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Linguistica generale C

Il linguaggio verbale

Linguistica, lingue, linguaggio, comunicazione

La linguistica è il ramo delle scienze umane che studia una lingua. Esistono due
sottocampi principali: la linguistica generale, che studia cosa sono, come sono fatte
e come funzionano le lingue; la linguistica storica che si occupa dell’evoluzione delle
lingue nel tempo e dei rapporti fra le lingue e fra lingua e cultura.
Oggetto della linguistica sono dunque le lingue storico-naturali, ovvero quelle lingue
nate spontaneamente durante il corso della storia umana. Tutte queste lingue sono
espressione di ciò che viene chiamato linguaggio verbale umano.
Il linguaggio verbale umano, essendosi sviluppato autonomamente, è acquisito e
posseduto da ogni individuo umano. Questo è basato su canali sensoriali diversi: visivi
o uditivi; e su modalità diverse: canale visivo (mimica, gestualità, postura, ecc.);
canale acustico (suoni verbali e non verbali).
Dal punto di vista antropologico, le lingue vengono trasmesse per trasmissione culturale
all’interno di una società, tuttavia, questo non vuol dire che la componente innata
non sia importante. Nel linguaggio distinguiamo quindi; una componente culturale-
ambientale e una componente innata, cioè la predisposizione a comunicare
mediante una lingua. L’interazione fra questi due componenti fa sì che abbia un ruolo
particolare nel processo sia l’età dell’infanzia sia l’età della prepubertà linguistica.
Se entro gli 11-12 anni un essere umano non è stato esposto a stimoli linguistici lo
sviluppo della lingua è praticamente bloccato.
Infine, proviamo a dare una definizione a ciò che è la lingua. Potremmo dire che la
lingua è:
“un codice che organizza un sistema di segni dal significante primariamente fonico-
acustico, fondamentalmente arbitrari ad ogni loro livello e doppiamente posseduti
come conoscenza interiorizzata che permette di produrre infinite frasi a partire da
un numero finito di elementi.”
Bisogna infine ricordare che il linguaggio verbale è posseduto solamente dall’uomo
per due motivi:
1. Adeguato volume del cervello, che rende possibile la memorizzazione,
l’elaborazione e la processazione di un sistema così complesso;
2. Conformazione del canale fonatorio “a due canne”, che consente le sottili
distinzioni articolatorie e sfumature nella produzione fonica necessarie per la
comunicazione orale.

Segni, codice

La singola entità che fa da supporto alla comunicazione è chiamata segno. Esistono


diversi tipi di segni:
- Intenzionali: segnali, icone o simboli (motivati culturalmente)
- Non intenzionali: indice o sintomo (motivato naturalmente)
Per avere una motivazione di un segno abbiamo però bisogno di un codice, ovvero
un insieme di corrispondenze, fissato per convenzione fra qualcosa e qualcos’altro, che
fornisce le regole di interpretazione dei segni.

Le proprietà della lingua

Il linguaggio verbale umano presenta numerosissime proprietà:


- Biplanarità: ovvero che in un segno siano presenti due facce, il significante e
il significato. Il significante è la faccia fisicamente percepibile del segno,
per esempio la parola “gatto” pronunciata o scritta. Il significato è la faccia non
materialmente percepibile, l’informazione che viene data dalla faccia
percepibile.
- Arbitrarietà: consiste nel fatto che non c’è alcun legame naturalmente motivato
fra il significante e il significato di un segno. I
rapporti fra questi non sono dati naturalmente ma
per convenzione. La questione dell’arbitrarietà è
più complicata di quanto appare. L.Hjelmslev ha
distinto quattro livelli diversi di arbitrarietà.
Questo viene spesso presentato attraverso il
triangolo semiotico. Nel primo livello è arbitrario il
rapporto tra segno nel suo complesso e
referente. Nel secondo livello è arbitrario il rapporto
fra significante e significato. Nel terzo livello è arbitrario il rapporto tra forma
(struttura) e sostanza (insieme di fatti concettualizzabili) del significato. Nel
quarto livello è arbitrario il rapporto fra forma e sostanza del significante.
Al principio dell’arbitrarietà esistono alcune eccezioni, per esempio le
onomatopee, gli ideofoni e le icone che risultano essere parzialmente
motivati.
- Doppia articolazione: una proprietà molto importante delle lingue è la doppia
articolazione. Questa consiste nel fatto che il significante di un segno linguistico
è articolato secondo due livelli nettamente diversi. Al primo livello, il
significante è organizzato e scomponibile in unità con cui è possibile formare
degli altri segni (gatt-i, gatt-o); tali elementi costituiscono le unità minime di
prima articolazione o morfemi. Al secondo livello di articolazione i morfemi
sono ancora scomponibili come unità non portatrici di un significato
autonomo ma che insieme danno vita alle unità di prima articolazione,
chiamiamo le unità minime di seconda articolazione fonemi. La doppia
articolazione dei segni linguistici costituisce una vera proprietà fondamentale del
linguaggio verbale umano. Esso consente alla lingua una grande economia (con
un numero limitato di segni se ne possono creare di teoricamente illimitati) e
inoltre è molto importante per il principio della combinatorietà (la lingua
funziona unendo unità minori).

Trasponibilità di mezzo
Il significante dei segni linguistici possiede un’altra proprietà importante: può essere
trasmesso o realizzato sia attraverso il mezzo aria, il canale fonico-acustico, sia
attraverso il mezzo luce, il canale visivo-grafico. Questa proprietà prende il nome di
transponibilità di mezzo.
Il parlato in passato rappresentava il mezzo prioritario. Ancora oggi, in realtà si
preferisce, infatti, quotidianamente parliamo molto più di quanto scriviamo. Per questo
distinguiamo la priorità ontogenetica (relativa al singolo individuo) del parlato,
ovvero, prima di scrivere ogni individuo umano impara a parlare. E una priorità
filogenetica (relativa alla specie umana), lo scritto è stato storicamente introdotto
molto dopo rispetto al parlato.

Box 1.1
Per una classificazione dei sistemi di scrittura, occorre distinguere prima di tutto sistemi
semiografici e sistemi glottografici. La differenza fra questi è che i primi non fanno uso di
simboli linguistici, i secondi sì. I sistemi glottografici si dividono poi in altre categorie: sistemi
non fonetici (logografici), e sistemi fonetici (fonografici). I primi non hanno, se non
parzialmente, basi fonetiche; fanno riferimento in genere a unità minime di prima
articolazione, i morfemi. I secondi rappresentano invece i suoni del linguaggio, fanno quindi
riferimento alle unità minime di seconda articolazione. Qualunque sistema, logografico o
fonografico, potrà poi fornire una rappresentazione più o meno completa, o più e meno
coerente, di tutte le unità rilevanti per la propria lingua di riferimento.
Elenchiamo adesso tutti i sistemi di scrittura glottografici:
- Logografia: ogni carattere sta ad un morfema, cioè è composto da un elemento di
scrittura che indica l’area concettuale a cui appartiene una parola (es. cinese e
giapponese).
- Sillabografia: ogni carattere sta per una sillaba, cioè, rappresenta una combinazione
di fonemi diversa, quindi una sillaba diversa (es. giapponese).
- Abjad: ogni carattere sta per una consonante (es. arabo)
- Abugida: ogni carattere sta per una combinazione sillabica di consonante e vocale. A
differenza della sillabografia, gli elementi grafici che rappresentano le consonanti e le
vocali sono ancora distinguibili tra loro.
- Alfabeto: ogni carattere (o grafema) sta o per una consonante o per una vocale
- Grafia di tratti: ogni carattere rappresenta, e riproduce in parte anche nella forma,
una certa conformazione articolatoria, e sta per il fono o i foni prodotti da tale
conformazione.

