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DI MARCELLO APRILE.
CAP. 1: LE PAROLE
2. Parole e grammatica
Mentre il numero delle parole è arricchibile all’infinito, il numero delle regole grammaticali
è un insieme stretto e stabile: il cambiamento di una regola grammaticale produce
trasformazioni e riassestamenti in tutto il sistema, quindi è un fatto molto rilevante e in
alcuni casi distruttivo: per esempio, il graduale passaggio dal sistema delle declinazioni
latine all’opposizione singolare/plurale delle lingue romanze implica la fine del latino. Se
cambia una parola non succede quasi nulla, se cambia una regola grammaticale sì.
Il lessico è un insieme aperto, dotato di dinamismo. Ciò implica che è più facile dare giudizi
di accettabilità grammaticale (cioè stabilire se una frase è corretta o meno) che di
accettabilità lessicale.
Il lessico e la grammatica non sono mondi separati perché quando si realizza una frase le
parole vengono adattate (cioè usate al maschile, femminile, plurale, o nel caso dei verbi,
coniugate secondo un tempo, modo o persona) secondo un insieme di regole grammaticali.
Le interferenze tra lessico e grammatica ci sono anche ad altri livelli. Ci sono alcuni elementi
del lessico usati con funzioni grammaticali, come le locuzioni preposizionali o
congiunzionali, cioè insiemi fissi di parole che costituiscono unità autonome con la funzione
di una preposizione o congiunzione (per esempio a causa di, in funzione di, da parte di o
dal momento che): sono elementi grammaticali che hanno subito un processo di
lessicalizzazione. Ci sono, viceversa, elementi che un tempo appartenevano alla sfera della
grammatica, come alcuni participi presenti: mediante, per esempio, era originariamente solo
il participio presente del verbo mediare e poi con l’uso si è trasformato in una preposizione
che ha assunto il significato di “per mezzo di”. Nel caso di mediante c’è stato un processo di
grammaticalizzazione, opposto a quello di lessicalizzazione (come in a causa di).
4. LESSICO MENTALE
Il lessico mentale è l’insieme delle parole memorizzate da un parlante e la relazione che il
parlante stabilisce tra loro. Questa relazione può essere:
1) Di tipo formale, come le rime (botto, cotto, motto), le assonanze (cuore/suole), le
allitterazioni (Amor ch’a nullo amato amar perdona) o altri schemi di questo tipo
tra serie di parole;
2) Di tipo semantico, come quelle tra sinonimi (libro/volume), antonimi (alto/basso),
iperonimi/iponimi (animale/cane).
3) Di tipo formale e semantico, come le relazioni che sviluppano all’interno della
formazione delle parole (forma/formale/formalizzare)
4. La polisemia
La maggior parte delle parole come tavolo, mano è “immotivata”, cioè non trae la propria
forma dalla realtà.
L’immotivazione produce un risultato secondario: il fatto che ogni parola possa avere più
significati. Questo fenomeno prende il nome di polisemia, che si ha quando una stessa
immagina acustica può essere simbolo di diverse realtà, cioè può avere più contenuti e
significati. In questo caso, i diversi significati sono ordinati dai vocabolari all’interno di una
sola voce.
Quasi tutte le parole più diffuse nell’uso quotidiano sono polisemiche, cioè hanno più
significati. Se pensiamo alla parola acqua senza l’ausilio di un vocabolario, ci viene in
mente il liquido inodore, insapore che beviamo. In una frase come l’acqua viene giù a
dirotto la parola significa “pioggia”. Al plurale, le acque indicano la distesa del mare, di un
fiume o di un lago, o le acque termali; la rottura delle acque indica il momento in cui
fuoriesce il liquido amniotico all’inizio di un parto. Ci sono poi significati minori: acqua
vuol dire “infuso, decotto”, ma anche, in secoli passati, “sorgente” e “profumo”; il plurale
acque significa “maree” in dialetto veneziano. Se allarghiamo lo sguardo alla fraseologia, la
documentazione si allarga dall’acqua di colonia all’acqua minerale; nel modo di dire la
classe non è acqua la parola significa “cosa senza valore” (all’interno di un modo di dire in
cui, come spesso succede in questi casi, un singolo elemento smette di avere un significato
preciso a vantaggio del significato di frase).
Se una parola ha più accezioni (come barriera), bisogna sapere come decifrarne il
significato esatto. In questo caso, bisogna fondarsi su una visione più larga di quella della
singola parola, considerando che non parliamo per parole isolate, ma in frasi: la parola
isolata si inserisce in una struttura più ampia e attraverso essa si determina il pensiero che
figura sullo sfondo di questa parola. È il contesto che precisa la scelta del significato in una
data situazione linguistica. L’importanza del contesto spiega come mai in alcune situazioni
possiamo anche sbagliare nella scelta di una singola parola, senza che agli altri sia impedito
capire cosa vogliamo dire.
La polisemia è un meccanismo adottato estesamente nella lingua della pubblicità e della
satira per via degli effetti stilistici che può produrre. Prendiamo un manifesto che pubblicizza
un’iniziativa per la realizzazione di varie trasmissioni televisive su un’emittente locale.
L’iniziativa si chiama “TV Students” ed è gestita dalle organizzazioni studentesche
universitarie. Il manifesto ha il titolo Libera frequenza e gioca sull’ambiguità polisemica tra
il significato scientifico di frequenza, noto ai parlanti comuni soprattutto in riferimento alle
trasmissioni radiotelevisive, e il senso di “partecipazione alle lezioni”.
5. L’OMONIMIA
Una parola può avere più significati (polisemia). Quando parole diverse assumono forma
uguale e coincidono foneticamente abbiamo l’omonimia, che si definisce come l’identità di
due forme di origine diversa:
sale a) “cloruro di sodio” < latino sal
b) “egli sale” (3 persona del verbo salire). < latino salit
Da un punto di vista sincronico, sale è una sola parola con 2 significati diversi: quello di
forma verbale della 3 persona del presente indicativo di salire e quello di “cloruro di sodio”.
Ma qui non si tratta di un caso di polisemia: da un punto di vista diacronico (storico) si tratta
di 2 parole diverse, che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra e hanno un’etimologia
(cioè un’origine e una storia) separata. La prova pratica sta nel fatto che se le cerchiamo sul
vocabolario, una sarà sotto il verbo salire e l’altra sarà una voce a sé (sale).
L’omonimia può riguardare anche più di 2 parole. Per esempio parto può essere una voce
del verbo partire, il nome che indica l’azione del partorire e anche l’appartenente ad
un’antica popolazione orientale contro cui combatterono i Romani. Queste forme le troviamo
distanti nel vocabolario: la prima sotto il verbo partire e le altre due sotto parto1 e parto2;
e tutte e 3 hanno un’etimologia e una storia diversa e indipendente.
Esiste un altro caso di omonimia: dal significato primario di una parola si sviluppano
accezioni secondarie che si differenziano così tanto da costituire nella coscienza dei parlanti
due omonimi, due parole diverse che hanno lo stesso contenuto fonico. Per esempio, la stessa
parola (immagine acustica) bolla può designare: la bolla d’acqua; un sigillo, un marchio, un
timbro o un documento scritto. Entrambi i significati base risalgono al latino bulla, ma sono
percepiti ormai come due omonimi (e nel dizionario hanno due entrate diverse, cioè si
trovano sotto voci diverse): nello Zingarelli il primo significato lo troviamo sotto bólla1,
mentre gli altri sotto bólla2.
L’omonimia, come la polisemia, può dar vita a dei giochi di parole che consentono una
scrittura vivace e brillante e quindi sono molto sfruttati nell’italiano dei giornali. Per
esempio, l’omonimia tra parabola, “antenna parabolica” (dal greco parabolé, “sezione
comica”) e parabola, “racconto evangelico” (dal latino parabola), è alla base del titolo Ma
che brutta parabola di un articolo che verte sull’inesteticità delle antenne paraboliche nelle
città.
Scheda 2.1
7. SINONIMIA E ANTONIMIA
Le parole che hanno lo stesso significato sono dette sinonimi. Ma come già era chiaro a
Niccolò Tommaseo, che nel 1830 compilò un Dizionario dei sinonimi, una perfetta identità
di significato o di possibilità d’uso non esiste. Anche tra parole per cui sembrerebbe
possibile la sinonimia assoluta, come tra e fra, una piccola differenza, almeno nell’uso, c’è
sempre: per motivi di eufonia (perché suona meglio) si preferisce dire “eravamo tra fratelli”
evitando la ripetizione di due fra ravvicinati, come per lo stesso motivo si preferisce dire “è
compreso fra tre e quattro.
Parleremo di sinonimia relativa, preferendo dire che le parole, anche quelle più vicine,
possono condividere lo stesso significato fondamentale. Tutto questo diventa immediato
quando verifichiamo il contesto d’uso di 2 parole. Prendiamo il caso di 2 parole indicate
come sinonimi, equità e giustizia. In alcuni casi esse sono interscambiabili; per esempio, si
può dire “si è comportato con equità” o “con giustizia” oppure “è un fatto di giustizia
sociale” o “di equità sociale”. Ma le due parole non possono essere interscambiabili in altri
contesti. Si può dire “intralciare la giustizia” ma non “intralciare l’equità”, “amministrare la
giustizia” ma non “amministrare l’equità”.
Il fatto che una sinonimia assoluta non esista, non significa che usare sinonimi non
costituisca una ricchezza stilistica interessante che permette a chi lo fa di esprimere la varietà
del pensiero e di usare sfumature stilistiche importanti.
Differenza tra CONTRARI e CONTRADDITTORI: il contrario di lento è veloce, il
contraddittorio di veloce è non veloce, quello di vita è non vita.
All’interno dei contrari vi è una differenza tra contrari graduabili e contrari non
graduabili. I primi, come le coppie veloce/lento e caldo/freddo possono esprimere una
comparazione: si può dire, per esempio, “tu sei più veloce di me”/ “tu sei più lento di me”. I
secondi esprimono una scelta netta: vivo e morto, maschio e femmina sono contrari non
graduabili perché l’uno è la negazione dell’altro. Non si può dire “Marco è più vivo di
Francesco”. I contrari non graduabili usati in senso metaforico diventano graduabili. Per
esempio se diciamo “Francesco è vivo” significa che non è morto (contrario non graduabile),
ma in “Milano è una città viva”, nel senso metaforico di “vivace”, vivo ridiventa graduabile
perché può essere usato in frasi come “Milano è più viva di Vienna”.
In situazioni particolari gli antonimi si neutralizzano. Ci sono aggettivi come bello o bravo,
o sostantivi come velocità che possono diventare gli equivalenti ironici dei loro contrari
(brutto, incapace, lentezza) se usati in contesti come “hai avuto proprio una bella pensata”
(di un pasticcio).
Esistono anche aggettivi senza contrario, in un singolo significato o in tutti. Per esempio
freddoloso non ha un antonimo, dato che non esiste un aggettivo che significhi “che
sopporta male il caldo”.
6. IL MECCANISMO DELL’ANALOGIA
Dal punto di vista della formazione di nuovi modi di dire, abbiamo il fenomeno
dell’analogia. I modi di dire vengono spesso coniati sulla base di altre parole o di sequenze
di parole già esistenti e memorizzate dai parlanti. Per esempio, l’espressione madre di tutte
le battaglie, risalente alla prima guerra del Golfo, ha prodotto per analogia delle espressioni
simili come madre di tutte le partite, di tutte le cause.
Quadro 3.1
VOCABOLARI E STUDI SUI MODI DI DIRE
I modi di dire sono stati oggetto di studio scientifico sistematico solo recentemente, anche se
l’interesse erudito sulla questione risale al 700. Si deve segnalare l’antico precedente di
Sebastiano Pauli, che nel 1740 pubblica a Venezia una raccolta di Modi di dire toscani
ricercati nella loro origine. Ricco nella fraseologia è Bellezze di modi comici e famigliari
ovvero tesoretto di lingua e popolar sapienza pubblicato ad Ancona nel 1858 da Consolo.
Se ci riferiamo ai proverbi (abbiamo anche un precedente 6centesco di Orlando Pescetti che
nel 1611 pubblica a Venezia una raccolta di Proverbi italiani raccolti e ridotti sotto a certi
capi per ordine alfabetico), l’800 ci fornisce un repertorio importante dal punto di vista
documentario, la Raccolta di proverbi toscani curata da Gino Capponi dal materiale
manoscritto del poeta Giuseppe Giusti. Anche il ricorrere di proverbi e modi di dire in più
lingue ha attirato spesso gli eruditi; si veda, per esempio, un Dizionario comparato di
proverbi e modi proverbiali in 7 lingue, pubblicato dalla Hoepli a Milano nel 1929 e più
volte ristampato. Dello stesso genere è la raccolta di Modi di dire italiani, francesi, inglesi
e tedeschi pubblicata nel 1923 dalla stessa casa editrice milanese.
Non si possono elencare i repertori che hanno per oggetto la fraseologia nei dialetti. Per
quanto riguarda i repertori dell’italiano disponibili oggi, si parte da Frase fatta capo ha.
Dizionario dei modi di dire, proverbi e locuzioni, a cura di Giuseppe Pittano; Dizionario
dei modi di dire della lingua italiana e Capire l’antifona. Dizionario dei modi di dire
con esempi d’autore di Giovanna Turrini e altri.
Lo strumento più ampio, aggiornato e affidabile è dello svizzero Ottavio Lurati che nel 2001
pubblicò un Dizionario di modi di dire in cui molti casi dubbi si sono risolti grazie ad una
ricerca in fonti antropologiche e ad un rinnovamento metodologico nella disciplina. Dello
stesso autore è il successivo Per modo di dire…, organizzato in forma di studio metodico.
Nell’italiano di oggi il ruolo guida della letteratura si è ridimensionato. Raffaele Simone dice
che l’innovazione lessicale deriva dal giornalismo e dai mass media, dalla burocrazia, dalla
cultura diffusa e dalle mode culturali (soprattutto giovanili), dai contatti dell’Italia con altri
paesi e con le loro lingue (come l’inglese d’America, vivacissimo nei campi della finanza,
della borsa, del commercio e da qualche tempo anche della medicina, della tecnologia e delle
scienze), dal rimescolarsi della lingua con le sue varietà regionali e con i suoi dialetti.
1. I LINGUAGGI SETTORIALI
Le varietà dell’italiano usate in ambiti specifici della vita sociale e professionale (linguaggi
settoriali) rappresentano una forza espansiva fondamentale nell’italiano di oggi a causa della
specializzazione sempre maggiore della società nei saperi, nelle tecniche e negli aspetti della
vita pubblica e privata. Ci sono i linguaggi settoriali delle scienze (la matematica, la fisica, la
biologia, la fonetica) o del diritto e dell’amministrazione, ma anche di hobby come il
modellismo, di sport come il calcio. Ciascuna ramificazione del sapere e delle sue
applicazioni ha un suo vocabolario, cioè una sua terminologia. Data l’inarrestabile
specializzazione dei saperi, ciascuna ramificazione ha un suo lessico specialistico. I
linguaggi settoriali convergono nelle varie lingue di cultura perché molte professioni sono
sovranazionali. Pensiamo alla lingua del turismo, per la quale è stato istituito un comitato
tecnico che ha regolato per l’Unione Europea la terminologia in fatto di servizi e assistenza
per informazioni al pubblico, trasporti, tariffe, assicurazioni, contratti di viaggio.
Come si forma un linguaggio settoriale? La costruzione del suo lessico segue 2 vie:
1) Si coniano o si prendono in prestito da altre lingue parole (termini) o unità
polirematiche che la lingua comune non ha e che sono proprie di quel determinato
settore: per la medicina prendiamo tachicardia, colecistite, colica epatica. La
medicina riprende gran parte della sua terminologia dal greco e latino (altri settori
prendono i loro elementi lessicali da altre lingue, come l’economia dall’inglese o la
gastronomia dal francese);
2) Si usano parole che sono già della lingua comune ma le si specializza attraverso una
rideterminazione semantica, cioè attraverso l’acquisizione di un nuovo significato,
proprio di quel settore. Prendiamo la lingua del calcio, che è ricca di determinazioni:
abbiamo scivolata, che nella lingua comune significa “scivolone, azione dello
scivolare”. Nelle cronache sportive la scivolata è un’azione di gioco che consiste in un
intervento con le gambe in avanti, regolare se colpisce il pallone, falloso se colpisce
anche o solo le gambe dell’avversario. Lo stesso termine, nel linguaggio del settore
aeronautico, indica una derapata (termine specialistico), cioè uno spostamento laterale
per la forza del vento o durante una virata non corretta, verso il lato basso dell’aereo.
Una parola del linguaggio comune, quindi, può, se rideterminata semanticamente,
diventare un termine specialistico anche di più settori; in ciascun settore avrà il suo
significato specifico, senza che ci siano confusioni o ambiguità da parte di chi
recepisce la parola.
A ciascun termine deve corrispondere un solo significato. La polisemia, che è diffusa nel
lessico comune, a tal punto che la maggior parte delle parole ha più di un significato, nei
linguaggi settoriali deve essere ridotta al minimo, o deve scomparire in favore della
monosemia. In qualunque ambito specialistico, la polisemia introdurrebbe ambiguità e
l’ambiguità è una negazione della comunicazione scientifica.
I mutamenti sociali e politici sono visti come un fattore di evoluzione del lessico. Iniziamo
dal cambiamento dell’organizzazione del lavoro e dei mestieri, che ha mandato in pensione
professioni e saperi fino a pochi decenni fa diffusissimi e di cui ora si trova traccia solo nei
musei di tradizioni popolari. Se prendiamo il vocabolario ottocentesco di Giacinto Carena,
uscito in varie edizioni a cavallo dell’Unità politica d’Italia, ci accorgiamo che molti nomi di
oggetti e mestieri è perlopiù ignota agli italiani di un secolo e mezzo dopo. Per Carena la
cacciatoia è un pezzo di legno tagliato a sbieco a uso di conio che serve per aprire, serrare o
stringere le forme in torchio. Apparteneva al linguaggio dei tipografi. Sono parole e
significate ormai desueti, legati a un mondo che non esiste più.
Il mondo del lavoro cambia e con esso cambiano le denominazioni delle professioni.
Stagnaio, lattoniere, fontaniere non sono più vitali come un tempo nelle varie regioni da
quando il mestiere artigianale ha cominciato ad organizzarsi su un piano aziendale; la
denominazione si è unificata a favore di idraulico o installatore termoidraulico.
Il fenomeno, dato il rapido sviluppo della tecnologia nel mondo moderno, si può misurare
ormai non nell’arco di secoli, ma di pochi decenni, o in alcuni settori della scienza e della
tecnica anche in pochi anni. Un ventenne di oggi, forse non ha mai sentito nominare una
scheda perforata, un sopporto fondamentale nell’informatica di ieri che consentiva di
trascrivere dati per apparecchiature elettroniche per mezzo di una perforatrice: a una tecnica
superata corrisponde di solito una terminologia superata, con qualche eccezione.
Le conoscenze del lessico non sono omogenee nella comunità linguistica, ma cambiano nei
diversi strati sociali in rapporto al grado di conoscenza e alla divisione del lavoro: una parola
che può apparire specialistica per un parlante comune, può essere percepita diversamente da
uno specialista per il quale apparirà di uso frequente e continuo.
