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Franco Fanciullo – Introduzione alla linguistica storica

La parentela linguistica

Parlare di famiglia linguistica presuppone una classificazione delle lingue in base alla loro
parentela, seguendo, cioè un criterio genealogico. Secondo questo criterio, si può parlare di lingue-
madri e lingue-figlie, raggruppabili come i membri dell’albero genealogico di una famiglia. Lingue
d’ultima generazione, ad esempio, sono quelle derivate dal latino e, perciò, dette neolatine o
romanze. Sullo stesso piano si collocano quelle germaniche, slave, celtiche o baltiche. Tra queste,
esiste comunque una grossa differenza, in quanto conosciamo bene la lingua-madre delle romanze,
il latino, ma non quelle delle altre, ricostruite solo sulla base delle affinità delle attuali lingue.
Confrontando francese e italiano, emerge chiara la somiglianza, più a livello grafico che a livello
fonico. Questa somiglianza va sotto il nome di lessico condiviso o in comune e la sua presenza è
un punto di partenza per la ricostruzione dei legami parentali tra lingue. Se si scende a livello
fonico, si nota, poi, che la [k] italiana risponde, davanti ad a, a <ch> francese, mentre le
combinazioni [ko] e [ku] si ripresentano anche in francese. Questo scarto, visibile in chanter/cantare,
è sistematico e dimostra come le lingue abbiano avuto lo stesso punto di partenza, rispetto al
quale, da un certo momento in poi, una delle due ha preso a divergere in precise circostanze. Il
fatto che la sequenza [k+a] abbia originato [š] fa supporre che si sia partiti da una sequenza [k+a]
anche laddove oggi si trova [k] davanti ad un’altra vocale, realizzata comunque [š] (ad es., cheval).
È ipotizzabile, infatti, un antico *chaval, che rinvia, a sua volta a *caval. Questo dimostra che, a
partire da un sostrato comune, la [a] si è affievolita in schwa se (1) non porta l’accento e (2) si trova
in sillaba aperta o in finale di parola. Analizzando più a fondo, emerge, però, che la [‘a] tonica
dell’italiano, in francese, viene resa sia come [‘a] che come [‘e] / [‘ε]. La questione si risolve
notando che la vocale resta tale se è accentata in sillaba chiusa, mentre si trasforma se è in sillaba
aperta. (champ/campo vs mer/mare). Il fatto che l’esito della vocale dipenda dalla struttura sillabica,
escludendo che l’italiano abbia potuto influenzare il francese, lascia supporre che, anticamente, il
francese abbia condiviso la struttura sillabica con l’italiano, poi sovvertita, con la caduta o
l’indebolimento delle vocali in finale di parola. Naturalmente, la struttura sillabica comune era
quella del latino. L’ipotesi è rafforzata dalla scomparsa della [-t-] in molte parole (mari/marito o
marché/mercato). La sequenza d’origine, in tutti questi casi, era il latino –ATU, tipica desinenza del
participio passato di prima coniugazione (infatti, la [t] è scomparsa in tutti i participi passati
francesi). Una conferma che le due lingue rappresentino due divergenze parziali, ma reciproche e
progressiva, di una più antica fase linguistica comune si ottiene sul piano morfologico (ad es., i
morfemi per il participio passato -é/-ato, -u/-uto, -i/-ito). I morfemi, almeno quelli flessivi, infatti,
sono fra gli elementi più stabili che, poiché fanno parte del lessico, primo testimone del
cambiamento di una lingua, sono pur sempre portatori di un mutamento. È il caso dei francesismi
introdotti in Inghilterra dopo la battaglia di Hastings. I morfemi grammaticali sono in stretta
relazione tra di loro (-o di 1° p.s., - i di 2° p.s, -a di 3° p.s. etc.) e si mantengono piuttosto stabili, a
volte limitando l’azione dei cambiamenti. Peraltro, a differenza del lessico, i morfemi non si
trasmettono da una lingua all’altra. Ad esempio, il veneziano parlar ha dato vita al neogreco
παρλάρει, dove il morfema dell’infinito –ar viene considerato parte della radice lessicale. La
conservatività dei morfemi flessivi, il lessico condiviso e la sistematicità delle corrispondenze,
quindi, si rivelano fondamentali per la ricostruzione genealogiche tra due o più lingue, tanto in
orizzontale, quanto in verticale. La sistematicità delle corrispondenze torna, ad esempio, se si
guarda all’esito del latino PL- nell’italiano pi- (pluma>piuma; plumbum>piombo, etc.).

A costituire il lessico si possono individuare quattro strati:

- Lo strato ereditario, percentuale di lessico derivante dalla lingua-madre (settori stabili sono
i numerali, i nomi delle parti del corpo e dei parenti), soprattutto la morfologia flessiva;
- Lo strato dei prestiti, voci che una lingua assume dalle lingue con cui è più a contatto,
generalmente seguendo un flusso dalla lingua più prestigiosa a quella meno prestigiosa, sia
per necessità lessicali, che per intenti di imitazione del prestigio dell’altra lingua. Grazie ai
prestiti, ci sono conseguenze sul piano fonologico, come la possibilità, per l’italiano, di
uscite in consonante. In casi di forte afflusso di prestiti, rischia di variare anche la
morfologia flessionale. Emblematico è il caso del maltese che, con l’arrivo dei Cavalieri, nel
1530, e l’influsso pesantissimo del siciliano, è fortemente stato modificato, rischiando
addirittura di scomparire. Hanno funzione di serbatoio lessicale anche lingue estinte, come
latino e greco, soprattutto nell’ambito della scienza, della tecnica e delle arti (cultismi); in
particolare, il latino ha, dunque, un duplice ruolo, sebbene i cultismi si differenzino poco o
nulla rispetto allo strato ereditario.
- Lo strato delle formazioni onomatopeiche e fonosimboliche, formazioni che, dal punto di
vista fonico, tentano di riprodurre suoni e rumori animali, naturali e di altro tipo o di
suggerire l’idea di quello che si vuole indicare, riducendo al minimo il rapporto di
arbitrarietà tra significante e significato; le formazioni possono presentarsi anche come
ideofoni e l’evoluzione fonetica può tanto oscurare precedenti formazioni onomatopeiche
quanto rimotivare, su base onomatopeica-fonosimbolica, elementi di altra origine.
- Lo strato delle neoformazioni, derivate da forma comprese in uno degli strati precedenti
secondo regole sincronicamente produttive, ad esempio, nell’italiano del III millennio, la
formazione del femminile tramite il suffisso –essa o tramite l’uso ambigenere del maschile,
non l’uso del suffisso –ina, però, già presente in latino e i cui risultati vanno considerati
fossili.

