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METRICA E STILISTICA

Metrica / stilistica: strumento più scientifico per analizzare le opere; studia la poesia negli aspetti che rendono
il discorso in versi diverso da quello in prosa; definisce le regole che gli autori hanno rispettato più o
meno consapevolmente, esamina il mutare di regole e forme nella storia, in connessione con gli altri
aspetti della storia della cultura letteraria. La stilistica si occupa di analizzare lo stile, il modo con cui i
poeti e gli autori di prosa hanno scritto le opere.

Metrica e musica: il rapporto tra metrica e musica nasce storicamente dal fatto che in origine i testi in versi
erano tali perché scritti per musica: si pensi quante volte la poesia è detta canto. La metrica, come la
musica, organizza fenomeni che sono anche suoni, mettendoli in relazione fra loro secondo rapporti di
tempo e di qualità sonora.

Ritmo / metro: il ritmo è dato dal susseguirsi di sillabe toniche e atone nel verso, che dà luogo a un’alternanza
regolare tra le sillabe accentate e non accentate, con una distanza tra sillabe toniche che è regolata dalla
struttura del verso. Tuttavia il ritmo non è una mera successione di sillabe accentate, nè è legato alla
sola disposizione degli accenti all’interno del verso, questo perché la particolare combinazione tra
ritmo (accenti) e scelta lessicale sceglie un’armonia o disarmonia fonica che dà il tono e rappresenta la
caratteristica principale del verso. il metro è l’unità di misura entro la quale il ritmo si realizza. Il
rapporto tra metro e ritmo non è automatico, esso è regolare nell’alternanza ma non tra i vari modelli
(un endecasillabo per es. può avere un ritmo diverso da un altro endecasillabo). Se si considera una
forma metrica come il sonetto, nella forma normale appartengono al metro il tipo e numero di versi (14
endecasillabi), l’articolazione in due parti, la tipologia degli schemi di rime; appartiene al ritmo invece
ciò che riguarda l’articolazione del discorso, ad esempio la distribuzione delle pause e l’effettiva
realizzazione ritmica dei versi.

Prosodia: è data dalla successione cadenzata delle sillabe accentate; è lo studio dei rapporti che vengono a
crearsi all’interno delle parole o propriamente della concatenazione di parole che viene pronunciata (gli
accenti indicano la forza di una parola; la quantità vocalica indica se la vocale è aperta oppure chiusa;
l’intonazione delle parole). Lo studio della prosodia dipende dalla lingua e dal contesto storico e mai
dalle iniziative individuali.

Verso: versus è espressione correllata con il verbo vertere «volgere», e propriamente «tornare indietro» (vs.
prorsus «che prosegue dritto»). In antichità, per risparmiare spazio sulle pergamene, i versi erano
consecutivi, senza andare a capo; era lasciato al critico il compito e la necessità di individuare di che
verso si tratta. Prima della nascita del verso libero si dice che il verso è segmento di discorso
organizzato secondo determinate regole, ed esplicitarle: per esempio un endecasillabo è un segmento
di undici sillabe, contate secondo le convenzioni, delle quali la quarta e la decima, o la sesta e la
decima, devono essere toniche. Il lettore può riconoscere il verso come endecasillabo per esempio
perchè dipende da un modello. Nella versificazione libera il verso ha sì una struttura propria, ma non
dipende da un modello. Inoltre il discorso in versi possiede una scansione puramente formale, che nulla
ha a che vedere con la struttura sintattica (un verso talvolta comincia con l’inizio di una frase, talvolta
continua una frase cominciata nel verso precedente). Il verso italiano è: una sequenza di posizioni (P),
di cui l’ultima necessariamente forte, marcata da ictus (+). Per l’italiano, che è lingua principalmente
parossitona (accento tonico sulla penultima sillaba), all’ultima posizione forte segue una sillaba atona.
Un endecasillabo è individuato da almeno dieci posizioni/sillabe; un settenario da sei; un senario da
almeno cinque sillabe ecc. Due versi sono dello stesso tipo se hanno lo stesso numero di sillabe:
endecasillabo = ‘verso di undici sillabe’.

Si denomina la misura del verso contando sempre una sillaba in più rispetto alla posizione dell’ultima tonica.

PRINCIPIO DEL SILLABISMO ITALIANO:


- verso piano: dopo l’ultima tonica c’è una sillaba atona (10 + 1 sillaba);
- verso tronco: dopo l’ultima tonica il verso termina (11 + 0 sillaba);
- verso sdrucciolo: dopo l’ultima tonica ci sono due atone (12 - 1 sillaba).
Il principio di computo delle sillabe: deriva dalla metrica francese antica. La differenza è solo terminologica,
sta nel fatto che in quella tradizione i versi prendono il nome dalla posizione dell’ultima sillaba tonica;
perciò quello che in italiano si dice un endecasillabo, si dice in francese un decasillabo. Problemi di
computo sillabico: il computo delle sillabe non presenta ambiguità quando tutte le vocali sono separate
da almeno una consonante, all’interno di parola e tra parole. Quando due o più vocali sono consecutive,
il computo non è ovvio (dialefe, sinalefe, dieresi, sineresi).

Sillaba: nella metrica italiana due versi sono dello stesso tipo se hanno lo stesso numero di sillabe. La sillaba è
una unità ritmica della catena parlata, l’elemento minimo che in condizioni normali può essere
pronunciato da solo; è costituita da almeno una vocale, preceduta o seguita da consonanti oppure da
semiconsonanti. In italiano le strutture sillabiche canoniche sono: V, CV, VC, CVC. La caratteristica
dell’italiano è che due parole sono sentite lunghe uguali se contengono lo stesso numero di sillabe ma
non di fonemi (isocronismo sillabico): cosa, costo, strambo.

Dieresi / sineresi: si dice dieresi il caso in cui un nesso di due vocali vale due posizioni; sineresi quando ne vale
una. Ci sono parole che derivando dal latino già hanno in sè la dieresi (es:, aère, quiete): si tratta di più
forme che devono essere riconosciute non grazie all’autore ma allo stampatore. La dieresi nelle opere
di Dante non è riportata (stessa cosa accade Foscolo: a volte la inserisce, altre no).
# Forse perché de la fatal quiete: For | se | per | ché | de | la | fa | tal | quie | te |
for | se | per | chè | de | la | fa | tal | qui | e | te |.
Ho dieci sillabe; se la poesia è tutta di endecasillabi devo supporre che
la divisione non sia quie-te ma qui-e-te perché
solo così ottengo l’endecasillabo piano.

Dialefe / sinalefe: si dice dialefe il caso in cui la vocale finale di una parola e l’iniziale della parola successiva
valgono due posizioni metriche; sinalefe quando ne valgono una.
# E quando dal nevoso aere in quiete (Fosc.): E | quan | do | dal | ne | vo | so a | e | re in | quie | te.
Il ricorso a sinalefe e alla sineresi (unione tra nessi di due parole o
nessi vocalic all’interno di una parola) serve a comprimere in una
struttura metrica preordinata (endecasillabo) un numero di sillabe
grammaticali maggiore.

Strofa: la sequenza di versi può essere ininterrotta, dall’inizio alla fine del testo, o articolarsi in strutture
intermedie, alle quali si dà il nome di strofe. La struttura strofica è propria dei testi in rima. Una strofa
può essere senza rima, ma essere identificata dalla successione regolare di più tipi di versi, per esempio
3 endecasillabi e un quinario nella strofa saffica usata da Carducci. Oppure versi tutti uguali, per
esempio 4 endecasillabi sdruccioli, in una delle forme usate da Carducci per imitare la strofa
asclepiadea latina: in questo caso la struttura strofica è data dal fatto che i 4 versi costituiscono
un’unità regolare del discorso. Sarebbe preferibile definire forma strofica solo quella in strofe dello
stesso numero di versi, composte degli stessi tipi di versi nello stesso ordine, e, se rimate, con lo stesso
schema di rime, e in cui la strofa è un’unità di discorso autonoma. In questo caso si direbbero forme
strofiche, fra quelle che si vedranno, la canzone, la ballata e l’ottava rima (non il sonetto, il distico e la
terza rima).

Enjambement: il modo in cui la struttura sintattica è articolata rispetto alla struttura metrica, soprattutto per la
coincidenza o non tra fine del verso e della frase, può essere considerato un fatto di stile, non vincolato
da regole precise. Il termine per designare la mancata coincidenza fra unità sintattica e limite di verso è
enjambement.

Rejet/rigetto: quando la parte più breve di unità sintattica spezzata si colloca nel secondo verso.
# Foscolo, E secco è il mirto, e son le foglie sparte
Del lauro […]
Controrigetto: quando la parte più breve sdi unità sintattica che si colloca all’inizio del primo verso.
# E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Cesura: è una pausa ‘taglio, divisione’ all’interno del verso, che lo divide in due parti, emistichi. Esistono versi
a cesura fissa: quinario, martelliano, dodecasillabo, in cui occupa sempre la stessa posizione; versi a
cesura mobile, come il settenario e l’endecasillabo, nei quali può occupare posizioni diverse. La
posizione canonica della cesura nell’endecasillabo è dopo la parola che reca la 4° e la 6° sillaba,
pertanto l’endecasillabo sarebbe costituito da un quinario più un settenario o viceversa.

Isosillabismo: la tradizione metrica italiana è isosillabica, nel senso che i versi dello stesso tipo hanno sempre lo
stesso numero di sillabe. Un verso che eccede la misura prevista è detto ipèrmetro (troppo lungo); un
verso che non la raggiunge è detto ipòmetro (troppo breve) L’identità di un verso si basa non solo sul
mero computo delle sillabe, ma anche sulla posizione degli accenti (la metrica italiana non è puramente
sillabica, ma accentuativo-sillabica).









Anisosillabismo: nella poesia italiana antica la versificazione isosillabica convive con una versificazione
anisosillabica, cioè con forme di versificazione nelle quali, dato un tipo di verso base, una escursione
sillabica non altera la forma metrica del testo. La possibilità di ammettere oscillazioni sillabiche nella
misura è data dal fatto che, nella poesia italiana antica, prevale la rima sull’esattezza del numero
sillabico. Il fenomeno è tipico della versificazione ‘giullaresca’ (es: Detto del gatto lupesco, poema
fiorentino del secondo ‘200): il verso più caratteristico oscilla fra 8 e 9 sillabe (ottonario-novenario),
con escursioni fino a 10. Si riscontra anche in:
• Laude, dove è anisosillabico non solo il verso di 8-9 sillabe ma anche il quinario doppio;
• Poesia didascalica di Giacomino da Verona (settenari doppi con emistichi anche di sei sillabe);
• Guittone usa versi di 8-9 sillabe, insieme a endecasillabi e settenari nella canzone Gente noiosa e
villana.

Accento: è una caratteristica per cui una sillaba ‘tonica’ è articolata con più energia rispetto alle sillabe ‘atone’.
L’accento metrico viene definito ictus. La disposizione degli ictus nel verso dà luogo a una successione
di sillabe toniche (arsi) e atone (tesi). Con accento del verso s’intende che le sillabe che occupano
determinate posizioni sono toniche; ‘accento sulla 4° o di 4°’ significa che la 4° sillaba del verso è
tonica. Gli accenti del verso possono corrispondere a quelli di parola ma non necessariamente.
L’accento di parola può infatti essere spostato in avanti (diastole) o indietro (sistole) per ragioni
ritmiche, di rima o, più genericamente, di forma metrica del verso. Gli accenti del verso si distinguono
in una gerarchia di importanza: obbligatori (definiscono il verso rispetto alla norma quindi quello in
ultima posizione), principali (quelli che determinano la correttezza di un verso rispetto alla sua forma
canonica), secondari (quelli non rilevanti rispetto al metro ma importanti per l’identificazione del
profilo ritmico del verso). Nell’endecasillabo:
- è obbligatorio l’accento sulla 10° sillaba (altrimenti non sarebbe un endecasillabo);
- sono principali gli accenti su 4° e 6° sillaba;
- sono secondari gli altri accenti, in posizione variabile, ma nelle forme canoniche si riscontra una
ricorrenza di accenti secondari sulla 7° e 8° sillaba in caso di endecasillabo a minore (accento
principale sulla 4°) e sulla 2° e 3° nel caso di endecasillabo a maiore (accento principale di 6°).

L’ENDECASILLABO
* È un endecasillabo il verso che ha come ultima sillaba tonica la 10° e viene individuato da almeno dieci
sillabe.
* Un endecasillabo ha la possibilità di essere modificato nel ritmo con l’inserimento di accenti che hanno una
portata tonica oltre al decimo: di 4°, di 6 o di 7°. Questo muta il suono del verso e ovviamente muta anche la
dispozione delle parole all’interno del verso e la scelta delle parole che il poeta adopera all’atto della
composizione.
* Dante nel De Vulgari Eloquentia stabilisce una priorità tra i versi imparisillabi e i parisillabi, e attribuisce ai
primi la possibilità di assumere uno stile elevato e tragico. La tripartizione degli stili (tragico, mediano e
umile/comico) rappresenta non solo una scelta tematica ma pre legata alla scelta del metro. Nel De Vulgari
Eloquentia Dante dà priorità ai versi imparisillabi (es: quinario e settenario) e, mentre eleva l’endecasillabo a
verso egregio, esclude il novenario, seppur imparisillabo, perché sentito una mera moltiplicazione del
trisillabo ma anche perché riteneva che la sequenza degli accenti dei versi parisillabi fosse troppo debole e
monotona (o monotòno: tono univoco).
L’imparisillabo invece forniva maggiore dinamismo ai versi. Proprio in virtù della diversità, Dante sostiene
che parisillabi e imparisillabi non possono essere mescolati tra di loro. Carducci scardina invece questo punto
di vista e mette insieme versi diversi. Nella letteratura provenzale l’imparisillabo è privilegiato, tuttavia non ha
avuto lo stesso successo che ha avuto nella tradizione letteraria italiana.
* Se è tonica la 4°, il ritmo iniziale corrisponde a quello di un quinario, cioè di un verso minore della parte
residua dell’endecasillabo, che in questo caso si dice a minore; se invece è tonica la 6°, il ritmo iniziale
corrisponde a quello di un settenario, e si dice a maiore. I termini a minore e a maiore servono a definire i due
tipi fondamentali dell’endecasillabo canonico.
# Dante, Vita Nova: Tanto gentile e tanto onesta pare
Il verso è un endecasillabo regolare accentato in quarta (-ti-), settima (-ne-) e ottava sillaba (pa-).
Dante sottolinea la gentilezza e l’onesta, caratteristiche tipiche dello Stilnovo, l’uso del verbo pare
allude all’importanza della vista. Anche saluta implica la vista e ce ne accorgiamo perché sta scritta
sotto pare. E questo non è un caso.
Quindi attraverso effetti metrici il poeta ci comunica la benevolezza della donna amata.
# Leopardi elimina la rima, il che è la base del rinnovamento metrico leopardiano che troverà sfogo
nella canzone leopardiana libera, cioè libera dal canone delle assonanze a fine verso. Sempre caro mi fu
quest’elmo colle è un endecasillabo a maiore perché il primo emistichio è un settenario (sempre caro
mi fu).



# Foscolo, A Zacinto, Nè più mai toccherò le sacre sponde


Il verso è un endecasillabo a minore per la volontà del poeta (ha dodici sillabe), infatti il primo
emistichio è un quinario.
* Accanto alle forme canoniche dell’endecasillabo, il verso principale della nostra prosodia è duttile in primis
per il numero e la misura delle sillabe che può contenere. Il verso accoglie al suo interno un numero di
concetti e costruzioni sintattiche molto diverse. Ha una lunghezza che non è troppo corta, quindi permette uno
sviluppo di concetti diversificati e un periodare che sia sufficiente (dall’elegia alla denuncia politica ecc.)
Dobbiamo essere consapevoli del fatto che all’interno dell’endecasillabo possiamo trovare forme diverse, non
identificabili per forza con a maiore e a minore; le sedi sillabiche accentuate non sono per forza regolate da
uno schema preordinato; queste forme sono ridotte a un numero circoscritto di esemplificazioni.
a) Il primo è l’endecasillabo che ha l’accento in 5° sede su una parola piana o tronca.
# Montale, Ossi di Seppia, Limoni: Qualche disturbata divinità.
L’accento principale si trova in decima sede; un secondario si trova in 5° , sottolinea il desiderio di
varietas.
È un endecasillabo tronco.
b) Gli altri esempi hanno a che fare con un accento in 3° o 7° sede
# Guittone D’Arezzo, Che non fosse divenuta pietosa / Ma sovente mi rinforza lo foco.
# Montale, Ossi di seppia, Fine dell’infanzia: Eravamo nell’età virginale.
È endecasillabo piano con accentazione principale in decima sede, ha pure altro accento principale e
canonico in settima sede.
c) Altri esempi portano ulteriori sede sillabiche accentate: in 4° sede possiamo trovare differenti parole:
tronche, piane e sdrucciole.
# Es. parola sdrucciola: Ch’io son ancudine d’ogni martello.
# Ungaretti, Sentimento del tempo: Risvegli ceneri nei Colossei. È un endecasillabo piano. Ha l’accento
principale in decima sede ma anche in seconda e quarta sede.
>>> Dopo la parola accentata in queste esemplificazioni inserisco una cesura: dove la successione delle
sillabe prevede tali accentazioni, il verso muta il suo ritmo e acquisisce una pausa che non è segnalata
Ch’io son ancudine ||d’ogni martello.
* Nella storia dell’endecasillabo, studiata da Foscolo in un saggio di metrica verso la fine del ‘700, si segnala
l’esistenza di una impostazione prosodica di tipo canonico e un’impostazione che non fa riferimento a quella
tradizione. Già alla fine del ‘700, con una lunga tradizione alle spalle, la struttura della prosodia e della
metrica italiana è stata sottoposta a costante revisione che non ha cancellato la tradizione prosodica del
passato.
* Questa straordinaria varietà ha fatto diventare l’endecasillabo il metro principale della metrica italiana. A
seconda della posizione su cui cade l’accento cambia anche il ritmo; cambiando il ritmo cambia la struttura
stessa del verso. Si parla non di ‘ritmi’ ma più propriamente di ‘andamenti’, correlati con la disposizione di
questi accenti ‘principali’, correlati con la scelta delle parole da parte dei singoli poeti. La prosodia
dell’endecasillabo fornisce ai poeti dell’origine la possibilità di recuperare l’andamento e il ritmo che la poesia
classica aveva stabilito. Questo dimostra che gli accenti ‘secondari’ (cioè che non denotano l’endecasillabo
canonico) svolgono una funzione non secondaria ma anzi ‘denotativa’: mi aiutano a conoscere la tipologia del
verso che ho di fronte.
Esistono quattro tipologie di andamenti:
a) andamento giambico: è un modello studiato da Dante, che prevede un ritmo incalzante di alternanza di
sillaba forte e debole(la parola giambo allude proprio a questo). Accentazione su 2°, 4°, 6°, 8° e 10°.
Può avere il ritmo giambico anche il settenario.
# Dante, Inferno V: Di qua di là di su di più limena (endecasillabo piano).
# Dante, Inferno, I: Nel mezzo del cammin di nostra vita (endecasilabo piano).
# Dante, Paradiso XXXIII: L’amor che move il sole e l’altre stelle (endecasillabo piano).
# Guinizzelli: Al cor gentil rempaira sempre Amore (endecasillabo piano).
> distinzione tra modello archetipico con una formulazione perfetta di accenti (2°, 4°, 6°, 8° 3 10°) e
modello atipico con variazioni e che presenta soltanto un andamento giambico (non è verso giambico).
#Petrarca, A seguitar costei che^in fuga è volta (accenti in 4°, 6°, 8° e 10°).
#Leopardi, Ed erra l’armonia per questa valle (accenti in 2°, 6°, 8°, e 10°).
b) andamento trocaico: è una riproposizione dell’esperienza della metrica classica in cui era identificato da
una sillaba lunga seguita da una breve. In italiano corrisponde a sillaba tonica seguita da una sillaba
atona. Trocheo in greco vuol dire ‘che scorre, che va veloce’; è un andamento di tipo discendente
(sillaba forte/toncia e debole/atona: il ritmo tra le due sillabe tende a scendere) laddove il giambo aveva
un andamento opposto di tipo ascendente (sillaba debole e forte: il ritmo tra le due sillabe tende a
salire). Il ritmo trocaico è tipico della scrittura poetica di tipo recitativo, è uno degli andamenti insieme





al giambo tra i più diffusi. L’alternanza è utilizzata dai poeti a partire dalla letteratura delle origini, con
particolare sviluppo nel ‘500 e ‘600, è utilizzata non solo nel verso tipico della letteratura italiana,
l’endecasillabo, ma anche in modelli prosodici più corti. Per la sua natura veloce, perché la prima sillaba
essendo forte dà un attacco forte al verso, può confondersi con l’anapesto.
#Pascoli, Canti di Castelvecchio: C’è^una voce nella mia vita (novenario piano, accenti in 1°, 3°, 5°, 7°
e 8°, non è un trocheo perfetto, anche in questo caso si dice che ha un andamento trocaico).
c) andamento dattilico: il dattilo è un piede di tre sillabe che presenta alternzanza di una sillaba tonica e
due atone; questo ritmo dattilico è usato principalmente nell’esametro. Mentre il giambo e il trocheo
hanno un andamento più rapido e veloce, il dattilo, avendo una sillaba in più, ha andamento più lento e
più sentenzioso (infatti l’esametro è il metro dell’epica e quello delle affermazioni sentenziose).
# Dante, Donne ch’avete^intelletto d’Amore (endecasillabo piano, andamento dattilico).
d) andamento anapestico: ‘anapesto’ vuol dire “ribattuto, ripetuto”; è un ritmo serrato utilizzato soprattutto
in canti militari che avevano bisogno di un andamento da marcia. È uno di quei ritmi che sin dalla
tradizione classica è sempre stato abbinato insieme al giambo e al trocheo in relazione a una certa
facilità mnemonica. L’anapesto ha un ritmo che permette all’ascoltatore di ricordare il verso. Se il ritmo
dattilico è di tipo discendente, l’anapesto è di tipo ascendente.
#Manzoni, Soffermati sull’arida sponda (decasillabo piano, andamento anapestico).

