cortelazzo); aa.vv. Dialetti italiani. Storia, struttura, uso, a cura di
M. Cortelazzo, N. De Blasi, G. P. Clivio, Utet, 2002.

54
la lingua italiana

Di conseguenza, ad un certo punto della nostra storia linguistica,


ogni dialetto avrebbe potuto essere elevato letterariamente al rango
di lingua, come ben vedremo nel capitolo dedicato alla questione
della lingua tra Trecento e Cinquecento.
La branca della linguistica che si occupa nello specifico dello stu-
dio e dell’evoluzione dei dialetti si chiama, appunto, dialettologia.
Ad oggi, tutti i membri della nostra comunità linguistica parlano
italiano e al contempo, nessuno lo parla: vale a dire che ognuno di
noi, sin dalla prima infanzia apprende la lingua italiana caricata di
influssi regionali o locali; di conseguenza un siciliano, un lombardo
e un marchigiano che parlano tra loro si comprenderanno perfetta-
mente, pur parlando una lingua caricata di sfumature molto diverse.
La corretta pronuncia dell’italiano standard (la cosiddetta dizio-
ne) appartiene, infatti, solo a coloro che, per necessità, la imparano da
adulti (attori, doppiatori, ecc.). Nessuno, in Italia (nemmeno in Tosca-
na), impara a livello elementare la lingua standard nella sua corretta
pronuncia. Prendiamo l’esempio di pèsca e pésca: si tratta di due parole
omografe (che hanno cioè la stessa forma grafica) che indicano due
cose diverse (il frutto e l’atto del pescare). In ambito campano, e non
solo, entrambe le parole vengono pronunciate indifferentemente con
la é chiusa, mentre la corretta dizione italiana impone una notevole
differenza di pronuncia a indicarne i due diversi significati.
Potremmo quindi paradossalmente affermare che l’italiano parlato
non esiste: è stato cioè creato “a tavolino” ed è appannaggio solo dei
professionisti della lingua, per lo più legati all’ambito teatrale, cine-
matografico e televisivo; anche chi lo parla ad alti livelli al di fuori
di tali ambiti (politici, accademici, ecc.) non ha la preoccupazione di
nascondere eccessivamente l’influsso regionale del proprio parlato.
Abbiamo già visto25 le varie classificazioni relative a lingua,
dialetti regionali, locali, ecc. Vedremo più avanti anche le differenze
strutturali tra la lingua e il dialetto26.

25
Nel paragrafo precedente.
26
Nel capitolo Appunti di linguistica applicata e sociolinguistica.

55
teresa agovino

Ora, ciò che ci preme evidenziare più di tutto è il dato fonda-


mentale relativo a come dal latino tardo parlato siano nati i volgari
italiani, tra cui anche il toscano.
Di conseguenza, quando nei capitoli successivi confronteremo
l’italiano con i vari volgari (dialetti) e ne vedremo l’evoluzione fonetica
spontanea o condizionata, dovremo sempre tenere bene in mente che
con italiano intendiamo il toscano, cioè quello tra i volgari che dopo
la sua evoluzione dal latino è stato eletto a lingua standard attraverso
una serie di passaggi e adattamenti prima letterari, poi politici.
Per secoli, il dialetto è stato sostanzialmente marchiato come
un qualcosa di estremamente negativo. Sin dal Quattrocento27 si
registra la presenza di vocabolari dialettali. Ovviamente, dato
che in principio il dialetto era visto come una degenerazione della
lingua, lo scopo principale di tali dizionari era correggere la forma
dialettale con quella standard. Si tratta dei cosiddetti vocabolari
di prima generazione, molto diffusi dopo l’Unità d’Italia e che
possiamo datare addirittura fino alla Prima Guerra Mondiale.
Dopo l’unificazione nazionale e il primo grande movimento nei
confronti di una lingua parlata a livello unitario28, con le due guerre
mondiali, come possiamo immaginare, la leva obbligatoria fornì una
prima spinta (la seconda arrivò con l’avvento della televisione dagli
anni Cinquanta) alla comunicazione interregionale: soldati di ogni
parte d’Italia si trovarono a combattere fianco a fianco nelle stesse
trincee e dovettero in un certo qual modo comprendersi a vicenda.
Ciò, dicevamo, diede una forte spinta all’unificazione linguistica
e fece sì che i successivi vocabolari, detti di seconda generazione,
non fossero più dedicati alla correzione dei vocaboli del parlante
ma allo studio del dialetto da parte degli specialisti.
Riassumendo: i vocabolari dialettali di prima generazione ave-
vano una funzione correttiva e didascalica, mentre quelli di seconda
erano destinati agli studiosi di lingua e dialetto.

27
cortelazzo.
28
Cfr. Capitolo successivo.

56
la lingua italiana

La vera svolta in tal senso si ebbe con i vocabolari di terza


generazione stilati non da persone colte interessate al dialetto,
ma da linguisti di professione finanziati dallo Stato o da enti di
ricerca: un vero e proprio strumento di lavoro a livello accademico.
Cadde, finalmente, il pregiudizio legato all’idea del dialetto come
degenerazione della lingua standard.

57
CAPITOLO III

ELEMENTI DI FONETICA ARTICOLATORIA


DELL’ITALIANO1

La linguistica, come avremo modo di vedere, si occupa di molteplici


campi e aspetti della lingua. I principali ambiti di studio (che contengo-
no a loro volta sottocategorie) sono: morfologia (si occupa della forma
delle parole e della relazione grammaticale tra gli elementi; studia i
morfemi); sintassi (studia le relazioni che le parole hanno all’interno
della frase e le relazioni tra frasi all’interno del periodo, insieme alle
norme che regolano queste relazioni); lessico (si tratta dello studio dei
vocaboli e delle locuzioni che costituiscono una determinata lingua).
L’ambito di studio che a noi interessa particolarmente, nell’analisi della
lingua italiana e del passaggio dal latino all’italiano, è la fonetica,
ovvero lo studio dei suoni del linguaggio (i cosiddetti foni).
Il fono è la realizzazione concreta e personale del fonema che
invece è collettivo e astratto. Cioè: il fonema /e/ esiste come suono
nella possibilità di tutti i parlanti di lingua italiana (anche se, per
ipotesi nessun parlante italiano lo pronunciasse per una giornata,
quel suono, in quella comunità di parlanti a livello astratto esiste-
rebbe comunque).

1
Per questo capitolo si rimanda a Giuseppe Patota, Nuovi lineamenti di
grammatica storica dell’italiano, Il Mulino, Bologna, 2007 (il seguito: Patota);
G. Graffi, S. Scalise, cit.

59
teresa agovino

Il fono [ ] (e aperta) è invece la realizzazione concreta di quel


fonema, poiché parlanti di diverse regioni lo pronunceranno più o
meno differentemente; ma anche uno stesso parlante che ripeta più
volte una parola come p[ ]sca, pronuncerà quel fono ogni volta in
modo lievemente differente.

La fonetica descrittiva, quella cioè che studia la produzione


dei suoni e li classifica in base a modo, luogo e grado di articola-
zione, può essere di due diversi tipi:

articolatoria – è quella che interessa questo corso, studia i


suoni dal punto di vista di chi li produce;

acustica – studia i suoni dal punto di vista di chi li percepisce.

Dal punto di vista strettamente temporale, infine, avremo la


fonetica:

diacronica – (o storica o evolutiva) – Studia le evoluzioni dei


suoni nel tempo (cioè ci spiega il passaggio dal latino classico a
quello tardo all’italiano, che vedremo nei capitoli successivi);

sincronica – (o statica) – Studia i suoni in un dato stadio dell’e-


voluzione della lingua. Si tratta di ciò che analizzeremo nel presente
capitolo guardando ai suoni della lingua italiana contemporanea. At-
tenzione però al fatto che sincronica non vuol dire contemporanea: se
studiassimo i suoni del solo spagnolo medievale, o del latino classico, o
del francese del duecento si tratterebbe comunque di sincronia, poiché
non ci occuperemmo di evoluzione di una data lingua nel corso del
tempo ma dello stato di una lingua in un preciso punto della sua storia.

Per avviarci allo studio della fonetica dobbiamo iniziare dal


concetto di catena parlata. Cioè noi dividiamo i suoni di una
lingua solo per comodità, ma quando parliamo esprimiamo una
sequenza ininterrotta di suoni:

60
elementi di fonetica articolatoria dell’ italiano

[ilsole] = i + l + s + o + l + e

Se, dunque, è abbastanza facile definire il confine di una parola


#il# #sole#, più difficile è invece riuscire a stabile il confine di un
suono preciso. Le scritture alfabetiche nascono proprio con lo scopo
di segmentare i suoni e dividerli il più possibile.
Come sappiamo, ogni lingua dispone di un certo numero di
fonemi. I fonemi di una lingua non necessariamente corrispondono
tutti a quelli di un’altra, pensiamo ad esempio alla [r] uvulare del
francese rien che in italiano non compare.
Inoltre, i singoli alfabeti non sono completi nella trascrizione dei
suoni: anche in una lingua come l’italiano che, tendenzialmente,
“si legge come si scrive” abbiamo delle incongruenze. Pensiamo ad
esempio al fatto che abbiamo un solo segno grafico C per indicare
sia il suono [k] di casa, che [ ] di cena.

Per ovviare a questo problema è stato creato un alfabeto foneti-


co internazionale detto afi (o ipa: International phonetic alphabet)2.
Si tratta di un procedimento convenzionale in cui i suoni e i
simboli sono in rapporto binario: cioè ad ogni suono corrisponde
uno e un solo simbolo. In tal modo utilizzando un unico alfabeto
possiamo trascrivere tutte le lingue.
Qualche esempio:

[k] casa
[ ] cena
[ ] tenda
[ ] aglio

2
Questo corso non prevede nella prova finale esercizi di scrittura fonetica. All’in-
terno del presente volume, come si vedrà, può accadere che la scrittura fonetica venga
sostituita o “contaminata” da semplici simboli linguistici (ę; ). Si è visto, infatti,
durante le lezioni, che alcuni simboli IPA rischiano di confondere lo studente non
avvezzo all’utilizzo dell’alfabeto fonetico; ad esempio, la [e] chiusa senza segni grafici
di riconoscimento ( ), così come la o, rischia di creare qualche confusione. Si rimanda
il tutto, ad ogni modo, alla spiegazione orale tenuta durante le lezioni sull’argomento.

61
teresa agovino

Vediamo ora in dettaglio come sono strutturati i suoni della


lingua italiana analizzando innanzitutto il concetto che riguarda
il tratto di sonorità. In base al tratto di sonorità dividiamo i
suoni in: sordi e sonori.

SORDI SONORI

Sono prodotti con le corde vocali e la


Suoni tesi, richiedono più ener-
laringe in vibrazione, quindi sono suoni
gia. Non c’è vibrazione delle cor-
più rilassati. Richiedono meno energia
de vocali o della laringe.
articolatoria.

/t/ /d/

Quando una consonante sonora viene addolcita ulteriormente,


si parla di lenizione: /b/ < /v/ (la prima è già sonora, la seconda
anche, ma più dolce).

In italiano abbiamo in totale 30 fonemi:


7 vocali
2 semivocali
21 consonanti
Vediamoli in dettaglio.

1. Le vocali dell’italiano

I suoni vocalici sono prodotti da un flusso espiratorio che passa


per la linea mediana della lingua senza subire interruzioni né fri-
zioni. L’aria che esce dai polmoni, cioè, non viene ostacolata dalla
bocca quando fuoriesce per pronunciare le vocali.
Le vocali possono essere pronunciate da sole: non hanno bisogno
dell’appoggio di altri suoni (pensiamo alle congiunzioni e ed o per
esempio); possono anche fare sillaba da sole.
Di norma, le vocali sono sempre sonore (possono diventare sorde
in rari casi, ad esempio quando bisbigliamo).

62
elementi di fonetica articolatoria dell’ italiano

Le vocali si differenziano in base alla qualità – essa dipende


dalle varie modificazioni della cavità orale quando le pronunciamo.
Avremo quindi vocali:
anteriori – (o palatali) – se la lingua è spinta verso la parte
anteriore della cavità orale.

posteriori – (o gutturali, o velari) – se la lingua viene spinta


verso la parte posteriore della cavità orale.

Possiamo distinguere le vocali anche per grado di apertu-


ra: questo specifico criterio dipende dall’apertura della mandibola
quando pronunciamo le vocali. Avremo allora vocali:

aperte – [ ]

chiuse – [e]

Infine, possiamo anche distinguere le vocali in base alla posi-


zione delle labbra, in tal modo avremo vocali:

procheile – (o labializzate, o arrotondate) – [ ]; [o]; [u]

aprocheile – (o non labializzate, o non arrotondate) – [ ]; [e];


[a]; [i].

La durata delle vocali è oggi irrilevante per la lingua italia-


na, ma era invece addirittura un tratto distintivo in latino, come
vedremo oltre.
Esistono quindi vocali brevi: e vocali lunghe: .
In italiano, a differenza di altre lingue, mancano anche vocali
nasali, miste e turbate, come ad esempio: [å] del norvegese; [ü] del
francese lune; [ö] del tedesco Göethe.

63
teresa agovino

1.1 Vocalismo tonico italiano

In italiano le vocali toniche (cioè accentate) sono 7. Di seguito il


triangolo vocalico dell’italiano, con le relative spiegazioni in schema:

64
elementi di fonetica articolatoria dell’ italiano

Possiamo leggere lo schema come segue:


La /a/ è una vocale mediana, cioè si articola nella parte mediana
della cavità orale.
/ / : anteriore, intermedia, aperta, aprocheile
/e/: anteriore, intermedia, chiusa, aprocheile
/i/: anteriore, estrema di minima apertura, aprocheile
/ /: posteriore, intermedia, aperta, procheile
/o/: posteriore, intermedia, chiusa, procheile
/u/: posteriore, estrema di minima apertura, procheile

1.2 Vocalismo atono italiano

Le vocali atone dell’italiano (cioè quelle non accentate) sono


cinque, poiché non vi è distinzione tra vocali aperte e chiuse.
/e/ ed /o/ atone sono chiuse per definizione.
Le vocali non accentate in italiano possono essere poste, all’in-
terno di una parola, in:
protonia – cioè prima dell’accento principale

postonia – cioè dopo l’accento principale

La /u/ atona in italiano manca in finale di parola.

In italiano standard non esistono le cosiddette vocali atone in-


distinte, o affievolite. Tuttavia possiamo trovare in alcuni dialetti
lo schwa: / / (il nome di questo simbolo deriva dal suo equivalen-
te nell’alfabeto ebraico). Si tratta di una vocale centrale avanzata,
ovvero quella che nel dialetto napoletano troviamo in .

65
teresa agovino

2. Semivocali dell’italiano

Si tratta di suoni brevi, non sillabici, che comportano un forte


restringimento del canale di fonazione e lo spostamento della lingua
in alto fino al punto in cui inizia l’articolazione delle consonanti.
Spesso accade che a livello fonetico fungano da consonanti. Per
questo sono dette semivocali (o semiconsonanti) sono cioè metà
delle une e metà delle altre.
In italiano ne abbiamo due:

/j/ (piano, mai)

/w/ (pausa, uomo)

Attraverso le semivocali possiamo formare dittonghi e trittonghi.


Vediamoli in dettaglio:

dittonghi – si tratta di due suoni di timbro diverso in una


stessa sillaba (pronunciati cioè con una sola emissione di voce):
piede, cuore, mai…
Il dittongo nasce dall’unione di una vocale tonica, che porta
l’accento principale della parola (quindi è detta vocale sillabica) con
una vocale atona (che non ha accento, quindi serve da appoggio alla
prima, ed è la semivocale).
Possiamo avere dittonghi
ascendenti: semivocale + vocale sillabica (piede);
discendenti: vocale sillabica + semivocale (pausa).

trittonghi – Sono unioni di tre vocali di timbro diverso: mai,


puoi, miei…

iato – Quando ci troviamo di fronte a due vocali di timbro


diverso che non costituiscono dittongo, si parla di iato. Nello iato
le vocali appartengono a due diverse sillabe: paese, teatro, poeta…
In poesia lo iato si segnala attraverso la dieresi: poëta.

66
elementi di fonetica articolatoria dell’ italiano

3. Consonanti dell’italiano

Le vocali sono suoni: le consonanti si possono considerare,


invece, veri e propri rumori poiché fisicamente sono più irregolari.
Per questo motivo, le consonanti non possono essere pronunciate
da sole (non fanno sillaba a sé), ma necessitano dell’appoggio
vocalico.
Nel pronunciare le consonanti il flusso d’aria viene ostacolato
dal canale di fonazione.
La pronuncia di ogni singola consonante (articolazione con-
sonantica) prevede tre rapidissime fasi in successione:

1 – impostazione: gli organi di fonazione si dispongono per la


pronuncia della consonante;

2 – tenuta: decide la lunghezza consonantica;

3 – rilascio: abbandono della posizione impostata in fase 1 e


ritorno alla quiete (cioè preparazione degli organi di fonazione per
l’articolazione successiva).

Parliamo di nesso consonantico quando abbiamo due o più


consonanti diverse unite insieme. In italiano le troviamo sia in
principio di parola che all’interno.
Il nesso consonantico si pronuncia con una sola emissione di
voce, quindi fa sillaba: /gn/; /str/; /ltr/; …

luogo, modo e grado di articolazione – Possiamo distin-


guere i suoni consonantici in base a tre diverse classificazioni prin-
cipali. Vediamole in dettaglio:

luogo di articolazione – è il luogo fisico della cavità orale in


cui avviene l’interferenza dell’aria. In base al luogo di articolazione,
dividiamo le consonanti in:

67
teresa agovino

– Bilabiali – il diaframma (cioè la sezione dell’apparato di fona-


zione che ostacola l’aria) si trova tra le due labbra: /p/; /b/
– Labiodentali – il diaframma è il labbro inferiore che articola
con i denti superiori: /v/; /f/
– Alveodentali – il diaframma è l’apice della lingua che articola
contro gli alveoli (cioè il dorso dei denti superiori): /t/; /d/
– Palatali – il diaframma è tra il dorso della lingua e il palato: / /
(cena); / / (sveglia)
– Velari (o gutturali) – il diaframma si trova tra il dorso della
lingua e il palato molle o il velo palatino: /k/ (collana)
– Non abbiamo in italiano consonanti Intedentali, in cui il dia-
framma è l’apice della lingua che articola tra i denti inferiori
e superiori: The (ing), Cruz (spa); né tantomeno abbiamo con-
sonanti Cacuminali, in cui il diaframma è l’apice della lingua
rovesciato verso l’alto (dialetto sic. Cavaddu).

modo di articolazione – è il modo in cui la corrente d’aria


viene ostacolata. In base al modo di articolazione distinguiamo le
consonanti in:

– Occlusive: (dette anche esplosive/momentanee/mute) – quan-


do vengono pronunciate il canale articolatorio viene occluso
totalmente in qualche punto specifico. Quando si pronunciano
causano una piccola esplosione e non possono essere mantenute
a lungo. In italiano sono 6, tre sorde: /p/; /t/; /k/, e tre sonore:
/b/; /d/; /d/.
– Fricative: (dette anche costrittive, spiranti o continue) – il canale
di fonazione viene ristretto fino a creare attrito o frizione. Pos-
sono essere pronunciate con suono continuato nel tempo finché
c’è aria nei polmoni: /f/; /v/.
– Affricate: si tratta di suoni composti (sono cioè formate da un’oc-
clusiva + una fricativa): /z/ (zampa); / / (cena).
– Nasali: nell’articolazione delle consonanti nasali l’aria viene
ostacolata ma non bloccata. Sono dette anche continue, poiché
la loro pronuncia può durare nel tempo: /n/; /m/.

68
elementi di fonetica articolatoria dell’ italiano

– Liquide: l’articolazione delle consonanti liquide comporta un


contatto tra la lingua e il palato o i denti. Il suono avrà quindi
un senso di scorrevolezza. Possiamo distinguerle in Laterali: /l/
l’aria passa ai lati della lingua, e Vibranti: /r/ la pronuncia com-
porta una vibrazione dell’apice della lingua che articola contro
gli alveoli superiori.

grado di articolazione – In base al grado di articolazione


distinguiamo le consonanti in:

– Sorde – Non c’è vibrazione della laringe e delle corde vocali. In


base alla forza di articolazione, le sorde sono forti, o tese.
– Sonore – C’è vibrazione della laringe o delle corde vocali. In
base alla forza di articolazione, le sonore sono leni, o rilassate.
Infine, possiamo distinguere le consonanti in base alla loro du-
rata:

– Scempie: /t/ (fato)


– Doppie: /tt/ (fatto)

La durata consonantica in italiano è un tratto distintivo:


contribuisce a modificare il significato delle parole. Cioè casa e cassa
hanno significato diversi perché diversa è la durata consonantica;
scempia nel primo caso, doppia nel secondo.

Nella pagina seguente vediamo la tabella per la classificazione


delle consonanti italiane.
Per convenzione la sorda è collocata a sinistra e la sonora a destra
della tabella.

69
70
OCCLUSIVE FRICATIVE NASALI LIQUIDE AFFRICATE

BILABIALI /p/ /b/ /m/ Lat. Vib.

LABIODENTALI /f/ /v/

ALVODENTALI /t/ /d/ /s/ /z/ /n/ /l/ /r/ /ts/ /dz/
teresa agovino

/ / (cena) / /
PALATALI / / (sc) / / (gn) / / (gl)
(zenzero)

VELARI /k/ /g/


CAPITOLO IV

IL PASSAGGIO DAL LATINO ALL’ITALIANO1

1. Il latino volgare

Le lingue romanze, e i volgari italiani con esse, non nascono dal


latino classico, quello scritto di Cicerone, per intenderci. Come oggi
per la lingua italiana, anche la lingua latina aveva, già al tempo di
Cesare, una serie di livelli parlati dalla popolazione. Ci troviamo così
di fronte a un sermo plebeius (la parlata popolare), un sermo rusticus
(quello delle campagne), un sermo militaris (parlato dall’esercito), un
sermo provincialis (cioè il latino che veniva parlato nelle varie province,
un po’ come l’italiano regionale che abbiamo ancora oggi).
La lingua italiana, come le altre lingue romanze, nasce proprio
da questo latino parlato, imperfetto nello stile, contaminato da altre
parlate locali e soprattutto mutevole come tutte le lingue parlate
anche oggi.
Ovviamente, anche la lingua latina parlata varia nel corso dei
secoli2. Quando pensiamo a un’epoca così lontana da noi, tendiamo

1
Per questo capitolo si rimanda a Patota; Marazzini.
2
B. Migliorini, cit., p. 11: «Nel lungo periodo che va da Augusto a Odoacre
il latino parlato subisce notevoli modificazioni. Benché non si abbia ancora
minimamente coscienza di un sistema linguistico nuovo contrapposto a quello

71
teresa agovino

erroneamente ad “appiattirla” in un unico blocco. Dobbiamo inve-


ce tener presente che, solo nella nostra penisola, si è parlato più a
lungo il latino rispetto all’italiano. Pensiamo, ad esempio, che tra
Giulio Cesare (vissuto sette secoli dopo la fondazione di Roma, e
morto nel 44 a.C.) e Eliogabalo (morto nel 222 d. C.), intercorre
una distanza temporale più ampia di quella che divide noi da Ugo
Foscolo o Giacomo Leopardi.
Possiamo dunque ben immaginare come la lingua latina si sia
modificata nel corso del tempo, se consideriamo anche che altri
duecento anni intercorrono tra la morte di Eliogabalo e la fine
dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.); senza contare poi i
mutamenti sostanziali avvenuti nella stessa lingua latina con l’av-
vento del Cristianesimo.
Insomma, solo tra Giulio Cesare e la caduta dell’Impero la lin-
gua latina si modifica esattamente come è avvenuto per l’italiano
nel tempo che intercorre tra noi e Ariosto, per fare un esempio.
Di conseguenza, nel capitolo che segue, prenderemo come punti
di riferimento tre momenti principali dell’evoluzione linguistica: il
latino classico (quello dell’epoca di Cesare e Cicerone), quello
volgare, o tardo imperiale (ovvero il latino parlato, spesso rico-
struito perché difficilmente documentato dallo scritto) vicino alla
caduta dell’Impero e solo in ultima analisi la lingua italiana (cioè
l’evoluzione del latino avvenuta nel volgare toscano, poi diffusosi
come lingua nazionale in un tempo ancora successivo). Vedremo
a grandi linee come la lingua si modifica prima in latino, per poi
giungere alle moderne lingue romanze.
Di seguito un piccolo schema atto a rendere un’idea della predo-
minanza della lingua latina sulla nostra penisola. Come possiamo
vedere, la distanza tra Cesare, Augusto, Tiberio e la caduta dell’Im-

antico, molti fra gli elementi che costituiranno il sistema italiano sono già nati o
nascono in questi secoli […]. Si sarebbe tentati di dividere ulteriormente questo
lungo periodo di cinque secoli, distinguendo il periodo pagano da quello cristiano.
I mutamenti sociali e linguistici sono così importanti che giustificherebbero
ampiamente una suddivisione».

72
il passaggio dal latino all’italiano

pero Romano d’Occidente (circa cinque secoli) è paragonabile a


quella che separa la fine dell’Impero dal primo documento della
lingua italiana (il Placito Capuano):

L’area che comprende tutte le parlate romanze (cioè derivate da


questo tardo latino parlato), si chiama Romània. Il termine deriva
dall’espressione romanice loqui utilizzata per indicare le zone in cui
si parlava latino. Ovviamente, come abbiamo accennato sopra, se
per lo scritto è facile recuperare la parola originaria da cui nasco-
no i moderni vocabolari romanzi, risalire al parlato non è sempre
altrettanto immediato.
Attraverso l’esame comparativo, gli studiosi sono riusciti nel
tempo a ricostruire una serie di parole che appartenevano alla lin-
gua latina parlata e che successivamente sono confluite nelle lingue
romanze.
L’esame comparativo procede a ritroso: dall’analisi dei vari esiti
romanzi, comparati tra loro, si ricava la parola latina originaria dalla
quale essi molto probabilmente derivano.
Questa parola viene presupposta come facente parte del voca-
bolario del latino volgare.

73
teresa agovino

Vediamone un esempio:

✓ Rumeno: fum
✓ Italiano: fumo
✓ Friulano: fum
✓ Sardo: fumu
✓ Provenzale: fum
✓ Spagnolo: humo
✓ Portoghese: fumo

Di conseguenza la parola originaria in latino volgare doveva


essere: *Fumus.
n.b. quando una parola viene ricostruita (cioè non ne abbiamo
attestazioni scritte che la confermino, ma la deduciamo dall’esame
comparativo, tale ricostruzione viene segnalata da un asterisco in
alto a sinistra).
Attenzione anche alla definizione del concetto equivoco e com-
plesso di latino volgare. Un solo termine, infatti, può avere due
valenze molto diverse: una sincronica, l’altra diacronica.
In senso sincronico (cioè fisso in uno specifico momento del
tempo) il latino volgare indica i diversi livelli di latino parlato
che coesistono in una determinata epoca specifica, cioè quelli che
abbiamo visto sopra (sermo plebeius, sermo rusticus, sermo militaris,
ecc.): cioè anche mentre Cicerone scriveva (o duecento anni dopo,
sotto l’impero di Commodo) i contadini, i militari ecc. parlavano
in modo diverso dai manoscritti che conserviamo oggi (allo stesso
modo in cui ad oggi non parliamo come nei romanzi di Giancarlo
De Cataldo o Walter Siti, o come nei film, per esempio).
In senso diacronico, invece, (cioè analizzando la lingua nel
suo evolversi temporale) il termine latino volgare indica quegli
usi della tarda latinità (cioè a cavallo della caduta dell’Impero) che
sono più vicini ai vari sviluppi attestati poi nelle lingue romanze.
Diremo quindi che il concetto di latino volgare finisce per me-
scolare la componente sincronica con quella diacronica. Certamente,
come abbiamo già accennato, il latino mutò a più riprese nel tempo

74
il passaggio dal latino all’italiano

e nello spazio (basti pensare alla conquista nel tempo di diverse


province oltre i confini dell’Impero). Il latino quindi non aveva
unità linguistica, un po’ come accade anche per l’inglese oggi, con
le sue varianti nei vari Stati Americani o in Australia o nelle varie
ex colonie, e così via… .
Il colonialismo romano impose il latino in tutte le province
conquistate. La Germania, ad esempio, diversamente da quan-
to avvenne invece in Gallia, non fu latinizzata integralmente; di
conseguenza le parole di origine latina entrarono il quei territori
non dall’alto (cioè per imposizione di un potere dominante) ma dai
territori di confine, per semplice contatto geografico. Allo stesso
modo entrarono germanismi nella lingua latina (come guerra al
posto di bellum,i).
Ad ogni modo, prevalse la lingua latina nella parte occidentale
dell’Impero, mentre a Est si affermò invece il greco (unica lingua
accettata e rispettata dai romani al di fuori del latino).
Di seguito una tabella che illustra le principali caratteristiche
della lingua latina volgare:

caratteristiche del latino volgare:

Conteneva parole che tro-


es:
viamo presenti anche nel
Viridis
latino scritto:
Conteneva parole differenti
es:
da quelle del latino classico,
Testam (lat. volg.)
che sono poi passate nelle
Caput (lat. class.)
lingue romanze:

es:
Vi si trovano spostamenti di
Focus (= focolare dome-
significato rispetto al latino
stico) > Fuoco
classico:
Ignis (lat. class.)

75
teresa agovino

Sono attestate influenze re-


ciproche tra il latino classico
e quello volgare, anche negli
scrittori (in particolar modo
nel caso della Commedia o
dell’Epistolografia).
Le forme familiari vicine al
parlato prendono il soprav-
vento su quelle formali del
latino classico.
Il Latino Cristiano, soprat-
tutto alle origini, assume
forme e modelli orali e quin-
di popolari, per poter essere
meglio compreso da ogni
livello sociale.

attenzione anche a non confondere il termine latino volgare con


quello di volgare riferito alla lingua italiana dei testi che vanno dal ix al
xvi secolo circa. Come vedremo, dal ix secolo e fino al Quattrocento
si parlerà di volgari italiani (tra cui il fiorentino). Solo dal Cinquecento
si inizierà a parlare di dialetti dell’italiano e lingua italiana.

2. L’Appendix Probi

L’Appendix Probi (oggi conservata nella Biblioteca Nazionale


di Napoli) è uno dei documenti più importanti per gli studiosi del
latino volgare. Si tratta, innanzitutto, di un documento dalla data-
zione discussa (probabilmente risale al v-vi secolo d.C., ma alcuni
la collocano anche al iii-iv secolo d. C.).
Si chiama Appendix Probi, (cioè Appendice di Probo) poiché all’in-
terno del codice che ce lo ha trasmesso segue un testo che si chiama
Instituta artium scritto dal grammatico Probo.
L’Appendice non è altro che una lista composta da 277 parole
latine riportate nella loro forma grafica corretta (quella cioè scritta

76
il passaggio dal latino all’italiano

in latino classico) e in quella scorretta (quella cioè che gli allievi


di un maestro della tarda latinità “scrivevano male”, confusi dalla
contaminazione del parlato).
Il maestro, quindi, ha stilato un elenco redatto secondo lo schema
a non b, per correggere i suoi allievi. Grazie a questo documento,
oggi, conosciamo gran parte delle parole tardo-latine. Vediamo
un esempio:

speculum non speclum


vetulus non veclus
auris non oricla
viridis non virdis
frigida non fricda
columna non colomna

Come si nota facilmente nella parte destra dello schema, quella


cioè tardo-latina “sbagliata” dagli studenti, molte parole sono simili
agli esiti che poi si avranno nella lingue romanze. Non tutte le parole
riportate nell’Appendice, ovviamente, hanno poi effettivamente
dato origine a sviluppi di tipo romanzo.
Ciò che resta importante in questo documento è l’evoluzione
della lingua (dal latino classico a quello volgare) avvertita come
errore ortografico dal maestro.
L’errore non è altro che una deviazione da quella che è la
norma di una lingua ma, come abbiamo visto, anche negli errori
si possono trovare le tendenze innovative che portano all’evolversi
della lingua stessa.
Solo il tempo, ovviamente, ci aiuta a comprendere quali errori
hanno avuto successo e sono entrati a far parte delle norma lingui-
stica e quali no, poiché la lingua è governata dalla censura col-
lettiva: ciò che la collettività non usa nel linguaggio quotidiano
va inevitabilmente a decadere, ciò che invece resta nel tempo spesso
si afferma definitivamente o per periodi più o meno lunghi.