Il mutamento

Non è dimostrabile che, se non sottoposte a fattori esterni, le lingue non mutino. Il cambiamento
più percepibile è quello a livello fonetico-fonologico, le cui unità minime sono foni e fonemi. Le
diverse modalità di produrre uno stesso fonema, in base al contesto, vengono chiamate varianti
contestuali o combinatorie (o allofoni) del fonema. Quando le varianti di fonema sono determinate
dal contesto si dice che presentano distribuzione complementare (ad esempio, il doppio esito della
c e della g). il fatto che due foni siano varianti contestuali in una lingua non esclude che, in un’altra
lingua, siano fonemi. Ad esempio, la c fricativa in toscano ha valore fonematico in neogreco.
Esistono anche allofoni liberi, ossia indipendenti dal contesto, come la r e la s mosce, che non
mutano il significato della parola. Distinguendo fonemi e foni, si possono distinguere mutamenti a
livello fonetico e a livello fonologico, tra loro interrelati (i mutamenti fonologici sono spesso
fonetici, ma non viceversa). Sono mutamenti fonetici:

1. L’assimilazione, per cui due elementi fonici contigui e diversi, nella catena fonica,
assumano uno (parziale) o più tratti comuni (totale). Può essere regressiva (faktu>fatto) o
progressiva (amiku>amigo sp.) o anche bidirezionale (come nel caso precedente, dove la k
viene prima sonorizzata in g e poi resa continua in γ). In turco, può essere ricondotta ad
assimilazione l’armonia vocalica di alcuni suffissi. Di natura assimilatoria è anche la
metafonesi, presente soprattutto nei dialetti, per cui vocali si innalzano di un grado o
dittongano, in base alla presenza di vocali particolari in finale di parola. Il fenomeno risulta
poco evidente in quanto molte vocali finali, nei dialetti, sono venute meno o sono ridotte di
numero o sono diventate schwa.
2. La dissimilazione, opposto dell’assimilazione (peregrinu>pellegrino).
3. L’inserzione (cavolo<caule)
4. La cancellazione (caldo<calidu). Gioco combinato di inserzioni e cancellazioni è l’esito
francese marbre dal latino marmore (cancellazione della o, aggiunta della b nel secondo
nesso -mr- e alleggerimento dell’accumulo consonantico con cancellazione della m).
5. La metatesi, lo spostamento di materiale fonico in un punto diverso della catena fonica
rispetto a quello in cui dovrebbe trovarsi secondo l’etimologia (crapa invece di capra).
6. La coalescenza, fusione di due elementi fonici contigui in un terzo elemento, diverso dai
precedenti, ma che presenta loro caratteristiche (vigna, ha [gn] che fonde la n e il legamento
palatale j con cui, nel parlato, si rendeva vinea>*vinja).
7. La scissione, opposto della coalescenza, la divisione di un elemento fonico in due distinti
(come la dittongazione italiana, duomo>domum o lieve<leve o la resa dell’arrotondata
francese y in due foni distinti, in italiano e in russo, [ju] in successione e non in simultanea).

Questi fenomeni sono meccanici non in quanto universali ma poiché la loro realizzazione dipende
esclusivamente dalla posizione nella catena fonica. Esistono poi altri mutamenti di natura non
fonotattica come la paretimologia e il tabù linguistico. La prima, anche detta etimologia popolare,
consiste nella modifica fonica di un significante per effetto di un altro significante, a cui il parlante
associa il significato del primo significante, spesso perché ha familiarità con uno scarso numero di
significanti. (Ad esempio, essere di veletta/vedetta). Il tabù, invece, o interdizione, vede distorcere
o alterare un significante perché, consapevolmente, il parlante non vuole pronunciare il
significante, ad esempio, per superstizione. Il tabù, infatti, ha le proprie radici nella credenza di un
potere evocatore della parola. Pertanto, se nominare è evocare, si preferisce non nominare o farlo
attraverso eufemismi, ciò per cui si nutre timore, rispetto o di cui si ha timore, come la donnola per
i rustici latini o, in ambito moderno, il termine neoplasia al posto di tumore o cancro. Si tratta, invece,
di mutamenti fonologici, nel caso di:

1. Fonologizzazione, in cui allofoni senza carattere distintivo, lo assumono, diventando


fonemi.
2. Defonologizzazione, in cui fonemi perdono il carattere distintivo e diventano allofoni (ad
esempio, la lunghezza vocalica del latino aveva valore sia sintattico che lessicale, mentre in
italiano una vocale è lunga se è accentata, è in sillaba aperta ed è in penultima sillaba,
altrimenti è breve; in italiano, quindi, la lunghezza vocalica dipende dal contesto e, per
questo motivo, non ha valore fonologico).
3. Rifonologizzazione o transfonologizzazione, in cui non cambia il numero dei fonemi ma
solo la sostanza fonica con cui essi sono realizzati (il modo in cui sono articolati), come in
francese, dove la differenza tra a lievemente palatalizzata e a velarizzata è diventata
differenza tra a lunga e a breve. Un caso particolare è la legge di Grimm.
Sebbene si sia creduto a lungo che il mutamento fonetico sia senza eccezioni e istantaneo, oggi
sappiamo che non è così, ma può verificarsi in un punto qualunque della lingua e poi diffondersi.
È evidente nella sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, ad un certo punto interrottasi.
Troviamo, infatti amico (da amicu, lat.), ma lago (lacum lat.). Fino a qualche secolo fa si aveva la
forma aguto, mentre oggi è ammessa solo quella acuto.

Corrispondenze fonologiche tra lingue indoeuropee

Confrontando i numeri di alcune lingue indoeuropee (3, 5, 6, 7, 8, 10, 100), l’idea dell’aria di
famiglia è ulteriormente rafforzata ed emerge che, se il sanscrito ha [a], latino e greco hanno
alternativamente [a], [e] ed [o]. La situazione ordinaria è quella del latino e del greco, mentre il
sanscrito ha fatto confluire tutte le vocali in [a]. Rispetto al consonantismo, invece, si può notare
che il gotico e il sanscrito reagiscano all’occlusiva velare [k] con la fricativa velare [x], in gotico, e
con l’articolazione sibilante tanto palatale quanto retroflessa [š] / [ș], in sanscrito. Vi è poi una
corrispondenza tra la fricativa dentale sorda [θ] e fricativa labiodentale sorda <f> rispetto
all’occlusiva dentale sorda [t] e all’occlusiva labiale sorda [p] (ad es., tria-tri-θrija e pente-panča-
fimf). Talvolta, in gotico, per [t] e [p] si hanno le fricative sonore corrispondenti [d] e [β] (ad es.,
hund-centum-(he)katon-šatam e sibun-septem-heptà-saptà). Al posto della sibilante iniziale
prevocalica, il greco risponde con la fricativa laringale espressa dallo spirito aspro. Alla sequenza
finale del latino [em] / [en], in greco e sanscrito si trova [a] e [un] in gotico. Queste corrispondenza
tornano sistematicamente in buona parte del lessico comune e saranno, perciò, esiti divergenti di
uno stesso punto di partenza, ovvero l’indoeuropeo, di cui, però, nulla è rimasto. Tutte le
ricostruzioni possibili, pertanto, relative a lingue i.e. e all’i.e. devono basarsi sul “buon senso” dei
linguisti. Riguardo all’esito della s inziale prevocalica, per esempio, si possono effettuare tre
ipotesi: che l’i.e. avesse una s iniziale poi trasformatasi nella laringale in alcune lingue, che avesse
una laringale, rimasta in greco ma rafforzatasi come s, in alcune lingue, o che avesse una terza
articolazione che ha generato tanto la laringale quanto la s. Per risolvere questo dubbio, è
sufficiente, non avendo documentazione scritta i.e., verificare l’andamento prevalente nelle lingue
i.e. e attribuire l’elemento che si riscontra con maggiore facilità. Nelle lingue del mondo, dunque, si
riscontra con molta facilità il passaggio [s]>[h], che, pertanto, sarà proprio dell’i.e., almeno secondo
il buon senso dei linguisti. Le altre due ipotesi sono o raramente attestate o addirittura troppo
complesse.

