(Modulo M00305)
La lista delle abbreviazioni usate nelle glosse è fornita nella tabella seguente:
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
In questa unità didattica si introduce la linguistica come scienza e si inquadra l'oggetto della sua indagine - il
linguaggio umano - all'interno degli altri sistemi di segni.
2.1 - Arbitrarietà
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
UD 5 - La tipologia linguistica
In questa unità didattica si presentano fondamenti e obiettivi dell'analisi tipologica, area di studio in cui le
lingue vengono descritte e analizzate in base alla loro appartenenza ad un tipo strutturale. Vengono pertanto
illustrati alcuni universali linguistici e discusse le loro implicazioni per l'indagine interlinguistica.
UD 6 - Il contatto linguistico
In questa unità didattica si prendono in considerazione i modi in cui lingue diverse possono venire in contatto
tra di loro e dare luogo, così, a fenomeni di trasferimento di materiale linguistico. La nozione di "contatto"
sarà interpretata in un senso molto vasto, così da prendere il prestito, il calco, il concetto di "area linguistica" e
i processi di pidginizzazione e creolizzazione.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
UD 7 - La variazione linguistica
In questa unità didattica si prendono in esame i fattori sociali, geografici e stilistici che sono alla base della
variazione linguistica. Viene inoltre presentato il concetto di "lingua standard" e di "variante di prestigio". La
variazione viene, infine, inquadrata all'interno di una nozione cruciale in quest'area di ricerca, quale quella di
"continuum".
Guida al modulo
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
UD 5 - La tipologia linguistica
Obiettivo di questa unità didattica è illustrare il concetto di "tipo linguistico" e mostrarne le possibilità
applicative nell'indagine linguistica.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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UD 6 - Il contatto linguistico
Obiettivo di questa unità didattica è illustrare la rilevanza del contatto nei fenomeni di "trasferimento" di
materiale linguistico da una lingua all'altra.
UD 7 - La variazione linguistica
Obiettivo di questa unità didattica è illustrare l'interazione e l'influenza dei fattori sociali nel cambiamento
linguistico.
- de Saussure, Ferdinand
- Lingue romanze
- Scuola di Praga
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
Bibliografia
Fonti
Lessico di frequenza dell’italiano parlato-LIP, a cura di T. De Mauro e altri, Milano, Etaslibri, 1993.
Gaetano Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987.
Leonard Bloomfield, Language, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1933 (traduzione italiana Il
linguaggio, Milano, Il Saggiatore, 1974).
The Cambridge Encyclopedia of Language, a cura di D. Crystal, Cambridge, Cambridge University Press,
1987 (traduzione italiana Enciclopedia Cambridge delle scienze del linguaggio, a cura di P.M. Bertinetto,
Bologna, Zanichelli, 1993).
Francesco Sabatini, L’italiano dell’uso medio: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in Gesprochenes
Italienisch in Geschichte und Gegenwart, a cura di G. Holtus e E. Radtke, Tübingen, Narr, 1985: 154-184.
Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, Losanna-Parigi, Payot, 1916 (traduzione italiana con
commento di T. De Mauro, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1967).
Barbara Turchetta, On the application of the notion of grammaticalization to West African Pidgin English, in
The limits of grammaticalization, a cura di A. Giacalone Ramat e P. J. Hopper, Amsterdam/Philadelphia, John
Benjamins, 1998: 272-288.
Bibliografia
Gaetano Berruto (1997), Corso elementare di Linguistica Generale, Torino, UTET.
Noam Chomsky (1986), Knowledge of Language: Its nature, Origin, and Use, New York, Praeger (traduzione
italiana La Conoscenza del Linguaggio, Milano, Il Saggiatore, 1989).
Noam Chomsky (1995), The Minimalist Program, Cambridge (MA), MIT Press.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
Mara Frascarelli (2003), Topicalizzazione e ripresa clitica. Analisi sincronica, confronto diacronico e
considerazioni tipologiche", in Italia linguistica anno Mille - Italia linguistica anno Duemila, Atti del XXXIV
Congresso Internazionale di Studi della SLI (Firenze, 19-21 ottobre 2000), a cura di N. Maraschio e T. Poggi
Salani, Roma, Bulzoni: 547-562.
Nora Galli de' Paratesi (1984), Lingua toscana in bocca ambrosiana. Tendenze verso l'italiano standard:
un'inchiesta sociolinguistica, Bologna, Il Mulino.
Talmy Givón (1979), From Discourse to Syntax: Grammar as a Processing Strategy, in Discourse and Syntax, a
cura di T. Givón, New York, Academic Press: 81-112.
Joseph H. Greenberg (1966), Some universals of grammar, with special reference to the order of meaningful
elements, in Universals of language, a cura di J. H. Greenberg, Cambridge (MA), MIT Press: 73-113.
John J. Gumperz (1971), Language in social groups, Stanford, Stanford University Press.
Michael A. Halliday (1985), Spoken and written language, Victoria, Deakin University (traduzione italiana
Lingua parlata e lingua scritta, Firenze, La Nuova Italia, 1992).
William Labov (1966), The social stratification of English in New York City, Center for Applied Linguistics,
Washington, D.C.
Christian Lehmann (1982), Universal and typological aspects of agreement, in Apprehension. Das Sprachliche
Erfassen von Gegenständen, Teil II. Die Techniken und ihr Zusammenhang in Einzelsprachen, a cura di H.
Seiler e F.J. Stachowiak, Tübingen, Narr: 201-267.
Alberto M. Mioni (1983), Italiano tendenziale: osservazioni su alcuni aspetti della standardizzazione, in Scritti
linguistici in onore di Giovan Battista Pellegrini, Pisa, Pacini: 495-517.
Edward Sapir (1921), Language, New York, Harcourt (traduzione italiana Il linguaggio. Introduzione alla
linguistica, Torino, Einaudi, 1969).
Letture consigliate
Monica Berretta (1989), Tracce di coniugazione oggettiva in italiano, in L’italiano tra le lingue romanze, a cura
di F. Foresti, E. Rizzi e P. Benedetti, Roma, Bulzoni: 125-150.
Noam Chomsky (1957), Syntactic Structures, L’Aja-Parigi, Mouton (traduzione italiana Le strutture della
sintassi, Roma-Bari, Laterza, 1970).
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
Bernard Comrie (1983), Universali del linguaggio e tipologia linguistica, Bologna, Il Mulino.
William Croft (1990), Typology and Universal, Cambridge, Cambridge University Press.
Talmy Givón (1976), Topic, pronoun and grammatical agreement, in Subject and Topic, a cura di C. N. Li,
New York, Academic Press: 154-189.
Sitografia
- La pagina ufficiale-istituzionale di Noam Chomsky presso il MIT (Massachusetts Institute of Technology):
http://web.mit.edu/afs/athena.mit.edu/org/l/linguistics/ www/chomsky.home.html
- Breve scheda su Noam Chomsky con articoli, interviste e brani antologici tratti dalle sue opere:
http://www.emsf.rai.it/biografie/anagrafico.asp?d=159
- Per la definizione di semiotica come scienza e della lingua come codice, si veda l’intervista al prof. Paolo
Fabbri, pubblicata in Enciclopedia Multimediale delle scienze filosofiche, 2001:
http://www.paolofabbri.it/interviste/semiotica_una_bina.html
- Il dizionario generale plurilingue del Lessico Metalinguistico: un database della terminologia della
linguistica, che è possibile interrogare per lemma e per autore:
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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Il linguaggio ha una funzione importante nella nostra vita; però raramente gli prestiamo attenzione,
forse perché ci è così familiare, e lo consideriamo qualcosa di scontato, come il respirare o il
camminare.
(Bloomfield, Language: 6)
La riflessione sulla lingua può, in seguito, essere stimolata dal contatto con persone che parlano una lingua
straniera, dal riconoscimento dell’esistenza di variazioni dialettali all’interno di una singola comunità o,
semplicemente, da quell’innata curiosità che spinge l’uomo ad indagare all’interno di se stesso e del mondo che
lo circonda.
Qualsiasi considerazione si ferma, tuttavia, ad uno stato puramente dilettantesco se non viene inquadrata
all’interno di un’analisi rigorosa dei fenomeni linguistici posti all’attenzione.
La linguistica, intesa come scienza, è una disciplina relativamente giovane (la sua nascita può essere fissata
nella seconda metà del XIX secolo; vedi 3.3) e può essere definita come "lo studio scientifico del linguaggio e
delle lingue".
La linguistica occupa un posto del tutto peculiare all’interno del panorama scientifico. Infatti, se da una parte
viene considerata parte delle scienze umane (essendo l’oggetto della sua ricerca una proprietà peculiare
dell’uomo), dall’altra modelli e strumenti di analisi sono spesso riconducibili a quelli delle scienze esatte, come
la logica o la matematica, a volte si avvicinano a quelli delle scienze sociali o, ancora, delle scienze naturali
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
(quali la biologia).
A seconda dello specifico ambito di ricerca, dunque, la linguistica può qualificarsi come scienza più o meno
"dura", con differenti strumenti e procedure, ma avendo sempre come obiettivo quello di acquisire
consapevolezza sull’universo "lingua": la sua evoluzione, le sue strutture e funzioni, e la sua variazione.
Il termine glottologia, che dal punto di vista etimologico è equivalente a quello di "linguistica" (in quanto
deriva dal greco e significa "studio della lingua", in greco glotta), designa la parte della linguistica che si
occupa delle lingue antiche, in particolare di quelle indoeuropee, quali ad esempio il latino, il greco, il
sanscrito e l’iranico. In sostanza, il termine indica la parte della linguistica, di stampo storico e comparativo,
che si è sviluppata nell'Ottocento in ambito tedesco, e che ha gettato i fondamenti della linguistica moderna
(vedi 3.3)
Secondo un’impostazione teorica e metodologica molto diffusa oggi, sostenuta da Noam Chomsky all’interno
del quadro teorico della Grammatica Generativa (vedi 3.6), il linguaggio è "innato" e la facoltà del linguaggio
in quanto tale risiede in un punto a ciò dedicato del nostro cervello. Conoscere i meccanismi del linguaggio
può dunque illuminarci sul funzionamento della mente umana.
Dato questo assunto di base, l’obiettivo del linguista sarà quello di individuare quel ristretto numero di princìpi
che sono parte del nostro corredo genetico (e sono dunque universali) e che rendono possibile l’apprendimento
di una qualsiasi lingua.
Lo studio delle lingue può però prescindere da presupposti mentalisti e prendere come obiettivo
l’interrelazione tra le lingue e la loro evoluzione nel tempo. Le lingue possono così essere studiate come
"organismi", vale a dire come sistemi complessi che si modificano, si influenzano reciprocamente e
continuamente si riorganizzano. Lo studio delle lingue così impostato avrà dunque lo scopo di comprendere
più a fondo il rapporto tra natura e storia. Questo approccio caratterizza i lavori linguistici in ambito
diacronico (vedi 3.3) e variazionistico (vedi UD 7).
Un altro obiettivo fondamentale della ricerca linguistica riguarda l’individuazione di "tipi" linguistici (vedi UD
5). All’interno di quest’ambito di studi si intende individuare costanti, meccanismi ricorrenti e correlazioni
regolari tra gli elementi che compongono i sistemi linguistici. In questo modo le lingue non appariranno più
come "atomi", ognuna con una propria grammatica totalmente avulsa da tutte le altre. Al contrario, le lingue
del mondo potranno essere comprese come sistemi organici interrelati e pertanto essere ricondotte a schemi
più generali, entro i quali la variazione è tutt’altro che infinita.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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significativo che costituisce l’unità di base dell’espressione linguistica e, in generale, di qualsiasi sistema
semiotico.
Dal punto di vista semiotico, quindi, il linguaggio verbale umano è un sistema di segni, vale a dire un
"codice".
È importante dunque osservare alcune delle caratteristiche principali dei codici, al fine di mettere in evidenza
i punti in comune e le principali differenze tra le lingue verbali e gli altri sistemi di segni.
Un codice è un sistema di corrispondenze tra l’ordine dell’espressione e l’ordine del contenuto, che consente la
comunicazione.
Un segno è dunque una qualsiasi entità le cui proprietà esterne (vale a dire la sua "espressione") sono associate
in modo biunivoco e inequivocabile con un significato (il "contenuto").
