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Berruto, Cerruti – La linguistica

Il linguaggio verbale

Linguistica: ramo delle scienze umane che studia la lingua; si divide in linguistica generale e
linguistica storica. Oggetto di studio della linguistica generale sono le lingue storico-naturali,
espressione del linguaggio verbale umano, facoltà innata dell’homo sapiens ed utilizzata per
comunicare.

Comunicazione: trasmissione di informazioni in senso lato e, in senso più ristretto, trasmissione


intenzionale di informazione. A seconda del grado di intenzionalità di emittente e ricevente, si può
avere: a. comunicazione in senso stretto (emittente e ricevente intenzionali); b. passaggio di
informazione (emittente non intenzionale e ricevente intenzionale); c. formulazione di inferenze
(emittente e ricevente non intenzionali).

Segno: unità fondamentale della comunicazione. Classificazione dei segni: 1. Indici (motivati
naturalmente/non intenzionali, ad es. starnuto); 2. Segnali (motivati naturalmente/usati
intenzionalmente, ad es. sbadiglio); 3. Icone (motivati analogicamente e intenzionali, ad es. carte
geografiche); 4. Simboli (motivati culturalmente e intenzionali, ad es. colore nero per lutto); 5.
Segni in senso stretto (non motivati e intenzionali, ad es. messaggi linguistici). Da 1 a 5, la
motivazione che lega qualcosa a qualcos’altro diventa sempre più convenzionale.

Codice: insieme di corrispondenze, fissate per convenzione, che permettono di legare qualcosa a
qualcos’altro, che fornisce le regole di interpretazione dei segni. Esemplari sono le lingue.

Proprietà delle lingue:

1. Biplanarità: compresenza, nelle lingue, di due facce, significante e significato, la prima


materialmente percepibile, la seconda immateriale e veicolata dal significante. Il codice si
può, così, definire come un insieme di corrispondenze tra significati e significanti.
2. Arbitrarietà: assenza di legami motivati naturalmente e derivabili logicamente tra
significati e significanti. Parole simili in lingue diverse non indicano concetti simili.
Hjelmslev identifica quattro tipi o livelli diversi di arbitrarietà: 1. Totalmente arbitrario il
rapporto tra segno e referente; 2. Totalmente arbitrario il rapporto tra significante e
significato; 3. Totalmente arbitrario il rapporto tra forma e sostanza del significato (ad es.,
l’italiano bosco/legno/legna a fronte del francese bois); 4. Totalmente arbitrario il rapporto
tra forma e sostanza del significante (cioè, è arbitraria la scelta del materiale fonico con cui
veicolare il messaggio). Eccezione all’arbitrarietà è la scelta delle onomatopee e degli
ideofoni, molto più vicini alle icone. Negli ultimi anni, è stato introdotto un principio di
iconismo, secondo cui la formazione del plurale avverrebbe attraverso l’aggiunta di
materiale fonico alla forma singolare, il che ridurrebbe il carattere arbitrario del segno
linguistico. Allo stesso modo, il fonosimbolismo vorrebbe vedere una certa motivazione tra
significante e significato. Queste eccezioni, però, non sono tali da ridurre l’arbitrarietà delle
lingue. Il rapporto tra arbitrarietà e motivazione ha assunto una nuova dimensione nella
teoria linguistica di prospettiva cognitiva, che nega l’autonomia strutturale interna della
lingua, fondata iuxta propria principia e vede la sua strutturazione secondo proprietà della
mente umana e caratteristiche del modo in cui l’uomo percepisce la realtà esterna.
3. Doppia articolazione: articolazione dei segni linguistici in due livelli. Un primo livello di
scomponibilità dei segni permette di raggiungere unità minime, non ulteriormente
scomponibili, con cui formare altri segni, dette morfemi. Queste saranno scomponibili solo
ad un secondo livello, in cui non hanno, a differenza del primo, un significato, in unità
dette fonemi e componibili. È una proprietà specifica del codice linguistico e ad essa si
devono altri due principi: economicità (capacità di combinare infinite parole con un
minimo numero di unità) e combinatorietà (capacità della lingua di essere composta da
unità minime prive di significato).
4. Trasponibilità di mezzo: possibilità di trasmettere il significante sia attraverso il canale
fonico-acustico che tramite quello visivo-grafico. A causa della preferibilità del primo
canale, si parla anche di fonicità. Il parlato è la forma antropologicamente prediletta, tanto
che tutte le lingue scritte sono anche parlate, ma non è vero il contrario. C’è anche una
priorità ontogenetica del parlato, poiché l’individuo impara prima a parlare e poi a
scrivere. Infine, per priorità filogenetica, si assiste ad una comparsa della forma scritta
molto tempo dopo quella del parlato (prime scritture 3500 a.C. presso i Sumeri e prime
forme alfabetiche e cuneiformi nel XIV secolo a. C. presso i Fenici/ prime forme del
linguaggio probabilmente in homo habilis e homo erectus [2 mln anni fa] e sicuramente in
homo neanderthalensis e sapiens sapiens [100-50mila anni fa]). Vantaggi dell’orale (a fronte di
una priorità sociale dello scritto):
a. possibilità di parlare, anche superando ostacoli, purché in presenza d’aria;
b. possibilità di combinare il parlato con altre attività;
c. possibilità di localizzare la fonte del messaggio;
d. possibilità di percepire il messaggio contemporaneamente alla sua produzione;
e. esecuzione più rapida di quella scritta;
f. possibilità di trasmettere il messaggio ad un gruppo di riceventi;
g. evanescenza e possibilità di lasciare spazio ad altri messaggi;
h. energie minime per la produzione di messaggi.
5. Linearità: sviluppo e realizzazione del significante in successione nel tempo e nello spazio.
Il significante si sviluppa in una sola direzione.
6. Discretezza: connessa alla precedente, è la capacità degli elementi dei segni linguistici di
essere assoluti, di avere un confine preciso. Di conseguenza, si può intensificare il
significante con un tono diverso della sua pronuncia.
7. Onnipotenza semantica: capacità della lingua di dare espressione a qualsiasi contenuto. È
più corretto parlare di plurifunzionalità della lingua, in quanto non è dimostrabile
l’onnipotenza. Anche le funzioni sono, però, una classe aperta, che ha provato a classificare
il linguista Roman Jakobson, il quale ha identificato sei funzioni principali, spesso
compresenti all’interno di un messaggio:
a. Funzione emotiva: per esprimere le sensazioni del parlante;
b. Funzione metalinguistica: per parlare di sé stessa;
c. Funzione referenziale: per fornire informazioni sulla realtà esterna;
d. Funzione conativa: per suscitare una reazione nel ricevente;
e. Funzione fàtica: per stabilire un contatto tra i parlanti;
f. Funzione poetica: per evidenziare le potenzialità del linguaggio e i caratteri interni
del significante e del significato.
8. Riflessività: corollario della funzione metalinguistica, è la capacità della lingua di diventare
oggetto di sé stessa.
9. Produttività: connessa con la doppia articolazione e con l’onnipotenza semantica, è la
capacità di produrre continuamente messaggi mai prodotti prima e di parlare di nuove
cose o di cose inesistenti. Si parla anche di creatività regolare, cioè la capacità di utilizzare
le regole della lingua per produrre messaggi nuovi.
10. Ricorsività: capacità di applicare un processo linguistico più volte, teoricamente in maniera
illimitata (ad es., la derivazione).
11. Distanziamento: possibilità della lingua di formulare messaggi relativi a cose lontane nello
spazio e nel tempo.
12. Libertà da stimoli: i segni linguistici rimandano a e presuppongono un’elaborazione
concettuale della realtà esterna, cioè la lingua è svincolata dalla situazione immediata.
13. Trasmissibilità culturale: ogni lingua, dal punto di vista antropologico, è trasmessa per
tradizione all’interno di una comunità di parlanti, di una società e di una cultura, attraverso
insegnamento o apprendimento spontaneo. All’interno del linguaggio, c’è, però, anche una
componente innata, che crea la predisposizione a comunicare mediante una lingua e le sue
strutture portanti. L’interazione fra componente culturale e innata fa sì che abbia un ruolo
preponderante nel processo di acquisizione di una lingua, il periodo, fino agli 11-12 anni,
detto della prepubertà linguistica, in cui se un individuo non viene sottoposto all’ambiente
culturale in cui vive, si blocca lo sviluppo della lingua.
14. Complessità sintattica: i messaggi possono presentare un altro grado di elaborazione
strutturale. La trama sintattica è costituita da: l’ordine degli elementi contigue, le posizioni
lineari con cui si combinano, le relazioni strutturali di dipendenza, le incassature, la
ricorsività e discontinuità dei rapporti sintattici, la presenza di parti del messaggio che
danno informazioni sulla sua struttura sintattica (congiunzioni coordinanti e subordinanti),
la possibilità di discontinuità della struttura sintattica.
15. Equivocità: non esiste rapporto di biunivocità tra significante e significato, cioè ad un
significante possono corrispondere più significati e viceversa.