77
teresa agovino

3. Sostrato, superstrato, adstrato

In questo paragrafo cercheremo di fare chiarezza sui concetti


di Sostrato, Superstrato e Adstrato. Abbiamo detto che la lingua
latina (come accade di norma in ogni lingua) sin dalle origini fu
fortemente influenzata dalle lingue delle popolazioni dominate;
modificata in un secondo momento dalle lingue dei popoli germa-
nici che dominarono a loro volta l’Impero dopo la caduta e, infine,
influenzata dalle prossimità geografiche ai confini dell’Impero.
Tutto ciò è schematizzabile nei concetti che seguono:

1 – sostrato – Si tratta dell’influenza della lingua dei vinti su


quella dei vincitori. Nel caso del latino, dunque, sono le influenze
delle lingue delle province conquistate (la Gallia, ad esempio) sulla
lingua di Roma.

2 – superstrato – Si tratta in questo caso dell’influenza che


i popoli germanici che conquistarono l’Impero esercitarono con le
loro parlate sul tardo latino.
Vediamo uno schema esplicativo:

Superstrato
Latino:
Sostrato

In passato si dava molto peso al superstrato germanico nel pas-


saggio tra il tardo latino e le prime lingue romanze, oggi sappiamo
che in realtà esso fu molto meno influente di quanto non si credesse
nei secoli scorsi.

78
il passaggio dal latino all’italiano

Le influenze delle lingue germaniche successive alla caduta


dell’Impero, si possono attestare principalmente in Gotiche, Fran-
che e Longobarde. Vediamone alcuni esempi.

I Goti – Giungono in Italia nel 489 d.C. sotto la guida di


Teodorico. Nel 553 vengono però eliminati da Giustiniano. Il loro
dominio è quindi relativamente breve perché la lingua gotica pos-
sa influire in maniera rilevante sul tardo latino. Come sappiamo,
infatti, si tratta sempre di processi lenti che impiegano diverse ge-
nerazioni per assestarsi in maniera definitiva. Ad oggi conosciamo
la lingua gotica grazie ad una traduzione della Bibbia redatta nel iv
secolo dal vescovo Ulfila. Della lingua dei Goti restano ad oggi in
italiano all’incirca settanta parole, tra cui: nastro, stecca, strappare.
Abbiamo anche alcune voci militari come guardia, elmo e albergo
(da hari-bergo: rifugio dell’esercito)3.

I Longobardi – L’invasione longobarda del 568 d.C. risultò


particolarmente violenta e brutale; per di più i Longobardi non
erano un popolo romanizzato, ma del tutto estraneo alla cultura
(e alla lingua) del Paese che invasero. Il regno longobardo, come
sappiamo, durò a lungo (fino alla dominazione dei Franchi di Carlo
Magno) ciò permise la penetrazione di vocaboli longobardi nel
tardo latino parlato.
Ad oggi abbiamo nella lingua italiana oltre duecento parole di
origine longobarda, tra cui: guancia, schiena, nocca, milza, stinco,
tuffare, spruzzare, panca, federa, scherzare, palla. Alcune voci, invece,

3
B. Migliorini, cit., p. 78: «Fra le voci gotiche ricordiamo anzitutto quelle
che, sopravvissute oltre che in Italia, nelle Gallie e nella Penisola Iberica, sono
probabilmente dovute ai Visigoti e hanno avuto ancora il tempo di diffondersi
nella tarda latinità prima che la Romània si spezzasse (ma potrebbero anche
essere state possedute in comune da Visigoti e Ostrogoti, e trasmesse dagli uni
e dagli altri alle rispettive popolazioni conviventi)».

79
teresa agovino

perdono il significato antico: spiedo, ad esempio, da arma diventa


attrezzo da cucina4.
Molto interessanti poi, sono i toponimi (nomi di luoghi) di
cui vediamo qualche esempio in area meridionale e centrale5. Ab-
biamo toponimi da insediamento, come quelli formati con le
parole Sala, Fara, Lombardo (Fara in Sabina, Sala Consilina, Ara
dei Lombardi); toponimi da appellativi di uso tecnico e am-
ministrativo, come Gualdo (> *wald ) (Gualdo Tadino), o ancora
toponimi derivati da nomi personali, come Casalduni > Aldo;
Gando > Castel Gandolfo; Sundo > Colle di Sondo.

I Franchi – La dominazione dei Franchi in Italia, rispetto a


quella delle popolazioni che li avevano preceduti, ha avuto caratteri
singolari: infatti non si trasferì sul suolo italico l’intera popolazione
ma solo i nobili con i loro fedeli e funzionari. Tra l’altro i nobili
della corte di Carlo Magno non erano esclusivamente di origine
franca: troviamo infatti Bàvari, Alemanni, ecc.
Probabilmente, inoltre, i nobili franchi in Italia erano tutti bi-
lingui, poiché la lingua dei Franchi risentiva dell’influsso franco
(germanico) unito a quello gallo (romanzo). Tra le parole franche
che attestiamo oggi in italiano possiamo trovare: biondo, donna,
cameriere, dardo, bosco, galoppare, guanto, schifare, schivare, orgoglio,
guarire, guadagnare (che però in origine significava pascolare)6 .

3 – adstrato – Si tratta, in questo caso, dall’azione esercitata


da una lingua confinante come ad esempio il latino sulle lingue
germaniche (e viceversa) cui si è accennato nel paragrafo precedente.

4
Migliorini.
5
Sabatini.
6
Migliorini.

80
CAPITOLO V

ELEMENTI DI GRAMMATICA STORICA


DELL’ITALIANO E DEI SUOI DIALETTI1

All’interno di questo corso presteremo particolare attenzione


ad alcuni tra i mutamenti fonetici più importanti nel passaggio dal
latino all’italiano. Non bisogna però dimenticare che, nel passaggio
da una lingua all’altra si sono verificati anche mutamenti di altro
tipo (sintattici, morfologici, semantici…).
Ci dedicheremo qui, per motivi strettamente didattici, alla sola
parte relativa al cambiamento di suoni nel passaggio da una lingua
all’altra, evidenziando anche le differenze sostanziali tra il toscano
e i vari dialetti nazionali.

1. Vocalismo tonico

L’evoluzione fonetica, ovvero il mutamento di suoni che è avve-


nuto nel passaggio tra latino classico, latino volgare e italiano, può
essere sia spontanea che condizionata.
Vediamo innanzitutto i fenomeni legati all’evoluzione foneti-
ca spontanea (cioè non condizionata da fonemi attigui, seguenti

1
Per questo capitolo si rimanda a Patota.

81
teresa agovino

o precedenti, ovvero da altre lettere vicine a quella che muta all’in-


terno di una parola).
Prima di analizzare le vocali toniche (cioè quelle accentate),
va fatta una preliminare distinzione tra l’accento latino e quello
italiano.
In latino troviamo un accento di tipo musicale, che consisteva
tendenzialmente in un innalzamento della voce.
Con il passaggio, che vedremo di seguito, del tratto distintivo
da quantità a qualità nelle vocali, l’accento diventa intensivo, cioè
quello che attualmente abbiamo in italiano e che consiste in una
forza articolatoria maggiore che si concentra sulla sillaba accentata.
Vediamo innanzitutto cosa si intende per tratto distintivo
(td).
Innanzitutto, il td di una lingua può essere pertinente (cioè
utile a comprendere il significato della parola) oppure ridondante
(cioè inutile alla comprensione del significato della parola).
Nel latino classico il td pertinente, che aiutava cioè a di-
stinguere i significati delle parole era la durata o quantità. Cioè
una vocale poteva essere pronunciata in un tempo più lungo o più
breve e la differenza tra una vocale breve o lunga in una parola ne
variava il significato.
Di conseguenza, il latino classico aveva un sistema di 10 vocali
(5 per 2: ognuna era infatti sia breve che lunga).

sistema vocalico tonico del latino classico

Dunque la quantità delle vocali ă (breve) oppure ō (lunga), de-


terminava i significati delle parole. Vediamone qualche esempio:

82
elementi di grammatica storica

a: pălus = palude; pālus = palo


e: l go = io leggo; lēgo = io delego
i: h c = qui; h c = questo
o: p pulus = popolo; pōpulus = pioppo
u: f git = fugge; fūgit = fuggì

Sappiamo che già in epoca classica esisteva una tendenza a pro-


nunciare più chiuse le vocali lunghe e più aperte quelle brevi. Il td
pertinente, però, era ancora la quantità (breve/lunga), mentre la
qualità (aperta/chiusa) restava solo un TD ridondante.
Dal iv secolo la quantità vocalica perde la sua rilevanza.
Accade quindi che gli scriventi latini, pian piano nel tempo co-
mincino a commettere degli “errori” di scrittura. Tali errori, però,
non sono casuali ma risultano sottoposti ad una precisa legge:

In sillaba aperta (cioè quella che termina in vocale), le vocali


lunghe si mantengono, mentre quelle brevi si allungano:

ˇ>ˉ

ˉ=ˉ

Al contrario, in sillaba chiusa (quella che termina in conso-


nante), le vocali brevi restano tali e le lunghe si abbreviano:

ˇ=ˇ

ˉ>ˇ

In tal modo, come si può immaginare, la quantità diventa au-


tomaticamente un td ridondante, mentre la qualità (aperta/chiusa)
comincia a diventare un td pertinente. Si va verso l’italiano!
Intanto, la /a/ (che è già la vocale per sua natura più aperta di
tutte) resta unica; non si distingue più quindi tra /a/ aperta/chiusa
o lunga/breve.

83
teresa agovino

In questo modo il sistema del latino classico a 10 vocali, in epoca


più tarda si riduce a 9 vocali, soltanto:

Da questo nuovo assestamento vocalico risultarono quattro di-


versi passaggi principali, di cui ci interessa soprattutto il primo:

1. area romanza occidentale – (compresa l’Italia, tranne


nelle zone indicate nei punti successivi):

į (aperta) ed (chiusa) si fondono entrambe in

ų ed a loro volta si fondono entrambe in

In tal modo ci troveremo di fronte al sistema vocalico tonico a


sette vocali dell’italiano che già conosciamo:

nasce dalla fusione di į + nasce dalla fusione di ų +

84
elementi di grammatica storica

Qualche esempio:

LATINO CLASSICO LATINO VOLGARE


p lum p lo
b num b nu
flōrem fl re
tēnet t ne

2. lucania orientale e romanìa

į ed si fondono entrambe in

ų ed non si fondono

Ciò crea un sistema a 6 vocali, che manca della (chiusa).

3. sardo e alcune zone della calabria e basilicata – In


queste zone troviamo addirittura un sistema a 5 vocali toniche,
poiché la perdita del tratto distintivo della quantità non dà vita al
tratto distintivo della qualità:

85
teresa agovino

4. salento, sicilia, calabria sud – Tutte le vocali, in queste


specifiche zone confluiscono in /i/ oppure in /u/, tranne ed .
Il triangolo vocalico, quindi risulterà come segue:

n.b. Ricordiamo ancora una volta che quando qui parliamo di


evoluzione verso l’italiano stiamo parlando dell’evoluzione del dia-
letto toscano, poiché dal latino volgare si formarono direttamente
i dialetti della penisola, tra cui il toscano che poi venne scelto (e
adattato) per diventare in italiano standard.
Per questo motivo è sempre importante guardare non solo ai
fenomeni che riguardano la lingua italiana (toscana) ma anche a
quelli riguardanti i vari dialetti, laddove essi si differenzino da
quello ufficiale.
Vediamo ora in dettaglio come evolvono le vocali toniche dal
latino parlato di età imperiale al dialetto toscano.
Fortunatamente, restano tutte pressoché invariate, con due ec-
cezioni rimarchevoli:

1. ed in sillaba aperta (brevi in latino classico, allungate in epo-


ca tarda, come abbiamo visto sopra) diventano in italiano /ie/ e /uo/:

LATINO CLASSICO LATINO VOLGARE ITALIANO


t net tēne tiene
v nit vēni viene
n vum nōvu nuovo
r tam rōta ruota

86
elementi di grammatica storica

2. in sillaba chiusa, invece, sempre per il fenomeno di abbre-


viazione delle lunghe che abbiamo già visto ed non dittongano:

LATINO CLASSICO LATINO VOLGARE ITALIANO


t rram t rra tèrra
n ctem n cte nòtte

Vediamo, in conclusione, una tabella riepilogativa del compor-


tamento delle vocali toniche nel passaggio tra latino classico, latino
volgare e italiano:

LATINO LATINO
ITALIANO
CLASSICO VOLGARE
>i
v num v nu vino

m tto mētto métto


;ē>
stēllam stēlla stélla
p dem pēde piede
> ; ie
t rram t rra tèrra
a>a
măre mare mare

b num bōnu buono


> ; uo
cto cto òtto
sōlem sōle sóle
ō; >
g lam gōla góla
ū>u
frūctum fr ctu frutto

87
teresa agovino

2. Dittonghi tonici

La tendenza principale del latino parlato fu quella di monotton-


gare i dittonghi, cioè di arrivare a pronunciarli come un’unica vocale.
Vediamo quindi cosa accade nell’evoluzione fonetica dei dit-
tonghi tonici.
Il latino classico aveva 3 dittonghi accentati (tonici).

ae
oe
au

ae ed oe si monottongano in tutta l’area romanza: non esistono


infatti lingue romanze che ad oggi utilizzino ancora tali dittonghi.

monottongazione di ae – Il dittongo ae si pronunciava “ai”.


Se consideriamo anche che il latino non aveva consonanti palatali,
comprenderemo allora che Caesar si pronunciava Kaisar (da cui il
tedesco Kaiser e il russo Czar = Zar).
Già al tempo di Plauto (iii-ii secolo a. C.) il dittongo non viene
più pronunciato nel latino parlato. Quasi certamente nel tardo latino
parlato risultava pronunciato come una (e aperta).
Di conseguenza, si comporterà nell’evoluzione fonetica esatta-
mente come una (dittongando a sua volta in sillaba aperta in ie e
restando semplicemente in sillaba chiusa).

LATINO CLASSICO LATINO VOLGARE ITALIANO


laetum l tu lieto
praestum pr stu presto

monottongazione di oe – Il dittongo oe semplicemente si


monottonga in e (chiusa):

88
elementi di grammatica storica

LATINO CLASSICO LATINO VOLGARE ITALIANO


poenam p na péna

monottongazione di au – Questo dittongo risulta il più re-


sistente alla monottongazione, quindi essa avviene con particolare
ritardo rispetto alle due precedenti.
Nel tardo latino parlato si conserva ancora regolarmente: (lat.
cl.) aurum < auru (lat. volg.) e addirittura nuovi dittonghi in au si
aggiungono a quelli già esistenti nel latino classico: (lat. cl.) laudavit
< laudaut (lat. volg.).
Questi dittonghi aggiunti in un secondo momento si chiamano
seriori e sono ancora più resistenti, ovviamente, alla monottonga-
zione rispetto a quelli già esistenti nel latino classico.
Il dittongo au, quindi, resiste in area romanza in lingue come
il ladino, provenzale, romeno e in alcuni dialetti italiani del centro
sud.
Quando subisce monottongazione, au si evolve in (o aperta).
Accade però che in italiano lo conservino sia le parole di origine
letteraria derivate dal latino, che i loro “doppioni” dando così origine
a sfumature di significato più o meno lievi.
Ad esempio:

causam > causa / cosa


pausam > pausa / posa
raucum > rauco / roco

3. Anafonesi

Finora abbiamo osservato l’evoluzione fonetica spontanea dal


latino all’italiano, quella cioè indipendente dai fonemi vicini (se-
guenti o precedenti).
Vediamo ora, invece, cosa accade quando l’evoluzione fonetica
delle vocali è condizionata dai fonemi che le affiancano.

89
teresa agovino

Analizziamo in primis l’anafonesi, ovvero un fenomeno di


semplice elevazione di suono per cui:

lat. volg. > italiano

>i

>u

Ciò accade ovviamente in maniera condizionata, cioè in presenza


di specifici nessi consonantici, che sono:

/nk/ /ng/ /nć/ /nģ/ /skj/ /ľľ/ /ññ/

Qualche esempio di anafonesi:

fam liam famiglia (non: *fameglia)


gram neam gramigna (non: *gramegna)
v nco vinco (non: *venco)
m sculat mischia (non: *meschia)
cons lium consiglio (non: *conseglio)
c lium ciglio (non: *ceglio)

Per quanto riguarda la , vediamo che essa eleva di suono in u


solo davanti al nesso n+velare (sia sorda che sonora) latina.
Quindi avremo:

f ngum fungo (non: *fongo)


i ncum giunco (non: *gionco)

90
elementi di grammatica storica

Ci sono anche casi in cui ciò non avviene, come ad esempio in


tr ncum che evolve in tronco (non in *trunco).

L’anafonesi si manifesta in principio solo in determinate aree


della Toscana (Firenze, Prato, Pistoia, Lucca, Pisa, Volterra), la-
sciando fuori Siena e Arezzo e tutte le altre regioni italiane. Si tratta
quindi di una delle prove più evidenti della fiorentinità dell’italiano.
Non bisogna, infatti, incappare nell’errore di credere che *fongo,
*conseglio, ecc. non siano mai esistite come parole vere e proprie: si
è trattato infatti di una fase di passaggio cui ha fatto seguito l’ana-
fonesi, facendo sì che le parole sopra citate si evolvessero in fungo,
consiglio, ecc. Il passaggio, cioè, è avvenuto come segue:

f ngum > *fongo > fungo

Quindi, il fatto che in italiano standard abbiamo parole come


fungo, consiglio, ecc. e non *fongo e *conseglio dimostra che la nostra
lingua coincide in massima parte con il fiorentino letterario del
Trecento, luogo ed epoca in cui questo mutamento era già avvenuto2.

4. Metafonesi

L’anafonesi, che abbiamo visto nel paragrafo precedente, è un


fenomeno di evoluzione fonetica condizionata che riguarda l’ita-
liano (il toscano).
Esistono dei fenomeni che invece riguardano i vari dialetti
italiani e si raggruppano sotto il nome di metafonesi.
Si tratta di una trasformazione di suono (che non è passata
nell’italiano letterario e resta quindi ancorata a fatti dialettali) che
avviene quando /e/ ed /o/ vengono influenzate dalla e dalla
finali di parola.

2
Patota.

91
teresa agovino

metafonesi centro – meridionale – Nei dialetti centro me-


ridionali (Salento, Sicilia, ecc.) davanti a e finali di parola,
diventa i e diventa u.

>i

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


s ccum > s ccu > sicco

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


crēdis > cr di > cridi

>u

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


vōtum > v to > vutu

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


cōmputi > c mpti > cunti

Un buon esempio di metafonesi centro – meridionale si può


trovare nella canzone Le radici ca tieni del gruppo salentino Sud
Sound System, o anche nella canzone popolare siciliana Ciuri ciuri
di cui riportiamo le prime strofe:

Se nu te scierri mai de le radici ca tieni


Rispetti puru quiddre de li paisi luntani

92
elementi di grammatica storica
Se nu te scierri mai de du ede ca ssa ieni
Dai chiù valore a la cultura ca tieni
Simu salentini de lu munnu cittadini
Radicati a li messapi cu li greci e i bizantini
Uniti intra stu stile osce cu li giammaicani
Dimme tie de du ede ca ssa bieni3

* * *

Ciuri ciuri (ciuri di tuttu l’annu)


L’amuri ca (mi rasti ti lu tornu)
Ciuri ciuri (ciuri di primavera)
Si tu nun m’ami (io moru di pena)

metafonesi napoletana (o antico-romanesca) – Si tratta


della metafonesi più antica e ad oggi più rara, che porta a dittongare
nel dialetto napoletano. Si chiama anche antico-romanesca, poi-
ché il dialetto romanesco come lo conosciamo oggi esiste in realtà
solo a partire dal Sacco di Roma del 1527, mentre anticamente si
avvicinava di più al napoletano attuale, al punto da condividerne il
fenomeno metafonetico (vedi oltre, capitolo 6, paragrafo 4.3 – Teoria
Cortigiana). In questo tipo di metafonesi troviamo che davanti a
e finali di parola, diventa ie e diventa uo.

> ie

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


v ntum > vèntu > viento

– Davanti a finale di parola:

3
Sud Sound System, Le radici ca tieni, 2003, Sony International.

93
teresa agovino
Lat. class > Lat. volg. > Dialetto
v nti > vènti > vienti

> uo

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


m rtuum > mòrtu > muorto

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


c rvi > còrvi > cuorvi

metafonesi sorano – reatina – Si tratta di un tipo di meta-


fonesi attualmente presente in Lazio e in alcune zone del calabrese
e del marchigiano. Davanti a e finali di parola, diventa e
diventa . Come è facile immaginare, questo è il mutamento fone-
tico più difficile da reperire all’interno di testi scritti poiché non si
è soliti attestare nello scritto le vocali aperte e chiuse e il fenomeno
si rivela più facilmente riscontrabile nel parlato.

>

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


t mpus > t mpu > t mpo

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


t mpi > t mpi > t mpi

94
elementi di grammatica storica

>

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


c rvum > c rvu > c rvo

– Davanti a finale di parola:

Lat. class > Lat. volg. > Dialetto


c rvi > c rvi > c rvi

metafonesi di a – Si tratta di un fenomeno abbastanza raro


a causa del quale nel dialetti settentrionali (ligure, lombardo, pie-
montese romagnolo) e in alcuni centro – meridionali (campano,
abruzzese, marchigiano) a > oppure a > i. O addirittura in genovese
e alcuni dialetti campani a > ai.
n.b. In Umbria, Toscana e alcune regioni del Nord Italia, pos-
siamo trovare anche un fenomeno detto palatalizzazione di a
per cui a > (canem > k n ). Secondo le teorie di Ascoli (v. capitolo
6) un tale fenomeno era causato dal sostrato celtico. Tale teoria però
non risulta valida poiché il fenomeno si manifesta anche in zone
anticamente mai abitate dai Celti.

5. Vocalismo atono, aggiunte e cadute di suono

Per quanto concerne il fenomeno di vocalismo atono non ve-


dremo qui tutte le evoluzioni fonetiche che lo riguardano, ma ci
limiteremo solo ad analizzare i fenomeni di caduta e di aggiunta
che riguardano la formazione delle parole italiane.

aferesi – Consiste nella caduta di suoni all’inizio di una


parola. Qualche esempio, più comune, lo possiamo trovare in:

95
teresa agovino

(il)lic > lì; (il)laei > lei; oppure in (que)sta mattina > sta mattina >
stamattina.
Questa si riduce a Sta per aferesi della sillaba iniziale.
Il fenomeno per cui due parole si uniscono a formarne una sola,
invece, si chiama univerbazione e nasce dall’accostamento dello
scritto alla lingua parlata in cui, come già sappiamo, non esistono
confini ben delimitati.
Quindi, l’univerbazione è un fenomeno che i parlanti hanno
gradualmente ricondotto allo scritto.
n.b. – nei dialetti possiamo trovare aferesi di i- a inizio di parola,
quando è seguita da nasale: ‘mparà.

Affine all’aferesi è la discrezione dell’articolo – Si tratta


della fusione dell’articolo con il sostantivo a cui esso si riferisce.
Ad esempio: illam abatissam > la abadessa > la badessa
Nel caso sopra menzionato, nell’incontro tra le due a, i fonemi si
fondono in uno solo, poiché quella a viene interpretata come parte
dell’articolo e non del nome.

sincope – La sincope è la caduta della vocale intertonica (cioè


quella posta tra l’accento principale e quello secondario di una pa-
rola). Ovviamente questo fenomeno si spiega facilmente con la
forza articolatoria: la forza maggiore nel pronunciare le parole
viene utilizzata per le vocali accentate, il che fa venire a cadere
quella meno forte. Ne troviamo esempi già nell’Appendix Probi, a
testimoniare che si tratta di un fenomeno piuttosto antico.
Ad esempio: dominam > domnam > donna
n.b. – In alcune regioni del centro – sud Italia e nel rumeno si
tende a mantenere la vocale intertonica : masculum > masculu (sic.)
/ mascur (rum.)
Alla sincope è legato il concetto di tollerabilità: perché av-
venga sincope è necessario che il nesso consonantico risultante dalla
caduta della vocale intertonica sia tollerabile, cioè non cacofonoico,
altrimenti la vocale tende a restare invariata:
pulicem > pulce (lc è tollerabile)

96
elementi di grammatica storica

novitatem > novità (non *novtà, poiché il nesso vt è cacofonico


per il parlante italiano).

apocope – È questo il fenomeno che riguarda la caduta delle


vocali atone finali di parola. Si parla di apocope vocalica quando
cade la vocale finale di parola. In italiano, l’apocope si verifica nei
seguenti casi:
1 – se la vocale finale è preceduta da /l/, /r/, /n/, /m/ (più raro):
buono anno > buon anno;
2 – se la parola in cui si trova la vocale non è in pausa (deve cioè
legare con quella successiva);
3 – se la vocale finale non è un morfema del genere e del numero,
cioè posso dire quello è un signor dottore poiché è la -e di dottore che
mi indica il maschile singolare, mentre non dirò quello è un signor,
ma quello è un signore poiché la -e di signore, in questo caso mi indica
il maschile singolare, quindi è un morfema del genere e del numero;
4 – nella combinazione infinito + pronome atono: vedere + lo >
vederlo; dire + mi > dirmi;
5 – con l’aggettivo buono, quando questo precede il nome cui si
riferisce: un buono amico > un buon amico.
Un esempio di apocope nel passaggio dal latino all’italiano è
facit > face > fa; o ancora *potet > puote > può4.
Se invece cade un’intera sillaba, come in grande caldo > gran cal-
do, parleremo di apocope sillabica. Tale fenomeno è abbastanza
raro in italiano.
n.b. – Rientra nel fenomeno dell’apocope anche l’aplologia
cioè la cancellazione di suoni simili o uguali tra loro, frequente in
epoca antica: bontade de Cristo > bontà de Cristo; cittade de Roma >
città de Roma. Tale fenomeno origina dalle basi latine derivanti in
-atem: Bonitatem; Civitatem, ecc.5

4
Patota.
5
Patota.

97
teresa agovino

n.b. – Attenzione a non confondere l’apocope con l’elisione:


l’elisione è la caduta della vocale finale di parola di fronte a quella
della parola successiva dallo alto > dall’alto. L’elisione, diversamente
dall’apocope non avviene mai davanti a parole che iniziano in conso-
nante e di conseguenza verrà sempre segnalata dall’apostrofo. Quindi:

buon uomo = apocope


quell’albero = elisione

vocali atone in finale di parola – In italiano, come sappia-


mo, le parole tendono sempre a terminare in vocale (atona o tonica).
Diremo quindi che le vocali atone finali di parola in italiano sono
resistenti alla caduta.
Nei dialetti, tuttavia possono affievolirsi o cadere (pensiamo
all’utilizzo dello schwa al napoletano femm n , ad esempio).

Insieme ai fenomeni di perdita di suono (aferesi, sincope e apocope)


ne esistono alcuni che invece constano nell’aggiunta di un suono,
o di un gruppo di suoni, essi sono prostesi, epitesi e epentesi6.

prostesi – Si tratta dell’aggiunta di un suono in principio di


parola. È un fenomeno che ad oggi va scomparendo ma si registrava
fino a qualche decennio fa in espressioni come in Ispagna, in istrada,
per iscritto (usata ancora oggi), ecc. L’aggiunta della i – evitava la ca-
cofonia del suono nel pronunciare determinati incontri consonantici.

epitesi – Il fenomeno riguarda l’aggiunta di suoni in fine di


parola poiché l’italiano, come vedremo meglio in v.7, a differenza di
altre lingue romanze, non accetta parole terminanti in consonante.
Anticamente, ad esempio, capitava con nomi stranieri (= non latini)
come Minos > Minosse; David > Davide.

6
Patota.

98
elementi di grammatica storica

epentesi – Si tratta dell’aggiunta di suoni all’interno di una


parola. In italiano avviene sia con le vocali che con le consonanti.
Un esempio di epentesi consonantica è: manualem > manoale >
manovale in cui la -v – è stata aggiunta per ovviare all’incontro caco-
fonico tra -o -e -a-; allo stesso modo in Iohannes > Gioanni > Giovanni.
L’epentesi vocalica la possiamo trovare nell’aggiunta di i- a
evitare cacofonie consonantiche, come ad esempio: baptismum >
battesmo > battesimo; spasmum > spasmo > spasimo (si noti che spasmo
è l’allotropo dotto di spasimo che invece si è naturalmente evoluto
con epentesi).

6. Consonantismo

Vediamo in questo paragrafo i mutamenti consonantici avvenuti


nel passaggio dal latino all’italiano. Distingueremo tra consonanti
e nessi consonantici (al paragrafo successivo) a seconda che essi si
trovino all’inizio di parola o all’interno di essa. Vedremo, infine,
cosa accade alle consonanti finali di parola latine e perché non
vengono mantenute nella lingua italiana.

esito delle consonanti in posizione iniziale di parola

restano invariate:

B occlusiva bilabiale sonora: balneum > bagno


n.b. – nei dialetti del sud Italia possiamo avere la lenizione in v oppure
il raddoppiamento in bb : bocca > vocca; balcone > bbarcone; in Umbria e
Toscana si ha riduzione al grado zero: ócca.

D occlusiva alveodentale sonora. dentem > dente


n.b. – in alcuni dialetti del sud Italia d > r : domenica > ruméneca; può
venire pronunciata con raddoppiamento enfatico dd; in Umbria diventa
g davanti a ie: dietro > ghiétro; in Lazio può diventare anche t: diavolo >
tiavolo.

99
teresa agovino

F fricativa labiodentale sonora: filum > filo


n.b. – al sud Italia si può lenire in v: femmina > vìmmina.

R liquida vibrante: ranam > rana.


n.b. – al sud Italia si può avere raddoppiamento in rr-: rrosa; in Umbria
e Toscana è frequente il mutamento in ar – nei verbi: rimanere > armané.
M bilabiale nasale e N alveodentale nasale: manum > mano;
nivem > neve

L liquida laterale alveodentale: lentum > lento

subiscono variazioni:

K occlusiva velare sorda:


davanti a a, o, u in alcuni casi si sonorizza in : cubitum > gomito
davanti a i ed e diventa palatale : certus > certo; civis > civile
n.b. – in Sardegna si conserva il suono velare [k]: centum > kentu; in
Toscana muta in una fricativa : [ ]ima; nei dialetti settentrionali diventa
/ts/ oppure /s/: cervello > servéo (venez.).

G occlusiva velare sonora:


si conserva: gulam > gola, tranne davanti a e, i, j, di:
g+e
g+i
Suoni velari in latino diventano palatali in italiano : elare >
gelare
n.b. – in Salento può diventare [k] gatto > kattu; può essere ridotta al
grado zero o raddoppiata: ggatta / tta; nei dialetti del Nord g + i/e può
diventare [z’] (sonora): genero > ‘zenaro; al sud può diventare j oppure ggj:
ielare; gghielatu; in Campania subisce raddoppiamento: ggente.

J (semivocale) latina diventa (g palatale): jocum > gioco


n.b. – Il nesso consonantico relativo DJ fa lo stesso: djurnum > giorno.

100
elementi di grammatica storica

S fricativa sibilante iniziale antevocalica in italiano è sorda (sac-


co) ma si sonorizza se precede b, d, g, l, m, n, r, v: (sveglia; sbaglio;
sdoganare).

U (semivocale).
Questo è un caso particolare poiché dobbiamo innanzitutto
ricordare che in latino la consonante V non esisteva, in italiano essa
nasce proprio da u semivocale, che quindi si conserva ma sottoforma
di v: vaccam > vacca; vitem > vite.
n.b. – [w] si conserva nella parte settentrionale della Campania:
voce > [w]oce; in Italia centrale può essere sostituita da b: vocem > boce
(vedi paragrafo dedicato alla Catacomba di Commodilla, al capitolo 6).
L’oscillazione tra B e V è un fenomeno comune a molte lingue romanze
(esiste anche un fenomeno di oscillazione tra v e g: volpe > golpe). Nelle
parole di origine germanica, infine, la u semivocale ha avuto esiti diversi:
guerra > werra; in Toscana si adatta in gw = gwai; al Nord si scempia in
v: guardare = vardàr.

esito delle consonanti intervocaliche

Si tratta delle consonanti posizionate tra due vocali e poste,


quindi, in mezzo alla parola.