In base al diverso rapporto esistente tra forma dell’espressione e forma del contenuto, i segni possono essere
classificati e distinti in vari modi. I due principali criteri di classificazione sono:
Sono iconici quei segni in cui vi è una qualche somiglianza tra espressione e contenuto. Ne sono esempi i
diagrammi e gli istogrammi, le simbologie usate nelle guide turistiche o nei locali pubblici, le onomatopee
come cricrì o patatrac.
Nei codici arbitrari non vi è invece alcuna analogia tra espressione e contenuto, la relazione tra espressione e
contenuto non è cioè motivata né da una somiglianza né da una necessità intrinseca. L’esempio più immediato
di codice arbitrario è fornito proprio dalle lingue verbali, e tale arbitrarietà è alla base della diversità
linguistica (vedi 2.1).
I codici aperti sono quelli che possono essere illimitatamente integrati. Essi consentono dunque l’introduzione
di nuovi segni al loro interno in qualsiasi momento.
Le lingue verbali sono per definizione codici aperti, proprio perché non vi è alcuna relazione necessaria tra
espressione e contenuto (sono quindi arbitrari). Per designare ad esempio nuovi prodotti della cultura
materiale, i parlanti possono creare nuove parole, o prendere in prestito da altre lingue parole già esistenti
(vedi 6.1), e possono avere più nomi per uno stesso concetto, e ciò è possibile proprio in virtù dell’arbitrarietà
del linguaggio e della conseguente possibilità di integrare il sistema con nuovi segni, in numero
potenzialmente infinito.
I codici iconici sono, invece, tendenzialmente chiusi, non possono essere cioè illimitatamente integrati con
nuovi segni.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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In un qualsiasi messaggio, quale che sia il codice utilizzato o il tipo di informazione che viene trasmessa, il
potere di dare espressione al contenuto non spetta a tutti gli elementi dell’espressione, ma solo ad alcune parti
di essa.
Il segno in questione, di tipo iconico (vedi 1.3), ci avverte di tenere gli animali raffigurati (in questo caso i
cani) al di fuori del locale pubblico che reca tale avviso.
Perché il segnale possa trasmettere questo tipo di informazione non è importante il tipo di cane rappresentato
nell’espressione, né la sua posizione rispetto alla scritta, né il numero di animali che viene raffigurato.
Ne concludiamo, dunque, che di tutti gli elementi che compongono l’espressione, solo alcuni sono portatori di
significato. Questi elementi vengono detti "pertinenti".
I tratti pertinenti sono distintivi, perché hanno il potere di stabilire un’opposizione di significato rispetto a tutti
gli altri elementi dell’espressione.
Nel caso illustrato, la funzione distintiva è data dall’immagine dei cani. Questo è dunque l’elemento pertinente:
separa i cani dal resto del mondo animale e li sottopone al divieto.
Tuttavia, questi tratti non sono stabiliti una volta per tutte e per tutti i tipi di codici.
Tornando al nostro esempio, potrebbe presentarsi il caso in cui si intenda vietare l’entrata solo ad alcuni tipi di
cani (ad esempio a quelli di grossa taglia). In questo caso, il tipo di cane rappresentato diventerebbe un tratto
pertinente.
Ogni lingua verbale è, dal punto di vista semiotico, un sistema di segni (vedi 1.3) e tale sistema è per sua
natura "biplanare".
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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Usando le parole di Ferdinand de Saussure (vedi la voce de Saussure, Ferdinand) (Saussure, Cours de
linguistique générale: 84) diremo, infatti, che il segno linguistico è "un’entità psichica a due facce" e queste due
facce sono il "concetto" e l’"immagine acustica" (cioè il suono) che ad esso viene associata.
"Questi due elementi - continua Saussure - sono intimamente uniti e si richiamano l’un l’altro". In altre parole,
nel pronunciare una parola qualsiasi viene immediatamente evocato un concetto.
Saussure introduce poi una distinzione di fondamentale importanza nell’analisi del segno linguistico, quella tra
"significante" e "significato" (termini che vengono a sostituire, rispettivamente, "immagine acustica" e
"concetto").
Il significante è la parte fisicamente percepibile del segno, è quello che cade sotto i nostri sensi
(corrispondente dunque alla nozione semiotica di "espressione"; vedi 1.3).
Il significato, invece, è il piano non materialmente percepibile del segno, l’informazione veicolata dal
significante (vale a dire il concetto o il "contenuto"; vedi 1.3).
Tutti i segni verbali sono indissolubilmente costituiti dall’unione di queste due facce. Da qui la loro intrinseca
"biplanarità".
La più famosa è quella tra langue e parole (termini francesi non immediatamente traducibili in questo
contesto).
Tale distinzione pone l’accento sulla natura eterogenea e composita della lingua, per cui essa è, al tempo
stesso, un contenuto della mente, un patto sociale e un prodotto reale.
La langue comprende tutto quell’insieme di conoscenze mentali e di regole sociali che sono insite nella lingua
e che consentono ai parlanti di una stessa comunità di produrre e comprendere messaggi sempre nuovi e di
qualsiasi tipo; essa è costituita da un sistema di elementi, regole e relazioni che consentono di ricondurre a
unità (e comprendere) tutte le infinite realizzazioni individuali della lingua.
La parole indica invece l’atto linguistico individuale, la realizzazione concreta dei messaggi verbali in una
certa lingua.
La langue non è funzione del soggetto parlante: è il prodotto che l’individuo registra passivamente […]
È la parte sociale del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non può né crearla né modificarla;
essa esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto tra i membri della comunità.
La parole, al contrario, è un atto individuale di volontà e intelligenza, nel quale conviene distinguere: I
le combinazioni con cui il soggetto parlante utilizza il codice della lingua […] II il meccanismo
psicofisico che gli permette di esternare tali combinazioni.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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Anni più tardi, anche Noam Chomsky formulerà una famosa dicotomia incentrata sul contrasto tra sistema
linguistico e produzione effettiva: la distinzione tra "competenza" (competence) ed "esecuzione"
(performance).
In base al presupposto innatista del pensiero chomskiano (vedi 1.2 e 3.6), la competenza linguistica non ha
una matrice sociale, bensì è data da quell’insieme di princìpi (universali) e di parametri che il bambino ha
fissato nel corso dell’acquisizione. L’esecuzione è invece l’atto linguistico, spesso "disturbato" da fattori
extralinguistici e da impedimenti di varia natura.
In sostanza, dunque, ciò che interessa il linguista è la langue (vale a dire il sistema) e la "competenza"
linguistica dei parlanti.
Tuttavia, per poter studiare il sistema linguistico, è necessario partire dall’atto pratico e individuale con cui la
competenza si manifesta.
Per questo il linguista deve compiere un processo di astrazione dei dati al momento dell’analisi scientifica: a
partire dal dato concreto, dovrà idealizzarlo ed "epurarlo" da tutte le sue caratteristiche accidentali per arrivare
ad ipotesi generali sulla struttura della lingua in esame.
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Mara Frascarelli
2.1 - Arbitrarietà
2.1 - Arbitrarietà
L’arbitrarietà è senza dubbio una delle proprietà fondamentali delle lingue verbali (vedi 1.3 e 1.4). È
necessario però distinguere due livelli di arbitrarietà nelle lingue, di cui uno più ovvio e l’altro più profondo.
Nella prima accezione, le lingue sono arbitrarie in quanto non vi è nessun nesso logico, nessun vincolo,
naturale o necessario, tra il significante e il significato (vedi 1.5) di ciascun segno.
Se pensiamo, infatti, ad una parola come casa, sarà immediatamente evidente che non vi è nessuna ragione
per cui quel dato concetto debba essere espresso in tal modo nella lingua italiana. Il significante casa non ha
dunque nessuna somiglianza con il contenuto che esprime.
Questo non vuol dire che tra significante e significato non esistano legami né rapporti. Al contrario, essi sono
chiaramente e necessariamente associati uno all’altro. Ma non in modo naturale o logico, bensì per
convenzione. La convenzionalità di tale rapporto è appunto ciò che determina l’arbitrarietà del segno
linguistico.
Se, infatti, i segni linguistici non fossero arbitrari, non potrebbero presentare variazioni né cambiare nel
tempo. Il mutamento linguistico è invece, come noto, un fatto del tutto naturale.
Non solo. Se il legame tra significante e significato fosse di natura iconica (vedi 1.3), allora le cose del mondo
dovrebbero chiamarsi nello stesso modo in tutte le lingue e, viceversa, parole simili in lingue diverse
dovrebbero designare cose o concetti dello stesso tipo. Ma come sappiamo, tutto questo è palesemente falso: il
concetto legato alla parola italiana amore trova le realizzazioni più diverse nelle varie lingue (love in inglese,
jecayl in somalo, hao in cinese, ecc.), mentre significanti molto simili tra loro possono avere significati
completamenti diversi. Si pensi, ad esempio, all’italiano bello rispetto all’inglese bell ("campana"), al latino
bellum ("guerra") e al turco belli ("evidente").
Questa prima nozione di arbitrarietà è, però, insufficiente a rendere conto della complessa realtà del segno
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linguistico. È necessario dunque integrarla con un’altra idea di arbitrarietà, formulata da Ferdinand de
Saussure nel Cours de linguistique générale: quella relativa al rapporto tra forma e sostanza (vedi 2.2).
L’arbitrarietà del segno - afferma Saussure - non è dovuta solo alla mancanza di un rapporto naturale o
necessario tra significante e significato (vedi 1.5). La lingua è "doppiamente arbitraria" in quanto sono
arbitrari anche i rapporti tra un significante e gli altri significanti e tra un significato e gli altri significati.
Consideriamo il rapporto tra due significanti quali i suoni che compongono le parole ship e sheep in inglese.
Queste parole hanno due significati diversi, distinti e discriminati dalla durata della vocale (accompagnata da
una variazione timbrica, come si vede dalla trascrizione fonetica; vedi il modulo Fonologia, 2.3):
"nave" "pecora"
In italiano, al contrario, la durata vocalica non è un tratto pertinente (vedi 1.4), vale a dire non è funzionale a
distinguere parole di significato diverso. Pertanto, due significanti quali /libro/ e /li:bro/ corrispondono, in
italiano, al medesimo significato:
/libro/ /li:bro/
"libro"
In conclusione, l’inglese pone un confine discriminante tra due suoni, laddove l’italiano non lo fa.
Ciò mostra che non vi è nessun rapporto necessario tra significanti dello stesso tipo in lingue diverse.
Per quanto riguarda il rapporto tra significati, l’italiano, ad esempio, riconosce una distinzione tra bosco, legno
e legna, mentre l’inglese realizza questi tre significati per mezzo dello stesso significante: wood. Il tedesco, da
parte sua, assegna un significante specifico solo al concetto di "bosco", mentre non opera distinzioni
nell’espressione degli altri due significati:
inglese wood
È dunque evidente che non vi è alcuna ragione necessaria del perché si debba operare una separazione tra due
(o più) significati. Così, nella loro evoluzione, le lingue possono creare sempre nuove distinzioni e cancellarne
delle altre (non più utili o rilevanti).
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Ecco dunque il motivo della "doppia arbitrarietà": ogni lingua "ritaglia" il mondo delle forme e dei concetti in
modo del tutto peculiare e specifico.
È però sicuramente meno ovvio il fatto che le lingue siano articolate a due livelli strutturali diversi.
Le lingue sono articolate, in primo luogo, al livello del significante e questo livello di articolazione rappresenta
la "prima articolazione" del linguaggio.
Ogni parola è infatti organizzata in unità, ognuna delle quali reca un significato a sé stante, che può essere di
natura lessicale o grammaticale.
Questa può essere scomposta in due parti più piccole, vale a dire: libr- e -o.
La prima di queste due parti reca il significato lessicale della parola ("insieme di fogli stampati, cuciti insieme
in un dato ordine e racchiusi da una copertina"), mentre la seconda fornisce l’informazione grammaticale
relativa al genere e al numero (maschile, singolare).
Queste due parti (libr-, -o) possono comparire con il medesimo significato in altre parole e, dunque, possono
combinarsi con altri elementi (a loro volta portatori di altri significati). Potremo ottenere quindi parole come
libr-eria, libr-aio, gatt-o, tavol-o ecc.
Le parti "più piccole" in cui un significante può essere scomposto costituiscono i "morfemi" (vedi il modulo
Morfologia, 1.1), vale a dire le unità minime dotate di significato (non ulteriormente scomponibili in altri
"pezzi" che abbiano un significato proprio).
