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Nicola Grandi – Fondamenti di tipologia linguistica

La tipologia linguistica: nozioni introduttive

La tipologia linguistica studia la variazione interlinguistica. Si fonda su due convinzioni: che le


numerose lingue esistenti al mondo siano differenti tra loro e che questa variazione sia frutto di
principi generali, che la tipologia tenta di individuare. Si colloca, pertanto, su un piano
strettamente sincronico. L’interesse è, infatti, rivolto all’impianto strutturale delle lingue, che
vengono classificate in base ad affinità sul piano strutturale, indipendentemente sia dalla famiglia
linguistica di appartenenza, sia dalla loro attestazione storica, sia dai processi evolutivi cui
possono essere ricondotte le affinità. Essa si fa carico di tutte le lingue, limitando, ma non
escludendo del tutto la componente diacronica. I raggruppamenti tra i quali le lingue vengono
ripartite prendono nome di tipi linguistici, combinazioni di proprietà strutturali logicamente
indipendenti, ma reciprocamente correlate. Risultano pertinenti quelle proprietà la cui
combinazione permette di operare previsioni attendibili sulla struttura delle lingue indagate.
Essendo categorie astratte, i tipi permettono di preventivare situazioni incerte. L’assegnazione di
una lingua ad un tipo avviene in base alla tendenza prevalente, difficilmente in maniera categorica.
Un parametro tipologico, ad esempio, è l’ordine dei costituenti di alcune strutture sintattiche. Il
tipo ha carattere prettamente strutturale e predittivo e, pertanto, la tipologia deve puntare ad
individuare il principio soggiacente delle proprietà correlate. Non sono rilevanti, cioè, le singole
caratteristiche in sé, ma la ratio che spiega i rapporti tra di esse. Le lingue, nel loro divenire storico,
sono soggette a molteplici condizionamenti che trascendono la realtà linguistica e imprimono
brusche ed imprevedibili variazioni di percorso. La tipologia, perciò, agisce su due piani: ha come
oggetto d’indagine le lingue storico-naturali ma adotta, come strumenti, dei tipi, che si configurano
come una semplificazione astratta della realtà effettivamente osservabili e non sono fedelmente
riprodotti da nessuna lingua storico-naturale. I tipi linguistici sono, dunque, modelli di descrizione
delle lingue storico-naturali.

Il primo passo dell’indagine tipologica è la descrizione della lingua, attraverso l’individuazione di


segmenti. Il secondo è la selezione di parametri pertinenti in base alla loro potenzialità predittiva.
Non tutte le correlazioni possibili tra i parametri d’indagine hanno la medesima diffusione.
Ovviamente, nella realtà, non dovranno esistere tipi impossibili sul piano teorico. A quel punto, la
tipologia deve cogliere la ratio alla base del fenomeno, capendo quali fattori possano giustificare la
distribuzione interlinguistica dei tipi. L’ipotesi più probabile riguardo alla distribuzione dei tipi è
che essa dipenda dalla funzione sociale della comunicazione e, cioè, le singole configurazioni
tipologiche sarebbero il riflesso delle strategie disposte dalla lingua per risolvere problemi di
comunicazione. In conclusione, la tipologia linguistica studia la variazione interlinguistica con
l’obiettivo di stabilire se essa sia soggetta a limiti e restrizioni, individuandone la natura, ovvero le
occorrenze sistematiche di specifiche affinità strutturali tra le lingue, svelando configurazioni
strutturali (o tipi), possibili e impossibili. Naturalmente, dato l’elevatissimo numero di lingue,
estinte e non, e la scarsa tradizione scritta di molte di esse, il tipologo dovrà effettuare la scelta di
un campione di lingue, che sia esente da:

 Distorsioni genetiche: ovvero la preponderanza di lingue di una famiglia rispetto ad altre,


in quanto solo l’assenza di legami genetici può rafforzare l’idea di una configurazione
strutturale universale;
 Distorsioni areali: ovvero lingue non interessate da fenomeni di interferenza linguistica;
 Distorsioni tipologiche: ovvero la preponderanza di lingue rappresentative di una certa
configurazione tipologia rispetto ad altre;
 Distorsioni legate alla consistenza numerica delle comunità parlanti: ovvero non
considerare il numero di parlanti, in quanto questo caratterizza la sopravvivenza, la
diffusione e la “forza” di una lingua. Si deve preferire, piuttosto, nella scelta del campione,
lingua dalla ampia documentazione disponibile e con un buon numero di parlanti, cui
sottoporre questionari mirati. Ad esempio, uno dei padri della tipologia linguistica,
Greenberg, ammise di aver indagato lingue con cui aveva una certa familiarità. Grazie al
World Atlas of Language Structures, si hanno a disposizione informazioni tipologiche su più
di cento lingue.

