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Cecilia Andorno
“Che cos’è la pragmatica linguistica”
INTRODUZIONE
La pragmatica fra linguistica e filosofia.
Nell’etimologia della parola “pragmatica” si riconosce la radice greca pragma, che
significa “azione”. La pragmatica ha dunque come oggetto di studio l’agire umano; nel
caso della pragmatica linguistica, evidentemente, l’oggetto di studio è l’agire
linguistico, o anche la lingua osservata dal punto di vista delle sue modalità d’uso.
Che cosa si fa quando si parla e quando si ascolta? Questa è la domanda alla base della
pragmatica linguistica.
Date le sue origini in ambito filosofico prima che strettamente linguistico, per la
pragmatica linguistica è particolarmente viva una duplice necessità: l’esigenza di
delimitare un preciso ambito di analisi rispetto alle altre discipline linguistiche; la
ricerca di una specificità rispetto agli altri orientamenti non linguistici della pragmatica.
Prima di proporre una definizione di pragmatica, è opportuno sottolineare che esistono
diverse posizioni sulla natura dell’oggetto di cui tale disciplina si occupa e sul posto
che essa dovrebbe avere nell’ambito degli studi linguistici:
- secondo Geoffrey Leech (1983) la pragmatica, in quanto disciplina che si occupa
del modo in cui i parlanti attribuiscono significato alle espressioni linguistiche,
andrebbe ricondotta all’alveo della semantica;
- secondo Charles Morris (1938) esisterebbe nell’espressione linguistica dei parlanti
un livello pragmatico (come esiste un livello morfosintattico, un livello semantico,
ecc.) preposto al controllo delle relazioni che si innescano fra il codice linguistico e
i suoi utenti al momento in cui esso è impiegato in una situazione comunicativa
(posizione complementarista);
- secondo Ludwig Wittgenstein (1953) non è appropriato pensare alla pragmatica
come a un livello linguistico separato, ma piuttosto come a una competenza dell’uso
linguistico che riguarda ogni livello. Ogni livello può in questo senso essere
studiato in prospettiva pragmatica (posizione pragmaticista).
potenzialmente più significati, discriminando quale dei significati sia stato selezionato
per quel contesto.
L’uso di un’espressione può però essere fattualmente ambiguo, quando ne sono
possibili due letture contestualmente valide. L’ambiguità può essere a livello lessicale,
come per:
- Il cavallo in seconda corsia ha saltato l’ostacolo
“saltare” può voler dire tanto “superare” quanto “evitare” un ostacolo.
L’ambiguità può essere a livello sintattico:
- Si avvisa che su questo treno è consentito fumare solo nelle carrozze riservate ai
fumatori numero 1 di prima classe e numero 11 di seconda classe.
In cui la numerazione potrebbe riferirsi tanto alle vetture quanto ai passeggeri.
L’ambiguità si può risolvere grazie alla comprensione della situazione o di conoscenze
condivise più generali. Normalmente l’ambiguità è dovuta alla mancanza di indizi
contestuali sufficienti a scioglierla.
Infine, il contesto ha un ruolo nel determinare il significato degli enunciati poiché
specifica la vaghezza delle espressioni linguistiche, ossia le espressioni linguistiche
solitamente non sono pienamente specificate riguardo al loro significato e lasciano
spazio ad arricchimenti prodotti dal contesto. Ad esempio, gli aggettivi possessivi
esprimono in modo vago una relazione con la persona, ed è il contesto a specificare la
natura di questa relazione.
In ultimo, un’espressione in un enunciato può essere indeterminata, ossi richiede il
ricorso al contesto per la comprensione del suo riferimento o estensione, ovvero della
realtà extralinguistica cui rimanda (a che cosa si riferisce).