Quadro 4.1
I tecnicismi collaterali
I tecnicismi collaterali completano sul piano dell’espressione stilistica la terminologia. Sono
forme lessicali non necessarie (come lo sono i tecnicismi specifici di un linguaggio
settoriale), e che però rispondono all’esigenza stilistica di mantenere al discorso settoriale un
certo grado di specificità e di separatezza rispetto al linguaggio comune. Non sarebbe
indispensabile scrivere accusare al posto di sentire un dolore, assumere al posto di
prendere un farmaco, ma esprimersi così aumenta il tasso tecnico del discorso.
Quadro 4.2
Varietà sociali e lessico
L’uso della lingua e del lessico può dipendere anche da variabili sociali come il sesso, l’età,
la classe socioeconomica, i gruppi di appartenenza, il grado di istruzione. Quanto alla prima,
la questione della lingua dei giovani, ammesso che ne esista una, va vista in un quadro più
generale: qualsiasi gruppo chiuso tende a produrre usi linguistici parzialmente diversi. Anche
la relazione tra lingua e sesso è molto problematica e difficilmente misurabile. È possibile
che uomini e donne parlino in modo leggermente diverso in relazione alle attività svolte e
che le donne siano più propense all’uso dell’italiano nella sua varietà locale. Una
correlazione tra classe sociale/livello di istruzione e lingua c’è, ma anche in questo caso è
difficilmente misurabile e non possono essere fatti discorsi generalizzanti: se è vero che in
linea di principio alti redditi consentono studi migliori (e questo ha un riflesso sulla lingua),
è vero per converso che spesso tra le classi più agiate ciò non si verifica; al contrario, tra i
gruppi sociali meno abbienti ci sono persone di ottima formazione culturale.
Il grado di misurabilità dell’impatto di questi fattori sul lessico, con gli strumenti e i modelli
teorici esistenti, è quindi basso.
3. I NEOLOGISMI
Una parola nuova nasce perché creare una nuova unità lessicale rappresenta il mezzo più
semplice ed economico per identificare oggetti del mondo fisico e contenuti mentali.
La neologia, cioè la possibilità di ogni lingua di formare nuove unità del lessico, è un
meccanismo fondamentale perché consente ad una lingua di rimanere viva. Le lingue che
sono state codificate e fissate in un determinato momento della loro storia per motivi
religiosi o letterari, sono quelle morte come il latino classico, il sanscrito o l’ebraico biblico.
Attraverso di esse non è stato più possibile seguire i cambiamenti sociali: sono cristallizzate
in una data epoca e sono considerate concluse. La neologia si colloca nell’ambito del
cambiamento linguistico. Un neologismo si forma in 2 modi:
1) Con la produzione di una vera e propria parola nuova (neologismo lessicale)
attraverso le regole di formazione delle parole, cioè la prefissazione, la suffissazione,
la composizione, il prestito o (sul piano della frase, non della singola parola) la
produzione di un’unità polirematica;
2) Con la nascita di un significato nuovo di una parola già esistente (neologismo
semantico).
Le nuove attività dell’uomo sono quindi segnate non solo dall’apparizione di nuove parole,
ma anche dallo sviluppo di nuovi significati figurati.
Mentre i neologismi lessicali sono facilmente riconoscibili (sono parole che prima non
esistevano: last minute, resettare), quelli semantici sono più difficili da osservare e da
catalogare: navigare (in rete) e chiocciola, il nome associato al simbolo @.
Il cambiamento della società è percepibile dalla nascita di nuove parole e significati. In
genere, la quota maggioritaria del lessico di una lingua si conserva e viene tramandata. Il
lessico è però condizionato dalla tensione tra forze innovative e forze conservative, che
producono un equilibrio instabile tra l’apparizione di nuove parole e significati e
l’invecchiamento di altre parole e significati.
Lo stesso concetto di neologismo pone problemi teorici di difficile risoluzione, a cominciare
da quanto debba essere nuova una parola per essere considerata un neologismo. Alla parola
“neologismo” però, deve essere riconosciuto un certo grado di ambiguità.
Alcuni prestiti attecchiscono e si impiantano in una lingua stabilmente, mentre la maggior
parte di essi vengono usati occasionalmente e poi scompaiono; secondo Migliorini il
neologismo capriccioso ricade presto nell’ombra, quello che dà forma a un nuovo concetto
largamente diffuso entra nel lessico.
I neologismi usati in funzione espressiva e stilistica da giornalisti in particolari contesti sono
detti neologismi stilistici. Tra essi, si annida la maggior parte delle parole nuove che non
attecchiscono stabilmente.
Ma anche i neologismi stilistici possono attecchire con successo. Per esempio, lottizzazione,
applicato alla spartizione di posti e incarichi pubblici (pagati con i soldi della collettività) in
funzione dell’appartenenza politica, è un neologismo coniato (da Albert Ronchey) in
funzione espressiva, ma con un tale successo che questa nuova accezione è più nota di quella
primaria (“dividere in lotti un terreno”). Moltissimi però sono destinati a sicura estinzione,
dopo essere stati usati una sola volta o per un breve periodo di tempo: nei giornali del 2008
troviamo parole come precarity day, supertata che difficilmente supereranno l’anno o
saranno usati 2 volte.
Hanno più possibilità di successo i neologismi denominativi, cioè quelli che servono a dare
un nuovo nome ad oggetti nuovi o a nuove tecniche. Essi rispondono ad un problema di
difettività lessicale, cioè colmano un vuoto del sistema. Colma una lacuna reale la parola
agroecologia, la scienza che studia i fenomeni ecologici all’interno del campo coltivato
inteso come ecosistema: non solo compare sui giornali, ma ad essa è dedicato un corso di
laurea specialistica dell’Università di Torino, e conosce equivalenti nelle altre lingue
europee. Sulla sua stabilizzazione si può puntare. I neologismi denominativi sono facilmente
legati all’evoluzione tecnologica e ai consumi di una moderna società postindustriale: oggi
abbiamo, per esempio, la computergrafica (grafica computazionale).
Anche nel caso dei neologismi denominativi, ci sono però tecniche che invecchiano
velocemente, il quale coinvolge anche il lessico ad esse legato. Fino a qualche anno fa il
supporto privilegiato della visione privata di film era la videocassetta, che entra nell’italiano
nell’edizione 1970 dello Zingarelli. Ancora oggi tanti italiani conoscono questa parola, ma
nel giro di qualche anno il dvd (attestato nel 1996) ha soppiantato del tutto, dopo un breve
periodo di coesistenza tra i 2 oggetti e i loro lettori, la videocassetta mandandola in pensione
o nel mercato del modernariato, mandandone in pensione il nome; esso, a sua, volta è in via
di sostituzione da parte di formati ancora più avanzati.
Il lessico, a differenza della grammatica, è un sistema aperto. Ciò implica la nascita e il
deperimento di migliaia di parole, con l’avvertenza che la creazione di una nuova parola, non
implica necessariamente l’uscita dall’uso di una parola precedente, alla quale, in molti casi
(per esempio nell’uso di gruppi sociali diversi), si può affiancare, creando un sinonimo.
Facciamo un esempio tratto dalla lingua del calcio. A contropiede, il termine classico con
cui si descrive il rapido contrattacco di una squadra con capovolgimento di fronte del gioco,
si è aggiunto negli ultimi anni anche il più tecnico ripartenza (coniazione di Arrigo Sacchi),
che non l’ha sostituito, ma l’ha affiancato. A volte le parole e le locuzioni sono più di 2: è
così per gomma da masticare (1911), chewing gum (1927), gomma americana (1959) e
infine gomma (1967) che si sono affiancati senza sostituirsi.
Si possono considerare neologismi anche gli elementi del lessico che nascono come termini
specialistici di un determinato ambito settoriale e poi si diffondono, di solito con un
allargamento del significato, presso la generalità dei parlanti.
Facciamo l’esempio di un verbo non molto nuovo, attestato per la prima volta nel 1964, che
non si è mai riuscito ad affermare del tutto, ossia attenzionare. Forse è nata all’interno del
gergo dei funzionari di polizia, quindi di un linguaggio settoriale; il suo significato è
“sottoporre all’attenzione”, in particolare all’attenzione investigativa delle forze dell’ordine.
Dalle investigazioni l’uso del verbo si è esteso alla lingua comune: si dice frequentemente
attenzionare un evento, un problema. L’estensione dell’uso non ha ancora garantito
l’accettazione piena di attenzionare dalla parte della comunità dei parlanti (ne è una spia il
numero altissimo di volte in cui la parola, sui giornali, è scritta tra virgolette; essa è presa di
mira spesso nelle rubriche di posta dei lettori di quotidiani, che si lamentano dell’uso).
Quest’ultimo fatto è rilevante perché le parole nuove ottenute attraverso meccanismi come la
suffissazione, prima di affermarsi, passano un periodo di ambientamento, in cui possono
essere criticate. È stato così anche per verbi che oggi sono accettati come minimizzare e
massimizzare, a riprova del fatto che l’accettazione di una parola dipende solo
dall’abitudine e che non esistono parole belle e brutte. Nel caso di obliterare e obliteratrice,
le critiche hanno avuto l’effetto contrario: grazie al fatto che queste parole sembravano
diventate nemiche della purezza dell’italiano, e che quindi di esse si è parlato tantissimo,
esse oggi sono conosciutissime. Non si può sapere se il fuoco di sbarramento che spesso
accompagna la nascita di parole nuove sia destinato al successo o no: in passato, molte
previsioni sul movimento della lingua sono state smentite. Il fenomeno, che non è solo
italiano, ha radici antiche. La battaglia contro le parole straniere comincia con un movimento
ottocentesco, il purismo.
Nel caso dei neologismi con suffisso, agisce il meccanismo dell’analogia. Esempio: il
suffissoide -poli passa a designare uno scandalo dopo la coniazione del neologismo
tangentopoli: abbiamo così affittopoli, parentopoli.
Quadro 4.3
I CREATORI DELLE PAROLE
In un gruppo minoritario il creatore di una parola, ossia l’onomaturgo è individuabile e di
conseguenza una parola viene datata in modo esatto. Per esempio, la parola velivolo, nel
senso di “aeroplano”, è stata creata da D’Annunzio e da lui usata per la prima volta sul
Corriere della Sera il 28 novembre 1909. Si tratta di un neologismo d’autore databile e
localizzabile. Si può risalire molto più indietro: bolgia, per esempio nel significato di
“sezione dell’Inferno” risale a Dante; cannocchiale è forse stato coniato da Giuseppe
Biancani nel 1611.
Tutto ciò è maggior ragione possibile oggi, per esempio con le parole della politica: i
nomignoli di vari sistemi elettorali della 2 Repubblica sono stati coniati dal politologo
Giovanni Sartori (Mattarellum, Porcellum). La parola doppiopesismo, politicamente
rivolta ad indicare l’atteggiamento parziale e fazioso di chi, secondo la propria parte politica,
dà su vicende simili giudizi diversi, è stata coniata da Paolo Mieli sul Corriere della Sera il
19 maggio del 1996.
Solitamente però è difficile risalire al creatore di una parola. La prima datazione che
compare sui dizionari va intesa come provvisoria e sempre migliorabile e precisabile dopo
ricerche successive.
Quadro 4.4
PURISMO E NEOPURISMO
Il purismo nasce sotto la spinta di Antonio Cesari all’inizio dell’800. All’interno di un
quadro più ampio, in cui si è avanzata la proposta sulla lingua per la letteratura che vuole
tornare alla lingua usata in Toscana nel 300, vista come modello di purezza, si apre un fronte
contro le voci provenienti da lingue straniere, soprattutto il francese, anche se adattate. Le
voci prese di mira dipendono dai singoli lessicografi, che sono raggruppabili in 2 correnti,
una più aperturista e l’altra più rigorista. Ad una condanna si accompagna almeno una
proposta di sostituzione. Con gli occhi di oggi, sorridiamo di fronte al tentativo del purista
Bernardoni di sostituire asfittico con la circonlocuzione chi soffre privazione improvvisa o
mancamento sensibile del polso e della respirazione prodotta da’ vapori del carbone o
da altro accidente. Con gli occhi di oggi sono sorprendenti anche i giudizi di completo o
parziale rifiuto di elementi del lessico che oggi sono usati sempre, da parlanti di ogni livello
di istruzione, come inoltrare, allarmare. Parole o costruzioni come avere influenza,
lusingarsi sono colpite da prescrizione non solo nell’800, ma anche nel 1956 in un’opera di
Aldo Gabrielli.
Un lessicografo purista dell’epoca, Tommaso Azzocchi, parla dei suoi contemporanei come
dei nostri Francesi – Italiani infetti da francese mania.
In alcuni casi la battaglia censoria nei confronti dei francesismi ha avuto successo. Per via di
un’aggressiva campagna sono scomparse dall’uso parole come estremare, “dare l’estrema
unzione”, immorare, “trattenersi”, ma molti prestiti riescono a sfuggire ai puristi, e in tutti i
campi semantici.
Per quanto riguarda il ventennio fascista, la battaglia neopurista contro le parole straniere
riprende vigorosa, sollecitata da motivazioni politiche. La lotta è affidata all’Accademia
d’Italia che pubblica in 3 anni 15 elenchi di parole straniere da sostituire con parole italiane.
Alcuni tentativi di sostituzione riescono: sportello soppianta guichet, assegno si affianca a
chèque rendendolo raro, e due proposte di Bruno Migliorini, regista e autista mandano
fuori uso régisseur e chauffeur. Ma anche in questo caso, il tentativo di sopprimere
centinaia di parole, va a vuoto: restano stabili parquet, dessert, mentre le proposte
sostitutive (tassellato, alla frutta o fin di pasto e uovo scottato) vengono dimenticate.
Quadro 4.5
I VOCABOLARI DEI NEOLOGISMI
La nascita dei neologismi ha interessato chi se ne è occupato fin da quando la realizzazione
del nuovo Stato unitario si è imposta nell’agenda politica, cioè dall’800. Le vicende della
lingua e della storia sono collegate perché si tratta degli anni in cui l’italiano esce dagli
ambiti ristretti in cui era confinato e diventa la lingua di tutti. Inizia un processo di veloce
cambiamento del lessico in cui l’italiano di adegua alle veloci trasformazioni culturali e
sociali. La differenza tra i repertori di neologismi dell’800 e quelli successivi sta nel fatto
che i primi hanno origine come raccolte di parole da non usare: sono i dizionari puristici.
Con questi intenti di condanna nasce all’inizio anche quella di Alfredo Panzini che,
modificata nel corso dei decenni, sarebbe diventata la più importante raccolta di neologismi
del 900 (prima edizione: 1905). Ma la raccolta di Migliorini – Panzini si trasforma nella
registrazione fedele dei cambiamenti del lessico della nostra lingua sotto la spinta delle
trasformazioni dell’Italia. Nel Dizionario moderno vengono registrati solo i neologismi che
avevano buone probabilità di attecchire. In questo repertorio si trovano tantissime parole che
oggi sono ambientate e usate tantissimo: fard, permanente.
Dal Dizionario moderno in poi gli specialisti si sono sempre più interessati ai neologismi e
negli ultimi decenni le iniziative in merito sono aumentate. La fonte più documentata per le
parole nate tra gli anni 60 e 80 è il Cortelazzo – Cardinale dove si cerca di cogliere nella
grande massa di forme nuove che si ritiene abbiano la probabilità di restare nel vocabolario
comune. Negli stessi anni, un altro importante repertorio è quello di Claudio Quarantotto,
Dizionario del nuovo italiano. Agli anni 80 è dedicato anche 3000 parole nuove. La
neologia negli anni 1980 – 1990 di Ottavio Lurati.
Le iniziative successive, che riguardarono gli anni ’90 sono tantissime e il loro aumento
appare in coincidenza con il passaggio traumatico dalla prima alla seconda Repubblica, che
ha portato a vari cambiamenti, tra cui l’adozione di sistemi elettorali (soprannominati
Mattarellum e Porcellum) diversi da quello con cui il parlamento è stato eletto dal
dopoguerra in poi (quello proporzionale “puro”) e il cambio della denominazione di quasi
tutti i partiti e movimenti. Prima di questo periodo, che inizia nel 1992, vi è un ampio
repertorio (5000 parole), concepito all’inizio in funzione dei lavori per l’aggiornamento del
Devoto – Oli, ossia quello di Bencini – Citernesi, fondato su un corpus raccolto tra il 1990 e
i primi mesi del 1992. Il sommovimento politico – giudiziario successivo ha avuto una certa
ripercussione sul lessico dei giornali dell’epoca. Gran parte dei repertori che documentano la
creatività lessicale del periodo è orientata sulla politica e sul nuovo lessico dei quotidiani e
settimanali d’informazione. Fanno riferimento alla realtà politica i repertori di Novelli –
Urbani, Dizionario italiano. Parole nuove della seconda e terza Repubblica e Dizionario
della seconda Repubblica: le parole nuove della politica. Un’iniziativa proseguita per 3
numeri è quella di Michele Cortelazzo, Annali del lessico contemporaneo italiano (ALCI).
È dedicato alle parole nuove il supplemento di un vocabolario in più volumi, il GRADIT di
Tullio De Mauro.
Per quanto riguarda l’inizio del nuovo secolo, abbiamo 2 volumi di Adamo – Della Valle,
Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millenio e 2006 parole nuove, che
offrono un quadro delle nuove parole fondato sullo spoglio di quotidiani nazionali.
Interessante è il volume di Bencini – Manetti, Le parole dell’Italia che cambia, che usa il
materiale accumulato negli ultimi 10 anni per gli aggiornamenti delle edizioni più recenti del
Dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli.
Ha uno scopo diverso, ossia quello di offrire una riflessione ampia sulla storia e la diffusione
di alcuni, selezionati neologismi della politica, il quadro presente nel volume di Dell’Anna –
Lala.
4. GLI ARCAISMI
Il movimento di una lingua non si manifesta solo attraverso il suo arricchimento e la
formazione di neologismi. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’invecchiamento
di una parte del vocabolario e di una parte dei significati e dalla loro progressiva scomparsa.
Gli arcaismi che conosciamo attraverso le testimonianze del passato, possono essere distinti
in varie categorie.
Prescindendo dagli arcaismi morfologici (cioè da forme verbali e pronominali uscite fuori
dell’uso) e sintattici (cioè da costruzioni in cui l’ordine delle parole è oggi desueto), ci
concentreremo sugli arcaismi lessicali, costituiti dalle parole uscite fuori dall’uso, che non
esistono più nell’italiano di oggi: compunto, ossia “trafitto, amareggiato”, erta, ossia
“salita”.
Alcune parole della Divina Commedia esistono ancora oggi, ma con significati diversi. Sono
gli arcaismi semantici, difficili da individuare perché il lettore moderno può farsi ingannare
dal fatto che queste parole sono presenti nella lingua a lui familiare: presto, ossia “veloce”
(come aggettivo) e non “entro breve tempo” (come avverbio).
Parte degli arcaismi sopra citati (compunto, erta) può essere considerata letteraria: sono
parole usate poi dalla tradizione lirica italiana fino al 900.
Quadro 4.6
Le “Raccomandazioni” per un uso non sessista della lingua italiana
Un documento redatto da Alma Sabatini per la presidenza del Consiglio nel 1987 e per la
Commissione per la parità e le pari opportunità rappresenta una svolta simbolica ed è il
primo documento ufficiale italiano che propone un taglio netto con la discriminazione
linguistica verso le donne. Esso raccomanda delle alternative compatibili con il sistema della
lingua per evitare alcune forme sessiste della lingua italiana, soprattutto quelle più soggette
al cambiamento, per stabilire un rapporto tra valori simbolici nella lingua e valori concreti
nella vita.