La "seconda articolazione" riguarda invece la scomposizione interna dei morfemi (appena individuati) in unità
più piccole, vale a dire in singoli suoni. I morfemi che compongono il significante libro sono infatti formati
dai suoni l, i, b, r, o.
Differentemente dai morfemi, tali segmenti di suono (detti "fonemi"; vedi il modulo Fonologia, 2.4) non sono
dotati di un significato individuale. Tuttavia la loro presenza e combinabilità rappresentano la base
fondamentale del linguaggio verbale umano.
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La sostanza dell’espressione delle lingue verbali è primariamente fonica e dunque il suo mezzo d’elezione è il
canale fonico-acustico. Per la specie umana, infatti, il parlato non è semplicemente "un modo" per esprimere
il significante: esso è "il modo" per esprimerlo.
Ciò non toglie che la sostanza fonica possa essere "trasferita" e avvalersi di altri mezzi di trasmissione. In
particolare, può fare uso del canale grafico-visivo e trasmettersi per mezzo della scrittura. Questa proprietà
del linguaggio verbale viene detta "trasferibilità del mezzo".
Sembra necessario, a questo punto, giustificare la priorità del parlato per mezzo di una breve digressione sul
rapporto tra lingua parlata e lingua scritta.
Il parlato, infatti, è universale, mentre lo scritto non lo è. Non si conoscono comunità o gruppi etnici che non
parlino; viceversa, molti popoli non utilizzano la scrittura. Questo contrasto è tanto più evidente se si
considera il fatto che anche nelle civiltà più evolute la consuetudine allo scritto si è affermata solo in tempi
relativamente recenti.
C’è poi una priorità "filogenetica" del parlato: la lingua scritta si è sviluppata sicuramente molto tempo dopo la
nascita della lingua parlata.
Sebbene, infatti, nessuno sia in grado di fissare con precisione la data in cui l’uomo ha cominciato a parlare,
gli studiosi sembrano concordi nel dire che la facoltà della parola si sia sviluppata non più tardi del 50.000
a.C., vale a dire nell’ultima parte del Paleolitico superiore, con l’Homo Neanderthalis. In altre parole, l’uomo
parla da almeno 50.000 anni.
Al contrario, l’uomo ha cominciato a scrivere non più di 5.000 anni fa, come attestano le più antiche
testimonianze di scritture mesopotamiche. Bisogna inoltre considerare che le prime forme di scrittura
richiedevano un livello di specializzazione molto alto e dunque solo pochissimi professionisti erano in grado
di farne uso.
Nelle società dotate di scrittura un bambino apprende sempre prima il parlato, e si può dare il caso che impari
il parlato e non lo scritto, ma non viceversa.
Il parlato, inoltre, è una potenzialità innata dell’essere umano. L’esposizione alla lingua è, sì, necessaria, ma
garantisce un apprendimento del tutto spontaneo.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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"linearità". Date, infatti, le caratteristiche combinatorie dei significanti, il contenuto veicolato dall’espressione
deve necessariamente svilupparsi in modo lineare, nel tempo e nello spazio.
Tale successione temporale influenza in modo inevitabile la composizione del messaggio, che non potrà essere
compreso se non dopo averlo analizzato nella sua interezza. Per questa ragione, il parlante dovrà codificare il
suo pensiero in base ad un prima e ad un dopo. Nel fare ciò, organizzerà il contenuto dell’informazione
proponendo (tendenzialmente) per primi gli elementi già noti all’interlocutore e facendo seguire
l’informazione nuova (vedi il modulo Morfologia e sintassi, 7.1).
Conseguenza della composizionalità del segno linguistico è anche la sua "sintatticità": le lingue verbali
possono infatti dar luogo a infiniti enunciati, combinando tra loro costituenti di vario genere.
A partire da costituenti come Mario, Anna, ha visto, alla stazione, con sua sorella e ieri, possiamo infatti
ottenere enunciati come:
Le lingue verbali possono inoltre combinare i costituenti applicando una regola al risultato di una sua
precedente applicazione. Consideriamo la frase seguente.
Grazie alla sintatticità, possiamo combinare il costituente il cane con una frase relativa, ottenendo:
(4) Il cane che ha portato quel ragazzo che hai conosciuto ieri ora dorme.
E potenzialmente può esserlo all'infinito, con i soli limiti imposti dalla memoria (e dalla pesantezza della frase
che otterremmo).
Una regola che viene applicata all’uscita di una sua precedente applicazione viene detta "ricorsiva". Oltre alla
sintatticità, quindi, alle lingue verbali va anche riconosciuta la proprietà di consentire la presenza di strutture
ricorsive.
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Osservazioni sulla lingua si trovano in testimonianze sui filosofi presocratici, in Platone e in Aristotele, anche
se è solo grazie agli Stoici (a partire dal IV secolo a.C. in poi) che la linguistica ottenne un posto definitivo nel
complesso di tutta la filosofia, e le questioni linguistiche furono trattate in opere singole, ognuna dedicata ad
un particolare aspetto della lingua.
Nell’antichità occidentale, lo schema della descrizione grammaticale era il cosiddetto modello "parola e
paradigma": l’analisi della lingua consisteva nell’individuazione della "parola" come unità minima, e nella sua
attribuzione a una determinata classe di parole. Nonostante la grande ricchezza morfologica, infatti, non si
arrivò mai ad una teoria del "morfema", e la parola era dunque l’entità linguistica di base per ogni analisi.
Gli studiosi antichi fecero numerose e precise osservazioni sulla fonetica del greco (ancora oggi di
fondamentale importanza per ricostruirne la pronuncia) e sulla sua "grammatica", producendo trattazioni e
classificazioni che avrebbero esercitato un’influenza determinante e durevole nei secoli. Si deve a Platone e ad
Aristotele, ad esempio, la distinzione e la definizione di "categorie del discorso" quali l’"ónoma" (il nome), il
"rhēma" (ciò che è detto, predicato) e i "syndesmoi" (classe comprendente preposizioni e congiunzioni).
Tali categorie furono poi ampliate e articolate per opera degli Stoici, che introdussero definizioni più precise
per dar conto degli aspetti morfologici e sintattici degli elementi appartenenti alle varie classi. Ad esempio,
l’ónoma di Aristotele fu suddiviso in nome proprio e nome comune; fu isolata la classe degli avverbi (elementi
definiti "intermedi", in quanto connessi ai verbi, ma morfologicamente associati a radici nominali). Anche il
caso, nel suo significato moderno di categoria flessiva per i nomi, fu una creazione degli Stoici: da allora in
poi, infatti, il termine klísis (flessione) fu usato per indicare la variazione grammaticale delle parole.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
La lingua costituì un interesse primario anche per gli Alessandrini, anche se soprattutto in quanto parte degli
studi letterari. Essi si dedicarono, infatti, principalmente all’emendazione dei testi, cioè alla loro ricostruzione
dal punto di vista filologico, sulla base di canoni di "accettabilità": l’analisi linguistica era infatti funzionale
all’argomentazione che portava a scegliere una parola piuttosto che un'altra in luogo di una lacuna. L’opera più
consistente di questo periodo è la Téchnē grammatikē di Dionisio Trace (100 a.C. circa), che offre un
resoconto preciso e dettagliato della grammatica greca (omettendo completamente, però, qualsiasi riferimento
alla sintassi).
L’intellettuale rinascimentale legge in lingua originale le opere greche, latine ed ebraiche e sviluppa, al tempo
stesso, un acceso interesse per le lingue "altre", soprattutto grazie alla scoperta dell'America, che mette di
fronte agli studiosi la ricchezza, mai sognata prima, della diversità linguistica. Fu quello che John Rupert Firth
(vedi 3.6), nel XX secolo, definì appropriatamente "la scoperta di Babele".
L’interesse per la storia - riversato in ambito linguistico - favorisce la nascita degli studi di linguistica
diacronica (vedi 7.3). In particolare, si intraprende lo studio del sanscrito e si cominciano a fare le prime
osservazioni isolate su talune evidenti somiglianze tra quella lingua e il greco, il latino e l’italiano.
Dal punto di vista del dibattito linguistico, il mondo filosofico dei secoli XVI-XVIII è fortemente
caratterizzato dalla controversia tra empirismo e razionalismo.
Il punto centrale dell’empirismo (i cui massimi esponenti rinascimentali sono Locke, Berkeley e Hume) è la
tesi che ogni conoscenza umana deriva dall’esterno, dalle impressioni che ci provengono dai sensi e sulle quali
la nostra mente opera, estraendone generalizzazioni.
La corrente razionalista, al contrario, (con Cartesio come massimo esponente, in questo periodo) asserisce che
i sensi sono fallaci e dunque la sola verità è nella ragione umana.
Un celebre aspetto della controversia riguarda la questione delle "idee innate": gli empiristi negano fortemente
l’esistenza di qualsiasi idea impressa nella mente prima dell’esperienza, presupposto che è, invece, alla base
del pensiero razionalista. In questa linea di pensiero, gli studiosi di Port Royal (scuola fondata nel 1637,
espressione massima del razionalismo) intendevano scoprire quella "grammatica unitaria" - comune a tutti gli
uomini sotto le apparenti diversità delle singole grammatiche - che consente la comunicazione di pensieri,
giudizi e ragionamenti.
Le correnti linguistiche del XX secolo, con il generativismo (vedi 3.6) da una parte e lo strutturalismo
americano (vedi 3.5) dall’altra, mostrano chiaramente il protrarsi di tale controversia fino ai giorni nostri.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
Mara Frascarelli
In seguito alla lettura del saggio di William Jones (1786) di fronte alla Royal Asiatic Society of Calcutta, nel
quale viene dimostrata la parentela del sanscrito con le lingue classiche e germaniche, l’interesse della
linguistica si sposta in maniera decisa in ambito diacronico (vedi 7.3) e si concentra in modo particolare sullo
studio storico e comparativo delle lingue indoeuropee (vedi 4.3).
Il concetto di "famiglia linguistica" (vedi UD 4) e il metodo comparativo come metodo scientifico di ricerca
nascono soprattutto grazie all’opera di linguisti come i fratelli August e Friedrick Schlegel, August Schleicher,
Franz Bopp, Jacob Grimm, Rasmus Rask e altri.
In particolare, si deve ad August Schleicher (1821-68) la creazione della "Stammbaumtheorie", vale a dire del
modello dell’"albero genealogico" [Fig.1], attraverso il quale vengono rappresentate le relazioni tra una lingua
madre e le lingue da essa derivate.
È importante sottolineare che il concetto di "famiglia" rappresenta una metafora e comporta inevitabilmente
delle astrazioni rispetto all’effettiva nascita ed evoluzione dei sistemi linguistici. In particolare, il concetto di
famiglia linguistica e la correlata teoria dell’albero genealogico mettono in ombra alcuni aspetti fondamentali,
in particolare:
a. la nascita di una lingua "figlia" comporta necessariamente la scomparsa della lingua madre;
b. le lingue non appaiono all’improvviso, pertanto la "nascita" di una lingua è un fenomeno che può protrarsi
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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c. le lingue convergono, oltre che divergere; può accadere dunque che alcune lingue, che avevano iniziato uno
sviluppo indipendente, si ricongiungano in seguito.
Punto cardine degli studi di linguistica storica incentrati sull’individuazione delle famiglie linguistiche è il
"metodo comparativo".
Questo può essere definito come il confronto sistematico di una serie di lingue, al fine di dimostrare una
relazione storica tra di esse. Questo confronto procede per tappe successive. In primo luogo, si identificano
una serie di somiglianze e di differenze formali fra le lingue e, successivamente, si cerca di elaborare uno
stadio di sviluppo anteriore (non attestato) a partire dal quale tutte le forme possono essere derivate. Questo
procedimento prende il nome di "ricostruzione interna". Solo dopo aver dimostrato che le lingue esaminate
hanno un antenato comune, queste si dicono "imparentate".
La ricostruzione è facilitata nei casi in cui si hanno attestazioni della lingua genitrice. Tuttavia, nella
maggioranza dei casi, la ricostruzione è il risultato di un’analisi filologica, basata essenzialmente su regole
fonologiche. La forma "ricostruita" viene contrassegnata con un asterisco.