A) I DESCRITTORI
Un primo gruppo è quello dei nomi comuni e dei sintagmi nominali che fanno
riferimento a classi di oggetti accomunati per qualche proprietà, i quali, proprio in virtù
di queste proprietà sono racchiusi in quella classe. Questi sono detti DESCRITTORI,
perché attraverso il loro uso il parlante implicitamente riconosce all’oggetto evocato le
proprietà della classe. L’uso dei descrittori è vincolato a conoscenze semantiche e
pragmatiche di vario tipo. Per poterli usare in modo appropriato, un parlante deve
infatti:
- conoscere l’intensione, o significato intensionale, del descrittore (l’insieme dei
tratti semantici che lo definiscono): per poter definire “topo” un referente della
realtà, un parlante deve cioè conoscere l’insieme dei tratti semantici propri del
termine topo (ad esempio “animale”, “roditore”, ecc.);
- sapere se il referente che intende nominare attraverso un descrittore può far parte
dell’estensione del descrittore stesso (dell’insieme degli individui cui esso può
riferirsi);
Dal punto di vista dell’ascoltatore, per interpretare un descrittore, è necessario:
- conoscere il significato intensionale del termine;
- attivare o identificare nell’insieme dei referenti testuali presenti nel modello di
discorso una possibile estensione valida per l’espressione;
B) I NOMI PROPRI
Un secondo gruppo di espressioni referenziali è quello dei nomi propri, i quali
evocano direttamente uno specifico oggetto o individuo. Per poter usare un nome
proprio per designare un referente un parlante deve semplicemente sapere che quello è
il suo nome; reciprocamente, perché il ricevente di un messaggio identifichi il referente
di un nome proprio, deve sapere che quel nome è stato attribuito a quel referente.
Questa conoscenza si ottiene per esperienza diretta o indiretta del legame fra referente e
nome. Il legame fra referente e nome è massimamente arbitrario. I nomi propri dunque
non hanno significato intensionale, ma solo estensione: il loro significato coincide
semplicemente con il referente cui fanno riferimento. In questo senso i nomi propri
“non significano niente”.
C) GLI INDICALI
Un ultimo gruppo è costituito dagli INDICI o ESPRESSIONI INDICALI. La
peculiarità è: non è possibile attribuire un significato all’espressione “ciò” se non si
conosce il contesto in cui tale espressione è stata usata. Per identificare il referente di
un’espressione indicale un parlante non può ricorrere né a conoscenze intensionali, né a
conoscenze estensionali: il significato infatti non rimanda a caratteristiche del referente,
ma a caratteristiche del suo status e della sua collocazione nel modello di discorso in
atto. Ad esempio “ciò” significa “qualcosa che è stato appena nominato”. Gli indicali
dunque non denotano il referente cui rimandano ma danno informazioni su:
- il tipo detonato (caratteristiche del referente);
- l’elemento/i contestuali rispetto a cui si origina la relazione e il tipo di relazione fra
tale elemento e il referente indicato.
La necessità di ricorrere al contesto per una piena comprensione del riferimento di
un’espressione non è una prerogativa delle espressioni indicali.
Ciò che distingue le espressioni indicali dalle espressioni simboliche è il fatto che nelle
prime le modalità secondo cui ricorrere al contesto per l’interpretazione del riferimento
sono codificate nell’espressione stessa, anzi ne costituiscono il significato intrinseco: il
significato degli indicali è descrivibile in termini relazionali; è una sorta di “insieme di
istruzioni” che segnalano in che modo va cercato nel contesto il loro riferimento.
COMPETENZA LESSICALE
Abbiamo detto dunque che per poter attribuire un termine generale ad un oggetto o una
classe di oggetti, il parlante si serve di due livelli di conoscenza: un livello relativo al
significato intensionale del termine (ovvero all’insieme dei tratti semantici che lo
definiscono) e uno relativo al significato estensionale del termine (cioè all’inseme degli
individui cui il termine può riferirsi).
La nozione di tratto semantico è stata ideata nell’ambito della semantica strutturale, sul
modello della classificazione per tratti della fonetica, per isolare le diverse componenti
del significato intensionale di un termine: la parola “scapolo” è ad esempio composta
dai tratti semantici (+ uomo) e (- sposato). Parlanti diversi possono avere competenze
diverse riguardo all’insieme dei tratti semantici che definiscono il significato di un
termine. D’altronde anche l’estensione di un termine può non essere stabile nella
competenza di una comunità di parlanti. Ciò può dipendere da una diversa competenza
sull’insieme dei tratti intensionali: ad esempio, quelli che costituiscono il significato di
“insetto” saranno diversi per un entomologo e per un parlante comune. Altre difficoltà
vengono dal fatto che le due conoscenze possono non procedere congiuntamente. Per
ovviare a tali difficoltà sono state proposte descrizioni della competenza dei parlanti
rivolte all’aspetto estensionale: il significato del nome sarebbe l’insieme dei referenti
cui esso si applica.
