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- Lo Storytelling, invece, è l’arte del raccontare con intenti affabulatori. Lo scopo principale
dello storytelling è catturare l’attenzione del pubblico attraverso l’utilizzo delle leggi della
narratologia e della retorica.
3 LangueeParole
Lo studioso svizzero Ferdinand de Saussure, uno dei padri della linguistica e della semiologia
moderna, introduce alcune definizione fondamentali per la linguistica e la semiotica
contemporanee.
Per De Saussure la langue incarna l’aspetto sociale del linguaggio: un sistema condiviso da
tutte le persone.
La parole, invece, è l’anima individuale del linguaggio, determinata dall’esecuzione in sé, dalle
singole fonazioni e sensi che variano costantemente.
Possiamo distinguere due livelli di linguistica:- sincronica, che si concentra sulla struttura della
lingua in un preciso momento- diacronica, che si concetra sull’evoluzione della lingua in una
prospettiva storica.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright.
Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della
legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Marco Cocco - Presentazione e struttura del corso
«La lingua è un sistema di segni esprimenti delle idee e, pertanto, è confrontabile con la
scrittura, l’alfabeto dei sordomuti, i riti simbolici, le forme di cortesia, i segnali militari ecc.
ecc. Essa è semplicemente il più importante di tali sistemi. Si può dunque concepire una
scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale; essa potrebbe formare una
parte della psicologia sociale e, di conseguenza, della psicologia generale; noi la chiamiamo
semiologia (dal greco semeion, “segno”). Essa potrebbe dirci in che consistono i segni, quali
leggi li regolano. Poiché essa non esiste ancora non possiamo dire che cosa sarà; essa ha
tuttavia diritto a esistere e il suo posto è determinato in partenza. La linguistica è solo una parte
di questa scienza generale, le leggi scoperte dalla semiologia saranno applicate alla linguistica e
questa si troverà collegata a un dominio ben definito nell’insieme dei fatti umani»1
Nella concezione comune, il significato del termine “segno” si confonde con il concetto di
significante (es. Il fumo ci fa subito pensare al fuoco).
de Saussure, invece, definisce come “segno” il rapporto tra l’entità presente (in questo caso il
fumo) e quella assente (in questo caso il fuoco).
Il segno, di conseguenza, è da intendersi come il legame tra l’elemento presente e l’idea che,
per convenzione culturale, esso suscita.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright.
Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della
legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Marco Cocco - Presentazione e struttura del corso
In questa dialettica si inserisce il REFERENTE: ossia l’elemento reale extralinguistico del
quale si sta parlando.
La chiave interpretativa coniata da de Saussure si porrà come base dello strutturalismo. Tale
modello di studio e decodifica del linguaggio intende la lingua come un sistema di segni
autonomo e unitario e si concentra non nell’analisi dei singoli significanti o dei significati, ma
nel rapporto tra essi e nella “struttura” che generano, soprattutto in relazione al preciso
momento in cui sono stati espressi.
In un sistema organico, infatti, tutti gli elementi sono collegati e questo rende centrale lo studio
di ogni elemento non in quanto unità isolata, ma in relazione agli altri che lo circondano.
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Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della
legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Marco Cocco - Presentazione e struttura del corso
Significante e significato sono collegati in modo “arbitrario”. Non c’è, quindi, una particolare
ragione, se non una giustificazione dipendente dalla cultura nella quale l’elemento è espresso.
2
1 I livelli di comunicazione
Il termine “comunicazione” identifica il meccanismo di condivisione di informazioni, saperi,
azioni o voleri veicolati attraverso un sistema linguistico attivato tra due o più soggetti.
Nel complesso universo di possibilità a disposizione dell’uomo per comunicare con l’Altro, qui
inteso come soggetto diverso da sé, troviamo segni, suoni, oggetti, movimenti, colori, silenzi e,
ovviamente, il “verbo” o “la parola”.
Quest’ultima è quella sulla quale ci concentreremo di più sia, inizialmente, in nel definire le
direttrici della comunicazione orale che, in seguito, che chiarire i meccanismi della
comunicazione letteraria e testuale.
La comunicazione non verbale, concernente tutto ciò che non riguarda direttamente la sfera
della parola: postura, distanza dall’interlocutore (nella comunicazione orale), gestualità,
calligrafia, supporti utilizzati per scrivere etc. Tali elementi possono fornire un’ulteriore livello
di informazioni al destinatario della comunicazione.
Jakobson finisce per equiparare la comunicazione verbale a una sorta di scambio di lettere. Il
mittente “codifica” un messaggio attraverso un codice e al punto di arrivo il destinatario,
attraverso lo stesso codice, lo “decodifica” e ricostruisce nella sua mente quel che il partner ha
voluto fargli/farle sapere.
3 La figura dell’autore
Partendo dal modello di Jakobson, possiamo individuare nell’AUTORE il mittente del
messaggio: una figura fondamentale appartenente alle dinamiche della comunicazione
letteraria.Secondo una prospettiva classica, in un certo senso antiquata o comunque limitata, in
letteratura il rapporto tra autore e lettore era determinato dalla volontà di quest’ultimo di
sperimentare e condividere, attraverso l’opera e, quindi, il messaggio, le emozioni e le
sensazioni dell’autore come se l’atto dello scrivere fosse unicamente uno sfogo emotivo e
l’espressione estetico-contenutistica non fosse determinata da una costruzione formale, ma
fosse generata da un atto istintivo privo di confini, artifici retorici e norme linguistico-
espositive.
In realtà, questa dialettica, soprattutto nell’ambito delle interpretazioni psicoanalitiche del testo
letterario, è stata lentamente ribaltata spostando il fulcro dell’attenzione dall’autore in sé e dal
suo complesso emotivo, al contenuto dell’opera e alle sue logiche formali. Il luogo
dell’indagine, così, non è più l’autore bensì il linguaggio.
Tale rapporto, attraverso una confluenza di codici, sfocia in un enunciato linguistico che
possiamo identificare con l’opera.
L’autore veicola contenuti e li comunica. In questo senso, il suo ruolo, prima di esser associato
a quello di scrittore, si avvicina molto alla concezione medioevale che lo indicava come un
promotore, un garante e un’autorità. Autore e autorità, infatti, sono termini etimologicamente
connessi.
Nella letteratura colta il nome dell’autore è sempre tramandato. Il destinatario, infatti, lo vede
come una figura di riferimento per ciò che racconta e simboleggia e, di conseguenza, cerca le
sue opere.
Nella letteratura a tradizione orale (es. i canti popolari), invece, l’autore è generalmente
anonimo poiché è il testo/opera a cercare un destinatario attraverso la fruizione nelle piazze e
negli spazi pubblici. Spesso si ricordano i contenuti, ma non chi li ha prodotti.
L'autore ha spesso un dedicatario esplicito (che può identificarsi col committente), al quale si
lega per questioni opportunistiche e cortigiane, un lettore prediletto (o implicito) (una musa
reale o immaginaria) verso il quale proietta aspirazioni comunicative, e dei destinatari ideale (la
comunità che condivide le concezioni letterarie dell’autore e si pone in confronto o dialogo con
esso).
Dedicatario esplicito, lettore prediletto e destinatario ideale NON possono essere identificati il
DESTINATARIO.
I significati testuali, che fino alla lettura sono solo potenziali, diventano quindi significati in
atto e da qui si inseriscono nel sistema culturale collettivo.
1) Da una parte l’autore traduce sulla pagina più significati in altrettanti segni letterari.2)
Dall’altra il lettore, destinatario dell’opera, nell’atto del leggere, riattiva i significati racchiusi
nei segni.
Il lettore, verso l’autore, nutre curiosità, simpatia e attrazione: elementi determinanti perché
possa accostarsi all’opera.
Nell’atto della fruizione si trova esattamente a metà tra due “poli” che coesistono
nell’esperienza della lettura:
Il caso opposto, invece, ossia una fruizione totalmente libera e abbandonata alle suggestioni
estetiche del testo da parte del lettore implicherebbe la perdita del livello del significato.
Tra autore e lettore, nel processo di fruizione dell’opera, si instaura un PATTO NARRATIVO
che implica l’accettazione, da parte del lettore, delle convenzioni poste dall’autore,
interpretando come vera o verosimile una storia che è quasi totalmente finzionale. La soglia di
verosimiglianza cambia da lettore a lettore a seconda delle epoche storiche, del contesto
culturale e del genere letterario. In questo caso ci troviamo di fronte a una lettura disponibile.
La lettura ingenua, invece, implica una totale immedesimazione del lettore nella storia, che
viene scambiata per totalmente vera.
L’AUTORE REALE è l’autore fisico, in carne e ossa, con una connotazione storica e dei
documenti che ne testimoniano l’operato e il pensiero. E’ colui che ha pianificato e realizzato
l’opera.
L’AUTORE IMPLICITO è l’autore che si nasconde nel libro o, meglio, l’idea di Dante,
Manzoni, Petrarca, Tolkien che il lettore reale si fa nell’atto della lettura dell’opera e non
coincide necessariamente con la realtà storica dell’autore, ossia con l’Autore reale. L’autore
implicito non si deve ovviamente confondere con i personaggi dell’opera. Emerge dalla
sensazione della lettura, dalle suggestioni, dallo stile, dall’interpretazione del tutto personale
che noi lettori, confrontarci con le parole scritte dall’autore reale, ci creiamo nella mente. Segre
definisce questa figura anche come destinatore.
Il LETTORE IMPLICITO è il lettore che l’autore reale aveva in mente quando scriveva
l’opera. Il suo destinatario ideale.
Il NARRATORE è l’IO narrante all’interno del racconto. Colui che, diegeticamente, porta
avanti la narrazione anche grazie al ricorso della prima persona. Non deve essere mai confuso
con l’autore reale, anche quando si è in presenza di narrazioni diaristiche.
Autore implicito, lettore implicito, narratore e narratario sono classificabili come FUNZIONI
DEL TESTO perché appartengono al regime della finzione narrativa orchestrato dall’autore
reale.
Segre sottolinea come critica e riflessioni siano sempre state maturate attorno al all’autore
implicito e non all’autore reale poiché se quest’ultimo, nel tempo, si trasforma ed è in divenire,
il primo è sempre presente nell’opera, non l’abbandona e si presta ai processi di immaginazione
e immedesimazione del lettore.
A questo punto ci troviamo di fronte a un circuito della comunicazione letteraria diviso in due.
All’interno dell’opera ritroviamo questa stessa duplicità grazie alla presenza dell’autore
implicito (destinatore) e del lettore implicito (destinatario).
3
1 Diegesiemimesi
I ruoli nella comunicazione letteraria o persone del verbo sono definiti come emittente e
destinatario, detti anche IO e TU, dove alternativamente l’emittente è IO e il destinatario TU.
Fondamentale, per il circuito della comunicazione, è che i due interlocutori (IO e TU)
conoscano lo stesso codice linguistico e quindi possano comunicare fra loro. Nel processo di
comunicazione altro elemento fondamentale è l’oggetto della comunicazione, EGLI, dove per
EGLI si intende un essere esterno al circuito di comunicazione IO – TU, ed è quindi l’oggetto
della comunicazione stessa.
Nel momento il cui IO elegge EGLI come oggetto della comunicazione ha inizio una
narrazione (diegesi). Attraverso il linguaggio, IO riesce a raccontare dell’oggetto da lui scelto e
trasferire queste informazioni al destinatario, in questo modo, attraverso le abilità narrative
dell’emittente, riesce a comprendere azioni e situazioni che riguardano EGLI. Questo però non
è l’unico modo in cui IO può scegliere di raccontare l’oggetto da lui scelto, potrebbe anche
affidarsi alla mimesi, ovvero usare parole e discorsi dell’oggetto stesso, riportandoli,
imitandone la voce, riproponendo gesti e movenze, tralasciando quindi anche la comunicazione
verbale.
Possiamo dunque distinguere la diegesi dalla mimesi, dove per diegesi si intende narrazione e
per mimesi, “teatro”.
Comunicazione mimetica:
Esiste anche la possibilità che la narrazione non resti pura ma includa forme di mimesi, capita
che all’interno di una narrazione ci siano discorsi in prima persona pronunciati dai personaggi,
è il caso per esempio delle novelle e delle fiabe.
Sulla dicotomia diegesi/mimesi è basato lo studio sui generi letterari e, allo stesso tempo sul
modo in cui i diversi generi usano le persone del verbo: la lirica, ad esempio, parte sempre da
una prima persona presente, l’epica da una terza persona del passato. Esiste quindi una
connessione tra persona e tempo: l’IO può parlare al presente, EGLI non può farlo, essendo
oggetto della narrazione appartiene al passato.
La persona verbale va ovviamente definita rispetto al rapporto che ha con le altre persone. IO
può soltanto rientrare in frasi pronunciate dall’emittente verso il destinatario, oppure se si sta
riportando un fatto terzo in una narrazione in forma mimetica.
Come abbiamo già detto prima, l’esempio più chiaro di forma mimetica sono i testi teatrali, ma
anche il romanzo epistolare, i testi teatrali di tipo monologico, oppure tutti quei testi dove c’è
più di una voce ma l’emittente prova a identificarsi con un IO che non è l’emittente stesso.
2 Voce
La voce risponde alla domanda: chi parla nel racconto? Concerne quei personaggi a cui vanno
attribuiti gli enunciati.
I casi fino ad ora trattati prendono in considerazione un dialogo simulato tra IO e TU e casi di
dialogo zero, ovvero l’emittente avvia una narrazione dove IO esiste sotto forma monologante.
In entrambi i casi l’emittente costruisce un personaggio e avvia un dialogo che non coinvolge il
destinatario in quanto partecipante. Il destinatario non può interloquire, resta sostanzialmente
passivo.
Nella sua forma diegetica la narrazione resta spesso impersonale. Il narratore è postulato dalla
narrazione1, questo avviene soprattutto nelle novelle. Sicuramente questo aspetto raffredda
molto la narrazione, ragione per cui, a un certo punto, gli scrittori sentono l’esigenza di
personalizzare in qualche modo il narratore, avvicinando in questo modo l’emittente al
ricevente.
La voce del narratore quindi si personalizza, uno dei modi è far commentare al narratore la
storia, in questo modo media ancora di più tra il mondo del destinatario e il mondo della
finzione, questo può avvenire in due modi: il narratore insiste sul TU e si avvicina al
destinatario, oppure interpreta la narrazione, giudica i fatti narrati, esponendosi, altra soluzione
è far narrare la storia a un personaggio secondario interno alla narrazione. Nel caso in cui il
narratore è un personaggio principale della storia non può essere distaccato.
La voce può assumere una posizione:1. ulteriore: posizione classica del racconto al passato;2.
anteriore: racconto predittivo, generalmente al futuro;3. simultanea: racconto al presente
contemporaneo dell'azione;
4. intercalata: per es. nel racconto epistolare a più mani, in funzione della progressione dei
momenti dell'azione.
3 Punto di vista
Il punto di vista risponde alla domanda: chi vede nel racconto?
Il punto di vista si riferisce alla persona che compie le azioni del vedere, del pensare e del
giudicare, anche interne al racconto.
Proprio per queste ragioni il punto di vista è più mobile e instabile della voce e dunque cambia
più spesso.
Quando parliamo di narrazione non possiamo non prendere in considerazione il punto di vista,
la focalizzazione, ovvero la voce narrante: chi genera la narrazione.
I livelli di narrazione sono molteplici e variano a seconda del coinvolgimento del narratore
rispetto alla storia, se il narratore è interno, vuol dire che è coinvolto direttamente, quando è
esterno, non fa altro che raccontare i fatti in terza persona. Allo stesso modo il narratore può
scegliere di avere il punto di vista di un personaggio interno alla storia, in questo caso si parlerà
di focalizzazione interna (narratore = personaggio), oppure, se è neutrale, assume un ruolo
descrittivo e si parlerà dunque di focalizzazione esterna (narratore < personaggio). Si parlerà
invece di focalizzazione zero quando il narratore è onnisciente (narratore > personaggio).
- Multipla: quando lo stesso avvenimento è visto con gli occhi di più personaggi Il
narratore a sua volta può essere eterodiegetico e omodiegetico. Il modo in cui avviene la
narrazione, la distanza e la prospettiva adottate dal narratore determinano il punto di
vista e quindi la definizione del narratore. Il NARRATORE ETERODIEGETICO
(ESTERNO) non partecipa alla vicenda, la racconta dall’esterno in terza persona e può
essere palese o nascosto:
NASCOSTO: usa la terza persona senza mai intervenire direttamente, senza dare
interpretazioni soggettive.
4
1 Il testo
Il termine testo (dal latino textus "intreccio, tessuto") indica un insieme di parole, siano esse
scritte od orali, che seguendo le regole di una certa lingua hanno lo scopo di comunicare un
messaggio. I segni grafici sono la manifestazione di un testo che ha come obiettivo principale
quello di veicolare un contenuto nella maniera più efficace possibile.
- Comprensibile
- Completo
- Coerente I
Quando parliamo di testi orali anche “la situazione” è un fattore determinante, gli interlocutori
possono dare delle cose per scontate, ci possono essere allusioni senza che qualcosa venga
effettivamente esplicitato, possono esserci delle integrazioni gestuali o espressive non
necessariamente verbali. Esiste quindi un forte legame tra testo e contesto che non può essere
ignorato.
2 Il testo letterario
A differenziare i diversi tipi di testo sono le funzioni linguistiche. Le principali sono:
- Il destinatario non può dialogare con l’emittente, non può restituire un feedback.
- Il testo è aperto a potenziali infinite interpretazioni, favorite dal fatto che un
destinatario può rileggere il testo, rifletterci su e effettuare confronti.
3 Coerenzadeltesto
La coerenza in un testo letterario segue regole meno rigide. I testi futuristi, per esempio, sono
apparentemente incoerenti. Bisogna confrontare le singole frasi, interpretarle e trarre una
conclusione coerente. Spesso all’interno del testo letterario la coerenza è determinata dalla
somma di tante piccole coerenze. Un testo può collocare nella sua prima parte alcuni
personaggi e affidargli un ruolo, quegli stessi personaggi possono rivelarsi tutt’altro andando
avanti nel testo, non per forza perché l’autore si è preoccupato di esplicitare qualcosa, ma
perché negli episodi successivi del testo, attraverso le relazioni che si vengono a creare tra le
diverse porzioni di testo, si deducono nuove dinamiche, caratteristiche e sfaccettature della
storia.
“Gli episodi successivi possono istituire differenti aree di coreferenza, che a un certo punto
verranno unificate dalla rivelazione di rapporti, non necessariamente indicati in partenza, o
non ancora sussistenti, tra i personaggi delle varie aree.”1
Nel testo letterario coesistono quattro livelli di coerenza, due semantici (relativi al significato
globale) e due relativi alla testura, e quindi alla superfice del discorso.2
Quando un testo è composto da testi con parziale o totale autonomia è definito macrotesto.
Sono macrotesti:- le composizioni liriche riunite poi dall’autore, un canzoniere per esempio.
relazione e, sulla base della struttura dei singoli testi, deve generarne una inedita. La coerenza
del macrotesto deriva dai singoli testi, che nella loro singolarità sono autonomi e coerenti ma
nell’insieme del macrotesto generano un nuovo livelli di coerenza.
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1 La struttura
Quando parliamo di un testo e nello specifico di un testo letterario, dobbiamo considerarne e
analizzarne la struttura. La struttura è a cura dell’autore ed è lo schema metrico o strofico, la
divisione in canti, capitoli, e il sistema di relazioni che esistono tra le parti di un testo. È quindi
il complesso degli elementi che compongono l’opera. L’autore sceglie di dividere un poema in
un certo numero di canti, per esempio, oppure arricchisce di simmetrie, parallelismi o
opposizioni gli schemi metrici.
La definizione di struttura può essere considerata anche in senso più amplio, viene considerato
struttura tutto il sistema di relazioni (anche latenti) che intercorrono tra le parti di uno stesso
oggetto.
La struttura è una delle cose potenzialmente realizzabili, ed effettivamente realizzata, tra tutte
quelle possibili associate a un determinato sistema, rientra quindi in un sistema con regole
esplicitate. Nella relazione sistema-struttura risulta evidente il binomio statico-dinamico.
L’autore nel momento in cui aderisce ad un sistema è consapevole di dover autoregolarsi,
rientra in uno schema preciso, all’ interno del quale ha potere di trasformazione.
Se il testo, come dice Saussure, è costruito da due livelli: significante e significato, si possono
introdurre ulteriori sottolivelli, sia per il significante che per il significato. Questi strati
generano un edificio organico e unito che si fonda sulla qualità propria dei singoli strati, fra
questi strati, lo strato dell’unità di senso è considerato privilegiato in quanto forma la trama
strutturale dell’opera intera.
I livelli dell’opera letteraria sono divisi in livelli riferiti al significante e livelli riferiti al
significato. I livelli relativi al significante sono:
Livello fonologico: relativo ai fonemi, ovvero gli accenti, figure di suono, qualità
delle sillabe.
2 Connotazione e denotazione
Esiste una differenza sostanziale tra testo letterario e testo non letterario (definito anche
pragmatico o d’uso). In entrambi i casi stiamo parlando di testo scritto, ciò che differenzia il
testo letterario da quello pragmatico è l’intento con il quale è concepito: la costruzione di
un’opera d’arte. L’autore, avendo chiaro il suo obiettivo, adotta i mezzi espressivi necessari a
stimolare il lettore sotto una chiave emotiva e interpretativa. Per comprenderlo quindi serve
non solo conoscere il codice linguistico ma, essendo un testo complesso e ricco di significato,
si arricchisce di un livello connotativo che il testo pragmatico, e quindi non letterario non
possiede.
Il testo non letterario è definito anche pragmatico o d’uso perché ha uno scopo pratico, non ha
alcuna velleità artistica, usa un linguaggio comune e ordinario, asciutto, facilmente
comprensibile e non necessita di interpretazioni. I testi non letterari possono informare, esporre
un argomento per spiegarlo, narrare un fatto, spiegare e valutare opere letterarie o d’arte,
dettare regole: veicolano contenuti concreti e paliamo dunque di livello denotativo.
La denotazione è il semplice significato letterario di un termine; per cui “siepe”, per esempio, è
“una fila di arbusti disposta a recingere apprezzamenti di terreno. La connotazione è, invece, il
contenuto emotivo, l’alone di suggestioni che caratterizza un termine e per estensione un testo.
Per cui la siepe in Leopardi acquista un alto valore emotivo, aprendo lo spazio all’infinito.2
A determinare la connotazione sono l’ambiguità e l’opacità, sono proprio queste caratteristiche
del testo a generare associazioni, stimolare processi intuitivi e lasciare le porte aperte
all’imprevisto e all’interpretazione. Rileggere un testo letterario permette al lettore di
personalizzare quel testo attraverso una sua lettura arbitraria. Ragione per cui ogni testo
letterario ha potenza infinita di interpretazione, in base al soggetto, al tempo e allo spazio in cui
è fruito.
La fisicità di lettere o blocchi di testo e il significato degli stessi possono dare vita a infinite
possibilità. Uno degli esempi più emblematici riguarda i calligrammi o i carmina figurata.
I carmina figurata sono più complessi dei calligrammi, il principio è lo stesso, si formano delle
figure o sagome usando le parti di testo scritto e non scritto, ma le lettere, in questo caso,
vengono moltiplicate e collegate geometricamente. Le lettere vengono utilizzate come disegno
figurativo, come segni di una catena discorsiva e come segni di altre catene discorsive che
inscorciano le catene discorsive di base. Famoso autore di carmina figurata è Rabano Mauro.
Ci sono altri usi che l’autore può fare di lettere e suoni, Saussure ha infatti notato che l’autore
spesso preannuncia una parola attraverso l’uso di anagrammi o paragrammi. L’autore, in alcuni
casi, costruisce i suoi versi in modo da utilizzare lettere o suoni che verranno risproposti sotto
una nuova forma. “A Silvia”, per esempio, comincia con l’invocazione della donna, quindi con
Silvia, e termina con la parola salivi, anagramma di Silvia.
