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RIASSUNTO LG3 – FONDAMENTI DI TIPOLOGIA LINGUISTICA

Ambito di studio, metodo di indagine e obiettivi

L’oggetto della tipologia linguistica e la definizione di tipo: La tipologia linguistica rappresenta un


approccio alternativo ai problemi connessi allo studio scientifico, prescindendo classificazione
genealogica.

Possiamo affermare che la tipologia linguistica si occupa essenzialmente dello studio della
variazione interlinguistica. Questa affermazione presuppone due condizioni necessarie:

1. La prima condizione risponde a una constatazione evidente a tutti: le lingue del mondo sono
diverse tra loro.
2. La seconda condizione, intuitivamente meno immediata, è che questa variazione non è frutto
del caso, ma obbedisce a principi generali.

La tipologia linguistica ambisce a individuare questi principi.

Se la tipologia si propone di capire fino a che punto le 6000 lingue attualmente parlate sulla terra
sono diverse, allora essa si colloca su un piano puramente sincronico, con l’esclusione della
dimensione diacronia, cioè della componente di tempo. In un approccio di natura tipologica
l’interesse dello studioso è rivolto all’impianto strutturale delle lingue, che vengono classificate in
base ad affinità sistematiche sul piano strutturale, indipendentemente dalla famiglia di
appartenenza o dai processi evolutivi cui queste affinità possono essere ascritte.

Possiamo quindi porre un primo punto fermo stabilendo che la tipologia linguistica si occupa della
variazione interlinguistica, classificando le lingue storico-naturali in base ad affinità strutturali
sistematiche. I raggruppamenti tra i quali le lingue vengono ripartite prendono il nome di tipi
linguistici. Possiamo provvisoriamente definire il tipo linguistico come una combinazione di
proprietà strutturali logicamente indipendenti le une dalle altre, ma reciprocamente correlate.

Questa prima correlazione pone una serie di problemi che dobbiamo risolvere:

- Come avviene la scelta delle proprietà su cui si fondano i tipi e in base alle quali le lingue
vengono classificate?
- In riferimento a quali criteri è possibile discriminare tra proprietà più o meno pertinenti in
chiave tipologica?
- Che rapporto c’è tra i tipi linguistici e le lingue storico-naturali?

Si può asserire che risultano pertinenti quelle proprietà la cui combinazione consenta di operare
previsione attendibili sulla struttura delle lingue indagate. Se un tipo è un insieme di più proprietà
reciprocamente indipendente, ciascuna di queste resulterà pertinente qualora permetta di
prevedere la presenza delle altre proprietà del tipo.
I tipi, quindi, devono avere valore predittivo: essi devono consentire di prevedere la natura degli
elementi che vengono collocati in essi. Affermare che una lingua fa parte di un tipo significa
prevedere quali caratteristiche avrà, anche senza aver indagato a fondo la sua grammatica.

Dato che i tipi sono categorie astratte, possiamo preventivare situazioni incerte. Una lingua, infatti,
potrebbe esibire segmenti della sua struttura imprevisti rispetto alla natura del tipo cui afferisce.
L’assegnazione ad un tipo avviene infatti in base alla tendenza prevalente, che difficilmente è però
categorica.

Un parametro che ha dimostrato una piena pertinenza tipologica è quello relativo all’ordine dei
costituenti di alcune strutture sintattiche come il sintagma verbale, quello nominale, la frase relativa
etc. In breve, partendo dall’ordine dei costituenti di ciascuna di queste strutture, si può prevedere
l’ordine dei costituenti delle altre strutture. Una lingua che pone il verbo prima dell’oggetto tende in
genere a collocare il nome prima del genitivo, a disporre le frasi relative dopo il nome reggente ecc.
In questo caso possiamo costruire tipi linguistici in cui la rete di correlazione tra le singole proprietà
rileva una buona potenzialità predittiva e dunque una innegabile rilevanza topologica.

Un secondo punto fermo, quindi, è che la tipologia non è una disciplina puramente descrittiva, ma
tendenzialmente predittiva. Un’indagine in chiave topologica non può prescindere da un’accurata
selezione dei parametri di riferimento, basata essenzialmente sulle correlazioni che è possibile
stabilire tra essi.

Il tipo non è dunque un mero elenco di proprietà linguistiche, ma ha un carattere prettamente


strutturale. Perciò la tipologia deve farsi carico di esplicitare non tanto l’insieme delle proprietà che
fanno parte del tipo, quanto piuttosto il principio soggiacente che le pone in correlazione. Quindi,
per la tipologia linguistica non sono rilevanti le singole caratteristiche in sé, ma la ratio profonda che
spiega i rapporti che intercorrono tra esse: è solo in questo caso che la tipologia diviene predittiva.

Semplificando la questione, si può affermare che l’esplicitazione del principio soggiacente indica che
in alcune lingue storico-naturali vi sono le condizioni favorevoli alla comparsa di determinate
caratteristiche linguistiche. Esso non dice che queste caratteristiche compariranno di certo, ma che
è probabile che compaiano. Le lingue, infatti, sono soggette nel loro divenire storico a molteplici
condizionamenti che trascendono la pura realtà linguistica e che spesso imprimono brusche e
imprevedibili deviazioni di percorso. Di questi condizionamenti la tipologia non deve
necessariamente farsi carico, ma essa non può neppure trascurarne l’esistenza. È lecito asserire che
una ricerca tipologica agisce su due piani contemporaneamente: la tipologia ha come oggetto
d’indagine le lingue storico-naturali e proprio su esse devono essere verificate le sue capacità
predittive; ma gli strumenti d’indagine di cui la tipologia si avvale, cioè i tipi, sono entità astratte che
si configurano sostanzialmente come una semplificazione della realtà effettivamente osservabile e
non sono fedelmente riprodotti da alcuna lingua storico-naturale.

Queste condizioni ci permettono di riprendere e affinare la definizione provvisoria di tipo formulata


sopra. Agli effetti pratici, il tipo si caratterizza come uno strumento puramente esplicativo creato dal
linguista, non come una strategia effettivamente in uso nelle lingue. I tipi linguistico non sono lingue
storico-naturali, ma modelli di descrizione delle lingue storico-naturali. Si può asserire che i tipi sono
gli occhiali attraverso cui i linguistici osservano le lingue: essi filtrano la realtà, ma non sono la realtà.
Se cambiano i valori su cui si fonda il tipo, la medesima realtà linguistica può assumere, agli occhi
del linguista, diverse fisionomie.

L’indagine tipologica: metodi e obiettivi. Precedentemente abbiamo evidenziato l’ambito


d’indagine della tipologia linguistica e chiarito la nozione di tipo linguistico. Dovremmo ora avere gli
strumenti teorici necessari per illustrare e comprendere i passaggi cruciali e gli obiettivi finali di
un’indagine tipologica.

Il primo passo è quello di circoscrivere l’indagine attraverso l'individuazione dei segmenti del sistema
lingua su cui si intende fondare la ricerca tipologica. Il passaggio successivo consiste nella selezione
dei parametri davvero pertinenti, in base alla loro potenzialità predittiva. A questo punto è il
momento di calarsi nella concreta realtà delle lingue storico-naturali per valutare quante e quali
correlazioni tra i parametri d’indagine siano effettivamente attestate. È necessario verificare a quanti
e quali tipi possono essere ricondotte le lingue rispetto ai tratti linguistici oggetto dell’indagine.
Come si è detto, i tipi sono modelli di descrizione e non dobbiamo attenderci di trovarli riprodotti
integralmente nella realtà empirica. In questo senso ogni lingua sarà ascritta a un tipo piuttosto che
a un altro se la sua configurazione strutturale risulterà compatibile con una porzione statisticamente
rilevante dei parametri correlati o se la lingua resisterà una prevalenza statisticamente significativa
dei tratti riconducibili a un tipo.

Al termine dell’indagine si osserverà verosimilmente che non tutte le correlazioni logicamente


possibili tra i parametri di indagine hanno la medesima diffusione tra le lingue: alcuni tipi esibiranno
un elevato indice di occorrenza nella realtà linguistica, mentre altri avranno rarissime attestazioni o
addirittura saranno del tutto inesistenti. Ovviamente, non dovrebbero esistere nella realtà concreta
delle lingue tipi che risultino impossibili. In altre parole, se l’analisi è stata condotta in modo corretto,
le combinazioni strutturali tra i parametri d’indagine effettivamente in uso tra le lingue dovrebbero
essere un sottoinsieme di quelle logicamente possibili. A questo punto, il compito della tipologia
diviene quello di cogliere la ratio profonda del fenomeno, cioè di capire quali fattori possano
giustificare la distribuzione interlinguistica dei tipi. La tipologia dovrebbe abbandonare il livello
descrittivo e spostarsi sul livello esplicativo e poi predittivo.

Il dove ricercare la logica interna alla distribuzione dei tipi è una questione complicata. La posizione
più plausibile pare quella che induce a rintracciare la spiegazione profonda delle classificazioni
tipologiche in fattori di natura essenzialmente semantica e pragmatica. Infatti, dato che la funzione
primaria della lingua è essenzialmente quella di consentire la comunicazione, nulla vieta che la ratio
profonda delle correlazioni osservate possa essere spiegata in un’ottica funzionale, tenendo
presente la funzione cui la lingua deve assolvere. In base a ciò le lingue sarebbero il riflesso delle
strategie che la lingua predispone per risolvere i problemi legati alla comunicazione. Ciò non significa
che una descrizione in termini puramente linguistici dei fatti osservati sia da escludere a priori. Nel
caso dell’ordine dei costituenti, le spiegazioni più convincenti fanno riferimento proprio a fattori
intrasistematici, interni al sistema lingua.
Per giungere alla conclusione di questa sezione, rimane da chiarire quale sia lo scopo essenziale della
tipologia linguistica, che dovrebbe in realtà risultare evidente dalle considerazioni svolte sopra. Il
repertorio dei tipi individuati a livello teorico dovrebbe coprire l’intera gamma dei tipi effettivamente
rappresentati nella concreta realtà linguistica. Cioè, non dovremmo rintracciare tra le lingue
configurazioni tipologiche imprevedibili o tali da contraddire l’inventario dei tipi di riferimento.

Possiamo asserire che la tipologia linguistica studia la variazione interlinguistica con l’obiettivo di
stabilire se essa sia soggetta a limiti e restrizioni e di capire quale sia la natura di questi limiti e queste
restrizioni. Studiare le occorrenze sistematiche di specifiche affinità strutturali tra le lingue dovrebbe
condurre il tipologo a svelare le ragioni dell’esistenza di configurazioni strutturali, cioè di tipi possibili
e impossibili.

La costruzione del campione

La tipologia si prefigge il compito di esplicitare i principi generali che governano la variazione


interlinguistica individuando i tipi effettivamente attestati e quelli teoricamente possibili, ma non
attestati. Questa intenzione, piuttosto ambiziosa, si scontra con una constatazione oggettiva: è
umanamente impossibile procedere alla comparazione di tutte le lingue del mondo. Inoltre, non
tutte le lingue sono ugualmente attestate.

La soluzione a questo problema è cruciale. La tipologia procede con una strategia simile a quella
adottata dagli istituti che si propongono di elaborare lo spettro di una comunità sociale mediante i
noti sondaggi di opinione. Viene scelto un campione rappresentativo, il quale lo è davvero se è lo
specchio fedele della comunità che intende ritrarre.

Una procedura simile viene adottata dalla tipologia linguistica. Per tracciare un quadro esauriente
della variazione interlinguistica, è necessario selezionare un campione che sia altamente
rappresentativo dell’esuberante varietà delle lingue e che eviti accuratamente quelle che vengono
definite “distorsioni”.

Un campione che rifletta davvero le caratteristiche dell’insieme di lingue da cui è tratto dovrebbe
essere immune da:

1) Distorsioni genetiche: un campione rappresentativo non deve dare eccessiva


rappresentazione ad alcune famiglie linguistiche a sfavore di altre. L’assenza di un legame di
parentela tra le lingue indagate rafforza la possibile caratterizzazione tipologica delle affinità
riscontrate. Se in più lingue viene rintracciata un’analoga configurazione strutturale, solo
l’assenza di relazioni genetiche tra le stesse può portarci ad escludere che essa sia l’effetto di
una comune eredità.
2) Distorsioni areali: il campione deve tenere conto del fatto che le lingue non imparentate ma
parlate nello stesso contesto geografico possono sviluppare tratti comuni. Quindi, nella scelta
delle lingue sarà necessario sincerarsi che essa non siano stati convolte in massicci fenomeni
di interferenza interlinguistica.
3) Distorsioni tipologiche: il campione non deve apparire sbilanciato a favore di determinate
configurazione tipologiche a svantaggio di altre. Il rischio maggiore che un campione non
calibrato in ottica tipologica può produrre è quello di indurci a giudicare come tendenze
indipendenti comportamenti tipologici in realtà reciprocamente correlati.
4) Distorsioni legate alla consistenza numerica delle comunità parlanti: il rischio di inceppare
in distorsioni di questo tipo è elevato. Un campione rappresentativo non deve selezionare gli
esponenti dei gruppi linguistici in base alla consistenza numerica delle relative comunità di
parlanti, in quanto i successi e gli insuccessi delle lingue non dipendono da fattori
prettamente linguistici, ma sono imputabili solo alle vicende storiche delle comunità parlanti.
Il tipologo deve dimenticare il numero dei parlanti di una lingua.

Oggi il tipologo opera in uno scenario in cui le innovazioni tecnologiche e la velocità con cui circola
il sapere offrono opportunità che pochi decenni da non c’erano.

TIPOLOGIA E SINTASSI

Dopo aver posto le premesse teoriche, è il momento di addentrarci nell’impianto strutturale delle
lingue, con lo scopo di verificare empiricamente i punti cardine del quadro delineato sopra.

La maggior parte di questi esempi appartiene al livello morfologico e sintattico. Questa scelta
riproduce su scala ridotta una tendenza abbastanza diffusa negli studi di carattere topologico.