Un parametro molto proficuo per le indagini tipologiche è la sintassi, l’ordine in cui gli elementi
della frase dichiarativa o di particolari sintagmi vengono disposti. Si può supporre, infatti, che la
disposizione degli elementi di un costrutto risponda a principi largamente condivisi. Un primo
carattere è la posizione di S rispetto ad O, che ha generato i tipi SVO, SOV e VSO, quindi si può
affermare che la quasi totalità delle lingue anteponga S ad O. Questo può dipendere dal fatto che il
soggetto è strettamente collegato al verbo, in quanto risponde di colui che compie l’azione, mentre
l’oggetto la subisce. Una seconda spiegazione è che il tema precede il rema nella dichiarativa
indipendente e, quindi, il soggetto viene presentato come dato, mentre verbo ed oggetto
rappresentano il nuovo. Collegati a questa spiegazione sono due principi: quello di precedenza,
più forte, secondo cui il soggetto, data la sua prominenza e priorità logica, deve precedere
l’oggetto; il secondo, di adiacenza, per cui verbo e oggetto devono essere contigui, data la loro
relazione sintattico-semantica. SVO e SOV rispettano entrambi questi principi. VSO solo il primo,
VOS e OVS solo il secondo, mentre OSV li viola entrambi. L’ordine dei costituenti, però, non marca
sempre i ruoli sintattici, legati, invece, alla morfologia flessionale. Pertanto, il valore dell’ordine dei
costituenti non è assoluto. Molte lingue, infatti, come l’ungherese, si caratterizzano per l’ampia
gamma di ordini dei costituenti (addirittura, l’ungherese ammette tutti e sei gli ordini). Non tutte,
però, possono essere impiegate nello stesso ambito comunicato. Si distingue, perciò, tra ordine
naturale e ordine marcato dei costituenti. La tipologia basa, normalmente, le sue osservazioni
sull’ordine naturale. In generale, si definisce marcato, un costrutto marcato che presenti uno o più
tratti che lo contraddistinguono rispetto agli altri costrutti (/b/ si distingue da /p/ per il tratto
sonoro): il tratto viene definito, appunto, marca. L’ordine naturale dei costituenti è quello utilizzato
in contesto comunicativo “pragmaticamente neutro”, quando, cioè, si intende trasmettere
l’informazione derivante dalla somma dei significati parziali dei suoi componenti. L’ordine
marcato, quindi, veicola alcune informazioni aggiuntive e risulta meno frequente nell’uso. Per
l’uso del soggetto, quasi la totalità delle lingue, oltre il 97%, adopera la medesima strategia. Più
interessante è lo studio della disposizione di V e O. Possono essere individuati due tipi di
riferimento:

Tipo VO (Tailandese – costruisce a destra): preposizioni, NG, NAgg, NDim, NNum, NRel, AusV,
VAvv, CongFSub, CompSTermPar, Interr in posizione iniziale.

Tipo OV (Turco – costruisce a sinistra): posposizioni, GN, AggN, DimN, NumN, RelN, VAus,
AvvV, FSubCong, STermParComp, Interr in posizione finale.
Se ci si concentra solo sui primi parametri, si nota che le lingue del mondo si distinguono in circa
15 tipi e solo sette hanno una diffusione interlinguistica davvero significativa.

I V(S)O, Pr, NG, NAgg: lingue celtiche, ebraico, aramaico, aravo, berbero, masai, lingue
polinesiane.

II (S)VO, Pr, NG, NAgg: lingue romanze, albanese, neogreco, lingue bantu, alcune lingue della
famiglia afroasiatica, vietnamita, lingue tai.

III (S)VO, Pr, NG, AggN: parte delle lingue germaniche, lingue slave.

IV (S)VO; PR, GN, AggN: norvegese, danese, svedese.

V (S)VO, Po, GN, NAgg: finnico, estone.

VI (S)OV, Po, GN, AggN: altre lingue ugrofinniche, lingue turche, hindi, bengalese e altre lingue
arie indiane, armeno moderno, coreano, giapponese, lingue dravidiche.

VII (S)OV, Po, GN, NAgg, basco, birmano, tibetano classico, la maggior parte delle lingue
australiane.

Il tipo VO, per quanto riguarda il sintagma verbale, vede dominare (ha come testa) il verbo. Nel
sintagma nominale, la testa è il nome, cioè esso genera i meccanismi di accordo. Come l’oggetto si
colloca alla destra del verbo, i complementi e modificatori del nome si collocano alla sua destra.
Nel sintagma adposizionale, la preposizione precede il complemento, cioè è alla sua sinistra. Il tipo
OV adotta la strategia opposta: la testa segue sempre i complementi e i modificatori. Si può dire,
dunque, che il tipo VO obbedisce al principio “testa a sinistra”, quello OV obbedisce al principio
“testa a destra”. Se sul piano teorico, alcuni costrutti adottano il medesimo principio organizzativo,
sul piano pratico, questo consente un notevole risparmio di energie nell’acquisizione e nell’uso
della lingua. Questa teoria, però, presenta dei difetti (incoerenza tipologica): innanzitutto, non
spiega il fatto che l’aggettivo si conforma raramente ai due principi sopra, così come l’articolo.
Queste eccezioni sono, in parte, spiegate dalla Branching Direction Theory, che prevede che la
coerenza tipologica nei costrutti dei tipi VO e OV venga rispettata esclusivamente dai costituenti
che abbiano una struttura (micro)sintattica interna, cioè dai costituenti che presentino una
ramificazione, mentre i costituenti di tipo lessicale occuperebbero più rigidamente una posizione.
Ad esempio, l’inglese ammette l’eccezione del genitivo sassone. Secondo la Branching Direction
Theory, dunque, una lingua storico-naturale avrebbe una tendenza a collocare i costrutti di natura
sintattica sempre o a destra o a sinistra, mentre gli elementi che non ramificano sono esenti da
questa restrizione. Quindi, l’inglese sarebbe una lingua con ramificazione a destra, in quanto solo i
complementi/modificatori con struttura sintattica interna si collocano sempre a destra della testa.
Anche in italiano, ad esempio, l’aggettivo, che può collocarsi in posizione prenominale, quando
assume una struttura sintattica complessa, si colloca in posizione postnominale.

