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Fanciullo: introduzione alla linguistica storica

Le lingue cambiamo col trascorrere del tempo, non solo dopo un lasso di tempo notevole, ma anche su archi
cronologici assai più ristretti, compresi nella vita di una persona. La LINGUISTICA STORICA O DIACRONICA studia il
mutamento delle lingue in relazione al trascorrere del tempo o, in altre parole, in diacronia. La LINGUISTICA
SINCRONICA seleziona e studia un qualunque momento cronologico indipendentemente dal suo evolversi
diacronico. Il cambiamento delle lingue può avvenire anche a livello diatopico e geografico). Inoltre, non è possibile
distaccare sincronia e diacronia in modo netto, ognuna, nella sua particolarità, tiene conto dell’altra. Di cosa si
occupa la linguistica storica? Innanzitutto bisogna partire dicendo che questa è una disciplina nata verso la fine del
‘700 e si è specializzata nel secolo successivo. L’orizzonte della linguistica storica può essere vastissimo. Il suo fine è
quello di dare una spiegazione organica delle stupefacenti affinità che, ad un certo punto della storia, si
scoprono legare un numero sorprendentemente ampio di lingue antiche e moderne.

CAPITOLO UNO: la parentela linguistica


LA FAMIGLIA LINGUISTICA

Tutte le lingue del mondo possono essere classificate in base a diversi criteri, uno di questi è quello genealogico:
affinché si possa parlare di una famiglia linguistica vera e propria occorre dare una parentela a delle lingue.

Come si fa a individuare una famiglia linguistica?


Individuare una famiglia linguistica significa risalire ad una lingua-capostipite, da cui, come una cascata, derivano tutte
le altre, cioè derivano le varie lingue-madri e di conseguenza le varie lingue-figlie.

Cosa sono le lingue-figlie e le lingue-madri?


Nel caso delle lingue indoeuropee, per lingue-figlie intendiamo le lingue di ultima generazione, dette lingue neolatine o
romanze, lingue germaniche, slave, celtiche e baltiche. Per ciascuna di queste bisogna individuare una lingua-madre:

 Il latino per le lingue romanze e neolatine


 Il germanico comune per le lingue germaniche
 Lo slavo comune per le lingue slave
 Il celtico comune per le lingue celtiche
 Il baltico comune per le lingue baltiche

Nel caso delle lingue romanze, possiamo dire di conoscere abbastanza la lingua-madre, cioè il latino, perché ne abbiamo
conoscenza diretta. Ma non possiamo dire lo stesso per le altre. Perciò si possono riscontrare molte difficoltà nel porre
ordine ad una famiglia linguistica della quale si conoscono direttamente solo i membri definiti “ ultima generazione” e
solo pochi membri attribuibili alla “generazione precedente”.

LESSICO CONDIVISO E CORRISPONDENZE FONETICHE

Le lingue che appartengono alla stessa famiglia linguistica hanno diverse corrispondenze. Prendiamo come esempio il
francese e l’italiano, entrambe appartengono alla stessa lingua-madre (latino) e hanno molte somiglianze sotto diversi
punti di vista. LESSICO CONDIVISO (o lessico in comune), vale a dire che queste lingue presentano una percentuale più
o meno elevata di voci che danno realmente l’idea di una corrispondenza tra le due lingue. Infatti, avvertiamo che, tra
francese e italiano, la somiglianza è visibile a livello grafico (scrittura) assai più che a livello fonico (pronuncia);
l’attuale grafia del francese è attardata di alcuni secoli rispetto alla molto più evoluta pronuncia effettiva. Ed è anche
importante precisare che, se non ci fossero state somiglianze lessicali, non si sarebbe neanche fatta l’indagine. Il
lessico condiviso però può non bastare per individuare la parentela. Bisogna studiare e comprendere l’origine di
queste corrispondenze, che per giunta NON E’ CASUALE. ‘L’aria di famiglia‘ che corre fra italiano e francese non solo non
è frutto di una più o meno vaga somiglianza, ma risulta possibile da CORRISPONDENZE SISTEMATICHE non afferrabili a
prima vista. Per capire questa affermazione, prendiamo come esempio l’occlusiva velare sorda [k]. Questa consonante
inizialmente veniva usata, da entrambe le lingue, seguita da a, o, u. Questa è la sequenza che viene ancora utilizzata dalla
lingua italiana.

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Vediamo, invece, come la lingua francese si sia distaccata da questa sequenza e abbia cambiato la [k] in un suono più
debole, ovvero sibilante palatale sorda [š] quando è seguita da a. Diventa da occlusiva, fricativa: cambia il modo e il
punto di articolazione. Questo ammette una sola spiegazione: entrambe le lingue hanno avuto un medesimo punto di
partenza ma da un certo momento in poi, una delle due ha preso a divergere in ben individuabili circostanze e
solo in quelle. Inoltre in francese dopo l’evoluzione di [ka] in [ša], anche la [a] si è affievolita in [ǝ] se:

- Non porta l’accento;

- Si trova in sillaba aperta oppure:

- In finale di parola.

Quindi ecco un esempio che spiega tali mutamenti: it. cavallo, originariamente fr. caval – chaval – cheval.

LESSICO CONDIVISO E CORRISPONDENZEMORFOLOGICHE

Prendendo sempre come esempio le corrispondenze tra lingua francese e italiana, vediamo che ci sono alcune parole che
all’apparenza sono simili, che presentano qualche differenza, ma che hanno lo stesso significato. Prendendo in analisi le
due parole: fr. marché, it. mercato: ammesso che significhino la stessa cosa, notiamo ovviamente delle differenze e ci
poniamo delle domande. Perché in francese la a tonica è divenuta [‘e] (marché)? Perché la [t] intervocalica dell’italiano
corrisponde zero in francese? La risposta a questi interrogativi ci mostra che le corrispondenze non sono casuali:

- La a tonica italiana corrisponde alla [‘a] francese se in italiano è in sillaba chiusa.


- La a tonica italiana corrisponde alla [‘e] francese se in italiano la a accentata è in sillaba aperta.

In qualche lontana fase della sua storia, il francese deve aver conosciuto una struttura sillabica assai simile se non uguale a
quella che, ancora oggi, si riscontra in italiano. In seguito, il francese ha dato vita a una struttura tale da poter giustificare
tutte le alternanze e differenze. Solo dopo l’instaurarsi di queste alternanze il francese avrà imboccato la deriva che
lo ha portato ad allontanarsi dall’italiano: un forte indebolimento delle vocali a fine parola, unito ad altri processi
fonetici, ha completamente modificato la struttura sillabica che il francese condivideva con l’italiano, instaurandone una
nuova e diversa, al cui interno le alternanze non hanno più possibilità di spiegazione, ma ne sono parte integrante.

Altre corrispondenze che ci fanno capire il processo dalla medesima forma di partenza allo sviluppo delle lingue di ultima
generazione (it. e fr.):

- Sempre nelle due parole marchè e mercato, vediamo un’altra corrispondenza: la [t] italiana e l’assenza della rispettiva
[t] francese, che non viene rappresentata. Sappiamo che la corrispondenza c’è. Capiamo, infatti, che entrambe
derivano dalla sequenza latina -atu (come quella del participio passato di prima coniugazione ‘ mercatu’), che
prosegue nell’evoluzione delle due lingue come - è in francese e come –ato in italiano: (fr. chantè, it. cantato).

Questa corrispondenza ne presuppone un’altra:

- Il francese [-‘y] (vocale alta anteriore/palatale arrotondata = in grafia francese standard <u>) corrisponde all’italiano
-UTO: VOULU; VOLUTO
- Il francese [-‘i] (vocale alta anteriore/palatale) corrisponde all’italiano -ITO: DORMI; DORMITO

IL RUOLO DELLA MORFOLOGIA

Fino ad ora sono stati rilevati, tra italiano e francese, un certo numero di corrispondenze di tipo fonetico-fonologico,
sufficienti a determinare la parentela linguistica tra le due. Un’ulteriore conferma viene dalla MORFOLOGIA. Lungo l’arco
diacronico delle lingue, i morfemi, soprattutto quelli flessivi (relativi a genere, numero, caso, persona ecc.) sono fra gli
elementi più stabili in assoluto, meno soggetti al cambiamento, a differenza del lessico che può mutare con estrema
facilità. Gli elementi morfologici, invece, i quali non rinviano a realtà extralinguistiche:

- Devono esprimere RELAZIONI.

Cosa si intende per relazioni? Il morfema femminile singolare, rappresentato dal morfo -a dell’italiano
(casa, barca, gatta), deve relazionarsi con il morfema femminile plurale, rappresentato dal morfo -e dell’italiano
(case, barche, gatte); e ancora, deve relazionarsi con il morfema maschile singolare, rappresentato dal morfo -o
(gatto, libro, palazzo). Queste relazioni sono STABILI, si sottraggono ai cambiamenti, tendenze, mode e si
caratterizzano per una spiccata propensione alla conservatività, quindi non mutano con elementi extralinguistici!

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- Devono avere TENDENZA ALLA CONSERVATIVITA’. Questo significa che i morfemi flessivi, i quali esprimono
chiaramente quelle relazioni, non migrano da una lingua ad un’altra, ma sono rappresentativi di quest’ultima (tranne
per casi eccezionali).

La morfologia è essenziale nella classificazione delle lingue su base genealogica, perché?


Perché la stabilità dei morfemi flessivi (rispetto al lessico) fa nascere delle CONCORDANZE MORFOLOGICHE essenziali per
indiziare la comune origine di due o più lingue anche quando queste non presentino (quasi) più lessico in comune.
Ritornando all’esempio dell’italiano e del francese, la loro corrispondenza reciproca è visibile sia in ambito lessicale
che morfologico. Inoltre, le corrispondenze sincroniche fra italiano e francese sono conseguenza del differenziarsi
diacronico fra latino e italiano da una parte, e latino e francese dall’altra. Il diverso modo dell’italiano e del francese di
reagire in diacronia alla comune eredità latina si trasforma in sincronia nella sistematicità delle corrispondenze fra le due
lingue.
(es. it. [ka] e fr. [sa]).

LA PARENTELA LINGUISTICA IN SENSO “VERTICALE”


Dopo aver studiato la parentela linguistica in maniera orizzontale (italiano e francese = lingue-sorelle) mediante lessico e
morfologia condivisa e sistematicità di corrispondenze fonetiche-fonologiche, ora è arrivato il momento di analizzare la
parentela linguistica in senso verticale, cioè l’italiano e le altre lingue romanze rispetto al latino (quindi lingua
madre).

Vediamo nel dettaglio la parentela verticale tra latino e italiano. L’idea della loro parentela è suggerita in prima istanza dal
lessico condiviso (lat. TERRA e it. terra; lat. PATRE-MATRE e it. padre-madre; lat. PLANTA e it. pianta). Questo però non
basta per identificare la parentela (come già detto) occorre adesso precisare le corrispondenze: ci sono dei motivi fondati
per cui una determinata parola latina sia diventata tale in italiano. Es. lat. PLANTA corrisponde all’it. pianta. Questa non è
una cosa casuale, ma ci fa capire che evidentemente ad ogni nesso latino PL- in posizione iniziale, in italiano debba
corrispondere pi-. In realtà non sempre questo avviene.

Guardiamo al caso it. pioggia (con o aperta), che sembrerebbe derivare dal lat. PLUVIA (con u breve) ma così non è. Infatti
se si considera l’esempio sopracitato, a pl- dovrebbe corrispondere – pi, ma la u breve di pluvia dovrebbe dare una o chiusa,
e non una o aperta; inoltre –vi- dovrebbe dare –bbi-, com’è attestato in GAVIANO > gabbiano. A dispetto delle apparenze,
pioggia, non è in rapporto di filiazione con pluvia, poiché avremmo dovuto avere: piòbbia. Pioggia, infatti, deriverebbe da
PLOJA (con o breve), una forma forse popolare, mentre PLUVIA dovrebbe essere una forma tipica di un registro elevato.

Un diverso problema riguarda lat. PATRE – it. padre, lat. MATRE - it. madre. L’equazione lessicale sembrerebbe esserci tra
lat. –t(r)- e it. –d(r)-; sennonché in un numero certo non minore di equazioni lessicali il rapporto è tra lat. –t(r)- e it. –t(r)-.

Quindi si pone il problema: al latino –t(r)- l’italiano risponde con [-d(r)-] o con [-t(r)-]?
Una possibile soluzione proviene dalla MORFOLOGIA FLESSIVA. In effetti, alcune desinenze verbali dell’italiano sono
caratterizzate dalla presenza di una [-t-] intervocalica, che continua un’analoga articolazione del latino: ad esempio
le desinenze del participio passato (- ato, -ito, -uto, in prosecuzione delle latine – atu, -itu, -utu). E allora, se all’interno dei
morfemi a lat. –t- corrisponde inevitabilmente it- [-t-], la cosa più verosimile è che la prosecuzione italiana delle
occlusive sorde intervocaliche del latino sia precisamente l’esito sordo, e che quello sonoro vada spiegato in altro
modo.

Quanto alla MORFOLOGIA CONDIVISA, si consideri che la morfologia italiana dei nomi tipicamente femminili, maschili e
ambigeneri si basa, rispettivamente, sulla prima, seconda e terza coniugazione latina:

- –a al singolare ed –e al plurale  cas-a, cas-e;

- -o al singolare e –i al plurale  libr-o, libr-i;

- -e al singolare e –i al plurale  giovan-e, giovan-i.

LA STRATIFICAZIONE DEL LESSICO

Il lessico è un altro parametro di studio delle lingue delle loro appartenenze ed è costituito da quattro strati.

1. Strato ereditario

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Lo strato ereditario fa riferimento al lessico che ogni lingua riceve dal suo immediato antecedente. Il lessico si rinnova
facilmente in base alle esigenze, ma esistono settori lessicali più stabili di altri. Tra gli stabili, ricordiamo i numerali, la
terminologia parentale e i nomi delle parti del corpo. In effetti non si può cambiare il numerale ‘ nove’ senza il rischio di
subire ripercussioni su ‘otto’ ecc. Allo stesso tempo, non si può cambiare il nome ‘padre’ o ‘madre’ senza il rischio di
scombussolare l’insieme delle denominazioni parentali. Un esempio di termine latino che è stato modificato in base alle
esigenze dei parlanti delle lingue diverse potrebbe essere DOMUS. Questo termine in italiano (e anche in altre lingue) lo si
ritrova al maschile, duomo, con un diverso significato, ovvero ‘chiesa principale di una città’. Continuatori del latino CASA
si ritrovano in italiano, in portoghese, in spagnolo, ma non in francese, dove maison (alloggio) muove da un’altra base.
Inoltre, lo strato ereditario svolge il ruolo fondamentale di fornire la morfologia flessiva (cioè le “marche grammaticali”)
a tutto il resto del lessico (prestiti, onomatopee, neoformazioni). Ad esempio, zigzag, viene reso come un verbo italiano
zigzagare e coniugato esattamente come il verbo amare. Quindi vediamo come lo strato ereditario ha donato a questa
parola la morfologia flessiva per renderlo un termine della lingua a tutti gli effetti. Questa cosa accade anche con i prestiti: il
latino TUNICA, deriva da un prestito commerciale fenicio, ma ha la morfologia di un qualunque nome latino di prima
declinazione. Questo ultimo aspetto ci rinvia a:

2. Strato dei prestiti


Si tratta di voci che una data lingua assume dalle lingue con le quali è più a contatto, strato altamente variabile. Il
maggior numero dei prestiti avviene quando due lingue vengono a trovarsi in contatto e una delle due, per vari motivi,
è dotata di un prestigio nettamente superiore a quello dell’altra. In una situazione del genere, infatti, accade che la
lingua di minor prestigio si apra a un flusso di prestiti dalla lingua più prestigiosa non soltanto per necessità, come
potrebbe essere per l’italiano il caso dei tecnicismi angloamericani relativi all’informatica, ma anche per il desiderio di
partecipare, usandone il lessico, al prestigio sociale di cui quello linguistico è evidentemente emanazione (sempre per
l’italiano, si pensi ad anglo-americanismi come day-hospital). I prestiti possono avere diverse conseguenze:

 La lingua che riceve i prestiti non diventa altro che varietà della lingua che dona: questo avviene nel caso in cui il
contatto tra le lingue a favore della prima e il flusso dei prestiti a senso unico si prolunghino nel tempo; lo strato
lessicale ereditario non riesce più ad imporre la sua morfologia alle voci del prestito (questo ad esempio è il caso
dell’italianizzazione dei dialetti in Italia).
 Alle nuove generazioni non viene più trasmessa una determinata lingua perché considerata dannosa e inutile. I
genitori, in questo caso, decidono di non trasmetterla più ai figli per i motivi sopracitati. Presupposto di ciò è che una
lingua sia diventata di scarso o nullo prestigio sociale, con la fondamentale conseguenza di un utilizzo sempre più
massiccio di una lingua più prestigiosa: ovviamente se il prestigio di quest’ultima tende ad aumentare, è probabile
che, da un certo momento in poi, i parlanti cessino di trasmettere quella lingua ai propri figli.