LA RIMA
* Rima deriva dal latino rhytmus e con essa s’intende l’identità di suono della parte finale di due o più parole, a
partire dalla vocale tonica compresa (vITA: smarrITA), o di due o più versi, da partire dall’ultima vocale
tonica compresa.
* Con il tempo si è giunti a parlare di ‘rima’ per sineddoche per indicare l’esercizio poetico in volgare.
* Quando si parla di funzione demarcativa della rima, s’intende dire che fino al ‘500 la poesia senza rima è poco
meno che inesistente e quindi favorisce la percezione della divisione in versi: gli eventuali versi senza rima
sono inseriti come ‘rime di grado zero’, vale a dire rime irrelate. Quanto all’anisosillabismo della poesia
antica, si è visto che è possibile perché la scansione in versi è assicurata dalla rima, che ha in questo caso un
valore più rilevante del computo delle sillabe.
* La rima può essere finale ma anche interna. La rima al mezzo divide il verso in emistichi; la rima interna non
corrisponde a tale divisione. La rima al mezzo è considerata nei versi perlopiù doppi, che hanno cioè una
lunghezza maggiore (il settenario doppio è un verso di quattordici sillabe). La rima interna, frequente fino
Dante, è poco usata da Petrarca ed è usata sempre più raramente, ad eccezione dell’endecasillabo frottolato,
con rime solo al mezzo. Una celebre canzone di Cavalcanti, Donna me prega, è anche l’esempio più illustre di
uso di rimpe interne e al mezzo:
Donna mr prEGA | per ch’eo voglio dIRE
d’un accidENTE | che sovENTE^è fERO
Ed è sì altERO | ch’è chiamato amORE:
sì chi lo nEGA | possa ‘l ver sentIRE!
* Normalmente le rime assumono come definizione l’espressione ossitona (tronca) parossitona (piana),
proparossitona (sdrucciola) della parola che chiude il verso. Se la parola è piana, la rima è piana, se la parola è
tronca, la rima è tronca — per esempio: fu, tu, più.
- Le rime tronche e sdrucciole sono rare nella poesia antica, estranee alla tradizione illustre.
- La rima sdrucciola (il tipo di sonetto in rime sdrucciole è usato da Antonio da Tempo) ha un sapore
popolareggiante nel Quattrocento, in virtù del fatto che essa è impiegata più nella poesia bucolica.
- La compresenza di rime piane, tronche e sdrucciole nello stesso testo trova il diritto di cittadinanza nella
poesia lirica solo con l’ode-canzonetta di Chiabrera.
- La rima tronca, rara fino al XVI sec., è usata in modo sporadico nella Commedia e nel Canzoniere, compare
solo nella canzone-frottola, genere ‘comico’. Il sonetto in rime tronche è contemplato dalla Summa di
Antonio da Tempo.
# Cor e amor sono due rime tronche, core e amore sono due rime piane. Nella lingua italiana prevale
l’omografia sull’omofonia (si scrivono uguali vocali, sillabe e parole anche se non si leggono nello stesso modo)
il che porta a considerare perfetta anche una rima che propriamente non lo è. Petrarca: ’Voi ch’ascoltate in rime
sparse il suono / di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core / in sul mio primo giovenile errore / quand’era in parte
altr’uom da quel ch’i sono’: ‘suono’, chiusa / ‘sono’, aperta; ‘core’ aperta / ‘errore’ chiusa.
# Il fenomeno di omofonia riguarda in italiano le consonanti /z/ e /s/. Per esempio: ‘sposa’ e ‘amorosa’ vede
la /s/ di sposa sonora, la /s/ di amorosa sorda. Un altro esempio riguarda ‘sforzo’, ‘orzo’ e ‘divorzo’ (dove in
‘divorzo’ si nota la sincope di -i per ragioni metriche e foniche, queste ultime afferenti alla rima perché
‘divorzio’ avrebbe mutato la struttura metrica: sforzo-orzo-divorzo); in questo caso per esempio ‘sofrzo’ è
sorda, ‘orzo’ è sonora.















# Nel siciliano manca la distinzione di tipo fonologico fra /e/ ed /o/ aperte e chiuse poichè nel siciliano le
vocali sono tutte aperte (nella parte settentrionale invece si tende a chiudere). La stessa cosa accade per il
fenomeno consonantico, la cui distinzione è per lo più presente nel fiorentino antico (toscano) che però si è
persa oggigiorno.
* La rima si dice perfetta quando c’è l’ideantità di tutte le vocali e consonanti, a partire dall’ultima vocale
tonica del verso. Se l’identità non è completa, la rima si dice imperfetta.
* L’assonanza è un esempio di rima imperfetta, poichè comporta l’identità delle sole vocali (dIcE; venIssE).
Un’assonanza si può dire a sua volta imperfetta se è uguale solo l’ultima vocale tonica.
* La consonanza è un altro esempio di rima imperfetta e comporta l’uguaglianza delle sole consonanti.
L’assonanza al posto della rima non è necessariamente segno di trascuratezza: in generi come la lauda, il
serventese e i cantari l’assonanza è ammessa come figura normale accanto alla rima. Più complesso è il
problema della tradizione lirica in stile elevato: la norma è la rima pefetta, ma non mancano eccezioni.
a) Rima baciata: AA BB CC; la forma strofica più collegata con questa rima è il distico.
b) Rima alternata: ABAB CDCD EFEF; la forma strofica collegata con questa rima è la quartina.
La rima alternata per otto versi ABABABAB dà vita all’ottava siciliana;
Se gli ultimi due versi sono a rima baciata ABABABCC, lo schema si dice ottava toscana (ottava rima);
Se i versi a rima alterna sono quattro, ABABCC, lo schema si dice sestina.
Una serie analoga costituisce la prima parte del sonetto.
c) Rima incrociata: ABBA CDDC EFFE; la forma strofica più collegata con questa rima è la quartina (non
può trovarsi in un distico!)
# Tanto gentile e tanto onesta pare (A)
la donna mia quand’ella altrui saluta (B)
ch’ogne lingua deven tremando muta (B)
e li occhi no l’ardiscon di guardare (A)
d) Rima incatenata: ABA BCB CDC; è lo schema della terza rima o terzina dantesca.
e) Rima replicata (o ripetuta): ABC ABC, CDE CDE, che ha uno schema rimico per cui le rime si ripetono
nello stesso ordine, come accade nel sonetto, in cui c’è una rima nella prima terzina e un’altra nella seconda
terzina (CDE CDE) o nella canzone.
f) Rima invertita (o retrogradata): ABC CBA; è l’opposto della rima replicata utilizzata da Dante nelle tezine
(EDC).
g) Rima retrogradata: è una rima complessa che si applica soprattutto nelle stanze della canzone; presenta una
specie di rotazione all’indietro. Questo si verifica soprattutto all’interno del Canzoniere di Petrarca. Lo
schema è:
* prima strofa: ABBA;
* seconda strofa: AcccA;
* terza strofa: BCCB;
* quarta strofa: BaaaB;
* quinta e sesta strofa: CAAC-cbbbC.
È una particolare forma di rima che anticipa nella prima parte la rima di C e la incastra con la successiva
strofa. Nel caso specifico petrarchesco, le strofe sono sestine (strofe di sei versi). Per quanto riguarda la
sestina, si può avere una retrogradazione crociata con rotazione all’indietro, vale a dire ripresa, un ‘ritorno’
delle rime. Prendiamo ad esempio una sestina rimata nella prima strofa ABCDEF, nella seconda strofa
l’ultima rima della strofa precedente va al primo posto: FAEBDC; la terza strofa è CFDABE, la quarta è
ECBFAD, la quinta DEACFB, la sesta BDFECA. Se mettiamo per iscritto questi schemi rimici incontriamo
uno schema rimico sciolto, cioè non regolato (es. Petrarca, S’i’ ‘l dissi mai).
h) Rima rinterzata: si può trovare in sonetti di tipo rinterzato e unisce un verso breve a un verso lungo
precedente, che in questa maniera viene rinterzato, vale a dire viene rafforzato (che è più piccolo ma è
maggiore di intensità per la presenza della rima).
i) Rima martellante: si chiama così perché è una forma rimica che viene ripetuta in maniera ossessiva
all’interno del verso (non più nella posizione finale), il che segnala come persino all’interno delle strutture in
prosa noi possiamo regolare la forma fonica della scrittura (se ripeto parole fra loro vicine con una stessa
terminazione, nella prosodia la chiamerò rima martellante, nella prosa parlo più che altro di ‘stile’)
# Es. Dante, Sarebbe al tuo furor dolor compìto: la rima è interna e martellante perché ripete furor e dolor,
parole che si rimando fra loro ma che non si trovano in posizione finale. Le rime interne si possono
verificare anche tra una posizione finale del verso e una posizione interna del verso che segue. I termini non
devono essere necessariamente vicini (es: Dante, Vita Nuova XIX, ma ragionar per isfogar la mente:
ragionar-isfogar: rima martellante).













j) Rima estrampa: è individuata da un verso che non rima con nessun altro all’interno della stessa stanza di
una canzone ma con un verso in ciascuna delle altre stanze della canzone (però devono trovarsi nella stessa
posizione di verso).
k) Rima irrelata: (rima non collegata) indica un verso che non rima con nessun altro in quella posizione nella
strofa, sta da solo.
- Nella canzone del Duecento sono comuni i casi in cui uno o due versi restano senza rima in tutte le strofe;
Petrarca non ammette questa possibilità ma lascia irrelato il primo verso del congedo.
- Nella ballata è ammesso che resti senza rima il primo verso della ripresa.
- Nell’ode-canzonetta è frequente la presenza di versi senza rima in posizione fissa nello schema.
- Nel discorso libero in endecasillabi e settenari è istituzionale il rapporto variabile tra versi rimati e non
rimati; è obbligatorio che almeno alcuni siano rimati, mentre è possibile che siano tutti rimati con schema
libero.
l) Rima rara (cara o difficile): caratterizzata dalla presenza di parole non comuni, fuori dall’uso comune e
dallo stesso uso poetico.
# irro, cirro; epiciclo, periclo.
# Dante: le parole che terminano in -ulcro: pulcro, sepulcro; e in -oppio: scoppio, doppio, accoppio (Purg.
XVI).
m) Rima facile: di scarso impegno stilistico, quella per cui sono disponibili nella lingua molte parole.
# I verbi soprattutto della prima coniugazione (amare, giocare, lodare);
# Gli avverbi in -mente, per cui tutti rimano tra loro.
n) Rima grammaticale: non è propriamente una rima (si confonde infatti con il poliptoto e la figura
etimologica per esempio).
# Giacomo da Lentini: amor non vole ch’io clami / merzede c’onn’omo clama, / né che io m’avanti c’ami, /
c’ogn’omo s’avanta c’ama.
La rima è alternata ABAB: clAMI, clAMA, c’AMI, c’AMA; essa viene definita grammaticale perché si
istituisce un rapporto fra due coppie di termini (clami e clama; ami e ama) che sono forme verbali differenti
(presenti indicativi e congiuntivi), che appartengono alla flessione di uno stesso verbo. Quindi la rima
grammaticale riguarda forme differenti tra di loro che però appartengono a una medesima forma verbale. (Il
verbo è lo stesso ma flesso in forme diverse fra loro ripetute in uno schema rimico).
o) Rima ricca: si ha quando all’identità della parte finale, a partire dalla vocale tonica delle parole in rima, si
aggiunge la stessa porzione di uno o più fonemi che precedono la vocale (-c-).
# Dante, seCONDO, gioCONDO; senTERO, alTERO.
p) Rima leonina fa parte del gruppo delle rime ricche perché unisce fra loro, mette in rima, due parole che sono
identiche a partire dalla vocale protonica (nell’esempio che segue, la parte prima della vocale tonica: se c’è
una sola consonante si ha la rima ricca, se c’è invece anche una vocale ca-, sta- che arricchisce il tutto la
rima è leonina). Si confonde con la rima ricca e facile.
# cAGIONE, stAGIONE. Quando questo fenomeno si amplia ulteriormente può capitare che due parole in
rima fra loro possano presentare una di esse che ingloba totalmente l’altra.
# marte, arte: la rima è -arte, quindi non può essere una rima ricca perché manca la parte che precede la
vocale.
q) Rima derivativa è un altro esempio di rima ricca, per cui due parole che vanno in rima fra loro hanno la
derivazione da una medesima radice ma con forme diverse.
# Battista Guarini, AMI, disAMI: amare e disamare sono rispettivamente l’uno la forma principale, l’altra la
forma derivativa del verbo principale, vale a dire amare (amare > disamare). Questa rima è anche detta
antonìmica. L’antonimìa consiste nella rima tra due parole di significato opposto.
# degna, disdegna.
Un’altra rima ricca non riguarda la radice (e la flessione verbale) bensì l’etimologia.
# membra, rimembra hanno forma etimologica simile (ma membra indica parte del corpo, e rimembra è un
verbo che vuol dire ‘ricordare’).
# Dante, Universo, converso, riverso: converso e riverso è rima ricca perché ho conv-erso e riv-erso
(lessema che precede la vocale tonica che si ripete) ma potrebbe essere derivativa perché entrambe derivano
dalla flessione del verbo latino vertere. In più universo e converso hanno un’altra forma di legame: possono
essere considerate una rima ricca e leonina perché c’è la -i- in comune (un-i-v-erso; r-i-v-erso).
r) Rime identiche: sono scritte e pronunciate nello stesso modo, hanno lo stesso significato; una parola rima
con se stessa. È una rima a cui il poeta ricorre per un motivo particolare che non ha ragioni lessicali (perché
il poeta potrebbe ricorrere ad altri termini) bensì poetiche. Per esempio nella Divina Commedia c’è una sola
parola che non rima con nessun’altra se non con se stessa: Cristo.
s) Rima equivoca: Es: parte | parte sono parole omografiche e omofonetiche, che però non hanno stesso
significato per cui non possono essere definite identiche, infatti ‘parte’ viene da ‘partire’, ‘parte’ come
‘partito’.



















t) Rima composta (o rotta, franta, spezzata): è quella in cui una parola in rima è ottenuta artificiosamente
sommando parole distinte; questa parola composta viene accentata in modo che l’ultima tonica del verso sia
nella giusta posizione.
# E quel mirava noi e diceva: “O me!” ‘O me’ potrebbe essere una rima rotta con chi-ome, c-ome.
# Dante, Purg. XXIV: Che andate pensando sì voi sol tre?: sol tre forma un’ultima parola s’olTRE, il cui
accento cade sulla 10°, in rima con olTRE e polTRE.
Questi sono tutti esempi di rime equivoche perché credono dubbi.
u) Rima equivoca contraffatta: è una rima a metà strada tra l’equivoca e la composta: equivoca perché unisce
in rima flessioni grammaticali differenti, ma contraffatta perché è anche spezzata, franta.
# Giacomo Da Lentini, ’Chi ama’ che potrebbe rimare in modo contraffatto con ‘chiama’, vale a dire parole
foneticamente sovrapponibili ma spezzate.
#Per la, perla: per la è inteso come ‘in quella direzione’ ma non dobbiamo considerare l’accento: sono due
termini omografici, omofonetici ma non con lo stesso significato e franti.
# Par l’a (“pari a”), par la (“sembra in quel luogo” in cui ‘par’ vale ‘parere’), parla (“parlare”).
v) Par la’ e ‘parla’ si chiamano rime per l’occhio: parole in rima sono omografiche ma non omofonetiche, in
cui l’unica possibilità di far rimare foneticamente le parole è la ritrazione dell’accento. Altro esempio cf.
Beltrami: ‘emmando’ e ‘comandò’.
# Altro esempio di rima equivoca franta di tipo petrarchesco è Laura, l’aura. Ma l’aura può essere un
indicazione (o ‘segnal’, cioè una figura retorica provenzale).
# Altro esempio petrarchesco (Rerum Vulgaria Frammenta) riguarda rima equivoca contraffatta: il primo
verso ha rima finale ‘l’aurora’; poi c’è ‘Laura’ e ‘ora’ : tra ‘Laura’ e ‘ora’ c’è sinalefe, per cui la pronuncia
diventa Laur^ora = l’aurora. Si parla quindi di rima equivoca contraffatta in sinalefe.
w) Rima in tmesi: può capitare anche che le rime non siano tutte necessariamente nella posizione esplicitaria:
può capitare che ci siano rime in tmèsi, vale a dire ‘spezzatura, rottura’. Con tmesi s’intende la forma di
divisione di una parola alla fine di un verso, parola che ha un pezzo in un verso e il resto nel verso che
segue. Il primo pezzo da solo rimerà con altre parole.
# Pascoli, Myricae: ‘infinita- / mente’ laddove ‘infinita-‘ rima con una parola in -ita, senza -mente.
x) Rima plurilingue fa coincidere foneticamente parole che hanno una forte assonanza ma che non sono
omografe.
# Pascoli, Italy: le rime che Pascoli inserisce, ricordando il fatto che la rima è un’assonanza, un fatto
fonetico in prima battuta, dissemina alcune rime che però sono costituite da parole non provenienti tutte
dalla medesima lingua. Infatti la rima febbraio-ohio (che si legge Oaio) è innanzitutto fonetica. Un’altra
rima fonica (ma non grafica) è gelo-fellow. Si tratta di una operazione diffusa nel ‘900 anche nei poeti
crepuscolari; Gozzano per esempio in Signorina felìcita crea l’accostamento camìcie-felìce-nìce. Sono messe
a rima parole di differenti lingue, per esempio: Offenbach-frach. La rima plurilingua si ha quando si
verificano rime e assonanze tra parole di lingue differenti.
y) Rima regionale: si ha quando le parole afferiscono alla stessa lingua. La rima regionale consiste in un
inserimento di espressioni lessicali provenienti da ragionalismi cioè non provenienti dal lessico italiano (es:
VUI siciliano e VOI italiano). La rima VUI-ALTRUI è una rima siciliana.
z) Rima siciliana: nella lingua siciliana c’è una preponderanza fonetica, linguistica e grafica che porta in rima
la -i- con la -e- chiusa, la -u- con la -o- chiusa, in virtù del fatto che nella fonologia siciliana:
- La I è esito della vocale E lunga latina, I lunga latina oppure E finale;
- La U è esito della vocale O lunga, U lunga oppure U finale.
# AVERE ha due E lunghe, che danno esito AVIRI. Un altro esempio riguarda SERIVE, che dà esito
SERVIRI. AVIRI-SERVIRI sono una rima perfetta in siciliano, AVERE-SERVIRE no.
# USO-AMORUSO in italiano non sono una rima perfetta ma nel siciliano sì: USO-AMORUSO.
In virtù di questa alternanza grafica e dell’intervento grafico dei copisti toscani duecenteschi è nata una rima
particolare, vale a dire la rima siciliana, che consente ad AVERE di rimare con SERVIRE e ad USO di
rimanere con AMOROSO. Si tratta di rime imperfette che si sono mantenute in altre voci, per esempio:
siciliano NUI e FUI (laddove fui è un regionalismo siciliano), per cui in virtù di questo esito siciliano NOI
rima con FUI.
aa) Rima aretina (o guittoniana, da Guittone d’Arezzo): -e- aperta rima con la -i-; -o- aperta rima con -u-.
# Dante, Purg. XIX fa rimare DURI-SICURI-FOI. Menichetti ritiene che questa sia un’estensione della rima
siciliana perché nel ‘200 la compresenza di guittoniani, primi poeti toscani, e siciliani, consentiva questa
interpolazione fonologica.
bb) Rima bolognese: fondata sulla pronuncia bolognese.
# Dante, Inferno X: LUME-NOME-COME laddove la U di LUME va letta come una O (LOME).
cc) Rima umbra di Cortona (o cortonese):
# TIMORE-PECCATORE, laddove PECCATORE non è un singolare come TIMORE bensì plurale: la
parlata cortonese infatti consente che il plurale sia espresso in E in luogo di I.

8


















# La rima francese: AVENENTE-AMANTE. In italiano non costituiscono una rima ma per la pronuncia
francese sì. Parole che graficamente non sono in rima, lo diventano per una pronuncia particolare, come in
questo caso la rima francese.
Tutte queste rime sono legate alla pronuncia, non alla grafia. Ora consideriamo la rima dal punto di vista ritmico.
* È una rima imperfetta la rima ritmica. È un termine che può essere considerato equivoco e che spesso solleva
diatribe tra metricisti.
* Alcuni critici indicano la collocazione di versi sdruccioli (due sillabe dopo l’accento principale) anarimi:
versi che non vanno in rima con altri versi in alcune posizioni fisse e prestabilite ma possono lo stesso essere
studiati in una forma di rima ritmica, laddove il ritmo sostituisce l’assonanza. Un esempio di rima ritmica si
riscontra nella lode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, in cui il primo verso rima con il terzo, il quinto con
il sesto. Restano fuori il secondo e il quarto:
# I balsami beati
Per te Grazie apprèstino,
Per te i lini odorati
Che a Citerea porgèano
Quando profano spino
Le punse il piè divino
Apprèstino-porgeano non sono in rima. Tuttavia se vediamo il ritmo, sono due parole sdrucciole e in questo
passaggio come in tutte le altre strofe dell’Ode troviamo sempre la stessa struttura, per cui le ultime parole del
secondo e quarto verso sono tutte sdrucciole. La rima si dice ritmica perché hanno la medesima cadenza.
Infatti lo schema rimico dell’ode è ABABCC.
* Spesso assonanze e consonanze possono essere comunque considerate delle rime, cioè rime imperfette,
soprattutto perché si istituiscono dei rapporti tra parole in posizioni specifiche.
* La ‘rima’ è quella che ripete sempre se stessa, si deve distinguere dalla parola ’in rima’, cioè la parola che va
in rima con altre parole a fine verso. Esistono dei repertori di rime, i cosiddetti rimari. Questi rimari possono
essere chiusi oppure aperti. I primi sono definiti ‘particolari’, i secondi invece ‘universali’.
* Il rimario chiuso è elenco in ordine alfabetico delle rime di un autore che ricorrono per esempio in una sola
opera o in più opere di uno stesso autore.
* I rimari aperti sono suscettibili di aggiornamenti (es: i rimari provenzali e petrascheschi sono chiusi!). I primi
rimari risalgono al ‘500 e sono di tipo particolare perché anzitutto dedicati a Petrarca e Dante. Il rimario di
tutte le cadentie di Dante e Petrarca risale al 1529, una stampa veneziana, curata da Pellegrino Moreto (forse
la copia di un testo già uscito un anno prima). Benedetto Falco è un autore napoletano compila il suo rimario,
al cui spoglio partecipano anche opere del ‘400 e ‘500, tant’è che viene considerato il primo rimario aperto,
perché disponibile ad accogliere nuove voci di poeti contemporanei. Oggigiorno ci sono dei programmi dediti
alla creazione di rimari.

IL SONETTO
* Ha più di ogni altra forma metrica una singolare rigidità formale e allo stesso tempo una elasticità dal punto di
vista tematico e stilistico. La sua struttura vede quattordici endecasillabi, suddivisi in due parti: la prima parte
di otto versi (fronte, ottava: per analogia con la stanza della canzone — otetto, quartine); la seconda di sei
versi (sirma, sestina, sestetto, terzine).
* Forma italiana nata nella scuola siciliana, probabilmente per ‘invenzione’ di Giacomo da Lentini, e poi
frequente in tutte le epoche nella storia della nostra poesia, dalla quale è stata imitata nelle altre letterature
europee.
* Non sappiamo cosa Dante pensasse del sonetto (nel De Vulgari Eloquentia tratta della canzone); i primi
trattatisti sono stati Antonio da Tempo e Francesco da Barberino, i quali suddividono il gruppo di otto versi in
quattro distici.
* Le coppie di distici sono chiamate pèdes (da Francesco) e copulae (da Antonio). Lo schema rimico dei primi
otto versi vede rime alternate ABAB. Con lo stilnovo duecentesco nasce la distinzione in due quartine, che
non modifica il numero di versi, ma la rima.
Lo schema delle quartine di Cavalcanti è una forma di rima incatenata: ABBB BAAA. Nella storia del sonetto,
il modello affermatosi è quello petrarchesco, forma dominante del Canzoniere e del De Rerum Volgarium
Fragmenta. Nella tradizione del Canzoniere ben 303 sonetti su 317 riportano lo schema della quartina: ABBA-
ABBA, a rima incatenata (Se la mia vita da l’aspro tormeENTO / si può tanto schermire, et dagli affANNI /
ch’i’ vegga per vertù degli ultimi ANNI / donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento), che preferisce a quella
alternata (Pace non trovo, et non ò da far guERRA; / e temo, et spero; et ardo, et son un ghiACCIO; / et volo
sopra ‘l cielo, et giaccio in tERRA; / et nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbrACCIO).









* Le terzine sono definite mutae da Francesco e voltae da Antonio.