Nonostante la forma orale rappresenti ancora il mezzo prioritario, lo scritto ha una


priorità sociale, è infatti un requisito essenziale per la lingua di una società evoluta.
Lo scritto nasce come fissazione, trascrizione; ma poi si è sviluppato con aspetti e
caratteri in parte propri: non tutto ciò che fa parte del parlato può essere reso con lo
scritto; né tutto ciò che fa parte dello scritto può essere reso nel parlato.

Linearità e discretezza

Un’altra proprietà dei segni linguistici è la linearità, questa significa che il significante
viene prodotto in successione tempo e/o nello spazio. Non possiamo decodificare il
segno se non dopo che siano stati attualizzati l’uno dopo l’altro tutti gli elementi che lo
costituiscono. La linearità implica anche monodimensionalità, perché il significante si
sviluppa in una sola direzione; e discretezza cioè le unità di una lingua non
costituiscono materia continua, ma c’è un confine fra un elemento e l’altro.

Onnipotenza semantica, plurifunzionalità e riflessività

Una proprietà che contrassegna particolarmente il linguaggio verbale umano è


l’onnipotenza semantica. Questa consiste nel fatto che con la lingua è possibile dare
un’espressione a qualsiasi contenuto. Tuttavia, è difficile provare che tutto si possa dire
con la lingua. È più discreto parlare allora di plurifunzionalità, si intende che la lingua
permette di adempiere a una lista molto ampia di funzioni diverse. Fra le più evidenti ci
sono:
a) L’esprimere il pensiero
b) Il trasmettere informazioni
c) L’instaurare, mantenere e regolare attività e rapporti sociali
d) Il manifestare i propri sentimenti e stati d’animo
e) Il risolvere problemi
f) Il creare mondi possibili

Occorre a questo punto fare un cenno ad


un sistema di classificazione molto noto:
lo schema di Jakobson:

Rifacendoci alla funzione metalinguistica del modello di Jakobson possiamo osservare


la plurifunzionalità della lingua. La lingua si può usare come metalingua, ovvero per
parlare della lingua stessa. Questa proprietà è la riflessività.

Produttività e ricorsività

Un’altra proprietà della lingua è la produttività, ovvero, il fatto che con la lingua è
sempre possibile creare nuovi messaggi e di parlare di cose nuove e nuove esperienze
mai sperimentate prima. La produttività del sistema linguistico prende la forma di
creatività regolare, ovvero una produttività infinita basata su un numero limitato di
princìpi e regole applicabili ricorsivamente. È proprio qui che viene in gioco la
ricorsività, e significa che uno stesso procedimento è riapplicabile un numero
teoricamente illimitato di volte.
Complessità sintattica

Vi sono infine due proprietà. Una di queste consiste nel fatto che i messaggi linguistici
possono presentare un alto grado di elaborazione strutturale, con una ricca
gerarchia di rapporti di concatenazione e funzionali fra gli elementi disposti linearmente.
Questa proprietà può definirsi complessità sintattica. Fra gli elementi che hanno
rilevanza nella trama sintattica vi sono:
a. L’ordine degli elementi contigui
b. Le relazioni strutturale e le dipendenze
c. Le incassature
d. La ricorsività
e. La presenza di parti del messaggio che danno informazioni sulla sua
strutturazione sintattica
f. La possibilità di discontinuità nella strutturazione sintattica

Equivocità

Possiamo concludere questo elenco di proprietà notando che la lingua possiede una
proprietà molto interessante. La lingua è infatti un codice tipicamente equivoco, ovvero
pone corrispondenze plurivoche fra gli elementi di una lista dei significanti e la lista dei
significati.

Sincronia e diacronia

I termini sincronia e diacronia si impiegano per indicare due diverse condizioni con le
quali si può guardare alle lingue in relazione all’asse del tempo. Per diacronia si intende
la considerazione delle lingue lungo lo sviluppo temporale; per sincronia si intende
invece la considerazione delle lingue facendo un “taglio” sull’asse del tempo,
guardando a come queste si presentano in un dato momento. Descrivere il significato
che hanno oggi le parole in italiano, o studiare com’è la struttura sintattica delle frasi
semplici in una lingua, sono operazioni tipicamente di linguistica sincronica.

Langue e parole

La seconda distinzione da fare è quella fra sistema astratto e realizzazione concreta,


ovvero langue e parole. Col primo termine si intende l’insieme delle conoscenze
mentali insite nel codice di una lingua, che costituiscono la nostra capacità di produrre
messaggi in una certa lingua, queste sono un sapere inconscio. Con il secondo termine
si indica invece l’atto linguistico individuale, ovvero la realizzazione concreta di un
messaggio verbale in una certa lingua.

Paradigmatico e sintagmatico
La terza distinzione è quella fra asse paradigmatico e asse sintagmatico. Si può
dire che l’asse paradigmatico riguarda le relazioni al livello del sistema; l’asse
sintagmatico riguarda le relazioni al livello delle strutture che realizzano le
potenzialità del sistema.

Livelli d’analisi

Esistono nella lingua quattro livelli di analisi, che identificano tre strati diversi del
segno linguistico: strato del significante inteso come mero significante, strato
del significante in quanto portatore di significato e lo strato del significato. Tre
livelli di analisi sono relativi al piano del significante: uno per la seconda articolazione,
ovvero la fonetica e fonologia; due per la prima articolazione, cioè morfologia e
sintassi. E un ulteriore livello è relativo solo al piano del significato e consiste nella
semantica.

Morfologia

Parole e morfemi

L’ambito di studio della morfologia è la parola. Definiremo la parola come la minima


combinazione di elementi minori dotati di significato, i morfemi. Questa è una
definizione molto generale, per questo abbiamo dei criteri che ci aiutano a definirla:
a) Il fatto che in una parola l’ordine dei morfemi che la costituiscono è rigido e fisso,
i morfemi non possono essere cambiati di posizione
b) Il fatto che i confini di parola sono punti di pausa potenziale del discorso
c) Il fatto che la parola è di solito separata/separabile nella scrittura
d) Il fatto che foneticamente la pronuncia di una parola non è interrotta ed è
caratterizzata da un unico accento primario
Se proviamo dunque a scomporre parole in pezzi più piccoli troviamo i morfemi. Data
la parola (es. dentale), la si confronta con parole simili, dalla forma molto vicina, che
contengano uno per uno i morfemi che vogliamo individuare. Questo procedimento
viene chiamato prova di commutazione.
Per una definizione di morfema diremo quindi che: il morfema è l’unità minima di
prima articolazione, il più piccolo pezzo di significante di una lingua portatore di un
significato proprio, di un valore e una funzione precisi e individuabili. Possiamo anche
dire che il morfema è la minima associazione di un significante e un significato.
Il significato di una parola è dato dalla somma e combinazione dei significati dei singoli
morfemi che la compongono.
Possiamo avere una variazione della parola morfema: il morfo, questo è un morfema
inteso come forma, dal punto di vista del significante.
L’allomorfo è la variante formale di un morfema, che realizza lo stesso significato di
un altro morfo con la stessa funzione con cui è in distribuzione complementare. Sono
un esempio di questo le forme del verbo venire: ven- vien- ver- venn-, ciascuna di
queste è un allomorfo dello stesso morfema. Le cause dei fenomeni di allomorfia
sono solitamente da ricercare nella diacronia, ovvero alle trasformazioni avvenute
nella forma delle parole e dei morfemi nel corso del tempo; gran parte è dovuta ai
mutamenti fonetici e alle diverse trafile di come alcune parole si sono trasmesse in
italiano dal latino o altre lingue.
Esistono altri casi in cui un morfema lessicale in certe parole viene completamente
sostituito da un morfema, vediamo questo per esempio da “acqua” a “idrico”. A questo
fenomeno si dà il nome di suppletivismo.