Esemplare è il caso di una lingua che ha rischiato di trasformarsi in un’altra lingua. È il caso del maltese, dal 1964 lingua
ufficiale di Malta. Questo, unica varietà di arabo ancora parlata in Europa e unica che utilizzi l’alfabeto latino, per parecchi
secoli rimase esposto all’influsso del siciliano, cui si aggiunse, con l’arrivo a Malta dei Cavalieri, l’altrettanto influsso
massiccio dell’italiano. L’attuale maltese, dunque, pur avendo mantenuto il suo carattere iniziale, mostra un lessico di
origine siciliana e italiana. La lingua-madre svolge un importante compito: funzione di serbatoio lessicale nei confronti
delle lingue-figlie, e di incremento lessicale al progredire delle arti, scienze ecc. Da questo punto di vista il latino, nei
confronti delle lingue romanze svolge un duplice ruolo perché da un lato fornisce il lessico ereditario, e dall’altro anche i
cosiddetti cultismi i quali, per giunta, rispetto ai normali elementi ereditari, non subiscono mutamenti a livello fonetico,
al contrario, presentano minime differenze o non ne presentano affatto.

3. Strato onomatopeico e fonosimbolico


Si tratta di tutte quelle formazioni che, nella loro successione fonica, tentano di riprodurre suoni e rumori di animali,
naturali o di altro tipo (chicchirichì = verso del gallo), oppure cercano di suggerire l’idea di quello che si vuole indicare
(zigzag per indicare una linea spezzata). In questo strato l’arbitrarietà del rapporto tra significante (cioè la sua struttura
fonica veicolante una nozione) e significato (cioè la nozione veicolata da una struttura fonica) è ridotta al minimo. Ma ci
sono delle avvertenze:

a. Anche nel rapporto tra significante e significato delle onomatopee esiste un certo grado di arbitrarietà (l’abbaiare
del cane può essere concepito in maniera diversa dalle diverse lingue);

b. Le formazioni onomatopeico-fonosimboliche possono presentarsi sia come ideofoni (successioni foniche che
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suggeriscono qualcosa relativa alla loro fonìa: bum ‘esplosione’, din don ‘rintocco di campana) sia strutturate in vere
e proprie parole (ticchettare = verbo; ticchettio = sostantivo, che rimandano al rumore caratteristico dell’orologio a
sono anche il primo un verbo e il secondo un sostantivo italiani del tutto regolari).

c. L’evoluzione fonetica può tanto oscurare precedenti formazioni onomatopeiche quanto rimotivare su base
onomatopeico-fonosimbolica elementi viceversa di tutt’altra origine: così il toscano succiare ‘succhiare’ è stato
modificato in cucciare favorito dalla rappresentazione onomatopeica dell’atto di succhiare, appunto.

4. Strato delle neoformazioni


A mezzo di REGOLE SINCRONICAMENTE PRODUTTIVE, le quali si applicano a voci provenienti da tutti e tre gli altri strati.
Le regole sincronicamente produttive sono quelle che in un dato momento il parlante riconosce come regole e usa
normalmente. Così, se ci riferiamo all’italiano dell’inizio del III millennio, sono, ad esempio, regole sincronicamente
produttive:

- La formazione del femminile a mezzo del suffisso –éssa (principe  principessa);

- La formazione del femminile a mezzo dell’uso ambigenere del maschile (presidente m.  presidente f.);

Ma non:

- La formazione del femminile a mezzo del suffisso –ina (gallo  gallina). Quest’ultimo caso ci pone davanti a una
regola derivativa che non è e non è mai stata dell’italiano, e che già in latino doveva apparire sclerotizzata.
Anche se ne permangono ancora singoli risultati, nonché fossili veri e propri: per il parlante italiano di inizio III
millennio, infatti, il meccanismo derivativo che li ha prodotti risulta opaco e, di conseguenza, improduttivo.

CAPITOLO DUE: il mutamento


È stato affermato che, le lingue tenderebbero a rimanere stabili, cioè a non mutare se una lingua non entra in contatto con
nessun’altra possa rimanere tale anche sui tempi lunghi e lunghissimi. Questo non si può affermare con assoluta certezza
perché non esiste al mondo una lingua che sia rimasta isolata per poter affermare o smentire ciò. Ciò di cui si può essere
certi è che le lingue cambiano. Fermo restando che il mutamento linguistico interessa ogni livello della lingua, il
cambiamento che, di primo attrito, si percepisce meglio è quello relativo al livello fonetico-fonologico.

Foni e fonemi. Partiamo dalla distinzione tra:


1. Livello fonetico: riguarda la produzione concreta dei suoni (foni) che vengono segnati convenzionalmente fra
parentesi, e il modo in cui essi vengono articolati, in quale punto dell’apparato fonatorio, con l’intervento di quali
organi (per esempio labbra, denti) e così via. Perciò sapremo se si tratta di una fricativa o di una labiodentale, di una
nasale o di una dentale ecc.
2. Livello fonologico o fonematico: riguarda quei particolari foni che ciascuna lingua si sceglie per farne i “mattoni”,
ovvero i fonemi, con cui costruire le sequenze dei significanti, cioè le sequenze foniche in grado di veicolare i
significati. I fonemi, segnalati per convenzione tra le barre oblique, si collocano a un livello soprattutto mentale,
mentre i foni si collocano al livello della concretezza articolatoria. Si tratta degli elementi (fonemi) che un parlante di
una lingua “sa” di dover utilizzare se, in quella lingua, vuole costruire un significante (= stringa fonica veicolante un
certo significato).

Quindi, in poche parole:

Il fono, essendo realizzazione concreta di un qualsiasi suono del linguaggio, pur


cambiando la pronuncia di una parola, non cambia il significato. Il fonema si ha
quando, cambiando il suono della parola, il significato di questa cambia.
A questo punto, dovrebbe essere chiara anche la definizione tecnica di fonema, che è unità distintiva minima: vuol dire
che il fonema è l’unità fonica più piccola che, pur non avendo, di per sé, un suo significato, tuttavia permette di distinguere
tra significati diversi: (mare, care). Queste coppie di parole che si distinguono per un solo punto della sequenza si dicono
coppie minime.

Allofoni/varianti contestuali o combinatorie di un fonema vs. varianti libere.

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Inoltre, poiché i fonemi si susseguono l’un l’altro nella catena fonica, può succedere che la loro realizzazione concreta venga
condizionata da elementi circostanti (contesto) e che, dunque, in certe situazioni, si “pronunciano in modo diverso” rispetto
alla realizzazione standard: è il caso della /n/ nasale dentale che, a causa del contesto, viene pronunciata come nasale
velare perché condizionata dall’articolazione consonantica che viene dopo /k/. Quando le varianti di fonema sono
determinate dal contesto (come in questo caso) si dice che presentano una: DISTRIBUZIONE COMPLEMENTARE. Ad
esempio: /k/ presenta due varianti = [k] e [c].

Particolarità:

 Il fatto che, in una lingua L, due foni siano varianti contestuali d’un medesimo fonema non esclude che in un’altra
lingua L1 quei due foni possano invece funzionare come fonemi. E’ il caso dell’italiano parlato a Firenze dove la/k/ si
realizza in [x] quando è fra due vocali, indipendentemente dal fatto che le due vocali appartengano a parole diverse
oppure no: ami[x]a ‘amica’.
 Se gli allofoni che si riscontrano più frequentemente sono quelli contestuali (determinati dal contesto), non
mancano neppure i cosiddetti allofoni liberi (varianti libere), ossia indipendenti dal contesto. In italiano ad
esempio possiamo trovare [r]oma (con [r] dentale) oppure [ R]oma (con r uvulare, cioè la “r moscia”), ma il significato
resterà sempre Roma.

TIPOLOGIA DEI MUTAMENTI

Fermo restando che i mutamenti fonetici e mutamenti fonologici sono strettamente interrelati, nel senso che se i mutamenti
fonetici non è detto debbano necessariamente avere conseguenze fonologiche, però i mutamenti fonologici sono di solito
innescati da mutamenti fonetici, ci sono diversi mutamenti a livello fonetico:

 L’assimilazione
 La dissimilazione
 L’inserzione

 La cancellazione
 La metatesi
 La coalescenza
 La scissione

Assimilazione
Prevede che due elementi fonici contigui (o comunque vicini) nella catena fonica e fra loro diversi o in tutto o in parte, si
avvicinino in parte (assimilazione parziale) o in tutto (assimilazione totale).

La gamma dei fenomeni assimilatori è vastissima:

- Assimilazione regressiva: lat. FA[kt]u - it. fa[tt]o = il secondo elemento condiziona il primo.
- Assimilazione progressiva: lat. Mu[nd]U – nap. Mu[nn]ə, è il primo elemento a condizionare il secondo.
- Assimilazione bidirezionale: lat. AM[iku] – sp. Amigo, quqi è l’azione congiunta delle due vocali, quella prima e
quella dopo l’elemento modificato.
- Armonia vocalica: certi suffissi armonizzano, vale a dire assimilano, in tutto o in parte, la loro vocale all’ultima vocale
della parola alla quale vengono uniti.
- Metafonia o metafonesi: fenomeno presente nei dialetti italiani dal nord al centro sud, ma non il toscano (né di
conseguenza l’italiano). Questo fenomeno riguarda le sole vocali accentate medie, ossia le medio-chiuse e le
medio-aperte. In cosa consiste:

Per effetto di vocali alte ([-i] e [-u])* di norma in posizione finale di parola, le vocali accentate medie si
modificano: le medio-basse si innalzano alle medio-alte (passando quindi a [‘e] e [‘o]), oppure dittongano
(in [‘je] e [‘wo]); le medio-alte si innalzano alle alte (passando quindi in [‘i] e [‘u]). *le vocali alte derivano dal
latino -I (lunga) e dal latino -U[M] (u-breve).
Questo meccanismo è più chiaro nei dialetti laziali, umbri e aquilani ma, nella gran parte dei dialetti non lo è.
Nella maggior parte dei dialetti questo meccanismo risulta oscurato dal fatto che le vocali finali si sono
ridotte di numero, o si sono ridotte ad un’unica vocale indistinta – ə. o addirittura sono cadute. A queste

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condizioni il meccanismo continua ad agire ma, le vocali finali essendosi ridotte di numero o essendo
scomparse, il parlante finisce per “non sapere più” perché in certi casi il meccanismo si applichi e in altri no. In
molti dialetti questo fenomeno si è trasformato in un tipico caso di morfologia non concatenativa.
Dissimilazione
Prevede che due elementi contigui o vicini e articolatoriamente uguali si diversifichino in misura maggiore o
minore.

Esempio: lat pe[r]eg[r]inu >it. pe[ll]eg[r]ino / fr. Pe[l]e[r]in = ([r-r] > [l-r]).

Consideriamo ora due fenomeni opposti l’uno all’altro: inserzione e cancellazioni. Con inserzione si intende l’aggiunta
di materiale fonico etimologicamente ingiustificato. E’ il caso di: it. ca[v]olo o sp. [e]scuela rispetto ai punti di partenza
lat. CAULE e lat. SCHOLA. Con cancellazione, invece, si intende la sottrazione di materiale fonico che invece dovrebbe
essere presente. E’ il caso di it. caldo o sp. siglo rispetto ai punti di partenza lat. CLIDU e lat. SAECULU. Il gioco
combinatorio delle cancellazioni e inserzioni può portare molto lontano:

Nel nome dell'isola di Ischia, risalente al latino insula e (sicché l’isola di Ischia è l'isola per eccellenza), secondo la trafila che
segue: lat. insula >*isula (cancellazione di [n] nel gruppo [ns] come in mense > mese )> isla (cancellazione della vocale
postonica di parola accentata in terzultima sillaba come lat. Frigidu >*frigdu >it. freddo) > iscla (inserzione dell'occlusiva
velare nel gruppo [s]+ [l] = isglanda > Islanda) > Ischia.

Metatesi
Spostamento di materiale fonico in un punto della catena diverso rispetto a dove dovrebbe ritrovarsi in base
all’etimologia. E’ il caso dell’italiano dialettale c[r]apa ‘capra’, riferito a persone tarate, rispetto al punto di partenza lat.
CAPRA.

Coalescenza
Si intende la fusione di due elementi fonici contigui in un terzo elemento, diverso dai primi, ma che, di solito,
presenta caratteristiche di ciascuno degli elementi di partenza. E’ il caso dell’italiano vi[ňň]a ‘vigna’, dove c’è il fono
nasale palatale [ňň] nato dalla fusione della nasale dentale [n] col legamento palatale [j] presente nel lat. “parlato” VINJA per
il classico VINEA.

Scissione
E’ un procedimento opposto alla coalescenza. In base alla scissione un fenomeno fonico si scinde in due elementi
distinti. Un esempio classico è la dittongazione italiana: [ε] e [ͻ] se sotto accento e in sillaba aperta, diventano
rispettivamente [jε] e [wͻ]: lat. leve > lieve. lat bonu > buono. Frequente è la scissione come mezzo col quale la lingua
ricevente adatta suoni che le sono estranei, di un'altra lingua. Esempio: la [y] francese, vocale alta, anteriore arrotondata
assente in italiano, in quest’ultima lingua viene scissa nelle sue due componenti (vocale alta anteriore [i] e vocale alta
arrotondata [u], che vengono articolate non simultaneamente ma in successione: men['ju] cioè menù, > men[y] in grafia
standard.

ANALOGIA, ETIMOLOGIA POPOLARE, TABU’ LINGUISTICO

I mutamenti fino ad ora esaminati possiamo definirli meccanici, ma non nel senso di universali, bensì nel senso che,
all’innesco di tali mutamenti, è sufficiente che i foni coinvolti si trovino in una data concatenazione all’interno della
sequenza fonica. Esistono però mutamenti che non sono spiegabili in termini meramente fonotattici, ma presuppongono
condizionamenti di astratta natura. Tra i mutamenti dal contesto troviamo:

 Analogia

 Paretimologia (detta anche etimologia popolare), consiste nella modificazione fonica di un certo significante
(significante 1) per effetto di un altro significante (significante 2) al quale, per torto o ragione, il parlante associa
il primo significante.

Esempio: la parola italiana “vedetta” si identifica con ‘luogo elevato dal quale si può sorvegliare’. Perciò ogni italiano
attribuirebbe questo nome al verbo ‘vedere’. Ma in realtà, il termine ‘vedetta’, nasce dalla terminologia marinaia per
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indicare l’altezza su cui il marinaio si issava durante il suo turno di guardia. Questo termine però, al di fuori
dell’ambito marinaio, risultava poco perspicua, quindi il parlante ‘di terra’ ha pensato bene di correggerlo = da veletta si
passa a vedetta.

Si può chiaramente capire che, ad essere coinvolti nella paretimologia sono in prima istanza i significanti coi quali il
parlante medio ha scarsa dimestichezza, o perché si tratta di prestiti di altre lingue, o perché sono voci che
provengono da settori specialistici: il parlante medio usa un lessico ridotto.

Ora vediamo il processo per cui dei significanti ben noti al parlante vengono distorti consapevolmente:

 Tabù linguistico o interdizione. Questo processo affonda le sue radici nella credenza universale del potere
evocatore, se non direttamente creatore, della parola. Poiché nominare è (anche) evocare, è bene non
nominare affatto, o almeno non nominare correttamente, ciò che incute paura, timore e cose simili.
La voce che non si vuole nominare viene rimpiazzata da un eufemismo, un sostituto ‘inoffensivo’.
Esempi:
- Nel greco cristiano per indicare il ‘diavolo’ si usava ‘diablos’ che significa calunniatore.
- Nelle società moderne il perpetuarsi della credenza nel potere demiurgico delle parole è evidente ad
esempio in quel che concerne la malattia e la morte: ‘neoplasìa’ invece che ‘tumore’.

TIPOLOGIA DEI MUTAMETI FONOLOGICI

Dal punto di vista fonologico, abbiamo diversi tipi di mutamenti:


 FONOLOGIZZAZIONE: Realizzazione diverse del medesimo fonema, condizionate dal contesto, si svincolano dal
condizionamento contestuale e diventano fonemi distinti. Esempio:
Offerto dal sanscrito in cui la labiovelare sorda [*k ʷ] (come in 'cinque': cin[kw]e), si sviluppava in una velare semplice, che
restava tale davanti a vocale non palatale, ma si palatalizzava secondariamente davanti a vocale palatale:
1. i.e. (indoeuropeo) *kʷos 'chi' > sscr. *kos
2. i.e. *kʷid 'che cosa' > sscr. *kit > sscr. čit (come čera)
In questa situazione la scelta tra [k] e [č] dipendeva unicamente dal contesto ([k] + a, o, u; [č] + e, i). A un certo punto
della storia del sanscrito però, tutte le * e e tutte le *o ereditate dall' i. e. sono divenute 'a': sscr. *kos si presenta ora
come 'kas', oppure: i.e. *kʷe (congiunzione enclitica 'e') > sscr. *ke > sscr. * če > oggi si presenta ča. La scelta tra [k] e [č]
non è quindi rapportabile al contesto. Ciò che fa la differenza semantica, e si configura come fonologico, è la
contrapposizione tra la [k] e la [č] per esempio di 'karati' e 'čarati', ormai non più varianti contestuali di 'k', ma fonemi
autonomi /k/, /č/.