I presupposti della tipologia morfologica risalgono all’inizio dell’Ottocento e si basano su due


parametri: indice di fusione e indice di sintesi, rispettivamente rappresentanti della segmentabilità
della parola in morfemi ben definiti e il numero di morfemi in essa individuabili. In base alla
combinazione dei due indici, si individuano quattro tipi (isolante, polisintetico, fusivo,
agglutinante). Nelle lingue isolanti, l’indice di sintesi ha valore minimo, ogni parola tende a essere
monorfemica, ogni morfema tende a essere invariabile nella forma e ad esprimere un solo
significato. Non ha senso, quindi, parlare di indice di fusione, poiché i morfemi non si combinano
mai tra di loro. Esempi ne sono il cinese e il vietnamita. Una stessa parola può svolgere più
funzioni sintattiche senza alterare la propria configurazione formale. Fenomeni di questo tipo sono
chiamati conversione o derivazione zero e sono caratteristici del tipo isolante, che attribuisce, di
conseguenza, un ruolo molto importante al contesto. Morfemi e unità semantiche, quindi, hanno
corrispondenza biunivoca. All’opposto delle lingue isolanti sono quelle polisintetiche,
dall’elevatissimo indice di sintesi e medio indice di fusione, poiché concentrano all’interno di una
stessa unità lessicale un gran numero di morfemi. È il caso dell’eschimese siberiano. Sottotipo del
polisintetico è l’incorporante, in cui una sola parola giustappone molti morfemi di natura lessicale,
come nel caso del ciukci, una lingua uralica. I valori estremi dell’indice di fusione, invece, sono
rappresentati dalle lingue agglutinanti e fusive. Le prime hanno minor indice di fusione: in esse, le
parole presentano molti morfemi, facilmente segmentabili. Anche in questo caso c’è
corrispondenza biunivoca tra il livello della forma e quello del contenuto. È il caso del turco.
L’indice di sintesi delle lingue agglutinanti è su valori medio-alti: le parole si dotano di un buon
numero di morfemi, che indicano più categorie semantico-funzionali. Opposta è la situazione delle
lingue fusive, tra cui il latino, con indice di fusione massimo, confini invisibili tra i morfemi e
compresenza di categorie semantico-funzionali in un unico morfema. Nelle lingue fusive, l’indice
di sintesi è medio-basso. Sottotipo delle lingue fusive è quello introflessivo, in cui il rapporto tra
unità del contenuto e unità dell’espressione ricalca lo schema delle lingue fusive, ma non dispone i
morfemi in ordine lineare, bensì a pettine, come nell’arabo.

Una seconda classificazione tipologica della morfologia riguarda la codificazione delle relazioni di
dipendenza, esprimibile mediante dispositivi di natura sintattica o tramite affissi. Riguardo
quest’ultima strategia, esistono tre tipi di riferimento: lingue che marcano la relazione di
dipendenza sulla testa, sugli elementi dipendenti oppure su entrambi. Nel primo caso, l’affisso si
lega alla testa nominale; nel secondo, l’affisso si lega al modificatore della testa; nel terzo, meno
diffuso, coesistono affissi sia sulla testa che sul modificatore. Questa classificazione tipologica si
lega alla natura del sistema di caso, se presente, e all’ordine dei costituenti. Si è notato come i
sistemi casuali di tipo nominativo-accusativo non presentino nessuna preferenza tra le tre
strategie, presenti alla pari. Nelle lingue ergative-assolutive, invece, è prediletta la marcatura sulla
dipendenza. In quelle con sistema stativo-attivo, ricorre la marcatura sulla testa. Rispetto all’ordine
dei costituenti, la marcatura sulla testa si associa alla posizione iniziale del verbo, mentre la
posizione mediana o finale del verbo alla marcatura sulla dipendenza. In base alla marcatura sulla
struttura informativa, si distinguono lingue subject-prominent, che evidenziano il soggetto, lingue
topic-prominent, che costruiscono secondo lo schema topic-comment, isolando il tema e lingue sia
subject- che topic-prominent.