Tipi di morfemi

Esistono due punti di vista principale per individuare differenti tipi di morfemi: la prima
è una classificazione funzionale, in base alla funzione svolta; la seconda è una
classificazione posizionale, basata sulla posizione che questi occupano.

Classificazione funzionale
Nella classificazione funzionale si distinguono due tipi di morfemi: i morfemi lessicali
e i morfemi grammaticali. Questi ultimi si dividono poi in morfemi derivativi e
morfemi flessivi.
I morfemi lessicali stanno nel lessico, nel vocabolario, e costituiscono una classe
aperta, continuamente arricchita di elementi; mentre i morfemi grammaticali stanno
nella grammatica e costituiscono una classe chiusa, che non accoglie nuove unità. Non
sempre la distinzione fra questi è chiara, in italiano ad esempio è il caso delle “parole
funzionali” come gli articoli, i pronomi personali, le preposizioni, le congiunzioni, che
formano classi chiuse ma difficilmente si possono definire morfemi grammaticali. Alcuni
elementi di queste parole sono scomponibili in morfemi, come per esempio l’articolo “lo”
(l[radice]-o[maschile singolare]). Una distinzione che in questi casi si fa e che può
essere utile è quella fra morfemi liberi e morfemi legati, i secondi non possono mai
comparire in isolamento.
La derivazione dà luogo a parole regolandone i processi di formazione; la flessione
dà luogo a forme di una parola regolandone il modo in cui si attualizzano nelle frasi. La
derivazione agisce prima della flessione, prima costruiamo parole a cui poi applichiamo
le dovute flessioni.

Classificazione posizionale
Nella classificazione posizionale troviamo gli affissi. Gli affissi che nella struttura della
parola si trovano prima della radice si chiamano prefissi, quelli che stanno dopo
suffissi. In altre lingue del mondo distinguiamo poi anche gli infissi, che sono quegli
affissi che sono inseriti dentro la radice; e i circonfissi, cioè affissi formati da due parti,
una che sta prima della radice e l’altra che sta dopo. In alcune lingue esistono poi degli
affissi che si incastrano alternativamente dentro la radice, dando luogo a quelli che
chiamiamo transfissi, questi sono molto presenti nell’arabo.

Altri tipi di morfemi


La classificazione dei morfemi non finisce con i due tipi precedenti. Per una
classificazione più approfondita analizziamo anche i morfemi sostitutivi (si
manifestano con la sostituzione di un fono ad un altro fono, es. foot/feet), il morfema
zero (dove una distinzione viene eccezionalmente a non essere rappresentata nel
significante, es. sheep sing. sheep plur.) e i morfemi soprasegmentali (in cui un
determinato valore morfologico si manifesta attraverso un tratto soprasegmentale,
come l’accento e il tono), oltre a processi morfologici come la reduplicazione
(ripetizione della radice lessicale), i morfemi cumulativi (recano
contemporaneamente più di un significato o valore) e l’amalgama (fusione di due
morfemi in maniera tale che nel morfema risultante non è più possibile distinguere i due
morfemi all’origine della fusione).

Derivazione e formazione delle parole

I morfemi derivazionali, come abbiamo visto, mutano il significato della base cui si
applicano, aggiungendo nuove informazioni rilevanti, integrandolo, modificando la
classe di appartenenza della parola e la sua funzione semantica, o sfumandone il senso:
è il caso di dormire -> dormitorio.
I morfemi derivazionali svolgono una funzione molto importante, quella di permettere
la formazione di un numero teoricamente infinito di parole a partire da una certa
base lessicale. In ogni lingua esiste una lista finita di moduli di derivazione che danno
vita a famiglie di parole. Una famiglia è formata da tutte le parole derivate da una
stessa radice lessicale. Prendiamo per esempio la radice socio, da questa troviamo
numerosissime derivazioni: sociale, socializzare, società, asociale, sociologia, consocio,
associare, sociolinguistica, socialismo, nazionalsocialismo, ecc.
Fra le parole del gruppo qua sopra descritto meritano un’analisi approfondita le parole
sociologia e nazionalsocialismo. A prima vista, diremmo che i morfemi che formano la
parola sociologia sono due, socio- logia (con valore di “studio di”). Occorre notare che
sociologia non vuol dire “studio dei soci” ma “studio della società”; in questo caso socio
viene dal greco (società) e quindi rappresenta una radice lessicale che si comporta
come prefisso. Possiamo chiamare morfemi di questa natura prefissoidi. Esistono
anche i suffissoidi, cioè i morfemi con significato lessicale come le radici ma che si
comportano come suffissi nella formazione delle parole. Prefissoidi e suffissoidi
provengono maggiormente da parole delle lingue classiche.
In nazionalsocialismo abbiamo invece un caso che sembra simile a quello di sociologia,
ma in cui le due radici lessicali che coesistono nella parola mantengono entrambe il
valore che avrebbero se utilizzate come parole autonome. Si tratta di parole
composte; nell’italiano segue nella composizione delle parole principalmente l’ordine
modificato-modificatore. Non vanno confuse con le parole composte le unità
plurilessematiche, che consistono in sintagmi fissi che rappresentano un’unica entità
di significato, non corrispondente alla semplice somma di significati delle parole che la
compongono. Fra le parole composte e le unità plurilessematiche, si collocano le unità
lessicali bimembri, ovvero il rapporto tra due parole che non hanno raggiunto un
grado di fusione tipico delle parole composte, ma che portano comunque un unico
significato (es. nave scuola, scuola guida, ufficio concorsi).