Le esplosive sorde per lo più si mantengono inalterate: focum >


fuoco. Alcune a volte si sonorizzano: acum > ago (questo fenomeno
si chiama lenizione romanza).

K + e / i si palatalizza: de[k]em > dieći

B e V intervocaliche. La b diventa v; la v resta invariata:


v=v
b > v: caballum > cavallo; habere > avere

G ha esiti differenti.

101
teresa agovino

Davanti a a, o, u si può conservare: plagam > piaga, oppure


perdere: regalem > reale. Davanti a i ed e diventa j, quindi avremo
lo stesso esito del nesso dj in gg: radium > raggio. Se la e e la i
sono toniche (accentate), la g si indebolisce fino a cadere: sagittam
> saetta.

F intervocalica era sconosciuta in latino. Si trova però nelle pa-


role di origine greca (unica lingua degna di rispetto per i romani):
Typhus. Il ph come suono f resta come f in italiano: buphalus > bufalo.

7. Nessi consonantici

Vediamo come si comportano i nessi consonantici nel passaggio


dal latino all’italiano.

esito dei nessi consonantici a inizio di parola

Ricordiamo innanzitutto che tutte le consonanti + l danno vita


a consonante + j
(bl > bj; cl > chi; …). Vediamone qualche esempio:

bl > bj bletulam bietola


br – si conserva brachium braccio
kl > kj clavem chiave
croce
kr – si conserva; in alcune parole crucem
grotta
può dar luogo a gr- crypta

fl > fj flumen fiume


gl > gj glacem ghiaccio
gr – si conserva grandem grande

102
elementi di grammatica storica

pl > pj plateam piazza


tr – si conserva translatus tradotto

esito dei nessi consonantici interni di parola

In italiano la tendenza principale è quella di eliminare molti nessi


consonantici latini mediante un processo detto assimilazione re-
gressiva, cioè l’adattamento della consonante a quella che la segue.
La prima consonante si assimila alla seconda; quindi regredisce,
poiché la seconda consonante assimila la precedente.
Vediamone qualche esempio:

bv > vv obviare ovviare


pt > tt scriptum scritto
ct > tt pactum patto
jm > mm fuimus fummo
dr > rr quadraria carrara
gd > dd frigdum freddo
nl > ll cunlam culla
mn > nn domnam donna
x (= cs) > ss fixare fissare
dv > vv advenire avvenire
ps > ss scripsi scrissi

n.b. come possiamo notare a questo punto, in ogni singola parola


avviene di volta in volta più di un mutamento fonetico. Ad esempio,
in dominam > donna abbiamo sia un fenomeno di sincope della vocale
atona che uno di assimilazione regressiva.

103
teresa agovino

Accade anche l’inverso, cioè che la seconda consonante si assimili


alla prima, in questo caso parliamo di assimilazione progressiva.
Si ha con liquida (l) e nasale (n): bargildum > bargello.
Si tratta del fenomeno per cui (a differenza dell’italiano, che
vedremo nel passaggio successivo), nei dialetti centro meridionali,
si trovano forme come le seguenti:

nd > nn: mundum > munno; monno

mb > mm: plumbum > plummo; chiummo

esiti di altri nessi consonantici interni

ND e MB in italiano tendono a conservarsi: mundum > mondo;


plumbum > piombo.
M e N + consonante sorda si conservano: nt: centum > cento; mp:
campum > campo; nc: unicinum > uncino.

TL e KL danno vita a kkj: speculum > speclum > specchio

PL diventa pj oppure ppj: oplum > oppio

I nessi KR, TR e PR si sonorizzano: patrem > padre

I nessi LS, NS e RS diventano ma si conservano nei latinismi


come denso, senso, consiglio.

consonanti interne + J:

DJ e GJ diventano GG: radium > raggio; fag um > faggio

LJ tra due vocali diventa : familiam > famiglia

104
elementi di grammatica storica

MJ e PJ intervocalici (se chiusi, cioè, tra due vocali), diventano


MMJ e PPJ: simiam (simjam) > scimmia (scimmja); sepiam (sepjam)
> seppia (seppja).

In RJ avviene una fusione di R con J, per cui furnarium (fur-


narjum) darà fornaio (fornajo)

Infine, TJ avrà due diversi esiti: zz (plat am > piazza), oppure


(rationem = ratjonem > ragione).

nessi di tre consonanti

I nessi di tre consonanti non sono moltissimi in italiano.


Se la terza consonante del nesso è la R, tendono a conservarsi:
ombra, finestra, palestra, contratto, contrario…

Se invece la terza consonante del nesso latino è L, il nesso si


vocalizza: ungla > unghia (gj).

Si ammutoliscono invece:
K davanti a T : sanctum > santo;
P se è seguita da S: excarpsu > scarso

8. Consonanti finali di parola

Come sappiamo, in italiano fatte salve alcune rare eccezioni


(per) non esistono parole terminanti in consonante. Il latino, invece,
aveva molte parole terminanti in consonante.
Vediamo quindi cosa accade alla consonanti finali latine nel
passaggio alla lingua italiana e perché esse vengono meno.
Le consonanti finali di parola latina sono quattro: M, S, R, T.

M: Già al tempo di Quintiliano (35 d.C. ca.-96 o 100 d.C.),


non viene più pronunciata in fine di parola.

105
teresa agovino

Ad oggi, nessuna lingua romanza conserva la -m finale di parola.


Resta soltanto nei monosillabi, con epitesi (= aggiunta) di -e
finale: spem > speme.

S: La -s finale di parola non si pronunciava più già al tempo di


Cicerone (106 a.C-43 a.C.), quindi ben prima della -m.
Diversamente dalla -m, però, la -s subì una sorte differente poi-
ché nel ii secolo venne rafforzata, per poi cadere di nuovo.
Ciò fa sì che alcune lingue romanze conservino la -s finale di
parola (francese nous, per esempio).
Quindi nell’area romanza orientale (Italia, Romanìa, ecc.), la -s
finale di parola cadde; restò invece nell’area romanza occidentale
(Francia, Portogallo…).

R: In italiano, la -r latina finale di parola sin conserva solo nella


parola per. In diversi dialetti italiani è inoltre diffusa la caduta di
r + vocale finale nei verbi all’infinito: cantare > cantà; amare > amà;
volere > volè…

T: -t finale di parola, semplicemente, si perde (caput, amat…)

106
CAPITOLO VI

BREVI CENNI DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA1

1. Chi crea la lingua italiana scritta e parlata?

Nei prossimi paragrafi vedremo come è nata la lingua italiana


e come si sono evoluti nel corso dei secoli gli studi di linguistica.
Prima, però, è necessario approfondire il discorso su quelli
che si possono definire i soggetti della linguistica: cioè coloro
che parlando e scrivendo a livello non solo letterario contribuiro-
no grandemente alla formazione della nostra lingua. Escludendo
poeti, scrittori, grammatici, lessicografi e coloro che, appunto, se
ne occuparono in maniera diretta, vedremo quanto l’influenza di
popolo, notai, mercanti, scienziati, burocrati, scuole e editori incise
sulla creazione e stabilizzazione della lingua volgare.

popolo – Il linguaggio non è soltanto una prerogativa delle


classi colte, ma un patrimonio dell’intera comunità. Grandi tra-
sformazioni, nel corso dei secoli, sono avvenute a livello linguistico
proprio grazie alle masse popolari.

1
Per questo capitolo e il successivo, cfr. Migliorini; Marazzini.

107
teresa agovino

La questione relativa all’influenza popolare sulla lingua, nel


corso della storia, è stata molto dibattuta; Bembo ad esempio, nel
Cinquecento non riconosce un valore alle classi subalterne nelle
decisioni linguistiche. Manzoni, invece, (e prima di lui Machiavelli)
è favorevole all’adozione della lingua viva parlata di Firenze.
Va da sé che per popolo, in questo caso, non intendiamo l’inte-
ra popolazione nazionale ma il popolo toscano cioè l’unico che
avesse a disposizione un idioma accostabile a quello letterario, con
cui poterlo confrontare. Inoltre, si intende come popolo sempre
quel ceto medio capace di influenzare significativamente le scelte
linguistiche nazionali; il che esclude a priori i contadini, gli incolti
e tutti gli strati più bassi della popolazione.
Ricordiamo anche che, nel corso del Cinquecento (quando la lin-
gua viene normata) i modelli principali sono da un lato Petrarca,
che rifiuta categoricamente ogni forma di linguaggio popolare in
poesia e dall’altro Boccaccio, che invece nella sua prosa è atten-
tissimo alle forme popolari.
Il vero interesse linguistico verso le masse popolari incolte nasce,
come si può facilmente immaginare, dopo l’unificazione nazionale
quando il problema si sposta da Come scrivere la letteratura in volgare
italiano? A Come bisogna unificare la lingua parlata dell’intera nazione?
Pensiamo che anche l’ideologia marxista (che riprendeva in parte
il pensiero gramsciano) si occupò dei problemi linguistici delle
masse popolari e delle classi subalterne.
D’altro canto, le spinte linguistiche unificatrici non manca-
rono nella seconda metà del xix secolo: scolarizzazione, leva ob-
bligatoria, emigrazione, giornali, melodramma, preghiere, inni
dei partiti. Antonio Gramsci (1891-1937), per esempio, (come
Graziadio Isaia Ascoli prima di lui) sostenne che il livellamento
linguistico in Italia sarebbe stato raggiunto naturalmente proprio
grazie alla combinazione tra scuola, giornali, teatro, cinema, ecce-
tera. Né Gramsci né Ascoli avrebbero potuto prevedere l’avvento
della televisione, il vero grande strumento di diffusione linguistica
della nazione, diffusosi un secolo dopo l’unificazione nazionale,
nel secondo dopoguerra.

108
brevi cenni di storia della lingua italiana

Pensiamo, ad esempio, che la RAI trasmise tra il 1960 e il 1968


il programma Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per
il recupero dell’adulto analfabeta tenuto dal maestro Alberto Manzi
(alcune puntate, di circa 30 minuti l’una, sono reperibili ad oggi
su YouTube).
Solo nell’ultimo mezzo secolo, infine, si impone realmente
all’attenzione degli studiosi l’importanza dello studio dei dialetti
popolari, visti non più come inferiori alla lingua nazionale ma come
sistemi linguistici dotati di pari dignità che semplicemente, a dif-
ferenza del toscano, non si sono imposti come modello letterario e
burocratico della nazione.

notai e mercanti – Nella nostra storia linguistica la figura


del notaio è certamente centrale, soprattutto in epoca medievale.
Molti dei primi documenti in volgare vennero infatti scritti proprio
da notai che per scelta introdussero brani in volgare nei documenti
di norma stilati in latino (il Placito Capuano, che vedremo nel
prossimo paragrafo, ne è un esempio lampante).
I notai, inoltre, furono i primi cultori di poesia italiana; un
esempio lo possiamo trovare all’interno dei memoriali bolognesi
redatti a partire dal 1265: in quell’anno a Bologna vigeva l’obbligo
di registrare anche i contratti privati. Nei registri dei notai gli spazi
bianchi venivano biffati (dal francese biffer) cioè riempiti in modo
da non poter falsificare o manomettere i documenti con aggiunte
posteriori (lo stesso accade oggi quando, ad esempio, su un assegno
scriviamo Euro 1000#, così che non vi si possano aggiungere zeri).
In alcuni casi, dunque, i notai del Medioevo, invece di segnare i
documenti con scritte casuali vi inserivano preghiere, proverbi o
vere e proprie poesie in volgare. All’interno dei Memoriali Bolognesi
troviamo addirittura, ma in epoca successiva, riprodotti anche versi
di Dante e Cavalcanti.
La figura del mercante differisce da quella del notaio per un
particolare fondamentale: il notaio conosce il latino e sceglie di
utilizzare volontariamente il volgare, il mercante invece è illetterato
(cioè non conosce la lingua latina ma solo quella volgare); spesso

109
teresa agovino

però accade che, per motivi commerciali, egli conosca molto bene
le lingue straniere.
I mercanti viaggiavano molto e tenevano una fitta corrispon-
denza; per questo la grande produzione scritta che ci è giunta è
composta principalmente da lettere, scritte in volgare e senza alcun
artificio retorico o letterario. I mercanti fiorentini, inoltre, erano
soliti possedere addirittura delle piccole biblioteche personali in cui
custodivano, e leggevano, opere anche minori di autori in volgare
(Dante e Boccaccio soprattutto).
Possiamo dire, quindi, che il mercante in epoca medievale:

– legge per divertimento


– scrive per lavoro

Insieme alle lettere, possiamo trovare tra i documenti dei mercanti


le cosiddette pratiche di mercatura; si tratta di quaderni personali
che contengono un po’ di tutto: note commerciali, ricette mediche,
fatti di cronaca, proverbi, notizie astronomiche, tutti rigorosamente
trascritti in volgare, con ortografia incerta (ricordiamo che fino al
Cinquecento, cioè alle riforme di Bembo, non abbiamo una vera
normazione ortografica della lingua italiana; i mercanti quindi spesso
andavano “a orecchio” nelle trascrizioni delle parole).
Infine, ancora tra le scritture composte da mercanti, possiamo
trovare i libri di famiglia in cui venivano raccolti avvenimenti
familiari importanti (nascite, decessi, matrimoni…) e le cronache
di viaggio di coloro che si spostavano per commercio.

scienziati – Fino al Rinascimento la lingua scientifica per ec-


cellenza fu sempre il latino. Tutti i trattati di teologia, filosofia,
botanica, medicina, astronomia, geometria venivano stilati in lingua
latina (anche perché il volgare non possedeva ancora un lessico
adeguato alla scienza).
Fonti e modelli di tali testi scientifici, ancora nel corso del Tre-
cento erano autori latini (Plinio) o scrittori tradotti in latino dal
greco (Aristotele) e dall’arabo (Avicenna, Averroè). Lo stesso De

110
brevi cenni di storia della lingua italiana

vulgari eloquentia di Dante, che pure difende e analizza i dia-


letti italiani e ne nobilita l’uso, è scritto in latino.
Servirà, dunque, parecchio tempo prima che la lingua italiana,
cioè il volgare, possa competere con il latino sul piano scientifico
(ricordiamo che nelle Università ancora nel Settecento la norma era
quella di tenere corsi in lingua latina). Fino al Settecento, inoltre,
saperi umanistici e scientifici resteranno fusi nei corsi di istruzione
superiore (Dante stesso studia materie diverse tra loro come retorica,
astronomia, teologia e filosofia nello stesso corso2).
Nel corso del Cinquecento si comincia ad affermare un primo lin-
guaggio tecnico – scientifico in volgare. Galileo Galilei promuoverà
l’uso del volgare per la stesura di trattati scientifici. Fondamentale, in
questo passaggio, fu la traduzione dei trattati e dei testi scientifici
dal latino al volgare, che permise la creazione di un lessico scientifico
anche nella lingua italiana. In questo periodo molte parole vennero
scelte come prestiti modellandole sulle corrispondenti latine e greche
(scelta che Galileo non approvava, preferendo, in alternativa, la crea-
zione di neologismi direttamente in italiano). Tali parole quindi (come:
cardiologo, fisiatra, fotosintesi, trigonometria, ecc.) non entrano in italiano
attraverso la spontanea evoluzione dal latino ma vengono integrate
come prestiti adattati (anche dal greco, non solo dal latino) soltanto in
un secondo momento, molto più tardo rispetto alla nascita del volgare;
è il motivo per cui ancora oggi distinguiamo facilmente molte delle
parole di “matrice colta” da quelle in uso nel lessico quotidiano.
Il vantaggio di tali prestiti, tra l’altro, risiedeva all’epoca nel
fatto che risultassero comprensibili in tutta Europa: il latino, infatti,
era diffuso (e utilizzato) come lingua comune a vari stati europei,
esattamente come l’inglese oggi.

2
Si tratta delle Arti del Trivio e del Quadrivio, base dell’educazione medie-
vale: teologia, filosofia, fisica, astronomia (quadrivio); dialettica, grammatica e
retorica (trivio).

111
teresa agovino

Giacomo Leopardi (1798-1837) nell’Ottocento teorizzò in


merito alla distinzione tra linguaggio poetico e scientifico, una
diversa etichettatura che si può riassumere in:

– parole, cioè il lessico appartenente alla dimensione poetica;


– termini, ovvero il lessico della dimensione tecnico – scien-
tifica della lingua.

burocrati – La lingua toscana, e dunque l’italiano, come ab-


biamo finora intuito e oltre vedremo in dettaglio, non nasce come
lingua burocratica, amministrativa (complice anche la tarda unifi-
cazione nazionale) ma letteraria. In pratica, l’Unità d’Italia avviene
quando la lingua è già stata ampiamente codificata dai letterati.
Fino al Quattrocento le cancellerie dei vari Stati della penisola
italica utilizzavano abitualmente il latino per qualsiasi documento
redatto da notai o scrivani, oppure per la corrispondenza interna ed
estera. Milano, Urbino e Mantova, nel corso del xv secolo optarono
per l’utilizzo del volgare all’interno delle loro cancellerie; questo
perché in tal modo bandi e gride emanati sul territorio potessero es-
sere agevolmente compresi dalla popolazione cittadina. Non sempre
però il volgare venne accettato immediatamente a livello burocratico:
l’idea che il popolo non comprendesse le leggi e i documenti poteva
favorire i burocrati disonesti, come ci ricorda anche Manzoni nella
famosa scena del latinorum tra Renzo e don Abbondio3.
Un esempio specifico in tal senso si ha nel 1560/61 in Piemonte
quando Emanuele Filiberto, proprio per ovviare al problema del
latino incomprensibile alla popolazione, introduce nei tribunali
l’uso della lingua italiana (come già aveva fatto in Francia con la
lingua francese Francesco I); avvocati e notai, però, per protesta
continuano a utilizzare il latino, al punto che nel 1577 (oltre quindici
anni dopo) viene loro inoltrato dal governo un richiamo ufficiale
perché utilizzino la lingua italiana.

3
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo II.

112
brevi cenni di storia della lingua italiana

scuole – Fino al Settecento, lo abbiamo detto, l’istruzione su-


periore viene regolarmente impartita in latino; l’unica regione ad
aprire cattedre universitarie in volgare già dal Cinquecento è proprio
la Toscana. Il volgare, nel resto d’Italia, entrerà ufficialmente in
università e istituti di istruzione superiore solo con l’Illuminismo
e ancora occupando una posizione modesta rispetto al latino per
lungo tempo.
Un discorso a parte va affrontato, invece, in merito alle scuole
sotterranee, cioè quelle scuole non statali ma organizzate da
parrocchie o botteghe e destinate principalmente all’istruzione dei
figli dei mercanti. Ovviamente queste scuole erano totalmente orien-
tate all’utilizzo della lingua volgare anche perché, come abbiamo
già detto, mercanti e maestri di bottega non conoscevano il latino.
Il primo fenomeno di scolarizzazione di massa in Italia si fa
risalire a metà dell’Ottocento. È del 1859 la Legge Casati che
impone l’istruzione elementare gratuita per quattro anni; anche
se l’obbligo scolastico venne a lungo evaso regolarmente. I conta-
dini, e le masse popolari, tendevano a negare ai figli un’istruzione
elementare a vantaggio dell’insegnamento di mestieri più pratici
(ad esempio fabbri, calzolai, minatori, ecc.). Va aggiunto anche
che i maestri elementari, fino all’unificazione, insegnavano le
proprie materie non in volgare toscano ma ognuno nel proprio
dialetto locale.

editori e tipografi – La stampa a caratteri mobili viene in-


trodotta in Europa da Johannes Gutenberg (1400 ca.-1478) nel
1455. Nel 1456 a Magonza, in Germania, viene stampata la fami-
gerata Bibbia di Gutenberg: il primo testo a stampa in Europa.
Come possiamo immaginare, l’introduzione del libro a stampa fu
una rivoluzione di immensa portata: i libri fino ad allora venivano
scritti e ricopiati a mano con costi proibitivi e scarsissima accessi-
bilità e diffusione. Con l’invenzione e la diffusione della stampa
i tempi e i costi di produzione del libro vennero drasticamente a
ridursi, a vantaggio anche della circolazione e diffusione dei volumi
e quindi della cultura.

113
teresa agovino

Grazie alla stampa, inoltre, la scrittura si regolarizza e la lingua


italiana raggiunge una norma ortografica definita. I primi libri
stampati, risalenti quindi al quattrocento, sono detti incunaboli
(incunabula, lat. = fasce), cioè praticamente i “neonati”. Bisogna però
tener presente che la tipografia come arte nacque già praticamente
“adulta”, matura.
La prima produzione di testi a stampa fu principalmente in
lingua latina. Il primo documento in lingua volgare ad essere stam-
pato (se ne verrà confermata la datazione, ad oggi dubbia, al 1462)
fu il cosiddetto Parsons Fragment: un libretto di preghiere in
caratteri gotici, scritto in un volgare italiano ancora rozzo e ca-
rico di settentrionalismi, giuntoci in un’unica copia incompleta.
Gli studiosi nutrono ancora dubbi anche sul luogo della stampa di
questo prezioso documento: non si sa se fu stampato in Italia o in
Germania. A causa dei dubbi riguardanti data e luogo di stampa, il
Parsons Frangment non può quindi essere ufficialmente considerato
ad oggi il primo testo in volgare italiano stampato in Italia.
Sappiamo, però, che i libri in volgare stampati nel xv secolo
erano molto scarsi, se confrontati con quelli in latino, che coprivano
circa l’80% del totale. Un secolo dopo, però, i testi a stampa in latino
vennero ridotti al 40% a causa di un enorme incremento dei testi
stampati in volgare italiano. Tra i testi a stampa in volgare troviamo
anche esempi di italiano popolare: ricettari, preghiere, manuali, per
artigiani, donne, mercanti. Ovviamente, i dati variano da regione a
regione: a Roma ad esempio, culla della cristianità, i testi in latino
sopravanzarono ancora a lungo quelli in volgare (preghiere, trattati
teologici, testi ecclesiastici, ecc.).
Con il veneto Pietro Bembo e il suo collaboratore tipografico
Aldo Manuzio, come vedremo, la norma ortografica del volgare
italiano viene finalmente definita: fino al Cinquecento non si aveva-
no, infatti, regole di scrittura precisa per le parole italiane (cioè le h,
le doppie, l’apostrofo, ecc. non erano ancora stati regolati). Già dal
Seicento le convenzioni ortografiche dell’italiano sono praticamente
le stesse che adottiamo ancora oggi.

114
brevi cenni di storia della lingua italiana

2. I primi documenti della lingua italiana4

Abbiamo già detto che il passaggio dal latino volgare al volgare


italiano fu un fenomeno lungo parecchi secoli. Per un lunghissimo
periodo, infatti, si utilizzarono entrambe le lingue in una situazione
abbastanza confusa di passaggio.
Quanto è durata questa fase? La transizione latino-romanza è
stata un processo lungo, di cui non è agevole individuare l’inizio e
la fine se non facendo riferimento a date-simbolo.5
Perché una parlata si sviluppi ufficialmente come lingua è ne-
cessario che essa venga codificata dalla scrittura. Come possiamo
immaginare questo passaggio non è facile, soprattutto in una si-
tuazione come quella della penisola italica in cui fino al 1500 non
abbiamo una norma ortografica definita (cioè chi parla il volgare non
sa come scriverlo) e la dominanza del latino in ambito burocratico
ed ecclesiastico, oltre che culturale, rallenta ancora di più questo
processo di trascrizione dell’italiano.
Disponiamo di una nutrita serie di documenti che testimoniano
questa secolare fase di transizione, ne analizzeremo brevemente solo
alcuni, tra cui l’atto di nascita della lingua italiana, cioè il Placito
Capuano del 960 d.C.
Vediamo innanzitutto quali si possono considerare i primi effet-
tivi documenti che testimoniano lo sforzo dei rudimentali tentativi
di uso della lingua italiana, ancora mista a latino, a cominciare dal
Breve de Inquisitione un testo risalente all’anno 715 d. C.
Si tratta di una verbalizzazione giudiziaria. «Il messo regio Gon-
trando viene inviato a Siena per un’inchiesta, e stende un breve,

4
n.b. Questo breve paragrafo non contiene tutti i documenti importanti per
la nascita della lingua italiana, ma solo una breve panoramica di quelli analizzati
durante il corso. Anche per questo paragrafo, quindi, si rimanda a C. Marazzini,
cit. e B. Migliorini, cit. per una più accurata e completa analisi dei documenti
qui riassunti brevemente.
5
M. Palermo, cit., p. 173.

115
teresa agovino

un verbale che serve come resoconto di quanto ha fatto. Nel breve


trovano posto le deposizioni dei religiosi interrogati»6.
[n.b. il breve è un documento probativo che i notai redigevano
nel Medioevo per conservare il ricordo di un negozio giuridico.
Il nome venne poi utilizzato a lungo dalla Corte Pontificia per
indicare i documenti che contenevano dichiarazioni e decisioni
papali]7.
Perché è importante questo testo ai fini dello studio della lingua
italiana? Il Breve precede di più di due secoli il vero e proprio atto di
nascita della nostra lingua (il Placito Capuano del 960) e in effetti,
all’epoca della sua composizione, è ancora troppo presto perché
si sviluppi il volgare vero e proprio. Nonostante ciò il dato che lo
rende importante è che Gontrando, nella sua trascrizione latina,
comincia ad inserire a tratti alcuni vocaboli del volgare, parole nuove
(= neologismi), sebbene egli ancora non si stacchi definitivamente
dal modello latino.
Altro documento rilevante, ancora cronologicamente situato
prima del Placito, è il famoso Indovinello veronese. La storia
di questa testimonianza è molto particolare: si tratta di un libro
liturgico che venne scritto in Spagna, a Toledo per la precisione,
intorno agli inizi dell’ viii secolo (risale dunque all’epoca di Carlo
Magno). L’Indovinello veronese è quindi contemporaneo del Breve e
antecedente al Giuramento di Strasburgo (843 d.C., v. oltre). Il libro
liturgico in questione dopo varie peregrinazioni, approda fino a
Verona dove intorno agli inizi del secolo ix una mano anonima,
come prova di penna8 aggiunge il testo che ci interessa. Il testo,
diviso in due note nel margine superiore di un foglio, così recita9:

6
C. Marazzini, cit., p. 168.
7
Ibidem, nota.
8
Migliorini.
9
L’immagine, molto nota, è stata reperita utilizzando il motore di ricerca
Google immagini.

116
brevi cenni di storia della lingua italiana

se pareba boues alba pratalia araba & albo uersorio teneba &
negro semen seminaba
gratias tibi agimus omnip(oten)s sempiterne d(eu)s

La seconda nota, come si vede facilmente, è in latino, quindi interes-


sa meno la nostra indagine. Ciò che invece merita attenzione è la prima
nota. Anche in questo caso, come nel Breve, ci troviamo davanti ad una
lingua che è ancora un misto di volgare italiano e latino, quindi non
possiamo attribuire a questo testo il titolo di atto di nascita della lingua
italiana. Per giunta non possiamo stabilire se l’autore, nel comporlo,
stesse volontariamente scrivendo un rigo in volgare o introducesse senza
rendersene conto dei volgarismi in un indovinello latino.
L’Indovinello veronese viene scoperto dagli studiosi solo nel 192410
e per lungo tempo nessuno riesce a decifrarlo. Analizziamo quindi la
nota, svelandone innanzitutto il significato, scoperto da De Batholoma-
eis, grazie ad una sua studentessa originaria proprio del veronese, che
conosceva un indovinello popolare chiamato Ritmo di Verona, ancora
tramandato in quelle zone e simile al testo sopra riportato. L’indovinello

10
Cfr Migliorini, cit., p. 63: «Come primo uso scritto del volgare,
risaliremmo al sec. ix se potessimo senz’altro considerare come tale l’indovinello
veronese, che da qualche decennio, cioè da quando lo Schiaparelli lo scoperse e
lo pubblicò [n. 39: Arch. stor. ital. s. 7a, I 1924, p. 113], e più ancora da quando il
Rajna ne sottolineò i caratteri volgari, ha preso cronologicamente il primo luogo
fra i monumenti della lingua e della letteratura italiana».

117
teresa agovino

«fondato su di una metafora antichissima, il confronto fra l’aratura e la


scrittura»11, si riferisce quindi, proprio all’azione dello scrivere:

Parava davanti a sé i buoi, arava campi bianchi (foglio),teneva


un aratro bianco (la penna), e seminava un seme nero (inchiostro).