Riportiamo qui di seguito un classico esempio, relativo alla ricostruzione dell’indoeuropeo *pKter ("padre"),
sulla base delle forme più antiche attestate all’interno della famiglia indoeuropea (vedi 4.3):
L’evidente somiglianza fonologica tra le forme attestate consente la ricostruzione della forma originaria da cui
derivano e del rapporto di parentela tra le lingue.
A questa teoria reagirono molto duramente, nella seconda metà dell’Ottocento, i cosiddetti Neogrammatici.
Questi studiosi si prodigarono non meno di Schleicher e dei suoi compagni all’interno dell’ambito di studi
della linguistica comparativa ma, se Schleicher si era rivolto alla biologia, i Neogrammatici presero come
modello le scienze fisiche esatte (come la fisica o la geologia).
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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Essi per primi teorizzarono l’esistenza di regolarità nel cambiamento linguistico, per cui nessun fenomeno,
nessuna mutazione linguistica avviene casualmente.
La lingua non ha pertanto uno "sviluppo individuale" e non esiste separatamente da coloro che la parlano. Al
contrario, le lingue mutano con le abitudini linguistiche dei parlanti e i Neogrammatici insistettero sulla
funzione cosciente che ha l’individuo in questo processo (pensiero che fu ripreso dalla filosofia estetica di
Benedetto Croce; vedi il modulo Caratteri della filosofia italiana contemporanea, UD 3).
Le indagini dei Neogrammatici si concentrarono in modo particolare sulle condizioni del mutamento
fonologico.
Grande importanza rivestirono anche gli studi in ambito dialettologico, in particolare la ricerca denominata di
"parole e cose" (Wörter und Sachen), grazie alla quale si sono individuate importanti isoglosse (vedi 6.4),
riguardanti la distribuzione geografica delle voci relative alla cultura materiale. Tale metodo fu alla base della
realizzazione dei più importanti atlanti nazionali del secolo scorso (vedi il modulo Princìpi e metodi di
dialettologia italiana, 3.6).
Fu infatti Saussure a sostenere e argomentare un concetto fondamentale della linguistica moderna, vale a dire
che la lingua è un sistema "où tout se tient" ("dove tutto si tiene"). Qualsiasi indagine linguistica deve pertanto
tener conto del fatto che nel sistema-lingua ogni elemento va esaminato in relazione agli altri elementi del
sistema.
Saussure diede forma precisa ed esplicita a ciò che i precedenti linguisti avevano presupposto o
semplicemente ignorato. Egli, infatti, definì le due dimensioni fondamentali dell’indagine linguistica:
sincronia e diacronia (vedi 7.3), e formulò una serie di opposizioni binarie (dicotomie) che caratterizzano la
lingua e il suo studio: significante e significato (vedi 1.5), langue e parole (vedi 1.6) e doppia arbitrarietà (vedi
2.2).
Si deve, infine, a Saussure un concetto fondamentale dell’analisi fonologica quale quello di "fonema" (vedi
2.3).
Queste idee hanno trovato ampio seguito in diverse scuole europee tra gli anni Trenta e Cinquanta, tra cui
ricordiamo in modo particolare la Scuola di Praga (Roman Jakobson, Nikolaj Sergeevic Trubeckoj; vedi la
voce Scuola di Praga) e la Scuola di Copenaghen (il cui maggiore esponente, Louis Hjelmslev, fu il fondatore
di una teoria molto astratta e matematizzante, detta "glossematica").
La fonologia degli studiosi di Praga fu la prima vera applicazione del pensiero saussuriano all’analisi
linguistica: i suoni appartengono alla parole, mentre il fonema alla langue. È all’interno della Scuola di Praga
che si coniò la teoria dei tratti (binari) distintivi (vedi il modulo Elementi di fonologia e prosodia dell’italiano,
UD 2), per cui ogni fonema è composto da una serie di tratti pertinenti (vedi 1.4) che lo caratterizzano e lo
contrappongono agli altri fonemi della lingua.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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Intorno agli anni Venti, invece, la linguistica ricevette grande impulso da oltre oceano, grazie al lavoro di
studiosi americani quali Franz Boas e Edward Sapir (Sapir 1921). Questi linguisti, condizionati dal rigoroso
positivismo degli psicologi americani (seguaci del comportamentismo e del meccanicismo), mostrarono un
particolare interesse verso il rapporto tra linguaggio e modo di pensare e, dunque, tra la lingua e la vita intera.
In base al pensiero di Firth e dei suoi collaboratori, l’analisi linguistica non può fermarsi alla pura descrizione
dei dati: il linguaggio è in primo luogo uno strumento di comunicazione e dunque l’analisi linguistica deve
concentrarsi sul rapporto tra strutture e funzioni.
Questo approccio, detto anche "funzionalista", assume pertanto che il significato è funzione del contesto ed
estende tale equazione a tutti i livelli dell’analisi linguistica. In particolare, Firth si interessò di semantica e di
fonologia, mentre Halliday (a partire dagli anni Sessanta) estenderà il pensiero di Firth in modo completo e
coerente, includendo una teoria della morfologia e della sintassi, precedentemente trascurate.
Se il 1916, anno di pubblicazione del Cours de linguistique générale di Saussure, rappresenta una svolta
decisiva nel pensiero linguistico del Novecento, un’altra data fondamentale è sicuramente segnata dalla
pubblicazione di Syntactic Structures (1957), con cui Noam Chomsky dà avvio a quella che fu inizialmente
chiamata la "Grammatica Generativo-trasformazionale".
La domanda fondamentale che si pone Chomsky, e da cui procede il presupposto di base, è il cosiddetto
"problema di Platone": come fa un bambino ad apprendere tutto quello che apprende di fronte ad
un’esposizione alla lingua tanto breve e frammentaria?
L’assunto di base è dunque che il linguaggio sia una facoltà innata della mente/cervello, per cui il bambino,
alla nascita, possiede già la "Grammatica Universale", vale a dire una serie di regole e di princìpi astratti che
sono comuni a tutte le lingue. L’esposizione ai dati della lingua madre non fa altro che permettere l’attivazione
di alcuni parametri specifici, che caratterizzano quella data lingua (vedi il modulo Sintassi II, 1.1).
La Grammatica Universale è, dunque, parte del nostro patrimonio genetico e il compito del linguista sarà
proprio quello di individuare i princìpi astratti, comuni a tutte le lingue (e in numero necessariamente
limitato), e i parametri che rendono conto della diversità. Questi dati possono essere desunti dall’indagine
approfondita anche di pochissime lingue, facendo affidamento sulla competenza linguistica dei parlanti nativi.
La Grammatica Generativa ha subito una notevole evoluzione lungo i cinquanta anni della sua storia,
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mantenendo saldi i presupposti di base e riducendo, via via, l’apparato formale, fino ad arrivare all’odierno
"Programma Minimalista" (Chomsky 1995), caratterizzato da un’estrema economia di princìpi, un’accresciuta
attenzione al dato linguistico e una centralità dell’analisi delle "interfacce" tra i vari livelli della grammatica
(fonologia e sintassi, morfologia e sintassi, sintassi e pragmatica, sintassi e semantica).
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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Gli studiosi sono ormai quasi unanimemente concordi nel sostenere che la capacità di esprimersi mediante un
codice (vedi 1.3) come quello verbale è propria e specifica del solo essere umano. Tale capacità si è peraltro
evoluta e maturata nel tempo, sia quantitativamente che qualitativamente (l’uomo, infatti, è l’unico animale
dotato delle caratteristiche anatomiche necessarie per la fonazione [Fig. 1]).
Per quanto riguarda l’origine spazio-temporale della lingua, la paleontologia fa risalire le origini del linguaggio
(almeno) all’Homo Neanderthalis (vedi 2.4), ma in nessun modo può arrivare a definire il luogo che ha fornito
la scena alla prima "performance verbale" dell’uomo.
Sembra dunque che non sia possibile stabilire la matrice originaria delle lingue del mondo. Se, cioè, esse si
siano tutte dipartite da una sola lingua (monogenesi) oppure da più matrici, distinte tra loro già all’origine
(poligenesi).
Possiamo invece studiare le lingue del mondo in modo comparativo e contrastivo, al fine di individuare
somiglianze e differenze, e stabilire - sulla base di diagnostiche rigorose - punti di connessione o di
separazione tra le lingue stesse.
In particolare, i punti di connessione dovranno essere analizzati per poter definire l’appartenenza delle lingue
esaminate ad una stessa "famiglia linguistica" (vedi 4.2), ovvero ad uno stesso "tipo linguistico" (vedi UD 5).
Altre somiglianze saranno invece da attribuire ad un semplice fenomeno di "contatto linguistico" (vedi UD 6).
Per studiare "le lingue del mondo" è però fondamentale definire l’oggetto dell’indagine: cosa va considerato
come una "lingua"?
Nell’attribuire ad un sistema linguistico lo status di "lingua" non si può far riferimento a soli criteri linguistici.
Non basta, ad esempio, il criterio della mutua comprensibilità: svedesi, danesi e norvegesi si comprendono
tranquillamente tra di loro, eppure sono parlanti nativi di "lingue" diverse. Al contrario, la lingua cinese
comprende otto dialetti non mutuamente intelligibili, e tuttavia il cinese viene considerato dai suoi parlanti
una sola lingua.
È importante dunque tenere presente che per definire una lingua è necessario far riferimento anche a criteri
storici, sociali, politici e letterari (vedi il modulo Princìpi e metodi di dialettologia italiana, 1.2). Una lingua è
un sistema linguistico che unisce una comunità di parlanti (vedi 7.1) che condividono una storia, un alfabeto e
la stessa tradizione di lingua scritta.
Questo ci consentirà di ordinare tutte le lingue del mondo all’interno di una ventina di gruppi maggiori, in
virtù della loro discendenza da un antenato comune (attestato o "ricostruito" in base al metodo comparativo;
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vedi 3.3).
All’interno di alcune famiglie linguistiche saranno menzionate anche alcune lingue "morte" (cioè che non
hanno più parlanti nativi), contrassegnate dal simbolo "†".
Il numero dei parlanti appartenenti alle varie famiglie linguistiche del mondo è, come ovvio, enormemente
diversificato.
Le due famiglie linguistiche che dominano la scena mondiale per numero di parlanti sono, senza dubbio, la
famiglia indoeuropea (vedi 4.3) e quella sino-tibetana (vedi 4.4). Una statistica ufficiale effettuata negli anni
Ottanta (quando la popolazione mondiale oltrepassava i 4 miliardi) attribuiva, infatti, 2 miliardi di parlanti alla
prima e più di 1 miliardo di parlanti alla seconda. Al terzo posto comparivano, molto distanziate, la famiglia
del Niger Congo e quella afro-asiatica (vedi 4.5) (con circa 250 milioni di parlanti ciascuna). La famiglia con
il minor numero di parlanti è quella paleosiberiana (vedi 4.4), che conta circa 25.000 unità.
Delle migliaia di lingue esistenti, infine, soltanto poche decine possono essere considerate delle "grandi
lingue", vale a dire lingue con un numero cospicuo di parlanti e appoggiate ad una tradizione culturale di
prestigio.
Osserviamo a questo proposito i dati forniti da una recente statistica (The Cambridge Encyclopedia of
Language), che riporta le prime 10 lingue del mondo, sia in termini di parlanti "madrelingua" (parlanti che
apprendono una data lingua al momento della nascita), sia in termini di parlanti che utilizzano una lingua in
quanto adottata in modo ufficiale all'interno di un dato paese (dati numerici in milioni):
La lingua italiana, con 60 milioni di unità, occupa la 15° posizione come numero di parlanti madrelingua, e la
14° tra le lingue ufficiali.
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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"Indoeuropeo" è il nome che gli studiosi hanno attribuito ad una famiglia la cui lingua madre (il
"protoindoeuropeo") sembra essere stata la lingua di una popolazione seminomade che viveva nelle regioni
steppose della Russia meridionale intorno al 4000 a.C. e che iniziò ad espandersi verso l’Europa verso il 3500
a.C.
Dal punto di vista linguistico, il protoindoeuropeo si presenta come una lingua dal sistema grammaticale
decisamente ricco. Si sono individuati tre generi grammaticali (maschile, femminile e neutro) e otto desinenze
casuali (nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo, ablativo, locativo e strumentale). Gli aggettivi si
accordavano con il nome modificato e il sistema verbale presentava desinenze flessive per le indicazioni di
tempo, aspetto, modo, persona, genere e numero.