Le corrispondenze tra 8, 10 e 100 permettono di stabilire un’equazione: lat. / gr. k = sscr. š = got. h.
Ipotesi rafforzata da numerosi esempi. Se non sorprende la corrispondenza tra k e h, in quanto
entrambe velari, sorprende, invece, il sanscrito š, così come lingue, quali lituano e russo,
rispondono ad articolazioni velari con la sibilante, rispettivamente posteriori ed anteriori. In base a
queste corrispondenze, le lingue indoeuropee si dividono in due blocchi: lingue centum e lingue
satem, cosiddette dalla pronuncia latina e avestica del numerale “cento”, geograficamente collocate
ad Ovest e ad Est del confine tra Germania e Polonia. A lungo si è creduto, erroneamente, che la
divisione fosse propria dell’indoeuropeo. Agli inizi del Novecento, peraltro, questa credenza è
stata ulteriormente demolita dal ritrovamento di documenti scritti in due lingue, ribattezzate
tocario A e tocario B, nel nord-ovest della Cina e che, pur essendo la propaggine orientale del ramo
indoeuropeo, si sono rivelate due lingue centum. Questa acquisizione fa scaturire tre conclusioni:
che le lingue i.e. fosse originariamente tutte centum e che, in un secondo momento, alcune di esse
abbiano anteriorizzato le occlusive velari, divenendo satem, senza che questa mutazione
raggiungesse le aree più esterne del dominio i.e. Di conseguenza, è impossibile che un’innovazione
si sia sviluppata in maniera indipendente in due aree opposte del dominio e, dal punto di vista
della documentazione, sono attestati casi di anteriorizzazione delle occlusive velari ma non il
contrario. Quindi non si può assolutamente concludere che l’innovazione sia stata la centum.

Nel campo delle mutazioni, le occlusive non aspirate i.e. e le occlusive sorde i.e. sembrano essere
rimaste intatte. Non è, però, il caso del latino, in cui la d passa talvolta a l (odor-olere, solium-sedere).
Nella totalità delle lingue germaniche, invece, le occlusive sorde, sonore e sonore aspirate si sono
trasformate, rispettivamente, in articolazioni fricative sorde, occlusive sorde e sonore. Ad esempio:

Primo tipo *p*t*k>f, th, h Secondo tipo *b*d*g> p, t, k Terzo tipo *bh*dh*gh>b,d,g

Got. fimf < *penkwe > pente got. diupo < *dhweb-> dubus got. liuba < *lewbh- > lubet/libet

Ted. du < *tu > tu got. fotus < *osd-os > poda got. daùr < *dhwer > fingo

Got. liuhtjan < *lewk- > lux lat. a.a.t. kamb<*gombhos>gomfos got. gawigan < *wegh > veho

Questa riorganizzazione delle occlusive è nota come legge di Grimm o prima mutazione o
rotazione consonantica. La legge, però, risulta disattesa in un gran numero di casi. L’occlusiva
sorda, ad esempio, se preceduta da una fricativa (peraltro, che potrebbe essere conseguenza della
legge di Grimm), resta occlusiva. Ad esempio, il numero otto (i.e. *okto), in gotico, è ahtau, con la
rotazione di kt in ht, ma questa trasformazione ha bloccato la trasformazione di t in th. Stessa cosa
in nacht. Più complesso è il caso in cui, in corrispondenza di occlusive sorde, le lingue germaniche
presentano fricative sonore. Ad esempio, il nome “padre” che, secondo la legge di Grimm,
dovrebbe presentarsi come *fathar, si presenta fadar, in gotico. Questa anomalia fu spiegata da
Verner, il quale evidenziò l’importanza della posizione delle antiche occlusive sorde e il ruolo
discriminante dell’accento che, anticamente, era mobile (cioè, si posizionava su più sillabe e non
solo sulla prima, come nel germanico tardo). Secondo la legge di Verner, quindi, le occlusive sorde
i.e. evolvono, non in fricative sorde, ma sonore se si presentano due condizioni: se si trovano tra
due elementi sonori (vocali, liquide, nasali) e se non erano immediatamente precedute
dall’accento. Ad esempio, l’i.e. *bhràter rientra pienamente nella legge di Grimm perché l’accento
cade immediatamente dopo l’occlusiva sonora aspirata e si ha il gotico brothar. L’i.e. pәtér, invece,
pur cadendo l’accendo dopo l’occlusiva sonora, non rispetta la legge di Grimm, bensì quella di
Verner, perché l’occlusiva si trova tra due elementi sonori e, così, si ha il gotico fadar. La legge di
Verner, però, dal momento di applicazione, ha colpito tutte le fricative sorde del germanico, a
prescindere dalla loro origine ed è diventata incomprensibile a partire dalla fissazione dell’accento
sulla prima sillaba. Solo il fatto che l’accento si sia rivelato, almeno in una prima fase, mobile ha
permesso di elaborare la legge di Verner. Il nuovo accento protosillabico porta ad una drastica
riformulazione delle vocali non accentate che, cadendo, oscurano ulteriormente le motivazioni
della legge di Verner. Dal germanico comune hanno, infine, origine le singole lingue germaniche.

