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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 1 – Panorama sincronico dell’italiano contemporaneo

Lezione 1
Introduzione ed elementi di linguistica generale

Questa prima unità avrà come scopo quello di trattare, seppure sommariamente, il panorama
linguistico generale su suolo italico, e con italico ci si riferisce a tutto ciò che costituisce mezzo
linguistico sul territorio nazionale dell’Italia.
Però, sembra doveroso, prima di affrontare una, seppur rapida, analisi linguistica della realtà
italiana, fornire innanzitutto gli strumenti concettuali necessari allo studio del presente
modulo. Pertanto questa lezione sarà l’introduzione ad alcune nozioni base della linguistica
generale che ritorneranno utili nelle lezioni successive.

Lo studio diacronico è l’analisi dell’evoluzione di una specifica realtà linguistica, dunque,


quando sistematizzato, può essere definito “storia della lingua” (si può, ad esempi, studiare il
passaggio dal fiorentino all’epoca di Dante all’italiano contemporaneo)
La linguistica storica (detta anche linguistica diacronica, o, soprattutto in ambito italiano,
glottologia) è la disciplina che si occupa dello studio storico delle lingue e delle loro famiglie
e gruppi di appartenenza, delle origini etimologiche delle parole, considerando i loro rapporti
e sviluppi in diacronia. Si contrappone alla linguistica descrittiva, o linguistica sincronica, che
studia lo stato di una lingua in un certo momento (ma non necessariamente la fase attuale).
Gli strumenti principali della linguistica storica sono l’analisi delle attestazioni storiche e la
comparazione delle caratteristiche interne – fonologia, morfologia, sintassi, lessico – di lingue
esistenti ed estinte. L’obiettivo è tracciare lo sviluppo e le affiliazioni genetiche delle lingue
nel mondo, e di comprendere il processo di evoluzione linguistica. Una classificazione di tutte
le lingue in alberi genealogici è al tempo stesso un risultato importante e uno strumento
necessario di questo sforzo.

Lo studio sincronico è un’analisi di una determinata lingua in un suo preciso stadio evolutivo.
(si può, ad esempio, studiare il fiorentino all’epoca di Dante o l’italiano contemporaneo).
L’analisi portata avanti in questo modulo è, per l’appunto, di tipo sincronico.

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Per fonetica si intende lo studio dei foni, mentre per fonologia lo studio dei fonemi. La
distinzione è fondamentale. Infatti, un fono è semplicemente un suono linguistico non
distintivo, allorquando i fonemi sono delle unità linguistiche dotate di valore distintivo:
pertanto la sostituzione di un solo fonema all’interno di un segmento, quale ad esempio la
parola, può determinare il cambiamento della parola stessa, e dunque del significato.
Ne deriva la nozione essenziale di coppia minima, indicante una coppia di parole che si
distinguono per uno e un solo fonema, mentre possono distinguersi anche per più foni. Proprio
la coppia minima permette di stabilire se due foni siano anche fonemi distinti di una stessa
lingua, o siano piuttosto degli allofoni, cioè delle varianti del fonema determinate dal contesto
articolatorio.
Es. Trascrizione fonetica: [punto] vs [puŋgo] > [n] e [ŋ] sono foni distinti dell’italiano.
Trascrizione fonologica: /punto/ e /pungo/ > [n] e [ŋ] non sono fonemi distinti
dell’italiano, ma due allofoni di /n/, mentre fonemi sono /t/ e /g/, discrimen della coppia
minima analizzata.
L’individuazione dei fonemi di una lingua può anche avvenire tramite prova di
commutazione: es. male/mele > /a/ ed /e/ hanno carattere distintivo, dunque sono due fonemi
dell’italiano.

Per metafonia si intende il cambiamento di timbro di una vocale, spesso dovuto a una forma
di assimilazione, la quale può essere progressiva o regressiva.

La geminazione è l’aumento di intensità nella pronuncia di una consonante (in italiano


indicato tramite raddoppiamento grafico).

Il significato è il senso stesso della parola, che rimanda solitamente a un ben determinato
referente linguistico, cioè un’entità cui la parola fa riferimento.

Il lessico è l’insieme delle parole di una lingua, o più precisamente dei lessemi di una lingua.
Il lessema non corrisponde alla parola, è bensì un’unità linguistica avente significato
autonomo; in quanto tale esso può riunire in sé molte parole, come nel caso dei lessemi verbali,
che riuniscono tutte le forme paradigmatiche, o può essere costituito da una pluralità di parole,
come nel caso dei composti non univerbati, delle polirematiche (sequenza di due o anche più
elementi lessicali non unificati fonicamente e graficamente, ma formanti un una sola unità
semantica) e delle frasi idiomatiche. L’onomastica è un settore del lessico comprendente

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antroponomastica (nomi propri di persona e cognomi), toponomastica (nomi di luogo),
ipocoristici (vezzeggiativi usati da familiari e amici), marchionimi (nomi di prodotti
commerciale) ecc. La lessicologia studia i lessemi e analizza i rapporti che possono
intercorrere tra un lessema e un altro, che essi siano sintagmatici (ovvero in praesentia, cioè
il rapporto tra elementi in successione, dunque compresenti, all’interno di una frase) o
paradigmatici (ovvero in absentia, cioè il rapporto verticale tra elementi che si escludono
reciprocamente all’interno di un enunciato).

Genealogia e tipologia. Una lingua può essere classificata mediante due principali metodi.
Quello genealogico prende in esame i rapporti storici – quindi diacronici – che intercorrono
tra le lingue allo scopo di individuarne l’antenato comune e, di conseguenza, di porle
all’interno di una famiglia linguistica.
Quello tipologico, invece, analizza l’idioma in questione sulla base dei suoi comportamenti in
campo morfologico e sintattico, nel contesto di una indagine puramente sincronica.

La morfologia si identifica con lo studio delle parti del discorso nella loro flessione, cioè
nelle variazioni a cui vanno soggette secondo le diverse funzioni grammaticali; distinta dalla
fonologia, che è lo studio esclusivo dei fonemi (per es. fama, dal punto di vista della fonologia
è parola composta di quattro elementi o fonemi, mentre dal punto di vista della morfologia è
parola formata dall’elemento radicale fam-, depositario del significato, e dal morfema -a, che
segnala il valore di singolare femminile), e, insieme alla fonologia, distinto anche dal lessico
e dalla sintassi, perché questi ultimi considerano la sostanza “dei significati e dei loro
rapporti”, mentre la fonologia e la morfologia illustrano le possibilità di realizzazione formale,
indipendentemente dal contenuto, cioè il significante.

Gli assi di variazione ci aiutano a collocare e a mettere in rapporto tra di loro le diverse
varietà che di una stessa lingua esistono a livello sincronico e che, solitamente, si differenziano
per varie ragioni da un ideale linguistico, che in quanto tale non esiste fattivamente e che nel
nostro caso è l’italiano standard. Da questo punto di vista, “marcato” è qualsiasi varietà
linguistica che se ne distolga abbastanza.
L’asse di variazione che prende in considerazione l’ambiente di appartenenza dei locutori è la
diastratia. Diatopia è quello dipendente dal luogo geografico in cui si produce un testo.
L’asse diamesico prende invece in considerazione il mezzo che si usa per far arrivare il
messaggio dal mittente al ricevente.

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Si noti bene che “testo” in linguistica è qualsiasi composizione contenente un qualche
messaggio, pertanto non soltanto scritta come comunemente, ma anche e soprattutto parlata.
Infatti, è il parlato a essere il primo oggetto di studio della linguistica, dato che esistono lingue
vive non scritte, ma non esistono lingue vive non parlate.

Con gergo si intende un codice linguistico interno ad un macrosistema, ma generato da e per


un gruppo sociale di riferimento (tutti i lavoratori di un determinato genere, ad esempio).

Un pidgin è una varietà linguistica dovuta alla semplificazione di una lingua da parte di una
comunità alloglotta che non la conosce e che intrattiene con i parlanti della lingua in questione
un rapporto settoriale. Il termine è stato coniato per indicare quei codici dal lessico minimo e
dalla grammatica semplificata elaborati da molte popolazioni colonizzate, costrette a
rapportarsi con i coloni nella lingua di questi ultimi. Un pidgin si creolizza, cioè diviene
creolo, quando comincia a sostituire la lingua indigena e, pertanto, essendo usato in ogni
ambito relazionale, diviene più complesso e completo, tanto da venire ufficializzato dalla
comunità in questione, specialmente in età postcoloniale.

Un enunciato Un enunciato è una sequenza di suoni con contenuto linguistico, o fonemi,


organizzati in parole e frasi. Un enunciato costituisce dunque un atto linguistico o espressione
detta in un dato momento, in un dato luogo. In ambito matematico e non solo (inteso come
nella maggior parte degli ambiti), “enunciato” è una regola o legge alla quale si arriva tramite
precedenti enunciati o postulati; in altri ambiti (come quello legislativo o della vita di tutti i
giorni), “enunciato” vuol dire una regola valida o principio. Enunciato e postulato sono due
cose diverse.
La linguistica comparativa oppure linguistica contrastiva è quella parte della linguistica che
affronta lo studio delle relazioni tra le lingue e l’evoluzione interna di ogni lingua secondo
una tecnica di confronto delle fasi evolutive di una stessa area linguistica e di confronto tra le
lingue affini.

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 1 – Panorama sincronico dell’italiano contemporaneo

Lezione 2
Cenni di storia della lingua italiana

L’italiano oggi è la lingua nazionale della Repubblica Italiana – oltre che della Confederazione
Elvetica e della Repubblica di San Marino – e la sua diffusione è grosso modo capillare nel
tessuto geografico peninsulare e insulare: è difficile trovare al giorno d’oggi degli italiani che,
pur vivendo in Italia, non conoscano e pratichino più o meno estensivamente la lingua
nazionale nel loro quotidiano. È però necessario ricordare che tutto ciò non è che il frutto di
recenti conquiste e che fino al 1861, se non ancora per svariati decenni, la nostra lingua è stata
appannaggio pressoché esclusivo dei parlanti toscani e degli ambienti colti. L’unità linguistica
degli italiani sarebbe stata raggiunta, secondo alcuni, soltanto durante il secondo dopoguerra,
quando l’istruzione cominciò a coinvolgere la stragrande maggioranza delle nuove
generazioni e all’opera diffusiva del cinema si associò quella ancora più costante delle reti
televisive.
Del resto, a differenza di molte altre lingue ufficiali, la nostra è stata per secoli più una lingua
letteraria identificabile con il fiorentino colto (con riferimento costante alle Tre Corone:
Dante, Petrarca e Boccaccio) che istituzionale o popolare, pertanto generalmente più scritta
che parlata. Il fatto che abbia riguardato a lungo un numero relativamente ridotto di locutori–
quelli della toscana – e che sia stata poi diffusa a partire dalla tradizione scritta hanno
accentuato il suo carattere già storicamente conservativo, facendone la lingua romanza – cioè
derivante dal latino – più morfologicamente e foneticamente vicina al latino tardo.
Il successo del toscano letterario si produsse soprattutto a partire dall’opera di scrittori
rinascimentali, che convennero sulla necessità di farne una koinè scritta, seppur attestandosi
su posizioni diverse: più conservativa e testuale quella del Bembo, che promosse i modelli
petrarchesco e boccacciano, più aperta a innovazioni esogene – e pertanto più naturale – quella
del Castiglione. Un ruolo fondante nell’uso del volgare per la diffusione scientifica fu poi
assunto da Galileo Galilei, che lo adoperò per la sua trattatistica.
Questa unità d’accordi a livello culturale tardò, però, a convertirsi in una unità linguistica,
data la prevalenza che gli altri volgari della penisola ebbero sempre, almeno fino alla
fondazione del regno d’Italia. Ed è solo a partire dagli anni sessanta del XIX secolo che le

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autorità cominciarono a promuovere l’insegnamento pubblico della oramai lingua nazionale,
provocando un lentissimo indebolimento degli altri volgari, che assumevano adesso lo statuto
di dialetti e venivano pertanto facilmente stigmatizzati.
Contemporaneamente, la differenza lessicale, fonetica e parzialmente sintattica tra fiorentino
(padre dell’italiano) e italiano si acuiva, rendendo queste due varietà sempre più facilmente
distinguibili, tanto da indurre oggigiorno gli studiosi a considerare il fiorentino come una
variante regionale dell’italiano contemporaneo.
Data la sua natura di lingua letteraria, e quindi più in generale di lingua di cultura, il volgare
toscano colto ha avuto a partire dal rinascimento grande influenza innanzitutto sulle altre
lingue europee in campo soprattutto artistico: e con ciò si intenda non solo la letteratura (basti
pensare all’internazionalizzazione della parola sonetto), ma anche le arti figurative (ad
esempio l’inglese fresco o il francese fresque), la musica (vedi il francese piano) e, più in
generale, il lessico avanguardista (basti pensare al turco manifesto).
Fra fine ottocento e primo novecento varie ondate migratorie hanno visto gli italiani trasferirsi
in paesi dell’Europa centro-settentrionale prima e nell’America del Sud poi – a questo
fenomeno si deve, tra le altre cose, l’inserimento in molteplici lingue del prestito italiano ciao,
di origine veneta. Oggi la fortuna dell’Italia nel campo della moda o della gastronomia facilita
l’ingresso di italianismi nel lessico commerciale internazionale.

Breve storia della lingua italiana: Il medioevo


Al termine dell’età classica sicuramente il latino parlato aveva un ruolo importante in penisola.
Tale idioma era parlato sicuramente dagli abitanti di Roma e del Lazio, più quelli delle aree
popolate direttamente da romani. Tra gli studiosi recenti, József Herman ipotizza che ancora
per tutto il VI secolo gli abitanti dell’area europea dominata da Roma, e a maggior ragione gli
italici, parlassero (o “credessero di parlare”) latino. Dai documenti scritti non si ricavano però
testimonianze esplicite.
In questo contesto si inseriscono le invasioni barbariche, con l’insediamento di diverse
popolazioni germaniche nella penisola. Al di là dell’ingresso nelle lingue italiche di qualche
centinaio di parole germaniche, però, la presenza dei barbari non sembra aver lasciato tracce
linguistiche dirette; le loro lingue scomparvero comunque entro il Mille, lasciando poche
testimonianze scritte (della lingua dei longobardi, che pure dominarono per due secoli una
buona parte dell’Italia settentrionale e meridionale, non è stata tramandata neanche una
singola frase: come testimonianza esplicita rimangono solo alcune parole longobarde citate in
opere scritte in latino). Solo poco prima del Mille compaiono documenti in cui si registra una

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lingua parlata che, agli occhi di chi scriveva, sembrava ormai qualcosa di diverso dal latino. I
primi documenti di questo tipo sicuramente databili risalgono infatti al X secolo, in ritardo
rispetto ad altre aree come quella spagnola e francese.
In questo periodo, con ogni probabilità, la maggioranza delle popolazioni italiche parlava un
proprio “volgare”, diatopicamente distinto e molto diverso dal latino classico. Il latino restava
però in uso presso una minoranza di persone istruite, in massima parte sacerdoti e monaci
della chiesa cattolica, che probabilmente se ne servivano spesso anche come lingua della
conversazione.
È solo intorno al XIII secolo che alcuni scrittori scelgono sistematicamente e con coscienza il
volgare come lingua per scopi artistici.
V’è grande accordo tra gli studiosi nel dare la palma di “atto di nascita” della lingua italiana
al Placito capuano del 960. Tale propensione nasce soprattutto in ragione dell’ufficialità di
tale documento, trattandosi di un verbale notarile su pergamena, e della chiara coscienza
linguistica che ha il redattore (un tale Atenolfo, notaio) dell’uso che fa del volgare. Il
contenzioso vede di fronte una tale Rodelgrimo di Aquino e l’abate del monastero di
Montecassino. Il placito origina dalla necessità di registrare le testimonianze di tre intervenuti
in favore del monastero: la scelta “normale” sarebbe stata quella di “tradurre” in latino le
deposizioni formulate in volgare (e uno dei tre testimoni, un tale Gariperto, è notaio egli
stesso, per cui non avrebbe avuto problemi ad usare una formula di giuramento in latino), ma
nell’occasione del Placito capuano viene fatta una scelta diversa e al latino del verbale si
accompagna il volgare delle formule testimoniali. Ecco, nella parte finale del Placito, come
viene registrata la testimonianza di Gariperto: «Ille autem [Garipertus], tenens in manum]
memoratam abbreviaturam, et tetigit eam cum alia manu, et testificando dixit: «Sao ko kelle
terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte s(an)c(t)i Benedicti».
Questa formula in volgare non va intesa come una registrazione del parlato, poiché viene
ripetuta sempre nella stessa forma ed è anzi stata fissata dal giudice Arechisi nella precedente
udienza. Si tratta, dunque, già di una standardizzazione. È possibile che la scelta di usare il
volgare origini da una precisa scelta di ordine giuridico da parte dell’abate: si intese forse
rendere comprensibile il verbale ad una platea ampia, anche estranea alla causa, per dissuadere
altri soggetti dal ritornare sul conteso.
San Francesco d’Assisi (1181-1226) fu uno dei primi autori a lasciare testi poetici basati in
buona parte sulla sua lingua madre (il volgare umbro), componendo il breve Cantico delle
creature. Agli ultimi anni del Duecento risale il Novellino, raccolta anonima di novelle toscane
limpida testimonianza di quanto, fuori dall’ambito poetico, il volgare fiorentino fosse ormai

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simile alla lingua italiana moderna: «Narcis fu molto buono e bellissimo cavaliere. Un giorno
avvenne ch’elli si riposava sopra una bellissima fontana, e dentro l’acqua vide l’ombra sua
molto bellissima. E cominciò a riguardarla, e rallegravasi sopra alla fonte, e l’ombra sua
faceva lo simigliante.» (Novellino, XLVI)
La poesia di Dante Alighieri e di Francesco Petrarca dettò le regole che l’intera produzione
letteraria poetica avrebbe dovuto seguire da quel momento: l’uso del volgare, pur con tutte le
differenze che intercorrono dalla lingua parlata all’artificiosità della composizione poetica.
Giovanni Boccaccio, grandioso prosatore fiorentino vissuto nel pieno XIV secolo, così spiega
il pasto della padrona di uno dei suoi personaggi, nel Corbaccio. In questo periodo solo piccole
minoranze di persone istruite, e limitatamente a determinate circostanze, si esprimono in latino
od in un volgare ripulito dai tratti locali più marcati.

L’italiano tra XVI e XIX secolo


Nel Cinquecento, grazie soprattutto all’influente azione di Pietro Bembo, il fiorentino
trecentesco di Petrarca e di Boccaccio diventa il modello linguistico più importante per i
letterati italiani. A fine Cinquecento esiste ormai un modello comune e unitario per la lingua
scritta, coincidente in sostanza con l’italiano moderno. Lo schema dei rapporti tra le lingue
che si forma in questo periodo rimarrà stabile per più di tre secoli: italiano unitario per l’uso
scritto e per alcune situazioni eccezionali; parlate locali (definite “dialetti”) per la
comunicazione quotidiana anche delle persone colte. Il parlato ha ormai una forma poco
distinguibile dalla lingua di oggi. Se per tutto il Settecento e l’Ottocento la lingua di prestigio
è il francese, tanto da portare l’uso di vocaboli d’Oltralpe per la gran parte degli oggetti di
arredamento e abbigliamento, l’influenza nei dialetti più geograficamente e glottologicamente
vicini al francese è fortissima.

1861 – XXI secolo


La diffusione dell’italiano letterario come lingua parlata è un fenomeno relativamente recente.
Nella sua Storia linguistica dell’Italia unita (1963) Tullio De Mauro ha stimato che al
momento dell’unificazione solo il 2,5% degli abitanti d’Italia potesse essere definito
“italofono”. In mancanza di rilevazioni dirette, le stime di De Mauro si fondano solo su
evidenze indirette (in particolare il livello di alfabetizzazione, su cui esistono dati abbastanza
affidabili) e sono state quindi molto dibattute. Secondo la stima di Arrigo Castellani, invece,
nel 1861 la percentuale di persone in grado di parlare in italiano era di almeno il 10%
(2.200.000 circa), di cui la gran parte era rappresentata dai toscani, considerati italofoni per

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“diritto di nascita”; 435.000 erano invece gli “italofoni per cultura” cioè quelli che avevano
appreso la lingua grazie allo studio scolastico. A costoro andavano tuttavia aggiunti anche gli
abitanti di Roma e degli altri centri dell’Italia mediana in cui si parlavano varietà linguistiche
vicine al toscano. Il dibattito risorgimentale sull’esigenza di adottare una lingua comune per
l’Italia, che proprio nell’Ottocento stava nascendo come nazione, aveva visto il
coinvolgimento di varie personalità come Carlo Cattaneo, Alessandro Manzoni, Niccolò
Tommaseo, Francesco De Sanctis. Si deve in particolare al Manzoni l’aver elevato il
fiorentino a modello nazionale linguistico, con la pubblicazione nel 1842 de I promessi sposi,
che sarebbe diventato il testo di riferimento della nuova prosa italiana. La sua decisione di
donare una lingua comune alla nuova patria, da lui riassunta nel celebre proposito di
«sciacquare i panni in Arno», fu il principale contributo di Manzoni alla causa del
Risorgimento.
Con l’unificazione politica l’italiano si diffonde anche come lingua parlata. Nel Novecento i
mezzi di comunicazione di massa contribuirono con forza a questa diffusione. All’inizio del
terzo millennio le indagini ISTAT mostrano che la maggior parte della popolazione italiana è
in grado di esprimersi in italiano ad un buon livello.

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 1 – Panorama sincronico dell’italiano contemporaneo

Lezione 3
I dialetti italiani e le comunità alloglotte

Dialetti
Come è noto, a differenza di nazioni quali Francia o Inghilterra (vada questa distinta dal Regno
Unito), l’Italia presenta ancora oggi una realtà linguistica particolarmente composita, nella
quale i dialetti giocano un ruolo centrale.
Ma cosa sono i “dialetti”? La definizione è stata a lungo dibattuta. La rivendicazione di molte
realtà regionali italiane – e non solo – ha spesso portato alla riqualificazione dei dialetti in
lingue, cercando a ragione di rifiutare il carattere dispregiativo che al suddetto termine si è
dato e continua ancora a darsi nel linguaggio comune, costruito spesso sulla visione di esso
come di un ostacolo ad apprendimento e diffusione dell’italiano.
Dal punto di vista scientifico, si è oggi invece preferita una nuova concettualizzazione, che,
pur rifiutando ogni forma di denigrazione, non rinuncia a prendere in considerazione la realtà
fattuale. Dialetto sarebbe quindi qualsiasi idioma non ufficializzato, pertanto non adottato
come veicolo dalle istituzioni di uno Stato. Ne deriva che la differenza è del tutto arbitraria e
legata alla contingenza politica, così come suggerirebbe una celebre freddura diffusa da Max
Weinreich: “Una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina”.

I dialetti italoromanzi
Pur essendo oramai l’italiano la linea guida generale, la tardiva unificazione politica ha
permesso che i dialetti continuassero a essere massicciamente parlati, in un rapporto di
reciproca influenza con l’idioma ufficiale.
Le ricerche in campo dialettologico sono state proficue a partire dallo sviluppo dello studio
scientifico delle lingue romanze: già tra 1919 e 1928 una serie di interviste linguistiche furono
portate avanti da Jakob Jud e Karl Jaberg con obiettivo la realizzazione di un Atlante
etnografico Italo-Svizzero, completato nel 1940. Questa opera colossale fu la base per le
ricerche di Giovan Battista Pellegrini, autore nel 1977 di una celebre Carta dei dialetti
d’Italia. A questi si dovette anche la definizione di italo-romanzo, riferita a tutte le parlate
italiche derivanti dal latino.

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Dal panorama tracciato dal Pellegrini in fin dei conti poco si distanzia la più recente Carta
linguistica d’Italia elaborata da Francesco Sabatini, che indica la distribuzione geografica
tanto dei dialetti italici, quanto delle aree alloglotte.
La distinzione essenziale, basata su criteri più genealogici che tipologici, è quella che separa
i dialetti settentrionali da quelli centromeridionali. I primi, diffusi nella zona che dall’arco
alpino si estende alla linea La Spezia-Rimini, sono classificabili in dialetti gallo-italici (data
la loro vicinanza evolutiva al tipo galloromanzo, spiegabile in relazione al substrato celtico di
Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e di alcune isole linguistiche del meridione,
dove dei ceppi galloitalici si erano stanziati; fra questi le siciliane Sperlinga e Nicosia, oltre
che i sardi Carloforte e Calasetta), dialetti veneti (Veneto, Trentino e Venezia Giulia) e istriani,
per definizione non appartenenti all’italoromanzo.
I dialetti centromeridionali presentano una sottocategorizzazione ancora più ampia: un tipo a
se stante è quello toscano, dal quale si distanziano le parlate còrse. Un’area intermedia è
costituita dai dialetti mediani di transizione (fra la linea Argentario-Rimini e Roma-Ancona),
che hanno caratteristiche ancora ascrivibili alle varietà toscane, pur appartenendo alla famiglia
dei dialetti mediani. I mediani propriamente detti si estendono invece nelle Marche del centro,
in parte del Lazio, in Umbria e nell’Abruzzo intorno a L’Aquila. Dalle zone meridionali di
Marche, Lazio e Abruzzo fino a Basilicata, Puglia e Calabria settentrionali sono parlati i
dialetti meridionali, dai quali si distinguono per vari fattori storico-linguistici i meridionali-
estremi, i quali comprendono le varietà salentine, calabro-meridionali e siciliane.
L’isolamento geografico della Sardegna ha infine generato la peculiarità linguistica di tale
isola, le cui parlate hanno subito un’evoluzione peculiare e non riconducibile a quella di
nessun dialetto peninsulare.

I dialetti settentrionali, come accennato, sono genealogicamente riconducibili all’area


galloromanza e, pertanto, presentano molte caratteristiche in comune con le parlate di Francia.
Ciò è vero innanzitutto sul piano fonetico: laddove il fiorentino e la stragrande maggioranza
dei dialetti italoromanzi hanno mantenuto la pertinenza fonologica della geminazione, non è
così per queste varietà, che sono andate incontro allo scempiamento di tutte le doppie. A ciò
si associa l’indebolimento delle vocali atone e la caduta delle finali, con eccezione di [a].
Es. FRATELLUM > fradel (laddove it. fratello)
In Piemonte e in Lombardia la vicinanza all’area francese ha contribuito allo sviluppo di due
vocali secondarie turbate, oltre che, dal punto di vista sintattico, all’obbligatorietà
dell’espressione del pronome personale soggetto, per questo tendenzialmente proclitico (es.

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el dize).
Il fiorentino presenta un sistema eptavocalico, poi ereditato dall’italiano standard, mentre
diatopicamente marcato e non ereditato dall’italiano è il fenomeno della gorgia, cioè della
spirantizzazione di k e di p e t in posizione intervocalica. (Es. hasa per casa). Un tratto tipico
dei dialetti toscani è l’evoluzione del suffisso –ARIUM in –aio.
Anche qui il pronome soggetto è quasi sempre espresso, benché le forme verbali oggigiorno
non lo richiedano in quanto distinte facilmente dalle desinenze. La presenza del pronome non
costituisce dunque marcatezza della frase, cosa che è invece valida per l’italiano standard. Per
marcare è necessario un tonico iniziale.
Es. tosc. Tu dici (soggetto non marcato), laddove it. Tu dici (soggetto marcato con pronome)
tosc. Te, tu dici (soggetto marcato con pronome tonico).

I dialetti mediani, di transizione e non, presentano un sistema vocalico vicino al fiorentino,


ma un’evoluzione delle finali latine alquanto differente; basti notare il mantenimento delle
uscite in –u (es. HOMO > omo, ma FERRUM > ferru).
In queste parlate si mantiene poi il neutro di materia, come nei dialetti meridionali e
meridionali estremi.

I dialetti meridionali, fra i quali massicciamente parlato risulta il napoletano, conservano


l’eptavocalismo tonico, con caratteristiche il dittongamento ascendente in sillaba accentata
per metafonesi e l’innalzamento articolatorio del secondo elemento del dittongo.
Es. BONUM > nap. [bwo’nə]
Altro tratto distintivo è l’indebolimento delle vocali atone, soprattutto delle finali, che
solitamente si riducono a una vocale centrale indistinta schwa [ə] simile a quella del fr. ceci.
Tale fenomeno è da considerare concausa dell’evoluzione distinta della stessa vocale
accentata di forme latine diverse per genere, quindi per desinenza, che altrimenti non
potrebbero distinguersi data l’identità della terminazione odierna.
Es. nap. Chellə (femminile) vs chillə (maschile).

I dialetti meridionali estremi, così come i meridionali, presentano l’accusativo


preposizionale: un rafforzamento del complemento oggetto legato alla marcatezza che
l’accusativo aveva in latino e forse dovuto a una tendenza generale del sostrato romanzo, forse
più probabilmente riconducibile all’influenza linguistica iberica sull’Italia del Sud.
Es. sic. Vitti a Giuseppi (cfr. sp. Vi a José)

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Per quanto riguarda le vocali, il sistema è molto meno complesso rispetto all’italiano standard,
perché generalmente pentavocalico con esclusione delle medio-alte (i, u, ɛ, ɔ, a), se non
trivocalico con esclusione generale delle medie, come in certe varietà del siciliano centrale.
Anche in questi dialetti si ritrova la metafonesi, con assimilazione della vocale tonica alla
vocale finale (es. RUSSUM > *ROSSUM > sic. russu) e il dittongamento tonico, che esso sia
condizionato, anch’esso dunque metafonetico, o incondizionato, quindi generalizzato. In tal
modo la maggior parte delle varietà siciliane (con eccezione di quelle centrali) presenta
dittongo con finale alta –u e –i, mentre non lo presentano con finale bassa –a.
Es. BONELLUM > BELLUM > sic. bieddu, bieddi, ma bedda
Un caso particolare è costituito dall’area palermitana, dove si dittonga sempre in accento di
frase: bieddu, biedda, bieddi.
In generale, nei dialetti estremi si riscontra anche un esteso processo di assimilazione
consonantica (sic. quannu) e alla sonorizzazione delle sorde precedute da n, m, l o r (es. tiembe
“tempi”).

Le varietà retoromanze, legate all’antica popolazione dei reti, vanno invece distinte da
quelle finora trattate, cui abbiamo dato la definizione di italoromanze. Si tratta del ladino
centrale o dolomitico, diffuso nelle valli di Veneto e Trentino-Alto Adige, del friulano e del
romancio, o grigionese perché parlato nel cantone svizzero dei Grigioni.