L’indagine tipologica in ambito fonetico-fonologico è stata rivalutata solo in tempi recenti e molte
questioni sono ancora molto dibattute. Una di queste è quella sul tono, una proprietà dei suoni
sonori esistente, seppur in maniera differente, in tutte le lingue storico-naturali e che, solo in metà
circa di esse, ha valore distintivo. Come in cinese mandarino, dove il tono conferisce un diverso
significato ai vari lessemi e viene perciò detto “lingua tonale”, come molte lingue dell’Africa
subsahariana, dell’America centrale e dell’Asia sudorientale. Il tipo tonale è poi molto variegato al
suo interno e viene suddiviso in base all’unità a cui è associato il tono e alla sua funzione. Il primo
parametro distingue toni associati a vocali e toni associati a una o più sillabe. Rispetto alla
funzione dei toni, si suddividono i toni che distinguono morfemi lessicali da quelli che
distinguono morfemi grammaticali. In alcune lingue, il tono ha anche funzione derivazionale. Altri
tratti tipologici dal punto di vista fonetico-fonologico riguardano gli apparati vocalici e
consonantici, come per la nasalizzazione e la struttura della sillaba che, a partire dalla sequenza
più semplice CV, mostra diversi livelli di complessità.

Anche il lessico è piuttosto marginale negli studi di tipologia, sebbene abbia prodotto dei risultati,
ad esempio, riguardo le relazioni di parentela e il lessico dei colori. Berlin e Kay hanno individuato
undici olori che sarebbero riconosciuti e indicati allo stesso modo dai parlanti delle lingue del loro
campione. In particolare, è emerso che le undici classi cromatiche si dispongono in una gerarchia
organizzata in maniera implicazionale (bianco/nero; rosso; giallo/verde; blu; marrone;
porpora/rosa/arancio/grigio).

I tipi non sono oggetti concretamente osservabili e non si realizzano integralmente in alcun sistema
linguistico, soggetti, peraltro, a numerosi fattori di mutamento. Le lingue storico-naturali, quindi,
si caratterizzano come tipologicamente miste e, spesso, non è semplice ascrivere una lingua ad un
unico tipo o, in alcuni casi, nemmeno ad uno prevalente. Emblematico il caso dell’inglese che, pur
essendo una lingua VO, consente alcune costruzioni a sinistra, come il genitivo sassone o che, pur
essendo isolante, utilizza strategie di tipo agglutinante, come nella formazione del plurale con
morfema legato e casi di fusività, come nel caso del verbo hit, che rappresenta più forme verbali.
Forme di alternanza vocalica, poi, come in foot/feet, sono tipiche del sottotipo introflessivo.

Si dice, poi, che la classificazione tipologica sia complementare a quella genealogica. Innanzitutto,
la linguistica storica ha fornito il metodo d’indagine a quella tipologica, poi riadattato e calibrato ai
propri obiettivi. In secondo luogo, una volta evidenziati dei tratti comuni alle lingue, va escluso
che essi derivino da una comune filiazione genealogica e quindi presuppone, come fondamento, i
risultati della linguistica storico-comparativa. Lo stesso criterio, peraltro, viene adottato nella
costruzione del campione linguistico. Inoltre, la linguistica tipologica può supportare gli studi
storico-comparativi, evidenziando una gerarchia di pertinenza dei tratti linguistici nei processi di
ricostruzione dei legami di parentela. In secondo luogo, la tipologia può smentire ipotesi
ricostruttive formulate dalla linguistica storico-comparativa, soprattutto con lingue dalla scarsa
documentazione, per cui le affinità tipologiche diventano cruciali. Infine, la classificazione
tipologica può rivelarsi utile nelle aree a maggior concentrazione di lingue diverse.

La tipologia, infine, può classificare sia interi sistemi linguistici che loro parti, fermo restando il
metodo comparativo. Di conseguenza, non avrebbe senso una ricerca tipologica su una sola lingua.
Ciò implica che l’analisi tipologica può rivelarsi fondamentale per la costruzione di una teoria
linguistica generale, che mira a capire il funzionamento del linguaggio, come capacità cognitiva e
come si realizzi nelle lingue storico-naturali.

Gli universali linguistici

Gli universali linguistici rappresentano proprietà o correlazioni di proprietà che si ritengono


condivise da tutte le lingue storico-naturali. La ricerca degli universali si intreccia con la tipologia,
condividendone metodi e strumenti. Entrambe si collocano su un livello sincronico e anche la
ricerca sugli universali ha carattere non normativo, ma descrittivo. Quindi né gli universali né le
correlazioni tipologiche hanno in sé le ragioni della loro esistenza. Gli universali, individuando
caratteri comuni a tutte le lingue, indicano che l’indice di variazione è zero e quindi escludono quei
tratti dalla ricerca tipologica.

Gli universali sanciscono la presenza di una particolare proprietà in ogni lingua storico-naturale,
senza fare riferimento ad alcun altro parametro e senza stabilire correlazioni fra tratti differenti. Un
universale assoluto è che tutte le lingue hanno vocali orali e che tutte le lingue distinguono tra
vocali e consonanti o che tutte abbiano categorie pronominali con almeno tre persone e due
numeri. Inoltre, tutte le lingue hanno mezzi formali per costruire frasi interrogative. Gli universali,
quindi, forniscono informazioni relative alla natura profonda del linguaggio umano e molti di essi
rimandano a condizionamenti che la lingua subisce oggettivamente. Ad esempio, la tendenza a
collocare la condizionale prima della conclusione.