Esordi e primi sviluppi della linguistica storica

La data convenzionale di nascita degli studi linguistici storici è il 1786, quando sir William Jones,
in una conferenza a Calcutta, ipotizzò una comune discendenza del latino, del greco e del
sanscrito, date alcune corrispondenze. La conferenza di Jones doveva molto alle recenti scoperte
geografiche e al conseguente colonialismo e al desiderio del Romanticismo di approfondire le
civiltà e le lingue orientali. In effetti, dopo la conferenza di Jones, l’interesse per la comparazione
delle lingue e per la ricerca dell’antenato linguistico si ampliò e ricevette una prima sistemazione
da Friedrich von Schlegel (1772-1829), il quale ipotizza che la madre di tutte le lingue, poi dette
indoeuropee, sia il sanscrito. Schlegel getta, quindi, le basi della grammatica comparata, come la
definì o, come oggi si preferisce, della linguistica comparata. Le corrispondenze a livello fonetico
vengono, però, identificate da Jacob Grimm (1785-1836) e dal danese Rasmus Rask (1787-1832),
mentre Franz Bopp si occupò dell’ambito morfologico, particolarmente verbale. Il vero imprinting
della linguistica si ebbe con August Schleicher (1821-1867), il quale, oltre ad interessarsi alle teorie
di Darwin, applicò un metodo scientifico allo studio delle lingue, considerandole esclusivamente
organismi naturali, sottoposti a leggi immutabili e operanti al di fuori della volontà dei parlanti. In
questo contesto si colloca la teoria dell’albero genealogico, con cui postula l’esistenza di una
primitiva lingua indoeuropea, in cui, una volta ricostruita, scriverà la favola della pecora e dei
cavalli, da cui discenderebbero tutte le altre lingue, come rami d’un albero. Lo Schleicher recupera
anche la classificazione delle lingue in base ai tipi isolante, agglutinante e flessivo, individuando in
quest’ultimo il tipo a cui apparteneva l’indoeuropeo. Seppure molto utile ai fini didattici, un
impiego meccanico della teoria dell’albero genealogico rischia di non cogliere le connessioni tra
lingue appartenenti a rami diversi o gli elementi creati a prescindere dall’origine comune. Già gli
allievi dello Schleicher, infatti, Schmidt e Schuchardt, contestarono il loro maestro, rispondendo
con la teoria delle onde, secondo cui le innovazioni linguistiche si dipanano dal centro secondo
onde concentriche. Questa nuova teoria, dunque, ritiene centrale il carattere storico della lingua e
introduce il riferimento ad un fattore spaziale. Lo Schuchardt, in particolare, sposterà il centro
della questione, incentrata sulla lingua madre, anche a fasi intermedie dello sviluppo linguistico,
studiando il latino volgare. Un approccio più naturalista ebbero i neogrammatici, i cui fondatori
furono Hermann Osthoff (1847-1903) e Karl Brugmann (1849-1919) e a cui è legato il concetto di
ineccepibilità delle leggi fonetiche: se in una data lingua, a diventa b nel contesto X, allora ogni a
che si trovi nel contesto X deve ineccepibilmente trasformarsi in b presso tutti i parlanti della
lingua data. L’eccepibilità sarebbe data dalla conformazione dell’apparato fonatorio, che
sarebbero, cioè, abituati per generazioni a produrre un certo tipo di foni. Una particolare
applicazione di questa legge porta, nella seconda metà dell’Ottocento, in Italia, alla formulazione
della teoria del sostrato etnico, per cui, se le abitudini articolatorie restano immutate, allora certe
produzioni fonetiche resteranno anche nel caso in cui i parlanti cambiassero lingua. Di
conseguenza, cambiamenti nelle abitudini articolatorie sarebbero prodotte dal lascito di lingue
precedenti. La teoria dei neogrammatici, però, si scontrava con la reale registrazione di eccezioni
che, quindi, andavano anche spiegate. La formulazione dei neogrammatici, infatti, si colloca nel
ventennio 1860-80, in cui vengono anche elaborate le leggi di Grimm e Verner. Interviene, inoltre, a
spiegare alcune incongruenze della legge di Grimm, nel 1863, Hermann Grassmann, con una legge
che afferma che, in sanscrito e in greco, una sequenza di due occlusive sonore aspirate si dissimila
in un’occlusiva sonora non aspirata e una aspirata. Nel 1877, viene formulata la legge di Verner. La
legge di Collitz-de Saussure interveniva, infine, a spiegare il doppio esito, velare e palatale, del
sanscrito, nel medesimo contesto, spiegando che l’a del sanscrito corrispondeva anche ad e ed o del
latino del greco e che, pertanto, un esito palatale era assolutamente accettabile anche davanti ad a.
Emergeva, dunque, che le leggi fonetiche non ammettevano eccezioni, se non spiegabili con sub-
regole. L’unica alternativa per spiegare le eccezioni, secondo i neogrammatici, sono il prestito e
l’analogia. Quest’ultimo è un processo di regolarizzazione in base al quale al posto delle forme
attese ne troviamo altre o modellate su forme concorrenti oppure ottenute mediante allineamento
di moduli inizialmente estranei ma che hanno poi incontrato il favore dei parlanti. Secondo
quest’ultimo caso, per esempio, sono state ottenute le forme verbali pongo, pongono, sebbene in
latino non vi fosse la g, per analogia con le forme vengo, vengono. Allineamenti a forma concorrenti,
invece, si hanno nel caso di dichi invece di dici in alcuni dialetti lucchesi, per influsso di dico. In
questi casi, si parla di modificazioni analogiche dovute a pressione paradigmatica: ovvero alcuni
paradigmi premono per imporsi come forme modello. Possono aversi, però, anche mutamenti
riconducibili a pressione sintagmatica, dovuta alla stretta successione di due elementi nella catena
fonica. Sul modello di suso, dal latino susum, il regolare gioso è diventato giuso e poi giù, per
abbreviazione come su. In alcuni dialetti, poi, la forma bacchetta viene modificata in battecca, per
metatesi influenzata dal verbo battere con cui il termine è spesso accostato. Il Novecento è un secolo
di rivoluzioni per la linguistica, che si apre ad un fascio di discipline con cui combinarsi. La prima
rivoluzione coincide con la pubblicazione postuma di Corso di linguistica generale, nel 1916, di
Ferdinand de Saussure, professore all’università di Ginevra, una raccolta di appunti dei suoi
allievi. Inizialmente indoeuropeista, de Saussure si interroga sulla natura delle lingue e sui principi
universalmente validi che regolano le lingue e la loro organizzazione. Le lingue, dunque, sono
concepite come un sistema in cui tutto è reciprocamente legato e in cui ogni elemento, a qualunque
livello, esiste in quanto contrapposto al suo contrario. Ne nascono una serie di dicotomie:
articolatorio (relativo a ciò che produciamo con gli organi fonatori) contro acustico (ciò che
percepiamo con l’udito), significante/significato, paradigmatico/sintagmatico,
diacronico/sincronico, langue/parole. Secondo quest’ultima, la langue è l’insieme dei segni di una
comunità linguistica, mentre la parole è l’uso effettivo che ne fanno i parlanti, connesso dunque con
i difetti di pronuncia individuali, con la selezione di varianti giudicate di prestigio, con il risultato
impredicibile del contrasto tra regole, l’insufficiente padronanza delle regole della langue e del
lessico standard, che porta a paretimologie. Quanto all’importanza della struttura, viene superata
l’individualità delle mutazioni che vengono, invece, ricondotte all’interno di un sistema più ampio.