Cominciamo dalla sintassi, prendendo le mosse dalla tipologia dell’ordine dei costituenti.

L’ordine dei costituenti: è un parametro che ha dato risultati convincenti nella ricerca tipologica,
consentendo di tracciare classificazione interessanti e dalle implicazioni teoriche di estremo rilievo.

Secondo l’ipotesi di partenza di questo approccio, si può supporre che l’organizzazione del materiale
linguistico in costrutti diversi avvenga in base a principi largamente condivisi.

La posizione del soggetto: soffermiamoci sulla frase indipendente dichiarativa, che può essere
segmentata in 3 costituenti: soggetto (S), verbo (V) e l’oggetto diretto (O).

I parametri su cui fonderemo in questo primo approccio le basi della tipologia sintattica sono dunque
3: posizione di S, posizione di V e posizione di O nella frase indipendente dichiarativa. Prima di
analizzare, è bene porre due premesse. Innanzitutto, dobbiamo notare come i costituenti presi a
riferimento non costituiscono una classe omogenea: il verbo è una categoria sintattica, mentre
soggetto e oggetto sono funzioni che possono essere svolte da più categorie sintattiche.

Inoltre, non è detto che ognuno di questi costituenti sia formato da una sola parola.

Ora, se potessimo svolgere una grande panoramica sulle lingue del mondo, noteremmo che emerga
una netta prevalenza di due tipo: il tipo SOV (turco, basco, coreano, giapponese…) e il tipo SVO
(gruppi romanzo, germanico, slavo, finnico…). Si suppone che circa il 45% delle lingue del mondo
afferisca al primo tipo e che circa il 42% riproduca il secondo. Poco meno del 10% adotta l’ordine
VSO.
I tre tipi esemplificati coprono circa il
97% della variazione interlinguistica
su scala mondiale. Tuttavia, le
combinazioni possibili tra i parametri
in esame consentono di identificare
non tre, ma sei tipi linguistici.

Cosa ne è di VOS, OVS e OSV?


Ritrovano riscontro in una manciata
di lingue. La scarsa occorrenza di
questi ultimi tre tipi consente di
ribadire che non tutti i tipi logicamente possibili sono effettivamente attestati tra le lingue storico-
naturali.

Fino ad ora l’analisi si è mantenuta su un livello descrittivo: sono stati individuati 3 parametri e sei
tipi possibili e si è osservato che solo 3 di questi sono ampliamente attestati.

Ora dobbiamo spostarci su un modello esplicativo, in quanto la predilezione per i tipi SOV e SVO
non può essere frutto del caso. La tipologia deve farsi carico dell’esplicitazione di un principio
organizzativo in grado di giustificare la diffusione dei tipi in questione.

L’elemento che accomuna i tipi SOV, SVO e VSO è l’anteposizione del soggetto rispetto all’oggetto.
Possiamo riassumere quanto detto in precedenza affermando che la quasi totalità delle lingue
antepone il soggetto all’oggetto nella frase indipendente dichiarativa.

La ragione di questa uniformità è il prodotto dell’azione congiunta di più condizionamenti, di natura


extralinguistica: il soggetto è di norma l’entità che dà il via all’azione espressa dal verbo e che esercita
su essa un alto grado di controllo. Queste prerogative assegnano al soggetto una preminenza
cognitiva rispetto all’oggetto che subisce l’azione. È quindi naturale attendersi anche al livello
linguistico questa disparità di “peso cognitivo”, ponendo il soggetto primo dell’oggetto.

Una seconda possibile causa è che l’organizzazione lineare del materiale linguistico è legata
all’organizzazione mentale dell’informazione che si intende veicolare. Il soggetto corrisponde nella
maggior parte dei casi a quella che viene definita informazione data (tema/topic), mentre il resto
della frase corrisponde all’informazione nuova (rema/comment). In un’interazione comunicativa
l’informazione data è generalmente tale per tutti i partecipanti e pare, quindi, naturale collocarla
all’inizio della frase. Collocare l’informazione nuova prima del tema può pregiudicare il successo
della comunicazione.

Ordine dei costituenti e sistema di casi: Prima di procedere è necessario precisare che nel paragrafo
precedente abbiamo classificato le lingue in base alla struttura della frase dichiarativa assertiva. In
realtà questo parametro non ha la stessa rilevanza in tutte le lingue, in quanto l’ordine dei costituenti
non ha sempre la funzione di marcare i ruoli sintattici.

Il compito di marcare i ruoli sintattici spetta alla morfologia flessiva, non all’ordine dei costituenti.
Ordine naturale e ordine marcato: abbiamo dato per scontato che ogni lingua consenta di
individuare con chiarezza un solo ordine dei costituenti. Di fronte ai dati presentati risulta naturale
chiedersi se viviamo davvero in un mondo ideale in cui in ogni lingua sia possibile individuare un solo
ordine dei costituenti. La realtà è più complessa di quello che appare.

Abbiamo frasi sostanzialmente neutre in prospettiva pragmatica (che si adattano ad ogni situazione
comunicativa), mentre altre che richiedono situazioni particolare e trasmettono specifiche
sfumature di ordine pragmatico. Per dare conto di questa discrepanza si è soliti ricorrere alla
distinzione tra ordine naturale e ordine marcato dei costituenti.

Il concetto di “marcatezza” è complesso. Molto brevemente, dati due costrutti linguistici, uno viene
definito marcato in rapporto all’altro se in esso compare un elemento in più, detto marca, un
elemento assente nell’altro costrutto.

Sul piano sintattico, l’ordine non marcato (naturale) è quello in cui vengono disposti i costituenti in
un contesto comunicativo “pragmaticamente neutro”, quando si intende trasmettere
esclusivamente l’informazione che deriva dalla somma dei costituenti.

Quindi, una struttura sintattica può essere definita naturale o non marcata se in essa non compaiono
marche. In ottica topologica, la tendenza prevalente è quella di previlegiare le strutture non marcate.

Testa e modificatori: la tipologia sintattica basata sull’ordine dei costituenti costituisci un ambito di
costrutti linguistici molto più ampio di quello delineato. È opportuno operare un distinguo. Per
quanto riguarda la posizione del soggetto si è visto che la quasi totalità delle lingue adotta la stessa
strategia. Un questo caso, lo spazio per la variazione intralinguistica è davvero limitato. Un’analisi
basata esclusivamente su questo parametro sarebbe destinata all’insuccesso.

Focalizziamo la nostra attenzione sugli altri costituenti della frase dichiarativa: V e O, in quanto nella
letteratura scientifica di impronta tipologica sono stati individuati altri costrutti la cui struttura
interna risulta in correlazione con quella del sintagma verbale. I tipi paiono internamente molto più
articolati e le lingue del mondo esibiscono un più alto grado di differenziazione reciproca.

I principali parametri in correlazione con la posizione di V e O sono la presenza di preposizioni o di


posposizioni, la struttura del sintagma nominale (posizione testa e dei suoi modificatori), la posizione
degli ausiliari, della negazione e degli avverbi rispetto al verbo, la collocazione dei pronomi
interrogativi e la struttura delle costruzioni. In base alla loro combinazione, possono essere
individuati due tipi di riferimento, che per comodità chiameremo VO e OV:

• tipo VO: preposizioni, nome-modificatore, ausiliare-verbo principale, congiunzione-frase


subordinata, pronome interrogativo in posizione iniziale;
• tipo OV: posposizioni, modificatore-nome, verbo principale-ausiliare, frase subordinata-
congiunzione, pronome interrogativo in posizione non iniziale.

I due tipi in questione esibiscono il massimo indice di coerenza e trovano piena e ideale
rappresentazione in berbero e zapoteco (VO) e birmano e hindi (OV).
Essi, tuttavia, non coprono l’intera area della variabilità interlinguistica. Se ci concentriamo solo sui
primi parametri della lista (ordine di V e O, presenza di preposizioni o posposizioni, posizione testa
e modificatori) osserviamo che le lingue del mondo si distribuiscono in circa 15 tipi. Tra di essi solo
sette si caratterizzano per una diffusione interlinguistica davvero significativa.

I tipi teoricamente possibili in base alle combinazioni dei parametri in questione ammontano a
svariate decine. Rispetto all’ordine dei costituenti nei sintagmi verbale, nominale e adposizionale la
variazione interlinguistica è sicuramente circoscritta e tutt’altro che caotica.

Questa convergenza non pare imputabile al caso. Riprendiamo dunque i due tipi in assoluto più
coerenti, che abbiamo definito VO e OV, e focalizziamo la disposizione dei costituenti nei sintagmi
verbale, nominale e adposizionale:

Ora il quadro teorico dovrebbe essere sufficientemente chiaro per poter operare le necessarie
generalizzazioni. Riepilogando, il principio organizzativo soggiacente ai due tipi ideali riprodotti
sopra concerne la posizione reciproca di testa e complementatori/modificatori: il tipo VO obbedisce
al principio “testa a sinistra” mentre il tipo OV si conforma al principio “testa a destra”.

Questa generalizzazione ha conseguenza sul piano teorico ed empirico. A livello teorico, alcuni
costrutti differenti e reciprocamente indipendenti adottano il medesimo principio organizzativo,
cioè, posizionano sempre la testa o prima o dopo i complementi/modificatori. Ciò, dal lato empirico,
permette ai parlanti un notevole risparmio di energie al momento dell’acquisizione e dell’uso della
lingua: essi possono apprendere un unico principio generale e in base ad esso costruire e
interpretare molteplici strutture complesse di varia e differente natura.

Questa spiegazione, nonostante il sostegno di molti, presta il fianco ad alcune obiezioni di sostanza.
Prima tra tutte, non spiega il fatto che l’aggettivo raramente si conforma ai due principi in questione.
Lo stesso può dirsi dell’articolo. Per dar conto di queste (e altre) situazioni “anomale” si è affermata
negli ultimi anni un’ipotesi alternativa: la Branching Direction Theory. Essa prevede che la coerenza
tipologica nei costrutti che compongono i due tipi VO e OV sia rigorosamente rispettata solo dai
costituenti che abbiamo una struttura sintattica interna, cioè dai costituenti che, in una
rappresentazione ad albero, esibiscano una ramificazione.

La Branching Direction Theory prevede che in una lingua vi sia una tendenza forte a collocare i
costrutti di natura sintattica sempre prima o dopo la testa: la ramificazione dovrebbe avvenire
sempre nella testa direzione: o a destra o a sinistra della testa. invece, gli elementi che non
ramificano paiono esenti da questa restrizione.

In questo quadro, l’inglese sarebbe non una lingua con testa a sinistra, ma piuttosto una lingua con
ramificazione a destra, in quanto solo i complementi/modificatori con struttura sintattica interna si
collocano sempre a destra della loro testa.

La teoria della direzione della ramificazione spiega molto bene anche presunte anomalie
dell’italiano. L’aggettivo può spostarsi in posizione prenominale, spesso acquisendo un significato
traslato o modificando il proprio aspetto esteriore, na quando l’aggettivo assume struttura sintattica,
la posizione postnominale si irrigidisce.

Anche questa teoria ha riscosso molto successo, pur presentando alcuni lati oscuri. Quello che è
importante sottolineare rispetto alle due ipotesi presentate è che entrambe ricorrono a fattori
interni al sistema lingua per spiegare le correlazioni tipologiche in ambito sintattico. Tuttavia, tanto
nella teoria relativa alla posizione della testa, quanto nella Branching Direction Theory il senso
profondo delle correlazioni esaminate può essere ricondotto in ultima analisi a un importante
condizionamento extrasistematico: la lingua rileva una chiara tendenza all’economia, che la porta a
puntare alla massima efficacia comunicativa con uno sforzo contenuto, riducendo al minimo la
propria dotazione formale e limitando al massimo grado le strutture ridondanti o costose.

TIPOLOGIA E MORFOLOGIA

I tipi morfologici

La tipologia su base morfologica vanta una tradizione secolare: già all’inizio dell’800 vennero
avanzate proposte per un’embrionale classificazione delle lingue più note in “tipi morfologici”.

La tipologia morfologica presuppone l’azione di 2 parametri: l’indice di sintesi e l’indice di fusione.


Il primo di essi concerne il numero di morfemi individuabili all’interno di una parola; il secondo
riguarda la segmentabilità della parola stessa, il grado di difficoltà con cui vengono individuati i
confini tra i morfemi.
La combinazione dei due indici consente di individuare almeno quattro tipi di riferimento:

1. il tipo isolante
2. il tipo polisintetico
3. il tipo agglutinante
4. il tipo fusivo

A partire dall’indice di sintesi, possiamo individuare due tipi estremi: quello isolante e quello
polisintetico.

Nelle lingue isolanti l’indice di sintesi ha il valore minimo: ogni parola tende a essere
monomorfemica, ogni morfema è invariabile nella forma e in genere esprime un solo significato.
Rispetto al tipo in questione non ha senso parlare di indice di fusione: dal momento che ogni parola
è composta da un solo morfema, i morfemi non si combinano mai tra di loro e di conseguenza non
esistono confini tra morfemi, ma solo confini tra parole. Due tra le più note lingue isolanti sono il
mandarino e il vietnamita.
Cinese Mandarino:

ta zai tushuguan kan bao

egli presso biblioteca leggere giornale

“egli sta leggendo il giornale in biblioteca”

Ogni parola è formata da un unico morfema.

Ogni parola è formata effettivamente da un unico morfema. Anche per pluralizzare un nome, ad
esempio, si utilizza la giustapposizione di un’altra parola monomorfemica, priva di un vero significato
lessicale, ma portatore dell’informazione grammaticale (plurale) es.

il vietnamita “toi”: io - “chung toi”: noi (pl. + io)

Inoltre, le parole tendono ad essere del tutto invariabili nella forma: la stessa parola può svolgere
più funzioni sintattiche senza alterare la propria configurazione formale.