Le Raccomandazioni consistono in 2 liste di parole o frasi, una per le forme di cui si
propone la sostituzione e una per le corrispondenti forme non sessiste.
Si propone di evitare formule come i diritti dell’uomo sostituendole con diritti umani, o
uomini primitivi con popolazioni primitive, in modo che la parola uomo che indica sia
l’essere umano (iperonimo), sia quello di sesso maschile (iponimo), perda la sua ambiguità
indicando il maschio (primitivo è da considerare politicamente scorretto se riferito a
popolazioni attuali, perché implica un giudizio di arretratezza: si deve usare popolazioni a
tecnologia non avanzata). Sono colpiti anche l’articolo accanto ai cognomi femminili se
non lo si mette anche a quelli maschili; l’appellativo signorina, molto usato all’università
nel rapporto docenti/studentesse, poiché dissimmetrico rispetto al corrispondente signorino
che non viene mai usato. Sono consigliati i femminili dei nomi di mestiere o cariche, se
l’interessata è una donna (direttrice, non direttore), e anche l’articolo femminile per nomi
come la preside, la manager.
Ci sono anche proposte di difficile o problematica attuazione, come quella che riguarda
l’accordo del participio passato al femminile, nel caso di nomi maschili e femminili (è giusto
dire Carla, Maria, Giacomo, Sandra sono arrivate e non arrivati). Irricevibili perché
violano il principio della fissità dei modi di dire e dei nessi sono anche proposte di
sostituzione come caccia all’individuo al posto di caccia all’uomo; e pongono problemi
idee come quella di evitare fraternità, fratellanza, paternità in contesti in cui si riferiscono
a donne. La lingua, se è rivelatrice di atteggiamenti culturali, deve adeguarsi ai cambiamenti
e all’emancipazione femminile, uno dei fenomeni sociali più importanti degli ultimi 2 secoli.
1. PREMESSA
Tutte le parole che usiamo o che troviamo in un vocabolario hanno una loro storia, per
alcune millenaria e per altre breve o brevissima.
Il lessico di una lingua è un insieme aperto e in movimento. L’adeguamento alle esigenze
poste dal progresso e dall’evoluzione sociale avviene in due direzioni, una in entrata e una in
uscita. Da una parte si ha un arricchimento del lessico e uno sviluppo di nuovi significati da
parte delle parole già esistenti, dall’altra c’è un settore del lessico che non corrisponde più
alla realtà, quello che è stato sorpassato dall’evoluzione, cade in disuso, viene obliterato e
sparisce. Le nascite e le morti sono in un certo equilibrio che vede le prime prevalere sulle
seconde.
Dal punto di vista della formazione e dell’origine delle parole, il patrimonio lessicale
dell’italiano può essere suddiviso in:
- Parole di tradizione ininterrotta, dal latino fino ad oggi;
- Parole di tradizione latina o greca, ma giunte in italiano per via dotta (cultisimi);
- Prestiti e calchi da lingue straniere o dai dialetti locali e regionali;
- Neoformazioni (suffissati, prefissati, composti).
3. I CULTISMI
Accanto a varie parole latine che si sono conservate, c’è anche un gruppo che si è estinto.
Non c’è più traccia di bellum, ossia guerra, tellus, ossia terra.
I dotti di ogni età successiva all’estinzione del latino (uomini del diritto, della Chiesa, delle
lettere) hanno usato il latino (e in determinate epoche anche il greco) come un serbatoio a cui
attingere in caso di necessità espressive particolari. Quando le lingue moderne hanno avuto
bisogno di designare oggetti o concetti per cui non avevano un corrispondente nel proprio
patrimonio linguistico, lo hanno attinto dal latino scritto che era (e lo è stato fino a poco
tempo fa) la lingua della Chiesa, della scuola e delle persone colte. Migliaia di parole sono
state tratte fuori dal dimenticatoio e riportate in vita attraverso questa via libresca.
Abbiamo parlato di lingue di cultura e non solo dell’italiano perché l’elemento latino e greco
ricreato dai dotti ha uno status privilegiato e transnazionale dalla cultura umanistica e
rinascimentale in poi.
In molti casi la vita di queste parole non è stata stentata e riservata ad una piccola cerchia di
dotti: tantissime parole di questo tipo si sono ambientate così bene che sono entrate nell’uso
comune della lingua e dei dialetti e ci sono rimaste, usate da persone di ogni ceto sociale e
ogni grado di istruzione. Si tratta di uno dei motivi per cui usiamo l’etichetta di “voci dotte”
in riferimento alla modalità di nascita di queste parole, create e usate dai dotti, avendo però
presente il fatto che si tratta solo di una prospettiva storica: se guardiamo a come vengono
usate, dobbiamo prendere in considerazione anche altri parametri come il successo effettivo
di una parola, e dobbiamo tenere in conto che il passaggio del lessico da un livello all’altro
della lingua, dal livello popolare a quello dotto e viceversa, è un fenomeno normale in tutte
le lingue romanze.
Bisogna partire dal fatto che, nel lungo periodo di transizione dal latino all’italiano, molte
parole sono scomparse. Il latino ignis che significava “fuoco”, si è estinto da secoli. Essendo
però rimasto scritto nelle opere dei grandi autori latini, che hanno continuato fino ad oggi ad
avere un grandissimo prestigio in tutto l’Occidente, ignis rimaneva lì per un eventuale
recupero colto che c’è stato: per esempio, l’italiano ignifugo, che significa “che impedisce o
ritarda la combustione”, è una ripresa dotta di ignis, con l’aggiunta del suffissoide -fugo. Le
parole non devono necessariamente morire per sempre.
Come si riconosce una parola di tradizione popolare da una di trafila dotta? La fonetica, cioè
l’esame dell’aspetto fonetico delle parole, è fondamentale: già dai tempi di Cicerone nel
nesso ns la s non si pronunciava più. I romani scrivevano sponsa ma leggevano sposa. Se in
italiano abbiamo parole che originariamente presentavano ns in latino ma che in italiano
presentano solo s come sposa, siamo certi che sono di trafila popolare. Ma in italiano, per
esempio, l’aggettivo di sposa è sponsale: quindi l’aggettivo è di trafila dotta, cioè si è estinto
ed è stato richiamato in vita per via colta. Questo vale per molte parole italiane: assenso,
ansimare.
Un altro criterio è dato dalla morfologia. Sappiamo per esempio che tutte le parole che
terminano con suffissi come -zione o -àbile sono di trafila dotta: areazione, dannazione.
Per contro, ci sono buone possibilità che le parole che finiscono in -aio/-aia, sviluppo
popolare toscano del latino -arium, siano di trafila popolare: calzolaio, fornaio.
Non va trascurata la semantica che in alcuni casi è fondamentale nel riconoscimento di una
parola di trafila dotta da una di trafila popolare: in questo caso però sono possibili anche
interpretazioni diverse della stessa voce. Se una parla appartiene alla sfera del lessico
intellettuale, è più facile che sia dotta; se appartiene alla sfera della cultura materiale,
aumentano le possibilità che si tratti di una trafila popolare, ma non ci sono prove certe. La
particolare natura dell’italiano, che nell’aspetto fonetico delle parole ha conservato molto del
latino, in molti casi non permette di capire se siamo in presenza di una trafila o dell’altra. Per
esempio, il verbo desolare per alcuni studiosi è dotto, per altri popolare.
I latinismi sono diffusi in tutti i settori. Ne adopera tantissimi la tradizione poetica: infra,
prandi (e non pranzi), ermo.
4. GLI ALLOTROPI
Esistono due modalità attraverso le quali le parole di origine latina sono presenti nella nostra
lingua: attraverso l’uso ininterrotto che se ne è fatto dalla latinità fino ad oggi (trafila
ereditaria) oppure attraverso la ripresa successiva (trafila dotta).
Esiste una terza modalità, che incrocia le due precedenti: a volte ci si presentano parole che
risalgono alla stessa forma latina, ma che presentano una forma molto diversa e anche
significati diversi.
Abbiamo a che fare con gli allotropi, cioè con quelle parole che in italiano, ma anche in altre
lingue, si rifanno alla stessa parola latina, ma si presentano in forma diversa.
L’allotropo dotto è più vicino alla forma latina di quello popolare, che ha subito un processo
di alterazione più accentuato.
Forma latina Esito di trafila ereditaria Esito di trafila dotta
Angustia(m) Angoscia Angustia
Dalla stessa base latina si formano due derivati distinti, ma normalmente essi hanno due
significati così diversi che il parlante non pensa ci sia una connessione. Partiamo da cerchio
(un derivato di trafila popolare, è la parola circulum che si è lentamente modificata
assumendo la forma finale che conosciamo) e circolo (di trafila dotta). Il significato più
diffuso è diverso: “figura geometrica piana racchiusa in una circonferenza” contro
“associazione di persone”.
In altri casi sul piano semantico è più semplice trovare un legame tra gli allotropi.
Sicuramente rissa e ressa non indicano la stessa cosa (la rissa è un’azione violenta
volontaria, non premeditata, la ressa indica la calca), ma hanno qualcosa in comune.
Un altro tipo di allotropia è quella in cui si producono due parole che risalgono alla stessa
base latina, una attraverso la trafila ereditaria e una come prestito, attraverso un’altra lingua
romanza (di solito il francese e provenzale). Sono voci latine giunte a noi una prima volta
direttamente dal latino, e una seconda volta attraverso il francese.
CAP. 6 I PRESTITI
1. PREMESSA
Le parole straniere che entrano in una lingua in seguito a fenomeni di interferenza tra sistemi
linguistici vengono definite come “prestiti”. Il termine è inadeguato: il prestito, nella vita
reale, presuppone la restituzione dell’oggetto o della somma di denaro temporaneamente
ricevuti. Nelle lingue, quando una parola entra può radicarsi, cambiare significato,
estinguersi, ma non viene restituita.
Il prestito è una delle modalità di arricchimento del lessico della nostra lingua;
l’importazione di parole straniere (con quelle latine di trafila ereditaria e di trafila dotta e con
le neoformazioni) è una delle componenti fondamentali del lessico italiano.
I cultismi sono prestiti, con la precisazione che si tratta di prestiti da lingue estinte e non da
lingue viventi. Per quanto riguarda i prestiti dalle lingue viventi, il fenomeno chiama in
campo fattori sociali, economici, culturali, storici e di costume.
Il bilinguismo ha determinati gli scambi di parole tra lingue, soprattutto nel passato, quando
gli scambi tra le persone erano diretti. La massiccia diffusione di neologismi inglesi
dell’informatica si deve anche al fatto che il gruppo sociale che si occupa di informatica in
Italia è bilingue, così come sono bilingui i fisici, biologi, etc… Lo sviluppo del turismo di
massa, fenomeno sociale per cui per la prima volta nel corso della storia masse ingenti di
persone si sono spostate volontariamente per visitare nuovi paesi anziché essere costrette da
guerre, carestie o migrazioni in cerca di cibo, determina anch’esso riflessi linguistici.
Oltre al contatto diretto tra parlanti di lingue diverse, oggi gioca un ruolo fondamentale lo
sviluppo dei media e delle lingue trasmesse, in cui l’interazione paritaria tra parlanti non è
più necessaria (i giornali, la TV, la radio trasmettono una lingua, non si può rispondere a un
telegiornale); si è aggiunto negli ultimi anni anche la corrispondenza via email.
Quando tra due popoli, e quindi tra due lingue si stabiliscono dei rapporti commerciali,
culturali, religiosi, c’è sempre una ripercussione sul lessico. Bisogna tener conto del
prestigio: la lingua sentita dal parlante come più prestigiosa è quella che dà più prestiti alla
lingua sentita come meno prestigiosa, ma bisogna sottolineare che il rapporto è quasi sempre
reciproco. Per esempio, il latino (sentito come meno prestigioso) ha preso dal greco tanti
prestiti, ma anche il greco ha preso qualche parola dal latino.
Si potrebbe essere indotti dalla falsa idea che i rapporti tra le lingue o tra i popoli che le
parlavano siano improntati alla pace e alla tolleranza. In realtà le crociate cristiane diedero
vita a delle guerre ai danni di ebrei e arabi e il Mediterraneo fu infestato per secoli da pirati
arabi che praticavano la schiavitù, senza che questo abbia impedito a tantissime parole
orientali di entrare in italiano e nelle altre lingue europee e a migliaia di parole francesi,
spagnole e italiane di entrare nei dialetti arabi. Anche quello tra schiavi e padroni era un
rapporto di bilinguismo. Tracciare la storia dei prestiti nell’italiano (o dei prestiti
dell’italiano in altre lingue) significa scrivere un pezzo importante della storia non solo
linguistica del nostro paese.
Il fenomeno comincia in un periodo molto antico. Per valutare in pieno l’importanza della
questione dobbiamo tornare a quando le forze disgregatrici dell’Impero romano d’Occidente,
provocano l’entrata nel fondo latino di molte parole dei nuovi arrivati: germanici, bizantini,
slavi ed arabi. In direzione inversa, la civiltà antico – cristiana determinò l’accoglimento di
parole latine da parte dei popoli germanici, così come il cristianesimo greco agì fortemente
sui popoli slavi.
Un prestito è il frutto di un’acquisizione individuale che poi si allarga fino a coinvolgere
sempre più parlanti. Poi bisogna porre attenzione a quali gruppi sociali, nel corso della storia
dell’italiano, hanno acquisito determinate tipologie di prestiti, e allo status di un determinato
prestito presso i diversi gruppi che compongono la complessa realtà linguistica.
Un altro fattore che favorisce o penalizza l’acquisizione di un prestito è la somiglianza
lessicale e strutturale tra lingua donatrice e lingua ricevente. Anche se ci sono lingue, come
l’arabo, che hanno fornito tantissime parole all’italiano e alle altre lingue romanze, esse ci
hanno trasmesso quasi sempre nomi, pochi aggettivi e quasi mai verbi (che, indicando
azioni, sono più soggetti al problema dell’incompatibilità tra sistemi linguistici). Lo scambio
tra le lingue indoeuropee è stato invece continuo e larghissimo, motivo per cui, ad esempio,
l’inglese, dal punto di vista del lessico, è più una lingua a base latina che una lingua
anglosassone, visto che gli elementi che provengono direttamente o indirettamente dal latino
sono tantissimi. La somiglianza lessicale tra le lingue rende possibile l’identificazione
interlinguistica degli elementi lessicali, cioè il riconoscimento di molte parole che nelle
lingue differiscono solo per dettagli minimi come la terminazione (desinenza) o il suffisso,
come accade per letteratura (italiano), littérature (francese), literature (inglese), Literatur
(tedesco).
Qualunque flusso di prestiti si sia verificato storicamente, i sostantivi hanno la maggioranza
sugli aggettivi e sui verbi. Ciò si spiega con motivi semantici: l’adozione di una parola
dipende dalla necessità di esprimere un certo significato e dall’efficacia con cui essa svolge
questo compito. Siccome tra quello che si prende all’estero sono molto più frequenti nuovi
oggetti e nuovi fenomeni che non qualità, procedimenti o azioni nuove, ovvio che la richiesta
sarà maggiore per i sostantivi e minore per le altre parti del discorso: i primi arrivano come
etichette per gli oggetti e le nozioni importate, le seconde richiedono un certo sforzo di
astrazione.
6. I CALCHI
Una parola italiana può anche cambiare sotto l’influsso di una lingua straniera,
sviluppandone forme e significati non originari: in questo caso abbiamo un calco o
sostituzione lessematica. La differenza tra il prestito e il calco consiste nel fatto che il
prestito è una parola straniera (adattata o non adattata), mentre il calco è una parola italiana o
un gruppo di parole italiane su cui agisce un influsso straniero.
Il calco, rispetto al prestito, è una copia meno fedele della parola straniera, ma presuppone
un grado di bilinguismo molto più avanzato del prestito e quindi ha un carattere colto perché
entra in gioco un fattore legato alla motivazione. Se da una lingua straniera prendiamo in
prestito la parola beefsteak, possiamo adattarla in bistecca, ma la parola inglese è motivata,
cioè ha un significato analizzabile, scomponibile in beef, “bue” e steak, “costola”: quella
italiana no. Se diciamo invece guerra fredda, che è un calco di cold war, le parole italiane
sono chiare per il parlante, che non è cosciente del fatto che sta usando una parola o un
gruppo di parole che risentono di un influsso straniero.
Abbiamo vari tipi di calco:
- Il calco strutturale si soprattutto nel caso di composti e di locuzioni e rappresenta una
traduzione letterale, con parole italiane, di una corrispondente espressione straniera.
Per esempio il composto grattacielo è un calco dell’inglese skyscraper.
- Il calco semantico si ha quando una parola già esistente sviluppa un nuovo significato
per effetto dell’influsso di una corrispondente parola straniera. Esempio recente, non
ancora registrato nei vocabolari: il verbo indossare, che in italiano si usava fino a
qualche anno fa solo in riferimento ai vestiti, oggi si usa, sotto l’influsso dell’inglese
to wear, anche in riferimento ad oggetti accessori (si dice indossare i tacchi),
venendo così a coprire uno spazio che prima era di portare o di mettere
(portare/mettere i tacchi).
Nel caso di un calco strutturale si ha l’aggiunta di una nuova parola che entra nel repertorio
lessicale di una lingua: grattacielo, conferenza stampa arricchiscono il lessico dell’italiano
di una nuova unità per ciascuno. Nel caso di un calco semantico, una parola già esistente in
italiano acquista un nuovo ambito d’uso, una nuova applicazione, un nuovo significato:
indossare già esisteva, il suo nuovo significato no.
9.1 I FRANCESISMI
I rapporti, non sempre pacifici, tra la penisola italiana e la Francia sono antichi e intrecciati
fin dal Medio Evo, in cui tutto (le dominazioni francesi su larghe parti della penisola,
l’amministrazione pubblica, gli insediamenti monastici, la letteratura, gli scambi
commerciali) contribuisce a determinare un influsso profondo.
Il bagaglio più interessante viene dai contatti commerciali tra i mercanti francesi e quelli
della penisola. La stessa parola viaggio è un francesismo medievale che assieme a oste e
ostello rende piuttosto bene l’idea di quanto l’idea e l’organizzazione dello spostamento
debba al francese. Molte parole entrate in italiano in questo periodo si devono alla civiltà
cavalleresca e feudale: abbiamo marchese, visconte, dama.
Tra il 300 e 500 l’afflusso dei francesismi diminuisce, ma non si ferma neppure durante il
periodo di predominio spagnolo e continua a rappresentare il contingente di prestiti più
numeroso. Esso riprende copioso nel 600, soprattutto nella seconda metà del secolo.
L’afflusso dei francesismi raggiunge il culmine nel 700. Nasce il fenomeno linguistico e di
costume, detto poi “gallomania”. Questa definizione contiene in sé una venatura polemica,
perché forte è la resistenza che l’ingresso dei francesismi genera nei difensori della purezza
della lingua.