Gli schemi più frequenti sono: CDE-CDE; CDC-DCD. Altre forme: CDE-EDC (Cavalcanti); CDC-CDC (il
primo sonetto della Vita Nova); CDD-DCC (Dante, Rime).
* Per il sonetto, la discussione sul problema della tradizione della forma metrica è dibattuta.
Si può distinguere oltre alla tradizionale derivazione dalla canzone:
- Una linea critica di metricisti che individua il sonetto come una forma di strambotto, mentre si deve a un
famoso critico e storico della letteratura italiana l’indipendenza dalla stessa forma metrica dello strambotto.
- È stata poi attestata l’intuizione di Menichetti e Antonelli (1990) della derivazione del sonetto da una stanza
isolata della canzone (cioè dalla cobla esparsa dei provenzali), che servirebbe a riprodurre le medesime
funzioni anche sonore di una canzone di origine provenzale.
- Esiste una terza posizione che sposta il fattore di indagine, dalla forma e struttura metrica, al numero e al
computo del numero dei versi. Questo sarebbe il risultato delle ricerche di Avalle, che ha dimostrato la
derivazione del sonetto da modelli numerici, proprio a sottolineare la natura medievale di questa forma
metrica. Tant’è vero che i 14 versi del sonetto possono essere suddivisi in due blocchi, rispettivamente di
quattro e tre, doppi versi (2 blocchi di 7 versi = 14 versi). Esiste una tradizione matematica per la quale
l’accoppiamento del numero 4 (numero perfetto per i pitagorici) e 3 (perfetto per la religione) corrisponde
all’intervallo di quarta: la musica e la religiosità contenute all’interno di queste disposizioni matematiche
sembrerebbe, data la posizione di Avalle, ribadire l’adesione alle proporzioni matematiche che poi sono
fondamento di una perfezione di tipo spirituale nell’ideologia medievale. Nella teoria del ‘900 questo rapporto
è il clisma peculiare del mondo celeste, rappresenta cioè un collegamento con una dimensione celeste. Un
altro critico di nome Roncaglia ha cercato di far sposare questa tradizione con quella dell’8 e 6 (= 14 versi,
cioè numero tradizionale del sonetto). Questo 8 più 6 potrebbe essere la base numerica generatrice di armonia:
esiste evidentemente una disposizione tra il numero dei versi contenuti nel sonetto (due volte 4 e 3 o una volta
8 e 6) che o riproduce una perfezione di tipo celeste o un’armonia delle proporzioni del trattato enciclopedico
di Capella, il risultato non cambia: esiste un rapporto 4 e 3, 8 e 6 riferito a una forma di armonia. Si tratta di
un’analisi di tipo matematica. Il critico Potters sposta l’attenzione di questa numerologia su un campo che
invece è squisitamente matematico. Questa lettura di tipo matematico viene a recuperare alcuni riscontri che
Potters trova negli studi di Leobardo Fibonacci, che per altro era stato anche in ottimi rapporti con la magna
curia di Federico II, luogo in cui Iacopo da Lentini ha avviato la tradizione del sonetto. La teoria si basa su una
coincidenza tra i numeri chiave del sonetto, 11 (numero delle sillabe di ogni verso del sonetto: endecasillabo),
14 (numero complessivo dei versi) e il 154 (cioè il rapporto tra 11 e 14: numero totale delle sillabe 11 x 14 =
154). Questi numeri sono anche i valori che venivano utilizzati in epoca medievale per risolvere il problema
del calcolo del rapporto fra il cerchio e i suoi quadrati. Anche Leonardo da Vinci si è occupato di ciò: l’uomo
vitruviano è la traposizione di questa struttura del sonetto. E non solo: nel 2000 è stata attestata anche la
posizione di Desideri, secondo la quale, con riferimento alla struttura culturale della magna curia federiciana,
viene ad essere evidenziato un rapporto stretto con una cultura di tipo giuridico, votata all’equilibrio (le prime
carte giuridiche e i maggiori giuristi si affollavano infatti presso la corte di Federico II): l’8 rappresenterebbe
non solo il valore dell’armonia ma anche quello della giustizia: le due parti che compongono il numero sono
speculari fra loro e hanno un peso identico. Forse non siamo nemmeno geograficamente distanti da una
conferma: non è improbabile che il sonetto, forma poetica, possa trovare una sua spiegazione in un elemento
architettonico: Castel del Monte, voluto da Federico II, ha una pianta ottagonale e le sue solonne sono
ottagonali. Non solo: il castello è definito ‘templum iustitiae’ “luogo sacro della giustizia”. Quello di 8 a 6,
rapporto esistente nella struttura architettonico-decorativa del castello e quello tra le parti del sonetto. Non
abbiamo la possibilità di indicare quale tra le teoria possa essere quella principale, perché siamo nel campo di
ipotesi. È vero che questa propensione numerologica sembra segnalare davvero un’origine di tipo medievale.
* Alla fine del ‘700 Foscolo scrive i Vestigia del sonetto italiano, una sorta di saggio sulla tradizione letteraria di
questa forma metrica, quindi alla fine del XVIII sec. è il catalizzatore di una tradizione poetica che dal
Medioevo non si è mai interrotta tanto che prolifici autori sono i petrarchisci del ‘500, Marino, l’accademia
dell’Arcadia, Alfieri con le sue Rime e Foscolo con le sue poesie del 1803. In tale tradizione ampia e
autorevole (perché fondata sugli auctores) c’è un momento centrale sia cronologicamente che prosodicamente
parlando: i sonetti di Giovanni della Casa, il maggiore dei poeti del petrarchismo del ‘500 e spaiente
modificatore della struttura del sonetto. Sulla base di un esperimento di Bernardo Tasso (padre di Tasso), egli
coglie un’intuizione che Petrarca aveva dimostrato antifrasticamente: per mezzo dell’enjambement riesce a
lavorare con una certa sapienza intorno alla sfasatura tra metro e sintassi: cioè la negazione di questa sfasatura
è la perfetta coincidenza tra metro e sintassi, vale a dire quella di Petrarca: ‘Voi c’hascoltate in rime sparse il
suono’ ha una sintassi chiusa. Tale processo giunge alla massima perfezione con A Zacinto, che sovverte il
modello della quartina petrarchesca (non più rima incatenta ma alternata ABAB-ABAB) e lo schema rimico
delle terzine è ancora su base tre (cioè tre rime differenti) come Petrarca, ma nell’ordine diverso CDE-CED
(non più CDE-CDE). Il dato fondamentale è che per la prima volta si infrange il blocco metrico sintattico fra
quartine e terzine, tant’è vero che si parla di una forma di inarcatura: fra la seconda quartina e la prima terzina
si crea cioè un blocco interno:

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# Leopardi, A Zacinto
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde


col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio


per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,


o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

* Dopo Foscolo il sonetto subisce lungo periodo di stasi sino alla fine dell’800.
* Saba utilizza lo stesso schema, che riproduce il modello petrarchesco. Ma mentre Foscolo modificava la
struttura rimica di quartine e terzine, Saba unisce la novità con il modello petrarchesco. Il sonetto di Saba ha
non più uno schema incatenato ma alternato, però accoglie lo schema fisso delle terzine petrarchesce CDE-
CDE.
* Zanzotto è il creatore dell’ipersonetto, raccolta costituita da una premessa di apertura, una postilla in chiusura
e in mezzo quattordici sonetti, come se ogni sonetto fosse un verso del sonetto.
* Il sonetto italiano verrà esportato nell’Inghilterra elisabettiana e troverà in Shakespeare il catalizzatore di
questo interesse; egli usa tre quartine e un distico (12+2) che ritorna nella tradizione letteraria italiana con la
definizione di sonetto shakespereano, tant’è che in una forma appena diversa viene recuperato da Montale
nella Bufera e altro, cioè nella sezione Finisterre, con cui si apre l’opera. Lo schema shakespereano ha una
rima alternata nelle quartine ABAB-CDCD-EFEF una baciata nel distico GG.
* Lo stesso schema viene ripreso da Montale ma il poeta introduce le rime imperfette / rime ipermetre.

# L’orecchino, Montale.

Non serba ombra di voli il nerofumo


della spera. (E del tuo non è più traccia)
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d'oro scaccia.

Le tue pietre, i coralli, il forte imperio


che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l'iddia che non s'incarna, i desideri
porto fin che al tuo lampo non si struggono.

Ronzano élitre fuori, ronza il folle


mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli
meduse della sera. La tua impronta

verrà di giù: dove ai tuoi lobi squallide


mani, travolte, fermano i coralli.

———————————————-
fUmO-barlUmI (rima imperfetta).
fUggO-strUggOnO (rima ipermetra).
cOntAno-imprOntA (rima ipermetra).
Squàllide-coràlli (rima ipermetra).

* Già all’origine il sonetto (XIII-XIV sec. 200-300), aveva una propensione allo sperimentalismo; non cessa mai
di avere questa vocazione alla sperimentazione.

11







Vediamo le varie forme di sperimentazione:
a) sonetto caudato: è provvisto di coda, costituita da uno, due o tre versi aggiunti allo schema normale: un
endecasillabo che rima con il verso precedente; due endecasillabi a rima baciata, reiterabili (caudato doppio,
sonetto ritornellato); un settenario in rima col verso precedente e due endecasillabi a rima baciata e diversa
(dEE) (se la coda si ripete più volte si chiama ‘sonettessa’). La terzina del sonetto caudato ha un settenario
che rima con l’ultimo verso della seconda terzina e due endecasillabi a rima baciata (dEE). È frequente in un
amico di Boccaccio, Antonio Pucci. Questa tipologia di sonetto ha la propensione allo stile comico, motivo
per cui si innesta con la tradizione di Francesco Berni (‘500). Lo schema principale del sonetto caudato è
ABBA-ABBA-CDC-DCD-d (settenario)EE. Francesco Berni ha addirittura realizzato un componimento di
77 versi che si configura come un sonetto caudato (‘O spirito bizzarro del Pistoia’). La definizione di
sonetto caudato era stata utilizzata da Antonio da Tempo per intendere una forma diversa del sonetto, nella
quale sono inseriti sei versi (quadrisillabi o quinari), di cui quattro in rima fra loro, dopo ogni distico delle
quartine, e due, sempre in rima, dopo la prima e dopo la seconda terzina. Lo schema di da Tempo è:
ABcBAc-ABcBAc-DEFg-DEFg
b) sonetto raddoppiato: è inserito un settenario in rima con l’endecasillabo che lo precede, dopo ogni verso
dispari delle quartine e dopo il secondo verso delle terzine. È composto da quattro quartine e quattro terzine;
è usato particolarmente nel Duecento da Monte Andrea (Meo Sir cangiato veggio te il talento) che ha la
forma di contrasto, struttura strofico-metrica il cui schema è dato dalle quattro quartine in rima alternata
(ABAB), le quattro terzine anch’esse alternate ma suddivise nei versi delle terzine (CDC-DCD-EFE-FEF).
Questo sonetto è un unicum e si chiama “modificazione di Monte Andrea”
c) sonetto rinterzato: si differenzia dal doppio, in quanto un settenario è inserito anche dopo il primo verso
delle terzine: AaBAaB, AaBAaB; CcDdC, DdCcD. È un sonetto molto diffuso e si fa risalire a Guittone. Ci
sono dei sonetti doppi anche all’interno della Vita Nova (O voi che per la via d’Amor passate; Morte villana,
di pietà nemica) in cui Dante inserisce un solo settenario al secondo verso e quinto della quartina (AaBAaB).
d) sonetto rintornellato: è un normale sonetto a cui viene aggiunta alla fine dei quattordici un endecasillabo
che rima con l’ultimo verso. Possiamo trovare l’endecasillabo oppure un distico di endecasillabi che hanno
rima baciata ma al di fuori dello schema delle rime dei versi che precedono; è uno schema rimico tipico del
‘300: ABAB-CDC-DCD-D oppure ABAB-CDE-DCE-FF.
e) sonetto rafforzato ha un verso in più o un distico vero e proprio. Leopardi ha scritto l’Infinito, un sonetto
che ha quindici versi. Potrebbe essere un idillio (appartenere alla tradizione bucolica) ma lo schema metrico
ci permette di distinguere un sonetto rinterzato e rafforzato da un idillio.
Sonetti distinti per verso.
a) sonetto comune è il sonetto che prevede l’uso di endecasillabi o settenari che possono essere variamente
alternati.
b) sonetto sdrucciolo composto da versi sdruccioli (non per forza endecasillabi o settenari); inoltre è una
tipologia di sonetto che può prevedere una mescolanza fra versi sdruccioli e piani, tant’è che Antonio da
Tempo lo definiva sonetus mixus, misto di sdruccioli e piani.
c) sonetto minore è composto da un numero minore di undici versi (ad esempio: un sonetto costituito da
settenari può essere definito ‘sonetto minore’ oppure ‘sonetto settenario’). Alcuni modelli di questo tipo
hanno avuto una decisiva fortuna: per esempio ci sono dei sonetti di settenari nel ‘700 di Domenico
Valestieri, o un sonetto di ottonari definito ‘caudato’; non solo hanno una fortuna nel secolo di appartenenza
(‘700) ma vengono ripresi poi soprattutto fra fine ‘800 e inizi ‘900 da D’annunzio, Pascoli e Corazzini.
Questi versi danno anche un senso alla stilistica, cioè la branca della letteratura che si studia a posteriori e
indica il metodo della composizione; si studia a posteriori perché grazie alla stilistica si possono
comprendere i modelli, loro predecessori, che gli autori come Pascoli e d’Annunzio hanno assunto. Quando
il sonetto presenta solo endecasillabi tronchi viene definito muto perché sembra che manchi l’ultima sillaba
che fa risuonare il verso.
Sonetti distinti per rima.
d) sonetto continuo: quando le rime delle quartine ABAB o ABBA ritornano entrambe o una sola nelle terzine,
che può accadere secondo vari schemi (per esempio: ABAB-ABAB-CAD-CDE).
e) sonetto incatenato è quel sonetto che ha tutti i suoi versi legati.
f) sonetto al mezzo: lo schema rimico rimane invariato ma viene posizionata una rima al mezzo che rima con il
verso precedente.
Sonetti distinti su base linguistica.
g) sonetto bilingue: si trova a metà fra lingua e rima, ha uno schema regolare ma con spie linguistiche,
metriche, artifici retorici di varia natura; è bilingue il sonetto che alterna versi in italiano e versi in lingua
romanza (il provenzale, francese, ladino, catalano, spagnolo, portoghese, sardo, rumeno, franco-provenzale).

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h) sonetto metrico vede l’alternanza di versi in lingua italiana e versi in lingua latina. Per quanto riguarda il
metro, troveremo versi latini, presi dalla letteratura classica, che mantengono però la loro fisionomia
metrica; cioè è un’alternanza di versi in lingua latina e italiana ma anche di metri latini e italiani (ecco
perché si parla di sonetto metrico).
i) sonetto semi-letterato: quando c’è l’alternanza di versi in lingua latina e lingua italiana, ma i versi latini
sono propri dell’autore del sonetto e sono metricamente italiani, cioè endecasillabi, si parla di sonetto semi-
letterato.
j) sonetto retrògrado ha tre condizioni:
i. il sonetto può essere letto da destra a sinistra mantenendo lo stesso significato;
ii. le parole iniziali rimano fra loro secondo lo stesso ordine delle parole finali
Es: rAMO è la parola iniziale del primo verso che rima con la parola iniziale del secondo verso,
grAMO;
sfAMO p parola finale del primo verso che rima con la parola finale del secondo verso, AMO;
iii. ogni verso deve avere un senso compiuto.
k) sonetto ripetuto si ha quando ogni verso coincide con una frase compiuta ma con la particolarità che la
prima parola di un verso riprende la prima parola del verso precedente (tranne il primo).
l) sonetto acròstico: il sonetto di Matteo Maria Boiardo ‘Arte de Amore e forze de Natura’ ne è un esempio:
è cioè un sonetto per cui l’inizio di parola di ogni verso compone con la lettera iniziale l’acrostico di un
nome (nel caso di Boiardo il nome è di Antonia Caprara, la donna amata da Boiardo). Non bisogna
confonderlo con Petrarca quando scrive il nome di Laura, un acrostico ripartito, perché non è all’inizio di
ogni verso bensì in mezzo ai versi.
m) sonetto mònade auto-riflessivo: ha un’inclinazione meditativa, assume cioè una struttura di riflessione
chiusa: non solo ha una sua propria sintassi del metro, delle quartine ma dal punto di vista del pensiero c’è
un clima filosofico suo proprio. Esempio tipico è il prosimetro: il sonetto dantesco Tanto gentile e tanto
onesta pare ha senso solo se letto insieme alla parte in prosa; invece il sonetto petrarchesco spiega la
condizione filosofica nella misura metrica di sé stesso, dei quattordici versi, senza dipendere da altro.
n) I sonetti stilnovistici e petrarcheschi hanno una valenza libera: si occupano di un tema libero, per esempio il
rapporto del nome di Laura con il mito di Dafne in Petrarca, e della venuta di un essere soprannaturale nel
caso di Dante. I sonetti possono essere associati tematicamente, in questo modo la struttura del sonetto viene
utilizzata come una strofa di un componimento più ampio. Un esempio è la tenzone di Dante con Forese
Donati, quella di Boccaccio con Antonio Pucci. Il primo è chiamato sonetto di proposta, in cui viene
indicato un tema filosofico e una posizione sul tema stesso; è seguito da un sonetto di risposta che può avere
o può non avere lo schema rimico del primo.
o) Esistono serie di sonetti, definite corone o collane di uno stesso autore, che sono legati da una medesima
struttura tematica.
La collana più famosa è Il Fiore, attribuita a Dante, di 232 sonetti con rima incatenata per le quartine e una
rima alternata per le terzine (ABBA-CDC-DCD). Seguono: Le Corone di Folgore da San Geminiano, di 14
sonetti; i 12 sonetti di Sahira di Carducci; infine la Corona di Glauco nell’Alcione di D’Annunzio, una
serie di 9 sonetti che vede nelle quartine lo schema incatenato ABBA, nelle terzine lo schema speculare
CDE-CDE. Nella Corona di Glauco sono tipiche le rime in assonanza: la vocale tonica è la stessa ma le
sillabe in rima no.
* Il critico Marazzini nel 1981, proprio per la fortuna del sonetto, ha individuato la sua struttura come una
strofa base di un intero poema (non più collana o corona); ha considerato strofe basi (sonetti) ripetute per il
poema Il Randagio, di Francesco Pastonchi dotato di 365 sonetti.
LA CANZONE.
* La struttura del sonetto può essere considerata una strofa, cioè una parte di una canzone.
Dobbiamo risalire all’origine provenzale della nostra lirica, in cui si riscontravano tre tipi di componimenti:

‣ cansò, componimento strofico considerato ‘tipico’ della letteratura trobadorica, insieme all’argomento, vale
a dire l’amore cortese.
Il genere era definito ‘primario’ nella tradizione trobadorica; al componimento era associata una melodia,
quindi era destinato al canto.
In questo tipo di componimento c’era una strofa utile ad esporre la propria posizione (simile alla tensò/
tenzone).
‣ sirventese, trattava temi originali, morali e politici, ma con una melodia non originale; esso possedeva uno
statuto contraffatto: tema nuovo inserito in una melodia già precedentemente nota.
‣ tensò, componimento che poteva servirsi di melodie presistenti ma verteva su tematiche varie, non fisse,
l’unica codizione era che doveva presentare uno schema dialogico.

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* Ad un certo punto a cansò, sirventese e tensò è sopraggiunta la cobla esparsa, diventata importante nella
tradizione metrica romanza. Dotata di una sola strofa, con stesso schema e stessa melodia (diventa uguale
anche l’argomento, il tema amoroso). Se dovessimo dare una definizione di cobla esparsa, diremmo quindi:
ripetizione di una singola struttura strofico-metrica e melodica, che si ripete uguale a sé e non genera alcuna
novità: ripetendo sempre le stesse strutture, sia metriche, sia melodiche, si genera anche un’unità di tipo
tematico.

* Questo sistema metrico dei trovatori passa nella scuola poetica siciliana ma non in modo uniforme. Viene
quasi abbandonato il genere politico del cirventese perché ci troviamo in strutture politiche forti e
centralizzate, come la magna curia di Federico. Il conflitto tra argomento politico e amoroso nella scuola
poetica siciliana quindi cade, ecco perché la poetica siciliana si fondava unicamente sul tema amoroso.
Dunque sulla base di questa preminenza del tema amoroso le forme trobadoriche disponibili ai siciliani non
potevano che essere molto limitate.

* Il genere di maggior successo presso la scuola poetica siciliana è la canzone, seguito dal sonetto. A partire
dalla tripartizione trobadorica si giunge a una diarchia canzone-sonetto, sul tema monocorde dell’amore. È
opinione ormai accertata che l’origine siciliana del sonetto va fatta risalire proprio alla cobla esparsa
trobadorica, che infatti ripete la forma di occasionalità che la cloba aveva nel sistema dei generi trobadorici.
Quindi è vero che il sonetto può essere definito come una parte della canzone, tuttavia il modello e il tema
fanno pensare più che altro che sia l’ammodernamento siciliano della cloba trobadorica. Questo sistema si
protrae per circa due secoli (fino al ‘300) se non fosse che alla scuola poetica toscana spetta il merito di aver
recuperato un altro genere, cioè quello della ballata.

* Il primo a tentare una definizione e organizzazione normativa dei generi strofico-metrici della prosodia
volgare è ovviamente Dante nel De Vulgari Eloquentia; egli fa una vera e propria graduatoria fra i generi
letterari. Egli dice: «noi riteniamo essere il genere più eccellente fra tutti i generi, quello della canzone». Per
Dante ogni proposta è una questione stilistica, ha a che fare con lo stile. Per Dante la canzone è il genere per
eccellenza perché ad essa spetta lo stile più alto, quello cioè epico ed eroico, non il basso della commedia. Al
secondo posto c’è la ballata, che viene composta in uno stile mediano mentre va detto che il terzo posto che è
occupato dalla commedia, dal punto di vista strofico-metrico è occupato dal sonetto. Quindi esistono due
tipologie di aggettivazione: lo stile (tripartizione: stile alto, mediano, basso e umile) e i generi letterari
(tripartizione: la canzone per l’epica, la ballata per tematiche mediane e il sonetto per la commedia,
corrispettivo di uno stile umile). Quindi nel sistema complessivo presentato nel De Vulgari Eloquentia gli altri
generi vengono definiti privi di regole (=irregolari e illegittimi). La definizione della canzone che Dante dà
nel secondo libro della sua opera è collegata alla tradizione della canzone all’epoca in cui Dante scrive: quella
tardo-duecentesca, che può essere considerata valida oggi (non è intervenuta alcuna modificazione nella
canzone duecentesca). La canzone è collegata all’atto del cantare; è concatenazione in stile tragico di stanze
uguali, senza ripresa, in funzione di un pensiero unitario. Quindi è un gruppo di stanze dalla stessa struttura e
senza ripresa, che esprimono un pensiero unitario; tematicamente infatti devono avere unitarietà e uniformità.
Lo stile tragico distingue la canzone dalla ballata, insieme con la mancanza della ripresa; essenziale è poi il
carattere di testo strofico.