 DEFONOLOGIZZAZIONE: antitetico rispetto al primo, si ha quando due o più fonemi diversi, dunque realizzazioni
foniche non dipendenti dal contesto, finiscono col disporsi in un rapporto di complementarità contestuale e
divengono varianti combinatorie d'uno stesso fonema (è il contesto fonico a stabilire quando compare un elemento e
quando invece compare l'altro). Un esempio è il confronto tra italiano e latino rispetto alle vocali: In latino, le vocali
brevi e lunghe funzionavano come fonemi: l'opposizione di lunghezza vocalica aveva valore fonologico sia in sillaba
aperta che in sillaba chiusa e in posizione atona e tonica. In italiano, al contrario, la vocale si presenta lunga solo se:
è accentata; è in sillaba aperta; è in penultima sillaba. In tutti gli altri casi, la vocale si presenta obbligatoriamente
breve. Dunque in italiano: l'opposizione di lunghezza vocalica dipende strettamente dal contesto; in quanto
dipendente dal contesto, tale opposizione non può avere valore fonologico.

In confronto al latino, l'italiano mostra una defonologizzazione: se in latino qualsiasi vocale breve poteva opporsi
fonologicamente alla corrispettiva lunga senza guardare al contesto, in italiano abbiamo un solo fonema, che si realizza
come lungo o breve a seconda del contesto.

 RIFONOLOGIZZAZIONE O TRANSFONOLOGIZZAZIONE: Non c’è incremento né riduzione del numero di fonemi, ma


cambia la sostanza fonica con cui i fonemi sono realizzati. Esempi:
1. In francese, fra 800 e 900, l’opposizione era fra /a/ normale o lievemente palatizzata e /a/ velarizzata; ora è fra
/a/ breve e /a:/ lunga = CAMBIA IL MODO ARTICOLATORIO DEI FONEMI, MA IL LORO NUMERO E’ RIMASTO LO
STESSO.
2. La cosiddetta “legge di Grimm” che descrive i mutamenti subiti dalle occlusive indoeuropee nel passaggio al
germanico comune.

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DIVERSA VISIBILITA’ DEI MUTAMENTI
Oggi sappiamo che il mutamento fonetico non è:
 ineccepibile (cioè senza eccezioni, nel senso che in una data lingua, se x passa a y allora virtualmente ogni x deve
fare la stessa cosa)
 istantaneo (nel momento in cui la lingua si rivolge al passaggio da x a y virtualmente ogni x di quella lingua può
considerarsi divenuto y in quel momento).
Il mutamento può sorgere in un punto qualunque della lingua e di qui diffondersi progressivamente nel resto del sistema,
di solito generalizzandosi (cioè arrivando a coinvolgere ogni punto suscettibile d'essere coinvolto), ma a volte
interrompendo la sua espansione e dunque mancando di raggiungere la totalità dei casi. Primo esempio:

Mutamento bloccato e parzialmente regredito:

- La sonorizzazione toscana e italiana delle occlusive sorde poste tra vocali: ripa> riva; lito > lido; aco >ago,
innescata dall'imitazione dei più prestigiosi (un tempo) modelli fonetici settentrionali, provenzali e francesi.
Questa regola di sonorizzazione, poco per volta, si è estesa anche a voci contenenti un'occlusiva sorda in
posizione intervocalica ma prive di modelli ispiratori settentrionali. La regola tuttavia non è riuscita a
generalizzarsi: così abbiamo dal lat. -P a volte [p] e a volte [v]; dal lat. -T a volte [t] e a volte [d]; dal lat. -C a volte
[k] e a volte [g]. Un confronto fra la situazione italiano tre/quattrocentesca e quella moderna mostra come non
siano rari i casi di voci che, modernamente, hanno articolazione sorda mentre qualche secolo fa avevano
articolazione sonora: dall’antico AGUTO, oggi è ammesso solo ‘acuto’ con la sorda. Le strategie che il mutamento
mette in atto si colgono molto più nelle lingue vive che nelle lingue morte. Nelle lingue vive, le quali sono
direttamente controllabili, è possibile fare in maniera diretta la ricerca e la spiegazione.
Secondo esempio:
Caso di mutamento fonetico colto che non ha coinvolto subito e simultaneamente tutte le possibili occorrenze:

 Nei dialetti salentini la CJ si sviluppa in [tts], mentre in italiano l’esito è [cc] (vedi fine pag 73) = lat. FACIO,
sal. fa[tts]u, it. faccio. In Salento, questo [tts] avviene sempre, tranne quando il suffisso risulta attaccato ad
antropomi e in questo caso avremmo u[cc]u [le c sono affricate palatali = cci] (vedi inizio pagina 74) (es
Donatucciu). Ora, se dei dialetti salentini conoscessimo solo i dati linguistici, vedremo sicuro la correlazione
fra il suffisso -u[cc]u(con affricata palatale anziché dentale) e gli antropomi; ma, con altrettanta sicurezza, i
motivi reali di questa correlazione ci sfuggirebbero. I reali motivi si possono trovare in ambito storico. Noi
sappiamo che, per molto tempo, studenti salentini si recavano nel Regno di Napoli per studiare presso
l’università, e feudatari vi si recavano per villeggiatura. A Napoli, a partire dal 300, il dialetto aveva sostituito
[tts] con [cc] (esito italianeggiante).Quindi questo ci schiarisce le idee: Quando i nobili e gli studenti
salentini tornavano in patria, dopo aver passato del tempo tra la gente che parlava il dialetto del Regno di
Napoli, iniziavano anch’essi a utilizzare la forma italianeggiante [cc] anziché [tts] (senza però esagerare).
Che il mutamente non si sia generalizzato dipende dai mutati orientamenti culturali (come lingua di
riferimento del salentino, oggi vale l’italiano).

CAPITOLO TRE: Corrispondenze fonologiche tra le lingue indoeuropee


PREMESSA

Per conoscere e studiare una lingua è necessario il contatto diretto. Questo però non può sempre avvenire e, in questo caso,
dobbiamo fare riferimento ai documenti linguistici superstiti. Data una lingua di cui non abbiamo testimonianza alcuna,
dobbiamo fare innanzitutto un confronto sistematico delle varietà linguistiche che dalla detta lingua sono derivate, ma
questo non basta. Questo ci serve per comprendere solo quello che le lingue-figlie hanno ereditato dalla lingua-madre, ma
a noi interessano tutte quelle caratteristiche che non sono state ereditate per comprendere la reale architettura
linguistica. Questo è il processo da applicare ad esempio alla lingua indoeuropea.

Un esempio di corrispondenze: i numerali


Dopo aver fatto un confronto tra i numerali 3,5,6,7,8,10,100 (schema 1 pag 85) del latino, greco, sanscrito e gotico, si
possono fare innumerevoli osservazioni. Fra questi è possibile parlare di ‘aria di famiglia’ sostenuta da precise
corrispondenze sia tra vocali che consonanti e nella loro articolazione, tuttavia, la situazione in qualche modo originaria è
quella che troviamo in greco e latino con le vocali [a], [e], [o], oppure tra le consonanti in cui troviamo l’occlusiva velare
9
sorda [k] e le rispettive ‘reazioni’ delle altre lingue (ad esempio: lat/gr. [k], per la quale troviamo, in gotico una [x] trascritta
come [h], ossia un’articolazione pur sempre velare, ma fricativa). Tutte le corrispondenze non possono essere fortuite: sono
sviluppi reciprocamente divergenti di uno stesso punto di partenza. Per quanto riguarda il latino, noi lo conosciamo
abbastanza tanto da poter smentire o affermare le argomentazioni (ad esempio: le due lingue romanze, l’italiano e lo
spagnolo, presentano forme verbali uguali come ‘pongo’. Ciò ci indurrebbe a pensare che in latino sia esistita una forma
simile, mantenuta dall’italiano e dallo spagnolo e persa dalle altre, ma sappiamo per certo che non è cosi e sappiamo che
in latino esisteva PONGO. Quindi le forme italiane e spagnole sono innovazioni specifiche). Questo però non può avvenire
per l’indoeuropeo di cui non ci è rimasto assolutamente nulla e dobbiamo solo attenerci al buon senso. Questo buon
senso può portare a falsificare qualsiasi discorso da acquisizioni successive.

IL ‘BUON SENSO’ DEI LINGUISTI

In che cosa consiste il buon senso? Cominciamo col dire che, se è vero che dell’indoeuropeo non possediamo
alcuna documentazione diretta, è pur vero che, dal punto di sta dell’organizzazione in qualunque livello, noi non abbiamo
motivi per ritenere che 8l’i.e. fosse una lingua radicalmente diversa da quelle che conosciamo.
Cosa possiamo fare? Possiamo attenerci al criterio di attribuire all’i.e. l’elemento (o il processo) che, fra le lingue del
mondo, si riscontra di più. A questo punto possono esserci più soluzioni (SOLUZIONE A e SOLUZIONE B). Un esempio
concreto di ciò è la questione della s o h in posizione iniziale:

SOLUZIONE A: Se supponiamo che l’i.e. abbia avito una s- iniziale e che, quindi, nel passaggio alla lingua greca, quella s- sia
diventata h-;

SOLUZIONE B: Se invece supponiamo che l’i.e. abbia avuto una h- in posizione iniziale e dobbiamo ammettere il
passaggio da h- a s- nelle lingue che ne derivano

DOBBIAMO STABILIRE QUALE DELLE DUE SOLUZUONI SI RISCONTRA CON MAGGIORE FACILITA’.

Nel caso dell’esempio è la SOLUZIONE A a prevalere (si parla anche di maggioranza). Si arriverà poi a stabilire una
SOLUZIONE C (la più complessa, a causa di tutti gli elementi che mette in gioco): l’i.e., la lingua da cui si sarebbe
sviluppato l’esito (s-).

LINGUE CENTUM E LINGUE SATEM

Si tratta dei due lessemi che indicano il numerale ‘cento’: centum (100 in latino) e satem (100 in avestico). Si tratta di
isoglosse. Lo studio della trascrizione dei numerali 8, 10, 100 (schema 1, pag85), ha permesso di stabilire delle equivalenze
tra latino e greco, sanscrito e gotico (in lat./gr. troviamo <k>, in sscr. troviamo <s> in got. troviamo <h> (cioè [x]). Abbiamo
qui una partizione che coinvolge la totalità delle lingue i.e. e le divide in due blocchi in base ai diversi modi di articolazione
del numerale 100 (il punto di articolazione rimane lo stesso):

1. LINGUE CENTUM: le lingue caratterizzate da articolazioni (posteriorizzate) velari ([k]; e [x] articolata come h).
Queste lingue sono il latino con le lingue romanze, il greco, le lingue germaniche, il gotico, lingue italiche, celtiche.

2. LINGUE SATEM: le lingue caratterizzate da articolazioni anterioririzzate (affricate palatati) o nettamente


anteriori (sibilanti; interdentali) [s] (quindi suoni fricativi). Queste lingue sono le baltiche, slave, albanese,
armeno ecc..

Il punto di articolazione rimane lo stesso per entrambe, MA CAMBIA IL MODO!


Per sintetizzare:

 Indoeuropeo = presentava consonanti palatali (indicate con i segni k, kh, g, gh)


 > velari nelle lingue centum
 > affricate palatali o sibilanti nelle lingue satem

Possiamo, quindi, individuare una anche una divisione geografica:

 LINGUE CENTUM AD OVEST


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 LINGUE SANTEM AD EST, TRA EUROPA ORIENTALE ED ASIA

A lungo si è creduto che già l’i.e. in fase unitaria si presentasse diviso fra un ramo occidentale di tipo centum e un ramo
orientale di tipo satem. Quanto appena detto è stato smentito agli inizi del ‘900 quando in Cina vennero trovati due testi
religiosi del I millennio d.C. di lingue ora estinte: TOCARIO A e TOCARIO B (LINGUE INDOEUROPEE) che, pur essendo
nella zona i.e. dell’est, si rivelano sorprendentemente lingue centum. Questo suggerisce che:

IPOTESI A:

a) In origine le lingue i.e. dovessero essere tutte centum.

b) Ad un certo punto, le lingue i.e. centro-orientali abbiano anteriorizzato in vario modo le occlusive velari, diventando
quindi, da lingue centum, a lingue satem.

c) Però, quest’ultima innovazione tipicamente centro-orientale, non abbia raggiunto la zona occidentale e neppure il
margine orientale.

IPOTESI B:

a) L’i.e. era una lingua satem, poi il ramo occidentale ha adottato progressivamente una pronuncia occlusiva
(posteriorizzata). A livello fonologico e di geografia areale, questa seconda ipotesi è improbabile: secondo la
fonologia è più naturale anteriorizzare piuttosto che posteriorizzare.

Perciò la soluzione finale è quella A:

le lingue i.e. erano originariamente tutte centum; e solo in un secondo momento una parte
di essa si è <<satemizzata>>.
N.B. (Toscana, Sardegna e Sicilia non vengono considerate prettamente lingue i.e. centum perché sono stati trovati sostarti
non i.e. ).

LA “MUTAZIONE (ROTAZIONE) CONSONANTICA” DELLE LINGUE GERMANICHE (o legge di Grimm)


Nelle lingue germaniche le occlusive sorde, sonore e sonore aspirate dell’i.e. sono state riorganizzate in maniera
radicale:

 A occlusive sorde delle altre lingue i.e., nelle lingue germaniche corrispondono, prodotte nello stesso luogo delle
occlusive, articolazioni fricative sorde (o succedanei)

 A occlusive sonore delle altre lingue i.e., nelle lingue germaniche corrispondono occlusive sorde (o succedanei)

 A occlusive sonore aspirate (o succedanei) delle altre lingue i.e., nelle lingue germaniche corrispondono, semplificando
alquanto i dati, occlusive sonore (o succedanei).

Schema (35) presente a pagina 116.

Questa organizzazione delle occlusive operata dal germanico viene definita legge di Grimm (dal nome dello studioso
tedesco che, nei primi decenni dell’Ottocento, la formalizzò per primo). Altre definizioni utilizzate per questa legge sono:
prima Lautverschiebung (che in tedesco significa letteralmente ‘spostamento di suono’) o anche prima mutazione
(rotazione) consonantica. Quindi la legge di Grimm è un:

Processo dissimilatorio con l’intento di evitare l’immediato susseguirsi di due articolazioni


fricative; se un’occlusiva sorda è preceduta da una fricativa (s) non diviene fricativa sorda
ma resta occlusiva.
Esempio: il tedesco ist (egli è) deriva dall’indoeuropeo ésti. In questo caso la [t] è un’occlusiva sorda e non passa a fricativa
ma rimane occlusiva perché preceduta da [s] che è una fricativa.

Le cose si complicano se:

11
in corrispondenza di occlusive sorde delle altre lingue i.e., le lingue germaniche
presentano non le fricative sorde attese, ma le corrispettive fricative sonore
Esempio: la parola ‘padre’ in latino era pater, in greco patér (metti un trattino sulla e, prima dell’accento), in gotico, invece,
si presenta come fadar (perciò non come ci aspetteremmo dalla Legge di Grimm) e adesso si accodano anche l’inglese
father e il tedesco vater.

La spiegazione di questa anomalia è data dalla: legge di Verner.


In cosa consiste:

Si tratta di una spiegazione che è stata offerta nella seconda metà dell’Ottocento da K. Verner, il quale, nella
determinazione degli esiti (sordi e sonori) ha evidenziato due cose importanti:

 L’importanza del contesto in cui le antiche occlusive sorde si trovavano;


 Il ruolo dell’accento. L’accento che lui prende in considerazione non è quello protosillabico (posto sulla prima
sillaba), ma il cosiddetto accento mobile dell’i.e. (che si è conservato nel greco e nel sanscrito). Per accento
mobile intendiamo quel tipo di accento che il parlante colloca in maniera libera, che non è legato a un posto fisso
nella parola e solo quello.

Partendo da questo presupposto possiamo dire che:


Secondo la spiegazione di Verner, dunque, nelle lingue germaniche le occlusive sorde
originarie (cioè i.e.), pur evolvendo di norma in fricative sorde, evolvono però in fricative
sonore.
Quando avviene questo?
 Quando le occlusive sorde si trovavano, in origine, fra elementi sonori (quindi non solo fra vocali, ma anche
fra liquide o nasali e vocali);

 Quando le occlusive sorde erano immediatamente precedute dall’accento i.e. (o anche quando le antiche
occlusive sorde erano immediatamente seguite dall’accento i.e.)

Esempio : la *s di origine i.e. passa alla sibilante sonora *z, a sua volta modificabile in*r.

La legge di Verner viene vista come una correzione e completamento della legge di Grimm, ma invece essa ne è
indipendente.

RIEPILOGANDO:

3. Il germanico cosiddetto comune si stacca dall’i.e. e comincia a evolversi autonomamente, conservando, però,
l’accentazione mobile di tipo i.e.

4. A un dato momento di questa fase si instaura la legge di Grimm, la quale crea le nuove fricative sorde (schema 35
a pag. 116) e le affianca alla fricativa *s (ereditata dall’i.e.).

5. Si instaura quindi la legge di Verner che va a colpire le fricative sorde del germanico.

6. L’accento del germanico comune, da mobile che era, si immobilizza sulla prima sillaba. Questo ci oscurerebbe
le motivazioni della legge di Verner: se ci limitassimo alla considerazione del gotico e basta, non riusciremmo a capire
le ragioni per cui quelle parole sono tali (non riusciamo a capire perché abbiamo bropar (fratello, con la o accentata
sulle destra e la p allungata) o ‘ fàdar’ (padre), ma ci limitiamo a vederle superficialmente e possono quindi apparire
forme tutte uguali senza capire il perché).

7. Il fatto che, durante la sua prima fase, il germanico conservasse l’accento mobile i.e. chiarisce il motivo per cui
ancora oggi, nelle lingue germaniche, all’interno dello stesso paradigma possiamo trovare tanto forme che
mostrano gli effetti della legge di Grimm, quanto forme che mostrano gli effetti della legge di Verner.