È largamente diffusa la convinzione che il linguaggio sia caratteristica precipua dell’uomo, in


quanto possiede le precondizioni anatomiche e neurofisiologiche necessarie per l’elaborazione
mentale e fisica del linguaggio verbale (volume del cervello adeguato, quantità di circonvoluzioni
della corteccia cerebrale, quantità e plasticità dei collegamenti interneuronali, TVS a due canne). Le
prime tre condizioni permettono la memorizzazione, l’elaborazione e la processazione di un
sistema complesso quale la lingua, la seconda consente la produzione fonica. Ci sono molti studi a
testimoniare l’affinità tra la lingua e i sistemi di comunicazione degli animali, ma nessuno di essi
ha il grado di complessità del codice linguistico. Esperimenti per insegnare a parlare agli animali si
sono rivelati solo delle imitazioni da parte di questi ultimi e sono, sostanzialmente, falliti. Le loro
risposte, quindi, sarebbero prive di intenzionalità. Studi recenti hanno mostrato come
nell’esecuzione di compiti verbali, come morfologia e sintassi, si attivino aree specifiche della
corteccia cerebrale, particolarmente l’area di Broca.

Si definisce lingua (a) un codice (b) che organizza un sistema di segni (c) dal significante
primariamente fonico-acustico, (d) fondamentalmente arbitrari ad ogni loro livello e (e)
doppiamente articolati, (f) capaci di esprimere ogni esperienza esprimibile, (g) posseduti come
conoscenza interiorizzata che permette di produrre infinte frasi a partire da un numero finto di
elementi.

Esistono poi tre distinzioni binarie, teorizzate da de Saussure, utilizzate come principi
fondamentali della linguistica. La prima riguarda sincronia e diacronia. Per diacronia si intende lo
studio delle lingue nella loro evoluzione storica, per sincronia, invece, uno sguardo dato alle lingue
prescindendo dal loro sviluppo storico e concentrandosi, piuttosto, sul loro aspetto in un dato
momento. L’etimologia, ad esempio, è un’operazione diacronica, mentre la spiegazione del
significato attuale di una parola è sincronica. Sincronia e diacronia sono spesso complementari.
Una seconda distinzione è quella fra sistema astratto e realizzazione concreta, che dà vita alle tre
coppie oppositive langue/parole (Saussure), sistema/uso (Hjelmslev) e competenza/esecuzione
(Chomsky). Col primo termine delle tre coppie si indica l’insieme di conoscenze mentali e regole
interiorizzate, che permettono di formulare un messaggio, con l’altro, invece, la realizzazione
concreta ed individuale del messaggio. De Saussure ha, infatti, spiegato la langue come astratta,
sociale e stabile e la parole come concreta, individuale e mutevole. Secondo Coseriu, inoltre, tra
langue e parole, si inserisce la norma, con cui le regole vengono applicate per dar vita al messaggio
concreto. Terza distinzione, anch’essa di de Saussure e gli strutturalisti, riguarda asse
paradigmatico e asse sintagmatico: ogni attuazione di un elemento del sistema di segni in una
certa posizione nel messaggio implica la scelta in un paradigma o insieme di elementi selezionabili
in quel posto. Allo stesso tempo, la scelta di un elemento implica la messa in conto degli elementi
con cui quello instaura una relazione, sia prima che dopo, rispetto alla sua posizione all’interno del
messaggio. Questi due assi, dunque, riguardano la combinazione delle strutture linguistiche e il
modo in cui vanno viste. Sono distinguibili, all’interno di una lingua, quattro diversi livelli di
analisi, stabiliti in base alle proprietà di biplanarità e doppia articolazione. Tre livelli sono relativi
al significante: fonologia e fonetica, morfologia e sintassi, relativi, rispettivamente, alla seconda e
prima articolazione. Un quarto livello è dedicato al significato: la semantica. Vi sono poi anche dei
sottolivelli, quali la grafematica, la pragmatica e la testualità.

Fonetica e fonologia

Fonetica: parte della linguistica che tratta la componente fisica della comunicazione verbale. Si
divide in articolatoria, che studia i suoni del linguaggio in base al modo di articolazione, acustica,
che si occupa della consistenza fisica dei suoni e delle modalità di trasmissione e uditiva, relativa
alla percezione dei suoni.

In fonetica articolatoria, i suoni vengono prodotti mediante un flusso d’aria egressivo (anche se ne
esistono alcuni prodotto con l’ingresso d’aria). Nella laringe, l’aria si scontra con due pieghe della
mucosa laringea, dette corde vocali, che, incontrando un flusso, possono contrarsi o restringersi,
riducendo o bloccando il passaggio d’aria. Cicli di apertura e chiusura della rima vocale danno vita
a vibrazioni e vanno sotto il nome di ‘meccanismo laringeo’. Il numero di cicli è la frequenza
fondamentale (Hz), ovvero definisce l’altezza dei suoni. Il flusso d’aria passa poi nella faringe e
nella cavità orale, incontrando l’ostacolo del velo palatino e dell’ugola oppure passando nella
cavità nasale. Ruoli fondamentali hanno, nella cavità orale, organi articolatori, come la lingua
(divisa, in dorso, radice e apice), il velo palatino, gli alveoli, i denti e le labbra. Il luogo di
articolazione è fondamentale per la classificazione e l’identificazione dei suoni. Altro parametro è il
modo di articolazione, determinato dalla conformazione degli organi fonatori e dal restringimento
delle corde vocali. Un terzo parametro è il contributo dei singoli organi all’articolazione dei suoni.
In base al modo di articolazioni, si distinguono vocali, che non incontrano ostacoli al passaggio
dell’aria e consonanti, prodotte attraverso ostacoli parziali o totali al flusso d’aria. I suoni prodotti
dalla vibrazione delle corde vocali tese sono detti ‘sonori’, quelli con le corde vocali senza
vibrazione e discoste sono detti ‘sordi’. Le vocali sono tutte sonore. A seconda della parzialità o
totalità dell’ostacolo, le consonanti si distinguono in occlusive e fricative. Diverse dalle fricative,
sono le approssimanti, in cui gli organi articolatori si avvicinano, ma senza produrre un fruscio,
come nel caso delle fricative. I suoni che cominciano come occlusivi e terminano come fricativi
vengono chiamati affricati. Si hanno poi consonanti laterali, quando l’aria passa solo ai lati della
lingua, vibranti, quando la lingua incontro un altro organo articolatorio e nasali, quando l’aria
viene lasciata passare nella cavità nasale. Un’altra distinzione è quella tra consonanti forti, le
occlusive sorde e quelle più leni, le approssimanti. Altro parametro è l’eventuale presenza di
aspirazione, che genera le aspirate. In base al luogo di articolazione, si distinguono, invece, in
(bi)labiali, prodotte dalle labbra o tra le labbra, labiodentali, prodotte fra l’arcata dentale superiore
e il labbro inferiore, le dentali, prodotte dai denti, le alveolari, prodotte dalla lingua contro o vicino
agli alveoli, le palatali, prodotte dalla lingua contro o vicino al palato duro, le velari, prodotte dalla
lingua contro o vicino il velo palatino, le uvulari, prodotte dalla lingua contro o vicino l’ugola, le
faringali, prodotte fra la radice della lingua e la parte posteriore della faringe e le glottidali,
prodotte direttamente nella glottide. Si possono anche distinguere, ulteriormente, a seconda della
parte della lingua coinvolta nella produzione di consonanti. Esistono, poi, anche le retroflesse,
generate con l’apice della lingua rivolto all’indietro. Le vocali, invece, vengono classificate in base
alla conformazione assunta dal cavo orale durante la loro pronuncia, innanzitutto in base alla
posizione di avanzamento e di innalzamento della lingua. Esistono, quindi, vocali anteriori,
posteriori e centralo e vocali alte, medio-alte, medio-basse e basse. Una prima classificazione dà
vita al trapezio vocalico. Un altro parametro per la classificazione delle vocali è la posizione delle
labbra: si hanno, perciò, vocali procheile (con le labbra arrotondate) o aprocheile, rispettivamente
posteriori e anteriori. Esistono anche, infine, vocali nasali, quando è consentito il passaggio d’aria
nella cavità nasale. Le approssimanti sono realizzate tramite una duplice fase e si dividono in
semivocali, in cui il fruscio è più marcato e semiconsonanti. A differenza delle vocali, queste non
possono costituire apice di sillaba e si legano sempre alle vocali per formare dittonghi o trittonghi.
Generalmente, i sistemi di scrittura europei tendono a rappresentare un suono con un grafema,
mentre esistono anche grafie sillabiche o ideografiche. Le grafie alfabetiche sono tutt’altro che
univoche e coerenti: non c’è rapporto biunivoco tra suoni e unità grafiche. L’ortografia italiana si
definisce ‘fonografica’ poiché riproduce in maniera abbastanza fedele i suoni nella grafia. Per
ovviare a queste incongruenze, è stato elaborato un sistema che cerca la biunivocità tra grafemi e
fonemi: si tratta dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA), promosso dalla Association Phonétique
International, a partire dal 1888.

