26.09 SLIDE 1
Struttura del linguaggio e categorie linguistiche
Generativismo, tipologia e linguistica cognitiva
Linguistica cognitiva= il linguaggio riflette i processi cognitivi più generali dell’uomo
Linguistica generativa= il linguaggio è una facoltà propria dell’essere umano
Gli studiosi si interrogano sulla natura del linguaggio: riflette i più generali processi cognitivi
dell’uomo (memoria, categorizzazione…) o è una facoltà propria dell’essere umano? La prima tesi
è sostenuta dalla linguistica cognitiva, la seconda dal generativismo. La domanda vera è quanto ci
sia di specificamente linguistico (non condiviso con le altre facoltà cognitive dell’essere umano) nel
linguaggio.
Il nome più conosciuto legato alla linguistica generativa è quello di Chomsky. La sua bibliografia
(slide) mostra le ipotesi di fondo della teoria generativista. Chomsky tratta in uno dei suoi primi
testi ‘Le strutture della sintassi’ (testo fondativo della grammatica generativa). Nell’1982 Chomsky
tiene le Pisa lectures, le lezioni pisane, alla Normale.
In questi anni si abbandonano le teorie che supportano l’esistenza di una grammatica universale
(modello universale), comune a tutti i parlanti, sostituendole con un modello a principi e parametri:
essi sarebbero comuni a tutte le lingue. Si tiene comunque conto della variazione linguistica (non si
pensa più che ci sia una grammatica comune, quanto dei parametri e dei principi comuni che
stabiliscono la grammatica).
Nel 1995 c’è stata un’ulteriore svolta all’interno della riflessione di Chomsky sulle strutture del
linguaggio, che consiste nella riflessione minimalista. L’interrogativo che ci si pone è: veramente i
processi cognitivi alla base del linguaggio sono così complessi e articolati come sono stati descritti
da alcuni linguisti? Ci si risponde di no. Si riduce dunque l’elaborazione del linguaggio a un
numero esiguo di principi, che hanno la sintassi come elemento fondante.
Knowledge and Learning sono altri termini che appaiono più volte nella bibliografia di Chomsky.
Chomsky si interroga su come possano i bambini apprendere così velocemente una lingua se gli
stimoli a cui vengono sottoposti non corrispondono alla totalità dei casi linguistici. Piaget ha
attribuito una fondamentale importanza all’input che i bambini ricevono dagli adulti. Il programma
di Chomsky minimalista è di ricerca, non si propone come assoluto. Che la facoltà del linguaggio
sia innata in tutti gli esseri umani e che essa progressivamente si riduca in quelle che sono le sue
specificità comunicative è un’ipotesi.
L’autonomia della sintassi
Il primo tra i testi di Chomsky, ‘Le strutture della sintassi’, dice che la semantica (=il significato
delle parole) è qualcosa a sé. Infatti, la struttura grammaticale, ciò che fa di una lingua un sistema
funzionante, è unicamente una struttura sintattica. La facoltà sintattica è rimasto l’unico bastione
propriamente umano della facoltà del linguaggio in senso stretto. La sintassi quindi oltre a essere
centrale è autonoma: la grammaticalità non dipende da altri fattori come la semantica. Un
esempio limite:
Testo “Il lonfo” (1978, Fosco Maraini):
“Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta […].
è una tipologia di testo metasemantico, non è una filastrocca, bensì una poesia. Nessun parlante
italiano direbbe che esso sia un testo agrammaticale. Infatti, gli elementi funzionali, come gli
articoli, le desinenze, ciò che dà la struttura grammaticale, sono dove dovrebbero essere. Di questo
testo senza conoscerne il significato potremmo fare l’analisi logica, grammaticale e del periodo. Il
testo è infatti oscuro dal punto di vista semantico. O no? Le parole sono a noi sconosciute, tuttavia
possiamo dare qualche tratto semantico al testo. Il lonfo infatti è un elemento vitale e i verbi di cui è
soggetto sono dinamici e non stativi. La traduzione di questi testi è impossibile, è pensata come
ricreazione ex novo di un testo creativo.
Generativismo e formalismo
Concetti importanti:
- La proprietà dell’infinità discreta è quella di generare un numero infinito di frasi e testi
tramite la doppia articolazione (per cui il significante è scomponibile e ricomponibile).
- Il modello della grammatica universale è una serie di regole che è stato sostituito dal
modello a principi e parametri.
- Distinzione tra lingua interna e esterna, competenza linguistica è quella meritoria di
indagine
Si propone l’ipotesi che la comunicazione non sia lo scopo del linguaggio umano, dato che il
linguaggio sarebbe esistito anche se gli uomini non ne avessero fatto quest’uso.
La tipologia linguistica e funzionalismo
Il cui esponente più conosciuti è Greenberg, che arriva alle sue teorie in modo induttivo osservando
la variazione interlinguistica. Greenberg si discosta dal paradigma chomskiano.
Il rifiuto della concezione modulare della mente è una teoria per cui le strutture linguistiche
rispondono a quelli che sono principi generali attraverso cui l’uomo organizza e struttura la
conoscenza del mondo che lo circonda.
Le lingue sono sistemi con cui i parlanti classificano una serie di contenuti e esperienze. Esempio:
la classificazione in una lingua di singolare e plurale, e in un’altra di singolare, duale, triale, plurale.
Altro es: una lingua in Groenlandia ha una quarantina di nomi per classificare i vari tipi di bianco e
neve, cosa che sarebbe ridondante per l’italiano.
Se le categorie linguistiche sono anche cognitive, come sono fatte?
La prima formulazione della struttura di queste categorie non viene da un linguista ma da un
filosofo del linguaggio, Wittgenstein. Lui indagava la struttura delle categorie cognitive su cui
l’uomo categorizza l’esperienza e la traduce nella lingua. Se noi di fronte alla variabilità
extralinguistica non operassimo astrazioni e generalizzazioni sui dati empirici, non la sapremmo
gestire. Es: i nomi dei colori sono molto limitati rispetto alle milioni di sfumature che l’occhio
umano è in grado di percepire.
Cosa serve per classificare un certo elemento come appartenente ad una determinata categoria, dice
Witt? L’esempio che lui pone è quello del gioco. Bisogna porsi l’interrogativo di individuare
l’elemento in comune a tutti i giochi (per poter classificare qualcosa come gioco). La risposta di
Witt a questo interrogativo è nulla. Secondo lui non è possibile trovare un elemento in comune tra
tutti i giochi. Secondo lui i giochi come altre cose hanno somiglianze familiari “family
resemblance”: ciascun membro condivide almeno un tratto con almeno un altro membro della
categoria. X e Y possono non avere niente in comune, ma possono entrambi avere un tratto in
comune con Z. Queste affermazioni sono rischiose: si potrebbe allora ritenere che il gioco non sia
una categoria??
Categorie linguistiche a somiglianza familiare
“Women, fire and dangerous things”, testo di Lackoff.
Esempio della lingua del dyirbal: essa categorizza l’esperienza in due gruppi.
1) Donne, uccelli… (avvicina dunque l’anima delle donne a quella degli uccelli);
2) Uomo, attrezzi da pesca... (avvicina dunque l’uomo agli attrezzi da pesca).
La lingua divide i generi in questo modo, perché l’anima delle donne si reincarna in quella degli
uccelli secondo la cultura che vi soggiace, e perché gli uomini sono coloro che si occupano della
pesca (attività dominante nella società che corrisponde a questa lingua).
2.10 SLIDE 2
Chomsky, Hauser e Fitch si muovono nell’ipotesi di una distinzione tra facoltà del linguaggio in
senso ampio (umano e animale) e in senso stretto (specificamente umano). Cosa c’è di
specificatamente umano all’interno dei sistemi coinvolti nella produzione del linguaggio? Chomsky
adotta un metodo comparativo. C’è una distinzione tra analogie e omologie. Procedendo col sistema
comparativo (tra specie diverse) i tre autori cercano di valutare quale tra 3 possibili scenari possa
risultare più attendibile →L’intento è quello di vedere cosa c’è di specificamente umano nel
linguaggio.
Si propongono di validare o invalidare le seguenti 3 ipotesi/scenari:
1. la facoltà del linguaggio in senso ampio (ivi compresa anche la facoltà di linguaggio in
senso stretto) sarebbe strettamente omologa alla comunicazione animale → quindi tutto ciò
che è coinvolto nella produzione del linguaggio umano (meccanismo delle regole ricorsive,
sistema semantico-pragmatico, concettuale, sistema fonetico, uditivo etc) sarebbero
omologhi alla comunicazione animale e quindi le varie forme di comunicazione animale
sarebbero imparentate, avrebbero un’eredità comune con quella che è la facoltà del
linguaggio umano nel suo complesso.
2. la facoltà del linguaggio in senso ampio (vedi sopra) sarebbe un adattamento unicamente
umano per la comunicazione → tutto quello che è coinvolto nella produzione del linguaggio
(vedi sopra) sarebbero frutto di un processo evolutivo che ha interessato unicamente la
specie umana.
3. soltanto la facoltà del linguaggio in senso stretto è unicamente umana → gli altri aspetti
possono essere condivisi con altre specie ma la capacità ricorsiva e l’infinità discreta sono
unicamente e specificamente caratteristiche del linguaggio umano.
Ognuna di queste è in qualche modo plausibile però molta evidenza empirica necessaria non è al
momento disponibile (frase curiosa).
In questa prospettiva vediamo cosa si riscontra anche nelle altre specie animali e cosa invece non è
riscontrabile → Hauser, Chomsky e Fitch notano che vari aspetti della facoltà del linguaggio in
senso ampio sono condivisi con altre specie animali → In primis ci sono molti tra gli aspetti che
hanno a che fare con ambiti del sistema senso-motorio e che sono coinvolti nella percezione e
produzione del linguaggio; i 3 autori notano che dal punto di vista della percezione molte specie
animali sono in grado di discriminare suoni umani sulla base delle formanti, tanto che alcuni
esperimenti mostrano che alcuni primati non umani (le grandi scimmie) sono in grado di distinguere
frasi in lingue diverse sulla base della configurazione ritmica. Quindi anche altre specie animali
hanno le risorse percettive adeguate al riconoscimento delle caratteristiche tipiche del linguaggio
umano.
In modo analogo, anche per quello che è il versante della produzione di suoni molte specie animali
producono una gamma di vocalizzazione anche più ampia rispetto alla gamma di vocalizzazioni
producibile dall’apparato fonatorio umano. Ma da questo punto di vista c’è da dire che, rispetto agli
uccelli canori, le grandi scimmie (specie più vicina a noi, a maggior ragione se paragonata con gli
uccelli) hanno capacità assai più ridotte. Tuttavia è anche vero che la caratteristica anatomica
rilevante (ovvero l’abbassamento della laringe) è condivisa anche da altri mammiferi. Il fatto è che
in ogni caso sono caratteristiche che ritroviamo sì in altre specie animali, ma che non ritroviamo in
quelle che sono evolutivamente a noi più prossime.