Parlato in Albania e in Gruppo di lingue parlate Ramo composto da una Gruppo che comprende
alcune zone della ex- intorno al 2000 a.C. in singola lingua, parlata da circa 300 milioni di
Yugoslavia, Grecia e alcune regioni della una popolazione di 5-6 persone (di cui la metà
Italia. Ha due dialetti Turchia e della Siria. La milioni di abitanti nella parla russo).
principali, il ghego e il lingua principale era repubblica ex-sovietica di
tosco. l’ittito. Armenia e in Turchia. Le principali lingue
baltiche sono il lettone e il
lituano, parlate nelle
omonime repubbliche.
Le lingue slave si
suddividono in slavo
meridionale (bulgaro,
macedone, serbo e
croato), occidentale (ceco,
slovacco e polacco) e
orientale (russo,
bielorusso e ucraino).
Greco Celtico
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Famiglia che conta più di Gruppo che comprende le La lingua principale è il Lingua estinta parlata nel
500 milioni di parlanti lingue indoarie e iraniche. latino†, ma in territorio Turkestan cinese nel
nativi nel mondo, Le prime sono più di 500, italico erano anticamente primo millennio a.C.
suddivisa in: germanico parlate da circa 500 parlate anche il falisco†,
orientale (gotico†), milioni di abitanti nel l’osco-umbro† e il
germanico settentrionale subcontinente indiano. Si venetico†. Dal latino si
(svedese, danese, suddividono in: centrale sono sviluppate le lingue
norvegese, islandese e (hindi-urdu), orientale (tra romanze (che contano più
feroico) e germanico cui il bengalese), sud- di 500 milioni di parlanti
occidentale (inglese, occidentale (singalese, nel mondo; vedi la voce
frisone, tedesco, yiddish, maldiviano e altre) e nord- Lingue romanze), così
olandese e afrikaans). occidentale (panjabi, suddivise: italoromanzo
sindhi, lingue dardiche). (italiano, sardo),
Le lingue iraniche ispanoromanzo (spagnolo,
moderne sono parlate da catalano, portoghese),
oltre 60 milioni di retoromanzo (ladino,
persone (in Afghanistan e romancio e friulano),
in Iran). Tra le maggiori: balcanoromanzo (rumeno,
persiano, tagìco e curdo. dalmatico) e
galloromanzo (francese,
franco provenzale,
occitano).
Famiglia derivante da una Famiglia comprendente La famiglia delle lingue Famiglia che comprende
lingua comune parlata circa 40 lingue parlate da altaiche ricopre una vasta poche migliaia di parlanti
oltre 7000 anni fa nella 5 milioni di persone area che va dalla penisola nella Siberia nord-
regione montuosa degli nell’area tra il Mar Nero e balcanica all’Asia nord- orientale. Tra le maggiori
Urali. Comprende oggi il Mar Caspio. Una delle orientale. Comprende lingue, il ciukcio.
due importanti famiglie: più importanti: l’àvaro. circa 40 lingue, suddivise
ugro-finnico (ungherese, in 3 gruppi: turco-tataro
finlandese, estone e (tra cui turco, azero e
lappone) e samoiedo. turkmeno), mongolico
(mongolo) e manciù-
tunguso.
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Austronesiano Indo-Pacifico
Famiglia che comprende Famiglia che comprende Famiglia del sud-est Famiglia che comprende
oltre 20 lingue parlate più di 100 lingue, parlate asiatico. Comprende circa il cinese e le lingue
nelle regioni meridionali nel sud-est asiatico, tra la 40 lingue (tra cui tibetane (circa 300,
dell’India. La più antica di Cina e l’Indonesia. thailandese e laotiano), parlate in Tibet, Birmania
queste lingue è il tamil, parlate in Thailandia, e territori vicini).
che conta diversi milioni Il ramo più cospicuo è Laos, Vietnam del Nord e
di parlanti nello Sri quello delle lingue mon- Cina. I maggiori "dialetti" della
Lanka, in Malesia, in khmer, parlate in lingua cinese sono il
Indonesia, in Vietnam e Vietnam, Cambogia, cantonese e il mandarino
in molte isole dell’Oceano Laos, Birmania e (la varietà di Pechino
Indiano e del Pacifico Thailandia. La lingua più rappresenta la lingua
meridionale. importante è il standard).
vietnamita.
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Le lingue aborigene
australiane
Vi sarebbero in Australia
circa 500 lingue per
300.000 persone. Si tratta
in generale di popolazioni
che vivono isolate e sono
spesso bilingui. Le lingue
finora conosciute sono
state raggruppate in 28
famiglie, tra cui le
maggiori sono il tiwi e il
warlpiri (una delle più
studiate e vitali).
Numerose sono anche le
lingue pidgin e creole
(vedi 6.5).
In questa zona del mondo la classificazione linguistica è resa problematica e controversa dalla carenza di
documentazioni storiche e, spesso, dalla totale mancanza di una tradizione scritta. Si riconoscono,
generalmente, quattro famiglie principali.
Niger-Congo Nilotico-Sahariano
La più grande famiglia linguistica dell’Africa, Comprende circa 100 lingue parlate lungo il Nilo, in
comprendente circa 1000 lingue. Si estende Sudan e in Uganda. L’unica lingua all’interno di
attraverso l’intera Africa subsahariana spingendosi questa famiglia ad avere una tradizione scritta è il
fino al Corno d’Africa. Tra le altre, sono molto nubiano, parlato in Sudan e in Egitto da circa 1
importanti le lingue bantu (swahili, ruanda, congo, milione di abitanti.
ecc.), le lingue kwa (yoruba, igbo, ewe, wolof, ecc.) e
il gruppo delle lingue mande (le cui principali etnie
sono costituite dai bambara e malinke).
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È la più piccola delle famiglie linguistiche dell’Africa Questa famiglia linguistica è la principale nell’Africa
e si estende in un’area circostante il deserto del settentrionale e si estende fino al Corno d’Africa e
Kalahari e in Tanzania. Poche tra queste lingue all’Asia sud-occidentale. Comprende più di 200
contano più di 1000 parlanti, tra cui il kwadi e il lingue, parlate da quasi 200 milioni di persone. Al
sandawe. suo interno riconosciamo il gruppo delle lingue
semitiche, che hanno la storia più lunga e il maggior
numero di parlanti. La lingua moderna principale è
l’arabo, di cui esiste una forma classica e tante forme
dialettali (non tutte reciprocamente comprensibili).
Altre lingue semitiche importanti sono l’ebraico,
l’amarico (lingua ufficiale dell’Etiopia), il tigrino
(lingua ufficiale dell’Eritrea), l’aramaico† e l’egizio†.
Vi sono poi oltre 20 lingue berbere (parlate in Algeria
e in Marocco), circa 30 lingue cuscitiche (tra cui
somalo e oromo - parlate in Somalia, Etiopia e
Kenia), oltre 20 lingue omotiche (considerate da
alcuni un ramo delle cuscitiche - parlate in Etiopia e
in Kenia) e, infine, oltre 100 lingue ciadiche (parlate
in una zona che va dal Ghana settentrionale alla
Repubblica centrafricana) di cui la maggiore è l’hausa
(con circa 25 milioni di parlanti).
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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Le lingue "isolate"
Una lingua si dice isolata quando non ha legami di natura storica o morfosintagmatica con altre lingue. O
anche quando le somiglianze con altre lingue sono così scarse da essere semplicemente attribuibili a fenomeni
di contatto (UD 6). Le lingue isolate finora individuate sono una ventina, di cui molte estinte. Tra le più
importanti ricordiamo:
- giapponese
- coreano
- lineare A† (scrittura cretese del secondo millennio a.C., ancora non decifrata)
- sumero† (scrittura cuneiforme del 3100 a.C., parlata in Mesopotamia; è la lingua più antica che sia arrivata
conservata fino a noi)
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UD 5 - La tipologia linguistica
In questa unità didattica si presentano fondamenti e obiettivi dell'analisi tipologica, area di studio in cui le
lingue vengono descritte e analizzate in base alla loro appartenenza ad un tipo strutturale. Vengono pertanto
illustrati alcuni universali linguistici e discusse le loro implicazioni per l'indagine interlinguistica.
La tipologia linguistica studia le lingue in modo trasversale, e procede ad una loro classificazione non in
quanto derivate da un antenato comune (come avviene per le "famiglie linguistiche": vedi UD 4), bensì in base
alla loro appartenenza ad un tipo strutturale (vedi il modulo L’italiano lingua d’Europa e del Mediterraneo, 1.1).
La tipologia linguistica si preoccupa dunque di individuare le correlazioni esistenti tra fenomeni linguistici
non connessi per necessità logica, al fine di individuare in che modo questi interagiscano, dando luogo alle
lingue esistenti.
Per questa ragione, la tipologia è strettamente correlata alla ricerca degli "universali linguistici", vale a dire di
quelle proprietà ricorrenti che ci consentono di fare delle predizioni in merito all’organizzazione strutturale
delle lingue, escludendo determinate opzioni.
All’interno degli studi di ambito tipologico troviamo due scuole di pensiero principali.
Da una parte troviamo i tipologi "tradizionali", per i quali la ricerca degli universali del linguaggio implica
necessariamente il confronto tra molte lingue. A questo scopo i loro studi propongono classificazioni ad
ampio raggio, corredate da una mole imponente di dati.
Altri linguisti ritengono invece che, se l’obiettivo è quello di individuare i princìpi generali che governano le
scelte operate dalle "lingue possibili", è utile concentrarsi su poche lingue al fine di analizzarle in maggior
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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dettaglio. Questo secondo approccio è proprio dei generativisti, che agiscono in base al presupposto innatista
della lingua (vedi 3.6).
Le indagini svolte all’interno dei due diversi approcci possono, naturalmente, completarsi in maniera proficua
e portare a risultati importanti per l’effettiva comprensione del funzionamento delle lingue.
Su questa base, le lingue del mondo possono essere suddivise in quattro tipi principali, vale a dire: "isolanti",
"agglutinanti", "flessive" (o fusive) e "polisintetiche" (o incorporanti). Dobbiamo l’individuazione dei primi
tre tipi all’opera di August Schleicher (vedi 3.3), mentre il concetto di "polisintesi" è stato introdotto anni più
tardi da Edward Sapir (vedi 3.5).
I quattro tipi morfologici sono illustrati negli esempi seguenti (le sigle adottate all'interno di questa tabella e
delle altre presenti nelle cartelle successive sono sciolte nella lista che segue):
"Maria dorme"
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Introduzione alla glottologia e alla linguistica
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Nelle lingue "isolanti" la morfologia è assente (o estremamente ridotta) e dunque il rapporto tra morfemi e
parole (detto anche "indice di sintesi") è 1:1. Data la mancanza di informazioni morfematiche (circa il
numero, la persona, il tempo, ecc.), i valori semantici sono totalmente affidati al lessico. Pertanto, se
volessimo porre al passato una frase come quella riportata nell’esempio (1), dovremmo aggiungere un
avverbio di tempo (quale zuo ye, cioè "ieri notte"). Per quanto riguarda le relazioni grammaticali, queste sono
interamente affidate alla sintassi (ordine rigido dei costituenti). Tra le lingue isolanti annoveriamo, oltre al
cinese, il vietnamita, il thailandese e l’hawaiiano.
Nelle lingue "agglutinanti", le parole hanno una struttura complessa, formata dalla giustapposizione (sequenza
ordinata) di più morfemi, dai confini ben delineati, ognuno dei quali è portatore di una sola informazione
grammaticale. Le parole si presentano quindi come stringhe di morfemi, anche molto lunghe. Tra le lingue
agglutinanti, ricordiamo il gujarati, il turco, il basco, l’ungherese e lo swahili.
Nelle lingue "flessive", la parola è formata da una radice lessicale (più o meno modificabile), alla quale si
aggiungono affissi flessionali che realizzano sincreticamente più informazioni o funzioni grammaticali. Le
parole si presentano, dunque, meno complesse rispetto alle lingue agglutinanti ma, per converso, la loro
articolazione interna è meno trasparente. Ciò rende a volte molto difficile la scomposizione in "segmenti di
significato". Sono flessive lingue come l’arabo, il somalo, l’ebraico e, in genere, tutte le lingue indoeuropee
(vedi 4.3).