Gli universali implicazionali, invece, mettono in relazione due o più proprietà, vincolando la
presenza di una alla presenza dell’altra. La maggior parte delle correlazioni tra la posizione
reciproca dei costituenti dei sintagmi verbale, adposizionale e nominale può essere riformulata
tramite universali implicazionali. Sono pertanto gli universali implicazionali ad avere un ruolo
fondante per la tipologia, poiché, a differenza degli assoluti, lasciano un margine di variabilità alle
lingue e offrono parametri affidabili e attendibili per la variabilità interlinguistica. A partire
dall’implicazione VSO-preposizioni, emergono quattro tipi distinti: lingue VSO con preposizioni
(gallese), lingue VSO senza preposizioni (inesistente), lingue non VSO con preposizioni (inglese) e
lingue non VSO senza preposizioni (turco). In sostanza, l’ordine VSO è possibile solo con
preposizioni, mentre non è vero il contrario.

A livello intuitivo, gli universali costituiscono una serie di requisiti che ogni lingua deve
soddisfare e paiono proiettare sulla concreta realtà linguistica proprietà essenziali del linguaggio,
inteso come facoltà mentale e cognitiva della specie umana. A livello scientifico, però, sembra
impossibile spiegare unitariamente il fenomeno degli universali linguistici, se non ricorrendo a
molteplici fattori, tanti quanti sono gli universali stessi o ad una generalizzazione, che colloca gli
universali in una prospettiva funzionale, come rispondenti all’esigenza, propria della
comunicazione verbale, di associare una forma a dei contenuti. Sarebbero, così, strategie
comunicative così efficaci da essere condivise da tutte le lingue storico-naturali. Gli studiosi hanno
identificato tre fattori che motiverebbero l’esistenza di particolari strutture linguistiche: l’economia,
l’iconicità e la motivazione comunicativa. L’economia può essere definita come la tendenza a
snellire il più possibile l’aspetto formale di un sistema linguistico, preservando le potenzialità
comunicative. Con iconicità si intende la tendenza a riprodurre le sequenze in base a cui viene
organizzata l’informazione da trasmettere, come, ad esempio, la collocazione della proposizione
condizionale prima della conclusione. Per motivazione comunicativa si intende lo sforzo per
raggiungere l’obiettivo essenziale della lingua, ovvero la comunicazione. Questo spiega le
mutazioni che la lingua subisce, che dovrebbero essere volti ad eliminare ogni sorta di limite
comunicativo. Uno degli universali più noti, il 38, secondo l’inventario di Greenberg, afferma che,
in un sistema casuale, l’unico caso esprimibile mediante un affisso zero è quello che include, tra le
sue funzioni, quella di soggetto di un verbo intransitivo. Nel sistema nominativo-accusativo, il
soggetto (STran e SIntrans) viene espresso dal primo caso, mentre il secondo esprime l’oggetto
(ODir). Secondo l’universale 38, quindi, solo il nominativo può essere privo di desinenze
specifiche. Nelle lingue ergativo-assolutive, invece, la marcatura del soggetto dipende dalla
valenza verbale. Infatti, in caso di verbo transitivo, il soggetto è in caso ergativo, mentre, in caso di
verbo intransitivo, il soggetto si trova in caso assolutivo, contraddistinto da una marca zero e usato
anche per l’oggetto. È il caso del basco, che vede convergere i casi del soggetto di un verbo
intransitivo e di oggetto diretto. I due sistemi non sono né ridondanti, né lacunosi. Se un sistema
utilizzasse la stessa marca per STrans e ODir sarebbe lacunoso, se ne utilizzasse tre diverse,
sarebbe ridondante. Queste conclusioni valgono poi anche per l’universale 41: se una lingua ha un
ordine non marcato SOV, avrà quasi certamente un sistema di casi. Infatti, mentre una lingua SVO
tiene ben distanziati soggetto e oggetto, una lingua SOV ha bisogno di marche specifiche. La
ricerca sugli universali ha avuto un forte impulso dagli studi fi Joseph Greenberg, i cui risultati
sono, in trentacinque anni, profondamente mutati per lo sviluppo tecnologico utile al tipologo.
Grazie a questi nuovi strumenti e al materiale a disposizione, è stato possibile rivelare la
fondatezza delle ipotesi forti di Greenberg, ma sono emerse anche numerose eccezioni, che già
Greenberg aveva previsto. Ad esempio, a lungo si è creduto che l’ordine OS fosse impossibile,
come enunciava il primo universale, ma oggi è stato dimostrato, con lo hixkaryana, lingua
amazzonica, che non è così. Ma le eccezioni costituiscono comunque un ruolo minoritario, essendo
causate da fattori storico-sociali, che investono le comunità di parlanti.