Un aspetto coinvolto nella produzione del linguaggio ma che sembra non essere specificamente
umano sono le capacità imitative → alcune specie di animali, come alcuni uccelli e mammiferi (es.
delfini) sembrano avere capacità imitative raffinate. La capacità di imitazione è un input che ci
giunge dall’esterno; è fondamentale ma non sembra specificamente umana. Ci sono specie animali
che hanno queste capacità anche molto sviluppate, ma, ancora una volta, nelle specie più vicino a
noi queste capacità sono ridotte (anche se non poi così tanto, come vedremo). Per quanto riguarda il
sistema concettuale, anche uccelli e mammiferi possiedono un sistema concettuale, elaborano
concezioni astratte della realtà; alcuni scimpanzé sono in grado di elaborare una teoria della mente:
cioè sono in grado di attribuire a qualcun altro degli stati mentali, di comprendere le intenzioni
dell’altro e capire ciò che l’altro sta pensando.
Siamo di fronte a qualcosa di importantissimo, sono cose del linguaggio non specificatamente
umane.
Tra le prime tre ipotesi che abbiamo visto, vediamo che la prima (che ci sia qualcosa di ereditario
nelle strutture simili) è messa in discussione dal fatto che possiamo trovare strutture e capacità
simili nell’essere umanoe negli uccelli ma poi non li ritroviamo tra l’umano e le specie
evolutivamente a noi più vicine; la seconda è messa in discussione dal fatto che anche i processi
cognitivi astratti coinvolti nella comunicazione sarebbero presenti anche in altre specie animali.
Resta da capire se sia possibile riscontrare qualche argomento in favore della terza ipotesi → visto
che la facoltà di linguaggio in senso ampio è comune anche a altre specie animali (magari per
sviluppi analoghi) è invece possibile dire che concentrandosi sulla facoltà di linguaggio in senso
stretto, questa sia qualcosa di specificamente umano? Dobbiamo vedere se le caratteristiche salienti
della facoltà di linguaggio in senso stretto (infinità discreta e ricorsività) siamo specificamente
umane o se le ritroviamo anche in altre specie animali. Secondo i tre autori, nessuna specie
sembrerebbe in grado di ricombinare singole unità significative in sequenze complesse. Ad
esempio, alcuni scimpanzè sono in grado di elaborare il concetto astratto come il numero ma ne
colgono unicamente il valore referenziale e non sono in grado di ricombinare questi segni numerici
in segni più complessi: sono in grado di associare gli oggetti al numero, ma non sono in grado di
mettere in sequenza il 2 e il 3, per creare il 23 a indicare una quantità di 23 elementi → colgono il
valore referenziale del segno, cioè che è un segno numerico, ma hanno la capacità di ricombinare
questi segni per crearne altri più complessi (la ricorsività).
Allora il meccanismo ricorsivo, che consente di generale l’infinità discreta di segni a partire da
pochi elementi, è la cosa specificamente umana → con decine di fonemi si formano migliaia di
morfemi, con cui si formano decine di migliaia di parole con cui si forma un numero
potenzialmente infinito di testi, è questa capacità di combinare secondo regole che costituisce la
specificità del linguaggio umano non condiviso da altre specie animali.
IL CASO KANZI
Il bonobo Kanzi (della specie delle grandi scimmie), nato in cattività in un centro di studi degli Stati
Uniti, è stato addestrato da una studiosa a svolgere dei compiti legati alla comunicazione, che
chiamano in causa quanto detto finora. La studiosa è Savage Rumbaugh. Al bonobo è stato
insegnato un sistema di simboli a cui si associavano oggetti e azioni; sono segni non iconici (non
assomigliano al referente a cui rimandano), sono segni totalmente simbolici. A questi simboli sono
stati associati oggetti, persone o azioni (inseguire la palla, inseguire un altro membro della propria
specie etc). Al livello più semplice, la scimmia era in grado per esempio di riconoscere il segno
della mela; ma questo era già stato riscontrato in altri studi precedenti, si sapeva che sapessero
associare un segno astratto ad un certo referente extralinguistico. Cosa si è notato di interessante
quindi? → Pur in strutture molto semplici, il bonobo Kanzi si è mostrato in grado di combinare tra
loro i segni che aveva imparato: sulla lavagna luminosa con la quale comunicava con gli umani,
sapeva costruire degli enunciati minimi (toccava il segno associato al rincorrere e al segno della
palla se voleva che qualcuno corresse dietro alla palla). Questo ha conseguenze notevoli rispetto a
quanto dicevamo perché vorrebbe dire che una minima capacità di ricombinare gli stessi segni i
primati ce l’hanno; una sintassi minima, di questo tipo, che mette in relazione un’azione e un
oggetto, è pur sempre una sintassi, è pur sempre un mettere insieme un segno che denota un’azione
con un segno che denota un oggetto. → Possiamo dire che questo è linguaggio? Possiamo dire che
la capacità di ricombinare ce l’hanno anche i primati?
Lo studioso Bikkenton parla a proposito di manifestazioni di questo tipo di “protolinguaggio”.
Anche se dire che quello di Kanzi è protolinguaggio non spiega nulla, è solo un’altra etichetta con
un altro nome, a questo punto uno si chiede se un protolinguaggio è un linguaggio comunque o non
lo è, quindi non aiuta molto a chiarire la questione.
Il caso è stato ripreso e ridiscusso nel saggio “Dalla mano alla bocca” di Corballis → nel saggio
viene detto che Kanzi è arrivato a sviluppare quel livello di sintassi, ma solo dopo anni e anni di
studio e allenamento, e in natura non sarebbe successo; tuttavia resta comunque un’eccezione (sulla
madre e le sorelle gli studi non avevano avuto risultati incoraggianti). Alla fine di anni e anni di
addestramento il bonobo Kanzi è arrivato a dominare circa 500 lessigrammi (segni che indicano
singole unità lessicali), quando qualsiasi bambino nella in un arco di tempo più ridotto ne
acquisirebbe moltissime di più, con capacità sintattiche più complesse. Il caso quindi merita di
essere citato, perché sembrerebbe mettere in discussione l’unicità delle capacità ricorsive come
caratteristiche specificamente umana, ma non assume troppa rilevanza.
Però tutto questo studio ci dimostra che non dobbiamo pensare alla comunicazione unicamente
come ad una cosa verbale, buona parte del linguaggio dei primati potrebbe avere un sistema
gestuale.
NEURONI SPECCHIO
Particolare aspetto dell’apparato senso-motorio nell’acquisizione del linguaggio è giocato dai
mirror neurons, neuroni specchio → perché i neuroni specchio sono una struttura neuronale
particolarmente importante per gli aspetti legati all’acquisizione del linguaggio? Perché sembrano
essere il correlato neurobiologico, fisico, concreto, di quella che è la capacità di elaborare una teoria
della mente.
Sono stati scoperti in Italia da Giacomo Rizzolatti che notò che nella corteccia premotoria dei
makaki sono presenti alcuni neuroni che hanno un comportamento abbastanza inaspettato → se la
scimmia è ferma, non compie nessun azione i neuroni non si attivano; se la scimmia compie
l’azione di afferrare un oggetto, i neuroni si attivano, perché coinvolti nella produzione e
regolazione di questo movimento; i neuroni però si attivano anche se la scimmia è ferma ma vede
compiere quel movimento da qualcun altro → anche gli esseri umani hanno un sistema di neuroni
specchio: quando noi vediamo qualcun altro compiere un’azione, il sistema specchio del nostro
cervello si attiva come se noi stessi compissimo quell’azione; siamo in grado, grazie a questa
dotazione neurologica, di identificare l’azione dell’altro, perché è come se la stessimo facendo noi
stessi.
Dal punto di vista cognitivo questo significa che per capire le intenzioni di qualcun altro, per capire
cosa sta facendo, noi non abbiamo bisogno di elaborare esplicitamente quest’informazione, ma la
simuliamo in qualche maniera nel momento stesso in cui la vediamo. Per i neuroni specchio,
compiere un’azione o vederla compiere è esattamente la stessa cosa. È chiaro che da punto di vista
dell’apprendimento e della teoria della mente, il sistema a specchio fornisce una dotazione biologica
di centrale importanza, visto che ci dà gli strumenti per interpretare le azioni e anche le intenzioni
altrui. È ancora in discussione quanto i neuroni specchio siano coinvolti nella facoltà di linguaggio.
In tutti gli aspetti interazionali del linguaggio, questi neuroni specchio rientrano.
Mentre nel caso delle scimmie si è trovata evidenza diretta per quanto riguarda i neuroni specchio,
negli esseri umani abbiamo evidenza di natura indiretta, attraverso pratiche meno invasive
(risonanze magnetiche, encefalogrammi); la cosa interessante è che le aree in cui nei makaki è stata
trovata evidenza della presenza dei neuroni specchio, sono quelle aree del cervello che
evolutivamente, nel cervello umano, sono diventate le aree di “wernicke” e di “Brocà”: aree
cerebrali dell’emisfero sinistro, deputate alla produzione del linguaggio.
Il fatto che i neuroni specchio nelle scimmie siano state trovate proprio in quelle aree che nel
cervello umano sono deputate alla produzione del linguaggio, ci permette di affermare che la facoltà
del linguaggio è condivisibile anche con altre specie animali?
In conclusione, Chomsky, Hauser e Fitch dicono che la facoltà del linguaggio in senso ampio è
probabilmente condivisa con altre specie, mentre la facoltà del linguaggio in senso stretto è
probabilmente specificamente umana.
Alcuni studiosi muovono alcune obiezioni riguardo al fatto che le ipotesi di ricerca non si
esauriscano nei 3 scenari prospettati, ma almeno altri 2 scenari possibili dovrebbero essere presi in
considerazione. Gli autori in questioni sono Pinker e Jackendoff, che nel 2005 (3 anni dopo
Chomsky, Hauser e Fitch) pubblicano “La facoltà del linguaggio: cosa ha di speciale?” rifacendosi
alla questione di cosa sia specificatamente umano. Jackendoff è un generativista, per lui il
linguaggio è una facoltà innata, presente nella dotazione genetica dell’essere umano fin dalla
nascita.
Oltre all’ipotesi innatista, nella distinzione tra facoltà del linguaggio in senso ampio e facoltà del
linguaggio in senso stretto si chiedono quale parte delle capacità linguistiche quale parti siano
specifiche del linguaggio e quali appartengano a capacità cognitive di carattere più generale; quale
aspetto della capacità del linguaggio sia specificamente umano.