Svelato il risultato finale dell’indovinello, analizziamone quindi


le caratteristiche di tipo strettamente linguistico che, come vedremo,
creano ancora molte perplessità.
Innanzitutto quel se pareba. Intorno a queste due semplici parole si
è discusso a lungo, poiché non sono di così facile interpretazione. Vuol
dire davvero parava/spingeva davanti a sé? O piuttosto somigliava?
Oppure era una parola unica: separeba (separava)? E chi ne è il sogget-
to? Chi se pareba? Lo scrittore? Le dita? La mano? … Probabilmente
lo scrittore12, che viene paragonato ad un contadino che ara la terra,
ma ad oggi non ci sono certezze per rispondere completamente ai
quesiti sopra elencati; potrebbe anche significare I buoi apparivano13.
L’imperfetto in -eba, poi, suona anomalo poiché in linea con gli altri
verbi di prima coniugazione avrebbe dovuto essere paraba (= parava).
Particolare è l’utilizzo della parola Versorio. Versor, cioè l’aratro, è
un termine utilizzato nei dialetti settentrionali e lo si ritrova anche
in versi latini di andamento volgareggiante14.
Un altro quesito che non trova risposta è se l’autore delle due
frasi (quella in latino e quella “mista”) sia lo stesso. Le due righe
potrebbero infatti anche essere opera di due diverse mani.
Infine, ancora un quesito di difficile soluzione: se la seconda frase
è oggettivamente scritta in latino, in che lingua è scritta la prima?
Volgare? Semivolgare? Tardo latino scorretto?
Certamente non si tratta di latino (in latino si dice nigro, non negro;
sibi, non se, paraba, non pareba); ma neanche di volgare italiano, poiché

11
Ivi, p. 64.
12
Marazzini.
13
Migliorini.
14
Migliorini.

118
brevi cenni di storia della lingua italiana

ad esempio, la -s finale di boves è tipicamente latina, come la -n di


semen e l’utilizzo di alba per bianco; infine, ricordiamo che sebbene
versorio sia correttamente declinato in lingua latina, la parola non
esiste in latino: appartiene, lo abbiamo visto, al vocabolario del volgare.
Per tutti questi motivi, l’Indovinello non si può ancora considerare
una cosciente trascrizione del volgare italiano: si tratta allora dell’at-
testazione di una forma di passaggio tra le due lingue, che riporta
probabilmente anche qualche errore compiuto dallo scrivente.
Intorno al vi-vii secolo d.C, troviamo una nuova testimonianza
molto particolare, più antica anche questa rispetto al Placito Ca-
puano, e ancora legata al passaggio incerto tra latino e italiano. Si
tratta del graffito presente sulla Catacomba di Commodilla15,
che vediamo riprodotto nell’immagine seguente16:

La scrittura risulta ancora molto vicina al latino, ma al contempo


ricalca la lingua parlata. Il graffito si trova a Roma, nella cripta dei

15
Sulla Catacomba di Commodilla si può consultare tra gli altri, oltre ai
già citati Migliorini e Marazzini, anche Paolo Fallai, Commodilla, un post – it
sulla pietra la prima traccia della lingua italiana, «Corriere della Sera», 18 Febbraio
2019; Giuseppe Antonelli, Il museo della lingua italiana, Mondadori, Milano,
2018; Pietro Trifone, Storia linguistica di Roma, Carocci, Roma, 2008.
16
L’immagine, molto nota, è stata reperita utilizzando il motore di ricerca
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119
teresa agovino

santi Felice e Adaùtto, e venne scoperto nel 1720 anche se, a causa
di una frana, non vi si poté accedere fino al 1903.
La scritta, incisa nel muro e ben visibile, recita:

non dicere ille secrita a bboce

Vediamo di spiegarla meglio. Innanzitutto si tratta di una sorta


di avviso, alla stregua dei moderni cartelli che indicano proibizioni
come: Non parlare al conducente o Non calpestare le aiuole. Probabil-
mente fu uno dei frati della cripta a scrivere il messaggio per invitare
gli altri a non recitare ad alta voce la preghiere.
Le preghiere (secrita) sono le orazioni segrete e la parola si legge
“secreta” (perché si tratta di una ī lunga latina, al plurale femminile).
Ille, invece, è il noto pronome dimostrativo latino, qui già utiliz-
zato come un articolo (quello che poi in italiano diventerà le: Il – Le).
L’ultima parte è molto interessante poiché come si può notare la
seconda B di BBoce è stata aggiunta in un secondo momento come
una correzione, probabilmente per ricalcare la pronuncia del parlato,
fortemente raddoppiata nella zona. Boce viene dal latino Voce(m),
il fenomeno dialettale per cui la v- è diventata una b- si chiama
betacismo (dalla lettera , Beta, nell’alfabeto greco).
Giungiamo finalmente, in ordine cronologico, all’analisi di quel-
lo che è unanimemente considerato dagli studiosi l’atto di nascita
della lingua italiana: il Placito Capuano, datato 960 d.c.17

17
L’immagine, molto nota, è stata reperita utilizzando il motore di ricerca
Google immagini.

120
brevi cenni di storia della lingua italiana

Si tratta di due semplici righe inserite nel verbale di un processo,


redatto in latino e scoperto nel 1734, ma studiato solo dal Nove-
cento in poi. Ciò che caratterizza l’unicità del Placito (e lo rende il
primo atto ufficiale di nascita della lingua italiana) è il carattere
di intenzionalità: cioè chi ha scritto, all’interno di un documento
ufficiale redatto in latino, quelle due righe in volgare voleva scriverle
proprio in volgare.
Ma partiamo dall’inizio. Il Placito è scritto su una pergame-
na che attesta una causa in tribunale: alcune terre nella zona di
Montecassino erano infatti contese tra l’Abate di Montecassino e
un certo Rodelgrimo di Aquino. Rodelgrimo sostiene che le terre
siano sue e che l’abbazia le occupi abusivamente. L’abate, invece
rivendica l’appartenenza di quelle terre all’abbazia per usucapione
(si tratta di una legge ancora vigente: se cioè un bene non viene
rivendicato dal legittimo proprietario per un certo numero di anni,
colui che lo ha occupato e curato fino a quel momento ne diventa
automaticamente il legittimo proprietario). L’abate deve quindi
dimostrare che l’abbazia di Montacassino ha in cura quelle terre
da almeno trent’anni e che nessuno le ha fino ad allora rivendicate,
così da poterle legittimamente mantenere.
Ebbene, al processo si presentano ben tre testimoni che dichia-
rano di essere certi che da almeno trent’anni le terre sono in mano
all’abbazia, giurando sui Vangeli di dire la verità. Il notaio Atenolfo,
che redige il verbale del processo, compie una scelta insolita: non
traduce in latino la testimonianza dei tre testimoni (com’era uso
all’epoca negli atti dei processi) ma la riporta volontariamente in
volgare, cioè esattamente come loro la hanno pronunciata.
Ovviamente, l’intero processo davanti al giudice si svolse in
volgare, non in latino, e Atenolfo tradusse tutto il documento ad
eccezione di questa sola testimonianza. Il testo, uguale nelle versioni
dei tre testimoni, recita:

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le
possette parte s(an)c(t)i Benedicti

121
teresa agovino

Si tratta di una formula testimoniale standard, riportata, vedre-


mo oltre, anche in altri atti successivi al 960. Il giudice preannunzia
le parole (probabilmente preparate da lui in precedenza), che i tre
testimoni dovranno ripetere18. Quindi i tre testimoni avevano im-
parato a memoria la formula e Atenolfo la trascrive così come la
sente: in volgare! Il contrasto tra latino e italiano è qui assolutamente
netto ed evidente (a differenza dei testi precedenti che abbiamo
già visto). Si noti anche che i tre testimoni sono chierici e notai:
potrebbero recitare la formula direttamente in latino, ma non lo
fanno, segno di quanto il volgare parlato avesse ormai preso piede
anche nei contesti ufficiali.
Infine, la scelta del volgare qui è dettata anche dal fatto che il
pubblico dovrà comprendere quella formula: trascrivendo in volgare
una formula atta a dichiarare che ben tre testimoni certificano
legalmente in tribunale che da almeno trent’anni quelle terre sono
in mano all’abbazia, il notaio Atenolfo fa sì che tutti comprendano
il significato di quelle parole, e cioè che nessuno più possa citare
in giudizio l’abate per rivendicare in futuro quelle terre. Non si
tratta quindi della trascrizione istantanea di frasi pronunciate per
caso, ma di un vero e proprio linguaggio di cancelleria voluto e
ben codificato19.
Vediamo ora in dettaglio come è strutturata la testimonianza e
quanti elementi dialettali campani essa contiene:

– sao: viene dal dialettale saccio (a sua volta derivato dal latino
sapio);
– kelle, sta per quelle, e si tratta anche in questo caso di un
palese meridionalismo campano, ancora in uso oggi.
– ko, invece, è una sopravvivenza del latino quod.20

18
Migliorini.
19
Migliorini.
20
Migliorini.

122
brevi cenni di storia della lingua italiana

L’utilizzo di K per CH che riscontriamo in tutto il testo è facile


da comprendere in un’epoca in cui la lingua italiana scritta non è
ancora minimamente codificata.

– Sancti Benedicti è ovviamente ancora un latinismo, legato


al vocabolo sacro che rappresenta;

Infine, come si accennava sopra, va ricordato che il Placito di


Capua del 960 non è l’unica testimonianza campana in volgare
risalente a quegli anni. Ne esistono, infatti, altre tre, a testimoniare
la diffusione in area campana di specifiche formule giuridiche in
volgare, legate alle dispute sui terreni:

1) Placito di Sessa Aurunca, marzo 963 :

Sao cco kelle terre, pe(r) kelle fini que tebe monstrai, p(er)goaldi foro,
que ki contene, et trenta anni le possette

2) Memoratorium di Teano, luglio 963:

Kella terra, p(er) kelle fini q(ue) bobe monstrai, s(an)c(t)e Marie è,
et trenta anni le posset parte s(an)c(t)e Marie

3) Placito di Teano, ottobre 963:

Sao cco kelle terre p(e)r kelle fini que tebe monstrai, trenta anni le
possette parte S(an)c(t)e Marie

Tutti questi placiti si trovano nell’area facente all’epoca parte


del principato longobardo di Benevento21.

21
B. Migliorini, cit, p. 90: «I placiti concernono beni di tre monasteri
dipendenti da Montecassino, e sono stati pronunziati a Capua, Sessa e a Teano:
tutto cioè si è svolto nell’àmbito dei principati longobardi di Capua e Benevento

123
teresa agovino

Vediamo, da ultimo in ordine cronologico, l’affresco di San Cle-


mente, più tardo come collocazione temporale, ma non meno inte-
ressante dal punto di vista linguistico: si tratta di quello che si può
considerare una sorta di primo fumetto nella storia della nostra lingua.
L’affresco, diversamente dall’iscrizione di Commodilla che è il
risultato di una casualità del momento, è voluto e commissionato da
un certo Beno di Rapiza. Ne vediamo qui sotto una riproduzione
grafica, poiché l’originale è particolarmente danneggiato (ma si trova
facilmente sul web). Dalle lettere indicate accanto ai personaggi si
può facilmente risalire alla collocazione delle frasi sotto riportate22:

Dunque, procedendo con ordine: Beno di Rapiza riceve una


grazia da San Clemente e ne commissiona un affresco che ne illustri
il miracolo: San Clemente che si trasforma in una colonna quando
il patrizio romano Sisinnio ordina ai suoi tre servi Carboncello,

(per essere più precisi, in quello di Capua, riunito in quegli anni al principato di
Benevento, in una delle periodiche fusioni e scissioni dei due territori)».
22
L’immagine si trova in C. Marazzini, cit., p. 178.

124
brevi cenni di storia della lingua italiana

Gosmari e Albertello di portarlo via, impedendo così loro di tra-


scinarlo. Il servo a sinistra cerca di sollevare la colonna con un palo,
mentre gli altri due trascinano il blocco di pietra con una corda.
La datazione di tale affresco è abbastanza incerta, pare possa
risalire intorno al 1130 circa.
La scrittura inserita tra i disegni ha andamento verticale, quasi
come un moderno fumetto. Risulta però difficile, come vedremo,
in alcuni casi capire a chi appartiene una determinata frase.
Analizziamolo in dettaglio, notando innanzitutto che qui volga-
re e latino coesistono, quindi ancora una volta la scelta di utilizzare
il volgare è assolutamente volontaria.
In latino abbiamo ben due iscrizioni: innanzitutto quella che
ci informa del fatto che il committente dell’affresco è proprio Beno,
che recita:

Ego Beno de Rapiza cum Maria uxor mea pro amore Dei et Beati
Clementi(s) PGRF

Cioè: Io, Beno di Rapiza, con mia moglie Maria, per amore di
Dio e del Beato Clemente per grazia ricevuta feci fare (= pgrf).

L’altra frase in latino, come si può vedere dall’immagine sopra


riportata, la pronuncia proprio la colonna-S. Clemente, ciò a indi-
care l’importanza del personaggio principale, che a differenza degli
altri si esprime in latino. La frase, dipinta tra i due archi, sopra la
colonna (immagine: B/C) é:

Duritiam cordis v(est)ris saxa traere meruistis

Cioè: per la durezza del vostro cuore, meritaste di trascinare


pietre.

Le altre frasi riportate nell’immagine, escludendo le parole che


ricalcano i nomi dei personaggi, come Sisinium in F, riportano
direttamente il parlato in volgare dei vari protagonisti.

125
teresa agovino

L’umidità della Basilica ha purtroppo rovinato l’affresco, quindi


resta dubbio qualche passaggio. Proviamo ad analizzarlo:
Innanzitutto, a causa dell’umidità non possiamo sapere se la frase
in D è:

«Albertel, trai»

oppure

Albertel: «Traite!»

Cioè se si tratta di Sisinnio che parla ad Albertello (Sisinnio:


«Albertello, tira!») o è Albertello a rivolgersi ai due compagni
(Gosmari e Carboncello), incitandoli a tirare (Albertello: «Ti-
rate!»).
Potrebbe anche, in realtà, essere sempre Sisinnio a pronunciare
tutte le battute in volgare; in questo caso Albertel e Gosmari non
sono didascalie che indicano i nomi dei personaggi raffigurati, ma
la diretta voce di Sisinnio che li chiama incitandoli a lavorare. Se-
condo questa ipotesi, dunque, il “fumetto” si leggerebbe da destra
a sinistra, e Sisinnio direbbe ai suoi servitori:

Fili de le pute, traite! Gosmari, Albertel, traite!


Fàlite dereto colo palo, Carvoncelle!

[n.b. Fili va letto già Figli, perché il gruppo “li” già nel latino
volgare del iii secolo, si pronunciava normalmente “gli”].

Una seconda ipotesi, invece, è che Sisinnio dica solo: «Fili de


le pute, traite!» e il resto sia una conversazione tra i servi che si
incitano a vicenda.
Il problema di fondo, oltre allo stato di conservazione dell’af-
fresco, che come abbiamo detto non è buono, è il fatto che non si
riesce a definire con esattezza il rapporto tra la figura dipinta e la
parola sopra riportata.

126
brevi cenni di storia della lingua italiana

Ad esempio, la battuta in A: Fàlite dereto colo palo, Carvoncelle


è posta proprio accanto a colui che ha il palo, cioè Carboncello; di
conseguenza certamente non può essere lui a parlare a sé stesso. La
battuta è lì perché rivolta a lui.
Tanti interrogativi e poche soluzioni, quindi; ma una certezza
a livello linguistico è fondamentale per i nostri studi: il latino e il
volgare sono qui separati scientemente: l’autore vuole utilizzare
il latino per le parti “alte”, nobili e il volgare per quelle di livello
basso e popolare.
Chi delineò il modello dell’iscrizione, con quello scarso sto-
ricismo che è proprio del Medioevo, adoperò nomi e lingua del
proprio tempo per raffigurare il fatto avvenuto nel primo secolo,
ma con un’importante eccezione: a Sisinnio e ai suoi uomini mise
in bocca il volgare (e già questo fatto, ma più ancora il carattere
plebeo delle parole a loro attribuite, mostra un’intenzione scher-
zosa), mentre le parole del santo le fece risonare con la solennità
della lingua liturgica 23.

3. La lingua italiana attraverso i secoli

Nel corso dei secoli, letterati e studiosi di lingua italiana si sono


posti principalmente due domande differenti:

1 – Come si sono formati i dialetti italiani dal latino?


2 – Come dobbiamo scrivere (e in seguito, dall’Unità d’Italia in
poi), come dobbiamo parlare la lingua italiana?

Nei paragrafi seguenti ripercorreremo entrambi i filoni di studio.


Il primo ha portato alla nascita della moderna linguistica, mentre
il secondo alla normazione della nostra lingua, come la intendiamo
oggi.

23
B. Migliorini, cit., p. 95.

127
teresa agovino

Dunque, nel paragrafo Teorie sulla formazione dell’italiano capire-


mo come nei secoli si è cercato di dare risposta alla prima domanda;
contemporaneamente, si è cercato però anche di rispondere alla
seconda domanda, vedremo come nel paragrafo Breve storia della
lingua italiana24.
Resti ben chiaro, quindi, che sebbene qui per comodità dividia-
mo il percorso in due paragrafi distinti, lo studio è andato avanti nel
tempo in modo parallelo, spesso (come nel caso di Dante o Ascoli)
anche attraverso uno stesso studioso che si è occupato di entrambi
gli ambiti di studio.

3.1 Teorie sulla formazione dell’italiano

La storia della lingua italiana si può definire una materia re-


lativamente giovane, almeno dal punto di vista accademico; esiste
cioè come materia di insegnamento universitario da poco tempo.
Il dibattito sulla formazione della lingua, però, è antichissimo.
Come vedremo, per lungo tempo, del tema si sono occupati non i
ricercatori di linguistica, ma i letterati; ciò almeno fin quando nel
corso dell’Ottocento la linguistica non si distinse come materia
autonoma. La storia della nostra lingua è strettamente collegata a
quella della letteratura e della nazione: ciò ha fatto sì che i letterati
per primi se ne occupassero direttamente.

Trecento – Dante Alighieri (1265-1321) – DE VULGARI ELO-


QUENTIA 25 – Prima di Dante non mancano esempi di letteratura
volgare, ma non si ravvisano particolari momenti di elevazione del
volgare italiano a lingua letteraria; il latino è sempre predominante,

24
Va da sé che, per esigenze di spazio e di programma, si tratta di una sezione
analizzata in modo estremamente rapido e sintetico, per la quale si rimanda ai
testi in programma.
25
Per i dettagli su Dante e il De vulgari eloquentia si rimanda al paragrafo
successivo.

128
brevi cenni di storia della lingua italiana

insieme alle due lingue francesi. In tal senso Dante viene definito
il padre della lingua italiana, o, per dirla con Petrarca: dux nostri
eloquii vulagris.26
All’interno del De vulgari eloquentia, Dante appronta una rasse-
gna dei vari volgari parlati in Italia ed esamina la tradizione poetica
del volgare. La parte introduttiva è dedicata proprio alle origini del
linguaggio umano, che secondo lui deriverebbe dal mito biblico
della Torre di Babele. Per punire gli uomini che avevano costruito
una torre al fine di arrivare al cielo (e quindi a Dio), il Signore
confuse le loro lingue in modo che non potessero più comprendersi
a vicenda. Si tratta di una teoria che ad oggi ci appare surreale,
eppure bisogna pensare che fino al Settecento essa venne portata
avanti come attendibile.
Come vedremo nel prossimo paragrafo, Dante ipotizzò un giusto
collegamento tra il provenzale, il francese e l’italiano (rispettiva-
mente lingua d’Oc, d’ Oïl, e del Sì) asserendo che derivassero da
un’unica lingua comune. Egli, però non riconobbe questa lingua nel
latino, poiché, conoscendo solo il latino classico (scritto) pensò che
si trattasse di una lingua artificiale, non parlata, ma creata a tavolino
dai letterati e modellata proprio dalle lingue sopra menzionate.

Quattrocento – Leonardo Bruni (1370-1444) e Flavio


Biondo (1392-1463) – Nel corso del Quattrocento, lo vedremo me-
glio più avanti, il De Vulgari Eloquentia di Dante non era ancora stato
ritrovato; quindi gli studiosi del periodo umanista non ne furono
influenzati, semplicemente perché non ne conoscevano l’esistenza.
L’Umanesimo fu un movimento strettamente legato al mondo
latino e anche gli studiosi si preoccuparono di indagare principal-
mente su come realmente parlassero i romani e su come la lingua
latina fosse degenerata in quella italiana.
La convinzione che l’italiano non fosse una modifica spontanea e
naturale ma una barbara degenerazione del perfetto latino di epoca

26
Migliorini.

129
teresa agovino

romana non era nuova né si sarebbe arrestata al xv secolo. Ancora


a lungo un tale pregiudizio avrebbe pesato sugli studi di linguistica
italiana. Le teorie principali del secolo xv in merito alla formazione
dell’italiano dal latino si possono ricondurre a due studiosi: Biondo
Flavio e Leonardo Bruni. Vediamole insieme.

Biondo Flavio – Flavio Biondo (conosciuto come Biondo Fla-


vio poiché il suo nome umanistico latino era Blondus Flavius) era
convinto che a Roma tutti parlassero una sola lingua: il latino, quel
latino che lui poteva leggere dai classici. Questa lingua perfetta era
stata corrotta, a suo parere, dalle invasioni barbariche. Non tanto
i Goti, quanto i Longobardi (popolo non latinizzato, quindi rozzo
e privo di rispetto per la lingua di Roma), secondo lui, avevano
imbarbarito la lingua latina a partire dalla loro discesa nel vi secolo.
La lingua italiana nasce quindi, anche per Biondo Flavio, con
un marchio negativo, come una degenerazione, una corruzione
del latino, un evento sciagurato causato da un’invasione barbarica.

Leonardo Bruni – Leonardo Bruni, in contrasto con il pen-


siero di Biondo Flavio, era convinto che a Roma non si parlasse un
solo latino, ma due diverse varietà: una alta (letteraria) e una bassa
(popolare). Da questa seconda varietà (quella popolare) sarebbe poi
nata la lingua italiana, senza che l’influenza dei barbari avesse peso
in alcun modo sulle trasformazioni linguistiche. Ad oggi sappiamo
che questa è la teoria più vicina alla realtà effettiva dei fatti, sebbene
non ebbe grande successo negli anni a venire; vediamo perchè.

Queste due teorie, diametralmente opposte, diedero vita a un


lungo dibattito tra gli studiosi, che si protrasse per secoli. Ci si in-
terrogava, in sostanza, sul reale peso della componente germanica
nella formazione della lingua italiana, o meglio, dei suoi dialetti,
compreso il toscano. Insomma la domanda di fondo era la seguente:
posto che la lingua italiana derivasse da una forma imperfetta di
latino e non dal latino classico, esisteva da sempre un latino popolare
o il latino classico era stato rovinato dalle invasioni barbariche?

130
brevi cenni di storia della lingua italiana

Nel corso del secolo successivo la teoria di Biondo Flavio prese


maggior piede e venne considerata attendibile anche da Pietro Bem-
bo. Ciò perché, purtroppo, la teoria di Bruni, che pure non era così
lontana dalla verità, venne fraintesa e mal interpretata: mentre Bruni
sosteneva che dal latino basso, cioè popolare, fosse nato l’italiano,
i suoi lettori compresero che egli intendesse affermare che il latino
popolare fosse già italiano; cioè che nell’antica Roma si parlasse il
latino classico ad alti livelli e il volgare italiano (quella lingua senza
dignità letteraria e culturale che tanto veniva denigrata in epoca
Umanistica e Rinascimentale) a livello popolare. Ovviamente una
tale affermazione risultava palesemente impossibile e inesatta già
agli studiosi del xv secolo. Questa teoria mal interpretata si definisce
Pseudo-Buruniana.

Cinquecento – Pier Francesco Giambullari (1495-1555)


e Lodovico Castelvetro (1505-1571) – Mentre si continua a
dibattere su quale tra la teoria di Leonardo Bruni e quella di Biondo
Flavio sia la più corretta, una teoria stravagante prende piede nel
corso del secolo xvi. Si tratta della Teoria dell’etrusco di Pier
Francesco Giambiullari, che sostiene che la lingua toscana
non nasca dal latino, ma appunto dall’etrusco. Della lingua etrusca
conosciamo poco ancora oggi, possiamo quindi immaginare quanto
scarse fossero le conoscenze nel Cinquecento. Ebbene Giambullari,
nonostante ciò, identificò l’etrusco con l’Arameo di Palestina e avviò
una teoria che, sebbene fantasiosa, fu ritenuta plausibile e portata
avanti da alcuni studiosi per oltre due secoli, pur rimanendo sempre
ai margini della comunità scientifica europea.
Chi, invece, permise un discreto passo avanti negli studi di
linguistica italiana nel corso del secolo xvi, fu Lodovico Castel-
vetro. Egli, inserendosi nella diatriba tra i sostenitori di Biondo
Flavio e quelli di Leonardo Bruni, appoggiò quest’ultimo e ne
rielaborò la teoria che vedeva un latino alto e uno popolare già ai
tempi della classicità romana. Castelvetro, seguendo il modello
bruniano originale, diede per primo la definizione di lingua latina
vulgare, elaborandone un concetto vicino a quello contemporaneo.

131
teresa agovino

Secondo Castelvetro la lingua di Roma antica possedeva una


forma di latino popolare; questo latino avrebbe avuto la stessa
grammatica di quello classico ma un lessico diverso. Le parole di
questo latino popolare sarebbero poi sopravvissute nell’italiano,
soprattutto con le invasioni barbariche che avevano permesso che
il latino popolare soppiantasse quello classico: imperatori stranieri,
incapaci di utilizzare il vocabolario latino classico, sarebbero ricorsi
a quello popolare, diffondendo così una lingua imbarbarita e più
povera del latino di Roma antica.

Seicento – Celso Cittadini (1553-1627) – Il secolo xvii


segna un punto di svolta, poiché gli studi dedicati alle origini della
lingua iniziano a guardare ai documenti di epoca romana, al di
fuori degli scritti classici, per poter comprendere meglio quale lingua
fosse effettivamente parlata a Roma. Nel 1601 Celso Cittadini
pubblica il Trattato della vera origine e del processo e nome
della nostra lingua. Anche Cittadini esclude a priori l’influenza
delle lingue barbariche sulla formazione dell’italiano, e fornisce
un grande apporto agli studi di linguistica dell’epoca iniziando a
studiare le lapidi di epoca romana. Le iscrizioni sulle lapidi non
erano state composte da letterati ma da persone comuni, la cui lin-
gua scritta doveva necessariamente essere più vicina a quella parlata,
errori compresi. Grazie a questa intuizione, Cittadini comincia ad
analizzare sulle scritte delle lapidi errori e devianze rispetto alla
lingua latina classica e nota che tali errori di scrittura risultano
precedenti alla caduta dell’Impero: ne deduce che esistevano, quindi,
parlate diverse dal latino classico già prima della commistione del
latino con le lingue germaniche degli invasori Goti e Longobardi.
Si fa strada allora, finalmente, la convinzione che anche il latino,
come tutte le lingue, non era una lingua statica (quella cristallizzata
negli scritti di Cicerone, Seneca e Catullo) ma in continuo muta-
mento, come tutte le altre. Pian piano inizia anche a farsi strada
un’altra idea: quella che la “corruzione” della lingua latina (cioè la
comparsa dei volgari) non fosse il risultato di una catastrofe o di un
mutamento in negativo, ma una normale evoluzione della lingua.

132
brevi cenni di storia della lingua italiana

Settecento – Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) –


Muratori è innanzitutto uno storico del Medioevo, che si accosta
agli studi sulla lingua allo scopo di trovare l’equivalente italiano
del Giuramento di Strasburgo27.

n.b. Il Giuramento di Strasburgo è il primo documento


scritto effettivamente in una lingua romanza (il proto-francese). Per
questo motivo è considerato l’atto di nascita delle lingue romanze.
Venne redatto dai successori di Carlo Magno (Carlo il Calvo e
Ludovico il Germanico), per giurarsi fedeltà reciproca nell’anno
842. Il cronachista Nitardo, che lo trasmette, ci informa che il testo
è stato scritto in lingua romana. Carlo, che parlava una lingua
proto-francese, giurò in alto-tedesco antico; Ludovico, di lingua
germanica, giurò nella lingua proto-francese del fratello. Questo
affinché le truppe di entrambi i fratelli potessero comprendere i
rispettivi giuramenti. Di conseguenza, nel Settecento, questo do-
cumento (nella sua parte in proto-francese) viene considerato come
la prova di una sorta di lingua intermedia tra il latino e le lingue
moderne28. Leggiamone un estratto.

27
Particolare del Giuramento di Strasburgo, reperibile anche su Wikipedia
attraverso il motore di ricerca Google Immagini.
28
Il testo originale e in traduzione moderna si trova facilmente sul web, il
riferimento bibliografico più noto è forse Nithardo, Historiarum libri quattuor,

133
teresa agovino

La prima versione qui riportata è quella di Ludovico (che la


recita nella lingua proto-francese di Carlo): «Pro Deo amur et pro
christian poblo et nostro commun salvament, dist di in avant, in
quant Deus savir et podir me dunat, si salvaraeio cist meon fradre
Karlo et in aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit so fradra
salvar dist, in o quid il mi altresi fazet; et ab Ludher nul plaid nun-
quam prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in damno sit».
Carlo ripete lo stesso giuramento in lingua tedesca (cioè la lingua
di Ludovico): «In Godes minna ind in thes christianes folches ind
unser bedhero gealtnissi, fon thesemo dage frammordes, so fram
so mir Got gewizoi indi mahd furgibit, so haldih thesa minan
bruodher, soso man mit rehtu sinan bruher scal, in thiu thaz er mig
sosoma duo, indi mit Ludheren in nohheiniu thing ne geganga,
the, minan willon, imo ce cadhen werhen».
Tradotto, il testo recita: «Per amore verso Dio e per il popolo
cristiano e per la nostra comune salvezza, da oggi in poi, in quanto
Dio mi darà sapere e potere, io proteggerò questo mio fratello Carlo/
Ludovico col mio aiuto e in qualsiasi cosa, come secondo giustizia si
deve fare col proprio fratello, purché egli altrettanto faccia con me.
E con Lotario non prenderò nessun accordo che, per mia volontà,
possa recare danno a questo mio fratello».
Tornando a Muratori e alla sua epoca, va detto innanzitutto che
il problema nacque ancora una volta da una cattiva interpretazione
del testo; cioè dal fatto che, interpretata rigidamente questa idea
della lingua intermedia venne completamente travisata. Non si in-
terpretò, cioè, il Giuramento di Strasburgo come un testo scritto in
antico francese e tedesco, ma come un testo redatto nella lingua di
tutta Europa. Si credette, cioè, che tra il latino e le lingue romanze
ci fosse stata un’unica lingua europea “di mezzo” (il proto-francese
che abbiamo visto nel testo precedente) uguale per tutte le ex regioni
dell’Impero. Cioè si immaginò un passaggio non lineare come quello

libro III, cap. 5, in G. Prampolini, Letteratura universale. Antologia di testi, vol.


II, Utet, Torino 1979.

134
brevi cenni di storia della lingua italiana

che realmente avvenne: latino > volgari italiani, francesi, rumeni,


ecc.; ma una fase mediana rappresentata proprio da una presunta
“lingua intermedia”, cioè: latino > “proto-francese” > volgari italiani,
francesi, ecc.
Questa teoria (ovviamente sbagliata) ebbe un discreto seguito tra
gli studiosi. Muratori cercava appunto un equivalente del Giuramen-
to, che fosse redatto però in antico italiano proprio per dimostrare
che l’idea della lingua intermedia fosse del tutto errata e cioè che
ogni lingua si era formata autonomamente dal latino, senza passare
attraverso una lingua intermedia comune a tutta Europa.
Muratori, in definitiva, era convinto che:

– Le lingue germaniche avessero influito sulla formazione dell’i-


taliano;
– La lingua intermedia europea non fosse mai esistita;
– Nei documenti medievali si potesse rintracciare l’origine della
formazione dell’italiano, come era stato per il francese nel Giura-
mento di Strasburgo.

Muratori incomincia allora a cercare documenti di volgare italia-


no senza mai trovarne. Purtroppo per lui, sebbene all’epoca fosse già
stata pubblicata la raccolta di documenti che potrebbe confermare
le sue teorie, cioè quella contenente il Placito Capuano del 960,
egli non ne venne mai a conoscenza e non riuscì a dimostrare la
fondatezza della sua teoria che pure, come sappiamo, era corretta.

Ottocento – Friedrich von Schlegel (1772-1829) e Gra-


ziadio Isaia Ascoli (1829-1907) – Nei primi anni dell’Ottocento,
quindi, si continua a cercare invano la lingua intermedia. Ve-
diamo alcune delle teorie nate in quel periodo:

François J.M. Raynouard – sostenne che in ambito franco-


fono, la lingua intermedia fosse il provenzale;

135
teresa agovino

Giulio Perticari – studiò i testi precedenti a Dante, asserendo


che quella lingua poteva essere riconosciuta come la lingua intermedia;

Giuseppe Grassi – sosteneva che i barbari corruttori del latino


classico fossero gli antenati degli austriaci che all’epoca dominavano
il Lomabrdo-Veneto. Si fa strada l’idea che la lingua di una nazione
sia strettamente legata al sentimento patriottico dei suoi abitanti.

La vera svolta scientifica in ambito linguistico, nel corso del


xix secolo, giunse dalla Germania attraverso gli studi di August
Wilhelm Schlegel. Schlegel non si interessava direttamente di
lingua italiana ma fondando la linguistica scientifica diede vita
ad una serie di studi che indirettamente ci interessa. Vediamo come.
Schlegel distingue le lingue in tre tipi diversi:

1 – senza struttura grammaticale (cinese): lingue con


radici sterili che non producono nuove parole;
2 – ad affissi (lingue degli Indiani d’America): le parole si
ottengono combinando elementi di senso compiuto;
3 – flessive sono quelle che hanno un sistema grammaticale
strutturato (sanscrito, greco, latino, lingue europee). Sono lingue
che grazie all’uso delle desinenze permettono di esprimere con
poche parole molte idee.

Schlegel distingue tra lingue:

sintetiche – senza articolo (latino)


analitiche – con articolo (italiano); sono le lingue nuove, nate
dalla mutazione di quelle sintetiche. Ciò perché i barbari che inva-
dono l’Impero e gli abitanti romani delle province non sarebbero
stati in grado di utilizzare le declinazioni in uso nella lingua latina;
in tal modo, quindi, sarebbe nato anche l’italiano.
Per Schlegel, inoltre, non esiste la lingua intermedia e anzi le
varie lingue si sono formate autonomamente dal latino, diversa-
mente a seconda del tempo e del luogo.

136
brevi cenni di storia della lingua italiana

Altro influente personaggio nella storia della nostra linguistica


è Graziadio Isaia Ascoli, che ritroveremo più avanti. Si tratta
del primo studioso capace di fornire un’accurata descrizione dei
vari dialetti italiani.
La teoria più nota da lui elaborata è quella del sostrato: come
sappiamo, si tratta dell’azione svolta dalla lingua dei vinti su quella
dei vincitori.
Ad esempio egli sostiene, ma è in errore in questo caso, che la ü
di alcuni dialetti italiani derivi da un sostrato celtico, cioè da una
u latina che i barbari non riuscivano a pronunciare.