* Nel quarto capitolo del II libro del De Vulgari spiega come deve essere strutturata la canzone (modello della
canzone antica o petrarchesca, il più noto e autorevole, codificato dapprima dal Dante e poi dal Petrarca):

‣ Non deve avere il ritornello;


‣ Deve trattare di argomenti elevati;
‣ È composta da un numero variabile di stanze (strofe) che:
‣ si ripetono più volte (intorno a cinque volte), e che hanno uguale dimensione.
‣ sono costituite da un numero di versi preciso e un preciso schema rimico.
‣ sono di endecasillabi e settenari; Dante sceglie l’endecasillabo perché, come la canzone, è il verso più
perfetto, inoltre è l’unico che può sostenere la trattazione di argomenti elevati ed eccellenti. Se
l’argomento è alto, allora si utilizza canzone. Il manifesto dello Stilnovo non è una canzone (Al cor gentil
rempaira sempre Amore). A livello metrico l’alteranza di endecasillabo e settenario conferma la posizione
di idiosincrasia che Dante nutriva nei confronti dei versi parisillabi, tant’è che Dante accetta nelle canzoni
(lo riprende D’Annunzio, La Pioggia del Pineto) anche il quinario e il trisillabo (Dante usa il quinario
solo una volta, in Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato)
Dopo Petrarca l’endecasillabo e il settenario restano esclusivi.
‣ La diesis consiste nel passaggio da una stanza all’altra della canzone, segnalato dalla rima baciata tra
l’ultimo verso della fronte e il primo della sirima o dal netto mutamento del sistema di rime. Se la stanza ha
la diesis, è divisibile e presenta una ripetizione; se non ha diesis, è indivisibile e non presenta ripetizione

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interna. Tra le canzoni indivisibili, Dante cita la sestina, Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra; e
Petrarca scrive la canzone 29 del Rerum Vulgarium Fragmenta, Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi:

Verdi panni, sanguigni, oscuri o peRSI


non vestí donna unquanCHO
né d’òr capelli in bionda treccia attoRSE, La prima è una stanza indivisibile che ha il seguente schema
sí bella com’è questa che mi spogLIA rimico: AbCDEFg (laddove secondo e ottavo verso sono
d’arbitrio, et dal camin de libertADE senari mentre tutti gli altri sono endecasillabi). Notiamo che
seco mi tira, sí ch’io non sosteGNO nessun verso è collegato per via di rima con altri all’interno
della propria stanza. La seconda stanza ha ripetute le rime
alcun giogo men grAVE della prima stanza: è un artificio provenzale chiamato
‘coblas estrampax’ cioè delle stanze ‘strambe’ perché non
Et se pur s’arma talor a doleRSI hanno una rima che si riproduce al proprio interno, come se
l’anima a cui vien manCHO fossero estrapolate e stanno da sole, ma ripetono il
consiglio, ove ’l martir l’adduce in foRSE, medesimo schema rimico e le stesse rime nelle stanze
rappella lei da la sfrenata vogLIA successive.
súbita vista, ché del cor mi rADE
ogni delira impresa, et ogni sdeGNO
fa ’l veder lei soAVE.

‣ Si possono individuare quattro situazioni in una canzone:


i. per la prima parte: se la parte ripetuta sta prima dello stacco, quindi della diesis, la stanza si dice
suddivisa in due o tre piedi; se prima dello stacco non si attua la ripetizione si dice che la stanza è
indivisibile, quindi ha la fronte, consistente nell’insieme di due o tre piedi.
ii. per la seconda parte: se la parte ripetuta sta dopo la diesis, la stanza si divide in volte (devono
essere uguali per il numero, per la misura e per la disposizione dei versi, es: endecasillabo +
endecasillabo + settenario; endecasillabo + endecasillabo + settenario); se però non c’è diesis, la
stanza è indivisibile e si chiama sirma, cioè l’insieme di due volte (o ‘coda’).
‣ Si possono individuare tre forme di suddivisione della canzone:
i. piedi + sirma (AAB); la stanza si può dividere in due parti principali (Petr., Chiare, fresche…)
(1) la prima consiste di due piedi, due serie di versi dello stesso tipo, nello stesso ordine, che
hanno lunghezza variabile: da 2 a 4 in Petrarca, da 3 a 6 in Dante. I piedi delle fronti si
ripetono cioè uguali, ma lo schema rimico può essere diverso.
(2) la seconda consiste di una sirma (cioè ‘coda’) che non è divisibile in due parti uguali, ed è
perciò indivisibile;
ii. piedi + volte (AABB); la stanza è quadripicata (Dante, Donne
ch’avete intelletto…)
iii. fronte + volte (ABB). Questo suggerisce secondo Beltrami una
struttura di sirma indivisa, che sarebbe in
# Petrarca, Chiare, fresche et dolci acque conflitto con quello che noi abbiamo detto:
Chiare, fresche et dolci acQUE, a cioè il fatto che vi sia una simmetria
ove le belle memBRA b I piede straordinaria ABBC, ABBC, CDD, CEE. Il
verso C e la combinazione finale CDD e
pose colei che sola a me par doNNA; C CEE suggeriscono che la sirma sia di tipo
indiviso. È proprio nella natura della
gentil ramo ove piacQUE, a tipologia della stanza di una canzone che
(con sospir’ mi rimemBRA) b II piede non necessariamente ci si deve trovare a
a lei di fare al bel fiancho coloNNA; C una simmetria e quindi una
quadripartizione. Questo mostra come nella
herba et fior’ che la goNNA c produzione della letteratura delle origini il
leggiadra ricoveRSE d modello della canzone viene canonizzato e
co l’angelico sENO; e reso illustre da Dante e Petrarca e il
aere sacro, serENO, e sirma modello è abbastanza votato a una certa
libertà, per esempio non è obbligatoria la
ove Amor co’ begli occhi il cor m’apeRSE: D presenza di una chiave e del congedo; la
date udïenzia insiEME f canzone delle origini presenta anche forme
a le dolenti mie parole estrEME. f di rima irrelata. Alfredo Stussi ha
individuato nella canz. Quando eo stava
# Dante, Donne ch’avete intelletto d’amore nelle tuh catene la canzone italiana più
Donne ch'avete intelletto d’amORE, A antica, risalente alla scuola siciliana.
i' vo' con voi de la mia donna dIRE, B I piede Questa canzone è in decasillabi con
non perch'io creda sua laude finIRE, B schema alternato per i primi sei versi
ma ragionar per isfogar la meNTE. C ABABAB e schema CCCD negli ultimi.
La prima parte ABABAB ha fronte
divisibile in tre piedi.
Io dico che pensando il suo valORE, A

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Amor sì dolce mi si fa sentIRE, B II piede


che s'io allora non perdessi ardIRE, B
farei parlando innamorar la geNTE: C

E io non vo' parlar sì altameNTE, C


ch'io divenisse per temenza vILE; D I volta
ma tratterò del suo stato gentILE D

a respetto di lei leggerameNTE, C


donne e donzelle amorose, con VUI, E II volta
ché non è cosa da parlarne altRUI. E

‣ Dante definisce concatenatio la rima che collega il primo verso della sirma con l’ultimo del secondo piede
(vd. Petrarca), quindi che collega fronte e sirma; si è stabilita con Dante e dopo di lui è raro che manchi.
Questa figura si chiama ‘chiave’(per Dante assume altro significato).
# In Donne ch’avete… il verso chiave è C, la cui rima si ripete in tutte e quattro le parti in cui la stanza è
divisa.
‣ Dante parla di chiave ammettendo che uno o due versi della sirma non rimino entro la stanza, ma trovino
corrispondenza nelle altre stanze.
‣ Dante parla di combinatio per intendere la rima baciata che unisce gli ultimi due versi della sirma. In Donne
ch’avete… la combinatio è data da vui / altrui (rima baciata).
‣ La forma della stanza indivisibile, senza stacco nè ripetizione è quella che noi definiamo oggi ‘tradizionale’.
‣ Per quanto riguarda la terminazione delle rime, normalmente variano da una stanza all’altra ma mantengono
inalterato lo schema. Questo riprodurrebbe, secondo la notazione di Antonio da Tempo, il modello provenzale
delle coblas singulars (‘stanze singolari’): ogni strofe ha le proprie rime, che non si ripetono nelle successive.
Questa particolarità dello schema rimico che si ripete identico nelle stanze ma con rime diverse non è un
vincolo che troviamo nella prosodia italiana. Esiste anche il caso in cui le rime non cambiano e seguono il
coblas unissonans (‘stanze che hanno stesse rime e stesso schema rimico’, es: ABC-ABC): all’opposto delle
precedenti, ricorrono in tutte le strofi le stesse rime.
‣ La canzone può essere conclusa da un congedo, un raggruppamento di misura variabile di versi che riprende
la stessa misura sillabica e lo stesso schema rimico della sirma. Questa struttura così complessa della canzone
è quella che Dante trasporta dalla poesia trobadorica alla lirica duecentesca e che entra nell’uso degli
stilnovisti dai siciliani (quindi esperienza di tipo trobadorico). In generale una caratteristica della poesia
italiana va verso una omogeneizzazione delle forme: ripetizione di forme consolidate (invece i trovatori
avevano una maggiore vocazione per la mutevolezza e la sperimentazione). Il termine dantesco è tornata.
L’uso del congedo era indirizzato al destinatario. Questa strofa, che di solito è un distico, ha forma e misura di
versi varia nell’antichità, mentre dopo l’opera di Bembo (che fonda la poesia sull’oepra di Petrarca) assume
una misura più fissa che vede l’alternanza di settenario ed endecasillabo.
Per esempio la canzone di Dante, Così nel mio parlar voglio esser aspro:

Così nel mio parlar voglio esser asPRO


com’è ne li atti questa bella peTRA,
la quale ognora impeTRA La canzone è composta da sei stanze di tredici versi ciascuna; i
maggior durezza e più natura crUDA, versi alternano endecasillabi e settenari. La stanza ha una
e veste sua persona d’un diasPRO fronte di otto versi, con schema rimico AbbC; la seconda parte
della fronte ha lo schema ABbC: ciò che varia tra la prima e la
tal che per lui, o perch’ella s’arreTRA, seconda parte è la lunghezza del verso perché c’è un settenario
non esce di fareTRA in meno. Questo schema rimico della fronte si ripete nelle altre.
saetta che già mai la colga ignUDA; Il verso che chiude la fronte ha un punto e virgola, cioè un
ed ella ancide, e non val ch’om si chiUDA punto di divisione che dava un senso di sospensione maggiore;
né si dilunghi da’ colpi mortALI i versi però sono scritti uno dietro l’altro non c’è alcun stacco.
Il congedo della canzone ha in questo caso cinque versi e non
che, com’avesser ALI tredici come le altre (ha la stessa lunghezza di una sirma): è
giungono altrui e spezzan ciascun’aRME: una stanza di congedo coincidente con la sirma.
sì ch’io non so da lei né posso ataRME.
[…]
Canzon, vattene dritto a quella doNNA
che m’ha ferito il core e che m’invOLA
quello ond’io ho più gOLA
e dàlle per lo cor d’una saeTTA,
ché bell’onor s’acquista in far vendeTTA.

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‣ I meccanismi di collegamento delle stanze: si può far riferimento alla tradizione prosodica provenzale; infatti
già nella letteratura provenzale erano stati trattati meccanismi di divisioni di stanze.
ii. coblas capfinìdas: una o più parole dell’ultimo verso della stanza sono riprese nel verso della stanza
seguente. Al cor gentile rempaira sempre amore: la prima stanza ha dieci versi; all’interno della stanza e
nel collegamento con la seconda stanza possiamo individuare la parola ‘foco’ che chiude la prima stanza
ma è anche la stessa che apre la stanza successiva. Meno forte è il ricorso alla coblas capfinidas tra la
seconda e la terza stanza, dove ‘nnamora’ e ‘Amor’ rappresenta lo stesso schema che c’è tra la prima e
la seconda stanza.
iii. coblas capcaudadas (‘con coda collegata’): si ha quando il primo verso della stanza rima con l’ultimo
verso della stanza precedente.
iv. coblas capdenals: ha una caratteristica visivamente emblematica perché tutte le strofe iniziano sempre
con la stessa parola. L’esempio più famoso è l’ultima canzone del Canzoniere di Petrarca che vede il
ritorno all’inizio delle stanze di ‘vergine’
v. coblas unissonans: si presenta quando le rime della stanza sono ripetute esattamente nello stesso ordine
in tutte le altre stanze.
È un caso frequente in Iacopo da Lentini; la sua canzone Poi non mi val merzè ne bel serivre presenta
due elementi provenzali: coblas unissonans (es: ABCDEF quindi schema uguale in tutte le stanze) e
coblas capfinidas.
Tutti questi meccanismi testimoniano l’influenza provenzale!
vi. coblas estrampas: come la rima estrampa, presenta rime che non trovano corrispondenza nella stanza
stessa ma in tutte le altre.
Petrarca, Rerum Vulgarium fragmenta, Verdi panni, sanguigni..: il primo verso della prima stanza rima
con il primo verso di tutte le altre stanze.
vii. coblas doblas: ‘doppia’ si ha quando lo schema rimico si ripete ogni due stanze; è raro in letteratura
italiana e ricorre in una canzone duecentesca di Guido Orlandi ‘Amor patir non oso’.
viii. coblas singole (più diffuse nella nostra tradizione) hanno uno schema rimico invariato in tutte le stanze
ma con delle rime che possono variare di stanza in stanza.

* Nella cansò provenzale la sola regola fissa, contemplata necessariamente, era l’uguaglianza delle coblas
(‘stanze’) per il numero di versi, versi della stessa misura e stesso schema rimico. Nella canzone italiana
invece c’è una maggiore varietà (si pensi alla stanza di congedo); inoltre il rapporto con la musicalità delle
coblas provenzali è diverso dalla tradizione italiana dal momento che, i trovatori, sempre o in maneira
predominante, erano anche dei musici. A confine tra tradizione provenzale e taliana si collocano le coblas
sparse, stanze isolate, singole; è una tradizione vigente almeno fino a Dante, che le cita due volte nel De
Vulgari Eloquentia, ricordando tra l’altro un esempio tratto da Cavalcanti. Ripetiamo che è a Dante che si fa
risalire la superiorità della canzone e la sua sistemazione definitiva. Anche il verso contenuto nella canzone,
l’endecasillabo, gode di superiorità. È poi con Petrarca che la canzone diventa una forma di tipo esemplare.

* Nell’ambito della canzone trecentesca, Petrarca privilegia sette stanze. Nel trecento lo schema più diffuso è
ABbC-ABBC-CDd-CEE, dove i versi 3, 6 e 9 sono settenari. Molte sono le eccezioni, contemplate soprattutto
in Petrarca, codificatore di questa tradizione; predilige piedi, cioè raggruppamenti di versi, di tre versi, quindi
terzine. Il modello è la canzone 126, Chiare, fresche e dolci acque. Lo schema rimico di questa canzone è:
abCabCcdeeDfF. Grazie alla codificazione petrarchesca e bembesca (con il petrarchismo) la canzone
confluisce nella scrittura poetica del rinascimento e quindi del ‘500. Per esempio Tasso è uno dei petrarchisti.
Il modello della canzone petrarchesca si procastina nelle epoche letterarie successive soprattutto grazie alle
sue opere politiche; ritorna nell’Ode a Parigi sbastigliato di Alfieri, l’Ode a Bonaparte liberatore di Foscolo,
all’Italia di Leopardi; anche Carducci in Iuvenilia e D’annunzio nell’Elettra e in Alcyone riprendeono lo
schema della canzone ‘Italia mia’ di Petrarca, che ha il seguente schema: AbC-BaC-cDEeDdfGfG.

* Francesco di Vannozzo ha scritto la canzone più lunga, dotata di ventuno stanze. Ciro da Pistoia e Dante
hanno una prevalenza di quattordici versi, sovrapponibili al modello del sonetto. Un numero raggiunto è anche
quindici (gli idilli di Leopardi, es. Infinito, hanno quindici versi).

LA CANZONE LIBERA.

* La canzone, più di altre forme prosodiche, ha propensione alla sperimentazione. A tal proposito, la più
stravagante è Amorum libri di Boiardo, che consta quattordici canzoni con schemi metrici diversi: la canzone
50 ha sette stanze di sette versi, in ognuna delle quali viene applicato il principio della retrogradazione, con un
punto di simmetria individuato nel verso 25, in cui le rime della prima parte (1-24) vengono riprodotte nella
parte successiva della canzone, fino a che non compiono un giro completo.

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* Nel corso del ‘500 la diramazione tra canzone classicheggiante e canzone innovativa diviene effettiva tant’è
che si può riconoscere una via classicheggiante che approda alla canzone-ode. Il rapporto fra fronte e sirma
diventa meno legato, meno sottoposto a vincoli di tipo prosodico, metrico e strofico. Alla fine del ‘600 con
Alessandro Guidi si parla di una vera e propria infrazione del principio alla base della canzone
dell’uguaglianza tra strofe; egli dà origine alla canzone A selva, che utilizza strofe libere. La sua canzone è la
prima forma di rottura (seconda metà del ‘600) nei confronti della tradizione. Questa canzone ha ispirato
Leopardi per la formulazione della sua canzone libera.
La canzone di Guidi presenta le seguenti caratteristiche:
ix. le stanze sono disuguali per numero e per disposizione di versi (che rimangono endecasillabi o
settenari);
x. lo schema rimico presenta un alto numero di versi irrelati;
xi. un elemento che ritorna è la chiusura della stanza con un distico finale in rima baciata .

* La canzone libera leopardiana non avrebbe senso nè senza la tradizione delle origini nè senza la novità di
Guidi. Le prime dieci canzoni dei Canti di Leopardi sono caratterizzate da:
i. numero uguale di versi da una stanza all’altra;
ii. uguale schema rimico, tranne che per la canzone all’Italia e Sopra il monumento di Dante, due canzoni
civili, in cui c’è l’alternanza di schemi diversi, ma in ogni caso lo schema di entrambe le canzoni alterna
uno schema per le stanze dispari e uno schema per le stanze pari, ristabilendo una sorta di simmetria. Ad
Angelo mai ha una stanza indivisibile ed è una canzone che rappresenta un modello vicino a quello
dantesco e a quello petrarchesco. Invece nell’Ultimo canto di Saffo troviamo una stanza di diciotto versi,
con 16 endecasillabi sciolti, irrelati, e 2 versi (settenario ed endecasillabo) a rima baciata. L’inno ai
Patriarchi è costituito in modo costante da endecasillabi sciolti, utilizzati anche negli idilli (Infinito, La
sera del sì di festa, Alla luna).

* La prima manifestazione della canzone libera leopardiana si ha con A silvia (1828), costituita da sei stanze non
uguali fra loro, con settenari o endecasillabi e schemi rimici liberi e irrelati (la rima può esserci ma può anche
non esserci, non c’è un ordine simmetrico). A Silvia ha anche elementi suoi propri: ogni stanza della canzone
ha sempre inizio con un settenario irrelato, cioè verso minore per ampiezza e con una rima che non si ritrova
nel resto; l’unica eccezione ricade nella penultima stanza, che inizia con tre endecasillabi sciolti (veRNO,
viNTA, vedEVI). Per quanto riguarda la canzone, ogni stanza che inizia con settenario termina con settenario
legato da rima (avEVI, solEVI: rima baciata che però non necessariamente viene ripetuta in modo
obbligatorio). La prima stanza: settenario, endecasillabo, settenaio, endecasillabo, endecasillabo, settenario.

# Leopardi, A Silvia

Silvia, rimembri ancora


Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avEVI.
Era il maggio odoroso: e tu solEVI
Così menare il giorno.

Incipit dell’ultima stanza:

Tu pria che l'erbe inaridisse il veRNO,


Da chiuso morbo combattuta e viNTA,
Perivi, o tenerella. E non vedEVI
Il fior degli anni tuoi;

* Anche altre canzoni, come il Passero solitario, il Canto Notturno del pastore errante, la Ginestra ecc. hanno
la caratteristia che l’ultimo verso è quasi sempre in rima, a volte baciata (nel Canto notturno ogni stanza è
conclusa da una rima in -ALE, dove in modo particolare nell’ultima stanza la parola ALE è anche alla punta
del primo verso).

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* Nel passaggio dalla canzone tradizionale a quella libera resta la divisione in strofe, l’uso di endecasillabi e
settenari; e per quanto riguarda Leopardi la divisione in strofe nella maggior parte dei casi,
petrarchescamente, coincidono con blocchi tematici (il verso endecasillabo nel sonetto, nel passaggio da
Petrarca a Leopardi si trasforma in un’unitarietà della strofa che coincide con forme di unitarietà di tipo
tematico e argomentativo). La canzone libera vede in sette casi l’estensione ridotta dell’ultima strofa, che
funge da sentenza massima conclusiva, tant’è che è stato identificato in essa una sorta di congedo della
canzone tradizionale (ma il congedo tradizionale aveva una strofa più vicina a quella della stanza normale,
cosa che quella leopardiana non ha).

* Il panorama critico è concorde nell’assegnare un ruolo di tratti di unione da Petrarca a Leopardi ad Alessandro
Guidi, poeta definito ‘mediocre’ ma che conferisce a Leopardi l’idea di un impiego sistematico delle canzoni,
sia nella forma antinarrativa sia nella forma antidialogica, sia nella forma più libera relativa all’utilizzo di
strofe libere.

* Non esiste una regola nella canzone libera; ognuna ha una regola sua propria.

LA CANZONE-ODE

* Un elemento centrale dell’evoluzione di questo genere sta nel passaggio rinascimentale e poi seicentesco
(‘500-0600). Esiste la ‘canzone ode’; l’ode nella poesia classica era una lirica accompagnata dalla musica che
poteva presentare una certa varietà di metri e che il ‘500 italiano riprende proprio per questa freschezza non
solo della struttura agile ma anche per la possibilità di mantenere l’accompagnamento musicale. Questa
canzone-ode è un componimento che:

iii. ha stanze uguali per numero di versi, per disposizione degli stessi (endecasillabi e settenari) e per
schema metrico e rimico. Questa ripetitività delle stanze avvicina l’ode alla canzone petrarchesca, che
nella maggior parte dei casi ripete la stessa struttura;
iv. ha una estensione minore delle stanze (rispetto alla canzone petrarchesca) e non ha divisione in piedi
e sirma: è un aggruppamento di versi identici senza divisione di piedi e sirma.

* L’iniziatore di questo genere, che ha come modello Orazio, è Bernardo Tasso, padre di Torquato Tasso.
Nelle sue odi del 1560 arriva a utilizzare sette schemi diversi, cioè sette tipologie di stanze diverse, con una
prevalenza dello schema ABBAA (verso singolo più due coppie di versi a rima baciata). Egli non ricorre mai
alla strofa tetrastica di endecasillabi e settenari (strofa di quattro versi endecasillabi e settenari), che è la più
vicina a Orazio ma è anche quella che ripete lo schema della canzone petrarchesca. Ma tasso non la utilizza
mai. La strofa tetrastica era stata usata da Bembo negli Asolani. Uno schema proposto da Bernardo , che
rifiuta il tetrastico, è quello pentastico: strofa di cinque versi che ha un grande successo perché riprende la
forma del poeta spagnolo, Garcilaso, forma che diventa famosa con il nome di LIRA (lo strumento musicale).
Lo schema rimico della strofa è aBabB e si ripete uguale nelle canzoni. La strofa pentastica ritorna anche in
altre opere di Bernardo ma raggiunge il vero successo alla fine del secolo con Gabriello Chiabrera (‘600) che
riprende strofe tetrastiche e strofe esastiche di sei versi con alternanza di endecasillabi e settenari e con
permanenza del distico finale in rima baciata.

L’ODE / CANZONE PINDARICA

* Il caso è da riconoscere in un altro modello: la canzone pindarica, definita ODE pindarica.

i. alterna endecasillabi e settenari;


ii. è formata da tre parti: strofe, antìstrofe (le prime due uguali per numero di versi, schema metrico e
rimico) ed epòdo (struttura a sè stante).

* L’ode pindarica nasce nel ‘500 in virtù della prima pubblicazione delle opera di Pindaro presso l’editore
Manuzio ad opera di Trìssino (che la utilizza in una sua tragedia). C’è dunque una tradizione secondaria della
canzone che è meno nota ma paradossalmente più attiva.
Alcune canzoni di Trissino presentano una struttura che si ripete: hanno sei stanze (numero ridotto, tipico
della canzone pindarica rispetto alla più lunga canzone petrarchesca) e schema rimico alternato: prima e
seconda, quarta e quinta sono unite da uno schema identico; terza e sesta ne hanno uno loro. Questo
sembrerebe riprodurre lo schema della canzone pindarica, suddivisa in strofe, antistrofe e epodo (prima
seconda, quarta quinta, terza sesta). Luigi Alamanni scrive stanze a tre a tre, definite dallo stesso: ballata,
contraballata e stanza. Ciò che era strofe, antistrofe ed epodo, diventa ballata, contraballata e stanza. Una
terza ipotesi è di Sebastiano Minturno che, esaltando le vittorie di Carlo V , nel 1535 chiama queste
ripartizioni di stanze volta, rivolta e stanza.