Ogni suono producibile si chiama “fono”, realizzazione concreta di un qualunque suono del
linguaggio. Quando i foni hanno carattere distintivo, si dice che funzionano da “fonemi”. I foni
sono l’unità minima alla base della fonologia, disciplina che studia l’organizzazione e il
funzionamento dei suoni nel sistema linguistico. In trascrizione fonematica si usano le barre
oblique invece delle parentesi quadre, usate in fonetica. Mentre la fonetica tende a riportare tutti i
caratteri della pronuncia, la trascrizione fonematica riproduce solo le caratteristiche pertinenti
della realizzazione fonica, trascurando particolarità e differenze che non hanno carattere distintivo.
Per comprendere il valore distintivo di un fonema, si può applicare la prova di commutazione.
Fonema è dunque l’unità minima di seconda articolazione del sistema linguistico, ovvero una
classe astratta di foni, dotata di valore distintivo. Foni che costituiscono la diversa realizzazione di
uno stesso fonema, perciò privi di carattere distintivo, vengono detti allofoni. Una coppia di parole
identica eccetto per un fonema è detta coppia minima. I fonemi non sono quindi scomponibili in
unità più piccole, ma possono soltanto essere descritti da un fascio di proprietà articolatorie,
definite tratti, la cui combinazione può generare foni distinti. Da questi presupposti è nata la teoria
dei tratti distintivi, che consente di rappresentare tutti i fonemi in base alla presenza o assenza di
queste proprietà articolatorie. Jakobson e poi, negli anni Sessanta, Chomsky e Halle hanno
elaborato un numero chiuso di tratti distintivi. Per l’italiano, se ne individuano 14.
1) Sillabico: fonemi che possono costituire nucleo di sillaba, in italiano solo le vocali.
2) Consonantico: fonemi prodotti con un ostacolo al flusso dell’aria.
3) Sonorante: fonemi prodotti con passaggio d’aria pressoché libero (vocali, nasali, approssimanti, laterali e
vibranti)
4) Sonoro: fonemi prodotti con la vibrazione delle corde vocali.
5) Continuo: fonemi prodotti senza interruzione del flusso d’aria (fricative, vibranti, laterali)
6) Nasale: fonemi prodotti con abbassamento del velo e passaggio d’aria nel canale nasale.
7) Rilascio ritardato: fonemi prodotti in due momenti: iniziale trattenimento dell’aria e conseguente rilascio.
8) Laterale: fonemi prodotti con passaggio dell’aria ai lati della lingua.
9) Arretrato: fonemi prodotti con l’arretramento della lingua rispetto alla produzione neutra.
10) Anteriore: fonemi prodotti con una costrizione nella zona alveolare o in un luogo anteriore.
11) Coronale: fonemi prodotti con la parte anteriore della lingua sollevata.
12) Arrotondato: fonemi prodotti con le labbra arrotondate.
13) Alto: fonemi prodotti con la lingua sollevata rispetto alla posizione neutra.
14) Basso: fonemi prodotti con la lingua abbassata rispetto alla posizione neutra.

Una regola fonologica ha una forma di questo tipo: [A]B/_C (e.g. [+sibilante] [+son]/__[+cons]
[+son]). I tratti distintivi sono detti binari perché sono o presenti o assenti. Gli inventari fonematici
delle lingue sono costituiti in genere da una decina di fonemi. L’italiano standard ne conta 30, o 28
secondo alcuni, che salgono a 45 se si contano come a sé le consonanti lunghe, dallo statuto
problematico. Numerose sono anche le differenze regionali nella pronuncia. Ad esempio, la
distinzione tra vocali medio-alte e medio-basse, tipica della varietà tosco-romana, scompare in
alcune varietà regionali. Un fenomeno da menzionare è il raddoppiamento fono-sintattico, ovvero
l’allungamento della consonante iniziale di parola quando questa è preceduta da una parola che
provoca questo fenomeno. Importante, però, è anche l’aspetto fonotattico dei foni, poiché il
contesto precedente o seguente può condizionare la resa del suono. Decisivo, in questo senso, è il
fatto che i foni si combinino in sillabe, sempre costruite attorno ad una vocale, che ne costituisce il
nucleo o testa o apice e ad un numero variabile di consonanti o approssimanti. Frequenti sono le
combinazioni V, CV, VC, CCV, CVC, CCCV. Non è possibile, ad esempio, la combinazione CVCC,
esistente in inglese. Il saluto russo, poi, costituisce un esempio di sillaba CCCVCCC. Sillabe con
coda CC si possono avere in parole importate dall’inglese, come sport o in sigle ed abbreviazioni.
La parte precedente la vocale è detta attacco, quella seguente cosa. Sillabe con coda si chiamano
chiuse, altrimenti aperte. In recenti teorie fonologiche, nucleo e coda costituiscono la rima. Una
sillaba con la coda o una vocale lunga è detta pesante, in quanto la presenza della coda ne
costituisce il peso. Una combinazione di fonemi interessante è il dittongo, costituito da una vocale,
che ne è l’apice e da un’approssimante o il trittongo, formato da una vocale e due approssimanti
(V+Appr; Appr+V). A seconda della posizione dell’approssimante, si distinguono dittonghi
ascendenti e discendenti. Alcuni fenomeni fonologici riguardano l’intera catena parlata e vengono
chiamati fatti o tratti soprasegmentali o prosodici e riguardano l’aspetto melodico e l’andamento
ritmico. L’accento è la particolare forza o intensità con cui si pronuncia una sillaba rispetto alle
altre, il che permette di distinguere, in una catena sillabica, la sillaba tonica. In generale, l’accento è
ottenuto con un aumento della pressione dell’aria nel cavo orale. Mentre in italiano è intensivo, in
altre lingue può essere musicale, riguardare, cioè, l’altezza della pronuncia della sillaba. Non va
confuso con l’accento grafico, segnato per l’apertura o chiusura delle vocali, per la distinzione di
parole omofone o per le parole ossitone. La posizione dell’accento può essere libera o fissa. A volte
si parla anche di valore fonematico dell’accento, quando, in base alla sua posizione, si ha
distinzione tra parole omografe (càpitano/capitàno). La successione di sillabe toniche e atone genera
il ritmo, connesso col fenomeno della durata sillabica. L’italiano è una lingua a isocronismo
sillabico, cioè le sillabe atone hanno pari durata, mentre l’inglese è a isocronismo accentuale,
poiché la durata delle sillabe atone si riduce man mano che aumentano. Dal punto di vista
fonologico, si riconosce l’unità ritmica di base, il piede, ovvero l’associazione di una sillaba tonica
ed una atona. I fenomeni di tonalità e intonazione riguardano l’altezza musicale con cui vengono
pronunciate le sillabe. Il tono è l’altezza relativa di pronuncia di una sillaba, dato dalla velocità e
frequenza delle vibrazioni delle corde vocali. Esistono lingue tonali, in cui il tono ha valore
distintivo riguardo al significato delle parole (si parla, infatti, di tonemi). L’intonazione, invece, è
l’andamento melodico con cui un gruppo tonale o ritmico viene pronunciato, cioè una sequenza di
toni che conferisce all’emissione fonica una curva melodica. In italiano, la curva intonativa può
determinare se l’enunciato ha valore di domanda, esclamazione o enunciazione. La lunghezza
riguarda l’estensione temporale relativa con cui sono realizzati foni e sillabe. Ogni fono può essere
breve o lungo. La quantità di vocali e consonanti può avere valore distintivo. In italiano, questo è
vero per le consonanti geminate, quando realizzano un’opposizione, mentre le vocali non hanno
questa facoltà, in quanto le vocali toniche in sillaba libera sono sempre lunghe.

Morfologia

La morfologia studia le unità minime di prima articolazione, dette morfemi e il modo in cui si
combinano nella struttura della parola, definita come minima combinazione di elementi minori
dotati di significato, i morfemi appunto. Fra i criteri che identificano una parola: a) un ordine dei
morfemi rigido e fisso; b) i confini della parola corrispondono a pause nel discorso; c) separabilità
della parola nello scritto; d) pronuncia fonetica ininterrotta e con un unico accento primario
(enunciabilità in isolamento). Le parole sono composte da morfemi, che possono ripresentarsi, tali
e quali, in altre parole. Anche per i morfemi esiste una prova di commutazione che, attraverso il
confronto con parole simili, permette di individuare i morfemi che compongono la parola. Il
morfema si può anche definire come la minima associazione di significante e significato. Sinonimo
di morfema è monema, distinto dai grammatici in semantema, quando è portatore di elementi
lessicali e in morfema, se portatore di soli elementi grammaticali. Anche in morfologia si distingue
tra morfema, morfo e allomorfo. Il morfo non è altro che un morfema concreto, dal punto di vista
del significante. L’allomorfo è la variante formale di un morfema, ciascuna delle forme con cui un
morfema può presentarsi. I fenomeni di allomorfia sono causati da mutamenti avvenuti nel corso
del tempo, durante i processi di formazione delle lingue. Per parlare di allomorfia, c’è bisogno che
si verifichi una certa affinità fonetica tra i diversi morfi che realizzano lo stesso morfema. Si danno
anche casi in cui un morfema lessicale viene sostituito da un morfema completamente diverso ma
con lo stesso significato. Si parla, in questi casi, di suppletivismo (ad esempio, acqua e idrico).