4. Breve storia della lingua italiana29

In questo paragrafo vedremo come si è cercato di rispondere,


nel corso dei secoli, al secondo quesito posto all’inizio del presente
capitolo, cioè: Come dobbiamo scrivere (e poi parlare) l’italiano? Ri-
partiamo, quindi, dal xiv secolo, per giungere fino ai giorni nostri.
Prima di addentrarci sulle posizioni dei letterati in merito alla
lingua volgare nel corso dei secoli, è necessario fare una breve pre-
messa sulla nascita della letteratura in volgare. Le prime poesie in
volgare risalgono alla fine del xii secolo, cioè ben prima di Dante
Alighieri. Possiamo incontrare esempi di poesia religiosa, soprattut-
to in ambito umbro, come nel caso di Francesco d’Assisi (1181-2
1226) o Jacopone da Todi (1236-1306), di cui leggiamo di seguito
un estratto della poesia più nota: Donna de Paradiso. Vediamo qui
le prime strofe di una Lauda molto lunga, in forma di dialogo tra
i vari personaggi presenti alla crocifissione di Cristo:

29
n.b.: Questo paragrafo, ovviamente, non contiene tutti i passaggi della
storia della lingua italiana, ma solo una breve panoramica di quelli analizzati
durante il corso. Anche per questo paragrafo, quindi, si rimanda a C. Marazzini,
cit. e B. Migliorini, cit. per una più accurata e completa analisi dei documenti
qui riassunti brevemente.

137
teresa agovino
«Donna de Paradiso,
lo tuo figliolo è preso
Iesù Cristo beato.

Accurre, donna e vide


che la gente l’allide;
credo che lo s’occide,
tanto l’ò flagellato».

«Come essere porria,


che non fece follia,
Cristo, la spene mia,
om l’avesse pigliato?».

«Madonna, ello è traduto,


Iuda sì ll’à venduto;
trenta denar’ n’à auto,
fatto n’à gran mercato».

«Soccurri, Madalena,
ionta m’è adosso piena!
Cristo figlio se mena,
como è annunzïato».

«Soccurre, donna, adiuta,


cà ’l tuo figlio se sputa
e la gente lo muta;
òlo dato a Pilato».

«O Pilato, non fare


el figlio meo tormentare,
ch’eo te pòzzo mustrare
como a ttorto è accusato».

«Crucifige, crucifige!

138
brevi cenni di storia della lingua italiana
Omo che se fa rege,
secondo la nostra lege
contradice al senato».30

Di seguito la traduzione in italiano contemporaneo delle strofe


sopra riportate:

Fedele: «Donna del Paradiso, tuo figlio, Gesù Cristo beato, è


catturato. Accorri, donna e vedi che la gente lo colpisce; credo che
lo stiano uccidendo, tanto lo hanno flagellato.»
Maria: «Come può essere che abbiano catturato Cristo, la mia
speranza, che non ha mai commesso peccato?»
Fedele: «Madonna, è stato tradito; Giuda se l’è venduto, ne ha
avuto trenta denari; ne ha tratto un ottimo guadagno».
Maria: «Soccorrimi, Maddalena, mi è piombata addosso una
disgrazia! Portano via Cristo, mio figlio, come è stato annunciato».
Fedele: «Soccorrilo, donna, aiutalo, poiché sputano addosso a
tuo figlio e la gente lo trascina via; lo hanno consegnato a Pilato».
Maria: «O Pilato, non fare torturare mio figlio, poiché io ti
posso dimostrare che è accusato a torto».
Folla: «Crocifiggilo, crocifiggilo! Un uomo che si autoproclama
re, per la nostra legge, contravviene al senato».

Non solo la poesia religiosa, ma anche quella amorosa si sviluppa


ben prima di Dante. Pensiamo alla celebre corte di Federico II di
Svevia (1194-1250), all’interno della quale si importano i modelli
poetici dei trovatori provenzali. Per quanto concerne l’aspetto lin-
guistico, la poesia siciliana è scritta in un siciliano illustre partico-
larmente carico di provenzalismi. Dante apprezzerà molto questo
genere di poesia, sebbene non si renda conto di leggerla nelle copie
manoscritte (e quindi linguisticamente adattate) dai copisti toscani.

30
Il testo si trova, tra gli altri, in Guglielmino Grosser, Il sistema letterario,
Vol. I: Duecento e Trecento, Principato, Messina, 1993, pp. 429-433.

139
teresa agovino

Anche le attestazioni che ne abbiamo oggi sono quelle filtrate da


mano toscana, è quindi difficile riuscire a ricostruirne la lingua
originale. Il motivo per cui non abbiamo attestazioni dirette della
poesia siciliana è dovuto al fatto che alla morte di Federico ii e al
declino della casa di Svevia, corrisponde a livello cronologico lo
sviluppo economico e culturale di città come Firenze e Bologna.31
Come abbiamo già detto, la storia della nostra lingua si dimostra
strettamente legata alla letteratura e fino all’Ottocento non abbiamo
veri e propri linguisti di professione; saranno infatti i letterati (da
Dante a Manzoni) a occuparsi della questione linguistica. Vediamo
quindi, in ordine cronologico, come il problema è stato affrontato
nel corso dei secoli.

[n.b. per una breve lezione mirata sui tre autori di maggior ri-
levanza qui menzionati (Dante, Bembo, Manzoni) e non solo, si
consiglia il video di Luca Serianni: Italiano parola del mondo,
reperibile su Youtube.]32

4.1 Il Trecento: Dante Alighieri e Giovanni Bocaccio

Dante Alighieri – Dante va annoverato tra uno dei primi e


più importanti studiosi della lingua italiana. Nel corso del Trecento
l’idea della ricerca di una lingua letteraria comune è molto sentita.
Ricordiamo sempre che si tratta di uno studio chiuso tra i pochi
conoscitori del latino (e del volgare di livello elevato), in un’epoca
in cui l’analfabetismo tocca picchi elevatissimi tra la popolazione.
Dante è un convinto assertore delle possibilità letterarie del
volgare, e ne parla in due opere: il CONVIVIO e il DE VULGARI ELO-
QUENTIA.

31
Palermo.
32
Luca Serianni, Italiano parola del mondo, AGI, Agenzia Giornalistica
Italia, Realizzato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, regia di Corrado
Farina, 1994, min. 35.50; reperibile su Youtube al canale Italiana lingua e cultura.

140
brevi cenni di storia della lingua italiana

Dante pensa che il volgare, se elevato a livello letterario, possa


essere un’ottima risorsa di lettura per tutti coloro che sanno leggere,
ma non conoscono il latino.

Il pensiero di Dante è ancora per tutti i suoi elementi intimamente


legato al pensiero medievale, ma egli è il primo laico che nell’Eu-
ropa cristiana assurge a dominare tutta la cultura del tempo […].
Dante mira a «inducere a scienza e virtù», a innalzare a vera nobiltà
queste persone [gli scrittori del tempo] per mezzo del volgare:
creare cioè schiere di laici e colti valenti.33

Attenzione: mentre il Convivio è scritto in volgare, ma incom-


piuto, il De vulgari è invece composto in lingua latina. Vediamoli
nel dettaglio.
Il Convivio (dal latino convivium = banchetto) viene composto
tra 1304 e il 1307 (quando Dante è in esilio). Dante scrive solo
quattro dei quindici trattati che aveva inizialmente progettato, ma
ciò che ci interessa maggiormente è lo scopo per cui quest’opera
viene avviata: dare al volgare una dignità linguistica pari al latino,
anche se lo stesso Dante deve arrendersi al fatto che la lingua più
recente (il volgare) soffra di una minore dignità letteraria rispetto
alla lingua più antica (il latino).
Il De vulgari eloquentia invece, come si evince dal titolo
stesso, è scritto in latino. Ciò perché l’intento dell’autore è quello
di rivolgersi a un pubblico colto. Quest’opera è un vero e proprio
trattato antico di linguistica italiana, all’interno del quale Dante
commette alcuni errori di valutazione ma propone anche ottime
argomentazioni di studio.
Anche il De vulgari eloquentia viene composto durante gli anni
dell’esilio, ed è interrotto al libro ii. La sfortuna ha inoltre voluto che
tale trattato non influisse sugli studi del secolo successivo, perché andò
perduto e venne ritrovato solo nel Cinquecento, quando Gian Giorgio

33
B. Migliorini, cit., pp. 167-168.

141
teresa agovino

Trissino (v. oltre), lo pubblicò in traduzione italiana. Inoltre, anche


dopo il ritrovamento, per diverso tempo il trattato venne considerato
un falso: cioè si credeva che non lo avesse scritto davvero Dante poiché
bocciava tutte le forme di volgare allora esistenti in Italia: l’autore
cioè sosteneva che nessun volgare, nemmeno quello fiorentino, fosse
talmente perfetto da bastare da solo come lingua letteraria.
Ma andiamo per gradi. Cosa dice Dante in questo trattato?
Dante è innanzitutto convinto che le lingue si siano confuse e abbia-
no iniziato a divergere dopo la Torre di Babele: il noto episodio biblico
secondo il quale Dio, per punire gli uomini che avevano costruito una
torre alta fino al cielo per raggiungerlo, ne confuse le lingue.
Inoltre, Dante, dopo aver intuito che la lingua del Sì (il volgare
italiano), è certamente imparentata con il provenzale (lingua d’Oc)
e il francese (lingua d’Oïl) [n.b. i nomi derivano dai tre diversi
modi di dire “sì” nelle tre lingue, oïl > oui], cerca di individuarne la
matrice comune. Egli deduce però, ovviamente in errore, che tali
lingue non possano assolutamente derivare dal latino. Il motivo è
presto detto: Dante non conosce il latino volgare, ma solo quello
classico: la lingua di Seneca, Cicerone, Catullo, per capirci; quindi
crede che il latino, così perfetto (come il greco, che egli neanche
conosce) non sia mai stato parlato davvero ma sia soltanto una lingua
letteraria derivata dall’italiano.
Cioè, invece di dedurre che il sì italiano nasca dal sic latino,
Dante procede all’inverso: se i grammatici hanno “inventato” a
tavolino la lingua latina, allora è sic latino che deriva dal sì del
volgare italiano antico.
Nonostante questo grande errore di partenza, va riconosciuto a
Dante il merito di aver intuito la parentela tra le tre lingue europee
sopra citate (Oc, Oïl e Sì), studiando quelle che oggi in linguistica
chiamiamo concordanze lessicali. Dante cioè analizza la somi-
glianza tra alcune parole nelle tre lingue e ne deduce, correttamente,
che la matrice originaria deve necessariamente essere unica; sbaglia
soltanto nel pensare che questa non sia il latino.
Successivamente, Dante analizza la sola lingua italica, cioè quella
del Sì, e sostiene a ragion veduta che il volgare letterario non possa

142
brevi cenni di storia della lingua italiana

coincidere con una lingua parlata nel quotidiano, ma che debba elevarsi
per poter raggiungere la perfezione nello scritto. Il poeta procede quindi
ad una sistematica eliminazione di tutti i volgari parlati in Italia, che
gli sembrano troppo “rozzi” per accedere allo status di lingua letteraria.
Tra i vari volgari parlati che Dante condanna, ironia della sorte,
spicca proprio il Toscano e il Fiorentino in modo particolare; egli
invece apprezza particolarmente il Bolognese aulico (della poesia
di Guinizzelli) e il Siciliano dei poeti della corte di Federico ii.
Ciò che Dante purtroppo non sa, è che egli ha letto le poesie del
bolognese e dei siciliani non in originale, ma in copia: i copisti
toscani hanno riadattato il linguaggio alla loro stessa parlata, per
renderlo più comprensibile e fruibile al pubblico toscano; quindi
quello che Dante legge è in realtà un volgare bolognese e siciliano
contaminato di toscanismi: una lingua ibrida!
Infine, Dante si dimostra convinto del fatto che il volgare debba
nobilitarsi proprio attraverso la letteratura, egli quindi condanna i
poeti come Guittone d’Arezzo che utilizzano uno stile e un lessico
di basso livello, rozzo e plebeo; ammira invece gli autori stilnovisti e
i poeti siciliani, a suo dire molto curati nella scrittura. Come vedre-
mo oltre, le pagine in cui Dante condanna il toscano diventeranno
nel tempo un punto cardine nella diatriba sulla scelta linguistica
nel corso del Cinquecento e dell’Ottocento.
Nella tabella sottostante, un riassunto riepilogativo delle intu-
izioni corrette e degli errori commessi da Dante nello studio del
volgare e delle lingue romanze:

ERRORI DI DANTE INTUIZIONI CORRETTE


Lingua d’oc, del si (volgare italiano)
Torre di Babele
e d’oïl sono parenti tra loro
Latino parlato (e anche greco) Confronto tra concordanze lessicali
non esiste delle tre lingue di riferimento

Volgare bolognese e siciliano sono Il volgare letterario deve essere piu’


davvero come li legge lui elevato di quello parlato

143
teresa agovino

Giovanni Boccaccio (1313-1375) – Siamo soliti ricordare la


figura di Giovanni Boccaccio principalmente come autore del De-
cameron, ma il poeta toscano oltre ad essere un grande commenta-
tore della Commedia di Dante, fu anche l’autore di una delle prime
testimonianze scritte del volgare napoletano!
Intorno al 1339, infatti, il toscano Giovanni Boccaccio scrive
per scherzo una lettera in volgare napoletano (chiamata Epistola
Napoletana). Si tratta di uno dei primi esempi di quella che
Croce avrebbe definito letteratura dialettale riflessa (vedi
capitolo II, paragrafo 1), cioè una scelta consapevole di un autore
che ben conosce la lingua toscana e che volontariamente decide di
fare un tentativo in un dialetto locale, sebbene stavolta il dialetto
utilizzato non gli appartenga.
La lettera è inviata ad un amico fiorentino di Boccaccio, Fran-
cesco de’ Bardi e il poeta la scrive quando è a Napoli. Il soggior-
no napoletano di Boccaccio fu un periodo fondamentale per la
sua formazione sia letteraria che mercantile. In questo gioioso
contesto, l’autore compone una lettera scherzosa adattandosi alla
parlata che sente ogni giorno intorno a sé. Ovviamente si tratta
di una lingua napoletana marcata in senso comico e riportata così
come arriva all’orecchio di un toscano, non abituato certamente
a quel dialetto.
A questo punto capiremo perché nella lettera stilata da Boccaccio
si possono trovare:
– Tratti marcati del parlato che in letteratura non venivano
invece utilizzati
– I cosiddetti “ipercorrettismi”, cioè l’utilizzo a sproposito dei
dittonghi napoletani (v. metafonesi napoletana, capitolo iv) che
erano sentiti troppo accentuati da un orecchio abituato al toscano.
Boccaccio, sentendo pronunciare parole come “cuoncio”, scrive poi
“fratiello”, “nuome”, “nuostra”, cioè utilizza i dittonghi anche quan-
do il dialetto parlato non li chiede. Non trattandosi di un parlante
napoletano, egli non sa naturalmente quali parole il dialetto chieda
dittongate e quali no. Come se al suo orecchio suonassero tutte così.

144
brevi cenni di storia della lingua italiana

CURIOSITÀ – I MODI DI DIRE REPERIBILI NELL’INFERNO DANTESCO


CHE USIAMO ANCORA OGGI.*

Per quanto la lingua di Dante ci sembri lontana e complessa, in realtà ad oggi utilizziamo,
senza saperlo, termini coniati da lui e soprattutto modi di dire che ci sembrano
contemporanei e non sappiamo appartenere proprio al poeta toscano. Vediamone
qualcuno**:

Stai fresco!
Questa espressione deriva dall’Inferno (canto XXII, verso 117), che recita: là dove i
peccatori stanno freschi. I peccatori, infatti, sono immersi nel lago ghiacciato Cocito.

Non mi tange
Lo dice Beatrice al verso 92 del canto II dell’Inferno a significare che non può nuocerle
la presenza in quel luogo, data la sua condizione di beatitudine: che la vostra miseria non
mi tange.

Senza infamia e senza lode


Anche questa espressione deriva dalla Commedia (Inferno, canto III, verso 36) ed è
destinata agli ignavi: che visser senza ‘nfamia e senza lodo.

Il Bel Paese
Questa espressione si trova al cento XXXIII dell’Inferno, verso 80, che recita: del bel
paese la dove ‘l sì suona; cioè il bel Paese (l’Italia) in cui risuona la lingua del sì (quindi la
lingua italiana).

Galeotto fu
Questa espressione è molto nota e deriva dal canto dedicato a Paolo e Francesca, il V
dell’Inferno, verso 137: Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse.

Il gran rifiuto
Anche questa espressione è molto nota e deriva dal III canto dell’Inferno (ancora gli
ignavi) in cui, al verso 60, riferendosi a Celestino V, Dante lo definisce colui /che fece per
viltade il gran rifiuto.

*
In merito al tema esiste un discreto articolo datato 30 dicembre 2019, reperibile
al sito web di «Hello World», intitolato I modi di dire che usiamo ancora oggi inventati da
Dante Alighieri.
**
Dante Alighieri, Commedia, a cura di E. Pasquini, A. Quaglio, Garzanti, Milano,
2000.

145
teresa agovino

attenzione: la grande importanza di questo documento sta


effettivamente nell’uso volontario che l’autore fa non di un dia-
letto elevato, letterario, ma di un dialetto popolare e parlato
all’interno della propria scrittura. In questa epoca ciò rappresenta
una novità assoluta: la norma infatti prevedeva l’uso depurato del
dialetto nella scrittura. Boccaccio riporta qui, eccezionalmente,
l’uso del parlato napoletano vivo così come arriva alle orecchie
di un forestiero, sperimentando la lingua in una lettera unica
nel suo genere.
Di seguito un estratto dall’Epistola in cui vediamo evidenziati
alcuni ipercorrettismi:

Ad Francisco delli Barde.


Faccimote adunqua, caro fratiello, a saperi, che lo primo juor-
no de sto mese de Deciembro Machinti filliao, e appe uno biello
figlio masculo, cha Dio nce lo garde, e li dea bita a tiempo, e a
biegli anni. E per chillo cha ’nde dice la mammana cha lo levao,
nell’ancuccia tutto s’assomiglia allu pate. […] E ghironci in chiet-
ta con ipsi Marella Cacciapulce, Catella Saccoti, Zita Cubitosa,
et Rudetola de Puorta nuova, et tutte chille zittelle della chiazza
nuostra. E puosoronli nome Antoniello, ad enore de santo
Antuono, cha ’nce lo garde. E s’apissovi beduto quanta bella de
Nido et de Capovana perzì, e delle chiazze bennono a besetare
la feta, pe cierto ti apperi maravilliato. Bien mi tene, quant’a
mene, chiù de ciento creo, cha fossero colle zeppe ertavellate,
e colle manecangiane chiene di perne e d’auro mediemno, cha
’nde sia laudato chillo Deo, cha le creao. Acco stavano bielle!
uno paraviso pruoprio parze chillo juorno la chiazza nuostra.
[…] Benmi le perzone potterà dicere, tune cha ’ncia cheffare a
chesso? Dicotillo: sai, cha l’amo quant’a patre: non bolserie in
de l’abenisse arcuna cuosa, cha schiacesse ad isto, ned a mene
mediemmo. Se chiace a tene, scribelillo: e raccomandace, se te
chiace, a nuostro compatre Pietro da Lucanajano, cha llu puoz-
ziamo bedere alla buoglia suoja. Bolimmonci scusare, cha ti non

146
brevi cenni di storia della lingua italiana
potiemo chiù tosto scribere, ch’appimo a fare una picca de chillo
fatto, cha sai tune. […]34

4.2 Il Quattrocento: Leon Battista Alberti (1404-1472)

Come abbiamo già avuto modo di scoprire in precedenza, il


Quattrocento è un secolo molto particolare dal punto di vista della
linguistica italiana. Gli umanisti del xv secolo si dedicano soprat-
tutto ai classici, quindi allo studio del latino. Ciò, ovviamente, va
in parte a rallentare l’avanzamento del volgare come lingua illustre,
di cultura.
Serviva, insomma, un autore che avesse davvero fiducia nelle
potenzialità del volgare quanta ne aveva avuta Dante nel secolo
precedente. Ricordiamo anche che fino al secolo successivo l’opera
di Dante De vulgari eloquentia è rimasta sconosciuta, quindi nessun
umanista del Quattrocento può averla letta.
Entra in scena a questo punto la figura di Leon Battista Alberti
(1404-1472) che, fiducioso nelle possibilità letterarie del volgare, pro-
muove un movimento denominato appunto Umanesimo Volgare.
Il movimento proposto da Alberti prevedeva l’utilizzo del volgare
(di livello elevato, ovviamente) nella prosa e nella poesia: insomma
una lingua volgare che fosse utilizzata al pari di quella latina per
argomenti seri e importanti.
Alberti sosteneva che il volgare dovesse riscattare sé stesso, fa-
cendosi «ornato e copioso»35 esattamente come il latino. L’autore
quattrocentesco riconosce ovviamente l’importanza degli autori
latini e sostiene che lo scrittore e poeta che compone in lingua
volgare debba imitarne in primo luogo la capacità di aver cerato
una lingua universale.

34
Giovanni Boccaccio, Epistola in lingua Napoletana, in Lettere volgari,
Magheri, Firenze, 1834, pp. 95-97.
35
Cfr. C. Marazzini, cit., p. 240.

147
teresa agovino

Lo stesso Alberti tenta una scrittura in volgare, ancora abba-


stanza carica di latinismi, ma utile comunque allo scopo che si era
prefisso:

A noi la grafia, la sintassi, il lessico dell’Alberti danno l’impressione


di una troppo scoperta intrusione di elementi latini: ma era pur
necessario passare per questa fase per giungere a una più matura
fusione.36

Ricordiamo che, sebbene la famiglia dello scrittore fosse di ori-


gini toscane, egli è nato a Genova ed è tornato a Firenze solo in età
adulta; di conseguenza la sua prosa in volgare sarà segnata da tre
caratteristiche principali:

1 – utilizzo di latinismi
2 – appoggio sul toscano contemporaneo
3 – rifiuto della prosa di Boccaccio come modello

A Leon Battista Alberti è stata anche attribuita la paternità della


Grammatichetta Vaticana, la prima grammatica della lingua
italiana composta tra il 1434 e il 1454. Conserviamo il manoscritto
in codice apografo (cioè una copia dall’originale) scritto per Pietro
Bembo. Scopo di questo manoscritto è quello di dimostrare che anche
il volgare ha una sua struttura grammaticale ordinata, proprio come il
latino. La Grammatichetta non nasce, quindi, dal bisogno di dare una
norma al volgare ma dalla necessità di dimostrare che il volgare ha
già una sua norma interna precisa e analizzabile. L’errore che Alberti
commette, purtroppo, è quello di non credere che esistesse anche
un latino volgare: egli cioè pensava che tutti gli abitanti dell’Impero
parlassero il latino scritto da Seneca e Cicerone. Sfortunatmente,
neanche questo testo vanta una grande fortuna o diffusione e in pochi
lo leggono, soprattutto a causa del fatto che non viene stampato, ma

36
B. Migliorini, cit., p. 242.

148
brevi cenni di storia della lingua italiana

resta manoscritto (la stampa a caratteri mobili di Gutenberg nasce tra


il 1448 e il 1454, quindi la prima grammatica dell’italiano stampata
risale addirittura al 1516, quasi un secolo dopo quella approntata da
Alberti).
Ricordiamo sempre che un grande merito dell’Alberti (pur-
troppo incompreso poiché, come vedremo, la sua teoria non avrà
successo a causa soprattutto della grande fortuna delle teorie di
Pietro Bembo nel secolo successivo) sarà quello di non affidarsi ai
modelli classici del Trecento letterario italiano (Dante, Petrarca,
Boccaccio). Alberti cerca, al contrario, di attenersi all’uso fiorentino
contemporaneo. Ad esempio, predilige gli imperfetti in -o invece
che in -a (io amavo; non io amava; ecc…); egli è un fervente soste-
nitore della norma dell’uso contemporaneo.
Il nostro autore è così convinto delle potenzialità del volgare ita-
liano, che nel 1441, organizza addirittura un Certame Coronario,
cioè una gara di componimenti poetici rigorosamente in volgare.
Purtroppo, l’epoca è sbagliata e i letterati del Quattrocento, così
attaccati all’imitazione latina, non sono pronti a una tale innovazio-
ne. La giuria del Certame, composta da umanisti, fa fallire la gara
arrivando a non assegnare il premio finale a nessuno dei partecipanti
in segno di ferma opposizione alla poesia volgare. Ai membri della
giuria giungerà poi una Protesta anonima (attribuibile allo stesso
Leon Battista Alberti), che critica le loro posizioni conservatrici.
Alberti non fu, ovviamente, l’unico a credere nel volgare nel
corso del xv secolo; anche alla corte di Lorenzo de’Medici (1449-
1492) troviamo sostenitori della lingua volgare come Poliziano.
Lo stesso Lorenzo, compositore di versi in volgare, nel 1477 invierà
al principe di Napoli Federico d’Aragona una raccolta di poesie in
volgare dai pre-dantisti fino ai poeti contemporanei, la cosiddetta
Raccolta Aragonese. Sono trascorsi, all’epoca, circa trent’anni
dal fallimento del Certame di Alberti.
Va comunque sottolineato che, rispetto al secolo precedente
e a quello successivo, il xv secolo non fu particolare promotore
di spinte linguistiche in volgare italiano, arroccato troppo sulle
posizioni filo-latine, in particolar modo quelle dei primi umanisti.

149
teresa agovino

Solo grazie ai già citati Lorenzo e Poliziano, insieme a Boiardo e


Sannazzaro, il volgare giungerà a maturazione37.

4.3 Il Cinquecento: Pietro Bembo, Niccolo’ Machiavelli, Baldassarre


Castiglione e Gian Giorgio Trissino

Nel corso del xvi secolo la questione della lingua si fa parti-


colarmente accesa. In molti, infatti, propongono un’idea su come
debba essere strutturato il volgare letterario, cioè la lingua italiana
adatta alla letteratura.
Vediamo le diverse correnti di pensiero, a cominciare da quella
che ebbe maggior seguito, tanto da influenzare i secoli successivi.

Teoria delle Tre Corone – Pietro Bembo (1470-1547) –


Pietro Bembo è un poeta veneziano (ancora una volta, quindi, non
un toscano) che collaborando con lo stampatore Aldo Manuzio
(1449/52-1515) arriverà a rinnovare e normare definitivamente la
grafia della lingua italiana.
Grazie alla collaborazione con Bembo, Manuzio perfezionò
innanzitutto le sue opere a stampa: le prime opere stampate da
Manuzio, infatti, non portano ancora i segni della felice collabo-
razione con il poeta.
La collaborazione inizia nel 1501, con la stampa del Petrarca
volgare curato da Bembo; l’anno successivo, invece, i due daranno
alle stampe la Commedia di Dante, sempre a cura di Bembo
(ricordiamo che nel corso del xvi secolo Dante non aveva grande
seguito, non era particolarmente amato da studiosi e letterati).
Lavorando sul Canzoniere, Bembo si impegna a curare la lingua
e la veste grafica della stampa del Petrarca, Manuzio invece si
occuperà principalmente dell’introduzione al volume. Aldo Ma-
nuzio scrive infatti una premessa all’opera, all’interno della quale

37
Migliorini.

150
brevi cenni di storia della lingua italiana

vuole principalmente difendere il testo da coloro che ne avrebbero


lamentato il tratto caratteristico più evidente: l’allontanamento
da grafie latineggianti. Già nel titolo del libro, infatti, leggiamo:
Le cose volgari di messer Francesco Petrarca38: la norma
dell’epoca avrebbe richiesto l’uso del termine vulgari alla latina;
grazie a quel volgari già dal titolo vengono dichiarate le intenzioni
del testo.
Una delle caratteristiche principali del sodalizio tra Manuzio e
Bembo è infatti in primo luogo il taglio delle grafie latineggianti,
a favore di una prosa più vicina all’italiano moderno.
Pare anche che il punto e virgola, come nuovo segno di pun-
teggiatura, compaia per la prima volta proprio in questa edizione
delle poesie di Petrarca, curata da Bembo e stampata da Manuzio39.
Fino a quel momento, infatti, esistono attestazioni di punti e virgola
in testi a stampa ma questo segno di interpunzione veniva utilizzato
solo ed escludivamente per indicare le abbreviazioni latine e italiane
(cioè sostituire lettere o gruppi di lettere con il simobolo ; ): per
esempio que = q; dunque = dunq;40.
Compare anche in questo contesto per la prima volta l’apostro-
fo (ispirato alla grafia greca).
Come abbiamo detto, però, Bembo non è solo un accanito lettore
e curatore delle opere del Trecento, è anche e soprattutto un autore
egli stesso. Al 1505 risale una sua opera intitolata Gli Asolani. Si
tratta di una prosa trattatistica e filosofica a imitazione linguistica
di Boccaccio.
Anche in questo caso l’autore evita accuratamente grafie lati-
neggianti, in favore di una prosa più italiana. Vediamo un estratto
da Gli Asolani per comprenderne meglio la lingua.

38
Cfr. B. Migliorini, cit., p. 347: «l’originale su cui fu condotta l’edizione
ancora ci rimane, ed è il manoscritto Vat. 3197, curato da Pietro Bembo».
39
Ivi, pp. 349-350: «Nel Petrarca aldino appare, sembra, per la prima volta il
punto e virgola, per indicare una pausa intermedia tra la virgola e i due punti».
40
Migliorini.

151
teresa agovino

Leggendone qualche rigo si intuisce subito lo stile bembiano e


quanto esso si avvicini alla prosa trecentesca di Boccaccio, nono-
stante siano ormai trascorsi circa duecento anni dal modello:

Suole a’ faticosi navicanti esser caro, quando la notte, da oscuro e


tempestoso nembo assaliti e sospinti, né stella scorgono, né cosa
alcuna appar loro che regga la lor via, col segno della indiana pietra
ritrovare la tramontana, in guisa che, quale vento soffi e percuota
conoscendo, non sia lor tolto il potere e vela e governo là, dove essi
di giugnere procacciano o almeno dove più la loro salute veggono,
dirizzare; e piace a quelli che per contrada non usata caminano,
qualora essi, a parte venuti dove molte vie faccian capo, in qual più
tosto sia da mettersi non scorgendo, stanno in sul piè dubitosi e
so – spesi, incontrare chi loro la diritta insegni, sì che essi possano
all’albergo senza errore, o forse prima che la notte gli sopragiunga,
pervenire. Per la qual cosa avisando io, da quello che si vede avenire
tutto dì, pochissimi essere quegli uomini, a’ quali nel peregrinaggio
di questa nostra vita mortale, ora dalla turba delle passioni soffiato
e ora dalle tante e così al vero somiglianti apparenze d’openioni
fatto incerto, quasi per lo continuo e di calamita e di scorta non
faccia mestiero, ho sempre giudicato grazioso ufficio per coloro
adoperarsi, i quali, delle cose o ad essi avenute o da altri apparate o
per se medesimi ritrovate trattando, a gli altri uomini dimostrano
come si possa in qualche parte di questo periglio – so corso e di
questa strada, a smarrire così agevole, non errare.41

Come abbiamo ormai avuto modo di dedurre, Pietro Bembo


è un accanito sostenitore della lingua delle Tre Corone (Dante,
Petrarca, Boccaccio). Si tratta di una lingua risalente a due secoli
prima (come se noi oggi scrivessimo un trattato nella lingua di
Foscolo o di Leopardi, per intenderci).

41
Estratto da P. Bembo, Gli Asolani, Libro II, in Prose della volgar lingua, Gli
Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966.

152
brevi cenni di storia della lingua italiana

Insomma, nonostante la scelta antiquata della lingua è, però, solo


grazie a Bembo (e al dibattito intorno al suo lavoro che si accese
nel corso del Cinquecento) che ad oggi abbiamo una norma grafica
precisa. Con il secolo xvi infatti, pur avendo una lingua toscana
cristallizzata e focalizzata sulle Tre Corone, assistiamo per contro ad
una stabilizzazione normativa dell’italiano che dura ancora oggi.
L’opera di Bembo che suscitò più scalpore risale al 1525; si inti-
tola Prose della volgar lingua. Si tratta di una delle opere più
importanti per la storia della lingua italiana: è divisa in tre libri, il
terzo dei quali è dedicato alla grammatica dell’italiano.
L’opera è un trattato in forma dialogica (cioè un dialogo in cui
ognuno dei personaggi espone una teoria diversa su un argomento;
il modello è classico: si pensi a Cicerone, ad esempio).
I personaggi che dialogano nelle Prose sono quattro:

1 – Giuliano de’ Medici, che rappresenta il punto di vista


dell’Umanesimo Volgare (v. paragrafo precedente);
2 – Ercole Strozzi, che espone la tesi favorevole alla prosa
latina, schierandosi quindi contro la lingua volgare di uso elevato
in letteratura;
3 – Carlo Bembo, fratello di Pietro, che ne porta avanti le teorie
in favore del volgare delle Tre Corone, scevro da latinismi grafici, ecc.
4 – Federico Fregoso – Una sorta di moderatore che si dedica
ad esporre le tesi storiche sulla lingua.