Esiste una correlazione tra la vitalità culturale, politica ed economica della Francia del 700 e
la sua influenza linguistica. Essa, oltre che sul lessico, si dispiega su piani più profondi:
l’imitazione fu fin dall’inizio massiccia e capillare: si copiarono l’abbigliamento civile e
militare, le abitudini gastronomiche, i passatempi, i caratteri della comunicazione epistolare,
etc…; il ricalco discese anche a livelli più profondi fino alle forme della socialità o ad
atteggiamenti tra l’intellettuale e il mondano, come l’ostentato ateismo di facciata. La lingua
riflette questa permeabilità alle molteplici suggestioni della cultura e della vita francese,
aprendosi ad accogliere, nonostante le opposizioni puristiche, sempre più forestierismi, tanto
nei linguaggi speciali quanto nella lingua usuale e media (la presenza di molti di essi nei
dialetti testimonia una penetrazione a tutti i livelli).
Siamo nel secolo dei lumi e dei filosofi in cui la riflessione sulle forme politico – sociali
genera l’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, che
circola in Italia in originale: un segno del fatto che il francese era noto a quasi tutte le
persone di cultura medio – alta. Melchiorre Cesarotti testimonia che la lingua francese è
comunissima a tutta Italia. La vitalità e l’esuberanza delle forme politico – istituzionali
rivoluzionarie della fine del secolo e dell’inizio del secolo successivo producono risultati
importanti. Su altri piani, la letteratura francese appare molto vitale.
Segno di questa presenza capillare sono le parole astratte, indicatore di un influsso molto
profondo e un dislivello di prestigio di una lingua rispetto all’altra. Entrano in questo periodo
in italiano fanatismo, limitrofo, elettrizzare.
Oltre alla voce dei filosofi e degli scrittori, esiste un altro fattore attraverso cui la cultura
francese si afferma in modo significativo: musicisti, cuochi, parrucchieri e stilisti ante
litteram che contribuisce al radicamento della lingua non solo in ambienti dotti, ma anche ad
un livello più popolare. La francesizzazione riguarda anche il pubblico femminile,
considerato per la prima volta come una possibile area di consumatori. In questi anni viene
pubblicato il giornale “La donna galante ed erudita”, che riproduce figure a colori con le
novità principali della moda transalpina.
Molti dei termini della gastronomia si sono conservati fino ad oggi: per esempio ragù,
bignè, croccante. Nella musica, nel teatro e nello spettacolo accade il contrario, ossia è il
francese ad essere tributario dell’italiano; ma almeno minuetto, oboe viaggiano da Parigi
verso l’italiano.
A parte l’età napoleonica, nell’800 gli eventi della storia francese sono molto travagliati e le
ripercussioni (storiche, prima che linguistiche) sull’Italia si avvertono. Il francese è ancora
conosciutissimo, ma nell’800 si rafforza un movimento di rifiuto nel nome dell’ideale
purezza della lingua e quindi di tensioni patriottiche, esso rigetta per partito preso la
contaminazione con l’elemento gallico.
Questo atteggiamento fa da contraltare a movimenti transalpini protesi da secoli a dimostrare
la superiorità del francese sulle altre lingue: la reazione antiitaliana in Francia parte dal 600 e
dalle idee diffuse dal gesuita Dominique Bouhours che teorizzò il fatto che gli italiani
sospiravano, gli spagnoli declamavano, e solo i francesi parlavano. Ciò è evidente nei
dizionari puristici dell’epoca che filtrano il lessico insorgendo al minimo sospetto di influsso
francese.
L’influenza del francese nel 900 è forte nella prima metà e anche nei primi decenni del
dopoguerra, ma si è attenuata molto negli ultimi anni. Il quadro si è capovolto verso la metà
degli anni 70: nonostante l’avanzata dell’inglese, fino a quegli anni il francese continua ad
essere la lingua più conosciuta. Oggi quest’affermazione vale solo in relazione alla fascia
d’età superiore ai 50 anni. Nella seconda metà del 900 entra qualche termine politico, come
gollista “militante del partito del generale de Gaulle”, ma solo riferendosi alla politica
francese, e un contingente di varie voci come parà.
Quadro 6.1
IL CALCIO, UNO SPORT NATO IN INGHILTERRA
Lo sport più popolare in Italia, il calcio, fonda la sua terminologia sulla compresenza tra
italiano e inglese, di cui in molti casi esiste il doppione che aiuta i telecronisti e radiocronisti
nel variare stilisticamente il lessico: calcio d’angolo e corner nella serie in cui il termine
italiano è più comune di quello inglese; cross e traversone in cui viceversa è più comune il
termine inglese. Sono equivalenti per la diffusione goal e rete, ma forse con una leggera
prevalenza del primo. Stopper è una delle poche parole di cui non esiste un corrispondente
in italiano; è stato mandato in pensione più dai cambiamenti nell’assetto tattico del calcio
moderno che da tentativi di usare alternative italiane. Anche pressing e forcing
(atteggiamenti collettivi o anche, nel primo caso, individuali) non hanno un perfetto
corrispondente nella nostra lingua. L’italianizzazione del lessico calcistico ha determinato
l’uscita definitiva di molte parole inglesi (ball, forward); ma la tendenza degli ultimi anni va
verso una re – anglicizzazione (champions league).
9.4 I GERMANISMI
I contatti tra la penisola italiana e le popolazioni germaniche risalgono all’Impero romano. A
cominciare dagli ultimi tempi dell’Impero romano d’Occidente, queste ultime, nel quadro di
giganteschi spostamenti di popoli migratori che coinvolgono l’Europa dell’Est e l’Asia,
invadono a più riprese anche l’Italia. Sono gruppi etnici esigui, in alcuni casi di poche
centinaia di migliaia di persone. Tuttavia, il loro apporto alla formazione dei nascenti volgari
italiani (cioè delle lingue che nascono dalla frammentazione linguistica del latino) è
fondamentale; per essi, durante il Medioevo, le lingue germaniche forniscono parole ed
elementi strutturali.
Non è facile stabilire con certezza il momento in cui le parole germaniche entrano nel latino
parlato quotidianamente. Un numero piuttosto alto di Germani era arruolato nell’esercito
romano, e in base alle considerazioni sul bilinguismo, non è difficile che una serie di parole
germaniche abbia cominciato a circolare nel latino popolare anche prima del crollo politico
di Roma sotto le pressioni di queste popolazioni. A questi fattori vanno aggiunti gli scambi
commerciali.
I parlanti del gotico, longobardo e francone perdono piano piano la loro lingua originria
adottando quella delle popolazioni conquistate, romanizzandosi e introducendo nel contempo
nel loro neolatino tante parole di origine germanica.
Ci sono 2 parole fondamentali che risalgono a uno strato antichissimo, interessanti perché
introducono importanti trasformazioni in una delle sfere concettuali più stabili, quella dei
colori: una è blavus, da cui l’italiano (con le altre lingue romanze moderne) ricava blu,
l’altra è brunus, “bruno”. Quanto al resto, i prestiti più antichi più significativi
(paleogermanismi), risalenti all’età imperiale, sono alce, tasso, vanga. Sono voci sia del
linguaggio militare, sia della sfera domestica, sia del commercio: tutti segnali di mistione
sociale fra coloro che parlavano il germanico e coloro che parlavano il latino.
L’importanza e la profondità dell’influsso germanico sono profonde. Molte parole sono
fondamentali anche nell’italiano di oggi: bara, panca, federa: esse si concentrano nel
campo semantico delle parti del corpo umano: guancia, schiena, milza.
Facciamo qualche caso dalla dominazione franca (l’esponente più noto è Carlo Magno).
L’italiano bosco è esempio di una forma originariamente francone e diffusa nella penisola
con l’amministrazione di Carlo. Il suo successo è così grande che questa parola ne sostituisce
un’altra di origine germanica (ma dello strato longobardo), cioè gualdo < longobardo *wald.
Ma dato che spesso le parole non svaniscono senza lasciare traccia, la parola longobarda si
ritrova nei nomi di molti luoghi italiani di varie regioni e con densità nell’area centro –
meridionale, da Piano di Gualdo (Pesaro) a Guallo (Pescara).
Un altro elemento del francone ha avuto successo linguistico: in un’epoca di liti come è stata
quella dei Merovingi, la voce guerra proviene dal francone werra, “lite”, attestata per la
prima volta in un testo dell’858. Questa voce, in tutte le lingue romanze occidentali,
sostituisce il latino bellum, che rimane in italiano solo come cultismo in alcuni derivati
(bellico, bellicoso).
I germanismi provenienti dalle lingue germaniche del Medioevo sono tutti prestiti adattati: il
parlante comune, se non ha fatto studi specifici sull’argomento, non può conoscerli.
Andiamo ai secoli successivi al Medioevo. I contatti con l’area germanica diminuiscono,
senza scomparire. Bisogna arrivare al 900 per trovare i primi prestiti non adattati: krapfen,
strudel e i prodotti della gastronomia; ma anche una parte della terminologia filosofica e, in
riferimento alle vicende tragiche che precedono e accompagnano la 2 guerra mondiale,
termini storici (Führer), alcuni dei quali usati anche dopo in maniera molto più innocua
(Panzer indica dal 1942 il carro armato, ma da alcuni decenni designa anche i calciatori
tedeschi per sottolineare l’impostazione atletica molto accentuata della scuola calcistica
germanica). Tra i germanismi moderni i più antichi sono la conseguenza delle invasioni
militari e della presenza dei lanzichenecchi, i più moderni dipendono in parte da contatti
bellici, ma anche da contatti con la società asburgica e guglielmina; molti rientrano nella
sfera semantica delle scienze, in cui il peso del tedesco fino a qualche decennio fa era
notevole.
Tra i termini che cambiano significato nel passaggio dal tedesco all’italiano il più importante
è lager, che nella lingua originaria è il “campo, accampamento”, mentre in italiano, per
effetto del romanzo di Primo Levi Se questo è un uomo, si specializza nel significato di
“campo di sterminio (nazista)”.
CAPITOLO 7
LA GEOGRAFIA DEL LESSICO: IL CONTRIBUTO DELLE REGIONI
1. PRESTITI DAI DIALETTI
L’apporto delle parole dialettali all’italiano è molto più ampio di quanto si creda e forse
anche di quanto gli studiosi del settore abbiano finora chiarito, per cui nella conoscenza del
fenomeno potrebbero esserci ancora delle lacune. Mentre il contributo delle parole straniere
(almeno nel caso dei prestiti non adattati come club) è più facilmente individuabile, quello
delle parole dialettali lo è meno perché quasi tutte si presentano in forma italianizzata e
hanno perso la loro natura “locale”.
Sono difficoltà che non si presentano solo al parlante comune, ma anche agli specialisti.
Senza accertamenti non sarebbe possibile dimostrare che l’italiano giocattolo (una parola
800entesca) è in realtà un prestito dal veneziano zugatolo (attestato già dal 500) che provoca
la scomparsa di balocco, parola toscana. Per accertare la dialettalità d’origine di una parola
si deve dimostrare che questa è attestata prima in un dialetto o in un’area dialettale e solo
molto più tardi nell’italiano comune; tanto meglio se si può dimostrare che la parola in
questione ha fatto scomparire una preesistente parola toscana.
Condurre questi accertamenti non è facile perché in genere la documentazione è scarsa. I
dialetti italiani non hanno quasi mai dizionari storici che consentono di datare le attestazioni
dialettali anche di secoli lontani. Abbiamo solo dizionari dialettali 8-9enteschi che non ci
servono da questo punto di vista.
Questo inconveniente è limitato ad un numero ristretto di casi. In realtà una parte
significativa delle parole dialettali prestate alla nostra lingua vi è entrata dopo l’Unità per
motivi politici e tecnologico – comunicativi. Da un secolo e mezzo i rapporti tra le regioni
italiane si sono stretti e l’italiano ha assunto per tutti i cittadini la funzione di lingua – tetto.
Questo ha provocato l’italianizzazione dei dialetti, ma anche l’acquisizione di un certo
numero di parole da parte dell’italiano, soprattutto in alcuni campi (la gastronomia).
In secondo luogo, hanno giocato fattori legati al progresso dei mezzi di comunicazione di
massa: i giornali (fenomeno già radicato e ampio al Nord alla fine dell’800), la radio e la tv.
Essi hanno contribuito alla diffusione dell’italiano, ma hanno anche accorciato le distanze,
consentendo ai regionalismi di diffondersi laddove un tempo sarebbe stato impossibile.
Vediamo i campi semantici in cui il contributo dei dialetti all’italiano si distribuisce: l’area
lombardo – veneta ha dato il suo contributo maggiore per quanto riguarda la morfologia del
terreno, i fenomeni atmosferici e l’ambiente (qui è la fascia alpina delle 2 regioni a svolgere
un ruolo di primo piano), dall’altro le arti, i mestieri e l’abbigliamento. Le voci
originariamente venete prevalgono nel settore dell’amministrazione pubblica, mentre quelle
piemontesi, quasi tutti penetrate in italiano fra 800 e 900, riguardano l’amministrazione e la
vita militare. Il Centro – Sud recupera terreno nella gastronomia (in cui domina l’area
napoletana) e nel campo degli usi espressivi (il primato spetta a Roma). Poco ambito è il
predominio di un’area più meridionale che include la Sicilia nelle voci del mondo della
malavita e dell’emarginazione. Un caso a sé è rappresentato dalla Toscana dove la
distinzione tra lingua e dialetto è molto labile.
La gastronomia è il settore di maggiore affermazione dei dialettismi. La diffusione delle
parole dialettali ha fatto sì che oggi termini come fusilli, tagliatelle, cannoli e forse anche
pizzoccheri siano chiari ai parlanti di qualsiasi età e condizione socio – culturale. Questa
globalizzazione interna delle culture regionali ha prodotto il risultato per cui tutte le cose (e
quindi tutte le parole che le designano) sono oggi a disposizione di tutti.
3. LA GASTRONOMIA
Settentrionali (ma senza che sia possibile ricondurli ad un’area precisa) sono gli amaretti e
quanto alla tecnica di preparazione dei cibi, i verbi pelare (di un frutto) e trifolare.
Originariamente culinario era il senso di boiata che significava “broda, cattiva minestra” ma
passa poi ad indicare una “cosa fatta male, di scarso valore”.
Riconosciuta universalmente è la provenienza ligure del pesto, che si accompagna in modo
efficace con le trenette. Il Piemonte offre gli agnolotti (agnolôt), la fonduta (fondua), i
gianduiotti (dalla maschera torinese Gianduia). I grissini vengono importati in Lombardia
nella prima metà dell’800 e arrivano a Trieste con la fine della prima guerra mondiale.
La Lombardia fornisce un ricco e importante contingente: risotto e minestrone (in origine si
preparava con il riso). Per la carne abbiamo la fesa, l’osso buco (il milanese oss bus). Tra i
formaggi lo stracchino, il gorgonzola (forma ellittica dal milanese stracchin de
Gorgonzoeula, un centro a est di Milano), mascarpone; tra i dolci, il panettone; tra i
liquori, la grappa.
Il Veneto fornisce prima di tutto un termine che si riferisce alla tecnica di cottura: il modo di
dire “a scottadito” di vivande arrostite da consumare subito è il veneziano a scotadeo. Tra i
termini gastronomici di successo vi è tiramisù, un tempo solo di area trevigiana. L’Emilia –
Romagna presenta un significativo contingente di paste alimentari: tortellini, tagliatelle,
cappelletti, ma anche salumi come cotechino, culatello (tipico dell’area piacentino –
parmigiana). Recente è il successo della piada e della piadina romagnola.
L’apporto più significativo dei dialetti marchigiani settentrionali all’italiano è brodetto (di
pesce); il successo della parola è tale che essa si afferma nell’italiano e poi migra come
prestito nei dialetti greci della costa epirota (da noi registrata nella forma burdeto nel greco
regionale di Preveza, usata dai pescatori nel 1980).
Sono tipici di Siena il panforte, i ricciarelli. A Livorno ci porta il cacciucco
(originariamente un turchismo), fino a pochi anni fa classificato come solo regionale, ma nel
giro di 10 anni si è diffuso ovunque anche grazie ad una pubblicità televisiva. Il passato (di
verdura) è di tutta la regione.
Quanto a Roma, la terminologia gastronomica inizia con cenone, che un tempo indicava la
cena della vigilia di Natale e oggi quella di Capodanno. Anche le forme espressive sbafare,
a sbafo sono romane. Tra i piatti, le fettuccine, i rigatoni e forse anche i bucatini
provengono da Roma. gli spaghetti alla amatriciana prendono il nome da Amatrice. Sono
romani i saltimbocca, i supplì. Il contributo gastronomico della più antica comunità ebraica
dell’Occidente è offerto dai carciofi alla giudìa.
Per il patrimonio gastronomico dell’Italia meridionale il centro irradiatore oltre alla Sicilia, è
Napoli, patria della pizza, cibo sconosciuto anche a Roma fino al 900 e nel resto d’Italia fino
alla 2 guerra mondiale. Allo stesso filone vanno attribuiti il calzone e il panzarotto. Tra le
paste alimentari, è napoletano il nome dei fusilli. Tra i pesci abbiamo calamaro. Vongola è
meridionale, mentre cozza è un nome pugliese (come scamorza). La pasticceria napoletana
offre le sfogliatelle e la pastiera; quella abruzzese il parrozzo.
Per quanto riguarda l’apporto siciliano, abbiamo abbuffarsi “mangiare molto e con avidità”,
che originariamente significava “gonfiarsi come un rospo” (in siciliano buffa). Scuocersi e
scotto, termini che oggi riferiamo soprattutto alla pasta, sono sicilianismi recenti. La
pasticceria offre il cannolo e la cassata, famosi, ma diffusi nell’italiano da poco più di un
secolo.
7. GLI ASTRATTI
Tra gli astratti si deve segnalare il contingente lombardo con fifa, fifone, maneggione,
schiappa. Di area veneta sono pettegolo/pettegolezzo, trombone “persona enfatica e vuota”
che entra nell’italiano nel 900, ma nei dialetti di area veneto – friulana è attestato già nel
secolo precedente. Da Venezia ha origine il saluto, oggi panitaliano, ma anche
internazionale, ciao: la formula, che originariamente suonava come s-ciao, cioè “schiavo
(vostro)”, era un saluto reverenziale e non confidenziale come oggi. La scalogna è triestina e
va collegata con il nome locale della cipolla, che secondo la credenza popolare diffusa in
Friuli porta male se la si tocca e poi si gioca a carte.
Il ferragosto, che oggi indica il 15 agosto, parte da Firenze, dove però all’inizio del 900
designava il primo giorno del mese in cui i dipendenti ricevevano una regalìa dal datore di
lavoro. Sono fiorentini anche ganzo, striminzito.
Sono romanesche varie espressioni ingiuriose: burino che all’inizio designava il contadino
che veniva a Roma per lavorare la terra e poi una persona rozza; racchia, “ragazza molto
brutta”. Il riposo pomeridiano si chiama pennichella; l’abbronzatura estiva tintarella.
Il recente successo nel linguaggio giornalistico di inciucio ci porta a Napoli. Più antico è il
successo di iettatura (napoletanismo) e malocchio (meridionalismo); al Meridione si deve
anche la fortuna di sfizio e del recente sfizioso.
La Sicilia presenta altri regionalismi: incazzarsi, “arrabbiarsi” e rimpatriata, “riunione di
amici che abitano lontani o che non si incontravano da tempo” oggi usati molto, ma entrati in
italiano nel 900 inoltrato.