Box 3.2
Come la derivazione, la composizione permette la formazione di parole nuove a partire da una
certa radice lessicale. Ciò che la distingue dalla derivazione è che mentre una parola derivata
contiene una sola radice lessicale, una parola composta contiene più radici lessicali, ciascuna
suscettibile di comparire come parola autonoma. In italiano la maggioranza delle parole
composte appartiene alla classe di parola dei nomi. Nella gran parte dei casi la composizione
di due parole di qualsiasi classe che possa partecipare alla composizione (nome, aggettivo,
verbo, preposizione, avverbio) dà un nome: es. pescespada (N+N), camera oscura (N+Agg),
bassorilievo (Agg+N), scolapasta (V+N).
Si ha invece un aggettivo quando entrambe le parole della composizione sono aggettivi:
agrodolce, sordomuto, pianoforte. È centrale nei discorsi sulla composizione il concetto di
testa di un composto. Il costituente che funziona da testa assegna al composto la propria
classe di parola e gli conferisce le proprie caratteristiche, oltre ai tratti di flessione. Esistono
anche composti senza testa (es. bagnasciuga, buttafuori). Composti che presentano una testa
vengono chiamati endocentrici, i composti senza testa esocentrici. Se consideriamo poi il
rapporto interno tra i costituenti, i composti si possono classificare in subordinativi e
coordinativi. Sono subordinativi quei composti i cui costituenti sono legati tra di loro da una
relazione di tipo modificato/modificatore. Sono coordinativi quei composti in cui non sussiste
una relazione di tipo modificato/modificatore tra i costituenti.

Altri meccanismi più marginali che formano parole sono le sigle o acronimi (es. CGIL
(Confederazione Generale Italiana del Lavoro), FS (Ferrovie dello Stato), SMS (Short
Message Service)).
In italiano, il più importante e produttivo dei procedimenti di formazione di parole è
comunque la suffissazione. Assai produttiva risulta poi essere la prefissazione, che
al contrario della suffissazione non muta la classe grammaticale di appartenenza
di una parola. Abbiamo poi l’alterazione, molto diffuso in italiano, che altera il
significato della base lessicale con un valore generalmente valutativo, ne sono esempi:
gattino, gattaccio, finestrella, affaruccio.
Nell’inventario dei morfemi derivazionali dell’italiano non sono rari casi di omonimia
(per esempio il prefisso in- può avere valore di negazione o di avvicinamento, ingresso,
direzione).
Le parole derivate si possono definire in maniera da tener conto a) del procedimento di
derivazione, b) della classe lessicale della base da cui derivano, e c) della classe lessicale
a cui appartiene il risultato.
Nei meccanismi della formazione di parola rientra anche il fenomeno della conversione
(o derivazione zero o suffissazione zero), ovvero la presenza di coppie di parole
aventi la stessa radice lessicale ed entrambi privi di suffisso, fra i quali quindi in termini
meramente derivazionali non è possibile stabilire quale sia la parola primitiva e quale la
parola derivata: lavoro, lavoratore; stanco, stancare; fiore, fiorire. Tuttavia, quando la
coppia è costituita da un verbo e da un nome è spesso da assumere che la base sia il
verbo.

Flessione e categorie grammaticali

I morfemi flessionali non modificano il significato della radice lessicale su cui operano:
la attualizzano nel contesto di enunciazione, specificandone la concretizzazione in quel
particolare contesto. I morfemi flessionali intervengono solamente nelle parole che
possono assumere tali specificazioni: operano cioè sulle classi “variabili” delle parole.
Fra le categorie grammaticali vi sono anzitutto quelle più propriamente flessionali,
che riguardano il livello dei morfemi stessi. In generale, si distinguono le categorie
flessionali in due grandi classi: quelle che operano sui nomi (sostantivi, aggettivi,
pronomi, ecc.) e quelle che operano sui verbi. In lingue come l’italiano, la morfologia
nominale ha come categorie fondamentali genere e numero. In altre lingue non esiste
il genere, o il genere può essere marcato per più valori (es. maschile, femminile e
neutro).
La categoria del numero è marcata in italiano con i due morfemi del singolare e del
plurale, alcuni nomi presentano solo la forma plurale. Un’altra categoria flessionale
molto rilevante per i nominali è il caso, che svolge l’importante funzione di mettere in
relazione la forma della parola con la funzione sintattica che essa ricopre nella frase. In
italiano rimangono dei resti di flessione causale nel sistema dei pronomi personali, dove
per esempio tu e te sono appunto distinti per essere l’uno soggetto e l’altro oggetto.
Il processo attraverso il quale un verbo assegna il caso al suo complemento viene
chiamato reggenza.
In molte lingue gli aggettivi possono poi essere marcati per grado: comparativo o
superlativo. L’italiano affida alla flessione solo l’espressione del superlativo.
Altre lingue poi marcano con morfemi appositi la definitezza (es.arab. “almaktabatu”
“la libreria”; “maktabatun” “libreria”) o il possesso (es.turco “kardeşim” “mio
fratello”; “kardeşi” “fratello”).
La morfologia verbale ha cinque categorie flessionali principali:
- Modo: esprime la modalità, cioè la maniera nella quale il parlante si pone nei
confronti del contenuto di quanto viene detto;
- Tempo: colloca nel tempo assoluto e relativo quanto viene detto;
- Aspetto: riguarda la maniera in cui vengono osservati e presentati in reazione
al loro svolgimento l’azione o l’evento o il processo espressi dal verbo;
- Diatesi: esprime il rapporto in cui viene rappresentata l’azione o l’evento rispetto
ai partecipanti e in particolare rispetto al soggetto;
- Persona: indica chi compie l’azione o più in generale riferisce e collega la forma
verbale al suo soggetto.

Categorie grammaticali a livello di parola, che classificano le parole raggruppandole in


classi sono le parti del discorso. L’assegnazione delle parole a categorie o classi
lessicali diverse avviene in base a tre criteri fondamentali: un criterio semantico, il
tipo di significato, un criterio morfologico. L’insieme di questi tre criteri consente
di stabilire l’appartenenza di ogni parola ad una determinata classe, ma non mancano
casi in cui una parola risponde in modo diverso a questi criteri, dando vita a
sovrapposizioni di categoria lessicale. Fra questi casi rientrano: i nomi, i verbi e i
partitivi. Mentre le categorie grammaticali viste fino ad ora sono definibili sull’asse
paradigmatico, si individuano nell’asse sintagmatico altre categorie grammaticali. A
queste si può riservare il nome di funzioni sintattiche. Si tratta delle nozioni
tradizionalmente definite dall’analisi logica, come soggetto, predicato, oggetto,
complemento di termine, complemento di specificazione, complemento di luogo,
complemento di modo, complemento di mezzo, attributo, apposizione, ecc.
La stessa distinzione fra sintagmatico e paradigmatico è rilevante anche per distinguere
due diversi modi di funzionamento della morfologia flessionale: la flessione inerente
e la flessione contestuale. La prima riguarda la marcatura a cui viene assoggettata
una parola in isolamento; la seconda è invece quella che dipende dal contesto: specifica
una forma e selezione i relativi morfemi flessionali in relazione al contesto sintattico in
cui la parola viene usata.
Più in generale, un meccanismo che opera in molte lingue è quello della marcatura di
accordo, che prevede che tutti gli elementi suscettibili di flessione all’interno di un certo
costrutto prendano le marche delle categorie flessionali per le quali è marcato
l’elemento a cui si riferiscono o da cui dipendono.