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* La struttura prevalente è la prima, utilizzata da Chiabrera, cioè la tradizionale divisione in strofe, antìstrofe ed
epòdo.

* Pascoli (‘800) si ispira direttamente al modello greco antico di Pindaro; Pascoli infatti è uno sperimentatore
(come il maestro Carducci) di forme metriche pindariche, sia nel proemio dei Canti di Castelvecchio con l’ode
pindarica ‘La Poesia’ e soprattutto in Odi e in Inni. Pascoli sposta lo studio pindarico oltre che nelle strutture,
sullo studio dei versi; introduce il novenario con accenti fissi in seconda, quinta e ottava; introduce i senari
con accenti fissi in seconda e quinta; i ternari con accento in seconda. Questi versi messi insieme determinano
un costante ritmo di tipo dattilico.

# Pascoli, Poesia
Io sono una lampada ch’arda (novenario)
soave! (ternario)
la lampada, forse che guarda (novenario)
la veglia che fila (senario);

L’OTTAVA RIMA

* Si definisce ottava rima una strofa composta da endecasillabi rimati secondo lo schema ABABAB-CC:
sestina a rima alternata, distico a rima baciata. Intorno alla paternità di questa strofa esiste un ampio dibattito
critico. Possiamo riassumere la storia di questo raggruppamento di versi risalendo alle opere che per prime
hanno usato questi versi: Cantare di Florio e Biancifiore (1343 o qualche anno precedente); il Filostrato di
Boccaccio, 1335, che fa parte delle opere giovanili scritte durante la permanenza a Napoli, primo poema in
ottave che riproduce una forma metrica che è quella della canzone stilnovistica con modello Dantesco del
‘200. La caratteristica di quest’opera è quella di avere:
iii. una fronte composta da endecasillabi;
iv. una sirma con combinatio del distico finale.
* È questione ancora discussa se:
- l’invenzione del metro risalga a Boccaccio, che lo avrebbe derivato dalla stanza della canzone;
- se esso si sia prima affermato nei cantari, che avrebbero sviluppato la tradizione delle laude, e quindi
forme derivate dalla ballata.

* Le due ipotesi sono simili dal punto di vista formale, perché fra stanza di canzone e stanza di ballata non c’è
grande differenza, ma divergono dal punto di vista storico-letterario. La derivazione dalla canzone comporta
un’origine letteraria: Boccaccio avrebbe preso a modello testi lirici francesi, o sarebbe partito da una canzone
di Cino da Pistoia, La dolce vista, che si ritrova riscritta in ottave nel Filostrato. La derivazione dalla lauda e
dalla ballata porta verso un repertorio di impronta popolare, nel quale è in uso una versificazione simile a
quella dei cantari. Un sostegno a quest’ultima ipotesi viene dalle ottave isolate del Trionfo della Morte di Pisa,
che potrebbero essere più antiche del Filostrato, e in ogni caso difficilmente ne possono dipendere; a
Boccaccio si può d’altro canto attribuire la codificazione del metro per gli sviluppi successivi. Infatti di sicuro
in Boccaccio si riconosce l’uso originale e sperimentale di questo metro tanto che lo si ritrova sia nel Ninfale
Fiesolano sia nel Teseida. Quello di Boccaccio è un primo avvio che si traduce in un modello che pone questa
struttura come una narrazione a latere di una tradizione narrativa di tipo popolareggiante. Questa struttura
strofica agevole e semplice permette uno scambio con la letteratura coeva. Anche dal punto di vista metrico, si
pone in antitesi con i suoi coevi. Boccaccio, se non il primo ad usarla, è il primo a normarla in forma regolare.

* Questa tendenza letteraria contrasta il ricorso al fenomeno dell’anisosillabismo, uso di computi sillabici
diversi all’interno di una medesima tipologia metrica. Questa caratterizzazione è sintomo della tendenza
popolareggiante che Boccaccio cerca di rifuggire. Il ricorso a rime imperfette era dovuto alla sede dei cantari,
che non prevedeva una struttura regolare, perché votata ad essere recitata/cantata difronte ad un pubblico
popolare. L’ottava canonica invece era una pratica letteraria e quindi scritta che contrastava la modularità dei
cantari.
* Questo metro è caratterizzato dalla versatilità: a differenza della struttura canonica della strofa di una canzone
che prevede riuso ricorrente delle rime nelle varie strofe, l’ottava rima rappresenta un blocco unico e
assestante, del tutto indipendente dalle altre stanze. Appartiene al genere epico il Teseida, mentre il Ninfale
Fiesolano si definisce esempio di quella poesia rusticale da cui si muoverà persino la poesia rusticale
quattrocentesca di cui esistono delle derivazioni/deterioramenti a livello gergale con una straordinaria
ricchezza espressionistica che stabilisce e determina l’uso di un linguaggio gergale che rimane fino al barocco.

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Esistono componenti tra loro diverse, che spaziano dalla letterarietà di Boccaccio fino all’espressionismo e
forme insolite del Barocco.
* L’ottava rima ha una confluenza di interessi che viene assorbito da Poliziano per le Stanze, poemetto scritto in
occasione della vittoria della giostra di Lorenzo, ma ha addirittura la possibilità di essere usata da Lorenzo dei
Medici nella sua Ambra, favola mitologica con argomento mitologico.
* Il carattere narrativo della ottava rima, sia nel poema che nella poesia, rappresenta uno straordinario anello di
congiunzione tra queste due forme molto lontane tra loro. Questa vocazione narrativa, perfettamente unitaria
ma anche molteplice, viene a trovare il suo naturale campo di interesse nel poema epico del ‘400 e ‘500, come
Orlando innamorato di Boiardo o il Morgante di Pulci ad esempio. Maggiori esponenti sono Ariosto,
campione della pluralità di piani narrativi, mentre Tasso campione della unitarietà. Possiamo far assurgere a
modello della ottava rima quella che è stata definita da De Robertis “armoniosa rima” di Ariosto contrapposta
alla “franta, intarsiata, ricca, disuguale, intimamente disarmonica” di Tasso. Ariosto nell’ Orlando Furioso
ricorre ad un uso dell’ottava rima con una struttura regolata sintatticamente secondo una unità di aggregazione
simmetrica; sembra procedere per distici con una differente possibilità di aggregazione. La struttura di base
della ottava è suddivisa per distici con un ampliamento attraverso forme di aggregazione che possono variare
da abbinamenti di 4+4 oppure di 6+2.
Stanza 103 del XXIII canto dell’Orlando Furioso, Canto della pazzia.
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
Il caso è diverso per la scrittura di Tasso. Stanza 75 del XII canto della Gerusalemme Liberata.
Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi
Rai miro ancor di questo infausto die?
Dì testimon de’ miei misfatti ascosi,
Che rimprovera a me le colpe mie.
Ahi man timida e lenta, or che non osi,
Tu che sai tutte del ferir le vie,
Tu ministra di morte empia ed infame,
Di questa vita rea troncar lo stame?
* La scrittura di Tasso è dal punto di vista sintattico più complessa, priva di armonia. Questo è quello che Tasso
fa per riprodurre l’ansia e la spezzatura dell’animo attraverso la spezzatura del verso. La sintassi metrica
riproduce quella psicologica. Questo modello narrativo nella tradizione e poi cavalleresco tra 4/500 viene
accolto nel ‘800 dal poema eroicomico il Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi o l’Adone di Marino,
poema che contra di 5.000 stanze, opera più grande della letteratura italiana, tutte in ottava rima. Questo
modello, quindi, attraversa una parabola plurisecolare, giungendo fino all’800 con opere meno note come
quelle di Monti o quelle di Leopardi nella Paralipomeni della Batracomiomachia, modificata nella sestina
narrativa.
IL MADRIGALE.
* Forma metrica che ha avuto una sfumatura musicale. Ci sono due tipi:
i. trecentesco, definito come una serie di pochi terzetti, in un numero variabile tra due e cinque, conclusa
da un ritornello in distico; questi ritornelli si possono ritrovare anche in forme monostiche o distici in
coppia (fino a 4 versi). Questi terzetti hanno uno schema rimico libero e vario per lo più endecasillabi
ma a volte alternati ai settenari secondo uno schema libero. Questa forma è nata nell’ars nova, una
specie di maestri intonatori/cantori, che avevano bisogno di ricorrere ad una strofa più concisa e lineare
rispetto al sonetto o alla ballata. I più antichi risalgono a Petrarca con una occorrenza di quattro nel
Rerum Vulgarium Fragmenta, composti di endecasillabi variabili tra 8 e 10. Questi hanno uno schema
rimico diverso; il madrigale 52 ABA BCB CC. Gli altri presentano un distico in coppia a rima baciata e
3 terzetti secondo uno schema ricorrente ma diversa tra loro cioè ABB ACC CDD. Il più lungo, 54, è
composto da 3 terzetti più un monostico secondo lo schema ABA CBC DED E.

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ii. cinquecentesco: definito madrigale modern; ha forma assai diversa dalla forma precedente. È
caratterizzata da forme ancora più libere. Normalmente è composta da una sola strofa che può
presentare forme di eterometria, pluralità di metri, e una libertà rimica. Le rime hanno perlopiù una
tendenza alla rima facile o alla rima baciata, caratterizzata da un certo uso di versi irrelati. Se vogliamo
riconoscere un vincolo a questa forma è quella di non superare la misura limite dei 12 versi; la più
frequente è attestata tra 7 e 11 versi perché oltre i 12 versi si sarebbe sovrapposta al sonetto. Infatti,
nella forma moderna il madrigale è facilmente scambiabile per un sonetto. Questo complica gli studi
metrici perché alla stessa denominazione non corrisponde necessariamente la stessa forma.
* Luigi Cassola, nel 1544, ha pubblicato il primo canzoniere fatto di soli madrigali e rappresenta la cifra
peculiare del grande successo che il madrigale che ha in questo tempo. Tra i tanti Tasso e Marino si sono
cimentati in queste forme. Io non posso gioire e Al vostro dolce azurro: due madrigali di Tasso che hanno
schemi metrici tra loro diversi. Lo schema del primo è: aA bC bC bA, lo schema del secondo: abB ccD dEE.
Carducci e Tommaseo recuperano alla fine dell’800 la forma del madrigale antico che passa nella poesia di
Pascoli in Myricae e in D’Annunzio. Qui abbiamo invece una forma prevalente che è caratterizzato da due
terzetti e una quartina secondo uno schema metrico più frequentante di unici endecasillabi ABA CBC DEDE.
Esso ritorna in Penna e in Saba che riproducono schema tutto di endecasillabi regolari ABA CBC DED FEF
GHG H con una rima ricorrente presente a coppie di terzetti. I terzetti di Saba presentano una libertà con
l’assonanza invece che la rima che riguarda solo il verso uno e tre.
* L’origine del termine ‘madrigale’:
1. madrialis, che stava ad indicare la poesia dei pastori. Questa origine è presente nella summa di
Antonio da Tempo del ‘200.
2. Gidino di Sommacampana nel ‘300, a cui si ispira anche Bembo, sostiene l’origine a partire dal
termine “materiale”.Entrambe le forme richiamano alla poesia boschereccia della poesia latina e greca.
3. matricalis, materno in latino, è una altra ipotesi. Bruno Migliorini dà una sfumatura intesa come Canto
in lingua materna, forse ninna nanna, basandosi sul derivativo veneto dell’aggettivo latino. Questo
avrebbe acquisito la sfumatura di ingenuo, naturale.
4. siste una posizione etimologica che lo associa a matrix = la chiesa matrice o cattedrale, luogo nel quale
operavano dei compositori polifonici. Questa è l’unica struttura strofica che presenta flessione
femminile, la madrigalessa, che si rifà al modello cinquecentesco, che viene a crearsi attraverso
l’alternanza libera di endecasillabi e settenari, però di grandissime estensioni. Il Lasca ha composto una
Madrigalessa di 73 versi, che è un numero ben al di fuori della norma che abbiamo visto attestarsi fin
ora. Madrigalone, altra forma derivativa prodotta dal Lasca, avvertendo però che sono entrambi di
variatio non identificabili, poiché in questo caso sono 72 versi.

IL MONTETTO.

* è un genere che esiste anche in musica nella Francia medievale introno all’anno mille e che ha una tradizione
musicale polifonica.
* Il mottetto letterario è caratterizzato dalla brevitas nelle dimensioni con metri vari. Il tema può essere o
giocoso o sentenzioso.
* Il mottetto delle origini è da ritrovarsi nella raccolta di 50 componimenti all’interno dei documenti di amore di
Francesco da Barberino, chiamati mottetti. Sono strofe isolate che variano dai 2 ai 8 versi, di cui 23 su 50 è
fatto di 3 versi, da non confondere con terzine per via del loro essere isolati.
* Mottetto deriva da piccolo motto, quindi espressione sentenziosa/gnomica.
* A Cavalcanti veniva attribuito il componimento “giacomo quel guido saluti” che però è stato definito poi
come una strofa ritmica.
* I mottetti di Montale, 20 all’interno della raccolta delle Occasioni, presentano uno schema prevalente
costituito da 2 quartine eterometriche, con una prevalenza di endecasillabi e settenari, con uno schema rimico
altrettanto vario. Esiste uno schema perfetto solo in 8 casi, cioè 6+6 versi, oppure uno schema approssimato in
cui sono presenti strofe con 5+4, 5+6, 4+5, 7+5. Rappresentano uno dei momenti più alti della poesia del ‘900
e della ars poetica di Montale. Questi non riproducono propriamente la tradizione, tuttavia dimostrano un
certo virtuosismo prosodico e linguistico che cercano di emulare la tradizione fonica e non quella poetica.
Possiamo identificare due tempi brevi che vengono rappresentati da diverse scale timbriche; il più noto è Non
recidere fiore quel volto: ABAc DAeC
Non recidere, forbice, quel volto, Recidere e forbice hanno una certa omofonia come in nella e
solo nella memoria che si sfolla, sfolla. Più chiara è la iuctura (ripetizione) della parola cala con
cicala. Mottetto d’esempio che permette di affermare che la
tradizione a cui fa riferimento è quella musicale

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non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala… Duro il colpo svetta
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
LA BALLATA.
* Ha una struttura strofica mediana. Nel De Vulgari Eloquentia è considerata struttura strofico/metrica superiore
rispetto al sonetto e inferiore alla canzone. È tutta italiana perché nella tradizione metrica delle altre letterature
romanze è poco attestata e con poca identità poetica.
* La forma della ballata compare tra Duecento e Trecento ma non passa attraverso il filtro della lirica siciliana,
come accade nelle altre forme. Riceve fortuna alle origini nell’ambito della poesia colta, tuttavia si sviluppa
poi in una forma molto più popolareggiante. Proprio per la sua natura popolare, viene recuperata da Carducci,
Pascoli e D’Annunzio.
* Era all’origine un genere dedicato esclusivamente al ballo, questa è la motivazione per cui Dante ritiene che la
ballata vada considerata come inferiore rispetto alla canzone che era di per sé legata all’atto del cantare mentre
la ballata era legata alla coreutica, alla danza.
* La ballata è un testo in strofe o stanze, la cui struttura, nella forma più tipicamente italiana, ricorda da vicino
quella della stanza della canzone. Caratteristica essenziale è la presenza di una ripresa/ritornello, che precede
il testo e, nell’esecuzione musicale, viene cantato fra una stanza e l’altra, se le stanze sono più di una, e alla
fine. L’ultima rima della stanza riprende la rima finale o un’altra rima della ripresa; è caratteristica della
ballata il fatto che tutte le stanze, se sono più d’una, terminano con la stessa rima.
# Cavalcanti, Perch’i’ no spero di tornar giammai
Perch’i’ no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’ a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.
Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli’ e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.
* La prima ballata è di Guittone d’Arezzo, di argomentazione religiosa, raccolta e modificata da Jacopone da
Todi, con cui assume un sistema strofico che ha uno schema rimico particolare, che può essere sottoposto a
varie varianti. È suddiviso in raggruppamenti tetrastici (4 versi) con schema tipico AAAX BBBX CCCX,
quindi tre versi in rima baciata.
* Nella summa di Antonio da Tempo è operata una distinzione in virtù della ripresa; possiamo distinguere:
- Ballata maggiore: se la ripresa è composta da quattro versi (tre endecasillabi e un settenario o quattro
endecasillabi)
- Ballata media: se la ripresa è composta da tre/quattro versi (tre endecasillabi o due endecasillabi con due o
un settenario);
- Ballata minore: se la ripresa ha due versi.
- Ballata minima: se ha la ripresa di un solo verso.
# Pascoli, Pioggia

La pioggia
Cantava al buio d'aia in aia il gallo.
E gracidò nel bosco la cornacchia:
il sole si mostrava a finestrelle.
Il sol dorò la nebbia della macchia,

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poi si nascose; e piovve a catinelle.


Poi tra il cantare delle raganelle
guizzò sui campi un raggio lungo e giallo.
Stupìano i rondinotti dell'estate
di quel sottile scendere di spille:
era un brusìo con languide sorsate
e chiazze larghe e picchi a mille a mille;
poi singhiozzi, e gocciar rado di stille:
di stille d'oro in coppe di cristallo.
Schema: X ABABBX CDCDDX
* La forma della ballata produce nella letteratura del ‘300 e ‘400 a una serie di sottogeneri metrici:
i. Canzonetta, il cui inventore è Gabriello Chiabrera, indicata Ode Canzonetta, Canzonetta
Anacreontica o anche Canzonetta Melica. L’operazione di Chiabrera consiste nell’importazione di una
forma di recitazione poetica dei poeti della pleiade Francesi. Nel ‘600 poi veniva recuperato un aspetto
della lirica antica, la peculiarità melodica della canzone. Questa operazione si risolve nell’uso di versi
corti, strofe brevi e nel ricorso all’utilizzo di versi tronchi o sdruccioli irrelati. La definiamo un genere
strofico metrico perché è rispettata la ripetizione dello schema rimico. Il più frequente in Chiabrera è
quello medievale “tripertitus caudatus” AAB CCB. Sono preponderanti senario e settenario (Riforma
del melodramma di Metastasio basata proprio sulla brevità dei versi, spesso quinari e senari, con un
ritmo serrato che riproducono il ritmo melodico delle canzoni, che nel melodramma erano definite arie.
La riforma sta nella equiparazione tra l’andamento del verso e quello del ritmo musicale suggerito dalla
musica); rari gli endecasillabi. Il successo della canzonetta si rivela tra ‘600 e ‘800, sostituendo la
canzone di Petrarca. Parini riprende una forma di canzonetta che procede per coppia di strofe collegate
tra loro da una rima comune. Questa struttura prende il nome di ode. Il modello di Parini, maestro della
sua generazione e della successiva, viene ripreso dai poeti romantici per le composizioni di argomento
religioso e soprattutto patriottico che prendono il nome di Inni; gli inni sono legati al tema religioso;
l’ode al tema patriottico. Un famoso esempio di Canzonetta è l’opera di Manzoni il 5 Maggio, ode dal
tema patriottico. I versi dispari sono sdruccioli e sono irrelati, invece il verso tronco a fine strofa funge
da collegamento con la strofa successiva. Gli altri versi sono gli unici provvisti di rima all’interno di
queste piccole strofe.
Lo schema rimico è il medesimo nelle strofe.
# Manzoni, 5 maggio
Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
Nè sa quando una simile
Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
La canzonetta da Giovanni Berchet è usata per dare vita all’elaborazione di una forma metrica definita
Ballata romantica/romanza: la caratteristica è uso di parisillabi con l’utilizzo di deca o dodecasillabi
con una struttura di strofa composta da 6/8 versi, con una certa incidenza di rime tronche. Forme simili
si trovano nel coro dell’atto IV dell’Adelchi di Manzoni, che utilizza il dodecasillabo (che non è un
verso doppio ma ha un andamento che potrebbe ricordare il doppio senario.
ii. Canti carnascialeschi
iii. Barzelletta / Frottola
LA METRICA BARBARA.
* Carducci fece un’operazione che consistette nel trasferire in italiano le forme della versificazione greca e
latina.

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* La difficoltà principale era unire la metrica quantitativa classica sul binario lessicale italiano, che non presenta
le quantità sillabiche e che ha una preponderanza di parole piane. Carducci ricorse a moltissime parole tronche
per via della accentazione. Il valore della metrica classica è stato ampiamente conservato solo nella letteratura
italiana, frutto anche del retaggio di tipo geografico.
* La regola dell’anisosillabismo dell’italiano contrasta enormemente con la metrica classica. Questa tensione a
riprodurre i metri dell’antichità, soprattutto il distico elegiaco (esametro+pentametro) hanno attirato
l’attenzione dei metricisti fin dalla letteratura delle origini.
Beltrami riassume le possibilità così:
1. Cercare di assegnare alla lingua italiana una prosodia quantitativa;
2. Trovare una forma che permetta di individuare sillabe lunghe e brevi all’interno del lessico italiano.
3. Imitare la successione degli ictus classici utilizzando delle sillabe toniche in relazione agli accenti più
forti e delle sillabe atone per le sillabe con accentazione più debole.
4. Cercare una approssimazione imitativa delle forme classiche utilizzando versi italiani, cioè provare,
modificando le regole, ad istituire una similitudine tra versi italiani e versi latini, rimanendo però nella
definizione del verso italiano.
Un verso classico viene associato a uno o più versi italiani che mantengono le proprie regole di
combinazione ma che riproducono le sedi accentuative del metro classico. Questa soluzione è stata
adottata da Carducci.
* All’inizio si pensava che fosse possibile rimodulare le parole, spostando gli accenti nelle parole, tuttavia
questo era impossibile in italiano perché questo spostava anche il significato o la musicalità del verso stesso.
Durante il ‘600 Chiabrera aveva provato un adattamento del verso italiano sul verso latino, mantenendo fede
all’accentazione. Il modello era Orazio, uno dei principali scrittori di odi. Chiabrera cercava un verso italiano
che potesse essere il più vicino possibile al verso latino scegliendo il verso che poteva riflettere per lo meno
l’andamento degli ictus. Questo sistema è quello portato a termine da Carducci. Viene identificato come
misura e regola la sede sillabica accentata nel metro classico. Il binario metrico classico prevedeva sei sillabe
accentate mentre quello italiano ha obbligatoriamente solo la sede finale di verso.
Carducci riuscì a dimostrare che l’esametro può essere legato nel primo emistichio ad un settenario (5) e nel
secondo al novenario (2,5,8). Entrambe le parti possono essere considerate anche alla +1/-1 quindi senario/
ottonario e ottonario/decasillabo. (Sogno d’estate, Carducci).
# Carducci, Sogno d’estate

Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti


la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno
in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su 'l Tirreno.
Sognai, placide cose de' miei novelli anni sognai.
Non più libri: la stanza da 'l sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su 'l ciottolato
de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioría.
Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo
pur divenendo rio: su 'l rio passeggiava mia madre
florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d'oro.
Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
superbo de l'amore materno, percosso nel core
da quella festa immensa che l'alma natura intonava.
Però che le campane sonavano su da 'l castello
annunziando Cristo tornante dimane a' suoi cieli;
e su le cime e al piano, per l'aure, pe' rami, per l'acque,
correa la melodia spiritale di primavera;
ed i peschi ed i meli tutti eran fior' bianchi e vermigli,
e fior' gialli e turchini ridea tutta l'erba al di sotto,
ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de' prati,
e molli d'auree ginestre si paravano i colli,
e un'aura dolce movendo quei fiori e gli odori
veniva giú dal mare; nel mar quattro candide vele
andavano andavano cullandosi lente nel sole,
che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
La giovine madre guardava beata nel sole.
Io guardava la madre, guardava pensoso il fratello,
questo che or giace lungi su 'l poggio d'Arno fiorito,

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quella che dorme presso ne l'erma solenne Certosa;


pensoso e dubitoso s'ancora ei spirassero l'aure
o ritornasser pii del dolor mio da una plaga
ove tra note forme rivivono gli anni felici.
Passar le care imagini, disparvero lievi co 'l sonno.
Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
Bice china al telaio seguía cheta l'opra de l'ago.