CAPITOLO QUATTRO: Esordi e primi sviluppi della linguistica storica


12
GLI ESORDI E LA ‘GRAMMATICA COMPARATA’

Se vogliamo una data convenzionale, la nascita della moderna linguistica storica possiamo fissarla intorno al 1786, anno
in cui William Jones, alto funzionario dell’inglese Compagnia delle Indie, tiene a Calcutta una conferenza nella quale,
evidenziando numerose e specifiche corrispondenze tra il latino, il greco e il sanscrito, avanza l’idea che le tre lingue
dette potessero discendere da un più antico, comune antenato.

Ci troviamo in questo contesto storico:

1. Scoperte geografiche (scoperte per mare, ma si ricordi, anche per terra: esplorazioni dei territori asiatici a est degli
Urali) e colonialismo il quale, mettendo gli europei a diretto contatto con un numero elevato di lingue
precedentemente sconosciute, ne stimolano non poco la curiosità.

2. Romanticismo (fine ‘700-prima metà ‘800) che, favorendo il gusto per l’esotico e il remoto, promuove lo studio delle
lingue e delle civiltà orientali (tra cui il sanscrito e l’antico persiano).

Dopo Jones:

Friedrich von Schlegel, intellettuale tedesco fondatore del movimento romantico, teorizza che:

a. La lingua-madre da cui lingue come il greco, latino, persiano, lingue germaniche e tutte le altre lingue che poi
verranno dette indoeuropee è il sanscrito (ammirato notevolmente per la sua struttura flessiva).

b. Getta le basi per la GRAMMATICA COMPARATA (vergleichende Grammatik) o LINGUISTICA COMPARATA.

A livello fonetico sono però Jacob Grimm e Rasmus Rask a identificare le prime corrispondenze sistematiche
tra le lingue i.e. a livello fonetico, che prima si diceva a livello di ‘lettere’’, e in particolare, per quel che riguarda le
consonanti occlusive; mentre Franz Bopp si interessa alla comparazione soprattutto delle unità portatrici di
significato grammaticale o morfemi, con speciale riguardo alla morfologia verbale.

L’ALBERO GENEALOGICO E LA TEORIA DELLE ONDE

All’interno della grammatica comparata ci sono state diverse figure di spicco, tra cui August Schleicher. Secondo
August, le lingue non sono organismi storici, ma organismi naturali con leggi da un lato immutabili, dall’altro operanti al di
fuori della volontà dei parlanti (i quali hanno la possibilità di poter intervenire sulla lingua). Schleicher si ispira anche al
rigorismo delle scienze naturali, influenzate dalle rivoluzionarie teorie di Charles Darwin, il quale ricostruì gli alberi
genealogici di sottospecie specie famiglie animali e vegetali. È all’interno di questa visione propriamente
naturalistiche che collochiamo la teoria dell’albero genealogico. Schleicher riprende l’ipotesi già avanzata da Jones e cioè
che:

il sanscrito e le altre lingue i.e. derivano da una più antica lingua originaria comune, ovvero
una lingua-madre da cui, attraverso ramificazioni successive simili ai rami di un albero
genealogico, sono derivate le lingue i.e.
Inoltre, egli recupera anche la preesistente classificazione delle lingue in base ai tipi: isolante, agglutinante e flessivo; e
interpreta questi tipi non come modelli, ma come STADI SUCCESSIVI DI SVILUPPO (il tipo agglutinante rappresenterebbe,
per esempio, l’evolversi naturale di quello isolante; e il tipo flessivo, a sua volta, l’evolversi di quello agglutinante).

1. LINGUE FLESSIVE:
a. Fanno uso di desinenze (cioè marche morfologiche) le quali, oltre a completare il lessema, sono
polifunzionali, cioè veicolano più informazioni grammaticali contemporaneamente: nell’it. gatto, ad es., la
marca –o veicola la nozione di singolare e di maschile mentre nell’it. gatti, la marca –i veicola la nozione di
plurale e di maschile.
i. Per lessema si intende, in opposizione a morfema, è l’unità più
piccola che veicola il significato lessicale, ad es. it: /kant-/ di cant-
are, cant-icch-iar-e ecc. e che non va confuso con la parole, anche
se, in certi casi, può esserci coincidenza tra i due; tuttavia in una lingua
13
come l’italiano la parola nella sua forma normale è costituita da un
lessema che viene completato da informazioni morfologiche le quali,
a loro volta, sono veicolate da morfemi: cantare è scomponibile in
/kant-/ [lessema], più /-are/, morfema di infinito. In altre lingue come
l’inglese la coincidenza di lessema con parola è più frequente che in
italiano. In inglese, ad esempio, book non è soggetto a ulteriore
scomposizione e, preso da solo, è indistinguibilmente tanto
sostantivo, ‘libro’, quanto verbo ‘annotare, registrare, prenotare’ ecc.

2. LINGUE AGGLUTINANTI:
a. Ogni marca morfologica veicola un tipo di informazione, e solo uno, e può essere aggiunta senza
intaccare l’autonomia semantica e formale del lessema. In turco, tipico esempio di lingua agglutinante,
una forma come adamlarimda riconosciamo un lessema ( adam ‘uomo), che coincide con la parola in
isolamento, poi un morfema (- lar) che veicola solo la nozione di plurale e può essere usato in qualunque
altra parola, poi il morfema (-im) che veicola la nozione di possessivo di prima persona (di me = mio) e
che può essere usato in qualsiasi altra parola, e infine un morfema (- da) che veicola solo la nozione di
locativo, e che quindi può essere usato in qualunque altra parola.

3. LINGUE ISOLANTI:
a. Prive di marche morfologiche;
b. Le relazioni morfosintattiche sono inoltre espresse tanto dall’ordine, assai rigido, delle parole, quanto da
parole semanticamente vuote usate in funzione grammaticale.

Si tenga presente che:

a) Nessuna lingua è totalmente isolante o agglutinante o flessiva,ma lo è prevalentemente


b) L’evoluzione tipologica non è affatto, come dice Schleicher, isolante agglutinante flessivo, ma anzi
può procedere in qualunque direzione.

L’albero genealogico di Schlechier ha subito molte critiche: essendo molto meccanico dava la possibilità solo di poter
cogliere le somiglianze ereditarie, ma non è in grado di catturare le connessioni che possono stabilirsi da ramo a ramo
anche a prescindere dall’origine comune (come i dialetti italiani e l’italiano: pur derivando dalla stressa base latina, hanno in
comune caratteristiche stabilite secondariamente dal momento in cui, per i dialetti, l’italiano è divenuta lingua di riferimento.

TEORIA DELLE ONDE di Schmidt (il quale la riprende dal collega Schuchardt)

Le innovazioni linguistiche si dipartono da centri che possono essere di volta in volta


diversi e si diffondono nello spazio geografico, via via attenuandosi, come le onde
concentriche provocate da un sasso che cade in uno stagno.
La nuova teoria:

8. Trasforma la lingua da organismo astorico (esistente, cioè, al di fuori dei parlanti) in un PRODOTTO STORICO
(le onde che si irradiano successivamente sono innovazioni operate dai parlanti ad una lingua), quindi in un
organismo in divenire, sottoposto a correnti che si sovrappongono continuamente.
9. Introduce il necessario riferimento al fattore spaziale, trascurato da Schleicher.

Infatti è ovvio che gli elementi comuni a più lingue si presenteranno organizzati diversamente a seconda della
dislocazione geografica delle lingue stesse; e in linea di principio saranno assai più numerosi tra lingue spazialmente
vicine che non tra lingue spazialmente distanti l’una dall’altra. Quanto allo Schuchardt, lo studioso sposta l’interesse
verso lo studio di fasi linguistiche (come il latino volgare) di cui possediamo informazioni e su cui possiamo
fare argomentazioni. (Prima invece si cercava di studiare una lingua originaria i.e. con la sua ricostruzione senza
documentazione).

I NEOGRAMMATICI: L’INECCEPIBILITA’ DELLE LEGGI FONETICHE

Il movimento dei neogrammatici nasce nella seconda metà dell’Ottocento e i suoi fondatori sono considerati Hermann
Osthoff e Karl Brugmann. Ai neogrammatici indubbiamente si lega il concetto dell’ineccepibilità delle leggi
14
fonetiche. Questo concetto era stato già affrontato da Grimm, Rask e Bopp:

legge fonetica intesa come constatazione di regolarità nel corrispondersi fonetico tra due
fasi storiche del medesimo continuum linguistico.
Ma i neogrammatici aggiungono un altro aspetto:
Se in una data lingua, a diventa b nel contesto X, allora ogni a che si trovi nel contesto X deve passare a b ineccepibilmente
presso tutti i parlanti di quella lingua. L’ineccepibilità, a sua volta, è giustificata dalle abitudini articolatorie, dalla
conformazione della glottide, dall’apparato fonatorio dei parlanti, nel senso che apparati fonatori abituati per generazioni a
certe produzioni fonetiche tenderanno di per sé a perpetuarle. Infatti una particolare applicazione del principio delle
abitudini articolatorie porta in Italia, nella seconda metà dell’800, alla formulazione della teoria del sostrato etnico (o
più semplicemente sostrato):

Se è vero che le abitudini articolatorie tendono a restare immutate, allora determinate


caratteristiche fonetiche permarranno anche nel caso in cui i parlanti cambiano lingua . Per
converso, in presenza di mutamenti fonetici in qualche modo ‘insoliti’ è lecito pensare che
questi nascano da un condizionamento articolatorio operato da una qualche lingua
precedente (sostrato).
Rigidità delle leggi per i neogrammatici:

Le eccezioni però esistono perciò devono essere spiegate. Proprio per questo motivo, tra il 1860 e il 1880 si trovarono le
soluzioni alle apparenti eccezioni della legge di Grimm, risolte da:

1. Grassmann (1863). Riguarda l’esistenza riscontrata di alcune forme esistenti nel prototipo i.e., ma che sono state
‘aberrate’ dal greco e sanscrito. Questo può essere spiegato come dissimilazione, processo per cui: in sanscrito e
greco, una sequenza di occlusiva sonora aspirata + occlusiva sonora aspirata, in sillabe contigue si sia
dissimilata in una sequenza di occlusiva sonora non aspirata + occlusiva sonora aspirata.

2. Verner (1877) (nel precedente capitolo)

3. Collitz-De Saussure. Legge che riguarda il sanscrito, del quale si era sempre ritenuto che conservasse al meglio
le caratteristiche fonetiche della lingua-madre (i.e.). Ma in questo caso non è cosi perché, secondo questa legge, l’i.e.
ha avuto tre timbri *a,*e,*o, che sono rimasti più o meno in greco e latino e che ha avuto anche il sanscrito
predocumentario. Infine, il sanscrito e l’indoiranico hanno fuso i tre timbri nell’unica *a, ma soltanto dopo che la
w
vocale *e (palatale) aveva palatalizzato la labiovelare o la velare pura precedente. i.e. ‘penk e’> (per
delabializzazione della labiovelare) sscr.’penke’> (per palatizzazione della velare da originaria labiovelare)
sscr.’pence’> (con passaggio di *e ad ‘a’)sscr.panca.

SI RITIENE DI AVERE COSI’ LA PROVA CONCRETA CHE LE LEGGI FONETICHE NON CONOSCONO
ECCEZIONI; E CHE, ANCHE QUANDO PARE CHE ESSE ESISTANO, OCCORRE SOLO CERCARE
MEGLIO E, PRIMA O POI, SALTERA’ FUORI LA SUB-REGOLA IN GRADO DI SPIEGARE
L’ECCEZIONE APPARENTE.

I NEOGRAMMATICI, IL PRESTITO,L’ANALOGIA

Due alternative che i neogrammatici offrono per spiegare le eccezioni:

1. PRESTITO: Da una diversa tradizione linguistica entrano nella lingua che li adotta mantenendo all’ingrosso le
caratteristiche fonetiche presenti nella lingua di partenza.
2. ANALOGIA: Processo di regolarizzazione in base al quale al posto delle forme attese ne troviamo altre, ottenute in due
modi:
 Mediante allineamento a moduli all’inizio loro estranei ma che, a un certo punto e per motivi diversi,
hanno incontrato il favore dei parlanti:
15
Esempio: Rispetto agli antecedenti latini PONO/PONUNT, in italiano abbiamo PONGO/PONGONO, presentano
una velare [g] foneticamente ingiustificabile (nel passaggio dal latino all’italiano, la N intervocalica corrisponde,
infatti, ad una -n, non ad una -ng). Ciò che qui è successo è che il paradigma dei verbi in questione è stato
allineato a un altro paradigma , quello dei verbi come ‘vengo/vengono (dal lat. VENIO/VENIUNT).
 Modellate su forme concorrenti all’interno dello stesso paradigma:
Esempio: In certe varietà lucchesi troviamo ‘ tu dichi’ al posto di ‘ tu dici’. E’ evidente che l’esito [k] sia avvenuto
per pressione della k che troviamo in ‘io dico’, assolutamente regolare = PRESSIONE PARADIGMATICA.
Con pressione paradigmatica si intende il fenomeno particolare che si stabilisce fra due elementi che vengono
a trovarsi in stretta successione nella catena fonica. Esempio: l’italiano moderno su ‘sopra’ è forma abbreviata
dell’italiano antico suso, che deriva dal latino SUSUM. A sua volta l’italiano moderno giù ‘sotto’ è forma
abbreviata d’un giuso, che deriva dal latino DEO[R ]SUM. Questo è da condurre al fatto che i due avverbi
ricorrono spesso insieme in espressioni del tipo su e giù, e per questo sono diventati simili.

GLI INIZI DEL NOVECENTO E LA SVOLTA DI DE SAUSSURE

La linguistica storica si sviluppa nell’800, ma nel ‘900 avvengono al suo interno una serie di rivoluzioni. Ora la
linguistica si apre a ventaglio e da origine a un vero e proprio fascio di discipline (dalla sociolinguistica alla
semiologia), al cui interno la linguistica storico-comparata è solo uno dei tanti modi di occuparsi delle lingue.

Prima importante rivoluzione all’interno della linguistica: Quella di De Saussure


La prima rivoluzione coincide con la pubblicazione postuma del Corso di linguistica generale dello studioso ginevrino
Ferdinand de Saussure: opera che, si badi, non è stata scritta direttamente dall’autore ma è stata messa assieme dagli
allievi Bally e Sechehaye.

In che cosa consiste?Saussure non si accontenta di ricostruire, egli si interroga sulla natura delle lingue e sui
principi generali e universalmente validi, i quali, al di là dei particolarismi di ciascuna varietà, regolano delle lingue
l’organizzazione. Concepisce le lingue come un insieme di relazioni (système, cioè sistema, che da Saussure verrà
chiamato ‘struttura’ = ogni lingua è un sistema nel quale tout se tient, cioè tutto è reciprocamente collegato). Egli
quindi esalta che:

ogni elemento linguistico, a qualunque livello, esiste in quanto si oppone al suo contrario o
comunque entra in una rete ordinata di opposizioni.
A questo proposito, ci presenta una serie di dicotomie (importanti per la moderna linguistica):

10. ARTICOLATORIO (relativo a ciò che produciamo con gli organi fonatori) e ACUSTICO (ciò che percepiamo con
l’udito). Si badi che quello che può sembrare simile dal punto di vista acustico può non esserlo dal punto di vista
articolatorio.

11. SIGNIFICANTE e SIGNIFICATO;

12. SINTAGMATICO e PARADIGMATICO;

13. DIACRONICO e SINCONICO;

14. LANGUE e PAROLE.

I neogrammatici individuano il mutamento fonetico e le modalità, ma non le motivazioni, dunque esaminano i


mutamenti ognuno per sé. La considerazione della struttura nella quale i mutamenti sono calati non sempre mostra le
motivazioni dei singoli mutamenti o del mutamento generale, ma può aiutarci a capire certi meccanismi.