In un’ottica di definizione dello stile, ci è utile chiarire alcuni termini linguistici:1) Fonema -
Unità fonologica minima di un sistema linguistico che determina un significato (es. Cane, lane,
pane)2) Morfema - La più piccola unità di analisi della morfologia che abbia un significato (es.
bel, quel)3) Lessema - Unità di base del lessico dotata di un significato da cui derivano forme
diverse (es. “parti” come forme verbali, “parti” come parte di un qualcosa, “parti” come
travaglio. 4) Stilema - Unità corrispondente a una scelta stilistica nel campo lessicale, sintattico
e morfologico che caratterizza lo stile dello scrittore, una scuola o anche un’epoca letteraria.
Un testo “impegnato” prevede l’utilizzo di distinte categorie di segni linguistici (rifacendosi,
quindi, a diverse tipologie di linguaggi: es. Epico, letterario, lirico) oppure a un uso specifico di
determinati segni linguistici.
A questo punto è utile concentrarsi sul perché un autore, nel processo creativo che porta alla
genesi della sua opera, attui una precisa selezione dei segni linguistici arrivando alla
formazione di un suo “stile” letterario.
Autore
Cesare Segre definisce con la concezione di stile letterario attraverso due valori1: 1)L’assieme
dei tratti formali che caratterizzano (nel complesso o in un momento particolare) il modo di
esprimersi di una persona o il modo di scrivere di un autore.2) L’assieme di tratti formali che
caratterizzano un gruppo di opere costituito su basi tipologiche o storiche.Secondo una
prospettiva storica, il secondo punto era quello dominante poiché in passato
Più in generale, per stile si intende, quindi, il complesso delle scelte linguistiche e dei mezzi
espressivi propri sia del modo personale di scrivere di un autore, di una corrente letteraria o un
definito un periodo storico, organizzato per soddisfare l’intento comunicativo dell’emittente.
Nell’ambito dello stile possiamo individuarne molteplici forme:1) Stili personali (o idioletti)
legati agli usi linguistici propri di un autore che ne definiscono l’attività letteraria (stile
manzoniano, omerico, dantesco, austeniano etc.)2) Stili intesi in quanto “modi” espressivi della
lingua (s. elevato, dimesso, semplice, sobrio, elegante, ampolloso, sciatto, accurato, vigoroso
etc.).3) Stili declinati secondo i generi della scrittura (epistolare, comico, tragico, epico,
elegiaco, eroico, burlesco etc.)4) Stili declinati secondo la funzione del testo (burocratico,
giornalistico etc.)Lo stile, o quantomeno una sua ricerca, presuppone cura, lucidità e
consapevolezza nell’atto compositivo. Un’opera, quindi, viene composta secondo tratti stilistici
ben definiti, accuratamente selezionati e peculiari rispetto al gusto dell’autore in relazione al
messaggio.
2 La stilistica
Lo studio della lingua e dei suoi mezzi espressivi - o stilistica - si sviluppa secondo due
traiettorie:
Gli stati d’animo, per Bally, sono delle “mere possibilità” che camminano parallele al fianco
delle possibilità linguistiche2.2) La prospettiva di Leo Spitzer (1887-1960). forse la più
interessante e incisiva per capire le dinamiche della letteratura in un’ottica più contemporanea,
si rifà, invece, al regime della parole. La stilistica, secondo lui, deve soffermarsi sull’analisi
dello “stile dell’autore” in una prospettiva strettamente individuale, cercando di inquadrare i
singoli procedimenti stilistici come gli elementi fondanti della visione del mondo dell’autore.
Per comprendere meglio la sua posizione dobbiamo soffermarci sul suo concetto di “scarto” o
“deviazione” secondo il quale « [...]a qualsiasi allontanamento dallo stato psichico normale,
corrisponde nel campo espressivo, un allontanamento dell’uso linguistico normale; e, viceversa
[...] un allontanamento dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico inconsueto.»3. Il
lavoro di analisi del testo permette, secondo Spitzer, di partire dai particolari per comprendere
il totale
Ideologemi: secondo Bachtin, che per primo ha coniato il termine, sono gli usi
linguistici o le “marche stilistiche” che, all’interno di un testo o di un discorso, entrano
in gioco nell’esplicazione di una determinata concezione del mondo o nel tentativo di
istituire nuove concezioni del mondo4.
Ovviamente, più il messaggio prodotto è relativo a contesti usuali, più tale influenza sarà
marcata, poiché frutto di automatismi e forti interiorizzazioni linguistiche.
Tutto ciò che scriviamo attraversa questo processo: dalla realizzazione di una email, al tema
scolastico fino al biglietto di auguri.
La retorica classica aveva già provato a sancire una suddivisione in “categorie” o “livelli” della
narrazione che corrispondevano al rapporto, nella storia, tra argomento, stile e rango dei
personaggi.
Questi livelli erano umile, medio e sublime, rispettivamente identificabili con le opere di
Virgilio Bucolica, Georgica ed Aeneis.
In epoca rinascimentale, invece, si inizio a parlare di veri e propri generi letterari che, pure nei
sottogeneri, imponevano l’uso di precisi versi e schemi strofici, un lessico e scelte fonetiche
determinate. Il lessico di un poema cavalleresco non combaciava con quello di una lirica
amorosa.6
Una categorizzazione definita era difficile a causa della forte diversificazione lessicale,
dialettale e linguistica del periodo. Lo scrittore, quindi, nell’atto della scrittura e nella creazione
di un suo stile, non si confrontava con una lingua comune, ma con innumerevoli variabili e
registri.
Più è ampio il materiale linguistico e stilistico a disposizione dell’autore, più è vasta la sua
libertà espressiva e la ricchezza dei suoi contenuti.
La distinzione più antica nell’ambito dei generi letterari li suddivide in due filoni: prosa e
poesia.
Poco a poco, dalle contaminazioni ed evoluzioni sociali e artistiche, nascono nuovi generi come
i drammi e misteri liturgici, dovuti all’influenza degli scritti religiosi, le canzoni, derivate dalla
poesia politica e amorosa; oppure la favola, derivata dalla poesia didascalica.
Generi derivati dalla poesia: poesia lirica, epica, pastorale, drammatica e didascalica.
Generi derivati dalla prosa: oratoria, storia, opere didascaliche prosaiche e genere romanzesco.
In questo periodo storico, stile e genere coincidevano. Solo con la stilistica moderna, come
detto in precedenza, lo stile assunse un suo statuto analitico autonomo.7
7
1 L’avantesto
L’avantesto, come suggerisce la parola stessa, viene prima del testo, è tutto ciò che ha
preceduto il testo e che in qualche modo viene ricostruito. Vengono considerati avantesto tutti i
documenti che l’autore o gli autori producono nel corso della genesi del testo, tutti i materiali
che sono stati utili alla produzione del testo e al processo di fabbricazione dell’opera.
È importate precisare che, dal punto di vista linguistico, anche una bozza o una prima copia è
un testo coerente a tutti gli effetti. Nel ricostruire la genesi di un testo e considerando
cronologicmante tutti i testi che hanno preceduto la stesura finale, avremo una serie di sincronie
successive e non una diacronia.
SINCRONIA: il tipo di rapporto che corre tra gli elementi costitutivi di una lingua
quando si prescinde dalla loro origine e dalla loro evoluzione, vale a dire dal fattore
tempo.1 Corrisponde allo studio di un sistema linguistico in un dato momento.
Una volta chiarite le varianti di un testo, è possibile adottare due ottiche, una sincronica e una
diacronica. Gli studi hanno dimostrato che le modifiche che vengono apportate al testo sono
state utili a determinare una coesione maggiore che riguarda tutti gli elementi del testo connessi
fra loro e non hanno quindi l’obiettivo di migliorare le singole porzioni di testo.
Le varianti sono quindi utili a comprendere, da un lato le relazioni che intercorrono tra le varie
pasti di testo, ma anche e soprattutto come queste relazioni si sono evolute.
2 Edizione critica
La filologia è la disciplina che si occupa di ricostruire i documenti letterari e di interpretarli in
relazione a una determinata cultura. La filologia d’autore e la critica delle varianti considerano
la poeticità di un testo non come un valore dato, non è qualcosa di stabilito, ma un
“approssimazione al valore” che include tutti i testi che hanno preceduto il testo definitivo e
quindi gli avantesti.
- I materiali che non sono in diretta relazione con il testo: elenchi di personaggi o i
progetti letterari per esempio
- I materiali che sono in diretta relazione con il testo: le prime stesure o le stesure che
precedono il testo definitivo.Con queste premesse possiamo introdurre due tipi diversi di
edizione critica, dove per edizione critica si intende una pubblicazione di un testo che ha
come obiettivo la presentazione della forma originale di quel testo attraverso le lezioni
varianti:
3 Intertestualità
Per intertestualità si intende il confronto tra le varie stesure di una stessa opera letteraria o tra
opere diverse.
- Relazioni che il testo letterario stabilisce con il paratesto e quindi con tutto ciò che è al
di fuori del testo (titolo, indice, prefazioni, sottotitolo).
8
1 Individuare i livelli del significato
I contenuti testuali sono comunicati dal testo non solamente nella sua forma di prodotto
linguistico, ma anche di prodotto semiotico che usa un veicolo linguistico.
L’interpretazione di un testo passa necessariamente attraverso la dialettica tra queste due
istanze.
Quando utilizziamo il termine “significati” ci riferiamo ai significati grafici: quelli della
serie di lettere e segni di interpunzione che costituiscono il testo. Il testo è dunque una
successione fissa di significati grafici. Questi significati sono poi portatori di significati
semantici (relativi al significato delle parole).1
I significati testuali possono essere sottoposti a due tipi di letture: una relativa ai significati
semantici e l’altra relativa ai significati dianoetici.
Il significato semantico è relativo ai singoli termini o sintagmi (unità sintattiche autonome
soggetto/predicato/complemento) e può emergere dall’analisi:
- delle singole parole in relazione alla frase (significati denotati)
- dell’idioletto (complesso delle strutture linguistiche usate da una persona) e dei significati
connotati
- studio dei campi semantici (interpretazione tematica)
Nell’ambito dei significati semantici, un testo, in particolare il testo poetico, si fonda su un
sistema di significati leggibili secondo due livelli:
- Significati denotati: quelli immediatamente comprensibili alla lettura (es. La parola volo
ha un significato chiaro)
- Significati connotati: quelli interpretabili in relazione ai campi semantici dell’autore
(temi ricorrenti, parole chiave etc). Es. La parola volo, usata in un’opera, svela il suo
significato intenzionale e il suo valore simbolico se messa in relazione con altri termini
presenti nell’opera.
Di conseguenza possiamo definire le tre fasi del processo compositivo:campo lessicale >
campo semantico > campo tematico > controllo dell’enunciatoDi seguito, un chiaro
esempio di individuazione dei campi semantici all’interno di un testo
poetico.
I nuclei dianoetici sono i concetti fondamentali e determinanti dell’opera.
Il significato dianoetico, invece, è il nesso discorsivo tra le varie idee ispiratrici (o i
concetti fondamentali) di un’opera e si può definire individuando i vettori stilistici,
ossia le parole ed espressioni che esprimono idee dominanti nel testo.
Nel seguente esempio, tratto dalla prima novella della Settima giornata del Decameron di
Boccaccio, si chiariscono nuclei dianoetici, significati dianoetici e vettori stilistici:
9
1 La costruzione della storia: Fabula e Intreccio
Nella storia, intesa come successione sintagmatica, si possono distinguere tre livelli, salendo a
gradi sempre maggiori di lontananza dalla storia per come la percepisce il lettore. Questi tre
livelli sono la fabula, l’intreccio e il modello narrativo.
Ogni autore può descrivere gli avvenimenti seguendo il loro ordine cronologico, oppure può
decidere di anticipare alcuni eventi futuri o spiegare eventi passati.
Sono i formalisti russi i primi a effettuare una scomposizione del testo in Fabula e Intreccio
definendo che:
Per Fabula si intende la struttura di base del racconto, costituita dagli eventi disposti secondo
la rigida successione temporale e logica. È un’astrazione del lettore, che la ricava riordinando
le unità narrative secondo la successione logica e cronologica.
L’intreccio, invece, è la storia come è narrata dall’autore, frutto del libero montaggio dei fatti
della fabula. E’ il nuovo ordine degli eventi secondo le esigenze retoriche o estetiche
dell’autore.
In un testo la successione degli eventi non deve rispondere per forza né a un ordine logico
consequenziale, né a un ordine cronologico temporale. L’autore attua una scelta coerente
rispetto al suo stile narrativo.
semplice da costruire.
La fabula, quindi, non è altro che una forma di riassunto, un sommario del racconto ridotto ai
punti essenziali della storia mediante un’operazione di soppressione e sottrazione di tutti gli
artifici narrativi e compositivi costitutivi della “superficie testuale”.
di nuove forme di espansione narrativa che possono originare intrecci completamente
diversi da quello di partenza.
Analessi (o flashback o retrospezione): consiste in un salto indietro nel tempo nel quale si
racconta ciò che è accaduto in precedenza.
Nel caso in cui fabula e intreccio non coincidano, è compito del lettore ricostruire,
mentalmente, l’ordine cronologico degli eventi.
finalmente è arrivato per Ulisse il tempo di tornare a casa e Ulisse naufraga sulle sponde
dell’isola dei Feaci.
Ulisse racconta la vicenda tramite un flashback che occupa gran parte del poema. In questo
caso, l’analessi regge tutto il testo, ma modelli simili o ridotti sono rintracciabili nella quasi
totalità dei testi narrativi.
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe
ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il
ghiaccio.”
All’inizio del testo, l’autore ci informa subito riguardo il destino del protagonista. È una
soluzione azzardata perché va a ledere la tensione narrativa dalla quale il lettore si fa catturare.
L’autore deve trovare il giusto equilibrio. In questo caso, l’incipit non svela del tutto il finale
anzi, viene innescato un meccanismo per il quale la lettura è stimolata dalla volontà di scoprire
come il personaggio si sia ritrovato in quella situazione.
Nella prolessi generalmente gli eventi anticipati vengono ripresi e ampliati nel dipanarsi della
narrazione, soprattutto se riguardano personaggi principali, come nel caso del colonnello
Buendìa.
Le prolessi sono meno frequenti delle analessi perché sono più difficili da gestire. Anticipare
un evento, infatti, può generare nel lettore false aspettative, che potrebbero poi essere smentite
dalla storia, mentre sapere già cosa farà il protagonista può impedire l’immedesimazione da
parte del lettore e rendere vano ogni tentativo successivo di creare suspense.
Analessi e prolessi non sono le uniche due tecniche per segnare lo scarto tra l’ordine
cronologico degli eventi nella fabula e l’ordine stabilito dall’autore nell’intreccio.
In questo caso l’autore racconta prima le vicende di un personaggio, poi torna indietro sulla
linea del tempo e ci racconta cosa è avvenuto nel frattempo a un altro personaggio. Infatti,se
nella realtà gli avvenimenti accadono in parallelo, nella narrazione non è possibile raccontare
due storie contemporaneamente.Ne sono un esempio ”I Promessi Sposi”, nei quali Manzoni
dedica prima molti capitoli a raccontarci le avventure di Renzo a Milano, per poi ritornare su
Lucia, che nel frattempo era stata rapita e portata nel castello dell’Innominato.
Alternare punti di vista diversi sulla stessa scena.In questo caso l’autore racconta la
stessa scena da punti di vista diversi, che in genere coincidono con i punti di vista di personaggi
diversi. Anche in questo caso, ciò che nella realtà accade contemporaneamente, nella
narrazione ha bisogno di tempi successivi.
Alternare sviluppi diversi di una stessa situazione inizialeIn questo caso l’autore
racconta come può cambiare lo sviluppo di una stessa scena iniziale a seconda dell’intervento
di fattori casuali. Qui linee temporali distinte si srotolano a partire dallo stesso evento iniziale:
più linee del tempo distinte e divergenti, come vere e proprie fabule alternative. Meccanismo
alla “Sliding Doors”.
«Associandosi fra loro, i motivi formano i nessi tematici dell’opera. Da questo punto di vista, la
fabula è un insieme di motivi nel loro logico rapporto causale-temporale, mentre l’intreccio è
l’insieme degli stessi motivi nella successione e nel rapporto in cui sono stati presentati
nell’opera.»1
Tomasevskij specifica che un Motivo Libero ha evidentemente carattere statico, ma un Motivo
Statico, benché non produca mutamenti della situazione narrativa, può essere essenziale nello
sviluppo degli eventi narrati, può dunque configurarsi come Motivo Legato e cioè
insostituibile (si pensi alla descrizione di un oggetto o di un personaggio).- Nella fabula
particolare rilievo hanno i Motivi Dinamici, motori della storia, che diventano indispensabili
Motivi Legati.- Nell’intreccio assumono particolare rilievo i Motivi Statici (descrizioni,
digressioni etc.), che spesso giustificano la trasformazione delle relazioni logiche e
cronologiche degli eventi. Tomaŝevskij: «I motivi di un’opera possono essere eterogenei. Basta
parafrasare la fabula per capire cosa si può rimuovere senza danneggiare la coerenza del
racconto e cosa non si può omettere.»2
Sequenze dialogate: sono riportati per mezzo del discorso diretto i discorsi dei personaggi.
Alcune sequenze possono fondere funzioni diverse: per esempio contenere elementi narrativi e
descrittivi insieme, o riflessivi e descrittivi.
La prevalenza di una tipologia di sequenza sulle altre, influenza il ritmo della narrazione: per
esempio la successione di sequenze narrative rapide ed agili, ricche di azioni e colpi di scena,
rende il ritmo serrato ed incalzante; la prevalenza di sequenze descrittive o riflessive o
dialogate invece, rende il ritmo disteso, rallentato o addirittura statico.
«all’operato di un personaggio determinato dal punto di vista del suo significato per lo
svolgimento della vicenda.»4
4. Modello Narrativo
10
1 L’approccio teorico di Vladimir Propp
Vladimir Jakovlevič Propp, nato a Pietroburgo nel 1895, è stato un importante filologo,
linguista e antropologo russo, divenuto noto soprattutto per la sua attenta analisi del folklore e
degli elementi strutturali delle fiabe popolari e fondamentale nell’evoluzione del pensiero
strutturalista.
Dal punto di vista teorico, è di grande importanza il suo contributo alla ‘classificazione’, di
natura obiettiva ed empirica, degli elementi caratterizzanti della fiaba interpretata come uno
strumento di trasmissione del sapere connesso alla tradizione orale.
I due principali studi di Propp sulla composizione, gli elementi e le radici storiche e culturali
della fiaba sono:
• Morfologia della fiaba (1928) nel quale viene classificato formalmente il genere fiabesco e
identificate empiricamente le funzioni immutabili dei personaggi e le loro caratteristiche
essenziali. Dalle teorie presentate in questo testo, trarranno spunto studiosi come Barthes e
Umberto Eco.
• Le radici storiche dei racconti di fate (1946), basato sul corpus di 100 favole raccolte
nell’Ottocento da Afanas’ev. Qui Propp cerca di rintracciare le radici genetiche della fiaba in
un esteso orizzonte storico e culturale. Nei racconti incentrati sull’elemento magico, infatti,
Propp evidenzia la rappresentazione creativa e popolare delle manifestazioni di natura magico-
religiosa.
Propp intuisce le radici storiche della fiaba riconducendole ai riti tribali di iniziazione e
individua la reiterazione di quegli elementi delle narrazioni che sono le fondamenta della fiaba
popolare.
L’approccio di Propp è incentrato non solo sull’analisi delle singole fiabe, quanto sul confronto
diretto di ciascuna con l’intero corpus.
Il metodo proppiano è di natura morfologica: si concentra sulla forma che organizza il
racconto, ed è teso all’individuazione di unità strutturali
Quindi non è centrale tanto ciò che viene raccontato, quanto le strutture e i meccanismi che
rendono possibile il racconto. In un certo senso, quindi, i personaggi in sé passano in secondo
piano, rispetto a ciò che rappresentano e alle azioni che compiono: elementi dai quali vengono
qualificati.
• Eroe: protagonista che, dopo aver compiuto un'impresa, trionferà. Può essere ricercatore,
avventuriero o vittima
• Antagonista: l'oppositore dell'eroe, il cattivo• Falso eroe: antieroe che si sostituisce all'eroe
con l'inganno• Mandante: chi invita l'eroe a partire per la sua missione• Mentore: la guida
dell'eroe, che gli dà un dono magico• Aiutante: chi aiuta l'eroe a portare a termine la missione•
Principessa: premio amoroso finale per l'eroe e il Sovrano: incarica l’eroe, identifica il falso
eroe e premia l’eroe.
Questi ruoli possono essere ricoperti da più personaggi e più ruoli possono essere ricoperti da
un solo personaggio. I vari personaggi, a loro volta, si muovono e si relazionano tra essi
secondo un complesso sistema di funzioni che da vita alla narrazione fiabesca.
Propp definisce la struttura della fiaba non solo attraverso le sette tipologie di personaggio, ma
anche attraverso l’identificazione di 31 funzioni.
Non tutte le narrazione fiabesce sono definite attraverso tali funzioni, ma in generale
rappresentano i modelli principali attraverso i quali si sviluppano i racconti.
Allontanamento: uno dei membri della famiglia si allontana da casa (ad es. il principe va in
guerra)
Divieto o ordine: (es. a Cappuccetto Rosso viene proibito di passare per il bosco) Infrazione:
(es. Cappuccetto rosso passa per il bosco, Pandora apre il vaso). L’antagonista entra
nella storia perché il divieto è stato infranto
L'eroe messo alla prova: il mentore mette alla prova l'eroe in preparazione al conseguimento
oggetto
Ottenimento del mezzo magico: l’eroe riesce o no a entrare in possesso dell'oggetto magico
Lotta: scontro diretto, fisico o d’astuzia, tra eroe e l'antagonista (il cattivo o falso eroe)
Marchiatura: all'eroe è impresso un marchio (una ferita o viene dato un oggetto – anello,
fazzoletto...)
Rimozione della sciagura: si ripristina la situazione iniziale ponendo riparo alla disgrazia o
alla mancanza
20. Persecuzione: l'eroe è sottoposto a persecuzione (animali ostili, oggetti allettanti ...)
31. Lieto fine: l’eroe spesso si sposa o ottiene il premio Non tutte le funzioni debbono
essere presenti ma tutte le fiabe si possono strutturare con
L’ordine di successione delle funzioni è sempre lo stesso. Alcune possono mancare Le funzioni
possono essere ripetute per andare a buon fineLa trama (intreccio e personaggi) si costruisce
sulla composizione delle funzioni
28 30 31)
• Sono possibili tre casi di ripartizione della sfera d’azione tra i personaggi
un’apparizione prodigiosa- Se un personaggio ricopre più ruoli appare nelle forme in cui ha
iniziato ad operare
4 Criticità del modello proppiano
Propp ha sostanzialmente sezionato la fiaba in modo da ottenere una struttura univoca che,
però, a ben guardare, può peccare di generalizzazione e limitatezza.
Il metodo proppiano - ottimo come modello generale - non prende in considerazione gli
elementi costitutivi di natura emotiva o psicologica, né i relativi processi di identificazione
fondamentali nella fruizione del racconto.
Lo schema di Propp, in sostanza, ci dice che le fiabe di magia raccontano tutte la stessa storia.
L’autore definisce questo aspetto come “trasformazione dell’invarianza”1, ma questa visione si
prestò subito alle critiche di Lévi-Strauss (1960) che accusa l’approccio proppiano di eccessivo
formalismo e semplificazione:
«Vi sarebbe allora davvero una favola sola, ma si ridurrebbe ad un’astrazione così vaga e
generale da non poterci dir nulla sui motivi obiettivi per cui esiste un gran numero di fiabe
particolari.»2
Secondo Lévi-Strauss, il problema sta nella scissione tra forma (composizione) e contenuti
(personaggi, intrecci), andando a ledere l’unitarietà dell’opera e questo renderebbe impossibile
redigere un principio generale valevole per tutte le fiabe e tutte le narrazioni.Propp risponde a
Lévi-Strauss nel 1966, integrando la sua Morfologia della fiaba. Nel saggio dice che il
contrasto metodologico con Lévi-Strauss nascerebbe dalla diversità degli oggetti studiati: da un
lato la fiaba e dall’altro il mito.