Sintassi

Analisi in costituenti

La sintassi è il livello di analisi che si occupa della struttura delle frasi: il suo oggetto
di studio è come si combinano fra loro le parole e come sono organizzate in frasi (o
proposizioni). La frase è quindi il costrutto che fa da unità di misura per la sintassi.
Come la nozione di parola questa è molto difficile da definire: in generale diremo che la
frase è l’entità linguistica che funziona come un’unità comunicativa, cioè
costituisce un messaggio autosufficiente nel discorso. Una frase è identificata dal
contenere una predicazione, cioè dice qualcosa, la predica. Poiché il genere il valore
di predicare qualcosa è affidata ai verbi, esistono frasi senza verbo, dette “frasi
nominali”.
Il principio generale dell’analisi delle frasi è basato sulla scomposizione o
segmentazione. Il metodo di rappresentazione più diffuso è quello degli alberi
etichettati. Un albero è un grafo costruito da nodi da cui partono dei rami; ogni nodo
rappresenta un sottolivello di analisi della sintassi.
Il concetto di distribuzione, ovvero l’insieme dei contesti in cui gli elementi possono
comparire nelle frasi, è un criterio importante per distinguere diverse classi di elementi
rilevanti per la sintassi. I determinanti sono tutti gli elementi che occorrono davanti a
un nome e svolgono la funzione di determinare il referente da esso indicato. Ogni frase
è dunque rappresentabile con un indicatore sintagmatico che ne fornisce la struttura in
costituenti.

Sintagmi

Così come la parola è la minima combinazione di morfemi usabile come unità lessicale
autonoma, il sintagma è definibile come la minima combinazione di parole che funzioni
come un’unità della struttura frasale. I sintagmi sono costruiti attorno ad una testa, in
base a cui vengono classificati. Testa è la classe di parole che rappresenta il minimo
elemento che da sono possa costituire un sintagma. Un sintagma nominale è dunque
un sintagma costruito attorno ad un nome, che ne è quindi la testa. Testa del sintagma
verbale è invece è il verbo, del sintagma preposizionale, la preposizione, anche se
quest’ultima pone degli altri problemi, come quello che la preposizione non condivide la
proprietà che hanno le altre teste di un sintagma di poter rappresentare da sole il
sintagma.
Il principio generale delle corrette rappresentazioni sintagmatiche è che, in un albero,
ogni elemento sul ramo di destra modifica l’elemento di sinistra. Un nodo esterno
a F (frase) può essere occupata anche da un avverbio che modifica l’intera frase.

Funzioni sintattiche

La categoria formale di “sintagma” che abbiamo sottolineato in base alla struttura in


costituenti, assume determinati valori funzionali richiesti e necessari per
l’interpretazione semantica delle frasi. Il modo in cui diversi costituenti si combinano
nel dare luogo alle frasi è infatti governato da princìpi che interagiscono tra loro nel
determinare, a seconda del significato del messaggio da trasmettere e del contesto in
cui esso viene trasmesso, l’ordine in cui si susseguono gli elementi e la gerarchia dei
loro rapporti, e a conferire alle frasi la struttura sintattica di superficie con cui queste ci
appaiono. La prima classe di princìpi è quella delle funzioni sintattiche, che riguardano
il ruolo che i sintagmi assumono nella struttura sintattica della frase, i sintagmi nominali
possono valere da soggetto e oggetto; i sintagmi preposizionali possono valere da
oggetto indiretto o da complemento; i sintagmi verbali possono valere da predicato.
Soggetto (tradizionalmente “chi fa l’azione”), predicato verbale (tradizionalmente
definito come “l’azione”), e oggetto (tradizionalmente “chi subisce l’azione”), queste
definizioni sono in realtà fuorvianti. In più a queste si aggiungono numerosi
complementi.

Schemi valenziali

Quando noi dobbiamo enunciare qualcosa sotto forma di frase, è ragionevole pensare
che partiamo dalla selezione di un verbo, questo è associato a delle valenze. Ogni
predicato ha quindi un certo schema valenziale. I verbi possono essere quindi
monovalenti, bivalenti, trivalenti e tetravalenti. Esistono anche i verbi
zerovalenti come piovere o nevicare. Sulla base degli schemi valenziali il soggetto si
potrebbe definire come la prima valenza. In una frase, oltre ai costituenti che rendono
le funzioni sintattiche previste dalla struttura argomentale, si possono trovare anche
costituenti che non fanno parte dello schema valenziale: i circostanziali.

Ruoli semantici

Un altro ordine di princìpi è quello dei ruoli semantici. La frase non viene più guardata
dalla prospettiva del significante dotato di significato, ma dalla prospettiva del
significato, la frase si configura come una sorta di “scena” dove le entità presenti
recitano delle parti. Non esistono né un procedimento formale di definizione e
individuazione né una lista completa e condivisa dei possibili ruoli semantici.
- Agente: è il ruolo semantico dell’entità animata che si fa parte attiva, cioè
provoca ciò che accade nella frase;
- Paziente: è il ruolo che nell’evento rappresentato è coinvolta senza intervento
attivo;
- Sperimentatore: che è il ruolo semantico dell’entità toccata da, o che prova un
certo stato o processo psicologici (es. A Luisa piacciono i gelati);
- Beneficiario: che trae beneficio dall’azione
- Strumento: è l’entità inanimata mediante la quale avviene ciò che accade.
Altri ruoli semantici sono: la località (entità in cui sono situate l’azione, lo stato, il
processo), la provenienza (entità dalla quale un’entità si muove in relazione all’attività
espressa dal predicato), la dimensione (entità che indica una determinata estensione
nel tempo, nello spazio, nella massa) e il comitativo (entità che partecipa all’attività
svolta dall’agente).
Tra le funzioni sintattiche e ruoli semantici ci sono rapporti preferenziali, per cui per es.
ciò che ha il ruolo di agente in struttura semantica tende a comparire come soggetto in
struttura sintattica. In una frase passiva, rispetto alla corrispondente attiva è diversa
la distribuzione del rapporto fra ruoli semantici e funzioni sintattiche: l’agente, che
normalmente fa da soggetto, è mandato a complemento d’agente, mentre il paziente,
che normalmente è oggetto, diventa soggetto.
Sono passivizzabili sono i verbi transitivi, i verbi non passivizzabili sono intransitivi.
All’interno di questi ultimi ci sono anche i verbi inaccusativi, ovvero quelli che
richiedono come ausiliare essere.

Struttura pragmatico-informativa

Nel governare la strutturazione del prodotto finale della sintassi esiste ancora un altro
piano, quello dell’organizzazione pragmatico-informativa. Secondo questo sistema
si distinguono cinque tipi di frasi:
- Frasi dichiarative: che fanno un’affermazione generica che può avere più valori
specifici;
- Frasi interrogative: che pongono una domanda; queste si distinguono in
interrogative totali (anche dette chiuse) o parziali (anche dette aperte)
- Frasi esclamative: che esprimono un’esclamazione, marcate dall’intonazione;
- Frasi iussive: chiamate anche imperative, esprimono un ordine;
- Frasi ottative: chiamate anche desiderative, esprimono un desiderio o un
auspicio, vengono marcate dalla posizione iniziale del verbo al congiuntivo.