CAPITOLO CINQUE: Geolinguistica e sociolinguistica: la variabilità

GLI ATLANTI LINGUISTICI

La geografia linguistica, implicita già nella teoria delle onde di Schmidt, nasce con gli atlanti linguistici:

16
atlanti in cui, per un certo numero di località selezionate, sono riportate una serie di
forme, scelte in modo da dare un’idea delle principali caratteristiche (fonetiche,
morfologiche, lessicali e sintattiche) della parlata di ciascuna delle località prescelte.
Origine e atlanti più importanti:

 Il primo atlante è quello di George Wenker (si tratta di carte degli anni Settanta dell’Ottocento), che riguarda le parlate
tedesche e raccoglie materiale necessario per corrispondenza, vale a dire inviando agli interlocutori (in genere
insegnanti delle scuole) un questionario in lingua standard con una serie di frasi, formulate ‘ad hoc’, da tradurre
nella parlata locale.
 L’Atlas Linguistique de la France (ALF) di Jules Gilliéron, pubblicato tra 1902 e 1910.
 L’atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (AIS) di Karl Jaberg e Jakob Jud,
pubblicato fra il 1928-1940.
Il principio dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche comporta automaticamente che i confini linguistici debbano essere
netti, ma possiamo vedere che non sempre funziona così:

Se in un dato territorio abbiamo una determinata lingua (L1), in un altro territorio a lui
confinante avremo un’altra lingua (L2). Entrambe le lingue derivano da una lingua comune
(L0) ed entrambe le lingue si differenziano per caratteristiche fonetiche. Si parte dal
presupposto che questo mutamento avvenga a causa dei parlanti perciò dovremmo
pensare che L1 e L2 non possano esistere nello stesso territorio (i confini devono essere
netti).
Ma vediamo invece come sia possibile che questo accada:

LA GEOGRAFIA LINGUISTICA

La geografia linguistica è nata dalle basi gettate dalla teoria delle onde e dall’introduzione del concetto di SPAZIO. Per
spiegare ciò che è stato appena annunciato, è stato fatto un esempio: Wenker studiò le due varietà basilari del tedesco,
l’alto tedesco, parlato al sud, e il basso tedesco, parlato a nord. Le due varietà si distinguono per la presenza/assenza della
seconda rotazione (mutazione) consonantica che caratterizza l’alto tedesco (e quindi anche il tedesco standard). La
seconda mutazione consonantica prevede che ad articolazioni occlusive sorde delle restanti lingue germaniche e dello
stesso basso tedesco, l’alto tedesco opponga realizzazioni affricate a seconda della posizione (affricate a inizio di parola
e, all’interno, dopo consonanti liquide e nasali, nonché in prosecuzione di antiche geminate) o fricative.
15. Germanico: occlusiva sorda - Alto tedesco: affricata (inizio parola/interno parola e dopo consonanti liquide e
nasali o in prosecuzione di antiche geminate)
16. Germanico: occlusiva sorda – Alto tedesco: fricativa

Ci aspettiamo dunque una coincidenza di tre confini:

 Fra parlate che conservano ‘p’ e parlate che lo modificano (basso-alto tedesco)
 Fra parlate che conservano ‘t’ e parlate che lo modificano (basso-alto tedesco)
 Fra parlate che conservano ‘k’ e parlate che lo modificano (basso-alto tedesco)

Questa coincidenza si riscontra nella parte orientale del dominio linguistico tedesco, ma non si riscontrano nella parte
occidentale: lungo il corso del Reno, i tre confini, allontanandosi l’uno dall’altro per duecento chilometri e più, si aprono
in una sorta di ventaglio (VENTAGLIO RENANO): Il confine più a sud separa ‘p’ mantenuta da ‘p’ sottoposto a mutazione
(appel – apfel ‘mela’); quello più a nord è il confine fra ‘k’ intatto e ‘k’ modificato (maken – machen ‘fare’). Questa differenza
è avvenuta come conseguenza del fatto che, fra basso medioevo e inizi dell’età moderna, esistevano una serie di
staterelli più o meno autonomi attraverso i quali la libertà di movimento era disomogenea.

Inoltre:

La lingua emerge come un organismo non omogeneo, ma come una stratificazione a più livelli, nella quale ciò che manca
è appunto la pretesa all’uniformità.

17
La lingua è storia = da uno stesso punto di partenza si possono avere conseguenze
storiche non omogenee in quanto frutto di singole specificità (ad esempio i fattori
sociali).
Esempio: Nella prima metà del ‘200, c’è stato l’allontanamento degli arabi dalla Sicilia per opera di Federico II,
questo ha portato al crollo della lingua araba in Sicilia e la sua sopravvivenza solo nelle isole di Malta e Pantelleria;
Queste due isole hanno un punto di partenza comune che poi si divide: a Pantelleria l’arabo cede al siciliano, a Malta
resiste fino ai nostri giorni e, col nome di maltese, diviene la lingua ufficiale. Grazie a questo esempio capiamo le diversità
che possono avvenire dopo un punto di partenza a causa di fattori sociali, politici, religiosi ecc.

CONCETTO DI ISOGLOSSA E CONFINE LINGUISTICO:

Ritorniamo ora al concetto del ventaglio renano; questa distribuzione disordinata della seconda mutazione è avvenuta
come conseguenza del fatto che, fra basso medioevo e inizi dell’età moderna, esistevano una serie di staterelli più o
meno autonomi attraverso i quali la libertà di movimento era disomogenea. Qui subentra il concetto di confine
linguistico e dei criteri con i quali esse vengono stabiliti:

Isoglossa: termine che la linguistica ha modellato sulla terminologia preesistente e designa:

la linea immaginaria che, su una carta geolinguistica, unisce i punti estremi ai quali arriva
un dato fenomeno, segnando dunque il confine fra il territorio al cui interno si dà quel
fenomeno e il territorio che invece ignora quel fenomeno.
Esempi: l’isoglossa che, nell’Italia meridionale separa l’area in cui è usato il passato prossimo (hai visto) da quella in cui è
usato il passato remoto con valore di passato prossimo (vide = ha visto); l’isoglossa che in Sardegna divide l’area
centrale in cui si conserva l’articolazione occlusiva velare davanti a e/i (kentu = cento) dalle aree settentrionale e
meridionale in cui si ha la palatalizzazione (céntu); infine, l’isoglossa che, nell’Italia meridionale, separa l’area
minoritaria di mero ‘vino’ (dal latino merum) a est, da quella, maggioritaria, di vino, a nord, ovest e sud.

Confine linguistico:
formato da più isoglosse che vengono a coincidere nel medesimo tracciato. Il confine
linguistico sarà tanto più marcato quanto maggiore è il numero di isoglosse che,
coincidendo, contribuiscono a formarlo. Inoltre i confini tengono conto sia delle
barriere naturali che sociali.

LINGUISTICA STORICA E LINGUISTICA ROMANZA

La geografia linguistica è possibile solo con le lingue vive, quelle cioè osservabili grazie al contatto diretto con i
parlanti: solo a queste condizioni, infatti, possiamo stabilire di volta in volta se, in un dato punto, accanto alla forma
normale, non esistano anche forme alternative e, nel caso esistano, come il parlante le giudichi: se più arcaiche e in via
d’uscire dall’uso, o più recenti e non ancora acclimatate, ovvero limitate a un sottogruppo specifico.

Studio delle lingue vive: E’ possibile stabilire le forme in uso e quelle non in uso, bisogna tener conto della
stratificazione linguistica (fornita dagli atlanti linguistici). Infatti, quando all’interno dell’atlante si hanno, dal parlante-
informatore, due risposte, la seconda di queste, ove data come ‘correzione’ della prima, rinvia allo strato linguistico più
autentico ma minacciato dai nuovi modelli.

Studio delle lingue morte: non è possibile applicare ciò che si applica alle lingue vive anche alle lingue morte,
perché non si ha il diretto contatto con i parlanti. Infatti non va dimenticato che, a questo proposito, i testi su cui ci si basa
sono in linea di massima redatti da forme standardizzate, che tendono a escludere le variabili più popolari e
colloquiali e, in ogni caso, quindi, non rendono conto della complessità della stratificazione linguistica su base
geografica e sociale. Se ad esempio volessimo fare una carta geolinguistica del latino, non sapremmo mai da dove
cominciare. Noi non conosciamo nulla dei vari tipi di latino parlati nelle varie località (variabilità diatopica) e dei vari tipi di
latino parlati nella stessa località a seconda dello status dei parlanti (variabilità diastratica) e, inoltre, nella maggioranza dei
casi non sapremmo indicare neanche se, in una data località, il latino era, a quel tempo, la sola varietà linguistica in uso
oppure veniva utilizzato accanto ad altre lingue. Possiamo dire però che le documentazioni ci sono arrivate e, a
18
prescindere da come ci siano arrivate (per puro caso o in modo frammentario, ad esempio: sappiamo da sant’Agostino che
nel IV e V d.C., i contadini che abitavano intorno a Cartagine parlavano il punico, non il latino), il latino ci è arrivato
distribuito lungo un arco temporale di mezzo millennio e più, dunque in nessun modo utilizzabile per un quadro
sincronico.

Ne consegue che i testi redatti in lingua standardizzata (precisamente i testi latini, greci, sanscriti e così via) danno
l’impressione effettiva (ma ingannevole), d’una lingua liscia, senza residui e scorie, o quasi, eccezioni e irregolarità.

UN PROBLEMA DI FONOLOGIA ROMANZA: LA SORTE TOSCO-ITALIANA DELLE OCCLUSIVE SORDE LATINE


(Esiti delle occlusive sorde)
In prosecuzione delle occlusive sorde latine intervocaliche, nel toscano/italiano possiamo avere esiti sia sordi che
sonori. Sono state fatte diverse teorie a riguardo:

Teorie di fine Ottocento:


 Graziadio Isaia Ascoli attribuisce casi come contra[d]a, rugia[d]a, che vedono protagonista l’occlusiva
dentale sonora, a un effetto sonorizzante della [‘a], accentata e in penultima sillaba, che viene subito prima;
all’opposto invece cre[t]a, mari[t]o, giunche[t]o ecc.: voci in cui la dentale sorda è preceduta da una vocale
tonica diversa da [‘a]); e riconduce la contrapposizione fra la sonora di luo[g]o e la sorda di fuo[k]o e a un
diverso punto di partenza fonomorfologico che, ad esempio nel caso di luogo, sarebbe l’accusativo latino
locu[m];

 Wilhelm Meyer-Lubke elabora LA TEORIA DEGLI ACCENTI, in base a cui le occlusive sorde resterebbero
sorde se ricorrono dopo la vocale tonica in parola accentata sulla penultima sillaba (amì[k]o), ma
diventerebbero sonore se ricorrono:
• Prima della vocale tonica, in parole con accento sulla penultima sillaba (pa[d]èlla);
• Dopo la vocale tonica, in parole con accento sulla terzultima sillaba (pé[g]ola)

Non sono rari i casi in cui, partendo da una stessa base latina con occlusiva sorda, nel toscano/italiano troviamo
entrambi gli esiti, vale a dire quello sordo e sonoro: da lat. STIPARE abbiamo stipare e stivare. Perciò questo non può
essere ricondotto a condizionamento esercitato dal contesto; infatti:

Teorie del Novecento:

 Clemente Merlo considera schiettamente toscano/italiano l’esito sonoro, e giustifica quello sordo con una
pressione colta esercitata dal latino.

 Gehard Rohlfs considera prettamente toscano/italiano l’esito sordo e motiva quello sonoro con un influsso
esercitato, sul toscano, dalle parlate del nord d’Italia (le cosiddette parlate galloitaliche) nonché dal francese e dal
provenzale (le cosiddette parlate galloromanze). A favore di questa teoria ci sono diversi punti a favore:
17. Nella morfologia flessiva dell’italiano non riscontriamo alcuna tendenza alla sonorizzazione delle occlusive
sorde originarie;
18. L’influenza nordica è vera. Infatti è da considerare che nel Duecento e nel Trecento, ma anche oltre, l’influsso
esercitato sul toscano e sul nascente italiano da parte delle varietà nord-italiane nonché provenzale e dal
francese è notevolissimo e assolutamente fuori discussione.

Come è avvenuto questo influsso galloitalico/galloromanzo? Influsso cominciato con un numero più o
meno elevato di prestiti lessicali. Ad un certo punto questi prestiti si fecero molto numerosi e l’influsso sarebbe
proseguito con l’innesco di una vera e propria REGOLA DI SONORIZZAZIONE:

Qualunque occlusiva toscana, a prescindere dalla sua origine, poteva, di conseguenza,


essere sonorizzata purché, al momento del processo sonorizzante, si trovasse in posizione
intervocalica.
Solo in questo modo, infatti, si possono spiegare i casi di sonorizzazione che, in Toscana, hanno coinvolto anche le parole
colte. Questo è un concetto abbastanza lontano dall’ineccepibilità delle leggi fonetiche (come per i neogrammatici). Come
nel caso delle leggi di Grimm e Verner, ambedue necessarie per spiegare gli esiti delle occlusive sorde i.e. nelle
19
lingue germaniche, anche nel caso del toscano/italiano abbiamo a che fare con due leggi (almeno), che però sono
funzionalmente diverse dalle prime. Infatti, la legge di Grimm e quella di Verner sono complementari: l’una (Verner) spiega
quel che l’altra (Grimm) non riusciva a giustificare e lo spiega appellandosi al diverso contesto di applicazione, il quale fa sì
che quando l’una si applica, l’altra sia impossibilitata ad applicarsi. Tutt’altro il caso delle due leggi (l’una di
conservazione, l’altra di innovazione in senso sonorizzante) necessarie per spiegare l’sito delle occlusive sorde latine nel
toscano/italiano: queste, in effetti, funzionano indipendentemente l’una dall’altra nel senso che, oltre che
alternativamente all’una o all’altra, il medesimo input (ad esempio il latino * POTERE (con e lunga), che dà toscano/italiano
po[t]ére verbo e po[d]ére sostantivo) può essere assoggettato all’una ma anche all’altra.

LA LINGUISTICA SPAZIALE (LE NORME AREALI)

La dislocazione geografica di forme linguistiche concorrenti permette inferenze sulla loro cronologia. Le lingue possono
conservarsi oppure no in base alla loro modalità di diffusione. Esiste quindi una dialettica di conservazione/innovazione
delle lingue nello spazio geografico. A proposito di questo, lo studioso Matteo Bartoli formulò le quattro norme areali
(spaziali, inaugurando così la linguistica spaziale). Si tratta di quattro principi che, in presenza di due o più forme
concorrenti, permettono di stabilire quale sia la forma più arcaica. Essa di solito è:

1. La forma conservata nell’area meno esposta alle comunicazioni (area isolata). Questa è una norma intuitiva: se le
novità linguistiche si diffondono seguendo le vie di comunicazione, è ovvio che le aree al di fuori delle grandi vie sono
quelle in cui le novità difficilmente riusciranno ad arrivare.

2. La forma conservata nelle aree laterali (periferiche). Anche questa è una norma intuitiva: se in due o più aree
periferiche e non comunicanti troviamo uno stesso tipo linguistico che si oppone al tipo dell’area centrale, la
spiegazione è che il tipo attestato nelle aree laterali rappresenti l’ultima sopravvivenza del tipo un tempo comune
all’intera area, ma successivamente messo all’angolo dalle innovazioni sorte nell’area centrale.

3. La forma conservata nell’area maggiore del territorio preso in esame. Stabilisce che la forma più arcaica sia quella
arealmente maggioritaria, mentre l’altra sarà un’innovazione a raggio limitato.

4. La forma conservata nell’area seriore, vale a dire quella in cui una data varietà linguistica è arrivata più tardi (ad
es. a seguito di immigrazioni) rispetto al momento in cui è arrivata, o si è formata, nel territorio in cui
tradizionalmente è connessa. Questa è la norma meno intuitiva, ma non per questo è da considerarsi infondata.
Supponiamo che un nucleo di coloni abbandoni la madrepatria e, portandosi la sua lingua, vada a insediarsi in un altro e
lontano territorio: è chiaro che la lingua portata nel nuovo territorio verrà raggiunta con molta difficoltà dalle
innovazioni che si sviluppano nella madre patria alla lingua originaria.

Come suggerisce lo stesso Bartoli, queste sono norme (cioè principi essenzialmente probabilistici che descrivono quel che
di solito succede), non leggi e non escludono il fatto che, anche in una percentuale minore di casi, possa avvenire
anche il contrario. Ad esempio la Sardegna (area meno esposta alle comunicazioni, isolata, periferica) si trova in
contraddizione con la norma (2) perché in Sardegna è proprio l’area centrale ad essere quella più conservativa perché
nell’isola le innovazioni sono tradizionalmente arrivate sempre attraverso i porti storici (es: Porto Torres e Olbia, che sono a
Nord, e quello di Cagliari, a Sud). Un altro esempio riguarda la Sicilia che, essendo dislocata geograficamente in fondo al
cul de sac della penisola italiana, sarebbe l’idea di un’area meno esposta alle comunicazioni. Invece essa si è
“smeridionalizzata” dal siciliano e si è avvicinata al toscano, alle parlate settentrionali e al francese (questo perché era la più
progredita e influente del regno normanno medievale).

DALLA VARIABILITA’ DIATOPICA ALLA VARIABILITA’ DIASTRATICA: LA STRATIFICAZIONEE SOCIALE DEI PARLANTI

La lingua non è sensibile solo alle coordinate spazio e tempo, ma anche alla stratificazione (all’ articolazione diastratica) dei
parlanti, i quali non formano mai un gruppo compatto ma si distribuiscono in fasce e, in ognuna di queste, utilizzano un
registro linguistico specifico, ossia una specifica varietà d’uso della stessa lingua, fermo restando che ogni parlante sia in
grado di usare anche tutti gli altri registri. Perciò, a questo proposito, all’interno della geografia linguistica, nella seconda
metà del ‘900 nacque dallo studioso statunitense William Labov la sociolinguistica, ovvero:

Quella branca della linguistica che studia l’interazione fra usi linguistici e, appunto, il
profilo sociologico dei parlanti.

20
La ripartizione dei parlanti per fasce può dipendere da svariati condizionamenti:

19. Fasce d’età (gli anziani fanno fatica a recepire le innovazioni)


20. Problematiche di identità di gruppo (un gruppo, sentendosi minacciato nella propria identità da un altro gruppo,
sviluppa delle caratteristiche linguistiche per differenziarsi);
21. Base sessuale;
22. Status sociale: un caso famoso di correlazione tra scelte linguistiche e status sociale è stato studiato da Labov
nell’inglese di New York, nel quale la /r/ anteconsonantica o finale di parola è soggetta a cancellazione (o meglio, si
vocalizza): la realizzazione di car o park, ad esempio, sarà dunque [ka:], [pa:k]. La cancellazione però è tutt’altro che
generalizzata ma varia sensibilmente a seconda che variano:
• Le occasioni, così che maggiore è la formalità della situazione, maggiore è il mantenimento della /r/;
• Lo status sociale dei parlanti, così che, di nuovo, più alto è lo status e maggiore è il mantenimento di /r/:
nel discorso accurato, ad esempio, la classe operaia conserva la /r/ più del sottoproletariato, la piccola
borghesia la conserva più di quanto faccia la classe operaia e l’alta borghesia più della piccola borghesia.