I morfemi si classificano a seconda della funzione che svolgono e della posizione che assumono.
Dal punto di vista funzionale, si distinguono morfemi lessicali, sulla cui base si costruiscono parole
piene dai morfemi grammaticali, che hanno solo un significato relativo alla funzione che svolgono.
Si hanno, in questo senso, morfemi derivazionali e flessionali, che costituiscono una classe chiusa
(mentre quelli lessicali sono una classe aperta) e possono o derivare parole da altre parole o dare
luogo a forme diverse di una parola. In italiano esistono delle parole vuote o funzionali, come
articoli, preposizioni, congiunzioni. Un’ulteriore distinzione è quella tra morfemi liberi e legati,
cioè, rispettivamente, lessicali e grammaticali. Derivazione e flessione sono, dunque, due grandi
ambiti della morfologia. La derivazione agisce sempre prima della flessione, obbligatoria, a
differenza della prima. Dal punto di vista posizionale, i morfemi si distinguono in base al loro
posto rispetto alla radice o testa (si chiamano affissi). Esistono suffissi e prefissi, che si trovano
dopo o prima della radice. I suffissi con valore flessionale hanno il nome di desinenze. Si trovano
anche infissi, inseriti entro la radice. Morfemi discontinui sono anche i circonfissi (vedi la
costruzione del participio passato tedesco). Esiste persino una trascrizione morfematica, in cui i
morfemi vengono inseriti tra parentesi graffe. Ci sono poi transfissi, che si incastrano
alternativamente nella radice (vedi libro in arabo). Esistono morfemi i cui morfi non sono isolabili
segmentalmente e vengono detti sostitutivi, perché sostituiscono un fono con un altro (come
foot/feet), o morfemi zero, laddove non c’è un morfo ma si marca comunque una differenza
grammaticale (come il nominativo della terza declinazione latina). Esistono anche morfemi
soprasegmentali o superfissi o sopraffissi, in cui un determinato valore morfologico è
rappresentato da un tratto soprasegmentale, come l’accento o il tono. Alcuni processi non sono
riconducibili a morfemi segmentali: è il caso della reduplicazione, ovvero il raddoppiamento della
radice, come nel plurale indonesiano. Vi sono, infine, morfemi cumulativi, che contengono più
indicazioni di tipo grammaticale, come le desinenze delle declinazioni. Particolare morfema
cumulativo è l’amalgama, in cui due o più morfemi si fondono senza permettere il riconoscimento
dei morfemi di partenza.

I morfemi derivazionali mutano il significato della base cui si applicano, aggiungendo


informazioni. Attraverso processi soprattutto di suffissazione e di prefissazione si può produrre un
numero infinito di parole, che va sotto il nome di famiglia di parole, tutte formate a partire dalla
stessa radice. Morfemi che vanno ad attaccarsi alla base, modificandone il significato, sono detti
prefissoidi e suffissoidi. Interessante è il caso di auto-, diventato poi una parola. Un altro processo
di formazione di parole è quello che dà origine a parole composte, in cui due parole, con un
proprio significato e autonome, si sono fuse in una nuova entità. Vi sono poi unità lessicali
plurilessematiche, costituite da sintagmi fissi che rappresentano un’unica entità di significato, non
corrispondente alla somma delle unità che le compongono (ad es., luna di miele). Un caso
particolare di unità lessicali polilessematiche sono le unità lessicali bimembri, come “sale e pepe”.
Altri meccanismi di formazione di parole sono quelli che danno origine a sigle o acronimi e alle
parole macedonia, ottenute tramite accorciamento. Le parole composte hanno sempre una testa,
che, generalmente, assegna la classe di appartenenza alla parola composta. Per identificare la testa
di un composto si ricorre al test “è un” (il pescespada è un pesce, quindi il composto sarà un nome). I
processi di formazione più produttivi generano nomi con testa a sinistra, mentre quelli con testa a
desta hanno origine latina o sono frutto del contatto con altre lingue. Sono anche possibili composti
senza testa, detti esocentrici, mentre quelli con testa sono chiamati endocentrici. Esistono anche
composti a due testi, detti dvandva. Composti in cui è venuta meno l’integrità fonologica dei
costituenti sono detti stretti, altrimenti, in caso di conservazione fonologica, larghi. In base al
rapporto tra i costituenti, abbiamo anche composti subordinativi e coordinativi. I primi sono
caratterizzati da un rapporto modificato/modificatore, mentre i secondi da un rapporto copulativo,
come i dvandva. Il processo più importante è quello di suffissazione. Molto produttivo è anche
quello di prefissazione che, a differenza del precedente, non muta la classe grammaticale di
appartenenza del derivato. Nella derivazione suffissale rientra anche il processo di alterazione, che
aggiunge affissi di tipo valutativo (diminutivo, accrescitivo, dispregiativo, etc.). Nell’inventario dei
morfemi derivazionali sono frequenti i casi di omonimia. Verbi formato con prefissazione e
suffissazione sono chiamati parasintetici. Le parole derivate si possono definire tenendo conto (a)
del processo di derivazione; (b) della classe lessicale della base da cui derivano e (c) della classe
lessicale a cui appartiene il derivato. Nei meccanismi di formazione della parola rientra anche la
conversione o derivazione zero, ovvero la presenza di coppie di parole, un verbo e un nome o un
aggettivo, aventi la stessa radice lessicale e entrambi privi di suffisso, fra le quali non è possibile
individuare la parola derivata e quella derivante (cambiare/cambio). Quanto ai tipi morfologici di
parole, si hanno parole basiche, parole alterate, derivate, composte e unità plurilessematiche.

I morfemi flessionali non modificano il significato della radice lessicale su cui operano: la
attualizzano nel contesto di enunciazione, specificandone la concretizzazione nel particolare
contesto. I morfemi flessionali operano sulle classi variabili di parole, realizzano valori delle
categorie grammaticali, detti marche. Fra le categorie grammaticali ve ne sono alcune
propriamente flessionali: ogni categoria è l’insieme dei valori che può assumere una dimensione
semantica basilare elementare. Si distinguono due categorie flessionali: quelle che operano sui
nomi e quelle che operano sui verbi. La morfologia nominale dell’italiano ha come categorie
fondamentali il genere e il numero. Altra categoria flessionale importante è il caso, che mette in
relazione la forma della parola con la funzione sintattica che svolge. Il processo attraverso il quale
un verbo assegna il caso al suo complemento viene definito reggenza. In molte lingue, gli aggettivi
possono essere marcati per grado. L’italiano affida solo il superlativo alla flessione, usando una
forma perifrastica per il comparativo. Altre lingue marcano con morfemi la definitezza o il
possesso. La morfologia verbale ha cinque categorie flessionali principali: modo, tempo, persona,
aspetto e diatesi. Il modo esprime la modalità con cui viene svolta un’azione (assertiva, dubitativa,
epistemica, deontica, evidenziale, etc.). Il tempo colloca nel tempo assoluto e relativo l’azione.
L’aspetto riguarda la maniera in cui vengono osservati e presentati in relazione al loro svolgimento
l’azione o l’evento (perfettivo, imperfettivo, etc.). Connessa all’aspetto e l’azionalità, espressa dalla
morfologia lessicale e non verbale, riguardante il modo oggettivo con cui si svolge l’azione nello
sviluppo temporale (telica e atelica). La diatesi riguarda il rapporto tra i partecipanti all’azione e la
persona indica chi compie l’azione. La marcatura di persona implica spesso una marcatura di
numero, almeno nelle forme finite. Le categorie in cui vengono raggruppate le parole a seconda del
loro significato, del loro comportamento nel discorso e delle loro caratteristiche flessionali e
funzionali sono dette parti del discorso o categorie lessicali o classi lessicali. Sono nove (5 variabili
e 4 invariabili). L’appartenenza ad una classe, non sempre definita, dipende da un criterio
semantico, da un criterio morfologico e da uno sintattico. Non mancano eccezioni. Un esempio di
sovrapposizione si ha con i partitivi, a cavallo tra proposizioni e articoli. Ci sono poi anche
categorie grammaticali sull’asse sintagmatico, a cui si riserva la definizione di funzioni sintattiche,
tradizionalmente individuate dall’analisi logica. La flessione inerente riguarda la marcatura cui
viene assoggettata una parola in isolamento, la flessione contestuale, invece, dipende dalla forma
specificata nel contesto e seleziona i morfemi flessionali in relazione al contesto sintattico in cui la
parola viene usata. Un meccanismo adoperato in molte lingue è l’accordo, che prevede che tutti gli
elementi suscettibili di flessione prendano le marche delle categorie flessionali per le quali è
marcato l’elemento a cui si riferiscono o da cui dipendono.