PREMESSA
Il lessico dell’italiano è dato da parole che derivano dalla latinità (il fondo ereditario), dai
prestiti da lingue antiche (greco, latino) e moderne (inglese, francese, spagnolo, etc…) e
anche dai prestiti interni, cioè dalle parole provenienti dai dialetti.
Ci sono però tantissime parole che non rientrano in queste categorie e sono le
neoformazioni, cioè le parole che non esistono in latino e che si sono formate direttamente
in italiano sfruttando dei meccanismi e delle opportunità offerte da essa. In questo caso si
parte da parole che già esistono in italiano. Esse non vanno confuse con i neologismi, che
sono le parole nuove: una neoformazione può anche avere secoli di vita (per essere definita
così però non deve esistere già in latino e non deve essere un prestito).
I processi di formazione delle parole nell’italiano di oggi e di ieri sono molto complessi: i
processi più importanti sono suffissazione, prefissazione (per entrambi può essere usato il
termine complessivo di derivazione) e composizione.
In lessicologia (la scienza che studia la natura del lessico) una base è una parola fornita di
una categoria grammaticale che può subire trasformazioni.
Le parole italiane sono soprattutto nomi, aggettivi e verbi. Ne esistono anche altre (articoli,
avverbi), ma se guardiamo al numero, la maggior parte delle parole appartiene a queste 3. La
frequenza d’uso è un’altra cosa: gli articoli, per esempio, che usiamo in tutte le frasi, sono 6
(il, lo, la, i, gli, le; in italiano antico ce n’erano altri, come li), mentre i verbi, nomi e
aggettivi sono tantissimi.
Esistono poi alcuni elementi che possono essere incorporati ad una base e ne modificano il
valore, il significato e a volte anche la funzione. Gli elementi aggiunti prima della base sono
i prefissi (per esempio a-, in-, s-, in parole come apolitico). Quelli aggiunti dopo si chiamo
suffissi (per esempio -zione, -oso, -ista in parole come circolazione).
Ai prefissi e ai suffissi tradizionali, di origine prevalentemente latina, vanno aggiunti anche i
prefissoidi e suffissoidi, ovvero elementi che pur non essendo proprio suffissi e prefissi, si
comportano come tali, avendo perso parte del loro valore originario. Per esempio, anti-,
tele-, euro- in parole come antinebbia, telecomando sono prefissoidi; -forme, -scopio,
-metro in parole come microscopio, aculeiforme sono suffissoidi. La maggior parte dei
suffissi e prefissi italiani è già attestata nel latino, che presentava infatti processi di
formazione delle parole molto simili rispetto a quelli dell’italiano e delle altre lingue
romanze. Non tutti i prefissi e suffissi sono frequenti allo stesso modo: per esempio, il
suffisso -are con cui si formano i verbi della 1 coniugazione italiana e latina ricorre
tantissimo da formare parole vecchie e nuove (abusare, accentuare), mentre suffissi come
-bondo o -uario sono molto rari e danno vita a poche unità (moribondo, affittuario) che
non si incontrano sempre. In relazione alla capacità di un suffisso o prefisso di dar vita a
nuove formazioni parliamo di produttività: cioè il suffisso -are è molto produttivo, mentre
-bondo è poco produttivo, o anche che il suffisso -ere dei verbi della 2 coniugazione un
tempo era produttivo e oggi no.
Il concetto di lessico mentale (cioè l’insieme delle parole memorizzabili da un parlante),
studiato soprattutto dalla psicolinguistica, è utile anche per spiegare il perché del blocco
delle parole virtuali: si osserva spesso che una determinata parola che, secondo le regole di
formazione di parole della lingua, dovrebbe essere accettabile, è evitata o respinta dai
parlanti a causa dell’esistenza di un sinonimo ben radicato nella lingua. Per esempio, la
parola rubatore sarebbe normale nell’italiano, parallelamente a tutta una serie di parole che
finiscono in -tore (muratore, esattore). Però noi lo evitiamo dato che in italiano c’è già
ladro che è molto frequente. Più un sinonimo bloccante è frequente, più il blocco di una
parola virtuale è efficace. È questo il motivo per cui diciamo, senza nessun motivo, potatura
di un albero e non potaggio, potamento, che dal punto di vista delle regole di formazione
delle parole sarebbero regolari.
2. LA SUFFISSAZIONE
La suffissazione consiste nell’aggiunta di un suffisso a destra di una base (dopo di essa): se
alla base bianco aggiungiamo il suffisso -ezza o -astro abbiamo bianchezza e biancastro.
Questa nuova parola può avere la stessa categoria grammaticale della forma di partenza: per
esempio il sostantivo rumore, con l’aggiunta del suffisso -accio, dà vita ad un altro
sostantivo, rumoraccio; solitamente quando la categoria grammaticale rimane la stessa,
siamo in presenza di un’alterazione (cioè di un diminutivo, accrescitivo o peggiorativo). La
categoria grammaticale può anche cambiare (in questo caso si parla di
transcategorizzazione): se al sostantivo rumore aggiungiamo il suffisso -oso abbiamo
l’aggettivo rumoroso, se aggiungiamo -eggiare abbiamo il verbo rumoreggiare.
Il discorso si ripete per le altre categorie: dall’aggettivo grande abbiamo l’aggettivo
grandicello, ma anche il sostantivo grandezza e il verbo grandeggiare.
Un suffissato che si forma da un nome si chiama denominale, uno che si forma da un
aggettivo si chiama deaggettivale, uno che si forma da un verbo si chiama deverbale.
Infine esistono i deavverbiali, cioè suffissati che si formano da avverbi: da indietro si forma
indietreggiare (verbo deavverbiale).
I suffissi più produttivi in italiano, partendo dalle trasformazioni nome verbo e aggettivo
verbo, in cui esaminiamo il ruolo dei suffissi -are, -ere, -ire con i quali si formano tutti gli
infiniti dei verbi italiani.
Il suffisso -ere in italiano non è più produttivo, cioè non dà più vita a nuove parole. Ciò
significa che la 2 coniugazione italiana, quella in -ere, è una classe chiusa non più
suscettibile di essere ampliata con nuovi arrivi: i verbi che sono già presenti nella nostra
lingua (alcuni frequentissimi come avere, dovere) restano, ma non se ne formeranno più
altri in futuro. Lo stesso discorso (o quasi) vale per i verbi in -ire: continueremo a dire
partire, pentire, ma non si formeranno più verbi nuovi con questo suffisso. L’unica
eccezione è costituita dai verbi parasintetici.
Il suffisso -are ha invece un’enorme produttività: sono derivati da nomi (cioè sono verbi
denominali) abusare da abuso, addizionare da addizione; sono derivati da aggettivi (verbi
deaggettivali) immortalare da immortale, attivare da attivo. -are conosce anche altre
varianti molto produttive come -iare (finanziare), -icare e -ificare (morsicare, calcificare),
-eggiare (albeggiare, arieggiare), -izzare (atrofizzare, idealizzare) e anche suffissi con
valore diminutivo molto frequenti come -ucchiare (mangiucchiare) o -icchiare e -acchiare
(dormicchiare, rannicchiare). I verbi della 1 coniugazione occupano circa il 13% del
lessico italiano.
La controprova della fortuna di -are, -ere, -ire nell’italiano postunitario (larghissima per il
primo, nulla o scarsa per gli altri 2) a cui si accennava prima sta nella formazione di
neologismi: quando il progresso tecnologico ha messo a disposizione il fax, il computer, la
chat i verbi che se ne sono ricavati sono faxare, computerizzare, chattare e non
faxere/chattere/computerizzere.
Nell’italiano di oggi hanno più successo alcuni suffissi di origine dotta (-tore/-trice, -zione,
-ista, -ismo) che suffissi di trafila ereditaria e popolare come -tà, -ià, -tù che hanno avuto
successo nell’italiano antico ma oggi ne hanno pochissimo: sono quelli dotti che dapprima
sono stati usati molto nella lingua delle scienze e della tecnica, i suffissi davvero produttivi e
vitali nella lingua di oggi.
I nomi di azioni indicano l’azione o le sue modalità. I suffissi più produttivi sono:
-zione: asportare = asportazione, navigare = navigazione;
-mento: danneggiare = danneggiamento; avvertire = avvertimento;
-tura: stirare = stiratura.
Spesso si formano anche in questo caso vere e proprie coppie di derivati con significati
diversi: da collocare si ha collocazione e collocamento (si può dire collocazione di un
libro, ma non collocazione delle azioni: in questo caso si deve dire collocamento); da
fondare si hanno fondazione e fondamento (di un’argomentazione, di una notizia); da
perturbare si hanno perturbazione e perturbamento (equivale al primo, ma non in tutti i
contesti: non si può dire perturbamento atmosferico, ma perturbazione atmosferica); da
stirare si può avere stiratura (della biancheria) o stiramento (del muscolo): si può dire lo
stiramento della camicia, ma non la stiratura del muscolo; da investire si ha
investimento se parliamo di Borsa e un’investitura se parliamo di un re.
Questi suffissi, ma direi tutti, non possono quindi essere usati indifferentemente l’uno al
posto dell’altro. Anche quando non si formano coppie come queste viste, dobbiamo pensare
che si può dire, per esempio, rappresentazione e non rappresentamento o
rappresentatura, o al contrario, avviamento e non avviazione; avviatura è raro ma esiste.
Tutti dicono rappresentazione perché lo hanno sempre detto tutti: sono abitudini che si
trasmettono e che vengono condivise, ma non sono il frutto di nessuna legge.
L’altra categoria a cui facevamo riferimento era quella dei nomi di agente che indicano la
persona o la cosa che compie un’azione e che usiamo molto (anche se non solo) quando
parliamo di nomi di mestiere. Il suffisso più produttivo in questo caso è -tore/-trice:
calciatore, ricercatore con i femminili calciatrice, ricercatrice. Quando abbiamo -tore/-
trice si tratta sempre di nomi derivati da verbi (calciare, ricercare). Perché riservati agli
uomini (muratore, miniatore), alcuni di questi nomi non hanno un corrispondente
femminile in -trice. Molti altri suffissi indicano persone che compiono azioni o fanno
professioni e mestieri. Tra i denominali spiccano -ista (artista, giornalista) e -aio
(giornalaio, orologiaio). Quanto ai nomi di strumenti, torniamo al suffisso -tore/-trice per
ricordare qualche deverbale che designa nomi di macchine o strumenti della vita quotidiana:
affettatrice (dal verbo affettare), frullatore (dal verbo frullare). A volte i 2 suffissi
convivono: esistono, per esempio, calcolatore e calcolatrice (il primo è un sinonimo di
computer, il secondo è uno strumento con cui si eseguono calcoli matematici).
5. L’ALTERAZIONE
Fa parte della coscienza della maggior parte dei parlanti l’esistenza di categorie come quelle
di diminutivo, accrescitivo, peggiorativo. Definiamo queste categorie come alterati, e il
processo come alterazione.
L’alterazione è un caso particolare di suffissazione in cui il cambiamento avviene dentro la
stessa categoria grammaticale: non c’è transcategorizzazione. Possiamo avere diminutivi da
nomi (coperta = copertina), da aggettivi (caro = caruccio) e anche da verbi (trottare =
trotterellare). Possiamo avere accrescitivi da nomi (libro = librone) o da aggettivi (pigro =
pigrone) o peggiorativi da nomi (partita = partitaccia) o da aggettivi (pigro = pigraccio).
Gli alterati possono essere analizzati in relazione alla quantità (piccola nel caso dei
diminutivi, grande nel caso degli accrescitivi) e alla qualità (positiva o negativa). Il carattere
dimensionale e quello nozionale non si escludono, ma si richiamano a vicenda: alla
piccolezza si riferisce la delicatezza e la gentilezza o la debolezza e la meschinità; alla
grandezza si riferisce la forza o la cattiveria e la bruttezza. Negli alterati possiamo
considerare l’asse oggettivo in cui alla grandezza si oppone la piccolezza, e l’asse soggettivo
in cui agisce un fattore d’affetto, per cui si oppone qualcosa di buono e positivo a qualcosa di
brutto e negativo. Se diciamo “una capretta bela” stiamo attribuendo a questo diminutivo
qualità di dolcezza bucolica positive; se diciamo “è un avvocatuccio” non gli stiamo facendo
un complimento: la quantità è piccola, ma il valore negativo. Per quanto riguarda gli
accrescitivi, se diciamo “ha giocato una partitona” abbiamo un accrescitivo analizzabile in
termini di quantità grande e di qualità positiva. Se diciamo invece “è un bamboccione” la
quantità è sempre grande, ma la qualità negativa.
I diminutivi sono il gruppo più rappresentativo e numeroso. I suffissi più produttivi nei
diminutivi sono: -ino/-ina (luce = lucina), -etto/-etta (bacio = bacetto), -ello/-ella (asino =
asinello), che si possono anche combinare in catene di suffissi (gonna = gonnella =
gonnellina, capra = capretta = caprettina).
Quanto agli accrescitivi, il suffisso più produttivo è -one/-ona (bottega = bottegona, letto =
lettone; anche con cambio del genere come pecora = pecorone).
I peggiorativi sono ricavati da -accio (libraccio, tiraccio; con una connotazione
qualitativamente positiva abbiamo colpaccio, ossia “colpo ben riuscito”) o dalla variante
espressivo – regionale -azzo (amorazzo); ci sono altri suffissi, con un valore un po’
attenuato, tipo -astro: medico = medicastro. Alcuni di questi derivati si sono lessicalizzati,
cioè sono diventate parole autonome: figliastro (soprattutto nel nesso fisso figli e figliastri),
fratellastro, sorellastra, ma il valore peggiorativo è rimasto (infatti sono tutti ormai
considerati politicamente scorretti).
A parte gli ultimi, quelli esaminati finora sono alterati veri. Ma esistono anche gli alterati
falsi, cioè parole che gradualmente si sono staccate da quelle da cui provenivano, per cui
oggi sono sentite come parole autonome, senza rapporto con la base originaria. In questo
caso si dice che questi alterati si sono lessicalizzati, ossia sono diventate parole autonome,
che sul dizionario possono essere cercate come parole a sé.
Se mangiamo gli spaghetti o i fusilli non riflettiamo sul legame originario tra i primi e lo
spago e tra i secondi e fuso, cioè sul rapporto che questi alterati falsi hanno con le due basi
che hanno dato vita a questi nomi di paste alimentari. I parlanti non collegano più il rosone
di una chiesa alla rosa. In alcuni casi un certo legame tra la base e il derivato è ancora
presente: per esempio, in minestrone che è una parola autonoma ormai che vuol dire
“minestra con verdure e legumi”, è ancora presente un legame semantico con minestra.
Rimanendo nel quadro dell’alterazione, i verbi deverbali (cioè derivati da altri verbi) hanno
in italiano un aspetto connotato in senso espressivo. Si tratta di alterati con suffissi come
-ellare/-erellare/-arellare (saltellare, bucherellare), -ettare/-ottare (fischiettare,
scoppiettare), -icchiare, -acchiare (dormicchiare, bevicchiare).
6. LA PREFISSAZIONE
La prefissazione consiste nell’aggiunta di un prefisso a sinistra di una base (cioè prima di
essa): se alla base comporre aggiungiamo i prefissi de-, ri-, s-, otteniamo decomporre,
ricomporre, scomporre.
Un dato che caratterizza la prefissazione è che essa non comporta il cambiamento della
categoria grammaticale: un nome prefissato rimane un nome (legittimazione =
delegittimazione; appello = preappello), un aggettivo prefissato rimane un aggettivo
(adorno = disadorno, accettabile = inaccettabile), un verbo prefissato rimane un verbo
(durare = perdurare, affermare = riaffermare). All’interno dei prefissati la categoria dei
verbi è la più numerosa.
La principale eccezione alla regola per cui un prefisso non cambia la categoria grammaticale
di una parola consiste nel prefissoide anti-, che in determinati casi dà origine a nomi che si
comportano come veri e propri aggettivi. Abbiamo per esempio (movimento)
antiapartheid, (farmaco) antiobesità. Lo stesso può accadere con pre-: impianto è un
nome, ma in (diagnosi) preimpianto, (analisi) prepartita i prefissati si comportano come
aggettivi.
Un prefissoide o un prefisso, a differenza di un suffisso, a volte può essere usato
autonomamente. In casi limite, nell’italiano contemporaneo esso può diventare una vera
parola dotata di vita a sé, assumendo da solo il carico semantico dell’intera unità: la tele,
l’auto, gli ultrà. Nel linguaggio della politica (polemicamente) si può giungere a veri e
propri composti di prefissi: per esempio gli ex – post (chi nella 1 Repubblica si riconosceva
in partiti che poi hanno rivisto la loro collocazione in determinate tradizioni politiche, e di
conseguenza hanno anche cambiato nome), che può arrivare fino a neo – ex – post.
7. I PARASINTETICI
I parasintetici sono caratterizzati dall’aggiunta simultanea di un prefisso e di un suffisso a
una base costituita da un nome o un aggettivo: briciola = sbriciolare, acido = inacidire.
Qualche volta (i casi sono molto rari) la base di partenza può anche essere un avverbio:
dentro = addentrare.
Si dice simultanea perché la parola si forma solo se il prefisso e il suffisso sono aggiunti
insieme, non un elemento per volta: per esempio, il verbo sbandierare, è composto da
prefisso s- + base + bandiera + suffisso -are; ma non si può aggiungere prima il suffisso
perché si ottiene una parola inesistente in italiano, bandierare, né prima il prefisso perché si
ottiene l’inesistente sostantivo *la sbandiera.
Tanti sono i prefissi che danno vita a parasintetici (mentre i suffissi sono solo 2, -are e -ire)
a + (raddoppiamento della consonante iniziale) (bottone =abbottonare), de – (preda =
depredare), in- (valido = invalidare) s- privativo (folla = sfollare), s- rafforzativo (farfalla
= sfarfallare), dis- (bosco = disboscare).
I nomi dei colori producono spesso parasintetici in -ire: arrossire, ingiallire, imbrunire.
Per quanto riguarda il primo, rosso dà vita a due parasintetici, arrossare e arrossire, che
hanno 2 livelli stilistici e grammaticali diversi: il primo significa “rendere rosso” (il caldo gli
arrossa le guance), il secondo “diventare rosso” (le guance arrossiscono per il caldo). Lo
stesso discorso vale più o meno per ammollare e ammollire, inacerbare e inacerbire.
8. LA COMPOSIZIONE
La composizione è il procedimento con cui si uniscono 2 basi che ne formano una terza, che
ha un significato autonomo e denota un concetto unico. Essa è un procedimento
fondamentale nella formazione di parole nuove e tende a essere usata nell’italiano di oggi
(ma anche nelle altre lingue romanze) ben più di quanto avvenisse in passato: per la sua
analiticità e per la sua produttività, questo tipo di formazione delle parole si adatta alle
esigenze di sempre nuove e articolate terminologie corrispondenti allo sviluppo e alla rapida
penetrazione della tecnica nel mondo di oggi. Questo procedimento avveniva anche in latino
(per esempio, il verbo maledico era un composto), ma era molto più raro.
Non considereremo composti di lunga data di cui i parlanti comuni non percepiscono più la
natura, come allarme, che è originariamente un composto di preposizione + articolo +
sostantivo; non tratteremo dei composti con preposizione (lungarno, capodanno) che
esistono e hanno pure una certa fortuna.