* Primo verso dell’Eneide: Àrma virùmque canò, || Troiàe qui prìmus ab òris.
Il verso è un esametro che ha sei accenti principali, i quali individuano sei piedi.
Questi sei piedi sono a loro volta il risultato di sei gruppi sillabici, che hanno anch’essi un numero di sillabe
variabile.
Non esiste in italiano una perfetta corrispondenza tra il numero delle sillabe e i versi (regola
dell’anisosillabismo: cioè un endecasillabo non necessariamente deve essere composto da undici sillabe — ne
servono almeno dieci ma possono anche esserci tredici, quattordici sillabe: è il poeta che mediante sineresi o
sinalefe riesce a raggiungere il numero che serve per individuare il numero dei versi —.
* Le forme versificatorie che Carducci presenta nelle odi barbare sono diverse: l’esametro, il pentametro,
l’endecasillabo saffico, l’adonio, il tricoleo e l’endecasillabo arcaico, cioè tutte le forme metriche presenti
nella raccolta carducciana. Nella versione italiana gli ictus latini corrispondono ad accenti che individuano
questa volta un verso italiano.

* L’esametro è reso da un senario, un settanario, un quinario più un novenario. Non tutti gli esametri
carducciani sono tradotti in questa forma.
* Il pentametro è reso da un quinario e da un settenario o da due settenari o da un settenario doppio.
* L’endecasillabo saffico lo lasciamo stare perché è un normale endecasillabo con un’accentazione forte in
quarta sede: gli undici piedi latini si traducono in undici sillabe accentate e con accento forte in quarta sede
(per esempio si può trovare una parola tronca).
* L’adonio è reso da un quinario piano o da un settenario piano.
* Il tricoleo è reso con un settenario sdrucciolo.
* L’endecasillabo arcaico è reso attraverso la giustapposizione di due quinari.
* Questo schema carducciano produce strofe diverse. Con strofa s’intende l’accoppiamento di almeno uno o più
versi di determinata lunghezza, quindi la strofa ha una sua natura.
Abbiamo: una strofa saffica, il distico-elegiaco, la strofa alcaica e la strofa tetrastica.
* Il distico elegiaco è il più semplice e ricorrente, costituito da un esametro e da un pentametro: sei piedi
accentati più cinque piedi accentati.
* La strofa saffica è data da tre endecasillabi saffici più un verso adonio.
* La strofa alcaica è data da quattro endecasillabi alcaici che possono avere pure un novenario italiano oppure
un decasillabo.
* La strofa tetrastica può avere quattro trìmetri giambici, che equivalgono a senari giambici, che diventano
quattro endecasillabi sdruccioli.

* Questa struttura noi la conosciamo solo dopo che Carducci ha dichiarato la struttura dei versi italiani su questa
base antica. L’approccio di Carducci alla fusione metrica tra il sistema latino e classico, e quello italiano,
giunge solo dopo alcuni esperiment, il primo dei quali risalente al ‘400 con Leon Battista Alberti, che cerca
di attriburie una quantità —lunga o breve — anche alle sillabe italiane; il secondo esperimento risale al
rinascimento nel ‘500 con Chiabrera, che propone di utilizzare una lettura dei versi italiani mantenendo gli
accenti grammaticali italiani ma utilizzando il ritmo degli accenti — cioè gli ictus — della metrica classica,
che è poi il modello che viene assunto da Carducci. Egli lascia invariati gli accenti delle parole italiane. La
terza ipotesi è quella che farebbe corrispondere a ogni sillaba atona una tesi e a ogni sillaba tonica un’arsi, per
cui per la sillaba lunga troveremmo un +, cioè un arsi e un accento, e per la breve invece troveremmo un —
cioè una tesi. Questo obbliga il poeta a scegliere parole che abbiano un’accentazione italiana solo nella sede
latina accentata, cioè nella sede dell’arsi. Questo schema è vincolante. Il caso più libero è proprio quello di
Chiaberare e Carducci, che scelgono di mantenere la sede degli accenti e di sistemare le parole italiane nelle
sedi accentate della metrica classica, in modo tale da rispettare, da un lato gli accenti della metrica classica,
dall’altro lato la sintassi degli accenti del lessico italiano, il che è dato con la fusione di questi versi
raggruppati fra loro in queste strofe.

* Esempi distico elegiaco.


# Sogno d’estate, Carducci.
Tra le battaglie^ Omero, nel carme tuo sempre sonanti

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Il verso riproduce gli accenti dell’esametro latino mediante due emistichi tra loro uniti.
Il primo emistichio: Tra-le-bat-ta-gli(e)O-me-ro, un settenario perché leggiamo Omèro, non Òmero che è un
osso del corpo umano; spostare anche solo di una sillaba l’accento, fa saltare il lessico italiano.
Il secondo emistichio: nel-car-me-tuo-sem-pre-so-nant-ti è un novenario.
Quindi abbiamo un settenario più un novenario.

la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno


Il verso è diviso in settenario e novenario , quindi lo schema del primo verso è ripetuto.

# Mors, Carducci.

Qui già visivamente si nota la divisione in due coppie di versi (è un distico):

Quando le nostre case la diva severa discende,


Il primo verso è un esametro, che in versi italiani si traduce in un settenario: quan-do-le-no-stre-ca-se, seguito da
la-di-va-se-ve-ra-di-scen-de, cioè un novenario.

da lungi il rombo de la volante s’ode,


Il verso è un pentametro, che in versi italiani si traduce in un quinario, da-lun-g(i)il-rom-bo, seguito da un
settenario, de-la-vo-lan-te-s’o-de (perché il secondo emistichio del pentametro nella metrica barbara è sempre
un settenario).

E l’ombra de l’àla che gelida avànza


Il verso è un esametro, che in versi italiani corrisponde a e-l’om-bra-de-l’a-la cioè un senario, che-ge-li-d(a)a-
van-za seguito da un novenario

diffonde intorno lugubre silenzio.


Il primo emistichio è un quinario, dif-fon-de-in-tor-no, il secondo è un settenario (sulla i di silenzio c’è la
dieresi, senza dieresi sarebbe un senario), lu-gu-bre-si-len-zi-o. Con la dieresi Carducci mantiene il lessico
italiano, la metrica italiana e rispetta l’accento latino. La stessa operazione viene utilizzata nel quinto verso

sotto la veniente ripiegano gli uomini il capo


La prima parte sot-to-la-ve-nien-te potrebbe essere un senario tuttavia la varietas carducciana vuole che sia un
settenario e per questo mette la dieresi sulla i di veniente, cioè ve-ni-en-te, il che permette di conservare il
lessico italiano, la metrica classica e il metro italiano.

* Esempi di strofa saffica.

# Carducci, Preludio, considerato il manifesto della metrica barbara carducciana:

Odio l’usata poesia: concede


comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
palpiti sotto i consueti amplessi
stendesi e dorme.

A me la strofe vigile, balzante


co ’l plauso e ’l piede ritmico ne’ cori:
per l’ala a volo io còlgola, si volge
ella e repugna.

Tal fra le strette d’amator silvano


torcesi un’evia su ’l nevoso Edone:
piú belli i vezzi del fiorente petto
saltan compressi,

Non c’è più il raggruppamento di due versi ma di quattro versi.


La strofa saffica può essere formata da tre endecasillabi saffici e un verso adonio.
La prima strofa o-dio-l’u-sa-ta-po-e-si-a-con-ce-de ha dodici sillabe. Siccome non riusciamo a capire cosa sia,
guardiamo il primo verso della strofa seconda e della terza strofa che sono entrambi degli endecasillabo, quindi
per fare del primo verso un endecasillabo devo inserire in poesia, che sicuramenente ha la dieresi sulla e, una
sineresi, quindi non po-e-si-a, ma po-e-sia. Il secondo verso della prima strofa è co-mo-d(a)al-vul-goi-flo-sci-
fian-chie-sen-za è un endecasillabo.
Il secondo verso della seconda strofa è co’l-plau-soe’l-pie-de-rit-mi-co-ne-co-ri è un endecasillabo.

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In questo verso Carducci ha usato delle figure metriche perchè dice co ‘l (una sillaba) anzichè con il (due
sillabe), e ‘l (una sillaba) anzichè e con il e non l’ha fatto per bisogno metrico ma bensì per bisogno stilistico. Ha
cioè usato la figura retorica dell’ellissi che vede l’eliminazione di una parte del discorso anzichè ripeterla. La
figura retorica si può trovare con l’eliminazione dei verbi per esempio o di sostantivi che reggono diversi
attributi. Un esempio tratto da Macchiavelli: «gli uomini si vendicano delle leggere offese, delle gravi (offese)
non possono».
Il terzo verso della prima strofa è un endecasillabo;
Il terzo della seconda strofa è anch’esso un endecasillabo: per-l’a-laa-vo-loio-còl-go-la-si-vol-ge; ci sono due
sineresi.
l’accento che Carducci inserisce su còlgola è un pleolasmo: non serve molto ma è utile a sottolineare un accento
che è un’arsi latina che deve essere rispettata.
Il quarto verso vede l’utilizzo di Carducci di una misura simmetrica equivalente che tende perfettamente a
sovrapporre la congiunzione del quarto verso della prima e il quarto verso della seconda strofa, che sono
sovrapponibili; sono anche isoprosodici perché hanno la stessa lunghezza, sono cioè due quinari.
Dunque questa strofa saffica traduce in forma italiana tre endecasillabi e un adonio, cioè un quinario.

* La strofa alcaica è composta da due versi alcaici endecasillabi, un novenario e un decasillabo (11, 9, 10).
Chiabrera lo trasforma in italiano in due doppi quinari 5+5 mentre lascia invariato il novenario e il decasillabo.
Esiste la strofa àsplepiadèa, resa con un endecasillabo sdrucciolo, un settenario sdrucciolo e un settenario
piano (11, 7, 7).

# Nevicata, Carducci.

Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinereo: gridi,


suoni di vita più non salgono da la città,
Il primo verso ha sedici sillabe: len-ta-fioc-ca-la-ne-ve-pe’l-cie-lo-ci-ne-re-o-gri-di. Devo individuare due
emistichi, di cui uno può essere un settenario, senario o quinario, e il secondo potrebbe essere un novenario (ma
non è detto che lo sia). Len-ta-fioc-ca-la-ne-ve è un settenario, pe’l-cie-lo-ci-ne-re-o-gri-di è un novenario (sta la
dieresi su cinereo).
Il secondo verso ha quattordici sillabe. Possiamo anche qui dividere i due emistichi: suo-ni-di-vi-ta-più è un
settenario tronco, non-sal-go-no-da-la-cit-tà è un novenario tronco. Tuttavia poichè questa poesia ripete sempre
la stessa struttura, e i secondi versi sono tutti ottonari tronchi, il primo emistichio è suo-ni-di-vi-ta-più-non e il
secondo è non-sal-go-no-da-la-cit-tà, vale a dire sono entrambi ottonari tronchi (vedi infatti che lo stessa schema
si ripete).

non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,


non d'amore la canzon ilare e di gioventù.
Il terzo verso ha sedici sillabe: non-d’er-ba-io-lail-gri-doo-corr-ren-te-ru-mo-re-di-car-ro. Il primo emistichio è
non-d’er-ba-io-lail-gri-doo è un settenario piano, cor-ren-te-ru-mo-re-di-car-ro è un novenario piano.
Il quarto verso ha tredici sillabe non-d’a-mo-re-la-can-zon-i-la-ree-di-gio-ven-tù. Il primo emistichio è non-d’a-
mo-re-la-can-zòn è un ottonario tronco, il secondo i-la-ree-di-gio-ven-tù è un ottonario tronco.

Da la torre di piazza roche per l’a re le ore


gemon, come sospir d’un mondo lungi dal d .
Il quinto verso è divisibile in da-la-tor-re-di-piaz-za cioè un settenario piano, e ro-che-per-l’a-e-re-le-o-re è un
novenario piano. Il sesto verso è ge-mon-co-me-so-spir è un settenario tronco, d’un-mon-do-lun-gi-dal-dì è un
ottonario tronco.
questa è una figura retorica che si chiama personificazione perché le ore, cioè i rintocchi di un campanile nè
sospirano, nè gemono, nè piangono, è cioè un’antropomorfizzazione di un rumore.

Quindi Carducci ha usato il secondo verso di ogni strofa giocando con accostamento di un ottonario tronco e
ottonario tronco oppure ottonario tronco e settenario tronco. Inoltre il primo emistichio del secondo verso di
ogni strofa è sempre caratterizzato da una parola tronca che individua un verso tronco (più, canzon, sospir).

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici


spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.
Il primo verso ha il primo emistichio pic-chia-nouc-cel-li-ra-mìn-ghia è un ottonario piano, anche il secondo ve-
triap-pan-na-ti-glia-mi-ci è un ottonario piano. Il secondo verso ha il primo emistichio spi-ri-ti-re-du-ci-sòn è un
ottonario tronco, il secondo guar-da-noe-chia-ma-noa-mè è un ottonario tronco. Il dativo ‘a me’ è pleonastico:
Carducci avrebbe anche potuto dire ‘mi chiamano’ ma lo dice per rafforzare la distanza tra ‘me’, il Carducci
poeta vivo, e gli amici, spiriti reduci.

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In breve, o cari, in breve – tu c lmati, indomito cuore –


gi al silenzio verr , ne l’ombra riposer
Il primo verso ha il primo emistichio in-bre-veo-ca-riin-bre-ve cioè settenario piano, il secondo emistichio è un
novenario tu-cal-ma-tiin-do-mi-to-cuo-re. Il secondo verso invece è diviso in un giù-al-si-len-zio-ver-rò cioè
ottonario tronco (c’è la dialefe tra giù e al; per averne conferma confronto con il primo emistichio del secondo
verso delle strofe precedenti) e nè-l’om-bra-ri-po-se-rò è un ottonario tronco.

LA RETORICA

* La retorica è l’arte del dire e del parlare «correttamente» secondo una norma, cioè secondo un elenco di
informazioni che si sono stratificate nel tempo e che risalgono all’origine della nostra letteratura. Quando si
scrive, si fa riferimento a un canone di fasi della scrittura, che stanno intorno a quella che è la principale fra le
attività della scrittura: la ricerca del contenuto di un discorso oppure di una poesia, per poi procedere
all’elaborazione formale di queste informazioni.

* Per quanto riguarda i contenuti si fa riferimento all’inventio, dal latino invenire ritrovare, recuperare: si
dovevano trovare gli argomenti da trattare. Aristotele aveva parlato nella sua Poetica di un reperimento di
topoi, luoghi comuni, faceva riferimento a informazioni e contenuti da reperire, cioè delle argomentazioni
comuni che dovevano essere valide per tutte le scienze; sempre Aristotele aveva parlato di idee proprie, cioè
di contenuti validi solo per una determinata scienza o un ambito culturale particolare. I luoghi comuni
vengono poi assorbiti nella retorica e diventano il terreno del reperimento dei materiali, tant’è che Cicerone li
chiama «loci», intendendo quei campi suddivisi in sfere concettuali che sono atte a favorire l’arte oratoria. La
retorica è l’arte della persuasione per cui essa deve cercare di convincere l’uditore in campo forense, mentre in
campo poetico e letterario deve mirare alla fissazione di questi argomenti alla mente del lettore, uditore e
spettatore (se in campo teatrale). Il tutto si sposa con il cosiddetto principio di imitazione. Cioè Aristotele
nella Poetica dice che l’attività poetica deve essere imitazione della natura: il poeta e il pittore non sono dei
semplici riproduttori automatici della natura. Il canone della retorica, riconosciuto da degli schemi ricorrenti,
risale a una suddivisione della pratica letteraria alquanto precisa:
* Inventio: reperimento del materiale;
* dispositio: organizzazione del pensiero in forma logica che mira alla persuasione;
* elocutio: cura dell’esposizione consistente nella scelta di parole da pronunciare.

* La forma principale valutata dai metricisti e critici letterari è quella dell’elocutio piuttosto che dell’inventio,
perché questo «abbellimento» è il momento subito successivo alla scoperta dell’argomento e del tema da
trattare (cioè dell’inventio), e questo prevede la certezza che esista una forma semplice della scrittura, intorno
alla quale il poeta costruisce un abbellimento: questo è il campo che segna la differenza tra gli oratori e gli
scrittori di maggiore sapienza da quelli più semplici: un conto è comunicare un’informazione a livello basilare,
un conto è usare gli stessi argomenti con una forma più alta e più curata.

* Quindi accanto alle forme dell’inventio, elocutio e dispositio dobbiamo riconoscere anche il livello linguistico
(familiare o elevato). Esistono degli accorgimenti, cioè degli abbellimenti che possono essere catalogati
secondo vari criteri. La retorica moderna ha verificato, sia alla luce della logica, sia alla luce della semiologia
(dell’arte dello studio dei segni esteriori), che gli abbellimenti cioè le figure retoriche costituiscono un
rapporto non basilare fra il significante e il significato. Questo già nella dottrina retorica classica individuava i
tropi, dal greco volgere, che consistono nell’uso di un vocabolo improprio; propriamente vuol dire
«trasposizione», è uno spostamento/salto del significato, che si compie quando si opera un trasferimento di
significato di un espressione, quando si passa cioè da un significato proprio a un significato altro.
Le figure consistono nella disposizione dei vocaboli nella frase in modo inconsueto (figure di parola e di
pensiero).
I traslati sono improprietà verbali adottate per finalità artistiche. Dipendono dal diverso rapporto tra dictio
(espressione usata) e res (concetto). Si può avere slittamento semantico (parola della stessa categoria
semantica di quella che sostituisce) dislocazione o salto semantico (nel caso di categorie diverse).

* Quando le figure, i tropi e i traslati si riferiscono a un assetto artificioso delle parole o delle idee, quando cioè
le parole vengono utilizzate in modo artificioso e inconsueto tra significante e significato, si parla di «figure
di parola»; quando sono rifeerite a un’espressione si parla di «figure di pensiero». La distinzione tra le due è
minima perché queste figure danno una forma artificiosa a un’espressione consueta.
Tropi e figure provocano l’imprevisto, l’inatteso che opera contro la monotonia e che introduce il concetto di
varietas.

* Quintiliano parla di queste figure come «conformazione»; in senso lato si parla di figure retoriche inglobando
in queste sia i tropi, sia le figure propriamente dette. Infatti talvolta i tropi, che sono le trasposizioni di
significato, possono costituire delle figure di pensiero. In età medievale esisteva un ornatus facilis e un

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ornatus difficilis: il primo riguardava l’uso di figure di parole, il secondo l’uso di figure di pensiero (es: se
dico legno per indicare la nave faccio un ornatus facilis, riconoscibile immediatamente in un contesto
marinaro; se parlo della “navicella del mio ingegno” utilizzando la parola “legno” utilizzo invece una figura di
pensiero). Questo va a sottolineare la varietas della scrittura poetica, è il primo passaggio per intendere lo
stilus, cioè come il poeta ha voluto intendere il proprio concetto di arte ed esprimerlo attraverso questi ornatus.
Il ricorso all’ornatus crea uno stile, il quale è riconoscibile nell’arte della compositio, cioè nell’arte di
raggruppare le parole in frasi legate tra loro da salti e non da percorsi logici semplici e immediati.
* Un esempio è il correlativo oggettivo di Montale: parole come statua, cielo, aquila hanno significato proprio
nel campo della lingua comune ma assumono significato diverso nella sintassi poetica per un effetto di
straniamento, anche perché queste figure di pensiero sono inserite in frasi fra loro collegate con il ricorso alle
regole della composizione. La varietà dei traslati è riconducibile al diverso rapporto istituito fra l’espressione
usata (il significante) e il concetto, la cosa (il significato).
* A seconda di questo rapporto possiamo trovare uno slittamento o salto del significato. La parola che
costituisce il tropo assume un significato non solo ambivalente, a seconda che sia riferito al significato
immediato o poetico, ma anche ambiguo. Ad es: «gamba» può riferirsi al corpo umano oppure alla gamba del
tavolo; allo stesso modo «collo» può riferirsi al collo della bottiglia o al corpo umano. Utilizzando queste
espressioni, faccio uso della figura retorica detta catacresi (estensione retorica di una parola oltre il suo
significato).
* «Vulcano» è una catacresi (perché non esiste nessun termine per esprimere quella montagna creata dalla lava
attraverso cui esce) e anche una prosopopea perché Vulcano è anche il Dio del fuoco. Esiste quindi un
costante ritorno a termini e espressioni di cui non si ha nessun’altra forma di espressione, come nel caso della
catacresi, dove non ho un altro modo per esprimere determinati concetti come «la gamba del tavolo», «il collo
della bottiglia», «la testa di ponte», « vulcano».
* Vulcano è metonìmia. Quindi in ogni espressione esistono anche più figure retoriche, che sono anche figure di
pensiero perché richiedono che l’ascoltatore attivi un meccanismo celebrale per cui ciò che sente, cioè il
significante, non viene messo in una relazione logica con il significato, ma c’è un rapporto analogico. Il
ricorso alle figure retoriche non solo è strumento nelle mani del poeta per esprimere le proprie consapevolezze
lessicali, ma è un artificio a cui il poeta ricorre per operare contro la monotonia cioè la singolarità dei toni e la
normalità del dettato poetico, serve cioè a introdurre il concetto di varìetas, cioè di ricchezza del linguaggio.
* I traslati sono improprietà verbali. Come i tropi (figure retoriche), riguardano un artificioso rapporto tra il
significante e significato; possono provocare slittamenti semantici (cioè far riferimento a parole della stessa
categoria semantica di quella che sostituiscono) oppure, e questa è la differenza, possono riferirsi a categorie
semantiche diverse (esempio di legno).

NB. Le figure retoriche possono trovarsi nominate come tropi, cioè le due espressioni sono sinonimiche, ma
bisogna distinguere quando l’espressione retorica si applica a una o a più parola, e quando a uno slittamento
semantico di significato o a una posizione all’interno della frase, che diventa sintattica.