Sintassi

La sintassi ha origini antichissimi (II-III sec. d.C.) e studia la combinazione di parole nella frase,
sua unità di misura, dalla definizione complicata e che, da sola, costituisce un messaggio o blocco
comunicativo autosufficiente. Viene identificata dal contenere una predicazione. Esistono, però,
frasi senza verbo, dette nominali, che contrastano con il criterio di individuazione delle frasi,
basato, per l’appunto, sull’identificazione dei verbi. La frase ha una struttura più complessa
rispetto alla frase semplice, costituita da un’unica predicazione e detta “proposizione”. Per
analizzare la frase, si parte dai rapporti che intercorrono fra i gruppi di parole che la compongono.
L’analisi si basa, anche in questo, nella scomposizione in unità minime, definiti costituenti. Questo
tipo di analisi, introdotta dalla scuola strutturalista tra gli anni ’30 e ’40 del Novecento, prende il
nome di analisi in costituenti immediati. Il metodo più diffuso di rappresentare l’analisi di una
frase è quello degli alberi etichettati. Un altro metodo è quello della parentesizzazione, utile per
costrutti molto piccoli. Ogni frase è rappresentabile con un indicatore sintagmatico, che ne fornisce
la struttura in costituenti. Questa può disambiguare frasi o costrutti apparentemente identici ma
con duplice interpretazione semantica. L’analisi in costituenti minimi individua tre sottolivelli: uno
frasale, uno sintagmatico e uno delle singole entrate lessicali o parole. Il più importante è il
secondo. Un sintagma è la minima combinazione di parole che funzioni come un’unità della
struttura frasale (o della sintassi). Un sintagma è costruito attorno ad una testa, necessaria per la
loro classificazione e denominazione ed elemento minimo per la loro esistenza. Un sintagma
nominale, cioè, sarà costruito attorno ad un nome. Possono essere testa di un sintagma anche verbi,
preposizioni o avverbi. Vi sono alcuni criteri per il riconoscimento dei sintagmi: 1. Mobilità: un
gruppo sintagmatico si muove sempre compatto all’interno della frase, senza staccare mai la testa
dai suoi modificatori; 2. Scissione: un gruppo sintagmatico è tale se può essere scisso mediante
frase scissa (è…che); 3. Enunciabilità in isolamento: un gruppo sintagmatico può costituire un
enunciato anche da solo, cioè può essere pronunciato in isolamento; 4. Coordinabilità: sintagmi
diversi sono dello stesso tipo se possono essere coordinati fra loro.

Ciascun sintagma ha un proprio valore, che lo mette in relazione agli altri, secondo principi fissi,
con l’obiettivo di dare un senso alla frase. Esistono tra differenti classi di principi: la prima è quella
delle funzioni sintattiche, che riguardano il ruolo svolto dai sintagmi nella struttura della frase
(Soggetto, Oggetto, Predicato e Complementi). Le funzioni sintattiche vengono assegnate in base a
schemi valenziali (o strutture argomentali), che costituiscono l’embrione della strutturazione delle
frasi. Alla base di ogni struttura c’è il verbo, a cui si agganciano delle valenze (o argomenti), a
seconda del processo che il verbo codifica e rappresenta. Ogni predicato stabilisce il numero e la
natura delle valenze che richiede, rappresentate da sintagmi nominali. Si dice, così, che ha uno
schema valenziale. Esistono verbi zerovalenti, monovalenti, bivalenti, trivalenti e tetravalenti. Le
valenze costituiscono con il verbo gli elementi nucleari essenziali delle frasi, anche quando non
vengano tutte realizzate nella struttura sintagmatica (valenze omesse). Ci sono anche verbi che
ammettono più tipi di valenze, a seconda della loro costruzione. Sulla base degli schemi valenziali,
il soggetto si può definire prima valenza, in quanto è retta da ogni verbo, tranne quelli
metereologici. La seconda valenza è il complemento oggetto, nei verbi transitivi, o un
complemento di luogo o predicativo. Nella frase si possono, altresì, incontrare costituenti che
realizzano altri elementi, non facenti parte dello schema valenziale, detti circostanziali o avverbiali
o aggiunti.

Un altro ordine di principi è dato dai ruoli che assumono i referenti in relazione all’azione.
Vengono detti ruoli semantici e vedono la frase non più come struttura grammaticale ma come
descrizione di un evento (assume, cioè, una prospettiva di significato). Le principali categorie dei
ruoli semantici essenziali sono: agente (entità animata che provoca l’azione); paziente (entità che
subisce o è interessata passivamente dall’azione); sperimentatore (entità che prova un certo stato o
processo psicologici); beneficiario (entità che trae beneficio dall’azione, a vantaggio della quale
ricade l’azione); strumento (entità inanimata mediante la quale accade l’evento o che è fattore non
intenzionale dell’azione); destinazione (entità per la quale l’azione è compiuta); località (entità
entro cui l’azione si colloca spazialmente); provenienza (entità dalla quale si muove un’entità in
relazione all’azione); dimensione (entità che indica una determinata estensione nel tempo e nello
spazio o nella massa); comitativo (entità con cui si svolge l’azione). Anche per i predicati esistono
dei ruoli semantici (processo, azione, stato). Tra ruoli semantici e funzioni sintattiche esistono dei
rapporti preferenziali (l’agente, cioè, è spesso il soggetto della frase), ma non c’è corrispondenza
biunivoca, come evidente nella frase passiva, in cui l’agente è complemento d’agente e il paziente è
il soggetto. La passività è caratteristica dei verbi transitivi, mentre quelli intransitivi si distinguono
tra inaccusativi, che richiedono come ausiliare il verbo essere, e inergativi, che richiedono come
ausiliare avere.

Si può dire, dunque, che una frase colleghi la rappresentazione di un evento o stato di cose del
mondo esterno a una catena fonica. Scegliendo un verbo da utilizzare, quindi, si genera una frase
(fase 1), di conseguenza bisogna scegliere gli attanti, secondo lo schema valenziale del verbo (fase
2) e quindi assegnare i ruoli semantici (fase 3). La struttura può essere dunque rappresentata
secondo i principi della teoria X-barra. A questo punto, c’è un ulteriore piano d’analisi, quello
dell’organizzazione pragmatico-informativa. Dal punto di vista del valore con cui le frasi sono
usate nella comunicazione e di ciò che il parlante vuol fare producendole, si distinguono in frasi
dichiarative, interrogative, esclamative, imperative, ottativa (o desiderative). Le frasi interrogative
possono essere polari (con risposta sì/no) o aperte (interrogative wh-). Un’importante distinzione è
quella fra la parte della frase che isola quello su cui verte l’informazione e quella che trasmette
l’informazione vera e propria, dette rispettivamente tema e rema. Collegata a questa distinzione, è
quella dato (o noto) e nuovo, in cui dato è ciò che va considerato come conosciuto o
precedentemente introdotti e nuovo come l’informazione completamente sconosciuta. Dato e
nuovo non sempre coincidono con tema e rema. Nelle frasi normali, soggetto, tema e agente
coincidono, così come oggetto, paziente e parte del rema. A seconda della posizione che si vuole
dare al punto di maggior salienza dell’informazione comunicata, è possibile commutare l’ordine
dei costituenti di frase, attraverso una marcatura dei costituenti, ovvero cinque procedimenti:

a. Dislocazione a sinistra: consente di mandare a tema un costituente rematico, estraendolo e


ponendolo a sinistra della frase e riprendendolo con un clitico anaforico accanto al verbo.
Possono essere dislocati a sinistra l’oggetto diretto, l’oggetto indiretto, un locativo,
un’intera frase. L’unico costituente non dislocabile a sinistra è il soggetto, per mancanza di
clitici soggetto. Un costituente dislocato e non ripreso da un clitico (Elena, avevano chiesto un
favore) dà vita al tema sospeso o tema libero (nominativus pendens), ovvero un anacoluto.
b. Dislocazione a destra: consente di rendere tema un costituente rematico, spostandolo al
margine destro e riprendendolo con un clitico cataforico. Si possono dislocare a destra tutti
gli elementi, soggetto compreso.
c. Frase scissa: consente di mettere a focus un costituente secondo lo schema è…che….
Possono essere focalizzati il soggetto, l’oggetto diretto, l’oggetto indiretto, intere frasi.
d. Rematizzazione a sinistra: si ha quando un costituente frasale, tipicamente l’oggetto, viene
messo a focus in posizione preverbale (te cercavo). Il costituente anteposto non è ripreso da
un clitico ed è rematico o focale. Può essere rematizzato a sinistra anche il soggetto. Il
costrutto è meglio noto come topicalizzazione contrastiva.
e. Enunciati tetici: si tratta di costrutti interamente rematici, che aprono, solitamente, un
discorso o una sequenza narrativa, introducendo un elemento nuovo. Sono strutture di
questo tipo enunciati con ordine VS e con il c’è presentativo.