Pinker e Jackendoff, partendo dagli stessi presuposti di Chomsky, dicono che sarebbero possibili
altri due scenari:
- La facoltà del linguaggio in senso stretto può contenere qualcos’altro oltre alla
ricorsività? Ci può essere, nella facoltà del linguaggio in senso stresso, qualcos’altro di
specificamente umano che non abbia a che fare con la ricorsività?
- Può esserci anche nella facoltà del linguaggio in senso ampio qualcosa che sia
unicamente umano?
03.10 SLIDE 2
La conclusione alla quale arrivano Hauser, Chomsky e Fitch è che: esiste una facoltà del linguaggio
in senso ampio condivisa anche con altre specie animali, e. specificità unicamente umana, una
facoltà del linguaggio in senso stretto, ovvero la ricorsività.
Il primo Pinker e Jackendoff aggiungono altri scenari. Il primo: ponendo che la ricorsività faccia
parte della facoltà del linguaggio in senso stretto e sia solo umana, potrebbero esserci anche altri
elementi all’interno insieme alla ricorsività. Qualcosa che è linguistico in senso stretto, che non
chiama in causa altre facoltà cognitive dell’essere umano, che pur essendo specificamente umano e
meramente linguistico, potrebbe non essere ricorsività ma altro.
Il secondo: anche nella facoltà del linguaggio in senso ampio ci sia qualcosa di unicamente umano e
non condiviso con altre specie animali.
Scenario uno: la facoltà del linguaggio in senso stretto non consiste solo nella ricorsività. Secondo
Pinker e Jackendoff potrebbero essere le modalità con le quali gli esseri umani apprendono la
parole. Occorre fare un passo indietro, e vedere come Hauser, Chomsly e Fitch trattavano
l’apprendimento delle parole. Naturalmente riconoscono che l’apprendimento delle parole in un
essere umano ha delle caratteristiche molto specifiche e delle peculiarità che lo differenziano da
altri esseri umani (es. velocità, ritmo, il fatto che la maggior parte delle parole che impariamo non
sono associate con specifiche funzioni ma sono acquisite in assenza dell’input diretto – gli animali
invece comunicano solo in risposta a stimoli esterni). Anche loro quindi notano che
l’apprendimento delle parole ha caratteristiche molto particolari, ma guardando la conclusione alla
quale giungono loro, ovvero che i bambini della specie umana governano più meccanismi cognitivi
generali per riportare alla mente le parole, si capisce che per essi la formazione del lessico sarebbe
legata a quelli che sono in generale i meccanismi della memoria attraverso cui gli essere umani
interiorizzano e categorizzano esperienze e sono capaci di richiamarli alla memoria quando serve.
Per essi infatti la memoria non fa nemmeno parte della facoltà di linguaggio in senso ampio, ma sta
in tutta quella dotazione umana che non è completamente parte del linguaggio, per loro
l’acquisizione delle parole non è altro che l’applicazione particolarmente sofisticata di meccanismi
che presiedono a tante altre funzioni cognitive dell’essere umano, ovvero apprendiamo le parole
così come memorizziamo e riportiamo alla mente tutte le esperienze che ci circondano.
Pinker e Jackendoff invece mettono in evidenza come memorizzare parole non sia la stessa cosa che
memorizzare oggetti, volti, esperienze o cose con cui l’essere umano entra in contatto. Essi notano
che rispetto a tutto ciò che può essere memorizzato, le parole hanno delle loro specificità, non sono
solo dei nomi usati per definire delle cose. Queste loro specificità si manifestano nel modo in cui
una parola può combinarsi con altre parole; quando impariamo una parola non impariamo solo ad
associarla ad un referente esterno, ma anche che ad es. la parola zaino può essere associato sia al
referente ma anche ad altre parole es. aggettivo e articolo che dovranno prendere la forma del
maschile singolare. Non si acquisiscono solo le proprietà paradigmatiche ma anche quelle
sintagmatiche (imparare una parola non vuol dire solo imparare un segno ma anche capire come
questo si collega sull’asse del sintagma ad altri segni).
Pinker e Jackendoff notano inoltre che molte delle classi di parole, come articoli o verbi ausiliari,
raramente compaiono in isolamento nell’input che noi riceviamo, ma compaiono sempre insieme a
qualcun altro. Per questo si capisce che imparare le parole non è solo un’operazione mnemonica,
ma ci sono anche delle regole sintattiche attraverso le quali le varie parole possono combinarsi tra di
loro.
Pinker e Jackendoff concludono dicendo che visto il ruolo che la capacità di analisi sintattica
richiede nell’acquisizione delle parole è difficile vedere come le parole possano essere estrapolate
dalla facoltà del linguaggio in senso stretto e messe in un campo più generale.
Entrambi sono autori di scuola generativista, riconoscono l’importanza della sintassi rispetto agli
altri aspetti della lingua, quindi da questo punto di vista si inseriscono in questo approccio, ma
proprio in ragione del fatto che la sintassi è coinvolta in maniera così stretta nell’acquisizione delle
parole, anche il modo in cui vengono apprese le parole è una specificità talmente legata alla lingua
che deve essere per forza inserita nel linguaggio in senso stretto.
Ancora legati a questa centralità della sintassi, i due autori continuano nell’individuare all’interno
della facoltà di linguaggio in senso stretto un qualcosa che pur linguistico in senso stretto, non
coinciderebbe con la ricorsività. Dicono cioè che ci sono meccanismi sintattici che non sono
ricorsivi, alcune strategie sintattiche usate frequentemente nelle lingue non hanno carattere
ricorsivo. Potrebbe esserci quindi qualcos’altro.
Seguendo la loro argomentazione, la sintassi impiega almeno 4 diverse strategie combinatorie con
cui mette insieme le singole parole per creare dei sintagmi:
1. quella che ordina le parole in una gerarchia all’interno dei sintagmi (‘HCF’, ovvero quella che
Hauser, Chomsky e Fitch riconoscono come ricorsività= possibilità di concatenare in una sequenza
gerarchica tutta una serie di elementi)
2. l’insieme delle regole che consentono di tradurre quest’ordine gerarchico tra elementi in un
ordine lineare, specificando che in alcune lingue la testa deve precedere il modificatore o lo deve
seguire ecc. (‘Regole di traduzione da ordine gerarchico o ordine lineare’
3. ci sono meccanismi sintattici, regole che servono a ordinare, che non hanno natura ricorsiva,
come accordo e reggenza. Instaurano relazioni di ordine sintattico che, nel caso dell’accordo, ci
dicono che tutti i modificatori di un certo nome devono essere accordati con la testa che il
modificatore modifica. La reggenza, semplificata attraverso le marche di caso, in base alle funzioni
che il verbo assegna ai propri argomenti, queste funzioni dovranno essere marcate con specifiche
marche di caso ecc. accusativo, dativo... non sono di tipo ricorsivo come ad esempio la capacità di
una relativa di incastrarsi dentro un’altra fino a formare una catena potenzialmente infinita. Pinker e
Jackendoff sostengono che almeno questi altri due aspetti, pur essendo parte della facoltà di
linguaggio in senso stretto, non si esauriscano nella ricorsività.
4. Nella facoltà di linguaggio in senso ampio potrebbe esserci qualcosa che non è condiviso con gli
altri animali, diversamente da Chomsky. Chiamano in causa un aspetto che ha a che fare con la
produzione del linguaggio, ovvero la vocalizzazione, che sarebbe dal punto di vista evolutivo lo
sviluppo del sistema che l’essere umano ha sviluppato per produrre i suoni del linguaggio. Da
questo punto di vista HCF credono che l’abbassamento della laringe, ovvero il tratto anatomico che
consente la produzione di un’ampia gamma di suoni, non sia stato in partenza sviluppato e
selezionato come vantaggio evolutivo per la produzione del linguaggio ma per la ‘size
exaggeration’, ovvero per dare l’impressione nella competizione tra diversi membri della specie di
avere una stazza più grande rispetto all’avversario.
Pinker e Jackendoff riprendono queste loro affermazioni e dicono che sì, alcune specie hanno
evoluto un apparato vocalico particolarmente raffinato, ma non sono antenati diretti dell’essere
umano, anzi, negli antenati diretti dell’essere umano le capacità di produzione vocale sono assai
ridotte. Quindi il fatto che specie come gli uccelli canori abbiamo sviluppato queste capacità
vocaliche raffinate potrebbero essere degli sviluppi analoghi, ma non omologhi. Quella dell’essere
umano potrebbe tranquillamente essersi sviluppato in parallelo.
Dal punto di vista fisiologico e neurologico, Pinker e Jackendoff fanno notare che rispetto alle altre
‘apes’ (tutte le grandi scimmie’) e agli ominidi pre-sapiens, gli esseri umani moderni hanno una
regione del midollo spinale più ampia per il controllo volontario della respirazione finalizzata alla
produzione di suoni del linguaggio e anche un maggior controllo corticale a livello volontario
sull’articolazione e sulla respirazione. Da un punto di visto della dotazione neurologica siamo
quindi di fronte a qualcosa di abbastanza specifica nell’essere umano che pur non rientrando nella
facoltà di linguaggio in senso stretto (apparato respiratorio, digerente…) sarebbe comunque
qualcosa di specificamente umano. Gli altri primati hanno per lo più controllo sub-corticale
(reazione prodotta in maniera involontaria su stimolo di un input). Pinker e Jakobson Dicono che
anche se la vocalizzazione non è stata per quello selezionata inizialmente, sicuramente il fatto che in
fasi successive sia stata mantenuta come tratto vantaggioso per qualche scopo (per mantenere il
linguaggio) vuol dire sicuramente qualcosa.
Da questo punto di vista fanno notare che le prove a sostegno del fatto che la laringe abbassata sia
stata recentemente abbassata per la parola è più forte del fatto che fosse originariamente stata
pensata per la ‘size exaggeration’. Inoltre fanno notare che la ‘size exaggeration’ era
originariamente pensata per scontri tra maschi adulti, mentre ora il tratto della laringe abbassata è
presente anche nelle donne e nei bambini fin dai tre mesi di età, quindi a una serie di individui che
non sono coinvolti nella competizione tra maschi adulti per l’accoppiamento. Se prendiamo in
considerazione il tratto della gravità della voce, che conferisce l’impressione della size
exaggeration’, questa invece si manifesta solo nella pubertà degli individui di sesso maschile, ma la
laringe abbassata è appunto presente in tutti gli individui già dai primi tre mesi di vita e non svolge
più nell’essere umano quindi questo compito.
Inoltre, l’abbassamento della laringe non è venuto in isolamento ma insieme ad una serie di
modifiche che hanno caratterizzato il sistema respiratorio dell’apparato digerente umano. Il tratto
sopra laringale nell’uomo non è più ampio di quello di un primate della nostra stessa stazza; è vero
che la laringe si è abbassata nell’essere umano, e che quindi si è creato più spazio, ma al tempo
stesso la protusione del muso degli altri primati nell’essere umano si è ridotta, e quindi lo spazio per
produrre suoni non si è quindi in realtà allargato.