La grande svolta nell’opera di Bembo consiste anche nel prendere


le distanze dalle teorie pseudo-bruniane. Come abbiamo già spiega-
to, Bruni sosteneva che esistesse un latino di livello elevato, scritto
da Seneca, Cicerone ecc. e un latino parlato di livello più basso.
Tale teoria venne però fraintesa e i seguaci di Bruni sostennero che
il latino parlato di basso livello fosse già l’italiano volgare parlato
nel due-trecento. Ovviamente, posta così la teoria non aveva alcun
senso. Bembo si stacca da questa visione e adotta invece la teoria di
Biondo Flavio, quella che dava maggior peso alle invasioni barba-
riche nel loro ruolo di corruttrici della purezza della lingua latina.

153
teresa agovino

Anche Bembo, come Alberti, vede il riscatto del volgare possibile


attraverso la letteratura, ma per lui il volgare deve essere quello di
due secoli prima, cioè la lingua delle Tre Corone (un po’ come se
noi oggi volessimo scrivere un romanzo utilizzando la lingua di
Manzoni!). Bembo si rende ben conto che l’adozione della lingua
toscana del Trecento è un rischio per gli scrittori toscani, poiché essi
possono essere naturalmente portati a inserire vocaboli e costrutti
cinquecenteschi nei loro scritti. Anche per questo motivo, egli non
accetta integralmente neppure la Commedia dantesca (che alterna
linguaggio elevato e quotidiano) ma preferisce la lingua aulica e
controllata di Petrarca per la poesia. Per quanto riguarda la prosa,
ovviamente, Bembo si rifà al Boccaccio raffinato della cornice, non
a quello popolare delle storie raccontate dai giovani protagonisti
del Decameron.
In sostanza, Bembo è convinto che nel corso del Trecento la
lingua volgare avesse raggiunto le sue massime vette di eleganza
in letteratura e che quindi fosse impossibile superare quel livello.
Per questo vuole depurare la lingua cinquecentesca da tutto ciò che
appare rozzo e poco elegante. Sebbene la teoria di Bembo risultasse
vincente e venisse seguita per secoli dopo la sua scomparsa, il Cin-
quecento è un secolo in cui le teorie sulla perfetta lingua letteraria
volgare fioriscono di continuo; vediamo le altre idee, che pur non
godendo dello stesso seguito di quella bembiana, non per questo
ci appaiono oggi del tutto errate o inadatte alla letteratura volgare.

Teoria Cortigiana – Baldassarre Castiglione (1478-1529)


– La teoria cortigiana propone come volgare letterario quello parlato
nelle corti italiane, in particolar modo in quella romana. Bisogna
tener presente innanzitutto che nel secolo xvi Roma è una città
cosmopolita e che quindi i fautori di questa teoria non intendo-
no la lingua di Roma come quella che conosciamo oggi, ma una
parlata ben diversa. Abbiamo già visto (Metafonesi napoletana o
antico – romanesca, v.4), che, prima del Quattro – Cinquecento la
lingua di Roma era ancora diversa. Vediamo cosa accade al tempo
di Castiglione:

154
brevi cenni di storia della lingua italiana
Il cambiamento, che ha portato a una decisa fiorentinizzazione del
romanesco, è avvenuto tra il Quattro e il Cinquecento in seguito
all’azione concomitante di vari fattori esterni: 1) la presenza, a
partire dal pontificato di Martino v (1417-31) e culminata nel
primo Cinquecento coi papi medicei Leone x e Clemente vii, di
una consistente colonia di mercanti, artigiani e uomini d’affari fio-
rentini […]; 2) la presenza di una componente fiorentina o fioren-
tineggiante alla corte papale; 3) la decimazione della popolazione
originaria romana conseguente al «sacco di Roma» del 1527 e il
successivo ripopolamento della città nei decenni successivi […].
Il romanesco ha dunque subito una fiorentinizzazione (seppure
indiretta) in epoca preunitaria.42

Ciò che va evidenziato è che questa spinta, di cui il maggior


esponente fu Castiglione con il suo Cortegiano (1528), rifiuta la
lingua trecentesca proposta da Bembo e preferisce invece una lingua
letteraria che sia adattata alle parlate contemporanee.
Il motivo per cui Bembo rifiutava tali proposte era principal-
mente la difficoltà di uniformare una lingua ancora non codificata:
sappiamo bene che la lingua scritta cristallizza la lingua parlata e
che il parlato procede molto più velocemente; quindi Bembo trovò
molto complesso aderire alle ideologie linguistiche basate sulle par-
late contemporanee, mentre i suoi oppositori cercavano per contro
di non ancorarsi a una lingua codificata sì, ma risalente a duecento
anni prima e quindi anacronistica.

Teoria Italiana – Gian Giorgio Trissino (1478-1550) – Nel


1529 Gian Giorgio Trissino dà alle stampe il De Vulgari Eloquentia
di Dante tradotto in volgare italiano. Nello stesso anno Trissino
pubblica anche un dialogo intitolato Il castellano in cui sostiene
che in realtà la lingua utilizzata da Petrarca nella poesia non fosse
fiorentino puro: la lingua di Petrarca che tanto viene decantata come

42
M. Palermo, cit., p. 259.

155
teresa agovino

modello di fiorentinità, dice Trissino, contiene in realtà una vasta


gamma di vocaboli appartenenti ad altre zone d’Italia. Quindi,
secondo Trissino, lo stesso Petrarca ha scritto in italiano.
Appoggiandosi quindi su questa teoria, unita all’idea di Dante
(certamente un po’ forzata da Trissino) che il toscano non fosse il
dialetto ideale come base per il volgare letterario, l’autore nega la to-
tale e assoluta fiorentinità della lingua italiana e propone una lingua
standard che sia, come nei due poeti, il giusto mix di elementi delle
varie parlate regionali (ovviamente parliamo anche in questo caso di un
livello alto della lingua). Da qui il nome della teoria, Italiana appunto.
Infine, Trissino propone anche una riforma dell’alfabeto (su cui
si discusse a lungo), atta ad inserire in italiano anche le lettere
(epsilon) e (omega) dall’alfabeto greco.

Niccolò Machiavelli (1469-1527) e la lettera a Fran-


cesco Vettori. Nel 1513, Niccolò Machiavelli si trova in esilio
all’Albergaccio dopo il sospetto di un suo coinvolgimento in una
congiura antimedicea. La lettera che egli scrive a Francesco Vettori
il 10 dicembre è di taglio ironico e descrive la sua noiosa giornata
in tempo d’esilio, tra affari di poco conto di giorno e lettura dei
classici la sera. Nella lettera troviamo anche notizia dell’avvenuta
composizione del Principe.

La lettera, divisa in tre parti, è così strutturata:


Parte i – Descrizione ironica della sua giornata tipo all’Alber-
gaccio; assiste alle liti tra boscaioli e litiga con commercianti che
vogliono truffarlo sul prezzo;
Parte ii – Dedicata alle occupazioni della sera. Machiavelli
legge gli autori del passato, per lo più storiografi latini; annuncia la
composizione del Principe (e qui ovviamente c’è uno stacco evidente
nello stile e il livello linguistico si fa più elevato);
Parte iii – In quest’ultima parte Machiavelli difende la sua
fedeltà nei confronti dei Medici (è ovviamente una sorta di capta-
tio benevolentiae verso il potere dominante), sostenendo che egli è
povero e non si è arricchito alle spalle dei potenti.

156
brevi cenni di storia della lingua italiana

Prima di analizzare la lettera, va assolutamente ricordato che


ancora fino ai primi del Novecento la corrispondenza era scritta
con l’intenzione di venire diffusa e pubblicata: le lettere pubbliche
quindi non erano un qualcosa di privato e confidenziale. A questo
punto non ci stupisce che Machiavelli scriva questa lettera nello
stile per lui più adatto alla prosa italiana, ovvero il toscano a lui
contemporaneo. Ciò che più ci importa in particolare di questa
lettera non è cosa egli scriva, ma come lo scrive. La teoria linguistica
di Machiavelli, infatti, poggia sulla scelta di una lingua letteraria
vicina al toscano cinquecentesco elevato. Come possiamo notare
sotto, in un estratto, egli è anche molto aperto ai latinismi sia gra-
fico-lessicali che sintattici (haver, dubitavo non, ecc…). La prosa, e
la grafia, risultano quindi estremamente diverse da quelle di Bembo
(più o meno suo contemporaneo), che abbiamo letto sopra:

Magnifico oratori Florentino Francisco Vectori apud Summum Ponti-


ficem et benefactori suo. Romae
(A Francesco Vettori, Magnifico ambasciatore fiorentino presso il Sommo
Pontefice, proprio benefattore. In Roma)

Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine. Dico


questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia
vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero dubbio
donde potessi nascere la cagione. E di tutte quelle mi venivono nella
mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo
non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che
io non fussi buon massaio delle vostre lettere; e io sapevo che, da
Filippo e Pagolo in fuora, altri per mio conto non le haveva viste.
Hònne rihaùto per l’ultima vostra de’ 23 del passato, dove io resto
contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi eser-
citate cotesto ufizio publico; e io vi conforto a seguire così, perché chi
lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli
non li è saputo grado. E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si
vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar tempo
che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi

157
teresa agovino
durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa e dire:
eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in
questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate che
sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla43.

Ricapitolando, nel corso del Cinquecento ci troviamo di fronte


a quattro diverse risposte ad una sola domanda: Come dobbiamo
scrivere l’italiano letterario?
Nella tabella sottostante troviamo un riassunto dei punti prin-
cipali delle quattro diverse teorie. Ricordiamo che le teoria delle
Tre Corone di Pietro Bembo, sebbene risulti ad oggi per noi la più
difficile da assimilare rispetto alle altre tre, risultò vincente e in-
fluenzò gli studiosi nei secoli successivi.

Teoria delle 3 Corone.


Lingua del ‘300,
BEMBO Le cose volgari di messer F. Petrarca;
no latinismi
Asolani; Prose della volgar lingua.

Lingua
CASTIGLIONE Teoria Cortigiana. Il cortegiano.
contemporanea
Dante e Petrarca Teoria Italiana.
TRISSINO non scrivono Traduzione del De vulgari
fiorentino eloquentia; Il castellano.
Fiorentino
Fiorentino contemporaneo.
MACHIAVELLI contemporaneo,
Il principe; Lettera a Vettori.
sì latinismi

4.4 Il Seicento e il Settecento

Racchiudiamo, per brevità, i secoli xvii e xviii in un unico


paragrafo.

43
Estratto da N. Machiavelli, Lettera a F. Vettori del 10-XII-1513.

158
brevi cenni di storia della lingua italiana

Seicento – Ricordiamo innanzitutto che il Seicento è il secolo


delle Accademie. Ciò che ci preme soprattutto evidenziare è la
centralità in ambito linguistico raggiunta dall’Accademia della
Crusca e dal suo Vocabolario.
La Crusca fu un’associazione privata, che cercava di restituire il
primato linguistico alla città di Firenze. Sin dal 1591 gli accademici
discutevano su come realizzare questa impresa e solo nel 1612 il Vo-
cabolario degli accademici della crusca 44 fu finalmente dato
alle stampe. Si trattò di un lavoro monumentale e lungo parecchi
anni, che mirava a dividere la “farina” dal suo scarto, la “crusca” ap-
punto, cioè selezionare le parole che avessero diritto di entrare nella
lingua italiana e abolire quelle che ne erano escluse. La selezione fu
durissima (la lingua di Torquato Tasso, ad esempio, ne fu esclusa) e
anche le parole ammesse del fiorentino vivo e contemporaneo furono
comunque filtrate attraverso gli autori trecenteschi. Gli accademici,
infatti, dichiarano di attenersi al canone impostato da Bembo.
Dal punto di vista grafico ci si staccò dal latino, seguendo
quell’impostazione già avviata da Bembo nelle sue opere a stampa.
Va detto anche che vennero registrate molte varianti di parole,
come ad esempio notomia – anatomia; avolterio – adulterio; cecero –
cigno; il che risultò poco agevole per chi avesse voluto consultare il
vocabolario in caso di dubbi45.
Come si può immaginare, il vocabolario incontrò parecchie
opposizioni tra cui quelle di Beni, Tassoni e Bartoli che ne criti-
carono ampiamente le scelte e l’impostazione. Nonostante ciò, se

44
B. Migliorini, cit., p. 408: «Il titolo, con cui l’Accademia pensava di
riaffermare la sua posizione nella questione della lingua, fu a lungo discusso: nel
1608 si pensò di intitolare l’opera Vocabolario della lingua toscana degli Accademici
della Crusca; nel 1610 si decise d’aggiungere un inciso importante: Vocabolario della
lingua toscana cavato dagli scrittori e dall’uso della città di Firenze dagli Accademici
della Crusca; nel 1611, alla vigilia della pubblicazione, si preferì una dicitura meno
compromettente Vocabolario degli Accademici della Crusca; e con questo titolo il
volume uscì il 20 gennaio 1612 presso il tipografo G. Alberti a Venezia, dove
Bastiano de’ Rossi era andato a vigilare la stampa».
45
Migliorini.

159
teresa agovino

ne registrarono diverse edizioni successive nel corso dello stesso


xvii secolo: la terza edizione (in tre volumi) risale al 1691; va detto
anche che nessuna lingua, a quel momento, in Europa e fuori,
poteva godere del beneficio di un vocabolario all’altezza di quello
italiano della Crusca46.

Settecento – Il secolo xviii va ricordato principalmente per


la grande ondata di rivoluzioni di matrice borghese che interessa
l’Europa intera. A livello industriale, l’utilizzo di macchinari incre-
menta notevolmente registrando il passaggio dalla fase artigianale
a quella meccanica nella produzione europea e non solo47.
Sul piano linguistico «l’italiano scritto conquista progressi-
vamente nuovi spazi. Si consolida nell’uso scientifico e in quel-
lo giuridico-amministrativo» 48; «l’italiano continua a guadagnar
terreno sul latino, ma la lingua antica ha ancora in molti campi
posizioni fortissime.»49 Molti campi del sapere, come le scienze e
la storiografia sono, difatti, ancora scritti principalmente in latino.
L’italiano di questo secolo, che pure prende piede in ambito scien-
tifico, ancora predomina nella letteratura e, soprattutto, sulla carta
stampata di tipo divulgativo: i giornali. Con la Rivoluzione francese
del 1789, e gli echi che questa trascinò anche in ambito italiano50,

46
Migliorini.
47
Migliorini.
48
M. Palermo, cit., p. 193.
49
Ivi, p. 469.
50
Cfr. B. Migliorini, cit., pp. 449 – 450: «Nei primi decenni del secolo
l’Italia è coinvolta in numerose vicende belliche […]; importante è l’annessione
della Sardegna (1718), perché la vita amministrativa e culturale dell’isola, che
prima si svolgeva in spagnolo, si viene orientando, seppur molto lentamente,
verso la lingua italiana. Si estinguono in questo secolo le dinastie dei Gonzaga,
dei Farnesi, dei Medici, dei Cybo, degli Estensi […]. Il ducato di Milano e
quello di Mantova passano in mano degli Austriaci […]. A Parma (1731) e a
Napoli (1734) si installano due dinastie borboniche […]. Si risente ormai sui
mari italiani il peso dell’Inghilterra, diventata potenza mediterranea. La guerra
d’indipendenza americana (1776-1783) suscita echi notevoli; e ben più forti la

160
brevi cenni di storia della lingua italiana

crebbe a dismisura l’importanza dei Giornali come strumento di


divulgazione non solo di tipo cronachistico ma anche strettamen-
te linguistico. Con la diffusione della carta stampata, dicevamo,
circolano non solo le notizie di cronaca, di moda e di politica ma
anche e soprattutto una lingua uniforme e abbastanza distaccata da
quella letteraria modellata sulle Tre Corone. Tra i giornali di stampo
illuminista ricordiamo Il Caffé (pubblicato tra 1764 e il 1766) dei
fratelli Verri o anche Il monitore Napoletano, giornale della Rivolu-
zione napoletana diretto da Eleonora Fonseca Pimentel, stampato
nel corso del 1799.
Gruppi come quello legato al Caffè, e in generale legati al mondo
illuminista, fondano la centralità del loro pensiero sulla scienza e la
Ragione, cioè una cultura « fondata sulle “cose” e non sulle “parole”,
che diffonda i “lumi” e faccia sparire gli abusi e i pregiudizi».51 Il
giornale, inoltre, è un mezzo creato e gestito dalla classe borghese
per la classe borghese e questo ne favorisce il ruolo di veicolo di una
lingua “media” e pressoché ormai comune. Nonostante ciò, troviamo
qualche latinismo ancora resistente anche sulla carta stampata 52.
Alla divulgazione della cultura provvedono anche numerosi trattati
in forma saggistica e dialogica.
L’incalzante cosmopolitismo (molti stranieri viaggiano in Italia
e molti italiani si spostano all’estero) affossa il primato culturale
dell’Italia in Europa, a vantaggio soprattutto della Francia e dell’In-
ghilterra, ma ovviamente si tratta di un fenomeno avvertito solo
dalle classi colte53.
Altra caratteristica riguardante questo secolo è l’evoluzione scola-
stica statale, soprattutto in Piemonte e nel Lombardo – Veneto, ma
anche a Napoli, Modena, Parma. Si cercò, insomma, di diffondere
l’istruzione primaria ed elementare nei singoli stati (impartita però,

Rivoluzione francese. Ma lo sconquasso comincia con la campagna d’Italia di


Bonaparte (1796) e tutte le sue conseguenze».
51
B. Migliorini, cit., p. 451.
52
Migliorini.
53
Migliorini.

161
teresa agovino

ancora, quasi totalmente nei dialetti locali). Stiamo parlando di un


livello di istruzione popolare particolarmente basso (leggere, scrive-
re, fare di conto). Nonostante ciò, fu significativa l’attenzione della
classe borghese (e politica) all’istruzione dei ceti popolari. Nella
seconda metà del secolo, l’istruzione superiore si apre finalmente
alla lingua italiana, guadagnando terreno sul latino fino ad allora
in uso. «Per la prima volta dunque la scuola si fa carico non solo di
insegnare in italiano […] ma di insegnare l’italiano»54.
La lingua parlata, però, è ancora fortemente ancorata al dialetto
e molto lontana dal toscano, che purtroppo non riesce a prevalere
nella comunicazione quotidiana.55 Per quanto concerne la lingua
scritta, invece, vediamo protagonista l’Arcadia, fondata nel 1690,
«che con le sue “colonie” adempie per prima al compito di accade-
mia nazionale, propagando nelle varie città il suo insegnamento
stilistico e il suo garbato edonismo».56 La Crusca è ancora un punto
di riferimento centrale per l’attività lessicografica anche se le con-
testazioni, come sappiamo, nei confronti delle scelte di vocaboli
continuano imperterrite.

4.5 L’Ottocento: Alessandro Manzoni e Graziadio Isaia Ascoli

Con il xix secolo la Questione della lingua si riapre in Italia


soprattutto a causa dell’Unificazione Nazionale (1861) e del bisogno
di trovare non più (o non solo) una lingua da scrivere a beneficio dei
letterati, ma una lingua unica che potesse essere compresa e parlata
dall’intera nazione. «Col Risorgimento il binomio lingua-nazione
si carica di precise valenze identitarie e diventa il fondamento della
rivendicazione politica dei patrioti»57. Fioriscono in questo periodo
anche i dizionari. Per citarne soltanto due esempi moto noti: al 1861

54
M. Palermo, cit., p. 194.
55
Migliorini.
56
B. Migliorini, cit., p. 451.
57
M. Palermo, cit., p. 195.

162
brevi cenni di storia della lingua italiana

risale il Dizionario della lingua italiana di Emilio Broglio;


lo stesso che, nel 1897 insieme a Giovan Battista Giorgini (ge-
nero di Manzoni) stilerà un nuovo vocabolario intitolato Nuovo
vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze.
Facciamo un passo indietro.

Alessandro Manzoni (1785-1873) – «Grazie al contributo


fondamentale di Alessandro Manzoni la questione della lingua
si pone su basi completamente nuove: non più ricerca di modelli
letterari, ma anche di uno strumento comune adatto a scrivere e a
parlare di qualsiasi argomento in qualsiasi situazione»58.
Alessandro Manzoni già vent’anni prima dell’unificazione nazio-
nale (1840) aveva terminato la terza ed ultima stesura dei Promessi
Sposi, per comporre i quali si era recato personalmente a Firenze
(1827). In casa, infatti, Alessandro Manzoni parlava non italiano
(toscano) ma milanese e francese. Volendo conoscere meglio il fio-
rentino parlato a lui contemporaneo, Manzoni decise di andare ad
ascoltarlo (e a impararlo) in prima persona e confrontarlo con la
lingua francese e il dialetto milanese che meglio conosceva. Già ben
prima dell’unificazione nazionale, insomma, come ci spiega anche
Ungaretti, Manzoni si interessò al problema della lingua italiana:

Il Manzoni suscitò una quistione della lingua […] che […] ebbe
ampie ripercussioni, e tali che tutt’ora se ne dibatte. Quando fu?
Sino dalle sue prime opere? Ritengo che ci arrivasse, o piuttosto
che giungesse ad averne visione chiara in quel lungo lavorìo che
doveva condurlo alla pubblicazione dei Promessi Sposi nel 1827
[…] sino all’edizione del 1840 […]. Ma il problema della lingua
doveva averlo toccato […] anche prima di queste date come si può
vedere in diverse postille alle sue letture, e nel suo epistolario.59

58
Ivi, pp.195-196.
59
Giuseppe Ungaretti, Scrittura, linguaggio e lingua in Manzoni, in Lezioni
Brasiliane, in Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni a cura di P. Montefoschi, Mondadori,
Milano, 2000, p. 584.

163
teresa agovino

Nel corso della sua vita, Manzoni si interessò a più riprese alla
lingua italiana, questi i suoi scritti linguistici:

1835-36: Sentir Messa


1846: Lettera a Carena – Sulla lingua italiana
1856: Saggio sul vocabolario italiano secondo l’uso di
Firenze
1868: Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla
1868: Lettera a Bonghi – Intorno al libro “De vulgari
eloquio” di Dante Alighieri
1868: Intorno al vocabolario
1871: Lettera al Marchese Alfonso della Valle di Ca-
sanova (sulla revisione linguistica dei Promessi sposi).

Di seguito possiamo leggere un estratto, molto ridotto, relativo


alla lettera del 1868 Intorno al “De vulgari eloquio”:

Carissimo Bonghi,
[…] Al libro De Vulgari Eloquio è toccata una sorte, non nova nel
suo genere, ma sempre curiosa e notabile; quella, cioè, d’esser citato
da molti, e non letto quasi da nessuno, quantunque libro di ben
piccola mole, e quantunque importante, non solo per l’altissima
fama del suo autore, ma perchè fu ed è citato come quello che
sciolga un’imbarazzata e imbarazzante questione, stabilendo e
dimostrando quale sia la lingua italiana.
[…] Dante era tanto lontano dal pensare a una lingua italiana nel
comporre il libro in questione, che alla cosa proposta in quello, non
dà mai il nome di lingua. La chiama « Il Volgare che in ogni città
dà sentore di sè, e non s’annida in nessuna » Vulgare quod in qualibet
redolet civitate, nec cubat in ulla. E poco dopo « l’illustre, cardinale,
aulico, cortigiano volgare in Italia, che è d’ogni città italiana, e non
par che sia di nessuna. » Illustre, cardinale, aulicum et curiale Vulgare in
Latio, quod omnis latae civitatis est, et nullius esse videtur. Lingua, mai.
Ma qui, non che accettare questa come una prova, me la buttano
in dietro come una meschina questione di parole, e mi dicono che,

164
brevi cenni di storia della lingua italiana
per chi bada alle cose, è oramai passato in giudicato che Dante,
dicendo Volgare Illustre, non ha inteso, nè potuto intender altro
che lingua comune all’Italia.
Allora vedete a che cimento m’avrà messo la poca vostra prudenza,
allora sarò costretto a dire che, se Dante non diede al Volgare Illu-
stre il nome di lingua, fu perchè, con le qualità che gli attribuisce,
e con le condizioni che gl’impone, nessun uomo d’un bon senso
ordinario, non che un uomo come lui, avrebbe voluto applicargli
un tal nome.
Apriti cielo! pare una bestemmia contro Dante e contro l’Italia.
Ma parola detta e sasso tirato non fu più suo. Onde, non volendo
affrontare un lungo e aspro conflitto, non trovo altro ripiego se non
di pregarli che mi permettano di far loro una sola e breve domanda.
E con questa spererei di potere far dire la cosa da loro medesimi.
[…] Aprano dunque il libro De Vulgari Eloquio al capitolo secon-
do del libro secondo, e troveranno, verso la metà, che « essendo
questo Volgare Illustre l’ottimo tra i volgari; ne segue che le sole
cose ottime siano degne d’esser trattate da esso. » Unde cum hoc
quod dicimus Illustre sit optimum aliorum vulgarium, consequens est
ut sola optima digna sint ipso tractari.
[…] Se il síllogismo non è diventato una bugia; se quella che han-
no accettata, e per forza, è una maggiore; se le parole citate ora
formano la sua minore; anche gli oppositori hanno detto che, per
Volgare Illustre, Dante non ha intesa una lingua.
[…] Ma se quel libro è l’ultimo per noi, non era tale per Dante, il
quale si proponeva in vece di aggiungerne due altri a compimento
dell’opera. Però, riguardo alla nostra questione, è come se ci fos-
sero anche questi. E n’abbiamo il miglior mallevadore che si possa
desiderare: Dante medesimo. « Omettiamo, » scrive egli nel quarto
capitolo del libro secondo, « di parlare ora del modo delle ballate
e de’ sonetti, perchè intendiamo dichiararlo nel quarto libro di
quest’opera, dove tratteremo del Volgare Mediocre. » Più sotto poi,
divide in tre i generi delle cose che possono esser cantate, canenda
videntur; e sono Tragedia, Commedia, Elegia. Per la Tragedia,
dice doversi prendere il Volgare Illustre, quello della canzone; per

165
teresa agovino
la Commedia, ora il mediocre, ora l’umile; e della distinzione di
questi si riserva di parlare nel quarto libro; per l’Elegia l’umile.
[…] Se poi, tra gli oppositori, ce ne fossero alcuni (che non vorrei
credere) ancora restii ad accettare le conseguenze del loro concedo
maiorem, rivolgo a questi una seconda e ultima domanda. Credono
che, tra le condizioni d’una lingua, ci sia quella, che i suoi voca-
boli abbiano a esser composti d’un numero di sillabe, piuttosto
che d’un altro? E, sentito rispondermi un no ancor più risoluto e
più stupefatto del primo, cavo fuori, da quei capitoli del secondo
libro, che avevo messi da parte, il settimo, dove Dante specifica i
vocaboli convenienti al Volgare illustre. […]
Non vi par egli che ce ne sia più che abbastanza per far confessare
anche ai più recalcitranti, che nel libro De Vulgari Eloquio non
si tratta d’una lingua, nè italiana, nè altra qualunque? Vi dirò,
ma questo, proprio in confidenza, che, maravigliato io medesimo
d’un così pronto e intero successo, ebbi, un momento, il prurito di
finire con un grido di trionfo. Ma riflettendo che tutto il talento
e lo studio che c’è voluto, consiste nell’aver letto un libriccino di
sessantuna pagina in piccol sesto, chè tante ne occupa il Trattato
nell’edizione del Corbinelli, ho tirata indietro la mia spacconata.
[…].
Alessandro Manzoni.
Milano 1868.60

L’impegno di Manzoni nei confronti della lingua italiana si


intensificò soprattutto dopo l’unificazione nazionale quando il Mi-
nistro Emilio Broglio lo nominò Presidente della Commissione
Parlamentare sulla Lingua. Come possiamo notare sopra, infatti,
la sua produzione di saggi dedicati alla lingua è elevatissima pro-
prio intorno al 1868. Manzoni, innanzitutto, si disse apertamente

60
Alessandro Manzoni, Lettera a Ruggero Bonghi intorno al libro De Vulgari
Eloquio di Dante Alighieri, 1868.

166
brevi cenni di storia della lingua italiana

contrario a quella pesante spinta purista che contraddistinse l’Ot-


tocento romantico.
Come abbiamo già detto, infatti, molti patrioti si rifugiarono
nel rifiuto di francesismi o germanismi a causa delle invasioni.
Quando però i moti rivoluzionari giunsero a termine e la nazione
era ormai unificata, non era più necessario chiudersi nei confronti
delle parole straniere in uso nella lingua italiana.
Manzoni, inoltre, è un promotore del toscano vivo, contempora-
neo e propone di diffonderlo sul suolo italiano attraverso la lettura
del suo romanzo, la pubblicazione (e diffusione) di un dizionario
del fiorentino parlato, la toscanizzazione dei libri per bambini e dei
bandi pubblici e l’invio di maestri toscani nelle scuole del neonato
Regno.
Come spesso accade, però, purtroppo la posizione di Manzo-
ni venne ripresa dai suoi seguaci, mal compresa, ed estremizzata.
Laddove per lo scrittore milanese I promessi sposi e i maestri toscani
avrebbero dovuto essere un aiuto al naturale sviluppo della lingua
nazionale, i suoi seguaci finirono per interpretarne il pensiero con
l’idea che bisognava forzare gli studenti a imparare la lingua to-
scana attraverso quei mezzi. Ma l’idea di imporre una lingua ad
una comunità di parlanti è di per sé fallace: non si può obbligare
un popolo a parlare in un modo o nell’altro; e difatti Manzoni non
lo aveva proposto.

Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) – Contro le posizioni


di Manzoni, o meglio, dei suoi seguaci che volevano imporre un
uso forzato della lingua italiana, si pose Graziadio Isaia Ascoli.
Noto linguista appartenente alla generazione successiva a quella di
Manzoni, anch’egli fu membro della Commissione sulla lingua e
si preoccupò a più riprese della Questione che scosse il secolo xix
sulla lingua da adottare nel neonato Regno d’Italia.
A differenza di Manzoni, Ascoli era un glottologo di forma-
zione e aveva studiato a lungo le lingue ario – semitiche. Secondo
Ascoli, dunque, non era necessario forzare la diffusione della lingua
italiana poiché la globalizzazione avrebbe fatto in modo che la

167
teresa agovino

lingua si diffondesse da sola (pensiamo semplicemente al fatto che


una legge promulgata in lingua toscana a Torino, Firenze o Roma
cioè nelle varie capitali del Regno avrebbe avuto valore su tutto il
territorio nazionale; avrebbe quindi dovuto risultare comprensibile
dal Piemonte alla Sicilia). «Secondo il glottologo goriziano non si
poteva risolvere il problema calando soluzioni dall’alto, scrivendo
vocabolari o mandando i maestri toscani a insegnare nelle scuole
del Regno, ma diffondendo la cultura presso sempre più ampie
fasce di popolazione»61.
Ascoli, inoltre, a differenza di Manzoni, non era propenso all’uso
del fiorentino parlato dai ceti medio – alti; propendeva invece per
un fiorentino base, arricchito dalla lingua letteraria e culturale usata
dai dotti di ogni regione.
Ascoli (come Carducci, negli stessi anni) non entrò, quindi,
direttamente in diatriba con Manzoni, che pure ammirava mol-
tissimo, ma proprio contro quei suoi imitatori che stavano creando
una nuova forma di lingua modellata sul toscano popolare. Niente
di più lontano da quanto Manzoni avesse auspicato!
Ragionando su tempi lunghi, vedremo che Ascoli non sbagliava
sebbene mai avrebbe potuto prevedere, con un secolo di anticipo,
l’invenzione e la diffusione della televisione che, come vedremo
oltre, fu il vero motore (insieme anche alla Prima Guerra Mondiale,
ma con ricadute molto più ampie sulla popolazione nazionale) della
divulgazione dell’italiano in tutti gli angoli di quel Regno che ormai
era da tempo diventato una Repubblica.