Negli ultimi quarant’anni, ha preso piede una scuola linguistica che ha elaborato una teoria, nota
come “grammatica generativa”, fondata sullo studio, in primo luogo, della sintassi e il cui
massimo esponente è Noam Chomsky. La trattazione generativa della sintassi, che si innesta su
una concezione del linguaggio verbale umano come di un sistema cognitivo innato e specifico,
presenta un elevato grado di tecnicità. Si dice generativa una grammatica che intende predire in
maniera esplicita e formalizzata le frasi possibili di una lingua, escludendo, pertanto, frasi
malformate. Il ruolo centrale, nella grammatica generativa, è svolto dalla sintassi, che il compito di
accoppiare e interpretare significati e significanti, basandosi su un sostrato comune a tutte le
lingue, la “grammatica universale”. Il linguaggio è specifico dell’uomo ed è costituito da un
insieme di conoscenze interiorizzate mentali che consentono ad un parlante nativo ideale di
produrre messaggi verbali nella propria lingua. L’insieme delle conoscenze è chiamato
competenza, che, pertanto, è interna alla mente umana, tralasciando gli aspetti storici, culturali e
sociali dei fenomeni linguistici, inconscia, in quanto un parlante nativo è sempre in grado di
giudicare se una produzione linguistica sia o meno accettabile nella propria lingua, basandosi
esclusivamente su intuizioni, individuale, cioè va intesa come insieme di conoscenze linguistiche
socialmente condivise, che rende la lingua il sistema di riferimento di una comunità, innata, cioè
appartenente al corredo genetico della specie umana. Scopo della grammatica generativa è
costruire una teoria della competenza, esplicitando e formalizzando l’insieme delle regole e dei
principi che costituisce la conoscenza implicita che un parlante nativo ha della propria lingua.
Partendo dalla valutazione di grammaticità delle frasi, la grammatica generativa intende definire
esplicitamente le strutture astratte del sistema linguistico. In quest’ottica, mira a costruire una
grammatica universale, ossia l’insieme delle capacità linguistiche innate che costituiscono la facoltà
di linguaggio degli esseri umani. Un ruolo rilevante riveste la teoria dei princìpi e dei parametri,
secondo cui le lingue del mondo condividono alcuni princìpi universali, mentre differiscono tra di
loro rispetto ad alcuni parametri. Uno dei parametri studiati, ad esempio, è l’omissibilità eventuale
del soggetto. La teoria mentalista contrasta con quella comportamentista, che sostiene che
l’acquisizione di qualunque tipo di conoscenza avvenga solo in risposta a stimoli esterni e per
mezzo di processi elementari basati sull’induzione, associazione analogica e generalizzazione e
con le impostazioni funzionaliste. Secondo la concezione mentalista, la mente non sarebbe una
tabula rasa, predisposta a cogliere stimoli esterni, ma l’individuo possiede nel proprio corredo
genetico di procedimenti generali di analisi dell’esperienza e di una capacità innata preposta
all’acquisizione del linguaggio, che gli consente di costruire un sistema astratto di conoscenze
linguistiche, seguendo stimoli esterni in un dato intervallo di tempo (tra i 18 mesi e l’età puberale).
I principali argomenti a sostegno della tesi mentalista sono riconducibili alla questione della
povertà dello stimolo, secondo cui non basterebbe l’esperienza linguistica a costruire la
competenza, poiché sussiste una forte discrepanza tra i dati linguistici a disposizione e la
competenza finale. Questa capacità innata non è altro che la Grammatica Universale che i
generativisti puntano a definire esplicitamente, ovvero lo stato iniziale della facoltà di linguaggio
umana, che si fissa su dei valori parametrici che fanno passare quello stato iniziale ad uno stato
stabile.

Semantica

Si definisce semantica lo studio del piano del significato. Anche qui è problematico definire il
significato, in quanto non visibile e punto di sutura tra la lingua e il mondo esterno. La semantica
si pone all’incrocio di numerosi ambiti di ricerca. Da un lato, vi sono prospettive di impianto
logico-filosofico che vedono il significato in termini di operazioni astratte con cui costruire una
rappresentazione mentale della realtà, dall’altro prospettive di carattere cognitivista che vedono il
significato come struttura cognitiva basata sul complesso dell’esperienza umana. Dal punto di
vista linguistico, esistono due tipi di concezione del significato: una referenziale o concettuale, per
cui il significato è una rappresentazione astratta del mondo esterno ed una operazionale, secondo
cui il significato è funzione dell’uso che si fa dei segni, ovvero la totalità dei contesti in cui può
comparire. Ci si può accontentare di definire il significato come l’informazione veicolata da un
segno o elemento linguistico. Esistono, però, diversi tipi di significati: in primis, uno denotativo,
ovvero inteso in senso oggettivo, di ciò che il segno descrive e rappresenta, che identifica un
referente nella realtà esterna; poi ve n’è uno connotativo, ovvero il significato soggettivo, connesso
alle sensazioni suscitate da un segno e alle associazioni cui esso dà luogo; uno linguistico, che un
termine ha in quanto elemento di un sistema linguistico codificante una rappresentazione mentale;
uno sociale, in base al rapporto che il segno ha con i parlanti. C’è poi una distinzione tra significato
lessicale, in riferimento a oggetti concreti o astratti e significato grammaticale, in base al significato
dei segni all’interno del sistema linguistico. Questi due significati originano poi parole piene e
parole vuote, rispettivamente. Il significato è qualcosa di diverso da quello dell’enciclopedia, in
quanto il significato fa parte del sistema linguistico, mentre l’enciclopedia fa parte del sapere
generale, anche se i confini fra i due tipi di significati non sono sempre facilmente distinguibili.
Un’ulteriore distinzione è quella fra significato e senso, ovvero il significato attribuito ogni volta
che un parlante utilizza un termine in un certo contesto. Particolari sono i nomi propri, che hanno
significato esclusivamente estensivo, definendo i singoli membri di una classe. Per intensività,
invece, si intende l’insieme delle proprietà che costituiscono il concetto designato da un termine,
differente dall’estensività, che, invece, designa l’insieme degli individui a cui il termine è riferibile.

L’unità minima della semantica è il lessema, una parola considerata dal punto di vista del
significato, privato delle sfumature soggettive che esso può avere. L’insieme dei lessemi di una
lingua costituisce il lessico, ambito di studio della lessicologia, da non confondere con la
lessicografia, che studia, invece, metodo e tecnica di composizione dei vocabolari e dei dizionari,
ovvero opere che documentano il lessico di una lingua. Da un lato, il lessico è uno dei due
componenti essenziali della lingua, dall’altro, però, il lessico è lo strato più esterno di una lingua
ed è perciò l’ambito meno linguistico e, allo stesso tempo, più ampio, comprendente un inventario
di elementi potenzialmente illimitato e meno strutturabile. I dizionari comuni computano fra i 90 e
i 130mila lessemi. Il GRADIT ne conta 270 mila. Il lessico utilizzato normalmente da un parlante,
però, non va oltre le 40-50mila unità, con differente frequenza d’uso. Si parla, infatti, di vocabolario
di base, che, per l’italiano, consta di circa 7mila unità di immediata disponibilità e usate con
frequenza piuttosto alta. I lessemi hanno, poi, fra loro, relazioni di significato, detti rapporti
semantici

Omonimia: lessemi con identico significante ma significato diverso, non imparentati né derivabili.
Polisemia: diversi significati associati allo stesso significante, imparentati e derivabili fra loro.
Enantiosemia: particolare polisemia, che associa significati molto diversi ad uno stesso significante.

Sinonimia: lessemi diversi aventi lo stesso significato, seppure con sfumature diverse di significato.
Iponimia: inclusione semantica: il significato di un lessema rientra in quello più ampio e generico
di un altro lessema. Si parla di catene iponimiche, in quanto quasi sempre un lessema è iponimo di
un altro lessema (come gatto, felino, animale, mammifero, animale, essere vivente, etc.).
Meronimia: lessema che designa la parte specifica di un tutto e che viene utilizzato al posto del
tutto.
Solidarietà semantica: cooccorenza obbligatoria di un lessema con un altro, nel senso che la
selezione di un termine è strettamente legata ad un altro (ad es., miagolare/gatto). Rapporti fra
lessemi fondati su cooccorenze regolari ma meno motivate semanticamente vanno sotto il nome di
collocazioni (ad es., bandire/concorso, rassegnare/dimissioni).

Antonimia: lessemi di significato contrario, come due poli opposti di una scala, l’uno esclude
l’altro.
Complementarietà: un lessema è la negazione dell’altro (vivo/morto, maschio/femmina, etc.).
Inversione o simmetrici: stessa relazione semantica da due punti di vista diversi (marito/moglie).

Insiemi lessicali: gruppi o sottoinsiemi di lessemi che costituiscono complessi organizzati, in cui
ogni elemento è connesso agli altri da rapporti di significato.

Campo semantico: anche detto campo lessicale, insieme dei lessemi che occupano uno stesso
spazio semantico (ad esempio, i colori), ovvero l’insieme dei coiponimi diretti di uno stesso
sovraordinato.
Sfera semantica: insieme di lessemi con comune riferimento ad un certo ambito semantico.
Famiglia semantica: insieme di lessemi imparentati nel significato e nel significante. (pace,
pacifico…)
Gerarchia semantica: insieme di lessemi in cui ogni termine è parte di un termine che lo segue in
una certa scala di misura (narice, naso, viso, testa).

Possono verificarsi anche spostamenti di significato, che fanno assumere ai lessemi significati
piuttosto lontani da quello primario, attraverso procedimenti quali la metafora o la metonimia
(astratto per il concreto e viceversa).