Secondo questi due autori quindi, anche in domini coinvolti in maniera più periferica nella
produzione del linguaggio (apparato respiratorio e digerente) è possibile riscontrare sviluppi
evolutivi tipicamente umani non condivisi da altri primati. L’uomo ha qualcosa di non solo
quantitativamente diverso, ma anche qualitativamente diverso. Rilevano quindi che la facoltà del
linguaggio in senso stretto include altro rispetto alla riscorsività, e aggiungono che essa può non
essere l’unica componente specificamente umana del linguaggio, ma anche ambiti meno
direttamente coinvolti possono avere nell’uomo caratteristiche che lo distinguono da tutti gli altri
primati – in particolare quelli legati alla vocalizzazione (la nostra dotazione anatomica si sarebbe
sviluppata secondo modalità non condivise con le altre specie animali).
Pinker e Jackendoff insinuano, in maniera anche un po’ maligna, quali siano le ragioni dell’ipotesi
di Chomsky, e dicono esplicitamente che pensano che la sua ipotesi serva per giustificare e dare una
motivazione di ordine evolutivo al più recente programma minimalista proposto da Chomsky.
Se noi andiamo a vedere le parole con cui Chomsky in ‘The minimalist programme’ (1995)
definisce questa nuova ipotesi di ricerca, vediamo che calzano molto con la facoltà del linguaggio
che emerge dal lavoro firmato con Hauser e Fitch. Nel suo libro si legge che c’è un unico sistema
computazionale (CHL) che caratterizzerebbe il linguaggio umano, e il grosso della variazione tra le
lingue sarebbe riconducibile alla morfologia. Dice che questo sistema di regole si baserebbe su due
operazioni, *merge and move, ovvero combinare insieme elementi diversi e dislocarli in diverse
posizioni lungo l’ordine lineare, e per rendere conto della variazione in ambito morfologico e di
come questo sistema di regole dialoghi poi con quello semantico, pragmatico, sintattico, dice che
questo sistema cognitivo interagirebbe solo con due sistemi esterni: sistema dell’articolazione e
della percezione e il sistema dei concetti e delle intenzioni attraverso due interfacce: forma fonetica
e forma logica. È esattamente la descrizione del modello di evoluzione del linguaggio che emerge
dalle affermazioni di alcuni anni prima di Chomksy e con cui proponeva il modello minimalista.
*Merge: operazione attraverso cui all’interno di un singolo elemento vengono fuse info diverse (la
forma flessa del verbo unisce molte info in un solo elemento. Move: regole di movimento che ci
dicono che l’ordine lineare finale non necessariamente rispecchia l’ordine con cui le info sono state
elaborate, ma le posizioni possono poi essere ri-dislocate (es. attraverso pronomi).
La facoltà del linguaggio in senso stretto corrisponderebbe al sistema computazionale fondato sulle
regole riconducibili al merge and move.
L’idea del linguaggio, in particolare della sintassi come sistema computazionale, è un grande
classico della terminologia generativista, che ha sempre parlato di regole di elaborazione e
computazione, c’è dietro l’idea della facoltà del linguaggio come sistema di calcolo, non per niente
da una parte il generativismo si basa su un sistema di corrispondenze binarie. È quasi nelle origini
del generativismo stesso.
Fitch, Hauser e Chosmky rispondono poi a Pinker e Jackendoff nel giro di pochi anni,
sostanzialmente avanzando l’idea che le obiezioni mosse da Pinker e Jackendoff non inficerebbero
quello che è il modello precedentemente proposto da loro tre. Gli ultimi due non hanno sovrapposto
i due domini, ma hanno solo detto oltre la ricorsività potrebbe non essere l’unico elemento della
facoltà di linguaggio in senso stretto e che in quella in senso ambio potrebbe esserci qualcosa di
tipicamente umano.
Fitch, Hauser e Chomsky capiscono che difficilmente si potrà arrivare ad una soluzione empirica
per mancanza di dati, ma solo a una soluzione di tipo teorico, ovvero vagliare sul piano teorico la
maggiore o minore attendibilità di una o dell’altra ipotesi. La questione non è quindi risolta, non si
fa altro che porre nuove questioni, non è neanche la prima volta che ci si interroga sul problema
dell’origine del linguaggio e sul problema strettamente connesso dell’origine dell’uomo.
Ovviamente oggi esso viene fatto con apparati più sviluppati, ma vale la pena ricordare che quando
si è parlato in modi che a noi oggi farebbero sorridere dell’origine del linguaggio (chiedersi in che
lingua Dio parlava con Adamo ed Eva) si è sempre fatto in modo molto serio, sono questioni su cui
di discute da millenni.
09.10 SLIDE 3
Categorie linguistiche: tutte quelle classi in cui facciamo rientrare i fenomeni linguistici che via via
analizziamo (nome, verbo, fonema, parola ecc.). Cercheremo di capire come sono strutturate al
proprio interno queste categorie. È una questione che si riallaccia immediatamente al dibattito
illustrato nelle altre lezioni: abbiamo infatti parlato di sistema della categorizzazione (capacità
dell’essere umano di crearsi una rappresentazione concettuale della realtà), che H.C.F. hanno
incluso nella facoltà del linguaggio in senso ampio. Bisogna cercare di capire se le categorie
linguistiche siano strutturate al proprio interno così come sono strutturate tutte le altre categorie
cognitive con le quali l’essere umano organizza la realtà o se abbiano delle specificità. Ovviamente,
le conseguenze sono ben diverse in un caso o nell’altro. Se le categorie linguistiche hanno caratteri
che le altre categorie cognitive non hanno, si va più verso l’ipotesi generativista della facoltà del
linguaggio come qualcosa di estremamente specifico che non ha niente in comune con le altre
capacità cognitive dell’essere umano. Se esse dovessero invece essere come qualsiasi altra
categoria cognitiva, vireremo verso una prospettiva cognitivista secondo cui la facoltà del
linguaggio si fonda in generale su tutte le capacità cognitive dell’essere umano.
Se dovessimo cercare di capire che cosa significa categorizzare, una definizione abbastanza
comprensiva e generale è quella data nel libro di Croft and Cruse (edizione originale del 2004).
Secondo quest’opera, categorizzare è una delle attività cognitive umane più basiche e fondamentali,
ed ha a che fare con l’acquisizione di una qualche entità singola individuale come manifestazione
appartenente a una classe di entità più ampia e generale. Di fatto una categoria è una
rappresentazione astratta di alcuni aspetti della realtà al cui interno facciamo ricadere tutte le
singole manifestazione concrete con cui questa categoria si manifesta. Questo non ha solo un
rilievo linguistico, noi categorizziamo qualsiasi aspetto della realtà intorno a noi. Come nasce
questa categorizzazione nella nostra mente? In base a cosa mettiamo un elemento in una categoria o
in un’altra? Perché per alcuni elementi siamo sicuri mentre per altri abbiamo delle incertezze?
Es. tutti gli alberi, nonostante le differenze che possono avere tra di loro, sono riconosciuti nella
categoria albero.
Qual è la struttura interna di queste rappresentazioni? Occorre porsi almeno tre diversi problemi,
che hanno a che fare con tre principali diversi aspetti che coinvolgono le rappresentazioni
soggiacenti alle categorie concettuali.
1. Una classe può essere rappresentata come un insieme di singoli individui (es. categoria
albero che raccoglie tutte le singole manifestazioni e esperienze che possiamo avere degli
oggetti albero).
2. Ci deve essere un limite tra una categoria e un’altra, e ogni categoria include delle
caratteristiche/proprietà/tratti e ne esclude delle altre necessarie per poter far parte di quella
categoria.
3. Non tutti gli elementi racchiusi in una categoria li assegniamo con lo stesso grado di
certezza a quella categoria (‘centralità graduata’).
La categorizzazione può però avvenire a vari livelli, possono esserci delle sottocategorie (pino,
abete, pero, melo). Possono articolarsi su livelli più o meno specifici. La categorizzazione è
un’attività inclusiva.
Il primo modello che è stato elaborato per spiegare come avviene questo tipo di attività è quello che
noi chiamiamo delle ‘categorie classiche’, non solo nel senso che ci sono state tramandate ma
anche perché è sostanzialmente il modello delle categorie mentali che aveva elaborato già
Aristotele.
Categorie classiche
La definizione di una categoria si basa su un insieme di tratti necessari e sufficienti. La presenza di
quei tratti è necessaria ma anche sufficiente per determinare l’appartenenza di un elemento a una
data categoria. È un modello utilizzato dalla ‘semantica strutturalista’ che si occupa di definire il
significato di una categoria semantica sulla base di un insieme di tratti, di scomporre un significato
in tutta una serie di elementi necessari e sufficienti a identificare quel significato.
Es. categoria di puledro ha 4 tratti: equino, +maschio, non(-)adulto, +domestico. I tratti hanno
natura binaria, o sono presenti o non sono presenti (si identificano con + o -), ma ci sono tratti in
cui non è specificato (es. equino) identificati come ‘antonymous and couples= lista ordinata e finita
di elementi antonimi, la presenza di uno esclude la presenza dell’altro. La presenza di equino
esclude automaticamente felino ecc. sono una lista finita di elementi.
Altra caratteristica delle categorie classiche è il cosiddetto ‘nesting’ (annidamento), ovvero il fatto
che un concetto subordinato, una sottocategoria, include tutti i tratti di quello sovraordinato più
quelli propri della sottocategoria.
Un modello di questo tipo ha applicazione soprattutto sul piano semantico e consente di scomporre
le categorie di significato in una serie di elementi la cui somma concorre a definire il significato
complessivo. Naturalmente, da una rappresentazione di questo tipo discendono alcune
conseguenze, prima fra tutte, in un modello di questo tipo i confini tra le categorie di questo tipo
sono discreti e rigidi grazie al fatto che è caratterizzato dal binarismo, dagli antonimi e dalla
necessarietà e sufficienza di quei tratti*. (Riscrivere meglio!)
Inoltre, è importante notare che questa definizione classica di un’entità non è una descrizione
completa della sua collocazione all’interno dell’esperienza, ma ci sono tutta una serie di
sfaccettature che non si risolvono solo nei tratti propri delle categorie (es. ho un gatto come animale
domestico, per me lui non si esaurisce in un +felino +domestico).
La rigidità dei confini delle categorie di questo tipo si manifesta prima di tutto nei casi in cui è
difficile definire una categoria in termini di tratti necessari e sufficienti.