Il prestigio di cui gode un certo registro linguistico, o anche godono, certe particolarità fonetiche o morfologiche o lessicali
ecc. è tutt’altro che immutabile a livello sia diacronico che diatopico (geografico).

CAPITOLO SEI: Gli indoeuropei

COME USARE I DATI LINGUISTICI PER RICOSTRUIRE IL QUADRO SOCIALE E CULTURALE DEGLI INDOEUROPEI

Occorre in questo contesto comprendere alcune questioni: Qual è stata l’area di origine degli indoeuropei? Quando essi si
sono allontanati dando inizio al formarsi delle varie lingue indoeuropee? Dobbiamo premettere che ci muoviamo in
assenza d’ogni documentazione diretta (es: notizie trasmesseci da altri popoli, riferite a popolazioni indoeuropee, testi
redatti in i.e. ecc.), e che quindi ogni discorso è basato unicamente su dati provenienti dalle lingue i.e. stesse. Quindi,
dato che stiamo studiando una lingua senza documentazioni dirette, come operare? Il termine ‘indoeuropeo’è stato
coniato nel 1813 da Thomas Young. La denominazione coglie il riferimento sia alle lingue europee (area occidentale),
che alle lingue asiatiche (area orientale).

Qualunque lingua, se esaminata nell’ottica opportuna, può fornire ai suoi parlanti un certo numero di indicazioni: ad
esempio riusciremmo a capire, o supporre, l’ambiente in cui tale lingua si è sviluppata, in base anche alle conoscenze
che possediamo sulle popolazioni e sulle circostanze. Ma, naturalmente, non tutto è così lineare: Se ci trovassimo nel
20.000 d.C. e se non conoscessimo, ad esempio, nulla dei popoli inglesi e francesi attuali se non un segmento delle loro
lingue, cosa succederebbe? In questa posizione, e in base a questo segmento linguistico che conosciamo, dovremmo
renderci conto che in inglese esistono due modi diversi per denominare un certo numero di animali domestici,
distinguendo l’animale vivo dall’animale macellato (ox vs beef ‘bue’; calf vs veal ‘vitello’ ecc.) Ciò che ci sarà chiaro è che i
termini relativi all’animale macellato siano di derivazione francese, ciò che invece non ci è chiaro è il tipo di
contatto che abbiano avuto l’Inghilterra e la Francia. Sappiamo che due lingue quando vengono in contatto l’una con
l’altra, possono aprirsi al prestito; quando prestiti da un’altra lingua entrano in competizione con voci indigene, tre
sono i casi che, normalmente avvengono:
1. I prestiti riescono a rimpiazzare gli indigenismi (es. lat. bellum ‘guerra’ eliminato dal germanismo * werra it.
guerra);
2. Le voci indigene riescono comunque ad averla vinta sulle voci di prestito (es. l’angloamericanismo jet ‘aereo a
reazione’ sembra in regresso a favore del preesistente aereo);
3. Le voci indigene e i prestiti instaurano una forma di convivenza, dividendosi i compiti semantici, determinando la
cosiddetta POLARIZZAZIONE LESSICALE (in italiano, ad esempio, l’anglicismo drink ‘bevanda’ si è specializzando a
indicare ‘bevanda alcolica’, mentre gli indigenismi bibita e bevanda indicano perlopiù ‘bevanda non alcolica’.

Ciò che si potrebbe riscontrare con le lingue inglesi e francesi nel 20.000 d.C., cioè che si conosce la lingua ma non la storia
linguistica, è esattamente ciò che si riscontra al giorno d’oggi con l’i.e., e, in questo caso, avremo un aggravante in più:

tale lingua la conosciamo non direttamente ma solo di riflesso, vale a dire in base a ciò che,
conservato nelle singole lingue i.e., possiamo attribuire anche all’i.e., in maniera
ragionevole e non con certezza.
Esempio: in un certo numero di lingue i.e. si conserva una base lessicale attribuibile con certezza all’i.e., ereditata

21
successivamente dalle varie lingue europee con il significato di ‘faggio’, sia da parte del latino, del germanico ecc., seppur
con forme diverse (es: lat. fagus con a lunga, germ. * bokaz, con o lunga). Che si tratti di un fitonimo (nome di pianta) non c’è
alcun dubbio, ma quale sarà stato il significato in i.e.? Poiché nelle lingue che conservano i continuatori della base
lessicale, prevale il significato di ‘faggio’, si è pensato che questo fosse il significato anche in i.e.. Questa consapevolezza ha
permesso di raggiungerne un’altra: nell’800, nacque la credenza che l’indoeuropeo fosse nato in un territorio con la
coltivazione del faggio quindi non l’Asia, bensì l’Europa.

(Al giorno d’oggi non si è ancora certi riguardo al significato di ‘faggio’ anche nella forma indoeuropea. Sorge quindi il
sospetto che, quale sia stata la forma di partenza, lo slittamento dello stesso significante da una lingua all’altra sia
motivato da altre peculiarità).

METODO LESSICALE E METODO TESTUALE

I modi per risalire all’i.e. sono principalmente i due sopracitati. Il metodo lessicalistico consiste nell’utilizzo di tutte le
unità lessicali in possesso, comparandole (quindi utilizzando al meglio e ‘spremendo’ le unità lessicali). A questo
metodo è possibile aggiungere le conferme ricavate dal metodo testuale, che consiste nel mettere a confronto non
singoli lessemi ma i contenuti semantici che troviamo nelle tradizioni scritte delle varie lingue, per risalire, da questi,
all’ideologia, nel senso più ampio possibile, che li ha prodotti: il presupposto è che gli i.e. abbiano lasciato in eredità non
solo la lingua ma anche un complesso di miti, leggende, credenze, modi di dire, che dovrebbe essere possibile ricostruire
comparando i contenuti semantici delle varie tradizioni letterarie.

Possiamo, ad esempio, ipotizzare che il popolo i.e. fosse dedito all'allevamento, confrontando i vari termini per
indicare l'ovino e il bue in varie lingue i.e.: 'ovino'- *i.e. *òwis: sscr. àvi, ittito hawa, lat. ovis, irl. oi; 'bue/vacca'- *i.e. *g ʷos: sscr.
gàuh, avest. gaus. toc A ko, B kau, lat bos. bovis.
A conferma di questa teoria è il fatto che all'i.e. pèku 'bestiame', risalgono il sscr. pasu, lat peku (id), ma anche il latino
pecunia 'denaro' / peculium 'gruzzolo', got faihu 'patrimonio - ricchezza'; questo è segno che in origine a fare la ricchezza
era innanzitutto la ricchezza del bestiame. In questo caso, a questi risultati cui siamo giunti attraverso il metodo lessicalistico,
possiamo aggiungere le conferme del metodo testuale.

Consideriamo due passi della letteratura greca, uno vedico e uno della letteratura irlandese antica:
1. Eschilo (Agamennone): 'Tenete il toro dalle nere corna lontano dalla vacca'. Questa frase stabilisce l'equazione: 'toro'
= marito ; 'vacca' = moglie;
2. Pindaro (Pyth): Giasone, riferendosi alla propria antenata, la chiama 'vacca'
3. Rg Veda (1, 179): Lopamudra, stanca dell'astinenza praticata dal marito Agastya, prima lo persuade dicendo che "i tori
dovrebbero andare sulle loro femmine, le femmine dovrebbero andare con i loro tori", poi commenta: "io desideravo
il riluttante toro".
4. L'esilio dei figli di Uisliu: Derdriu, innamorata del giovane Noisiu si mette sui passi di questo e quando il giovane,
che non l'ha riconosciuta, per farle un complimento dice "carina la vitella che viene alle mie spalle!", ella risponde: "le
vitelle debbono essere audaci, quando i tori non lo sono".

Siamo qui di fronte ad una metafora antichissima: Toro = uomo/marito; vacca = donna/moglie, vitella = ragazza,
comprensibile soltanto in una società di allevatori o, comunque, in una società imperniata sull'allevamento dei bovini.
Pensiamo inoltre all'aggettivo greco 'boòpide' (dall'occhio bovino) utilizzato da Omero come epiteto di divinità femminile:
secondo un modulo che alla nostra sensibilità appare perfino comico (e probabilmente doveva apparire strano agli stessi
greci del periodo classico e postclassico, se è vero che l'altro aggettivo boodes - che somiglia a un bue - veniva usato per
dire 'stupido'), ma diviene leggibilissimo se se ne ammette la sopravvivenza da un'età, più antica, in cui l'economia era
basata sull'allevamento.

Il metodo testuale è sicuramente più attendibile rispetto a quello lessicale, ma bisogna aver fiducia in entrambi allo
stesso modo e prendere il buono che ci giunge da entrambi. Infatti, le considerazioni da entrambi i metodi ci hanno
restituito una certa idea degli indoeuropei: popolo nomade, patriarcale, basato sull'allevamento, religioso (di una
religiosità non ctonia, ossia legata alla terra, ma di tipo celeste: ciò si capisce bene in una società nomade per la quale il
cielo è l'unica dimensione non soggetta a mutamento), organizzato per tribù e sottomesso al re (la cui autorità doveva
essere più che altro religiosa: esse erano figure umane e divine, cui era richiesto di farsi tramite presso gli dei e assicurare la
prosperità del popolo).

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L’EUROPA, IL MEDITERRANEO, L’AREA D’ORIGINE DEGLI INDOEUROPEI

Considerazioni su base linguistica hanno permesso di farci un'idea della geografia degli indoeuropei. Essendo l'Europa
circondata da tre mari, confrontando le varie lingue ci aspetteremmo delle denominazioni simili come abbiamo visto per
bue / vacca, invece riscontriamo tutt'altre condizioni:

Latino Mare

lingue slave russo: mòre

lingue germaniche got. marei; ted. Meer

lingue celtiche irl. Muir

Ma vi sono buoni motivi per ritenere che il significato più antico di *mar / *mor fosse non quello di mare/ oceano / acqua
aperta, bensì quello più ristretto di acqua chiusa / palude / acquitrino. Il significato "mare" delle lingue slave, germaniche,
latino e celtico deve allora essere nato da un ampliamento semantico del ben più ristretto significato originario:
'superficie d'acqua, più o meno grande ma chiusa' > 'superficie d'acqua in genere' > 'mare'.
Quindi se nelle lingue i.e. per 'mare' non paiono conservarsi tracce di un'originaria denominazione comune, la
conclusione più realistica è che l'i.e. non avesse in merito una sua specifica denominazione perché i suoi parlanti non
conoscevano il mare - con l'ovvia conseguenza che gli indoeuropei devono essere ritenuti originari non dell'Europa
(quanto meno dell'Europa più marittima) bensì di zone ben addentro alla terra ferma, come ad esempio le grandi
steppe dell'Eurasia. A conferma di ciò nelle lingue i.e. d'Europa molti nomi di piante tipicamente mediterranee o comunque
tipiche di climi marittimi temperati hanno origine non i.e., così confermando che, in origine, agli i.e. l'ambiente mediterraneo
doveva essere estraneo.

Esempio rosa: lat. f. rosa, greco neutro ròdon. Le corrispondenze fonologiche greco-latine di stampo i.e. prevedono che:
• all'i.e. *d corrisponda -d- sia in latino che in geco (i.e. *sedos > gr hedos, tat. sedile);
• all'i.e. *s in posizione intervocalica corrisponda zero fonetico in greco e -r- in latino (*i.e. *genesos > gr. gèneos >
génous; *genesos > lat. geneses > generis).

Allora il latino 'rosa' e il greco 'rodon' sono adattamenti diversi di una terza forma, più antica e non i.e., la quale
doveva contenere, in posizione intervocalica, un fono probabilmente interdentale (qualcosa come il ð di 'this'). Questo
fono, estraneo al latino e al greco nel momento in cui è stato fatto il prestito, dai latini e dai greci è stato reso
approssimativamente, ossia mediante quello che i parlanti le due lingue avevano di più simile nei loro inventari
fonetici: col supposto *ð del modello pre i.e., la soluzione [s] fatta propria dal latino, condivide l'articolazione continua,
mentre la soluzione [d] del greco condivide l'articolazione dentale. Quindi quando gli i.e. hanno conosciuto le piante
mediterranee hanno dovuto apprendere i nomi da popolazioni lì stanziate precedentemente e che, con dette piante,
avevano ben altra familiarità.

GLI INDOEUROPEI E GLI “INDOMEDITERRANEI”

Su basi linguistiche siamo dunque arrivati a queste conclusioni:

1. Gli indoeuropei sembra non conoscessero il mare aperto;


2. Gli indoeuropei sembra non conoscessero le piante tipiche delle zone temperate;

Questi due punti ci chiariscono che gli indoeuropei:

avevano sede originaria extraeuropea, lontana dal mare e a clima rigido;

3. Quando, nel corso della loro espansione, dovevano dare il nome a nuove realtà, gli indoeuropei, o allargavano la
portata semantica di voci che già facevano parte del loro bagaglio lessicale o, assai più spesso, ricorrevano a
prestiti delle lingue delle popolazioni, non i.e. che quelle realtà già conoscevano.

Quest’ultimo punto chiarisce che gli i.e:

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si sono espansi in Europa e nel corso di queste espansioni hanno trovato territori non
spopolati bensì abitati da popolazioni che parlavano lingue proprie dalle quali gli i.e.
hanno tratto buona parte dei nomi necessari a designare la nuova realtà.

Da una valutazione dei dati linguistici sembra di poter ricavare che, arrivando in Europa gli indoeuropei (sostanzialmente
nomadi) abbiano trovato un continente abitato da genti sedentarie, forse matriarcali, dedite all'agricoltura, praticanti
una religione di tipo ctonio (a cominciare dal culto dei serpenti, arrivando in qualche modo sino a noi: è noto che quando
una religione si sostituisce a un'altra, di solito le divinità della vecchia religione diventano entità demoniache nella nuova.
Così non stupisce che nelle religioni giudaica e cristiana il serpente sia una delle incarnazioni del diavolo. Ma si pensi anche,
da un punto di vista totalmente diverso, alla festa di San Domenico a Cocullo [Abruzzo] nel corso della quale ancora oggi la
statua del santo viene portata in processione ricoperta di serpenti [sincretismo]). Sta di fatto che non è di origine i.e., nelle
lingue classiche, buona parte della terminologia relativa al comfort domestico: 'labirintos', termine che designava i vasti
e articolati palazzi micenei, 'asàmintos'vasca da bagno, 'plintos'- mattone, ecc.

In definitiva, tanto nel bacino del mediterraneo quanto nel medioriente e nel subcontinente indiano gli i.e. sembrano
essersi sovrapposti a preesistenti popolazioni accomunate da una cultura di fondo e, sia pur entro certi limiti, da
lingue sostanzialmente affini, ed è precisamente a questa preesistente, antichissima affinità culturale e linguistica,
che ci riferiamo quando parliamo di sostrato indomediterraneo.

Una caratteristica fonica che accomuna il basco (non i.e.) a tutta una fascia di lingue i.e. e non è la tendenza a premettere
una vocale d'appoggio a voci inizianti per liquida o per nasale: lat. rosa, basco arrosa; lat ructo, gr. ereugomai, armeno
orcam (io rutto); lat nomen, sscr. nama, gr. ònoma, armeno anun. Tale caratteristica che si direbbe non i.e. (non ne troviamo
traccia in latino, sscr e lingue germaniche), potrebbe essere arrivata alle lingue i.e. che la presentano, per l'appunto,
dallo strato linguistico pre-i.e.

DATAZIONI INDOEUROPEE DI MINIMA E DI MASSIMA

Ci sono alcune questioni da risolvere:

Come facciamo a giustificare il fatto che queste popolazioni nomadi e meno evolute
siano riuscite ad imporsi su quelle solide già esistenti?

Non abbiamo informazioni dirette che possano darci informazioni certe a riguardo, tuttavia tra gli elementi che hanno
garantito il successo agli i.e. c’è di certo la domesticazione del cavallo (a partire forse già dal V millennio a.C.), con tutte
le implicazioni sottese:
 Incremento della velocità di locomozione,
 Possibilità di controllare estensioni di territorio più ampie,
 Maggiore forza d'urto, anche con l'uso dei carri da guerra, nelle operazioni militari.

Come facciamo a stabilire quando gli indoeuropei sono arrivati in Europa? (datazione
minima)
Quanto alla datazione dell'arrivo degli i.e. in Europa, il problema è attualmente aperto. L'i.e. unitario si colloca
irrimediabilmente prima della comparsa della scrittura che noi siamo in grado di interpretare, (quella comparsa in
Egitto e Mesopotamia alla fine del IV millennio a.C.), dato che i manufatti ritrovati non attestano questo i.e. originario.
D'altronde l'ittita è documentato dal XVII sec a.C., e frammenti linguistici risalenti alla prima metà del II millennio a.C. ci
sono giunti grazie a documenti redatti in più lingue (ittita, accadico), parlate all'epoca fra Anatolia e Mesopotamia.