Fenomeni di questo tipo sono etichettati come fenomeni di conversione: un elemento cambia la
propria categoria sintattica senza l’aggiunta di materiale linguistico. il processo della conversione è
tipico del tipo isolante, dal momento che permette di manipolare il materiale linguistico a
disposizione con una certa flessibilità. Ciò obbliga ad attribuire al contesto un ruolo superiore a
quello che di norma gli è attribuito.

Un altro aspetto fondamentale del tipo isolante sta nella corrispondenza biunivoca tra morfemi e
unità semantiche: ogni parola/morfema esprime uno e un solo significato, lessicale o grammaticale.

Le lingue polisintetiche, le troviamo come opposte a quelle isolanti: l’indice di sintesi assume il
valore massimo. Esse concentrano all’interno della stessa unità lessicale un numero elevato di
morfemi, condensando in una sola parola informazioni che in italiano richiederebbero la costruzione
di un’intera frase.
Eschimese siberiano:
angya-ghlla-ng-yug-tuq

barca-ACCRESCITIVO-coprare-DESIDERATIVO-3ps. Sing

“egli vuole comprare una grande barca”

Questa sequenza è allo stesso tempo una parola e una frase di senso compiuto.

I due tipi che esemplificano i valori estremi dell’indice di fusione sono quello agglutinante e quello
fusivo. In questo caso l’indice di fusione si colloca di norma su valori intermedi. All’interno del
tipo polisintetico, viene in genere individuato il sottotipo incorporante, cui vengono ascritte le
lingue che tendono a giustapporre in una sola parola numerosi morfemi di natura essenzialmente
lessicale (mentre nelle lingue polisintetiche i morfemi sono sia lessicali che grammaticali).

Le lingue di tipo agglutinante esibiscono il minor indice di fusione. In esse la parola consta
generalmente di più morfemi e di norma la segmentazione non presenta particolari difficoltà, in
quanto vi è una marcata tendenza a disporre i morfemi in sequenza senza che i rispettivi confini si
confondano. Anche nei sistemi di tipo agglutinante viene mantenuta una corrispondenza biunivoca
tra il livello della forma e quello del contenuto: ogni morfema adempie a una sola ben definita
funzione.

turco: “adam”: l’uomo; “adam-lar”: gli uomini (uomo-PL); “adam-a”: all’uomo (uomo-DAT); “adam-
lar-a”: agli uomini (uomo-PL-DAT)

Ogni forma è invariabile e portatrice di un solo significato. L’indice di sintesi si attesta in genere su
valori medio-alti: le parole tendono a dotarsi, al loro interno, di un buon numero di morfemi, in
quanto è impossibile esprimere più categorie semantico-funzionali con un unico morfema.

La situazione delle lingue fusive è opposta, nelle quali l’indice di fusione è massimo. In esse i confini
tra un morfema e l’altro perdono visibilità e ciò determina una serie di reazioni a catena: la
segmentazione diventa ostrica, i casi speciali si moltiplicano e l’ideale corrispondenza biunivoca tra
piano della forma e quello del contenuto svanisce, in quanto più categorie semantico-funzionali si
concentrano in un unico morfema.

Lingue indoeuropee hanno un carattere prevalentemente fusivo. Si consideri il caso del latino:
“homo”: uomo; “homin-es”: uomini; “homin-i”: all’uomo; “homin-ibus”: agli uomini.

Se si considera il dativo plurale hominibus, una prima segmentazione ci consente di dividere la


base homini- dalla terminazione -ibus; a questo punto, però, l’analisi non può procedere oltre: la
desinenza -ibus, infatti, non contiene al suo interno né un morfema che veicoli specificamente la
funzione gramm. [DATIVO] né un morfema che trasmetta l’informazione relativa al numero
[PLURALE]. La differenza con il turco è lampante, inquanto -lar è la marca del plurale e -a quella del
dativo. Spesso i morfemi nelle lingue fusive hanno anche forma variabile: la terminazione -es del
nominativo plurale di homines non può essere estesa ai nomi maschili della seconda declinazione,
ad esempio, per i quali le medesime funzioni grammaticali sono realizzate dalla marca -i ecc. Oltre
alla situazione “più forme > una funzione”, è attestata anche la situazione opposta “una forma > più
funzioni” ex “hominibus”: dativo plurale e ablativo plurale.
L’indice di sintesi si caratterizza di norma per valori medio-bassi: la possibilità di far convergere più
unità semantiche su un singolo morfema, infatti, consente di ridurre il numero complessivo dei
morfemi all’interno della parola. All’interno di questo tipo si è soliti individuare il “sottotipo
introflessivo”: lingue in cui il rapporto tra unità del contenuto e unità dell’espressione
ricalca lo schema appena delineato, senza che tuttavia i morfemi vengano disposti in ordine
lineare. Principalmente prevedono una collocazione “a pettine” dei morfemi. L’arabo, ad esempio,
costruisce le parole “intrecciando” una radice (tri)consonantica, con una lettura semantica
piuttosto generica, priva di ogni implicazione di natura grammaticale (ad esempio
specificazioni rispetto le categorie di genere) e particolari sequenze vocali che, collocate tra le
consonanti della radice, cui spetta la mansione di esprimere ulteriori specificazioni lessicali e
grammaticali.

Marcatura della dipendenza sulla testa vs sul modificatore

Una seconda classificazione tipologica che ha riscosso credito nella letteratura scientifica concerne
le strategie morfologiche che le lingue adottano per codificare la relazione di dipendenza. Essa può
essere espressa mediante dispositivi di natura sintattica o attraverso il ricorso ad affissi, cioè con
strumenti di natura morfologica.

La classificazione tipologica di cui ora ci occupiamo coinvolge le lingue che prediligono questa
seconda opzione. Il tratto in questione ha una duplice articolazione e consente di prevedere
l’esistenza di un tipo di riferimento: le lingue che adottano strategie morfologiche per codificare la
relazione sintattica in esame possono in effetti marcare la relazione di dipendenza sulla testa, sugli
elementi dipendenti oppure sia sulla testa che sugli elementi dipendenti.

La marcatura sulla testa sembra la strategia ricorrente anche tra le lingue che non consentono
di identificare alcun ordine basico dei costituenti. Al contrario, le lingue in cui il verbo occupa la
posizione centrale o finale della frase indipendente dichiarativa paiono più propense a marcare la
dipendenza sintattica sui modificatori e i complementi della testa.

Altri due parametri tipologici:

- natura del sistema di caso: le lingue in cui vige il sistema nominativo-accusativo non
mostrano alcuna preferenza per nessuna delle tre strategie di marcatura, la scelta delle
strategie è paritaria. Nelle lingue con sistema ergativo-assolutivo si registra una netta
prevalenza della marcatura sulla dipendenza, mentre le lingue con sistema attivo-stativo
usano la marcatura a testa.
- ordine dei costituenti: chiara tendenza ad associare da una parte la marcatura sulla testa e la
posizione iniziale al verbo e dall’altra la posizione mediana del verbo e la marcatura sulla
dipendenza.

TIPOLOGIA E FONOLOGIA

Il componente fonetico-fonologico della grammatica è stato per anni penalizzato nelle indagini di
impronta tipologica e solo recentemente è tornato a occupare una posizione centrale. In questo
quadro però vi sono delle questioni attorno alle quali il dibattito tra gli studiosi non si è mai esaurito.
Tra esse, quella relazione a un elemento soprasegmentale: il tono. Il tono è una proprietà che
caratterizza i suoni sonori, cioè i suoni che prevedono, nella loro articolazione, la vibrazione delle
corde vocali: tanto più elevata è la frequenza con cui vibrano le corde vocale, tanto più alto (o acuto)
è il tono del suono prodotto.

Il tono si realizza in tutte le lingue storico-naturali, seppur con modalità differenti. Tuttavia, solo in
circa metà delle lingue parlate oggi sulla Terra esso è fonologicamente pertinente ed ha valore
distintivo.

[Ad esempio, in cinese mandarino vi sono quattro toni: per la rappresentazione si utilizza una
combinazione di due o più valori numerici: si suppone che l’estensione massima delle variazioni di
tono possa essere racchiusa in un intervallo numerico che ha i suoi estremi nei valori uno e cinque.

TONO 1: alto costante: 55

TONO 2: alto ascendente: 35

TONO 3: discendente-ascendente 214

TONO 4: alto discendente 51

I toni in cinese sono fonologicamente pertinenti, consentono di distinguere i significati delle parole.
Lingue di questo tipo vengono generalmente indicate come “lingue a toni” o “lingue tonali”. In
termini areali, esse paiono concentrare nell’Africa subsahariana, nell’America centrale e nell’Asia
sudorientale.

In un’indagine tipologica sui sistemi di tono, il primo passo coincide con l’identificazione di due
macrotipi, appunto le lingue tonali vs le lingue non tonali.

Le lingue a toni costituiscono un tipo internamente piuttosto disomogeneo, che non consente
l’elaborazione di un profilo tipologico unitario e omogeneo, ma che può essere scandagliato in base
a diversi parametri. Due paiono largamente prevalenti nelle più note tipologie proposte: l’unità cui
è associato il tono e la funzione cui il tono deve assolvere.
Per quanto concerne il primo parametro, la distinzione più frequente è quella tra toni associati a
vocali e toni associati a sillabe. Rispetto a questi ultimi è possibile discriminare ulteriormente i toni
associati a una sola sillaba dai toni che invece arrivano a coprire più sillabe.

Rispetto invece alla funzione dei toni, la più importante suddivisione è tra i toni che distinguono
morfemi lessicali e quelli che distinguono morfemi con valore più specificatamente grammaticale. I
toni possono svolgere anche una funzione derivazionale.

Altri tratti tipologicamente salienti dal punto di vista fonetico-fonologico riguardano la consistenza
degli apparati consonantici e vocalici. Per quello che riguarda le vocali, un parametro citato spesso
nella letteratura concerne la nasalizzazione. Ovviamente questo parametro ha ragion d’essere solo
se ha valore fonologico, cioè se il contrasto tra vocali orali e nasali è distintivo.

In generale, si osservano alcune tendenze abbastanza ricorrenti, a partire dal rapporto


implicazionale che lega vocali orali e nasali (la presenza di quest’ultime implica la presenza delle
prime) o dalla consistenza di due apparati (di norma, le vocali nasali sono meno numerose di quelle
orali).

Un altro parametro molto utilizzato riguarda la struttura della sillaba che, a partire dalla sequenza
più semplice, CV, mostra diversi livelli di complessità.

TIPOLOGIA E LESSICO

Il lessico, che gioca un ruolo cruciale nella classificazione genealogica, assume una posizione di
sostanziale marginalità nell’ambito degli studi di impronta tipologica. Infatti, il lessico appare
vulnerabile rispetto a perturbazioni provenienti dall’esterno.

Gli studi tipologici a base lessicale che hanno prodotto i risultati più convincenti sono quelli che
hanno scandagliato a fondo la terminologia utilizzata per codificare le relazioni di parentela e il
lessico dei colori.

In una ricerca di Berlin e Kay, sono stati individuati undici colori che sembrano essere riconosciuti e
indicato nello stesso modo dai parlanti di oltre cento lingue. L’aspetto più rilevante della questione
risiede nel fatto che queste undici classi cromatiche paiono disporsi in una gerarchia organizzata in
modo rigidamente implicazionale; essa implica che non si può accedere a un livello senza essere
passati per quelli precedenti: bianco/nero > rosso > giallo/verde > blu > marrone > rosa > arancio.

La struttura implicazionale della gerarchia impone in sostanza che non si possa accedere a un livello
senza essere passati per quello precedente. È quindi impossibile che una lingua abbia un termine
per il bianco, uno per il nero e uno per il blu, senza avere il rosso, il giallo o il verde.

Due puntualizzazioni sono necessarie. Innanzitutto, è evidente che le undici categorie sopra indicate
non coprono l’intera gamma della variazione cromatica. Vi sono lingue che dispongono di più di
undici termini per indicare i colori. In questo caso, per i colori che esulano dalla gerarchia non sono
state osservate tendenze interlinguisticamente rilevanti, tenendo in conto che essi possono entrare
in gioco solo se tutti gli undici colori hanno espressione lessicale.
In secondo luogo, non è detto che debba essere rigidamente mantenuta la corrispondenza biunivoca
tra classi cromatiche e unità lessicali. Uno stesso colore può essere espresso da due termini distinti.

In conclusione, possiamo ribadire come rispetto al lessico dei colori la convergenza interlinguistica
sia sorprendente: i tipi possibili in base alle combinazioni tra undici classi cromatiche sono oltre
duemila, ma quelli effettivamente attestati sono appena 22: proprio quelli indicati dalla gerarchia
riprodotta sopra.

Non esistono tipi puri

I tipi sono artefici teorici che filtrano la concreta realtà linguistica semplificandola sensibilmente e
non è possibile ascrivere in modo inequivoco una lingua ad un tipo. Essi non sono oggetti
concretamente osservabili e non si realizzano integralmente in alcun sistema linguistico. Le lingue
storico-naturali si caratterizzano come tipologicamente miste. In questo senso, l’analisi tipologica
dovrà tener conto, ove possibile, delle tendenze prevalenti, prevedendo la possibilità di assegnare
una stessa lingua a più tipi o l’impossibilità di classificare tipologicamente una lingua.

Pensiamo all’inglese, che contrariamente a quanto la sua incredibile fortuna potrebbe far pensare,
esibisce un ricco campionario di incongruenze e contraddizioni tipologiche. Riprendiamo le due
principali classificazioni descritte sopra: l’ordine dei costituenti e quella fondata sull’identificazione
dei tipi morfologici.

In chiave sintattica, l’inglese si configura come una lingua VO. In questo senso, ci aspetteremmo di
trovare i modificatori e i complementi sempre alla destra della testa. Questa aspettativa viene
smentita da fatti. Abbiamo avuto occasione di osservare come nel sintagma nominale l’aggettivo
preceda sempre il nome (the black dog), in contraddizione con il principio soggiacente al tipo VO.
Nell’espressione del possesso, forme come “the leader of the party”, del tutto plausibili nel quadro
tipologico in questione, convivono con costrutti del tipo “Anna’s bike”, che invece rinviano al tipo OV
e non al tipo VO. Lo stesso costrutto, il sintagma nominale, sembra sottoposto alla pressione di due
tendenze contrapposte che agiscono simultaneamente.