TROPI

(SPOSTAMENTO-SLITTAMENTO)
• CATACRESI
• PERIFRASI: è uno slittamento semantico che non riguarda solo una parola ma un’espressione, quindi non è
una figura ma un tropo perché è un’espressione più ampia. Dante dice: «Colui che lo saver
trascende», ‘colui che trascende ogni sapienza’, Dio. Utilizza cioè un’intera frase, un giro di parole,
per indicare Dio. Quando si riferisce ad Aristotele lo definisce «il maestro di color che sanno», cioè
Dante usa una circolocuzione che serve ad alzare il livello sintattico e stilistico ma anche per dare
una descrizione aggiuntiva al termine a cui ci si riferisce (ci dice che è il miglior filosofo).
• EUFENISMO: esistono delle forme di circolocuzione che si usano quando si dice qualcosa in forma migliore
rispetto a quella che si potrebbe usare in maniera diretta; si tratta di forme di discorso che sono
presenti in campo poetico e prosastico e che vedono l’uso dell’eufenismo, che serve a esprimere un
concetto negativo in forma positiva. Quando Parini nella fase della intolettatura parla di «spregiate
crete» sta indicando sia i vasi da notte, e anche il materiale con cui i vasi da notte sono fatti, creta o
ceramica: indica il materiale per l’oggetto, che fa capo a un’altra figura retorica cioè la sineddoche
(che rientra nei tropi).
• ANTONOMASIA: forma di slittamento semantico (cf. Vulcano) consistente nella sostituzione di un termine

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con un altro termine che indica la funzione, l’attività, la caratteristica o un fatto caratterizzante.
Dante dice: «il Cantor dei bucolici carmi», cioè Virgilio (indica la funzione); è questa una forma di
antonomasia perifrastica.
• ENFASI: è forma di esagerazione non collegata a una parola ma a un’espressione verbale. Tasso dice «vissi e
regnai, non vivo or più non regno», come se per Tasso vivere fosse sovrapponibile all’idea di essere
felice, cioè secondo lui uno o è felice o muore.
• IPERBOLE: Petrarca riferendosi alla donna la definisce «uno spirto celeste, un vivo sol fu quel ch’i vidi»,
cioè qualcosa aldilà della regola, iperbolica, esagerata che giunge all’inverosimiglianza.
• LITOTE: quando un’espressione negativa viene utilizzata per indicare una forma positiva siamo nel campo
della litote. Manzoni dice «Don Abbondio non era nato con un cuor di leone» cioè non era coraggioso.
Spesso la litote si utilizza per mediare l’espressione a cui ci si vuole riferire.
• SINEDDOCHE: la sineddoche è una forma di tropo usato quando vengono utilizzate una serie di ricorrenze,
che sono in un senso o nel senso inverso. La sineddoche si ha quando si utilizza:
i. La parte per il tutto o il tutto per la parte. Dannunzio per esempio dice: «arma la prora»,
laddove con prora non intende solo parte anteriore della nave ma tutta la nave (una parte per il
tutto); quando si ha l’inverso cioè il tutto per la parte si ha ancora una sineddoche, per
esempio: «il mondo è cieco» non vuole intendere il mondo (non può essere cieco perché non
ha gli occhi) bensì tutti gli uomini, cioè la singola parte di un tutto.
ii. La specie per il genere e il genere per la specie. Dante dice «Il pan degli angeli» cioè la
sapienza quindi usa la specie (pane) per il genere (cibo). È una metafora perché gli angeli non
si nutrono di cibo, non hanno esigenza di soddisfare la voglia di mangiare tuttavia piuttosto la
voglia di conoscenza. Un esempio di genere per la specie è:
«O animal grazioso e benigno», dove il genere (esseri viventi) indica la specie (l’uomo).
iii. Il plurale per il singolare e il singolare per il plurale. Per esempio la frase: «oggi porrà in
pace le tue fami» in cui ci si riferisce a una singolare persona. Caso opposto è la frase: «assai
con l’occhio storto mi rimirarono gli spiriti» in cui c’è l’uso del singolare (occhio) in luogo
del plurale (occhi).
iv. L’individuo per la specie (non riguarda gli esseri viventi). Ariosto dice: «ecco stridendo
l’orribil procella che ‘l repentino furor di bore spinge»: il vento di bore (un solo individuo) va
a indicare tutta la specie dei venti.
• METONIMIA: è confusa con la sineddoche; è la sostituzione di un termine con un altro con cui ha una
continuità o logica o materiale, per esempio deve avere un rapporto che va a istituirsi tra contenente e
contenuto. «Andiamo a bere un bicchiere» indica il contenente per indicare il contenuto (noi non
beviamo il bicchiere ma il vino contenuto). Una forma di metonimia si ha quando definiamo i racconti
polizieschi, definiti “gialli” perché riguardano una tradizione di racconti polizieschi che veniva
pubblicata con una copertina di colore giallo: il contenente (giallo) indica il contenuto (racconto
poliziesco). Il foglio rosa della patente è chiamato così perché rinvia alla gazzetta dello sport, di colore
rosa. Un altro rapporto è il nome del Dio per il fenomeno che rappresenta, per esempio «lo strepito di
Marte» non indica lo strepito del Dio, bensì lo strepito che la guerra causa (Marte Dio della guerra).
L’autore invece dell’opera;
Il contenente per il contenuto (i libri gialli, un bicchiere);
Il nome del dio per il fenomeno che rappresenta;
La causa per l’effetto o l’effetto per la causa;
Il materiale per l’oggetto;
L’astratto per il concreto e il concreto per l’astratto

(DISLOCAZIONE - SALTO SEMANTICO)


Si hanno dei salti semantici con due figuri ricorrenti, la metafora e l’ironia.
• METAFORA: si sostituisce un termine proprio con un altro che è in una relazione di somiglianza con il
primo. Un’altra forma di metafora è quella che ricorda effetti di tipo coloristico. Un esempio riguarda:
«erano i capei d’oro a laura sparsi»: d’oro non è una sineddoche perché non indica un materiale ma un
colore. La «navicella d’avorio» è una metafora perché indica la navigazione del pettine in mezzo a un
mare di capelli biondi come la nave naviga nel mare, invece «d’avorio» è espressione diretta di un
colore, il bianco, ma anche del materiale, cioè l’avorio, con cui un tempo si facevano i pettini.
• SINESTESIA: è un forte salto semantico simile alla metafora, ma che riguarda espressioni e forme di tipo
sensoriale. Famose sono le sinestesie pascoliane: uniscono espressioni semantiche riferite a indicazioni
sensoriali diverse, per esempio la frase «voce ruvida», la voce è riferita all’udito, e ruvida al tatto.
Pascoli dice «scampanellare tremulo» in cui lo scampanellare è uditivo, tremulo è visivo.
• IRONIA: si trova a metà strada tra metafora e simbolismo, consiste in un capovolgimento totale di ciò che si
sta dicendo; se fosse negativa sarebbe litote.
• ALLEGORIA: è simile all’ironia, ha a che ha a che fare con la figura del simbolismo; ricorre in Dante: «per

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correr miglior acque alza le vele la navicella del mio ingegno lascia dietro a sè un mar sì crudele» per
attraversare la materia del purgatorio (miglior acque) alza le vele (azione che serve ad andar più
veloce), quindi per un viaggio meno sofferto e più veloce la navicella del mio ingegno (metafora) lascia
dietro a sè un mar crudele (inferno).

FIGURAE

(FIGURE DI PAROLA) riguardano l’uso di una singola parola e la forma con cui la parola viene utilizzata: per
aggiunta, per sottrazione o per ripetizione:

* Figure per aggiunta (parole messe per aggiunta) presentano delle ripetizioni:
• ANAFORA: ripetizione di uno stesso termine a inizio periodo o a inizio di un verso.
• ANACOLUTO: (figura grammaticale), frase in cui la seconda parte non è connessa alla prima in modo
sintatticamente corretto.
• EPIFORA: ripetizione di uno stesso termine alla fine di un periodo o a inizio di un verso;
• GEMINATIO: si ha quando una parola viene ripetuta immediatamente due volte;
• ITERATIO: si ha quando la parola viene ripetuta in due periodi diversi.
• ANADIPLÒSI : le ripetizioni si hanno tra un numero di termini ampio: «moto a moto, canto a canto»
• ALLITTERAZIONE: si ripetono porzioni foneticamente simili (gruppi di lettere o singole lettere) «di me
medesmo meco mi vergogno».
• ASINDETO: quando le ripetizioni riguardano più parole collegate o non da nessi di congiunzione. Ariosto:
«le donne, i cavalier, l’armi, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto»
• POLISINDETO: quando sono presenti i nessi di congiunzione (e, o ecc.).
Asindeto e polisindeto sono figure di parola ma anche di pensiero.

* Figure per sottrazione (parole sottratte);


• ELLISSI: soppressione di un termine o di locuzione. Macchiavelli, li uomini si vendicano della leggiere
offese, delle gravi non possono.
• ZEUGMA: consiste nel far dipendere da un medesimo verbo due sostantivi o parti del discorso che ne
richiederebbero due distinti: Dante, parlare e lagrimar vedrai insieme; fuori sgorgando lacrime e
sospiri.

* Figure per ripetizione (parole ripetute).


• FIGURA ETIMOLOGICA: Dante dice «esta selva selvaggia è aspra e forte» c’è figura etimologica
perché selva e selvaggia hanno stessa radice etimologica, vale a dire stessa radice. Altro
esempio riguarda invan e vana di Petrarca in «Quanto più segue invan la vana effige»; ce ne
accorgiamo perché le parole sono vicine nella frase.
• PARONOMASIA: due parole foneticamente simili hanno significati diversi: «io fui per ritornar più volte
volto», in cui volte e volto sono esteriormente, come significante, simili, ma che però non
condividono la stessa radice.
• POLÌPTOTO: Quando due termini hanno stessa radice ma flessioni differenti (hanno due tempi diversi).
Dante dice una frase che accosta «gli infiammati» participio passto, e «infiammarono» passato
remoto. Nel caso di «selva» e «selvaggia» c’è l’accostamento di sostantivo e aggettivo: forme
grammaticali diverse che derivano da stessa radice. Quando c’è la stessa radice con diverse
flessioni allora c’è il poliptoto. «Amante» e «amata» è una figura etimologica che rientra nel
gruppo del poliptoto.

(FIGURE DI POSIZIONE) disposte secondo un ordine particolare nella frase.


• IPERBATO: ordine sinstattico inconsueto;
Leopardi: oh dilettose e care / mentre ignote mi fur l’Erinni e il fato, / sembziance agli occhi miei;
• ANASTROFE: inversione di due parole all’ordine normale (SVO) (è forma di iperbato);
Leopardi, e profondissima quiete / io nel pensiero mi fingo.
• PARALLELISMO: quando la costruzione si ripete in parallelo.
• CHIASMO: si crea incrocio immaginario tra due coppie di parole, in versi o in prosa, con schema sintattico di
AB, BA.

(FIGURE DI PENSIERO) riguardano propriamente la fase dell’elocuzione ma sono legate al significato che
l’espressione vuole esprimere.
• ALLEGORIA

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• IRONIA
• INTERROGAZIONE: espressione interrogativa che ha nella negazione la risposta alla stessa domanda,
quella che noi comunemente conosciamo come interrogativa retorica.
• SIMILITUDINE / PARAGONE: figura agevole da riconoscere per l’aggettivo/pronome che introduce il
confronto.
• ANTITESI: forma di negazione di una attribuzione. Dice quel che non è a fronte di quel che è.
• OSSIMORO: vengono accostati tra loro due forme contrastanti.

Serie di figure meno frequenti, tratte dalla retorica classica, con organizzazione differente. Queste sono collegate
tra loro da aspetti fonetico/fonologici.
• PARONOMASIA: è anche una figura di suono per via delle assonanze tra le due parole.
• ALLITTERAZIONE: per via della ripetizione dello stesso suono.
• CALEMBOUR: figura di origine francese; si accostano due termini con un suono tra loro sovrapponibile. È
un gioco di parole, pochè sostituendo una parola con un’altra simile nella fonetica ma non nella
forma di scrittura “buona parte” con “Bonaparte”.
• DERIVATIO: figura di parola che ha una derivazione fonetica comune, che serve a rafforzare il significato. È
legata strettamente al poliptoto.
• IPALLAGE: si realizza con uno scambio di attribuzione tra aggettivo e soggetto;
i viandanti andavano oscuri nella notte solitaria.
• ENALLAGE: sostituzioni di forme grammaticali in altre forme sintattiche “votate socialista”
• APOSIOPESI / RETICENZA: quando viene eliminata una intera parte del discorso, sostituendola con i
punti sospensivi
• ANACOLUTO: figura grammaticale in cui la seconda parte non è connessa alla prima in modo
sintatticamente corretto. Espressione retorica frequente nel gergo orale ma diffusa anche in
poetica. “no che si fa?”; diffusa nella scrittura di Verga, basato sul modello gergale siciliano.
• CLIMAX: figura di pensiero che serve per accrescere (ascendente) o deflagrare (discendente) un contenuto.
• APOSTROFE: rivolgersi direttamente a qualcuno o a qualcosa che in realtà non è direttamente
l’interlocutore. Un esempio di specie è l’esordio dell’orazione ciceroniana A Catilina: fino a che
punto abuserai della nostra pazienza, oh Catilina.

(FIGURE FONETICHE)
FENOMENI DI AGGIUNTA

PROSTESI / PROTESI: consiste nell’aggiunta di una vocale o di una sillaba a inizio di parola. A livello
metrico la prostesi serve a regolare la misura del verso.
* Ispagna; Ariosto scrive ‘isnella’; Carducci in Rime Nuove, scrive ‘istorie’ anzichè ‘storie’.

EPENTESI: consiste nell’aggiunta di una vocale all’interno di un gruppo consonantico.


* Dante scrive ‘rivederà’ anzichè ‘rivedrà’; Carducci ‘fantasima’ anzichè ‘fantasma’.

EPITESI: è l’aggiunta di una vocale in fine di parola non etimologica, il che vuol dire che non ha nessun a
derivazione storica ma svolge solo una funzione di tipo metrico. Nel toscano e nella lingua letteraria
risponde alla tendenza ad evitare le finali tronche. È significativa per la metrica la preferenza data in
uscita di verso alle forme con epitesi piuttosto che a quelle tronche: come la dieresi è stata anche un
mezzo per ottenere versi sdruccioli, e l’apocopr per ottenere versi tronchi (rima tronca in consonante),
l’epitesi è stata un mezzo per ottenere versi piani.
*tue per tu, fue per fu, virtude per virtù, cittade per città.
*Dante usa una volta più e fu in una serie di rime in ù (Artù, più, fu), altrimenti in rima sempre piùe e
fue.

FENOMENI DI SOTTRAZIONE
— Fenomeni metrici che servono a contenere il verso in un ritmo specifico.

AFERESI: è la caduta della vocale o sillaban iniziale di parola. Aferesi ed elisione possono essere utsate in
alternativa alla sinalefe.
*Leopardi, A Silvia: verno anziché inverno.

APOCOPE: è la caduta della vocale finale. È normale l’alternanza di forme apocopate e nonmì, come vuol /

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vuole. Va notato però che i manoscritti antichi scrivono la forma piena dove la misura richiede la forma
apocopata, che deve essere ristabilita dall’editore prima di dichiarare il verso IPERMETRO. È esistito
anche l’uso di segnare con un punto sottoscritto le vocali che non contano nella misura: lo fa Boccaccio
nell’autografo del Teseida, sia pure in modo saltuario.
*«colui che a tutto il mondo fe’ paura» la sillaba -ce di fece è caduta per apocope e il poeta lo
segnala con l’apostrofo.
*«ancora che li paresse giovinetta» la seconda a di ancora porta un punto sottoscritto, si deve
intendere ancor.
*«d’essere per tale obietto innamorata» non c’è il punto sottoscritto alla terza e di essere, è ovvio
che si deve intendere
esser, perché altrimenti l’endecasillabo è ipermetro.
>> Un caso comune di apocope è RIMA TRONCA in consonante (rime del tipo: cuor, amor,
anzichè cuore, amore): è di uso comune da Chiabrera all’Ottocento, e cade in disuso con Pascoli.

SINCOPE: è la caduta di una vocale interna di parola;*per esempio SPECULUM > SPECLUM, da cui l’it.
specchio.
*spirto anzichè spirito; in Petrarca lettre anziché lettere.

ELISIONE: soppressione della vocale finale atona di parola davanti a una parola che comincia per vocale (cf.
Sineresi), normale nel parlato italiano quando la prima parola è proclitica (unita, per l’accento, in una
sola parola con la successiva: l’uomo vs. lo uomo, che non esiste).

* Ungaretti, Montale e Saba si presentano come rappresentanti del verso sciolto, libero, con una spezzatura
formale sciolta.
* Il verso libero/paroliberismo dell’800 e primo ‘900 non è regolato da misure metriche preordinate, né bloccato
dal vincolo della rima. Secondo Contini, se pensiamo alla liberazione metrica del ‘900, non possiamo non fare
riferimento agli ultimi due decenni dell’800 in cui si afferma il peso della tradizione prosodica antica e
moderna con le Odi Barbare che non erano da intendere come baluardi della classicità ma anzi forme di
eversione dalla tradizione. A fronte di questo recupero della metrica antica noi troviamo una soppressione
della rima e una misura elastica del verso.
Il fonosimbolismo leopardiano è strettamente legato a questa liberazione della rima e della misura prosodica
che è figlia di uno studio approfondito di Pascoli e Carducci. I ritmi e i timbri dei versi pascoliani dei Canti di
Castelvecchio sono riconducibili ad una tradizione classica del verso ma vengono intesi, intuiti e percepiti
come versi innovativi, senza esserlo.
Nella scrittura memorialistica di Ungaretti I soldati, si ha la sintassi perfetta della conciliazione tra la forma
classica del doppio settenario e la liberazione del verso stesso. Pascoli lavora sul novenario, che in Myricae
riporta sempre lo stesso schema, con accenti di seconda, quinta e ottava sede che viene utilizzato non solo per
sistemare organicamente il verso in senso metrico ma in senso timbrico.
# Pascoli, Sogno d’un dì d’estate (Patria)
Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule pel filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.

Beccaria: Il tremolio dello scampanellare è sparpagliato in maniera fonosimbolistica su tutto il


componimento con presenza di espressioni nelle sedi accentate che servono a riprodurre la metafora
sonora.
* Quando Carducci stabilisce di voler ripristinare il ritmo classico dell’antichità lavora sulla possibile
convergenza di metri italiani, sulla base di schema ritmico di arsi e tesi antico, e trova le soluzioni che sono
riconducibili alla metrica barbara.
Una cosa simile, anche se foneticamente differente fa Pascoli, che mantiene la struttura prosodica di tradizione
metrica, stabilendo che i versi possano contenere dei riferimenti fonosimbolici che rimandano a forme di
allitterazioni, ripetizioni o sottolineature foniche che danno un senso analogico che non è quello
immediatamente espresso dalle parole. Il simbolismo fonico di Pascoli non è immediatamente sovrapponibile
alla poesia simbolica (Patria è fonosimbolicamente un dettato poetico che individua uno stile della scrittura,
cioè della scelta del metro, del lessico ecc.). Il simbolismo poetico è altro, è La pioggia nel pineto, 10 agosto
di Pascoli, in cui la natura diventa simbolo della sofferenze dell’animo umano (panismo). Il fonosimbolismo
pascoliano è un’altra cosa, quindi non bisogna confondere il simbolismo poetico con quello fonico.

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* Pascoli adopera ancora strutture tradizionali, per esempio il sonetto, la ballata, anche le terzine incatenate di
endecasillabi (un modello dantesco inserito in un contesto poetico differente), che diventano fondamento di
Myricae di Pascoli; gli si impegna in un’operazione di manipolazione degli schemi della tradizione, che
esteriormente paiono persistere ma vengono modificati, anche quando si tratta di forme strofiche chiuse, in cui
non c’è possibilità di variazione (ballata, madrigale).
Mengaldo inoltre segnala come Pascoli ricorra al principio della struttura circolare, con ripetizione di una
stessa rima, di versi chiave o anche ritornelli (Ceppo, Digitale purpurea).
# Pascoli, Digitale purpurea
Siedono. L'una guarda l'altra. L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,
l'altra… I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono. «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti
più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;
Poemetto in terzine dantesche, struttura apparentemente tradizionale: c’è episinalefe tra primo e
secondo verso: Pascoli sta cercando di ripetere nelle forme poetiche una struttura di tipo dialogico, che
in effetti compare alla fine della seconda terzina, in cui inizia un dialogo, che non è forma propriamente
poetica ma prosastica. L’episinalefe ritorna alla terza strofa, tra il primo e il secondo verso ecc. Già in
Italy Pascoli ricorre a rime strane (straniere), per es: MoLLY. Si tratta di rime equivoche straniere
(molli è aggettivo in italiano, nome in inglese).
* Pascoli lavora in particolare su una irriconoscibilità fonica, cioè su una confusione ( molli - Molly) che non si
percepisce se non la vediamo scritta, quindi se non leggiamo la poesia. Questo produce un duplice percorso a
cui va fatta attenzione: piano ritmico/metrico più evidente e all’apparenza uguale alla tradizione, che si
contrappone ad un percorso eversivo che va contro la tradizione.
* Uno degli esempi è Ungaretti, che fa un percorso inverso rispetto a Pascoli: eversione esteriore rispetto alla
norma: i versi sembrano essere versicoli senza rima e senza forma; nella realtà, indagando, si trova una regola
classica (Soldati).
* La tradizione novecentesca è debitrice di Carducci, perché Carducci per primo ha iniziato a lavorare non sulla
idea stantia della metrica classica ma sulla modificazione di essa, senza stravolgerla.
* D’Annunzio ha una struttura metrica più compromissoria dal punto di vista delle innovazioni: raggiunge un
equilibrio tra innovazione e classicità. Dal punto di vista metrico, si inserisce all’interno delle clausole di tipo
classico; va ricordato che prima dell’innovazione metrica presente nelle Laudi, D’Annunzio ha avuto un
passaggio di tipo barbaro: l’opera di esordio di D’Annunzio, Primo vere, del 1879, solo due anni dopo le Odi
barbare di Carducci 1877, D’Annunzio xi inserisce nel dettato barbaro del Carducci, e lo prosegue in parte in
Canto Nuovo e nelle elegie romane. Nelle successive raccolte , per esempio Isaotta 1886, recupera schemi
ancora più tradizionali e classici di quelli di Carducci. Quindi il rinnovamento metrico avviene solo con le
Laudi (inizi ‘900): strofe lunghe in Maya e Alcyione, vale a dire strofe che hanno un medesimo numero di
versi ma con una misura (eterometria) prosodica diversa, spaziando dal ternario al novenario.
# Stirpi canore: non c’è perfetta distinzione strofica; le strofe infatti presentano lunghezze diverse, sono legate
tra loro da un’anafora quadripartita e da forme retoriche che stanno anche a suggerire l’ipotesi di legami
fonetici interni. Notiamo che onde e arene non rima con nessun verso della propria strofa: oNDE rima con il
secondo verso della strofa successiva, profoNDE, e arENE con terrENE. Quindi la rima salta nella strofa ma
comincia ad essere legata con altre strofe.
Lo schema ABCDAB si trasforma in uno schema assonantico di tipo ABABAB.
# D’Annunzio, Stirpi canore
I miei carmi son prOlE
delle forEstE
altri dell’OndE
altri delle arEnE
altri del SOlE,
altri del vento ArgEstE.
Le mie parole
sono profonde
come le radici

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terrene,
altre serene
come i firmamenti,
[…]

# D’Annunzio, La pioggia nel pineto.


Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.

Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
Divini.
La lirica dimostra la varietà a livello strofico e metrico. A livello metrico troviamo versi sicuramente
più lunghi di altri (il sesto è un novenario, rifiutato da Dante perché ritenuto una semplice triplicazione
del trisillabo; è utilizzato da Pascoli e da Carducci. D’Annunzio si rifà a Carducci). Sono tutti senari
più un endecasillabo, più trisillabo, che messi insieme potrebbero dare luogo potenzialmente a tutti
senari, tutti novenari più trisillabi. I versi sono sempre quelli della tradizione, ma nel ‘900 cambia il
senso di costrizione nel numero, nella forma e nella partizione rimica rigida. A proposito della rima,
sogLIE rima con foGLIE, ODO rima con ODO, dICI rima con tamerICI ecc.
Il gioco della metrica è portato all’estremo. Queste strutture possono essere scomposte e ricomposte
secondo varie quantità numeriche o metodi di calcolo: la prima strofa permette una scomposizione e
ricomposizione visiva di due gruppi potenzialmente prosodici: il numero di sillabe di taci… umane è lo
stesso di ma odo… lontane. La metà dei versi rimane, ma è assente: la struttura bipartita del verso in
Carducci diventa in D’Annunzio una struttura bipartita della strofa.
* Questa poesia è un caso di doppia lettura: suggerisce letture di diversa natura: c’è una partizione esteriore e
una partizione interna, così vale anche la distinzione tra rime e assonanze. Entra qui in gioco il simbolismo
fonosimbolico di Pascoli, ma anche il simbolismo poetico di una parola ‘piove’ che non indica la pioggia vera
e propria, ma piuttosto il tema amoroso delle lacrime, vicino quasi ai canoni dello stilnovo (l’universo che
piange la donna), una sorta di panismo.
Il modello d’annunziano si ripercuote in tutto il ‘900 perché:
- stira la misura delle strofe,
- suggerisce un recpuro della rima imperfetta con le assonanze,
- stabilisce una certa frequenza delle rime interne,
- iono assenti versi sdruccioli né enjambement.
* Questa struttura, che stabilisce un legame fonico, D’Annunzio l’ha ereditata da Pascoli ma soprattutto da quel
magistero della poesia tardo ottocentesca, Carducci, che vede Pascoli e D’Annunzio procedere di pari passo e
con indirizzi personali diversi.
* Pascoli e D’Annunzio condividono il gusto dell’assonanza. In Pascoli può essere perfetta, tonica, o imperfetta:
frAscA, rimAstA; sUOnI e cUOrE (il valore fonetico è medesimo); pÈtalI, pOètA (rima ipermetra). In
D’Annunzio è rima espeRTa e feRTile, SUgheri, SU (rima ipermetra di due sillabe dopo la sillaba accentata).
* Pascoli consegna al ‘900 un’eredità allo stesso tempo classica e moderna (fonosimbolismo). Se il trittico
Carducci-Pascoli-D’Annunzio recupera il novenario, è Pascoli, a metà tra Carducci e D’Annunzio, colui che
per Mengaldo, sposta dalla periferia al centro il novenario e il verso regolare. Il verso, tralasciato dalla
tradizione poetica italiana, viene recuperato. Mengaldo sottolinea tuttavia che questo trittico rimane ancora
all’interno di una struttura metrica riconoscibile metricamente, quindi tradizionale. La vera novità del tardo
‘800 e inizi ‘900 è infatti il verso libero (= opposizione ai versi prosodicamente riconoscibili). Egli dice che,
più che parlare di verso libero, si parla di metrica libera quando si verificano tre elementi:
1. Perdita della regolarità e della funzione strutturale delle rime;
2. Mescolanza di versi canonici e non canonici senza alcuna regola evidente;

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3. Mancanza dell’isostrofismo (struttura strofica che si ripete uguale a se stessa nella composizione), fatta
a due livelli:
a. livello debole: strofa con numero uguale di versi, ma con lunghezza diversa.
b. livello forte: strofa con numero di versi e tipi di versi diversi.
* Con Allegria Ungaretti inserisce nel tessuto metrico e prosodico novecentesco la frantumazione del verso in
versicolo, addirittura arrivando a una forma di implosione e di frantumazione del discorso poetico in monadi
verbali sillabate, cioè: la parola poetica viene dilatata fino a estendere la propria forza semantica anche ad
elementi del discorso più piccoli, come gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni, fino ad estendere la
potenza del conferimento di un significato addirittura al silenzio e allo spazio bianco tipografico. Da un lato in
Allegria egli decostruisce la forma verso e il momento semantico di ogni vocabolo, inglobando cioè elementi
sintattico grammaticali privi di valore, dall’altro l’esplosione di semantizzazione, ingloba in sé ciò che prima
(lo spazio tipografico, la punteggiatura ecc.) assumeva una propria funzione sintattica.
La lirica Soldati è quella attraverso cui possiamo comprendere il rapporto che il critico ha nei confronti del
testo poetico.
Secondo Mengaldo siamo di fronte a una frantumazione oggettiva della forma prosodica e metrica, però è
anche vero che esiste potenzialmente una possibilità di ricostruzione delle misure tradizionali, per esempio Si
sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie darebbe vita al verso alessandrino (14 sillabe). Il metricista deve
potenzialmente riconoscere una forma di ricostruzione del metro di un verso appartenente alla tradizione.
Mengaldo sostiene che esista una fortissima inversione sintattica che in questa lirica descrive un climax
discendente che a sua volta rappresenterebbe la caduta del tema oggetto, cioè la guerra. La decostruzione
sintattica e prosodica di Ungaretti è una reinvenzione della scrittura poetica. La conferma di ciò si riscontra in
Sentimento del tempo: la forma decostruttiva di Allegria viene riconsegnata alla tradizione letteraria attraverso
il ripristino della punteggiatura e il ripristino di metri proveniente dalla tradizione come endecasillabo,
settenario e novenario, che vengono riorganizzati in una struttura sintattica complessa. Quindi in questo caso
la poesia diventa un diaframma attraverso cui leggere lo stato della modernità: dalla frantumazione dell’io di
Allegria, a una prima forma di ricostruzione di una società in epoca post bellica, fino a un ripristino di forme
chiuse e rigorose, come la sestina Recitativo di Palinuro, Ungaretti. Quindi le tre fasi della poetica di
Ungaretti trovano un perfetto riscontro in queste tre poesie.
* Le liriche di Montale scaturiscono da una riorganizzazione del verso, assorbendo le forme pascoliane e
discostandosi dalla disomogeneità del verso ungarettiano. Contini parla di rime dissimulate, cioè rime non
apparenti o eventualmente stabilite in posizioni non tradizionali, per esempio le rime al metro. La libertà del
verso, la decostruzione delle strutture tradizionali, quando si allungano le forme strofiche, accolgono la
lezione leopardiana che aveva svincolato la canzone dalle strutture della tradizione, il verso dalla obbligazione
rimica e, come stabilito nell’Infinito, votando lo schema delle rime non più come elemento di costrizione
finale ma di costruzione interna. In Ossi di seppia, nonostante il rapporto dialettico con la tradizione, non
troviamo una struttura metrica rivoluzionaria: i metri della tradizione sono immediatamente riconoscibili;
questo riporta alla memoria l’azione innovatrice nella tradizione riscontrabile in Pascoli e D’Annunzio. Quindi
Montale è il recettore di una lunga tradizione, che mette a colloquio l’antichità e la tradizione, con modernità e
innovazione. Montale nella sua revisione autografa della prima raccolta ‘25 si impegna in un processo di
regolarizzazione dei versi e strutture strofico metriche (dall’informe alla forma): si coglie la predominanza di
endecasillabi e settenari, accanto a una regolarizzazione ritmica dei versi, e con un’attenzione al timbro fonico
dei versi stessi. Vengono per esempio cassati tutti i versi ipometri o ipermetri, per mutarli tutti in endecasillabi.
Il 43% dei versi delle raccolte montaliane sono endecasillabi. Nella seconda edizione il numero arriva al 54%.
Nelle Occasioni arriva al 60% mentre nella Bufera e altro arriva al 64%. Dunque la prima stesura poetica (la
stesura di getto) non prevedeva quel numero.
# Montale, Spesso il male di vivere Struttura strofica ordinaria: due quartine di endecasillabi con
l’ultimo verso che è un settenario sdrucciolo, mentre un
Spesso il male di vivere ho incontrato settenario piano il secondo. La rima è tradizionale ABBA
era il rivo strozzato che gorgoglia CDDA. Prodigio è una rima irrelata ma non è slegato dal
era l’incartocciarsi della foglia punto di vista rimico dalla sua quartina, perché rima in modo
riarsa, era il cavallo stramazzato. imperfetto con meriggio; la rima imperfetta vede infatti la ì di
prodìgio e merìggio accentate: c’è un’assonanza vicina alla
rima che riguarda l’interno di queste parole (assonanza
Bene non seppi, fuori del prodigio interna). Quindi il gioco rimico esiste anche dove è
che schiude la divina Indifferenza: mistificato. Negli ultimi due versi c’è ripetizione fonica della
era la statua nella sonnolenza a e della o. L’ultimo verso ha un valore timbrico volutamente
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.” forte: là nuvolà, e il fàlco àlto levàto. La ripetizione
pedissequa del suono la negli ultimi versi, che riporta alla
lallazione infantile. Questo viene usato in modo chiastico con
l’inversione di al. Questa attenzione è riconosciuta da
Montale nella tradizione pregressa come in Pascoli che
insiste sulla rotativa r di scampanellare tremulo.

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* Gli otto versi compongono uno schema strofico a cui Montale era molto affezionato, tant’è vero che sui 22
componimenti della sezione centrale di Ossi di Seppia, Ossi, le quartine sono presenti in ben diciotto liriche,
quindi la quartina è la strofa più ricorrente della raccolta, con alcune differenze: Meriggiare pallido e assorto
non ha quattro versi nella quartina finale bensì cinque. Anche nei Mottetti, parte delle raccolte stilisticamente
più selezionata della scrittura di Montale, la quartina rimane alquanto presente, sebbene presenti l’aggiunta di
un quinto verso, o la cassazione di un verso. Nelle Occasioni e nella Bufera la misura strofica della scrittura
montaliana si allunga, dunque il canone di riferimento diviene la canzone libera leopardiana. Anche in questo
caso Montale non smette di essere l’artefice di una poetica articolata, cioè: la misura della canzone libera di
Leopardi viene mescolata con il gusto per la strofa lunga del D’Annunzio dell’Alcyone, come avviene nella
Proda di Versilia, componimento di 52 versi, con 50 endecasillabi, un doppio settenario e un settenario.
Quindi maggioranza di endecasillabi divisi in quattro strofe di numero variabile: 10, 13, 16, 13 versi. Abbiamo
una esteriorità di innovazione che richiama la regolarità tipica della classicità. Quindi è presente un intento di
fusione tra antico e moderno, preesistente a Montale, che richiama sicuramente D’Annunzio. Siamo qui in una
scoperta dei mattoncini con cui il poeta vuole costruire la propria lirica. Questa modalità di scrittura non cessa
con la raccolta successiva, Satura, di cui Montale dice: apparentemente tende alla prosa ma la rifiuta: si tratta
di una poetica lunga, con sintassi ordinata, versi lunghi e molto vicini al dettato narrativo, uso di un linguaggio
cronachistico o quotidiano. Questi elementi esteriormente sembrano tendere nella direzione della narrativa ma
vengono incastrati in strutture regolari della narrazione prosodica come il ritmo, l’uso di metri chiusi e
l’esplicitazione delle forme rimiche. Montale cioè intende allontanarsi dalla forma tradizionale con Satura in
maniera apparente, internamente procede in direzione opposta, creando una dicotomia, un rapporto dialettico
tra regola e riforma, che può essere messo in relazione ad uno sfondo molto edulcorato e patinato di tipo
futuristico, vociano e ungarettiano, che non va nella direzione della novità ma della restaurazione metrica.
* In questo senso il modello di Montale rappresenta il banco di prova per tutti i poeti, essendo un collettore, in
cui vengono affastellati in modo lieve ma gravissimo tutte le principali indicazioni della metrica italiana che si
sono battute per un senso di riforma della tradizione dal punto di vista strutturale, dal punto di vista fonico
quella pascoliana e dal punto di vista metrico/prosodico quella dannunziana.
* Saba nella raccolta iniziale Poesia 1911 adotta soluzioni metriche di origine ottocentesca, con un riferimento
grande a Leopardi. Nel gruppo di sonetti Versi militari, composto tra il 1907/1908, quando svolgeva il servizio
militare a Salerno, sono presenti delle rime quasi sempre irregolari: numericamente le rime superano il numero
di 5, numero limite della tradizione. Questo crea degli schemi profondi, cioè intimi, diversi dalle quartine e
terzine, che non conciliano la tradizione delle quartine e terzine con la loro struttura sintattica (per il modello
petrarchesco). Si crea cioè una distonia tra metro e sintassi, che genera un’insistenza di enjambement, come
nell’Infinito di Leopardi (decostruzione sintattica della frase e ricomposizione con l’enjambement). Dal punto
di vista fonico le spezzature sintattiche di Montale rimandano a Pascoli, che le spezza sintatticamente e le
riunisce simbolicamente.
* Saba aveva la vocazione ad essere un riformatore metrico, tant’è vero che dopo il sonetto, nel 1912 Coi miei
occhi abbandona questa forma metrica e si affida alla poesia di tre strofe, poichè la ritiene più adatta alle sue
esigenze poetiche. Il sonetto ritornerà nei componimenti del 1924 Autobiografie con lo schema ABAB ABAB
CDE CDE, e nelle Prigioni 1924 con un unico schema metrico di tipo ABBA ABBA CDE CDE. Le poesie di
tre strofe sono uno degli elementi di maggiore novità nella lirica novecentesca; presentano schemi strofici in
cui una successione libera di endecasillabi è intercalata a versi più brevi (D’Annunzio), normalmente quinari e
settenari, con una tendenza al riuso di assonanze o consonanze. La fanciulla richiama da vicino non certo la
tradizione petrarchesca, ma la memoria leopardiana de Il passero solitario e La quiete dopo la tempesta. Egli
però lo innova perché ricorre ad una tripartizione utilizzata da Leopardi nei Canti solo occasionalmente.
Questa forma di tre strofe viene invece utilizzata in maniera massiccia da Saba, soprattutto in questa raccolta,
ma anche in tutto il Canzoniere, fino alla conclusione della produzione poetica Ritratto di Marisa, con strofe
composte da 5, 7, 6 versi in cui si alternano endecasillabi con due quinari e un trisillabo.
* Una varietà metrica costituisce le successive raccolte, che si caratterizzano per un’attenzione particolare alla
simmetria, equilibrio e circolarità, vale a dire forme di garanzia. In una sezione Serena disperazione del
Canzoniere 1921 è da ricordare la presenza di un madrigale con schema rimico tradizionale ABA CBC DED
FEF GHG.
* Nelle raccolte Cose leggere e vaganti e l’Amorosa spina 1920 riprende lo schema della canzonete, con schema
di quattro quartine con rima incrociata, alternando endecasillabi in prima e quarta sede e settenari in seconda e
terza sede (endecasillabo, settenario, settenario, endecasillabo).
* Il punto di svolta è dato dalle raccolte del 1934 Parole e Ultime cose in cui riscontriamo una direzione metrica
di allontanamento rispetto ad Ungaretti e Montale. Saremmo qui portati a pensare che la tendenza sia quella di
ritornare alla tradizione, invece è presente la necessità di compiere un passaggio dalla tradizione alla forma di
novità, con forme brevi, versi ridotti e segmentati e con un accento maggiore sulle pause di carattere sintattico,
non mensurale (di misura, cioè di metro), vale a dire che i versi sono privi di infrazioni (cesure)con un ricorso
ad una punteggiatura che dà una serie di inversioni.
# Saba, Spunta la luna.

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Nel viale è ancora


giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventù s’allaccia;
sbanda a povere mète.
Ed è il pensiero
della morte che, infine, aiuta vivere.

* Dunque Saba, dopo una fase iniziale di allontanamento dalla tradizione, più eversivo per Ungaretti e meno per
Montale, trova un conforto nel solco della tradizione. In Ceneri troviamo delle quartine: i versi centrali sono
endecasillabi, il primo e il quarto trisillabi. Anche se rima non sempre c’è, la struttura metrica rimane la stessa
(endecasillabo, trisillabo ecc.).

* La metrica ermetica è la metrica dei poeti ermetici e ha una predilezione per i versi più nobili, endecasillabo e
settenario. Mengaldo evidenzia che nella lirica di Alfonso Gatto è presente un’asincronia tra partiture metriche
(strofi) ed elemento sintattico della frase contenuta. Se consideriamo Desiderio di laguna della raccolta Isola,
notiamo che gli endecasillabi sono tutti regolari e rimati secondo lo schema ABAB ABAB CDE EDC.
Mario Luzi ricorre a endecasillabo eloquente, con un’assenza di buchi, come per una lievitazione diventano
dei versi sovrapponibili nella misura e nella forma a versi di tipo alessandrino (doppi settenari).
Questo è l’esempio che possiamo trarre da Quaderno gotico, in cui troviamo dei versi che esteriormente sono
endecasillabi, ma che hanno un’eccezione nella presenza di doppi settenari. Quella di Luzi è una scelta
ricercata che riporta stilistico le scelte della poetica; la poesia di Luzi è un’oscillazione perenne tra la fissità di
una indicazione temporale e la estensione nel tempo dell’altra. Questo produce ciò che Mengaldo ha definito
un magma formale, in cui possiamo recuperare anche una forma di drammatizzazione del verso che ricorre in
tutte le raccolte, fino alle ultime, relative agli anni ’90. È un’opzione che recupera i modelli della tradizione
metrica del passato.
* Nel secondo ‘900 Vittorio Sereni e Attilio Bertolucci passano attraverso l’ermetismo, ma spingono il verso
in direzione di una curvatura più prosastica. In questo senso, il discroso poetico di Vittorio Sereni si concentra
sulla figura della iterazione. In Ancora sulla strada di zenna c’è una visione esteriore di una poesia che non ha
la struttura canonica della metrica tradizionale: non è sonetto nè canzone, ma riassunto strofico, in cui i versi
sono liberi nella misura e sciolti dalla rima, ma inframmezzati dall’uso di endecasillabi piani.
La tensione della poesia del secondo ‘900 va verso una inclinazione di tipo prosastico, che viene resa e portata
al parossismo con la raccolta del 1984/1988 Camera da letto di Bertolucci, che produce quasi l’effetto di un
romanzo in versi, con variazioni dal trisillabo al verso sciolto. Questa struttura narrativa poi viene raccolta nel
romanzo popolare costituito di sei canti in ottave ed epilogo Giovanna d’arco di Maria Giovanna Speziale.
* Il versoliberismo è un modo per evadere dal canone, stabilendo una tensione tra riforma e tradizione, che con
Pasolini raggiunge una singolare posizione. Nella raccolta Giovani del mio tempo le poesie Friulane diventano
canzoni che riprendono il modello provenzale o petrarchesco. Recupera poi il canone della terzina dantesca,
che legge attraverso la mediazione letteraria e culturale del Pascoli dei Poemetti. Dal punto di vista delle
strutture strofico/metriche è il sonetto ad attrarre le attenzioni; si pensi a Finisterre 1943 di Montale, Finzioni
1941 e Passaggio di Enea 1956 di Caproni: essi aboliscono ogni frammentazione strofica, lo vediamo non
solo a livello grafico (non c’è più spazio tipografico tra quartine e terzine), ma anche nell’impianto sintattico,
che viene di continuo spezzato e ricomposto dal frequente uso degli enjambement, e che si configura come la
risultanza della tensione tra la norma dell’antichità e le novità del ‘600 e dell’800 di Chiabrera e Leopardi (si
pensi a Foscolo che modifica e altera la stuttura sintattica del sonetto petrarchesco).
In Caproni (Passaggio di Enea) non c’è più divisione esteriore tra quartine e terzine, ma essa permane nello
schema rimico che va a sostituire la partizione iniziale: ABAB BABA CDD DCC. Questa tensione oscillante
tra tradizione e innovazione è un canone che viene integrato da Zanzotto. Egli è il fautore di un ipersonetto:
componimento non più formato da 14 versi come il sonetto, bensì da 14 sonetti, uno per ogni verso del metro
della tradizione, con un sonetto di premessa e uno di chiusura. Con lui abbiamo la dimostrazione pratica che
anche nelle forme di ipertrofia metrica, rimane un elemento, cioè la straordinaria duttilità ed elasticità poetica
dell’endecasillabo. Zanzotto infatti nella costruzione di questo ipersonetto non dimentica gli ornatus, che
hanno suggerito a Mengaldo di formalizzare l’espressione di sonetto al quadrato.
Va detto che per qunto riguarda la scrittura del sonetto Zanzotto ripristina lo spazio tra quartine e terzine. Gli
schemi metrici di Zanzotto sono tradizionali, con alcune variazioni, inserendo una traccia di tipo pascoliano.
Pur in uno schema rimico tradizionale, la rima B risulta essere sempre ipermetra, cara a Pascoli (es: SAlici e
RAdi). Giovanni Raboni compie una scelta di tipo peculiarmente tradizionale, riprendendo la sestina di
antichissima tradizione provenzale (da Arnauld Daniel) con l’inserimento di un settenario nella prima sede di
ogni strofa che ne altera la struttura, movimentandola e vitalizzandola. Di fronte alla statuaria ricorrenza dei
versi, Raboni modifica la struttura con l’inserimento di questo settenario.

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* Questi autori presentano un proprio stile scrittorio. Lo stilus era l’asticella metallica o ossea che serviva per
vergare le tavolette di cera. Lo stile dovrebbe essere proprio esclusivamente della scrittura. Legata alla parola
stile è la parola stilema: precisa scelta in campo lessicale, sintattico, morfologico e linguistico, quindi poetico,
che caratterizza uno scrittore e che può ritornare in altre opere, poeti o scrittori.
La scienza della stilistica non è una disciplina italiana bensì germanica, risale all’800, e in Italia si diffonde
solo nella seconda metà. L’analisi delle teorie linguistiche applicate alla scrittura risale ai caratteri di Teofrasto
o a Isocrate greco, fino a quando nel ‘900 la stilistica viene considerata parte della retorica e poi disciplina
variegata che si applica alla scrittura di tipo poetico. Centrale nell’evoluzione e storia della stilistica è il saggio
di Leo Spizer, L’interpretazione linguistica delle opere letterarie. La stilistica è un allontanamento dallo stato
psichico normale che corrisponde ad un allontanamento dall’uso linguistico normale: si tratta di un passaggio,
un traslato, un trasferimento, una metafora: ogni qualvolta si presenta un salto abbiamo una figura retorica, e
quando questo salto si ripete assiduamente in un autore, lì diventa stilema. Dante fa rimare Cristo solo con sè
stesso perché Cristo è uno solo: non è un elemento poetico ma stilistico ed elemento di poetica perché esprime
l’inclinazione e il pensiero del poeta. La stilistica non può evitare di fare riferimento alla consapevolezza alla
tripartizione degli stili: umile (comico): la Comedia è opera che non potrebbe stilisticamente arrivare a parlare
di Dio ma lo fa, proprio per il gusto della mistificazione tra linguaggio basso e contenuto altissimo; mediano
(elegiaco): quello proprio della narrativa; alto/sublime (tragico): propria della tragedia, dell’epica.
Ad Atene nel V secolo sotto Pericle i sofisti insegnano l’arte di una espressione convincente e persuasiva, cioè
l’arte della retorica (maieutica: ricevere risposte corrette a fronte delle domande poste). Esistono vari piani di
intersezione tra stilistica e linguistica:
i. fonetica: ricorso a parole fonosimboliche, onomatopee e allitterazioni (vd. caso di Pascoli)
ii. morfologia: ripetizione di forme in Petrarca, come l’eufonia dell’articolo il anzichè el, ‘l/lo anzichè il.
iii. lessicologia: particolarmente frequente nella narrativa e nella prosa, come l’uso di suffissativi.
iv. sintassi: modificare la struttura del verso fondamentale nell’evoluzione poetica.

* La stilistica è l’insieme delle caratteristiche che individuano nella scrittura di un poeta o romanziere, e questo
è il risultato di uno studio particolare e non generale. Lo studio delle forme e la loro comparazione permette di
indicare scelte e opzioni permanenti o di rifiuto dal punto di vista stilistico. Ma quali sono gli strumenti utili
per analizzare queste parti? Nella poesia è proprio la struttura retorica a dare un segno e un significato, perché
il poeta non ricorre alla stilistica del discorso ma alla stilistica della lingua e a una scelta lessicale fatta in
funzione di un’alterazione semantica che abbiamo visto in Spizer. Ogni volta che troviamo un salto semantico
o sintattico, dobbiamo essere in grado di individuare quale opzione è stata compiuta dal poeta/scrittore.

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