Se non ci accontentiamo di una datazione di minima (più precisa) ma cerchiamo anche una datazione di massima, (più
generica), possiamo rifarci ai reperti archeologici: infatti in tempi più vicini a noi a occuparsi della datazione indoeuropea
più che i linguisti sono stati gli archeologi.

3. L'archeologa Maria Gimbutas a metà ‘900 suggerì di identificare gli i.e. con la cultura detta kurgàn fiorita a
partire dal VI-V millennio a.C., in un'area collegata a nord del Mar Nero e del Mar Caspio; da quest'area tra V e III
millennio questo popolo avrebbe raggiunto l'Europa da una parte e l'Asia sud-Occidentale dall'altra.
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4. Colin Renfrew, archeologo, suggerisce di identificare gli i.e. nei neolitici che abitavano l'Anatolia (o Asia Minore,
così denominata dai Romani - attuale Turchia) che si sarebbero mossi verso l'Europa dal VIII millennio a.C.

5. Il linguista italiano Mario Alinei infine elabora la Teoria della Continuità: gli i.e. sarebbero i primi
rappresentanti della specie homo sapiens arrivati in Europa, cosicché il continente sarebbe indoeuropeo ab initio.

CAPITOLO SETTE: L'Europa linguistica e le lingue indoeuropee fuori d'Europa

L’EUROPA LINGUISTICA

Per comprendere il quadro linguistico dell'Europa (oltre che rifarci alle radici dell'impero romano e dell'alto medioevo), non
possiamo fare a meno di richiamarci alla divisione (III-IV sec. d.C.) ufficializzata nel 395 dell'impero romano in: impero
romano d'Occidente (caduto nel 476 d.C.) e impero romano d'Oriente (caduto nel 1453). Ciò diede avvio ad un profondo
DUALISMO EUROPEO, quindi molte differenze:

6. Sul piano economico-linguistico (latino come lingua della religione in Occidente, greco in Oriente),;
7. Culturali (alfabeto latino in Occidente, alfabeto greco adattato alle lingue slave in Oriente);
8. Religiose (cattolici in Occidente sino alle soglie dell'età moderna, ortodossi in Oriente).

Concetto di MONOLINGUISMO: Un tratto dell’Europa linguistica è il fatto che, oggi come oggi, si sia sviluppata la
concezione che le varie aree (politicamente intese) siano caratterizzate da un monolinguismo come un qualcosa di
naturale, ma questo è sbagliato: prova di ciò sta nel fatto che nel mondo extraeuropeo, le società bi- o plurilingui sono
più frequenti di quelle monolingui. Inoltre è facilmente dimostrabile come, in Europa, all’attuale situazione di
monolinguismo prevalente, il passato abbia contrapposto una gamma di situazioni. Sicuramente non erano monolingui
l'impero romano, bizantino, turco ottomano, austroungarico (dove la lingua germanica era la lingua ufficiale, utilizzata
dalla nobiltà, amministrazione ed esercito, ma quella della marina era l'italiano in quanto la marina austriaca è stata l'erede
di quella veneziana dopo la soppressione della repubblica veneta nel 1797, e l'annessione dei territori adriatici di questa
all'Austria-Ungheria nel 1815). A partire più o meno dal basso medioevo, le grandi monarchie occidentali in formazione
(Inghilterra, Francia, Spagna) cominciano a ricorrere alla lingua come "collante" nazionale, soprattutto per sbarazzarsi
delle diversità all'interno dei confini, che rischiavano di rallentare il processo di unificazione. A partire dal '300, infatti, in
Inghilterra la monarchia Inglese vietò di parlare celtico in pubblico, con la conseguente estinzione, ad esempio, del cornico
e del mancio.

LE LINGUE INDOEUROPEE D’EUROPA

Per la maggior parte le lingue d'Europa appartengono alla macrofamiglia indoeuropea e possono essere raggruppate in:

1. Tre grandi (sotto) famiglie: lingue romanze, germaniche, slave;


2. Tre piccole (sotto) famiglie: celtiche, baltiche, zingariche;
3. Due lingue isolate: neogreco e albanese.

Questa suddivisione in grandi e piccole dipende dal numero dei parlanti, ma il parere degli studiosi non sempre coincide
con quello dei parlanti o dei politici, e a volte, quella che alcuni considerano lingua in un posto, in un altro è
considerato un dialetto (es. il còrso è considerato dai linguisti una varietà del toscano, ma i parlanti vorrebbero
riconoscerlo a livello ufficiale). I confini tra lingua e dialetto sono quanto mai sfumati. Una delle definizioni di lingua
suggerisce che non si possa parlare di lingua se dietro non c'è anche una salda organizzazione statale. Ma sono
esistite in passato realtà che non hanno avuto necessariamente bisogno di accompagnarsi a una compagine statale: a
cominciare dall'italiano che fino all'unità d'Italia era indubbiamente lingua, ma si legava non ad un organismo politico
unitario ma a “un’espressione geografica", secondo la definizione che dell'Italia, suddivisa in Stati e staterelli, dava i
cancelliere austriaco, principe di Metternich. Pensiamo per esempio al veneziano: oggi niente più che un dialetto italiano ma
che nel Trecento, Quattrocento e Cinquecento era invece lingue ufficiale della repubblica veneta e in quanto tale,
lingua di prestigio in tutte le terre, dall'Adriatico all'Egeo soggette a Venezia; oppure pensiamo al siciliano che dal
Quattrocento al Seicento fu vera e propria lingua letteraria e amministrativa.

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1. Tra le grandi sotto famiglie:
LE LINGUE ROMANZE
Si tratta di uno dei rari casi di cui di una famiglia conosciamo addirittura l'antecedente diretto, in questo caso il latino ( lingua
centum). Appartengono alla famiglia:

1) Lingue ibero-romanze:
1. Il PORTOGHESE (lingua ufficiale del PORTOGALLO);
2. Il CASTIGLIANO cioè SPAGNOLO (lingua ufficiale della SPAGNA);
3. Il GALLEGO o GALIZIANO , della GALIZIA (della quale quindi è lingua ufficiale assieme allo spagnolo);
4. Il CATALANO, della CATALOGNA e BALEARI e, assieme allo spagnolo, lingua ufficiale della CATALOGNA.

2) Lingue galloromanze:
1. Il FRANCESE (lingua ufficiale della FRANCIA, una di quelle del BELGIO e SVIZZERA, e lingua della VAL
D’AOSTA, assieme all’italiano);
2. Il PROVENZALE, proprio della PROVENZA (sud della Francia);
3. Il GUASCONE, proprio della GUASCOGNA (Francia sud-occidentale);
4. Il FRANCO-PROVENZALE, oggi parlata solo in VALLE D’AOSTA.

3) Lingue italoromanze:
1. L’ITALIANO, lingua ufficiale dell’ITALIA, una delle lingue ufficiali della SVIZZERA;
2. DIALETTI ITALIANI, umbro, veneto, toscano ecc.
3. CORSO, che è parlato in CORSICA e che è di per se una varietà del toscano coloniale;

4) SARDO, parlato in SARDEGNA tranne che nella zona sassarese e gallurese. Per quanto non riconosciuta ancora
ufficialmente, è considerata dai linguisti una vera e propria lingua per certe sue specialissime caratteristiche: è
l'unica lingua romanza attualmente parlata che erediti dal latino l'articolazione velare delle occlusive velari sorda e
sonora, anche davanti a [e] e davanti a [i]: kìmighe<CIMICE; iskintidda<SCINTILLA; kìnghere<CINGERE;

5) Tre tronconi superstiti di reco-romanzo:

1. ROMANICO SVIZZERO, LADINO (Veneto e Alto Adige e valli trentine);


2. FRIULANO.

6) Gruppo balcano-romanzo:
1. RUMENO, lingua ufficiale della ROMANI e della confinante repubblica ex sovietica della MOLDAVIA ma parlato
anche, come dialetto, in svariate zone dei Balcani e suddiviso in quattro varietà principali:
a. dacorumeno (Romania e Moldavia);
b. macedorumeno (penisola balcanica);
c. meglenorumeno (Grecia);
d. istrorumeno (Istria, a ovest di Fiume).
2. DALMATICO, estinto.

7) ISTRIOTO, si tratta di un’altra varietà romanza difficile da individuare, intermedia fra italo-romanzo e
balcano-romanzo, e detta anche istro-romanzo. E’ noto quindi come si sia sviluppata questa variante in ISTRIA
(non più regione italiana, ma slovena e croata) per motivi soprattutto politici e nazionalistici in posizione anti
italiana (innescata da Vienna).

Romània occidentale e Romània orientale

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Il territorio in cui sono sviluppate le lingue romanze viene definito: Romània. La Romània è
suddivisa in due parti, grazie ad una demarcazione che avviene all’altezza di La Spezia-
Rimini
(Esempio chiaro di ISOGLOSSA, medesima che divide i dialetti italiani settentrionali da quelli meridionali)

 Romània occidentale: troviamo le parlate romanze occidentali, cioè lingue parlate a nord ovest della linea (il sardo
è ambiguo perché ha caratteristiche occidentali e si unisce anche a quelle orientali). Caratteristiche:
a. Le occlusive sorde intervocaliche subiscono un vero e proprio indebolimento articolatorio: si fricativizzano per
poi cancellarsi totalmente.
b. Conservazione della -s finale latina con conseguenze morfologiche, verbali e nominali.
 Romània orientale: troviamo le parlate romanze orientali, cioè le lingue parlate a sud est della linea (italiano e
toscano, inclusi quindi il còrso, sassarese e gallurese; ne fanno parte anche i dialetti italiani centro-meridionali, il
rumeno e l’estinto dalmatico). Caratteristica:
a. Conservazione delle occlusive sorde latine in posizione intervocalica (in opposizione al romanzo
occidentale).

Esempio dell’indebolimento dell’occlusiva sorda latina andando dalla Romània orientale alla Romània occidentale: lat.
amicam, it. amica; sp. amiga, fr. amie.

Inoltre, si può fare un’ulteriore suddivisione della Romània:

 Romània nuova: si intendono tutti quei territori extraeuropei in cui sono state portate, e sono ora parlate
nativamente lingue romanze (ad es. il Brasile col portoghese, il Cile, l’Argentina, il Peù e Messico con lo spagnolo).

 Romània sommersa: si intendono tutte quelle aree, comprese entro i confini dell’impero romano, nelle quali le
varietà romanze sviluppatesi sono state sopraffatte dal sopraggiungere di altre lingue (ad esempio varie zone della
Svizzera e dell’Italia soppiantate dal tedesco; oppure nell’Africa di nord-ovest c’erano più varietà romanze (che
vanno sotto il nome di afro-romanzo o romanzo africano), le quali si sono sviluppate dal latino ma poi, poco per
volta, sono state soppiantate dal berbero e arabo).

Come fare ad identificare la Romània sommersa?


9. Usare testimonianze dirette;
10. Studiare i prestiti passati dalle lingue romanze sommerse alle lingue sopravvenute;
11. Studiare la toponomastica (moderna e antica).

LINGUE GEMANICHE (centum)


La seconda grande famiglia è quella delle lingue germaniche. A differenze delle lingue romanze, delle quali conosciamo il
latino, delle lingue germaniche non conosciamo il germanico comune per mancanza di documentazione (tranne che per
delle iscrizioni runiche risalenti al III sec d.C. ritrovate in Danimarca e Norvegia). Quali sono queste lingue:

1) Lingue germaniche settentrionali:


1. DANESE (lingua ufficiale della DANIMARCA);
2. SVEDESE (lingua ufficiale della SVEZIA);
3. NORVEGESE (lingua ufficiale della NORVEGIA);
4. ISLANDESE (lingua ufficiale dell’ISLANDA) e FERINGIO (varietà locale parlata nelle isole della Danimarca).

2) Lingue germaniche occidentali:


1. TEDESCO, che si divide in alto tedesco (nelle zone montuose del sud) e basso tedesco (nelle terre basse del
nord);
2. FRISONE (mare del Nord, Olanda);
3. OLANDESE o NEDERLANDESE nederlandese (con una varietà, l’afrikaans, portato dai coloni boeri

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nell’Africa del sud e ancora parlato nella Repubblica Sudafricana),
4. FIAMMINGO;
5. INGLESE;
6. Lo YIDDISH (varietà dell’alto tedesco con influssi ebraici sul lessico e morfologia, adottato dagli ebrei in fuga
a partire dall’alto medioevo a causa delle repressioni. Nel Novecento i parlati di lingua yiddish sono diminuiti e
mantengono consistenza negli Stati Uniti)

3) Lingue germaniche orientali : nessuna sopravvissuta e tra le più importanti il GOTICO, utilizzato
per la prima redazione di un testo lungo in lingua germanica (traduzione della Bibbia fatta dal vescovo Wulfila); il
gotico aveva anche una varietà, il gotico di Crimea.

N.B. La totalità delle lingue germaniche è caratterizzata dalla prima rotazione consonantica (legge di Grimm). Le varietà
alto-tedesche (e quindi il tedesco standard) sono caratterizzate dalle seconda rotazione consonantica; a differenza del
basso-tedesco, che ne è immune. Il tedesco è presente anche in Italia: si parlano il tedesco standard e varietà alto-tedesche,
assieme all’italiano, in Alto Adige come lingue ufficiali; inoltre i dialetti alto-tedeschi si parlano anche sulle Prealpi venete e
fra Piemonte e Valle d’Aosta.

LE LINGUE SLAVE (satem)


Terza grande famiglia che deriva dallo slavo comune (senza documentazione). Sono:

1) Lingue slave occidentali: (in alfabeto latino)


1. POLACCO (lingua ufficiale della POLONIA)
2. CECO (lingua ufficiale della REPUBBLICA CECA)
3. SLOVACCO (lingua ufficiale della SLOVACCHIA)
4. SORABO SUPERIORE E INFERIORE

2) Lingue slave orientali: (in alfabeto cirillico)


1. RUSSO (lingua ufficiale della RUSSIA)
2. RUSSO BIANCO o BIELORUSSO (lingua ufficiale della BIELORUSSIA)
3. UCRAINO (lingua ufficiale dell’UCRAINA)

3) Lingue slave meridionali:


1. SLOVENO (lingua ufficiale della SLOVENIA; alfabeto latino)
2. CROATO (lingua ufficiale della CROAZIA; alfabeto latino)
3. SERBO (lingua ufficiale della SERBIA e del MONTENEGRO; alfabeto cirillico)
4. MACEDONE (lingua ufficiale della MACEDONIA; alfabeto cirillico)
5. BULGARO (lingua ufficiale della BULGARIA; alfabeto cirillico). Quest’ultima è la prima lingua slava ad essere
messa per iscritto nel IX sec dai fratelli monaci Cirillo (da cui cirillico, alfabeto di base greca erroneamente
attribuito al santo) per tradurre in lingua slava la Bibbia e la liturgia greca. Bulgaro: lingua slava di più antica
documentazione e lingua letteraria.

Con l’eccezione del polacco, le lingue slave sono poco differenziate (differenze basate sostanzialmente su fattori
politici). Per quanto riguarda quelle meridionale, i confini linguistici, infatti, solo approssimativamente coincidono con
quelli politici (causa di guerre). Queste lingue vengono parlate anche in Italia (minoranze): Gorizia e Trieste e Molise.

2. Tra le piccole (sotto) famiglie:

LINGUE CELTICHE (centum)


Derivano dal celtico comune, del quale non abbiamo alcuna documentazione. Prima venivano parlate in un territorio
vastissimo (dalla Turchia alla penisola iberica), ora notevolmente diminuito. Una prima distinzione è quella che si fa tra

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celtico continentale (penisola iberica, Italia settentrionale, Gallia) andato completamente estinto, e celtico insulare
(delle isole britanniche) che ancora sopravvive e si suddivide in:

1) Lingue gaeliche o goideliche, comprendenti:

1. IRLANDESE (lingua ufficiale d’IRLANDA);

2. MANX o MANCIO (parlato nell’isola di MAN ed estinto dopo la metà del Novecento);

3. SCOZZESE, (non autoctono ma portato da migrazioni irlandesi medievali verso la Scozia)

2) Lingue britanniche:

1. GALLESE (parlato nel GALLES);

2. CORNICO (proprio della CORNOVAGLIA ed estinto dopo la metà del Settecento);

3. BRETTONE (parlato nella BRETAGNA FRANCESE, in seguito a insediamenti medievali che venivano
dalla Gran Bretagna).

Le lingue celtiche sono estinte in passato e anche oggi rischiano: l’Irlandese, nonostante sia lingua nazione, viene parlato
da un numero ristretto di persone, la maggior parte delle quali è di madre lingua inglese.

LINGUE BALTICHE (lingue satem)


Derivano dal baltico comune di cui non si ha documentazione. Sono caratterizzate da elementi decisamente conservativi che
ci aiutano a comprendere meglio quale fosse l'accento dell'i.e. Comprendono:
 LITUANO (lingua ufficiale della LITUANIA);
 LETTONE (lingua ufficiale della LETTONIA);
 ANTICO PRUSSIANO, estinto nel Settecento sotto la pressione del tedesco e a noi noto più che altro per
due piccoli lessici (Vocabolario di Grunau e Vocabolario di Elbing), e per la traduzione di tre Catechismi luterani.