Altra critica mossa al modello proppiano, evidenziata da Segre3, è relativa alla sua limitatezza.
Propp, infatti, si è basato su un corpus definito di opere - tra l’altro narrativamente e
strutturalmente simili - per effettuare la sua analisi empirica e un conseguente modello proposto
come generale. Questo, agli occhi di molti teorici, linguisti e semiologi, è stato un evidente
errore.
Il modello Proppiamo, comunque utilissimo e precursore, ha portato alla nascita di molti altri
strumenti analitici, come quelli utilizzati da Barthes e Greimas.
Propp, quindi, non ha individuato e risolto un problema di lettura del testo narrativo, ma l’ha
semplicemente, per quanto fondamentalmente, posto agli occhi del mondo.
11
1 Gli albori della narratologia
A partire dagli anni ‘60 gli studi che si concentravano sul “racconto” innescarono una vera e
propria rivoluzione concettuale sull’arte e le strutture della narrazione.
In prima linea nel sezionare il testo/racconto e scomporlo nelle sue strutture portanti e nei
codici che ne regolano la comunicazione, troviamo teorici come Vladimir Propp,
I loro studi, pur nell’estrema diversità di approccio e concezione del racconto, tentarono di dare
un senso alla finzione narrativa attraverso quei processi di indagine che presero il nome di
“narratività” o “narratologia”, termine coniato dallo studioso bulgaro Tzvetan Todorov nel
1969.
Il testo, nella sua superficie, sarebbe quindi una manifestazione di queste strutture profonde.
Avviene, quindi, un autentico cambio metodologico per il quale storia e cronologia vengono
sacrificate sull’altare della struttura acronica.
L’opera, edita nel ‘28, è uno dei testi cardine del formalismo russo e si colloca negli studi di
matrice folkloristica. Se l’approccio con il quale venivano analizzate le fiabe era fino a quel
momento, unicamente storico, legato a fonti, corrispondenze e genealogie, con Propp si giunge
alla conoscenza della fiaba da un punto di vista morfologico, tra elementi costanti (ad esempio
personaggio e azioni) e relazioni (azioni concatenate) che vanno a dare forma alla struttura
della fiaba popolare.
Nella fiaba, Propp evidenzia i ruoli principali (l'eroe, il cattivo, l'aiutante, ecc.), ma anche le
funzioni fondamentali compiute dai singoli personaggi, le quali costituiscono le fondamenta del
racconto e il suo sviluppo: es. "un difficile compito assegnato all'eroe"; "risoluzione del
compito"; "ricognizione dell'eroe"; "denuncia del cattivo"; "punizione del cattivo";
"premiazione dell'eroe tramite matrimonio e ascesa sociale".
Tali funzioni possono essere utilizzate per analizzare un qualsiasi tipo di testo narrativo, anche
se questa tesi non è esente da critiche.
Secondo Bremond la struttura del racconto implica l’esistenza di alternative e scelte nella
successione delle funzioni che vanno a scardinare la struttura rigida di Propp. Tali alternative si
moltiplicano con il susseguirsi della narrazione. Ci sono delle strade percorribili possibili
all’interno di ogni storia esattamente come accade nella vita reale (questa prospettiva è
anticipatrice del modello di narrazione interattiva di moda a partire dagli anni Ottanta).
Bremond ci dice che “il fatto che la lotta sia implicata dalla vittoria è un’esigenza logica; ma
che la vittoria sia implicata dalla lotta è solo frutto di uno stereotipo culturale” (Bremond
1973).
Così, il semiologo giunge alla teorizzazione della cosiddetta "logica dei possibili narrativi" per
la quale ogni racconto è un insieme logico di processi.
Secondo lui le funzioni proppiane non sono legate da un ordine preciso, ma da un legame di
necessità o probabilità.
Le sequenze elementari sono inoltre articolate sempre in tre fasi, ciascuna delle quali offre
un'alternativa:
Volendo fare un ulteriore esempio, applicando una funzione precisa, in questo caso il
danneggiamento, ci troveremmo di fronte alla seguente struttura.
(uscita dalla casa paterna; dalla patria: esilio; dalla persona amata: separazione, abbandono;
ecc.).
Il linguista francese Aljirdas Julien Greimas prova a elaborare una grammatica narrativa
partendo dal lavoro di Propp inteso, però, come un modello perfezionabile che potesse valere
per tutti i discorsi narrativi.
Le “sfere d’azione” dei personaggi danno vita al modello attanziale, mentre le funzioni
narrative vengono ritradotte nella teoria degli enunciati narrativi.
Gli attanti narrativi formano la base della grammatica narrativa di superficie: sono ruoli
sintattici della narratività di carattere formale e, all’interno della storia, possono essere
individuabili in umani, animali, oggetti o concetti.
Nella teoria di Greimas gli attanti sono sei, organizzati in tre categorie:
soggetto-Ulisse
aiutante-Minerva
destinante- LaguerradiTroia
Tra Soggetto e Oggetto - nucleo del modello attanziale - si sviluppa un rapporto basato su
desiderio e ricerca.
L’oggetto è importante non in quanto tale, ma per ciò che rappresenta o il valore del quale il
soggetto lo investe.
Per definire Destinante e Destinatario Greimas utilizza l’esempio della Ricerca del Graal: - il
Soggetto è l’Eroe- l’Oggetto è il Graal- il Destinante è Dio
- il Destinatario è l’Umanità
incaricandolo di porre rimedio a una situazione e nel finale decreta il successo o il fallimento
dell’impresa; il Destinatario (che coincide con il Soggetto/Eroe divenendo un unico
personaggio), invece, compie l’impresa.5
Capita anche di trovarsi di fronte a storie nelle quali Destinante e Destinatario coincidono. In
questo caso l’attante stipula un contratto con se stesso.
12
1 La prospettiva di Todorov tra sequenza e testo
Todorov, coniatore del termine “narratologia”, rielabora, come molti altri teorici, il lavoro di
Propp.
L’opera letteraria è da lui come un’entità che possa essere allo stesso tempo storia e discorso.
Storia perché implica la rappresentazione di una determinata realtà e di accadimenti che
presumibilmente hanno o potrebbero avere luogo, con protagonisti dei personaggi che sono
riflesso di quelli presenti nella vita reale.Il regime del discorso, invece, viene attivato dalla
presenza di un narratore che racconta la storia e un lettore che la fruisce.1
Per proposizione si intende una struttura narrativa che comprende un soggetto, un predicato
(quindi un’azione compiuta o da compiere) ed eventuali complementi che arricchiscono il
messaggio.
Ogni storia, quindi, secondo Todorov, è composta da proposizioni narrative che possono avere
(almeno) due componenti: attante e predicato2.
Volendo utilizzare l’esempio di Madame Bovary, possiamo dire che l’attante sia Emma mentre
il predicato è lo sposare Charles Bovary.
Incastonatura: quando una sequenza si colloca all’interno di un’altra sequenza (Le mille e una
notte)
testo descrittivo che combinano le azioni in modo differente.Se, infatti, il testo descrittivo ha
una prevedibilità lessicale (impoverimento del lessico legato
Il principio di trasformazione, però, non è una regola ferrea del testo narrativo. Vedasi, ad
esempio, il caso di Eveline di Joyce, nel quale la protagonista, attraverso la tecnica del
monologo interiore, racconta il presente triste in Irlanda e sogna il futuro fuori dal suo paese.
Se la protagonista partisse, innescando un’azione, allora si attiverebbe il principio di
trasformazione. Invece, l’intera novella descrive una partenza che non avviene e questo
impedisce il mutamento.
Questo determina il senso e il fascino narrativo, tipico dello stile di Joyce, che pervade Gente di
Dublino.4
Fondamentali le sue riflessioni in merito all’atto della narrazione e agli attori in essa coinvolti,
cercando di comprendere come avvenga la trasmissione di senso tra un soggetto ed un
destinatario, tra autore e lettore, mettendo a fuoco le dinamiche che entrano in gioco.
Nel suo suggestivo testo Sei passeggiate nei boschi narrativi5, offre un ricco excursus sull’arte
del narrare, partendo da una metafora che pone il testo narrativo alla stregua di un bosco.
Secondo Eco, infatti, un Bosco, per usare una metafora di Borges, è un giardino di sentieri che
si biforcano. Anche quando in un bosco non ci sono sentieri tracciati, ciascuno può tracciare il
proprio percorso decidendo di procedere a destra o a sinistra di un certo albero, facendo una
scelta a ogni albero che incontra. In un testo narrativo il lettore è costretto a ogni momento a
compiere una scelta. In genere il lettore si dispone a fare le proprie scelte nel bosco narrativo
presumendo che alcune siano più ragionevoli di altre.
Per scelte ragionevoli Eco fa riferimento al come vengono percorsi i sentieri del bosco
narrativo. Un testo può essere interpretato - cogliendo tutti i riferimenti e i livelli che contiene -
oppure utilizzato come se fosse un giardino privato per “sognare a occhi aperti”.
3) Capacita di disambiguare gli impliciti (es. Marco e Laura sono si trovano nella stessa
stanza)4) Capacità di fare deduzioni logiche (es. Se Laura è raggiante allora è contenta di
rivedere Marco)
Lettore Modello: collabora e interagisce con il testo, in quanto spettatore che segue una
vicenda che non lo coinvolge direttamente. Nasce col testo e ne rappresenta le strategie
interpretative.
Il Lettore empirico, invece, siamo tutti noi quando leggiamo un testo e lo rendiamo un
contenitore delle nostre passioni. A differenza del lettore modello e dell’autore modello, il
lettore empirico è reale.
Il lettore empirico diventa lettore modello quando, nella lettura, scopre cosa l’autore modello
voleva da loro.
Il lettore modello di primo livello desidera sapere come va a finire la storia e gode
dell’aspetto ludico del testo.
Il lettore modello di secondo livello vuole capire il funzionamento del testo, le sue strategie e
le modalità di creazione degli effetti narrativi.
Autore modello: è la persona descritta nel testo, ne detiene le regole. L’idea dell’autore che
emerge dal testo.
Lettore Modello e Autore Modello sono immagini che si definiscono reciprocamente nel corso
e alla fine della lettura.6
Tra gli elementi extratestuali, riprendendo le categorie di Eco, troviamo: autore reale
lettore reale
Tra gli elementi intratestuali, troviamo: autore implicitolettore implicitoil
narratore
il narratario
Secondo il critico, quindi, all’esterno della finzione narrativa, l’autore reale è il singolo (o il
gruppo, storicamente esistito, anche in assenza o mancanza di informazioni biografiche), che ha
ideato e realizzato il testo.
All’estremo opposto, sempre al di là della finzione narrativa, il lettore reale incarna tutti quelli
che leggono il testo.
Per quanto riguarda il regime della finzione, invece, l’autore implicito è l’idea dell’autore che il
lettore intuisce dal testo.
Secondo Chatman, «l’autore viene detto “implicito” perché è ricostruito dal lettore per mezzo
della narrazione. Non è il narratore, ma piuttosto il principio che ha inventato il narratore
insieme a tutto il resto della narrazione, che ha sistemato le carte in un certo modo, ha fatto
succedere queste cose a questi personaggi, in queste parole o in queste immagini»7.
L’autore implicito corrisponde al lettore implicito, il quale incarna l’idea che l’autore reale si
crea circa i potenziali lettori della sua opera.
13
1 Per una teoria post-strutturalista del discorso
Il filosofo russo Bachtin, uno dei padri del formalismo, è uno dei teorici che con maggior
vigore provarono a soverchiare la lettura saussuriana del linguaggio, nel tentativo, in primo
luogo, di ridare importanza alla contestualizzazione storica dell’opera e, in seguito,
parametrarla in relazione al contesto sociale nella quale essa è stata generata e opera. Secondo
Bachtin, infatti, la parola dialoga con il suo contesto storico-sociale, assumendo di volta in
volta, forme e significati diversi1.
Se i teorici dello strutturalismo utilizzavano gli strumenti di analisi testuale per eviscerare il
testo letterario secondo una prospettiva empirica e “oggettiva” grazie alla quale comprenderne
e prevederne le costanti, le variazioni, le dinamiche e le forme espressive in un modo che fosse
slegato il più possibile da influenze e contaminazioni culturali e sociali, il post-strutturalismo,
invece, si pone l’obiettivo opposto.
Nulla, quindi, è immutabile e definibile con certezza, anche nella dialettica tra opera e contesto.
Di conseguenza tutto è da ritenersi in un costante “processo” di mutazione: Soggetto compreso.
Perfino per definire questo processo è necessario rifarsi ulteriormente ad altri linguaggi,
innescando una catena infinita di cortocircuiti metalinguistici.
Così facendo, in sostanza, non si riesce mai a dare una spiegazione definitiva del linguaggio
perché per definirlo ne vengono chiamati in causa tanti altri (in quel momento diversi e non
spiegati).
Per essere più chiari, basti pensare al ruolo del critico che, nell’atto della lettura analitica di un
testo, in realtà non ha la possibilità di uscire fuori dalle maglie del discorso assumendo una
posizione infallibile.
Ogni tipologia di discorso, sia di natura narrativa che critica, in un certo senso è reale (poiché
compiuto ed esistente), ma anche finto e non veritiero poiché fallibile e mutevole.
Barthes è un accanito fautore della libertà (interpretativa) del lettore. Una libertà esplicitata con
convinzione nel suo celebre testo La morte dell’autore nel quale viene decretato il decesso
autoriale, la sua inesistenza, il suo status di luogo di incontro di linguaggi, citazioni, ripetizioni,
echi referenze. Il lettore, quindi, può aprire e chiudere i processi di significato senza aver cura
dei significati prestabiliti2.
Il suo attacco allo strutturalismo diventa ancor più feroce in S/Z, dove condanna la volontà
degli strutturalisti di inglobare in un’unica, infallibile struttura tutte le storie del mondo. Un atto
ritenuto impossibile perché, secondo Barthes, ogni testo, ogni storia, ogni frase racchiude delle
differenze. Il testo è plurale. Aperto all’interpretazione e terreno di manifestazione delle
variabili sociali e culturali.
In S/Z viene attuata anche un’importante distinzione3. Barthes scinde i testi in:
Testo leggibile: in cui il lettore non viene incoraggiato a speculare oltre ciò che il
narratore afferma, ma deve seguire una lettura "corretta"
Testo scrivibile: in cui l'apertura del testo in relazione al suo significato e alle sue
associazioni e correlazioni, incoraggia il lettore a integrare creativamente producendo
nuovi significati.
3 Definizione e verità
Umberto Eco, nel suo Sei passeggiate nei boschi narrativi, utilizza la distinzione testuale di
Barthes per dar vita a un’interessante percorso dedicato alla finzione e alla realtà nel testo
narrativo (e non solo).
Eco pone come componente fondamentale di un’esperienza narrativa di fiction, valevole per la
letteratura ma anche per il racconto cinematografico o seriale, che il lettore/spettatore attui con
l’autore un patto finzionale4.
«[...] venne accettato, che i miei sforzi dovevano indirizzarsi a persone e personaggi
sovrannaturali, o anche romanzati, e a trasferire dalla nostra intima natura un interesse umano e
una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre dell'immaginazione quella
volontaria sospensione del dubbio momentanea, che costituisce la fede poetica.»5
Allo stesso tempo, la sua esperienza non viene viziata dall’idea che l’autore gli stia mentendo e
che ciò che viene raccontato sia necessariamente finto. L’autore ci dona informazioni
“fingendo” siano vere e noi, in quanto fruitori, attraverso il patto finzionale, accettiamo
momentaneamente, nell’arco della lettura e della visione, che la narrazione sia vera.
Quindi autore e lettore/spettatore stringono un patto finzionale (uno crea e l’altro prende per
vera la creazione) reso possibile dalla sospensione dell’incredulità.
Le narrazioni, quindi, possono essere definite come mondi possibili perché, nell’atto creativo e
fruizionale, acquistano senso, dimensione e un’aura veridicità ipotetica.
Alla base della quasi totalità dei racconti, per quanto creativi o assurdi, c’è sempre il mondo
reale o, almeno, alcuni (se non tutti) gli elementi fisici e/o visibili che lo caratterizzano.
Certo, possono mancare o essere meno marcati uno o più di questi elementi, ma il principio di
verosimiglianza e plausibilità viene innescato dal fatto che, in automatico, soprattutto per le
cose che non ci vengono raccontate (quindi l’extradiegetico) la nostra mente riempia gli spazi
vuoti dando per scontate le leggi del mondo reale.
Tra il mondo reale e i mondi narrativi si sviluppa un legame di dialettica e dipendenza. I mondi
narrativi, infatti, hanno un rapporto di parassitarietà con il mondo reale perché sono generati e
dipendono da esso.
La fuga in questi mondi ci permette di scampare all’angoscia che nasce dal tentativo di cercar
di dire le verità del mondo reale. Attraverso la finzione, quindi, possiamo sperimentare
frammenti di ciò che ci circonda riuscendo, talvolta, a capirlo un po’ meglio6.
Normalmente si crede che l’esperienza del mondo reale sia determinata dal principio di verità
(truth), mentre per l’esperienza dei mondi finzionali valga il princpio di fiducia (trust).
Invece, anche nell’esperire il mondo reale è necessaria una dose di fiducia o, meglio, un
equilibrio tra verità e fiducia poiché il reale nasconde incognite e angoli oscuri che non è
semplice scoprire, capire o accettare.
Il processo tramite il quale accettiamo, nel nostro vivere quotidiano, ciò che accade nel mondo
reale, attraverso le esperienze o i sensi, è assai simile al processo che si innesca nella nostra
mente quando decidiamo di accettare il “possibile narrativo” che ci viene proposto nei testi
finzionali.
Se è vero che i mondi narrativi sono più piccoli del mondo reale poiché generati a partire da
esso, allo stesso tempo, dato che hanno il mondo reale a far da sfondo alle vicende, in un certo
ne son più vasti poiché possono rappresentare porzioni di reale che, magari, ancora non
conosciamo nella nostra esperienza di vita.
Un testo può diventare spunto o punto di partenza per creare nuovi mondi o dare nuovi volumi
e livelli al mondo finzionale fruito.
Questo meccanismo, nel quale si indugia talvolta nell’atto critico e analitico, si chiama
sovrainterpretazione del testo: ossia l’andare oltre le intenzioni dell’autore e le informazioni
da lui fornite volontariamente.
Sotto certi punti di vista, è una pratica negativa perché va a scardinare l’ordine delle
informazioni e la volontà autoriale.
Al tempo stesso, però, se lo si pratica entro i limiti della legittimità testuale e le suggestioni
presenti nel testo (dando, quindi, una buona dose di solidità alle proposte interpretative) è un
atto che dimostra la ricchezza del racconto e può portare a letture significative.
4 Versoilvisuale
Queste stimolazioni, il gioco interpretativo e immersivo, il dubbio tra realtà e finzione,
l’abbandono alla verità o alla fiducia, sono percorsi che ormai, da lettori e spettatori,
sperimentiamo ogni giorno.
Se, prima, il terreno della narratologia era unicamente fondato sulle logiche della letteratura,
con il passaggio al dominio dell’homo videns siamo sottoposti a un numero sempre crescente
di stimoli visuali che racchiudono narrazioni sempre più complesse e articolate.
I modelli della narratologia - dai circuiti comunicativi alla struttura del discorso, dalla figura
dell’autore e del lettore, ai ruoli archetipici del personaggi - vengono oggi ampiamente
applicati nello studio delle forme del visibile, con particolare riferimento al cinema, alla
serialità televisiva, al fumetto e al videogame.
Grazie alle prospettive teoriche della narratologia letteraria si son maturati gli strumenti utili ad
analizzare il film come un autentico testo, rapportando gli elementi del testo letterario alle
logiche, le figure e le particelle costitutive del tessuto filmico.
Il visuale viene così interpretato sia nella sua natura tecnico-compositiva che nelle istanze
narrative che ne definiscono il linguaggio e lo storytelling: ossia il modo in cui le storie
vengono raccontate in un’ottica di affabulazione spettatoriale.
Il testo nasce dalla necessità di Vogler di comprendere le ragioni del successo delle più grandi
sceneggiature del cinema americano. Nel suo percorso di ricerca si imbatte nel libro di Joseph
Campbell “L’eroe dai mille volti”.
Joseph Campbell è stato uno studioso americano di mitologia e religioni che attraverso i suoi
testi “L’eroe dai mille volti” (1949) e “Le maschere di Dio” (1959) ha svelato quali sono gli
elementi comuni agli eroi di ogni racconto:
Un’infanzia difficile a causa di una famiglia assente o relazioni difficoltose con i familiari.
L’eroe si ritira dalla società per migliorare alcune sue abilità o acquisire competenze, spesso
aiutato da una guida soprannaturale.
L’eroe rientra nella società più forte di prima e svolge il suo compito grazie alle competenze
acquisite e agli oggetti magici di cui lui solo dispone. Vogler parte da queste indicazioni
date da Campbell, trae spirazione dai suoi testi, dagli studi di Vladimir Propp, dalle fiabe
russe e dagli archetipi junghiani, per costruire il suo modello che, negli anni 90 del
Novecento, è diventato un libro di grande successo, utile all’analisi del testo filmico.
L’eroe riceve una chiamata che lo allontana dal suo mondo ordinario, inizialmente rifiuta la
chiamata, subentra un mentore che ha il compito di guidarlo, vince la sua paura, supera la
prima soglia ed entra nel mondo straordinario, comincia una serie di prove che lo
avvicineranno alla prova centrale, ottiene la ricompensa e comincia il viaggio di ritorno verso
casa, affronta una resurrezione, e torna a casa con l’elisir.
1) Mondo Ordinario: il mondo ordinario è per l’eroe il mondo ideale, dove desidera vivere, è
pacifico e sereno ma qualcosa spingerà l’eroe all’azione. In questo frangente avviene la
presentazione dell’eroe e del tema della storia. Per lo spettatore è facile immedesimarsi con
l’eroe perché hanno valori comuni e, affinché l’immedesimazione avvenga con maggiore
efficacia, è bene che l’eroe sia caratterizzato anche da un difetto, una mancanza.
- Urgenza interiore
- Messaggero
- Evento tragico
- Sogni e visioni 3) Rifiuto del richiamo: l’eroe non vuole entrare in azione perché sa
che rischia la vita.4) Incontro con il mentore: l’eroe parte quando capisce che c’è un
mentore, un ex-eroe che conosce già il viaggio perché lo ha fatto in passato e ha avuto
esperienza del mondo straordinario. 5)Varco prima soglia: per acceedere al mondo
straordinario, l’eroe deve superare un ostacolo o sconfiggere un guardiano, un mostro. In
questa fase, che viene riconosciuta come la prima prova dell’eroe, il protagonista deve
entare nella logica dell’altro, deve assumere la prospettiva che appartiene a un diverso,
all’oscurità, al male, deve quindi affrontare le sue paure. Questo momento viene
identificato come il momento di svolta all’interno della sceneggiatura e si colloca
solitamente intorno a pagina 60 di una sceneggiatura di due ore.
6)Prove, alleati, nemici: l’eroe si trova nel mondo straordinario e deve affrontare prove
progressivamente sempre più difficili. In questa fase capiamo chiaramente che il mondo
straordinario è radicalmente diverso da quello ordinario.
7) Avvicinamento alla caverna più recondita: l’eroe varca una soglia dalla quale non può più
tornare indietro e affronta prove sempre più difficili.
8)Prova centrale: in questa fase avviene la prima morte metaforica dell’eroe, l’eroe è
chiaramente cambiato in meglio. Vogler definisce questo momento “crisi”, l’eroe sopravvive a
questo momento e trova il suo equilibrio diventando più forte.
9)Ricompensa: il ritmo della storia rallenta, è un momento di pausa dopo la crisi. L’eroe
festeggia e celebra la sua vittoria.