La situazione è ancora più intricata se volgiamo l’attenzione alla tipologia su base morfologica.
L’inglese viene spesso associato al tipo isolante. Gli aggettivi, ad esempio, sono invariabili in quanto
non assumono marche di numero e genere. Queste ultime sono assenti anche nel nome. La
sequenza “a little dog” è tipicamente isolante: ogni parola è monomorfemica e invariabile e con essa
possiamo designare sia un cagnolino che una cagnolina. Inoltre, dobbiamo rammentare che l’inglese
utilizza il processo della conversione, che contraddistingue le lingue isolanti e permette di cambiare
la categoria sintattica delle parole senza variazioni nella forma.

Tuttavia, basta allargare un po' il campo dell’indagine perché sorgano i primi dubbi sulla natura
isolante dell’inglese. Il plurale dei nomi e il comparativo degli aggettivi vengono realizzati con
strategie di natura agglutinante (forme come “boys” e “taller” prevedono l’aggiunta di un morfema
legato a una forma libera). In entrambi i casi i due morfemi si combinano senza che il confine interno
venga alterato e veicolando ciascuno una sola funzione semantica o grammaticale.
Si potrebbe dunque dire che l’inglese è una lingua isolante ma con una componente agglutinante
non trascurabile, una quantità non indifferente di elementi fusivi e qualche forma introflessa.

Di fronte a questo groviglio, il tipologo non può far altro che rimanere senza risposta e non assegnare
all’inglese un tipo morfologico.

Classificazione tipologica e genetica delle lingue

Si è già affermato che la classificazione tipologica delle lingue costituisce un procedimento


alternativo rispetto alla classificazione su base genealogica, che mira a individuare i rapporti di
parentela tra le lingue in virtù di concordanze riscontrate a vari livelli di analisi. La precedente
affermazione dovrebbe essere calibrata diversamente e riformulata, sostituendo l'aggettivo
“alternativa” con il più appropriato “complementare”. In effetti, è emerso piuttosto chiaramente che
vi sono alcuni aspetti per i quali i 2 diversi approcci al “problema lingua” procedono di pari passo,
intrecciandosi e collaborando proficuamente. Possiamo stabilire alcuni importanti punti di contatto
tra questi due settori della linguistica.

In primo luogo, essi ricorrono di norma al medesimo procedimento di analisi, quello comparativo. Il
contributo maggiore è quello fornito dalla linguistica storica che ha affinato il metodo rendendolo
ormai uno strumento di estrema efficacia. La tipologia lo ha fatto proprio adottandolo alle proprie
esigenze e calibrandolo ai propri obiettivi.

Un secondo aspetto per il quale la tipologia non può prescindere dall'apporto della linguistica storica
ha una rilevanza teorica maggiore. Una volta riscontrata una particolari occorrenza di più tratti in
linguistici, per sancire l'esistenza di una tendenza topologica più o meno generali è necessario
escludere che questi tratti siano la conseguenza di una comune affiliazione genealogica, quindi che
siano stati ereditati da una medesima protolingua madre. In questi termini la ricerca tipologica non
può prescindere dai risultati conseguiti dalla linguistica storica comparativa, almeno per quanto
concerne la ricostruzione dei legami di parentela tra le lingue.

Lo stesso discorso si ripropone quando ci si rivolge alla costruzione del campione rappresentativo.
Anche in questo caso è indispensabile dare adeguata rappresentazione a tutte le famiglie e
sottofamiglie linguistiche che la linguistica storico comparativa ha contribuito a identificare.

Ma anche la tipologia può supportare la classificazione genealogica delle lingue e la linguistica


storico comparativa.

Innanzitutto, la tipologia può suggerire alla linguistica storica una sorta di gerarchia di pertinenza di
tratti linguistici nei processi di ricostruzione dei legami di parentela. Infatti, i legami linguistici, che
si suppone siano l'effetto di tendenze e tipologiche generali, non dovrebbero essere utilizzati per
ipotizzare legami di parentela. Essi non sono pertinenti rispetto agli obiettivi della linguistica storica,
in quanto costituiscono la manifestazione di tendenze tipologiche generali.

In secondo luogo, la tipologia può contribuire ad avvalorare o smentire le ipotesi ricostruttive


formulate dalla linguistica storica. Anche i sistemi linguistici, non direttamente attestati e ricostruiti
in base alla più o meno ampia documentazione disponibile devono soddisfare i requisiti di coerenza
tipologica conformandosi all'inventario dei tipi possibili. È chiaro che ogni ipotesi ricostruttiva, non
supportata da una sostanziale plausibilità tipologica, vedrebbe inevitabilmente compromessa la
propria attendibilità. La linguistica storica, devi misurarsi anche con i risultati prodotti dalla ricerca
tipologica.

Infine, la classificazione di tipologica può sostenere la classificazione genealogica in aree


geolinguistiche particolarmente intricate, come la Papuasia, l'Africa subsahariana, l'America centro
meridionale, in cui l'assenza di un'adeguata documentazione scritta rende altamente problematica
e speculativa la ricostruzione dei legami di parentela. In questo caso sono le affinità di natura
tipologica a dare l'input alle ipotesi ricostruttive della linguistica storica-comparativa.

Il ruolo della tipologia in una teoria del linguaggio

Le classificazioni tipologiche su cui ci siamo soffermati nei paragrafi precedenti pongono in risalto
due aspetti della tipologia linguistica che non abbiamo approfondito.

Innanzitutto, a differenza degli altri sistemi di classificazione delle lingue, la tipologia può classificare
tanto le lingue storiche naturali, quanto singoli segmenti delle lingue storico-naturali.

- Nel primo caso le singole lingue considerate nella loro globalità vengono classificate in virtù
di proprietà strutturali condivisi.
- Nel secondo caso viene proposta una classificazione tipologica di particolari strategie formali.

In entrambi i casi rimane imprescindibile il metodo comparativo. Una ricerca tipologica ha la sua
ragion d'essere nella comparazione interlinguistica. Ne consegue che non ha senso realizzare
un'indagine tipologica basata su una sola lingua. Ciò non significa che non sia possibile tracciare il
ritratto tipologico con una singola lingua, ma un approccio di questo tipo diviene plausibile solo se
prevede il ricorso a termini di raffronto esterni alla lingua in questione.

Il fatto che condurre un'analisi tipologica basandosi su una sola lingua rappresenti un controsenso
consente di evidenziare un altro aspetto di grande rilevanza teorica, cioè la tipologia linguistica non
può e non vuole essere una teoria generale del linguaggio, ma evidentemente può contribuire in
modo decisivo alla formulazione di una teoria linguistica generale, che ambisca a capire come
funziona il linguaggio e come esso si realizzi nelle lingue storico-naturali.

Se dunque l'obiettivo ultimo della tipologia è studiare i limiti della variazione interlinguistica e
definire la nozione di lingua umana possibile, nessuna teoria generale del linguaggio umano può
prescindere da un approccio tipologico. Sono comunque varie le questioni connesse allo studio della
lingua, per le quali la tipologia linguistica assume in posizioni diverse rispetto a quelle che
contraddistinguono le più note teorie del linguaggio. Innanzitutto, per trovare la spiegazione di fatti
linguistici, la tipologia volge lo sguardo solamente all'esterno del singolo sistema lingua, mentre le
principali teorie del linguaggio tendono a privilegiare i condizionamenti intra sistemici.

Inoltre, in chiave di tipologica è naturale attendersi che ogni segmento del sistema lingua obbedisca
a un proprio principio organizzativo. Talvolta nello stesso segmento emergono chiari i segni di una
competizione di più principi distinti. La storia degli studi tipologici pone di fronte agli occhi il
fallimento di ogni tentativo di elaborare tipologie olistiche, tali da ricondurre ogni articolazione del
sistema lingua a un unico principio organizzativo. Se ogni manifestazione della lingua obbedisse a un
unico principio organizzativo, e se quest'ultimo fosse condiviso da tutte le lingue storiche, allora
davvero la tipologia equivarrebbe a una teoria generale del linguaggio. Ma siccome i dati discussi in
precedenza hanno dimostrato che una situazione di questo tipo non trova i riscontri ci induce a non
equiparare la tipologia linguistica a una teoria linguistica generale, ma considerare l'approccio
tipologico come complementare a quello più generale.

GLI UNIVERSALI LINGUISTICI

Fino a pochi decenni fa, prima delle prime descrizioni grammaticali dello hixkaryana, si riteneva che
il tipo OS fosse privo di attestazioni. Si pensava che l’impossibilità di anteporre l’oggetto al soggetto
fosse una caratteristica condivisa da tutte le lingue storico-naturali, cioè un universale linguistico.
Questi indicano proprietà o correlazioni di proprietà che si suppone contraddistinguono ogni lingua
storico-naturale, del presente come del passato.

Da sempre la tipologia linguistica e la descrizione degli universali si intrecciano, condividendo metodi


di indagine e strumenti esplicativi, al punto che pare impossibile trattare dell’una senza fare
riferimento all’altra. Eppure, la tipologia e la ricerca sugli universali paiono perseguire obiettivi
opposti:

- Tipologia: si occupa della variazione interlinguistica


- Ricerca sugli universali: studia ciò che è comune in tutte le lingue, concentrandosi sulle
proprietà che non possono variare.

Nonostante ciò, i punti di contatto tra le due discipline sono molteplici. Entrambe si collocano sul
livello sincronico, prescindendo dalla componente tempo. Inoltre, anche la ricerca sugli universali
ha un carattere descritto come la tipologia. Gli universali in quanto tali fotografano uno stato di cose:
osservano che una specifica proprietà occorre in tutte le lingue, ma non dicono che essa debba
necessariamente esserci né perche effettivamente ci sia.

In sostanza, né gli universali né le correlazioni tipologiche hanno in sé la ragione della propria


esistenza. Non vi è alcuna ragione per cui le lingue debbano distinguere i nomi dai verbi o perché le
lingue che collocano il verbo in posizione iniziale debbano previlegiare le marcature sulla testa. In
entrambi i casi è necessario spingersi oltre l’esistente per trovare le giustificazioni delle situazioni
osservate. Di norma, la tipologia e la ricerca sugli universali ricorrono ai medesimi fattori per spiegare
le generalizzazioni proposte.

Ma l’aspetto più rilevante coincide con il fatto che gli universali individuano ciò che è
tipologicamente rilevante e delimitano e circoscrivono il campo di indagine della tipologia stessa.
Evidenziando i tratti che si suppongono comuni a tutte le lingue, gli universali sanciscono che rispetto
a quegli stessi tratti, l'indice di variazioni è zero e collocano i tratti in questione fuori dall'ambito di
indagine della tipologia. Essi contribuiscono a fissare i limiti entro i quali le lingue possono variare.
Concorrono a delimitare con un solco piuttosto netto il campo entro il quale lingue possono
muoversi più o meno liberamente.
Ovviamente non tutti gli universali hanno la medesima rilevanza per la tipologia. In genere si è soliti
distinguere tra universali assoluti e implicazionali.

Gli universali assoluti

Sanciscono la presenza di una particolare proprietà in ogni lingua storico naturale e senza fare
riferimento ad alcun parametro e senza stabilire correlazioni fra tratti differenti. L'esempio più noto
di universale assoluto è rappresentato dall'affermazione che tutte le lingue hanno vocali orali.

Evidente che gli universali assoluti non lasciano alcuno spazio alla variabilità e si consentono di
identificare un unico tipo linguistico cui afferiscono tutte le lingue passate e presenti. Essi hanno
davvero poche occasioni di cooperazioni con la tipologia.

La rilevanza degli universali assoluti sta nel fatto che essi forniscono informazioni sulla natura
profonda del linguaggio umano, rimandando a condizionamenti che la lingua subisce
oggettivamente in rapporto alla conformazione fisica dell'apparato fonatorio e alle costrizioni
neurologiche e psicologiche che intervengono nell'atto comunicativo.

Per comprendere condizionamenti di questa natura è bene ricordare che nell'interazione


comunicativa viene impiegata principalmente la comunemente definita memoria a breve termine
che rende problematico e recupero di informazioni legate a strutture sintattiche molto complesse.

Gli universali implicazionali

Gli universali implicazionali pongono in relazione due o più proprietà, vincolando la presenza di una
di esse alla presenza dell'altra. Essi affermano che un tratto linguistico può realizzarsi in una lingua
storico naturale solo se nella medesima lingua è attestato anche un altro tratto linguistico.

Per la tipologia, il contributo degli universali implicazionali ha un rilievo maggiore di quello offerto
dagli universali assoluti. Ponendo in relazioni due proprietà distinte e teoricamente indipendenti, un
universale implicazionale lascia le lingue un buon margine di reciproca differenziazione e offre
parametri affidabili e attendibili per lo studio della variabilità interlinguistica.

Nell’universale “VSO = preposizioni” entrano in gioco due parametri teoricamente indipendenti, ma


dalla loro correlazione emergono 4 possibilità combinatorie, dunque 4 tipi distinti:

1. lingue con ordine VSO e con preposizioni;


2. lingue con ordine VSO, ma senza preposizioni;
3. lingue senza ordine VSO, ma con preposizioni;
4. lingue senza ordine VSO e senza preposizioni.