Es. categoria gioco (Wittgenstein), prendendo in esame le attività che ciascuno di noi
categorizzerebbe come gioco non ci sono tratti e necessari e sufficienti, ma ci sono elementi che
hanno in comune solo alcuni tratti della categoria gioco. Sono le categorie a somiglianza familiare,
che non sono definite da una lista di tratti necessari e sufficienti ma basta che un elemento abbia in
comune almeno un tratto con un elemento che è già appartenente alla categoria.
Qui emergono i problemi della rigidità delle categorie classiche; un altro limite che emerge da esse
è legato al fatto che le definizioni di questo tipo in realtà possono valere in alcuni ambiti e domini
specifici dell’esperienza ma non in altri. Es. la definizione di scapolo: +maschio +adulto –sposato.
Una definizione di questo tipo è valida per quella che è l’esperienza quotidiana e corrente di
ciascuno di noi, ma se ci pensiamo le stesse caratteristiche ce l’ha il Papa, che normalmente non
viene incluso nella categoria scapolo. Questo ci dice che i confini possono essere sfumati e che ci
sono elementi che potrebbero non essere inclusi nella categoria nonostante abbiano tutti i tratti
necessari e sufficienti.
Inoltre c’è un’incapacità di cogliere l’aspetto connotativo del significato, ovvero elementi legati
alla valutazione che diamo a qualcosa. Es. +maschio +adulto –sposato. Se sostituiamo +maschio
con +femmina, il risultato è zitella (il contrario di scapolo), che non sono in realtà connotazioni
opposte, perché nella sensibilità dei parlanti zitella non è solo la versione femminile dello scapolo
ma ha delle sue connotazioni. Questi aspetti del significato connotativo non possono essere
rappresentati in una semplice rappresentazione a tratti binari ed esclusivi*.
Proprio a partire dalle riflessioni di Wittgenstein sono state create le categorie prototipiche.
Categorie prototipiche
Il primo modello risale agli anni ’70, con gli studi di Eleanor Rosch, che si occupa di semantica
lessicale, e cerca di dimostrare in quale maniera definiamo l’appartenenza di un elemento o di una
parola a una certa categoria. Le categorie prototipiche si basano sulla ‘centralità graduata’ (non tutti
i membri di una categoria stanno sullo stesso piano, alcuni sono migliori rappresentanti di altri). La
Rosch studia che alcuni parlanti hanno delle intuizioni su quali elementi sono più centrali in alcune
categorie rispetto ad altri. Es. vengono date delle categorie e degli oggetti ai parlanti, che avrebbero
dovuto votare da 1 a 10 (1 non buon rappresentante della categoria, 10 ottimo rappresentante della
categoria). Questo esperimento è stato condotto in ambito anglosassone, e ciò è rilevante perché
forse ad italiani non sarebbero venute le stesse risposte: questo ci consente di dire che le valutazioni
della GOE (goodness of exemplar) sono fortemente legate alla cultura di cui quella lingua è
espressione.
Se questo test di bontà dell’esemplare si fonda su una valutazione cosciente da parte dei parlanti, il
passo ulteriore è stato notare che ciò che i parlanti esplicitamente percepivano come più
rappresentante di una categoria manifestava una serie di proprietà e tratti che sono gli ‘effetti di
prototipicità’. La centralità di un esemplare rispetto alla categoria di appartenenza è
significativamente correlata a una serie di proprietà indipendenti. Prima fra tutti gli elementi più
centrali di una categoria sono quelli più frequenti e quelli che nell’ordine di menzione sono i primi
che vengono in mente quando pensiamo a una data categoria (es. frutta i primi elementi che
vengono in mente sono mela, pera, banana ecc. e sono anche quelli più frequenti). Gli elementi più
centrali sono anche i primi che vengono appresi, e sono inoltre quelli che hanno tra loro un grado
maggiore di somiglianza familiare rispetto a quelli marginali.
Sono stati fatti poi altri test come quello della velocità, in cui sono stati dati dei nomi di categoria e
dei potenziali elementi (es. frutta / mela) ed è stato chiesto: ‘la mela è un frutto?’ la risposta sì è
molto più rapida della risposta alla domanda ‘l’ananas è un frutto?’ o ‘l’oliva è un frutto?’.
Un altro test che viene fatto è quello del ‘priming’, o prova della scelta lessicale. Vengono mostrate
ai parlati delle sequenze di lettere e gli si chiede se quello che gli viene mostrato è una parola o no;
se prima di chiedere se la sequenza ‘penna’ è o no una parola gli si mostra la parola ‘pennarello’, la
risposta sarà molto più veloce. Se io invece mostro la parola ‘telecomando’ e poi quella ‘penna’, la
risposta sarà un po’ più lenta, perché appunto la parola ‘telecomando’ non attiva gli stessi modelli
di riconoscimento di ‘penna’.
Tutte queste caratteristiche legate all’apprendimento e a test psicolinguistici indicano che
effettivamente quegli elementi che il parlante riconosce come membri centrali di una certa
categoria sono effettivamente più riconoscibili e rappresentativi della categoria stessa rispetto a
tanti altri.
Questi tipi di test possono essere fatti su categorie di natura più astratta: es. categoria ‘nome’. Non
tutti gli elementi della categoria nome sono sullo stesso piano, ma quelli che vengono in mente per
primi sono più o meno per tutti gli stessi e sono poi anche quelli che vengono appresi per prima
come abbiamo già detto, e sono quelli che risponderebbero meglio al test di velocità. Alcuni
elementi sono quindi più prototipici di altri.
Una riflessione sulle categorie prototipiche è quella sulla relazione tra il criterio che abbiamo detto
della bontà dell’esemplare e il suo grado di appartenenza; noi finora li abbiamo usati come
sinonimi, ma Croft and Cruse pongono il problema.
Prendiamo ad esempio lo struzzo rispetto alla categoria uccello: Il grado di appartenenza dello
struzzo alla categoria è alto, perché appartiene pienamente alla categoria, mentre per quanto
riguarda la GOE, non è il primo tipo di uccello che verrebbe in mente. Da qui i due dicono che i
due parametri dovrebbero essere indipendenti l’uno dall’altro. Ma questo problema vale solo in
alcuni ambiti e di questo se n’era già accorto Taylor, che distingue tra le categorie popolari e quelle
per esperti es. per la categorizzazione popolare di tutti i giorni, lo struzzo manca di alcuni dei tratti
che identificano in maniera più evidente un uccello (non vola), ma per un ornitologo uno struzzo è
un uccello a tutti gli effetti.
In quella che è la nostra rappresentazione concettuale però, le valutazioni di tipo binario SI/NO il
più delle volte coesistono con valutazioni basate sulla gradualità dell’appartenenza, es. la lavagna è
bianca e non è nera (giudizio binario) ma allo stesso tempo è + bianca rispetto a un telo del
proiettore (giudizio graduale).
Due sono sostanzialmente i modelli di categorie prototipiche proposte. La differenza con la
categorizzazione classica è che gli attributi di una categoria non sono necessari e sufficienti
(abbiamo elementi più centrali, quelli prototipici, che condivideranno più tratti, mentre quelli più
marginali ne condivideranno solo una parte). Un modello di questo tipo ci consente di
rappresentare la centralità graduata, che è infatti direttamente proporzionale al numero di elementi
che l’elemento condivide con il prototipo (+ tutti condivide, + è prototipo). La rilevanza o meno di
un tratto si valuta in base a se la sua presenza incrementa o meno la centralità dell’elemento, ma in
modello di questo tipo può darsi che il prototipo non si realizzi concretamente in nessuno degli
elementi, che nessuno degli elementi condivida tutti i tratti che la condividono: il prototipo rimane
così la rappresentazione astratta del centro della categoria all’intorno del quale tutti gli elementi
della categoria si posizionano.
Vediamo inoltre due applicazioni più strettamente linguistiche, perché definito che cos’è una
categoria prototipica e visto che la categorizzazione come facoltà cognitiva umana risponde a
effetti di prototipicità, cominciamo a vedere perché un modello di questo tipo ci può servire per lo
studio e l’analisi delle categorie linguistiche.
Tutti siamo d’accordo nel dire che quella del nome è una categoria entro la quale rientrano tutta una
serie di parole che noi identifichiamo come nomi ma non quelle che definiamo come verbi. Se
dovessimo definire i tratti prototipici della categoria del nome (si è arrivati a definirli nel corso del
tempo) vedremo che coinvolgono semantica, pragmatica, sintassi e morfologia.
NOME
-Proprietà semantiche: i nomi denotano entità temporalmente stabili, ovvero che non mutano nel
corso del tempo e tenderanno a rimanere uguali a loro stesse (es. pennarello VS. i verbi denotano
movimento, azione, mutamento). Denotano inoltre entità numerabili, concrete, tridimensionali…
-Funzione discorsiva: serve a introdurre un referente all’interno del discorso, ciò di cui si sta
parlando
-Morfologia: il nome si flette per genere, numero, se c’è sistema causale si flettono per caso
-Sintassi: non ha struttura argomentale.
All’interno della categoria del nome ci sono elementi che hanno tutte queste caratteristiche, primi
tra tutti i nomi comuni di cosa (sono i nomi prototipici, e sono tra i primi elementi che vengono in
mente se si pensa a un membro della categoria nome). Ci sono sempre inclusi in questa categoria
ma come elementi marginali, nomi che dal punto ad es. che dal punto di vista semantico denotano
proprietà astratte, e che quindi sono meno centrali. Spesso non sono nemmeno pluralizzabili.
Abbiamo poi i nomi che derivano da verbi che invece reggono strutture argomentali (distruzione
la distruzione di Roma da parte dei barbari: ha una struttura che regge degli argomenti), ma non
sono appunto i primi che verrebbero in mente come rappresentanti della categoria nome. In
funzione degli stessi livelli di analisi che abbiamo usato per definire i prototipi della categoria
nome, possiamo definire la categoria verbo.
VERBO
-Proprietà semantiche: denota mutamenti di stato e processi dinamici
-Funzione discorsiva/pragmatica: ha funzione predicativa, predica qualcosa rispetto al referente che
è stato introdotto
-morfologia: si flette per tempo, modo, persona…
-sintassi: ha una sua struttura argomentale
Forme verbali prototipiche saranno quindi le forme finite dei verbi transitivi es. mangio, mentre
‘aspettando’ manca di alcuni elementi propri della prototipicità e sono quindi meno centrali
all’interno della categoria. Ad esempio non sono compatibili con la perifrasi stare + gerundio (sta
stando in piedi, sta essendo malato…). All’interno degli stessi paradigma ci sono comunque forme
più centrali e altre meno.
10.10 SLIDE 4
Le categorie di verbo e nome hanno valenza universale, sono riconosciute in tutte le lingue.
L’aggettivo non è tra le classi universali.
«La grammatica universale permette l’esistenza di certe categorie lessicali, basicamente quattro:
verbi (V), nomi (N), aggettivi (A) e adposizioni (P – preposizioni e posposizioni, a seconda che
precedano o seguano i loro complementi). Queste categorie probabilmente sono dotate di una
struttura interna, ma lasciamo questo tema da parte.»