Distinguiamo adesso tema e rema. Il tema è ciò su cui si fa un’affermazione. Il rema


è invece la predicazione che viene fatta, l’informazione che viene fornita a proposito del
tema. Un’opposizione che spesso viene considerata corrispondente a tema/rema è
quella fra dato e nuovo. Dato è l’elemento della frase da considerare noto o perché
precedentemente introdotto nel discorso o perché facente parte delle conoscenze
condivise. Nuovo è l’elemento portato come informazione non nota.
Nelle frasi “normali”, tema e rema tendono a coincidere sullo stesso costituente frasale,
quello in prima posizione. Le lingue possiedono però dispositivi per separare le tre
funzioni e mutare o invertire l’ordine non marcato dei costituenti; in italiano, per
esempio distinguiamo: dislocazione a sinistra (spostano a sinistra, cioè davanti la
frase, uno degli elementi che la costituiscono), dislocazione a destra (isola “sulla
destra” un costituente), frase scissa (spezza la frase in due parti, portando all’inizio
della frase, introdotto dal verbo essere, un costituente) e focus (punto d maggior
salienza comunicativa della frase, l’elemento su cui si concentra maggiormente
l’interesse del parlante).

Cenni di grammatica di generativa e le regole in sintassi

La grammatica generativa, legata al nome del grande linguista americano Noam


Chomsky è una grammatica che intende predire in maniera esplicita e formalizzata le
frasi possibili di una lingua. Una grammatica è fondamentalmente costituita da un
lessico e da regola che governano i diversi aspetti della grammatica. Queste regole
sono di solito regole di riscrittura a struttura sintagmatica, cioè hanno la forma
generale “X -> Y+Z”, dove X, Y e Z sono simboli di categoria, Y e Z sono i costituenti
immediati di X in un indicatore sintagmatico e la freccia orientata a destra vale “è da
riscrivere come”. Le regole possono essere ricorsive, cioè quando nell’uscita della
regola è contenuto di nuovo il simbolo di categoria che rappresenta l’entrata della regola,
es. SN -> SN + SPrep.
Le regole che contengono una barra obliqua sono regole contestuali, che si possono
applicare solo nei contesti specificati da quanto viene formalizzato dopo la barra, es.
V -> legge/[+Um.]____
Nelle regole possono quindi, quando è necessario, essere espressi ed esplicitati anche
“tratti”, che vengono indicati da parentesi quadre. Questi sono proprietà rilevanti per la
grammatica, e sono o tratti morfologici o sintattici, riguardanti caratteristiche
morfosintattiche degli elementi. Insieme, questi tratti costituiscono le cosiddette
sottocategorizzazioni.
Per rappresentare la struttura delle frasi, in grammatica generativa si sono venuti ad
usare alberi più complessi, e che rappresentano le cose a un livello maggiore di
astrazione. Anzitutto, vengono introdotte nuove categorie, le “teste funzionali”:
Flessione e Complementatore, che danno luogo a SFless e SComp.

Frasi complesse

La sintassi del periodo è un ulteriore importante sottolivello di analisi del sistema


linguistico. Vi sono principi che regolano le combinazioni di frasi e parele deputate a
esprimere i rapporti tra le frasi. La coordinazione, quando diverse proposizioni
vengono accostate l’una all’altra senza dipendenza; la subordinazione quando vi è un
rapporto di dipendenza delle proposizioni. Gli elementi che realizzano questi rapporti tra
le frasi sono spesso chiamati “connettivi” o “connettori”. Le frasi subordinate, si
dividono in tre categorie:
- Avverbiali: sono frasi subordinate che modificano l’intera frase da cui
dipendono;
- Completive: sono subordinate che sostituiscono un costituente nominale
maggiore, riempiono una valenza o argomento del predicato verbale;
- Relative: sono frasi subordinate che modificano un costituente nominale della
frase.
Testi

Il livello dei testi viene riconosciuto al di sopra dell’unità “frase”. Un testo è definibile
grosso modo come una combinazione di frasi più il contesto in cui essa funziona da
unità comunicativa. Per “contesto” si deve intendere sia il contesto linguistico, sia
il contesto extralinguistico, la situazione specifica in cui la combinazione di frasi è
prodotta.
Entriamo qui nell’ambito della linguistica testuale. Un caso di questo genere è
solitamente la pronominalizzazione, cioè l’impiego e il comportamento dei
pronomi, in particolare i pronomi cosiddetti personali.

Il cane abbaia. Maria si affaccia alla finestra. Lo vede tutto infuriato (…)

Nel pezzo di testo esemplificato, è possibile spiegare l’interpretazione di lo


rimanendo all’interno delle strutture delle singole frasi: occorre infatti riferirsi al
contesto precedente. Fenomeni di questo tipo si chiamano anafore. Il fenomeno
simmetrico e contrario è invece la catafora. Esistono poi altre proprietà come la
deissi. Con questa si designa la proprietà di una parte dei segni linguistici di indicare,
o far riferimento a, cose o elementi presenti nella situazione extralinguistica. Vi sono
tre principi principali di deissi:
- Deissi personale: codifica il riferimento al parlante, all’interlocutore e alle terze
persone e che ha come centro il parlante stesso, chi dice io in una determinata
situazione;
- Deissi spaziale: codifica le posizioni delle entità chiamate in causa rispetto al
luogo in cui si trovano i partecipanti all’interazione;
- Deissi temporale: codifica e specifica la localizzazione degli eventi nel tempo
rispetto al momento dell’enunciazione.
Un altro fenomeno che può essere tipicamente spiegato solo superando i confini delle
singole frasi è la cosiddetta ellissi. Questa consiste nella mancanza o omissione, in una
frase, di elementi che sarebbero indispensabili per dare luogo a una struttura frasale
completa. È il caso per esempio di coppie domanda-risposta:
es. Dove vai? A casa
qui il frammento a casa è automaticamente integrato nella struttura frasale fornita dalla
frase precedente.

Fonetica e fonologia

Fonetica

La fonetica si distingue in tre campi principali: la fonetica articolatoria, la fonetica


acustica e la fonetica uditiva. La prima studia i suoni del linguaggio in base al modo
in cui vengono articolati, cioè prodotti dall’apparato fonatorio; la seconda studia i suoni
del linguaggio in base alla loro consistenza fisica e modalità di trasmissione; l’ultima
studia i suoni del linguaggio in base al modo in cui vengono ricevuti.
I suoni del linguaggio, normalmente, vengono prodotti attraverso l’espirazione, in modo
egressivo. Nella laringe, l’aria incontra le corde vocali, che nella respirazione
rimangono rilassate, mentre nella fonazione possono contrarsi e tendersi avvicinandosi
o accostandosi l’una all’altra. Il primo parametro per individuare grandi classi di suoni
che occorre prendere in considerazione è il modo di articolazione, cioè la
conformazione degli organi fonatori e dal restringimento che in un certo punto del
percorso l’aria va ad incontrare. Se l’aria non incontra nel suo percorso alcun ostacolo
si vengono a formare le vocali, al contrario, si vengono a formare le consonanti. In
aggiunta a questo, se le corde vocali al passaggio dell’aria vibrano abbiamo le sonore,
al contrario, se vibrano molto poco, le sorde.
Secondo il modo di articolazione possiamo distinguere: occlusive (o plosive),
fricative (da distinguere dalle approssimanti con cui non si arriva a produrre una
frizione come nel caso delle fricative; Nel gruppo delle approssimanti distinguiamo
diverse categorie: le semivocali (che hanno un modo di articolazione intermedio fra
vocali e consonanti)), affricate (costituite da due fasi), laterali (l’aria passa al lato
della lingua), vibranti e nasali.
Secondo il luogo di articolazione: bilabiali, labiodentali, dentali, alveolari,
palatali, velari, uvulari, faringali, glottidali.
Le vocali al contrario delle consonanti non sono caratterizzate da una particolare
ostruzione dell’aria ma dalle diverse posizioni che assume la cavità orale e gli organi
mobili, in particolare la lingua. Secondo la posizione in orizzontale della lingua le
distinguiamo in anteriori, centrali e posteriori. Secondo la posizione in verticale della
lingua invece le distinguiamo in alte, medio-alte, medie, medio-basse e basse. La
posizione i cui vengono articolate le vocali secondo il duplice asse orizzontale e verticale
viene chiamato trapezio vocalico. Un altro parametro importante nella classificazione
dei suoni vocalici è la posizione delle labbra durante l’articolazione. Le vocali prodotte
con le labbra protruse si chiamano arrotondate.
Fonologia