ACCESSIBILITÀ
La scelta delle espressioni referenziali può essere funzionale a segnalare il grado di
accessibilità di un referente, ovvero quando esso è identificabile in modo univoco per i
parlanti e quanto è presente all’attenzione dei parlanti in un dato momento. Con
identificabilità di un referente si intende la possibilità di identificabile in modo
univoco. Ad esempio “scarpe”:
- ho preso le scarpe blu (quelle che conosci anche tu: identificabile)
- ho preso delle scarpe blu (che non saprei/non voglio identificare più precisamente:
non identificabile specifico)
- prendi delle scarpe blu (qualsiasi: non identificabile non specifico) Con
attivazione di un referente si intende in fatto che esso sia o meno presente
all’attenzione dei parlanti in un dato momento del discorso:
- ho comprato delle scarpe nuove (non accessibile, non presente nella memoria
dell’ascoltatore)
- ho comprato quelle scarpe che avevo visto in vetrina, ti ricordi? (presente alla
memoria dell’ascoltatore ma non attivo nel modello di discorso) - le ho comprate
stamattina (attivo nel modello di discorso)
* la situazione:
A – “mi passi la borraccia?
B – “lui (cenno del mento verso un terzo escursionista C) non ce l’ ha?
Il referente “borraccia” è reso attivo dalla situazione di riferimento “gita”, che prevede
per ogni escursionista un equipaggiamento completo di borraccia; il referente “lui” è
intrinsecamente accessibile perché presente nel contesto e reso attivo dal cenno del
mento;
* il modello del discorso in atto:
L’arrestato per le stragi di Madrid: le ho preparate in due mesi.”
Il referente “arrestato per le stragi di Madrid” è reso identificabile dall’uso di un
descrittore che fornisce tutti gli elementi utili all’identificazione del referente; è reso
accessibile e attivo nel modello di discorso dalla sua menzione nella frase
immediatamente precedente.
Le lingue possiedono mezzi espressivi dedicati a segnalare il movimento referenziale,
ovvero il mutamento del grado di accessibilità dei referenti nel modello di discorso.
Referenti al massimo grado identificabili e attivi sono segnalati attraverso espressioni
indicali o attraverso l’ellissi.
I descrittori sono usati invece per referenti con più basso grado di accessibilità; anche
l’alternanza fra specificatori ha una funzione analoga. Attraverso la segnalazione del
grado di accessibilità dei referenti il parlante indica all’interprete “dove cercare” il
referente menzionato fra le conoscenze possedute e proprie del modello di discorso.
TRATTI CONNOTATIVI
Le espressioni referenziali possono segnalare il rapporto fra il parlante e il referente, in
modo analogo all’uso delle formule allocutive, che evidenziano il rapporto fra parlante
ed interlocutore. Attraverso la scelta di un descrittore un parlante sceglie quali tratti
connotativi del referente attivare. Il parlante può segnalare il rapporto che lo lega al
referente anche attraverso il sistema degli indicali.
MOSSE COMUNICATIVE
Il modo di usare le espressioni referenziali in un dialogo può essere funzionale a
segnalare mosse comunicative particolari durante il discorso. La ripetizione di
un’espressione referenziale appena menzionata sembra ad esempio essere un segnale
che si sta controllando di aver ben identificato un referente o che si sta accettando un
topic discorsivo.
2.1. DEISSI
Si definisce con deissi (dal greco ‘indicazione’) il fenomeno per cui il riferimento di
alcune espressioni linguistiche indicali è vincolato alle coordinate della situazione in
cui avviene l’evento comunicativo.
Gli elementi indicali deittici funzionano come segnali indicatori di orientamento
rispetto agli elementi presenti nella situazione comunicativa; il loro riferimento è
individuabile solo a partire da tale situazione.
Non si può capire a chi si riferiscono i pronomi “io” e tu” o la direzione indicata dagli
avverbi “qui e “qua” senza conoscere la situazione in cui si sta svolgendo un dato
evento comunicativo.
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Ciò è dovuto alla vaghezza del significato dell’espressione “era chiuso”. Tuttavia se
avessimo detto:
Il negozio era già chiuso probabilmente chi ascolta avrebbe ritenuto più
valida l’inferenza c). Con questo, non s’intende dire che “già” significa c) “La
parola x produce l’inferenza y” non equivale a dire che “la parola x significa y”.
2 Ho smesso di fumare
In risposta alla domanda “Come va?”, produrrà nell’interlocutore inferenze diverse,
anche opposte, come:
a) Sto benone
b) Sto malissimo.