La tipologia e il contatto interlinguistico

Ogni lingua è intrisa di elementi alloglotti, derivanti da prestiti lessicali, assimilazioni di regole
morfologiche o con l’adozione di costrutti più complessi a livello micro-sintattico. Le lingue
storico-naturali rappresentano una fonte estremamente preziosa per la ricostruzione delle vicende
storiche delle singole comunità e dei territori da esse abitati. Il contatto interlinguistico, infatti, ha
prodotto mutazioni, proprio a causa del contatto tra diversi gruppi umani e ne sono, pertanto, una
testimonianza. La tipologia areale, infatti, si basa sullo studio delle somiglianze tra le lingue
parlate in una stessa area geografica. L’insieme dei tratti linguistici affermatosi in una data area a
seguito di una contaminazione interlinguistica prende il nome di tipo areale. Il principio
organizzativo soggiacente a questi tipi è, ovviamente, la spinta propulsiva degli eventi storico-
sociali. Anche in questo caso, è necessario escludere che siano dovute a tendenze tipologiche
generali o a familiarità genetica. Di conseguenza, è necessario operare una comparazione tra le
situazioni osservate nell’area in esame e le tendenze tipologiche prevalenti nelle lingue del mondo
e, in secondo luogo, individuare fenomeni sospetti, che inducono ad un’analisi diacronica. Le
regioni geografiche in cui i tipi areali si concretizzano maggiormente si definiscono aree
linguistiche, che si caratterizzano per la presenza di più lingue parlate nel medesimo contesto
geografico, ma non immediatamente imparentate e di tratti linguistici da esse condivise. Queste
premesse, tuttavia, sono necessarie ma non sufficienti a postulare l’esistenza di un’area linguistica.
Agiscono, in questi casi, anche condizionamenti di tipo storico-sociale: un’area linguistica, per
essere tale, deve aver assistito a movimenti di popoli di vasta portata e alla conseguente creazione
di ambiti bi o plurilingui. Un’evidenza linguistica di tipo areale deve, pertanto, necessariamente
essere suffragata da una giustificazione storica, mentre un evento storico non determina
necessariamente un mutamento linguistico.

Il primo contesto areale di fenomeni di convergenza interlinguistica sono i Balcani, con la storia
della dissoluzione dell’ex Jugoslavia e della frammentazione etnica. Essendo la linea di confine
politica, culturale e religiosa tra Occidente e Oriente, gli scontri sono qui molto evidenti. Infatti, in
quest’area, si registra la più alta concentrazione di lingue appartenenti a gruppi diversi: albanese e
neogreco, due lingue isolate, lingue slave meridionali, una lingua romanza (rumeno), una altaica
(turco) e una uralica (ungherese). Vengono indicati come “balcanismi” il sistema vocalico
neogreco, il sincretismo tra genitivo e dativo, la formazione di un futuro perifrastico, eredità
bizantina, la formazione dei numerali da 11 a 19 secondo la matrice “numero su dieci”, la perdita
dell’infinito e la collocazione postnominale dell’articolo definito. Secondo una prima ipotesi, i tratti
sono effetto dell’azione delle lingue di sostrato attestate nella penisola balcanica; secondo un’altra
sono l’esito dell’azione del greco medievale e bizantino. In realtà, i fenomeni non si possono
spiegare in maniera univoca, ma come l’azione congiunta di diverse spinte propulsive.

Il settore centro-occidentale dell’Europa, in passato caratterizzata da un’ampia rete viaria, sfruttata


per l’assenza di mari interni ha prodotto la cosiddetta “area di Carlo Magno”. L’analisi di
quest’area è cura del progetto di ricerca Eurotyp, che ha effettuato una ricognizione a tappetto
delle oltre cento lingue parlate in quest’area, dimostrando dieci tratti caratteristici del tipo europeo,
noti come Standard Average European (SAE)
I. Somiglianze lessicali, per la comune presenza di lessico latino-greco e di strategie per la formazione delle
parole;
II. Ordine dei costituenti della frase indipendente assertiva relativamente rigido e di tipo SVO;
III. Presenza di preposizioni e genitivi postnominali;
IV. Uso di avere ed essere come ausiliari nelle forme composte;
V. Presenza simultanea di articoli definiti e indefiniti;
VI. Carattere non pro-drop;
VII. Agente e soggetto possono divergere;
VIII. La forma passiva consente di esprimere l’agente;
IX. Accordo delle forme finite del verbo con il soggetto;
X. Paradigmi di caso fortemente semplificati e di tipo nominativo-accusativo.

I singoli tratti hanno una larga diffusione, ma, combinati tutti e dieci, caratterizzano l’area di Carlo
Magno, seppure con diffusione tutt’altro che omogenea. Tipici italiani sono i tratti I, III, IV, V, VII,
VIII e IX. Le lingue si potrebbero, perciò, caratterizzare per un “grado di europeismo”, in ordine
decrescente, da tedesco, francese e nederlandese a turco, basco e lingue uraliche. Il maggior
numero dei tratti è coperto dalle lingue della zona centrale, mentre ai margini si fanno sempre
meno presenti. Si possono, così, individuare un centro di irradiazione, una zona di transizione e
una zona relitto.

Vi sono poi anche aree in cui, nonostante le premesse favorevoli, i sistemi linguistici non hanno
preso piede, come dimostrato, in tempi recenti, da due progetti: il Medtyp e il Language typologu
around the Baltic Sea. Entrambi, dopo aver mappato la diffusione linguistica delle aree del
Mediterraneo e del Baltico, hanno dimostrato che non è possibile parlare di aree linguistiche, pur
essendoci molti punti di contatto, come, in area mediterranea, la genesi dei suffissi accrescitivi, la
diffusione dell’articolo definito dal Vicino Oriente o la struttura del sintagma nominale (genere
doppio, marcatura tramite articoli, ordine testa-modificatori, pronomi clitici). Il Baltico, invece, si
caratterizza per il ricorso al nominativo per la marcatura dell’oggetto in particolari costrutti, la
compresenza di preposizioni e posposizioni, il sincretismo dei casi strumentale e comitativo, gli
ordini SVO e GN.