Il sardo è anch’esso un insieme di parlate extra-italiche con un’evoluzione per certi aspetti
più conservativa, dato l’isolamento del territorio d’interesse. Gallurese e sassarese sono stati
influenzati da alcune parlate toscane, mentre il logudorese risulta molto arcaico accanto al
campidanese.

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Immagine tratta da: Francesco Sabatini, La lingua e il nostro mondo, Torino, Loescher, 1978

Le altre lingue parlate in territorio italiano sono riconducibili a delle minoranze alloglotte
storicamente più o meno antiche. In Val d’Aosta è noto l’uso del franco-provenzale – mentre
la lingua ufficiale che affianca l’italiano è il francese -, esteso in certi territori del Piemonte e
a Celle San Vito e Faeto, due comuni in provincia di Foggia. L’occitanico nella sua
declinazione provenzale è comune ad alcune zone alpine come al già citato Guardia
Piemontese, luogo di fuga di una comunità valdese. Cimbrico, bavaro e alemannico, tutti
dialetti tedeschi, sono alternativamente parlati sulle alpi. Sloveno e Croato sono mezzo di
comunicazione in alcune zone della Venezia Giulia e del Molise, mentre l’arbäresh, varietà
albanese, è diffuso in alcuni comuni meridionali dove immigrarono certe comunità all’epoca
dell’occupazione turca dell’Albania. Il Salento e l’Aspromonte conoscono, accanto ai dialetti
italoromanzi, alcune varietà del grico, evoluzione del greco bizantino. Il catalano è poi
estensivamente in uso ad Alghero, snodo commerciale aragonese.
A queste varietà è necessario aggiungere quelle delle comunità alloglotte di presenza più
recente: i vari romanes, lingue rom e l’arabo, soprattutto nei centri più grandi.

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 1 – Panorama sincronico dell’italiano contemporaneo

Lezione 4
Il rapporto tra italiano e dialetto: l’italiano regionale

Il gradatum di Pellegrini
Proprio come ogni altra lingua nazionale abbastanza estesa, l’Italiano, progressivamente
parlato da un numero sempre maggiore di individui, ha subito delle grandi trasformazioni e
assunto dei tratti tanto foneticamente, quanto morfologicamente e sintatticamente diversi in
relazione alla regione di diffusione. Per questa ragione è stata elaborata la categoria di
“italiano regionale”. Possiamo anzi affermare che ciò che esiste è l’italiano nelle sue varietà
regionali, cioè diatopicamente marcato, e non lo standard, lingua ideale solitamente studiata
e praticata dall’antica scuola di teatro, come per decenni nelle reti televisive e radiofoniche
nazionali.
Nel 1960 Giovan Battista Pellegrini individuava quattro diversi gradi del repertorio linguistico
italiano:
a. l’italiano letterario;
b. l’italiano regionale;
c. il dialetto regionale o koinè dialettale;
d. il dialetto locale.
In questo quadro l’italiano regionale sarebbe creatura di un processo non molto differente
rispetto a quello che interessò il latino nella sua area di diffusione: esso è stato assorbito da
comunità originariamente alloglotte che lo hanno modificato secondo le loro precedenti
abitudini linguistiche. Similmente, l’italiano, soprattutto da un sessantennio a questa parte,
sovrapponendosi massicciamente ai dialetti ha dovuto modificarsi anche secondo le
caratteristiche di questi. Potremmo quindi affermare che, se dessimo per buona l’equivalenza
dialetto = variante dell’idioma nazionale, allora tale definizione sarebbe decisamente calzante
per gli italiani regionali, che vengono per questo a volte definiti “dialetti secondari”.
All’interno di questa categoria alcuni studiosi hanno recentemente indicato una differenza
importante tra italiano regionale popolare e italiano regionale dei colti. È paragonabile ai
pidgin il primo, i cui parlanti sono di L1 dialettale, mentre il secondo avrebbe status simile
alle lingue creole, in quanto ufficializzato e con note dialettali ereditate e spesso non avvertite.

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Un caso particolare è rappresentato da quelle zone dell’Italia in cui il dialetto è difficilmente
distinguibile dall’italiano regionale, constatazione valida per l’area toscana e mediana. Qui vi
è quindi più un continuo tra le due varietà, che una gradazione.

Code switching e code mixing


La situazione generalmente si complica se prendiamo in considerazione il fatto che, nella
parlata quotidiana, è frequente trovare alternanza dei codici, quello dialettale e quello italo-
regionale. A tal proposito si è giunti, sulla base dei dati raccolti, alla definizione di due
fenomeni: code switching e code mixing. Queste categorie hanno apportato delle modifiche
alla visione del Pellegrini, che indicava un confine netto tra lingua e dialetto, valido forse per
le circostanze formali, ma non per le informali. Qui, infatti, si trovano enunciati in cui
entrambi i codici sono utilizzati.
Nel Code switching segmenti in italiano si alternano con segmenti dialettali (solitamente si
tratta di proposizioni), aventi non di rado funzionalità espressiva e tendenzialmente usati
consapevolmente dal parlante. Il Code mixing presenta, invece, enunciati mistilingue, con
alternanza di codici all’interno di una stessa frase o gruppo sintattico; esso è solitamente
riconducibile o a confidenza tra i parlanti o a conoscenza imperfetta dell’italiano, che obbliga
all’uso di lessico dialettale.
Es. di code switching: “Io, vendervi questa casa? Ma vuje vulite pazzià!”.
Es. di code mixing: “Ma che vuoi ri mia? Non c’entro niente, io”.

Analisi dell’italiano regionale


Tornando alla questione dell’italiano regionale, bisogna aggiungere che da un punto di vista
prevalentemente morfologico e sintattico vi è una tendenza generalizzata alla
standardizzazione a livello nazionale: le varietà regionali sembrerebbero, cioè, spostarsi verso
di più verso un ideale punto di incontro, che però dista molto dallo standard tradizionale, ed è
stato per questo definito “italiano neostandard”. Viceversa, dal punto di vista fonetico e
lessicale le varietà regionali tendono a essere essenzialmente più conservative, così che è più
facile capire la provenienza di un locutore se ne ascoltiamo la voce piuttosto che se ne
leggiamo gli sms, che molto si avvicinano al parlato.

Tra i vari fattori che marcano diatopicamente l’italiano v’è l’intonazione, un tratto detto
“soprasegmentale” che è generalmente chiamato “accento” e che varia molto rispetto a un
ideale neutro standardizzato.

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La fonetica è forse il tratto più suscettibile di marcatezza diatopica. Si assiste pertanto
all’annullamento dell’opposizione fonologica /ɛ//ɔ/ vs /e/ /o/ a favore delle medio-alte a Sud
e delle medio-basse a Nord. Similmente si annullano /ts/ vs /tz/ e /s/ vs /z/ intervocaliche a
favore delle prime a Sud e delle seconde a Nord. Per quanto riguarda il lessico, come si è
accennato, questo varia molto da regione a regione, sulla base della presenza di vari
geosinonimi, per i quali a uno stesso significato troviamo associati lemmi diversi a seconda
della regione presa in esame. Così il meridionale zineffa si oppone al non marcato riloga, e
allo stesso modo il centrale affitto si oppone al settentrionale pigione. In questo ultimo caso
affitto ha prevalso, essendo poi stato integrato nel neostandard: parliamo in questo caso di
dialettalismi, cioè si termini in origine diatopicamente marcati entrati nell’uso nazionale.
Mentre i dialetti ricoprono aree specifiche, spesso sovrapponibili alle dimensioni di una
provincia, o addirittura di un gruppo minuto di comuni, non è così per gli italiani regionali,
che interessano tendenzialmente delle macroaree: la settentrionale, la toscana, la romana e la
meridionale.

Caratteristiche dell’italiano settentrionale: e sempre chiuse in finale di sillaba aperta con


eccezione delle finali e in sillaba chiusa da nasale (véro, témpo), mentre sempre aperte le altre
(perché). A arretrata in Piemonte e avanzata in Emilia. Scempiamento delle geminate e
assenza di raddoppiamento fonosintattico soprattutto in Veneto. Palatalizzazione della s in
Emilia-Romagna ([ʃ]ignora per [s]ignora). Riduzione delle affricate alveolari a fricative
(ragasso) e delle affricate alveolari palatali a sibilanti sonore (zente per gente).
Sintatticamente sono molto diffuse le forme analitiche verbo + avverbio (venir giù) e viene
più frequentemente usato il passato prossimo rispetto al passato remoto. Gli articoli davanti
ai nomi di persona, eventualmente anche maschili. L’omissione del non con le frasi negative
con mica. Diastraticamente marcato è il che dopo le congiunzioni subordinanti.

Caratteristiche dell’italiano regionale di Toscana


La distanza tra questa varietà e lo standard è molto più sottile, data l’eredità di moltissimi fatti
linguistici toscani anche recenti nella lingua nazionale. Nonostante ciò, tale distanza
sembrerebbe recentemente aumentata, data la neostandardizzazione.
Oltre alla gorgia, è da notare la deaffricazione di [ʤ] in [ʒ] e di [t͡ ʃ] intervocalico in [ʃ].
In campo morfosintattico è notevole il si impersonale personalizzato (es. noi si mangia) e
l’uso di codesto, oramai soppiantato nel neostandard da questo e quello.

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Caratteristiche dell’italiano regionale di Roma
Raddoppiamento di /b/ e /ʤ/ intervocaliche, sonorizzazione di /p/, /t/ e /k/ intervocaliche. Qui
e nel meridione, dove tradizionalmente la /s/
Intervocalica è sempre sorda, non è raro trovare parlanti che sonorizzino, anche laddove il
toscano non lo richieda, semplicemente per imitare più o meno consapevolmente la pronuncia
settentrionale, ritenuta più prestigiosa. Diastraticamente marcata risulta invece la
degeminazione di /r/ intervocalico e la confusione tra i foni / ʎ / e /jj/ (aglio pronunciato ajjo),
dovuta al fatto che in romanesco essi sono semplicemente allofoni. Di frequente notiamo poi,
dal punto di vista morfologico, l’apocope di imperativi e infiniti e il costrutto analitico stare
a + infinito, che sostituisce stare + gerundio (che stai a di’? per il non marcato cosa stai
dicendo?).

Caratteristiche dell’italiano del Meridione


In questo caso, la varietà napoletana presenta caratteristiche particolari in campo vocalico:
chiusura delle vocali nei dittonghi ascendenti, vocalizzazione delle semiconsonanti, e
isocronismo sillabico, cioè la tendenza ad avere vocali chiuse in sillabe aperte e vocali aperte
in sillabe chiuse. Altrettanto frequente è l’indebolimento delle vocali finali, influenzato da
schwa e –i debole nei dialetti rispettivamente campani e siciliani. Anche qui spesso / ʎ /
diventa /jj/, anche fra parlanti colti, e viene sonorizzata la consonante sorda dopo nasale
(cingue invece di cinque). /s/ e /z/ preconsonantiche sono poi spesso palatalizzate in [ʃ] e [ʒ]
(la queʃtione). L’allocutivo più diffuso in area campana, nonostante la standardizzazione, è il
voi. Qui, come nella varietà romana, stare sostituisce lo standard essere, quando non ha
funzione di ausiliare; similmente, ma si tratta di una caratteristica assente nella varietà romana,
avere non ausiliare è rimpiazzato dall’iberico tenere.
In Sicilia la r ad inizio di parola è spesso geminata, anche quando non vi sia raddoppiamento
fonosintattico, mentre quando essa è prima di una consonante, si assiste frequentemente ad
assimilazione regressiva (Palemmo), ma si tratta di un fatto marcato in diastratia. Più
generalizzata è la retroflessione di r e il posizionamento del verbo a fine frase.
In Sardegna l’opposizione medio-alta vs medio-bassa delle vocali è annullata a favore di una
resa fonetica intermedia, mentre le consonanti scempie o geminate sono pronunciate
indifferentemente se dopo l’accento di parola.

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 1 – Panorama sincronico dell’italiano contemporaneo

Lezione 5
Il repertorio linguistico italiano: architettura di italiano e dialetto

Il repertorio di Berruto
Nella precedente lezione abbiamo fatto riferimento agli studi di Giovan Battista Pellegrini e
all’individuazione da parte di questi di un gradatum linguistico, che suggeriva già una
molteplicità di varietà proprie al registro linguistico degli italiani. Nell’arco di questi ultimi
anni, tempo in cui l’italiano è diventato lingua della socializzazione primaria, questo genere
di studio è stato proseguito da Gaetano Berruto. Come egli stesso tende a sottolineare, però,
“non esiste un unico repertorio linguistico panitaliano […]: i concreti repertori linguistici
vanno sempre riferiti alle singole regioni e aree”. A questo proposito, le considerazioni sul
repertorio non possono che partire dall’analisi del rapporto che intercorre tra dialetto e lingua
nazionale. Per definire quest’ultimo è stato spesso utilizzato il concetto di diglossia, che
prevede una sorta di dicotomia tra una varietà linguistica alta, usata prevalentemente allo
scritto dal punto di vista diamesico e in contesti formali, affiancata da una varietà idiomatica
più bassa adoperata nel parlato e in situazioni prevalentemente informali. Ma la realtà italiana
sembra un po’ sfuggire a questa categorizzazione, dato che in essa la varietà bassa –
contrariamente a quanto vuole il concetto stesso di diglossia – non è l’unica ed esclusivo
codice di conversazione ordinaria, né in ogni caso la lingua di socializzazione primaria (se ciò
era vero fino a un cinquantennio fa per la maggioranza, o se è ancora vero per gli ambienti
diastraticamente marcati verso il basso, non lo è più per la maggior parte degli italofoni).
Subentra allora una nuova e forse più calzante etichetta, quella di dilalia, cioè di compresenza
dei due sistemi linguistici in questione in contesti vari, e con un certo margine di
sovrapposizione che impedisce una netta mutua esclusione di dialetto e italiano. Più
precisamente Berruto è approdato ad associare a questo concetto una perifrasi che rende bene
la complessità della realtà del nostro paese: “bilinguismo endogeno (o endocomunitario) a
bassa distanza strutturale”. In tal modo si riesce a veicolare l’idea dell’uso di due lingue
(italiano e dialetto), generato all’interno della comunità dei parlanti (endocomunitario) e
inglobante delle varietà la cui distanza strutturale e genealogica non è alta (ricordiamo che la
maggior parte dei dialetti è italoromanza, esattamente come l’italiano). I dati co dicono che la

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maggior parte degli italiani, infatti conosce sia l’italiano che il dialetto, una grande minoranza
non conosce né usa il proprio dialetto e una piccolissima quantità di parlanti conosce e usa
esclusivamente il dialetto. È poi doveroso aggiungere che questa bipartizione linguistica si fa
tripartizione nelle aree in cui sia presente una lingua intermedia accanto all’italiano (vd. il
paragrafo sulle minoranze alloglotte), mentre si riduce a un’unica realtà a due gradi nelle zone
del continuum tra italiano e varietà regionale preponderante, cioè soprattutto in Toscana e
Lazio urbano.
Appurato questo, sarebbe però riduttivo limitare a dialetto e italiano le varietà a disposizione
del parlante italiano, che, invece si moltiplicano lungo gli assi di variazione, che sono chiusi
da due estremi. Fra questi estremi ritroviamo varie unità linguistiche intermedie. Lungo l’asse
diatopico dal polo dell’italiano standard della norma si passa al polo dell’italiano regionale
dialettizzato. Similmente l’asse di diastratia si apre con l’italiano colto e ricercato e si chiude
con l’italiano popolare basso. La diafasia oppone, invece, l’italiano “parlato-parlato”
all’italiano “scritto-scritto”. Questo quadro va però completato da una necessaria
constatazione: le varietà usate dagli italofoni non sono definibili soltanto in relazione a uno di
questi assi, bensì si collocano simultaneamente su più assi di variazione. I gerghi, per esempio,
si collocano sempre a cavallo tra marcatezza diafasica e diastratica, poiché propri soltanto di
certe situazioni comunicative e di certi gruppi sociali.

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In generale, gli studi sociolinguistici internazionali convergono nel vedere gli assi di
variazione come interdipendenti e, nel caso italiano, quasi come gli uni interni agli altri; la
diastratia, per esempio, agisce all’interno della diatopia e così via. Nel 1987 Berruto ha
elaborato uno schema che rendesse la complicata realtà dell’italofonia. In esso egli posiziona
graficamente le varietà del repertorio secondo i tre dei quattro assi presi in considerazione
nella sua ricerca (è escluso quello diatopico, che necessiterebbe di un trattamento geografico,
decisamente diverso rispetto agli atri tre). Le nove varietà indicate nel grafico non sono però
da considerarsi le uniche dell’italiano, bensì dei punti di riferimento rappresentativi.
Essi sono:
1. Italiano standard letterario, cioè il fiorentino “emanato” secondo tradizione dotta.
2. Italiano neostandard, così recentemente definito e corrispondente all’“italiano dell’uso
medio” di cui ha scritto Sabatini.
3. Italiano popolare colloquiale, usato nella conversazione quotidiana informale.
4. Italiano (regionale) popolare, tipico della compagine sociale poco o non istruita.
5. Italiano informale trascurato, usato i contesti estremamente confidenziali.
6. Italiano gergale, che è una varietà suddivisa in moltissime varietà a seconda del gruppo
diastratico di riferimento.
7. Italiano formale aulico, tipico delle situazioni pubbliche e particolarmente solenni.
8. Italiano tecnico-scientifico, caratterizzato da linguaggio altamente specialistico.
9. Italiano burocratico, usato in campo pressoché esclusivamente amministrativo.
Berruto definisce questa tavolozza, che pure sembrerebbe un gradatum, piuttosto come un
continuum – dati i larghi margini di sovrapposizione – “con addensamenti”, cioè con zone
linguistiche più nettamente distinguibili le une dalle altre: una sorta di discreto nel continuo.
In effetti, non si tratterebbe tanto di una scala linguistica, quanto di una dimensione alineare.
Questa frammentazione, però, è inserita in un quadro unico garantito da un nucleo comune,
che corrisponde all’insieme di italiano standard letterario, la cui normatività ha comunque
direttamente o indirettamente avuto delle ripercussioni su pressoché tutte le altre varietà, e
l’italiano neostandard, che per certi versi ne è figlio.
Nello schema soprariportato si analizza però soltanto il repertorio italiano, mentre non si fa
riferimento al complicato rapporto con il dialetto. Berruto, resosi conto della complessità della
questione, ha infatti voluto distribuire la sua indagine su due momenti diversi, contrariamente
a quanto aveva fatto prima di lui Giovan Battista Pellegrini nella sua quadripartizione.
In effetti, i dialetti hanno scala di variazione decisamente meno ampia rispetto alla lingua
nazionale: essi sono limitati in diatopia, in diafasia (non vengono usati in ogni situazione

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comunicativa), in diamesia (sono molto più parlati che scritti) e in diastratia (sono meno parlati
negli ambienti alto-borghesi). Ovviamente, il dialetto non è una lingua inferiore: avrebbe ogni
strumento per ricoprire tutta la gamma degli assi, ma nei fatti il suo uso è limitato soltanto ad
alcuni, con consecutiva riduzione del lessico sopravvissuto e con nascita di difficoltà
espressive non appena si tenti di usarlo in contesti più “alti”.

L’architettura del dialetto, fatte queste considerazioni e appurato il fatto che nella maggior
parte dei casi la mancanza di una varietà dialettale standardizzata o normativizzata ne accentua
la frammentazione, può pertanto essere riassunta in quattro varietà principali:
1. Il dialetto letterario.
2. Il dialetto urbano.
3. Il dialetto locale rustico, che rende bene la dicotomia effettivamente esistente tra
campagna e città.
4. Il dialetto gergale, comprendente forme espressive particolari e gerghi veri e propri.

Un quadro comune alle due architetture finora analizzate è quello elaborato da Francesco
Sabatini nel 1985:
1. Italiano standard
2. Italiano dell’uso medio.
3. Italiano regionale delle classi istruite.
4. Italiano regionale delle classi popolari.
5. Dialetto regionale.
6. Dialetto locale.
Tentando una classificazione semplificata, ma prescindendo da asse diafasico e diamesico,
potremmo immaginare che ogni parlante abbia una sua varietà di riferimento. Torneremmo
quindi a una quadripartizione:
1. Italiano medio standard, o dell’uso comune.
2. Italiano popolare regionale.
3. Dialetto italianizzato.
4. Dialetto locale rustico.

Fra queste, una categoria relativamente nuova e particolarmente complessa è quella del
dialetto italianizzato, cioè quella forma di dialetto che presenta molti tratti – soprattutto
lessicali – derivanti dal ruolo preponderante che ha oramai assunto l’italiano negli ultimi

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decenni. Si tratta di una varietà tanto diafasica, in quanto propria di situazioni comunicative
meno intime, quanto diatopica, data la sua riconducibilità alla dimensione della grande
urbanità, quanto diastratica, perché legata a ceti medi o medio-bassi.
A questo proposito, vi riconosciamo dei tratti peculiari: il dialetto italianizzato presenta
struttura testuale italiana e italianismi lessicali, ma conserva elementi fonetici e morfologici
tipicamente dialettali. Quello lessicale, in effetti, è il punto più frequente di indebolimento del
dialetto; e ciò è facilmente comprensibile se prendiamo in considerazione il fatto che si tratta
dell’ambito linguistico più direttamente connesso alla realtà. È ovvio, quindi, che l’italiano,
in quanto lingua standard progredita di pari passo con lo sviluppo nazionale, abbia un
patrimonio lessicale che più di quello dialettale può rendere i referenti linguistici della
contemporaneità globale, spesso molto lontani dal campo semantico che il dialetto
tradizionalmente veicola.
Viceversa, l’italiano dialettizzato si caratterizza per un lessico prevalentemente dialettale, che
viene adattato soltanto morfologicamente alla lingua nazionale.

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 1 – Panorama sincronico dell’italiano contemporaneo

Lezione 6
Caratteri e tipologia dell’italiano

Come ogni altra lingua l’italiano presenta dei caratteri che lo distinguono dalle altre lingue del
mondo in generale e dalle altre lingue del dominio romanzo in particolare. Queste
caratteristiche sussistono ovviamente su più livelli: dal lessicale al fonetico, dal morfologico
al sintattico.

In campo fonetico è necessario notare il carattere fondamentale che le vocali hanno nella
strutturazione sillabica e la loro presenza grosso modo costante a fine parola. Proprio questa
caratteristica sonorità della lingua ha contribuito alla fama dell’Italia come paese del bel canto
e dell’Italiano come lingua musicale per eccellenza.
A ciò ha in realtà contribuito anche la natura mobile dell’accento di intensità, posto
prevalentemente sulla penultima sillaba, esso permette di dare alla frase un certo ritmo,
assente in molte altre lingue.

Dal punto di vista morfologico l’italiano è decisamente di tipo fusivo: si tratta ovvero di una
lingua dotata di flessione, in cui ogni morfema veicola più informazioni grammaticali. La
flessione dell’italiano è prevalentemente esterna, perché opera mediante desinenze: ad
esempio, la desinenza verbale in gioch-iamo trasmette l’informazione grammaticale di
persona (prima persona, in questo caso) e numero (plurale), così come la terminazione di
uccellin-o dà al ricevente tanto l’informazione di genere maschile, quanto quella di numero
singolare. Non mancano però residui di flessione interna, realizzata mediante apofonia; è il
caso dell’opposizione faccio vs feci, in cui la variazione vocalica indicava cambiamento di
tempo verbale. Tanto la flessione esterna quanto quella interna sono fenomeni della
morfologia italiana provenienti dal latino, nel quale una terminazione nominale era in grado
di veicolare non solo genere e numero, ma anche il caso (funzione sintattica); ed è più in
generale una caratteristica comune a grosso modo tutte le lingue indoeuropee. A differenza
del latino, invece, l’italiano è una lingua fusiva analitica e non sintetica, data la sua capacità
di esprimere relazioni grammaticali anche attraverso la sequenza di più parole: ad esempio

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mentre il lat. ha soltanto VENI, l’italiano ha affiancato a venni la forma analitica del passato
prossimo sono venuto.

Sempre dalla sua lingua madre l’italiano ha ereditato la possibilità dell’alterazione dei
sostantivi attraverso l’aggiunta di un suffisso che esprima concetti di grandezza, piccolezza o
qualità estetico-affettive di un referente (es. un cagnolino, un donnone).
Altra peculiarità è la composizione, cioè l’unione di parole (aggettivi, sostantivi, verbi,
preposizioni), come meccanismo per la formazione di nuove parole (es. pescecane,
apribottiglia).
La lingua italiana è, inoltre, una lingua pro-drop, cioè una di quelle che non necessita dell’uso
del pronome per la comprensione della frase, e questo ovviamente perché le terminazioni
verbali hanno mantenuto la caratteristica latina della differenza fra una persona e l’altra.
(mangi-o è già così distinguibile da mangi-a, pur senza l’uso del pronome “io”, cosa non vera
invece per il francese je mang-e vs tu mang-es vs il mang-e).

Sul piano sintattico l’italiano è una lingua SVO, cioè con ordine prevalente soggetto-verbo-
oggetto. Ne deriva che è proprio il soggetto ad essere l’elemento marcato della frase, e quello
che allo stesso tempo, nella frase non marcata, rappresenta il tema, ovvero ciò di cui si parla,
mentre il rema è rappresentato da verbo o oggetto.
Sempre per quanto concerne la tipologia sintattica la nostra può essere definita come una
lingua nominativo-accusativa, poiché tratta l’oggetto diretto dei verbi transitivi in maniera
diversa dal soggetto dei verbi intransitivi e dall’agente dei verbi transitivi (entrambi chiamati
soggetto).

Come in molte altre lingue romanze, nella nostra la sequenza determinato + determinante è
prevalente rispetto a quella determinante + determinato, a sua volta largamente usata in greco,
latino e lingue germaniche.
L’italiano è poi una lingua esocentrica e non endocentrica: ciò implica che la frase, pur
essendo sintatticamente costruita intorno al verbo, non ha nel verbo il proprio nucleo
semantico, dato che in italiano la specificità lessicale è legata più al nome che al predicato,
contrariamente a quanto accade nelle lingue germaniche.
Anche rispetto alle altre lingue romanze, la nostra lingua si contraddistingue in generale per
una certa complessità morfosintattica e per il ruolo fondamentale giocato dall’intonazione,
che contribuisce, insieme alla distintività delle terminazioni, alla relativa libertà dell’ordine

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delle parole all’interno della frase, il quale permette anche la collocazione del soggetto in
posizione eccezionalmente postverbale (es. è venuta Maria).

La polimorfia
Come abbiamo visto, l’evoluzione dell’italiano è rimasta a lungo legata al fatto che è stata a
lungo una lingua di scrittura letteraria. Questa prevedeva una certa distinzione tra prosa e
poesia, anche e soprattutto dal punto di vista lessicale. Proprio il lessico è stato interessato a
lungo da una certa polimorfia, che prevedeva forme diverse della stessa parola, la cui
coesistenza non poteva che giovare ai letterati, che necessitavano di un vasto repertorio per la
composizione testuale. Molte di queste polimorfie opponevano forme di origine comune
sviluppatesi diversamente a livello fonetico, a seconda della zona di provenienza. Possiamo a
tal proposito fare l’esempio bono vs buono (< lat. BONUM) o core vs cuore (< lat. COREM),
forme equivalenti dal punto di vista del significato, ma di diversa evoluzione; le prime non
dittongate legate alla antica realtà fiorentina, le seconde dittongate riconducibili alle altre
parlate toscane.
Con la diffusione dell’italiano nella nazione nel corso del XX secolo si è avvertita una
comprensibile necessità di ridurre la polimorfia abbandonando in primis gli arcaismi poetici.
Si trattava di un processo di semplificazione sul quale già Alessandro Manzoni aveva
riflettuto, approdando alla decisione della cosiddetta “risciacquatura in Arno”, mediante la
quale aveva eliminato dalla sua opera le espressioni meno riconducibili al toscano a lui
contemporaneo.
La polimorfia, però, non è stata totalmente eliminata dalla nostra lingua, basti prendere in
considerazione le forme parallele tra // fra, ci // vi o evolse // evolvé // evolvette, mentre alcune
forme poetiche si sono imposte su quelle di uso comune fiorentino, come nel caso di faccio,
il quale ha soppiantato il diatopicamente marcato fo.
Anche gli allotropi sono delle polimorfie, ma oramai semanticamente distanti l’una dall’altra.
Il processo di semplificazione è stato poi affiancato da una vasta normativizzazione, efficace
grazie all’opera della scuola pubblica. In esso rientra, ad esempio, tutta la regolamentazione
ortografica. Per quanto riguarda i monosillabi, sono stati mantenuti soltanto gli accenti che
fossero disambiguanti, cioè avessere valore distintivo tra omografi (da vs dà).

Standardizzazioni
Dopo quella operata dai grammatici cinquecenteschi, quindi, una seconda standardizzazione
è stata promossa dalle istituzioni per diversi canali: il principale la scuola pubblica, cui poi va

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associata la televisione prima della sua liberalizzazione. Oggi assistiamo a un nuovo processo
di standardizzazione, che, a differenza dei precedenti non sembra essere pilotato da un qualche
organo superiore, bensì ci appare piuttosto spontaneo. E quando ci riferiamo allo standard,
intendiamo con tale parola l’uso della lingua che tutta la comunità di parlanti legittima come
corretto, dunque tendenzialemente, nel nostro caso, l’italiano delle persone istruite. È ben
ovvio che si tratta di un concetto abbastanza astratto già in rapporto a qualsiasi lingua, ma
ancora più distante dalla realtà se prendiamo in esame il parlato italiano, che non può
minimamente e quasi in nessun caso essere riconducibile a uno standard generale, cosa invece
abbastanza verificabile nel caso di lingue come il francese, ad esempio. Questa assenza dello
standard parlato è vera in particolar modo sul piano fonetico – basti guardare alle varianti di
realizzazione delle sette vocali del fiorentino.