N = [+N -V]
V = [-N +V] vengono considerati sempre in funzione della presenza o
A = [+N +V] assenza di tratti verbali e nominali
P = [-N -V]
Sul fatto che nome e verbo siano riconosciute come classi lessicali universali c’è accordo più o
meno generale tra i linguisti. In un approccio abbastanza distante dal generativista (quello
tipologico) si è giunto a soluzioni analoghe, tanto da postulare un esistenza di un continuum nome
verbo; queste due sarebbero quelle universali per tutte le lingue, mentre tutte le altri classi di parole
si organizzerebbero lungo un continuum combinando diversamente i tratti tipici del nome e del
verbo.
Una delle 4 classi lessicali maggiori che ha suscitato notevole interesse è quella degli aggettivi.
Essi hanno una loro specifica funzione dal punto di vista comunicativo che nomi e verbi non
hanno; l’aggettivo ha la funzione pragmatico, ovvero è un modificatore. Questa funzione non può
essere assunta da nessuna delle altre due classi. Non è però una funzione così saliente da far sì che
esso possa costituire una classe di parole universale. Il lavoro di riferimento per lo studio tipologico
degli aggettivi e quello di Dixon (edito nel ’77 e ristampato in una raccolta di saggi successiva) che
si intitola ‘Dove sono andati tutti gli aggettivi?’. In apertura egli nota come non tutte le lingua
abbiano aggettivi tra le classi maggiori; o non ce l’hanno o ne hanno una classe minore (così come
articoli in italiano), ovvero ristretta, non produttiva (che non può acquisire nuovi elementi) e
limitata a un paio di decine. La prospettiva tipologica ci mette quindi di fronte a situazioni che noi
parlanti e studianti lingue indoeuropei non siamo abituati a pensare. Dixon ha cercato di
individuare quali fossero le funzioni ascrivibili agli aggettivi, posto che sono dei modificatori e
modificano nomi o predicati in certi dialetti. Esprimono delle qualità ma in particolare codificano 7
tipi semantici fondamentali (forme di base, no derivati a partire da nomi, suffissi, verbi o aggettivi).
È un repertorio abbastanza circoscritto:
-dimensioni (grande, piccolo, lungo, corto, alto, basso, stretto largo…)
-proprietà fisiche (pesante, leggero, ruvido, liscio, morbido, duro, caldo, freddo…)
-colori (bianco, nero, rosso, blu, verde, giallo…)
-carattere (geloso, felice, cortese, intelligente)
-età (giovane, vecchio)
-valore (buono, cattivo)
-velocità (lento, veloce)
Dixon ha cercato di prendere in esame su un campione di 17 lingue, per capire come queste qualità
siano categorizzate e classificate attraverso aggettivi. Il campione di Dixon raccoglie tre tipi diversi
di lingue rispetto all’avere o non avere categoria di aggettivo:
-lingue in cui la classe degli aggettivi è una classe aperta e produttiva (Italiano, Inglese, Dyirbal –
lingua molto studiata da Dixon, che specifica che normalmente in questa lingua gli aggettivi non si
flettono, solo quello che indica grande…)
-lingue in cui la classe degli aggettivi è assente (Iurok, Samoano) che esprimono i concetti
aggettivali attraverso dei verbi
-lingue in cui la classe è presente ma ristretta e non incrementabile, sono 13 lingue (lingue africane
come Swahili, Luganda etc., lingue di origine di Papua Nuova Guinea…). Per queste lingue Dixon
ha cercato di vedere quali dei 7 tipi semantici vengono codificati; se tutti sono presenti o se queste
lingue, avendo pochi aggettivi, codifichino solo alcuni tipi semantici.
-Swahili: velocità, dimensioni, valore, età, colori (solo 3- bianco, nero, rosso).
-Luganda: la maggior parte dei concetti che indicano una disposizione umana sono espressi
attraverso dei nomi, così come alcuni dei concetti che descrivono proprietà fisica, espressi anche
attraverso verbi. C’è un avverbio per la velocità.
N.B.: quando ci si occupa di questo tipo di analisi, vengono messe a confronto lingue distanti tra
loro, non simili.
Se guardiamo i 7 tipi semantici che possono essere espressi dagli aggettivi, vediamo che le varie
lingue non li codificano tutti con la stessa frequenza e alla stessa maniera; quelli che più trovano
espressione sono valore, età, colore e dimensioni. Un po’ meno proprietà fisiche, velocità e
atteggiamenti caratteriali. Ciò vuol dire che le lingue lessicalizzano sono alcuni di questi 7 tipi
semantici, si possono identificare dei vincoli tipologici rispetto alla lessicalizzazione delle qualità
nella classe degli aggettivi. La gerarchia tipologica che emerge dal lavoro di Dixon è che ci sono
delle qualità più ‘basiche’ rispetto ad altre, che anche nelle lingue che hanno pochi aggettivi
vengono comunque codificate, ovvero dimensione, valore, età, colore (almeno 3). Le lingue che
hanno pochi aggettivi codificano per lo meno queste qualità. Il meno codificato è la velocità, spesso
espressa con avverbi.
L’analisi del 3° gruppo di lingue ci consente quindi di capire quali sono quei tipi semantici di
aggettivi che fanno parte di più o meno tutte le lingue: sulla base di un vincolo tipologico, questo è
un primo indizio per dirci che l’aggettivo prototipico esprimerà dimensione, valore, età o colore.
Possiamo anche leggere con una gerarchia implicazionale, dicendo che se una lingua codifica la
velocità attraverso gli aggettivi, allora avrà aggettivi anche per tutti gli altri tipi semantici. Se ne ha
per indicare una proprietà fisica, allora avrà aggettivi anche per quei 4 tipi semantici ‘basici’.
La funzione prototipica che svolte l’aggettivo è di codificare questi 4 tipi semantici: gli aggettivi
prototipici sono quelli che indicano valore, età, colore e dimensione.
Queste conclusioni possono essere tratte anche da un’indagine intralinguistica; vedere ovvero come
all’interno della stessa lingua si comportano gli aggettivi che codificano i diversi tipi semantici.
Prendendo un lingua non presa in esame da Dixon, quella parlata nelle isole Fiji, possiede una
classe di aggettivi aperta e produttiva (ha i 7 tipi semantici). Ci dà però anch’essa un indizio che ci
fa capire che alcuni tipi sono più centrali di altri: pur avendo tutti e 7 i tipi solo alcuni di essi
codificano la distinzione tra singolare e plurale. Questa lingua rispetta l’esito di prima, perché
quelli che flettono sing. e pl. corrispondono infatti ai 4 tipi semantici sopra.
Qualcosa di simile viene analizzato nella lingua Alcooli, in cui gli unici aggettivi che conoscono la
flessione sing. e pl. sono dimensioni, età, valore e colore.
Ciò ci dice che anche la categoria dell’aggettivo, non essendo universale, ha una propria
articolazione interna. Gli elementi che caratterizzano questa categoria non sono tutti sullo stesso
piano, alcuni rappresentano il prototipo dell’aggettivo e all’interno delle singole lingue ammettono
un comportamento che gli altri tipi non ammettono. Questa capacità di flessione tra sing. e pl. viene
chiamata ‘potenziale flessivo’, ed è una delle caratteristiche degli elementi più basilari e prototipici.
Un altro aspetto che Dixon prende in considerazione parlando di ciò che può o non può essere
codificato come aggettivo, sono quelle qualità che denotano delle condizioni temporanee che
possono essere acquisite a seguito di un processo. La diversa maniera in cui le lingue codificano
queste qualità e condizioni, rivela un parametro di classificazione tipologica di una certa
importanza per distinguere tipi linguistici diversi. Prendiamo in esame le coppie di opposti che
abbiamo nella lingua italiana: se prendiamo qualità inalienabili di un certo elemento, tanto uno
quanto l’altro elemento della coppia sono espressi da aggettivi. Non così per quello che riguarda
quelle qualità che denotano uno stato o una condizione transitoria raggiunta con un processo: es.
crudo / cotto, il secondo è participio di cuocere così come vivo / morto, integro /rotto.
In realtà ci sono lingue che anche quei tipi di qualità (stati transitori, condizioni temporanee) le
esprimono attraverso aggettivi, come il Dyirbal, che esprime entrambi gli elementi della coppia con
aggettivi. Queste sono le lingue che Dixon chiama ‘a dominanza aggettivale’, in cui tutte le qualità
sono espresse tramite aggettivi. Il caso opposto è quello delle lingue ‘a dominanza verbale’, in cui
non solo le qualità che denotano stati raggiunti come un processo sono espressi da verbo, ma anche
qualità inerenti sono espresse da aggettivi o verbi. Ci sono poi una serie di lingue chiamate ‘neutral
languagues’, dove le qualità e le condizioni inalienabili sono classificati con aggettivi, mentre nelle
coppie di opposti la qualità che deriva da un processo è espressa con un participio.
L’aggettivo, pur non essendo quindi una delle classi universali, rappresenta quello che è un
prototipo tipologico; è comunque sia una classe di parole che assolve a una funzione comunicativa
precisa, quella di indicare cioè una certa qualità.
Croft, nel suo approccio di tipologo che tiene in considerazione molti fattori diversi, si rende conto
che combinando i 3 tipi semantici fondamentali che abbiamo nella prima colonna (oggetti,
proprietà e azioni), con quelle che sono 3 funzioni discorsive fondamentali (referenza,
modificazione e predicazione) si ottengono delle corrispondenze privilegiate che tendono ad essere
lessicalizzate nelle lingue in una propria classe di parole. Ad esempio, i significati di tipo semantico
degli oggetti tendono ad associarsi alla funzione discorsiva della referenza (quando parlo di un
oggetto introduco un nuovo referente all’interno di un discorso). La combinazione del tipo
semantico legato all’oggetto con la funzione discorsiva della referenza è ciò che le lingue
lessicalizzano tipicamente come nome (nome non marcato –Croft). L’azione tipicamente riguarda
un oggetto, quindi ha funzione predicativa perché dice qualcosa relativamente all’oggetto; la
combinazione tra tipo semantico e funzione della predicazione è quella che viene lessicalizzata
come verbo. L’aggettivo codifica una proprietà e svolge la funzione discorsiva di modificatore di
un referente. Naturalmente le lingue possono tranquillamente esprimere un’azione come se fosse un
referente (introdurre un’azione come introdurremmo un oggetto), ad esempio usando forme
nominali del verbo derivate o forme come l’infinito e i gerundi. Le azioni possono fungere anche
da modificatori rispetto a un referente utilizzando participi; ma se noi utilizziamo forme meno
prototipiche, associando un certo tipo semantico a una funzione che non è quella tipica, bisogna
usare costruzioni sintattiche più articolate e complesse.