Attribuendo a questa correlazione un carattere implicazionale, siamo però costretti a escludere


l’esistenza di uno di questi tipi, nello specifico quello indicato al punto 2: non dovrebbero esistere
lingue con ordine VSO prive di preposizioni. La correlazione implicazionale dice che le lingue possono
ricorrere all’ordine VSO se, e solo se, hanno anche preposizioni. Non è vero il contrario: non è detto,
cioè, che tutte le lingue preposizionali debbano necessariamente sviluppare l’ordine VSO.
Quindi i due parametri identificati in precedenza si dimostrano pertinenti rispetto a una disamina di
natura topologica: a livello potenziale, consentono di individuare quattro tipi possibili, ma la natura
implica azionale della loro correlazione, di fatto ne elimina uno in partenza. Purché l'universale
implicazionale abbia una ricaduta tipologica significativa è necessario non solo che il tipo impossibile
sia effettivamente inesistente, ma anche che i tipi possibili abbiano un'adeguata attestazione
interlinguistica.

In conclusione, dunque, gli universali implicazionali rappresentano un valido supporto per la


tipologia linguistica, essi stabiliscono i limiti estremi della variazione interlinguistica, indicando i
terreni sui quali le lingue non possono avventurarsi. La tipologia proietta queste generalizzazioni
sulla realtà concreta, valutando l'effettiva diffusione delle configurazioni che non violino le restrizioni
di carattere universale. Gli universali implicazionali costruiscono il recinto all'interno del quale si
collocano le lingue storico naturali, la tipologia studia i movimenti di questi ultimi nello spazio
interno al recinto.

Come spiegare gli universali?

È naturale chiedersi quale valore abbiano gli universali. A livello intuitivo, la loro importanza è
chiara: essi indicano una serie di requisiti che ogni lingua deve soddisfare e, con ciò, paiono
proiettare sulla concreta realtà linguistica proprietà essenziali del linguaggio, inteso come facoltà
mentale e cognitiva comune a tutti i membri della specie umana.

Se ci spingiamo oltre il livello intuitivo, la questione è più complessa. Come possono essere spiegati
scientificamente gli universali? L’unico modo per delucidare la questione è rinunciare all’ambizione
di spiegare unitariamente tutti gli universali e convincersi del fatto che essi possono obbedire a
fattori di natura diversa. Non si può escludere che esistano tante spiegazioni quanti sono gli
universali.

Almeno una generalizzazione pare possibile. Visto che la funzione primaria della lingua è quella di
associare una forma a dei contenuti per favorirne le espressioni, sembra opportuno collocare anche
le proprietà universali in una prospettiva di questo tipo inquadrandole nel contesto della finalità
comunicative cui la lingua deve assolvere. Se il fine ultimo di ogni lingua è la comunicazione gli
universali possono essere concepiti come strategie comunicative così efficaci da essere condivise da
tutte le lingue storiche naturali. Un approccio di questo tipo è etichettato come funzionale.
Proporremo ora in tre fattori che sembrano più influenti, esaminando invece più approfonditamente
un caso specifico ed esemplare.

Economia, iconicità e motivazione comunicativa

Gli strumenti di impronta tipologica hanno identificato dei principi in grado di giustificare la
presenza/assenza di particolari strutture linguistiche. Tra essi, tre ricoprono un ruolo davvero
cruciale: l’economia, l’iconicità e la motivazione comunicativa.

L’economia può essere definita come la tendenza a snellire il più possibile l’apparato formale di un
sistema linguistico, preservando le sue potenzialità comunicative. Economia significa ottenere il
massimo risultato comunicativo con il minimo sforzo da parte del parlante. Si può manifestare
attraverso il contenimento entro limiti compatibili per la memoria umana, dell'inventario delle unità
di base della lingua. Anche nella limitazione delle strutture ridondanti. Può essere spiegata
ricorrendo al principio generale secondo cui quando l'aggettivo segue il nome, esse esprime tutte
le categorie flessibili del nome e in tali casi il nome può lasciare inespresso una di queste categorie
o tutte quante. L'eventuale omissione da parte del nome di alcune categorie flessive risponde al
fatto che queste categorie flessibili vengono già espresse dall’aggettivo posposto.

Con iconicità si intende la tendenza a riprodurre sul piano della struttura linguistica le sequenze in
base a cui viene organizzata a livello mentale l'informazione da trasmettere. In situazioni di questo
tipo il discorso viene articolato in modo tale da riflettere fedelmente la concettualizzazione
dell'esperienza, cambiare nella mente del parlante. Può essere spiegata in questi termini la
propensione delle lingue a collocare le proposizioni condizionali prima della conclusione.

Per quanto concerne la motivazione comunicativa, se la lingua ha come traguardo essenziale la


comunicazione, è logico aspettarsi che essa faccia convergere tutte le proprie risorse su questo suo
obiettivo. La struttura complessiva della lingua e i contenuti adattamenti che la contraddistinguono
dovrebbero porsi il fine ultimo di adeguare il sistema alle esigenze comunicative della comunità dei
parlanti. Nessuna lingua dovrebbe porre limiti alle proprie potenzialità comunicative, privando
determinate categorie di un'efficace espressione formale.

È proprio la motivazione comunicativa a offrire una spiegazione dell'universale secondo cui tutte le
lingue hanno categorie pronominali implicanti almeno tre persone e due numeri. La presenza di tre
persone e di due numeri sembra essere la dotazione minima per poter imbastire un sistema
pronominale in grado di svolgere la funzione cui è preposto.

L’universale 38: la marcatura del soggetto nei sistemi di caso

Passiamo ora all’analisi più approfondita di uno degli universali più noti. L’universale in questione
afferma che in presenza di un sistema di casi, l’unico caso che può essere espresso mediante un
affisso zero è quello che include tra le sue funzioni quella di soggetto del verbo intransitivo.

Per semplificare la questione immaginiamo che le uniche funzioni in una lingua siano il soggetto di
un verbo intransitivo, il soggetto di un verbo transitivo e l’oggetto diretto. Stando all’universale
enunciato, solo il caso che è utilizzato per la funziona sintattica Sintrans può essere espresso da una
desinenza zero.

Una precisione è necessaria: l’universale in questione afferma che l’assenza di una specifica
desinenza può caratterizzare il caso che include tra le sue funzioni quella di Sintrans. È importante
sottolineare tra le sue funzioni: essa significa che lo stesso caso (a marca zero) può svolgere anche
altre funzioni.

Vediamo se questo universale viene rispettato nei due sistemi di caso più diffusi: quello nominativo-
accusativo e quello ergativo-assolutivo.

Il sistema nominativo accusativo è quello con cui un parlante occidentale ha la maggior


domestichezza. Si tratta del sistema in uso nel tedesco, in russo, in turco, oltre che latino e in greco
antico. Nelle lingue di tipo nominativo accusativo, il soggetto viene marcato sempre dal caso
nominativo. L'oggetto diretto assume il caso accusativo. Dunque, il caso nominativo assorbe le
funzioni di soggetto transitivo e soggetti intransitivo. Il caso accusativo corrisponde alla funzione
oggetto diretto. Stando a quanto detto precedentemente, dovremmo attenderci l’eventualità che il
nominativo possa essere provo di desinenze specifiche.

Nelle lingue di tipo ergativo-assolutivo, la marcatura del soggetto è vincolata alla valenza verbale. Se
il verbo è transitivo, il soggetto assume caso ergativo; se il verbo è intransitivo, il soggetto viene
contrassegnato dalla desinenza del caso assolutivo, che contraddistingue anche l’oggetto diretto.
Dunque, il caso assolutivo copre le funzioni di Sintrans e Odir, mentre il caso ergativo corrisponde
alla funzione Strans. In questo quadro, al caso assolutivo dovrebbe poter corrispondere una marca
zero. Il basco da piena conferma a questa supposizione.

I dati esaminati suggeriscono due generalizzazioni, in primo luogo il dettato dell'universale pare
pienamente rispettato il caso che svolge anche la funzione di soggetto intransitivo, può apparire
priva di desinenza sia nel sistema nominativo accusativo che in quello relativo assoluti. In secondo
luogo, i due sistemi possono obbedire a due principi organizzativi diversi: nel sistema nominativo-
accusativo si registra una convergenza tra soggetto transitivo e soggetti intransitivo, mentre nel
sistema ergativo-assolutivo no. La convergenza è tra soggetto intransitivo e oggetto diretto.

I tuoi sistemi in questioni raggiungono con la medesima efficacia l'obiettivo di una sostanziale
incisività comunicativa.

Questi due sistemi non sono né ridondanti, né lacunosi. Vediamo perché: ci troviamo davanti le tre
funzioni sintattiche e sicuramente noteremo che per le loro proprietà inerenti:

- STRANS E ODIR possono trovarsi insieme.


- ODIR e SINTRANS non possono trovarsi insieme
- SINTRANS E ODIR non possono trovarsi insieme

Una distinzione tra SINRANS e ODIR, quindi, può apparire fondamentalmente inutile, dato che è
impossibile immaginare un contesto nel quale essi possano trovare spazio
contemporaneamente. Invece STRANS e ODIR compaiono sistematicamente nelle medesime frasi
ed è dunque essenziale poterli identificare con assoluta chiarezza, dato che la confusione
pregiudicherebbe la corretta comprensione del messaggio trasmesso. Perciò da quest’analisi
capiamo che: l’unico caso che possa realizzarsi a marca zero sia quello che corrisponde a SINTRANS,
in quanto è l’unico argomento di un verbo transitivo e perciò non è necessario che venga
distinto da altri elementi. Non ha bisogno di desinenze particolari perché non può essere
confuso con altri elementi, non ha rivali. In questo caso il fattore più influente è quello dell’economia.

L’analisi di questo universale appare rilevante per il n. 41, in quanto stabilisce che:

• Le lingue SOV hanno quasi certamente un sistema di casi, data la necessità di distinguere il
STRANS E ODIR, la cui vicinanza (non vi è infatti nessun elemento intermedio come nelle
lingue SVO) rende difficile la distinzione [es. latino];
• Le lingue SVO presentano il soggetto e l’oggetto distanziati e la presenza del verbo in posizione
intermedia ne agevola l’identificazione, per cui nella maggior parte dei casi non è previsto un sistema
di casi [es. inglese, francese, italiano].

Universali e tendenze

Il primo vero e proprio impulso sulla ricerca degli universali ha radici nel 1966, a seguito della
pubblicazione degli studi di Joseph h. Greenberg. La ricerca si fondava su tratti di trenta lingue
diverse per origine appartenenti a quindi famiglie ed ha individuato 45 universali.

Molti studiosi hanno accolto e sviluppato i suggerimenti di Greenberg, le generalizzazioni e le ipotesi


più rilevanti sono state testate su larga scala, gli stessi universali greenberghiani sono stati verificati
su un campione di lingue più esteso.

Come era prevedibile, l’allargamento delle lingue prese in esame hanno sensibilmente modificato le
posizioni assunte da Greenberg: quello relativo alla supposta universalità di alcuni costrutti e
correlazioni. Il problema principale è quello delle eccezioni: basterebbe una sola eccezione per
invalidare un universale.

Ad esempio, si è a lungo creduto che sequenze del tipo OS fossero del tutto bandire. L’inventario
degli universali di Greenberg del 1966 si apriva proprio con l’enunciazione di questo principio.
Questa ipotesi è tramontata quando sono apparse le prime descrizioni grammaticali di lingue che
adottano la sequenza OVS.

In termini statici, si suppone che le lingue OS non superino il 2% delle lingue naturali parlate sulla
terra. È chiaro, dunque, che la che la tendenza a posporre l'oggetto rispetto al soggetto mantiene
un'incidenza statistica assolutamente schiacciante. La presenza di controesempi ed eccezioni si
mantiene entro limiti contenuti e di fatto non sembra contraddire il valore di fondo dell'universale.
Di fronte a una distribuzione in effetti non universale ma di tassi statisticamente è così netta dei dati,
è davvero opportuno rinunciare alla portata teorica dell'universale? Proprio allo scopo di preservare
il significato, il valore di generalizzazione di questo tipo è stata introdotta la distinzione tra universali
e tendenze universali.

I primi (universali) indicano quelle proprietà che, senza alcuna eccezione, ricorrono in ogni lingua.
Le seconde (tendenze) designano le proprietà o le strutture linguistiche che sono attestate in una
porzione rilevante delle lingue naturali.
Mentre la validità di universali è immediatamente evidente, possiamo chiederci chi utilità abbia lo
studio delle tendenze, visto che si tratta di situazioni che prevedono comunque eccezioni o
controesempi. Il valore delle tendenze sta nel fatto che esso dimostrano inequivocabilmente che la
distribuzione dei tratti linguistici o delle correlazioni tra essi non è casuale, ma obbedisce a una
ragione rigorosa. La presenza di casa anomali dipende dal fatto che la lingua nella sua evoluzione
subisce il forte condizionamento di fattori storici e sociali legati alle vicende della comunità parlanti
esterne al sistema della lingua. L'azione di questi fattori deve essere messa in conto anche se è
sfuggente a un'analisi puramente linguistica.
LA TIPOLOGIA E IL CONTATTO INTERLINGUISTICO

Nel discorso intorno alla natura, Machiavelli annotava che le lingue non possono essere semplici, ma
conviene che siano miste con le altre lingue.

L’interferenza interlinguistica si manifesta a più livelli: attraverso semplici prestiti lessicali, mediante
l’assimilazione di regole morfologiche, o con l’adozione di costrutti più complessi a livello
microsintattico.

L’interferenza è uno di quei fenomeni cui può essere ricondotto il fatto che non esistono tipi puri.
Questo fenomeno può alterare pesantemente la fisionomia di una lingua.

La tipologia areale e la nozione di area linguistica

Le lingue rappresentano una fonte preziosa per la ricostruzione delle vicende storiche delle singole
comunità umane e dei territori da esse abitati. Se è vero che il contatto interlinguistico è un
fenomeno cui nessuna lingua può sottrarsi, è del tutto plausibile che le abitudini linguistiche di
queste genti possano serbare le tracce di questi contatti.

Si può supporre che frequenti spostamenti di popoli possano favorire la propagazione e la successiva
sperimentazione dei tratti linguistici dovuti al contatto. In questo senso si possono ricavare
testimonianze preziose per far luce sulle vicende passate delle comunità umane.