Geolinguistica e sociolinguistica: la variabilità

La geografia linguistica, implicita nella teoria delle onde (1872), nasce con gli atlanti linguistici,
vere e proprie carte in cui, per un certo numero di località, sono riportate, ciascuna su una sua
carta specifica, delle serie di forme che danno un’idea delle principali caratteristiche della parlata
delle località prescelte. Il primo atlante risale agli Settanta dell’Ottocento e fu ideato da George
Wenker per analizzare le parlate tedesche, attraverso una raccolta di dati tramite questionari. Più
successo ebbero il secondo atlante, l’Atlas linguistique de la France (ALF) di Jules Gilliéron (1902-10)
e il terzo l’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (AIS) di Karl Jaberg e
Jakob Jud (1928-40), costruiti in base al materiale raccolto inviando dei raccoglitori sul posto. Tra il
1930 e il 1944, Gino Bottiglioni elabora l’Atlante linguistico etnografico italiano della Corsica, dallo
scarso valore scientifico e denso di ideologia fascista. Gli atlanti portano a risultati inaspettati per
l’epoca, tra i quali la dimostrazione dell’infondatezza dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche, data
la registrazione, in una stessa area, di due varietà linguistiche, prodotte dalla stessa lingua.
Wenker, ad esempio, studiò le varianti dell’alto e basso tedesco, parlate, rispettivamente nel Sud e
nel Nord della Germania e caratterizzate dalla presenza/assenza della seconda mutazione
consonantica, per cui l’alto tedesco oppone ad articolazioni occlusive sorde affricate in iniziale di
parola e fricative all’interno, dopo liquide e nasali o in prosecuzione di geminate. Sulla linea del
Reno, i tre confini (trasformazione/conservazione di p, t e k) si aprono a ventaglio, cosiddetto
ventaglio renano. Le conclusioni di Wenker, Gilliéron e Jaberg-Jud dimostrano che la lingua non è
un organismo chiuso ed omogeneo, ma, proprio come la storia che la influenza, può disattendere i
risultati previsti. Ad esempio, nonostante l’allontanamento degli arabi dalla Sicilia ad opera di
Federico II, l’arabo sopravvisse a Pantelleria e a Malta, almeno fino al Sei-Settecento, quando anche
a Pantelleria venne meno, dando origine, invece, nell’isola inglese, ad un varietà, ancora oggi unica
al mondo, di arabo con alfabeto latino. Il ventaglio renano si spiega, dunque, ricostruendo la
situazione politica frammentata della Germania in tanti stati autonomi, in cui non era omogenea la
possibilità di movimento. Le isoglosse, infatti, più che delle barriere naturali, risentono di quelle
sociali. Il termine isoglossa nasce sulla base della terminologia geografica preesistente per indicare
la linea immaginaria che unisce i punti estremi ai quali arriva un dato fenomeno linguistico,
segnando il confine del territorio, detto confine linguistico, all’interno del quale il fenomeno si
verifica. Gli atlanti linguistici hanno anche permesso, in alcuni casi, di far emergere due forme
coesistenti su uno stesso territorio, una delle quali rappresenta la forma meno esposta ai
mutamenti. Questa possibilità si registra, ovviamente, solo con le lingue vive, in quanto la
documentazione delle lingue morte, quando disponibile, è generalmente redatta secondo l’uso
standard. Le uniche variazioni del latino di cui si ha conoscenza, infatti, sono giunte o per puro
caso o in maniera estremamente frammentata. Nel primo caso, infatti, Cicerone, nell’Orator,
informa che la forma cum nobis era vietata perché troppo simile, nella pronuncia, a cunnus, organo
sessuale femminile ed era invalsa la forma nobiscum. Nel secondo, Agostino si limita a dire che, al
suo tempo, nelle campagne cartaginesi, il latino era pressoché sconosciuto e sostituito dal punico.
La standardizzazione della lingua, quindi, darebbe un’impressione totalmente fallace. Ne nascono
due diversi approcci, a seconda che ci si rifaccia ad un uso vivo della lingua o a dei corpora
standardizzati e chiusi. È evidente nel doppio esito delle occlusive sorde intervocaliche latine nel
tosco-italiano. Graziadio Isaia Ascoli spiegò, sulla scia della legge di Verner, il doppio esito a un
effetto sonorizzante della a accentata e in penultima sillaba o ad un diverso punto di partenza sul
piano fonomorfologico. Wilhelm Meyer-Lübke, invece, elaborò la teoria degli accenti, per cui le
occlusive sorde sonorizzano se ricorrono (a) prima della vocale tonica sulla penultima sillaba, (b)
dopo la vocale tonica con accento in terzultima sillaba. A parte i numerosi controesempi, che
basterebbero a invalidare entrambe le ipotesi, non sono rari doppi esiti nel tosco-italiano: ad
esempio, da potestatem, si hanno sia potestà che podestà (oppure lacrima>lacrima/lagrima). Nei primi
del Novecento, infatti, Clemente Merlo e Gerhard Rohlfs spiegano il fenomeno, l’uno considerando
l’esito sonoro come prettamente toscano e quello sordo con una pressione forte del latino, l’altro
giustificando l’esito sordo come prettamente toscano e quello sonoro come influsso delle parlate
del Nord Italia sul toscano. Entrambe le ipotesi, dunque, considerano un esito come regolare e
l’altro come risultato di influenze esterne. A sostegno di quella del Rohlfs, poi, vi sono molti
elementi: il fatto che nella morfologia flessiva dell’italiano non si verifichi la sonorizzazione delle
occlusive sorde, esiti simili, che affiancano un esito sordo ad uno sonoro gallo-italico, anche per
altri suoni consonantici e, infine, il fatto che, effettivamente, nel Due-Trecento, le parlate
settentrionali hanno influenzato non poco il toscano. Le eccezioni all’ipotesi di Rohlfs si spiegano
con i prestiti dal galloromanzo che avrebbero poi influenzato gli esiti sonori. Ad un certo punto,
poi, ci sarebbe stata una regolarizzazione. Il fatto che le mutazioni linguistiche siano avvenute, per
millenni, solo per contatto diretto ha prodotto modalità ben precise di diffusione delle mutazioni.
Matteo Bartoli (1873-1946) ha, infatti, formulato quattro norme areali o spaziali (con cui è stata
inaugurata la linguistica spaziale), che permettono di individuare la forma più arcaica, di solito:

1. La forma conservata nell’area meno esposta alle comunicazioni (e quindi isolata) oppure
2. La forma conservata nelle aree laterali (o periferiche) oppure
3. La forma conservata nell’area maggiore (ad esempio, la forma vino molto più diffusa di
quella miro in Italia meridionale) oppure
4. La forma conservata nell’area seriore, ovvero quella in cui una data varietà è arrivata più
tardi rispetto al momento di formazione (come l’uso di avere tra i napoletani di New York
rispetto all’ausiliare tenere ormai adottato dai napoletani in Italia).

La prima è la norma più intuitiva, seguita dalla seconda (se in un due aree non comunicanti si
trova lo stesso tipo linguistico, opposto o diverso a quello dell’area centrale, questo deve
testimoniare la sopravvivenza di un tipo un tempo comune a tutta l’area), dimostrata dalla
presenza di geminate in aree periferiche della Grecia, particolarmente diffuse nel greco antico e ora
scempiate. Queste, però, sono norme, quindi suscettibili di eccezioni, come nel caso della Sardegna
che, in contraddizione con la norma 2, è più conservativa nell’area centrale, perché le innovazioni
sono sempre giunte dalle coste meridionali e settentrionali. Bartoli ha tentato anche di spiegare i
due esiti derivanti dalle forme del comparativo latino magis altu e plus altu, che, però, non
dipendevano da norme areali, bensì da una variabile diastratica, in quanto forme, rispettivamente,
più alta e più bassa del comparativo. Di conseguenza, anche la stratificazione sociale è un
parametro di variazione della lingua, divenuto, nella seconda metà del Novecento, oggetto di
studio della sociolinguistica.