La tipologia e il mutamento linguistico

Anche la tipologia ha tentato di aprirsi un varco verso la diacronia. Negli ultimi trent’anni, ci si è
chiesti se i risultati della linguistica storica rientrino nell’ambito della tipologia e se la metodologia
elaborata dalla tipologia possa essere impiegata nei processi di ricostruzione linguistica. Quindi, se
i tipi siano coinvolti e in quale misura nel cambiamento linguistico. Infatti, se i mutamenti più
massicci coinvolgono l’intero sistema linguistico, è logico attendersi un mutamento dell’intero
impianto tipologico e, di conseguenza, che anche i tipi cambino. Ogni configurazione tipologica,
quindi, non può essere considerata definitiva e il profilo di una lingua non è che il risultato dei
mutamenti, a sua volta mutevole. Secondo l’approccio di dinamizzazione della tipologia, dunque, i
mutamenti non sono che parti di un processo di transizione più ampio. È lecito, pertanto,
attendersi che siano i tipi più coerenti ad affermarsi nella storia, che una lingua passi da uno stato
tipologico meno coerente ad uno più coerente e che le proprietà e le correlazioni universali siano
più forti dei singoli eventi e che sopravvivano a ogni pressione. Di questi tre assunti, però, solo il
terzo sembra reggere alla prova dei fatti. Essendo, poi, le fasi di transizione molto lunghe e molto
lente, è possibile che uno stato intermedio si affermi e generi lingue tipologicamente miste, come
l’inglese. In un’ipotetica mappa dei tipi linguistici, in sincronia e diacronia, noteremmo che
esistono tipi molto diffusi e molti rari, alcuni molto duraturi e altri facilmente vulnerabili, alcuni
molto diffusi in tutti i lati della Terra e altri concentrati in specifiche regioni. Questo avviene
perché non tutti hanno la medesima probabilità di occorrenza e questa dipende solo in parte dalla
loro coerenza interna. Uno dei meriti del paradigma dinamico è di aver individuato due fattori, la
stabilità e la frequenza, indipendenti ma la cui azione congiunta consente di spiegare la
distribuzione disomogenea dei tipi linguistici. Con stabilità si intende la probabilità che un tipo
venga abbandonato o mantenuto, la frequenza, invece, corrisponde alla probabilità che un tipo
venga assunto dalle lingue storico-naturali. In termini genealogici, dunque, i tipi stabili esibiscono
una diffusione omogenea nelle famiglie linguistiche. I tipi frequenti, invece, mostrano una
diffusione più uniforme in termini areali, ma non coincidente con le scansioni individuate in base a
parametri genealogici. Essi in sostanza si diffondono in via orizzontale. La combinazione dei due
criteri genera quindi quattro tipi: stabili e frequenti (diffusi geneticamente e geograficamente),
stabili e infrequenti (diffusi in singole famiglie linguistiche, ma non geograficamente), instabili e
frequenti (diffusi geograficamente ma in modo disomogeneo nelle famiglie linguistiche), instabili e
infrequenti (rari sia geograficamente che nelle famiglie linguistiche). Ad esempio, le vocali
anteriori i ed e sono universali. Stabile ma infrequente è l’armonia vocalica, come nel turco.
Instabile ma frequente è la nasalizzazione vocalica, mentre le consonanti dette click, che
assomigliano ad un bacio, sono un esempio di tipo instabile ed infrequente. I concetti di stabilità e
frequenza possono rivelarsi strumenti efficaci per prevedere quali strategie entrino in gioco nei
singoli mutamenti linguistici. Il massimo grado di stabilità, infatti, coincide con l’universalità ed è
probabile, data l’economicità della lingua, che un tipo stabile abbia seguito le stesse tappe. Nel
caso di tipi frequenti, invece, devono aver agito tendenze connotate in chiave areale. È esemplare,
in questo senso, la distribuzione sincronica e il percorso evolutivo dei diminutivi e degli
accrescitivi, diffusi, i primi, in tutte le lingue del mondo e sporadici i secondi. Di conseguenza, i
diminutivi sarebbero un fenomeno stabile e frequente, mentre gli accrescitivi instabili ma
frequenti. Quindi, dovremmo attenderci che i diminutivi si siano formati secondo il medesimo
percorso evolutivo, che gli accrescitivi abbiano seguito percorsi specifici in relazione ai diversi
contesti areali. I diminutivi, infatti, sembrano derivare dalla necessità di definire i cuccioli dei vari
mammiferi.