L'analisi delle somiglianze tra le lingue parlate in una stessa area geografica dovuta alla vicinanza
fisica e al conseguente contatto reciproco di diversi gruppi di parlanti, costituisce l'oggetto di studio
della cosiddetta tipologia areale.

La nozione di tipo areale rientra a pieno diritto nella definizione generale di tipo data
precedentemente. Anche in questo caso abbiamo a che fare con una correlazione strutturata di
proprietà linguistiche reciprocamente indipendenti, che si concretizza nelle lingue storiche e naturali
concentrate in una data regione della terra. Una volta osservata le correlazioni, è necessario
procedere alle esplicitazioni del principio organizzativo giacente, che viene identificato nella spinta
propulsiva degli eventi storico sociali che hanno innescato i processi di convergenza. Per poter
asserire che le somiglianze in questione hanno una motivazione di natura reale è indispensabile
escludere che essi siano dovuti a tendenze tipologiche generali o a familiarità genetica. Questa
considerazione ha due implicazioni metodologiche significative.

• Innanzitutto, per poter individuare eventuali tracce di contatto areale è indispensabile


operare una comparazione più ampia tra le situazioni osservate nell'area in esame e le
tendenze tipologiche prevalenti nelle lingue del mondo.
• In secondo luogo, l'individuazione di fenomeni sospetti che inducano a ipotizzare un contatto
reale richiede necessariamente un approfondimento di natura diacronica.

Le regioni geografiche in cui i tipi areali si concretizzano maggiormente vengono definite aree
linguistiche. Possiamo affermare che un'area linguistica deve caratterizzarsi per la presenza di più
lingue parlate nel medesimo contesto geografico, ma non immediatamente imparentati e di tratti
linguistici da esse condivisi. È bene sottolineare che tali premesse rappresentano una condizione
necessaria ma non sufficiente per poter posture l'esistenza di un'area linguistica. Il verificarsi delle
tre situazioni menzionate in precedenza non determina l'esistenza di un’area linguistica.

I fattori necessari per far sì che ciò accada:

1. Le lingue devono trovarsi in uno stesso territorio geografico


2. Devono esserci contatti prolungati non occasionali
3. Deve esserci l’assenza di confini e barriere insormontabili

Storia e linguistica

Prima di addentrarci nell’analisi dei dati è necessario porre una breve premessa. Nel paragrafo
precedente abbiamo osservato tre condizioni necessarie ma non sufficienti per la formazione di
un’area linguistica limitandoci a considerare solo fattori di natura linguistica.

Però, per poter essere tale, un’area linguistica deve aver assistito a movimenti di popoli di vaste
proporzioni e alla conseguente creazione di aree bilingui o addirittura plurilingui, che costituiscono
l’humus per la propagazione di tratti linguistici.

L’implicazione teorica più rilevante del rapporto tra storia e linguistica nella verifica delle ipotesi di
diffusione areale di tratti linguistici consiste nell’ineludibile necessità di attribuire un ruolo
assolutamente prominente alla storia. Con un’affermazione forte, si può sostenere che solo la storia
può suffragare o smentire l’esistenza di un’area linguistica (Sprachbund). Al contrario, è del tutto
possibile che l’evidenza storica non si trasformi in evidenza linguistica. Un’area linguistica deve prima
di tutto essere un’area culturale e storica, ma non è detto che un’area storico-culturale si trasformi
in un’area linguistica.

Alcune aree linguistiche

I Balcani: I Balcani rappresentano una stratificazione etnica senza pari in Europa, come conseguenza
di una serie di ripetute ondate migratorie, che hanno più volte stravolto l’assetto complessivo
della regione. La complessità delle vicende storiche e sociali dei Balcani ha un suo inevitabile
riscontro anche sul terreno linguistico. L’area balcanica, infatti, è il territorio europeo in cui si
concentra il maggior numero di lingue appartenenti a gruppi linguistici diversi: neogreco, albanese,
lingue slave meridionali (il serbo, il croato, lo sloveno, il bulgaro e il macedone), una lingua romanza
(il rumeno), una lingua altaica (il turco) e una lingua uralica (l’ungherese). Tra i tratti essenziali del
tipo areale balcanico (balcanismi), possono essere indicati i seguenti:

a) sistema vocalico neogreco, articolato su cinque fenomeni vocalici


b) sincretismo tra i casi genitivo e dativo (tendenza a far confluire nel genitivo le funzioni
precedentemente esercitate dal dativo)
c) formazione di un futuro perifrastico
d) formazione dei numerali da 11 a 19, “con numero + prep. su + dieci” [struttura nota come
numerale locativale]
e) perdita dell’infinito (sostituito da proposizioni finite di natura finale, consecutiva e
dichiarativa)
f) postposizione dell’articolo definito
Come spiegare tutte queste correlazioni? I tratti sopra elencati sono

1. effetto dell’azione delle antiche lingue di sostrato della penisola balcanica


2. effetto causato dalla convergenza interlinguistica in ambito balcanico essenzialmente
all’azione del greco (bizantino e medievale)

Un’indagine minuziosa dei fenomeni di contatti ci induce ad assumere posizioni più caute e ci porta
a considerare il problema non come il prodotto di un unico centro di irradiazione, ma
piuttosto, come il risultato dell’azione simultanea di più spinte propulsive.

L’Europa centro-occidentale (l’area di Carlo Magno)

Anche l’Europa costituisce un candidato possibile alla posizione di area linguistica. Dal punto di vista
geografico sono assenti barriere davvero invalicabili. Dal punto di vista storico, vi sono ampie
attestazioni dei rapporti tra i popoli che sono alternati nel territorio.

Inoltre, a partire dall’espansione di Roma e passando per le conquiste di Carlo Magno, non sono
mancati in Europa i propositi di internazionalizzazione o di globalizzazione.

Insomma, a livello potenziale tutte le condizioni storico-sociali necessarie a fare dell’Europa uno
scenario ideale per la trasmissione di tratti linguistici paiono soddisfatte. Lo stesso si può dire dei
prerequisiti linguistici individuati sopra: in Europa si registra la presenza di oltre cento lingue diverse,
caratterizzate da una serie di tratti comuni e condivisi.

L’analisi dettagliata di questi tratti è stata al centro dell’ambizioso progetto di ricerca “EUROTYP –
Typology of Languages in Europe”, che ha effettuato una ricognizione a tappeto delle lingue europee
al fine di portare alla luce la vestigia di eventuali processi di convergenza.

I risultati del progetto hanno permesso di individuare alcuni tratti che paiono caratterizzare in modo
quasi esclusivo alcune lingue d’Europa il cui insieme è noto come “Standard Average European”
(SEA). Alcuni di questi tratti sono:

1. Somiglianze lessicali (si articolano su due livelli distinti – presenza di un comune lessico colto
– presenza di comuni strategie di formazione delle parole)
2. Ordine dei costituenti maggiori nella frase indipendente assertiva relativamente rigido e di
tipo SVO.
3. Presenza di preposizioni e di genitivi postnominali.
4. Uso di “avere” ed “essere” come ausiliari nella formazione di alcuni tempi verbali complessi.
5. Presenza simultanea di articoli definiti e indefiniti.
6. Carattere non pro-drop, altrimenti detta a soggetto nullo, tollerano l’omissione del pronome
personale in posizione di soggetto nella frase dichiarativa, senza che ciò pregiudichi la
grammaticalità e la comprensibilità della struttura linguistica prodotta.
7. Agente e soggetto possono divergere: il ruolo semantico di “agente” viene assegnato
all’argomento che designa l’autore dell’azione.
8. La forma passiva consente l’espressione dell’agente.
9. Accordo delle forme finite del verbo con il soggetto.
10. Paradigmi di caso fortemente semplificati e di tipo nominativo-accusativo
La combinazione dei dieci tratti menzionati contraddistingue in modo peculiare le lingue localizzate
sul suolo europeo e rappresenta il nucleo centrale del SAE. Non sono i singoli tratti a caratterizzare
le lingue d’Europa, ma è la loro correlazione a esibire un carattere tipologicamente inusuale.

Una mappatura delle caratteristiche appena elencate mostra come la loro diffusione in ambito
europeo sia tutt'altro che omogeneo. Vi sono infatti lingue in cui la quasi totalità dei tratti si realizza,
altri in cui un numero esiguo di essi hanno un effettivo riscontro empirico. Dal punto di vista
linguistico, dunque, sembrano esserci lingue pienamente europee, lingue parzialmente europee e
lingue che hanno un profilo decisamente distanti da quello che caratterizza lo <standard Average
European. Basandoci sull'effettivo occorrenza di dieci tratti indicati sopra, possiamo distinguere le
principali lingue europee in ordine decrescente secondo un grado di europeismo:

• Le lingue che esibiscono il maggior numero di tratti che possiamo definire più europee sono il
tedesco, il francese e il nederlandese.
• All'estremo opposto troviamo le lingue murali che il basco e il turco.
• Nel mezzo si dispongono l'inglese e l'italiano, le lingue slave, le altre lingue germaniche e
romanze, le lingue baltiche, le lingue celtiche, il maltese.

Le lingue che realizzano il maggior numero di tratti si collocano nella zona centrale del vecchio
continente, corrispondente alla regione renana occupata, Lodi, Francia, Olanda e Italia
settentrionale. Allontanandosi da quest'area centrale e spingendosi ai margini dell'Europa,
l'occorrenza dei tratti si fa più sporadica. La distribuzione geografica dei tratti linguistici in esame ci
consente di affinare la definizione di area linguistica data sopra.

Un'area linguistica non copre uno spazio omogeneo, al suo interno possono di norma essere
individuati almeno tre sottoaree:

1. Un centro di irradiazioni in cui il contatto interlinguistico ha avuto origine e si è sviluppato


più sistematicamente, lasciando le tracce più visibili.
2. Una zona di transazione in cui gli effetti del contratto si sono propagati lasciando tracce
evidenti.
3. Una zona relitto solo marginalmente toccata dai fenomeni di interferenza.

Nel caso in questione, il fatto che la zona focale corrisponda in larga parte alla regione romana ha
indotto gli studiosi a definire le zone interessate dalla propagazione di tali tratti “area linguistica di
Carlomagno”. In effetti, l'estensione complessiva dei possedimenti di Carlo coincide in larga parte
con le regioni interessate dalla diffusione dei tratti.

La zona di transizione dell'area linguistica abbraccia quelle regioni che originariamente non erano
controllate da Carlo e che passarono sotto il suo dominio in tempi differenti e secondo diverse
modalità. La zona relitto include le regioni collocate ai limiti estremi dell'impero di Carlo equi, paesi
che di esso non facevano parte, pur trovandosi sotto una più o meno ampia influenza Franca. Questa
loro condizioni le rendevano meno ricettive rispetto ai mutamenti linguistici che si propagavano
tanto più facilmente quanto più frequenti e intensi sono i rapporti con il loro centro di radiazione.

Due sogni infranti: il Mediterraneo e il Baltico


Le vicende storico sociali dei Balcani e dell'Europa Renania hanno favorito e supportato il dipanarsi
di numerosi processi di convergenze interlinguistica del cui intrecciarsi hanno tratto origine le aree
linguistiche descritte sopra.

Tuttavia, non è affatto scontato che un'area storico culturale si trasformi automaticamente in un'area
linguistica. Vi sono nel mondo vari contesti regionali in cui i sistemi linguistici non hanno intrapreso
alcuna marcia di progressivo avvicinamento a un tipo strutturale parzialmente unitario.

Due dei più recenti progetti di tipologia areale, hanno ribadito con forza questa assunto. Il progetto
“MEDTYP – Languages in the Mediterranean Area: Typology e Convergence” e il progetto Language
“Typology around the Baltic Sea” hanno lavorato all'elaborazione di una sorta di mappa tipologico
linguistica delle regioni che circondano il Mediterraneo e del Baltico, proponendosi di recensire le
peculiarità e caratterizzano le lingue parlate in quest'area attraverso un confronto sia con le lingue
parlate circostanti, sia con le tendenze tipologiche prevalenti rispetto ai medesimi aspetti linguistici
tra le lingue del mondo.

L'obiettivo principale di queste ricerche era l'individuazione di eventuali fenomeni specifici di queste
aree, la cui evoluzione potesse essere stata determinata dal contatto tra le lingue coinvolte. I due
progetti miravano a rispondere a una domanda all'apparenza piuttosto semplice. Le regioni che
circondano il bacino del Mediterraneo e quelle che si affacciano sul Baltico possono essere
considerate aree linguistiche?

Le conclusioni raggiunte mostrano sorprendenti analogie: né il Mediterraneo né il Baltico possono


essere considerati aree linguistiche. Eppure, in entrambi i casi le condizioni di partenza parevano
promittenti. Innanzitutto, in entrambe le regioni sono in uso lingue non immediatamente
imparentate. In secondo luogo, sono storicamente documentati contatti intensi e duraturi tra le
comunità umane che li hanno abitati. Eppure, tutto ciò non ha prodotto processi di convergenza
interlinguistica su vasta scala.

I due progetti di ricerca hanno portato alla luce svariati fenomeni di contatto, ma ciascuno di essi
coinvolge solo una piccola porzione delle lingue esaminate. Nel Mediterraneo si registrano analogie
significative nella genesi di suffissi accrescitivi nella diffusione dell'articolo definito dal Vicino Oriente
al cuore dell'Europa nella struttura del sintagma nominale.

Per quanto attiene al Baltico, invece, meritano menzione il ricorso al caso nominativo per marcare
l'oggetto di alcune specifiche costruzioni sintattiche, come gli imperativi o gli infiniti dipendenti da
verbi impersonali, la compresenza di preposizioni e posposizioni, gli ordini SVO e GN.

Dunque, tanto nel Mediterraneo quanto nel Baltico emerge una costellazione di micro-processi di
convergenza, ma mancano tratti condivisi globalmente. E per poter sancire l'esistenza di un'area
linguistica, quest'ultima condizione è imprescindibile.