10) La via del ritorno: l’eroe ha trovato il suo equilibrio e si trova bene nel mondo
straordinario, deve però trovare le motivazioni per tonare.
11) Resurrezione: climax, l’eroe deve aver appreso l’insegnamento ed essere in grado di
tornare nel mondo ordinario, deve quindi dimostrare di essere cambiato attraverso una scelta
che deve fare, attraverso una prova fisica oppure spirituale. L’eroe muore ancora
metaforicamente per rinascere nel mondo ordinario.
12) Ritorno con l’elisir: l’eroe riceve un premio. Il finale può seguire due modelli: nel
modello Americano il problema viene totalmente risolto e la storia è chiusa, nel modello
Europeo non tutti i nodi vengono sciolti e la storia resta aperta.
1.
- consapevolezza limitata
- aumento consapevolezza
- riluttanza al cambiamento
- superamento riluttanza
- impegno al cambiamento 2.
- sperimentazione
- preparazione
- conseguenza cambiamento
- padronanza finale del problema A cambiare e trasformarsi non è solo l’eroe ma anche
il ritmo del racconto che progressivamente muta. Vogler chiarisce che l’efficacia di un
racconto è data anche dall’alternanza e il susseguirsi di momenti di tensione e
distensione, come se il viaggio dell’eroe fosse un elastico, con momenti distensivi, calmi
e pacati, alternati a momenti critici e carichi di tensione.
15
1 Prima di Booker
Christopher Booker è un giornalista e scrittore inglese, nel 2004 pubblica un testo dal titolo
“The Seven Basic Plot” che introduce i modelli archetipici per storie. Già Christopher Vogler
con “Il viaggio dell’eroe” e Robert McKee con “Story” si erano occupati di narrativa e
narratologia, avevano spiegato come si scrivono e costruiscono delle storie con un’attenzione
particolare alla scrittura cinematografia e alla sceneggiatura.
La prima edizione di “Story” di McKee viene pubblicata nel 1997, affronta in modo organico e
articolato l’arte e i principi della scrittura cinematografica, televisiva e quindi seriale. Interesse
dell’autore non è solo spiegare le regole di costruzione di una storia ma anche abbattere i cliché
narrativi di cui lo sceneggiatore è spesso vittima.
A differenza di altri approcci alla sceneggiatura, “Story” non svela una formula ma parla della
forma, usa esempi di film d’autore e, attraverso un’analisi filosofica, identifica gli elementi,
spesso nascosti, che determinano il successo e la qualità di una storia. Per la prima volta il lo
sceneggiatore è considerato un artista oltre che un intellettuale.
Booker, facendo tesoro degli studi di Vogler e McKee, procede la sua ricerca e analizza una
serie di film chiave con l’obiettivo di identificare i temi ricorrenti. Se Vogler e McKee si erano
concentrati su un’analisi emotiva/strutturale delle storie, Booker si concentra sull’ aspetto
psicologico.
I sette modelli individuati da Booker riguardano non tanto le modalità di narrazione quanto il
tema narrativo stesso, sono utili alla creazione di qualsiasi racconto e sono inter-compatibili.
Rispetto alle teorie narrative precedenti, Booker ha un approccio più concreto, la sua analisi
non sostituisce quella dei precedenti studiosi, ha semplice un altro indirizzo, meno astratto.
2 I sette modelli
Sconfiggere il mostro: il protagonista deve superare un ostacolo, deve affrontare un mostro,
una calamità naturale, qualcosa che minaccia lui e il suo mondo e che alla fine viene
sconfitto. Il conflitto spinge l’eroe verso il combattimento e determina anche un
sentimento di empatia con lo spettatore. Esempi sono: “I Sette Samurai”, “Guerre
Stellari”, “The Hunger Games”.
Dalla povertà alla ricchezza: il protagonista parte da una situazione di svantaggio, usa le sue
virtù per riscattarsi e ottenere ricchezza, potere o amore. Avviene una scalata sociale
che non riguarda soltanto la sfera economica ma è un percorso di trasformazione
durante il quale il protagonista cresce e migliora. Esempi sono: “Cenerentola”,
“Aladdin”.
3 CombinareiPlot
Abbiamo precedentemente detto che i plot sono inter-compatibili, non sono quindi isolati e
autosufficienti ma moltissime storie adottano più di un unico plot. È facile trovare racconti che
hanno un unico plot, i romanzi, al contrario, sono soliti adottare più di un tema.
La combinazione di questi modelli non avviene in maniera casuale, esistono tre modi che
possiamo analizzare:
Tre contrapposto: l’ultimo dei tre elementi è quello significativo ed è l’unico con un
valore positivo. L’ultimo porcellino è quello che ha successo nella costruzione della
casa. La forma finale o dialettica del tre: il primo elemento è sbagliato, il secondo
radicalmente opposto è sbagliato, il terzo è la soluzione. Es. “Riccioli d’oro con le sue
ciotole di avena”.
16
1 Cosasonogliarchetipi
La parola archetipo deriva dal greco: arché ("originale") e típos ("modello", "esemplare"); si
contrappone a "stereotipo" (stereos in greco significa solido, rigido, tridimensionale) che
significa "copia", "duplicazione", "riproduzione". Lo stereotipo è dunque una imitazione
parziale dell’archetipo che viene definito come il principio primo, universale, completo e
perfetto.
I filosofi greci sono i primi a usare il termine archetipo riferendosi ai modelli preesistenti della
realtà. Gli archetipi erano considerati dai greci idee presenti nella mente di Dio mentre Platone
ci parla dell’Iperuranio, un luogo metafisico nel quale risiedono i concetti astratti e puri. È qui
che si trovano le idee, non sono soggette a mutamenti, che non sono nella realtà e prescindono
da essa. Queste idee, secondo Platone, sono accessibili attraverso quattro livelli:
livello dell'essere: gli oggetti immanenti partecipano delle idee per somiglianza o imitazione
(un cavallo "reale" cerca di assomigliare all'idea di cavallo, e ciascun cavallo assomiglia
all'idea di cavallo a modo proprio);
livello della conoscenza: possiamo riconoscere gli oggetti solo in base alle idee a cui li
associamo (per sapere che quello è un cavallo devo attingere all'idea di cavallo);
livello di valore: un oggetto è tanto più perfetto quanto più si avvicina all'idea, e tanto meno
perfetto quante più peculiarità ha;
l'idea come principio unificatore della molteplicità (ci sono molti cavalli, ma una sola idea di
cavallo).
L’archetipo è presente in tantissime discipline e viene identificato diversamente in ognuna di
esse:
in mitologia identifica le forme che sono alla base delle espressioni mitico-religiose
dell'uomo;
In narrativa si fa un uso costante degli archetipi, anche se il rischio è quello di cadere nel già
visto e già detto, gli archetipi catturano l’interesse del lettore; essendo basati su concetti
primordiali insiti in ogni essere umano, riescono facilmente ad affascinare e incuriosire.
2 Jungelateoriadegliarchetipi
Carl Gustav Jung (1875-1961) è stato uno psichiatra e psicanalista svizzero che analizzando i
sogni dei suoi pazienti si rende conto di come alcune immagini, situazioni vissute in sogno e
concetti non direttamente riferiti a esperienze personali, siano innate nella mente umana e
derivino da un inconscio collettivo, condiviso, ereditato assieme al patrimonio genetico.
Gli archetipi, secondo Jung, risultano essere quindi l'eredità psicologica inconscia. Mentre
Freud riteneva l'inconscio un contenitore vuoto alla nascita, che veniva progressivamente
riempito, per Jung l'inconscio personale contiene già delle "forme a priori", che sono da
attribuire all’inconscio collettivo, e che permettono di trascendere da se stessi.
"Nessun archetipo è riducibile a semplici formule. L'archetipo è come un vaso che non si può
svuotare né riempire mai completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende forma
in una determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i millenni ed
esige tuttavia sempre nuove interpretazioni. Gli archetipi sono elementi incrollabili
dell'inconscio, ma cambiano forma continuamente".1
3 Costruzionediunastoria
Gustav Carl Jung introdusse le “immagini archetipe”2 come modelli di personalità e relazione;
le fiabe, le leggende da sempre ricorrono ad alcune tipologie di personaggi, ci sono
comportamenti che si ripresentano con grande frequenza.
Gli archetipi:
sono universali, sono presenti in ogni cultura e, attraverso la comprensione del ruolo
e degli scopi del personaggio, aiutano a comprendere la storia.
Non sono fissi ma flessibili, questo implica che all’interno della storia un
personaggio possa rientrare in un archetipo non per tutta la durata del racconto ma anche
solo per una porzione di testo.
Possono essere anche sfaccettature dell’eroe o dello scrittore: l’eroe, durante il suo
percorso viene influenzato dagli altri personaggi della storia e può inglobarli
parzialmente.
Sono psicologici e dipendono dalla tipologia e dal genere della storia. Per essere
identificati bisogna porsi due domande: Quale parte della personalità rappresenta? – Quale è la
funzione drammaturgica del racconto?
Abbiamo capito che gli archetipi junghiani sono preziosi per la creazione di un personaggio e
quindi di una storia.
In particolare gli archetipi servono a rispondere a una domanda precisa: perchè un personaggio
ha determinate caratteristiche rispetto ad altre?
Gli archetipi junghiani, infatti, descrivono tratti-base della psiche umana che definiscono la
personalità di una persona (in questo caso di un personaggio) combinandosi e interagendo fra
loro.
Semplificando Jung possiamo arrivare a comporre un archetipo base che produce uno schema
minimale della narrativa:
L’eroe è il simbolo del sé, quindi rappresenta l’immagine migliore che percepiamo
di noi stessi.
La persona è ciò che mostriamo al mondo, una sorta di maschera che produce
l’immagine reale di noi.
17
1 Archetipi e narratologia
Gli archetipi in narratologia hanno un ruolo importante e, messi in relazione, possono formare
la personalità di un personaggio ed essere determinanti per la narrazione personale e collettiva.
Sia Jung che Vogler introducono una serie di archetipi, mentre gli archetipi di Jung descrivono
il personaggio solo da un punto di vista caratteriale (interno); gli archetipi di Vogler descrivono
il personaggio dal punto di vista della sua funzione (esterno).
Gli archetipi junghiani sono in tutto 12: ciascuno di essi ha pregi, difetti e paure, e sono proprio
queste ultime a determinare il conflitto nei personaggi e a creare la storia.
Quando parliamo di personaggi non possiamo non considerare alcuni archetipi molto noti che
con il passare dei secoli continuano ad affascinare ed essere di ispirazione per storie di grande
successo.
L’analista e psicologa Carol S. Pearson, partendo dagli studi di Jung e di Hillman, introdusse
12 archetipi, divisi in 3 gruppi, ognuno di questi gruppi include 4 archetipi. Una personalità
può essere composta da tutti questi archetipi ma a dominare è solo uno, questo vuol dire che
uno domina su tutti.
Eroe: è coraggioso, combatte per difendere ciò in cui crede e a cui tiene. È integro moralmente,
sa prendere decisioni ed ha una grande forza di volontà. Sa sacrificarsi e può per questo
cambiare il mondo. Allo stesso tempo incarna il potere della violenza. Il suo motto è: dove c’è
volontà, c’è una via.
Angelo custode: è la parte più altruista, ama proteggere gli altri, è tenera, generosa e
compassionevole. Di contro è inadeguata e impotente, spesso insinua senso di colpa. Il motto è:
ama il prossimo tuo come te stesso.
ANIMA
Esploratore: ama la libertà ed è spinto dalla conoscenza. È un viaggiatore curioso che odia le
costrizioni e le abitudini. Incarna però l’insoddisfazione, il cinismo e i il criticismo e la
superbia. Il suo motto è: non recintarmi.
Ribelle: la parte distruttiva della personalità, trova soddisfazione nel trasformare e sconvolgere.
È la parte selvaggia che guarda con distacco alla vita, è mosso però da una pulsione nichilista e
criminale guidata da odio e vendetta. IL motto è: le regole sono fatte per essere infrante.
Amante: è la parte passionale che trova soddisfazione nel piacere agli altri. Ama l’intimità e
relazioni. Dipende però dagli altri e dalle sue stesse emozioni, è estremamente geloso,
possessivo e lussurioso. Il suo motto è: tu sei l’unico e solo.
SE’
Giullare: ama divertirsi, è giocoso, non prende nulla sul serio. Vive nel presente ma incarna
anche la pazzia, il caos, i vizi e tende a perdere la ragione. Il suo motto è: si vive una volta sola.
Saggio: è la parte che ama meditare e conoscere come funziona la realtà, cerca la verità
tralasciando le illusioni. Si dedica solo all’essenziale, alla verità e al sapere. Non teme la morte
ma è anche troppo rigido e razionalista. Tende a concentrarsi troppo sui suoi obiettivi e ad
estraniarsi per questo dalla realtà. Il suo motto è: la verità ti libererà.
Mago: religioso e visionario, ama vivere secondo le regole che ha deciso di seguire. E’ in
grado di manipolare e corrompere. Il suo motto è: io faccio sì che le cose accadano.
Sovrano: esercita il suo potere sulla realtà e ama portare al successo il suo mondo. È
responsabile e autorevole. Esercita il dominio secondo le sue regole. Incarna però la tirannia e
incapacità a delegare. Il suo motto è: il potere non è tutto, è l’unica cosa.
La figura del Mentore è versatilee Vogler ne sottolinea tante sfumature. È possibile incontrare:
Mentori negativi, Mentori comici, Mentori interiori o Mentori molteplici, cioè una pluralità di
Mentori al servizio di uno stesso eroe.
Il messaggero: annuncia i cambiamenti, sconvolge l’eroe. Una volta che entra in scena il
messaggero nulla sarà come prima. Può essere un personaggio o un avvenimento, un oggetto,
un discorso. Innesca qualcosa e determina uno stravolgimento. Il messaggero può entrare in
qualsiasi momento nella narrazione
L’Ombra: è la parte più oscura della personalità, tutto ciò che è represso e che può distruggere
una persona dall’interno. Può celare cose negative come voglia di conquista e distruzione ma
anche voglia di libertà, di rivalsa. Non ha quindi un’accezione per forza negativa. Vogler
afferma che«se il Guardiano della soglia rappresenta le nevrosi, allora l’archetipo dell’Ombra
raffigura le psicosi che non solo ci ostacolano, ma minacciano di distruggerci».
Il Trickster: è l’archetipo del buffone o del pazzo che ride in faccia alla morta.
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1 La nascita del cinema. Brevi cenni storici
Il cinema è un’arte che combina l’espressione creativa a un profondo nucleo tecnologico.
Si parla, quindi, di “invenzione del cinema” in un’ottica strettamente produttiva con riferimento
allo sviluppo delle tecnologie atte alla ripresa e alla proiezione del film.
Il cinema, in quanto evoluzione del mezzo fotografico, ha dei presupposti ottici. Il suo
meccanismo sostanzialmente simula la meccanica oculare nell’atto della cattura delle immagini
in rapida successione le quali determinano il movimento.
Il 28 dicembre 1895 i Lumière proiettano, per la prima volta, La sortie des usines Lumière
(L’uscita dalle officine Lumiere) nel quale venivano ripresi gli operai in uscita dalla fabbrica.
Questa data viene convenzionalmente utilizzata per indicare la nascita del cinema.
In quell’occasione, al Grand Café di Parigi, si tenne una delle più celebri della storia. Gli
spettatori pagarono un franco per assistere alla proiezione di dieci film.
È del successivo 6 gennaio del 1896, invece, la proiezione del famoso L'arrivo di un treno alla
stazione di La Ciotat.
Leggenda vuole che alcuni spettatori, nel vedere l’inquadratura frontale del treno in arrivo, non
avendo ancora piena coscienza del concetto di finzione cinematografica, si alzarono e
scapparono per paura dell’essere investiti.
Poco importa che si tratti di verità o finzione. Questo aneddoto testimonia l’impatto emotivo,
popolare, commerciale, culturale e sociale del cinema nella società dell’epoca.
Il nuovo mezzo cinematografico divenne presto un divertimento popolare.
Sostanzialmente, fu il padre degli effetti speciali e uno dei precursori del cinema di genere,
soprattutto fantastico e fantascientifico. La sua concezione del cinema come forma di
intrattenimento fu fondamentale nella stesura della grammatica cinematografica dei decenni
successivi. Molte delle sue intuizioni hanno condotto alla narrazione di fiction per come la
intendiamo oggi.
Ricordiamo, in particolare, il capolavoro Le Voyage dans la lune (Viaggio nella luna, 1902):
racconto immaginario di una fantomatica spedizione sulla Luna e del successivo contatto con
una civiltà aliena: i seleniti.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright.
Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della
legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
Nell’epoca del cinema primitivo, i film venivano girati generalmente all'aperto, ma presto si
iniziò a far uso di fondali dipinti e di veri e propri studi nei quali venivano allestiti set di
ripresa.
Più riprese e più inquadrature, spesso corrispondevano a opere diverse. Il film era, al tempo, un
testo basico formato da unità minime. Attraverso un veloce processo di sofisticazione
tecnologica e di sperimentazione narrativa, le opere divennero sempre più articolate e
complesse.
Dal punto di vista sonoro, il film, inteso come spettacolo dal vivo, era accompagnato da musica
realizzata live (da un pianista nelle sale più piccole, e da un’orchestra in quelle più grandi).
Nel 1927, con The Jazz singer (Il cantante di jazz, di Alan Crosland), assistiamo al primo,
autentico film sonoro.
Il suono divenne, così, parte integrante della grammatica filmica e uno dei suoi più incisivi
elementi attrattivi e fascinatori.
Le lingue devono, così, essere considerate come dei sistemi di segni, con dei significati definiti
e condivisi, che noi tutti utilizziamo per condividere informazioni.
appartenenza culturale, è per lui da intendersi come “lingua naturale”2.La lingua naturale è il
“sistema primario di modellizzazione”3 attraverso il quale viene
esistono altri linguaggi i quali, pur seguendo i codici della lingua naturale, comunicano
attraverso un differente sistema segnico.
Essi sono definiti “sistemi secondari”4.La comunicazione, infatti, può avvenire anche
attraverso altri codici non verbali.Tra essi individuiamo codici figurativi, gestuali, olfattivi etc.
Tali codici possono avere una struttura elementare o complessa a seconda della propria natura e
delle dinamiche di comunicazione messe in atto.
Fin dalla sua nascita, nel 18955, grazie alle sperimentazioni dei fratelli Lumiere, il film ha
trovato una definizione come oggetto comunicativo realizzato attraverso un codice prettamente
figurativo.
È un testo perché, esattamente come avviene per il romanzo, si regge su strutture articolate, su
segni, significati, significanti, particelle linguistiche tese a veicolare un contenuto narrativo e
simbolico; una suggestione emotiva e psicologica capace di coinvolgere e catturare lo
spettatore.
Se il discorso verbale si sviluppa attraverso frasi strutturate secondo modelli ricorrenti, spesso
comuni ad altre lingue, il cinema appare più libero e risulta più difficile riconoscere la
coordinazione tra soggetto, predicato e complemento.
Il cinema non condivide gli stessi segni, sintassi e struttura logica e linguaggio verbale.
A differenza del linguaggio verbale, il cinema si confronta direttamente (ed entra in dialettica)
con le altre arti e ambiti estetici: letteratura, pittura, teatro, fotografia, architettura, scultura etc 7.
Ma se il film è un testo, quali sono le sue componenti? Su quali basi si fonda la struttura
comunicativa del linguaggio cinematografico? Quali sono le unità basilari che ne determinano
forza espressiva, chiarezza comunicativa e affabulazione narrativa?
Il film è generato da8:1) Atto della ripresa: attraverso il quale l’immagine viene catturata e
impressa nella pellicola (o, come avviene spesso oggi, direttamente codificata in digitale).2)
Fotogramma: L’unità minima cinematografica visibile. È l’immagine singola del film, così
come è impressa sulla pellicola. Una fotografia registrata a bassa velocità, secondo i tempi
7) Profilmico: Inizialmente indicava gli elementi posti di fronte alla macchina da presa
appositamente per le riprese (volti, corpi, oggetti, spazi, scenografie etc). Oggi, invece, si
intende, tutto ciò che appare davanti alla macchina da presa sia esso intenzionale o casuale.
Riguarda anche la luce, il colore e il personaggio.
8) Il filmico: riguarda l’atto della ripresa e della proiezione, la macchina da presa e le sue
potenzialità tecniche ed espressive. Il filmico si riferisce alle strategie e scelte attuate da chi si
nasconde dietro alla macchina da presa.
Volendo fare un esempio per comprendere meglio la distinzione tra Filmico e Profilmico, se
quest’ultimo è il personaggio preparato a compiere specifiche azioni sul set, il filmico è il
punto di vista, l’inquadratura scelta, la prospettiva etc9.
L’oggetto filmico, nel suo atto creativo, produttivo, distributivo e fruizionale, chiama in causa
molti altri aspetti e attori, ma quelli sopra elencati sono gli elementi principali che permettono
la generazione di una completa narrazione cinematografica.
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1 Interpretare il testo filmico
L’interpretazione del testo filmico è una disciplina teorica derivante dalla semiotica
cinematografica che cerca, attraverso la scomposizione e ricomposizione del testo, di
individuare la matrice linguistica dell’oggetto cinematografico, le traiettorie narrative e
comunicative, le dinamiche tecniche, le direttrici simboliche ed estetiche.
Per metterla in atto bisogna porre la giusta distanza dal testo, in modo da coglierne per intero la
struttura.
Sul suo caratterizzarsi come forma filmica in dialettica con le altre forme artistiche.
Un buon lavoro di analisi testuale implica l’interpretazione delle modalità di
rappresentazione della messa in scena, le strutture testuali che reggono la narrazione e
gli elementi tematici che emergono dal testo. Bisogna, poi, individuare i riferimenti
tematici, narrativi ed estetici che nascono dal confronto tra il testo e i modelli di messa
in scena del cinema classico e del cinema moderno: punti di riferimento in quanto,
ormai, rappresentanti di convenzioni estetiche e narrative storicizzate. Avviene, così, la
contestualizzazione storica dell’opera. Nell’ambito delle diverse metodologie di
analisi del film, possiamo distinguere2:
2 Cronologiastorico-evolutivadell’analisifilmica
Nel 1964 lo studioso Christian Metz fonda la semiologia del cinema, resa autonoma dalla
semiologia canonica grazie al saggio Le cinéma: langue ou langage3, oggi ricordato come il
Manifesto della Semiologia del cinema di stampo strutturalista.
Metz struttura un modello descrittivo e rigoroso delle sequenze e dei tipi sequenziali nei film
narrativi attraverso La grande syntagmatique du film narratif4: il primo studio di carattere
scientifico in materia.
Per realizzarlo parte dalla semiologia strutturalista utilizzando la pellicola per identificare tipi
sintagmatici come la scena, il sintagma a graffa, alternato, parallelo, il piano autonomo, la
sequenza ad episodi etc.
Successivamente, cerca di individuare i caratteri, nel testo, che determinino la modernità del
film.
Nel 1966 Raymond Bellour, uno dei padri dell’analisi filmica, realizza quattro opere dedicate al
tema. Pubblica Pour une stylistique du film5 con l’obiettivo di definire i contorni dell’analisi
filmica6.
In questo saggio, per la prima volta, Bellour definisce il film come un testo e i suoi unici
meccanismi testuali come effettivi produttori di senso.
Possiamo, quindi, dire che nel 1966 nasce ufficialmente la pratica analitica del testo filmico.
Odin, nel 1977, dopo aver realizzato uno studio sulle pubblicazioni esistenti in materia di
analisi filmica7, dichiara che il fulcro di tale analisi è il film, o anche solo una sequenza di esso,
e non solamente lo studio de ”codici” linguistici (suono, montaggio etc), la figura del regista o
una recensione delle opere. L’obiettivo è quello di ragionare sul significante del film.
23. la riflessione sull'analisi del film che l’analista sta compiendo. In uno
studio del 1985, L’analisi del film, oggi8, Casetti e Odin individuano le mutazioni
teoriche e le prospettive di analisi più interessanti, nate a partire dallo strutturalismo.