Un tono di voce o un’espressione facciale dimessi o ironici potrebbe far propendere per
l’inferenza b) e viceversa. Anche informazioni sul parlante sarebbero d’aiuto. Infine, ci
orientano nella produzione di inferenze le nostre conoscenze generali sul
funzionamento del mondo e le nostre aspettative sul comportamento delle persone.
3 Il menu turistico comprende primo, secondo, frutta o dolce
Questa frase produrrà come inferenza l’informazione:
Se prendo il menu turistico devo scegliere tra frutta e dolce; posso rifiutare
entrambi, ma non posso avere tutt’e due.
4 La cravatta è nel primo o nel secondo cassetto
Questa frase produrrà come inferenza l’informazione:
E’ possibile sia che la cravatta sia nel primo cassetto sia che sia nel secondo;
non può essere in entrambi i posti e probabilmente non può nemmeno essere in
nessuno dei due.
Queste inferenze scaturiscono entrambe dal significato della congiunzione “o”, ma,
mentre nell’es. 3 riguarda anche da conoscenze specifiche legate ai menu turistici,
nell’es. 4 l’inferenza è dovuta ad una conoscenza sulla natura delle cravatte (per cui
esse non possono ovviamente essere obique) e da alcune aspettative sul comportamento
delle persone (ci aspettiamo che la signora sappia che la cravatta è in uno dei due
posti, perché altrimenti avrebbe risposto in altro modo). In base a tali aspettative,
potrebbe scaturire anche un’altra inferenza: “Lei non sa in quale dei due cassetti è la
cravatta”.
5.3. CONSEGUENZE
Alcune inferenze sono trattate come ipotesi, supposizioni in attesa di essere verificate;
altre inferenze invece scaturiscono necessariamente da un enunciato, sono cioè non
cancellabili: chiamiamo queste inferenze obbligatorie, necessarie, conseguenze.
5 Gianni ha presentato la domanda in ritardo
Questa frase produrrà come inferenza l’informazione:
Gianni non potrà partecipare al concorso.
Quest’inferenza scaturisce dalle conoscenze dell’interlocutore sulle regole del mondo in
cui viviamo, in particolare sul funzionamento dei concorsi.
Molto studiate sono le conseguenze che si producono a partire da alcune costruzioni
sintattiche, ad esempio dalla subordinazione. l’uso di alcuni verbi produce come
conseguenza la validità (verbi fattivi) o non validità (verbi controfattivi) della frase
dipendente del verbo.
a) Messner ha avuto intenzione di salire sul Lotse
6 b) Messner è riuscito a salire sul Lotse
c) Messner ha rinunciato a salire sul Lotse
Chi ascolta ne trarrebbe certamente ipotesi diverse sulla validità del fatto:
d) Messner è salito sul Lotse.
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Fra le presupposizioni più studiate ci sono quelle relative all’esistenza dei referenti
menzionati negli enunciati. In generale, si può osservare come il fatto che l’esistenza di
un referente menzionato sia data per presupposta o invece passibile di smentita dipenda
da vari fattori:
un referente definito è dato più facilmente per presupposto di un indefinito:
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Come sappiamo, l’uso delle lingue verbali non è l’unica forma ci comunicazione a
disposizione degli esseri umani; si possono usare gesti, azioni, versi: quel che
accomuna queste diverse forme di comunicazione non è la convenzionalità del codice
usato, ma l’intenzionalità del comportamento del comunicatore.
Alla base della comunicazione, nella prospettiva di Grice, non c’è dunque la
convenzionalità (il significato delle parole), ma l’intenzionalità, cioè la capacità dei
parlanti di esibire le proprie intenzioni comunicative e riconoscere quelle altrui
attraverso mezzi diversi (come il linguaggio verbale appunto).
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L’intero sistema di scelta delle espressioni referenziali può essere letto come
un’applicazione congiunta della massima della quantità e del modo: ci si aspetta che
ogni parlante dia il massimo dell’informazione richiesta nel modo più efficace.
Implicature conversazionali
Le aspettative dei parlanti riguardo il rispetto delle massime influisce sulle scelte
espressive e sul processo interpretativo. Le implicazioni conversazionali sono delle
inferenze che scaturiscono da queste quattro massime: non scaturiscono quindi dal
significato convenzionale delle espressioni linguistiche, bensì dal comportamento
comunicativo e dalle aspettative che si creano su di esso. Queste implicature sono
cancellabili, smentibili o non attivabili se il contesto porta ad una diversa
interpretazione del comportamento del parlante.