In conclusione, la formazione di un'area linguistica pare un fenomeno complesso, intricato e mai


scontato. Di esso non è possibile dar conto in modo davvero soddisfacente, facendo ricorso solo a
criteri interni al sistema lingua, in questo caso l'ultima parola sembra aspettare sempre ai
condizionamenti di natura storico sociale.
LA TIPOLOGIA E IL MUTAMENTO LINGUISTICO

La tipologia è un procedimento di classificazione delle lingue che si colloca su un piano puramente


sincronico: le lingue vengono analizzate a prescindere dall'epoca di attestazioni e dalla famiglia di
appartenenza. Tuttavia, i possibili punti di contatto tra la tipologia e la linguistica storico-comparativa
sono molteplici. Bisogna ammettere che anche la tipologia ha cercato di aprirsi un varco verso la
diacronia. Negli ultimi 30 anni questo interesse si è fatto più forte: ci si è chiesti se i risultati conseguiti
dalla prima debbano rientrare nell’ambito di studio della seconda e se la metodologia elaborata dalla
tipologia possa avere una ricaduta nei processi di ricostruzione linguistica.

Dal punto di vista della tipologia, il nucleo della questione è quello di capire se e in quale misura i
tipi sono coinvolti nel cambiamento linguistico. È logico supporre che nella storia di una lingua anche
i tipi possono cambiare. E poiché ogni lingua è un sistema in lento ma perenne movimento, se ne
deve dedurre che nessuna configurazione tipologica può essere considerata come un’acquisizione
definitiva.

“Il profilo tipologico di una lingua non è altro se non l’effetto dei mutamenti di ieri e la base per i
mutamenti di domani”.

Pare quindi vantaggioso inquadrare ogni singolo mutamento linguistico nell'ambito di una più ampia
transizione da uno stato tipologico ad un altro all'interno di un sistema in una lenta ma continua
trasformazione.

Un approccio di questo tipo viene definito “Dinamicizzazione della tipologia”. Osservando il


mutamento attraverso gli occhi della tipologia, saremmo portati ad attenderci:

- Che siano i tipi più coerenti a superare la selezione della storia e ad affermarsi stabilmente.
- Che una lingua passi sempre da uno stadio tipologicamente coerente a uno più coerente.
- Che le proprietà e le correlazioni universali siano più forti degli eventi e che dunque resistano
a ogni pressione, sopravvivendo al mutamento.

La realtà è più complessa rispetto a questi tre assunti. Il primo è smentito da esempi che indicano
che le lingue tipologicamente miste hanno superato il vaglio della storia, affermandosi anche oltre i
limiti delle proprie comunità socioculturali (inglese).

Il secondo assunto ha una validità di fondo, che tuttavia si impone solo adottando una prospettiva
di indagine molto ampia in termini cronologici > poiché il mutamento linguistico è molto lento, vi
sono stati intermedi in cui la congruenza tipologica pare trascurata. Le vicende storico-sociali della
comunità parlante possono condizionare pesantemente la durata di questo stadio, prolungandolo o
indirizzando verso il suo naturale compimento. A volte questa transizione si può cristallizzare e si
afferma un sistema linguistico dalla fisionomia tipologica bizzarra > questo spiega l’esistenza delle
lingue tipologicamente miste.

Tipi stabili e tipi frequenti


I tipi linguistici non hanno la medesima probabilità di occorrenza e quest’ultima dipende solo in
parte dalla loro coerenza interna. I fattori, indipendenti tra di loro, in grado di influenzare la
distribuzione, in parte disomogenea, dei tipi linguistici sono:

1. Stabilità: probabilità che un determinato tipo venga abbandonato o mantenuto dalle


lingue che ad esso possono essere ascritte. Più l’indice di stabilità di un tipo è alto, più
esso tende a essere mantenuto nelle lingue-storico naturali.
2. Frequenza: probabilità che un determinato tipo venga assunto della lingua storico-
naturali. I tipi più frequenti hanno maggiore probabilità di concretizzarsi nella realtà.

I due fattori, se pur indipendenti, agiscono congiuntamente e consentono di prevedere, con buona
attendibilità, la diffusione genealogica e/o areale. Il tipo stabile è infatti in grado di superare indenne
il mutamento linguistico, trasmettendosi da una lingua madre alle lingue figlie. In termini
genealogici, dunque, i tipi stabili esibiscono di norma una diffusione omogenea all’interno delle
famiglie linguistiche (perciò i tipi stabili hanno una diffusione di tipo verticale). Il tipo frequente
mostra una diffusione più uniforme in termini areali, ma non necessariamente coincide con le
scansioni individuate in base a parametri genealogici (perciò i tipi frequenti hanno una diffusione
orizzontale). Non bisogna confondere ‘frequente’ con diffuso: al contrario, le aree in cui si trova
possono essere anche molto circoscritte.

La combinazione dei due criteri appena menzionati dovrebbe consentire di giustificare la diffusione
di tutti i tipi linguistici, comprendendo l’intera gamma delle possibilità logiche:

• Tipi stabili e frequenti: diffusi geneticamente, cioè nell’ambito delle famiglie linguistiche, e
geograficamente - ad esempio le vocali anteriori non arrotondate (/i/, /e/, ecc.), ormai
universali.
• Tipi stabili e infrequenti: diffusi in singole famiglie linguistiche, ma non geograficamente
- ad esempio, l’armonia vocalica, essendo resistente al mutamento, ma attestata solo nelle
lingue che appartengono a poche famiglie.
• Tipi instabili e frequenti: diffusi geograficamente, ma in modo disomogeneo e sporadico nelle
varie famiglie linguistiche - ad esempio, la nasalizzazione vocalica, la quale non caratterizza
specificamente alcuna famiglia linguistica, ma compare nelle lingue parlate in contesti areali
omogenei (nella regione che corrisponde approssimativamente all’odierna Francia, come il
francese e il bretone).
• Tipi instabili e infrequenti: piuttosto rari sia nelle famiglie linguistiche che arealmente
- ad esempio le consonanti ‘click’ (che corrispondo al bacio), le quali non caratterizzano
nessuna famiglia in particolare e hanno anche una sporadica diffusione territoriale.

Tendenze tipologiche e areali nel mutamento linguistico

I concetti di stabilità e frequenza, oltre a descrivere e spiegare la distribuzione interlinguistica dei


tipi, possono rivelarsi strumenti efficaci per prevedere quali strategie entrino in gioco nei singoli
mutamenti linguistici:
• Tipi stabili: hanno una diffusione ampia in chiave genealogica, il massimo grado di stabilità
coincide con l'universalità, ciò significa che un tipo caratterizza tutte le lingue e tutte le famiglie
linguistiche. Inoltre, un tipo molto stabile ha seguito nella sua evoluzione sempre le stesse tappe.
• Tipi frequenti: hanno una diffusione in chiave reale a macchia di leopardo e in modo trasversale
rispetto ai gruppi individuati su base genealogica, l'azione di tendenza e fortemente connotate
in cava reali, sembra probabile. Frequenti hanno subito un processo di evoluzione autonomo in
rapporto ai singoli contesti reali, nei quali si sono sviluppati.

I concetti di stabilità e frequenza possono rivelarsi strumenti efficaci per prevedere quali strategie
entrino in gioco nei singoli mutamenti linguistici.

I tipi molto stabili si riconoscono per una diffusione ampia in chiave genealogica, essi sono attestati
in tutti i membri di uno o più famiglie linguistiche. Il massimo grado di stabilità coincide di fatto con
l'universalità, un tipo che caratterizza tutte le lingue di tutte le famiglie linguistiche. Visto che la
lingua è un sistema orientato all'economia, sembra plausibile supporre che un tipo molto stabile
abbia seguito sempre le stesse tappe. Quindi nella storia dei tipi più stabili, l'azione di matrici di
biologiche ben collaudate dovrebbero essere prevalenti. Al contrario, nel caso dei tipi più frequenti
diffusi in singole e specifiche aree geolinguistiche, l'azione di tendenze fortemente connotate in
chiave areale sembra più probabile.

Se uno stesso tipo è attestato in diversi gruppi di lingue non necessariamente imparentati si può
supporre che il tipo in questioni sia già sviluppato secondo un'autonoma e specifica linea direttrice
in ciascuno di essi.

L'azione dei criteri di stabilità e frequenza nella diffusione dei tipi linguistici e la loro efficacia di
prevedere le strategie coinvolte nel mutamento linguistico possono essere esemplificati in modo
piuttosto chiaro analizzando la distribuzione sincronica e il percorso evolutivo di diminutivi e degli
accresciuti.

Dopo una prima analisi, si può rilevare come i primi siano una prerogativa della quasi totalità delle
lingue del mondo, mentre i secondi sono attestati in modo più sporadico. Per di più, i diminutivi
paiono davvero resistenti al mutamento e di norma si tramandano da una lingua madre alle lingue
figlie. Al contrario, gli accrescitivi paiono una strategia linguistica molto recente e sono attestati in
alcune lingue romanze in neogreco, nella maggior parte delle lingue slave, ma erano del tutto assenti
in latino.

Questo stato di cose induce a descrivere diminutivi con un fenomeno contraddistinto da un altro
grado, sia di instabilità che di frequenza, e gli accrescitivi ha un come un fenomeno instabile ma
frequente.

Ci aspetteremmo dunque che:

- I diminuitivi si siano formati seguendo quasi sempre il medesimo percorso evolutivo;


- Gli accrescitivi abbiano seguito processi di formazione diversi in rapporto ai singoli contesti
areali nei quali si sono affermati.

I dati sembrano confermare questa supposizione.


Per quanto concerne i diminuitivi, essi paiono essere l’effetto della trasformazione di un affisso
precedentemente utilizzato per esprimere la relazione parentale. Questo è avvenuto in ambito
indoeuropeo. Ma anche in ambito extraeuropeo.

Per gli accrescitivi, invece, non si registra la stessa uniformità. Già in ambito indoeuropeo si osserva
una competizione tra numerosi percorsi evolutivi distinti.

Quindi, riepilogando, i diminutivi, stabili e frequenti, si sviluppano diacronicamente secondo una


matrice tipologica piuttosto generale e interlinguisticamente diffusa. Gli accrescitivi, piuttosto
frequenti ma instabili, non seguono nella loro evoluzione un copione predefinito, ma ricorrono a
cliché diversi e fortemente connotati in senso areale.

L’ipotesi formulata sopra trova conferma: un tipo linguistico frequente tende a svilupparsi secondo
tendenze specifiche e peculiari delle aree in cui si manifesta; al contrario, un tipo linguistico stabile
si afferma in virtù di matrici tipologiche molto generali.

I tipi devianti: quando la diacronia spiega la sincronia

Le lingue sono sistemi in continuo movimento. In questo quadro, nessuna conformazione tipologica
costituisce un’acquisizione definitiva; al contrario, ogni tipo corrisponde a uno spaccato della storia
linguistica che verrà abbandonato.

Dal momento che il cambiamento linguistico non avviene bruscamente, è naturale prevedere
l’esistenza di fasi intermedie in cui le forme o le strutture in regresso convivano con le forme o le
strutture in via d’affermazione. Ciò spiega l’esistenza di lingue tipologicamente miste.

Se ci avvaliamo di un approccio in grado di conciliare le dimensioni sincronica e diacronica, le lingue


dalla fisionomia problematica non devono essere relegate ai margini, ma trovano una loro ragion
d’essere come espressione della sintomatologia di un più mutamento in atto.

Un esempio che ci permette di capire meglio è il latino. È opinione corrente che il latino sia una
lingua morta. Tuttavia, non si è in grado di stabilire la sua data di morte, né la data di nascita delle
lingue romanze che lo hanno sostituito. L’unico strumento che abbiamo per collocare
cronologicamente la fase del passaggio dal latino ai parlanti romanzi sono le prime attestazioni
scritte di questi ultimi. Ma questi documenti offrono solo una visione parziale, in quanto indicano
che prima della loro redazione si era affermato un insieme di norme linguistiche che non potevano
essere ricondotte al latino “ufficiale”. È ben noto che la lingua scritta è l’ultima manifestazione della
lingua ad accogliere gli effetti dei mutamenti. Il mutamento prende vita e si manifesta nel parlato.
Ma il parlato sfugge all’osservazione degli studiosi, se non sono disponibili parlanti nativi o strumenti
di registrazione adeguati.

Per analizzare il passaggio dal latino alle lingue romanze disponiamo di una documentazione ampia
ma in parte lacunosa.

Lo studio del passaggio dal latino al volgare: per analizzare il passaggio dal latino al volgare non
abbiamo a disposizione tutte le fonti perché la lingua è principalmente orale. Le testimonianze scritte
per comprendere il modo in cui si parlava all’epoca sono in parte lacunose. Non mancano delle
eccezioni: attraverso delle iscrizioni ritrovate sui muri di Pompei ai tempi dell’eruzione del
Vesuvio nel 79 d.C., possiamo, in linea generale, comprendere come essi parlavano. Si
tratta di messaggi che presentano queste caratteristiche:

• Oscillazione tra due tipi di ordini dei costituenti: è presente sia l’ordine SOV che SVO
• La collocazione post-nominale della relativa e l’assoluta prevalenza delle preposizioni:
entrambi rispondono al principio ‘testa-complemento’ o nell’ambito della Branching
Direction Theory, a una coerente ‘ramificazione a destra’.

Il panorama tipologico che si presenta agli occhi dello studioso è davvero variegato, in riferimento
soprattutto all’ordine dei costituenti. Nella frase indipendente dichiarativa, si registra una lieve
prevalenza della sequenza SOV (57%), contro SVO (33%). Nel restante 10% ci sono gli ordini OVS,
OSV, VSO e VOS. In sostanza, emerge un’oscillazione tra l’ordine SOV e l’ordine SVO, con une
predilezione per il primo.

Gli unici fenomeni che si lasciano classificare in modo inequivocabile sono la collocazione
postnominale della relativa e l’assoluta prevalenza delle preposizioni: entrambi rispondono al
principio “testa-complemento” o a una coerente ramificazione a destra.