Secondo loro l’analisi del film è doppiamente testuale perché “affronta il testo filmico, e
perché si domanda in che senso un film é un testo”9. Casetti e Odin individuano le
seguenti teorie, traiettorie interpretative e correnti analitiche rispondenti a queste due
istanze:
32. La semio-psicoanalisi, che collegano testo filmico con i processi della
vita psichica; dispositivo cinematografico e teorie del soggetto spettatoriale (pulsione
scopica, identificazione primaria, del soggetto con la prospettiva della macchina da
presa, e secondaria, del soggetto con il personaggio. Appartengono a questa corrente
Metz, al quale dobbiamo le teorie sull’identificazione spettatoriale, e Bellour, che cerca
di dimostrare il legame tra cinema e strutture psichiche, e in particolare l’Edipo,
attraverso lo studio del cinema classico americano in opere come Psycho (1960), The
Birds (Gli uccelli, 1963) e North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959).
Genette, con la teoria del punto di vista e della focalizzazione, ritiene che un racconto possa
veicolare più o meno informazioni a seconda del punto di vista assunto (focalizzazione interna,
esterna o narratore onnisciente) e che tali informazioni possano essere veicolate sia attraverso
la parola (scritta), che l’elemento visuale.
Il campo controcampo: tecnica che, nella costruzione della narrazione, apre vuoti e al
tempo stesso li riempie. Lo spazio dell’Assente nel quale a una non-presenza si sovrappone una
presenza.10
Per poter compiere un processo esaustivo di analisi del testo filmico, però, è necessario
avvicinarsi a una definizione più pratica e interna al discorso cinematografico, andando a
evidenziare i singoli meccanismi, dal generale al particolare e viceversa, che ne permettono
l’attuazione.
20
1 Le fasi dell’analisi del film
L’interpretazione del testo filmico è una disciplina teorica derivante dalla semiotica
cinematografica che cerca, Il processo di analisi del testo filmico1 implica una forte azione di
frammentazione dell’oggetto, in modo da coglierne tutte le caratteristiche fondanti e le parti più
infinitesimali, e un atto di ricomposizione teso per cogliere traiettorie, significati e senso
generale dell’opera.
Segmentazione - il testo filmico viene suddiviso nella sue parti costitutive, cogliendo costanti,
frammenti, confini e tendenze.
Stratificazione - la capacità di analizzare in modo trasversale e coerente le varie parti del testo.
Il testo, come prima cosa, deve essere scomposto attraverso segmentazione e stratificazione.
La scomposizione è un processo che scinde il testo filmico in segmenti brevi, partendo da unità
di contenuto maggiori, autoconclusive, fino a quelle particelle più piccole che le compongono.
1 Per approfondire tutti i temi trattati nella lezione, si è fatto riferimento a un testo capitale negli studi legati
all’analisi del testo filmico: L’analisi del film, di Casetti e Di Chio. Si consiglia, quindi, la lettura di Cfr. Casetti
F., Di Chio F., L'analisi del film, Bompiani, Milano 1991.
Sequenze - sono le unità basilari del film che inglobano e delimitano un elemento narrativo.
Vengono, normalmente, delimitate da espedienti come le dissolvenze o stacchi di montaggio. Il
confine tra una sequenza e l’altra è determinato dalla fine di un’unità di contenuto e l’inizio di
un’altra unità, in genere con annessa variazione tematica e/o spaziale. Può capitare, però, che
all’interno di una sequenza narrativa vi siano dei segni di taglio netti che non determinano la
fine della sequenza stessa, inframezzata da delle sottosequenze ad essa semanticamente
collegate.
Immagini - Se le inquadrature mettono in scena sia situazioni statiche che più spazi e/o azioni,
le singole immagini sono unità di contenuto definite da un punto di vista preciso, uno spazio
definito, una distanza costante dagli oggetti e un tempo chiaro della messa in scena.
La stratificazione, che coglie i livelli del film e le sue componenti interne in modo da
poterle analizzare, si divide in:
Identificazione degli elementi omogenei - si rintracciano gli elementi costanti nel testo
appartenenti a una medesima area. Ad es. Aree stilistiche (movimenti di macchina...), aree
tematiche (luoghi) aree narrative (azioni compiute dai personaggi).
narrativa (fumare / non fumare). Ma anche le varianti all’interno di una stessa realizzazione
stilistica (es. dissolvenza incrociata / dissolvenza in nero), tematica (interno luminoso / interno
buio) o narrativa (fumare la pipa / fumare la sigaretta).
2 Il principio di “linguisticità”
Nel suo esprimere, rappresentare e comunicare un contenuto attraverso un canale definito,
l’oggetto filmico rientra a pieno titolo nella definizione di linguaggio. Il suo status semiotico -
quindi il suo appartenere a un sistema di segni - conferma la sua natura linguistica, ma implica
anche due difficoltà:
・Il cinema accorpa una moltitudine di elementi tra segni, formule e procedimenti, spesso
legati a differenti aree espressive.
・Il cinema non ha strutture fisse che possano palesare regole ricorrenti e condivise.
Così, il film rischia di peccare da un lato di vaghezza e dall’altro di eccesso di ricchezza per
essere accostato ai sistemi linguistici convenzionali.
Per compensare a queste difficoltà concettuali, emergono tre strategie analitiche3 per creare dei
punti fissi dai quali partire nell’approccio al testo e per identificare una struttura più definita
dell’oggetto filmico:
3 Significanti e segni
I significanti - ossia quegli elementi sensibili che rimandano a un significato - si scindono in
due insiemi:
Significanti visivi - che rimandano alla vista e la meccanica tra luce e ombra. Tra di essi
troviamo due categorie: immagini in movimento e le tracce scritte.
Significanti sonori - che rimandano all’udito. Tra essi troviamo tre categorie: voci,
rumori, musica.
Ogni significante rimanda a diverse aree dell’espressione. (es. Le voci al linguaggio e al canto /
le immagini alle sperimentazioni pittoriche e fotografiche).
Nel cinema, il segno si muove in molteplici aree espressive, oltre i confini visivo e sonoro.
Nell’atto dell’analisi del segno, anche in ambito filmico, ha ancora grande valore l’approccio di
C.S. Peirce5, uno dei padri della semiotica moderna, che prevede tre tipi fondamentali di segni:
Indici: segni che testimoniano l’esistenza di un oggetto, con il quale hanno un intimo legame di
implicazione, senza tuttavia descriverlo. Ci dicono che l’oggetto esiste, ma non ci dicono nulla
delle sue qualità. (mozzicone di sigaretta).
Icone: segni che riproducono i “contorni” dell’oggetto. Ci dicono qualcosa delle qualit
dell’oggetto, ma non della sua effettiva esistenza. Manca il legame tra segno e oggetto di
referenza. (una foto)
Simboli: sono segni convenzionali che stanno per qualcosa d’altro in base ad una
corrispondenza codificata, una “legge”. Non ci dicono nulla né dell’esistenza né delle qualità
dell’oggetto, lo si designa sulla base della norma (la parola albero)
Il film utilizza tutti e tre i tipi di segno. La immagini sono icone, musica e parole sono simboli,
i rumori sono indici. In ogni caso, all’interno di ogni linguaggio, si possono trovare simboli con
risvolti iconici, icone con risvolti indexicali etc. Anche le immagini in movimento presentano
tutte e tre le valenze, secondo diverse combinazioni.
4 I codici
Per codice si intende:
Un sistema di equivalenze grazie a cui ogni elemento del messaggio ha un dato
corrispettivo.
Uno stock di possibilità grazie a cui le singole scelte attivate arrivano a fare
riferimento a un canone.
Codici della serie visiva legati all’iconograficità: Comuni al cinema, alla pittura e
alla fotografia. Riguardano l’immagine in sé. Sono relativi al riconoscimento visivo e
simbolico delle figure sullo schermo da parte degli spettatori; alla costruzione di figure
iconiche complesse convenzionalizzate; al riconoscimento di elementi della
riproduzione riconducibili a uno stile preciso dell’autore; alla corrispondenza tra i tratti
semantici e gli artifici grafici (es. la distorsione dell’immagine) e al rapporto tra gli
elementi compositivi dell’immagine, la posizione delle figure, il legame figura/sfondo e
la costruzione dello spazio visivo.
Codici della serie visiva legati alla composizione fotografica: relativi alla
riproduzione fotografica della realtà da parte del cinema e all’elaborazione
dell’immagine. In essi rientrano i concetti di prospettiva, inquadratura, modi di ripresa
(scala dei campi e dei piani, gradi di angolazione e inclinazione della ripresa),
illuminazione, bianco e nero e colore.
Codici della serie visiva legati alla mobilità: dato che il cinema utilizza
sostanzialmente immagini fotografiche in movimento, tali codici ragionano
sull’elemento della mobilità (movimento del profilmico6, movimento di macchina etc) e
sono più caratteristici del mezzo cinematografico.
21
1 Il profilmico tra messa in scena e ambiente
Per profilmico1 si intende tutto ciò che si trova davanti alla macchina da presa nell’atto del
girare.
Appartengono al profilmico:
Illuminazione
Recitazione
Trucco e costumi
Oppure pensiamo al cinema espressionista tedesco (con influenze finzionali) o alla messa in
scena del cinema classico americano che, invece, guarda totalmente allo spazio naturalistico.
Ambiente naturale: non ricostruito, tipico del neorealismo, della nouvelle vague, del
western (in esterni) e del noir.
Ambiente ricostruito: realizzato in studio e tipico del cinema classico e di gran parte
del cinema di genere. Porta vantaggi nel controllo del set e nella facilità realizzativa
delle riprese. La dicotomia naturalismo/artificialità è determinata, quindi da:
Con questo termine intendiamo il modo in cui viene utilizzata la luce in fase di ripresa per
garantire funzione estetica e narrativa dell’oggetto filmico.
Controluce - proveniente dal retro della scena ed enfatizza la profondità dello spazio
e i contorni dei personaggi.
Chiave bassa, legata al genere noir, alle atmosfere ambigue e drammatiche dei
racconti polizieschi. Susanna, Howard Hawks, 1938 La signora di Shanghai, Orson
Welles, 1947 La sperimentazione espressionista sulla luce (tipica del cinema tedesco
degli anni 20), della quale il Nosferatu di Murnau del 1922 è un esempio sublime, ebbe
una grande influenza anche nel cinema americano classico (noir es. La signora di
Shanghai, Orson Welles4, 1947) grazie all’arrivo a Hollywood di maestranze europee.
Questo stile era caratterizzato da:
forte uso del chiaroscuro
3 Trucco e costumi
Esattamente come gli altri elementi del profilmico, anche trucco e costumi sono essenziali non
solo in chiave rappresentativa e secondo la dicotomia naturalismo/artificialità, ma anche per
definire caratterizzazione storica, veste estetica, tono e atmosfera della pellicola.
pittoriche etc.I film di fantascienza, invece, attingono al mondo della letteratura, ai fumetti, al
video
di indicazione morale (non è insolito che l’abito sia identificativo delle traiettorie
etiche e delle azioni di un personaggio)
Il trattamento del volto e l’interazione con la luce sono un fattore determinanti nella definizione
cromatica e figurativa del film e conducono alla necessità di un trucco sempre più forte e
articolato degli attori in fase di ripresa.
Il trucco è teso a:
Rafforzare l’artificio (es. trucco espressionista è parallelo alla scenografia e alle luci)
4 Recitazione e prossemica
La recitazione e il posizionamento degli attori nella scena giocano un ruolo fondamentale sia in
un’ottica narrativa che simbolica, determinando rapporti spaziali, relazione tra personaggi e
oggetti, traiettorie relazionali e rapporti narrativi.
disposizione spaziale
relazione tra la macchina da presa e gli elementi ripresi L’ambito recitativo, invece,
prevede due linee stilistiche ben precise. Naturalismo:
22
1 Cosa intendiamo per filmico
Sappiamo che il filmico si contrappone al profilmico. Il profilmico è tutto ciò che sta davanti
alla macchina da presa, ciò che viene ripreso e disposto nello spazio affinché possa essere
inquadrato.
Il filmico, invece, è tutto ciò che la macchina da presa ci permette di fare come mezzo. Fa parte
del filmico il modo in cui vengono rappresentati gli elementi profilmici: l’angolazione della
macchina da presa, la distanza, i movimenti di macchina, il campo e il fuoricampo.
Il cinema delle origini costruiva lo spazio imitando lo spazio teatrale, questo vuole dire che
spesso usava un’unica inquadratura, cinepresa fissa con personaggi posizionati al centro.
Con il tempo il cinema comprende le sue potenzialità, sperimenta e impara a sfruttare tutte le
possibilità che questo nuovo linguaggio gli pone davanti. Scopre come utilizzare il montaggio, i
movimenti di camera, la distanza, l’angolo di ripresa.
2 Campoefuoricampo
Lo spazio profilmico che l’inquadratura esclude è considerato fuori campo, questo significa che
la visione cinematografica è sempre frutto di un’esclusione, è parziale ed esiste sempre una
relazione tra ciò che è visibile e ciò che non lo è.
Il campo è quindi lo spazio visibile inquadrato dalla macchina da presa, mentre il fuori campo
fa comunque parte dell’ambiente ma non si vede nell’inquadratura.
Noel Burch, critico cinematografico statunitense, introduce il fuori campo dividendolo in sei
segmenti: i primi quattro segmenti sono i margini dell’inquadratura, il quinto segmento è ciò
che collocato dietro la scenografia o dietro un elemento che è posizionato nell’inquadratura, il
sesto è dalla parte della macchina da presa ma è comunque escluso dall’angolo di ripresa.
Il fuori campo può essere inteso come:
Spazio over: uno spazio fluido che può essere identificato come un luogo dal quale
provengono voci, musica, commenti che il personaggio non può udire ma che lo
spettatore percepisce. Il campo e fuori campo si attivano attraverso l’uso di alcuni indici
visivi e sonori:
quando in campo c’è solo una parte di un elemento che continua nel fuori campo.
quando un suono proviene dal fuori campo (suono off). Attraverso un movimento di
camera è possibile allargare l’inquadratura e quindi far entrare in campo qualcosa che
prima era fuori campo, la stessa cosa può avvenire anche grazie a un atto di montaggio.
fuori campo cataforico (parte dell’universo diegetico non ancora offerto alla visione
dello spettatore).
fuori campo anaforico (parte dell’universo già mostrato in precedenza). Nella prima
sequenza di M, Il mostro di Düsseldorf Fritz Lang (1931) il regista costruisce una
dialettica tra campo e fuori campo usando movimenti di macchina e montaggio. È un
esempio emblematico perché in questo caso prevale il fuori campo, quindi la potenza
dell’“invisibile” su quella del “visibile” e quindi di ciò che è in campo. L’inquadratura è
un estratto del reale, una porzione, una parte di esso che viene posizionata all’interno
della dimensione filmica. Questo avviene attraverso un procedimento di sineddoche:
attraverso l’uso di una parte è possibile raccontare il tutto. Attenzione! Questo materiale
didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata
la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto
d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
L’inquadratura può:
3 Profonditàdicampoemovimento
Bisogna distinguere tra profondità del campo e profondità di campo.
Nel primo caso intendiamo l’organizzazione dello spazio profilmico e quindi della messa in
scena. Nel secondo caso invece stiamo parlando della proprietà fotografica dell’immagine
filmica e quindi: lunghezza focale e apertura del diaframma dell’obiettivo.
La focale è, fisicamente, la distanza fra il centro ottico dell’obiettivo e il piano di messa a fuoco
(cioè il sensore). Per questo si chiama anche distanza focale.
Obiettivo a focale media o normale: riproduce una visione simile a quella umana,
nessuna distorsione nella prospettiva, nessun effetto di schiacciamento o distanziamento.
Il punto di ripresa è un’altra questione chiave che riguarda il filmico. Infatti l’inclinazione,
l’angolazione e l’altezza della macchina da presa sono elementi importanti da considerare.
Scala dei campi:- Campo lunghissimo: spazio vastissimo, di dimensione estremamente ampia;
no chiara
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright.
Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della
legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
- Primissimo piano: parte centrale del volto, dagli occhi alla bocca
- Dettaglio: singola parte del volto o del corpo Oltre che la posizione acquisita dalla
camera è bene considerare anche i movimenti. Un’inquadratura può essere:
- Statica;
- Dinamica;
23
1 Le basi dell’inquadratura
Il cinema attua un meccanismo di riproduzione fotografica della realtà. Tra i codici della
composizione visiva1 che regolano la costruzione del linguaggio filmico, possiamo individuare
quelli della composizione fotografica legati all’iconicità: ossia, al ruolo dell’immagine.
Il Profilmico - termine che definisce tutti gli elementi presenti davanti alla macchina
da presa. Si riferisce, per estensione, all’illuminazione, alla disposizione dei personaggi
e alla messa in scena in generale.
A differenza delle immagini pittoriche e fotografiche, l’inquadratura ha una durata definita che
si misura in relazione al tempo di lettura dell’immagine da parte dello spettatore e varia
in base al contenuto. In più non è un’immagine statica, ma in movimento e incarna la
capacità del cinema di riprodurre il moto degli oggetti.
Implica, quindi, una mobilità dello sguardo e un cambio costante del punto di vista determinato
dalle mutazioni della macchina da presa.
Essa varia in modo continuo attraverso i movimenti di macchina (panoramica, carrellata etc) e
in modo discontinuo attraverso il montaggio delle inquadrature.
Tale atto è determinato dalla Scala dei campi e dei piani3 nella quale la tipologia di
inquadrature è classificata in base alla quantità di spazio rappresentato e alla distanza degli
oggetti ripresi. I campi sono relativi alla contestualizzazione, oggettiva, del paesaggio e della
figura nel paesaggio, mentre i piani si riferiscono principalmente alla contestualizzazione del
soggetto.
Nella scala, partendo dall’inquadratura più ampia in assoluto, per arrivare a quella più stretta,
troviamo:
Campo Lunghissimo (C.L.L.), viene catturato un ambiente a grande distanza e nella sua
complessività. Il paesaggio sovrasta completamente personaggi e azioni. Al di là della funzione
suggestiva, serve a dare una contestualizzazione e delle informazioni generali allo spettatore.
Può essere un’inquadratura introduttiva.
Campo Totale (CT.), unità ambigua che si pone tra campo medio e figura intera. Serve adare
una perfetta contestualizzazione (anche emotiva) del soggetto in relazione allo spazio occupato.
Figura Intera (F.I.), inquadratura del personaggio dai piedi alla testa. Il personaggio conquista
la centralità dell’azione e occupa lo spazio, posto in secondo piano.
Piano Americano (P.A.), inquadratura del personaggio dalle ginocchia in su. Forte centralità
del personaggio e della sua gestualità. Origini nel genere western per enfatizzare il senso di
conflitto.
Mezza Figura (M.F.), inquadratura del personaggio dalla cintola in su. Sancisce una dialettica
più diretta con il personaggio, le sue azioni, gesti ed elemento emotivo senza, però, entrare
ancora dentro la sua psicologia.
Primo Piano (P.P.), è un’inquadratura ravvicinata che si concentra sul volto con il contorno
del collo e delle spalle. Serve a restituire allo spettatore la connotazione psicologica del
personaggio, innescando processi empatici e di identificazione. Secondo Kubrick, il cinema è
essenzialmente “close-up” ossia il Primo piano.
Inquadratura dal basso o Contre-plongée - La macchina da presa riprende la scena dal basso.
I Gradi dell’inclinazione, invece sono: Inclinazione normale - la base dell’immagine è
parallela all’orizzonte della realtà
3 Il movimento
Ciò che differenzia il cinema dagli altri linguaggi è la presenza del movimento. In ambito
filmico, ci troviamo di fronte a due tipologie di movimento:
Movimento del profilmico - Il movimento catturato nella realtà ripresa all’interno del
quadro.
I movimenti di macchina originano il “montaggio interno” che lega tra loro gli elementi
all’interno di una stessa inquadratura. Si distingue dal montaggio reale che, invece, è frutto
degli stacchi tra le varie inquadrature.
24
1 Le origini del suono cinematografico
I codici sonori1 del, cinema sono comuni a quelli di tutti gli altri ambiti artistici e non: si parla
di volume, altezza, ritmo, timbro, intensità etc. Il cinema, però, ha alcuni tratti sonori
estremamente distintivi e caratteristici dell’esperienza realizzativo-spettatoriale. Facciamo
riferimento a quella dimensione sonora che entra in diretta dialettica con il visuale.
Storicamente, il cinema degli albori non prevedeva il sonoro. Era, quindi, muto.
L’assenza di suoni era quasi una specifica distintiva dell’esperienza cinematografica che arrivò
a toccare degli estremi con l’iniziale rifiuto, da parte di alcuni settori dell’industria, di affidarsi
al sonoro una volta che la tecnologia permise di associarlo al visivo.
Chaplin fu uno dei maggiori detrattori del sonoro. Essendo una star del cinema muto - basato
unicamente sulla funzionalità visuale e sulla forza dell’espressività corporea - vedeva l’avvento
del sonoro come una rivoluzione capace di minacciare gli equilibri narrativi e visivi raggiunti
dal cinema muto mettendo in pericolo, per estensione, il suo stesso ruolo iconico all’interno
dell’industria.
Paure per lo più infondate - la carriera di Chaplin proseguì felicemente anche dopo l’avvento
del sonoro - ma comunque condivise da tanti altri artisti, alcuni dei quali soccombettero a
questo nuovo regime estetico. Si pensi a Greta Garbo, che non contemplando il suono come
modalità espressiva adatta al suo personaggio, decise infine di ritirarsi dalle scene. Nel caso
della Garbo, la questione non era il suono in sé, quanto la “voce”. Molti attori, infatti, avevano
costruito la propria carriera attorno all’iconicità della propria figura e alle doti interpretative di
matrice fisica.
Chaplin, così come molti altri autori della “resistenza” al sonoro, inizialmente si limitava a
utilizzare il suono in maniera sincronica2: ossia un suono che fosse strettamente diegetico e
accompagnasse passo passo le azioni della narrazione in modo naturalistico, simulando la
realtà.
Ne è un chiaro esempio, “Tempi moderni” (1936), nel quale il suono è sincronizzato alle scene
per enfatizzare ironia e senso parodico.
A questa visione riduttiva del sonoro si contrapposero presto teorici e registi che vedevano nel
suono una nuova, ricchissima modalità espressiva capace di amplificare le potenzialità del
visuale e dell’oggetto cinematografico nella sua interezza.
In particolare, si schierarono sul versante del sonoro i cineasti sovietici, tra tutti Ėjzenštejn,
Pudovkin, Aleksandrov, che nel ‘28 redassero il “Manifesto dell’asincronismo”.
Nel manifesto i tre registi condannarono il mancato sfruttamento del sonoro all’interno del
cinema e promossero l’uso del suono in senso asincronico, come contrappunto e nell’ambito
del montaggio sonoro. Il montaggio audiovisivo, infatti, eleverebbe il cinema a nuove forme e
dimensioni nelle quali il suono non è ridotto a seguire la successione delle immagini. Il
sincronismo, infatti, porta a una sterile emulazione illusoria della realtà e della “verità” e
configura il cinema come semplice mezzo attrattivo e naturalistico. Così facendo, si
annullerebbe il senso del montaggio in quanto composizione che rende autonome e godibili le
singole inquadrature sonore. Il suono, utilizzato in modo asincronico, diventa un elemento
narrativo a sé, capace anche di scardinare e reinventare le logiche della narrazione3.
Il cinema, in quanto mezzo espressivo, non nasce però silenzioso. Le proiezioni, infatti, si
rivelavano spesso dei veri e propri spettacoli sonori, caotici per l’interazione del pubblico,
provvisti di commentatori che descrivevano gli snodi del racconto e accompagnati dalla musica
dal vivo che sottolineava i momenti salienti della narrazione filmica.