Ogni suono producibile dall’apparato fonatorio umano è un potenziale suono del


linguaggio. Chiameremo questi suoni, foni. Nella gamma di foni producibili, le diverse
lingue ne utilizzano un certo numero assegnando loro un valore distintivo, cioè si
oppongono sistematicamente ad altri foni per formare i fonemi, cioè le unità minime in
fonologia. Più precisamente un fonema è una classe astratta di foni, dotata di valore
distintivo. Foni diversi che costituiscono realizzazioni foneticamente diverse di uno
stesso fonema si chiamano allofoni. Una coppia di parole che siano uguali in tutto
tranne che per la presenza di un fonema al posto di un altro, vengono chiamate coppie
minime (es [‘mare] e [‘pare]).

I fonemi dell’italiano

Gli inventari fonematici delle diverse lingue del mondo sono in genere formati da alcune
decine di fonemi. L’italiano standard ha 30 fonemi. I problemi generali della fonologia
dell’italiano sono divese:
- Consonanti lunghe: es. [‘kane] [‘kanne]
- Differenze regionali: opposizioni fra [s] e [z], fra [ts] e [dz], fra [j] e [i] e fra
[w] e [u]
- Opposizione fra vocali medio-alte e medio-basse: [e] o [ɛ] e fra [o] e [ɔ]
- Raddoppiamento fonosintattico: allungamento della consonante iniziale della
parola quando questa è preceduta da una delle parole che provocano questo
fenomeno

Sillabe e fatti fonotattici

Un ruolo decisivo nella costituzione delle parole di una lingua hanno le minime
combinazioni di fonemi. In italiano, una sillaba è sempre costruita attorno a una vocale:
una consonante o un’approssimante ha sempre bisogno di appoggiarsi a un nucleo
fonico, in genere una vocale. Ogni sillaba è formata da almeno una, e non più di una,
vocale. Una vocale da sola può pertanto costituire una sillaba. In una sillaba, la parte
che eventualmente precede la vocale è detta attacco o input; la vocale stessa è il
nucleo e la parte che eventualmente la segue è la coda. Le sillabe che finiscono con la
coda vengono dette “chiuse” quelle che non ce l’hanno sono chiamate “aperte”. In
recenti teorie fonologiche basate sulla sillaba, nucleo e coda assieme costituiscono la
rima, questa determina il “peso” della sillaba. Una combinazione interessante di fonemi,
che può essere considerato come una sillaba a se stante sono i dittonghi. Si possono
dare anche combinazioni fra due semivocali e una vocale e formare un trittongo.

Fatti prosodici (o sovrasegmentali)

Vi sono una serie di fenomeni fonetici e fonologici che riguardano non i singoli segmenti,
ma la catena parlata nella sua successione lineare. All’insieme di questi fenomeni si da
il nome di tratti soprasegmentali. Il tratto soprasegmentale per eccellenza è l’accento.
In italiano l’accento è fondamentalmente dinamico o intensivo, dipendente dalla forza
con cui sono pronunciate le sillabe: la sillaba tonica è tale soprattutto a un aumento del
volume della voce. In altre lingue l’accento è connesso soprattutto con la durata della
parola. La posizione dell’accento all’interno di una parola può essere libera o fissa.
In italiano l’accento è tipicamente libero e può trovarsi sull’ultima sillaba di una parola,
sulla penultima, sulla terzultima, sulla quartultima o addirittura sulla quintultipla.
La successione nella catena parlata di sillabe atone e sillabe toniche, cioè il susseguirsi
di elementi forti e deboli dà luogo al ritmo. L’italiano è una lingua fondamentalmente
a isocronismo sillabico cioè in una parola viene assegnata durata analoga alle sillabe
atone.

Tono e intonazione

I fenomeni di tonalità e intonazione riguardano l’altezza musicale. Tono è


precisamente l’altezza relativa di pronuncia di una sillaba. In molte lingue, dette
appunto tonali, il tono può avere un valore distintivo pertinente a livello di parola, cioè
può distinguere da solo parole, es. cinese mandarino.
L’intonazione invece è l’andamento melodico con cui è pronunciato un gruppo tonale
o gruppo ritmico. In italiano, per esempio, il contorno intonativo degli enunciati è in
molti casi l’elemento principale a fornire l’informazione cruciale che distingue il valore
interrogativo di un enunciato.

Lunghezza

La lunghezza riguarda l’estensione temporale relativa con cui i foni e le sillabe sono
prodotti. La quantità delle vocali o delle consonanti può avere valore distintivo. In
italiano, la quantità delle consonanti non ha funzione distintiva. Anche per le vocali, la
durata in italiano non è pertinente.
Lingue del mondo

Le lingue del mondo

Le lingue storico-naturali sono composte da diverse migliaia. Le cifre proposte dagli


studiosi vanno da un minimo di 2200 a 7000 lingue. Enumerare le diverse lingue del
mondo è un compito molto difficile. Anzitutto, certe aree linguistiche sono
insufficientemente studiate; e soprattutto delle volte è difficile stabilire se diverse lingue
parlate tra loro simili sono da considerare varietà o dialetti di una stessa lingua.
L’Italia è già un caso esemplare per questo problema, perché bisogna tener conto non
solo della lingua nazionale comune, ma anche dele lingue delle minoranze. In
secondo luogo, è dubbio lo statuto dei veri dialetti, che se calcolati ognuno come una
lingua a parte, arriviamo ad una trentina di lingue “indigene”.
La maniera principale di mettere in ordine i vari sistemi linguistici è quello di
raggrupparli in famiglie, secondo criteri di parentela genealogica. L’italiano, per
esempio, viene dal latino, ed ha una parentela stretta con tutte le altre lingue
provenienti da questo, queste lingue costituiscono il ramo romanzo. Le lingue romanze
hanno ancora altre parentele remote con le lingue germaniche, le lingue slave, le
lingue baltiche, le lingue celtiche, le lingue indoarie, le lingue iraniche e tre
lingue isolate: il (neo)greco, l’albanese e l’armeno. Tutte queste lingue formano la
famiglia delle lingue indoeuropee.
Il livello di famiglia rappresenta il più alto livello di parentela ricostruibile con i mezzi
della linguistica storico-comparativa.
La linguistica comparativa riconosce ad oggi un massimo di diciotto famiglie
linguistiche, a cui andrebbero aggiunte lingue pidgin e creole, ovvero quelle lingue
nate dall’incontro e la mescolanza in situazioni particolari di lingue.
Tipologia linguistica