Tornando allo studio del passaggio dal latino al volgare: di fronte alle scoperte fatte, se operassimo
su un livello sincronico, non potremmo fare altro che notare l’incoerenza del latino pompeiano che
non utilizzava più solo SOV, che era proprio del latino tradizionale, ma iniziava ad operare anche SVO,
che è proprio delle lingue romanze; ma se operassimo livello diacronico, potremmo capire che: Il
latino pompeiano si trova in una posizione intermedia e che, quindi, la formazione dei primi volgari
era già avviata del I secolo d.C. Semplicemente in esso (latino pompeiano) convivono
entrambe le forme, quella in regresso (SOV) e quella in ascesa (SVO).

Universali implicazionali e mutamento linguistico

Anche se la ricerca sugli universali si intreccia proficuamente con la tipologia, può offrire un
contributo di rilievo agli studi sul mutamento linguistico. Gli spunti di maggior interesse derivano
dagli universali implicazionali. Dati due tratti linguistici X e Y, essi sono in un rapporto di implicazione
se la presenza di X richiede la presenza di Y. Y è la condizione imprescindibile purché si realizzi X.
Assunti di questo tipo sono universali se trovano risconto in tutte le lingue storico-naturali, o almeno
in una parte statisticamente rilevante di esse. Se però la lingua viene concepita come un sistema
dinamico, dobbiamo precisare che la correlazione precedente è universale se trova riscontro in ogni
segmento delle vicende evolutive delle lingue storico-naturali.

In uno scenario di questo tipo gli universali implicazionali paiono suggerire l’esistenza di percorsi
evolutivi particolarmente naturali rispetto a specifiche proprietà linguistiche. Il tipo che la
correlazione implicazionale etichetta come impossibile (presenza di X in assenza di Y) può essere
interpretato come una fase preclusa al mutamento o come uno stadio intermedio di uno slittamento
tipologico attraverso cui le lingue non possono passare.

Questo è esattamente ciò che accade nel rapporto implicazionale che c’è tra ‘accrescitivi’
(X) e ‘diminutivi’ (Y): se una lingua dispone di un procedimento morfologico per realizzare gli
accrescitivi, allora dispone necessariamente anche di un procedimento morfologico per realizzare i
diminutivi, ma non viceversa. NON può esistere presenza di X e assenza di Y.

Quindi, gli universali implicazionali ci dicono che alcune proprietà linguistiche sono più fondamentali
di altre ed è quindi ragionevole che esse si sviluppino precocemente. Sono le fondamenta
dell’edificio lingua e sostengono le pareti e il tetto.

Si può prevedere la direzione del mutamento linguistico?

Alcune delle argomentazioni proposte inducono a ritenere che il mutamento linguistico sia
prevedibile. Questa conclusione è erronea. Il paradigma dinamico offre strumenti efficaci per
operare previsioni sull’evoluzione linguistica, ma con una chiave puramente probabilistica. Esso
consente di classificare anche i cambiamenti in base al grado della probabilità.

Il paradigma dinamico offre indubbiamente strumenti efficaci per operare previsioni


sull’evoluzione linguistica, ma sempre una chiave puramente probabilistica. Si possono fare
probabilità, ma bisogna sempre tener conto dei fattori esterni. Infatti, è vero che esistono dei
mutamenti più naturali di altri e, in base a questi, si possono fare delle previsioni, ma è anche vero
il fatto che nulla garantisce che il mutamento giunga al suo compimento. Edward Sapir ha definito
«alla deriva» la lenta trasformazione delle lingue. Il termine vuole rendere l’idea di movimento libero
e incontrollato, guidato da forze esterne, come quello della barca che si muove sospinta solo dalla
corrente del mare. La storia delle lingue è in parte governata da agenti esterni, ovvero da comunità
di parlanti che possono intervenire e possono imporre deviazioni. Perciò, in questo senso,
l’evoluzione delle lingue rimane misteriosa e imprevedibile.

AI MARGINI DELLA TIPOLOGIA

In questo capitolo ci soffermeremo su alcuni aspetti della ricerca topologica che sono stati spesso
relegati ai margini.

Tipologia e dialetti: ognuno sa che la lingua cambia nello spazio. La differenza più evidente è quella
che viene comunemente definita accento. Si parla, cioè, con una cadenza diversa e l'orecchio coglie
immediatamente la differenza. Questa variazione nello spazio geofisico viene indicata come
variazione dialettale. La nozione di dialetto costituisce un terreno davvero insidioso e non è
prudente avvicinarsi in questa sede. In effetti, quanto devono essere distanti i due sistemi per poter
essere definiti due lingue diverse e piuttosto che due dialetti distinti dalla stessa lingua?

La tipologia in genere fonda le proprie generalizzazioni sulle lingue ufficiali. Questa scelta dipende
da cause di forza maggiore. Il materiale da cui trarre informazioni sulle lingue ufficiale è più
consistente. È innegabile però che i dialetti costituiscano una maniera inesauribile di dati e inducono
a prevedere interessanti sviluppi anche in chiave tipologica. Si può presumere che molte delle più
note generalizzazioni tipologiche andrebbero riviste.

Un esempio, rispetto alla collocazione del verbo e della negazione, ci farà capire meglio. In base alla
loro collocazione possono essere identificati 3 tipi di frasi negative:

1. La negazione precedere il verbo.


2. La negazione segue il verbo.
3. La negazione precede e segue il verbo.

Nessun parlante dell’italiano obietterebbe contro la collocazione dell’italiano nel primo tipo. In
questo caso possiamo affermare che l’apparenza inganna. In alcuni sistemi linguistici che vengono
definiti dialetti italiani trovano ampia attestazione anche gli altri due tipi.

Una prima ricognizione di quelle che vengono abitualmente definite varietà dialettali prefigura uno
scenario tipologico meno omogeneo di quello che forse ci saremmo aspettati.

Il tipologo deve considerare che le lingue ufficiali e i dialetti hanno, in chiave topologica, la medesima
legittimità. La variazione dialettale svela tendenze tipologiche di grande interesse.

Inoltre, per quanto riguarda i dati relativi alla formazione della frase negativa, possiamo notare che
la negazione discontinua e quella postverbale si concentrano soprattutto nell’Europa centrale
(dovremmo dunque forse sostenere che si tratti dell’area linguistica di Carlo Magno). I pochi dati
discussi sembrano esortare il tipologo a calarsi il più possibile nella viva realtà delle lingue,
privilegiando il contatto diretto con le comunità parlanti.

Tipologia e variazione sociolinguistica

Conoscere e parlare una lingua significa essere in grado di adeguare la propria produzione linguistica
alle diverse situazioni comunicative. Anche il rapporto tra gli interlocutori influisce sulle scelte
linguistiche del parlante. Quindi, la lingua è un sistema che cambia non solo nel tempo, ma anche in
base allo spazio, alla situazione comunicativa, alla caratterizzazione sociale dei parlanti, al mezzo
utilizzato per la comunicazione (variazione diamesica).

La variazione può produrre scarti anche notevoli tra strutture linguistiche che condividono la
medesima lettura semantica: ad esempio all’interno della stessa lingua, lo stesso concetto può
essere espresso in due modi ‘differenti’. La lingua ufficiale e standard potrebbe utilizzare, ad
esempio, un pronome relativo flesso (cui) e la lingua ‘parlata’ potrebbe utilizzare nello stesso punto
e per dire la stessa cosa, ad esempio, un pronome relativo invariabile (che). Entrambe le strategie,
in chiave tipologica, sono affermate.

Ma se avessimo per le mani una grammatica, troveremo rappresentata la prima strategia(cui):


questo perché le grammatiche rappresentano una sola varietà della lingua, quella che si è soliti
definire standard (ovvero quella ‘ufficiale’, non marcata e orientata verso la scrittura). Di contro però,
le grammatiche trascurano le varianti diafasiche, diastratiche, diamesiche e anche diatopiche, che
invece caratterizzano le comunità dei parlanti. Ma questo porta ad una contraddizione perché
ciascun parlante impara la propria lingua nativa in ambito familiare ed è quindi esposto a
stimoli linguistici non standard. L’avvicinamento alla lingua standard avviene di norma nel
contesto scolastico. Questa situazione crea un paradosso nella tipologia perché i tipologi
si nutrono delle grammatiche e le generalizzazioni raggiunte vengono poi testate interrogando
parlanti nativi. Ma sono proprio questi nativi a non parlare una lingua standard ma la lingua appresa
nella loro famiglia.
Quindi qual è l’approccio tipologico al problema lingua? Esso tende molto spesso ad estrarre la
lingua dal contesto sociale da cui essa invece trae linfa vitale. In effetti, la lingua è un organismo
dinamico e articolato non solo a livello formale, ma anche a livello sociale. La lingua è un diasistema,
vale a dire un sistema di sistemi. Anche la tipologia dovrebbe calarsi in questa realtà e studiare la
variazione interlinguistica aprendosi anche all'esuberante varietà intralinguistica

Tipologia e acquisizioni

Gli universali implicazionali e l’apprendimento linguistico

Le interlingue possono essere definite come le produzioni linguistiche di un apprendente, vale a dire
di chi sta affrontando lo studio di una lingua straniera. Fieri ha ritenuto che le interlingue fossero di
fatto varianti transitorie fortemente semplificate e incomplete della lingua in arrivo. In realtà gli studi
degli ultimi anni hanno posto in evidenza una serie di tratti di questi comuni in tutte le interlingue,
a prescindere dalla lingua straniera e dalla lingua madre degli apprendenti.

Indipendentemente dal punto di partenza e dal quadro di arrivo del percorso acquisizionale nel
processo di apprendimento, vi sono fasi intermedie ricorrenti e talvolta universali, essendo le
interlingue sistemi linguistici naturali, autonomi e internamente interamente coerenti.

Si può asserire che anche le interlingue devono essere annoverate nell'inventario delle lingue
storiche? Se così fosse, dovrebbero conformarsi con i principi universali. Vedevo relazioni tipologico
stipate nelle altre lingue storico naturali. Si supponi con una correlazione tra due o più proprietà, sia
universali. Essa dovrebbe trovare riscontro nelle varietà di apprendimento.

A questo punto dovremmo supporre che questi universali esistenti tra le interlingue, essendo
appunto universali, dovrebbero indicare percorsi di apprendimento più o meno naturali,
individuando sequenze acquisizionali improbabili e altre altamente probabili. Qual è questo
percorso di apprendimento? Partendo dal concetto di universale implicazionale: X ⊃ Y (es.
genere ⊃ numero), dovremmo dedurre che non esiste nessuna interlingua in cui si registra la
presenza di X senza Y; Cosa succede a livello acquisizionale: questa correlazione indica infatti che la
proprietà antecedente, cioè X, deve essere appresa dopo la proprietà conseguente, vale a dire Y, o
contestualmente ad essa. Il conseguente deve essere acquisito prima dell’antecedente perché:

1. Si possono commettere più errori nell’uso della proprietà antecedente rispetto a


quelli che si contraddistinguono nell’uso delle proprietà conseguenti.
2. L’ambito di impiego del conseguente, ma non dell’antecedente, possa essere
sovra esteso: il conseguente può essere usato in luogo dell’antecedente e non
viceversa.

La tipologia morfologica e le interlingue

Una delle proprietà ricorrenti tra le interlingue riguarda la conformazione morfologica dell'interlinea
stessa. In effetti, le interlingue iniziali paiono caratterizzate da un'ampia occorrenza di formule fisse,
vale a dire segmenti di produzione linguistica memorizzata senza alcuna analisi.
Le principali caratteristiche grammaticali appaiono prive di specifiche espressioni formali. Nel caso
dei verbi un’unica forma viene utilizzata per coprire l'estensione di un intero paradigma. Le parole
che caratterizzano le prime produzioni di parlato spontaneo in un apprendente sono invariabili e
hanno un valore essenzialmente lessicali. Le caratteristiche appena indicate Fiano, riprodurre quelle
del tipo isolante.

Visto che in ogni processo di apprendimento si verifica un incontro tra due sistemi linguistici, c'è da
chiedersi come si manifesti nelle interlingue il contatto tra due lingue tipologicamente distanti.

La prima coordinata che è necessario porre concerne il rapporto tra l'uso di una strategia di natura
formale e il suo valore sciamanico funzionale. La padronanza di un progresso sul piano formale non
può prescindere dalla piena padronanza delle categorie cognitive corrispondenti. In altre parole,
l'acquisizione del dominio cognitivo di riferimento è condizione necessaria per l'apprendimento e
per l'uso appropriati e davvero consapevole di una specifica strategia linguistica.

•La padronanza di un processo sul piano formale (ad esempio a livello morfologico) non può
prescindere dalla piena padronanza delle categorie cognitive corrispondenti.

•Un apprendente troverà difficoltà nel comprendere nella lingua nuova (L2) sistemiche siano lontani
dalla sua lingua madre (L1).

Tornando alla caratterizzazione isolante dell'Interlingue iniziali, possiamo affermare che se la L2 ha


un carattere agglutinanti o fusivo, un apprendente con L1 isolante faticherà a superare questo primo
stadio, più di un apprendente con L1 agglutinante o fusiva.

In conclusione, si può affermare che non esiste un metodo didattico eccezionale per insegnare
una lingua straniera, piuttosto dovrebbero esistere tanti percorsi didattici quanti sono gli
apprendenti e quante sono le L1 degli apprendenti. Inoltre, si può dire che la tipologia svolge un
ruolo importante nei percorsi didattici in italiano/L2, sia contribuendo a tracciare le gerarchie
che dovrebbero guidare i processi e acquisizione linguistica (e quindi stabilendo anche l'ordine
reciproco con cui le varie categorie linguistiche dovrebbero essere introdotte dall'insegnante; cfr.
par. 5.3.1), sia indicando le strategie per calibrare i metodi e le modalità di intervento non solo delle
esigenze, ma anche per i requisiti linguistici degli apprendenti

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