LINGUE ZINGARICHE (lingue satem)


La terza e ultima lingua che appartiene al gruppo delle piccole famiglie è quella delle lingue zingariche, ossia delle lingue
parlate dagli zingari (rom). Si tratta di una famiglia di tipo indoario e che, in Europa, è totalmente frutto di importazione:
gli zingari sono originari dell'India, dalla quale si mossero dopo l'anno Mille e per via di terra sono giunti fino in Europa,
probabilmente dalla fine del '200, in cui sono rimasti sempre più o meno nomadi. Solo il 20% degli zingari, oggi conserva
la lingua d'origine, frazionate e prive di standardizzazione. Tuttavia hanno avuto anche esse importanza per la trasmissione
di parole gergali all'interno di luoghi in cui si sono stanziati (es l'Abruzzo). Le lingue zingariche sono lingue satem.

3. Le due lingue isolate:

1) Albanese. Suddiviso nelle due varietà di ghego a nord e tosco a sud e attestato in sostanza dal '500. Lingua ufficiale
dell'Albania, ma è parlato abbondantemente anche in Montenegro, kosovo (Serbia), Macedonia, Grecia, sud Italia,
sopratutto Calabria e anche in Sicilia. In Italia gli albanesi giunsero con ondate migratorie dal '400 e poi nel '700 e
oltre. L'albanese in Italia ha tenuto attiva la sua cultura, tant'è che il famoso Catechismo del Matranga risalente alla fine
del '500 proviene dall'Italia, più precisamente dalla Sicilia. L'albanese è una lingua satem.

Neogreco è il solo erede del greco antico (lingua centum). La storia del neogreco è tormentata: sin dai primi secoli della
nostra era si venne a formare una divaricazione sempre più profonda tra lingua scritta e parlata: in Oriente, l'impero
romano superstite, divenuto in tutto e per tutto greco (bizantino) andava riducendosi territorialmente a causa dell'avanzata
araba prima e turca poi, ma rimase sostanzialmente unitario. Così alle diverse varietà di greco parlato che si erano formate
su base diatopica, la burocrazia di Costantinopoli e la chiesa ortodossa potevano continuare a contrapporre la
perfezione della lingua scritta (katharévousa, o lingua pura). Ma anche quando quel che restava dell'impero prese a
frantumarsi, prima sotto i colpi dei crociati "latini", poi sotto l'assedio dei turchi ottomani (1453), il contesto non era per
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nulla favorevole a una piena emancipazione del greco parlato. Nei territori di dominio latino si cominciò allora a redarre
componimenti in greco tendenzialmente "popolare", e si sospetta che a scriverli siano stati proprio personaggi di origine
latina rimasti anonimi (es. la Cronaca di Morea): siamo di fronte all'intento di utilizzare in funzione letteraria codici
linguistici di per sé "popolari". Durante i secoli delle varie colonizzazioni a fare da collante per tutti i greci era l'attaccamento
alla katharévousa che rimase sempre uguale ovunque, e sotto qualunque dominazione a differenza della dhimotikì (greco
parlato). Quando negli anni 30 dell'800 il paese ottenne l'indipendenza, la divaricazione tra greco scritto e parlato era
ormai troppo grande. Ma da una parte c'era una lingua troppo fredda parlata dai pochi letterati e dall'altra una troppo
popolare e poco standardizzata parlata dalla maggior parte della popolazione non istruita. Nel 1976 la dhimotikì divenne
lingua ufficiale della nuova repubblica dopo la caduta del regime fascista detto "dei colonnelli". La guerra greco-
turca conclusasi nel 1923 ha portato alla scomparsa pressoché totale della grecità linguistica in Anatolia, ma in
compenso non si sono azzerate in Italia le due isole linguistiche greche: nella penisola salentina, il centro più importante
Callimera (in greco ‘buon giorno’) e sulle pendici meridionali dell'Aspromonte. Ciò è quanto resta di una grecofonia che,
fra alto e basso medioevo, doveva comprendere Salento, Lucania meridionale, Cilento, Calabria, Sicilia e la cui origine, se
proviene dal greco della Magna Grecia (I millennio a.C. ipotesi di Gerhard Rohlfs) o dal greco bizantino (dalla metà circa
del I millennio d.C. ipotesi di molti linguisti italiani) ha aperto, tra le due guerre mondiali, una delle polemiche più
dure e avvelenate di tutta la storia della linguistica, non solo italiana.

L’EUROPA LINGUISTICA ALL’INIZIO DELL’ERA CRISTIANA

All'inizio dell'era cristiana, il mondo che si considera civilizzato è costituito da un unico, gigantesco organismo politico:
l'impero romano, che è multietnico e multilingue e il cui centro è il Mediterraneo, che i romani chiamano infatti Mare
Nostrum. L'impero era però, linguisticamente, diviso in due: il latino era parlato nell'Occidente (Italia, Alpi, Gallia, Hiberia,
Africa settentrionale dalle Colonne d'Ercole sino alla Tripolitania), il greco in Oriente (dai Balcani all'Anatolia, alla Siria,
Palestina, Egitto, Cirenaica, parte di Italia merid. e Sicilia). Inoltre, in tutto l'impero, vi sono una miriade di parlate, sia i.e.
che non:
 Varietà di celtico nel nord Italia e in Gallia;
 il celtiberico, l'iberico e il basco nell'Hiberia;
 varietà di berberoo e punico nell'Africa del nord;
 la lingua semitica di Cartagine, il copto in Egitto;
 l'aramaico in Palestina (semitico, la lingua di Gesù);
 il frigio in Anatolia.

In Italia:

 Lingua italiche (osco, umbro, le quali discenderebbero da una lingua in comune, l’italico, ma, a riguardo, ci sono opinioni
discordanti). Nell’Italia antica troviamo due gruppi linguistici: Osco-umbro; Latino-falisco.
 Venetico in Italia nord-orientale
 Messapico nella penisola salentina, imparentato con illirico e albanese
 Greco in sud Italia;
 In Corsica e in Sardegna c’erano lingue non i.e. delle quali si discute l’appartenenza
 Etrusco fra Lazio settentrionale e Toscana. Alcune note sull'etrusco: esso, per testi brevi, è comprensibile a noi in
quanto il suo alfabeto è di derivazione greca; si pensa che gli etruschi così come li conosciamo, si siano
formati su suolo italiano dalla mescolanza di correnti linguistiche e culturali assai diverse: l'etrusco è una
lingua non i.e. e isolata, e nulla di ciò che si conosce delle lingue i.e. e non i.e. può essere di aiuto; sebbene siano
stati ritrovati i cosiddetti "dadi di Tuscania" in provincia di Viterbo, in cui i numeri sono scritti in lettere, non si
riesce a mettere in ordine i numeri nemmeno confrontandoli con le altre lingue (cosa che, abbiamo visto, coi
numerali invece dovrebbe avvenire in maniera più semplice). Resta, per tentare di decifrare l'Etrusco, il metodo
combinatorio; nei confronti del latino, l'etrusco ha giocato un ruolo di rilievo per più motivi: etrusca era una
delle componenti etniche da cui è venuta fuori Roma, ed era la componente massima a livello sociale; l'etrusco era
una lingua di cultura quando il latino era ancora un rozzo dialetto di pastori e agricoltori , infatti molte
parole latine hanno origine etrusca.

Il greco antico
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Il greco è la lingua di più antica attestazione in Europa. È documentato lungo un arco cronologico che si estende per circa
35 secoli (escluso un periodo di circa 400 anni tra il II e il I sec. a.C. Distinguiamo due tipi di greco: il miceneo, o greco del
II millennio a.C., risalente al 1500 / 1200 a.C., e greco del I millennio a.C., a partire dall'VIII sec. a.C. Il miceneo ci è giunto
redatto in un alfabeto sillabico (in cui a parte alcuni segni corrispondenti a vocali, ad ogni simbolo corrisponde una sillaba),
che va sotto il nome di lineare B (documenti ritrovati a Pilo, Micene, Cnosso e Creta). La cosiddetta lineare A, invece, è un
tipo di scrittura che venne utilizzata non per il greco del I millennio, che è giunto sino a noi attraverso l'alfabeto "storico"
greco, bensì per una lingua pre-greca detta minoica, sicuramente non i.e., ma la cui traduzione sta muovendo ora i primi
passi. Dobbiamo considerare la lineare B un adattamento della lineare A compiuto dai greci per poter porre per iscritto il
greco. La differenza tra le due lineari sta nel fatto che il greco (in partenza solo parlato) è ricco di nessi consonantici
quanto di sillabe del tipo CVC (consonante + vocale + consonante), la lineare B invece possiede segni per indicare o le sole
vocali, oppure solo sillabe del tipo CV (consonante + vocale). Tutto ciò comporta un adeguamento delle complesse
strutture sequenziali tipiche del greco alla semplicità CV della lineare B. Esempio:

Lineare B Greco

pe-mo spérma (seme, semenza); con drastica diminuzione grafica di "sper" in "pe"

ku-ru-so khrysòs (oro); dove la 'u' di ku non ha in realtà alcun valore, ma c'è solo perché, se d'un nesso si vogliono
conservare tutte le consonanti, la lineare B non offre altri mezzi che renderle graficamente ciascuna con un
segno CV. E dunque Khru diviene graficamente ku-ru.

a-ke-ti-ri-ja-i akéstriais (alle cucitrici) dove si noteranno l'espulsione delle due sibilanti, quella interna e quella finale, e
lo scioglimento della sequenza tri in [ti-ri].

Dopo un intervallo di quattro secoli, il greco riemerge nell'VIII secolo a.C. suddiviso in un certo numero di varietà, ma
tutte comprensibili tra loro. Proprio ciò che non era comprensibile dal greco era definito " barbaro" o "balbuziente" (poiché
chi parla una lingua sconosciuta pare che balbetti).
Le varietà di greco sono:

Ionico-attico Eubea dell'Attica (con Atene), isole Cicladi, costa dell'Asia Minore.

Eolico Beozia, Tessaglia, Lesbo.

Dorico Peloponneso (con Sparta), isole egee merid., costa micrasiatica, Creta, cirene in Libia,
coste greche affacciate sullo ionio.

Arcadico-cipriota Arcadia, Cipro

Panfilo Coste meridionali dell'Anatolia

Tutte queste varietà finirono con lo stemperarsi e annullarsi nella cosiddetta koiné, la varietà linguistica, su base
eminentemente attica che a partire da Alessandro (morto 323 a.C.) divenne poco alla volta "comune" (cioé koiné) a tutto il
mondo greco. Ricordiamo però che Alessandro era macedone, una varietà che differiva assai dal greco. Del macedone ci è
rimasto poco di testimonianza scritta, comprese alcune parole annotate poiché differivano da fenomeni tipicamente greci:
come la risoluzione delle occlusive sonore aspirate in occlusive sonore e non in occlusive sorde aspirate; quindi fricative
sorde. Es. gebalé (testa) con b < *bh; kefalé con f< ph < bh, o anche la sonorizzazione (con l'aspirazione e poi la caduta) di
*-s- intervocalico come in àliza (pioppo bianco) da i.e.*alisa.

Il latino

L'attestazione più antica del latino non risale oltre il VI- V sec. a. C. Territorialmente basso corso del Tevere, dalla sua foce
sino al Circeo e dell'Aniene. Inizialmente popolo di pastori e agricoltori come mostrano casi di metafore come la parola
rivalis (che va ad attingere allo stesso rivus) quindi 'rivale, concorrente'; egregius (selezionato all'interno del gregge) quindi
'che eccelle sugli altri'. Ben presto il latino finisce con l'identificarsi con la lingua di Roma, e le sue vicende storiche la
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portano ad essere lingue d'uso in tutta la parte occidentale del Mediterraneo. Qui parleremo di latino scritto e latino
parlato (o colloquiale, volgare: parlato tutti i giorni, e non "dei bassi fondi"). In un momento storico del latino avvenne la
scissione tra latino standard, altamente formalizzato e latino della lingua d'uso.
Due iscrizioni pompeiane, conservatesi sino a noi grazie all'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., recitano:

[quis]quis amat valeat, pereat qui nescit amare, bis tanto pereat quisquis amare vetat
quisquis ama valia, peria qui nosci ama[re] bis [t]anti peria, quisquis amare vota

"Chiunque ama stia bene, vada in malora chi non sa amare / due volte vada in malora chi impedisce di amare".
In 1 il distico è perfetto, in 2 notiamo anticipazioni di condizioni romanze, la caduta della -t verbale, la trasformazione di [i]
in [e] atona seguita da vocale (valeat > valia). Essendo iscrizioni graffite possiamo supporre che possano appartenere allo
stesso periodo. Una rispecchia lo standard linguistico (e quindi più lento a cambiare), l'altra è linguisticamente più evoluta,
quindi redatta in lingua d'uso. Possiamo quindi supporre che al tempo di Pompei, la spaccatura, di cui parlato sopra, fosse
già avvenuta. Nel I sec vi era dunque un latino "letterario" da una parte, e tutta una serie di latini diatopicamente
differenti dall'altro. Sarà da queste varietà di latino che nasceranno le lingue romanze, varietà di latino, per altro, che
quando erano parlate, sono state per lo più immeritevoli di essere fissate per iscritto, cosicché noi oggi su di esse siamo
pochissimo informati.

LE LINGUE NON I.E. D’EUROPA

In seguito a flussi migratori avvenuti negli ultimi due millenni, in Europa possiamo contare lingue non i.e. provenienti dalle
più diverse parti del mondo:
- famiglia ugro-finnica: làppone, finlandese, l'èstone, ungherese;
- famiglia uralo-altaica: turco;
- famiglia mongola: calmucco;
- famiglia semitica: maltese, ebraico;
- basco (isolata, suggerisce una antica parentela tra esso e le lingue prelatine di Corsica e Sardegna).

L'arabo in Europa
L'arabo, di cui il maltese rappresenta oggi l'estrema sopravvivenza europea, fu portato in Spagna nell'VIII sec e in Sicilia
nel IX. In Spagna l'arabo è destinato a durare per più di sette secoli, fino al 1492, in seguito alla reconquista spagnola e
all'ascesa al scelta dai più. In Sicilia gli arabi rimasero padroni sino all'arrivo dei normanni (XI sec) che tuttavia permisero
agli arabi di restare e integrarsi nella vita sociale dell'isola. Ma i rapporti si incrinarono sino a che, ai tempi di Federico II essi
vennero allontanati da questi in Puglia. In Sicilia l'arabo continuò a essere parlato dagli ebrei (sino al 1492, quando vennero
espulsi essend trono di Ferdinando e Isabella che misero gli "infedeli" di fronte alla scelta della conversione o
dell'espulsione, quest'ultima o la Sicilia, al tempo, parte del territorio dei sovrani spagnoli) e anche nelle isole di Malta (pur
perdendo alcune caratteristiche tipicamente semitiche e aprendosi all'influsso del siciliano, dell'ita e dll'ing, l'arabo è arrivato
fino a noi) e Pantelleria (in quest'ultima l'arabo venne definitivamente sostituito da un dialetto di tipo siciliano tra XVII e
XVIII sec). L'arabo, per la storia e la cultura europea sono, è certamente stato di grandissima importanza: di origine araba
sono termini commerciali e scientifico tecniche come lapislazzuli, cotone, arancia, tara, algebra, quintale, cifra, zero,
algoritmo, zenit, ecc.

L’ebraico in Europa
L’ebraico in Europa non è mai stato concretamente parlato, se non come lingua religiosa e culturale, attraverso le parlate locali degli
ebrei e sono riuscite a giungere lessicalmente fino alle varie lingue nazionali. Così, in italiano è d’origine ebraica ‘fasullo’.

LE LINGUE INDOEUROPEE FUORI D’EUROPA:

Le lingue anatoliche: In Anatolia (attuale Turchia), fra il XVII e il XIII secolo a.C. si parlava l’ittita (centum) con alfabeto
cuneiforme. Si inserisce nel sottogruppo i.e. delle lingue anatoliche. Assieme al greco, è la lingua di più antica attestazione.

L’armeno: Documentato dal V secolo d.C. Si tratta di una lingua satem, ufficiale dell’Armenia (e altri territori confinanti, in Turchia
e in Iran).

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Le lingue indoiraniche: Parlate tra gli altopiani iranici e il subcontinente indiano, facenti parte del gruppo
indoiranico (satem).E’ necessario fare una suddivisione:

 Lingue iraniche: attestate dal VI secolo a.C. con l’avestico (lingua di predicazione di Zarathustra) e con l’antico
persiano, da cui si sono sviluppati il medio persiano e il persiano moderno (specialmente in Iran). Il persiano,
assieme all’arabo e al turco, è diventato una delle tre grandi lingue dell’islam (con alfabetoarabo).
 Lingue indoarie: tra cui il vedico (1000 a .C.); il sanscrito: lingua letteraria indiana, altamente formalizzata,
codificata nel V-IV secolo a.C. e rimasta in uso fino alle soglie dell’etàmoderna.
 Dialetti pracriti: a partire dal III sec. a.C. tra cui il pali (lingua del canone buddhista).

Queste tre lingue hanno tre tradizioni parallele che hanno portato alla formazione delle lingue dell’India moderna. Ad esempio dai
pracriti, vengono fuori le lingue zingariche; particolare importanza è attribuita alla lingua hindi (Nuova Delhi), lingua
dell’induismo con alfabeto sillabico (col quale si scriveva il sanscrito) e urdu (Pakistan), lingua deli musulmani con alfabeto arabo.

Il tocario: Lingua i.e. più orientale di tutte (centum), risale al I millennio d.C. e ci è giunta grazie a testi religiosi (buddhismo). Si
suddivide in tocario A e tocario B.

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