Queste tre classi di parole lessicalizzano tre tipi semantici e tre funzioni discorsive fondamentali.
16.10 SLIDE 5
Categoria del nome: struttura prototipica. Diversamente dal metodo di Dixon, all’interno della
singola lingua con un’analisi puntuale e precisa, analizzeremo come possono comportarsi
diversamente elementi che tutti concorderemmo a inserire nella categoria dei nomi. In particolare,
sui ‘nomi leggeri’ (Simone). (‘verbi leggeri’= ausiliari o modali, verbi che non apportano
significato lessicale autonomo ma un’informazione). I nomi leggeri sono appunto quelli che non
apportano contributo di ordine semantico/lessicale ma tratti grammaticali relativi soprattutto a
intensione, estensione e quantificazione. Il criterio con il quale Simone classifica questi nomi è la
cosiddetta ‘forza referenziale’; nel definire questo concetto possiamo dire che è un parametro
semantico – già nelle prime formulazione la definisce come grado di intensità di referenza di un
nome. Sono nomi con maggior forza referenziale i nomi di entità definite, numerabili, fisiche,
ostensibili. Hanno invece minor forza referenziale i nomi collettivi o astratti. In una seconda
formulazione riformula in parte il concetto facendo riferimento alla ricchezza del nome in termini
di tratti intenzionali (intenzionalità fa riferimento al numero di tratti semantici che lo definiscono,
più un nome è definito da tratti semantici maggiore è la sua forza intenzionale. Diminuendo i tratti
intenzionali, il nome diventa sempre più generico. Il cane/il cane nero/il vecchio cane nero/ il
vecchio cane nero del mio vicino e ne riduco l’intenzionalità). Lui stesso precisa che anche i nomi
astratti potrebbero essere ricchi di tratti intenzionali, e ritorna quindi verso la prima definizione di
‘forma referenziale’ data in prima battuta.
I nomi prototipici (‘ultranomi’) sono quelli con più forza referenziale. È opportuno precisare che
essa non è una caratteristica assegnata a un nome una volta per tutte, ma è modulabile aggiungendo
via via modificatori o specificatori (cane).
Un altro procedimento che riduce la forza referenziale dei nomi è quello di comparire all’interno
dei composti in funzione di modificatore: water – water-supplies, non mi riferisco più all’acqua ma
a riserve d’acqua (la testa è supplies). La referenzialità di acqua è quindi ridotta.
Nomi leggeri – la loro caratteristica è quella di ricorrere in posizione di primo nome all’interno di
una costruzione sintattica in cui ci sia il nome leggero (N1 introdotto da un determinante – articolo
o quantificatore) seguito da una preposizione e da un altro nome. Ad esempio, i nomi tassonomici:
‘tipo’ – un tipo di birra. Naturalmente, tutti i nomi possono ricorrere in questo tipo di costruzione,
ma c’è una differenza: un cane di razza = struttura identica ma c’è una differenza nell’elemento che
dà il significato all’intero sintagma. Un cane di razza è un cane (l’elemento che apporta il
significato al sintagma è l’N1), un tipo di birra è una birra (il nome leggero ricorre in posizione di
N1 ma non è quello che determina il significato complessivo del sintagma).
I 3 tipi di nome leggeri normalmente individuati sono:
-tassonomici: sono per lo più nomi astratti e rimandano a un insieme. Hanno la funzione di
individuare una sottoclasse all’interno di una classe dell’N2. Funzionano un po’ come modificatori,
restringendo il numero di individui a cui N2 si applica.
-approssimanti: collocano uno specifico individuo ai margini della categoria di individui denotati
da N2. È una specie di locale notturno: non è un membro particolarmente rappresentativo della
categoria locali notturni, ma sta ai margini.
-quantificatori: quei nomi che proiettano su N2 un quadro generico di quantità. Ce ne sono 2 tipi
principali:
quantificatori che si comportano come partitivi, indicano cioè una quantità precisa dell’N2
(es. unità di misura); a loro volta si dividono in partitivi generali, ovvero i nomi leggeri che
si applicano a tutti gli N2 possibili, e partitivi tipici, ovvero quelli che pongono restrizioni
sull’N2 (es. un cubetto di – può essere solo ghiaccio), tendono ad associarsi ad N2 ben
precisi.
quantificatori che si comportano come modificatori di grado, che di fronte a un nome che
rappresenta una quantità graduale, indicano una sua maggiore o minore estensione (es. un
sacco di bugie, vuol dire molte. Il nome leggero funziona come modificatore di grafo
perché indica che rispetto a una quantità ‘standard’ di bugie, queste sono di più.)
-supporto: (per analogia con i verbi supporto, ovvero quelli che non apportano significato lessicale
autonomo alla frase ma servono da supporto a un certo nome che denota l’azione descritta es.
Maria ha fatto una scelta, Maria ha scelto, non ha fatto, ma il verbo di supporto codifica il tempo, il
nome e la persona). I nomi supporto funzionano in maniera analoga, es. un colpo di telefono è una
telefonata, è N2 che descrive l’azione compiuta. La testa è il secondo elemento, l’N2. La loro
funzione semantica è quella di codificare una singola realizzazione di un qualche evento che ha a
che fare con N2. L’azione che l’N2 descrive si è già conclusa ed è un’azione pontuale e
momentanea svoltasi nel passato (aspetto perfettivo aoristico).
* Aspetto verbale: modo in cui è rappresentate l’azione dal punto di vista di chi enuncia la frase.
Distinzione principale: aspetto imperfettivo – azione rappresentata in corso di svolgimento / aspetto
perfettivo – azione vista come compiuta, finita perfettivo risultativo – le conseguenze dell’azione
permangono al momento dell’enunciazione / perfettivo aoristico – azione esauritasi senza
conseguenze sul presente. *
All’interno di questa struttura, i nomi leggeri si comportano in modo diversi, e non si comportano
come i nomi prototipici quindi non fungono da testa.
-Nomi tassonomici: un tipo di X (pasta, birra, musica…) è X; la testa semantica è l’N2, il nome
tassonomico non è in grado di essere testa semantica
-Nomi approssimanti: una specie di X (locale notturno...) è X; la testa semantica è l’N2, il nome
tassonomico non è in grado di essere testa semantica
-Nomi supporto: un colpo di telefono è una telefonata; la testa semantica è l’N2, il nome
tassonomico non è in grado di essere testa semantica
17.10 NO LEZIONE
23.10 SLIDE 5
-Nomi partitivi: la risposta può essere ambigua: un sacco di riso 1. Nel senso di sacco= contenitore:
può tranquillamente essere N1 la testa del composto 2. Nel senso di un sacco= ‘molto riso’, la testa
è di nuovo l’N2. Diverso grado di trasparenza del composto, che gioca un ruolo ancora più evidente
nel caso dei nomi supporto: se l’espressione è ormai lessicalizzata come elemento poco trasparente
es. colpo di fortuna: testa=N2, se invece è ancora abbastanza trasparente es. colpo di pistola:
testa=N1 (non è una pistola, ma è un colpo). Diventa a volte difficile distinguere i due casi; varia in
base al grado di trasparenza dell’espressione.
Per quanto riguarda chi comanda l’accordo (articoli, aggettivi ecc.) tutte e quattro si comportano
normalmente e alla stessa maniera. Qualche possibile eccezione viene segnalata per l’inglese (nel
caso degli approssimanti: those sort of jokes.
Varia molto invece l’accordo esterno (quando questo sintagma funge da soggetto di un predicato, e
il predicato deve quindi accordare o con N1 o con N2). In italiano l’alternanza in realtà è
assolutamente libera e indipendente.
-Nomi tassonomici: questo tipo di studi è interessante / questo tipo di studi sono interessanti
-Nomi approssimanti: una sorta di scherzo finito male / una sorta di scherzo finitA male = L’N1
NON PUÓ REGGERE l’accordo con il predicato
-Nomi quantificatori: alternanza nuovamente libera 1. Quantificatori come unità di misura: 1 kilo di
pasta mangiata / un kilo di pasta mangiato 2. Quantificatori come modificatori di grado: è passata
una manciata di secondi / sono passati una manciata di secondi
-Nomi supporto: sono quelli che più si comportano come i prototipici.
In questo caso, la tipologia più vicina ai nomi prototipici è il nome supporto, la più distante è quella
degli approssimanti; nel mezzo i tassonomici e i quantificatori.
NOMI TASSONOMICI
TEST anafora 0 (può quel nome essere ripreso con l’anafora 0?)
Sono stato a uno strano tipo di conferenza. È stato noioso/è stata noiosa.
TEST pronominalizzazione
Sono stato a uno strano tipo di conferenza. Quello (tipo) di lezione c’è stato ieri. NO
TEST di dislocazione
Era di conferenza lo strano tipo a cui sono stato oggi. NO
Era di letteratura il seminario a cui sono stato oggi. SI
NOMI APPROSSIMANTI
TEST anafora 0
Oggi sono stato a una specie di seminario. È stata noiosa. NO
TEST pronominalizzazione
Sono stato a una specie di seminario. Quella di lezione c’è stata ieri. NO
TEST di dislocazione
Era di seminario la specie a cui sono stato oggi. NO
NOMI QUANTIFICATORI
TEST anafora 0
Oggi ho comprato una manciata di caramelle. Era molto buona/erano molto buone. NO
TEST di dislocazione
Era di caramelle la manciata che ho comprato oggi (focalizzando le caramelle) SI (ma non a tutti
suona, è molto ambiguo)
TEST pronominalizzazione
Oggi ho comprato una manciata di caramelle. Quella di cioccolatini era più buona. NO
Se usati come modificatori di grado si comportano come i nomi approssimanti, rispondono cioè in
maniera coerentemente negativa a tutti e tre i test.
NOMI QUANTIFICATORI come modificatori
TEST anafora 0
Sono stato a un sacco di seminari. È stato noioso NO
TEST di dislocazione
È di seminari il sacco a cui sono stato NO
TEST pronominalizzazione
Sono stato a un sacco di seminari. Quello di lezioni non l’ho potuto seguire. NO
NOMI SUPPORTO
TEST anafora 0
Oggi ho avuto una crisi di pianto. È stata inarrestabile. SI
TEST di dislocazione
TEST pronominalizzazione
Rispetto alle proprietà dei costituenti, all’interno delle diverse classi dei nomi leggeri si possono
identificare comportamenti diversi. I nomi supporto sono quelli che più si comportano come i
prototipici.
I nomi prototipici hanno tutte e 4 le caratteristiche: sono la testa semantica del costrutto
determinante N1 preposizione N2, se N1 è nome prototipico ne è testa semantica, reggono
l’accordo interno e esterno ecc.