4.6 Il Novecento: dal ventennio fascista a Pier Paolo Pasolini

Il Novecento, non solo dal punto di vista linguistico ma anche


storico, sociale e ideologico, va diviso in due macroaree temporali
cioè il ventennio fascista e la II Guerra Mondiale da un lato, e il

61
M. Palermo, cit., p. 199.

168
brevi cenni di storia della lingua italiana

periodo post-bellico dall’altro. Vedremo cosa succede alla lingua


italiana durante i vent’anni di regime fascista; in seguito analizzeremo
ciò che accadde negli anni Sessanta, dopo la fine della guerra, con il
boom economico e l’avvento della televisione in tutte le case degli
italiani. Il primo programma televisivo viene trasmesso nel 1954.
«Parafrasando una provocatoria battuta di Umberto Eco possiamo
dire che Mike Bongiorno coi suoi fortunati quiz televisivi ha contri-
buito alla diffusione dell’italiano più degli eroi del Risorgimento»62.
Delle lezioni RAI del maestro Manzi, dedicate all’alfabetizzazione
degli adulti, si è già accennato in vi. 163 Pensiamo, inoltre, non solo
ai programmi ma anche alla pubblicità; grazie agli spot pubblicitari,
insieme alla lingua italiana si diffusero a livello nazionale anche molti
regionalismi (panettone, ad esempio64), entrando nell’uso quotidiano.

Politica linguistica dell’Italia Fascista – Durante il ven-


tennio fascista la questione della lingua si rivelò una carta importan-
tissima da giocare in ambito di promozione razziale. Innanzitutto,
venne avviata una polemica contro l’utilizzo del dialetto e in favore
di una parlata più uniforme a livello nazionale: venne cioè incenti-
vato l’utilizzo dell’italiano standard. In secondo luogo venne avviata
una battaglia contro i forestierismi, che costrinse addirittura molte
persone a italianizzare il proprio cognome.
Le iniziative volte alla lotta contro le parole straniere nella lingua
italiana si susseguirono a più riprese tra il 1930 e il 1940, vediamone
alcune:

1930 – Nei film vengono rimosse le scene in lingua straniera;


viene prodotto il primo film sonoro interamente italiano, intitolato
La canzone dell’amore e diretto da Gennaro Righelli

62
M. Palermo, cit., p. 203.
63
Un interessante articolo sul tema, scritto da Andrea Mulas e intitolato
“Non è mai troppo tardi”. Alberto Manzi e la didattica di massa a distanza, si può
trovare sul blog Pagine di Storia Pubblica del 21 marzo 2020.
64
Palermo.

169
teresa agovino

1933 – Paolo Monelli scrive Barbaro dominio. Processo a 500


parole esotiche. Il libro, edito da Hoepli, raccoglie gli articoli della
rubrica Una parola al giorno, apparsi su un giornale torinese chiamato
La gazzetta del popolo. Con piglio ironico, Monelli stigmatizza le
parole straniere quotidianamente utilizzate nell’italiano standard.
curiosità – Una delle parole condannate da Monelli fu bidet,
parola derivata dal francese, che indica letteralmente un picco-
lo pony (radice celtica bid = piccolo; bidein = creatura piccola); lo
strumento igienico venne dunque così battezzato per la posizione
di utilizzo, che ricordava appunto quella delle cavalcature dei pony.

1940 – Con una legge si vieta l’utilizzo di parole straniere nelle


intestazioni delle ditte, nelle pubblicità, ecc. (Legge 23 dicembre
1940, n. 2042)

1940 – L’Accademia d’Italia, istituzione fascista nata nel 1929,


viene incaricata della sorveglianza sulle parole straniere e sul loro
utilizzo. L’Accademia deve anche cercare alternative in italiano a
parole di uso quotidiano. Come abbiamo già avuto modo di capire,
però, non è possibile imporre ai parlanti l’uso di determinate parole
o addirittura di una lingua che essi non sentono come propria. Così,
nonostante una lista di parole proscritte e relative sostituzioni (film
> pellicola), molti termini ormai radicati nell’italiano (film, sport,
tram, camion, tennis…) rimasero in piedi nonostante i tentativi di
debellarli. In alcuni casi, però, le parole che l’Accademia individuò
come sostitutive presero piede e andarono ad affiancare quelle stra-
niere con sfumature di significato diverse. Per questo motivo, oggi
abbiamo ancora binomi come: chalet/villetta; rimessa/garage; ecc…

esiti negativi e positivi – Come abbiamo accennato, la que-


stione linguistica venne strettamente collegata a quella razziale, il
che incluse purtroppo anche la repressione di minoranze etniche e
linguistiche. In Valle d’Aosta l’imposizione della sola lingua italia-
na scatenò forti dissensi, soprattutto dopo la Liberazione; in Alto
Adige la situazione dei tedescofoni si complicò dopo l’Armistizio

170
brevi cenni di storia della lingua italiana

dell’8 Settembre 1943, scatenando anche rivolte nell’immediato


dopoguerra. Sulla delicata questione delle minoranze linguistiche
in Italia torneremo più avanti.
La politica linguistica autarchica dell’Italia fascista durante il
Ventennio ebbe anche dei riscontri positivi. Molti intellettuali si
impegnarono in studi dedicati esclusivamente alla lingua italiana:
nel 1939 Bruno Migliorini e Giacomo Devoto fondano, ad
esempio, una rivista molto importante chiamata Lingua Nostra.
Lo stesso Migliorini, uno dei più grandi linguisti del secolo
xx, si dichiarò attento alla questione dei forestierismi: lavorando
esclusivamente sulla lingua e distaccandosi dalle teorie sulla razza,
egli si dichiarò contrario non ai forestierismi in toto, ma soltanto a
quelli inutili che avevano già un corrispettivo radicato nella lingua
italiana (regista > régisseur; autista > chauffeur) . Questo movimento
(strettamente linguistico, autonomo dal fascismo e dalla discri-
minazione razziale, attento soltanto alla lingua italiana e alla sua
evoluzione) prese il nome di Neopurismo.

voi e lei – Un’ultima annotazione sul regime linguistico fascista


va fatta relativamente all’utilizzo del Voi con il quale si cercò di
soppiantare il Lei.
Facciamo un passo indietro: nel 1938 venne avviata una campa-
gna per abolire il Lei nelle conversazioni formali, in favore dell’u-
tilizzo del Tu, o del Voi, sentiti come più vicini agli usi linguistici
degli antichi romani, e quindi più “italiani”. Anche in questo caso
la campagna fu fallimentare poiché il Lei si era imposto in Italia
già nel Cinquecento quando le cancellerie delle Corti, nelle lettere
formali, si rivolgevano a Vossignoria Illustrissima quindi: Lei.
Al Sud l’utilizzo del Voi, già molto radicato nel quotidiano, era
sentito come un qualcosa di troppo dialettale. Benedetto Croce, in
aperta opposizione al regime, iniziò volontariamente ad utilizzare
il Lei riscrivendo addirittura le lettere daccapo anche quando, da
napoletano, le avviava automaticamente con il Voi per abitudine.

171
teresa agovino

Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Come abbiamo avuto modo


di intuire, con la fine della II Guerra Mondiale e l’avvento della
televisione gli scrittori diventano più liberi di sperimentare la lingua
letteraria poiché non hanno più il compito di dover fornire le linee
guida della lingua nazionale65.
Nel 1964 lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini propone in
un clamoroso intervento pubblico (poi pubblicato su Rinascita in
quello stesso anno) di riaprire la questione della lingua. Come
spesso accade quando si tratta di un personaggio controverso come
Pasolini, gli argomenti che trattò non erano, di fondo, sbagliati ma
il tono con cui si rivolse alla platea scatenò fischi e dissensi per la
superba durezza polemica caratteristica dello scrittore.
Dal Trecento fino all’Ottocento, come abbiamo già visto, la
Questione della lingua era stata aperta con lo scopo di dare una
norma alla lingua italiana scritta o parlata che fosse. Pasolini ha uno
scopo diverso: vuole avviare un’analisi sociolinguistica della lingua
italiana della sua epoca. L’intellettuale si chiede ora come e perché
sia mutata la lingua italiana nel secondo dopoguerra e nota che non
esiste più quell’italiano che si era ormai stabilizzato sull’asse Roma
– Firenze. Il nuovo italiano, dopo il boom economico postbellico,
sostiene Pasolini, si fonda sull’asse Milano – Torino, i più grandi
e attrezzati poli industriali dell’epoca. Secondo Pasolini, quindi,
la lingua nazionale sarebbe influenzata dalla potenza economica
industriale; egli parla della nascita di una moderna cultura indu-
striale che vede la borghesia egemone imporre una lingua nuova e
omogenea alle classi subalterne (il sottoproletariato urbano).
Secondo lo scrittore, questa nuova lingua italiana si fonda su tre
specifiche caratteristiche:

1. la semplificazione sintattica – cioè l’utilizzo di una


sintassi semplificata e ridotta al minimo indispensabile (pensiamo

65
Palermo.

172
brevi cenni di storia della lingua italiana

all’uso del modo indicativo che soppianta il congiuntivo, ad esem-


pio);
2. una netta e visibile diminuzione dei latinismi;
3. la prevalenza dell’influenza di termini della tec-
nologia rispetto a quelli della letteratura (al contrario di quanto
era accaduto fino al xix secolo).

Pasolini tiene il suo discorso in un linguaggio molto tecnico,


complesso e anche difficile da capire per gli ascoltatori. In un pas-
saggio successivo, egli analizza anche lo stile degli scrittori a lui
contemporanei, suddividendolo in quattro categorie:

medio: è quello utilizzato per la letteratura d’evasione e le opere


di intrattenimento; si tratta di uno stile anonimo e a-letterario
adatto alle grandi masse di lettori medi;

basso: è quello utilizzato per la prosa dialettale, da scrittori che


Pasolini identifica come eredi della tradizione ottocentesca verista;

alto: l’unico stile utilizzato dai veri scrittori;

altissimo: si tratta di una lingua speciale utilizzata solo per la


poesia, ad esempio dai poeti ermetici;

Autori come Bassani, Moravia, Calvino vengono collocati da


Pasolini in uno stile a metà tra medio e alto. Gli unici, invece, capaci
a suo dire di utilizzare tutti gli stili senza problemi sono in primis
egli stesso e poi Carlo Emilio Gadda.
Facile comprendere come un discorso simile, tenuto in tal modo,
venisse accolto da fischi e dissensi. La posizione dello scrittore,
anche se non totalmente errata, era come suo solito, estremamen-
te radicale. Nonostante ciò, però, l’intervento scatenò il dibattito
critico a lungo.

173
teresa agovino

n.b. su Youtube si possono trovare alcuni dei video in cui il regista


e scrittore discute della nuova questione della lingua italiana.

schema riassuntivo dei temi trattati in questo capitolo:

4.7. L’eta’ contemporanea e i nuovi media66

Per concludere il discorso relativo alla storia della nostra lingua


diamo uno sguardo alla società contemporanea, quella che si svi-
luppa dagli anni Settanta del Novecento per giungere fino a noi.
È innegabile che profonde modifiche a livello linguistico, in
positivo e in negativo, derivino dalla diffusione di internet e dei

66
Per una visione completa del panorama linguistico italiano contemporaneo
Cfr. M. Palermo, cit., pp. 228 – 245.

174
brevi cenni di storia della lingua italiana

social network; vari linguisti si stanno interessando ai mutamenti


della nostra lingua in tal senso67 e contestualmente agli errori or-
tografici e sintattici più diffusi che si registrano nelle nuove gene-
razioni. Vediamone qualche esempio, tratto da articoli di recente
pubblicazione diffusi principalmente su testate online, a dimostrare
quanto il dibattito sia attualmente attivo e in fermento.
Innanzitutto, quali sono gli errori più frequenti che si riscontrano
nello scrivente italiano contemporaneo?

– il corretto utilizzo dell’apostrofo, soprattutto su un/


una, qual è, d’accordo, un po’;
– l’uso del congiuntivo, sostituito regolarmente dall’indica-
tivo nella comunicazione quotidiana, è stato riversato anche sullo
scritto;
– i pronomi femminili sostituiti con quelli maschili: a lei, gli
ho detto che…;
– la punteggiatura;
– il corretto utilizzo di C e Q;
– il corretto posizionamento delle H principalmente nella
distinzione tra ha / a e o /ho.

67
In merito a questo paragrafo Cfr., tra gli altri, i recentissimi articoli
di Filomena Fuduli Sorrentino, L’italiano è meraviglioso e si deve salvare:
intervista con Claudio Marazzini, in «La voce di New York», 6 gennaio 2019;
Daniele Scarampi, A proposito di un dibattito sulla lingua dell’odio, in «Treccani.
it», 2 maggio 2019 (il seguito, in questo paragrafo: Scarampi); Maria Elena
Gottarelli, I dieci errori grammaticali che gli italiani commettono più spesso, in
«TPI», 8 luglio 2019; Vincenzo Fiore, “Vi spiego perché un giovane su 3 non sa
l’italiano”: Francesco Sabatini (Accademia della Crusca) commenta i risultati dei test
invalsi, in «TPI», 18 luglio 2019; Rachele Della Vecchia, Matteo Rigoni,
Lisa Simeoni, La lingua italiana sui social: verso un’ecologia della comunicazione,
in «Il Bo live – Unipd», 24 luglio 2019; Giuseppe Antonelli, Luca Serianni,
La lingua italiana è un diritto, «Corriere della sera», 27 ottobre 2019 (il seguito
in questo paragrafo: Antonelli, Serianni).

175
teresa agovino

Certamente di fondo esiste un problema legato ad una forma-


zione inadeguata a livello scolastico, in primis nei docenti, trasmessa
poi agli studenti in modo altrettanto inadeguato; ma il problema,
soprattutto al Sud, non è nuovo. Pensiamo che già tra il Quattrocen-
to e il Cinquecento la maggior diffusione di tipografie si registrava
da Roma in su, lasciando quindi fuori la parte meridionale della
nazione. Il divario tra Nord e Sud Italia non è nuovo nella storia
politica del nostro Paese e si registra, ovviamente, anche a livello
linguistico.
Anche le cattedre universitarie dedicate espressamente alla lin-
guistica italiana, come materia autonoma rispetto alla letteratura,
sono di formazione relativamente recente.
A peggiorare la situazione, l’avvento dei social network che sinte-
tizzano drasticamente la lingua, illudendo chi scrive messaggi online
di poter realmente comunicare in poche stringate parole corrette, per
di più, da un elaboratore automatico che spesso cade, giustamente, in
errore68. Inoltre, il supporto vocale nei messaggi online non aiuta di
certo la scrittura della nostra lingua. A livello linguistico, l’impatto
si registra, però, purtroppo, ancor più che a livello disortografico o
sgrammaticato nell’evoluzione del linguaggio dell’odio attraverso i
social69 . Va da sé che per gridare, insultare, offendere, anche il livello
linguistico dello scrivente (già di per sé, abbiamo visto, ridottosi ai
minimi storici) tenda ad abbassarsi ancor di più.
Il lato più subdolo di questo processo risiede nell’apparente spon-
taneità e inconsapevolezza che portano a stereotipi incontrollabili.
Per di più, insieme a offese esplicite e insulti manifesti, esistono
meccaniche più sottili legate al linguaggio dell’odio che tendono
ad acuire le distanze sociali; pensiamo a parole apparentemente
inoffensive se decontestualizzate ma ad oggi molto utilizzate in ma-
niera apertamente discriminatoria come razza, buonismo, pacchia70.

68
Sabatini.
69
Antonelli, Serianni.
70
Scarampi.

176
brevi cenni di storia della lingua italiana

Infine, lo smodato utilizzo di forestierismi rende spesso più


complessa la comunicazione nella nostra lingua, non perché sia
sbagliato in sé ma perché spesso non ne conosciamo a fondo il
significato e tendiamo ad utilizzare parole straniere in maniera
scorretta, adattandole in modo errato ad una lingua madre che già
conosciamo poco e male.
Nonostante ciò, è difficile che un adulto decida di rimettersi
a studiare la propria lingua madre, se non l’ha assimilata bene
in anni scolastici71. Il parlante consapevole dovrebbe evitare, ad
esempio, anglismi inutili, dettati dal trend del momento72; e ancor
più dovrebbero evitarli le istituzioni o le reti televisive73. Tutto ciò
fa sì che ad oggi il quadro relativo alla lingua italiana parlata, e
soprattutto scritta, si presenti drammatico. La lingua italiana oggi,
ha bisogno di essere salvata; deve tornare a risplendere come lingua
di cultura, arte e letteratura a livello mondiale; anche grazie al mez-
zo televisivo, che sin dagli anni Cinquanta influenza le tendenze
linguistiche della nazione74; pensiamo, ad esempio, al neologismo
tronista, entrato recentemente (dalla televisione di consumo) nei
vocabolari della nostra lingua.

71
Sabatini.
72
L’utilizzo dell’anglismo qui è volutamente provocatorio, a rimarcarne da
un lato l’inutilità, dall’altro la diffusione.
73
Antonelli, Serianni.
74
Marazzini.

177
CAPITOLO VII

APPUNTI DI LINGUISTICA APPLICATA


E SOCIOLINGUISTICA

In questo capitolo avvieremo una rapida panoramica relativa


alla linguistica applicata e alle normative riguardanti le Regioni a
Statuto Speciale in Italia. Vediamo innanzitutto cosa si intende per
Linguistica applicata.
La linguistica applicata nasce intorno alla metà del xx secolo
(anni ’50-’60 del Novecento). Si tratta dell’applicazione per scopi
pratici di strumenti e teorie sviluppati in ambito teorico dalla lin-
guistica; è, dunque, il risvolto pratico, l’applicazione materiale nella
vita quotidiana degli studi di linguistica.
Nel campo della linguistica applicata rientrano ambiti come la
didattica delle lingue, la linguistica computazionale, la pianifica-
zione linguistica, e così via. Si tratta di un campo di studi che non
ha confini perfettamente definiti, coinvolge ambiti che toccano
l’apprendimento e l’insegnamento delle lingue, gli studi sul discorso,
la lingua della politica e delle ideologie, la pianificazione linguistica.
In sostanza si tratta di una attività di problem solving che media tra
il mondo teorico dello studio delle lingue e quello reale delle lingue
parlate e scritte quotidianamente dalle varie comunità linguistiche.
In anni recenti la linguistica applicata ha iniziato ad occuparsi
anche di lingue minoritarie (quelle senza una specifica tradizione
letteraria alle spalle) e della creazione di una lingua tetto.

179
teresa agovino

La lingua tetto è la lingua di cultura utilizzata in situazioni


ufficiali al di fuori del dialetto. Laddove tale lingua non esista, va
creato uno standard. Un esempio di tale intervento linguistico
si può considerare quello compiuto sul romàncio in Svizzera: il
romàncio è una varietà di retroromanzo (come il friulano e il ladino).
Dal 1938 il romàncio è una lingua nazionale in Svizzera, sebbene
venga materialmente parlato solo dall’1% della popolazione totale.
Sono stati attuati diversi interventi per creare una lingua standard
in sostituzione al romàncio per le situazioni ufficiali (il grigionese),
ma tale tentativo ha incontrato una forte opposizione dei parlanti
(e, come abbiamo già detto più volte, se la comunità linguistica
non utilizza una determinata lingua, espressione o anche semplice
parola, essa tende inevitabilmente a sparire o non attecchire).

n.b. Prima di procedere oltre e introdurre il concetto di piani-


ficazione linguistica, è bene osservare una suddivisione importante
dal punto di vista linguistico.
Possiamo suddividere le lingue in due macro-categorie:

per distanziamento: si tratta di varietà diverse dalla lingua


standard con cui le confrontiamo (sardo / italiano) anche se non
hanno una letteratura di riferimento o un’ortografia regolare.

per elaborazione: (serbo / croato) (ceco / slovacco) si tratta di


varietà molto simili tra loro, che vengono divise per motivi politici,
culturali, ecc. Ad esempio il serbo e il croato sono praticamente
quasi la stessa lingua ma per motivi strettamente politici legati alla
caduta dell’URSS la lingua serba utilizza l’alfabeto cirillico mentre
quella croata si avvale dell’alfabeto latino.

la pianificazione linguistica – Dopo aver puntualizzato i


concetti base relativi alla linguistica applicata, vediamo ora cosa
si intende per pianificazione linguistica e come funziona. Diremo
innanzitutto che non può esistere una pianificazione linguistica se
non si conoscono bene tutti gli aspetti della comunità linguistica su

180
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica

cui si vuole intervenire. Questo perché la pianificazione linguistica


è rivolta esclusivamente alla facilitazione linguistica del parlante.
Come abbiamo già visto, il dialetto non si deve considerare come
una forma corrotta della lingua ufficiale ma come una varietà lingui-
stica sorella. Dal latino volgare si sono formati tutti i dialetti italiani e
da quelli si è poi selezionato il dialetto toscano come varietà standard.
Ciò vuol dire che fino alla scelta del toscano come lingua letteraria
(e burocratica) della nazione ogni dialetto aveva le stesse possibilità
(e gli stessi diritti) di assumere il ruolo di lingua standard nazionale
esattamente come il toscano. Il dialetto, a differenza della lingua, ha
una tradizione letteraria modesta o nulla e una norma ortografica non
sempre ben definita. Inoltre, il dialetto ha determinati confini, cioè
non possiede il patrimonio lessicale della lingua standard: non ha le
parole per dire determinate cose, come “cellule staminali”, ad esempio1.
n.b. Bisogna anche prestare attenzione alla differenza che insorge
tra il termine italiano dialetto e il termine inglese dialect. Il secondo
indica una qualunque varietà della lingua, di conseguenza non è
applicabile al caso dell’italiano In Italia si parlano infatti diverse
varietà romanze, cioè quelle evoluzioni che il tardo latino ha avuto
nel corso dei secoli diventando Umbro, Siciliano, Lombardo, ecc.
Di conseguenza non parleremo di “dialetti dell’italiano”, ma di
“dialetti italiani” intendendo con ciò che tutti hanno in comune
come lingua tetto l’italiano standard.
Vediamo, nella tabella seguente, le principali differenze tra lin-
gua e dialetto:

DIALETTO ≠ LINGUA
Norma ortografica e
NO SI
tradizione letteraria
NO Status ufficiale SI

1
Cfr., tra gli altri, intervista a Raffaello Baldini a cura di Manuela Ricci,
Prima le cose delle parole, in IBC, IV, 96, 4.

181
teresa agovino

TUTTI QUELLI
COLLOQUIALI Registri posseduti
IN USO
Aspetto linguistico
SI completo (morfologia, SI
sintassi, lessico, ecc.)

Volendo ampliare il discorso, possiamo dire che le differenze


sostanziali tra lingua e dialetti 2 sono:

limitazione territoriale – Ovviamente, i dialetti sono cir-


coscritti a specifiche aree della nazione, mentre la lingua standard
è diffusa a livello totale;
modalità di apprendimento – Il dialetto fa parte della co-
siddetta identificazione linguistica primaria (v. oltre), cioè si impara
a casa nei primi anni di vita; la lingua si impara invece a scuola ed
è attinente al campo dell’identificazione linguistica secondaria;
labilità nella norma – Ovviamente, la norma dei dialetti,
soprattutto a livello ortografico è più incerta e mano definibile di
quella della lingua;
limitazione degli ambiti dell’uso – Il dialetto si usa oggi in
ambiti ristretti: comunicazione colloquiale (online e diretta); teatro
e letteratura dialettale, ecc. La lingua, invece, resta valida non solo
nelle situazioni sopra dette ma anche in ambito giuridico, burocra-
tico, accademico, ecc.
valore identitario – Il dialetto ha un valore identitario ov-
viamente maggiore , in ambito strettamente locale o regionale.

Il sociolinguista Max Weinreich (1894-1969) spiega questa


differenza generale con una massima molto intuitiva, che recita:
Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina. Ciò a signifi-
care che la lingua ufficiale (quella dello Stato, che ha quindi sotto
di sé organi militari, burocratici, ecc.) non è altro che un dialetto

2
Palermo

182
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica

con maggiori “responsabilità” in ambito sociale: è il dialetto scelto


tra tanti (il toscano nel nostro caso) per rappresentare la nazione a
livello ufficiale. In Italia, però, dobbiamo ricordare che la situazione
è sostanzialmente differente dalle altre nazioni:

È un’affermazione estrema che si adatta solo parzialmente alla


storia dell’italiano. Il fiorentino è infatti divenuto la varietà comune
degli italiani prima di tutto per ragioni di prestigio socioculturale
e, se vogliamo proseguire nel paragone, l’esercito e la marina sono
stati forniti molto più tardi, e per di più dai piemontesi!3

Ciò detto, è necessario quindi introdurre anche il concetto cui


si è accennato precedentemente di comunità linguistica. La
comunità linguistica, come si può intuire facilmente dalla denomi-
nazione stessa, altro non è che un gruppo di parlanti che condivide
un insieme di atteggiamenti riguardo alla lingua. Ovviamente, in tal
senso, la volontà del parlante di appartenere ad una data comunità
linguistica è un aspetto cruciale.

Una comunità linguistica è l’insieme di tutte le persone che parlano


una determinata lingua o varietà linguistica e ne condividono le
norme d’uso […]. La comunità linguistica non è […] omogenea, è
anzi stratificata. La diversità linguistica […] fornisce informazioni
sulle diversità sociali dei parlanti.4

Nella tabella che segue i concetti di diglossìa, dilalìa e bi-


linguismo confrontati con la lingua tetto:

Ogni parlante possiede normalmente due diversi livelli di


identificazione linguistica:

3
M. Palermo, cit., p. 247.
4
G. Graffi, S. Scalise, cit., pp. 228-229.

183
184
Una alta (H / High) =
Si parla di diglossìa, quando nella
Arcoletto
stessa comunità linguistica sono
DIGLOSSIA + Svizzera tedesca
presenti almeno due codici, due diverse
Una bassa (L / Low) =
varietà usate indistintamente:
Basiletto
Si parla di dilalìa nel caso in cui si Arcoletto
utilizza di norma sempre l’Arcoletto
DILALIA (H) e il Basiletto (L) viene utilizzato ≠ Italia
solo in contesti informali /familiari, e
comunque mai senza la varietà H. Basiletto
Nella realtà è molto raro trovarlo. Si
Si tratta per lo più di un
tratta del caso in cui tutti i parlanti
teresa agovino

BILINGUISMO concetto teorico negli


padroneggiano perfettamente due
studi di linguistica.
varietà.
Possiamo avere due tipi omogenetico – Italiano
di tetto: standard rispetto a Umbro,
LINGUA Si tratta della lingua dotata di prestigio omogenetico – stessa Siciliano, Emiliano ecc
TETTO sociale. genesi eterogenetico – Italiano
eterogenetico – standard rispetto a dialetti
genesi differente germanici alsaziani o lorenesi.
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica

primari – (stabili), sono quelli legati alla prima socializzazione;


ciò che linguisticamente apprendiamo prima ancora di imparare a
leggere, scrivere, addirittura anche prima di iniziare a pronunciare
correttamente tutte le parole del nostro vocabolario;

secondari – (possono variare nel tempo), sono quei livelli di


identificazione linguistica legati al sistema scolastico, sociale, ecc.

language planning – Esiste una sottodisciplina della sociolo-


gia del linguaggio, detta appunto Language Planning, che si occupa
di studiare e comprendere i rapporti tra la situazione linguistica e
la sociolinguistica di una determinata lingua. Cioè cerca e trova
soluzioni linguistiche ai problemi di determinate comunità sociali
plurilingue.
Qualche esempio pratico degli ambiti di studio e di intervento
del Language Planning:

language revival: riporta in uso lingue estinte;


language revitalization: incrementa lo status di una lingua
minacciata di estinzione;
reversing language shift: (= inversione della deriva), opera-
zioni linguistiche per assecondare la continuità intergenerazionale
di una data lingua.

L’intervento sulle lingue può avvenire:

in vivo – I parlanti, in maniera del tutto naturale, risolvono


i loro problemi linguistici. Si tratta semplicemente dei naturali
adattamenti della lingua che ormai già conosciamo.

in vitro – Vengono attuate (dagli studiosi in accordo con i


governi) proposte dall’esterno per aiutare le comunità linguistiche
con i problemi di una data lingua.

185
teresa agovino

Attenzione però al fatto che gli esperimenti di standardizzazione


possono trovare l’opposizione dei parlanti: come ormai sappiamo
bene, se la comunità linguistica non accetta (e quindi non utilizza)
i suggerimenti esterni questi tendono inevitabilmente a scomparire.
Ciò perché, si è visto, la lingua è un fattore di coesione identitaria
(per questo anche istituzioni se ne occupano costantemente insieme
agli studiosi). Abbiamo già visto l’esempio del grigionese in Svizzera
che, elaborato dagli studiosi, non ha funzionato in sostituzione del
romàncio. Diversa la situazione del catalano in Spagna negli anni
Ottanta: la forte identità indipendentista dei catalani, fece sì che la
campagna di promozione linguistica dell’uso del catalano al posto
del castigliano funzionasse perfettamente. Simbolo della promozione
della lingua catalana, una bambina di nome Norma5 che comparve
a fumetti sui vari canali mediatici:

5
L’immagine, molto nota, è stata reperita utilizzando il motore di ricerca
Google immagini.

186
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica

1. Minoranze linguistiche in Italia6

Chi parla una lingua di minoranza in una comunità linguisti-


ca più ampia è definito alloglotto (greco: àllos = altro; glòtta =
lingua); in Italia gli alloglotti sono circa due milioni e mezzo. Ve-
diamo di seguito un elenco dettagliato delle principali minoranze
linguistiche in Italia, divise in neolatine e non neolatine.

neolatine

§ Francoprovenzali: francese, provenzale e francoprovenzale (Pie-


monte, Valle d’Aosta, provincia di Foggia, provincia di Cosenza);
§ Occitane e Provenzali alpine (Val di Susa);
§ Francesi (Valle d’Aosta);
§ Ladine Dolomitiche (Trentino, Veneto);
§ Friulane;
§ Gallo-italiche (Toscana, Sicilia);
§ Tabarchine (Carloforte)
§ Catalane (Alghero, Sicilia);
§ Sarde

non neolatine

§ Walser (Piemonte, Valle d’Aosta);


§ Tedesco (Alto Adige);
§ Cimbre (Verona);
§ Slovene (Friuli);
§ Croate (Friuli); Slavomolisane (Molise)
§ Albanesi: arbëreshe (Abruzzo, Sicilia);
§ Greche (Salento, Reggio Calabria)

6
Cfr. Palermo, cit., cap. 7.

187
teresa agovino

Quando le regioni in cui vengono parlate le lingue minoritarie


confinano geograficamente con le nazioni in cui quella lingua è la
lingua ufficiale (Francia, Slovenia, ecc.) parleremo di minoranze
nazionali; il fenomeno è ovviamente più frequente al Nord Italia,
in cui abbiamo regioni di confine. Quando invece, come al Sud,
le minoranze non confinano con il territorio di riferimento parle-
remo di isole linguistiche (come nel caso del greco di Puglia,
ad esempio).
Sono escluse dall’elenco le minoranze Rom e Sinti poiché non
si tratta di minoranze territoriali ma di quelle che si definiscono
minoranze diffuse, estese cioè a macchia di leopardo sull’intero
territorio e non circoscrivibili ad una precisa area geografica.

Per riferirsi alle comunità di immigrati giunte recentemente in


Italia – e distinguerle dalle minoranze linguistiche storiche […]
– si parla di nuove minoranze linguistiche. La legge 4827 […] ha
colmato una lacuna importante in termini di riconoscimento di
diritti linguistici ma […] non fa riferimento a queste nuove lingue8

1.1 Tutela delle minoranze linguistiche in Italia

La legge che tutela le minoranze linguistiche in Italia, risale al


1948. Si tratta, infatti dell’articolo 6 della Costituzione:
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Va detto, però, che vere e proprie leggi e norme vengono attuate
solo a partire dal recente 1999. Tra il 1948 e il 1999 ci si era limi-
tati a tutelare soltanto le regioni di confine, ma non le comunità
linguistiche nella loro totalità.