9. LE UNITÀ POLIREMATICHE
Ci sono in italiano, così come nelle altre lingue, alcune serie di parole come ferro da stiro,
agenzia viaggi, che assumono un ordine fisso, non modificabile neanche dall’aggiunta di un
aggettivo, che può essere messo prima o dopo il termine fraseologico, ma non può
interromperlo: per esempio, si può dire “un rovente ferro da stiro” (con l’aggettivo rovente
prima), oppure un “ferro da stiro rovente” (con l’aggettivo dopo) ma non “un ferro rovente
da stiro” (con l’aggettivo in mezzo), perché l’insieme non avrebbe senso. Si tratta di
combinazioni di parole percepite come un’unica unità lessicale, anche se non sono
propriamente delle parole singole. Chiameremo questi elementi fissi unità polirematiche
distinguendo tra i loro sottotipi numerosi e concentrandoci su quelli più diffusi.
1) Unità polirematiche nominali che possono essere costituite in vario modo. Iniziamo
dal tipo nome + aggettivo o viceversa (anima gemella, scala mobile, alte sfere); la
distinzione tra questo tipo e i composti con base nominale di forme libere è complessa.
Il secondo tipo è costituito dal modello nome + di/del + nome, con complemento di
specificazione: ufficio del lavoro, agente di custodia, patente di guida. Ne è molto
ricco il lessico di base, ma lo sono ancora di più le terminologie settoriali. Qualche
esempio tratto dalla lingua delle istituzioni: corte dei conti, tribunale di
sorveglianza. Il terzo è dato dal modello nome + a + nome, come in occhi a
mandorla, testa a testa, locuzioni ormai cristallizzate (cioè che restano nell’uso così
come sono, invariate). Questo modello nell’italiano di oggi è orientato sulla
funzionalità, come in motore a gas o a benzina, cioè “che funziona con il gas o la
benzina”. Alla funzionalità è orientato un quarto tipo, nome + da + nome nei
composti del tipo camera da letto, fornello da campo.
2) Unità polirematiche verbali, come stare fresco;
3) Unita polirematiche avverbiali, come così così, a suo tempo;
4) Unità polirematiche aggettivali, come (ragazza) acqua e sapone.
13. LE SIGLE
Nell’italiano (non solo in quello veicolato dai media) si ampia progressivamente il ruolo
delle sigle usate come vere e proprie parole fino al punto che esse stesse diventano
produttive di ulteriori suffissati. L’aumento di sigle e abbreviazioni in italiano
contemporaneo ha un rapporto con l’influsso della lingua inglese.
In qualche caso la sigla ha preso il posto della locuzione che l’aveva generata, come nel caso
delle denominazioni sindacali (CGIL, CISL) o anche di quelle che riguardano il mondo del
lavoro (INPS): UIL si forma da “Unione Italiana del Lavoro”, INPS si forma da “Istituto
Nazionale Previdenza Sociale”. Nella maggior parte dei casi, però, si usano sia la sigla
(PDL, PD; ciascuna può essere scritta anche con la sola prima lettera maiuscola e le altre
minuscole) sia la locuzione generante (Popolo della Libertà, Partito Democratico).
In alcuni casi le sigle vengono scritte seguendo la pronuncia delle lettere di cui sono
composte, compreso il raddoppiamento della seconda sillaba. Progenitore di questo modello
è stato tivvù (TV), ma anche negli ’70 si trovava la diccì (DC), il piccì (PCI); fuori della
politica, il cittì (commissario tecnico) della nazionale di calcio.
Quanto alla realtà internazionale o transnazionale, alcune sigle sono modellate sulla base
dell’italiano come UE = Unione Europea, o sulla base della traduzione italiana, come ONU
= Organizzazione delle Nazioni Unite. Altre conservano il modello inglese: USA = United
States of America, AIDS = Acquired Immuno – Deficiency Syndrome; il corrispondente
italiano, “Sindrome da Immunodeficienza Acquisita”, non si è tradotto nella sigla SIDA, che
si è usata minoritariamente per qualche tempo ma che non ha attecchito (a differenza di ciò
che è successo in francese e spagnolo).
Le sigle sono così ben ambientate nel sistema linguistico che se ne possono ricavare altri
derivati: cislino da CISL, onusiano da ONU.
15.4 I MARCHIONIMI
Una serie di parole nasce in italiano da marchi registrati disponibili in commercio, cioè dai
marchionimi. A volte essi si generalizzano fino ad indicare per antonomasia il prodotto (una
classe intera di oggetti: le compresse contro l’influenza, il nastro adesivo, etc…). I
marchionimi quindi diventano nomi comuni: è il caso di aspirina, un marchio registrato che
designa le compresse usate come antipiretico, antidolorifico e antireumatico, ma anche di
autogrill che indica le aree di ristoro nelle autostrade, sottiletta, ossia il formaggio fuso.
Ogni volta che pronunciamo una di queste parole stiamo usando un nome commerciale, che
spesso costituisce marchio registrato. Il presupposto perché questo passaggio al nome
comune si verifichi è il successo universale del prodotto.
1. PREMESSA
La produzione di dizionari è caratteristica delle società moderne e risponde ad esigenze di
informazione e comunicazione. Lo scopo pedagogico di questo strumento è essenziale
perché con esso si punta a colmare lo scarto tra le conoscenze individuali del lettore e quelle
della comunità. I vocabolari sono quindi anche strumenti di educazione permanente che
coinvolgono o dovrebbero coinvolgere parlanti e scriventi di tutte le età e grado di istruzione.
A seconda della loro tipologia, i vocabolari hanno lo scopo di:
1) Tradurre le parole di altre comunità linguistiche del presente (lingue straniere) o del
passato (lingue antiche come il greco e il latino) con cui la nostra è entrata in rapporti
culturali, economici o di altro tipo (dizionari bilingui o plurilingui);
2) Transcodificare in una norma comune, all’interno della stessa comunità linguistica, le
conoscenze tecnico – specialistiche di gruppi sociali o culturali: in questo modo il
dizionario aiuta a colmare la distanza tra il lettore e il compilatore del testo, che però
fanno riferimento entrambi a una competenza linguistica comune, cioè sono di solito
entrambi specialisti (dizionari tecnici e specialistici);
3) Padroneggiare i mezzi espressivi attraverso l’analisi semantica, sintattica, morfologica
e fonetica della lingua, aiutando il lettore a valorizzare i suoi comportamenti verbali in
una società in cui essi hanno spesso un valore determinante (abbiamo così i dizionari
monolingui, spesso in un solo volume come quelli che si usano a scuola, altre volte in
più volumi come i vocabolari storici);
4) Accrescere il sapere dei lettori attraverso l’intermediazione delle parole (abbiamo i
dizionari enciclopedici).
I dizionari sono legati ad uno stadio molto avanzato della cultura di una comunità e allo
sviluppo della comunicazione scritta, della letteratura come espressione della cultura,
dell’insegnamento come mezzo della trasmissione del sapere.
I dizionari sono anche prodotti commerciali: hanno quindi tempi di lavorazione, valutazioni
di mercato, rapporti tra costi e guadagni, necessità di contenimento delle dimensioni,
esigenze pubblicitarie che ne influenzano i comportamenti, nel male (a volte i dizionari
dell’uso tendono a inseguire novità imposte dalla moda ma che si rivelano transitorie) come
nel bene (la concorrenza ha aumentato mediamente la qualità dei prodotti). Il primo vero
dizionario dell’uso dell’italiano risale alla fine dell’800 ed è il Giorgini – Broglio. È un
prodotto scientifico di straordinaria compattezza ed efficacia, ma anche di un fallimento
commerciale, motivo per cui forse non ha irradiato la sua influenza sugli utenti come
avrebbe potuto ed è rimasto isolato, uno strumento imitato dai suoi contemporanei, ma presto
finito, dal punto di vista del pubblico, nel dimenticatoio.
In questi discorsi pratici i marchi contano tantissimo: lo Zingarelli del suo autore, Nicola
Zingarelli (morto nel 1935) ha ormai solo il nome. Per il resto del XX secolo e per il XXI
secolo questo vocabolario è stato fatto da altri, ma il marchio, conosciuto fino a diventare per
antonomasia sinonimo di vocabolario (come è successo al Larousse in Francia), è rimasto
intatto. Un discorso simile vale anche per il Devoto – Oli che si continua a rielaborare anche
dopo la morte dei due autori. Il Garzanti invece punta direttamente sul nome della casa
editrice.
Quadro 9.1
VOCABOLARIO E DIZIONARIO
Tra dizionario e vocabolario vi è una differenza: il dizionario è uno strumento in cui è
raccolto e ordinato il lessico. Il è un settore determinante del lessico stesso. Tutte le parole
che si trovano in un autore, in un parlante, in un ambiente, in una scienza o tecnica sono il
vocabolario di un determinato autore, parlante, ambiente, scienza: per esempio, il
vocabolario di Gadda, della Divina Commedia, dei politici italiani, della biologia,
dell’informatica.
3. LA NOMENCLATURA (O LEMMARIO)
Un vocabolario, per essere tale, consta di una lista di forme, cioè delle parole del dizionario o
del vocabolario che definiremo entrate o voci o lemmi.
L’insieme delle entrate di un dizionario costituisce la nomenclatura o lemmario. La
nomenclatura di un vocabolario deve essere presentata in un ordine formale, di solito quello
alfabetico; ma quello alfabetico non è l’unico possibile. I dizionari alfabetici classificano le
parole secondo un principio relativo alla grafia. Le parole indipendentemente dal significato,
possono essere più o meno vicine o lontane tra loro: parole come vento e ventosa sono
acusticamente più vicine di dente e cifra che non hanno segni alfabetici in comune. Anche
se l’italiano si scrive (quasi) come si legge, questo fatto riguarda la grafia, non la pronuncia.
Questa precisazione non va fatta per l’inglese e il francese dove c’è una grande distanza tra il
sistema grafico e la pronuncia.
Un dizionario alfabetico presenta il lessico secondo un criterio di vicinanza grafematica, cioè
secondo una successione predeterminata di lettere dell’alfabeto. È un criterio arbitrario
all’origine, dato che l’ordine alfabetico prescrive una successione di suoni fissata
arbitrariamente, anche se migliaia di anni fa: non è stabilito da nessuna legge della natura
che a debba precedere b e che b debba precedere c.
Esiste un criterio per classificare la nomenclatura, quello del raggruppamento morfologico
(cioè delle famiglie di parole), che ha vari esempi nel campo dei vocabolari specialistici e
uno in quello dei vocabolari per tutti, quello del DIR (Dizionario Italiano Ragionato) di
Angelo Gianni e Luciano Satta. Questo dizionario nasce perché l’inconveniente dell’ordine
alfabetico è che esso interrompe le relazioni tra le forme che consentono di capire il
funzionamento del lessico. L’ordine alfabetico non consente di osservare con uno sguardo la
relazione che corre tra fare, disfare e rifare perché i prefissati sono posti a distanza tra loro.
Il DIR raggruppa invece le parole per famiglie, cioè mette insieme, sotto un unico blocco,
tutte quelle voci che per affinità di significati e origine (per affinità semantica e di etimo)
sono legate tra loro: battericamente, battericida, batterico si trovano sotto batterio.
Quelle che iniziano con un’altra lettera (per esempio antibatterico, nitrobatterio) vanno in
un altro capoverso sotto la lettera corrispondente, ma il legame tra le forme non viene
spezzato grazie alle frecce di rinvio. Il lettore ha quindi sotto gli occhi tutta la ramificazione
formale e semantica di una voce.
Come vengono selezionate le entrate di un vocabolario? Non vengono selezionate tutte: non
è pensabile per motivi pratici e teorici. Non è semplice formulare stime quantitative
sull’estensione del lessico di una lingua. Su questo terreno sono di poco aiuto i dizionari che,
anche quando si prefiggano la massima completezza, sono sempre selettivi. Le cifre
cambiano a seconda dei criteri adottati: se nel conteggio si comprendono o meno le varianti,
gli alterati (diminutivi, accrescitivi), i termini specialistici delle scienze e tecniche, i
regionalismi, i forestierismi, i neologismi e le parole che sono state create occasionalmente
da qualcuno (per esempio un giornalista).
In questi ultimi anni i dizionari, per motivi commerciali, hanno spesso accolto coniazioni
momentanee di giornalisti; e, di solito, una parola fa presto ad entrare in un dizionario, ma
poi non ne esce quasi mai: bisogna contare un divario temporale spesso rilevante tra la realtà
dell’uso e il suo riflesso nei dizionari contemporanei.
È prevedibile che tutto ciò provocherà tra qualche anno l’affastellarsi di rami secchi.
L’attenzione verso questo rischio inizia ad essere molto alta, almeno per le parole del
passato, e l’edizione 2013 del Garzanti ne ha già individuate e eliminate 200, chiamandoli
archeologismi: non si trattava di voci antiche abbandonate da un certo momento in poi, ma
di parole documentate nell’intera storia dell’italiano, poche volte e non in testi importanti:
parole entrate per amore di completezza nel Vocabolario degli Accademici della Crusca e
poi rimbalzate in tutti gli altri vocabolari antichi e recenti: egente, ossia “povero”, orbità,
ossia “cecità, privazione”.
Al di là dell’impossibilità di definire con precisione quante siano le parole, bisogna tener
conto del fatto che i confini del lessico cambiano a seconda della prospettiva dalla quale
esaminiamo la questione. La creatività lessicale di una lingua è infinita (ciò non significa che
le parole di una lingua sono infinite, ma che non si possono contare). Il patrimonio lessicale
si arricchisce ogni giorno mediante vari procedimenti, dal mutamento semantico alla
formazione delle parole, al prestito linguistico. Una parte non piccola del lessico si modifica
sempre per adattarsi alle nuove esigenze comunicative della società, e così si hanno parole
che cadono in disuso, altre che vengono create di nuovo, altre che cambiano per il significato
o l’ambito di impiego. La scelta dei vocaboli da inserire in un dizionario è un’operazione
preordinata a determinati scopi: dimensioni e finalità dell’opera, pubblico a cui si rivolge,
criteri di scelta dei neologismi, delle forme dotte, delle varianti, tipologia dell’opera che si
vuole realizzare.
Quanto agli alterati, essi rappresentano un’altra questione importante per decidere quante
parole entrano in un vocabolario, dato che tutti gli aggettivi possono avere uno o più
diminutivi, accrescitivi e peggiorativi. Tutti no; non sarebbe possibile. La novità più
consistente è stata introdotta da Serianni e Trifone che affrontano la questione inserendo nel
nuovo Devoto – Oli criteri chiari e definiti: per la prima volta gli alterati sono stati
selezionati non solo sulla base della competenza del lessicografo (o sul modello dei dizionari
precedenti), ma verificando attraverso testi reali, disponibili in rete, quali fossero davvero in
circolazione. Sono emerse forme di fortuna recente, ma già ben radicate nell’uso: diminutivi
usati in accezioni particolari nel linguaggio quotidiano (la pagellina degli scolari) o che
hanno assunto specifici valori tecnici (l’animazioncina e l’inconcina o l’iconette nel
linguaggio informatico); accrescitivi di femminili che si affiancano ai corrispettivi maschili
(felpona e felpone).
Ormai tutti i vocabolari più importanti hanno inserito espedienti grafici per segnalare il
lessico fondamentale. Il Sabatini – Coletti ha introdotto un fondino (grigio nell’edizione del
1997, rosso in quelle dal 2004 in poi), distinguendo le circa 10.000 parole ad alta
disponibilità, un concetto diverso da quello della frequenza d’uso a causa dei suoi limiti
teorici e pratici. Gli autori integrano e correggono con valutazioni personali le liste
predisposte in base alla loro ricorrenza in un corpus; la disponibilità diventa quindi la
presumibile conoscenza e comprensione delle parole da parte di un determinato pubblico. E
quindi le parole di alta disponibilità sono segnalate da un fondino che mette chi comunica
con il pubblico (i giornalisti, per esempio) in condizione di ricevere un’indicazione sul fatto
che si tratta di un vocabolario ben conosciuto dalla maggior parte degli utenti, a differenza di
possibili sinonimi. Il Garzanti considera di alta frequenza d’uso circa 6000 lemmi, rimarcati
in azzurro. Lo Zingarelli considera fondamentali circa 4500 parole in base alla frequenza
d’uso stabilita da liste pensate appositamente (lessici di frequenza), ma anche in base a
proprie elaborazioni statistiche, e le fa precedere da un piccolo rombo.
Il Devoto – Oli ha introdotto una fascia di 10.000 parole considerate fondamentali, segnate
con un colore diverso dalle altre (il colore è il nero perché le entrate sono solitamente rosse);
in questo caso, il dato fornito dalle liste di frequenza è stato integrato e modificato anche
sulla base dell’esperienza e della sensibilità linguistica del lessicografo.
Nel lessico fondamentale (o ad alta disponibilità) rientrano le parole grammaticali (articoli,
pronomi, preposizioni), semanticamente vuote (cioè senza significato) e indispensabili per
l’intelaiatura del discorso. Ma in un vocabolario dell’uso entrano molte più parole di quelle
considerate fondamentali. Trovano un posto più o meno ampio parole molto più rare: gli
arcaismi, gli usi letterari o poetici, alcuni termini dei linguaggi speciali e settoriali o di
determinati ambienti sociali. Con questi elementi si arriva alle cifre medie viste prima.
Chi si rivolge ad un vocabolario in un solo volume, deve poter disporre dell’insieme delle
parole italiane (o sentite come italiane, se includiamo in questa categoria anche i prestiti
adattati) correnti nella lingua del momento, di una parte di quelle che si trovano nei testi
letterari letti (ciò vale solo per quelli studiati a scuola), anche non più in uso, e dei prestiti
non adattati più comuni.
Ogni vocabolario organizza la nomenclatura secondo determinati criteri, fornendo all’utente
un certo numero di informazioni il cui interesse varia secondo chi usa l’opera. Anche in
questo caso dobbiamo considerare che la moltiplicazione delle forme arcaiche o rarissime,
magari coniate e usate solo una volta da uno scrittore in vena di espressionismi qualche
secolo fa, e poi entrate in un vocabolario e da qui transitate in tutti gli altri, è un’operazione
rischiosa.
La selezione delle entrate in un vocabolario dell’uso moderno è il risultato di tutte queste
considerazioni che sono ben presenti a chi compila i dizionari. Ciò spiega in parte perché la
selezione delle entrate all’interno di centinaia di migliaia di parole possibili segua criteri così
largamente condivisi da tutti i dizionari, per cui i vocabolari sono in fondo più o meno
equivalenti.
Se facciamo i conti in tasca ai nostri recenti vocabolari in un unico volume e ne
confrontiamo un blocco omogeneo di entrate escludendo rinvii e varianti minime che non
incidono sul nostro ragionamento, il numero delle entrate in comune tra i vocabolari è
altissimo, superiore all’80%. Questa percentuale però non rende le dimensioni del fenomeno,
considerando che vanno tenute in conto anche le entrate in comune a 3 vocabolari su 4 di
quelli nominati: in questo caso siamo sopra il 90% di voci in comune.
Il valore di un vocabolario non dipende dal numero delle entrate, cioè da un principio
quantitativo: questo è un criterio pubblicitario con cui si fa intendere che un vocabolario è
più completo di un altro perché ha più entrate.