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LA CONVERSAZIONE COME AGIRE SOCIALE:
ROUTINE E RITUALI
7.1 Analisi della conversazione
Sappiamo che spesso ci accade di fare domande di cui non ci interessa conoscere la
risposta (violando così una condizione di felicità degli atti di domanda) o di cui magari
conosciamo già la risposta (e in questo caso violiamo una seconda condizione di
felicità): ad esempio quando ci facciamo raccontare per l’ennesima volta un aneddoto
da un amico solo perché sappiamo che gli fa piacere farlo; oppure quando poniamo una
domanda imbarazzante ad una persona antipatica, anche se sappiamo già la risposta, per
il gusto di metterla in difficoltà. In queste situazioni noi simuliamo: facciamo finta di
desiderare di sapere una cosa e di non saperla ancora. Questo comportamento può avere
diverse motivazioni, che non riguardano l’acquisire informazioni, ma ad esempio per
riempire un momento in cui la conversazione langue (e sappiamo infatti che il non far
languire le conversazioni è un comportamento socialmente molto apprezzato); in altri
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casi il fatto di fare una domanda può far sentire l’interlocutore importante, apprezzato,
considerato, oppure metterlo in imbarazzo o in difficoltà.
Tutti questi esempi ci mostrano che esistono regole volte a fare in modo che lo scambio
abbia successo non solo dal punto di vista strumentale ma, in senso più ampio, nella
salvaguardia delle relazioni fra i partecipanti. Di questo insieme di regole, in parte
universali e in parte culturalmente determinate, seguendo il filone di studi detto
dell’analisi della conversazione, ci occupiamo delle regole che servono alla gestione
degli scambi comunicativi. Promotori di questi studi sono i lavori di Sacks, Schlegoff,
Jefferson e Pomerantz.
Gli studi di analisi della conversazione, rispetto ad altri filoni di studi come la teoria
degli atti linguistici, adottano un punto di vista e un metodo di analisi più empirici,
rigorosamente legati all’osservazione della struttura di scambi comunicativi reali e alla
loro interpretazione secondo categorie. L’intento dichiarato è quello di individuare le
regole che i parlanti stessi mostrano di riconoscere e osservare, con il proprio
comportamento, negli scambi comunicativi.
7.1.1 Turni
Uno dei primi problemi che ci si è posti è la necessità di individuare delle unità di
analisi. L’unità di analisi di base è stata individuata nel turno, con cui si intende la
sequenza di parole che ogni partecipante produce in modo continuativo prima che
intervenga un altro. Quando un nuovo partecipante interviene inizia un nuovo turno.
L’alternanza dei turni fra i partecipanti aall’interazione non è sempre regolata in modo
da evitare il fenomeno della sovrapposizione, cioè il fatto che più soggetti parlino
contemporaneamente. La sovrapposizione, anzi, si verifica con una certa frequenza e
svolge funzioni comunicative diverse a seconda delle modalità secondo cui si verifica.
A inizio turno si possono verificare partenze simultanee quando due parlanti si
selezionano insiemeper il turno e iniziano perciò contemporaneamente a parlare; in
questo caso si verifica un conflitto nell’assegnazione del turno, fino a che uno smette di
parlare e lascia il turno all’altro.
Si parla di interruzione invece quando un partecipante alla conversazione inizia a
parlare durante il turno di un altro e, dopo una fase conflittuale per l’ottenimento del
turno di parola, se ne appropria.
Tuttavia non tutte le sovrapposizioni danno luogo a situazioni conflittuali (osserviamo
che con conflitto non intendiamo il fatto che ci sia un’effettiva contrapposizione di
intenti: interruzioni e partenze simultanee possono dar luogo a conflitti semplicemente
nel senso che si verifica un difetto nella conversazione, non per forza intenzionale da
parte dei parlanti). Alcune forme di sovrapposizione svolgono piuttosto funzione di
segnali di feedback rivolta dall’ascoltatore al parlante, che servono a segnalargli che si
sta seguendo, approvando o capendo il discorso che sta facendo, o anche per fornire
materiale utile alla comunicazione in corso.
Data la necessità di tener conto del fenomeno delle sovrapposizioni, si può
descrivere più precisamente il turno come la sequenza di parole prodotte da un
parlante fra il momento in cui questi inizia a parlare da solo e il momento in cui lo
fa un nuovo interlocutore.
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