La tipologia linguistica si occupa di individuare che cose c’è di uguale e che cosa c’è
di diverso nel modo in cui le diverse lingue storico-naturali sono organizzate e
strutturate. La tipologia è dunque strettamente connessa con lo studio degli universali
linguistici, ovvero proprietà ricorrenti nella struttura delle lingue. Questi si distinguono
in universali assoluti (che non conoscono eccezioni in nessuna lingua), universali
implicazionali (se A, allora B), gerarchie implicazionali (se A allora B, se B allora C,
se C allora D, ecc.).
Tipologia morfologica

Un primo modo di individuare tipi linguistici diversi e di classificare quindi


tipologicamente le lingue è basato sulla morfologia, e più precisamente sulla struttura
della parola. Un primo tipo morfologico è dato dalle lingue isolanti. Si dice isolante
una lingua in cui la struttura della parola è la più semplice possibile, ogni parola
ha dunque un rapporto morfemi:parole di 1:1. Il nome di isolanti si giustifica dal fatto
che tali lingue non solo “isolano” in blocchi unitari inscindibili le singole parole, ma anche
esprimono spesso significati complessi scindendoli in lessemi più semplici giustapposti.
Queste ancora non presentano, tendenzialmente, morfologia flessionale e hanno poca
o nulla morfologia derivazionale. Le parole nelle lingue isolanti sono molto spesso
monosillabiche. Sono lingue isolanti: il vietnamita, il cinese, il thailandese, l’hawaiano,
ecc.
Un secondo tipo morfologico è dato dalle lingue agglutinanti. Viene detta agglutinante
una lingua in cui le parole hanno una struttura complessa, sono cioè formate dalla
giustapposizione di più morfemi che danno luogo a una catena di morfemi anche lunga.
Le parole si presentano quindi come stringhe compatte di morfemi. In lingue come
queste le parole possono anche essere molto lunghe e sono costituite da una radice
lessicale a cui sono attaccati più affissi. Sono lingue agglutinanti: il basco, il giapponese,
lo swahili, ecc.
Un terzo tipo morfologico è dato dalle lingue flessive (o fusive). Queste presentano
parole internamente abbastanza complesse, costituite tendenzialmente da una base
lessicale semplice o derivata e da uno o anche più affissi flessionali che spesso sono
morfemi cumulativi. Rispetto alle lingue agglutinanti le parole hanno una struttura meno
complessa e sono composte da una catena meno lunga di morfemi; ma per converso vi
sono molti fenomeni di allomorfia e di fusione che amalgamano spesso i singoli morfemi
e li rendono non ben separabili e identificabili con qualche difficoltà. Esempi di lingue
flessive sono: l’italiano, il latino, il russo e le principali lingue europee.
Nel tipo morfologico flessivo si distingue un sottotipo introflessivo. Questo è
caratterizzato dal fatto che i fenomeni di flessione avvengono anche dentro la radice
lessicale. Esempio di questo fenomeno è l’arabo.
Vi è infine un quarto e ultimo tipo morfologico fondamentale, quello polisintetico. Le
lingue polisintetiche sono quelle che hanno la struttura della parola più complessa.
Come le lingue agglutinanti, hanno la parola formata da più morfemi attaccati insieme,
ma a differenza di queste, presentano la peculiarità che in una stessa parola compaiono
due o più radici lessicali, morfemi pieni. Le parole di queste lingue tendono quindi a
corrispondere spesso a ciò che nelle altre lingue sarebbero delle frasi intere. Qualche
esempio di queste lingue sono: il groenlandese occidentale e una varietà di eschimese.
Le lingue polisintetiche sono a volte chiamate anche incorporanti.
Passando dal tipo linguistico isolante al tipo linguistico polisintetico vi è dunque un
progressivo complicarsi della struttura della parola: le lingue isolanti sono lingue
tipicamente analitiche, cioè che “spezzano” il contenuto da codificare e trasmettere in
blocchi unitari semplici, le lingue agglutinanti e ancor più le lingue polisintetiche
sono lingue sintetiche, cioè che “impacchettano” assieme più blocchi di contenuto,
ottenendo unità complesse.
Tipologia sintattica

Un secondo fondamentale criterio o principio per classificare le lingue in tipi linguistici è


basato sulla sintassi, precisamente sull’ordine basico dei costituenti della frase. I
costituenti sintattici fondamentali sono quelli che realizzano il soggetto, il verbo e il
complemento oggetto. Sono possibili sei ordini diversi: SOV, SVO, VSO, VOS, OVS e
OSV. Almeno cinque di questi ordini risultano presenti nelle lingue del mondo, ma con
una consistenza e distribuzione statistica molto diversa: SOV è l’ordine più frequente,
SVO è il secondo per frequenza, VSO il terzo e VOS il quarto, gli altri sono marginali.
Ma perché sono questi gli ordini principali?
Una prima spiegazione ragionevole consiste nel fatto che il soggetto coincide con il
tema: e il tema sta in prima posizione. Entrambi i due ordini predominanti hanno il
soggetto in prima posizione. In parte collegati a questa condizione basilare,
sembrano agire due princìpi:
- Il principio di precedenza, per cui fra i costituenti nominali, il soggetto, data
la sua prominenza e priorità logica, deve precedere l’oggetto (principio forte).
- Il principio di adiacenza, per cui verbo e oggetto devono essere contigui, in
ragione della loro stretta relazione sintattico-semantica (principio meno forte del
primo).
Alcuni studiosi hanno cercato di costruire tipologie complesse a partire dalla collocazione
reciproca di verbo e oggetto, tralasciando il soggetto, che è per così dire esterno al
rapporto di dipendenza col verbo. Sono stati riconosciuti due tipi fondamentali:
- Lingue VO: che “costruiscono a destra” con l’ordine operando/operatore;
- Lingue OV: che “costruiscono a sinistra” con l’ordine operatore/operando.
In ogni lingua c’è sempre, per ragioni storiche e di variabilità, un certo ammontare di
incoerenza tipologica. L’italiano, per esempio, che è come abbiamo detto una lingua
SVO, ha molti tratti delle lingue VO.

Ergatività e prominenza topicale

L’ergatività riguarda l’organizzazione dei sistemi di casi che traducono in superficie i


ruoli semantici connessi al verbo. Esistono infatti delle lingue che, contrariamente alle
lingue con sistemi di caso, assegnano una marcatura diversa di caso al soggetto a
seconda che esso sia soggetto di un verbo transitivo o di un verbo intransitivo. Queste
lingue si chiamano ergative, perché attribuiscono una rilevanza particolare alla
funzione o ruolo semantico di “agente”. Possiamo distinguere dunque fra lingue
subject-prominent e lingue topic-prominent. Le prime sono tipicamente
indoeuropee. Le lingue topic-prominent, come per esempio il cinese, non costruiscono
le frasi secondo lo schema soggetto-verbo, ma piuttosto isolando il tema in prima
posizione. Il giapponese è un caso particolare di lingua sia subject-prominent che topic-
prominent.

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