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 2 – Lessicologia, fonetica e fonologia

Lezione 1
La lessicologia semantica e il Vocabolario di base dell’italiano

Lessicologia semantica
Il campo lessicale è quello che ha maggiormente a che vedere con i referenti, ovvero con la
realtà extralinguistica; ne deriva un rapporto molto stretto tra lessicologia (studio dei lessemi)
e semantica (studio dei segni). In italiano, come in ogni altra lingua, il rapporto signum-
designatum è assolutamente arbitrario e tradisce la capacità che ogni lingua, in quanto
prodotto culturale, ha di esprimere una determinata rappresentazione e categorizzazione del
mondo. Questa relatività del lessico, cioè la sua stessa arbitrarietà, è dimostrata da semplici
confronti: mentre l’italiano, ad esempio, usa dita come segno del referente “dita delle mani e
dei piedi”, non è lo stesso per l’inglese, che distingue il lessema fingers “dita delle mani” dal
lessema toes “dita dei piedi”.
I lessemi sono solitamente polisemantici; ciò implica che il loro significato – per processi
aggiuntivi rispetto al significato originario, quali metonimia, metafora ecc. – sia diverso in
relazione al contesto in cui vengano inseriti, ma esiste comunque un centro semantico comune
a tutte le varianti. Molto spesso la formazione di significati secondari porta alla nascita di
termini percepiti come omonimi, pur non essendolo da un punto di vista etimologico; è questo
il caso di penna “piuma d’uccello” e di penna “strumento grafico a inchiostro”, benché il
secondo significato derivi dal primo. Un’omonimia, cioè la convergenza grafico-fonetica di
due lessemi etimologicamente e semanticamente distinti, è quella di lama “animale andino”
vs lama “parte tagliente di un’arma bianca”. La sinonimia è il processo inverso, in cui alla
convergenza semantica si oppone la divergenza grafico-fonetica, come nel caso di faccia-viso.
Ma, mentre l’omonimia pura esiste, non esiste la sinonimia pura (faccia diverge da viso per
diafasia). Nell’antonimia dei lessemi aventi significato opposto può essere bipolare (uomo-
donna), graduabile (fra caldo e freddo vi sono altri gradi espressi tramite altre forme
aggettivali), lessicale (quando oppone etimi diversi, come bello-brutto) e grammaticale
(quando l’uno è derivato dall’altro, come normale-anormale). Vanno poi considerati i rapporti
di iperonimia e iponimia (edificio è iperonimo di castello, ma è iponimo di immobile).
Una distinzione fondamentale all’interno dei lessemi è quella tra parole semanticamente

28
piene, cioè che hanno dei referenti – che essi siano astratti o concreti –, e parole
semanticamente vuote, che indicano prevalentemente relazioni tra referenti e sono anche dette
grammaticale. Mentre le prime, nel cui gruppo rientrano aggettivi, nomi, verbi e alcuni
avverbi, costituiscono una classe aperta in cui possono nascere sempre nuovi elementi, le
seconde rappresentano una classe chiusa, in cui le innovazioni sono lente e frutto del processo
di grammaticalizzazione.
Nel lessico ai neologismi (parole nuove) si oppongono gli arcaismi (parole desuete). Altri
canali di ampliamento del lessico sono rappresentati dai processi di prestito, cioè di parole
provenienti da altre lingue, nel ricorso alle quali ha un ruolo essenziale il prestigio che una
determinata lingua ha agli occhi della comunità in questione. Il prestito può essere di necessità
o di lusso, a seconda rispettivamente che esso rappresenti un segno il cui designatum non era
altrimenti indicato nella lingua di arrivo o che affianchi un segno endogeno.

Vocabolario di base e vocabolario comune di De Mauro


Il vocabolario, cioè un campo ristretto del lessico, comprende termini usati quasi sempre in
una determinata accezione, legata all’ambito di appartenenza. I vocabolari settoriali, cioè usati
in un determinato ambito (tecnico, scientifico, artistico ecc.), comprendono termini usati quasi
sempre in una determinata accezione, legata all’ambito di appartenenza. I vocabolari tecnico-
scientifici, in particolare, hanno lessemi puramente denotativi e mai connotativi, dato che non
sono interessati dall’espressione della soggettività. tecnico-scientifici hanno lessemi
puramente denotativi e mai connotativi, dato che non sono interessati dall’espressione della
soggettività.
Ovviamente il lessico dell’italiano, come quello di ogni altra lingua, è troppo vasto per essere
padroneggiato nella sua interezza tanto passivamente quanto attivamente da un italofono
qualsiasi. Perfino i dizionari non sono in grado di contenere se non una parte del lessico di
una lingua; tra i più ampi e recenti è il GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso diretto
da Tullio De Mauro e pubblicato nel 1999). Proprio De Mauro, infatti, indicò tramite la sua
ricerca un settore lessicale da lui stesso definito Vocabolario di base e comprendente circa
7.000 lessemi che rappresentano la base di ogni testo, scritto o parlato che sia, della nostra
lingua.
Il lessico ivi elencato è suddiviso in tre fasce:
1. Lessico fondamentale, con circa 2000 lessemi: le parole semanticamente vuote (un, a,
perché, ma ecc.), e quelle semanticamente riconducibili ai bisogni immediati: verbi
usati costantemente (essere, avere, andare ecc.), sostantivi (casa, mano, cane ecc.),

29
aggettivi (bello, brutto, forte ecc.), avverbi (subito, così ecc.).
2. Lessico di alto uso, con circa 2.500-3.000 lessemi: parole usate di frequente tanto in
testi parlati quanto in testi scritti e conosciute da chiunque sia mediamente istruito
(mirare, mento, miracoloso, adolescente, navigare, consumo, padano, regionale,
veleno, ostacolo ecc.).
3. Lessico di alta disponibilità, con circa 2.300 lessemi: parole legate a referenti della
quotidianità e conosciuti da tutti i parlanti, benché non vengano impiegati
frequentissimamente (forchetta, abete, abbronzare, giraffa, pentola, acciuga, bovino,
carino, digiunare, foca, spiedo, ipsilon, reclamo ecc.).
In generale, è possibile affermare che, mentre i primi due sottogruppi (lessico fondamentale e
di alto uso) contengono lessemi antichissimi perché propri già dell’italiano del XIV secolo e
molti derivativi del latino, il lessico di alta disponibilità è decisamente più recente nel suo
complesso, in quanto rimandante a designata introdotti in tempi più moderni (basti pensare a
dentifricio).
Questi tre sottogruppi sono poi da una entità lessicale maggiore, quella del vocabolario
comune, comprendente di per sé altri 45.000 lessemi, noti soprattutto ai parlanti di istruzione
medio-alta. La somma di vocabolario di base e di vocabolario comune è definita vocabolario
corrente e consta pertanto di circa 50.000 lessemi. Oltre a questi si estende un vastissimo
patrimonio lessicale poco noto o poco usato, semplicemente perché proprio di testi
prevalentemente scritti e di natura letteraria o settoriale soprattutto tecnico-scientifica.
Di quest’ultimo gruppo fa parte anche il gergo, il quale è rappresentato da lessemi usati da
certi gruppi sociali, solitamente allo scopo di non farsi comprendere da individui estranei al
gruppo e per accentuare l’appartenenza stessa al gruppo.
Altra categoria ivi presente è quella dei regionalismi. Questi non vanno confusi con i
dialettalismi che abbiamo trattato in una precedente lezione. Infatti, mentre i dialettalismi sono
lessemi dialettali che, adattati o no, sono entrati nell’uso del neostandard su scala nazionale
(affitto, ad esempio), i regionalismi sono termini che, o migrati dal dialetto all’italiano (ciriola,
tipo di pane romano) o migrati dall’italiano nazionale all’italiano standard (minestra, “primo
piatto” a Bologna), in cui assumono accezioni differenti, sono lessemi esclusivi della
dimensione regionale, dunque diatopicamente marcati. I geosinonimi cui abbiamo già
accennato sono proprio una tipologia di regionalismi. I geo omonimi sono il loro opposto: si
tratta di regionalismi che convergono formalmente ma hanno significato completamente
differente (attaccapanni “gruccia” in alcune regioni vs “oggetto al quale appendere cappelli e
cappotti”) e a volte anche etimologia divergente (lea, “viale” in Piemonte < fr. allée vs

30
“melma” in Veneto < lat. LAETAMEN).

Classificazione del lessico italiano su base etimologica


Se al criterio sincronico della frequenza d’uso sostituiamo quello diacronico dell’etimologia,
i lessemi dell’italiano possono essere ripartiti come di seguito: parole di derivazione latina
pura o filtrata da altre lingue (52,2 %), prestiti stranieri (11,3 %), neoformazioni, deonomastici
e lessemi espressivi endogeni (34,3 %1).

Parole di origine latina


I lessemi di derivazione latina vanno innanzitutto suddivisi in parole di tradizione popolare e
parole di tradizione colta, detti anche latinismi o cultismi. Infatti, mentre le parole popolari
sono evolute naturalmente nel corso dei secoli da una base latina attraverso il latino volgare,
distanziandosi dal lessema d’origine tanto foneticamente quanto semanticamente, i cultismi
sono parole di inserimento dotto, e quindi artificiale, nel sistema linguistico, cioè adattamenti
di voci del latino classico, cui somigliano tanto foneticamente quanto semanticamente. Così
per tradizione popolare ci è giunto cavallo (distante foneticamente e semanticamente dal
classico CABALLUM, “cavallo da lavoro”), mentre è un cultismo usiamo ingrediente (simile
a INGREDIENTEM, “che entra”). La prova di questa differenza sostanziale risulta ancora più
evidente nei confronti tra cultismi e popolarismi aventi radice latina comune, gli allotropi. È
il caso di cosa, “oggetto” < CAUSAM per tradizione popolare vs causa “motivazione
determinante” < CAUSAM per tradizione dotta; in questo caso la semantica diverge e il
dittongo latino AU, già semplificato in O nel latino volgare, si mantiene invece per cultismo.
Questi lessemi, pertanto, vengono definiti allotropi.
Ogni qualvolta a degli allotropi identici per semantica si affianchino delle voci dotte di
derivazione greca, si assiste a un fenomeno di ricco suppletivismo, in cui ogni forma è in un
certo senso supplente dell’altra (come per cavallo < CABALLUM/ equino < EQUUM/ ippico
< ἵππος). Un esempio di base latina filtrata da una lingua straniera è il frequentissimo vacanza
< fr. vacance < VACANTEM.

I neologismi
Questi nuovi lessemi, spesso nati in una lingua per indicare nuovi concetti, sono solitamente
costruiti a partire da parole già esistenti. Il processo può avvenire tramite uno dei tre

1
I dati sono tratti da A. M. Thornton, C. Iacobini, C. Burani, BDVDB. Una base di dati per il Vocabolario di
base della lingua italiana, Roma, Istituto di Psicologia del CNR, 1994.

31
meccanismi di formazione di parola (neologismi combinatori, come impossibilitare <
impossibile) o per associazione di un nuovo significato a una parola già esistente (neologismi
semantici, come scaricare “salvare in un database un elemento sul web” < scaricare
“rimuovere la merce da un mezzo di trasporto”).

32
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 2 – Lessicologia, fonetica e fonologia

Lezione 2
Lessicologia del contatto

La linguistica del contatto


Una delle categorie etimologiche che abbiamo già elencato è quella dei prestiti: questi lessemi
fanno in realtà parte di una ben più grande famiglia, che è oggetto di studio di una branca della
linguistica, detta linguistica del contatto (contact linguistics) o interlinguistica. In questo
ambito è notevole lo studio condotto da Raffaella Bombi proprio in merito alla linguistica di
contatto tra inglese e italiano.2
Quello del contatto è un settore degli studi linguistici riguardante i fenomeni legati agli influssi
tra le lingue e che studia le condizioni in cui si verificano i contatti interlinguistici, oltre a
indagare su quali siano le loro conseguenze. È un settore della linguistica in realtà abbastanza
recente, la cui metodologia è stata sviluppata a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso. In
effetti, benché le lingue si siano sempre reciprocamente influenzate (basti pensare al nostro
già medievale mangiare < afr. mangier), ma oggigiorno, grazie allo scambio di contenuti ed
elementi culturali massicciamente garantito dai mezzi di comunicazione e alla conseguente
globalizzazione linguistica, il processo di migrazione delle parole da un sistema linguistico a
un altro non soltanto ha riguardato un numero di lessemi sempre più grande, ma si è
decisamente accelerato. Come nelle altre lingue, i fenomeni della linguistica del contatto
permettono non soltanto di arricchire il lessico italiano, ma anche a volte di ravvivarlo
interagendo con elementi patrimoniali. Del resto, una lingua è tanto più viva quanto più è in
grado di stare al passo con i tempi e con i loro referenti, altrimenti sarebbe sempre più incapace
di descrivere i cambiamenti endocomunitari. Il lessico si ravviva sempre o per via endogena
(come vedremo più nel dettaglio quando tratteremo i meccanismi di formazione di parola) o
per via esogena, a partire da una parola alloglotta. La fortuna di un neologismo esogeno –
come di uno endogeno, del resto – è direttamente proporzionale alla sua capacità di soddisfare
le esigenze espressive e comunicative dei parlanti. I neologismi esogeni provengono


2
R. Bombi, La linguistica del contatto. Tipologie di anglicismi nell’italiano contemporaneo e riflessi
metalinguistici, Il Calamo, Roma, 2009.

33
prevalentemente – ma non sempre – da lingue di prestigio, cioè internazionalmente tenute in
particolare considerazione, per ragioni politico-economiche e culturali. Se rispetto alla
comunità italofona il francese era la lingua di prestigio nell’ottocento, a partire dall’imporsi
della leadership statunitense, questo è stato sostituito dall’inglese. Le condizioni del contatto
linguistico sono le seguenti:
1. Presenza simultanea di due o più di due sistemi linguistici.
2. Competenza linguistica di una data comunità di parlanti in qualche misura rispetto alla
lingua straniera.
Si genera pertanto una interferenza linguistica. Essa necessita di tre fattori: un parlante
bilingue minimo, una lingua modello, cioè quella che fornisce i modelli linguistici da
imitare, e la lingua replica, sistema linguistico che imita il modello straniero. Inoltre,
l’interferenza avviene in due fasi:
1. Un parlante dotato di un livello minimo di bilinguismo, in un atto di parole in una lingua
A, inserisce una o più parole di una lingua B. Ne derivano due possibilità per la parola
alloglotta: o esce subito dall’uso concludendo l’interferenza e rientrando nel fenomeno
di occasionalismo linguistico, che del resto può riguardare anche formazioni d’impiego
una tantum endogene (basti pensare a certi lessemi ideati dai giornalisti), o entra
gradualmente nella lingua A.
2. Nel caso in cui si verifichi quest’ultima opzione, la parola alloglotta inizia a essere
sempre più presente negli enunciati di altri parlanti. Il suo ingresso definitivo viene poi
solitamente ufficializzato dalla lessicografia della lingua A.
L’inserimento di una parola alloglotta in un dato sistema linguistico non è dunque
un’accettazione passiva, come dimostrano i fenomeni di adattamento. Le tipologie della
linguistica del contatto sono due: il prestito linguistico e il calco.

Prestiti linguistici o forestierismi


Si tratta di un fenomeno consistente nell’imitazione di un modello alloglotto tanto dal punto
di vista del significante quanto da quello del significato. Ad esempio, dall’inglese sono entrati
in italiano i lessemi bar, mouse, file; dal tedesco blitz; dal francese garage, beige; dal russo
glasnost “trasparenza politica”, intellighenzia “classe intellettuale guida di uno Stato”, trojka
“gruppo dirigente a tre; nell’UE Commissione europea, BCE e FMI”, nomenklatura. In tutti i
casi sopraelencati il prestito è avvenuto senza adattamento (si tratta della tendenza generale
oggi, epoca in cui siamo molto più esposti che in passato a enunciati in lingua straniera), cioè
senza l’aggiunta di una patina morfologica italiana, benché, cosa importante da precisare, tutti

34
i prestiti subiscano necessariamente un adattamento fonetico, anche minimo. A prova di ciò
sta, ad esempio, la resa italianeggiante dei prestiti dall’inglese, le cui distanti vocali sono state
ricondotte al vocalismo italiano, come in last minute (ing. USA [læst ˈmɪnɪt] > it. [last
‘minut]). I prestiti adattati morfologicamente, invece, sono quelli che non vengono più
percepiti come di origine alloglotta; è il caso di treno < fr. train.
I prestiti possono essere tali anche solo in riferimento al significato: in questo caso sono
definiti prestiti semantici. In questo tipo di processo un significato nuovo, accezione della
parola alloglotta, viene associato a un lessema formalmente simile (parliamo allora di prestiti
semantici omonimici, come ing. opportunity “occasione” > opportunità “occasione”,
formalmente identico al più antico opportunità “qualità di ciò che è opportuno, conveniente”).
Se volessimo fare una classifica sulla base dell’origine e dell’epoca d’ingresso dei prestiti
entrati nella nostra lingua potremmo distinguere:
1. I grecismi antichi, già presenti nel latino volgare, come idiota o filosofia.
2. I germanismi, risalenti all’influsso delle popolazioni germaniche scese in Italia dopo
il crollo dell’Impero romano e pertanto entrati prima nel latino volgare e poi nei suoi
discendenti italoromanzi. Fra questi alcuni hanno come referenti parti del corpo (anca,
guancia, milza, schiena), oggetti della dimensione domestica (banco, balcone, fiasco,
tappo), parole come guerra e astio, colori (bianco, biondo), verbi ad alta frequenza
(guardare, rubare, scherzare) e i suffissi –ingo e –ardo.
3. Gli ebraismi, sedimentatisi durante il processo di cristianizzazione e inerenti pertanto
alla sfera liturgica (amen, alleluja).
4. I bizantinismi o grecismi medievali, come kyrie, cripta, anguria, basilico, indivia,
lastrico, ecc.
5. Gli arabismi, dovuti al contatto con il mondo arabo fin dal Medioevo. Fra questi
ritroviamo lessemi legati al commercio (facchino, ragazzo, magazzino) o a referenti
di origine orientale e ottenuti tramite gli arabi (albicocca, melanzana, carciofo),
termini dell’aritmetica (zero, algebra). Sempre dal mondo islamico derivano più
recentemente parole come l’arabo intifada e il persiano chador.
6. I turchismi, legati al lungo periodo durante il quale i turchi hanno sostituito gli arabi
come partner commerciali delle popolazioni d’Italia. Fra questi divano, caffè, yogurt.
7. I gallicismi di origine oitanica od occitanica, come viaggiare e mangiare. Il prestigio
del francese nel XVIII e XIX secolo ha dato origine a rondeau, enclave, parquet,
lingerie, menu, peluche, profiterole, gaffe, fuseaux, stage ecc.
8. Gli ispanismi, antichi (quintale, flotta, etichetta, regalo) o moderni (golpe,

35
desaparecido, embargo, di origine ispanoamericana).
9. I lusitanismi, come autodafé o marmellata.
10. I tedeschismi, come strudel, Mitteleuropa, hinterland, kitsch, blitz ecc.
11. I nipponismi, mediati da francese prima e inglese poi (judo, karate, sudoku, origami,
kamikaze, harakiri ecc.).
12. Gli anglicismi sono in numero sempre crescente e si sono imposti fin dal principio del
XX secolo per ragioni commerciali, ma anche forse per la loro brevità e iconicità
(welfare, election day, exit poll, bipartisan, browser, computer, e-mail, modem, server,
default, pole position, talk show ecc.).

I calchi
Il calco, come suggerisce icasticamente il termine stesso, è un fenomeno di contatto
consistente nell’imitazione di un modello semantico alloglotto per riprodurre il cui
significante si ricorre a materiale linguistico patrimoniale. Vi sono diversi generi di calcoli:
a. I calchi semantici sono un caso di polisemia indotta dal modello alloglotto, cioè di
ampliamento della funzione semantica rispetto al lessema della lingua modello. In essi
l’unità lessicale della lingua replica acquisisce un tratto supplementare prima esclusivo
del modello ispiratore. Il parlante istituisce un rapporto semantico a prescindere
dall’affinità formale, ma è indispensabile che il campo semantico sia comune. Ad
esempio, falco nel senso di “sostenitore di una linea drastica e intransigente” è calco
di hawk; oppure stella nel senso di “personaggio famoso” è calco di star. In entrambi
questi casi, infatti, l’accezione secondaria che è stata ripresa dall’inglese è comunque
riconducibile al significato primario comune a inglese e italiano (star è
metaforicamente anche “persona famosa”, ma è in primis “astro”, esattamente come
it. stella).
b. I calchi strutturali, derivazionali o composizionali che siano, nascono quando il
parlante riproduce sia la motivazione formale che quella semantica del modello, a
prescindere dall’esistenza della base ereditaria. Ma la lingua di arrivo utilizza del
materiale lessicale proprio (fuorilegge < outlaw).
c. I calchi strutturali di ricomposizione sono voci intermedie tra calco semantico e
strutturale: delle ricomposizioni che presuppongono un calco di struttura. Il nuovo
elemento nasce in maniera completamente autonoma rispetto all’omofono già
esistente, e coincide con questo dal punto di vista formale, come nel caso di tavola
rotonda “incontro-dibattito” < round table, con ricomposizione sull’omofono

36
preesistente tavola rotonda “tavolo di riunione di Artù e dei suoi cavalieri”.

37
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 2 – Lessicologia, fonetica e fonologia

Lezione 3
L’onomastica

Il settore lessicale del quale affrontiamo l’analisi in questa lezione si è costruito, come in ogni
altra lingua, nel corso dei secoli e da altre lingue è stato evidentemente influenzato.
Trattandosi di uno dei campi lessicali più legati al contatto culturale è ben comprensibile che
esso possa anche essere usato come testimonianza dei contatti che la penisola italiana ha avuto
con disparate civiltà del bacino del Mediterraneo, e non soltanto. Ricordiamo che, oltre alla
base latina e prelatina, hanno giocato un ruolo fondamentale nel corso del tempo prima la
componente ebraica, base della tradizione cristiana, insieme con quella greca, che ha
codificato il lessico del cristianesimo medievale, e poi le varie lingue di contatto, come la
francese, la spagnola ecc.
Ogni nome, a qualsiasi referente esso rimandi, ha una motivazione di tipo semantico, che in
molti casi ha perso progressivamente trasparenza con il passare del tempo, si tratta ovvero di
un nome comune – o di più nomi comuni, o di nomi comuni associati a determinanti e
preposizioni – diventati nomi propri. Il caso di Palermo, come del resto quello della stragrande
maggioranza dei nomi di luogo, è ben esemplificativo: benché nessun parlante italiano
contemporaneo sia in grado di decifrarlo, a meno che non ne abbia conosciuto l’etimologia,
esso è trasparente nella sua origine greca παν-όρµος “tutto porto”. Similmente è per il nome
Claudio (< lat. CLAUDIUS “membro della gens Claudia” < CLAUDUS “zoppo”). La perdita
della trasparenza semantica è del resto riconducibile al fatto che i nomi propri hanno funzione
esclusivamente individuante, servono cioè a indicare qualcuno o qualcosa in particolare, e non
un concetto o una categoria.
Un caso particolare è quello dei nomi propri che fungono da base per nuovi nomi comuni e
ciò può avvenire per diversi processi retorici:
1. L’antonomasia, come nel caso di Cesare “il personaggio storico Caio Giulio Cesare”
> un cesare “imperatore”; di Perpetua “domestica di Don Abbondio” > una perpetua
“domestica di un parroco”; di Marcantonio > un marcantonio “uomo robusto”.
2. L’antifrasi, come in Maccabeo “membro della celebre famiglia giudaica” > maccabeo
“tanghero”.

38
3. La metonimia con ellissi, soprattutto nel caso di nomi di luogo passati a indicare
comunemente i prodotti del luogo stesso e, eventualmente, gli oggetti realizzati con
tali prodotti. Es. marsala, in origine “vino di Marsala”, oppure lavagna “tavola
verticale per annotazione” < lavagna “pietra nera prodotta a Lavagna”.
4. Il processo di andata e ritorno: dal nome comune al proprio per ritornare a un nome
comune, come per margherita “pizza pomodoro e mozzarella” < Margherita, regina
d’Italia < margherita, tipo di fiore.

La toponomastica è un settore particolarmente interessante che comprende diverse


ipocategorie in relazione al genere di luogo di cui si sta parlando. Vi sono pertanto i poleonimi
(nomi di città, come Napoli o Volterra), i coronimi (nomi di regione, come Brianza), gli
idronimi (nomi di fiumi e laghi, come Arno), i talassonimi (nomi di mari, come Tirreno), gli
oronimi (nomi di monti, come Nebrodi), gli odonimi (nomi di strade e piazze, come Via
Appia), gli agiotoponimi (nomi derivati da santi), zootoponimi (nomi derivanti da animali,
come Caprera), fitotoponimi (nomi derivanti da piante).
Si tratta di un campo lessicale generalmente abbastanza stabile, cioè restio ai mutamenti,
sebbene questi siano stati operati in qualche misura, in particolar modo dopo il 1861 – basti
prendere in considerazione tutti quei nomi di corsi cittadini che sono stati variamente
ribattezzati Corso Vittorio Emanuele o via Roma) – e sotto il fascismo, che ripristinò, tra gli
altri la versione latina di Girgenti, ufficialmente di nuovo Agrigento soltanto a partire dal
1926. A questo proposito risulta interessante il caso di conversione toponomastica già operato
dai latini, che dopo la celebre battaglia cambiarono il nome prelatino MALEVENTUM, non
più etimologicamente trasparente e per questo erroneamente percepito come negativo, in
BENEVENTUM.
La derivazione dal latino dei nomi ha seguito tendenzialmente la stessa evoluzione fonetica
del lessico generico, con oscillazione della base d’origine: accusativa nella maggior parte dei
casi, o più raramente nominativa.
I nomi di origine medievale sono già più trasparenti per noi parlanti di oggi; è il caso di Torre
del Greco o Castelbuono, come della stragrande maggioranza degli agiotoponimi.
Molti dei toponimi, per finire, si formano con l’ausilio di un elemento suffissale, come Lin-
ate.

L’antroponimia è il settore lessicale storicamente più passibile di influssi esterni alla


tradizione linguistica e riconducibili ad adstrari culturali di diversa origine o a determinati

39
riferimenti religiosi. La fedeltà alla tradizione familiare, già da prima non sempre osservata, è
stata parzialmente abbandonata in tempi più recenti, durante i quali si è assistito a una sorta
di rivoluzione onomastica, dovuta principalmente ai mezzi globalizzati di comunicazione, che
hanno spinto gli italiani all’adozione di nomi esotici. La dimensione di tale rivoluzione è ad
ogni modo da ridimensionare se consideriamo che l’antroponomastica ha sempre subito delle
variazioni cicliche con successioni di popolarità e decadenza dei nomi.
I nomi maschili italiani terminano prevalentemente in –o (Giorgio), ma esistono anche nomi
in maschili in –a (Luca). Sappiamo bene come in realtà quest’ultima desinenza sia
abbondantemente associata ai nomi femminili (Martina, Virginia), ma esistono anche
femminili in –e (Idele, Irene), mentre pochissimi sono quelli in –i o –o (Naomi, Consuelo).
Frequente è poi la mozione, ovvero il passaggio da un genere all’altro tramite sostituzione di
desinenza (Giorgio > Giorgia, Giovanni > Giovanna, o Nicola > Nicoletta).
La base etimologica è varia: vi sono nomi latini (Cesare), greci antichi (Alessandro), ebraici
(Giuseppe), greci medievali (Stefano), germanici (Aldo), francesi (Luigi), spagnoli (Alvaro) e
ultimamente soprattutto anglosassoni (Christian). Molti antroponimi sono denominali
(Margherita) o deaggettivali (Pio).
Come il resto del lessico italiano, anche i nomi propri di persona possono essere interessati da
composizione, cioè giustapposizione di più nomi, o da univerbazione, quasi esclusivamente
dei maschili come nel caso di Michelangelo < Michele-Angelo e raramente dei femminili,
come nel caso di Rosanna < Rosa-Anna. Essi sono anche suscettibili di alterazione, processo
distintivo dell’italiano, sebbene oggi venga negativamente percepita.

Gli ipocoristici testimoniano della proprietà dei nomi propri italiani di essere interessati dal
processo di riduzione. Questo fenomeno determina abitualmente la caduta delle sillabe
pretoniche, mantenendo soltanto la parte finale del nome – è questo il caso di Toni (Antonio)
– o del suo alterato, come in Nino (Antonio). Sfuggono a questa tipologia tutta una serie di
ipocoristici che per ragioni legate al linguaggio tipicamente infantile variano la consonante
d’inizio, come Gigi da Luigi, o stravolgono foneticamente il nome d’origine come Mimmo per
Domenico. Quest’ultimo processo può avvenire anche per influsso della parlata locale, come
in Turi per Salvatore. Oggi la riduzione del nome preferisce spesso gli accorciamenti
bisillabici (Anto per Antonella), anche per influenza dell’inglese (Tom per Tommaso), al quale
del resto sono legati gran parte degli ipocoristici in –i/-y, come Marti per Martina.

Anche i soprannomi sono molto diffusi in italiano, tento da aver storicamente assunto grande

40
rilevanza culturale in determinati contesti. Del resto moltissimi cognomi derivano da tale tipo
di formazioni, che si modulano sulla base della percezione dei comportamenti, dei difetti,
degli eventi che hanno caratterizzato l’esistenza della persona o della sua somiglianza con un
personaggio noto ecc. Molti soprannomi nascono per processo antifrastico, come nel caso del
romanesco Morè (Moretto), affibbiato cinicamente ad albini. Molti pseudonimi inoltre
derivano da soprannomi.

I cognomi italiani, molto numerosi, hanno un ovvio e stretto rapporto con i dialetti
italoromanzi e derivano spesso dal nome, dall’ipocoristico, dal soprannome o dal mestiere di
un capofamiglia uomo, cosa cui è dovuto il fatto che la maggior parte di essi termina con
desinenze proprie del maschile singolare (-o) o plurale (-i), benché la finale in –i sia
prevalentemente riconducibile a un originario genitivo (per cui Rossi sarebbe in origine
“discendente del rosso”). Ciò è comprovato dal fatto che fino a un’epoca relativamente recente
il nome del padre veniva registrato in ogni documento ufficiale. Le tipologie principali di
cognomi sono cinque:
1. Quelli derivanti da nome proprio, solitamente maschile, il quale può rimanere tale
(Gentile), può essere preceduto da una preposizione (Di Pietro) o terminare in –i per
antico genitivo (Ghiberti) e può infine essere alterato o reso come ipocoristico.
2. Quelli derivanti da soprannomi aggettivali (Longo) nominali (Testa), o composti
(Bevilacqua).
3. Quelli derivanti da toponimi (Napoli), da aggettivi gentilizi, indicanti, cioè,
cittadinanza o nazionalità (Napolitano, Francese) o nomi comuni di luoghi (Piazza).
4. Quelli recanti la professione del capofamiglia (Ferrari), a elementi a essa legati
(Pepe), o a figure cui si era subalterni (Conte).
5. Quelli dei trovatelli (Esposito, Proietti, Diotallevi).