Nelle lingue "polisintetiche", infine, la parola appare notevolmente complessa poiché formata da un numero
elevato di morfemi, caratterizzati da una notevole allomorfia, cioè da una grande variabilità nella realizzazione
dei morfemi (vedi il modulo Morfologia, 1.5). Oltre a ciò, la caratteristica peculiare di queste lingue consiste
nel fatto che in una stessa parola possono comparire anche due o più radici lessicali (vedi l'esempio (4)).
Queste lingue tendono dunque a realizzare nella parola ciò che in lingue flessive o agglutinanti
rappresenterebbe invece una frase. Oltre al groenlandese, sono incorporanti molte lingue amerindiane (vedi
4.6).
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Un parametro significativo per suddividere le lingue del mondo in tipi linguistici è quello che riguarda l’ordine
non marcato dei costituenti principali di una frase.
Quando parliamo di ordine "non marcato", intendiamo l’ordine in cui si dispongono i costituenti in una frase
"tutta nuova", una frase, cioè, il cui contenuto informativo si distribuisce su tutti gli elementi (come, ad
esempio, nella risposta ad una domanda quale "cosa è successo?").
I "costituenti principali" di cui si tiene conto per definire la tipologia sintattica sono il Soggetto (S), il Verbo
(V) e l’Oggetto (O).
Da un punto di vista puramente matematico, dati questi tre costituenti, le possibilità teoriche di combinazione
sono sei, vale a dire: SVO, SOV, VSO, VOS, OVS e OSV.
Tuttavia, le lingue del mondo appartengono quasi esclusivamente ai primi tre tipi sintattici sopra elencati (il
90% circa). Un numero molto più limitato di lingue (5-8%) mostra di appartenere al tipo VOS; l’ordine OVS
sembra attestarsi intorno al 2% e, per quanto riguarda l’ultimo tipo, esso è con tutta probabilità inesistente.
Se ci soffermiamo ad analizzare il fattore comune tra i tre tipi sintattici più diffusi, è facile arrivare alla
conclusione che le lingue "preferiscono" realizzare il Soggetto prima dell’Oggetto. Da un punto di vista
tipologico, tale precedenza viene fatta derivare da una generale coincidenza tra Soggetto e "Tema" (vedi il
modulo Morfologia e sintassi, 7.1) . Quest’ultimo, infatti, nell’ordine naturale precede ogni altro contenuto
informativo.
Elenchiamo, per ciascun tipo sintattico, alcune tra le lingue che vi appartengono e, subito dopo, un esempio
dei quattro tipi più attestati:
OSV
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b. stabilire dei limiti alla variazione nel linguaggio umano (definire cioè quale sia una "lingua possibile").
Il concetto di "lingua possibile" non ha ovviamente nessun presupposto prescrittivo: il tipologo, sulla base di
un campione di lingue considerevole, nota quali elementi sono sempre presenti e quali mai e definisce così
quelli che si pongono come "tipi linguistici impossibili" (in quanto mai attestati). I tipi linguistici possibili
sono definiti sulla base dei cosiddetti "universali", cioè princìpi e regole soggiacenti la struttura stessa delle
lingue.
Sono detti "assoluti" quei princìpi universali che sono validi per tutte le lingue e per la cui formulazione non
c’è bisogno di fare riferimento ad altre proprietà della lingua. Questi universali linguistici sono, in realtà, in
numero molto limitato; tra questi l’unico apparentemente indiscusso è il seguente:
Gli universali "implicazionali", invece, pongono in relazione la presenza di un determinato tratto in una lingua
con quello di un altro tratto nella stessa lingua. Dicono, cioè, che una data proprietà deve (o può) essere
presente se qualche altra proprietà è pure presente.
La formulazione che permette di rendere conto delle correlazioni esistenti tra tratti linguistici diversi e
logicamente indipendenti è quella dell’implicazione logica. Un’implicazione nella sua forma più semplice è:
Questa formulazione indica che la proprietà A, in una data lingua, è necessariamente associata alla proprietà
B. Dunque non potrà darsi la possibilità che A si presenti senza che sia presente anche B. L’individuazione di
queste "gerarchie implicazionali" (che costituiscono appunto gli "universali implicazionali" consente di fare
predizioni importanti sulla struttura delle lingue e, soprattutto, di escludere alcune opzioni teoricamente
possibili.
Le correlazioni più significative mettono in relazione l’ordine basico dei costituenti (vedi 5.3) - in particolare
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la posizione reciproca di Verbo e Oggetto, VO rispetto a OV - rispetto all’ordine degli elementi in altri tipi di
costrutti (cioè in altri tipi di sintagmi).
In particolare, l'analisi tipologica ha dimostrato l'esistenza di una precisa correlazione tra le posizioni
reciproche di Verbo e Oggetto, Nome e Genitivo, Nome e Aggettivo e la presenza di Preposizioni o di
Posposizioni. Questa correlazione può essere riassunta nel modo seguente:
a. VO, Prep, NGen, NAgg (leggi: "In una lingua in cui il Verbo precede l’Oggetto, ci saranno le Preposizioni,
il Nome precederà il Genitivo e l’Aggettivo")
b. OV, Posp, GenN, AggN (leggi: "In una lingua in cui il Verbo segue l’Oggetto, ci saranno le Posposizioni, il
Nome seguirà il Genitivo e l’Aggettivo")
L'analisi tipologica predice dunque, ad esempio, che in una lingua VO ci saranno Preposizioni. Questo è,
infatti, confermato da lingue come l'italiano o l'arabo:
Al contrario, in una lingua OV, ci aspettiamo di trovare delle Posposizioni e questa predizione trova conferma
in una lingua come il giapponese:
In particolare, considerato il fatto che il Verbo è la testa del Sintagma Verbale (vedi il modulo Sintassi I, 4.2 e
4.3), gli studiosi hanno potuto individuare due tipologie linguistiche principali:
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a. Lingue "testa-iniziali".
Dunque, oltre al fatto che il Verbo precede l’Oggetto, in queste lingue il Nome precede il Genitivo,
l’Aggettivo e la Frase Relativa, e sono presenti Preposizioni.
b. Lingue "testa-finali".
Dunque, il Verbo segue l’Oggetto, il Nome segue il Genitivo, l’Aggettivo e la Frase Relativa, e sono presenti
Posposizioni.
È importante sottolineare, però, che i tipi linguistici "puri" sono molto rari.
Le indicazioni fornite dagli universali devono essere intese, quindi, come forti tendenze e non come regole
assolute.
Si pensi, ad esempio, al caso rappresentato da una delle lingue più note e diffuse nel mondo, l’inglese:
nonostante l’ordine non marcato dei costituenti sia SVO, l’Aggettivo precede il Nome.
Può essere interessante, infine, notare che alcuni ordini sono più "attendibili" di altri. Le lingue con ordine
SVO sono quelle che presentano il maggior numero di variazioni rispetto alle predizioni, mentre le lingue con
ordine VSO e SOV presentano una maggiore coerenza rispetto agli universali implicazionali.
Come noto, il ruolo sintattico di Soggetto può essere ricoperto da elementi che hanno diversi ruoli semantici
(determinati dalla selezione argomentale del verbo; vedi il modulo Sintassi I, 6.2). Consideriamo gli esempi
seguenti:
b. La porta si apre.
Come si può notare, il Soggetto (sintattico) nelle frasi proposte è un Agente ("l’autore di un’azione") solo nel
caso (a). Nell’esempio (b) la porta è, senza dubbio, un Paziente ("colui/ciò che riceve o subisce l’azione"),
mentre la chiave in (c) riveste un ruolo Strumentale ("il mezzo di cui ci si serve per realizzare l’evento").
Infine, Maria in (d) prova una certa sensazione, vive uno stato d’animo e dunque il suo ruolo semantico è
quello di Esperiente ("colui che sperimenta un determinato stato").
Non esiste dunque un rapporto di necessaria biunivocità tra un dato ruolo semantico e un dato ruolo sintattico
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(anche se ci sono, come ovvio, delle correlazioni preferenziali). Tuttavia, nella maggior parte delle lingue
occidentali più note, una volta posto un elemento a Soggetto della frase - indipendentemente dal ruolo
semantico selezionato dal verbo - esso otterrà marca di Caso nominativo:
b. io/*me corro.
Ci sono lingue, invece, che assegnano al Soggetto una marca di Caso diversa, in base al tipo di verbo presente
nella frase. Consideriamo le frasi seguenti (dall’àvaro, lingua caucasica; vedi 4.4):
Come possiamo notare, il Soggetto di un verbo transitivo (3c) riceve un Caso specifico, detto "ergativo",
mentre il Soggetto di un verbo intransitivo riceve la stessa marca di Caso (detto "assolutivo") che spetta agli
Oggetti dei verbi transitivi (vedi jas in (3b) e in (3c)).
Questo sistema di casi è dunque regolato dal ruolo semantico associato al "Soggetto".
Se ritorniamo alle frasi italiane in (1a-b) risulta chiaro, infatti, che l’Oggetto di un verbo transitivo e il
Soggetto di un verbo intransitivo condividono lo stesso ruolo semantico: quello di Paziente. Ma mentre in
italiano prevale l’opposizione tra Soggetto e Oggetto, indipendentemente dal ruolo semantico, in molte lingue
la distinzione tra Agente e Paziente (che, come abbiamo visto sopra, possono avere il ruolo sintattico sia di
Soggetto che di Oggetto) è codificata a livello morfologico dai casi Ergativo e Assolutivo.
In conclusione, nell’identificazione del Soggetto per mezzo di una marca di caso, le lingue del mondo seguono
criteri diversi.
Le lingue "Nominativo-Accusative" assegnano Caso nominativo al Soggetto indipendentemente dal suo ruolo
semantico. Dunque, il Soggetto di un verbo transitivo (un "agente") riceverà Caso nominativo, così come il
Soggetto di un verbo intransitivo (in cui il soggetto ricopre un ruolo di "paziente").
Al contrario, nelle lingue "Ergativo-Assolutive", la marca del Soggetto varia al variare del suo ruolo
semantico. In particolare, il Caso ergativo sarà assegnato esclusivamente ai Soggetti-Agenti, e dunque ai
Soggetti dei verbi transitivi. Al contrario, qualora il Soggetto abbia una funzione di paziente, esso riceverà
marca di Caso assolutivo (la stessa marca che viene assegnata agli Oggetti).
Lingue ergative (oltre all’àvaro) sono il basco, il dyirbal, l’eschimese e molte lingue austronesiane (vedi 4.4 e
4.6).
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UD 6 - Il contatto linguistico
In questa unità didattica si prendono in considerazione i modi in cui lingue diverse possono venire in contatto
tra di loro e dare luogo, così, a fenomeni di trasferimento di materiale linguistico. La nozione di "contatto"
sarà interpretata in un senso molto vasto, così da prendere il prestito, il calco, il concetto di "area linguistica" e
i processi di pidginizzazione e creolizzazione.
Questo contatto può realizzarsi, com’è ovvio, con diversi gradi di intensità e dare luogo, dunque, a
trasferimenti più o meno importanti di materiale da una lingua all’altra.
Il lessico è, tra tutti i settori della lingua, quello che più direttamente riflette la cultura di un popolo ed è
proprio questo settore quello maggiormente coinvolto nelle situazioni di contatto.
Il prestito lessicale è parte della nostra esperienza quotidiana, grazie soprattutto ai grandi mezzi di
informazione che "riversano" nelle abitudini lessicali dei parlanti, di ogni lingua del mondo, parole di uso
comune e terminologie sempre nuove. Queste infatti, in base all’uso corrente, non vengono più tradotte, ma
mantenute nella lingua originale e semplicemente adattate al sistema fonologico della lingua d’adozione. Ecco
dunque che una parola come turn-over viene realizzata come [turnover], in Italia, mentre la pasta italiana
viene detta "macaruni" e pronunciata [maħaʁu'ni] nei paesi di lingua araba.
Dal punto di vista dell’indagine diacronica (vedi 7.3), i prestiti possono dirci molto sul modo in cui le parole
venivano pronunciate al momento del loro "trasferimento". Questo perché la parola presa in prestito
generalmente si "cristallizza", tende cioè a non essere soggetta ai cambiamenti fonologici che
caratterizzeranno, in seguito, la lingua d’arrivo.
Consideriamo, a titolo esemplificativo, quattro termini di derivazione latina dell’inglese e del tedesco.