7
Vedi paragrafo successivo.
8
M. Palermo, cit., p. 275.

188
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica

Legge 482/1999 sulle minoranze linguistiche – La legge a


tutela delle minoranze linguistiche (sotto riportata integralmente)
stabilisce principalmente il fatto che, sebbene l’italiano sia la lingua
nazionale, la Nazione tutela e valorizza le minoranze linguistiche.
La legge stabilisce anche che le minoranze sono lingue non ufficiali,
ma che nonostante ciò i parlanti hanno comunque dei diritti. Va qui
prestata attenzione al fatto che non compaiano, però, le minoranze
linguistiche Rom e Sinti, pur grandemente inserite nel territorio
nazionale, poiché si tratta di minoranze sparse, non collocabili
in aree geografiche precise. Infine, secondo la legge, il criterio di
appartenenza ad una minoranza linguistica è quello dell’auto-ri-
vendicazione, ciò però porta a volte anche ad adesioni di comodo
da parte di comuni che non sono realmente minoranze linguistiche;
questo perché la legge non parla di competenza del parlante nella
lingua di minoranza che rivendica.
Vediamo in dettaglio il testo della legge 482/1999:

Art.1.
1. La lingua ufficiale della Repubblica é l’italiano.
2. La Repubblica, che valorizza il patrimonio linguistico e cultu-
rale della lingua italiana, promuove altresì la valorizzazione delle
lingue e delle culture tutelate dalla presente legge.

Art.2.
1. In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con
i principii generali stabiliti dagli organismi europei e internazio-
nali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni
albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quel-
le parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino,
l’occitano e il sardo.

Art.3.
1. La delimitazione dell’ambito territoriale e sub comunale in cui si
applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche stori-
che previste dalla presente legge é adottata dal consiglio provinciale,

189
teresa agovino
sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento
dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi,
ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi comuni.
2. Nel caso in cui non sussista alcuna delle due condizioni di cui
al comma 1 e qualora sul territorio comunale insista comunque
una minoranza linguistica ricompresa nell’elenco di cui all’articolo
2, il procedimento inizia qualora si pronunci favorevolmente la
popolazione residente, attraverso apposita consultazione promossa
dai soggetti aventi titolo e con le modalità previste dai rispettivi
statuti e regolamenti comunali.
3. Quando le minoranze linguistiche di cui all’articolo 2 si trovano
distribuite su territori provinciali o regionali diversi, esse possono
costituire organismi di coordinamento e di proposta, che gli enti
locali interessati hanno facoltà di riconoscere.

Art. 4.
1. Nelle scuole materne dei comuni di cui all’articolo 3, l’educa-
zione linguistica prevede, accanto all’uso della lingua italiana,
anche l’uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle
attività educative. Nelle scuole elementari e nelle scuole secondarie
di primo grado é previsto l’uso anche della lingua della minoranza
come strumento di insegnamento.
2. Le istituzioni scolastiche elementari e secondarie di primo
grado, in conformità a quanto previsto dall’articolo 3, comma 1,
della presente legge, nell’esercizio dell’autonomia organizzativa e
didattica di cui all’articolo 21, commi 8 e 9, della legge 15 marzo
1997, n. 59, nei limiti dell’orario curriculare complessivo definito a
livello nazionale e nel rispetto dei complessivi obblighi di servizio
dei docenti previsti dai contratti collettivi, al fine di assicurare
l’apprendimento della lingua della minoranza, deliberano, anche
sulla base delle richieste dei genitori degli alunni, le modalità di
svolgimento delle attività di insegnamento della lingua e delle
tradizioni culturali delle comunità locali, stabilendone i tempi
e le metodologie, nonché stabilendo i criteri di valutazione degli
alunni e le modalità di impiego di docenti qualificati.

190
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica
3. Le medesime istituzioni scolastiche di cui al comma 2, ai sensi
dell’articolo 21, comma 10, della legge 15 marzo 1997, n. 59, sia
singolarmente sia in forma associata, possono realizzare amplia-
menti dell’offerta formativa in favore degli adulti. Nell’esercizio
dell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di cui al
citato articolo 21, comma 10, le istituzioni scolastiche adottano,
anche attraverso forme associate, iniziative nel campo dello studio
delle lingue e delle tradizioni culturali degli appartenenti ad una
minoranza linguistica riconosciuta ai sensi degli articoli 2 e 3 della
presente legge e perseguono attività di formazione e aggiorna-
mento degli insegnanti addetti alle medesime discipline. A tale
scopo le istituzioni scolastiche possono stipulare convenzioni ai
sensi dell’articolo 21, comma 12, della citata legge n. 59 del 1997.
4. Le iniziative previste dai commi 2 e 3 sono realizzate dalle
medesime istituzioni scolastiche avvalendosi delle risorse uma-
ne a disposizione, della dotazione finanziaria attribuita ai sensi
dell’articolo 21, comma 5, della legge 15 marzo 1997, n. 59, nonché
delle risorse aggiuntive reperibili con convenzioni, prevedendo tra
le priorità stabilite dal medesimo comma 5 quelle di cui alla pre-
sente legge. Nella ripartizione delle risorse di cui al citato comma
5 dell’articolo 21 della legge n. 59 del 1997, si tiene conto delle
priorità aggiuntive di cui al presente comma.
5. Al momento della preiscrizione i genitori comunicano alla isti-
tuzione scolastica interessata se intendono avvalersi per i propri
figli dell’insegnamento della lingua della minoranza.

Art.5.
1. Il Ministro della pubblica istruzione, con propri decreti, indica i
criteri generali per l’attuazione delle misure contenute nell’articolo
4 e può promuovere e realizzare progetti nazionali e locali nel
campo dello studio delle lingue e delle tradizioni culturali degli
appartenenti ad una minoranza linguistica riconosciuta ai sensi
degli articoli 2 e 3 della presente legge. Per la realizzazione dei
progetti é autorizzata la spesa di lire 2 miliardi annue a decorrere
dall’anno 1999.

191
teresa agovino
2. Gli schemi di decreto di cui al comma 1 sono trasmessi al Parla-
mento per l’acquisizione del parere delle competenti Commissioni
permanenti, che possono esprimersi entro sessanta giorni.

Art.6.
1. Ai sensi degli articoli 6 e 8 della legge 19 novembre 1990, n.
341, le università delle regioni interessate, nell’ambito della loro
autonomia e degli ordinari stanziamenti di bilancio, assumono ogni
iniziativa, ivi compresa l’istituzione di corsi di lingua e cultura
delle lingue di cui all’articolo 2, finalizzata ad agevolare la ricerca
scientifica e le attività culturali e formative a sostegno delle finalità
della presente legge.

Art.7.
1. Nei comuni di cui all’articolo 3, i membri dei consigli comuna-
li e degli altri organi a struttura collegiale dell’amministrazione
possono usare, nell’attività degli organismi medesimi, la lingua
ammessa a tutela.
2. La disposizione di cui al comma 1 si applica altresì ai consi-
glieri delle comunità montane, delle province e delle regioni, i cui
territori ricomprendano comuni nei quali é riconosciuta la lingua
ammessa a tutela, che complessivamente costituiscano almeno il
15 per cento della popolazione interessata.
3. Qualora uno o piú componenti degli organi collegiali di cui
ai commi 1 e 2 dichiarino di non conoscere la lingua ammessa a
tutela, deve essere garantita una immediata traduzione in lingua
italiana.
4. Qualora gli atti destinati ad uso pubblico siano redatti nelle due
lingue, producono effetti giuridici solo gli atti e le deliberazioni
redatti in lingua italiana.

Art.8.
1. Nei comuni di cui all’articolo 3, il consiglio comunale può prov-
vedere, con oneri a carico del bilancio del comune stesso, in man-
canza di altre risorse disponibili a questo fine, alla pubblicazione

192
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica
nella lingua ammessa a tutela di atti ufficiali dello Stato, delle
regioni e degli enti locali nonché di enti pubblici non territoriali,
fermo restando il valore legale esclusivo degli atti nel testo redatto
in lingua italiana.

Art.9.
1. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 7, nei comuni di cui
all’articolo 3 é consentito, negli uffici delle amministrazioni pub-
bliche, l’uso orale e scritto della lingua ammessa a tutela. Dall’ap-
plicazione del presente comma sono escluse le forze armate e le
forze di polizia dello Stato.
2. Per rendere effettivo l’esercizio delle facoltà di cui al comma 1,
le pubbliche amministrazioni provvedono, anche attraverso con-
venzioni con altri enti, a garantire la presenza di personale che sia
in grado di rispondere alle richieste del pubblico usando la lingua
ammessa a tutela. A tal fine é istituito, presso la Presidenza del
Consiglio dei ministri – Dipartimento per gli affari regionali, un
Fondo nazionale per la tutela delle minoranze linguistiche con una
dotazione finanziaria annua di lire 9.800.000.000 a decorrere dal
1999. Tali risorse, da considerare quale limite massimo di spesa,
sono ripartite annualmente con decreto del Presidente del Consi-
glio dei ministri, sentite le amministrazioni interessate.
3.Nei procedimenti davanti al giudice di pace é consentito l’uso
della lingua ammessa a tutela. Restano ferme le disposizioni di
cui all’articolo 109 del codice di procedura penale.

Art.10.
1. Nei comuni di cui all’articolo 3, in aggiunta ai toponimi ufficia-
li, i consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi
conformi alle tradizioni e agli usi locali.

Art.11.
1. I cittadini che fanno parte di una minoranza linguistica rico-
nosciuta ai sensi degli articoli 2 e 3 e residenti nei comuni di cui
al medesimo articolo 3, i cognomi o i nomi dei quali siano stati

193
teresa agovino
modificati prima della data di entrata in vigore della presente leg-
ge o ai quali sia stato impedito in passato di apporre il nome di
battesimo nella lingua della minoranza, hanno diritto di ottenere,
sulla base di adeguata documentazione, il ripristino degli stessi in
forma originaria. Il ripristino del cognome ha effetto anche per i
discendenti degli interessati che non siano maggiorenni o che, se
maggiorenni, abbiano prestato il loro consenso.
2. Nei casi di cui al comma 1 la domanda deve indicare il nome o
il cognome che si intende assumere ed é presentata al sindaco del
comune di residenza del richiedente, il quale provvede d’ufficio
a trasmetterla al prefetto, corredandola di un estratto dell’atto di
nascita. Il prefetto, qualora ricorrano i presupposti previsti dal
comma 1, emana il decreto di ripristino del nome o del cognome.
Per i membri della stessa famiglia il prefetto può provvedere con
un unico decreto. Nel caso di reiezione della domanda, il relativo
provvedimento può essere impugnato, entro trenta giorni dalla
comunicazione, con ricorso al Ministro di grazia e giustizia, che
decide previo parere del Consiglio di Stato. Il procedimento é
esente da spese e deve essere concluso entro novanta giorni dalla
richiesta.
3. Gli uffici dello stato civile dei comuni interessati provvedono
alle annotazioni conseguenti all’attuazione delle disposizioni di
cui al presente articolo. Tutti gli altri registri, tutti gli elenchi e
ruoli nominativi sono rettificati d’ufficio dal comune e dalle altre
amministrazioni competenti.

Art.12.
1. Nella convenzione tra il Ministero delle comunicazioni e la
società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e nel
conseguente contratto di servizio sono assicurate condizioni per
la tutela delle minoranze linguistiche nelle zone di appartenenza.
2. Le regioni interessate possono altresí stipulare apposite conven-
zioni con la società concessionaria del servizio pubblico radiote-
levisivo per trasmissioni giornalistiche o programmi nelle lingue
ammesse a tutela, nell’ambito delle programmazioni radiofoniche

194
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica
e televisive regionali della medesima società concessionaria; per
le stesse finalità le regioni possono stipulare appositi accordi con
emittenti locali.
3. La tutela delle minoranze linguistiche nell’ambito del sistema
delle comunicazioni di massa é di competenza dell’Autorità per
le garanzie nelle comunicazioni di cui alla legge 31 luglio 1997,
n. 249, fatte salve le funzioni di indirizzo della Commissione
parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi
radiotelevisivi.

Art.13.
1. Le regioni a statuto ordinario, nelle materie di loro competenza,
adeguano la propria legislazione ai princípi stabiliti dalla presente
legge, fatte salve le disposizioni legislative regionali vigenti che
prevedano condizioni piú favorevoli per le minoranze linguistiche.

Art.14.
1. Nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio le regioni e le
province in cui siano presenti i gruppi linguistici di cui all’articolo
2 nonché i comuni ricompresi nelle suddette province possono
determinare, in base a criteri oggettivi, provvidenze per l’editoria,
per gli organi di stampa e per le emittenti radiotelevisive a carattere
privato che utilizzino una delle lingue ammesse a tutela, nonché
per le associazioni riconosciute e radicate nel territorio che abbiano
come finalità la salvaguardia delle minoranze linguistiche.

Art.15.
1. Oltre a quanto previsto dagli articoli 5, comma 1, e 9, comma 2,
le spese sostenute dagli enti locali per l’assolvimento degli obblighi
derivanti dalla presente legge sono poste a carico del bilancio statale
entro il limite massimo complessivo annuo di lire 8.700.000.000
a decorrere dal 1999.
2. L’iscrizione nei bilanci degli enti locali delle previsioni di spesa
per le esigenze di cui al comma 1 é subordinata alla previa riparti-
zione delle risorse di cui al medesimo comma 1 tra gli enti locali

195
teresa agovino
interessati, da effettuare con decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri.
3. L’erogazione delle somme ripartite ai sensi del comma 2 avviene
sulla base di una appropriata rendicontazione, presentata dall’ente
locale competente, con indicazione dei motivi dell’intervento e
delle giustificazioni circa la congruità della spesa.

Art.16.
1. Le regioni e le province possono provvedere, a carico delle pro-
prie disponibilità di bilancio, alla creazione di appositi istituti per
la tutela delle tradizioni linguistiche e culturali delle popolazioni
considerate dalla presente legge, ovvero favoriscono la costituzione
di sezioni autonome delle istituzioni culturali locali già esistenti.

Art.17.
1. Le norme regolamentari di attuazione della presente legge sono
adottate entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della mede-
sima, sentite le regioni interessate.

Art.18.
1. Nelle regioni a statuto speciale l’applicazione delle disposizioni
più favorevoli previste dalla presente legge é disciplinata con norme
di attuazione dei rispettivi statuti. Restano ferme le norme di tutela
esistenti nelle medesime regioni a statuto speciale e nelle province
autonome di Trento e di Bolzano.
2. Fino all’entrata in vigore delle norme di attuazione di cui al
comma 1, nelle regioni a statuto speciale il cui ordinamento non
preveda norme di tutela si applicano le disposizioni di cui alla
presente legge.

Art.19.
1. La Repubblica promuove, nei modi e nelle forme che saranno di
caso in caso previsti in apposite convenzioni e perseguendo con-
dizioni di reciprocità con gli Stati esteri, lo sviluppo delle lingue
e delle culture di cui all’articolo 2 diffuse all’estero, nei casi in cui

196
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica
i cittadini delle relative comunità abbiano mantenuto e sviluppato
l’identità socio-culturale e linguistica d’origine.
2. Il Ministero degli affari esteri promuove le opportune intese con
altri Stati, al fine di assicurare condizioni favorevoli per le comu-
nità di lingua italiana presenti sul loro territorio e di diffondere
all’estero la lingua e la cultura italiane. La Repubblica favorisce la
cooperazione transfrontaliera e interregionale anche nell’ambito
dei programmi dell’Unione europea.
3. Il Governo presenta annualmente al Parlamento una relazione
in merito allo stato di attuazione degli adempimenti previsti dal
presente articolo.

Art.20.
1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge, valutato
in lire 20.500.000.000 a decorrere dal 1999, si provvede median-
te corrispondente riduzione delle proiezioni dello stanziamento
iscritto, ai fini del bilancio triennale 1998-2000, nell’ambito dell’u-
nità previsionale di base di parte corrente “Fondo speciale” dello
stato di previsione del Ministero del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica per l’anno 1998, allo scopo parzial-
mente utilizzando, quanto a lire 18.500.000.000, l’accantonamen-
to relativo alla Presidenza del Consiglio dei ministri e, quanto a
lire 2.000.000.000, l’accantonamento relativo al Ministero della
pubblica istruzione.
2. Il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione
economica é autorizzato ad apportare, con propri decreti, le oc-
correnti variazioni di bilancio.

1.2 Minoranze linguistiche in Italia, qualche esempio pratico

Valle d’Aosta – Viene considerata una comunità francese seb-


bene in realtà solo l’8% della popolazione valdostana sia francofono.
Si tratta di una regione autonoma con amministrazione bilingue.
Inoltre, all’interno dell’8% della popolazione francofona esiste una

197
teresa agovino

minoranza ulteriore: vi sono, infatti, parlanti del patois franco-pro-


venzale. La tutela di questa “minoranza nella minoranza” viene
contemplata dalla legge 482/1999, ma in realtà resta affidata per
lo più agli enti locali.

Friuli – Le province di Trieste e Gorizia sono considerate


minoranze nazionali. Gli sloveni hanno quindi diritto a un pro-
prio sistema scolastico, un canale televisivo, ecc., in cui la lingua
standard è lo sloveno. Il problema, però, sorge nell’appurare che la
maggior parte degli slavofoni friulani non vive nelle due province
summenzionate, ma in provincia di Udine (all’interno della quale,
paradossalmente, lo sloveno non viene considerato ufficialmente
una minoranza!).

Alto Adige – Sin dal 1946 in Alto Adige è garantito l’in-


segnamento del tedesco insieme all’utilizzo della lingua tedesca
nell’amministrazione e nei canali televisivi. La provincia con meno
germanofoni è Bolzano. Tra le minoranze dell’Alto Adige vanno
menzionati anche i parlanti di una lingua detta Ladino delle dolo-
miti. In questa regione (a differenza della Valle d’Aosta) è formal-
mente riconosciuto il cosiddetto bilinguismo separativo: è cioè
istituzionalizzata l’esistenza di due diverse comunità, una italofo-
na, l’altra germanofona e ognuna delle due ha un proprio sistema
educativo e amministrativo. Il problema in questo caso sorge dal
fatto che mentre la comunità italofona utilizza l’italiano standard
(esattamente come nelle altre regioni italiane), quella germanofona
non parla il tedesco standard ma una serie di dialetti Ladini o Au-
stro-Bavaresi. Di conseguenza, nelle scuole troveremo addirittura
sistemi trilingue.

198
appunti di linguistica applicata e sociolinguistica

2. Diritto del parlante

Ogni parlante, per legge, ha diritto di utilizzare la lingua che


preferisce. Parleremo, quindi, di personalità e territorialità
del diritto linguistico.

personalità – Si tratta della possibilità teorica di un cittadino


di utilizzare la propria lingua sul territorio dello Stato.

territorialità – Si tratta invece della delimitazione territoriale


del criterio sopra descritto. È quindi diversa e variabile a seconda
dell’area geografica di riferimento. Questo è il regime giuridico
attualmente più diffuso, poiché si tratta del caso più semplice: Uno
Stato = Una lingua.

Abbiamo finora parlato genericamente di minoranze linguisti-


che. Vediamo ora la distinzione tra lingua minoritaria e lingua in
situazione di minoranza:

lingua minoritaria: può trattarsi anche di una lingua molto


diffusa in uno Stato. Pensiamo al francese in Canada o al tedesco
in Italia;

lingua in situazione di minoranza: in questo caso, invece,


il prestigio sociale e lo stato giuridico di quella che viene definita
lingua in situazione di minoranza risultano più bassi rispetto alla
lingua dominante. Un esempio può essere il greco di Puglia in Italia.

199
APPENDICE

CURIOSITÀ

A – 1 Le parole straniere entrate nel dialetto napoletano nel corso


dei secoli

Ben note sono le innumerevoli dominazioni subite dal territorio


napoletano e altrettanto nota è l’innata capacità di integrazione che
tale popolo vanta. Nel corso dei secoli un numero considerevole
di parole straniere è entrato nel dialetto napoletano, dal francese
boîte (scatola) < buatta, all’ arabo misar < mesale, ecc. Vediamone, di
seguito, qualche esempio.

Un interessante articolo apparso di recente online su Storie di


Napoli1 riporta un elenco di parole entrate nel dialetto napoletano
dalla lingua araba. Vediamone qualche esempio:

Carcioffola: significa carciofo e deriva dall’arabo harsuf;


Guallera: viene dall’arabo wadara, termine utilizzato per indicare
l’ernia scrotale; ernia che, rallentando la camminata provocava un
discreto fastidio, da cui anche il senso figurato del termine;

1
http://www.storienapoli.it/2018/10/28/guallera-tamarro-lingua-araba

201
teresa agovino

Mesale: Misar è per gli arabi la tovaglia (per alcuni però la parola
deriverebbe dal latino mensa);
Paposcia: bābū è in arabo una pantofola senza lacci. In dialetto
tale parola indica appunto la pantofola oppure un appesantimento
del morale;
Tamarro: al-tāmmar è un termine arabo utilizzato per indicare il
mercante di datteri. Tale tipologia di mercanti era spesso indicata
come poco curata e sciatta nell’abbigliamento, Inoltre, il venditore
di datteri era solito alzare la voce e gridare per attirare clientela.
Da qui da qui il termine napoletano atto ad indicare uno zotico;
Tavuto: Deriva dall’arabo tabu’t (bara); si noti anche che dallo
stesso termine arabo deriva anche lo spagnolo ataùd, con lo stesso
significato di bara. Si veda qui però che anche in greco, il verbo
thapto indica il gesto del seppellire; anche questa etimologia resta
quindi alquanto incerta.
Vaiassa: il vocabolo è già attestato al xvii secolo, quando Giulio
Cesare Cortese scrive La Vaiasseide, poema eroicomico dialettale
(1604). Questo termine deriva dall’arabo bargash (= serva).

Dal tedesco2 pare derivi invece l’esclamazione Azzo! mutuata


dal termine germanico Ach, so! che, come l’equivalente napoletano,
indica meraviglia o sbigottimento.

Nelle due tabelle sottostanti si possono invece individuare le


derivazioni di termini dialettali napoletani dallo spagnolo (ca-
stigliano) e dal greco antico3:

ITALIANO NAPOLETANO CASTIGLIANO


ACCORGERSI ADDONARSI ADONARSE

2
https://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/43565-dove-deriva-lespressione-
napoletana-azz
3
Le parole sono riportate in caratteri latini.

202
appendice

FAZZOLETTO MACCATURE MOCADOR


SBAGLIARE SGARRERA ESGUERRAR
IERI AJER’ AJER
FUCILE SCUPPETTA ESCOPETA
FARE
AMMUINA’ AMOHINAR
CONFUSIONE
AVERE TENERE TENER
CINGHIA CURREA CORREA
FARSI MALE STRUPPIARSI ESTROPEAR

ITALIANO NAPOLETANO GRECO ANTICO


TOVAGLIA MESALE MISALION
PAS (= TUTTO) +
SCHIAFFO PACCARO
CHEIR ( = MANO)
GIOCARE PAZZIARE PAIZEIN
PREZZEMOLO PETRUSINO PETROSELINON
BOTTEGA PUTECA APOTHEKE

A – 1.1 La tammurriata nera

Un’ultima curiosità, infine, riguarda la famosa canzone napole-


tana Tammurriata Nera, o meglio, la sua ultima strofa nella versione
della Nuova Compagnia di Canto Popolare.4
Come è noto, la canzone venne composta nel 1944 da E.A Mario
(musica) e E. Nicolardi (testo) ed era dedicata alle donne napoletane

4
Nuova Compagnia di Canto Popolare, Tammurriata nera, 1974.

203
teresa agovino

che partorirono figli di colore dopo lo sbarco alleato alla fine della
II Guerra Mondiale.
Ebbene, una strofa finale della canzone trascritta parola per
parola, apparentemente non ha senso alcuno, poiché recita:

E levate ‘a pistuldà uè
e levate ‘a pistuldà,
e pisti pakin mama
e levate ‘a pistuldà,

Così come accade anche in una strofa successiva:

oh, drinking beer in a cabaret


was I having fun
until one night she caught me right
and now I’m on the run.

Si tratta semplicemente della napoletanizzazione del ritornello


e del primo verso della canzone Pistol Packin’ Mama di Al Dexter
(hit delle classifiche USA nel 1943, un anno esatto prima della
composizione della Tammurriata nera).
La canzone era probabilmente molto popolare tra i soldati ame-
ricani, giunti a Napoli proprio in quel periodo. Il testo originale
inglese recitava infatti:

Lay that pistol down,


babe, Lay that pistol down
Pistol packin’ mama,
Lay that pistol down.

Risulta molto curiosa la napoletanizzazzione in particolare del


primo verso (Lay that pistol down < Levate ‘a pistuldà), nata certa-
mente da un problema di mancata comprensione della lingua in cui
la canzone veniva cantata; uno dei più immediati e realistici esempi
di integrazione nella Napoli postbellica!

204
appendice

A – 2 Curiosita’ nella lingua italiana: etimologia popolare, ipoco-


ristico, enantiosemia.

Tra le curiosità degne di nota nella lingua italiana in partico-


lare vanno segnalate: l’etimologia popolare, l’ipocoristico e
l’enantiosemia.

etimologia popolare – Si tratta della formazione o deduzione


sull’origine delle parole non scientifica, ma fatta “a orecchio” dai
parlanti.
In questi casi troviamo delle forme che sono errate e nonostante
ciò entrate regolarmente nell’italiano. Un esempio:

uscire non deriva da exire ma da exire + uscio (porta)

I parlanti, cioè, hanno combinato le due parole, vicine a livello


di significato e di suono dando vita ad una forma scorretta ma
che ha comunque preso regolarmente piede nella nostra lingua. Se
uscire avesse seguito le normali regole di derivazione fonetica, oggi
diremmo *escire < exire; non uscire.

ipocoristico – Si tratta della modifica dei nomi di persona.


Non segue una regola fissa ma esistono, piuttosto, diverse tendenze.
Vediamole:

– aferesi: (caduta di sillabe protoniche): Nicola > Cola

– raddoppiamento del linguaggio infantile con base


sull’ ultima consonante: Giuseppe > Peppe

– raddoppiamento del linguaggio infantile con base su


altra consonante: Domenico > Mimmo; Memé

– caduta dell’elemento finale: Giovanni > Giovà

205
teresa agovino

– contrazione per caduta di consonanti interne: Gio-


vanni > Gianni

enantiosemia – Si chiama enantiosemia quella variante della


polisemia (= più significati) per cui una parola possiede un signifi-
cato, ma anche un secondo significato opposto a quello etimologico
di partenza 5. L’enantiosemia viene introdotta come concetto nel
Seicento da Edward Pocock (1604-1691) e non riguarda solo la
lingua italiana, esiste in molte altre lingue nel mondo. L’enantiose-
mia può essere causa di confusione per chi impara l’italiano come
seconda lingua. Vediamone qualche esempio:

affittare = dare in affitto / prendere in affitto;

noleggiare = dare a noleggio / prendere a noleggio;

cacciare = inseguire / allontanare;

confessare = ascoltare una confessione in chiesa / fare una


confessione;

curioso = chi prova curiosità / chi suscita curiosità;

ospite = colui che ospita / colui che viene ospitato;

pauroso = che ha paura / che incute paura;

sbarrare = chiudere / aprire;

tirare = lanciare lontano da sé / attrarre a sé.

5
Un buon esempio di Enantiosemia si trova nell’articolo di Filomena Fuduli
Sorrentino, Enantiosemia, la “malattia linguistica” dell’italiano che confonde chi
lo studia, in «La voce di New York», 8 Aprile 2019.

206
Bibliografia parziale

Palermo, M., Linguistica italiana, Il Mulino, Bologna, 2020.


Migliorini, B., Storia della lingua italiana, Bompiani, Milano,
2016.
Sabatini, F., Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’I-
talia mediana e meridionale, a cura di M. Rotili, estratto da
Aristocrazie e società fra transizione romano-germanica e alto me-
dioevo, Atti del convegno internazionale di studi Cimitile – S.
Maria Capua Vetere, 14 – 15 giugno 2012, Tavolario Edizioni,
San Vitaliano, 2015.
Dell’Aquila, V., Iannàccaro, G., La pianificazione linguistica.
Lingue, società e istituzioni, Carocci, Roma, 2011.
Rossini Favretti, R., Un´introduzione alla linguistica applicata,
Patron, Bologna, 2009.
Patota, G., Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano, Il
Mulino, Bologna, 2007.
Graffi, G., Scalise, S., Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla
linguistica, Il Mulino, Bologna, 2003.
Berruto, G., Fondamenti di sociolinguistica, Roma-Bari, Laterza,
2003.
Aa.Vv., I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, a cura di M. Corte-
lazzo, C. Marcato, N. De Blasi. G. P. Clivio, Utet, Torino, 2002.

207
teresa agovino

Marazzini, C., La lingua italiana. Profilo storico, Il Mulino, Bo-


logna, 2002.
Serianni, L., Italiano parola del mondo, AGI, Agenzia Giornalistica
Italia, realizzato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri,
regia di Corrado Farina, 1994, min. 35.50; reperibile su Youtube
al canale Italiana lingua e cultura.
Cortelazzo, M., Avviamento critico allo studio della dialettologia
italiana, Pacini Editore, Pisa, 1969.

208
Ringraziamenti

Alla fine di un anno per me particolarmente complesso, sento


di dovere un immenso Grazie (in ordine rigorosamente alfabetico)
a Pierantonio Frare, Pasquale Marzano, Giorgio Patrizi,
Massimiliano Tortora, Gianni Vitale. Se non mi avessero
supportata (e sopportata!) finora, ognuno a suo tempo e modo, ad
oggi questo volume non avrebbe nemmeno motivo di esistere.
Uno speciale ringraziamento a parte va invece alla direttrice della
SSML di Benevento, Oriana Palusci, per i preziosi consigli da
lei ricevuti durante la stesura di questo volume e a Carlotta Di
Cerbo, per la splendida immagine di copertina.
Il presente volume nasce da una mera esigenza didattica. Quando un’i- Teresa Agovino

Edizioni Sinestesie
talianista si trova ad affrontare la linguistica italiana deve fare i conti
con la molteplicità di manuali a disposizione e la vastissima antologia
da presentare agli studenti. Questo testo è dunque un umile supporto ELEMENTI DI LINGUISTICA ITALIANA
didattico, concepito per allievi al primo anno del corso di laurea trien-
nale in SSML (spesso privi di competenze in ambito storico, linguistico, Per il Corso di Laurea SSML
umanistico) che li aiuti a districarsi all’interno di una materia completa-
mente nuova. Per venire incontro agli interessi degli studenti di Media-
zione Linguistica, inoltre, il testo “sconfina” in ambiti distinti (seppur

ELEMENTI DI LINGUISTICA ITALIANA


non estranei) dalla linguistica italiana come la linguistica applicata, ge-
nerale e la sociolinguistica. Il volume, così come il corso che supporta,
lungi dal rappresentare un manuale, cerca invece di fare il punto sulle
più importanti teorie raccolte all’interno dei veri e propri manuali di
linguistica italiana e grammatica storica, che riporta in bibliografia (tut-
ti regolarmente inseriti nel programma d’esame).

Teresa Agovino (1987) è dottore di ricerca in Letterature Romanze dal 2016; si è


addottorata presso l’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’ con una tesi sul
romanzo storico del Novecento. Ha pubblicato numerosi articoli inerenti la prosa
italiana del tardo Novecento e i primi anni Duemila. Attualmente insegna Lingua
e Linguistica Italiana presso la SSML (Scuola Superiore per Mediatori Linguistici
Internazionale) di Benevento ed è Professore Straordinario a t.d. di Glottologia e lin-
guistica presso l’Universitas Mercatorum di Roma. Ha pubblicato con l’editore Sine-
stesie (2017) il volume Dopo Manzoni. Testo e paratesto nel romanzo storico del Novecento.

TERESA AGOVINO

Biblioteca di Sinestesie
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In copertina: Pillole di saggezza
Progetto grafico di Carlotta di Cerbo e Adriano Taglialatela

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