I crematonimi sono tutti nomi propri di cose. In questo campo la lingua italiana ha dato prova
di grande creatività, in particolar modo nel campo dei nomi di prodotti commerciali
(marchionimi) e di attività come scuole, imprese, istituti ecc. (ergonomi). I primi si sono
sviluppati soprattutto a partire dall’arrivo nel nostro paese delle logiche capitalistiche e
pubblicitarie – basti pensare ai prodotti della storica trasmissione televisiva “Carosello”, in
cui venivano presentati marchi come Pomì o l’alterato Invernizzina. Molti sono i marchionimi
di origine straniera, anche adattati foneticamente, come nel caso di Colgate, o di natura ibrida,
come Nutella, che presenta una base inglese e un elemento suffissale italiano. I farmaci,

41
invece, hanno nomi ispirati a basi greco-latine, cui vengono associate spesso terminazioni non
etimologiche (Tachipirina) e consonantiche (Flomax).

La deonomastica, infine, è il settore di tutti quegli elementi lessicali (nomi comuni, aggettivi
ecc.) derivanti da nomi propri. Oltre agli esempi già fatti di conversione per antonomasia,
aggiungiamo a questo elenco tutti gli aggettivi gentilizi, derivanti da toponimi (Roma >
romano), e quelli deantroponomastici (Boccaccio > boccaccesco, boccacciano).

42
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 2 – Lessicologia, fonetica e fonologia

Lezione 4
Foni, fonemi e grafemi dell’italiano

I foni dell’italiano, come quelli della stragrande maggioranza delle lingue del mondo, sono
prodotti durante l’espirazione, e mai durante l’inspirazione: l’aria rilasciata dai polmoni risale
verso trachea, bocca e labbra. Se essa non viene ostacolata da uno degli organi che
costituiscono l’apparato fonatorio non viene emesso alcun fono; se, pur senza ostacoli
vengono contratte le corde vocali, vengono emessi dei suoni, cioè delle vocali; se essa incontra
ostacoli avremo invece delle consonanti: sonore con vibrazione, sorde senza vibrazione delle
corde vocali. I suoni possono inoltre essere nasali, se il velo palatino è staccato dalla faringe
saranno prodotti suoni nasali, viceversa l’accesso alla cavità nasale sarà impedito e si avranno
esclusivamente suoni orali. A metà tra consonanti e vocali sono i cosiddetti foni
approssimanti, quelli realizzati con corde vocali in vibrazione, ma con ostruzione del cavo
orale attenuata. Le vocali in italiano sono gli unici elementi sui quali possa cadere l’accento.
Da foni e fonemi vanno ovviamente distinti i grafemi (il cui studio è detto grafematica), cioè
quegli segni grafici che rimandano a un fonema, ma che non godono di biunivocità rispetto
alla fonetica o alla fonologia – a dispetto del luogo comune che vorrebbe che l’italiano “si
legge come si scrive”. Ad esempio il grafema〈gn〉, pur essendo costituito da due elementi
rimanda a un unico fonema /ɲ/, e il grafema〈n〉, pur essendo unico elemento ha diverse
realizzazioni foniche a seconda del contesto: [m], [n], [ɱ], [ŋ].

Il vocalismo dal latino all’italiano Inseriamo di seguito una breve analisi dell’evoluzione del
vocalismo dal latino al fiorentino, che ci permetterà di comprendere più facilmente le
caratteristiche del sistema italiano.
Vocalismo tonico: il latino distingueva le vocali anche per quantità e possedeva, pertanto, Ī Ĭ,
Ē Ĕ, Ā Ă, Ŏ Ō, Ŭ Ū. L’innalzamento del timbro delle lunghe e l’abbassamento di quello delle
brevi, combinato alla perdita della distintività delle quantità determinò: Ī > i; Ĭ e Ē > [e]; Ĕ >
[ɛ]; Ā e Ă > [a], Ŏ > [ɔ]; Ō e Ŭ > [o]; Ū > [u].

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Es. SPĪNAM > spina; PĬLUM > pelo; TĒLAM > tela; FĔRRUM > ferro; MĀTREM > madre;
PĂTREM > padre; ŎCTO > otto; SŌLEM > sole; NŬCEM > noce; LŪNAM > luna.

Ma, per il fenomeno del dittongamento toscano, Ĕ ed Ŏ in sillaba libera dittongano


rispettivamente in (jɛ) e (wͻ), come in PĔDEM > piede; SĔDET > siede; BŎNUM > buono;
NŎVUM > nuovo
Come accennato, fuori d’accento viene meno l’opposizione tra vocali aperte e vocali chiuse.
Impossibile limitandosi al confronto tra latino e italiano, risalire alla lunghezza di E ed O (ad
es. in SOLEM > sole, MONSTRARE > mostrare).

Le vocali Per rendere il panorama del vocalismo in Italia inseriamo di seguito un elenco
comprendente sia l’eptavocalismo dello standard sia altre vocali riconducibili ad alcune
parlate italoromanze.
Il triangolo (o trapezio) qui riportato
indica le sette vocali proprie del sistema
linguistico italiano. Si noti bene che
quando si fa riferimento al sistema
eptavocalico, con esso si intende solo il
vocalismo tonico, cioè quello delle
sillabe interessate dall’accento. Abbiamo
pertanto:
1. [a] vocale bassa, centrale, non arrotondata: casa, latte;
2. [ɛ] vocale medio-bassa, anteriore, non arrotondata: festa, venti (plurale di vento);
3. [ɔ] vocale medio-bassa, posteriore, arrotondata: lotto, coppa, botti (plurale di botto);
4. [e] vocale medio-alta, anteriore, non arrotondata: mele, venti ‘20’;
5. [o] vocale medio-alta, posteriore, arrotondata: voce, botte ‘contenitore per il vino’;
6. [i] vocale alta, anteriore, non arrotondata: fili, vinti;
7. [u] vocale alta, posteriore, arrotondata: tu, lutto;

Nello scritto la differenza tra e medio-alta e medio-bassa e tra o medio-alta e medio-bassa è


resa esclusivamente nelle parole recanti accento grafico, mentre abbiamo già visto come essa
venga annullata in gran parte di Italia, dove medio-alte e medio-basse sono allofoni e in
generale nel sistema atono (dove esistono i fonemi generici E e O).
La distribuzione delle vocali in italiano è ben codificata: troviamo raramente delle u atone in

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posizione finale di parola, mentre è tipica dei latini in –US della terza l’evoluzione in –u
(VIRTUS > virtù).
A questi suoni aggiungiamo quelli propri di altri sistemi italoromanzi e che di conseguenza
sono utilizzati in alcuni italiani regionali:
1. [æ] vocale bassa, anteriore, non arrotondata, come nella resa pugliese di Bari;
2. [ɑ] vocale bassa, posteriore, non arrotondata, come nella resa piemontese di casa;
3. [œ] vocale medio-bassa, anteriore, arrotondata, come nel lombardo föc;
4. [y] vocale alta, anteriore, arrotondata, come nel settentrionale lüna;
5. [ə] vocale centrale (rispetto ai parametri di altezza e anteriorità-posteriorità; non
arrotondata; detta anche schwa dall’ebraico), come nella resa campana delle finali.

Le approssimanti dell’italiano sono quattro e si distinguono in semivocali e semiconsonanti,


a seconda che l’articolazione sia per contesto necessariamente ± consonantico.
Semiconsonanti, se in dittonghi ascendenti:
1. [w] approssimante labiovelare: contemporaneo avvicinamento (e arrotondamento)
delle labbra e del dorso della lingua al velo palatino: uovo [ˈwɔvo], fuori [ˈfwɔri];
2. [j] approssimante palatale: it. ieri [ˈjɛri], fiamma [ˈfjamma];

Semivocali, se in dittonghi discendenti:


3. [i], come in mai e tuoi.
4. [u], come in causa e Claudio.

I dittonghi, cioè la successione dinamica di due suoni vocalici, come si può evincere dagli
esempi finora riportati, possono essere ascendenti (approssimante + vocale; detti anche “falsi
dittonghi”) o discendenti (vocale + approssimante; detti anche “dittonghi veri”).
I dittonghi discendenti (“veri dittonghi”) possibili sono quindi: /ai/ come in avrai, /ei/ come
in dei (preposizione), /ɛi/ come in direi, /oi/ come in voi, /ɔi/ come in poi, /au/ come in pausa,
/eu/ come in Europa, /ɛu/ come in feudo.
I dittonghi ascendenti possibili sono: /ja/ come in piano, /je/ come in ateniese, /jɛ/ come in
Biella, /jo/ come in fiore, /jɔ/ come in piove, /ju/ come in più, /wa/ come in guado, /we/ come
in quello, /wɛ/ come in guerra, /wi/ come in qui, /wo/ come in liquore, /wɔ/ come in uomo.
Oltre ai dittonghi in italiano a volte troviamo, seppur abbastanza rari, i trittonghi, con
successioni alternative di semiconsonante + semiconsonante + vocale (come in aiuole) o
semiconsonante + vocale + semivocale (come in miei).

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Le consonanti. I fonemi consonantici dell’italiano, classificati per modo di articolazione,
punto di articolazione e carattere ± sonoro, sono 21:

Nasali: m (bilabiale) n (dentale) ɲ (palatale)


Occlusive: p b (bilabiali son./sor.) t d (dentali son./sor.) k ɡ (velari)
Affricate: ͡ts d͡ z (alveolari) ͡tʃ d͡ ʒ (palatali)
Fricative: fv (labiodentali) s z (alveolari) ʃ (palatale)
Vibrante: r
Laterali: l (alveolare) ʎ (palatale)

Ricordiamo che, per quanto riguarda le consonanti, in italiano la loro lunghezza ha valore
distintivo, esattamente come se accanto a determinati fonemi scempi fossero elencabili dei
fonemi geminati, cosa facilmente dimostrata dalla coppia minima pala/palla, dove è proprio
il tratto ± geminato a distinguere i due lessemi. Tutte le consonanti (tranne /z/, /j/ e /w/)
possono essere fonologicamente geminate all’interno di parola tra vocali o tra vocale e /l/, /r/,
/j/ o /w/. (es. /ˈfatto/ ~ /ˈfatːo/). Le consonanti /ɲ/, /ʃ/, /ʎ/, /ts/ e /dz/ sono sempre geminate in
posizione intervocalica all’interno di parola (ad esempio, ascia /ˈaʃʃa/, aglio /ˈaʎʎo/).
L’opposizione tra i diversi luoghi di articolazione delle consonanti nasali è neutralizzata in
contesto pre-consonantico dove le nasali assimilano il luogo di articolazione alla consonante
successiva. Per esempio: anca /ˈãŋka/, infatti /ĩɱˈfatti/.
L’opposizione di grado di sonorità di /s/ e /z/ è neutralizzata in contesto pre-consonantico e
all’inizio di parola: davanti a consonante sorda e a inizio parola si trova [s], davanti a
consonante sonora si trova [z] (questo spiega la pronuncia difficoltosa che spesso gli italiani
hanno per parole straniere come l’inglese slow in cui la s è invece sorda. All’interno di parola
/s/ e /z/ si mantengono in opposizione fonologica in alcune forme come /preˈsɛnto/ da
presentire e /preˈzɛnto/ da presentare. C’è da dire che la differenza tra /s/ e /z/ non è
discriminante per la comprensione di parole in italiano neostandard e l’uso di una o l’altra fa
parte delle varianti locali.

Le consonanti di origine alloglotta


Oltre a quelli già classificati, l’italiano conosce una serie di fonemi esogeni:
1. /ʒ/, non è presente nell’italiano classico, ma viene regolarmente pronunciato in
pochissime parole di origine straniera, soprattutto francese, come nelle parole abat-jour

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/abaˈʒur/ o garage /ɡaˈraʒ/ (può anche ritrovarsi pronunciato /ɡaˈradʒ/, /ɡaˈraːʒe/ o
/ɡaˈraːdʒe/). I madrelingua italiani non hanno quasi mai difficoltà a pronunciare tale
suono.
2. /h/, anche in parole di derivazione straniera non viene spesso pronunciato; un tempo
l’acca si divideva tra muta e sonora, soprattutto per stabilire l’articolo da porre all’inizio
(l’hotel, lo hobby) oggi si tende a renderla sempre muta (l’hobby) /ˈɔbbi/. Parecchi
italofoni L1 non hanno difficoltà a pronunciare i suoni /h/ e /x/, ma nel parlato li
tralasciano semplicemente, non pronunciandoli. Solo dopo uno studio approfondito
della lingua straniera in considerazione cominciano a essere pronunciati correttamente.
Graficamente sono particolarmente penetrati nell’uso italiano ‹j› (reso anticamente /j/ e oggi
più frequentemente /dʒ/); ‹k›, resa /k/; ‹w›, resa /w/; ‹x›, resa /ks/; y, resa /j/.

Il raddoppiamento fonosintattico
Una particolarità della nostra lingua è quella di un tipo di assimilazione regressiva in confine
di parola; il raddoppiamento della consonante a inizio di parola, quando questa sia all’interno
di una medesima catena fonica, cioè preceduta da:
1. Un monosillabo “forte”: avverbi quali qui, qua, lì, là, giù, già, più, pronomi quali me,
tu, te, sé, ciò, verbi quali è, ho, ha, do, dà, fa, fu, può, so, sa, sto, sta, va, nomi come te,
re, gru, dì, fra.
2. Determinati monosillabi “deboli”, cioè clitici, come le preposizioni a, da, fra, tra, su, i
pronomi che, chi e delle congiunzioni e, o, se, ma, che, né).
3. Determinati bisillabi, come qualche, come, dove, sopra.
4. Un ossitono, come verrò, andò, virtù.
Es. A Firenze, reso Affirenze.







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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 2 – Lessicologia, fonetica e fonologia

Lezione 5
La sillaba e i tratti soprasegmentali

Le sillabe
Il raggruppamento base dei foni è la sillaba, anche se questa non può propriamente essere
considerata un universale linguistico, dato che esistono lingue i cui enunciati non sono
suddivisibili in sillabe. Questa unità fondamentale dell’italiano può essere ulteriormente
suddivisa in un elemento necessario, ovvero il nucleo, il quale può trovarsi preceduto da un
attacco e seguito da una coda. Il nucleo insieme con la coda compone la cosiddetta rima, ma
evidentemente è soltanto esso ad essere l’elemento indispensabile della sillaba. Se infatti
esistono sillabe senza attacco e coda, non esistono sillabe prive di nucleo. Le sillabe che non
presentano una coda sono dette sillabe aperte, mentre chiuse o implicate sono dette quelle che
la posseggono.
Contrariamente a quanto accade in altre lingue nelle quali le consonanti sonoranti come le
liquide ([r] e [l]) e le nasali ([m] e [n]) possono servire da nucleo se non c’è nessuna vocale,
come nel caso dell’inglese bitten, reso [ˈbɪt.n] ([n] è in questo caso il nucleo della seconda
sillaba), in italiano ciò non può accadere e vi è obbligatorietà vocalica per la costituzione del
nucleo sillabico, con l’eccezione di alcune interiezioni e onomatopee, conosciute anche come
ideofoni (ad esempio, pss, brr, zzz).
L’attacco, quando presente, è normalmente costituito da una qualsiasi consonante e in alcuni
casi da una semiconsonante, più raramente si hanno attacchi pluriconsonantici, detti anche
attacchi ramificati e costituiti da due o tre consonanti (stram-bo, pra-tico) o da una consonante
seguita da una semiconsonante (fuo-co), o da una consonante seguita da due semiconsonanti
(quie-to), o da due semiconsonanti (a-iuo-la). Tali sequenze consonantiche e
semiconsonantiche soddisfano pressoché tutte la legge della scala di sonorità crescente, per la
quale le consonanti adottate sono via via più sonore di pari passo al loro avvicinamento alla
vocale del nucleo (es. in premio r è sonora, mentre p è sorda). Sfugge a questa legge il
comportamento degli allofoni preconsonantici [s] e [z] (in sdrucciolo, ad esempio, sulla base
di studi articolatori [z] è più sonora di [d]). Ma si tratta, del resto, di consonanti che rimangono
in attacco di sillaba solo a inizio di parola o di enunciato, mentre all’interno di parola o di

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enunciato costituiscono la coda della sillaba che precede (pertanto stanco di camminare sarà
sillabato come stan-co-di-cam-mi-na-re, mentre ero stanco di camminare è sillabato e-ros-
tan-co-di-cam-mi-na-re). Si noti che, esattamente come non c’è rapporto biunivoco tra foni,
fonemi e grafemi, non esiste corrispondenza esatta tra sillabazione grafica e sillabazione
fonetica, come sopra provato.
Alcuni attacchi sillabici pluriconsonantici un tempo non erano ammessi nell’italiano; è il caso
di molti cultismi o tecnicismi provenienti dal greco, il cui sistema prevedeva attacchi in ps-
(psicologo), in tm- (tmesi), in pn- (pneumatologia), o da sistemi italoromanzi (nd- in
‘ndrangheta, dal calabrese).

La coda
La coda è solitamente costituita da una sola consonante (come in par-to) o da una semivocale
(guai), o da una semivocale seguita da una consonante (faus-to). Possono trovarsi in coda
soltanto alcune consonanti italiane: /l/, /r/, /m/, /n/, /s/ e tutte le geminate – che esse lo siano
naturalmente o che siano raddoppiate – il cui primo elemento è acusticamente coda della
sillaba che precede la consonante stessa (così zop-po, ma anche [baɲ-ɲo]). Per quanto riguarda
i gruppi consonantici /tr/, /gr/, /pr/, la prima consonante non può mai essere accorpata alla
coda, sempre che ve ne sia una. Della sillaba precedente (a-pro). La sillaba che chiude la
parola in italiano è solitamente sempre aperta, cioè la stragrande maggioranza dei lessemi,
almeno patrimoniali, non terminano per consonante; è, più in generale, è vero che le parole
che chiudono la frase prima di pausa finiscono sempre in vocale. Fra le parole che non seguono
la tendenza generale della terminazione vocalica troviamo delle interiezioni e degli ideofoni
(toc), gli articoli indeterminativo e determinativo un e il (insieme alle preposizioni articolate
da essi composte), le preposizioni in, per, con, nell’avverbio di negazione non. Notiamo che,
in effetti, si tratta quasi in tutti i casi sopraelencati di parole “vuote”, che, in quanto tali, devono
necessariamente essere seguite da parole “piene”, e pertanto non si troveranno mai a fine di
frase. Anche il fenomeno dell’apocope, molto diffuso a livello letterario poetico e in alcune
circostanze del parlato (e generalmente più a Nord che a Sud quella del verbo essere), riguarda
tendenzialmente parole che per necessità ne precedano altre, come nel caso di bello > bel
prima del nome cui si riferisce. Inoltre, l’apocope non può mai riguardare le parole terminanti
in –a, né quelle finali con particolare funzione morfologica, necessaria alla corretta
comprensione del messaggio (il signor Michelin, ma i signori Michelin).
L’aumento del fenomeno linguistico del prestito non adattato in tempi recenti ha avuto come
conseguenza anche la proliferazione di parole a finale consonantica (parole in –n, come fon;

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in –m, come album; in liquide –r e –l, come bar, Sacher e cool; molte in occlusiva, come frac,
smog, fan, smart, smog). Si possono poi spesso notare delle code ramificate, cioè composte
da più consonanti, come in round, bund, est, sport. Anche la formazione di neologismi a
partire dal greco ha permesso l’introduzione nel sistema dell’italiano di una serie di nessi una
volta definiti “impossibili” perché difficilmente pronunziabili per i parlanti di un tempo. In tal
modo la sillaba anche interna alla parola può trovarsi chiusa da consonanti diverse da liquide
e nasali (è questo il caso di eczema, ap-nea ecc.) Alla stessa maniera possono aprirsi delle
sillabe con nessi “impossibili”: psicologo, xilofono. Questa serie di fenomeni ha, fra le altre
cose, favorito l’abbandono della tradizionale i prostetica anteposta alle parole inizianti per s
impura (Iscozia > Scozia; mentre ha resistito fino a qualche decennio fa In Iscozia, per evitare
il nesso triconsonantico. Rimane oggi come residuo molto impiegato il sintagma per iscritto.

L’accento
L’accento è una variabile molto importante nelle lingue: non tutte lo posseggono (come, in un
certo senso, il turco), altre ne hanno uno fisso – quindi privo di valore fonologico, come in
ungherese, dove cade sempre sulla prima sillaba, o in francese, dove cade sempre sull’ultima.
L’accento è la capacità che una data lingua ha di mettere in risalto un segmento dell’enunciato
attraverso strumenti differenti, quali l’altezza, la durata o l’intensità; ma è un fenomeno che
si trova per così dire al di sopra della catena fonica, e per tale motivo viene chiamato “tratto
soprasegmentale”.
Anche nel campo dell’accento il comportamento dell’italiano è da ricondurre al latino,
precisando però che, se il latino classico possedeva come tratto distintivo la quantità vocalica,
anche e soprattutto della sillaba accentata, non fu più così per il latino volgare tardo, il quale
aveva totalmente rimpiazzato la quantità vocalica e l’altezza della vocale accentata con un
unico tratto distintivo: l’accento di intensità. Quest’ultimo consiste nell’aumentare della forza
espiratoria concomitante alla pronuncia del nucleo vocalico di una sillaba.
Altrettanto importante è ricordare che l’accento d’intensità della nostra lingua è mobile,
cosicché la sua dislocazione all’interno di una medesima catena fonica può portare alla
produzione di un lessema differente; è in grado cioè di creare coppie minime (àncora/ancòra).
Ne deriva che in italiano esso assume grande importanza fonologica. In italiano l’accento può
dunque cadere su una delle ultime tre sillabe di una parola. Se la vocale accentata appartiene
all’ultima sillaba di una parola questa verrà definita “ossitona”: è questo il caso di perché,
maestà, partirò. Se l’accento interessa la penultima sillaba, come nella maggior parte dei casi
– come abbiamo già ricordato l’italiano è celebre per il suo ritmo piano, che lo accomuna allo

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spagnolo – si parlerà di una parossitona (audacia, parte, finestra ecc.). Proparossitona o
sdrucciola è ogni parola il cui accento cada sulla terzultima sillaba, ma si tratta di un numero
di lessemi abbastanza ristretto che presenta generalmente la penultima sillaba aperta (livido,
ugola, equivoco, insipido ecc.). Esistono anche parole il cui accento risale alla quartultima
sillaba, ma si tratta o di terze persone di alcuni verbi (càpitano), o di sdrucciole unificate con
enclitici (dìteglielo).
Le parole composte da un numero di sillabe superiore a tre sono solitamente caratterizzate
anche da un accento secondario, più debole, ma non per questo meno rilevabile del primario;
esso si colloca tendenzialmente tra la prima e la seconda sillaba.
L’italiano, come molte altre lingue, presenta anche una serie di parole clitiche, così definite
perché si appoggiano fonicamente ad altre parole essendo prive di accento: si tratta nel nostro
caso di una serie di monosillabi deboli che possono comportarsi da proclitici – cioè precedere
la parola alla quale si appoggiano - quali le preposizioni, delle congiunzioni (e, o, ma) e gli
articoli, e da enclitici (così definiti quando si appoggiano alla parola che precede), oppure
possono comportarsi sia come proclitici che come enclitici , come e soprattutto i pronomi mi,
ti, gli, ne, ci, vi, lo, la, si. In quest’ultimo caso la encliticità è tanto evidente da poter dar luogo
a unificazioni grafiche quando i pronomi in questione seguono un verbo (diglielo).
L’italiano contemporaneo rileva oggi molti fenomeni di ritrazione dell’accento (èdile invece
di edìle, zàffiro invece di zaffìro, bàule invece di baùle, vàluto invece di valùto, Frìuli invece
di Friùli ecc.) anche nel caso di alcuni prestiti (pèrformance invece di perfòrmance, kòlossal
invece di kolòssal).

51
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 2 – Lessicologia, fonetica e fonologia

Lezione 6
Elementi di semantica dell’italiano

La semantica
La semantica è lo studio del significato delle espressioni linguistiche. Nel rapporto che sussiste
tra espressioni linguistiche e realtà un ruolo essenziale è quello giocato dalla verità. Infatti, se
un parlante si riferisse a una tv usando il termine computer, questi evidentemente o non
conosce il significato di computer, oppure non sta volutamente dicendo la verità.
Secondo tale presupposto, data la veridicità di un’espressione linguistica, potremmo affermare
che il rapporto che sussiste tra essa e la realtà cui essa fa riferimento è un rapporto di
“denominazione”, per il quale le parole sono etichette delle cose.
In realtà tutto è molto più complesso: nel linguaggio naturale il principio di verità non è
sempre applicabile – basti pensare alle interrogative – e questo perché il significato non è
semplicemente il rapporto tra linguaggio e realtà. Prova di quest’ultima constatazione è
l’assenza di sovrapponibilità tra i significati delle varie lingue del mondo e questo perché ogni
lingua (dunque ogni civiltà della quale essa è espressione e mezzo comunicativo) categorizza
diversamente la realtà. Innanzitutto ridurre alla “denominazione” il rapporto tra realtà e lingua
significherebbe volere ignorare l’esistenza di rapporti interni alla lingua stessa che esulano dal
suo “etichettare” la realtà. Ad esempio nubile e zitella indicano una stessa realtà: se il rapporto
tra linguaggio naturale e realtà fosse così semplice per quale motivo il principio dell’economia
linguistica non ha determinato la scomparsa di uno dei due termini? Semplicemente per il
fatto che esistono rapporti interni alla lingua che non dipendono direttamente dalla realtà
referenziale. Similmente, l’uso non letterale di determinate espressioni ci suggerisce che esse
sono semanticamente più complesse di quanto potremmo credere, poiché il loro senso è spesso
non letterale (come in La vuoi finire?, che non serve a chiedere espressione della volontà in
merito alla fine di un’azione, ma piuttosto a ingiungere il suo termine).

Il significato

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Cosa è allora il significato, se non il modo che il linguaggio sfrutta per indicare la realtà? Ne
deriva che non c’è univocità tra significante, significato e realtà, poiché ogni lingua ha modi
diversi di “significare” la realtà e, ancor più importante, all’interno di ogni lingua esistono
modi diversi per indicare una stessa realtà. Ad esempio, ci possiamo riferire a “Firenze” allo
stesso tempo con espressioni linguistiche diverse: Firenze, La città di Dante, La città medicea
ecc. In tutti e tre i casi la realtà referenziale (il referente) è lo stesso, mentre variano significanti
e significati (il secondo e il terzo sono correlati ad altri referenti, ad esempio).

Semantica lessicale
Similmente, come più di un significato può essere usato per una stessa realtà referenziale,
similmente più di un significato può essere legato a un medesimo significante, cioè a un
medesimo lessema. Molti lessemi risultano pertanto ambigui.

Analisi semica
Un importante indirizzo degli studi moderni di semantica lessicale è l’analisi semica o
componenziale. Questa analisi, utilizzando un metodo simile a quello usato nella fonologia,
scompone il significato di una parola in elementi minimi.
Se i fonemi si possono analizzare in tratti distintivi:
[consonante] [orale] [labiale] [sorda] /p/
[consonante] [orale] [labiale] [sonora] /b/
[consonante] [nasale] [labiale] [sonora] /m/
[consonante] [orale] [dentale] [sorda] /f/
[consonante] [orale] [dentale] [sonora] /d/
così una parola può esser analizzata nei suoi tratti semantici o sèmi:
[animale] [ovino] [maschio] /montone/
[animale] [ovino] [femmina] /pecora/
[animale] [equino] [maschio] /stallone/
[animale] [equino] [femmina] /giumenta/
[umano] [adulto] [maschio] /uomo/
[umano] [adulto] [femmina] /donna/
[umano] [infantile] [maschio] /bambino/
[umano] [infantile] [femmina] /bambina/

Polisemia dell’italiano

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La parola mano, ad esempio, è decisamente ambigua, almeno se presa isolatamente. Sappiamo
certo che essa possiede un significato primario, che corrisponde all’arto umano, ma ce ne sono
molti altri, tra i quali “strato di vernice”, “turno di gioco”, “aiuto” ecc. In questo caso si tratta
di uno stesso lessema, al quale sono associati significati diversi, che derivano tutti da quello
primario; si tratta pertanto di polisemia. Similmente, aggettivi come buono, che può essere
inteso come “onesto”, “funzionale”, “competente” ecc.

L’omonimia
L’omonimia è anch’essa molto presente nell’italiano e consiste nell’identità formale tra
termini aventi significati differenti, Ma in questo caso si tratta di lessemi tra loro indipendenti,
dato che i loro significati non possono essere spiegati secondo processi di derivazione
semantica e la loro etimologia rivela spesso facilmente radici differenti. È questo il caso di
parole come letto (“participio passato di leggere” // “mobile”).

Le estensioni del significato


I processi che permettono la polisemia a partire da un significato originario sono definite
estensioni del significato. Le principali tra esse sono la metonimia, cioè estensione per
contiguità (mano “arto” > con la mano si tengono le carte da gioco > “turno di gioco”). La
metafora è il processo di estensione più adoperato e opera sulla base della somiglianza tra il
significato fondamentale d’origine e quello traslato (buco, “pertugio” simile a “mancanza di
attività = pausa”).

La sinonimia
La sinonimia consiste nella corrispondenza tra un medesimo significato e lessemi diversi,
come nel caso del già citato nubile e zitella. Ma la sinonimia totale o perfetta non esiste, perché
sempre l’uso e la connotazione sono diversi in ogni sinonimo.

L’antonimia
L’antonimia è l’espressione di due significati opposti da parte di due diversi lessemi (caldo
vs freddo).

L’iperonimo
Un iperonimo è un lessema che include in sé il significato di altri lessemi, mentre un iponimo
è un lessema che è incluso e, pertanto, presenta un significato decisamente più specifico.

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Semantica frasale
Come vedremo nelle lezioni successive, l’unità massimale di analisi della sintassi è la frase.
L’espressione linguistica fraseologica ha una sua semantica, anche più complessa di quella
lessicale fino ad adesso analizzata. In prima analisi e tendenzialmente si potrebbe affermare
che il significato di una frase è la ‘somma’ dei significati dei suoi costituenti; ciò è vero tutte
quelle volte che sia verificato il cosiddetto “principio di composizionalità”. Ma, come ogni
parlante sa, esistono delle frasi dell’italiano il cui significato non corrisponde alla somma dei
significati (ad esempio, tagliare la corda, essere al verde, similmente ma non voglio farle
perdere altro tempo..., che equivale a un invito ad andarsene; o questa è la goccia che fa
traboccare il vaso, che non fa riferimento a nessuna vera ‘goccia’ e a nessun vero ‘vaso’.
In effetti, le frasi che dicono ‘più’ del loro significato letterale, vanno oltre gli elementi che le
compongono.
Un’altra importante distinzione è quella tra ‘frase’ considerata come elemento di
un’interazione comunicativa concreta frase: unità del sistema linguistico;

Enunciato
L’enunciato unità della comunicazione contingente, legata ad un contesto d’uso concreto e
particolare.
Ad esempio, ieri è stata una bellissima giornata è una frase che può corrispondere a
diversi enunciati.
Vuoi ancora caffè? Sì - l’enunciazione sì non è costituita da una ‘frase’ Berrei un bicchiere di
vino - frase che può corrispondere a due enunciati, uno indicante un desiderio non realizzabile
(...ma non posso) o una risposta ad una domanda (cosa prendi? cosa bevi?).