Uno dei metodi ancora validi per l’analisi del significato dei lessemi è l’analisi componenziale,
basata su una scomposizione in fattori primi, ovvero delle componenti semantiche o tratti
semantici, che, riunite in fasci, permettono di descrivere tutte le proprietà semantiche e il
significato denotativo di un lessema. Ad esempio, uomo = /+UMANO+ADULTO+MASCHIO/,
donna = /+UMANO+ADULTO-MASCHIO/. Gli usi metaforici e traslati si possono interpretare
come la perdita di uno o più dei tratti che caratterizzano il significato denotativo. Secondo l’analisi
componenziale, dunque, il significato di un lessema è scomponibile in elementi di significato più
piccoli e più semplici. L’analisi è più economica quanti meno tratti sono necessari per definire
completamente il significato denotativo di un lessema. Fra i tratti semantici possono esistere
rapporti implicativi. Ad esempio, il tratto /+UMANO/ implica /+ANIMALE/, che, a sua volta,
implica i tratti, sempre più generali, /+ANIMATO/, /+ENUMERABILE/, /+CONCRETO/. Tra
parentesi graffe si indicano tratti semantici dello stesso livello gerarchico. I tratti semantici sono
binari, anche se alcuni ammettono più gradi di significato. Soprattutto, i tratti semantici non vanno
confusi con i lessemi corrispondenti. Per l’analisi dei verbi, ad esempio, si tende ad utilizzare tratti
relativi ai ruoli semantici. Il metodo componenziale diventa problematico se si applica ad insiemi
lessicali molto ampi o a termini astratti. Infatti, essendo molto vicina alle categorie aristoteliche,
l’analisi componenziale presuppone che l’entità analizzata sia (a) definita da proprietà necessarie e
sufficienti, (b) delimitata da confini rigidamente netti, (c) costituita da membri tutti ugualmente
rappresentativi della data categoria. A partire dagli sviluppi della psicologia cognitiva, invece, è
nata una concezione delle categorie basata su entità (a) definite sia da un nucleo di proprietà di
carattere categorico, necessarie e sufficienti, sia da proprietà di carattere graduale non essenziali,
(b) delimitata da confini sfumati e (c) costituita da membri più tipici ed altri meno rappresentativi.
A questa teoria risale la semantica prototipica, fondata sul prototipo, ovvero il significato di un
lessema, corrispondente all’immagine mentale immediata che tutti i membri di una società hanno
di quel concetto. Il prototipo è quindi il punto focale di un concetto e i membri non prototipici si
allontanano dal punto focale, avvicinandosi alla periferia del concetto, meno caratteristiche del
prototipo hanno. Ad esempio, al concetto di uccello non tutte le società avranno una stessa
immagine immediata e non tutti i tipi di uccello avranno gli stessi tratti, ma alcuni ne perderanno
qualcuno, risultando pur sempre uccelli. In questo senso, i tratti semantici non sono tutti necessari
e sufficienti, ma ciascuno ha un diverso potere identificativo e sono disposti in gerarchia
d’importanza. I concetti, in questa prospettiva, hanno una struttura interna prototipica basata sulla
gradualità, sulla scalarità e non solo sulla categoricità. Un concetto altrettanto importante è,
dunque, quello di grado di esemplarità di un termine rispetto a una categoria. Ad esempio, non
tutti i frutti saranno citati come esempi di frutta. Di conseguenza, la semantica prototipica rende
bene le sfumature dei concetti e i confini delle categorie, non più netti come per la semantica
componenziale. Sebbene abbia introdotto alcune correzioni, anche la semantica prototipica
presenta dei problemi, legata all’analisi di processi psicologici e di termini astratti. Un altro livello
della semantica riguarda lo studio del significato globale delle frasi: bisogna, innanzitutto,
distinguere tra frase ed enunciato, ovvero una frase considerata nel suo concreto impiego in una
situazione comunicativa. Elementi fondamentali per il valore degli enunciati sono i connettivi
(congiunzioni coordinanti e subordinanti), i quantificatori e le negazioni. Ricerche recenti di
semantica hanno evidenziato la questione della “composizionalità del significato”, ovvero
dell’importanza dell’interazione fra i significati e le proprietà semantiche dei singoli lessemi negli
enunciati. Nella costruzione, da parte dei parlanti, del significato di una frase, agiscono princìpi
diversi. Il generativista Pustejovsky ne ha individuati quattro: il primo è la semplice composizione,
la somma algebrica dei componenti della frase; il secondo è la ‘cocomposizione’, in base a cui il
significato degli argomenti di un verbo contribuisce a definire il significato del verbo; il terzo è
detto coercizione e riguarda i casi in cui il significato del verbo definisce il significato di un suo
argomento. Infine, c’è il legamento selettivo, in cui un nome seleziona e determina il valore di un
aggettivo dal significato non specifico.

Le lingue nel mondo

Le lingue storico-naturali oggi presenti sono dell’ordine di diverse migliaia. Si passa da un minimo
di 2200 ad un numero più che triplo. La piattaforma Ethnologue ne classifica più di 7000. La
differenza numerica trova spiegazione nella difficoltà con cui si computano le lingue. Già l’Italia
rappresenterebbe un problema, a causa del gran numero di minoranze linguistiche, presenti sul
territorio e riconosciute e tutelate da una legge del 1999. In secondo luogo, è dibattuto lo statuto
dei vari dialetti che, dal punto di vista storico e linguistico, avrebbero tutti i titoli per essere
considerati lingue. Così, si arriverebbe ad una trentina di lingue solo sul suolo italiano. È poi
complesso stabilire se lingue appartenenti ad un antenato comune, come le lingue comuni, vadano
considerate lingue a sé stanti o varianti della stessa lingua, come nel caso del cinese. Per porre
ordine tra le migliaia di lingue, le si raggruppa in famiglie, secondo criteri di parentela
genealogica, che si basano sulla possibilità di riportare le lingue ad un antenato comune, attestato
storicamente o ricostruito. Un metodo semplice si basa sulla costruzione del lessico fondamentale,
ovvero un insieme di circa 200 termini designanti nozioni comuni, come i numeri o i fenomeni
metereologici, la cui somiglianza permette di ricostruire un grado di parentela. L’italiano, ad
esempio, ha stretti rapporti di somiglianza con lingue quali il romeno, il francese, lo spagnolo, il
portoghese e altre lingue minori in quanto appartenente al ramo delle lingue romanze,
direttamente discendenti dal latino. Il ramo romanzo ha poi rapporti di parentela con altri rami,
come le lingue slave, germaniche, baltiche, indo-arie, iraniche e tutte formano la famiglia delle
lingue indoeuropee. Il livello della famiglia è il più ampio ricostruibile con i mezzi della linguistica
storico-comparativa. All’interno della famiglia, si possono poi riconoscere rami o sottofamiglie, a
loro volta divise in gruppi e, ancora, in sottogruppi. L’italiano si classifica come lingua del
sottogruppo italo-romanzo del gruppo occidentale del ramo neolatino della famiglia indoeuropea.
La linguistica comparativa conta, ad oggi, 18 famiglie, tra cui non è possibile riconoscere ulteriori
rapporti di parentela, più alcune lingue isolate. A queste andrebbero aggiunte alcune decine di
lingue pidgin e creole, nate dall’incontro e mescolanza in situazioni particolari di lingue per lo più
assai diverse e sitante tra loro e, pertanto, difficili da collocare con precisione in una famiglia
linguistica. Un pidgin, sistema complesso che non ha parlanti nativi, diventa creolo quando viene
assunto come lingua materna in una comunità. Delle migliaia, solo alcune decine di lingue
possono considerarsi, per il gran numero di parlanti, grandi lingue. Sono 64 quelle con più di 10
mln di parlanti nativi e 123 quelle con più di 3 mln. I parlanti nativi hanno acquisito la lingua nella
socializzazione primaria. Molte sono anche le lingue in via d’estinzione. Per valutare l’importanza
delle lingue sono anche molto importanti criteri quali il numero di paesi in cui la lingua è ufficiale,
l’impiego nei rapporti internazionali, l’importanza politica dei paesi in cui è primaria, la tradizione
della lingua e il suo insegnamento come lingua straniera in altri stati e, quindi, il numero di
parlanti non nativi. In Europa sono tradizionalmente presenti lingue uraliche del ramo ugro-
finnico (ungherese, finlandese, lappone, estone, etc.), lingue altaiche (turco, tartaro, etc.), lingue
caucasiche (georgiano, ceceno, àvaro), lingue semitiche, come il maltese, oltre alle lingue
indoeuropee, più una lingua isolata, il basco.
Mutamento e variazione nelle lingue