Poiché le lingue sono in continuo movimento, i tipi rappresentano tratti comuni destinati a
scomparire, seppure seguendo una serie di fasi intermedie. Se dal punto di vista sincronico, queste
risultano delle eccezioni difficilmente spiegabili, secondo un piano tanto sincronico quanto
diacronico, queste eccezioni si spiegano come espressione di una sintomatologia di un mutamento
in atto. Quando si tenta di individuare la data di morte del latino, non si tiene bene in conto di
varianti esistenti già nel primo secolo d.C., come testimoniano le scritte sulle pareti delle case di
Pompei, conservatesi grazie alla lava. Le scritte, testimonianze della lingua parlate, si discostano
abbastanza dall’ordine SOV, presentando altri quattro ordini (OVS, OSV, VSO e VOS) e dagli
ordini NA e GN in favore di AN e NG. Questi ordini, molto diversi da quello del latino, hanno,
però, molto in comune con quelli delle lingue romanze, dimostrando come tendenze devianti
fossero presenti, in area latina, già dal I secolo. Anche la ricerca sugli universali si intreccia con la
tipologia. Gli universali implicazionali, dal punto di vista storico, diventerebbero assoluti se non si
verificassero situazioni in cui all’assenza di Y corrisponda X. Questa situazione, tipologicamente
impossibile per gli implicazionali, è preclusa al mutamento, ovvero è una fase attraverso la quale
non possono passare le lingue. È il caso di accrescitivi e diminutivi (una lingua ha accrescitivi se e
solo se ha anche diminutivi). Quindi, la grammaticalizzazione dei diminutivi dovrebbe avvenire
prima di quella degli accrescitivi. Una fase in cui si verifica la situazione inversa invaliderebbe
l’universale. Questo dimostra che è legittimo servirsi degli implicazionali per previsioni sul
mutamento linguistico, senza che questo sia, però, prevedibile. La chiave per operare previsioni è
assolutamente probabilistica. È innegabile l’esistenza di mutamenti più naturali di altri e dovrebbe
essere possibile individuare almeno le tendenze precluse al cambiamento. Edward Sapir ha
definito “deriva” la lenta trasformazione della lingua. Il termine rende bene l’idea di un
movimento apparentemente libero e incontrollato. Infatti, anche la storia delle lingue è in parte
governata da agenti esterni, quali successi e insuccessi delle comunità umane, che possono
imporre deviazioni di percorso alla lingua.

Ai margini della tipologia

La lingua varia anche sull’asse dello spazio e questa variazione prende il nome di variazione
dialettale. La differenza tra lingua e dialetto è però davvero labile, essendo il dialetto anche
imparentato genealogicamente con la lingua. La tipologia fonda le proprie generalizzazioni su
lingue ufficiali e le loro varietà standard, il cui materiale è sicuramente più accessibile rispetto a
quello dei dialetti. Se si scandagliassero più a fondo le variazioni dialettali, probabilmente si
avrebbero conseguenze sul piano tipologico. Ad esempio, riguardo la collocazione della negazione
rispetto al verbo (prima, dopo e sia prima che dopo), mentre l’italiano segue il primo tipo, alcuni
dialetti italiani seguono o il secondo (piemontese, milanese, bergamasco) o il terzo tipo (emiliano,
lombardo orientale). Questo modificherebbe già lo statuto tipologico. Se questo non accade, è
perché i dialetti non vengono posti sullo stesso piano di legittimità della lingua.

La produzione linguistica è anche condizionata dalle caratterizzazioni sociali dei parlanti e dalle
situazioni comunicative in cui si trovano. Esistono varianti basse, escluse dai manuali di
grammatica, così come vengono escluse le varianti diafasiche, diamesiche, diastratiche, persino
diatopiche. Le affermazioni del tipologo sono, pertanto, fittizie, in quanto escludono la lingua dal
contesto sociale, sebbene sia un diasistema, cioè un sistema di sistemi.

Si definiscono interlingue le produzioni linguistiche di un apprendente che recenti studi hanno


dimostrato essere un insieme di tratti linguistici autonomi sia dalla L 1 che dalla L2. Vi sono, cioè,
fasi intermedie che inducono a ritenere che le interlingue siano sistemi linguistici autonomi,
naturali e internamente coerenti e, pertanto, dovrebbero valere anche per le interlingue gli
universali tanto assoluti quanto implicazionali, utili nella comprensione del processo di
apprendimento di una lingua. Ad esempio, se è vero che la categoria del genere esiste solo dopo
quella del numero, dunque un apprendente acquisirà prima la categoria del numero e poi quella
del genere. Una delle proprietà delle interlingue, indipendente dalla L 1 e dalla L2, riguarda la
conformazione morfologica. Si è soliti supporre che le interlingue iniziali abbiano un carattere
isolante. Visto che il processo di apprendimento di una lingua è l’incontro tra due sistemi
linguistici, il parante cerca di coniugare una strategia di natura formale e il suo valore semantico-
funzionale, perciò il possesso di un dominio cognitivo di riferimento è necessario per l’uso
appropriato e consapevole di una strategia linguistica. È più semplice, così, utilizzare strutture
della L2 già esistenti nella L1. Ad esempio, un sistema complesso come il verbo italiano sarà
appreso con facilità da un turcofono ma con estrema difficoltà da un sinofono. Gli “errori”, quindi,
si spiegano con la complessità strutturale del sistema linguistico di partenza rispetto a quello della
lingua d’arrivo. Un processo di apprendimento, pertanto, non dovrebbe mai prescindere da
un’analisi di stampo tipologico delle due lingue in questione.

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