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 3 – Morfologia e sintassi

Lezione 1
Morfologia flessionale

Morfologia e classificazione tipologica


La morfologia è quello studio che riguarda la forma delle parole, e non il loro significato né
la loro articolazione o percezione acustica. Essa permette di comprendere come in una data
lingua le informazioni grammaticali siano associate ai significati e ciò avviene tramite l’unità
minima dotata di significato, detta “morfema”,
Cosa che abbiamo già accennato, a seconda del grado di complessità della morfologia di una
lingua è possibile classificare tipologicamente quest’ultima. Ovviamente la classificazione
prende in considerazione le caratteristiche predominanti di una data lingua. Il cinese, ad
esempio, è spesso definito una lingua a morfologia nulla, perché quasi non presenta morfemi
e in esso le informazioni grammaticali vengono veicolate tramite altri procedimenti (come la
posizione delle parole o l’intonazione); il turco, all’opposto, è una lingua dalla morfologia
ricchissima, dato che ogni informazione grammaticale è associata a uno e un solo fonema (ad
esempio, in yazarın roman-lar-ı-nı “i romanzi dello scrittore – compl. ogg.” lar indica il
numero, ı il caso, nı l’appartenenza a un gruppo sintagmatico). In questa scala la nostra lingua
si colloca grosso modo a metà, dato che possiede una complessa morfologia, ma associa a
ogni morfema più di una informazione grammaticale. Proprio per quest’ultima ragione è
definita “lingua flessiva o fusiva”.
Possiamo dunque facilmente comprendere che la morfologia italiana è essenzialmente
flessiva, esattamente perché riguarda la flessione delle parole, tratto che l’italiano ha anche
questa volta ereditato dal latino. Ma non manca nella morfologia dell’italiano anche una certa
componente analitica, che è riconducibile alla fase del latino tardo, dove già costruzioni
analitiche del tipo magis quam (“più di…”) erano prevalenti rispetto ai corrispettivi sintetici.
La morfologia della flessione, o flessiva, italiana. pertanto, studia il modo attraverso il quale
le informazioni grammaticali di genere e di numero vengono associate a nomi, articoli e
aggettivi. Nei pronomi una terza informazione è veicolata: il caso, che indica quale sia la
funzione sintattica. (evidente, ad es., la distinzione tra nominativo egli e dativo gli). Il verbo
prevede anche le informazioni di tempo (presente, passato prossimo ecc.), modo (indicativo,

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congiuntivo ecc.), aspetto (perfetto, imperfetto ecc.) e diatesi (attiva/passiva).
La flessione desinenziale dell’italiano permette una certa economia linguistica, dato che usa
piccoli morfemi per veicolare informazioni che altrimenti dovrebbero essere trasmesse da
altre parole.

Allomorfia
Per comprendere appieno cosa sia la morfologia è necessario distinguere innanzitutto morfi e
morfemi, esattamente come è necessario distinguere foni e fonemi. Il morfo, infatti, è la
strategia di manifestazione dei morfemi e il morfo più comune è costituito da una sequenza di
fonemi che si attacca al componente lessicale (cant-iamo). Quindi, nella stessa maniera in cui
a un solo fonema possono corrispondere più allofoni, a un morfema possono corrispondere
più morfi. Questa corrispondenza plurima prende il nome di “allomorfia”. Nella nostra lingua
l’allomorfia è particolarmente diffusa ed è legata tanto a questioni etimologiche quanto a
questioni puramente fonetiche. È così, ad esempio, che il radicale del verbo potere ha molti
allomorfi: poss-o, pu-ò, pot-evo.

La flessione del nome


Nell’onomastica italiana due categorie vengono espresse tramite morfemi desinenziali: il
numero (singolare o plurale, mentre altre lingue hanno il duale o il triale) e il genere. A
differenza del primo, però, quest’ultimo non è necessariamente motivato, nel senso che non
ha un rapporto necessario con il referente del nome in questione, se non per i nomi di persone
e a volte di animali, nei quali è collegato al sesso (differenze anche nei radicali per fratell-
o/sorell-a, differenza soltanto desinenziale per lup-o/lup-a). Il genere non marcato è il
maschile. In relazione al modo in cui flettono, i nomi possono essere classificati in sei classi:
1. Nomi in –o/-i, maschili (albero/alberi) con eccezione di mano/mani.
2. Nomi in –a/-e, femminili (tenda/tende).
3. Nomi in –e/-i, maschili (pane/pani) e femminili (notte/notti).
4. Nomi in –a/-i, maschili (oligarca/oligarchi) con eccezioni (ala/ali).
5. Nomi in –o/-a, maschili al singolare (labbro), femminili al plurale (labbra) – questo
è da ricondurre all’opposizione del neutro latino –um/-a, con singolare ricondotto
al maschile e plurale associato al femminile.
6. Nomi con desinenze varie e numero invariabile: virtù/virtù; maestà/maestà,
bus/bus.
La prima e la seconda classe sono le più ricche e tuttora molto produttive. La terza mantiene

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una certa produttività dovuta alla costante introduzione di nuovi termini con desinenze –tore/-
trice e –zione/-zioni, esattamente come la quarta è spesso ingrandita con inserimento di nomi
a suffisso grecizzante –ma/-mi e da quelli a suffisso –ista/-isti. La quinta non è più produttiva,
proprio perché l’opposizione –o/-a è puramente etimologica. La sesta, relativamente piccola
un tempo, perché comprendente soltanto monosillabi (re, gru) e lessemi ossitoni per apocope
della base (maestà da maestade), oggi è particolarmente ricca, non soltanto grazie a tutti i
nuovi nomi in –ità, ma anche grazie al progressivo inserimento di prestiti non adattati (un bar/
dei bar), che possono ritrovare la loro terminazione d’origine in testi scientifici o accurati,
salvo poi ritornare erroneamente nel singolare (un murales).

L’aggettivo
Anche gli aggettivi, proprio perché riferiti ai nomi, presentano morfemi desinenziali fusivi
che indicano contemporaneamente le due informazioni del genere e del numero. Essi possono
essere suddivisi con medesimo criterio in tre differenti classi:
1. Il tipo buon-o/a/i/e;
2. Il tipo a due uscite fort-e/i;
3. Il tipo a tre uscite ottimista/i/e
4. Il tipo invariabile (pari).
Nell’italiano contemporaneo la prima e la terza classe sono le più produttive. La prima è,
infatti, riconducibile alle prime due nominali, mentre la terza – paragonabile alla sesta
dell’onomastica – è stata sempre più ingrandita tramite inserimento di aggettivi denominali
(come quelli indicanti i colori rosa, blu, marrone) e di prestiti non adattati (rosa shocking).

Il grado dell’aggettivo
Il grado dell’aggettivo è espresso in italiano sia analiticamente sia sinteticamente. Il primo
processo riguarda la formazione dei comparativi, che prevedono l’aggettivo premesso dagli
avverbi più, meno o tanto. Il secondo processo è tendenzialmente tipico dei superlativi
assoluti, che prevedono l’affisso –issim- (dolcissimo) o i prefissi accrescitivi ultra, iper, arci,
mega, stra, super (stradolce) – affissi che, del resto sono stati più di recente applicati anche
ai nomi (supercampione). Ma i superlativi assoluti possono formarsi anche analiticamente
preceduti da tanto, molto, assai, veramente ecc.

L’alterazione
L’alterazione, caratteristica tipica dell’italiano agisce anche in questo caso tramite

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l’inserimento di morfemi affissali (-ucci-, -in-, -on-, -acci- ecc.) che veicolano informazioni
riguardanti dimensioni, carattere, aspetto, relazione. In alcuni casi per formare l’alterato è
necessario aggiungere degli affissi consonantici (caffè > caffettino). L’alterazione può talvolta
prevedere anche un cambiamento di genere (donna > donnone).

L’articolo
L’articolo ha essenzialmente la funzione di individuare i nomi che precede, i quali possono
essere determinati - quando si è a conoscenza del referente cui rimandano, che tale conoscenza
sia riconducibile a una nozione condivisa o alla presenza del nome introdotto nel contesto
immediatamente precedente – o indeterminati, quando ignoti o non presenti nel contesto che
precede. Ne deriva che l’articolo determinativo ha funzione principalmente anaforica (ripresa
di elemento noto), mentre l’indeterminativo funzione cataforica (di introduzione di elemento
ignoto). Un’altra funzione è quella disambiguante che permette di distinguere lessemi
foneticamente identici ma semanticamente diversi (il lama/ la lama) e tra singolare e plurale
(la virtù/le virtù).
Le forme lo/il, gli/i e uno/un sono in distribuzione complementare dipendente dall’inizio del
nome che introducono: davanti a vocale e a gruppi consonantici con “s” impura e in generale
diversi da occlusiva + liquida come davanti ad affricate /tz/ e /dz/ lo e gli, mentre il singolare
l’ (con elisione) e il plurale gli si usano davanti a parole che cominciano con una vocale. Il e
i si usano in tutti gli altri casi.

I pronomi personali.
L’italiano ha un sistema pronominale particolarmente complesso: ciò è verificato anche e
soprattutto dall’analisi della morfologia dei pronomi personali.
Fra essi, io (singolare) e noi (plurale) indicano la persona che parla o il gruppo di persone al
quale appartiene chi parla (prima persona); tu (singolare) e voi (plurale) indicano la persona o
le persone a cui ci si rivolge (seconda persona); lui, lei, egli, ella, esso, essa (singolari) e loro,
essi, esse (plurali) indicano la persona o le persone di cui si parla (terza persona).
Le forme originarie egli, ella, esso, essa, essi ed esse, un tempo di uso generale, sono ora
spesso sostituite, variabilmente, dalle forme lui, lei e loro, soprattutto nella lingua parlata ma
anche in molti ambiti della lingua scritta.
La forma varia secondo la persona, il numero, il genere e la funzione sintattica (caso), la quale
può essere di soggetto o di oggetto. I pronomi di alcune persone variano di forma a seconda
che l’oggetto sia diretto o indiretto. I pronomi personali usati come complemento hanno due

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forme:

FUNZIONE DI COMPLEMENTO
(OGGETTODIRETTO/INDIRETTO)
1ª singolare SOGG io FORMA TONICA me FORMA ATONA mi
2ª singolare tu te ti
3ª singolare M. egli, esso, lui lui, sé (stesso), esso lo, gli, ne,
F. essa lei, sé (stessa), essa la, le, ne, si
1ª plurale noi noi ci
2ª plurale voi voi vi
3ª plurale M. essi, loro loro, sé (stessi), essi li, ne, si
F. esse, loro loro, sé (stesse), esse le, ne, si

In italiano l’uso del pronome, data la trasparenza dei morfemi verbali, non è obbligatorio:
proprio per questa caratteristica, i linguisti lo definiscono “a soggetto nullo” in
contrapposizione alle lingue a soggetto obbligatorio (in inglese il fenomeno è detto pro-drop,
abbreviazione di pronoun dropping).

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 3 – Morfologia e sintassi

Lezione 2
Morfologia flessionale: pronomi e sistema verbale

Il pronome si
Con l’eccezione di la in espressioni come “o la va o la spacca”, il pronome impersonale atono
dell’italiano è si. Esso è normalmente seguito dalla terza persona e necessita dell’ausiliare
essere nelle forme composte. Sebbene il si impersonale possa essere sostituito nel quadro
dell’oralità da costruzioni con seconda persona singolare (per fare la torta, tu usi il burro, non
l’olio) o con prima plurale (per fare la torta, dobbiamo usare il burro) o con terza singolare
introdotta da uno (uno deve anche capire che nella via non c’è solo divertimento).
Tornando all’impersonale si, il suo uso è particolarmente vario: la sua coincidenza formale
con il si riflessivo è facilmente disambiguata dal contesto, tanto più se il pronome si trova
accanto a un clitico. In questo caso il riflessivo muta in se, mentre l’impersonale rimane
invariato. Un altro si, definito “passivante”, complica il quadro. Questo pronome necessita
dell’accordo del verbo transitivo non con il soggetto logico (cioè, la gente), bensì con
l’oggetto: la cosa è evidente quando l’oggetto è plurale (si cominciavano a intravedere le cime
degli alberi). Proprio come suggerisce l’esempio – per il quale è logico che a vedere non siano
gli alberi ma gli uomini – in realtà possiamo affermare che, nonostante una differenza di
comportamento degli elementi della frase, anche in questo caso il pronome suggerisce
un’azione generalizzata e, pertanto, esattamente come nel caso del si impersonale, priva di
una persona specifica.

Il comportamento dei pronomi clitici


Una nota importante concerne la tendenza oramai da lungo consolidata di far risalire le forme
atone da posizione post verbale a posizione preverbale (ci è venuto a prendere invece che è
venuto a prenderci).
Le forme clitiche, inoltre, sono sempre più frequenti nel parlato, sia perché sono più
economiche delle forme toniche (mi ha ignorato), le quali sono usate nella frase marcata (ha
ignorato me).
Il pronome ci, oltre a sostituire quasi sempre l’ormai inusitato vi locativo, è spesso usato con

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valore attualizzante, un uso il cui scopo è quello di far notare la vicinanza tra l’azione espressa
dal verbo e la situazione di riferimento (ci sei? C’ho due euro. Ce ne vogliono cinque. Non
c’entra niente).

I numerali italiani presentano la tendenza, forse per influenza dell’uso inglese, a usare i
cardinali anche laddove un tempo si sarebbero preferiti gli ordinali (Rai1 ha oramai
decisamente sostituito il vetusto la prima rete).

I pronomi dimostrativi dell’italiano hanno pressoché sempre funzione non deittica, bensì
anaforica. Servono pertanto a riprendere elementi già presenti nel contesto precedente. Nel
parlato notiamo oramai l’uso generalizzato dei pronomi questo/a/i/e e quello/a/i/e – spesso
rafforzati da avverbi di luogo qui e lì – al posto di costui/costei/costoro e colui/colei/coloro.

Morfologia del verbo


Il verbo è la categoria lessicale che veicola il maggior numero di informazioni grammaticali
che siano contenibili in un morfema desinenziale (ovviamente in questo caso ci riferiamo
esclusivamente alle forme sintetiche). Persona, numero, tempo, modo, diatesi. La
suffissazione è il processo di formazione dei tempi principali, che sono pertanto sintetici. Nei
tempi composti, invece, le informazioni sono espresse per lo più dall’ausiliare, mentre dal
participio nei tempi composti con ausiliare essere e soprattutto in diatesi passiva è possibile
evincere l’informazione concernente il genere.
L’ausiliare del verbo transitivo è avere all’attivo e essere al passivo (ho visto Lucia/Lucia è
stata vista), mentre il verbo intransitivo ha o solo il primo o solo il secondo (Ho sorriso/Sono
caduto) e in alcuni casi di intransitività gli ausiliari sono interscambiabili (L’albero è
fiorito/L’albero ha fiorito). Gli intransitivi con ausiliare avere sono detti inergativi, mentre
quelli con ausiliare essere sono definiti inaccusativi – tali definizioni muovono anche
dall’osservazione di diversi comportamenti del soggetto all’interno della frase. Molto spesso
essere passivo è sostituito da venire, che viene preferito per rendere una certa progressività. I
riflessivi come i pronominali necessitano dell’ausiliare essere.
Le coniugazioni. Nella maggior parte delle voci flessive del verbo il radicale è congiunto alla
desinenza mediante una vocale tematica, che in italiano dipende direttamente dalla
coniugazione di appartenenza: a per i verbi di I coniugazione, ei per quelli di II e i per quelli
di III.
Ma non mancano voci del verbo che prevedono una unione immediata tra desinenza e radicale

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(come in pu-ò). Questa allomorfia tematica è da ricondurre a fattori etimologici e, pertanto al
rapporto con le coniugazioni latine. Del resto, l’irregolarità morfologica stessa è una categoria
comoda, ma considerevole soltanto nell’ambito di una analisi sincronica; mentre lo studio
diacronico svela l’antica regolarità di molte forme che oggi ci appaiono irregolari (per es. pu-
ò < puote < POT-EST).
La I coniugazione è certamente la più produttiva, essendo anche quella il cui paradigma è
maggiormente regolare. Di tale produttività testimoniano i neologismi d’origine alloglotta
come chattare < chat. La II, ricca di verbi dai paradigmi irregolari, non è più produttiva,
mentre la III comprende verbi con e senza l’affisso –isc-, derivato dei verbi latini incoativi.
Nel parlato, ma qualche volta anche nello scritto, è oggi possibile trovare forme irregolari
regolarizzate per analogia: (soddisfarono invece di soddisfecero).
Modo. Questa grande categoria del verbo veicola l’informazione riguardo alla certezza o
all’incertezza del verificarsi di un determinato evento o di una specifica azione. Ma a volte
l’opposizione tra i modi può avere soltanto un valore sintattico.
L’indicativo esprime la realtà, mentre il congiuntivo esprime incertezza riguardo a un evento,
anche per questo le sue voci sono estese alla funzione ottativa – espressa da un modo
morfologicamente indipendente in altre lingue. L’opposizione indicativo vs congiuntivo
assume un ruolo prettamente sintattico disambiguante, voltò a distinguere le principali
(solitamente con indicativo) dalle subordinate circostanziali (solitamente con congiuntivo).
Nell’italiano contemporaneo parlato il congiuntivo, specialmente quello marcatore di ipotassi,
regredisce sempre di più a favore dell’indicativo, probabilmente per vari punti di debolezza,
fra i quali l’irregolarità di certe forme e l’identità di altre con quelle del presente. A supplire
all’informazione riguardo all’incertezza, in questo caso, sono gli avverbi.
Il condizionale esprime invece la contro fattualità di un evento, motivo per il quale lo troviamo
quasi sempre nell’apodosi del periodo ipotetico (se potessi, ci andrei), oppure può avere
valore dubitativo (non saprei) e, sempre da un punto di vista meramente sintattico, sostituisce
il futuro, quando la nozione di tale tempo è messa in relazione con un fatto del passato (mi
disse che sarebbe venuto).
L’imperativo esprime ordini, esortazioni o preghiere. Oggi la sua funzione è spesso assunta
dal presente, che risulta per certi versi ancora più iussivo (Fai silenzio e ti siedi!).
Tutti i modi finora elencati sono “finiti”, cioè modi le cui voci esplicitano le informazioni
della persona e del numero. Non è questo il caso dei modi indefiniti o impliciti, come infinito
e gerundio, largamente usate nelle dipendenti il cui soggetto è implicito perché chiaramente
espresso nelle principali dalle quali dipendono. Il participio presente ha perso completamente

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il ruolo di verbo delle implicite (cosa che si è invece mantenuta nel francese) ed è oggi soltanto
un aggettivo o un nome deverbale, mentre il participio passato ha mantenuto la possibilità di
costituire il nucleo delle implicite. Nell’italiano contemporaneo è molto diffuso l’infinito
iussivo (aggiungere due uova), calco dell’inglese, e il gerundio indipendente (Ballando con
le stelle).
Il tempo esprime il rapporto che sussiste tra il momento dell’enunciazione e quello
dell’accadimento dell’azione descritta dal verbo in questione. Il presente esprime
contemporaneità tra questi due momenti, ma può anche eventualmente fare riferimento a
un’azione abituale (In Italia si beve molto caffè) o senza tempo preciso (il caffè rende nervosi).
Non raro è l’impiego del presente storico (la seconda guerra mondiale finisce nel 1945). Oggi
esso è impiegato largamente anche al posto del futuro, purché accompagnato da un
complemento nei casi in cui sia necessaria disambiguazione (prendo lo stipendio lunedì
prossimo).
Il futuro esprime un momento del fatto posteriore a quello dell’enunciazione, mentre
l’imperfetto indica eventi passati durativi (imperfetti, per l’appunto, perché non osservati nel
loro essere portati a termine ma nel loro svolgersi). Nell’italiano contemporaneo il futuro è
spesso usato con valore epistemico (Sarà come dici tu!), sconfinando dalla categoria del tempo
in quella del modo, così come ha fatto l’imperfetto, sostituendo nel parlato il congiuntivo e il
condizionale (Se lo sapevo, te lo dicevo).
Il passato remoto, invece, indica proprio l’opposto: un evento passato e concluso da tempo,
mentre il passato prossimo è resultativo: indica un’azione anteriore al momento
dell’enunciato, ma le cui conseguenze dirette agiscono sulla realtà in cui si trova l’enunciatore.
L’uso del passato remoto nel parlato è oggigiorno sempre meno frequente, se non in quelle
varietà di italiano regionale il cui sostrato dialettale sia privo del passato prossimo.
Gli altri tempi, contrariamente ai suddetti, non esprimono relazione tra momento
dell’enunciato e momento dell’evento, bensì tra momento dell’evento e momento
dell’enunciazione. Vengono pertanto definiti tempi anaforici e sono tutti quelli composti con
gli ausiliari (avevo appena finito di mangiare, quando arrivò lei).
Le perifrasi verbali sono particolarmente diffuse in italiano. La più impiegata è senza alcun
dubbio la forma progressiva espressa tramite stare + gerundio per indicare lo svolgimento
dell’azione e allontanare ogni possibile sospetto di abitualità, cosa difficilmente verificata in
alcuni casi con il presente dell’indicativo. Abbiamo già accennato alla massiccia riduzione dei
tempi e dei modi cui va incontro il parlato dell’italiano, ricordiamo pertanto che:
- il presente indicativo sostituisce spesso il futuro (ci vediamo dopo), l’indicativo

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imperfetto (sono dalla vicina e mi suona il telefono invece di ero dalla vicina, quando
mi è suonato il telefono) e l’imperativo (Ora porti il cane a fare i bisogni).
- il passato prossimo ha quasi totalmente sostituito il passato remoto (Mio padre c’è
stato quarant’anni fa), ad eccezione dell’uso nelle parlate meridionali, nelle quali può
trovarsi un’estensione del passato remoto per influenza del sostrato dialettale (Ieri mia
madre andò alla posta e trovò una fila enorme).
- l’imperfetto sostituisce i tempi normalmente usati in protasi e apodosi all’interno del
periodo ipotetico (se lo sapevo, te ne parlavo) ed è largamente usato nel racconto di
sogni o nella finzione ludica (Facciamo che io ero la fata).
- il congiuntivo è usato nel parlato sorvegliato e diafasicamente marcato in altezza.

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 3 – Morfologia e sintassi

Lezione 3
La morfologia lessicale

La morfologia lessicale è lo studio che riguarda i processi di formazione delle parole. Essi
avvengono sempre a partire da parole già esistenti. Si tratta di un campo particolarmente
interessante se consideriamo che le cosiddette neoformazioni costituiscono una buona
percentuale del lessico di una lingua. In questa e nella prossima lezione cercheremo, pertanto,
di esporre una classificazione delle neoformazioni usando come criterio distintivo il processo
di derivazione. Sulla base di tale criterio distinguiamo: derivati per conversione (a) e per
affissazione (b), composti (c), riduzioni (d) e polirematiche (e).

La morfologia derivazionale è l’analisi dei vari processi di derivazione. Essa può avvenire
tramite:
a. la conversione consiste nell’attribuire ad un lessema una diversa categoria grammaticale,
senza però modificarne la forma. Si tratta di una procedura particolarmente adottata dalle
lingue isolanti. Infatti, in inglese, lingua a tendenza isolante, to chat “conversare” > chat
“conversazione”. In una lingua fusiva come l’italiano non ricorre tanto spesso il fenomeno
della conversione. In questa lingua è sempre possibile attribuire valore di sostantivo ad un
verbo di forma indefinita, come nel caso del cosiddetto “infinito sostantivato” (Il ritrarsi delle
acque rincuorò gli abitanti del villaggio).
A rigore, però, una conversione può essere veramente definita tale solo quando il verbo
indefinito così sostantivato può essere flesso (sapere > il sapere/i saperi; potere > il potere/i
poteri) ed esercita una reggenza nominale (i saperi del venerando). Sono oggetto di
conversione il participio presente (gli abbaglianti, i concorrenti; talvolta aggettivale: un film
avvincente), il participio passato (udito, abitato, veduta, andata e, più raramente, il gerundio
(crescendo, dividendo, laureando ecc.). Molto frequente è poi il fenomeno della
lessicalizzazione, ovvero della trasformazione di elementi grammaticali in elementi lessicali.
Similmente nella categoria della conversione possono essere inseriti i nomi passati ad
aggettivi e gli aggettivi passati a nomi. Per quanto riguarda aggettivi e nomi gentilizi, è
possibile pensare che non si tratti di un fenomeno di conversione, se non di un fenomeno di

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generazione contemporanea del nome e dell’aggettivo - che, a differenza che in altre lingue,
non sono distinti nemmeno graficamente – (un campione romano, un romano).

b. l’affissazione è un processo derivazionale che avviene mediante l’aggiunta di affissi al


radicale di un lessema. Tali affissi possono essere prefissi o suffissi: avremo pertanto da una
parte la prefissazione e dall’altra la suffissazione. Questo tipo di meccanismi può dare origine
tanto al fenomeno della derivazione a ventaglio (da una stessa base si formano vari derivati
con suffissi diversi: perdere > perdita // perdizione), quanto a quello della derivazione a
cumulo (da una base deriva una catena di parole progressivamente arricchita di nuovi affissi:
nascere > rinascere > rinascimento > rinascimentale). Il fatto che l’italiano sia una lingua
fusiva con morfema grammaticale a destra è tra i motivi per i quali la suffissazione è, fra i
due, il fenomeno più frequente, oltre che quello che più facilmente consente una
neoformazione che abbia categoria grammaticale differente dalla parola che l’ha originata.
La suffissazione, infatti, genera le varie forme denominali, deverbali, deaggettivali e
deavverbiali. Considerando il punto di vista opposto, sulla base della categoria d’arrivo i
suffissi possono essere classificati in:
1. Suffissi nominali per la formazione di:
a. nomi d’agente: -tore, -ante/-ente, -one, -ino, -ista, -aro ecc.;
b. nomi d’azione: -zione, -mento, -aggio, -tura;
c. nomi di qualità: - ezza, -tà, -eria, -ismo;
2. Suffissi verbali (-izzare, -ificare, -eggiare);
3. Suffissi aggettivali (-oso, -ale, -are, -ile, -ico, -bile)
4. Suffisso avverbiale: -mente.
Non mancano suffissati la cui base sia costituita da un sintagma (menefregh-ista).
Anche l’alterazione è una forma di suffissazione, ma può essere considerata un processo
derivativo soltanto allorquando dia origine a un nuovo lemma (porta > porticina “piccola
porta” non è derivativo, mentre occhio > occhiello “asola” lo è). Questo processo, definito
“lessicalizzazione di alterato”, solitamente blocca l’alterato considerato come variante del
lemma e lo sostituisce con alterati paralleli (fioretto non è più “piccolo fiore”, lo è bensì il più
recente fiorellino).
La prefissazione prevede la formazione di nuove parole con categoria grammaticale identica
a quella della base - l’unica eccezione è rappresentata da anti-: mafia (nome) > antimafia
(agg.). I prefissi possono essere aggiunti a parole di categorie diverse, proprio perché non è
da essi che si può evincere la categoria grammaticale della parola in questione. Fra essi sono

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presenti molti prefissi di origine latina: ante-, super-, ex-, post-, trans-, extra-, stra- ecc.

c. la composizione. La formazione di parole può avvenire anche mediante la composizione,


ovvero l’unione di lemmi già esistenti e appartenenti alle più svariate categorie grammaticali:
nome, verbo, aggettivo, ecc. In alcune lingue i composti sono poco frequenti, ed altre in cui,
invece, esiste un vasto numero di parole composte anche da più costituenti, ed è questo il caso
dell’italiano. Il processo di composizione può differenziarsi a seconda dei lemmi che vi
prendono parte per generare la nuova parola:
5. N+N > N crocevia, pescecane;
6. A+N > N gentiluomo, nobildonna;
7. A+A > A (ma anche N) chiaroscuro, pianoforte
8. V+V > N saliscendi, giravolta;
9. V+N > N appendiabiti, lavastoviglie;
10. V+Avv. > N buttafuori;
11. Avv.+A > N benpensante;
12. Avv.+N > N non violenza;
13. Prep.+N > N sottobicchiere.