Gli indoeuropei

La ricostruzione dell’indoeuropeo è molto complicata, soprattutto quando si tratta di individuarne


la comunità di parlanti. Ogni dato, peraltro, è aleatorio, non avendo documentazione scritta. I casi
in cui prestiti linguistici inseriscono dei termini che coesistono con quelli precedenti sono detti di
polarizzazione lessicale (è il cado di drink e bevanda in italiano o del doppio termine per indicare
l’animale vivo e quello macellato in inglese, dove il secondo ha origine francese). Il fatto che in
molte lingue indoeuropee esistano termini, riconducibili alla base i.e. *bha(w)g-, interpretabile come
faggio (da cui il latino fagus o il greco phegos, etc.), lascia pensare che l’area d’origine fosse quella a
maggior diffusione di faggi, ovvero la linea dal Baltico sud-orientale alla Crimea, corrispondente,
più o meno, alla Prussia orientale. Il significato della base i.e. non è, però, certo, in quanto non
concilia con altri fitonimi delle lingue i.e., ovvero quercia in greco e sambuco in russo. Il campo dei
fitonimi, peraltro, attesta molteplici mutamenti di significato. Sarebbe più corretto dire, quindi, che
il significato più antico sia stato quello di faggio, poi traslato. Altre acquisizione, per fortuna,
appaiono più solide, ovvero le basi *òwis e *gwous per indicare ovini e bovini. Questo
testimonierebbe che gli indoeuropei fossero allevatori. Questi indizi sono ottenuti tramite un
metodo lessicalistico e sono confermati dal metodo testuale, che confronta non singoli lessemi ma i
contenuti semantici delle tradizioni scritte delle varie lingue. Sia la letteratura greca, sia quella
islandese antica che quella vedica, ad esempio, contengono dei passi che permettono di associare i
termini toro e vacca ai significati di marito e moglie. Questa sarebbe un’ulteriore conferma della
principale attività degli i.e. Dai due metodi, dunque, è stato ricostruito che la società i.e. fosse
quella di un popolo nomade, patriarcale, dedito all’allevamento, religioso, organizzato in tribù e
sottomesso al re, un’autorità più che altro religiosa. Considerazioni si possono fare anche sulla
geografia di questo popolo: l’assenza di un accordo di fondo sul modo di dire mare lascia pensare
che la base i.e. *mar/mor- indicasse piuttosto una distesa d’acqua. Il significato di mare sarebbe,
quindi, nato da un ampliamento semantico. Non a caso, esistono anche altre basi lessicali per
indicare il mare, il germanico *saiwa (da cui l’inglese sea o il tedesco See) e quella da cui deriva il
greco θάλασσα, derivanti sicuramente da influssi esterni. L’assenza di terminologia funeraria
nella maggior parte delle lingue i.e. è riconducibile, invece, ad un caso di tabù linguistico.
L’assenza di una base comune i.e. per indicare il mare lascerebbe intendere che l’i.e. non aveva un
proprio modo di chiamare il mare, perché i suoi parlanti non conoscevano il mare e si erano
impiantati sulla terraferma, come nelle grandi steppe dell’Eurasia. L’elemento è supportato dal
fatto che molti fitonimi di piante marittime e di caratteristiche dei climi temperati non hanno
origine i.e. Origine non i.e. hanno, ad esempio, rosa, pampinus, ficus. Se, quindi, gli indoeuropei non
conoscevano il mare aperto, né le piante tipiche dell’area mediterranea e allargavano la portata
semantica del loro lessico di fronte a nuove realtà, allora dovevano avere una sede extraeuropea, a
clima piuttosto rigido e lontana dal mare e, nel corso della loro espansione, si spostavano su
territori già popolati da genti con proprie lingue. I nomi tratti da queste lingue, sul piano
fonologico o morfologico, adottavano strategie già consolidate nell’i.e., come cupressus latino e
nàrkissos greco avrebbero adottato un formante –ss-, visibile anche in Parnassòs, che, da un lato,
testimonia l’origine non i.e. di tutti i nomi che lo contengono e, dall’altro, grazie alla
toponomastica, particolarmente conservativa, consente di farsi un’idea della diffusione geografica
del gruppo di lingue che utilizza il formante. Arrivati in Europa, quindi, gli i.e. avrebbero
incontrato e assimilato genti sedentarie, forse matriarcali, dedite all’agricoltura, con religione di
tipo ctonio e cultura materiale più sofisticata. Non i.e. è certamente la terminologia legata al
comfort domestico, alla botanica e alla toponomastica. Questa terminologia arriva fino in India
coinvolgendo alcune lingue semitiche. Tanto nel bacino mediterraneo, quanto nel Medio Oriente e
nel subcontinente indiano, gli i.e. si sarebbero sovrapposti a precedenti popolazioni, accomunate
da una medesima cultura e da lingue sostanzialmente affini, a cui ci si riferisce con l’espressione
sostrato indomediterraneo. Una tendenza probabilmente non i.e. sarebbe quella del basco, del
guascone e del sardo di premettere una vocale d’appoggio a voci inizianti per liquida o nasale. Un
contributo paleoarcheologico è poi necessario per la datazione degli i.e. Innanzitutto, non si spiega,
come nel caso delle invasioni germaniche o della conquista musulmana, come popolazioni nomadi
di numero piuttosto scarso abbiano prevalso su popolazioni sedentaria dall’ampia consistenti. Pur
essendo un fenomeno identico, peraltro, ha generato esiti diversi: nel caso dei regni latino-barbarici
non si è avuta assimilazione linguistica, mentre nel caso arabo sì. L’invasione i.e. non è, però,
paragonabile. Uno dei motivi del successo degli i.e. è l’addomesticazione del cavallo con tutte le
innovazioni conseguenti, come testimoniato dalla base i.e. della terminologia relativa agli equini.
Per la datazione, sebbene sia semplice datare i reperti archeologici, è difficile associare ad una
facies culturale a una qualunque lingua o gruppo linguistico e l’i.e. unitario si colloca molto prima
della comparsa della scrittura (IV millennio a.C. in Egitto e Mesopotamia). Non sorprende più,
oggi, che l’ittita sia documentato a partire dal XVII sec a.C. o che frustuli linguistici arii della prima
metà del II millennio a.C. siano giunti grazie a documenti redatti in lingue parlate all’epoca in
Anatolia e Mesopotamia. La diaspora indoeuropea, dunque, non può essere posteriore al III
millennio a.C. Le scoperte archeologiche che testimoniano l’arrivo degli i.e. permettono anche di
stabilire una data di massima: secondo Maria Gimbutas, coincide con la cultura kurgàn, fiorita tra
VI e V millennio a. C. nell’area a nord del Mar Nero e del Mar Caspio, da dove, fra V e III
millennio, sarebbe giunta in Europa e in Asia sud-occidentale. Alternativo è il giudizio di Colin
Renfrew secondo cui gli i.e. sarebbero stati agricoltori neolitici che, dalla regione anatolica, si
sarebbero spostati, nell’VIII millennio a.C., verso l’Europa. Più drastica la teoria della continuità di
Mario Alinei, secondo cui gli i.e. sarebbero stati i primi rappresentanti della specie homo sapiens
arrivati in Europa, sicché il continente sarebbe stato indoeuropeo ab initio.