Riportiamo tra parentesi la pronuncia della consonante iniziale (in IPA):
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Come mostrato nei primi due esempi, il suono velare /k/ del latino non ha subito alcuna variazione di fronte a
vocale centrale o posteriore (/a/, /o/ e /u/; vedi il modulo Fonetica e fonologia, pronuncia standard e pronunce
regionali: grafemi e interpunzione, 2.2).
Per quanto riguarda il terzo esempio, invece, la presenza di un’occlusiva velare sorda (/k/; vedi il modulo
Fonetica e fonologia, pronuncia standard e pronunce regionali: grafemi e interpunzione, 2.3) nella parola
tedesca Kiste mostra in modo chiaro che, al tempo del prestito, la palatalizzazione della /k/ di fronte a vocale
anteriore (/i/, /e/) non aveva ancora avuto luogo in latino. La palatalizzazione presente nell’inglese chest si è
dunque sviluppata solo in seguito e indipendentemente dal latino.
Infine, la diversa resa della parola latina cella mostra inequivocabilmente che questa parola deve essere stata
presa in prestito in un momento in cui la palatalizzazione era già avvenuta. La /tʃ/ del latino ha così dato luogo
all’affricata della parola tedesca Zelle e alla fricativa dell’inglese cell.
Molto più raramente il prestito viene a modificare o ampliare il bacino delle parole-funzione (quali i pronomi,
le preposizioni o le congiunzioni), che rappresentano le cosiddette classi "chiuse" (vedi il modulo Morfologia,
1.3).
Un caso famoso di prestito pronominale è rappresentato dai pronomi inglesi they e them, mutuati dallo
scandinavo, che hanno sostituito gli originari hī(e) e him dell’antico inglese. Va, però, sottolineato il fatto che
tale prestito è avvenuto in un'epoca in cui tra danesi e anglosassoni vi era una quasi completa reciproca
intelligibilità.
Estremamente resistenti agli effetti del contatto linguistico sono anche la morfologia e la sintassi. Una
modifica di questi livelli della grammatica richiede una stretta vicinanza geografica e un intenso scambio
culturale tra le popolazioni interessate (è il caso delle cosiddette "aree linguistiche"; vedi 6.4).
Prestiti a livello morfosintattico possono, però, verificarsi se due lingue vengono a trovarsi in una situazione
duratura di totale sovrapposizione. È questo il caso del "bilinguismo": con questo termine si intende la
compresenza all'interno di una comunità di due lingue diverse, usate dai parlanti per svolgere le medesime
funzioni. Nel bilinguismo dunque - differentemente dal caso della "diglossia" (vedi il modulo Princìpi e metodi
di dialettologia italiana, 5.5) - le due lingue non vengono distinte dal punto di vista diastratico e/o diafasico
(vedi 7.4), ma convivono e si sovrappongono nell'uso: dai contesti più formali al parlato colloquiale (sono
dunque "lingue paritetiche"). In questo caso, le grammatiche delle due lingue potranno presentare interferenze
e sovrapposizioni anche notevoli.
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Un caso esemplare di bilinguismo (o, meglio, di multilinguismo) ci viene proposto nel lavoro di Gumperz
(Gumperz 1971), e riguarda il villaggio indiano di Kupwar, dove una popolazione di circa 3000 persone parla
ben 4 lingue diverse. Due di queste lingue - urdu e marathi - appartengono al ramo indo-iranico
dell’indoeuropeo (vedi 4.3), mentre le altre due - kannada e telugu - alla famiglia dravidica (vedi 4.4). Queste
lingue presentano delle sovrapposizioni notevoli, sia a livello morfologico che sintattico, come, ad esempio,
nelle domande indirette, in cui la subordinata è introdotta dalla congiunzione ki, propria delle sole lingue indo-
iraniche (in base ad uno schema tipo: "dì che dove sei andato ieri").
Perché il calco strutturale possa aver luogo è necessario che la parola presa in prestito sia composta o
complessa (cioè composta da più morfi o parole) e semanticamente trasparente.
La lingua che effettua un calco sostituisce ciascuno dei morfi presenti nella parola in questione con altrettanti
morfi propri che più si avvicinano come significato, e li combina in base alle proprie regole di buona
formazione.
Un caso di calco in una parola composta è fornito dal greco sym-patheia (insieme + sofferenza) dal cui
modello si è formato il latino com-passio, il tedesco Mit-leid, il russo so-stradanie ecc.
Processi di calco nelle parole complesse sono oggi molto diffusi e facilmente identificabili.
Si pensi, ad esempio, a parole come l’inglese sky-scraper, da cui si è prodotto il francese gratte-ciel e l’italiano
gratta-cielo. O anche al francese chemin de fer (ferrovia), che trova perfetti corrispondenti nel tedesco Eisen-
bahn, nello svedese järn-veg o nel greco sidero-dromos.
Il mondo dell’informatica fornisce, oggi, una fonte inesauribile di calchi: ne sono alcuni esempi termini come
salva schermo (da screen saver), disco rigido (da hard disk), gestione risorse (da file manager) e così via.
Come abbiamo accennato, è importante sottolineare il fatto che la combinazione delle parole di un calco
segue le regole morfosintattiche della lingua che assume il prestito: per fare un esempio, a un composto
inglese costituito da Nome + Verbo (ad esempio, sky-scraper), in italiano corrisponderà un composto con un
ordine inverso, cioè Verbo + Nome, secondo la regola di buona formazione dei composti (vedi il modulo
Morfologia, 7.3).
Passando ai composti formati da Nome e Aggettivo, una parola complessa come hard disk, in inglese, mostra
il modificatore Aggettivale alla sinistra del Nome che funge da "testa" (vedi 5.5), così come avviene nella
struttura frasale (ad esempio: a good boy came). In italiano, invece, l’ordine reciproco di queste due parole è
esattamente l’inverso. Dunque, una volta sostituite le parole hard e disk nel modo appropriato, queste vengono
combinate in base all’ordine sintatticamente non marcato della lingua di arrivo (vedi il modulo Morfologia e
sintassi, 7.1), vale a dire con l’Aggettivo alla destra del Nome (il calco non potrebbe dunque dare luogo ad una
parola come *rigido disco).
Si parla, invece, di calco semantico quando un termine straniero preso in prestito modifica il valore semantico
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di una parola che ha un significato simile nel vocabolario originario della lingua di arrivo. O, anche, può
allargare il proprio significato, fino a comprendere anche quello della parola che era originariamente presente.
In questi casi si parla di estensione semantica.
Un caso classico è dato dalla parola heaven, il cui significato originario (germanico) era "cielo" ma ha assunto
in inglese esclusivamente il significato religioso di "Paradiso". È stata dunque mutuata dall’islandese la parola
sky per rappresentare il concetto fisico.
In italiano, un esempio di estensione semantica è il verbo realizzare, il cui significato originario era "rendere
vero, reale" (ad esempio nella frase "realizzare un sogno"). Per influenza del corrispondente verbo inglese to
realize, il significato di realizzare si è ampliato, includendo anche il significato di "rendersi conto di,
accorgersi di".
Un’area linguistica tra le più famose e studiate è quella balcanica, che comprende sei lingue geograficamente
contigue: greco moderno, albanese, rumeno, bulgaro, serbo-croato e turco. Ci troviamo di fronte, dunque, a
cinque lingue indoeuropee (vedi 4.3), appartenenti a sottogruppi diversi, e ad una lingua altaica (vedi 4.4), il
turco. Nonostante ciò, queste lingue presentano delle caratteristiche comuni che possono essere spiegate solo
alla luce di una reciproca influenza determinata dalla prossimità geografica.
Un’isoglossa rilevante dal punto di vista sintattico è fornita dalle frasi subordinate, che vengono introdotte da
una congiunzione seguita dal congiuntivo, laddove in altre lingue dell’area indoeuropea la frase subordinata
verrebbe realizzata come non-finita (vale a dire una frase il cui verbo non presenta distinzioni flessive relative
al tempo o alla persona e, dunque, priva di un Soggetto esplicito). Ad esempio, una frase del tipo "dammi da
bere" viene realizzata come "dammi che io beva" (da-mi sa beau in rumeno, daj mi da pija in bulgaro, a-më të
pi in albanese e dòs mou nà pio in greco).
Anche l’Europa è da molti considerata un’area linguistica (vedi il modulo L’italiano lingua d’Europa e del
Mediterraneo, UD 2). Nelle lingue europee sono presenti, infatti, alcuni tratti comuni fortemente
caratterizzanti, che si sono sviluppati in modo parallelo sia nelle lingue romanze che in quelle germaniche. Si
considerino ad esempio:
- la flessione verbale molto ricca, con forme perifrastiche (costituite da una forma non finita del verbo che si
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combina con un ausiliare) che codificano sia la categoria del tempo che elementi aspettuali: ho mangiato, sto
mangiando ecc...;
Tutte queste caratteristiche sembrano mostrare, in generale, che le lingue dell’area indoeuropea stanno via via
passando da un sistema di costruzione sintetica ad un sistema di costruzione analitica. Questo lento e graduale
passaggio, che di fatto caratterizza numerose lingue del mondo, è stato definito da Sapir (Sapir 1921)
"deriva".
Una lingua pidgin si sviluppa, infatti, dalla necessità di creare una lingua di scambio tra due popolazioni di
lingua diversa, data una situazione di convivenza prolungata (forzata o meno). Situazioni esemplari per la
nascita di pidgin sono state le colonizzazioni da parte dei paesi occidentali lungo le coste dell’Asia, dell’Africa
e dei Caraibi. Si parla infatti generalmente di pidgin a base inglese, francese, spagnola o portoghese.
Il processo di "pidginizzazione" - una volta erroneamente considerato una sorta di "degradazione linguistica" -
può essere interpretato come una "rianalisi" delle strutture grammaticali della lingua-base. Esso infatti consiste
in un processo di semplificazione strutturale, specie per quanto riguarda l’area della morfologia lessicale. La
semplificazione morfosintattica comporta, però, l’adozione di marche temporali o aspettuali "libere" (vale a
dire marche non realizzate come affissi della voce verbale, bensì come morfemi grammaticali indipendenti),
spesso derivate da originarie forme lessicali della lingua-base. Osserviamo, a scopo illustrativo, gli esempi
seguenti, tratti dal West African Pidgin English (gruppo di pidgin parlati in Cameroon, Nigeria e Ghana; dati
tratti da Turchetta, On the application...):
"Lui ha parlato."
(2) I go tok de
Come si può notare, le parole bin e go hanno perso il loro significato lessicale originario (rispettivamente di
"stato" e "andare") per assumere una funzione puramente grammaticale all’interno della frase (segnalare il
tempo verbale), supplendo così alla mancanza di elementi morfologici.
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Qualora un pidgin diventi un normale mezzo di comunicazione quotidiana e cominci ad avere parlanti nativi,
cambia status e diventa una lingua creola. Questo cambiamento di status dà luogo ad un processo inverso al
precedente, vale a dire un processo di espansione (detto "creolizzazione"). La lingua amplia dunque il proprio
lessico e la propria grammatica, ricalcando le nuove strutture grammaticali su quelle delle lingue originarie dei
parlanti.
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UD 7 - La variazione linguistica
In questa unità didattica si prendono in esame i fattori sociali, geografici e stilistici che sono alla base della
variazione linguistica. Viene inoltre presentato il concetto di "lingua standard" e di "variante di prestigio". La
variazione viene, infine, inquadrata all'interno di una nozione cruciale in quest'area di ricerca, quale quella di
"continuum".
Al contrario, essa comprende al suo interno una vasta gamma di varietà, impiegate dai parlanti nelle diverse
situazioni della vita sociale e lavorativa.
"Parlare una lingua" significa pertanto essere in possesso di un "repertorio linguistico", con cui indichiamo
"l’insieme dei codici e delle varietà che un parlante è in grado di padroneggiare all’interno del repertorio
linguistico più ampio della comunità cui appartiene" (Graffi e Scalise, Le lingue e il linguaggio: 215). Di
conseguenza la competenza linguistica di un parlante sarà tanto più vasta e approfondita quanto maggiore è il
numero di varietà che può padroneggiare, in maniera appropriata, nei vari contesti (Hymes 1987).
All’interno del repertorio di varietà, però, ciascuna comunità linguistica stabilisce un "centro", una norma
linguistica che assume lo statuto di lingua standard. Si tratta generalmente della varietà adottata dai parlanti
colti - appartenenti ai ceti medio-alti - e quanto più priva di coloriture regionali (vedi 7.4).