Come si vede negli esempi sopracitati il composto rientra nella categoria grammaticale di uno
dei termini che lo compongono e questo prende il nome di testa semantica, che, oltre a essere
base per la categoria grammaticale, attribuisce al composto genere, numero e i tratti sintattico-
semantici necessari alla contestualizzazione del termine. Sulla base di tale premessa e
soprattutto a partire da considerazioni di tipo semantico si possono distinguere:
d. Composti endocentrici, i quali hanno una testa semantica facilmente rintracciabile. In
italiano la maggior parte dei composti hanno testa a sinistra (camposanto, pescecane,
sono rispettivamente un campo e un pesce). Esistono composti arcaici o presi in
prestito dal latino che hanno la testa a destra, dato che il latino prediligeva l’ordine
determinante + determinato, poi invertito nella tendenza dell’italiano. Bisogna
aggiungere che esistono casi in cui entrambi i costituenti possono essere definiti “testa”
del composto: in questo caso i composti endocentrici sono definiti dvandva (termine
sanscrito); appartengono a questo tipo parole come cassapanca, o capomastro.
e. Composti esocentrici, nei quali la testa semantica non è facilmente rintracciabile, in
questo caso viene totalmente a mancare qualsiasi corrispondenza fra categoria e tratti
della testa e categoria e tratti dell’intero composto. Sono di questo tipo soprattutto i

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composti formati dall’unione di verbi, come dormiveglia, saliscendi, oppure di verbo
e sostantivo (portalettere), di preposizione e sostantivo (senzatetto), o altri
(pellerossa). Per quanto riguarda la flessione dei composti è quasi sempre bene
affidarsi alla testa del composto stesso, sarà essa colei che verrà flessa al plurale o in
caso di composti dvandva si fletteranno ambedue gli elementi. Degno di nota è il fatto
che i composti esocentrici rimangono per lo più invariati.
Degno di nota è il particolare processo della composizione neoclassica, meccanismo
privilegiato nelle lingue speciali (o settoriali), ma presente anche nel lessico comune. Esso
consiste nel formare parole da vocaboli tratti soprattutto dalle lingue classiche (greco e latino),
detti confissi (ad esempio, agri-coltura oppure piro-mane). La categoria di confissi è stata
creata proprio per definire questi elementi che si pongono in realtà tra lessemi – dato che
hanno base semantica autonoma – e gli affissi – dato che non possono essere usati
singolarmente.
Oltre che dalle lingue classiche, una lingua può trarre confissi dal proprio repertorio lessicale
(come nel caso dell’italiano come socio-, da sociale) o da quello di altre lingue moderne.
Il sistema con cui si sono formate questo tipo di parole si modella solo superficialmente sulle
lingue classiche, nel senso che la quasi totalità dei composti così formati non esistevano nelle
lingue antiche. Per esempio, la parola psicologo non esisteva in greco, ma esistevano le parole
ψῡχή “anima” e λόγος, “parola”, “discorso”, “argomento”).
Un altro processo relativo all’utilizzo di confissi è l’accorciamento della composizione, cioè
la riduzione del corpo di una parola a una sua parte, che conserva il significato della parola
interaIn tal modo il confisso auto- forma automobile, ma, se isolato, viene percepito come
“automobile” e può trasformarsi in un confisso semanticamente diverso e dare origine a nuovi
composti (autoricambi, che non sono “ricambi fatti da sè”, ma “pezzi di ricambio per
automobili”).

d. le riduzioni possono essere distinte in abbreviazioni (professore > prof.), che sono
antichissime e presenti da sempre nello scritto, sigle (gip “giudice per le indagini
preliminari”), acronimi (formati anche da pezzi di parole di un determinato sintagma, come
colf = col-laboratrice f-amiliare), blends (cantautore) e accorciamenti (bicicletta > bici).

e. le polirematiche o lessemi complessi sono quei lessemi che risultano formati da più di una
parola. Da un punto di vista sintattico, come costruzione, la polirematica presenta analogie
con il sintagma, ma una coesione interna simile a quella di una normale parola e può essere

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riusata in contesti sintagmatici differenti. Da un punto di vista semantico, come locuzione il
suo significato non è desumibile da quello delle parole che la compongono (basti pensare al
caso dell’agg. alla mano). I diversi tipi di polirematiche possono avere un maggiore o minore
livello di coesione interna.

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 3 – Morfologia e sintassi

Lezione 4
Sintassi: la frase semplice

Il sintagma
Molti linguisti applicano l’analisi della sintassi per prima cosa al sintagma, unione di lessemi
che costituisca unità semantica autonoma e minima combinazione di parole - rappresentata
almeno da una parola - che funzioni come un’unità della struttura frasale. In relazione ai vari
elementi che possono costituire la testa del sintagma (elemento caratterizzante dal punto di
vista sintattico) questo tipo di unità possono essere classificate come:
- Sintagma nominale (SN): la testa è un elemento della classe di parola dei nomi (N).
Giovanni, suo padre, un matrimonio, un bel matrimonio;
- Sintagma verbale (SV): la testa è un elemento della classe di parola dei verbi (V).
partì, vide Veronica, portò una doppietta, portò una doppietta a un matrimonio;
- Sintagma preposizionale (SPrep): la testa è un elemento della classe di parola delle
preposizioni (Prep). dentro, dentro casa, a un matrimonio, con una macchina nuova
- Sintagma aggettivale (SA): la testa è un elemento della classe degli aggettivi
Il sintagma in realtà è un’unità che può essere allo stesso tempo più piccola e più grande
della frase, intesa quest’ultima come unità alla cui base sta il nucleo verbale:
a. Maria ha (amici) SN
b. Maria ha (amici sinceri) SN
c. Maria ha (amici d’infanzia sinceri) SN
d. Maria ha (amici d’infanzia sinceri che le scrivono spesso) SN

Il sintagma nominale: posizione dell’aggettivo rispetto al nome


Il sintagma nominale è costituito dal nome e da tutte le sue espansioni: una delle più frequenti
è l’aggettivo, la cui posizione rispetto al sostantivo in italiano non è fissa. Mentre l’inglese
prevede l’obbligatorietà dell’anteposizione dell’aggettivo, la nostra lingua ammette sia
l’anteposizione che la posposizione. Eppure, è noto che v’è una generale linea di tendenza che
favorisce la posposizione, per la ragione già indicata precedentemente e che consiste nel fatto
che l’italiano privilegia l’ordine determinato-determinante, contrariamente al latino. Si può,

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in realtà, individuare una sorta di quadro generale del comportamento degli aggettivi italiani
nell’ambito della posizione:
- gli aggettivi che sono sempre anteposti al nome sono i dimostrativi, i numerali ordinali,
e i possessivi (con l’eccezione dell’uso allocutivo, come amore mio!).
- gli aggettivi che seguono sempre il nome sono gli etnici (un professore pugliese) e i
relazionali (la volontà divina), forse per la loro equivalenza con complementi di
specificaizone, che seguono sempre il nome.
- Aggettivi che possono essere tanto anteposti quanto posposti sono i qualificativi. Qui
possiamo individuare come criterio tanto la lunghezza e la frequenza dell’aggettivo -
tanto più corto e frequente sarà l’aggettivo, tanto più è probabile che sia anteposto al
nome (un caro amico, ma un amico inestimabile) - quanto la volontà di marcarlo (un
film bello evidenzia maggiormente la forza dell’aggettivo rispetto a un bel film).
Bisogna poi notare che alcuni aggettivi assumono significati diversi in relazione al
loro essere anteposti o posposti (un unico lavoro, “un solo lavoro” vs un lavoro unico
“un lavoro molto speciale”)
Dato che il sintagma stesso non può essere considerate se non in relazione ad altri sintagmi
e/o parole, e dunque all’interno di una frase, alcuni linguisti propendono verso una concezione
della sintassi essenzialmente come studio della frase, ovvero del modo in cui le parole si
dispongono le une rispetto alle altre all’interno delle frasi e, in secondo luogo, del modo in
cui le frasi si dispongono le une rispetto alle altre all’interno del periodo. Si tratta del più
complesso tra i livelli dell’analisi linguistica.
La frase semplice è una espressione linguistica di senso compiuto, presa in considerazione in
maniera isolata e che contiene un predicato e tutti i complementi necessari alla sua
completezza semantica. Il nucleo della frase è il verbo insieme a tutte le componenti che
servono a completarne il significato. La frase semplice è quella costituita da un unico nucleo.
Sappiamo bene che l’analisi logica che ha avuto finora maggiore fortuna nell’ambito del
sistema scolastico italiano ha privilegiato le categorie di soggetto e complementi. Eppure, il
riconoscimento della centralità del verbo all’interno della frase ha spinto molti studiosi della
sintassi a valutare quest’ultima da un punto di vista “argomentale”, cioè secondo una visione
che considera soggetto e complementi come argomenti del verbo stesso. Secondo tale criterio
si è stabilito il concetto di valenza del verbo, che consiste nel numero di argomenti che un
verbo è capace di trattenere nel nucleo. Distinguiamo pertanto:
− Verbi zerovalenti, come gli atmosferici piovere o nevicare;
− Verbi monovalenti, a unico argomento come gli intransitivi assoluti (camminare);

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− Verbi bivalenti, i cui argomenti sono soggetto e oggetto, che quest’ultimo sia diretto o
indiretto, ovvero introdotto da preposizione (mangiare). Potrebbero essere considerati
tali anche i verbi copulativi (essere, sembrare);
− Verbi trivalenti, che possono reggere fino a tre argomenti, come dire, dare, andare;
− Verbi tetravalenti, che ne reggono quattro come trasferire (es. io (1) mi (2) trasferisco
da Roma (3) a Bari (4)).
Naturalmente i valori finora elencati non sono necessariamente espletati, o, secondo il lessico
specifico, “saturati” ogni qualvolta il verbo in questione venga utilizzato (valenza non
saturata: io dico che gli autobus non passano più!; valenza saturata: ti ho già detto tutto.).
Tutti quegli elementi che ampliano il senso di un solo elemento del nucleo sono detti
“circostanti”, mentre quelli che si trovano al di fuori di esso sono dette espansioni, come nel
caso del complemento di tempo o degli avverbi frasali ecc.
Soggetto-verbo e tema-rema si relaziona in primis con il verbo. Questo rapporto, cosa che
abbiamo già parzialmente spiegato, può avvalersi del carattere implicito del soggetto, data la
trasparenza morfologica delle desinenze verbali (Tornerò tra un mese sottintende il pronome
soggetto io). Un’altra relativa libertà della quale l’italiano può godere è quella dell’eccezione
all’ordine tendenziale Soggetto-Verbo. La trasparenza morfologica ha anche permesso una
certa flessibilità del posizionamento degli elementi della frase, la quale è stata poi sfruttata
dalla tendenza dell’italiano a costruire in campo comunicativo da sinistra, ovvero a porre
prima l’elemento dato/conosciuto, che in linguistica è definito tema – lo si potrebbe anche
definire come “ciò di cui si parla” – e poi l’elemento nuovo/ignoto, cioè il rema – ovvero
“quello che si dice su ciò di cui si parla”. Il rema rappresenta in un certo senso l’informazione
chiave dal punto di vista comunicativo. Come è naturale, non esiste una coincidenza
obbligatoria tra tema e soggetto e rema e verbo: i rapporti possono essere facilmente invertiti
come dimostra l’esempio seguente:
Mario è entrato lì (tema: Mario; rema: è entrato lì)
È entrato Mario (tema: è entrato; rema: Mario)
Il verbo in italiano necessita dell’accordo con il soggetto. Le uniche eccezioni a questo
obbligo sintattico-grammaticale sono:
1. la concordanza ad sensum, la quale prevede che un verbo il cui soggetto sia un nome
collettivo singolare possa essere concordato al plurale, dato che il nome a una
pluralità si riferisce1: Un centinaio di turisti sbarcano ogni giorno su quell’atollo.
2. la pluralità di soggetti nell’ordine Verbo-Soggetto: Ieri c’era Antonio, Giovanni e
Luca.

73
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 3 – Morfologia e sintassi

Lezione 5
Sintassi: frasi segmentate, frase interrogativa, coordinazione e subordinazione

Frasi segmentate
Come già è stato indicato, l’ordine normale degli elementi all’interno della frase in italiano è
quello SVO (Soggetto-Verbo-Oggetto), ma, esattamente come l’ordine SV può essere
invertito, l’ordine della frase completa di oggetto e di altri complementi può essere cambiato
per esigenze di tipo comunicativo-pragmatiche. In questo caso, si definiscono le frasi
interessate da questo tipo di fenomeni come frasi marcate, per distinguerle da quelle “non
marcate”, caratterizzate dall’ordine normale. L’ordine marcato genera le cosiddette “frasi
segmentate”, caratterizzate da dislocazioni.

Dislocazioni
Una dislocazione prevede l’inversione dell’ordine tema-rema, soprattutto con un
complemento, che viene isolato dal resto della frase, nella quale viene richiamato tramite l’uso
di un clitico di ripresa.
La dislocazione può avvenire a sinistra e in questo caso il rema, ripreso dal clitico, precede
straordinariamente il tema: A Milano (rema), non ci sono mai stata (tema). Oppure a destra,
quando è il tema, anticipato dal clitico, a spostarsi straordinariamente dopo il rema: Non ci
sono mai stata (rema), a Milano (tema).
In entrambi i casi suddetti le informazioni che si possono evincere dall’enunciato sono le
stesse, ma cambia la volontà comunicativa.
Un caso particolarmente frequente è poi la dislocazione del complemento oggetto, che, in
relazione al modi nel quale viene realizzata dà un valore pragmatico ogni volta diverso alla
stessa sequenza significativa. In tal modo la frase non marcata Ho buttato (V) il tappo (O) può
essere realizzata anche come:
a. Il tappo l’ho buttato. Dislocazione a sinistra. Il tappo è ciò di cui si parla (tema), mentre
il verbo esprime ciò che del tema si dice (rema).
b. L’ho buttato il tappo. Dislocazione a destra. Il tappo rimane il tema perché anticipato

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dal clitico.
c. Il tappo ho buttato. Non dislocazione, perché non c’è ripresa del clitico, ma
focalizzazione, la quale viene resa attraverso l’intonazione. In questo caso il tappo è il
rema, posto in contrapposizione ad altri eventuali oggetti (Il tappo, non la bottiglia).

Il tema sospeso
Esiste infine un altro meccanismo di costruzione della frase in italiano, il quale viene definito
dai linguisti come “tema sospeso”. Si tratta di una modalità tradizionalmente chiamata dai
filologi con il nome di “anacoluto” (lett. “ciò che non è continuato”) in riferimento all’uso che
di questa strategia hanno sempre fatto i poeti. In realtà, più che un errore sintattico -
giustificato in poesia dalla libertà dello scrittore - si tratta più esattamente di un modo che la
nostra lingua adopera per sospendere il tema e isolarlo dalla parte restante della frase, e dunque
dallo stesso rema. Es. Io, ancora non mi è stato comunicato niente.
Risulta evidente che in tal modo il clitico di ripresa, quasi sempre presente in questo tipo di
costruzioni, non ha stessa funzione sintattica dell’antecedente tema sospeso: c’è divergenza
tra Io (pronome soggetto) e mi (pronome complemento).
Un’altra possibilità del tema sospeso è la ripresa non con clitico, ma con pronome tonico
(Giorgio, a lui non hanno fatto vedere niente).

La frase scissa e pseudoscissa


Molto frequente in italiano è la cosiddetta frase scissa, la quale si avvale della costruzione
della proposizione relativa per mettere in evidenza l’elemento rematico dell’enunciato.
Sono i bambini che non dormono
viene isolato l’elemento da mettere in evidenza (elemento scisso, in genere il soggetto come
per i bambini), combinato al verbo essere e ripreso dal pronome che, il quale introduce una
proposizione relativa: che non dormono. Si forma quindi un costrutto con reggente e
subordinata. Il nuovo costrutto, che non rispetta l’ordine privilegiato soggetto-verbo-oggetto,
è frutto di uno spostamento simile a quello della dislocazione a sinistra.
Il meccanismo delle frasi scisse è ripreso per la costruzione della frase pseudoscissa, la quale
ricorre al pronome dimostrativo seguito dal pronome relativo. Es. Quello che mi fa arrabbiare
è la tua indifferenza.

La frase interrogativa
Come ben sappiamo la frase semplice può essere classificata in relazione a vari criteri: uno di

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questi si basa sul rapporto che essa ha rispetto alla realtà che l’enunciatore riconosce o vuole
far riconoscere come vera. Se tale rapporto è di coincidenza ci troveremo davanti a una frase
affermativa, se è di opposizione avremo una frase negativa, se invece il rapporto è incerto
avremo una frase interrogativa.

rapporto desumibile con la


Frase tipo di frase
realtà

Gianluca ha 42 anni coincidente affermativa

Gianluca non ha 42 anni divergente negativa

Gianluca ha 42 anni? incerto interrogativa

Le interrogative possono essere a loro volta classificate secondo il tipo di risposta che
richiedono. In tal modo esistono le interrogative totali, che necessitano di risposta polare o sì
o no (Hai fatto colazione stamattina?), le interrogative disgiuntive (Preferisci la pasta o il
riso?) e le interrogative parziali, quelle introdotte da avverbi, aggettivi e pronomi interrogativi
(Come è andata a scuola?; Quale libro tra questi hai letto?; Chi ti ha dato il permesso di dire
questo ad Anna?).
Mentre molte lingue prevedono che l’interrogativa sia ordinata in maniera diversa dal punto
di vista sintattico rispetto all’affermativa e alla negativa (il francese può avvalersi sia della
particella grammaticalizzata Est-ce-que che dell’inversione soggetto-verbo, mentre questa è
pressoché obbligatoria in inglese), l’italiano ha perso questo tratto che gli era proprio fino a
qualche secolo fa; prova ne sia che molte interrogative si distinguono dalle corrispondenti
affermative solo per intonazione e come le affermative esse possono essere interessate da temi
sospesi, dislocazioni e segmentazioni. L’avverbio, il pronome o l’aggettivo interrogativi, i cui
corrispondenti affermativi, però, sono solitamente posposti al verbo, nel caso delle
interrogative vengono a esso anteposti e i rari casi in cui vengano posposti sono solo quelli
che prevedono una richiesta di chiarimento o conferma rispetto a una precedente affermazione
(Ho visto Giacomo. - Hai visto chi?).

La frase complessa: coordinazione e subordinazione


La frase complessa è quella polinucleare, cioè quella che possiede più di un nucleo, e dunque

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da più di una frase semplice. Questa unità, che è detta anche periodo può presentare rapporti
diverse fra le proprie subunità: se il rapporto fra le frasi prevede che esse siano poste sullo
stesso piano e siano autonome l’una dall’altra avremo la coordinazione (Ho visto Gianni e
l’ho trovato molto sciupato), viceversa, se il rapporto prevede la dipendenza di tutte le frasi
da una principale ci troveremo di fronte alla subordinazione (Sono andato a prendere Marzia
al lavoro, perché c’era sciopero dei trasporti). La coordinazione (o paratassi) è molto più
usata nel parlato, mentre lo scritto italiano predilige tendenzialmente la subordinazione (o
ipotassi). Possiamo anche affermare che, contrariamente a ciò che si verifica in molte altre
lingue, la letteratura scientifica italiana è mediamente molto complessa dal punto di vista
sintattico.
La subordinazione, infatti, in molti casi può non limitarsi a un primo grado, ma dalle
dipendenti possono dipendere altre subordinate, che costituiscono altri gradi di
subordinazione.
Es. Lo studioso asseriva (principale) che, benché vi fossero degli elementi convergenti nei due
manoscritti (subordinata di secondo grado), che si trovavano fin dall’inizio nello stesso
complesso monastico (subordinata di terzo grado), non sarebbe stato possibile verificarne la
datazione senza un esame più accurato (subordinata di primo grado).
Nel caso di divergenza tra soggetto della principale e soggetto della subordinata, quest’ultima
sarà necessariamente esplicita, cioè userà un verbo di modo finito. Nel caso, invece, di
coincidenza quasi sempre ci troveremo di fronte a subordinate implicite, che usano verbi di
modo indefinito, dato che il soggetto è desumibile dalla reggente.
Subordinata esplicita: Diceva che suo cognato era stato accusato ingiustamente.
Subordinata implicita: Diceva di essere stato accusato ingiustamente.

La frase relativa
La frase relativa è tra le subordinate più frequenti ed è legata non all’intera frase reggente,
bensì soltanto ad una sua componente, detta “antecedente”, ed è introdotta non da una
congiunzione subordinante ma da un pronome relativo. Sintatticamente parlando, possono
essere distinti due generi di relative:
- la relativa restrittiva, che è necessaria alla determinazione dell’antecedente (Il
campione italiano che ha vinto più medaglie alle olimpiadi);
- la relativa appositiva, che potrebbe essere tolta dal periodo senza compromettere la
comprensione corretta della reggente (La carne di maiale, il cui consumo è interdetto
ai musulmani, è sempre stata largamente richiesta in Europa).

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I pronomi relativi dell’italiano sono di tipo essenzialmente sintetico poiché svolgono il duplice
ruolo di introduttori della subordinata e di espressione della funzione sintattica assunta
dall’antecedente nella relativa: i più usati nello standard (il parlato usa quasi esclusivamente
questi) sono che e cui, i quali risultano meno precisi dal punto di vista sintattico (possono
essere riferiti ad antecedenti di numero e genere vario), mentre presentano maggiori
informazioni grammaticali, e pertanto hanno funzione spesso disambiguante, i meno
economici e molto più diffusi allo scritto il quale, la quale, i quali.
Nel parlato sono poi diffusi vari fenomeni particolari:
- l’uso del che polivalente, che è soltanto introduttore di subordinata relativa e non
esprime la funzione sintattica assunta dall’antecedente nella relativa stessa. Funzione
che è possibile però desumere dalla semantica. (Paese che vai, usanza che trovi);
- l’uso del che polivalente con ripresa del clitico, processo più marcato in diastratia: il
che è introduttore e la funzione sintattica è precisata dal clitico. (Mario ha preso la
tazza che ci aveva messo il caffè);
- l’uso di preposizione + cui/il quale con ripresa del clitico. (Conosco un posto in cui
uno si ci trova benissimo). In questo caso possiamo individuare un chiaro rapporto tra
questo tipo di uso e il processo di grammaticalizzazione che i clitici hanno subito con
alcuni tipi di verbi (entrarci, ad esempio).

78
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 3 – Morfologia e sintassi

Lezione 6
Rapporti tra pragmatica e sintassi

La pragmatica è una disciplina della linguistica che analizza l’uso contestuale della lingua
come azione reale e concreta. Non si occupa della lingua intesa come codice; al contrario,
osserva come e per quali scopi la lingua viene utilizzata, individuando il modo nel quale
soddisfa esigenze e scopi comunicativi. Più nello specifico, la pragmatica si occupa di come
il contesto influisca sull’interpretazione dei significati. In questo caso, per “contesto” si
intende “situazione”, cioè l’insieme dei fattori extralinguistici (sociale, ambientale e
psicologico) che influenzano gli atti linguistici.
Marina Sbisà, in Teoria degli atti linguistici, spiega così la maturazione della teoria stessa:
“La nozione austianiana di enunciato performativo ebbe fin dall’inizio connessioni tanto con
questioni di carattere linguistico, quanto con la dimensione dell’efficacia sociale degli
enunciati considerati. Nel porsi il problema di tale efficacia sociale, Austin seguiva un
suggerimento di Harold Prichard, filosofo oxoniense della generazione precedente, che ne
aveva discusso poco prima di lui in relazione alla promessa (Prichard 1949: 169-79; Austin
1962: 3-4). Ma Prichard non aveva una concezione del linguaggio che gli permettesse di far
dipendere l’efficacia obbligante della promessa dalle parole usate per promettere; perciò, per
lui tale efficacia rinviava a una fonte pre-linguistica delle convenzioni sociali, e rimaneva con
ciò sostanzialmente un mistero. Austin era invece disposto a considerare la creazione di
obblighi, e in generale la produzione di effetti socialmente validi, come usi del linguaggio.
Ciò probabilmente favorì l’estensione della portata della nozione di enunciato performativo a
tutti gli enunciati in cui un verbo alla prima persona del presente si mostra asimmetrico rispetto
alle altre persone e tempi eseguendo un’azione o segnalando un particolare uso del linguaggio
(Austin 1961: 100-101). Austin conosceva bene il pensiero di Frege e era al corrente delle
linee principali dell’insegnamento di Wittgenstein a Cambridge. Dissentiva per certi aspetti
da ambedue questi filosofi: diversamente da Frege, non accettava la centralità del linguaggio
assertivo, e diversamente dal Wittgenstein degli anni ‘30 e ‘40, non era disposto a dissolvere
il significato in una quantità innumerevole e indefinita di usi. In questo contesto, fra il 1950 e
il 1955 egli sviluppò la sua nozione di enunciato performativo in una prima formulazione della

79
teoria degli atti linguistici (Austin 1962). Uno degli aspetti centrali che consentono questo
sviluppo è che la forma linguistica caratteristica degli enunciati performativi viene considerata
come avente la funzione di rendere esplicita una “forza” che anche enunciati non aventi la
forma canonica possiedono, purché contengano altri tipi di indicatori dell’azione che
compiono. “Ti ordino di andartene” si presenta così come esplicitazione di “Vattene!”,
enunciato che il modo imperativo e l’intonazione già segnalano come un ordine; e persino “Io
asserisco che la terra è rotonda” si presenta come esplicitazione di “La terra è rotonda”,
enunciato che il modo indicativo del verbo segnala come un’asserzione. In secondo luogo,
Austin (1962: 37-41) sostiene che sia gli enunciati performativi che le descrizioni o resoconti
(da lui chiamati anche “enunciati constativi”) sono soggetti a fenomeni paralleli riguardanti la
presunzione della sincerità del parlante, gli impegni da questi assunti con il proferimento
dell’enunciato, e le circostanze il cui verificarsi deve essere presupposto. Sotto questo profilo
asserzioni e enunciati performativi mostrano di essere fenomeni del nostro comportamento
linguistico e sociale, che hanno una struttura sottostante in comune”.
La teoria degli atti linguistici elaborata da John Langshaw Austin a partire dal 1955 si basa
sul presupposto che con un enunciato non sia soltanto possibile indicare un contenuto o
sostenerne la veridicità dell’enunciato stesso, ma che la maggior parte degli enunciati servano
a compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo, per esercitare un particolare
influsso sul mondo circostante.
Un atto linguistico, pertanto, è sempre caratterizzato da tre aspetti:
− la locuzione (struttura ed enunciato), che prende in considerazione l’apparire
dell’enunciato stesso.
− l’illocuzione (obiettivo, intenzione comunicativa), che prende in considerazione lo
scopo dell’atto comunicativo in questione così come è stato concepito dal locutore.
− la perlocuzione (effetto dell’atto linguistico sull’interlocutore), che prende in
considerazione la ricezione e le conseguenze fattuali di essa.
Ad es., con l’enunciato è presto, ad una sola locuzione possono corrispondere diverse
illocuzioni:
− la semplice intenzione di constatare qualcosa a titolo di informazione
− l’intenzione di invitare qualcuno a rallentare.
− l’intenzione di invitare qualcuno a posticipare i suoi sforzi.
− l’intenzione di comunicare che è giunto il momento di congedarsi, perché non è ancora
il momento di avere un colloquio.

80
L’effetto dell’atto linguistico può a sua volta essere diverso a seconda del contesto (risposta o
meno da parte dell’interlocutore, azione non verbale o meno sempre da parte di chi ascolta,
magari con suo dispiacere o con sua approvazione)
La sintassi della frase italiana, come abbiamo già precedentemente visto, predilige un’apertura
che presenti gli elementi già dati dal punto di vista comunicativo per poi palesare solo in un
secondo momento gli elementi ignoti, che abbiamo definito “rema”. Anche per questo motivo
l’italiano è interessato dai vari meccanismi di segmentazione della frase che finora abbiamo
visto.
Pragmatica delle dislocazioni a sinistra. Dal punto di vista pragmatico, le dislocazioni a
sinistra in particolare sono usate per due ragioni: da una parte permettono di intervenire
attivamente nel discorso, mentre dall’altra servono chiaramente anche a cambiare l’argomento
della conversazione, cioè a far subire una svolta tematica alla conversazione stessa. In tutto
questo due ruoli fondamentali hanno il ruolo centrale del parlante da una parte, e la possibilità
di ricezione da parte del ricevente. Nel parlato queste costruzioni permettono, inoltre, sia di
supplire alla mancata pianificazione della comunicazione istantanea, sia di controllare
sintatticamente le frasi elaborate. La dislocazione a sinistra dell’oggetto, poi, permette anche
di evitare la costruzione di frasi di diatesi passiva, relativamente forzate.
...e delle dislocazioni a destra. Per quanto riguarda le dislocazioni a destra, quelle che
prevedono una pausa tra frase e complemento dislocato hanno un valore chiarificatore (L’ho
già fatta, la torta), mentre quelle che non prevedono tale pausa veicolano una certa
confidenzialità (L’hai fatta la torta?).
L’anticipazione tramite clitico di un pronome tonico (come mi interessa a me!) serve
invece a mettere in rilievo il referente del pronome stesso, che assume valore tematico.
La frase scissa nel parlato è usata per evidenziare il valore del soggetto solitamente (Sono io
ad averlo fatto!) o la negazione (Non è che sei il migliore) o gli operatori delle interrogative
(Qual è che hai comprato?).
La frase incorniciata ha anch’essa un valore oggi fondamentalmente evidenziatore rispetto
a un elemento della frase e risulta particolarmente marcata in diatopia. (E gli hanno detto pure
questo, gli hanno detto).
Le frasi interrogative hanno a volte significato non composizionale, come nel caso di hai
capito? “ma guarda un po’”.

81
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 4 - Varietà dell’italiano e rapporto con le altre lingue

Lezione 1
L’italiano parlato

Sappiamo già bene quanto il parlato, più e prima ancora dello scritto, sia l’oggetto dell’analisi
in campo linguistico: ne è derivata a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso la necessità
di approfondire i valori e le modalità espressive della lingua parlata in Italia. Abbiamo già
fatto riferimento nelle precedenti lezioni all’asse diamesico e al valore essenziale che esso
assume nella definizione del repertorio linguistico degli italiani. Non ne abbiamo però ancora
visto le caratteristiche fondamentali e il modo in cui la diamesia incide sulla nostra lingua. In
queste pagine lo faremo prendendo in considerazione alcuni tratti essenziali dell’italiano
parlato sotto i diversi punti di vista dell’analisi linguistica: quello fonetico, quello morfologico
e quello sintattico.

L’assenza di una grammatica propria all’italiano parlato


Certo è che l’esistenza di italiani regionali molto vari e diversi tra di loro è stato un fattore di
complicazione nella ricerca di questi caratteri essenziali del parlato, che variano come varia
diatopicamente la nostra lingua. Inoltre, l’italiano, a differenza di altre lingue nel mondo -
basti pensare al francese -, pur avendo una grammatica dello scritto molto codificata, non ha
una grammatica assestante dello standard parlato; anzi, potremmo dire che non ha un vero e
proprio standard parlato inteso come una varietà grosso modo compatta a livello nazionale. Il
parlato, forse per motivi di “età” della lingua a livello peninsulare, ha pertanto delle tendenze
che si distanziano solo relativamente da quelle dello scritto, e non per motivi peculiari
all’italiano stesso, se non per ragioni riconducibili al sostrato dialettale e alle peculiarità di
ogni versione parlata di una lingua, che ha particolari necessità (nel parlato è, ad esempio,
accentuata l’economia linguistica).
Fonetica. I suoni linguistici sono essenziali, ma per completare la comunicazione il parlante
medio italiano usa molto la gestualità: ne deriva una sorta di affiancamento complementare
tra segno linguistico e segno gestuale nella costruzione dell’atto linguistico. Per non parlare
dell’aggiunta dei tratti soprasegmentali. Appurato il carattere fondamentale di questi tre piani
(segmentale, soprasegmentale e gestuale: in effetti, un gesto o una particolare intonazione

82
possono modificare il carattere illocutorio di una determinata locuzione), ci dedichiamo
adesso all’osservazione di alcune caratteristiche condivise in campo locutorio dai parlanti
italiani, qualsivoglia sia la loro regione di appartenenza:
- l’aferesi, ovvero la soppressione di una vocale che dà inizio alla parola,
particolarmente diffusa nel caso in cui la vocale preceda un nesso nasale + consonante
(‘nsomma, ‘sto libro);
- la trasformazione dello iato in dittongo, se non prevedere un assorbimento pressoché
totale di uno dei due elementi vocalici (geografia, pronunciato “giografia”);
- l’elisione generalizzata della vocale finale prima di un’altra vocale (la macchina
d’Antonio);
- l’apocope vocalica, tipica dell’area settentrionale: son partita ieri.
- l’apocope sillabica, soprattutto al Centro-Sud, anche se più regionalmente e
diafasicamente marcate: me ne devo andà;
- la metatesi, come areoplano.