La sincronizzazione tra video e suono era disponibile fin dai primi anni 10 del Novecento, ma
solo con le sperimentazioni della Warner Bros. e con la pellicola “Il cantante di Jazz” (Alan
Crosland, 1927) si arrivò al cinema sonoro per come lo conosciamo.
L’operatore doveva girare in continuità per garantire la fluidità del suono, con ovvie
difficoltà soprattutto nei movimenti sul set e nella dinamica campo/fuoricampo.
Fonte di informazione
Non Diegetico; la sorgente non ha nulla a che vedere con lo spazio della storia (es.
Colonna sonora). Il suono diegetico si divide in:
Onscreen; la fonte si trova dentro i confini dell’inquadratura.
31. Suono Off - suono diegetico esteriore che nasce oltre l’inquadratura.
Nel film gli emittenti vocali sono principalmente tre: Personaggio Narratore
Personaggio-narratore
38. Diegetica
Voice Over o Voce Fuoricampo - Può essere la voce del personaggio quando veste i
panni del narratore oppure una voce esterna (disincarnata) al racconto. Non è detto per il
personaggio-narratore sia visibile nell’atto del narrare. La voice over costituisce un
canale di trasmissione di informazioni o una funzione prettamente di commento. Il suo
ruolo è quello di rendere esplicita, o quantomeno più chiara, la struttura e la cronologia
del racconto.
Off - Questo suono nasce nel fuoricampo. Può essere un riempitivo, avere un ruolo
narrativo o avere una funzione connettiva all’interno dell’azione.
Over - Questo suono emerge da un fuoricampo assoluto. Non fa parte della vicenda
diretta, ma servire alle logiche della narrazione in modo astratto o come separatore tra le
sequenze. La musica, invece, può svolgere tre funzioni:
Empatica
25
1 Il Montaggio
Il montaggio è l’insieme delle operazioni che si occupano di organizzare la successione delle
inquadrature, consiste nell’unire la fine di una inquadratura con l’inizio della successiva, con lo
scopo di mettere in relazione due elementi tra loro. Dal montaggio dipende l’assetto stilistico,
drammatico e narrativo del film.
DISSOLVENZA: viene usata per sottolineare i passaggi fra una scena e un’altra, per
dare l’idea di un salto temporale. Esiste la dissolvenza in chiusura: sparizione graduale
dell'inquadratura fino ad arrivare a uno schermo nero; la dissolvenza in apertura:
graduale apparire dell'immagine dal campo nero; la dissolvenza incrociata:
progressivamente scompare un’inquadratura per fare emergere, progressivamente, una
nuova.
TENDINA: una nuova scena subentra facendo scorrere via la vecchia, che quindi
scompare dallo schermo.
2 Lo stile hollywoodiano
Hollywood ha indubbiamente influenzato il cinema mondiale, questo vale anche per il
montaggio, ha infatti determinato una grammatica riconoscibile. Nel cinema classico lo scopo è
fare in modo che il montaggio risulti invisibile agli occhi dello spettatore.
Consideriamo découpage classico il montaggio hollywoodiano che detta le regole base della
messa in successione delle scene.
David Griffith, regista, sceneggiatore e produttore cinematografo degli anni Venti, è il pioniere
del cinema narrativo, riconobbe il potere narrativo del film e imparò a valorizzare il racconto
della storia più che le immagini. Per farlo si affidò anche al montaggio. Il montaggio narrativo
di Griffith, che pone le basi del montaggio hollywoodiano, si basa sulla scomposizione della
scena in più inquadrature. Griffth distingue tre tipi di montaggio:
- Montaggio parallelo: si seguono due storie indipendenti che sono connesse anche
solo da un semplice elemento. Griffith si rese conto delle conseguenze spazio-temporali
derivanti dall’integrazione delle diverse inquadrature, e riconobbe alcune funzioni del
montaggio: - Mettere in relazione lo sguardo di un personaggio con l’oggetto guardato:
effetto soggettiva; - Organizzare e strutturare lo spazio scenico;- Permettere di rendere
lo sviluppo dell’azione nello spazio e nel tempo, effetto di
distesa, equivalenza tra ritmo e stato d’animo dello spettatore.Se le teorie del montaggio
sovietico si basavano sulla produzione di contenuto attraverso la
Importante è anche il ruolo del direttore della fotografia che deve, anche in funzione del
montaggio che verrà, restituire una coerenza cromatica, un equilibrio e una uniformità
dell’illuminazione per tutte le scene che comporranno il film.
I tagli che vengono fatti devono garantire coerenza e leggibilità delle immagini, devono
risultare invisibili, in questo modo il racconto sarà fluido e naturale. Nel caso in cui il
passaggio da una scena all’altra appaia manchevole è possibile utilizzare la voice over, questo
stratagemma sottolinea l’elemento di artificio ma può essere una soluzione comoda in alcuni
casi estremi. I passaggi da una inquadratura a un’altra devono essere sempre giustificati da un
rapporto di causa-effetto, in questo modo l’azione risulta logica e il taglio non viene percepito.
raccordo di direzione dello sguardo: le direzioni degli sguardi sono compatibili con
le posizioni dei personaggi;
Per loro il montaggio era non solo uno strumento espressivo relativo, ma anche ideologico,
capace di veicolare contenuti altamente drammatici e dal forte potere politico.
Non dimentichiamo che il cinema sovietico raggiunse il suo splendore in epoca rivoluzionaria,
quindi l’aspetto affabulatorio-comunicativo era assolutamente centrale.
Secondo la teoria alla base del montaggio sovietico, il senso di una scena (e per estensione, di
un film) non nasce dal contenuto delle singole inquadrature, ma dalla loro giustapposizione. Da
qui il concetto di montaggio-re secondo il quale un frammento di pellicola diventa un
significante solo accostato ad altri frammenti.
Per comprendere bene questo concetto bisogna guardare alle sperimentazioni tecnico-
linguistiche di Kulešov, il quale amplio i confini e le potenzialità del montaggio
cinematografico.
Nel film, le azioni sono spesso costruite non attraverso un senso di continuità, ma con
l’accostamento in montaggio di numerosi dettagli. Vengono uniti inserti non diegetici legati
tematicamente con la diegesi, oppure inserti diegetici collocati nella narrazione senza una
stretta continuità. L’obiettivo era porre l’accento più sugli stati d’animo che sulle singole azioni
in consecuzione logica.
2 Il montaggio intellettuale
L’afflato ideologico è alla base della concezione cinematografica di Ėjzenštejn secondo cui il
montaggio è uno strumento necessario per veicolare concetti e tradurre immagini in pensieri
astratti.
Il montaggio può essere definito intellettuale3 e il cinema si avvicina alla concezione di saggio.
Secondo Ėjzenštejn l’inquadratura è una cellula di significati che, combinata con un’altra
cellula, dà vita a un significato unitario e diverso da quello delle inquadrature di partenza.
sfruttamento dell’impatto emotivo degli elementi visivi, ordinati attraverso il montaggio, sullo
spettatore.
Le emozioni, innescate dalle immagini, devono arrivare a chi guarda in modo forte, quasi
violento in modo da farlo astrarre e condurlo alla comprensione del messaggio ideologico
nascosto nel testo.
3 Versoilmoderno:contestistorico-artistici
A partire dalla seconda guerra mondiale si va incontro a un profondo cambiamento nell’ambito
della storia del cinema e del montaggio.
Tra le innumerevoli influenze ed esperienze che hanno portato alla sua emersione, possiamo
identificare, come principali coordinate storico-geografiche del montaggio moderno, il
Neorealismo italiano e nella Nouvelle vague francese.
Neorealismo5 - Nel secondo dopoguerra il cinema italiano si rinnova, cambia forma e linguaggi
espressivi, andando a influenzare prepotentemente lo stile del cinema internazionale. La
stagione neorealista parte idealmente nel 1945 con Roma città aperta di Rossellini e si
consolida con Ladri di biciclette (1948) di De Sica e La terra trema (1948) di Visconti.
In quanto corrente cinematografica, il neorealismo fece emergere non solo gli stilemi di una
nuova retorica realista, quanto una precisa grammatica cinematografica basata su effetti
stilistici e narrativi (es. attori non professionisti, riprese dal vivo etc) che attraverso la
rappresentazione del reale mutarono completamente i codici della scrittura classica dal punto di
vista visivo, sonoro e nelle logiche sequenziali del montaggio.
Nouvelle Vague - Movimento cinematografico nato in Francia tra gli anni Cinquanta e
Sessanta, grazie alle opere e al pensiero registico di autori come François Truffaut, Jean-Luc
Godard, Alain Resnais, Jacques Rivette, Claude Chabrol ed Éric Rohmer.
Il montaggio della Nouvelle Vague, infatti, era contraddistinto da:- turbamento della
continuità spaziale (rintracciabile, soprattutto nel cinema di Godard)- turbamento della
continuità temporale (es. L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais)- sabotaggio
dell’impressione di realtà del frusso narrativo (es. I mascherini utilizzati in “Jules
e Jim” di Truffaut, che spostano l’attenzione dello spettatore dal racconto all’atto del
raccontare, dal film al cinema, ai suoi materiali, alle sue strutture, al suo linguaggio.)
Il cinema moderno, infatti, si caratterizza proprio nella volontà di far percepire la macchina
da presa.
Il montaggio della Nouvelle Vague è definito attraverso la forte percezione degli attacchi e
degli stacchi delle inquadrature, rendendo fisico e visibile tutto il lavoro del montatore.
Quindi possiamo dire che il montaggio moderno trova le sue radici da una parte nella
rivoluzione realista del Neorealismo italiano - con il suo ribaltamento tematico, ambientale e
narrativo - dall’altra nella radicalità espressiva della Nouvelle Vague francese e nel suo piegare
tempo, spazio e racconto secondo logiche spesso anti-narrative.
Ovviamente Neorealismo e Nouvelle Vague non sono le uniche matrici del montaggio
moderno - nel resto del mondo, ci sono altri interessanti approcci innovatori -, ma sicuramente
sono le due traiettorie più incisive.
4 Caratteristichedelmontaggiomoderno
Il “montaggio moderno” si definisce stilisticamente e narrativamente come antitesi del
decoupage classico.
- Mutamento dello spazio filmico, che viene sfruttato spesso nella sua interezza. La
macchina da presa può essere posta in qualsiasi punto divenendo il perno centrale di una
circonferenza interamente percorribile dallo sguardo dell’obiettivo. La scena, quindi,
può essere catturata a 360°. (es. il cinema di Yasujiro Ozu).
- L’uso del Jump cut (anche detto taglio in asse) che smonta la continuità narrativa di
una scena, spezzandola e frammentandola pur mantenendone la struttura logica, ma non
quella temporale, attraverso il taglio e l’accostamento di inquadrature simili per forma
contenuto. L’effetto è quello di salti temporali all’interno di una stessa scena e racconto
e il risultato è straniante per lo spettatore. (es. La scena dell’accendino in The Dreamers
di Bertolucci)
- L’uso del raccordo aperto che determina uno spazio e un tempo del racconto senza
riferimenti precisi che permettano allo spettatore di decifrare la narrazione con facilità.
27
1 Il Storia e discorso
Quando parliamo di narrazione cinematografica bisogna considerare tre livelli:
Storia: contenuto, il concatenarsi di eventi;
È necessario adottare questi stratagemmi, sappiamo benissimo che, per quanto la vita possa
essere interessante è piena di tempi morti, lenti e inutili ai fini del racconto. L’ellissi, anche se è
a tutti gli effetti un taglio temporale, non dà la sensazione allo spettatore di essersi perso
qualcosa, proprio perché è costruita ad hoc per rendere comunque coerente e sensato il
racconto.
Può capitare anche che il discorso sia più lungo della storia, succede molto più raramente, ma
anche in questo caso esistono degli stratagemmi, uno di questi è il rallenty, rallentando i
fotogrammi al secondo le scene durano di più del loro tempo effettivo; un altro metodo è la
ripetizione di una stessa scena, magari ripresa da più angolazioni. La terza tecnica utilizzata per
dilatare il tempo è mostrare uno stesso evento attraverso il punto di vista di più personaggi, in
questo caso il montaggio ha un ruolo chiave. La scelta di dilatare il tempo attraverso una di
queste tecniche è emblematico del fatto che il regista voglia enfatizzare una certa scena o un
certo evento, portando lo spettatore a osservare più volte o per più tempo quello stesso
avvenimento.
È possibile anche che storia e discorso durino lo stesso tempo, quindi sia il fatto reale che la sua
rappresentazione sullo schermo hanno la stessa durata. In questi casi il personaggio viene
seguito costantemente dalla macchina da presa senza che vi siano tagli, interruzioni, salti
temporali. Queste riprese vengono definite pianisequenza (o long take): possono durare qualche
minuto, il tempo di una sequenza, o anche, eccezionalmente, per tutto l'intero film.
Tecnicamente e produttivamente sono scene molto complesse, dove un errore in fase di ripresa
può essere fatale e annullare l’intera scena. In questo caso l'obiettivo è quello di rispettare la
storia, non si sceglie di soffermarsi su alcuni momenti o di sacrificarne ed eluderne altri.
2 Fabula e intreccio
Abbiamo capito che il film narrativo racconta una storia usando due livelli temporali: il tempo
della storia e il tempo del racconto:
3 Durata e frequenza
Abbiamo capito che gli eventi possono essere narrati seguendo la loro durata effettiva, oppure
adottando forme di riassunto o di espansione. Abbiamo cinque casi che ci chiariscono ancora
meglio le diverse possibilità:
Scena: tempo racconto = tempo della storia. Analogo alla rappresentazione teatrale
tradizionale, il film decide di riprendere in continuità temporale.;
Sommario: tempo racconto < tempo della storia. Si ottiene attraverso accelerazione
delle immagini o attraverso forme di montaggio non continuo e salti temporali;
Espansione: tempo racconto > tempo storia: utilizzo del rallenti, soluzioni di
montaggio (moltiplicazione dei punti di vista, narrazione dei tempi morti);
Segmenti autonomi:
congiunte dalla presenza di una scadenza narrativa, di una dead line; Sintagmi descrittivi:
tempo della storia si rallenta fino a sospendersi quasi;
28
1 Enunciatore, spettatore, personaggio
Il film è da intendersi come un enunciato, frutto di due azioni simmetriche:
destinazione, lo spettatore.Il film, quindi, è da intendersi come una macchina che non può
essere messa in moto senza
fisico, con una biografia, esperienze, riferimenti culturali.Una volta che il film è ultimato,
l’opera in un certo senso diventa autonoma e parla
principio ordinatore, che ne governa e ne informa la logica costitutiva, e che non può essere
considerata persona o soggetto pieno, ma semplicemente figura soggettuale metaforica. Si tratta
di un interlocutore ideale che è il risultato dell’organizzazione del testo filmico; insomma, la
raffigurazione stessa del film nel suo farsi, l’istanza che produce, articola e regola il flusso dei
materiali espressivi della narrazione: segni iconici, verbali, musicali (l’immagine, con i rumori
che con essa fanno corpo; la parola, orale e scritta; la musica, diegetica e non).»1
Allo stesso tempo, il termine spettatore non si riferisce strettamente allo spettatore concreto che
fruisce la pellicola, ma allo spettatore come pura istanza del testo, al film stesso inteso come
rete di operazioni di lettura, come tessuto di quelle stesse strategie e forme già elencate con
l’enunciatore, ma vissute dalla prospettiva della ricezione. Insomma, il film nel suo darsi2.
Tra enunciatore e spettatore si instaura una relazione ben precisa: una dialettica fitta che
innesca una partita comunicativa.
All’interno di questo schema di comunicazione troviamo una terza figura, essenziale per il
corretto compimento della comunicazione stessa: il personaggio, il quale si fa portatore di un
discorso personale e caratteristico.
Enunciatore e spettatore coincidono rispettivamente, all’interno del racconto, con le figure del
narratore e del narratario: anch’esse, infatti, generano e ricevono un messaggio.
Altri elementi, invece, hanno rimandano al processo di emissione e ricezione in chiave allusiva,
simbolica e metalinguistica: finestre, specchi, porte, tende tirate, riproduzioni fotografiche,
acqua, schermi etc.
2 Il punto di vista
La concezione dello sguardo si basa sul punto di vista, che secondo la prospettiva di Genette è
identificabile con la focalizzazione, secondo cui il punto di vista viene inteso nella sua valenza
cognitiva come determinazione del rapporto di sapere narrativo fra narratore, personaggio, e
spettatore.
Le informazioni, qui, vengono veicolate con o senza filtri. Essi, qualora fossero selettivi,
determinerebbero una focalizzazione interna, altrimenti si andrebbe verso una focalizzazione
esterna.
La visione di punto di vista di Casetti, invece, è ben più articolata perché può sì coincidere con
il soggetto dell'enunciazione, ma altre volte mette in evidenza il suo essere portatore di una
valenza percettiva, cognitiva, o epistematica.
In entrambi i casi comunque, il punto di vista coincide con lo sguardo e si articola secondo tre
dimensioni:
polarizzazione di Gardies, secondo la quale il canale iconico fonda il sapere percettivo dello
spettatore in relazione all’inquadratura e al fuoricampo. Si definisce polarizzazione perché
segna la variazione o la scelta di una delle tre istanze (percettiva, cognitiva, epistematica) sulla
quale costruire i meccanismi della narrazione.
onniscienza del racconto. Lo spettatore ha a disposizione delle informazioni che colmano gli
spazi vuoti della storia e generano, ad esempio, il senso di suspance.
Soggettività pura: inquadratura del personaggio che guarda attraverso il suo stesso
sguardo.
7 di 11
Marco Cocco - Enunciatore e spettatore tra identificazione e polarizzazione dello
sguardo
Soggettiva libera indiretta (l’autore fa suo il discorso del personaggio e spessso ha una
funzione poetica)
«Per 'dispositivo cinematografico' si intende una delle forme simboliche in cui si è organizzata
la rappresentazione del mondo tramite la visione (e l'ascolto) e che riguarda le condizioni di
proiezione e di fruizione del film nella sala cinematografica.
[...] Se nella percezione normale il soggetto percipiente appartiene allo stesso campo di
esperienza dell'oggetto percepito, che è reale e presente, al cinema invece si trova in una sala e
ciò che percepisce sono delle immagini di oggetti assenti, riprodotti sullo schermo.
La conseguenza è che ciò che appare sullo schermo è totalmente separato e inaccessibile allo
spettatore che siede nella sala, al contrario di quello che succede a teatro dove non vi è alterità
tra il palcoscenico e il pubblico e dove attori e spettatori condividono lo stesso spazio, la stessa
atmosfera e, soprattutto, la stessa realtà.
[...] Secondo Baudry [...] (il dispositivo) è il luogo di un desiderio costitutivo del soggetto, è
una macchina simulatrice che produce nella psicologia dello spettatore una regressione
artificiale simile al sogno e alla scena dell'inconscio.»3
Baudry4 paragona lo spettatore al prigioniero nel mito della caverna di Platone: incatenato e
capace di fruire la realtà unicamente attraverso l’ombra dei simulacri, proiettata sul muro
innanzi a loro, che dei portatori fanno scorrere sopra le loro teste.
Questa “illusione” di realtà, questa fusione con l’immagine proiettata è la medesima che si
compie con l’esperienza cinematografica, grazie agli elementi costitutivi del dispositivo
cinematografico tesi a favorire l’alienazione del soggetto da sé e l’identificazione con l’oggetto
filmico.
Lo spettatore è nel buio della sala, immobile sulla poltrona in stato di sottomotricità, con lo
sguardo fisso verso una parete (lo schermo), fruendo immagini proiettate da un fascio di luce
che proviene dalle sue spalle.
Questa condizione ripropone la condizione intra-uterina e post-natale, come anche il regime del
sogno: dimensioni nel quale si è abbandonati a un regime prettamente psichico.
Una volta catturato dalle dinamiche del dispositivo, lo spettatore fisico entra in relazione con
l’oggetto cinematografico attraverso quelli che Christian Metz ha definito i processi di
identificazione spettatoriale5.
Tali processi determinano la “fusione” o, meglio, l’ingresso dello spettatore nel mondo filmico
e nella storia narrata tramite un complesso meccanismo psicologico.
proiettore, il fascio di luce che proviene dalle sue spalle e con tutte le tecnologie che
permettono la visione. Questo tipo di identificazione ripropone lo stadio dello specchio
lacaniano, tramite il quale il bambino, attraverso la visione della sua immagine riflessa, prende
coscienza di sé come soggetto unitario.
Identificazione secondaria: identificazione con i personaggi e con il mondo narrato.
29
1 Il personaggio come persona e il personaggio
come ruolo
All’interno del percorso di analisi della narrazione cinematografica è necessario soffermarsi
sulla figura del personaggio che può essere letta secondo molteplici angolazioni.
Una delle possibilità interpretative pone l’analisi del personaggio come se questo fosse una
persona con un profilo intellettivo, attitudinale, emotivo, comportamentale.
all’ordine del far fare e de fare, ma secondo funzioni speculari e in conflitto.Oltre a caratteri e
azioni, bisogna considerare anche i valori dei quali i personaggi si fanno
carico. Spesso i personaggi, proprio entrano in conflitto proprio a causa dei rispettivi valori. In
quest’ottica, ad esempio, troviamo
official hero (incarna i valori della collettività e gli ideali classici)outlaw hero
(aspirazioni individuali e esigenze giovanili e anarchiche).
Le tipologie di personaggio possono abbracciare polarità ideali - es. Bene e male. Esistono
personaggi totalmente schierati in una di queste istanze, ma generalmente non sono l’architrave
del discorso. Anche all’interno dei personaggi protagonisti, il tema del conflitto assume
caratteri seduttivi per lo spettatore.
2 Il personaggio-attante 2
Il personaggio può essere analizzato facendo emergere le connessioni strutturali e logiche che
lo legano alle unità del testo.
L’attante è sia la posizione posizione assunta nel racconto, che l’operatore atto a realizzare le
dinamiche del racconto.
Per comprendere la figura dell’attante dobbiamo distinguere in:Soggetto - colui che deve
conquistare l’oggetto ed è mosso dal desiderio. In questo
- Competenza - il Soggetto ha delle abilità che gli permettono di agire nel percorso di
conquista dell’oggetto.
I regimi narrativi sono tre, al quale poi si può accostare un quarto modello strutturale del
racconto:
39. I valori espressi da ciascun personaggio sono iscritti in uno schema
organizzato per opposti che sfociano in un incontro\scontro inevitabile.
Lo stato finale è il ribaltamento di quello iniziale o si raggiunge uno stato nuovo,
inedito generato dalle azioni compiute. L’enigma potrebbe non essere risolto e la
trasformazione si configura come sospensione. La narrazione debole è tipica del melo
passionale, del noir o di alcune rivisitazione dei generi classici fatte negli anni ‘50 come
il western psicologico. Anti-narrazione - Mette fortemente in crisi il modello forte,
estremizzando i tratti del modello debole. Cade il nesso e l’equilibrio tra ambiente e
personaggio, l’azione non è più rilevante. I tratti fondamentali di questo modello sono:
30
1 L’azione tra avvenimenti e comportamento
Nell’atto della narrazione cinematografica, che si manifesta attraverso un contenuto
audiovisivo, si rende ancora più palese la centralità degli eventi e delle azioni come motore del
racconto.
«Il corso degli eventi in un dramma. L’azione di un dramma o di un romanzo, è una serie di
avvenimenti fittizi legati da un rapporto di casualità, che creano un intreccio che ha un inizio,
uno sviluppo e uno scioglimento. È in questo senso che bisogna intendere il termine nella
regola classica dell’“unità d’azione”.»1
«La maggior parte dei film consiste nella rappresentazione di azioni, generalmente compiute da
esseri umani. L’azione è dunque, in un certo senso, la più elementare delle componenti
filmiche.»2
Azioni - Sono generate da un essere animato e si legano agli avvenimenti nella costruzione
dell’intreccio narrativo. Generalmente l’azione si caratterizza per la presenza, al suo interno, di
un agente inanimato.