È importante sottolineare che le diverse varietà che formano "un sistema linguistico" non si dispongono in
maniera isolata e indipendente al suo interno. Proprio in quanto "sistema", le varietà della lingua interagiscono
tra di loro e sono selezionate dal parlante in base a precise gerarchie e norme di impiego.
Lo sviluppo e l’adozione di determinate varietà linguistiche da parte dei parlanti di una comunità sono soggetti
ad una serie di "variabili" che possono essere sociali, geografiche e demografiche (sesso ed età).
Oltre alle variabili appena menzionate, un altro fattore che può influenzare il comportamento linguistico dei
parlanti è il cosiddetto "prestigio". I parlanti di una data comunità sono, infatti, pienamente coscienti di quali
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varietà linguistiche godano di una valutazione sociale positiva. Di conseguenza, l’ambizione sociale può indurli
ad imitare la varietà di prestigio, come messo in luce dagli studi di Labov (vedi 7.2).
Una delle prove più lucide ed evidenti a favore di tale affermazione è fornita dal famoso lavoro di Labov
(Labov 1966), che ha preso come oggetto di analisi la varietà di inglese parlata a New York City.
Nel dettaglio, lo studio si è focalizzato sulla realizzazione del legamento -r, vale a dire sul fattore di variazione
che regola la realizzazione della consonante liquida in parole come car, four, board, ecc. La realizzazione del
legamento -r nell’area interessata sembrava, infatti, avvenire in maniera pressoché casuale: il contesto
fonologico di applicazione serviva a predire la possibilità di un suo verificarsi, ma non la sua necessaria
occorrenza.
Labov ha condotto il suo studio su un campione di 100.000 individui, e li ha suddivisi sulla base di tre fattori
di stratificazione, reddito, grado di istruzione e occupazione del capofamiglia, individuando così sei classi
socio-economiche.
Lo studio prevedeva un’analisi delle produzioni linguistiche di questi informanti, acquisite in cinque situazioni
distinte per grado di formalità, vale a dire: a) "parlato spontaneo", b) "stile "formale" (cioè il normale stile
colloquiale di un’intervista), c) "stile di lettura", d) "lettura di liste di parole" e, infine, e) "lettura di coppie
minime" (vedi il modulo Elementi di fonologia e prosodia dell’italiano, 1.3).
b. le alternanze (cioè le apparenti contraddizioni) presentate dai singoli individui nella produzione del
linguaggio dipendono dal registro linguistico (ponendo così in evidenza la rilevanza del fattore diastratico
[7.4] nel cambiamento linguistico).
Analizzando i dati di Labov è possibile, infatti, notare che la frequenza del legamento -r aumenta in maniera
costante e progressiva in base allo strato sociale di appartenenza: la realizzazione di [r] davanti a consonante o
in fine di parola rappresenta, nell’inglese di New York, un elemento di prestigio.
Questo studio ha dimostrato, inoltre, che le innovazioni interne al sistema hanno spesso origine dalle classi
sociali intermedie, i cui appartenenti aspirano, spesso, ad un’ascesa sociale.
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soggetta a continue "sollecitazioni", che possono condurre a possibili cambiamenti. Il cambiamento linguistico
non è, dunque, un fenomeno che riguarda esclusivamente l'evoluzione di una lingua nel tempo, ma la
caratterizza al suo interno, in qualsiasi momento storico.
In particolare, c'è ampio consenso tra i linguisti sul fatto che, nello studio della "variazione sincronica", si
debba tener conto di tre fattori fondamentali: la variazione diatopica, diastratica e diafasica (vedi 7.4).
La distinzione tra sincronia e diacronia (proposta da Saussure nel suo Cours) fa riferimento ai due diversi
modi in cui si possono studiare le lingue in relazione all’asse temporale.
Le lingue verbali, infatti, in quanto codici arbitrari (vedi 1.3), subiscono delle modifiche nel tempo, a tutti i
livelli della grammatica e sotto l’influsso di stimoli diversi. Di ambito diacronico sono, ad esempio, gli studi
sulle famiglie linguistiche (attraverso il metodo comparativo e la ricostruzione interna; vedi 3.3), gli studi
etimologici, mirati a trovare l’origine delle parole, a ricostruirne la storia e a trovare le ragioni delle modifiche
da esse subite ecc.
La linguistica sincronica, invece, studia gli elementi che compongono una lingua in un singolo momento
storico, prescindendo dalla sua evoluzione precedente. Il linguista che lavora in sincronia, dunque, opera un
taglio lungo l’asse temporale per descrivere e spiegare le caratteristiche strutturali o lessicali di una lingua nel
momento preso in considerazione.
Gli studi sulla variazione linguistica che prendono in esame le variabili stilistiche e socio-geografiche sopra
elencate si svolgono tipicamente in ambito sincronico.
Un altro fattore di variazione recentemente proposto (Mioni 1983) è quello rappresentato dall’asse diamesico,
relativo cioè al mezzo (lingua scritta versus lingua parlata) usato per la comunicazione (vedi il modulo
L’italiano scritto, parlato e trasmesso, UD 1). Questo fattore ha assunto notevole importanza negli ultimi anni,
grazie soprattutto al fiorire di un vivo interesse per le ricerche sul parlato (Sornicola 1981, Halliday 1985).
La coloritura regionale è, in effetti, un elemento difficilmente assente, anche presso parlanti molto colti,
specialmente per quanto riguarda gli aspetti fonologici della lingua (inclusi i livelli della prosodia e
dell’intonazione; vedi il modulo Elementi di fonologia e prosodia dell’italiano, UD 7). Nella variazione
diatopica si possono riscontrare, tuttavia, elementi considerati più prossimi allo standard (vedi 7.1) e altri, al
contrario, maggiormente stigmatizzati (e definiti pertanto "substandard").
Per quanto riguarda l’italiano, la varietà regionale che maggiormente si identifica con lo "standard" è, in base
agli studi di De Mauro (De Mauro 1967), quella centrale parlata a Roma. Questo ruolo spetta alla capitale in
quanto "crogiolo" di immigrazione negli ultimi 40 anni e centro dell’attività politica e amministrativa
dell’"Italia unita". Questa condizione ha fatto sì che a Roma si creassero necessariamente le condizioni per la
nascita di una varietà linguistica medio-alta che assicurasse la comprensione e la coesione tra i membri della
comunità. Alcuni studi sociolinguistici (Galli de' Paratesi 1984) hanno mostrato come, negli ultimi venti anni,
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il punto di riferimento per l’elaborazione della varietà linguistica standard si sia spostato verso Nord, in
particolare a Milano, centro propulsore dello sviluppo economico e sede del secondo più importante polo
televisivo d’Italia (Mediaset), che ha avuto un impatto notevole sull’affermarsi di nuovi elementi di prestigio
linguistico.
Altri studiosi, senza dare precise indicazioni geografiche, preferiscono definire l’italiano standard come
"l’italiano regionale colto dell’uso medio" (Sabatini, L'italiano dell'uso medio: 171-175). In ogni caso, il fattore
diatopico sembra inestricabilmente connesso con la produzione linguistica, a prescindere dalla stratificazione
sociale e dal contesto comunicativo.
La dimensione diafasica si occupa delle varietà legate alla sfera di attività dei parlanti e all’ambito del
discorso. In alcuni casi ci si riferisce a questa dimensione con il termine di "registro", in altri si preferisce
parlare di "sottocodice" (linguaggi settoriali, lingue speciali ecc.; per le nozioni di registro e sottocodice, vedi
il modulo Le varietà diafasiche e diastratiche del repertorio, 7.1).
Gli studi sulla variazione diafasica si sono concentrati in modo particolare sui cosiddetti "gerghi", vale a dire
sulle "varietà colloquiali-espressive proprie di categorie o gruppi particolari di utenti" (Berruto, Sociolinguistica
dell'italiano contemporaneo: 25) e tipicamente caratterizzate dal punto di vista lessicale. Casi ben noti
riguardano il gergo giovanile, i gerghi studenteschi e i gerghi della vita militare.
Nel polo più basso della variazione diafasica si presenta con grande chiarezza quello che Givón (Givón 1979)
definisce il "modo pragmatico", vale a dire un modo di strutturare il discorso che ricorre il meno possibile ai
mezzi grammaticali, in particolare morfologici, e affida, dunque, la comunicazione più decisamente al lessico
e alla semantica.
La diastratia, infine, è connessa con la stratificazione sociale e con tutti quei fattori che sono intimamente
connessi con l’identità sociale stessa: il gruppo, l’etnicità, il sesso e la classe generazionale. Tali fattori portano
alla formazione di varietà definite "socioletti", fortemente caratterizzate per il senso di appartenenza ad un
gruppo sociale. Data questa loro matrice, tali varietà sono necessariamente sottoposte a nette valutazioni
sociali (negative o positive) e la loro diffusione dipende, come ovvio, dall'estensione dei gruppi sociali che ne
sono all'origine.
Anche un singolo individuo può essere all'origine di una varietà linguistica. In questo caso si usa il termine
"idioletto", che può essere definito come l'insieme delle abitudini linguistiche e delle idiosincrasie di un
singolo parlante. Negli studi sulla variazione diastratica l'idioletto rappresenta, quindi, l'entità sociale minima
a cui può corrispondere una determinata varietà.
È importante sottolineare che i fattori della variazione diatopica, diastratica e diafasica si mescolano in modo
inestricabile e interagiscono in vario modo. La sovrapposizione dei loro effetti è dunque molto ampia ed è a
volte molto difficile distinguere un ambito di influenza dall’altro nello studio dei fenomeni linguistici ad essi
correlati.
Per far riferimento alle relazioni che intercorrono tra queste varietà gli studiosi hanno adottato il concetto di
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"continuum". Questo concetto mette in evidenza la continuità tra i fenomeni di variazione che si presentano
all'interno delle lingue e, in sostanza, l’impossibilità di tracciare dei confini netti e precisi tra le categorie.
Non solo, infatti, le dimensioni della variazione sincronica (vedi 7.3 e 7.4) si influenzano a vicenda, rendendo
sfumate le relazioni di causa ed effetto, ma la natura stessa dei cambiamenti è graduale nel tempo, così da non
poter sempre stabilire in termini assoluti la totale presenza o la completa assenza di un determinato fenomeno
in un dato momento storico.
Un esempio di continuum che suscita molto interesse presso gli studiosi riguarda l'analisi degli elementi
pronominali e, in particolare, la loro funzione all'interno della frase.
Gli elementi pronominali, infatti, hanno tipicamente funzione anaforica: servono cioè a mettere in
correlazione due elementi nominali. In una frase come quella in (1), ad esempio, il pronome clitico (cioè
"atono") lo si riferisce anaforicamente al nome Luigi presente nella frase precedente (come indicato dagli
indici "k" sottoscritti):
I pronomi, però, possono avere anche un'altra funzione, vale a dire possono servire da semplici marche di
accordo sintattico sul verbo. Questa funzione è esattamente quella indicata da Givón (Givón 1976) per rendere
conto della nascita dell'accordo verbale. In base all'ipotesi di Givón, infatti, nell'evoluzione delle lingue i
pronomi possono perdere la loro funzione anaforica ed "entrare" nella morfologia verbale, come mostrato
schematicamente in (2):
Prendendo come punto di riferimento questo tipo di continuum (da un accordo anaforico ad un accordo
sintattico; Lehmann 1982), è possibile ravvisare in molte lingue l’esistenza di un processo graduale che
trasforma i pronomi clitici in marche di accordo grammaticale.
Nelle lingue romanze, ad esempio, vi sono fenomeni che sembrano attestare la presenza e la progressione di
un simile continuum. Si vedano, ad esempio, le costruzioni di "topicalizzazione" (vedi il modulo Morfologia e
sintassi, 7.2) in italiano, ove troviamo sempre più frequentemente la copresenza di un costituente nominale e
di un pronome clitico all'interno della stessa frase (frasi tratte da Lessico di frequenza dell'italiano
parlato-LIP):
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La presenza del pronome clitico in queste costruzioni è sicuramente ancora molto correlata ai fattori della
variazione diastratica e diafasica (per cui è massima nel parlato colloquiale spontaneo e minima nel parlato
formale), tuttavia non sembra caratterizzata dal punto di vista diatopico e dunque rappresenta un fenomeno
"panitaliano" (Frascarelli 2003).
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