Morfologia
Sul piano della morfologia non esistono delle divergenze rispetto allo scritto, quanto piuttosto
una restrizione del repertorio di forme, soprattutto in campo pronominale e verbale. Il
pronome soggetto io è molto più utilizzato che nello scritto, dove ha principalmente funzione
contrastiva. Non di rado, e soprattutto al Nord, si trova l’uso nominativo del pronome tonico
(Vedi un po’ te), mentre sappiamo bene che la differenza sintattica tra egli/ella e lui/lei è stata
neutralizzata completamente a favore dei secondi. Accanto ai pronomi noi e voi nel parlato
sono usate le forme esclusive noialtri/voialtri.
Un altro carattere fondamentale e di particolare incremento negli ultimi decenni è l’uso dei
dimostrativi al posto degli articoli, sia determinativi che indetermintivi (Aveva addosso questo
cappotto con il collo rialzato).
I verbi, dal canto loro, subiscono spesso delle regolarizzazioni, soprattutto nel parlato
substandard. In tal modo sarà possibile notare nelle parlate diastraticamente marcate
paradigmi quali intervenì e soddisfava (invece di intervenne e soddisfaceva).
Similmente, è doveroso sottolineare il fenomeno delle riduzioni dei modi verbali, cui abbiamo
già precedentemente accennato; esso prevede che:
- il presente sia usato tanto come presente storico al posto dell’imperfetto (Mi trovo alla
posta e vedo quel tuo amico, quello alto), ma può anche sostituire il futuro (Torno
domenica) e l’imperativo (Ora gli metti il guinzaglio e lo porti a fare i suoi bisogni).

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- il passato prossimo ha largamente sostituito il passato remoto (Mio padre ci è andato
venti anni fa), tranne che in alcune realtà dell’italiano regionale il cui sostrato dialettale
favorisce l’uso del passato remoto, anche laddove occorrerebbe preferire il passato
prossimo per il suo valore aspettuale (Ieri mia madre andò al supermercato e mi
comprò lo yogurt alla frutta).
- l’imperfetto è oramai ampliamente impiegato tanto nella protasi quanto nell’apodosi
del periodo ipotetico (Se me lo chiedevi te lo dicevo) e nel racconto di sogni o nel
contesto di finzioni ludiche (Facciamo che io ero la fatina).
- il congiuntivo continua ad essere largamente adoperato prevalentemente nel parlato
sorvegliato e diafasicamente marcato in altezza.
Nel campo della morfologia lessicale non di rado sono impiegati alterati che tendono ad avere
effettivi comunicativi differenti: attenuativi, rafforzativi o affettivi (cosina, attimino,
minutino, maschietto, femminuccia ecc.).
Dal punto di vista sintattico abbastanza frequenti sono i mancati accordi di genere, spesso
legati all’interposizione di elementi dal genere e/o dal numero differente da quello cui
l’elemento da accordare sintatticamente si riferisce, o da accordi ad sensum (una cosa di tipo
politica). Di frequente è possibile riscontrare la presenza di interruzioni, frasi sospese e
autocorrezioni, per non parlare delle cosiddette “false partenze”. Dal punto di vista della
coordinazione le congiunzioni più adoperate sono e, ma, però, poi, allora, così, ma è di largo
impiego anche l’asindeto, cioè l’assenza di congiunzione coordinante.
Per quanto riguarda la subordinazione, abbiamo già notato come essa sia in realtà decisamente
meno impiegata nel parlato che nello scritto, anche per motivi in realtà legati alle
caratteristiche generali del parlato nelle lingue del mondo (per comprendere i rapporti
sintattici del parlato, solo raramente si può ripercorrere il testo).
Il pronome relativo dove ha spesso delle sovraestensioni: oltre che allo spazio è spesso riferito
anche al tempo o ad altri complementi. Rimanendo nell’ambito delle relative è poi frequente
trovare perifrasi ridondanti come quelli che sono…, che ha a volte funzione di rallentatore del
ritmo dell’enunciazione. Altrettanto frequentemente è possibile trovare avverbi frasali, che si
riferiscono all’enunciato nel suo complesso: brevemente, nello specifico, francamente ecc.

Il testo parlato ha un andamento circolare; tende cioè a ritornare su se stesso, questo anche
grazie a certe locuzioni di coordinazione, come per cui e perciò. Possiede inoltre:
Segnali demarcativi. Dato che esso tende alla frammentazione tanto sintattica quanto
tematica, il testo del parlato è ricco di segnali discorsivi che lo mantengono coeso. Fra questi

84
ritroviamo i demarcativi, i quali servono a farne notare – a “demarcare”, per l’appunto –
l’inizio, lo svolgimento e la fine del discorso (dunque, allora, cioè, e poi, niente, ecco, chiaro,
no?, insomma, basta).
Segnali fatici. Altri segnali discorsivi sono quelli fatici, che servono ad accertarsi
dell’apertura del canale comunicativo (capito?, figurati, mi sono spiegato?, ho reso l’idea?,
ci siamo? Vedi?, sai? ecc.).
Connettivi, che indicano la relazione tra le varie parti del testo. Oltre alle congiunzioni tipiche
dello scritto troviamo anche tant’è vero che, dato che, per il fatto che (causalità), perché poi,
che poi, a proposito, se è per questo (che introducono o chiudono una digressione).
Segnali di sfumatura, la cui funzione è essenzialmente pragmatica, dato che queste particelle
servono ad attenuare le affermazioni, permettendo al parlante di prendere le distanze dal suo
stesso discorso. Fra questi praticamente, voglio dire, per dire, nel senso, diciamo, mi pare.
Lessicologia del parlato. Il parlato dell’italiano, come quello di ogni lingua del mondo,
presenta chiaramente una riduzione del lessico rispetto all’enorme varietà terminologica in
uso nei testi scritti. Un ruolo fondamentale in questo campo assume la polisemia: tendono
infatti a essere maggiormente e frequentemente usati, anche in maniera abbastanza
ravvicinata, termini che hanno significato generico, la cui interpretabilità specifica sia poi
suggerita da altri elementi contestuali, come il cotesto o la gesticolazione. Fra questi lessemi
sicuramenti il verbo più usato, perché molto polisemico, è fare, mentre il sostantivo più usato
è cosa, con le sue varianti roba, affare ecc. Molti verbi assumono significati specifici, se
seguiti da particolari clitici, come nel caso di volerci ed entrarci, averci. Molto spesso ci sono
verbi generici, il cui valore semantico viene di volta in volta specificato tramite l’aggiunta di
avverbi o particelle. Sempre a scopi di economia lessicale sono impiegate le perifrasi, le quali
permettono di usare parole d’alta frequenza per indicare ciò che nello scritto sarebbe stato
indicato tramite un termine più specifico (come in quello dell’acqua per idraulico).

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 4 - Varietà dell’italiano e rapporto con le altre lingue

Lezione 2
Italiano giovanile e italiano popolare

Il parlato giovanile è prevalentemente una varietà marcata in diafasia; si tratta cioè del
linguaggio adoperato dai giovani in determinate situazioni comunicative, con una funzione
spesso ludica, antifrastica. Si tratta pertanto di un linguaggio spesso iperbolico e detabuizzato,
dato che, fra le altre cose, il campo semantico della sessualità è in questo caso reso più esplicito
che in altre situazioni comunicative. Nell’ambito dell’italiano, il linguaggio giovanile si rende
sempre più indipendente e specifico a partire dal secondo dopoguerra, epoca anteriormente
alla quale era difficile trovare un italiano giovanile vero e proprio, dato che le situazioni
comunicative dell’informalità prevedevano una certa prevalenza del dialetto. Del resto, ancora
oggi, nel linguaggio giovanile italiano il dialetto gioca una componente essenziale, soprattutto
da quando esso si è sottratto per ovvi motivi di sviluppo sociolinguistico alla stigmatizzazione
cui era soggetto un tempo in primis dal sistema scolastico.
Il parlato giovanile diventa una varietà scientificamente assestante a partire dagli anni Settanta
(in realtà soprattutto a partire dal ‘68), Ottanta e Novanta; anni ai quali risalgono del resto i
primi essenziali studi che lo riguardano.
Il linguaggio giovanile evolve anche più velocemente dello standard – si può dire che si
rinnova molto ad ogni nuova generazione e, tendenzialmente più dello standard, è soggetto a
variazione diatopica. La differenza tra l’italiano giovanile di una generazione e quello della
generazione successiva è da rintracciare nella valenza gergale che questa varietà linguistica
ha; il parlato giovanile è infatti per certi versi concepito proprio per non essere compreso da
chi alla propria generazione non appartiene (un esempio di gergalizzazione particolarmente
forte non è poi tanto lontano, se pensiamo al verlan francese, che sfruttava il processo
dell’inversione sillabica per rendere incomprensibile il parlare dei giovani a chiunque
appartenesse ad una generazione precedente, ma che oggi non è più comprensibile da parte
dei giovani ).
La struttura dell’italiano giovanile. Il sostrato del linguaggio giovanile italiano è
rappresentato principalmente da una varietà diamesica, che, prima ancora di essere propria dei
giovani, è propria di qualsiasi situazione comunicativa che permetta la colloquialità e

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l’informalità. Su questo sostrato di italiano colloquiale si trova una componente, come
abbiamo già accennato, essenzialmente dialettale e in quanto tale fondamentalmente diatopica
e legata alla dimensione linguistica della socializzazione primaria, cioè alla lingua della
famiglia. Un terzo strato è quello di tipo gergale, che deriva la propria varietà lessicale da vari
gerghi, tipici del mondo studentesco, militare, criminale (questo usato nella maggior parte dei
casi in senso chiaramente ironico) o della droga. Un’altra componente essenziale è costituita
da tutte quelle locuzioni tipicamente veicolate dal mondo dei media, che abbonda di parole
straniere o anglicizzanti. Infine, è possibile individuare alcuni termini che derivano da
linguaggi specifici di settore, i quali, perché solitamente lunghi e anche al fine di permetterne
il reinvestimento linguistico, vengono accorciati e usati in senso prevalentemente metaforico
(per esempio, scannerizzare “inserire nello scanner” > “squadrare”). In questo contesto si può
notare che le abbreviazioni o l’uso di sigle, che contribuiscono a economia linguistica e alla
gergalizzazione del linguaggio giovanile, taccano anche parole che appartengono al
patrimonio lessicale del colloquiale, come nel caso di spinello > spino e ragazzi > raga/raghi.
Il processo dell’antifrasi è fra quelli maggiormente utilizzati e riguarda solitamente parole
abbastanza frequenti nell’uso medio (bestiale); altrettanto utilizzata è l’iperbole (mitico!). Per
dare un’idea generale della realtà lessicale del giovanilese elenchiamo di seguito alcuni dei
lessemi che ad esso appartengono e che sono tra i più diffusi a livello nazionale: baciapile
“bigotto, ruffiano”, schizzato “pazzo”, flippato “esaltato”, gasato “euforico”, suonato
“pazzo”, figo “ragazzo piacente”, sfiga “sfortuna”, togo “simpatico e attraente” ecc.
La variazione diatopica, però, è notevole: basti pensare al modo in cui varia l’espressione del
concetto del “marinare la scuola” attraverso il paese3:
− Friuli – far lippe;
− Veneto – far manca/bruciare;
− Lombardia – saltare, bigiare;
− Piemonte – tagliare, bucare, fare schissa;
− Liguria – fare il ponte, saltare, bossare, conigliare;
− Emilia-Romagna – far fughino;
− Toscana – forcare, far forca;
− Marche – fare sgarraticcio;
− Lazio – far sega;
− Basilicata – far filone;


3
Da A. A. Sobrero (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo, vol. II, Laterza, Bari 1999, p.139

87
− Puglia – nargiare;
− Sicilia – buttarsela, fare l’ora.
Nell’ambito della costruzione fraseologica, poi, molte locuzioni sono state coniate, così come
molto produttivo è il parlato giovanile nel campo dei significati non composizionali.
L’italiano popolare. La variazione diastratica, cioè quella che prende in considerazione
l’appartenenza alle classi sociale ha grande incidenza sul repertorio della lingua. Nel caso
dell’italiano essa è legata soprattutto al grado di istruzione del parlante, e ai modelli di
riferimento che il parlante ha dal punto di vista comportamentale. Il principale criterio di
individuazione della variazione linguistica a livello diastratico è stato nel corso degli ultimi
decenni lo studio delle variabili sociolinguistiche.
Italiano substandard e italiano popolare. Una delle varietà diastratiche dell’italiano che
maggiormente ha suscitato l’interesse dei linguisti è quella dell’italiano popolare. Si tratta di
una categoria, la quale, però, non deve essere confusa con quella pure molto usata di
“substandard”; possiamo infatti affermare che il substandard è un concetto molto più ampio,
il quale, come il termine stesso suggerisce, ingloba tutte quelle varietà di italiano che possano
essere percepite come al di sotto dello standard, allorché l’italiano popolare è l’italiano parlato
dalle persone che hanno un basso grado di istruzione e che va ricondotto a due elementi di
influenza fondamentali:
− Il sostrato dialettale, che, poiché la competenza linguistica in italiano non è
mediamente controllata, influisce sulla produzione dando origine a una serie di
interferenze linguistiche e ipercorrettismi.
− La riorganizzazione della norma dello standard.
I testi dell’italiano popolare sono generalmente caratterizzati dalla maniera di elaborazione
testuale tipica del parlato spontaneo, anche quando il testo in questione sia scritto. Sempre dal
punto di vista della testualità, negli enunciati propri dell’italiano popolare non di rado si trova
la terza persona del verbo “dire” o del suo corrispettivo dialettale, la quale sembra sempre più
andare perdendo il suo valore semantico proprio e andare invece incontro a lessicalizzazione.
La sintassi dell’italiano popolare tende massicciamente alla paratassi, mentre molto spesso è
utilizzato il processo di costruzione a tema libero (o asindeto), nel quale la funzione sintattica
dell’elemento isolato, sia esso a destra come a sinistra, è privo di informazioni specifiche
riguardo alla funzione sintattica.
Es. Il pane per me ci penso io.
Il che polivalente è poi usato in maniera molto estesa, e molto spesso la sua funzione è ridotta

88
a semplice introduttore di subordinata relativa; anche per questa ragione, cioè per la sua
percezione come congiunzione subordinante, esso viene spesso posposto a congiunzioni
subordinanti complete nello standard, dando origine a locuzioni preposizionali, come mentre
che, quando che, siccome che, malgrado che, perché che e come che.
Altrettanto frequenti sono le frasi nominali, l’accumulo di preposizioni, gli scambi di funzione
grammaticale e/o sintattica, la riduzione della negazione (ti ho fatto niente, io) e molto più
presenti che nell’italiano parlato colloquiale sono le concordanze ad sensum.
La morfologia del popolare La morfologia flessionale dell’italiano popolare prevede:
− l’estensione di ci, usato anche come dativo generalizzato;
− l’ipercorrettismo le, usato anche al posto di gli;
− l’uso di li al posto di gli;
− l’uso di Lui/lo/gli al posto di Lei/la/le per l’allocutivo formale;
− la sovrabbondanza dei clitici (Non mi chiedermi);
− l’uso di suo invece che di loro;
− uniformazione del paradigma dell’articolo, privato solitamente delle varianti
allomorfe lo e gli;
− forme verbali regolarizzate per analogia;
− regolarizzazione per analogia delle desinenze nominali (cantanto);
− forme analitiche dei comparativi sintetici (il più migliore).
Lessico Il lessico dell’italiano popolare abbonda di paretimologie, come lecconeria e
malapropismi, cioè significati indicati con significante formalmente simile a quello adatto, ma
non esatto (alito per adito nell’espressione dare adito). Estesa l’introduzione di dialettismi,
anche non assorbiti dall’italiano regionale standard.

89
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 4 - Varietà dell’italiano e rapporto con le altre lingue

Lezione 3
L’italiano scritto

Lo scritto, come abbiamo già visto in riferimento alla storia della nostra lingua, ha
rappresentato per secoli il fondamentale strumento di diffusione dell’italiano. Sappiamo bene
che lo scritto letterario soprattutto ha avuto un ruolo fondamentale ai fini dello stabilirsi della
norma grammaticale. Nel corso del XX secolo questo ruolo fondante e prescrivente dello
scritto rispetto alla lingua ha cominciato a venire meno, anche data la forte pressione esercitata
dal parlato, che rappresenta sempre il principale grado di elaborazione linguistica. Anche la
possibilità di redigere con il metodo della videoscrittura ha decisamente cambiato la struttura
stessa di un testo scritto.
Grafia. Elenchiamo di seguito varie caratteristiche proprie dell’italiano scritto
contemporaneo, innanzitutto in campo grafematico.
1. Si tende a scrivere come univerbate le locuzioni lessicalizzate soprattutto, invece,
pressoché, peraltro, nonostante, ciononostante, allorché, mentre l’uso del trattino
appare a volte per costrutti come franco-spagnolo. I composti recenti nome +
nome, invece, non prevedono univerbazione (pre liberismo);
2. L’accento grafico riguarda innanzitutto dieci monosillabi (ché, dà, dì, è, là, lì, né,
sé, sì, tè) che lo richiedono per necessità di disambiguazione. Esso cade anche su
più, giù, può, già per indicare che si tratta di monosillabi il cui nucleo è costituito
da dittonghi. Per analogia non mancano altri monosillabi che vengono accentati
in maniera evidentemente superflua, dato che l’accento grafico non può avere
alcun valore disambiguante in casi come stò, stà, fa, qua, quì, come del resto
sempre più frequente si trova può accanto al non sanzionato puo’. L’accento è poi
spesso sostituito dall’apostrofo nelle maiuscole dei documenti in burocratese e
non solo, per ragioni legate alla maggiore facilità di inserimento di tale segno nella
videoscrittura. L’accento circonflesso è tradizionalmente adoperato per plurali
come promontorȋ.
3. Le apocopi e le elisioni, sovrabbondanti nel parlato, sono decisamente ridotte.
4. Riduzione della d eufonica in ad, ed, od, utilizzata soltanto in caso di parola

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iniziante con stessa vocale della preposizione o congiunzione in questione.
5. I grafemi si sono recentemente ampliati, con l’introduzione di lettere tipiche degli
alfabeti stranieri e più o meno ludicamente applicate a lessemi italiani da una
parte, e di simboli matematici per la scrittura rapida dall’altra.
Morfologia. La morfologia dell’italiano scritto è esattamente quella prescritta dalle
grammatiche, almeno per lo standard. Oltre alla prevalenza delle forme egli/ella al posto di
lui/lei. Resiste il pronome Ella come allocutivo di cortesia. Non di rado si ritrova la posizione
enclitica del pronome si in espressioni come affittasi, chiamasi, vendesi, cercasi. Codesto è
impiegato con valore anaforico nell’italiano burocratico e nella saggistica. Per quanto riguarda
i verbi tutte le forme vengono impiegate e il congiuntivo è generalmente utilizzato anche
laddove il parlato standard non lo mantiene. L’imperfetto assume talvolta valore perfettivo in
espressioni come Nel 1789 scoppiava la rivoluzione francese. Sono ancora adoperati nello
scritto i vari tempi composti, generalmente più rari nell’oralità.
Sintassi. Lo scritto predilige la frase non marcata, cioè priva di dislocazioni, temi liberi o
sospesi ecc. Non mancano eccezioni all’ordine SVO, che pure è nella maggior parte dei casi
rispettato, e sicuramente più che nel parlato. Sono più frequenti che nell’orale le locuzioni
preposizionali come a livello di, nella misura in cui, eccezion fatta per ecc. In alcune categorie
testuali ad avere il massimo valore semantico sono i sintagmi nominali e non quelli verbali
(tendenza inversa a quella del tedesco). In generale si può affermare che l’italiano scritto, in
maniera opposta rispetto a ciò che in precedenza abbiamo notato del parlato, predilige
l’ipotassi alla paratassi. Sempre più esteso appare ultimamente l’uso del cosiddetto gerundio
assoluto.
Notevole risulta ultimamente la tendenza allo stile nominale, favorita in particolar modo dalla
scrittura giornalistica: nella maggior parte dei casi il fenomeno che permette la
nominalizzazione è l’ellissi verbale, per la quale il verbo viene graficamente omesso, ma
risulta in un certo senso sottinteso chiaramente
Il testo scritto presenta un serie di elementi che lo rendono tale e che sono legati a varie
esigenze comunicative. In primis esso risulta decisamente più denso del testo parlato, a meno
che non prendiamo in considerazione lo scritto burocratico, che tende a rimanere abbastanza
diluito, e questo principalmente grazie a determinate locuzioni. Nello scritto inoltre i rimandi
testuali possono essere più distanti che nel parlato per ovvi motivi, come dimostrano i lunghi
periodi che possono frapporsi tra i seguenti legamenti: non solo, …ma anche; da una parte,
…dall’altra, da un lato, …dall’altro; in primo luogo…in secondo luogo.
Nell’ambito della costruzione testuale dello scritto un ruolo fondamentale hanno

91
comprensibilmente i segni di interpunzione:
- La virgola ha varie funzioni. Può indicare l’asindeto, ma il suo uso è molto spesso
sintattico: serve a separare la subordinata dalla reggente. Molti la usano anche per
isolare i connettivi logici e le incidentali, oltre che per isolare la relativa, ma soltanto
quella limitativa;
- Il punto separa solitamente un enunciato dall’altro;
- I due punti servono a mettere in rapporto due enunciati, uno dei quali esplicativo
rispetto all’altro oppure contenente il discorso diretto inserito tra virgolette;
- Il punto e virgola serve a separare due enunciati che hanno una certa relazione
L’italiano scritto letterario. Spiccano innanzitutto gli usi particolarissimi dei segni di
interpunzione, che non sempre rispettano la costruzione sintattica della frase, ma la
interrompono, con effetti di ellissi e di messa in rilievo, fino ad arrivare non solo a frasi
nominali, ma perfino a enunciati costituiti da una sola parola. In altri casi la punteggiatura
tende a riprodurre sulla pagina scritta le pause e la prosodia del parlato, anche al di fuori dei
discorsi diretti. Sul piano morfosintattico, notevoli, soprattutto in poesia, le omissioni
dell’articolo determinativo e le anteposizioni dell’aggettivo al sostantivo; le coordinazioni
sono realizzate spesso per asindeto, senza congiunzioni, o per polisindeto; frequenti risultano
le frasi interrogative ed esclamative, alla ricerca di una dialogicità che in altri tipi di testi scritti
manca del tutto. Dal punto di vista lessicale, 1’italiano letterario contemporaneo attinge ai
registri e ai sottocodici più disparati, compresi 1’italiano colloquiale e i dialetti, ma recupera
spesso anche arcaismi e latinismi e conia parole nuove: particolarmente significativa, in
poesia, la presenza di verbi parasintetici. Ripetizioni dello stesso termine sono usate
volutamente, per ricerca di effetto. Nei testi letterali abbondano metafore, metonimie,
sineddochi e altre figure retoriche diverse da quelle usate nella lingua comune. Soprattutto
nella lingua poetica, la coesione testuale e affidata anche alla prosodia e a effetti sonori.
L’italiano scritto scientifico. L’italiano della prosa tecnico-scientifica adotta spesso una
struttura testuale di tipo argomentativo, con formulazione di ipotesi al congiuntivo e strutture
sintattiche di tipo deduttivo. Dal punto di vista lessicale abbondano i tecnicismi, propri del
linguaggio scientifico in generale o di particolari sottocodici; spesso si tratta di parole formate
con elementi latini e greci o con particolari prefissi e suffissi (-zione, -ite, -logico, -osi, ecc).
La sinonimia è, se non proprio assente, certo ridotta. Rigorosa, come nei testi legislativi,
appare la suddivisione in paragrafi e capoversi. Notevole è la presenza di parentesi, che
introducono spesso elementi esplicativi (preceduti da cioè). La subordinazione è ovviamente
molto diffusa, ma notevole è anche la presenza di frasi incidentali, racchiuse tra trattini o entro

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parentesi, e di frasi nominali. Sul piano lessicale, spiccano 1’abbondante aggettivazione, la
scelta di termini tecnici o ricercati, spesso semanticamente vaghi, e 1’uso metaforico di parole
del linguaggio comune o proprie di altre lingue speciali.
Italiano scritto legislativo. I testi normativi, comprendenti, leggi, decreti, regolamenti e altri
documenti assimilabili, che richiedono molta esplicitezza e sono caratterizzi da una notevole
rigidità già sul piano della distribuzione dell’informazione: lo dimostrano la rigorosa
suddivisione del testo in capoversi, spesso numerati e concatenati da chiari legami sintattici,
e 1’uso della punteggiatura, che rispetta sempre la costruzione sintattica della frase. L’ampio
ricorso al passivo, il rifiuto della sinonimia, la presenza di tecnicismi e latinismi sono altri
tratti caratteristici della lingua della legislazione italiana, insieme alla “saturazione delle
valenze verbali” attraverso l’esplicitazione. Direttamente legata alla lingua delle leggi è quella
della burocrazia, che costituisce tuttora per molti aspetti una sacca di conservazione e presenta
elementi, che rendono il testo oscuro o ambiguo ai potenziali lettori.

93
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 4 - Varietà dell’italiano e rapporto con le altre lingue

Lezione 4
Le varietà trasmesse

Il parlato trasmesso
La nascita e la diffusione dei mezzi di trasmissione a distanza del parlato è stata in Italia
storicamente importante perché ha favorito quella unificazione nazionale sul piano dell’uso
linguistico orale che sarebbe stato altrimenti un traguardo di più difficile e lenta realizzazione.
La radio, che in Italia iniziò le trasmissioni regolari a partire dal 1925, è stata per decenni il
principale mezzo di intrattenimento e di informazione e, conseguentemente, uno dei più
importanti canali di diffusione dell’italiano parlato e anche “cantato” visto che la musica
leggera ha avuto nelle trasmissioni radiofoniche uno spazio particolarmente ampio (come ha
tuttora, sebbene ormai anche in questo campo prevalga 1’inglese). Anche il cinema sonoro,
diffuso in Italia a partire dagli anni Trenta, ha costituito un importante veicolo di diffusione
dell’italiano parlato in tutte le classi sociali. Ciò vale tanto per la produzione nazionale quanto
per quella, negli ultimi anni preponderate, dei film stranieri, che sono stati sempre fruiti dalla
grande massa del pubblico attraverso la pratica del doppiaggio (quindi con dialoghi in italiano)
e non con i sottotitoli.
La televisione, infine, iniziata nel 1954, ha svolto, soprattutto nel periodo del monopolio RAI,
e cioè fino alla fine degli anni Settanta, un’importantissima funzione unificante e
modellizzante sul piano linguistico. Alla radio e in televisione, però, negli ultimi anni,
soprattutto dopo 1’avvento delle reti private, si è avuta una vera e propria irruzione del parlato,
attraverso le telefonate in diretta, la cosiddetta TV verità il talk show. Da maestre di italiano,
la radio e soprattutto la televisione sono diventate specchio della realtà linguistica
contemporanea anche nei suoi aspetti più informali.

L’italiano al telefono
La comunicazione telefonica limitata a due interlocutori, è giustamente considerata il tipo di
trasmesso più vicino alla conversazione spontanea faccia a faccia: si tratta infatti di una
comunicazione bidirezionale, tra due soli interlocutori, in cui si utilizza la voce, con tutte le
sue variazioni di intonazione, volume, tono e accento. II trasmesso telefonico, però, si

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presenta, almeno in parte, programmato; chi telefona ha di solito qualcosa da comunicare.
Rispetto al parlato, inoltre, nel trasmesso telefonico gli interlocutori non si vedono e non sono
nella stessa situazione: manca dunque la possibilità di ricorrere al supporto di codici gestuali
ed è ridotto 1’uso di elementi deittici riferiti allo spazio. Inoltre, perché la comunicazione
riesca, è necessario rispettare i turni dialogici, ed evitare sovrapposizioni. Poiché il rischio di
rumori e di interruzione del canale è sempre piuttosto alto, la conversazione per telefono
presenta molti più elementi ridondanti rispetto al discorso parlato ed è caratterizzata dalla
frequenza dei segnali fatici, alcuni dei quali esclusivi di questo canale (pronto?, ci sei?, mi
senti?), che assicurino il contatto; anche i silenzi vengono per lo più riempiti con esclamazioni,
sospiri, risate o altri segnali. Nella conversazione telefonica assumono un ruolo centrale alcuni
elementi rituali (riconoscimenti, saluti, convenevoli, scuse, ecc.) che sono diversamente
regolati a seconda del grado di formalità e di confidenza tra gli interlocutori e della loro classe
sociale; tra familiari e amici cresce invece notevolmente 1’uso del dialetto. Particolarmente
importanti sono i segnali di apertura (pronto?) o anche semplicemente (sì?), di presentazione
e di riconoscimento (chi parla?, sono Bianchi, parlo con il signor Rossi? e simili), di chiusura
(normalmente, le formule di saluto).

L’italiano della radio


I testi radiofonici, per molto tempo hanno fatto parte della categoria del “parlato-scritto”: si
trattava infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, di testi scritti letti ad alta voce:
un’eccezione notevole ma parziale (dato il ricorso a formulari e stereotipi) è stata costituita
dalle radiocronache sportive. Tuttora molti testi trasmessi per radio (notiziari, bollettini
meteorologici, annunci pubblicitari, ecc.) sono scritti, in tutto o in parte. II parlato autentico è
entrato nella radio piuttosto tardivamente: dapprima, a partire dalla fine degli anni Sessanta,
grazie a trasmissioni in cui potevano intervenire in diretta da casa, attraverso il telefono, anche
gli ascoltatori; poi soprattutto in seguito all’avvento delle radio private, molto aperte al parlato
informale.
Dal punto di vista fonetico, 1’italiano radiofonico ha presentato tradizionalmente un buon
grado di standardizzazione; anzi la radio è stata, insieme al teatro di prosa, uno dei pochi
luoghi privilegiati dello standard parlato: per molti anni gli annunciatori radiofonici, addestrati
in appositi corsi, hanno esibito una dizione priva dì tratti regionali. La pronuncia standard è
tuttora diffusa alla radio non solo nei programmi culturali, ma anche nei notiziari e negli
annunci pubblicitari a diffusione nazionale. Le pronunce regionali vanno però sempre più
espandendosi è sono di gran lunga prevalenti nelle radio locali; presso i disc-jockey si segnala

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talvolta la presenza di tratti settentrionali, autentici o di imitazione.
Dal punto di vista sintattico, i testi scritti per la radio devono rispettare le “regole” elaborate
da Carlo Emilio Gadda nel 1953: uso di frasi brevi; preferenza per la paratassi; si evitano
incisi, parentesi e inversioni sintattiche. II parlato radiofonico attuale accoglie largamente i
tratti propri del parlato autentico, anche se ne evita, in genere, le forme più estreme.