Questa è una lettura dell’azione in chiave strutturalista, discendente dal modello proppiano.
incontrate durante il viaggio. Tali vincoli possono essere rispettati o infranti. Obbligo:
speculare rispetto alla funzione “divieto”. Si concretizza in un
Rimozione della mancanza: la mancanza iniziale, una volta superate le prove e/o
recuperati gli oggetti perduti, viene compensata e si ripristina l’equilibrio iniziale.
Alla luce delle quattro tappe, possiamo riassumere così la tavola delle funzioni narrative:
Il comportamento è la persona
La funzione è il ruolo
L’atto è l’attante
31
1 La trama
La narrazione classica è un modello che deriva direttamente dal cinema classico, ovvero il
cinema americano che va dagli anni dieci agli anni sessanta; si basa su azioni concatenate e
fatti che si susseguono secondo rapporti di causa ed effetto. La narrazione classica è attiva,
caratterizzata da trame che seguono uno schema che può essere riassunto in questo modo: si
parte da una situazione di equilibrio che riguarda ambiente e personaggi, qualcosa o qualcuno
altera questo equilibrio ed innesca l’azione.
Il protagonista a questo punto deve intervenire, affronterà ostacoli e prove per superare questa
situazione. L’azione dell’eroe non ha necessariamente un esito positivo, il protagonista
potrebbe anche non superare le prove e non riuscire quindi a ristabilire l’ordine.
Uno schema di questo genere può adattarsi a racconti di diversa natura, nasce principalmente
per costruire trame d’azione e trame di prova, questo significa che tende ad escludere
digressioni e concentra tutto su un problema che deve essere affrontato e risolto.
Per arrivare a definire una trama basta affidarsi alla storia principale. Se per esempio prevale la
questione amorosa, siamo di fronte a una trama sentimentale o melodrammatica.
p.134
2 Generiepersonaggi
La produzione hollywoodiana si affida molto alla classificazione dei propri prodotti basandosi
su contenuti e forma. Ci ritroviamo quindi nel sistema dei generi, utile a creare un’interfaccia
tra film e spettatore e tra industria e fruitori. Il genere è a tutti gli effetti un’etichetta che si
attribuisce a un dato film; a determinare il genere possono essere diversi fattori, dall’ambiente,
come nel caso dei film western, alla presenza di performance canore, come nel caso del
musical.
Ancora una volta dobbiamo rifarci alla short story, questo perché il personaggio della
narrazione classica è goal oriented, questo sinifica che viene costruito per raggiungere un
obiettivo, la sua psicologia viene ridotta e costruita in funzione del racconto e in base
all’evoluzione della vicenda.
Il profilo del personaggio è quindi costruito in maniera essenziale, questo non va però ad
inficiare il processo di identificazione dello spettatore e quindi la credibilità del personaggio.
L’evoluzione del personaggio all’interno di una narrazione classica è sorprendente ma non
troppo, questo vuol dire che alcuni tratti del personaggio espressi all’inizio della storia,
annunciano in qualche modo il cambiamento finale che, anche se prevedibile, riesce comunque
a sorprendere.
“In questa sorprendente prevedibilità risiede gran parte del fascino della narrazione classica: lo
spettatore è gratificato nel vedere l’avverarsi delle sue supposizioni”.2
attore si trova a recitare determinati ruoli ed essere escluso da altri, questo perché esiste un
sincretismo tra attore e personaggio. Possiamo dunque affermare che la narrazione classica è
fortemente influenzata anche dallo star system e la scelta del cast diventa un punto
fondamentale.
3 Tempo e Motivazione
I racconti della narrazione classica sono lineari, gli eventi seguono l’ordine della storia. I salti
in avanti sono esclusi, mentre è possibile che vengano adoperati flashback per chiarire alcuni
aspetti della storia spesso affidandosi alla memoria dei personaggi.
fatta per alcuni casi in cui questi elementi sono funzionali alla comprensione della storia e
vengono comunque usati con parsimonia. Ogni scelta che viene fatta è al servizio della
narrazione, se la camera si sofferma su un dettaglio dedurremo e poi avremo conferma che quel
dettaglio è indispensabile alla comprensione della storia.
Per quanto riguarda il commento, la narrazione classica può commentare la natura del
protagonista, usa per esempio inquadrature del protagonista in uno spazio vuoto e isolato per
sottolineare lo stato di solitudine in cui si trova.
Per comprendere meglio la costruzione di una narrazione classica bisogna introdurre il concetto
di motivazione, Bordwell prende in prestito il termine dai formalisti russi e definisce il processo
attraverso cui la narrazione legittima le sue scelte di contenuto e forma. Sono quattro le
tipologie di motivazione:
Motivazione realistica: coerenza del mondo rappresentato nella storia con il mondo
reale, un esempio è vestire gli attori in modo che siano contestualizzati all’epoca in cui
si svolgono i fatti del racconto (sia la moivazione compositiva che la realistica tendono a
giustificare i nessi di causa ed effetto su cui si fonda il racconto);
32
1 La nascita del cinema moderno
Il cinema moderno ha temporalmente inizio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale,
trovando nel Neorealismo italiano una potente radice artistica.
nuovi generi
Questo status, impone la rottura degli schemi di un cinema classico regolato secondo una
“logica transitiva”: progressione dell’azione e narrazione come finalità della rappresentazione.
Le motivazioni dietro alla sua nascita sono:Crisi del cinema classico negli anni Cinquanta
Traumi della guerra e mutata condizione psicologica e sociale dell’individuo
Modificazioni tecnologiche e linguistiche in ambito mediale apportate dalla televisione
Nuove forme di consumo e produzione di massa
2 La (de)costruzione del racconto
Il cinema classico (con particolare riferimento al cinema americano) è orientato all’azione.
Esempio di struttura:
esempio “Sentieri selvaggi” (The Searchers, 1956) di John Wayne, linearità, logicità e
compiutezza tendono a prendere il sopravvento esercitando il loro principio regolatore.
Nel film, il personaggio di Ethan Edwars (John Wayne), tormentato dal senso di colpa, alienato
rispetto al nucleo familiare, diviso tra domestico e selvaggio, compirà comunque un arco
narrativo che lo condurrà alla ricerca della nipote rapita e al restauro dell’equilibrio spezzato
(attraverso il ritorno in società della nipote, o il suo sacrificio per mondarla dalla
“contaminazione” indiana)3.
La struttura del racconto segue sempre una direttrice canonica e il suo sviluppo e risoluzione
apparterranno sempre alle logiche del regime classico.
Nel film, il racconto della vita del protagonista avviene tramite un serrato susseguirsi di azioni
prive di una solida concatenazione. La verità non si raggiunge attraverso la ricostruzione del
tutto, ma nel significato di singoli frammenti, nella profondità di campo, nei gesti
apparentemente insignificanti. La scissione crea senso, al di là della linearità narrativa e della
logica dell’azione.
Nel cinema neorealista i personaggi sono definiti da gesti e azioni automatiche, ma non da una
costruzione organica. Quando questi automatismi si spezzano, emerge la vita, la realtà in tutta
la sua imprevedibilità, giustizia, ingiustizia, assurdità, crudeltà, dinamicità, statica.
Un modello che ritroviamo anche nella Nouvelle Vague francese. Pensiamo a Godard e al suo
Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1959) o a Pierrot le fou (1965). Qui la struttura
narrativa, sotto forma di ballata, determina una nuova logica dell’azione: disconnessa e
determinata dalle suggestioni visive e sonore. Stessa cosa accade con il cinema tedesco di Wim
Wenders.
Possiamo, quindi, affermare che, dal punto di vista strutturale e temporale, il cinema moderno
prevede:
Progressioni narrative lente ed enigmatiche, caratterizzate da percorsi a vuoto o
circolari. La struttura ascendente del racconto classico viene sostituita da una narrazione
monotona, spesso priva di un evento culminante.
Nel moderno troviamo spesso una contaminazione con il sogno, i regimi narrativi
del fantastico, le immagini mentali, la deformazione strutturale e la decostruzione dei
sintagmi classici. Uno degli esempi più chiari di costruzione moderna è, senza dubbio, il
meraviglioso L’anno scorso a Marienbad di Resnais, nel quale si condensano alla
perfezione tutte le istanze artistice, visive, narrative, intellettuali e tecnologiche tipiche
della modernità. La studiosa Lucilla Albano, in un suo ottimo saggio, ce lo descrive
così: «L’anno scorso a Marienbad non è solo un film difficile (o forse «il più facile mai
visto», come scrive Alain Robbe-Grillet, sceneggiatore del film), è imprendibile,
sfuggente, enigmatico, come un sogno. Inafferrabile ma anche insuperato, nel senso che
tocca possibilità mai sfiorate prima da altri film. Forse, in modo diverso, dai precedenti
film surrealisti di Buñuel e dai successivi Persona di Bergman e Mulholland Drive di
Lynch. Ma la strada intrapresa da Marienbad è unica, esclusiva e irripetibile. [...] Con
Marienbad infatti il cinema introduce, più di altre opere precedenti, una nuova logica e
una nuova esperienza, grazie soprattutto a una costruzione dello spazio e del tempo che
ha a che fare con la memoria, la fantasia e il sogno e non con una dimensione narrativa
di tipo lineare e consequenziale. E quindi con quella particolare logica che Freud ha
definito processo primario, un processo che appartiene all’inconscio e al sogno, e per il
quale non esiste il principio di non contraddizione, in cui il tempo viene dissolto, lo
spazio abolito e la realtà esterna - attraverso i tipici meccanismi del lavoro onirico:
condensazione, spostamento, raffigurabilità e sovradeterminazione - viene sostituita da
quella interiore.
Marienbad è costruito, pressoché in toto, secondo tale logica e in esso si può intravedere la
possibilità di restituire la visione di un “mondo simmetrico”.
Il soggetto narrante, prima trasparente agli occhi dello spettatore in modo da non rompere il
processo di identificazione con la storia, ora si palesa e assume corpo attraverso i movimenti di
macchina, il montaggio, tutti i linguaggi espressivi possibili.
In questo, il cinema americano si avvicina a quello Europeo, nel quale l’autore aveva una sua
centralità già a partire dagli anni Venti. Ecco perché le radici del cinema moderno sono europee
mentre quelle del cinema classico sono americane.
Quindi, nell’atto della contaminazione del mercato statunitense, la modernità è inquadrata quasi
come fosse uno stile e un linguaggio prettamente europeo, con delle caratteristiche e delle
norme produttive e rappresentative riconoscibili.
L’autore diventa il garante dell’opera e sintesi di uno stile narrativo ben preciso e riconoscibile
che trasuda dai fotogrammi delle opere. Pensiamo ad esempio a Fellini, Bergman, Godard o
Visconti.
L’eccesso di autorialità, soprattutto a partire dagli anni Novanta, ha però condotto la figura
dell’autore a fagocitare l’opera rendendo quest’ultima un’operazione egoriferita fine a se
stessa.
33
1 Genesi e motivi del genere Western
La cronologia storica del genere Western si articola in tre fasi1:il periodo classico
(1900-1969)il periodo critico (1969-1992)il periodo revisionista che coincide il
cinema della complessità (1992-oggi).Il primo film a rispecchiare le future
caratteristiche del genere fu ”Cripple Creek Bar Room”
(1898) della durata di un minuto.Fu però “La grande rapina al treno” (The Great Train
Robbery, di Edwin Porter, 1903) a
sancire l’effettiva nascita e popolarità del western, favorendo la diffusione del
cinematografo attraverso le sale “nickelodeon” nelle quali venivano proiettati film da un
rullo (15 minuti di durata).
La nascita e l’evoluzione di questo genere è strettamente legata alla storia americana2. Il
cinema, divenuto presto un autentico fenomeno di massa capace di parlare a tutti, negli
Stati Uniti, frammentati da conflitti e confini tra Stati, si distinse in quanto veicolo
necessario alla costruzione della coscienza collettiva di un popolo.
Raccontando le tensioni sociali, le dinamiche ambientali, vizi e virtù dei cittadini attraverso
un linguaggio comprensibile anche dalle fasce medio-basse, attraverso contenuti ludici e
rappresentativi, il cinema divenne il mezzo privilegiato di costituzione e narrazione
dell’epopea americana3.
Il genere western nasce in questo contesto e a partire da queste esigenze narrative, trova
nelle chanson de geste medievali e nella narrativa storica dell’Impero romano, anche se
in chiave più popolare, degli illustri antenati.
Essendo destinato alla seduzione ludica della massa, il linguaggio del western giocava su
suggestioni violente e forti, attraverso semplificazioni utili alla fruizione popolare.
A partire da Nascita di una nazione (1915), uno dei capolavori di Griffith che hanno
gettato le basi della sintassi cinematografica, il western americano ha guardato all’epica,
divenendo l’ambiente filmico perfetto per rappresentare gli ideali e l’eroismo epico
statunitense.
Anche quando si declina attraverso il linguaggio della commedia, come nel caso de La
febbre dell’oro di Chaplin (1925), il western classico affronta le traiettorie dell’eroe.
Il Western, per forma e costituzione, si inserisce all’interno delle narrazioni tipiche del
cinema classico hollywoodiano contribuendo a edificare le radici storiche
dell’immaginario americano.
L’ambientazione e la temporalità del genere western si sviluppano, infatti, a partire dalla
fine della Guerra di indipendenza: quest’ultimo un universo non esplorato nel genere
poiché critico in un’ottica di elaborazione traumatica da parte del popolo americano.
Il conflitto, necessario per lo sviluppo di qualsiasi storia, all’interno del genere western si
configura non nello scontro tra americani e americani, ma nella feroce lotta tra questi
ultimi - incarnanti la civiltà - e il mondo selvaggio da conquistare, identificabile con i
Nativi americani. Il confronto si estende, poi, a tutte le zone d’ombra della cultura
americana che nel West trovavano una concretizzazione.
Il West, infatti, era visto come terreno selvaggio nel quale l’uomo poteva facilmente cedere
al peccato e alla perdizione. Un mondo diametralmente opposto rispetto a un Est
costiero colto, urbano, istituzionale e politicizzato (coincidente, tra l’altro, con il
“nordismo” uscito vincitore dalla Guerra civile).
Possiamo trovare questo tipo di conflitto proposto con rara potenza in capolavori del cinema
di John Ford come “Sfida infernale” (1946) e ”L’uomo che uccise Liberty Valance”
(1962).
In queste pellicole si compie il conflitto tra legge e anarchia, dove l’ordine viene sancito
con la forza, pistole e polvere da sparo.
Proprio le armi assumono un ruolo fondamentale nella retorica del western: utilizzate per
difendere confini, conquistare, tutelare la legge, annientare il nemico. Rappresentano un
sistema valoriale tutt’oggi estremamente radicato nella cultura americana.
Il senso del “selvaggio” è, poi, enfatizzato dalla costruzione ambientale delle pellicole. La
Monument Valley (teatro di gran parte del cinema western e autentico spazio simbolico
del cinema americano), le praterie, i canyon, la polvere, la roccia, le cittadine di
frontiera, il confine con il Messico, la ferrovia, il saloon. Lo spazio diventa il
palcoscenico di un mondo in costante equilibrio tra civiltà e barbarie, natura e urbano,
legge e caos.
2 La potenza dell’immaginario fordiano
Il genere western trova nella regia di John Ford il suo più alto vertice narrativo e lo
strumento privilegiato di costruzione dell’etica e dell’estetica americana. A lui
dobbiamo non solo la scrittura dei canoni del western ma, più in generale, l’edificazione
di una retorica visuale che si è posta come fondamento di tutto il cinema classico.
Il suo universo cinematografico si basa su un sistema valoriale tradizionalista, fondato su:
ricerca della libertà personale (solo in parte collettiva)l’acquisizione di
ricchezza e posizione socialela legittima difesa di sé e del proprio territorio
la custodia del focolare e dei propri mezzi di sostentamento la tutela di un preciso
stile di vitail rispetto della legge del più forteil perseguimento di un personale
senso di giustizia
Per incarnare questo modello, sceglie un attore che per tempra e fisico rispecchia
esattamente l’ideale americano: John Wayne.
Wayne, protagonista di capolavori come Ombre rosse (1939) e Sentieri selvaggi (1956), è
fisicamente imponente, virile e saldo. Fumatore, bevitore, ma senza cadere mai nella
dissolutezza. Non brilla per intelligenza, ma è abbastanza acuto per cavarsela in un
mondo spietato, agendo con ferocia con i nemici, e con timidezza e pudore con i
personaggi femminili.
Con la sua indole buona, ma risoluta si contrappone a dei villain totali, che incarnano caos e
violenza, minando i valori della società.
Non è un eroe senza macchia e in alcuni film (come, ad esempio, “Sentieri selvaggi”), Ford
gli dona una complessità e profondità non comuni nel cinema classico, però questa
frammentazione, soprattutto dal punto di vista estetico, è ben lontana da quella degli
“eroi” psicologicamente frantumati del cinema moderno.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per
gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Marco Cocco - La narrazione nei generi cinematografici: il Western
Il cinema fordiano è una potente rappresentazione della frontiera in quanto confine fisico,
morale e psicologico. In Sfida infernale (1946)4 l’eroismo è incarnato da uno sceriffo
(Henry Fonda) e al contempo da un medico con problemi di alcolismo: un uomo diviso,
afflitto e depresso.
In Sentieri Selvaggi, invece, l’eroe (Wayne) è un uomo ossessionato dalla vendetta e spinto
dall’odio verso il diverso (gli indiani): alieni che gli hanno strappato l’amore della vita e
hanno distrutto gli equilibri di una famiglia dalla quale era appena tornato. Il familiare a
lui è precluso, essendo un eroe non pacificato.
Il cinema di Ford, dietro la sua epicità e adrenalina, elementi imprescindibili per rispondere
alle sue esigenze popolari, nasconde strutture e tensioni di assoluta complessità che lo
rendono quasi un unicum nel cinema classico hollywoodiano.
3
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n
Negli anni Settanta e Ottanta5 il genere western entra in crisi. La causa è il radicale
mutamento sociale degli Stati Uniti dovuto a una maturazione del pubblico, a esigenze
spettatoriali diverse, a un cambiamento dei valori collettivi. Erano gli anni della Guerra
Fredda e del Vietnam, costellati da una globale presa di coscienza socio-politica che in
America metteva in crisi la visione tradizionale del mondo e gli “eroi” infallibili, virili,
culturalmente oppressori.
La figura di John Wayne, per ciò che rappresentava, a causa di questa evoluzione della
sensibilità spettatoriale, divenne sempre meno filmicamente incisiva, pur essendo ormai
entrata nella storia del mezzo cinematografico.
A testimonianza di questa crisi, il fallimento dell’ottimo Cancelli del cielo (1980) di
Michael Cimino.
Il mutamento maggiore, nell’ottica della narrazione, lo subirono la figura dell’eroe e quella
dell’antagonista.
Nel western classico l’eroe (stereotipo Wayne) era epico, giusto e implacabile mentre il
nemico crudele, anche se rispettoso dell’etica della battaglia, era l’indiano che si
ostinava a ostacolare il progresso dell’uomo bianco.
Nel western critico degli anni Settanta, Ottanta fino ai primi anni Novanta, si andò contro a
un ribaltamento dei ruoli dal forte carattere politico6. Il racconto prende spesso la
prospettiva dell’indiano non più letto in quanto minaccia e ferocia selvaggia, ma come
vittima dell’avidità e della violenza dell’uomo bianco usurpatore.
Possiamo identificare questo slittamento in quattro film: Soldato Blu (1970)
L’uomo chiamato cavallo (1970)Il piccolo grande uomo (1970) con Dustin
Hoffman
Balla coi lupi (1990) di Kevin Costner
In questi film viene sradicato l’immaginario epico del western classico: dal “valore” del
nordismo alla purezza dell’uomo bianco; dalla giustizia unilaterale al diritto di esproprio
della terra etc. Si arriva perfino a far calare l’uomo bianco nei panni dell’indiano,
creando un inedito incontro tra culture fino a quel momento in antitesi.
Se nel periodo del cinema critico vi fu uno scollamento dai valori tradizionali del genere, a
partire dagli anni Novanta ci fu un ritorno ai modelli classici, edulcorati, però, dalla
gloria e dall’eccesso di epica.
Tornarono i temi, le ambientazioni, i conflitti (interiori), senza però l’infallibilità dell’eroe o
la visione dell’indiano come nemico selvaggio.
Il punto di svolta in questa nuova revisione dei temi e dei personaggi fu Gli Spietati (1992)7
di Clint Eastwood: un autore e interprete nato e cresciuto nel genere western
(“spaghetti” western compreso).
Eastwood interpreta un vecchio pistolero in “pensione” che, per sfamare la famiglia, accetta
di mettersi sulle tracce di due criminali, accompagnato da un giovane avventuriero. In
questo film in personaggio di Eastwood incarna i valori e i modelli del western classico,
muovendosi, però, in un’opera priva della visione manichea e dell’eroismo cieco dei
primi film del genere. Era un dissoluto ora redento e viaggia in un mondo complesso e
sfumato.
Ritornano i paesaggi, la frontiera, lo sguardo alla storia americana (la Guerra dei sette anni,
rappresentata ne L’ultimo dei Mohicani di Michael Mann) e lo scontro con il mondo
selvaggio, ma senza mitizzazioni.
Non c’è la glorificazione della legge, la difesa della propria comunità, la rivalsa sul
selvaggio: tutti elementi periti nell’epoca del western critico.
Nel periodo della revisione, assume un’altra luce anche la sessualità che ne Gli spietati non
è più virile, seduttiva e infallibile come nel western classico, ma si mostra in una sfera
personale (si parlerà anche di autoerotismo) meno stereotipatamente testosteronica.
Torna centrale anche l’amicizia maschile (Appaloosa, 2008, di Ed Harris) e con
Brokeback Mountain (2006) di Ang Lee, il nuovo western vedrà cadere anche uno dei
suoi più grandi tabù: ossia il riferimento all’omosessualità: un elemento impossibile da
rappresentare nel western e nel cinema classico.
Il western revisionista, pur nella sua critica ai modelli classici, si riappropria della figura
dell’eroe mostrato, però, come fallibile, spesso tormentato, stratificato e irrisolto,
arrivando anche a sfiorare l’ambiguità morale.
L’eroe viene anche ridicolizzato o, meglio, ne vengono enfatizzate tutte le contraddizioni
che nel cinema classico erano totalmente trasparenti. E’ il caso de Il Grinta (2010) dei
fratelli Cohen, dove western e commedia si guardano da distanza ravvicinata.
La forma è quella classica, ma i contenuti sono trasfigurati e resi fluidi nell’ottica della
contaminazione tra generi, secondo le dinamiche del cinema contemporaneo.
Altra sperimentazione interessante è The Hateful Eight (2015) di Quentin Tarantino: un
capolavoro di messa in scena che gioca con gli stilemi del genere classico, declinandoli
attraverso un piano del racconto quasi teatrale, incentrato fortemente sul personaggio, e
nel quale il paesaggio è quasi del tutto assente.
Il focus è la psicologia dei personaggi, la dimensione corale, le sfumature della moralità, la
meccanica del gioco cinematografico, il grottesco, la gratuità della violenza, Una marcia
serrata di perfetta regia e ancor più bella scrittura che ribalta totalmente logiche,
riflessioni e costanti del western.
Uno dei vertici del revisionismo del genere è, però, Il Petroliere (2007) di Paul Thomas
Anderson8 in cui, grazie all’interpretazione di un magnifico Daniel Day-Lewis, viene
proposta la corsa alla ricchezza (in questo caso non l’oro, ma il petrolio) tipica della
narrazione western, privata dell’aura mitica del sogno americano. Ciò che resta è la
costruzione di un antieroe che oscilla nel lato oscuro del villain, portando con sè molti di
quei valori, un tempo edificanti, che il western ha cercato per decenni di raccontare,
intrattenendo e istruendo il pubblico.
Anderson ci offre, qui, una completa trasfigurazione contemporanea del genere, interamente
giocata sulle stratificazioni della moralità e il ribaltamento dei valori. Una perfetta
combinazione tra il recupero dei tematismi classici e le suggestioni del western critico,
che dimostra quanto questo genere, pur senza l’esigenza originaria di raccontare la storia
americana e creare un immaginario condiviso, possa essere ancora fortemente attuale e
incisivo sia nella sua visione artistica che nei suoi significati politici.