L’Europa linguistica e le lingue indoeuropee fuori d’Europa

La situazione linguistica europea attuale ha le proprie radici nelle conseguenze dell’impero


romano e dei sommovimenti dell’alto medioevo. Il punto di partenza è la divisione, nel 395,
dell’impero romano in due parti, che hanno avuto uno sviluppo praticamente indipendente,
dando vita ad un dualismo europeo inizialmente economico-linguistico e poi anche culturale e
religioso. Molte delle vicende dei due imperi, non tutte, si svolgono in parallelo: anzitutto la
mutazione linguistica conseguente all’inglobamento dei germani, da un lato e degli slavi,
dall’altro. Prettamente moderno ed europeo è, invece, un altro tratto: il monolinguismo prevalente
che lascia credere che sia quella la condizione naturale dell’uomo, quando, in realtà, fuori
d’Europa, è il bilinguismo la situazione prevalente. Né l’impero romano, né quello bizantino, né
quello turco ottomano, né quello austroungarico sono stati monolingui. In quest’ultimo, ad
esempio, prevalentemente germanico, l’italiano era la lingua ufficiale della marina. Nella Sicilia
dell’XI e XII secolo, coesistevano latino, greco, arabo e anche una varietà di italiano settentrionale
importato dai coloni. Persino la cancelleria normanno-sveva era trilingue. Solo l’uso politico della
lingua la rende un fattore di identità nazionale. È il caso delle monarchie inglese, ispanica e
francese nel XIII secolo. A sua volta, l’adozione di una lingua ufficiale apre la strada a
rivendicazioni di stampo politico, come le spinte nazionaliste all’interno degli imperi multilingui e
multiculturali. Le lingue d’Europa appartengono alla macrofamiglia indoeuropea e possono essere
raggruppate in tre grandi sottofamiglie (romanze, germaniche e slave), tre piccole (celtiche,
baltiche e zingariche) e due lingue isolate (albanese e neogreco).

Della famiglia romanza o neolatina conosciamo l’antecedente diretto e ne fanno parte le lingue
ibero-romanze (portoghese, castigliano o spagnolo, gallego o galiziano, catalano); le lingue
galloromanze (francese, provenzale, guascone, franco-provenzale); l’italiano con i suoi dialetti, che
costituisce il gruppo italo-romanzo, cui afferisce anche il corso; il sardo; i tre tronconi del reto-
romanzo, ossia il romancio svizzero, il ladino e il friulano; il gruppo balcano-romanzo, composta
dal rumeno (suddiviso in quattro varietà: dacorumeno, macedorumeno, meglenorumeno e
istrorumeno) e dall’estinto dalmatico. Contestata l’attribuzione fra italo-romanzo e balcano-
romanzo dell’istrioto o istro-romanzo, che rivendica autonomia più per ragioni politiche che
scientifiche. Il territorio in cui vengono parlate le lingue romanze è la Romània, suddivisa in parte
occidentale e orientale, il cui confine è segnato dalla linea La Spezia-Rimini, che divide anche
dialetti italiani settentrionali e meridionali. Peculiarità del romanzo occidentale è la conservazione
della –s finale latina, mentre una delle varianti orientali è la conservazione delle occlusive sorde
latina in posizione intervocalica all’interno di una parola. Alla Romània vanno aggiunte le
definizioni di Romània nuova e Romània sommersa, rispettivamente le aree in cui sono ancora
parlate varietà romanze e dove, invece, hanno ceduto il posto ad altre lingue, come l’Africa nord-
occidentale, dove il ramo afro-romanzo è stato soppiantato dal berbero e dall’arabo. Per la
determinazione della Romània sommersa sono fondamentali le testimonianze dirette, i prestiti
dalle lingue romanze a quelle sopravvissute e la toponomastica. Molte fonti, infatti, parlano di
popolazioni nordafricane infedeli (cioè, cristiane) parlanti lingue incomprensibili, come anche
molti nomi di città testimoniano un precedente strato romanzo.

Le lingue germaniche, invece, derivano dal germanico comune, privo di documentazione, se non
per alcune rune, e vengono divise in lingue germaniche settentrionali (danese, svedese, norvegese,
islandese e feringio delle isole Faer Oer); lingue germaniche occidentali (tedesco, diviso in alto e
basso, il frisone, l’olandese o nederlandese, una cui varietà è l’afrikaans, parlato dai coloni
olandesi, il fiammingo, l’inglese e, in più, lo yiddish) e lingue germaniche orientali, delle quali
nessuna sopravvive e la più recente, estintasi tra 1500 e 1600, è il gotico. Le lingue germaniche sono
caratterizzate dalla legge di Grimm e, per le eccezioni, da quella di Verner. Specifica dell’alto-
tedesco è la seconda mutazione consonantica. Il tedesco è lingua ufficiale in Alto Adige e dialetti
alto-tedeschi sono parlati nelle Prealpi venete e nelle valli che fanno capo al Monte Rosa. Lo
yiddish è una varietà di alto tedesco adottata da ebrei in fuga dalle repressioni di cui erano vittima
e che ha resistito in alcune comunità in Europa e negli Stati Uniti.

La terza grande famiglia, quella delle lingue discendenti dallo slavo comune, comprende lingue
slave occidentali (polacco, ceco, slovacco, soràbo inferiore e superiore, tutte con alfabeto latino);
lingue slave orientali (tutte in cirillico, russo, bielorusso e ucraino) e lingue slave meridionali
(sloveno, croato, serbo, macedone e bulgaro, le prime due con alfabeto latino). Le lingue slave sono
molto poco differenziate, più che altro per ragioni politiche: si pensi che, fino a poco tempo fa,
esistevano serbocroato e cecoslovacco. In Italia sono presenti minoranze slovene a Gorizia e Trieste ed
una croata in Molise (Acquaviva Collecroce). Il bulgaro è la lingua più antica, messa per iscritto da
Cirillo e Metodio, nel IX secolo ed è stata, per lungo tempo, la sola lingua letteraria.

Le lingue celtiche derivano dal celtico comune, di cui non abbiamo ampia documentazione e un
tempo parlate sul territorio che va dalla Turchia alla penisola iberica, oggi ridotto ad alcune isole
britanniche e alla Bretagna francese. Vi è una distinzione tra celtico continentale, varietà della
penisola iberica, Gallia e Italia settentrionale, estinto nel V-VI secolo d.C. e celtico insulare, a sua
volta distinto in lingue galiche o goideliche (irlandese, manx o mancio, scozzese) e lingue
britanniche (gallese, cornico e brettone). Osteggiate violentemente durante il basso medioevo e
l’età moderna, sono oggi parlate da un numero ristrettissimo della popolazione di questi territori.