L’italiano del cinema


II parlato cinematografico a rigore di termini rientra, insieme a quello teatrale, nel “parlato
recitato”, in quanto è basato su sceneggiature scritte; soprattutto la produzione comica ha però
spesso lasciato in Italia un certo spazio all’improvvisazione.
Dal punto di vista storico, dalla lingua tendenzialmente stilizzata, neutra e libresca, propria
delle produzioni degli anni Trenta-Quaranta, si è passati, dal neorealismo in poi, a un italiano
più naturale e vario, ricco di tratti regionali, spesso peraltro legati a nuovi stereotipi.
L’utilizzazione dello standard parlato ha conosciuto sempre notevoli eccezioni: la varietà delle
pronunce regionali ha infatti trovato accoglienza nel cinema ben prima che nel teatro in lingua,
alla radio e alla televisione; più contrastata, invece, è stata la presenza cinematografica dei
dialetti. Tra le varietà regionali e i dialetti utilizzati al cinema, particolare fortuna hanno avuto
il romanesco e la varietà romana di italiano, sia per la loro relativa prossimità allo standard,
sia per la concentrazione della produzione cinematografica nazionale nella capitale, sia per la
numerosa e qualificata presenza di attori romani o laziali.

L’italiano della televisione


L’italiano della televisione presenta storicamente aspetti simili a quelli della radio, con una
maggiore apertura al dialetto. Inizialmente le trasmissioni televisive si sono infatti basate su
testi perlopiù scritti e hanno utilizzato una lingua non solo, almeno tendenzialmente
standardizzata, ma anche con una funzione modellizzante molto accentuata: scarsa specie
rispetto alla radio, la presenza dello stile nominale, anche negli annunci (introdotti o conclusi
da verbi come andrà in onda, abbiamo trasmesso). Anche la televisione si è aperta, dagli anni
Settanta in poi, al parlato autentico, con tutte le sue varietà. Gli speakers depositari della
corretta pronuncia standard hanno da tempo ceduto il posto nei notiziari a giornalisti non
sempre addestrati in appositi corsi di dizione. II dialogo è diventato inoltre genere testuale
predominante: anche le telecronache sportive sono ormai generalmente a due voci e il talk
show rappresenta forse il genere tipico della televisione attuale, con sensibili variazioni
sull’asse diafasico e diastratico a seconda dei partecipanti e dei temi trattati, ma con discese

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in basso anche molto accentuate, che producono spesso quello che è stato definito
“iperparlato”. Nelle trasmissioni culturali si usa un italiano parlato di tono più formale. Alla
televisione continua ancora, inoltre, la pratica della lettura, con pronuncia standard, di testi
scritti, soprattutto tradotti (Idem: 214).

Lo scritto trasmesso
Con la nascita del trasmesso lo scritto sembrava destinato a una lenta ma inesorabile fine:
invece poi il nuovo mezzo ha rilanciato anche la lingua scritta, come dimostra il recente
sviluppo, anche in Italia, dei siti Internet, della posta elettronica (e-mail), delle chat-lines e,
infine, dei messaggini telefonici (SMS).
I testi scritti trasmessi tendono alla brevità o comunque a semplificarsi e a strutturarsi in parti
brevi; ne consegue 1’abbandono o la riduzione delle strutture subordinate, caratteristiche
dell’italiano della tradizione letteraria. La ricerca della concisione nei testi scritti trasmessi e
documentata anche dal frequente ricorso a sigle, abbreviazioni, accorciamenti (come info per
“informazioni”) e ad altri espedienti grafici che producono, a volte, codici di scrittura
parzialmente alternativi a quelli tradizionali.
La caratteristica comune, in diversa misura, ai testi scritti trasmessi è la ricerca della
dimensione dialogica; da qui la simulazione, mediante particolari accorgimenti, di tratti propri
del parlato o comunque 1’adozione di un tono meno formale rispetto alla scrittura tradizionale.
Nei siti Internet, come già nella videoscrittura sul computer, lo scritto acquista la possibilità
di strutturarsi su più piani, in profondità: non ci troviamo di fronte a testi ma piuttosto a
ipertesti, i cui confini precisi sono stabiliti, interattivamente, dal ricevente, che può aprire
nuove pagine su parole messe in rilievo con appositi link. I siti web, del resto, non si scrivono,
ma si allestiscono e non si leggono, ma si visitano, con una consultazione più o meno veloce,
durante la navigazione in rete. II testo scritto è normalmente supportato da colori, immagini,
talvolta anche da suoni.
Per risultare efficaci, i testi in rete devono necessariamente essere brevi, lineari, asciutti: solo
così possono essere letti velocemente e con profitto; la “densità lessicale” propria della lingua
scritta appare dunque qui particolarmente sfruttata ed enfatizzata. Dal punto di vista sintattico,
i periodi si strutturano preferibilmente in frasi brevi, separate dal punto e con frequentissimi
a capo. Notevole la presenza dello stile nominale.
Sul piano testuale, le nuove modalità di ricezione richiedono di sfruttare al meglio la struttura
ipertestuale del mezzo, distribuendo le informazioni “a più piani”, in unità diverse, via via più
lunghe e complesse.

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La posta elettronica (e-mail) presenta, in termini di economia e di rapidità, una serie di
vantaggi rispetto alla posta tradizionale e al telefono: è possibile spedire in tutto il mondo, in
pochi secondi e al costo di una semplice telefonata urbana, documenti anche molto lunghi,
indirizzati a più destinatari, tutti più o meno noti all’emittente. Per questo la posta elettronica
è usata soprattutto per comunicazioni urgenti o, più spesso, informali.
II messaggio di posta elettronica è una forma di scrittura più vicina alla telefonata che non alla
lettera: lo stile tende alla colloquialità; a volte mancano perfino riferimenti diretti all’emittente
e al destinatario.
Gli SMS condividono con la posta elettronica e le chat-lines 1’uso di emoticons, sigle e
abbreviazioni; queste ultime sono particolarmente abbondanti, sia per il limite del numero
complessivo dei caratteri, sia perché gli utenti dispongono di una tastiera molto ridotta. Se ne
segnalano infatti di specifiche: da abbreviazioni ottenute con le prime consonanti della parola
(cmq vale comunque, qnd e qnt rispettivamente quando e quanta, msg sta per messaggio) a
sigle formate con le iniziali delle parole della frase (tvb sta per ti voglio bene e tvtb per li
voglio tanto bene).
Le modalità di scrittura degli sms, che per certi aspetti possono ricordare la stenografia,
assumono anche caratteristiche proprie del gergo, che vuole essere incomprensibile
all’esterno, ma soprattutto segnare l’appartenenza a uno stesso gruppo; del resto i messaggini
telefonici sono utilizzati da molti giovani e giovanissimi utenti prevalentemente con questo
scopo o comunque con funzione indica.
Sul piano sintattico e testuale, ovviamente, i testi sono caratterizzati dalla brevità e dalla
linearità.

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LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 4 - Varietà dell’italiano e rapporto con le altre lingue

Lezione 5
L’italiano e le altre lingue romanze

Italiano e francese
II francese è di gran lunga la lingua straniera che nel corso dei secoli ha maggiormente
influenzato 1’italiano. Le parole di origine galloromanza (francesismi propriamente detti e
provenzalismi) costituiscono oggi circa il 4% del repertorio lessicale italiano; una percentuale
che quasi si raddoppia se si tiene conto solo del cosiddetto lessico di base, ovvero dell’insieme
di parole più comuni nella lingua di tutti i giorni. Non solo, ma – essendo 1’influsso francese
il più antico ad aver agito sulla lingua italiana – si deve tenere conto di una serie
numerosissima di parole che entrate in italiano in un determinato periodo, sono uscite dall’uso
dopo una permanenza più o meno lunga. L’inizio dell’influsso galloromanzo sull’Italia va
fissato all’epoca della dominazione carolingia (IX-X secolo). Le condizioni per un’azione di
superstrato (ovvero per l’influsso esercitato dalla lingua di un popolo dominante) si
verificarono in seguito anche nel Mezzogiorno con i regni normanno e angioino. Tracce di
gallicismi si trovano già nel latino medievale (il che vale soprattutto per i termini
dell’amministrazione feudale) e i prestiti sono abbondanti in molti volgari antichi di area sia
settentrionale sia meridionale (numerosi sono i gallicismi diffusi nei dialetti e assenti nella
lingua).
Concentrandosi su ciò che è pervenuto stabilmente all’italiano, sarà da notare che denunciano
una provenienza francese o provenzale alcune parole del lessico elementare. Dal francese
provengono, ad esempio, mangiare, oltre a burro, cugino, giallo, pensiero, roccia, viaggio: dal
provenzale bugia, coraggio, pensiero, speranza: a volte si ritrovano esiti paralleli come saggio
(dall’antico francese). Inoltre, vengono fatti propri dall’italiano alcuni suffissi, come -aggio, -
izzare, che sono molto produttivi e vengono utilizzati nella formazione delle parole
indipendenti dal modello di partenza.
Nel Settentrione (e particolarmente nel Veneto) lo stretto contatto fra popoli confinanti e la
somiglianza fra parlate locali e lingua d’oltralpe porterà a fenomeni d’interferenza che
giungono fino all’ibrido della cosiddetta letteratura franco-italiana. Proprio l’ampia diffusione
dell’epica antica francese rende difficile distinguere, all’interno del lessico cavalleresco, ciò

99
che e di provenienza letteraria e ciò che si diffonde per altre vie.
II prestigio della letteratura francese antica e provenzale è ben presente al Dante del “De
volgari eloquenza”, il quale osserva che la lingua d’oil poteva rivendicare a sé il primato tra
le lingue romanze per la sua maggiore facilità e piacevolezza e per essere stata adottata dai
primi prosatori volgari; la lingua d’oc poteva vantare, invece, la preminenza nella lirica, in
quanto lingua più compiuta e dolce.
L’altro canale attraverso il quale i francesismi si diffondono presso un pubblico piuttosto largo
e costituito dai giornali. Le gazzette, i periodici femminili, le miste letterarie, scientifiche o
“militanti” si fanno portavoce – con modi e sfumature diverse – della nuova cultura e del
nuovo costume e quindi, volontariamente o involontariamente, portatrici di espressioni
francesizzanti che prendono via via sempre più piede.
In assenza di un vero italiano parlato, d’altra parte, il francese era diventato, per le classi colte
di molte regioni d’Italia, 1’altra lingua della conversazione, accanto al dialetto. Ben note sono
le testimonianze del Manzoni che chiede ai suoi consulenti 1’equivalente toscano di parole
francesi per lui spontanee come nuance “sfumatura”, griffers “ganci”, signalements
“connotati” o del Verri, che racconta come la conversazione a tavola avvenisse, nella sua
famiglia, proprio in francese. Ma il cambiamento storico-culturale destinato a ridurre in
maniera decisiva 1’influenza del francese sull’italiano sarà quello determinato dalla seconda
guerra mondiale. Nel nuovo assetto del secondo dopoguerra, il modello a cui guardano le
nuove generazioni è ormai quello angloamericano. Conferma questa perdita di prestigio anche
la rinnovata tendenza all’adattamento, che solo in piccola parte si dovrà al nuovo tramite orale
radiotelevisivo.
II francese continua inoltre a svolgere, nei confronti dell’italiano, quel ruolo di trait d’union
con le lingue esotiche che è stato a lungo, e soprattutto dal periodo postrinascimentale, un suo
tipico appannaggio. Per quanto se ne registri negli ultimi anni un netto calo, non è quindi
esatto definire quello del francese sull’italiano un influsso che ha definitivamente concluso la
sua azione (cfr. Serianni 2002: 579-592).

Italiano e spagnolo
Tra le lingue romanze lo spagnolo è quella che, dopo il francese, ha lasciato le tracce più
consistenti nel lessico italiano. La durata dei contatti (commerciali, culturali, di dominazione
politica, ecc.), particolarmente intensi tra Cinquecento e Seicento, e la somiglianza strutturale
delle due lingue hanno infatti favorito 1’entrata nell’italiano di numerosi prestiti, specie sotto
forma di adattamenti e di calchi. La somiglianza pone, però, alcuni problemi

100
nell’identificazione del prestito, dal momento che certi fenomeni, specie nei dialetti italiani,
potrebbero essere dovuti a meccanismi interni più che all’influsso di lingue iberoromanze.
Allo stesso modo, molto spesso è difficile distinguere 1’esatta provenienza del prestito dal
castigliano (la lingua della Castiglia poi diventata lingua nazionale) o dal catalano (la lingua
parlata nella regione della Catalogna).
All’influsso linguistico sull’italiano va però aggiunto il grande numero di iberismi penetrati
nei dialetti (soprattutto meridionali, ma anche di alcune regioni del Settentrione). Alcuni di
questi iberismi sono poi passati all’italiano, mentre la maggior parte si sono arrestati a livello
dialettale: in particolare si trovano numerosi catalanismi – dovuti alla dominazione aragonese
dell’Italia meridionale – diffusi nel territorio di Napoli, in Sicilia e soprattutto in Sardegna.
I rapporti tra Italia e Spagna durante il Medioevo si fondarono principalmente su relazioni di
tipo commerciale (che portarono a una cospicua presenza di mercanti italiani nella penisola
iberica) e religioso. Oltre al lungo soggiorno in Italia del fondatore dell’ordine domenicano
Domingo de Guzman, 1170-1221, va considerata la grande importanza dei pellegrinaggi verso
il santuario di Santiago de Compostela, che attirava ogni anno migliaia di persone da ogni
parte d’Europa. Gli scambi culturali tra i due paesi vennero animati dai viaggi di alcuni
intellettuali italiani (Brunette Latini, Sordello, Bonifacio Calvo), ma servirono soprattutto a
introdurre nell’Occidente la cultura araba, particolarmente vivace nella Spagna medievale. II
riflesso linguistico di questi contatti è dunque rappresentato soprattutto dall’introduzione in
italiano (anzi dapprima nel latino medievale), tramite lo spagnolo, di alcuni arabismi, specie
di ambito matematico (algebra, algoritmo, cifra ‘zero’).
Gli spagnolismi veri e propri passati nell’italiano durante il Medioevo sono pochissimi (e lo
stesso si può dire per quelli arrivati nelle altre lingue europee): si possono ricordare maiolica
(inizialmente Maiorca, nome latino dell’isola di Maiorca), dobla (nome di moneta) e gli
aggettivi etnici basco e ispano.
Più rilevante è 1’apporto dello spagnolo ai dialetti dell’Italia meridionale, a contatto con la
Spagna a partire dalla fine del Duecento (la Sicilia venne conquistata nel 1282, la Sardegna
nel 1323, e nel 1442 Alfonso d’Aragona estese il suo dominio a tutta 1’Italia meridionale e
insulare). Tra gli esempi più significativi di iberismi nei dialetti si può citare il nome del punto
cardinale nord, passato al siciliano già nel Trecento, mentre nell’italiano si diffuse con le
scoperte cinquecentesche.
Gli altri termini introdotti direttamente in italiano durante il primo Quattrocento derivano
perlopiù dal castigliano e si riferiscono a realtà tipiche della Spagna dell’epoca, come infante
‘principe reale’ e marrano (‘maiale’, usato per designare ebrei e musulmani convertiti al

101
cristianesimo, poi passato al significato generico di “uomo spregevole, che rinnega le proprie
idee, traditore”), o al fasto e alle abitudini della corte: posata “posto apparecchiato a favola”,
gala “slargo, lusso”. Durante gli anni della dominazione spagnola i rapporti tra i due paesi si
intensificarono notevolmente per mezzo delle sempre più fitte relazioni commerciali (furono
numerosi in Spagna banchieri, mercanti e navigatori italiani: basta pensare, tra questi ultimi,
a Colombo e Vespucci), religiose e culturali ecc.
Per tutto il Cinquecento la presenza della Spagna assunse un peso rilevante nella produzione
editoriale italiana: già nel 1520 era stato pubblicato un dizionario spagnolo-siciliano: nel 1561
venne pubblicata la prima grammatica italiana per l’apprendimento dello spagnolo.
Tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento si diffusero un gran numero di
opere di interesse geografico, e più tardi, la straordinaria raccolta in tre grandi volumi di
descrizioni e relazioni di viaggi su tutte le terre esplorate, che il trevigiano Giovanni Battista
Ramusio adattò e tradusse per la stampa (1330-1339) rimaneggiando testi di autori antichi e
moderni.
II forte impatto dello spagnolo sull’italiano cinque-secentesco venne ridimensionato nei secoli
successivi con 1’uscita d’uso di molte parole e costrutti in voga in quel periodo. Scomparvero
soprattutto gli spagnolismi occasionali usati da scrittori in contatto con la Spagna e alcune
parole usate a scopo parodico nelle commedie cinquecentesche, in cui comparivano spesso
personaggi spagnoli o spagnoleggianti. Si può calcolare che circa i due terzi delle parole
entrate in circolazione durante il Cinquecento siano poi cadute in disuso, mentre circa un
quinto si sono radicate nel lessico comune e un decimo sono entrate a far parte di lessici
settoriali.
A partire dalla seconda metà del Seicento, pur mantenendo il dominio politico su quasi tutta
1’Italia, la Spagna cominciò a perdere parte del prestigio culturale che aveva avuto nel secolo
precedente. Si diffuse anche in Italia il romanzo picaresco e continuarono a essere tradotti gli
autori spagnoli come Cervantes. Lope de Vega, Calderón, Quevedo ma in misura ridotta
rispetto alle traduzioni delle stesse opere fatte negli altri paesi europei. L’influsso spagnolo
sulla letteratura secentesca si può riconoscere nella diffusione del teatro barocco, ricco di
eccessi, giochi scenici, elementi romanzeschi; ma non si produssero in Italia opere
paragonabili a quelle della grande stagione castigliana.
I rapporti politici tra Italia e Spagna ripresero durante il Fascismo con 1’appoggio dato da
Mussolini al governo del generale Franco, anche se durante la guerra civile gli italiani
combatterono su entrambi i fronti.
Per tutto il periodo della dittatura la Spagna si mantenne piuttosto isolata; fino agli anni

102
Cinquanta 1’apporto lessicale dello spagnolo si limita ai nomi delle danze spagnole o latino-
americane (cha cha cha, cucaracha, flamenco, paso doble, rumba, tango).
Ma gli ispanismi novecenteschi più che alla Spagna, vanno ricondotti prevalentemente ai paesi
del Sud America e alle intricate vicende politiche che hanno introdotto in italiano una serie di
termini legati alla rivoluzione cubana (castrismo, castrista. lìder maxima) e ai movimenti di
liberazione sudamericani, seguiti con particolare interesse dalla sinistra italiana (contras,
campesino, golpe, golpista, peronismo, peronista).
Non è un caso che la maggior parte delle parole entrate in italiano negli ultimi anni siano
ispanismi non adattati, dotati per questo di un più spiccato potere evocativo; proprio a questa
funzione fa riferimento anche 1’uso di termini, spesso effimeri, usati a scopo espressivo come
titoli di trasmissioni televisive (Arriba arriba, Carramba, Fuego, ecc.), nomi di locali notturni,
prodotti commerciali (Kinder Bueno, Fiesta, Morositas) (Idem: 610-621).

103
LINGUISTICA ITALIANA

Unità didattica 4 - Varietà dell’italiano e rapporto con le altre lingue

Lezione 6
L’italiano, lingue germaniche e…arabo

Italiano e tedesco
Sarà opportuno ricordare che germanico, nome dato alla lingua comune delle popolazioni del
Nord Europa, non è sinonimo di tedesco, e che dalle lingue parlate dalle diverse stirpi barbare
si sono avute, nei secoli, il tedesco propriamente detto, 1’inglese e le altre lingue germaniche
occidentali e settentrionali (come lo scandinavo e il nederlandese).
Molti prestiti si devono all’azione del superstrato germanico all’epoca delle invasioni
barbariche. Nella maggioranza dei casi è difficile stabilire con esattezza da quale periodo siano
giunti in Italia, e da quale specifica lingua germanica provengano i lasciti più antichi. Si
possono comunque identificare, dal IV secolo in poi, alcune linee di fondo che permettono di
ricostruire la provenienza di singoli vocaboli.
Negli ultimi due secoli 1’influenza del tedesco sull’italiano è aumentata benché non in grande
misura, grazie agli apporti provenienti soprattutto dai campi della scienza e della filosofia.
Alcune parole del lessico intellettuale, di origine greca o latina, come dicastero, recensione,
morfologia, dipendono da un modello tedesco. Non vanno altresì dimenticati il flusso
migratorio dalla Germania, i costanti rapporti culturali tra i Paesi di lingua tedesca e lo Stato
Pontificio, la dominazione austriaca, in specie nel XIX secolo, in Toscana e nel Lombardo-
Veneto.
Un settore del lessico italiano per tradizione aperto ai prestiti dal tedesco è quello dell’attività
mineraria e della mineralogia. Una traccia dei rapporti commerciali tra 1’Italia e la Germania
è data dalla fortuna panitaliana del termine schiaccianoci, attestato sicuramente dal 1803, che
è un calco della parola tedesca Nussknacker.
Tra la fine del Settecento e 1’inizio dell’Ottocento comincia a diffondersi in Italia la
conoscenza della poesia tedesca, grazie alle prime traduzioni delle opere dei suoi massimi
autori, Schlegel, Schiller e, soprattutto, Goethe.
II crescente interesse per la lingua tedesca è testimoniato anche dalla stesura e dalla
pubblicazione di grammatiche, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, e di lessici
italiano-tedeschi nella seconda metà del secolo.

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Italiano e inglese
Per molto tempo i contatti fra inglese e italiano sono stati episodici e legati quasi
esclusivamente agli scambi commerciali. Proprio al linguaggio del commercio sono
riconducibili gli unici due vocaboli inglesi giunti in Italia nel XIII secolo: sterlini e slanforte
(in riferimento al tessuto proveniente da Stanford). Nei due secoli successivi sono penetrate
nella lingua italiana poche altre parole, specie d’ambito giuridico e amministrativo, ma
bisogna arrivare al Cinquecento perché gli scambi diventino più intensi.
Col crescente interesse degli Inglesi, per il Rinascimento, infatti, lo stile italiano diviene
modello di insuperata raffinatezza non solo nella lingua, ma anche in aspetti più frivoli come
la moda. Cresce, così, il desiderio di studiare la lingua italiana e si rendono necessari gli
strumenti per apprenderla.
Per tutto il Seicento, la cultura italiana conosce in Inghilterra un vertiginoso declino di
prestigio: a mano a mano che gl’Inglesi sentivano di aver acquisito una propria indipendenza
culturale, rifiutavano “d’esser stati un tempo alla scuola dell’Italia, ed ora la rinnegavano
irosi”. L’ostilità dell’Inghilterra alla tradizione italiana è comunque di breve durata e ha fine
non appena la sua cultura afferma la propria identità in tutta l’Europa, superando ogni
complesso d’inferiorità. Già alla fine del XVIII secolo i viaggiatori inglesi recuperano il
rapporto con la cultura della penisola e Italia diviene per tutto il Settecento metà prediletta del
Grand Tour, viaggio fra le rovine della civiltà classica e rinascimentale.
Grazie alla crescente fortuna della stampa periodica ottocentesca, molti termini inglesi entrano
a pieno titolo nella lingua corrente, soprattutto in quei campi in cui il predominio culturale
angloamericano imponeva progressivamente la propria terminologia. Un settore molto
esposto all’entrata di anglicismi è ad esempio, quello del linguaggio sportivo (già
nell’Ottocento, oltre alla parola stessa sport, si affermano boxe, football, yacht ecc.).
I prestiti, penetrati progressivamente nella lingua italiana, hanno indotto alcuni linguisti a
parlare di italiese (formazioni rifatte sul franglais, di cui si lamenta la diffusione in Francia).
Altri linguisti hanno invece un atteggiamento più tollerante nei confronti degli anglicismi,
riconoscendo le esigenze di alcuni linguaggi settoriali più legati alla comunicazione
internazionale, e nello stesso tempo ridimensionando la portata dell’impatto che 1’inglese sta
avendo sulla lingua quotidiana.
D’altra parte in molti campi della vita italiana quotidiana numerose parole inglesi (o, più
spesso, americane) sono ormai entrate in maniera stabile, usate un po’ in tutti i livelli
socioculturali. I più pronti a captare ogni parola d’Oltreoceano sono i giovani, che pranzano

105
nei fast food, ascoltano musica rock (o disco, o dance, o techno, o progressive) e appendono
in camera i poster delle star preferite, e viaggiano sugli scooter e giocano ai videogame, ecc.
A mano a mano che la cultura americana esercita il proprio predominio in ambiti come la
musica leggera o il cinema, si diffonde 1’uso dei vocaboli inglesi per evocare 1’atmosfera di
quegli ambienti.

Italiano e arabo
Ci è sembrato opportuno inserire infine un’analisi del rapporto tra italiano e un’altra lingua,
che, sebbene non sia germanica come le precedenti, sembra aver avuto un ruolo culturale
importante rispetto alla nostra realtà linguistica. La natura del rapporto tra italiano e arabo
risulta ben più difficile da descrivere rispetto a quel che avviene per i rapporti tra 1’italiano e
le principali lingue di cultura dell’Europa. La profonda diversità strutturale delle due lingue,
infatti, ha dato luogo a scambi linguistici piuttosto scarsi anche in presenza di intensi contatti
culturali. L’arabo ha lasciato poche tracce nel sistema fonologico e nella grammatica delle
lingue occidentali con le quali è entrato in contatto: anche nell’ambito ispano-romanzo, dove
1’arabo ha esercitato un influsso più forte e duraturo, il prestito si limita generalmente a
singole unità lessicali seppure di numero consistente (ma nello spagnolo antico si nota qualche
influenza anche sulla sintassi). Inoltre la stessa complessità della lingua araba, rende più
rischiosa la ricostruzione della storia delle parole e delle modalità della loro trasmissione alle
lingue occidentali. Lo studio di tali prestiti, per di più e complicato dalla presenza di numerose
varianti di una stessa parola, derivanti dalla peculiare trasmissione testuale degli scritti
contenenti arabismi.
Attraverso la via dei commerci 1’arabo arrivò – per via orale – nelle lingue romanze, lasciando
traccia soprattutto nella terminologia marinaresca e mercantile. Tra gli arabismi italiani della
marineria vanno ricordati ammiraglio, arsenale e darsena (esiti diversi da una stessa base
araba), cassero “parte superiore della poppa di una nave o parte più alta di una fortezza”
garbino “vento di sud-ovest”, scirocco: nella pratica commerciale sono di origine araba parole
chiave come dogana, fondaco, gabella, magazzino, sensale, rara, tariffa.
Il grado di penetrazione dell’arabo in italiano si può misurare anche attraverso 1’influsso in
vari settori della vita quotidiana; significative, per esempio, le parole che indicano oggetti
domestici (caraffa, giara, materasso, tazza), oppure le parole che si riferiscono ai prodotti
tessili e dell’abbigliamento (baldacchino, giubba), alle piante e ai loro derivati (arancio e
zagara, albicocca, bergamotto, carciofo, carruba, cotone, gelsomino, limone, melanzana,
tamarindo, zafferano, zucchero), ai nomi comuni (assassino, facchino), ai giochi (tarocchi,

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zara, un antico e diffusissimo gioco di dadi, e – dal francese – azzardo; per gli scacchi, oltre
allo stesso nome del gioco, scacco matto).
Bisogna precisare che spesso 1’arabo costituisce il tramite per parole provenienti dalle
numerose lingue entrale a far parte del dominio islamico (si tratta, oltre alle lingue
indoeuropee, di lingue semitiche, sinotibetane, altaiche ecc.). Specie durante la prima fase
dell’espansione (sotto il califfato abbaside durante I’VIII sec.), infatti, la componente araba
era fortemente assimilata alle altre differenti etnie riunite sotto la medesima cultura. È
preferibile, quindi, parlare in proposito di “cultura islamica”, comprendendo in questa anche
gli apporti persiani e di altre lingue orientali.
La presenza dell’Islam in Italia sopravvive anche nella componente araba di alcuni dialetti
dell’italiano (in primo luogo il siciliano, ma anche il ligure, il veneziano e in parte il pisano)
e nella frequenza di nomi arabi nei toponimi del Mezzogiorno: Bagheria, Buscemi, Calatajimi,
Carca, Marsala, Salemi, Sciacca. Si trovano elementi arabi in alcuni soprannomi e in molti
cognomi tuttora diffusi soprattutto in area meridionale: alcuni composti con -Allah, come
Badala, Mandala, Zappala, anche Macaluso, Marabito, Mossuto, Sacca.
Negli ultimi decenni si è avuta una ripresa dell’influsso arabo grazie alla enorme diffusione
dei mezzi di comunicazione in massa e alla maggiore circolazione di notizie provenienti
dall’estero. Non bisogna dimenticare la presenza dell’arabo come lingua di comunicazione in
gran parte degli immigranti extracomunitari sempre più numerosi nel territorio italiano: lo
scarso prestigio sociolinguistico degli immigrati in territorio straniero, tuttavia, riduce quasi
completamente le possibilità di influenza dell’arabo sull’italiano contemporaneo. Le parole
introdotte nella lingua d’oggi saranno piuttosto dovute all’azione dei giornali e della
televisione.
Quasi tutti i neologismi di varia origine entrati in italiano descrivono realtà profondamente
estranee alla cultura occidentale, mettendone in evidenza la differenza dei costumi (chador
“velo che copre il volto della donna in Iran”, kefiah “larga sciarpa usata come copricapo, in
particolare degli arabi palestinesi”), 1’appartenenza religiosa (ayatollah “segno di Dio”), e
1’intransigenza in cui la fede si esprime (intifada “scuotimento”, ad indicare il movimento
arabo di liberazione della Palestina, mujahiddin “chi fa la guerra santa”, feddayn “chi è pronto
a sacrificare la propria vita per una causa”, nome dei guerriglieri palestinesi).

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LINGUISTICA ITALIANA

Riferimenti bibliografici di base

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