Le entrate di un dizionario dell’uso contano ciascuna per un’unità (a parte gli espedienti
grafici per segnare la loro appartenenza al lessico fondamentale): ciò significa che il verbo
fare, che usiamo spesso tutti i giorni, vale una solo unità come il sostantivo bigàto che usano
solo i numismatici (significa “moneta d’argento della Roma repubblicana che reca incisa una
biga” che a sua volta è “un cocchio a 2 ruote trainato da cavalli”) e che non usiamo mai.
L’importanza relativa delle parole emerge attraverso la ricchezza del trattamento riservato ad
alcune di loro rispetto ad altre. Parole come buono, fare, mare sono ricchi di senso,
citazioni, esempi, sottoarticolazioni. La ricchezza di trattamento restituisce ad esse il peso
culturale e linguistico che spetta loro rispetto alle altre.
QUADRO 9.2
L’ORDINE ALFABETICO
La conquista dell’ordine alfabetico è progressiva e faticosa, e avviene durante il Medioevo
prima dell’invenzione della stampa. La sua introduzione non fu senza resistenze, perché con
la sua razionalità rompe la percezione medievale delle informazioni, che è basata perlopiù su
sistemi simbolici. Il sistema di ordinamento delle parole secondo una successione ordinata
impone una logica rivoluzionaria di classificazione della lingua ed è l’esito finale di un
processo che avanza gradualmente. La prima è molto rudimentale. Le parole vengono
classificate secondo l’ordine alfabetico, ma solo guardando alla 1 lettera: tutte quelle con la
a, poi con la b, senza alcun criterio aggiuntivo: aceto può venire prima di abete e dopo alto,
l’importante è che tutte le parole che iniziano con a vengano prima di quelle che iniziano con
b. La seconda tappa consiste in una classificazione che tiene conto delle prime 2 lettere, cioè
della sequenza aa, poi ab, poi ac, poi la b secondo il criterio ba, be, bi, etc…; anche in
questo caso, nonostante il progresso (perché consideriamo già due lettere e quindi aceto deve
seguire abete e precedere alto), le parole che iniziano con ab sono disposte in modo
disordinato al loro interno. La 3 tappa, che tiene conto delle prime 3 lettere, costituisce un
progresso che si stabilizza per qualche secolo.
QUADRO 9.3
PAROLE DI SUCCESSO TEMPORANEO E DIZIONARI
La storia recente è piena di casi specifici di nomi o sigle legati a eventi temporanei che
vivono una di grande successo per un tempo limitato, ma anche di parole che circolano
sotterraneamente per diventare all’improvviso popolari. Abbiamo casi come tzunami, che
non è una parola nuova essendo comparsa in italiano già nel 1961, ma ha avuto nei primi
decenni una vita molto grama: contava sul Corriere della Sera 2 attestazioni nel 2000, una
nel 2001 e una nel 2002, 4 nel 2005, passando a 82 nel 2004 a causa della tragedia
indonesiana del 27 dicembre di quell’anno e poi a un boom di 529 occorrenze l’anno
successivo per scendere stabilizzandosi. Si tratta di una parola che potrebbe attecchire, tanto
che ha preso una via italiana (è applicata a vari campi come gli sconvolgimenti politici). Ma
non è così per eventi/nomi come la s, una grave forma di polmonite atipica comparsa tra il
2002 e il 2003, e poi, come forma lessicale, in declino (il boom di 640 occorrenze nel 2003
scende a 128 l’anno dopo, a 46 nel 2005, a 30 nel 2006, a 9 nel 2007 per poi oscillare: 26
casi nel 2008, 27 nel 2009, 7 nel 2010; l’arrivo di una nuova SARS, assieme alla
rievocazione storica della vecchia, ha poi riportato le occorrenze a 16 nel 2013). La sua
inclusione nei vocabolari forse è un’idea temporanea che potrebbe prevedere tra qualche
anno la sua rimozione. Ma, giudicare il successo realizzato o potenziale di una parola in un
arco di pochi anni è difficile.
QUADRO 9.4
LA TEORIA DELLE VALENZE NELLA RISTRUTTURAZIONE DEI VERBI NEI
VOCABOLARI
L’applicazione della teoria delle valenze alla struttura di un dizionario è un passo avanti
importante. Iniziamo dai verbi: il loro uso è descritto prendendo in considerazione il numero
degli elementi necessari a formare un concetto minimo di senso compiuto. Questi elementi
sono chiamati argomenti. Prendiamo il verbo attaccare che può essere transitivo,
intransitivo o riflessivo. Attraverso questo nuovo sistema di organizzazione dell’uso dei
verbi, otteniamo informazioni supplementari:
1) Se il verbo è usato come transitivo, può avere come unico argomento il complemento
oggetto, sia nel significato di “unire tra loro 2 o più cose” (attaccare i pezzi), sia in
quello di “prendere d’assalto” (attaccare l’accampamento), sia in quello sportivo di
“condurre un’azione contro un’altra squadra” (in questo caso l’argomento, ossia il
complemento oggetto può essere sottinteso: la nostra squadra attacca di continuo),
sia in ulteriori significati. Ma, restando nell’ambito dell’uso transitivo, gli argomenti
possono anche essere 2, quando in gioco entra anche la preposizione a: nel significato
di “unire qualcosa ad altro con colle, ganci (attaccare un francobollo alla cartolina),
in quello di “affiggere qualcosa” (attaccare un manifesto al palo), in quello di
“trasmettere a qualcuno una malattia” (mi attacchi il raffreddore), e infine in quello
di “collegare un apparecchio elettrico alla presa della corrente” (attaccare la radio
alla presa, o con il secondo argomento sottinteso attaccare la radio);
2) Se il verbo è usato come intransitivo, non ha argomenti (cioè è usato in senso
assoluto): questa colla non attacca, lo spettacolo attacca con un balletto (con un
balletto non è un argomento perché non fa parte del nucleo fondamentale della frase);
3) Se il verbo è usato come riflessivo, può non avere argomenti, come nel caso del
significato “aderire l’una all’altra (di 2 cose)” (le pagine del libro si attaccano), di
“combattersi (di 2 persone)” (i 2 pugili si attaccano duramente). Ma può anche avere
un argomento costituito da complementi introdotti dalla preposizione a, nel caso dei
significati “rimanere unito a qualcosa per la presenza di colla, ganci, ecc…” (il
cartoncino bagnato si è attaccato al piano del tavolo), o “tenersi con decisione a
qualcosa” (attaccarsi a un ramo), o ancora “fare riferimento a pretesti e piccolezze
per sostenere le proprie idee (attaccarsi a ogni cavillo) e “provare affetto verso
qualcuno” (il piccolo si attacca a tutti).
L’organizzazione delle relazioni grammaticali secondo la teoria delle valenze e secondo gli
argomenti consente di considerare l’uso effettivo dei verbi. L’indicazione delle reggenze
verbali implica la riscrittura delle definizioni secondo criteri coerenti che implicano il
rispetto della struttura sintattica del verbo. Ad esempio, ambire nel suo uso transitivo
(“ambire la gloria”) vale “desiderare intensamente”, mentre nel suo uso intransitivo (“ambire
alla gloria”) vale “aspirare a qualcosa”.
Viene poi il corpo dell’entrata, la sua parte più lunga. Vi sono disposti:
- I significati (le definizioni);
- Gli esempi d’uso e la fraseologia;
- Gli eventuali alterati e derivati avverbiali.
È proprio questo il campo in cui si avvertono le differenze più rilevanti tra vocabolario e
vocabolario (o anche le somiglianze non casuali, cioè le dipendenze di un’opera dall’altra). Il
fatto di ordinare il corpo dell’entrata, nel caso dei verbi, seguendo o non seguendo la teoria
delle valenze cambia di riflesso anche questa parte.
La classificazione dei significati e degli impieghi è gerarchica, non casuale. Ciò vale per
tutte le entrate, quelle semplici (ammorbidimento, aspettativa) e quelle complesse (avere,
fare).
I livelli della gerarchia sono scanditi in modo molto rigido e consequenziale da numeri e
lettere e ciascun livello è subordinato al precedente. Il livello grammaticale (per esempio
nella parola brutto, il passaggio dalla categoria dell’aggettivo a quella dell’uso avverbiale
fino a quella di sostantivo) è segnalato nello Zingarelli da lettere maiuscole, nel Devoto –
Oli, nel Sabatini Coletti e nel Garzanti da simboli geometrici (il rombo pieno).
Se (come accade spesso) la definizione di una parola si articola in più significati, essi
vengono distinti attraverso numeri arabi, in grassetto rosso puntato nel Devoto – Oli, in
grassetto non puntato e colorato variamente nello Zingarelli, nel Garzanti e nel Sabatini
Coletti. L’ordine delle accezioni rispetta la frequenza e l’importanza di queste, ma viene
modificato quando l’accezione più comune o importante è uno sviluppo figurato di altra
meno comune. Gli altri vocabolari seguono sistemi simili, rigidamente codificati al loro
interno.
Ci sono infine livelli non gerarchizzati attraverso simboli alfanumerici (numeri e lettere), ma
distinguibili. Le possibilità di classificazione sono tantissime. I significati possono essere
disposti in ordine storico, cioè seguendo l’ordine in cui sono nati che non è detto sia anche
quello di maggiore diffusione. In tutti i vocabolari dell’uso, per esempio, il verbo arrabbiare
presenta prima il significato più antico, quello relativo alla malattia della rabbia, e poi quello
più diffuso, “andare in collera, irritarsi, adirarsi”. Questo sistema presenta il vantaggio
dell’oggettiva storicità e si appoggia a dati certi e scritti una volta per tutte (se una nuova
scoperta retrodata il significato bisogna anche cambiare l’ordine di citazione); esso è tipico
di molti vocabolari etimologici, per esempio il DELI e il LEI, ma non è, per motivi pratici, il
sistema prediletto dai vocabolari dell’uso.
Un secondo sistema è l’ordine logico. Esso regola il fatto che un senso concreto precede
quelli figurati che si sviluppano per metafora o attraverso altre procedure prevedibili (la
metonimia e le altre figure retoriche, o lo sviluppo di un nuovo significato per influsso di una
parola straniera, come avviene nei calchi semantici).
Il terzo sistema è dato dall’ordine di diffusione, maggiore o minore, di un significato, che
comporta il suo spostamento verso l’alto o verso il basso della scala gerarchica. È il sistema
più arbitrario, usato molto nell’800, quando vigeva una lessicografia prescientifica non
ancora adeguata alle esigenze di oggi; ma se usato con cautela, può essere ancora
vantaggioso.
Sull’ordinamento dei significati parla lo Zingarelli: l’ordinamento delle accezioni nella voce
segue un criterio logico e storico al tempo stesso: precedono le definizioni dei significati
propri ed originariamente più in uso e seguono quelle dei significati figurati, estensivi,
specifici. In questo modo, leggendo tutta la voce, ci si può rendere conto della logicità
storica che regola i passaggi semantici dall’uno all’altro significato come passaggi
dall’implicito all’esplicito, dall’indifferenziato al differenziato.
Esiste una tecnica implicita nella struttura delle definizioni: la natura della definizione (cioè
quella della parafrasi con sinonimi) è correlata con la categoria grammaticale della parola
definita. Abbiamo queste corrispondenze:
- Un nome viene definito attraverso un altro nome o un sintagma nominale (cioè
un’unità costituita da un nome e un determinante, che può essere un altro nome o un
aggettivo), per esempio conclusione = “compimento, termine”;
- Un infinito viene definito attraverso un altro infinito, per esempio concordare =
“mettere d’accordo”;
- Un aggettivo viene definito attraverso uno o più aggettivi (incostante = “variabile,
diseguale”) o un sistema di parafrasi come di, proprio di, relativo a, detto di + il
sostantivo corrispondente (per esempio ossetico = “relativo agli Osseti”) o come una
frase relativa introdotta da che (per esempio emulatore = “che emula”), o con un
participio usato in funzione aggettivale (elastico = “dotato di agilità”).
In genere, l’analisi semantica a fini lessicografici si basa su due criteri, il senso e l’impiego
che si dovrebbero incrociare e incontrare, dando luogo ad una voce chiara ed equilibrata. In
alcuni casi, per voci molto complesse che riflettono le possibili ambiguità dell’uso, non è
possibile far incontrare questi 2 criteri in modo lineare.
Alle principali conseguenze dell’omonimia e della polisemia sull’organizzazione delle
entrate già si è accennato. Solitamente il comportamento è questo:
- Gli omonimi con 2 origini diverse considerati sempre sotto 2 entrate diverse: per
esempio miglio1 (estratto da milia, che in latino è il plurale di mille “mille”) e miglio2
“erba delle Graminacee” (dal latino milium);
- Nel caso della polisemia storica percepita come omonimia dai parlanti, per cui si
considerano come parole diverse anche gli sviluppi italiani ormai lontanissimi tra loro
della stessa base latini, i vocabolari dell’uso preferiscono considerare la voce come è
percepita oggi (il punto di arrivo): le parole bolla “bolla d’aria o d’acqua” e bolla
“documento”, che sono classificate in tutti i vocabolari sotto entrate diverse anche se
vengono dalla stessa parola latina bulla; ciò significa che un tempo non si trattava di 2
parole diverse (omonimia), ma della stessa parola con significati diversi (storicamente
si tratta di un caso di polisemia, anche se nell’uso attuale la percezione è diversa). In
casi come questi si opta di solito per la separazione in 2 entrate diverse.
Eppure, si tratta di discorsi che subiscono qualche oscillazione anche tra i lessicografi: lo
stesso Zingarelli, fino all’edizione del 2008, ha messo insieme (inopportunamente), sotto
lo stessa lemma, imposta “sportello girevole per chiudere porte e finestre” e “quota di
reddito prelevata da un ente pubblico”, due significati distanti che dovevano essere
separati pur risalendo etimologicamente alla stessa parola (il participio passato del verbo
imporre): si è così adeguato agli altri vocabolari come il Sabatini – Coletti e il Devoto –
Oli, che distinguevano imposta1 da imposta2. La definizione serve a tracciare dei confini
all’interno del reale.
Oggi in un dizionario la definizione dovrebbe essere il più possibile neutra, secondo scopi
descrittivi. Non è sempre stato così (oscillano molto in settori chiave del lessico, come
quelli legati all’attualità, alla correttezza politica, al ruolo della donna nella società); non
lo è e non può esserlo interamente anche oggi. La definizione è il luogo in cui l’ideologia
del lessicografo, solitamente occultata o dissimulata, ha la possibilità di affiorare alla
superficie. Serianni cita per esempio le posizioni filofasciste del Mestica, autore di un
vocabolario scolastico del 1936 in cui alcune voci fondamentali erano arricchite da
apologie del regime che vigeva allora: sotto la voce donna si leggeva che l’educazione
fascista rende la donna forte e ardita e le ispira ancora di più il sentimento della maternità
considerata anche come missione sociale.
Anche le preoccupazioni di neutralità e obiettività sono una spia della difficoltà di
arrivare a una descrizione davvero oggettiva. Per esempio, è difficile conciliare
l’osservazione pura dei fenomeni linguistici con l’inserimento in un dizionario di
significati ideologicamente marcati. Sono state eliminate dai vocabolari espressioni come
angelo del focolare, che si riferiscono a una considerazione riduttiva e superata del ruolo
femminile (ma non si tiene conto degli usi ironici e dissacratori dell’espressione, che
invece sono ancora vivi). È difficile mantenere la neutralità nel caso di concetti e sistemi,
prima di tutto politici (fascismo, nazismo), ma anche culturali (strutturalismo,
psicanalisi) e religiosi (cristianesimo, ebraismo).
In molti casi particolari ci sono imbarazzi nell’approccio definitorio per le parole che
connotano offensivamente minoranze sessuali o religiose: la contraddizione sta nel fatto
che sono parole vitali (e un vocabolario dovrebbe considerare le parole usate, non quelle
che piacciono ai redattori) ma ripugnanti (e che quindi i lessicografi non vogliono
includere, come accadeva tempo fa per il turpiloquio). Ciò non riguarda solo l’italiano. in
molti vocabolari dell’inglese la parola nigger, è stata eliminata nonostante essa sia
conosciuta da tutti e abbia trascorsi illustri visto che la usavano scrittori eccelsi (Joseph
Conrad). In Francia, l’edizione di un vocabolario dei sinonimi è stata ritirata dal mercato
nel 1995 per aver offeso una minoranza religiosa con stereotipi plurisecolari e pericolosi.
A differenza dei dizionari bilingui e dialettali, che per ciascuna delle entrate descritte
forniscono un equivalente in italiano o nell’altra lingua, che deve essere breve e allo
stesso livello formale (parola per parola, e se possibile locuzione per locuzione), il
dizionario dell’uso ha davanti a sé possibilità più complesse.
La definizione, che nei dizionari monolingui deve spiegare il senso delle parole o
locuzioni per rendere più chiare all’utente, richiede l’applicazione di molte regole,
rimaste spesso implicite per secoli, finché non si è avviata sull’argomento una discussione
teorica.
Una definizione deve corrispondere a tutto l’oggetto definito per essere adeguata, e solo
all’oggetto definito per essere esatta. Deve inoltre rispondere a due fini:
- Rendere più comprensibile l’oggetto definito e quindi essere redatta in un linguaggio il
più possibile chiaro e preciso,
- Rendere chiara la strutturazione semantica del lessico e il suo rapporto con la
morfologia e la grammatica.
Nei dizionari la definizione precede gli esempi d’uso o la fraseologia. Il problema della
definizione si carica di un altro problema: la necessità di definire quel valore aggiunto
rispetto al senso letterale e al senso della parola considerata di per sé. Abbiamo 2 tipi di
definizione:
- Quello in cui l’espressione è tradotta da un’equivalenza (bagno di sangue, “strage,
massacro”; bagno di folla, “il trattenersi a lungo tra una folla entusiasta durante una
manifestazione pubblica, detto spec. Di personaggio famoso”);
- Quello in cui si ripete solo un elemento in una sorta di glossa (essere in un bagno di
sudore, “grondare di sudore”).
Quanto alla definizione dei termini settoriali e scientifici, il comportamento dei principali
vocabolari italiani dell’uso è quasi sempre impeccabile. Ci sono eccezioni.
Nelle definizioni scientifiche dei vocabolari dell’uso possono essere usati altri tecnicismi.
Il salto di qualità delle strutture definitorie dei vocabolari moderni rispetto a quelli passati è
dato dai tecnicismi collaterali, cioè da parole non necessarie, ma che rispondono
all’esigenza stilistica di mantenere al discorso settoriale un certo grado di specificità e di
separatezza rispetto al linguaggio comune.
Anche se osservando un vocabolario si può avere l’impressione contraria, le parole non
vivono isolate, imbrigliate in lunghe liste presentate in ordine alfabetico. Si combinano,
rispettando certi vincoli grammaticali e formando enunciati. Le combinazioni tra le parole
sono infinite. Perché un dizionario non sia un semplice elenco di forme, è necessario che
esso fornisca alle parole isolate un contesto d’uso, che restituisca loro qualcosa della
complessità dell’universo del discorso (fornendo esempi e modelli non troppo fittizi o
segnati dal tempo) e che metta in evidenza gli usi fissi, i modi di dire, i proverbi.
La tipologia degli esempi raccolti in un dizionario è complessa. Prima di tutto dobbiamo
distinguere tra:
- Sequenze di parole il cui ordine può essere modificato (esempi d’uso o le citazioni);
- Sequenze di parole il cui ordine non può essere modificato (nessi fissi, locuzioni,
proverbi, ecc…).