Una delle proprietà delle lingue è la variazione, che si può manifestare lungo più assi. La prima
differenziazione si presenta su un piano diacronico. All’insieme dei cambiamenti intercorsi col
tempo si dà il nome di “mutamento linguistico”, oggetto di studio della linguistica storica o
diacronica. Il mutamento linguistico è più veloce di quello genetico, ma più lento di quello socio-
culturale e richiede uno spazio più ampio di una generazione. I cambiamenti possono anche
sancire le differenze tra uno stato di lingua e un altro, al punto che si è in presenza di una nuova
lingua. Uno dei criteri per stabilire la nascita di una nuova lingua è l’incomprensibilità da parte tra
i parlanti di un vecchio stato di lingua e quello nuovo, come nel caso dell’italiano e dei volgari. Il
meccanismo di mutamento inizia, di solito, con un’innovazione che prende poi piede e coesiste con
l’elemento precedente. Le cause e i fattori del mutamento sono molteplici, tanto interni alla lingua,
quanto esterni (sociali, culturali, demografici, economici, etc.). In alcuni casi, possono anche
determinare la decadenza, l’estinzione o la morte di lingue, che si verifica quando una lingua non
ha più parlanti e viene totalmente sostituita da un’altra lingua. Spesso la lingua che si estingue
lascia tracce nella lingua successiva, in fenomeni, cosiddetti, di sostrato. Fattori interni alla lingua
possono essere la tendenza a regolarizzare e a rendere più coerente le strutture o la tendenza
inconscia a semplificare il parlato. Nel mutamento fonetico, molto frequenti sono i fenomeni di
assimilazione, per cui due foni contigui tendono a diventare simili, mediante l’acquisizione di uno
o più tratti dell’altro. L’assimilazione può essere regressiva o progressiva, a seconda che riguardi il
fono antecedente o successivo. L’assimilazione può anche riguardare foni non contigui, come nella
metafonia, la modificazione del timbro di una vocale per effetto della vocale finale. È il caso
dell’armonia vocalica del turco. Contraria all’assimilazione, è la dissimilazione, in cui due foni
simili non contigui diventano diversi. A livello fonetico, i mutamenti più comuni sono la metatesi,
inversione dell’ordine dei foni di una parola, la soppressione o la caduta di foni, soprattutto di
vocali, come nel caso dell’aferesi (perdita del fono iniziale), della sincope (perdita di un fono
interno) o dell’apocope (perdita del fono finale), l’inserzione o aggiunta di foni, come nel caso
dell’epentesi, all’interno della parola, della protesi, all’inizio della parola o dell’epitesi, alla fine. In
linguistica storica, sono molto importanti anche le leggi fonetiche, sulla base delle quali, a fine
Ottocento, si sono ricostruiti i rapporti tra le lingue indoeuropee. Per leggi fonetiche, si intendono
mutamenti regolari, riguardanti serie di parole. A livello fonologico sono ricorrenti i fenomeni di
fonologizzazione, in cui allofoni di un fonema acquisiscono valore distintivo e diventano fonemi
autonomi, defonologizzazione, in cui fonemi perdono il valore distintivo e diventano allofoni di
un altro fonema e la perdita di fonemi, come l’approssimante laringale h. I mutamenti fonetici-
fonologici possono anche avere effetti a catene, come nel caso delle rotazioni consonantiche, la
prima delle quali fu individuata da Jakob Grimm, relativa al passaggio dalle occlusive sorde a
fricative sorde, delle occlusive sonore a occlusive sorde e delle occlusive sonore aspirate a
occlusive o fricative sonore nel ramo germanico. La seconda rotazione caratterizza il solo tedesco.
In morfologia, possono cadere categorie o distinzioni morfologiche e nascerne di nuove e i
morfemi possono cambiare le loro regole di impiego. Uno dei principali mutamenti morfologici è il
meccanismo dell’analogia, consistente nell’estensione di forme a contesti in cui esse non sono
appropriate, sul modello di contesti più frequenti (volere basato su habere e non su velle). Un
esempio di rianalisi è la formazione, nelle lingue romanze, del passato prossimo, inesistente in
latino, che risemantizza il verbo avere e ricalca costrutti aventi una forma coniugata di habere e il
participio passato. Altro processo è la grammaticalizzazione, il mutamento per cui un elemento del
lessico diventa un elemento della grammatica, come il suffisso –mente, che ha perso il valore
lessicale latino e ha contribuito alla formazione degli avverbi. I fenomeni più rilevanti nel
mutamento sintattico riguardano l’ordine dei costituenti (passaggio dal latino SOV alle lingue
romanze SVO). Nella semantica lessicale, il mutamento si manifesta come arricchimento lessicale,
tanto con l’ingresso di nuovi lessemi, quanto con la perdita di lessemi preesistenti. Avvengono poi
anche cambiamenti nell’associazione fra significanti e significati, in base a rapporti di somiglianza
(metafora) o di contiguità (metonimia). Un genere di reinterpretazione semantica, simile alla
rianalisi morfosintattica, è la paretimologia, ovvero la risemantizzazione di una parola mediante la
rimotivazione del suo significato, che la rende più trasparente. Si hanno, poi, allargamenti e
restringimenti semantici. In questo ambito rientrano i fenomeni di tabuizzazione, ovvero
l’interdizione di alcune parole, sostituite da eufemismi. I mutamenti possono coinvolgere anche i
campi semantici, come nel caso del latino, che aveva più termini per uno stesso colore.

La variazione è più evidente in sincronia e può riguardare i vari contesti d’impiego della lingua. La
variazione interna alla lingua è campo d’indagine della sociolinguistica, che studia e descrive la
lingua calata nella realtà dei parlanti, mettendola in relazione con la società. Un insieme di forme
linguistiche che si ripresentano in concomitanza con certe caratteristiche della società prende il
nome di varietà di lingua, originate da variabili sociolinguistiche, unità o punto del sistema
linguistico che ammette realizzazioni diverse equipollenti. È il caso di variabili fonologiche e
morfologiche, ma anche lessicali. Oltre a questi tipi, si riconoscono altre quattro dimensioni di
variazione: diatopica, relativa al mutamento nello spazio geografica; diastratica, relativa alla
variazione nello spazio sociale; diafasica, relativa alle diverse situazioni comunicative; diamesica,
relativa ai mezzi o canali della comunicazione. Fenomeni di variazione diatopica sono gli italiani
regionali, varietà locali dell’italiano standard, comprendenti, dal punto di vista lessicale, i
geosinonimi. Sono frequenti anche i regionalismi semantici, cioè significati particolari assunti da
un lessema in una data area e, accanto a questi, regionalismi morfologici e sintattici. La variazione
diatopica, ovviamente, supera i confini geografici e coinvolge più nazioni, come nel caso
dell’italiano del Canton Ticino. Anche la variazione diastratica ha più livelli d’analisi: a livello
fonologico, è evidente nelle pronunce locali influenzate dai dialetti, soprattutto in parlanti con
basso grado d’istruzione; a livello morfologico, con la semplificazione di strutture complesse, come
la concordanza o i paradigmi verbali; a livello sintattico, con il costrutto del tema libero o con il
doppio condizionale o congiuntivo imperfetto; a livello morfologico, infine, con i ‘malapropismi’,
deformazioni di parole troppo complesse. Nel loro complesse, queste varietà sono dette “italiano
popolare” e sono legate ad un pessimo padroneggiamento della lingua. La variazione diafasica è
più complessa e si devono riconoscere due sottodimensioni indipendenti: i registri, ovvero le
varietà dipendenti dal carattere formale o informale dell’interazione comunicativa e del ruolo
reciproco di parlanti e interlocutori e i sottocodici, varietà diafasiche dipendenti dall’argomento di
cui si parla e dalla sfera di contenuti ed attività a cui si fa riferimento. Alcuni sottocodici, composti
da termini tecnici e scientifici dei rispettivi settori, sono i tecnicismi. Molti tratti in comune con la
variazione diafasica presenta quella diamesica, in quanto la lingua parlata tende a coincidere con
un registro informale e quella scritta con uno formale. L’insieme delle varietà di lingua presenti
presso una certa comunità costituisce il repertorio linguistico di quella comunità, composto da
varietà di una stessa lingua o da varietà di più lingue diverse. In questo senso, si definisce lingua
standard una lingua codificata, dotata di una norma prescrittiva, con un repertorio di manuali e
testi di riferimento. Alla lingua standard si contrappongono i dialetti, termine che designa sia
sistemi linguistici strettamente imparentati con la lingua standard, ma aventi struttura e storia
proprie, sia varietà derivanti dalla diversificazione su base territoriale di una certa lingua, come nel
caso delle minoranze linguistiche. In repertori plurilingui è raro che i diversi sistemi linguistici
compresenti stiano sullo stesso piano negli usi e negli atteggiamenti della comunità parlante e
svolgano le medesime funzioni. Ad una situazione di bilinguismo, in cui le due lingue coprano
ambiti e ruoli socialmente differenti, ci si riferisce col termine di diglossia, in cui una lingua viene
usata per lo scritto e l’altra per il parlato. Una situazione di compresenza di lingua standard e
dialetto viene, invece, definita con il termine di dilalia. A causa dei rapporti comunicativi,
intervengono anche fenomeni di contatto fra lingue, fra cui l’interferenza, cioè l’influenza di un
sistema linguistico su di un altro, compreso il trasporto di materiale linguistico, su tutti i livelli di
analisi o il prestito, l’introduzione di elementi lessicali propri di un’altra lingua. Quando viene
trasportato solo il significato di un lessema, senza l’aspetto fono-morfologico, si parla di calco. Un
caso particolare è poi il code switching, o commutazione di codice, che indica l’utilizzo di due codici
differenti nella stessa interazione comunicativa, con il passaggio da una lingua ad un’altra,
possibile anche con i dialetti.

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