34
1 Origini della commedia
La commedia nasce, in contrapposizione alla tragedia, come genere teatrale nell’antica Grecia.
Può essere distinta in tre fasi: commedia antica, commedia di mezzo e commedia nuova.
Aristofane (445-338) è stato uno dei più grandi esponenti della commedia antica e grazie ai
suoi lavori è stato possibile studiarne contenuti e struttura, e identificare alcuni tratti distintivi
del genere:
Protagonisti dell’azione possono essere sia uomini che dei, questi ultimi possono assumere
anche sembianze umane.
La vicenda si apre solitamente con una situazione problematica che, attraverso una serie di
azioni, viene risolta.
Gli argomenti trattati sono comuni, fanno parte della vita quotidiana e sociale della popolazione
Lo scopo era soprattutto incentivare l’identificazione del pubblico con i protagonisti della
storia.
Lo stile espressivo adottato è vicino al linguaggio quotidiano. Non mancano modi di dire,
battute scherzose, espressioni gergali.Gli autori latini, come Plauto e Terenzio, si
ispirarono alle storie greche per scrivere le loro commedie.In epoca Medievale la
commedia subisce uno stallo. Era considerata troppo frivola, superficiale e in
contrapposizione con la cultura cristiana. Dobbiamo aspettare il Cinquecento, quando
grazie a Ruzante, ritornano le storie di personaggi umili e popolani mentre con Ludovico
Ariosto e Niccolò Macchiavelli la commedia torna ad essere raffinata, adottando una
scrittura colta vicina alla tradizione classica. Siamo nella seconda metà del Cinquecento
quando la Commedia dell’arte prende il sopravvento. Si tratta di una tradizione teatrale
italiana che dura fino al Settecento. Si basa su maschere e improvvisazione. Questo
vuol dire che non esiste un testo scritto ma solo canovacci, nessuna battuta da imparare a
memoria ma indicazioni e trame dalle quali gli attori partono per dare vita ai loro
personaggi. Gli attori sanno che dovranno interpretare scene d’amore o di duello e,
anche influenzati dal pubblico, che può fare delle richieste, mettono in scena una recita,
definita anche recita a soggetto.
Dobbiamo aspettare il Seicento per poter finalmente dire che la commedia rinasce come genere
letterario. Moliere ne è un esempio.
Sin dal principio i registi del cinema muto comprendono che la commedia è un genere adatto al
cinema, e richiesto dal pubblico perché vicino ad esso. Buster Keaton (La palla n. 13, Come
vinsi la guerra, Il cameraman) e Charlie Chaplin (La febbre dell’oro, Luci della città, Tempi
moderni, Il grande dittatore) puntano tutto sulla commedia che, grazie a loro, diventa un
genere amatissimo in grado di divertire facendo trasparire anche una vena malinconica e amara.
Il successo della commedia e del cinema comico è dovuto alla vicinanza che ha questo genere
con lo spazio urbano e con la quotidianità. Nasce tutto dall’evoluzione della slapstick comedy.
Lo slapstick è un oggetto composto da due tavolette di legno che simulano i rumori delle
bastonate che si scambiano gli attori durante una recita. Da questo genere di performance (che
deriva anche dal circo), nasce il cinema di Keaton e Chaplin; un cinema definito di regia, dove
l’effetto comico dipende dal ritmo sostenuto e dalla ricostruzione di situazioni esasperate.
A differenza del genere drammatico, la struttura di una gag richiede una perfezione
d’esecuzione. Per avere l’effetto desiderato una gag deve essere costruita in ogni minimo
dettaglio, una scena comica non può essere discreta, in questo caso rischia di non scaturire nel
pubblico la reazione che esso si aspetta.
A innescare la gag spesso sono i capovolgimenti di senso, oggetti usati non comunemente,
inquadrature che celano un senso inaspettato; la sorpresa rivela una realtà che viene ricodificata
e introduce lo spettatore a una nuova lettura dell’ordinario.
Siamo agli inizi del Novecento e nascono anche le prime star del cinema comico: Stanlio e
Olio, Gianni e Pinotto, i fratelli Marx.
Registi come Frank Capra (Accadde una notte, È arrivata la felicità), Leo Mccarey (L’orribile
verità) e Ernst Lubitsch (Ninotchka, Il cielo può attendere) consacrano la commedia come il
genere più amato degli anni 30/40 del Novecento.
Howard Hawks è uno degli esponenti della screwball-comedy, con film come Susanna! questo
sottogenere conquista il pubblico con dialoghi velocissimi e tante gag in rapida successione che
garantiscono un ritmo sostenuto al racconto. Gli attori diventano divi: è l’epoca di Cary Grant e
James Stewart.
Arriviamo quindi agli anni Cinquanta e a incarnare il genere è il regista Billy Wilder (Sabrina,
Quando la moglie è in vacanza, A qualcuno piace caldo e L’appartamento). E’ il momento
della grande commedia americana che si consacrerà anche nel decennio successivo con Stanley
Kramer e Blake Edwards. Negli Anni ’70 Robert Altman dà spazio alla satira antimilitarista
con MASH. Sono gli anni di American graffiti, La stangata e Goodbye amore mio!, Si comincia
a far strada Woody Allen che da attore e regista arriverà a raccontare storie di nevrosi
contemporanee (Io e Annie, Manhattan e Hannah e le sue sorelle).
Gli anni Ottanta e Novanta vedono il suggellarsi del genere comico-demenziale (Mamma ho
perso l’aereo, Mrs. Doubtfire), commedie sentimentali (Pretty woman) e commedie come
Good Morning Vietnam che invece sono caratterizzate da uno humour agrodolce.
Recentemente ci sono stati titoli americani che hanno saputo rinnovare la commedia, pensiamo
a Lost in translation, Little Miss Sunshine e Juno.
Abbandoniamo il cinema americano e Arriviamo in Europa, non possiamo non citare per il
cinema britannico Stanley Kubrick e Monty Pyton, per il cinema spagnolo Luis Bunuel e
Almodovar, fino ad arrivare in Italia, con la grande commedia all’italiana.
3 Commedia all’italiana
La commedia all’italiana nasce alla fine degli anni Cinquanta in una Italia che vuole lasciarsi
alle spalle il passato e proiettarsi verso il futuro. Ha come obiettivo quello di arrivare al grande
pubblico, di riflettere la società che prende forma. Racconta con comicità, ironia e satira il
paese, dalla classe proletaria a quella medio borghese. Uno dei suoi grandi esponenti è Mario
Monicelli, che con I soliti ignoti (1958) racconta di personaggi ai margini della società che,
pero, vivono in un’Italia proiettata verso il futuro, verso il miracolo economico.
Siamo a Roma e i protagonisti, poveri disgraziati, rincorrono una vita migliore. Sono buffi,
impacciati e si muovono per la città ancora a piedi, con i mezzi o in bicicletta, mentre la città
cresce e il traffico è in aumento.
I valori tradizionali sono ancora presenti anche se contaminati e minacciati dalla cultura di
massa e dai miti americani. I protagonisti però sono sistematicamente esclusi dal boom, non
subiscono gli effetti di questi cambiamenti.
Con Luigi Comencini e il suo Pane Amore e gelosia entriamo nella commedia paesana. Qui il
neorealismo si percepisce ancora e incontra la tradizione popolare. La quotidianità ha ancora un
ruolo centrale e questo favorisce l’identificazione del pubblico.
Il sorpasso di Dino Risi è il film che più incarna lo spirito di questo genere cinematografico
tutto italiano. È la storia di due amici, Bruno e Roberto. Il primo invita l’altro a fare una gita in
macchina. Roberto, che è uno giovane studente di giurisprudenza, prova ammirazione per
Bruno, vuole imitarlo e, una volta al volante decide di sfidare un’altra macchina in una gara di
velocità, in una curva però esce fuori strada e muore.
Siamo negli anni Sessanta e l’Italia che emerge è condizionata da status symbol.I protagonisti
arroganti, cialtroni e ingenui rincorrono una vita fatta di vacanze e auto di lusso, portano però i
segni di una profonda insicurezza e paura della solitudine.Con l’arrivo degli anni Settanta e con
gli anni di piombo si chiude la stagione d’oro di questo genere.
35
1 Le radici del melodramma
Il cinema, nella sua genesi artistica, attinse dalle altre arti, in particolare dal teatro, facendo sue
le declinazioni narrative più popolari e fruibili dal grande pubblico.
Il melò si organizzava in una serie di avventure ingarbugliate e ad alta tensione e con grande
enfasi emotivo-sentimentale, che ovviamente sfociavano in un lieto fine. Sostanzialmente era
un ricalcare - a volte goffo ed eccessivo - delle dinamiche della tragedia.
Una volta giunto dalla Francia in Inghilterra, il genere, duellando per il predominio popolare
con il romanzo d’appendice, mutò ulteriormente, prendendo delle venature, se possibile, ancora
più estreme toccando la sfera del catastrofico, dello spettacolare e dello sfrenato
sentimentalismo.
Il cinema, nel suo processo di assorbimento delle più vaste espressioni artistico-performative, si
nutrì di tutte queste esperienze, dando vita a un genere melodrammatico che accompagnò,
rigoglioso, l’intera evoluzione del mezzo.
Il melò divenne presto una delle cifre stilistiche della narrazione hollywoodiana, potendo
contare, insieme al western, su un impianto emotivo-suggestivo di rara potenza: elemento
imprescindibile per un’industria americana sostanzialmente votata alla commercializzazione
delle opere.
In quanto genere, è uno dei più fluidi e nebulosi dal punto di vista tematico, nell’ambito della
costruzione dei personaggi e delle traiettorie di racconto in esso attuate.
«Il melodramma è la modalità fondamentale del cinema popolare americano. Non è uno
specifico genere come il western o l’horror; non è una “deviazione” della narrazione classica
realista; non può essere localizzata principalmente nei woman’s films, nei “weepies” o nei
melodrammi familiari – benché questi ne facciano parte. Piuttosto, il melodramma è una forma
peculiarmente democratica e americana finalizzata alla rivelazione drammaturgica di verità
morali ed emotive attraverso una dialettica di pathos e azione. È il fondamento stesso del film
classico hollywoodiano.»2
Al di là di questi dubbi interpretativi, per solidità e vastità del corpus, possiamo identificare dei
caratteri dominanti del melò, pur nella trasversalità dei generi.
Può capitare, quindi, di individuare l’essenza del melodramma in film che, tematicamente,
appartengono a un altro spettro narrativo; così come esistono, invece, delle opere che nella loro
struttura patemica, nella costruzione emotiva, nella dimensione dei personaggi, rimandano
unicamente a un discorso melodrammatico, privo di contaminazioni.
⚫Melodramma storico: le cui trame si basavano spesso sulle vicende di personaggi disposti
al sacrificio per il bene comune o, comunque, con afflati etici importanti. Pensiamo a Nascita
di una nazione (1915) di Griffith, alla visione amorosa de La grande parata (1925) di Vidor,
Wings (1927) di William Willman, primo film a ruotare sul tema dell’aviazione e sugli aviatori
visti come trasfigurazione dei cavalieri, fino a All’ovest niente di nuovo (1930) di Lewis
Milestone, famoso per le sue tensioni pacifiste.
⚫Melodramma fantastico: la sua origine risale al melodramma passionale tipico del muto e
si colloca generalmente in ambientazioni altolocate o esotiche. L’obiettivo era catturare il
pubblico attraverso mondi non usuali, suggestivi, seduttivi nella ricchezza o nella diversità, in
modo da allontanarlo dai problemi dei quotidiano grazie all’intrigo e agli intrecci sentimentali.
Le maggiori interpreti di questo sottogenere furono senza dubbio Greta Garbo, Marlene
Dietrich e Rita Hayworth in pellicole come Gilda (1940, di Charles Vidor4). Il registi
principali del genere furono: Tay Garnett con film come Seven sinners (1940), nel quale il
marinaio John Wayne la cantante di night Marlene Dietrich da un boss; Edmund Goulding,
autore di Tramonto (1939), storia di un amore drammatico tra una donna malata di cancro e il
suo medico, con Bette Devis e Humphrey Bogart; Clarence Brown, regista prediletto dalla
Garbo, che strutturava le sue storie attorno ai grandi amori fatali nella borghesia
contemporanea.
⚫Melodramma sudista: offre narrazioni passionali basate sull’epica del Sud, edulcorando
gli elementi del sesso e della guerra tipici di quel contesto. L’esempio più famoso è certamente
Via col vento (1939) di Victor Fleming.
Nel melodramma italiano sono da segnalare anche le incursioni di Roberto Rossellini con
Europa '51 (1952), interpretato dalla compagna Ingrid Bergman.
Negli Stati Uniti, invece, si distinsero Sirk e Minnelli6, che presto diventarono i maggiori
esponenti del melodramma americano, con contaminazioni tra commedia e musical.
Sirk, dopo aver realizzato numerose commedie, si cimentò con il melodramma, offrendo alcune
delle opere più significative del genere.
Il suo stile era caratterizzato da un forte senso del barocco e dell’enfasi, bilanciati da un
raffinato sguardo critico e intellettuale.
Come le foglie al vento (1956)7 è sicuramente il suo film più famoso e riuscito, insieme a Lo
specchio della vita (1959): entrambe le pellicole rappresentano la poetica dell’autore, scissa tra
individualismo e strutture sociofamiliari.
Rock Hudson era sempre presente nei film di Sirk e per questo divenne una delle icone del
melodramma.
La prospettiva di Minnelli era, forse, più coraggiosa e artisticamente interessante nel suo
analizzare il rapporto tra arte e vita. Qualcuno verrà (1959), la sua opera migliore, può essere
considerata uno dei vertici del melodramma cinematografico di tutti i tempi. Qui il
protagonista, uno scrittore, si scontra con l’universo che lo circonda nell’atto del processo
artistico: il melodramma, quindi, si astrae dalle solite logiche sentimentali, aggiungendo al
romanticismo altri livelli di significato e rappresentazione.
Oltre al contesto famigliare, l’altra tematica ricorrente nel melodramma degli anni Cinquanta e
Sessanta fu la questione giovanile. Pensiamo a capolavori come Gioventù bruciata (1955) di
Ray, Scandalo al sole (1959) di Delmer Daves, Splendore nell'erba (1961) di Elia Kazan o
West Side story (1961) di Robert Wise e Jerome Robbins8.
Questo tema, insieme alle rielaborazioni di vecchi capolavori - è il caso di È nata una stella
(1954), di Cukor, rifacimento dell’omonimo film del ‘34 - segnarono il punto di svolta dal
melodramma classico a quello moderno.
François Truffaut9.
Tutto si giocava nel rapporto tra incanto e disincanto in relazione alla visione della realtà
cinematografica. Il melodramma divenne, quindi, un sottotesto anche quando l’oggetto della
pellicola non era di matrice melodrammatica. Molti autori vi si confrontarono in modo
indiretto, come Bertolucci, von Trier (basti pensare a Melancholia del 2011) e Almodovar.
Quest’ultimo, in realtà, ne Gli abbracci spezzati (2009), si abbandona in modo più diretto al
racconto melodrammatico.
L’autore che, nell’ambito del cinema moderno, decise di abbracciare concretamente il genere
fu il tedesco Fassbinder, estremo cultore dei film di Sirk.
Negli Stati Uniti, invece, l’influenza del melodramma si riscontra in Michael Cimino (Il
cacciatore, 1978), Francis F. Coppola (Giardini di pietra, 1987), Steven Spielberg (Always ‒
Per sempre, 1989), Martin Scorsese (L'età dell'innocenza, 1993), fino a un autore come Clint
Eastwood che da regista e interprete, si è reso un autentico simulacro del melodramma
contemporaneo. Ne sono esempio I ponti di Madison County (1995) fino al tragico Mystic
River (2003).
Il melodramma, tra periodi di maggiore e minore sviluppo, è un genere che ha attraversato tutta
la storia del cinema, offrendosi, oggi, come uno dei più contemporanei e versatili.
36
1 Le origini e il noir classico americano
Le radici del noir sono da rintracciare nell’influenza letteraria degli hard boiled, dei tascabili
pulp e dei polizieschi degli anni Trenta e Quaranta come quelli di Chandler, Hammett, Goodis,
Thomson, Cain e Woolrich, popolati da detective, criminali, antieroi e femme fatale.
Il noir cinematografico1 viene ufficialmente teoricamente riconosciuto nel 1955 nel saggio
Panorama du film noir américain, 1941-1953 (Borde e Chaumeton).
Gli Stati Uniti diventano ben presto la patria del genere. Il primo film americano ad essere
considerato a pieno un noir è Il mistero del falco (o Il falcone maltese, 1941), con Humphrey
Bogart, diretto da John Huston.
Un’opera che aprirà il cosiddetto periodo d’oro del noir americano, chiuso con L’infernale
Quinlan (1958) firmato da Orson Welles.
Onirismo ed erotismo sono due cifre dominanti a partire da I misteri di Shanghai (1941) di
Von Sternberg fino al capolavoro Gilda (1946) di Vidor: l’erotismo cinematografico per
eccellenza che rivela sensualità e crudeltà mentale. Una crudeltà senza scopo, determinata da
un’azione perturbante, che permane anche dopo lo scioglimento dell’intreccio.
Rispetto alle dinamiche narrative del cinema classico, il noir è nato non tanto per rispondere a
delle esigenze spettatoriali, quanto a una scelta estetica di produttori e registi come i fratelli
Warner, Mark Hellinger, Howard Hughes, che miravano a proporre storie legate alle
inquietudini della società e ai suoi lati oscuri.
1Cfr. Giovannini F., Storia del noir ‒ Dai fantasmi di Edgar Allan Poe al grande cinema di
oggi, Roma 2000. 2 Cfr. Gandini L, Il film noir americano, Torino 2001.
I noir sono una sfida rispetto alla sensibilità degli spettatori dell’epoca3. Le pellicole sono
pervase di criminalità, ricatti, rapine, truffe, traffici di droga e la soluzione degli intrecci è quasi
sempre la morte, che attende il protagonista dopo le svolte della narrazione.
Il noir è per sua costituzione un film di morte e l’eroe di questo genere la porta con sé fin dal
principio della storia.
Gli interpreti di riferimento del genere, nel ruolo dell’antieore, sono Humphrey Bogart, Alan
Ladd, Fred MacMurray, Robert Mitchum e Dick Powell. Questi rappresentati generalmente con
impermeabile e borsalino.
Sul versante delle dark lady e delle femme fatale, troviamo Lauren Bacall, Barbara Stanwyck,
Joan Bennett, Veronica Lake, Jane Greer e, nel caso capitale di Gilda, Rita Hayworth. In questo
caso, il vestiario, elemento fondamentale, nell’ottica della seduzione, si limiterà a tailleur o
abiti da sera.
Il massimo dello splendore del noir americano si toccò nel ‘44, con classici del calibro de
L'ombra del passato (1945) di Edward Dmytryk e La fiamma del peccato (1944) di Billy
Wilder.
Alla fine della guerra, il noir era uno dei generi più in voga, affrontato dalle maggiori case
produttrici. Uscirono in sala pellicole cult come Il postino suona sempre due volte (1946) di
Tay Garnett o Il grande sonno (1946) di Howard Hawks.
Il periodo classico del noir americano si concluse negli anni Cinquanta, quando il genere iniziò
a guardare alla società in uno sguardo più ampio, assecondando le nuove inquietudini del
paese, come lo spettro atomico e il maccartismo. È l’epoca di pellicole come Un bacio e una
pistola (1955) di Robert Aldrich e Il bacio dell'assassino (1955) di Stanley Kubrick, fino a
L’infernale Quinlan (1958) di Welles, che guarda alla classicità ribaltandone, però, gli
elementi: il detective
2 Personaggi,temiespazidelnoirclassico
Il noir è un genere cinematografico ambiguo. Secondo alcuni teorici non può essere inscritto
concretamente nell’ambito dei generi cinematografici, ma piuttosto nella sfera degli stili
cinematografici.
Anche se questa obiezione ha delle fondamenta, in quanto il noir è una derivazione del
gangster movie, agli albori non aveva un codice rappresentativo definito e combina in sé
elementi di altri generi (come il melodramma), alla luce della vastità e peculiarità del corpus di
appartenenza, oggi può essere considerato per convenzione un genere a se stante.
⚫Realtà ingannevole
Nel noir non ci sono territori, ma zone di transito: passaggio da uno stato all’altro, dalla legge
al crimine, dalla vita alla morte.
L'oscurità abbraccia sia gli interni che gli esterni e viene ripresa attraverso contrasti di luce e
ombra, nei quali quest’ultima prevale.
Nelle riprese in interni, la dialettica tra luce e buio e tesa a dare un senso di materia e
oppressione. La luce, qui, entra di straforo: da imposte chiuse, da sotto le porte, da lampade su
scrivanie di uffici pieni di fumo e scartoffie.
Anche gli esterni, raramente realizzati in studio, sono dominati da questo contrasto. Domina
l’urbano notturno, con luci al neon e asfalto bagnato dalla pioggia.
Personaggi, temi, estetica sono perfettamente costruiti e integrati per creare una narrazione
decadente completamente intrisa di un criminoso e mortifero dal quale il noir si nutre.
3 Postnoir e neonoir
Dal ‘58 in poi, si passò dal noir al cinema postnoir, che ha caratterizzato gli anni Sessanta e
Settanta.
Agli elementi tipici del genere si aggiunge una dose maggiore di azione, di violenza e di
profondità di uno spettro criminale che contamina tutte le sfere della società.
Ritorna la figura del detective, ma al suo fianco troviamo storie di rapinatori, poliziotti corrotti
e criminali altrettanto legittimati a reggere le fila della narrazione.
Durante gli anni Ottanta7 vede la luce il neonoir che agli schemi precedenti, aggiunge una forte
contaminazione con gli altri generi cinematografici, citando elementi di classicità che vengono,
poi, trasfigurati.
Precursori di questo genere sono film come Brivido caldo (1981) di Lawrence Kasdan, nel
quale ritroviamo l’elemento del triangolo, della dark lady e dell’uomo di legge che opera ai
limiti della legalità, e con Blade runner (1982) di Ridley Scott.
Quest’ultimo vira verso la fantascienza, portando il noir nella Los Angeles del 2019, con un
protagonista detective che scoprirà l’essenza da replicante della sua femme fatale.
Il neonoir, riappropriandosi della periferia rispetto alla metropoli, si rivela una declinazione
ancora più cupa, sensuale e violenta del genere. Ne sono esempio
Il posto caldo (1990) di Dennis Hopper, Fargo (1996) di Joel ed Ethan Coen o Sex crimes ‒
Giochi pericolosi (1998) di John McNaughton.
L’elemento onirico diventa, in alcuni casi, quasi preponderante come avviene in alcuni
riscritture postmoderne come Strade perdute (1997) e Mulholland drive (2001) di David Lynch.
Cambiano le generazioni e cambiano anche i volti. Così una nuova Hollywood attoriale va alla
conquista del noir con interpreti complessi e lineamenti sempre più affilati, brutali e ambigui:
Steve Buscemi, Woody Harrelson, Harvey Keitel, Gary Oldman, John Travolta, con innesti di
glorie anni Settanta come Robert De Niro e Al Pacino.
Punto di svolta nel neonoir è sicuramente il contributo di Quentin Tarantino che ha portato il
genere ai suoi estremi violenti, verbosi, simbolici e citazionisti con pellicole quali Le iene
(1992) e Pulp fiction (1994).
Nell’arco degli anni Ottanta non sono certo mancate le riletture del noir classico, passate sia
attraverso remake - Il postino suona sempre due volte (1981) di Bob Rafelson - che
operazioni nostalgia come Il grande inganno (1990) di Jack Nicholson ed L.A. confidential
(1997) di Curtis Hanson.
Sul versante europeo, invece, troviamo buoni esempi di riletture noir in Nikita (1990) e Leon
(1994) di Luc Besson.