Le lingue baltiche, satem, derivano dal baltico comune e comprendono lituano, lettone e antico
prussiano, estintosi nel Settecento. Caratterizzate da elementi conservativi, sono fra le lingue i.e. di
più recente documentazione, in quanto questi popoli sono stati gli ultimi d’Europa a
cristianizzarsi.

La famiglia delle lingue zingariche, satem, parlate dai rom, è di tipo indoario, poiché gli zingari
sono migrati dall’India, attraverso la Persia, l’Armenia, Bisanzio e i Balcani, giungendo in Europa
dagli inizi del ‘200, dove hanno continuato a praticare il nomadismo e dedicandosi a mestieri
caratteristici, legati alla lavorazione dei metalli. Solo il 20% circa degli zingari conserva la lingua
d’origine, priva di standardizzazione.

L’albanese, satem, si suddivide in ghego, a nord, e tosco, a sud, ed è attestato a partire dal ‘500, sia
in Albania sia in Italia, nella penisola balcanica, in Sicilia, dove fuggirono a causa dell’espansione
dei turchi. Gli albanesi d’Italia hanno anche dato vita ad una branca della letteratura albanese.
Con l’eccezione dello zazonico, parlato nel Peloponneso orientale, il neogreco è frutto della koiné,
la comune lingua greca formatasi dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C.). Sin dai primi
secoli, si venne a formare una distinzione tra lingua scritta e lingua parlata ed un gran numero di
dialetti, poi unificati dalla burocrazia di Costantinopoli nella storia dell’Impero Bizantino. A
partire dal regno latino d’Oriente (1204), la lingua scritta unificata, la katharévousa fu
ulteriormente rivista e, ancora una volta, si modificò dopo la presa turca ottomana di
Costantinopoli (1453). Con la conquista dell’indipendenza (1830 ca.) si fece strada la lingua parlata,
la dhimotikì, sostenuta dalle fazioni di sinistra, imposta come lingua ufficiale solo dopo
l’abbattimento della dittatura dei colonnelli (1967-74). Lo spazio geografico in cui si parla greco è
notevolmente ridotto. Sopravvivono parlate greche in alcune zone dell’Italia meridionale.

All’inizio dell’era cristiana, però, l’Europa si presentava in tutt’altra situazione. L’impero è diviso
in due: un Occidente a prevalenza latina ed un Oriente a prevalenza greca, con miriadi di lingue
minori (celtico in Italia settentrionale e in Gallia, celtiberico e varietà di basco in Hiberia, berbero e
punico in Africa del Nord, egiziano, copto, aramaico, frigio, trace ed illirico, più un fascio di lingue
italiche, come osco e umbro, venetico e messapico o l’etrusco). Il greco è la lingua di più antica
attestazione e si estende per 35 secoli. Bisogna distinguere il greco dal miceneo, che adottava
ancora un alfabeto sillabico, oggi decifrato, noto come lineare B, che implica l’esistenza di una
lineare A, usata nel minoico e non decifrata. La B doveva essere un adattamento della A. Dal II
millennio, dopo un intervallo di circa quattro secoli, riemerge nell’VIII secolo a.C., suddiviso in un
certo numero di varietà (ionico-attico, dorico, eolico, arcadico-cipriota e panfilio, in Anatolia), poi
riunite nella koiné, a partire dal 323 a.C., data della morte di Alessandro Magno, che pure parlava
macedone. Più recente del greco è il latino, che nasce nel VI-V secolo nell’area del Tevere e
dell’Aniene, come lingua di pastori e agricoltori, poi adottata come lingua di Roma. Diventata poi
lingua mediterranea, per gli sviluppi del suo impero, si distingue un latino scritto da un latino
parlato, come dimostra un’iscrizione riportante lo stesso distico, ma in due varietà diverse, dalle
quali hanno avuto poi origine le lingue romanze.

A seguito dei flussi migratori della fine del II millennio d.C. sono giunte in Europa anche lingue
non appartenenti alle famiglie i.e., come lingue del ramo ugro-finnico, della macrofamiglia uralica
(lappone, finlandese, estone ed ungherese), lingue del ramo turcico della macrofamiglia uralo-
altaica, ovvero il turco e lingue del ramo mongolico della famiglia uralo-altaica, come il calmucco,
lingue della famiglia semitica (maltese ed ebraico) e il basco, lingua isolatissima, parlata tra Francia
e Spagna. Tra l’VIII e il IX secolo, con le conquiste islamiche della Spagna e della Sicilia, è entrato
in Europa anche l’arabo. In Spagna, è sopravvissuto fino al 1492, prima della fine della reconquista.
In Sicilia, dopo un’iniziale convivenza con la popolazione locale, con Federico II, tra il 1220 e il
1240, furono espulsi dall’isola e deportati a Lucera. Nonostante la fedeltà all’imperatore, con la
sconfitta di Manfredi e Corradino da parte angioina, gli arabi di Lucera furono assediati e trucidati
nel 1301. Ebbe fine, così, l’arabofonia in Italia. Solo in Sicilia, fino all’espulsione del 1492, furono
presenti parlanti di arabo, per poi spostarsi a Pantelleria e Malta, fino al XVII-XVIII secolo. Molti
sono i prestiti e i toponimi che si devono all’arabo, così come le repubbliche marinare si sono fatte
diffusori di arabismi. L’ebraico è stato usato, più che altro, come lingua della religione e della
cultura, in special modo delle comunità ebraiche, attraverso le quali sono giunti dei lessemi ebraici
(come togo). Lingue indoeuropee parlate fuori d’Europa sono, invece, l’ittita (centum), diffuso tra
XVII e XIII secolo in Anatolia, con alfabeto cuneiforme e che oggi si inserisce tra le lingue
anatoliche (palaico, luvio, licio, lidio, cario), l’armeno (satem), a partire dal V secolo d.C., in
Armenia, Turchia e Iran, almeno nelle zone prossime al confine. Fra gli altopiani iranici e il
subcontinente indiano troviamo le lingue indoiraniche, tutte satem, distinte tra iraniche, attestate
dal VI secolo a.C. (avestico, antico, medio e moderno persiano o farsi, poi anche lingua islamica,
curdo) e indoarie (vedico, il cui più antico documento risale al 1000 a.C., sanscrito, codificata dal
grammatico Panini nel V-IV secolo a.C., dialetti pracriti, a partire dal III secolo a.C., fra le quali il
pali, lingua del canone buddhista). Dai pracriti vengono lingue con un alto numero di parlanti
come l’hindi e l’urdu, molto simile all’hindi, ma è usato da una popolazione prevalentemente
musulmana e utilizza, per questo, l’alfabeto arabo. Infine, va menzionato il tocario, conosciuto
grazie a dei testi risalenti al periodo tra la metà e la fine del I millennio a.C. e che si distingue in
tocario A e tocario B.

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