Spesso i limiti tra l’uno e l’altro caso non sono nettissimi. Ciò spiega anche perché, per
comodità, marche come “loc.” (= locuzione) o “prov.” (= proverbio) non siano usate dai
dizionari, i quali mettono le due macrocategorie insieme, senza una vera distinzione. La
fraseologia e le citazioni esemplificano in contesti di lingua parlata o letteraria, gli usi
semantici delle parole e indicano le reggenze sintattiche di aggettivi, verbi, ecc… (per
esempio interessarsi a…, interessarsi di…).
Le citazioni da testi letterari in prosa o in poesia in un dizionario dell’uso sono frequenti,
ma essenziali; un vocabolario non è un’antologia di aforismi o di citazioni. Esse sono tratte
da tutto l’arco temporale della letteratura italiana, da Dante ai classici del 900. A parte i testi
letterari, poche sono le citazioni da altri filoni trattate come tali (cioè tra virgolette; le
citazioni sotto forma di semplici esempi sono integrate nelle entrate). Lo spazio dedicato alle
citazioni dall’italiano del passato nei dizionari italiani è ampio, anche eccessivo se
confrontato con quello concesso dai dizionari inglesi, francesi e spagnoli che sono tagliati
sull’uso attuale della lingua. Se un non italiano volesse usare i dizionari italiani, si
troverebbe in imbarazzo perché spesso gli esempi citati sono tratti da autori del passato, che
hanno una lingua diversa dalla nostra. Lo spazio delle citazioni è anche quello che consente
di osservare meglio la dipendenza di un vocabolario dall’altro.
In un dizionario concepito in ordine alfabetico lo spazio per le famiglie di parole è molto
limitato e si concentra più su aspetti formali che semantici: sotto fuoco, il Sabatini – Coletti
mette, per esempio, aggettivi di relazione che etimologicamente non sono derivati da questa
parola (igneo e pirico, due parole del lessico dotto), ma che dal punto di vista concettuale si
ricollegano allo stesso lemma. Ciò è utile per racchiudere in un colpo d’occhio le
informazioni che altrimenti andrebbero perdute.
Il posto dei sinonimi e dei contrari è al termine della trattazione del singolo significato a cui
si riferiscono.
5. I DIZIONARI DI BASE
I dizionari di base o fondamentali non sono un prodotto recente, di cui ancora oggi, la
scuola italiana non ha colto tutte le potenzialità. Essi sono concepiti per un’utenza
particolare. A tal proposito si deve ricordare il DIB, ossia il Dizionario di base della lingua
italiana di Tullio De Mauro e Gian Giuseppe Moroni, studiato per un pubblico
preadolescente (è destinato ad utenti di età a cavallo tra le elementari e le medie) sia nella
scelta del lemmario sia nella tecnica delle definizioni.
Nell’introduzione De Mauro spiega che il DIB è uno strumento utile ad un apprendimento
consolidato, progressivo e dinamico di nuclei sempre più estesi del vocabolario della nostra
lingua. Questi nuclei sono organizzati in modo stratigrafico partendo dal gruppo di 2000
parole selezionate come fondamentali, contrassegnate dal segno O; esse permettono di
comprendere il 95% dei discorsi, e quindi l’insegnante deve far sì che siano ben comprese
nelle loro sfumature di senso e ben usate nell’uso parlato e scritto. Seguono le successive
3000 parole di alta frequenza, indispensabili per passare da testi semplici a testi che
rispondono sia al bisogno di esprimersi con maggiore appropriatezza sia al bisogno di
comprendere bene la maggior parte dei discorsi e dei testi scritti che trattano della nostra vita
e del nostro mondo. Esiste un nucleo di ulteriori 2000 parole spesso di umile riferimento, che
diciamo o scriviamo meno di altre, ma che sono presenti bene nella nostra mente perché
strategiche nella nostra vita. Poi esiste un quarto nucleo di 8000 parole che portano il
lemmario a 15000, scelto sulla base di criteri pragmatici.
Del normale apparato tecnico di cui sono dotati i vocabolari monolingui, sopravvive
l’indispensabile. Non solo le entrate, ma anche le parole usate per spiegarle devono
appartenere al lessico fondamentale. La parola abete nel Sabatini – Coletti è definita come in
un trattato di botanica e in un dizionario di base è spiegata con parole di alta disponibilità.
Un altro elemento strutturale è il fatto che nel dizionario di base ogni definizione è
accompagnata, con un intento didattico, da un esempio d’uso.
1. I VOCABOLARI STORICI
Comprendiamo altri tipi di vocabolari, pensati per un pubblico più ristretto e per un uso
medio – alto, se non specialistico. Partiamo dai vocabolari storici, dotati di una tradizione
plurisecolare che comincia a Firenze.
Un vocabolario storico si caratterizza perché, oltre alle parole e alle definizioni, include
anche le citazioni d’autore senza le quali, secondo Voltaire, un vocabolario è uno scheletro.
Queste citazioni un tempo servivano anche come esempio di formazione stilistica per chi
volesse cimentarsi nella scrittura; oggi la loro funzione si è orientata sul valore di
documentazione storica. Attraverso gli esempi, cioè attraverso l’uso che di una parola è stato
fatto dagli scriventi delle varie epoche, se ne può seguire lo sviluppo in modo reale, concreto
e progressivo.
2. I VOCABOLARI ETIMOLOGICI
I vocabolari etimologici, indipendentemente dalla loro impostazione, hanno negli ultimi anni
acquisito una natura lontana da quella del semplice repertorio che indica l’origine di una
parola, com’era un tempo. Seguendo un indirizzo che nella ricerca etimologica è invalso da
decenni soprattutto per impulso della scuola svizzero – tedesca che parte da Wartburg,
l’autore del FEW, il Vocabolario Etimologico Francese in 25 volumi), la ricerca in questo
campo vuole chiarire non più l’etimologia – origine, ma l’etimologia – storia di una parola.
L’indicazione di quale sia l’etimologia di una forma non basta a chiarirne la storia, che può
prendere strade complesse e diverse; bisogna ripercorrerne le vicende tenendo conto di tanti
fattori: l’evoluzione fonetica, i suoi cambiamenti di significato, i gruppi sociali che l’hanno
usata, le componenti etnologiche, antropologiche, religiose, demografiche, politiche che ne
hanno condizionato o determinato l’esistenza. Si tratta di fattori linguistici e storico – sociali
che ne rendono insoddisfacenti e riduttive risposte come “l’italiano bocca deriva dal latino
bucca”: questo è vero ma non risolve il fatto che il latino bucca significava “guancia”, non
ciò che significa oggi. Per giungere alla soluzione del problema, bisogna scomodare vari dati
semantici, fonetici e lessicali che hanno a che vedere con il sistema delle denominazioni
delle parti della testa. Etimologia non significa un punto lontano nel passato, ma storia della
parola.
I metodi etimologici sono stati affinati nel corso dei secoli, e all’inizio presentavano sistemi
e risultati oggi imbarazzanti. Gilles Ménage, erudito del 600, faceva derivare il francese
laquais dal latino verna: da verna ha ricavato i diminutivi vernula e vernaculus.
Quest’ultima forma avrebbe un femminile, vernulaca, da cui si ricaverebbe vernalacaius,
da cui la forma accorciata lacaius, da cui il francese laquay. Dalla stessa base Ménage fa
derivare l’italiano ragazzo: da vernulacus – vernulaca – vernulacacius – racacius –
ragatius – ragazzo. Se queste, nel 600, erano le basi, non aveva tutti i torti Sant’Agostino
che molti secoli prima aveva affermato che con l’origine delle parole le cose stanno come
l’interpretazione dei sogni, ognuno le spiega secondo il proprio ingegno. Oggi i metodi sono
molto raffinati e si giovano di quasi 2 secoli in cui la linguistica si è dotata di basi solide
scientifiche. Il punto di svolta è indicato nel 1 vero dizionario etimologico delle lingue
romanze di Friedrich Diez (1854). L’italiano ha oggi vari strumenti etimologici. Ne
presenteremo 3, compresi tra la 2 metà del 900 e oggi. Sono vocabolari molto diversi tra loro
e quindi complementari; anche il più vecchio di loro, il DEI di Battisti e Alessio, non può
essere considerato del tutto superato; e la sua importanza storica è indubbia visto che quando
fu pubblicato gli autori scrivevano che non esistevano vocabolari italiani adeguati alle attuali
condizioni della glottologia neolatina.
1. PREMESSA
I dizionari elettronici sono nati come trasposizioni digitali (in cd - rom) dei dizionari
cartacei, rispetto ai quali si distinguono per l’interattività intrinseca al sistema, che si traduce
nella maggiore versatilità offerta all’utenti che reperisce le informazioni: le versioni
elettroniche dei dizionari hanno facilitato l’estrazione dei dati in essi contenuti (la marca
grammaticale, la definizione, la pronuncia, i sinonimi, l’etimologia…) consentendo strategie
di interrogazione che, a differenza delle edizioni cartacee, prescindono dall’ordinamento
alfabetico delle entrate. I dizionari consultabili attraverso il pc permettono la ricerca a partire
da valori diversi, come la categoria sintattica, l’ambito d’uso, la lingua di origine, la data
della 1 attestazione di una voce, e permettono anche di mettere in relazione alcune di queste
variabili per ottenere liste di voci che corrispondono alla combinazione dei criteri di ricerca
impostati volta per volta dall’utente. I programmi di interrogazione, molto semplici e
intuitivi, forniscono così l’accesso immediato a dati la cui raccolta richiederebbe un lavoro di
ricerca più complesso e lento a partire dalle corrispondenti versioni cartacee.
3. LE RICERCHE INCROCIATE
Una delle potenzialità dei dizionari in formato elettronico consiste nell'incrociare diversi
criteri di ricerca ottenendo risposte immediate, anche per operazioni che presuppongono la
ricerca su tutto il corpus. Questo tipo di consultazione, che determina l’accostamento di
entrate lontane tra loro nell’ordinamento alfabetico, costituisce gran parte dell'apparato
innovativo dei dizionari su cd-rom. Attraverso questo sistema è possibile svolgere studi
quantitativi sul lessico italiano prendendo in considerazione un gran numero di parole.
Interroghiamo i nostri cd – rom per verificare quanti e quali verbi inglesi sono entrati in
italiano nel XVIII secolo: il GRADIT registra 76 termini, il Sabatini – Coletti 59, lo
Zingarelli 63, il Devoto – Oli 28. Da questa ricerca si possono osservare i comportamenti dei
dizionari in questione. Le evidenti differenze dei risultati ottenuti, non sono solo
riconducibili a discordanze dovute a diverse date di attestazione, ma anche a qualche
incongruenza interna, sempre possibile e da tenere in conto in queste ricerche. Le ricerche in
questo senso si potrebbero moltiplicare, raffinando ogni volta i criteri di selezione. Possiamo
vedere quante parole usate da Ariosto ci sono nello Zingarelli (289); possiamo vedere quanti
suffissi in italiano hanno valore spregiativo (8 nello Zingarelli, tra cui -aiolo (donnaiolo),
-ardo (beffardo), -oide (intellettualoide); quali parole possono essere considerate
“stereotipi linguistici”, ovvero espressioni proverbiali o singole parole dove si riflettono
pregiudizi e opinioni, spesso negative, su gruppi sociali, professionali, etnici come terrone,
polentone.
5. LA CRUSCA IN RETE
La Crusca ha diffuso di recente la versione digitale delle cinque impressioni del Vocabolario
(consultabile al sito www.lessicografia.it; il motore di ricerca nasce da un accordo fra la
Crusca e Google, sintetizzato nel neologismo sincratico Cruscle). Il progetto, che
rappresenta una vera rivoluzione nel campo della digitalizzazione dei dizionari storici e si
avvale di una grafica accattivante e moderna, prevede ben quattro diverse modalità di
ricerca: una Ricerca libera per la quale "è sufficiente digitare una stringa di caratteri
corrispondenti ad una forma per accedere a tutti i contesti in cui compare" (definizioni,
esempi, proverbi), (è possibile limitare la ricerca a una o più edizioni del Vocabolario e
scegliere se tenere conto delle correzioni e integrazioni apportate); una Ricerca avanzata
che "consente di ricercare anche due o più forme a distanza stabilita, di effettuare ricerche
sule punteggiatura, di utilizzare strumenti di ausilio per l'individuazione di varianti formali,
di limitare la ricerca a specifici macrocontesti (lemma, definizione, esempio, commento) o
microcontesti (uso vivo, proverbi, locuzioni, parole latine, parole greche, straniere,
abbreviature dei citati)"; una Ricerca esperta che "si presenta con un'interfaccia simile a
quella dei principali motori di ricerca sul Web, consentendo all'utente usuale della rete di
ritrovare modalità di accesso abituali, e consente di effettuare ricerche molto complesse"; e
infine una Ricerca per immagini che "consente di ricercare un lemma sulle cinque edizioni
del Vocabolario e di richiamare la riproduzione in facsimile della pagina che lo contiene e di
sfogliare il volume a partire da questa". Completano il quadro tre diverse Ricerche guidate
(per “contesti”, “Citati” e “indici”),"rivolte all'utente che voglia avvicinarsi ala banca dati
senza avere in mente una ricerca specifica" che danno accesso a un grande patrimonio
lessicale, consultabile sia in formato digitale, sia attraverso fotoriproduzioni ad alta
definizione (la 5 edizione del Vocabolario è disponibile per il momento solo in questo
formato). Digitando la stringa di testo dizionar con il carattere jolly *, abbiamo 3 forme:
dizionario (lemmatizzato solo dalla 3 edizione del Vocabolario, con la definizione di “Libro
ove sian raccolte, e esposte varie dizioni; Vocabolario”, e presente anche nella 4 e 5),
dizionarietto (“Diminut. Di Dizionario. Dizionario di mole piuttosto piccola”) e
dizionarino (“Diminut. Di Dizionario. Dizionario di piccola mole, e per lo più
compendioso”), entrambi posti a lemma nella quinta. Manca ancora la possibilità di creare
sottodizionari in base a parametri prestabiliti o quella di effettuare statistiche sull'intero
patrimonio lessicale in altre parole: Cruscle consente solo ricerche di tipo testuale e non
indagini quantitative.
6. IL DELI IN CD – ROM
Ancora fermo al 1999 è il software del DELI, di cui tuttavia si attende a breve una nuova
versione. Nella versione digitale si riversano la semplicità e la chiarezza che avevano
contraddistinto già l'edizione cartacea, e che restano i punti di forza di questo strumento. In
apertura il dizionario presenta una doppia possibilità: da una parte si può visualizzare una
serie di documenti accessori introduttivi (la presentazione dell’operae dei suoi autori,
l’introduzione alla prima edizione, le abbreviazioni usate e la bibliografia di riferimento) che
possono essere consultati usando la linguetta Indice generale; dall'altra, usando la linguetta
ricerca, si accede alla consultazione del dizionario vero e proprio.
La possibilità di spostarsi da una sezione all'altra del vocabolario può risultare molto utile. Se
la voce ombrellata è datata al 1841, con una sigla “Tomm. N.prop” con un clic sulla
linguetta ci si sposta sull’indice generale e si può, cercando nella bibliografia, ritrovare la
sigla, chiarirla e scioglierla (N.Tommaseo, Nuova proposta di correzioni e di giunte al
Dizionario italiano). Le sigle quasi sempre immediatamente comprensibili.
Ogni voce è strutturata in maniera molto semplice. Il lemma è più alto, in grassetto e in
corpo più grande rispetto al resto del testo, ed è seguito da marca grammaticale, definizione e
data e fonte di prima attestazione.
Sono datate con lo stesso sistema anche le eventuali varianti grafiche (molino) e tutte le altre
accezioni della voce (mulinello tra i derivati).
Nella parte immediatamente sottostante al lemma principale, segue il blocco delle locuzioni
e quello dei derivati. La voce è chiusa dall'area del commento sulla storia della parola e dei
principali derivati.
Le voci del dizionario sono registrate nello stesso ordine alfabetico in cui compaiono
nell'edizione cartacea. Ciò consente la navigazione tra le voci vicine in modo simile allo
scorrere dell'opera cartacea. All'interno delle voci sono presenti anche molte sottovoci:
derivati del lemma o locuzioni che lo contengono. La ricerca di parole contenute in queste
sottovoci conduce al documento principale (voce) con la sottovoce posizionata all'inizio
della finestra di visualizzazione. Se cerchiamo per esempio la parola gatto, nella finestra
comparirà la voce gatto per intero e sul latino sinistro dello schermo un elenco dei sintagmi
che la contengono. Ma, oltre a gatto a nove code, gatto delle nevi, che fanno parte della
voce – base, troviamo anche lingue di gatto (s.v lingua) e gatto siamese (s.v siamese).
Basta cliccare nella sottovoce affinché si apra la finestra delle voci lingua e siamese, anche
se nella schermata di sinistra rimane la ricerca effettuata per gatto.
Una volta arrivati ad una voce è però possibile passare direttamente ad altre voci utilizzando
le apposite funzioni del menù Documento. In particolare si può:
- passare alla voce alfabeticamente precedente o seguente nell'opera;
- saltare alla voce (o sottovoce) alfabeticamente precedente o seguente nell'elenco di
quelle trovate nella ricerca effettuata;
- saltare alla voce o alla sottovoce vista prima, dopo o per ultima durante l'ultima ricerca
effettuata.
Spesso è utile trovare in modo rapido il lemma corrispondente ad una parola contenuta nel
documento aperto in consultazione o fare una ricerca direttamente dall'interno di un
documento. A questo scopo si usa il “Navigatore” che si attiva cliccando sul pulsante sinistro
del mouse sopra la parola cercata (o con la funzione del Menù “Documento”). Viene aperta
una piccola finestra di dialogo sulla sinistra dello schermo, al cui interno compare un piccolo
riquadro con la parola puntata dal cursore nel documento. Nel riquadro sottostante vi è una
porzione dell’indice di ricerca. Se la parola cercata è presente nell'indice, questa compare al
centro del riquadro, preceduta e seguita dalle parole alfabeticamente vicine. In questo caso il
riquadro più grande sulla destra contiene una lista dei documenti trovati e visualizzabili. Se
invece la parola cercata no è presente nell’indice, nel piccolo riquadro sottostante la ricerca
compaiono le parole più vicine in ordine alfabetico prima e dopo quella cercata.
7. DIZIONARI ONLINE
Un discorso a parte meritano i tanti dizionari oggi disponibili online in libera consultazione.
Bisogna distinguere le opere nate per il web (il Dizionario Italiano) dai programmi che
sfruttano precedenti versioni cartacee e in cd – rom, come il Vocabolario Treccani o la
versione in rete del Sabatini – Coletti (disponibile nel sito del “Corriere della Sera”) e del
Dizionario Italiano di Aldo Gabrielli (consultabile nel sito della casa editrice Hoepli
registrandosi). Questi progetti, per quanto diversi per impostazione e metodologia, sono
accomunati dal medesimo fine: essi rendono disponibile la consultazione della propria banca
dati per utenti e scopi diversi. Ma non offrono nulla di più: i dizionari dell'uso presenti su
internet non consentono ricerche complesse, né di tipo testuale, né di tipo quantitativo.
Questo resta il limite più evidente dei repertori presenti sul web (e ha anche risvolti di
marketing e commerciali); essi restano tuttavia utili per le semplici consultazioni.