Trans-categorizzazione
La rappresentazione delle categorie come insieme di elementi con confini non netti tra di loro, fa sì
che in realtà noi possiamo trovare su elementi di una data categoria tratti che normalmente
associamo ad elementi di un’altra categoria. È possibile trovare un tratto tipicamente verbale come
il tempo anche su elementi della categoria nome (tempo nominale): questo è possibile nel momento
in cui teniamo presente una rappresentazione delle parti del discorso come un continuum di singole
categorie tra le quali non ci sono confini netti.
Studiamo il caso di una lingua degli Indiani Nord America, che ha il tempo nominale come
categoria produttiva e grammaticalizzata. Tempo nominale: morfemi che indicano che un
determinato referente era tale in un certo momento della linea temporale ma non lo è più in un altro
momento.
Primo esempio di costrutto verbale: nkǝšatǝs = io sono felice + suffisso pan nkǝšatǝ-pǝn = io ero
felice in un momento precedente, ma ora non lo sono. La morfologia verbale del tempo viene
applicata anche ai nomi. Sintagma nominale nčiman = la mia canoa + suffisso pan nčiman-pǝn =
la mia ex canoa.
In italiano noi possiamo dire che rispetto a un ministro, un ex ministro è qualcuno che aveva avuto
quella carica in passato ma ora non lo ha più, così come il futuro presidente, che non lo è al
momento ma che lo sarà in futuro; i nomi che ammettono costrutti di questo tipo sono però
sostanzialmente quelli che denotano condizioni che possono essere acquisite o anche perse. Non
potremmo mai utilizzare questi costrutti con un nome comune di cosa (es. futuro pennarello). La
possibilità di marcare il tempo nominale è quindi ristretta.
Anche il latino ha strategie che gli permettono di emulare il tempo nominale.
24.10
Altri tratti tipicamente associati al verbo ma che possono essere trovati associati al nome: aspetto
(codifica del punto di vista dell’azione), può essere codificata anche sul nome. In italiano è una
classe molto produttiva: nomi in –ata. Se dovessimo dare una definizione delle caratteristiche
semantiche che accomunano questi nomi con suffisso –ata (camminata, mangiata, cantata, bevuta),
diremmo che il nome in –ata indica un’azione in cui è realizzato un singolo atto, breve e rapido,
svolto da o tipico di X. Questo suffisso seleziona un processo non delimitato (un evento continuo) e
ne estrae una singola porzione che viene delineata. Una camminata ad es., rispetto al verbo
‘camminare’, indica una realizzazione di quest’azione circoscritta entro una certa estensione
temporale. Prevede un punto terminale dell’evento; si attribuisce al nome una qualità aspettuale e
un’azionalità tipica del verbo.
Azionalità= classi verbali definite in funzione dei tre tratti semantici (aspetto
perfettivo/imperfettivo).
Azionalità semelfattiva= così come i predicati semelfattivi sono quei predicati (come tossire,
starnutire) in cui l’azione è rappresentata come il risultato di una singola serie di eventi che si
ripetono puntualmente uno di seguito all’altro. Tossire per 5 minuti (singoli eventi che si
ripetono in sequenza) VS correre per 5 minuti (unico processo continuo per 5 minuti)
Aspetto perfettivo=azione compiuta.
La categoria dei nomi in –ata può anche derivare da altri nomi, non per forza dai verbi
(cucchiaiata). Servono anche per individuare delle azioni tipicamente compiute attraverso quei
nomi (cucchiaiata-forchettata/azione tipicamente compiuta attraverso cucchiaio-forchetta). È
talmente produttiva in italiano che si applica anche ai nomi propri (es. Cassano – era stato coniato il
termine Cassanata, un evento o un’azione tipicamente compiuta da lui). I nomi in –ata conferiscono
al nome/verbo a cui si applicano una interpretazione eventiva, ovvero descrivono un’azione
specifica che è circoscrivibile e avvenuta in un certo momento. Non ammettono interpretazione
generica (il nuoto, il nuotare è inteso come abitudine, ma ‘una nuotata’ già lascia intendere l’azione
circoscritta a un singolo evento).
SLIDE 6 Trans-categorizzazione
(Introduzione sopra). Le preposizioni sono quelle che, nelle classiche descrizioni delle
grammatiche, sono indicate come una classe chiusa. In realtà la classe può diacronicamente
acquisire nuovi elementi. Inoltre esse acquisiscono nuovi elementi proveniente dalle categorie
nome, verbo e a volte aggettivo.
Preposizioni nominali: quella che oggi è la preposizione ‘senza’ deriva in realtà dall’ablativo
‘absentia’, in mancanza o in assenza di.
Preposizioni deverbali: formatesi all’interno delle vicende stesso dell’italiano. Durante= participio
presente del verbo durare; Tranne prosegue quella che era una forma dell’imperativo che
significava ‘togline fuori’ (erano tutti presente TRANNE Mario=tirane fuori Mario). Altre derivano
da participi presenti come nonostante= non obstante, o presso= participio perfetto di premere.
Preposizioni deaggettivali: malgrado: malo grato me, ovvero ‘essendo io scontento’.
Non è una caratteristica che appartiene prettamente alla lingua italiana (es. inglese during veniva
dal verbo to dure, ago veniva dal participio agone)
Il passaggio da verbo a preposizione, come tutti i mutamenti non si attua né in un momento unico
ma si danno periodi in cui i due valori si sovrappongono e coesistono, né con l’intervento di un
unico fattore; ci sono vari fattori che devono convergere per far sì che a un certo punto una forma
verbale si distacchi e finisca nella classe delle preposizioni. Es. ‘durante questo amore’ in
Boccaccio= per il periodo in cui è durato questo amore; c’è accordo tra forma participiale e
soggetto. Nell’italiano contemporaneo si è perso l’accordo: durante i lavori, ciò vuol dire che non è
più soggetto e forma participiale, ma complemento della preposizione.
Questo rientra nel fenomeno di trans-categorizzazione: processo diacronico consistente in un
cambiamento di categoria (verbo>preposizione) di un elemento lessicale, senza alcuna codifica
esplicita superficiale (=durante ha la stessa forma di quella del durante participiale.) La
distinzione della categoria è possibile dal fatto che questo elemento sia usato nel contesto
morfosintattico non proprio della categoria di origine, ma tipico della categoria di destinazione.
2. [+/- diatesi] Opposizione di diatesi attiva e passiva: nel latino normalmente il participio presente
ha valore attivo, quello perfetto ha valore passivo, ci sono però dei casi tranquillamente in cui è il
contrario, come POTUS, CENATUS = che ha bevuto, che ha cenato. Di contro, ci sono participi
presenti con valore passivo NEGLEGENS = che trascura ma anche che è trascurato. L’opposizione
di diatesi in latino non è categorica e strutturale come può sembrare; tanto l’uno quanto l’altro
possono assumere entrambi i valori. Serata danzante = è una serata in cui si balla, cafè chantant =
caffè in cui si canta.
Uso dei participi passati con valore attivo: molto in crescita nell’italiano colloquiale‘Venite già
mangiati’. È una lettura del participio passato molto recente, che ci riconferma che il valore
diatetico del participio come unicamente passivo non è così categorico, questo perché il tratto
tipicamente verbale della diatesi è stato sviluppato dal participio solo secondariamente.
3. [+/- tempo] Participio perfetto: valore di passato, participio presente: valore di presente. Anche
questa categoria non è così netta.
Il participio non predica come normalmente fa il verbo, ma funziona piuttosto come modificatore,
sia nominale (funzione attributiva) quello che in latino si chiama participio congiunto: accordato
con un nome, normalmente soggetto o oggetto della frase e ha funzione attributiva, modifica il
nome (Mario, giunto in ritardo alla stazione, perse il treno.)
sia avverbiale (funzione di converbo= è una forma verbale non finita la cui funzione è marcare la
subordinazione di tipo avverbiale), rispetto al participio congiunto, non ha un legame e non dipende
da un elemento della frase principale, è un costrutto assoluto (il classico ablativo assoluto del
latino). È una subordinata non finita che codifica una relazione di ordine circostanziale con la
principale: ‘ricevuti gli ostaggi, ricondusse l’esercito verso il mare.’ (In questo caso, relazione di
tipo temporale).
Il participio, oltre ad avere una sua struttura argomentale come verbi e anche come preposizioni, ha
due caratteristiche non secondarie in comune con la classe delle preposizioni.
-entrambi possono svolgere modificazione avverbiale:
Considerata la sua età, è un terzino fenomenale. ~ Per la sua età, è un terzino fenomenale.
-entrambi possono svolgere modificazione nominale:
I problemi riguardanti la scuola. ~ I problemi della scuola.
Esso ne fa già una classe di per sé esposta al passaggio di categoria; perché questo accada servono
poi una serie di fattori concomitanti (infatti non tutti i participi diventano preposizioni deverbali).
Occorrono mutamenti concomitanti di ordine sintattico, come nel caso del participio passato
francese ‘visto’:
-Veue(SG.F) la deposicions(SG.F) d’aucuns tesmoins. (in TOBLER e LOMMATZSCH (1969): s.v.
deposicion: a. 1298)
-Vu(SG.M) sa charge(SG.F) énorme. (regolare dal XIII secolo in poi) (SG.F) non è più
participio, ma preposione + oggetto.
L’ordine normale dei costrutti participiali nel francese del 13esimo secolo era participio + nome;
seguendo poi l’ordine sintattico nelle frasi finite, il soggetto è stato anticipato. Ci sono però alcuni
casi che hanno fatto eccezione, dove l’inversione tra nome e verbo non c’è stata, e ha portato a
distaccarle dal paradigma verbale portando a individuarle come preposizioni deverbali. Come mai
questi non sono stati soggetti all’inversione e sono diventate preposizioni? Studi tipologici hanno
rivelato qualcosa riguardo all’origine delle preposizioni deverbali: i participi che danno origine a
preposizioni deverbali ricadono all’interno di 3 tipologie principali:
-durata nel tempo
-che topicalizzano l’evento a cui si riferiscono (riguardo a, quanto a…)
-riconducibili alla semantica dell’eccezione (eccetto, tolto…)
-Verbo prototipico: verbo dinamico i participi sono stativi, quindi ancora più marginali rispetto
alla categoria
-Verbo prototipico: codifica il comment del discorso questi predicati topicalizzano un certo
evento; ovvero sono i participi che non svolgono funzione di comment ma di topic e sono quindi
ancora più marginali
-Verbo prototipico: dà info relativamente all’evento accaduto se dico che qualcosa è escluso
rispetto all’evento descritto, ecco che non ha valore fattuale; ciò porta a collocarlo ai margini della
categoria verbale.
30.10 SLIDE 7
Vediamo come strutture verbali e nominali condividono similarità, tanto che in alcuni casi è stato
possibile dimostrare che all’origine dei costrutti passivi (in particolare impersonale) di alcuni
lingue ci sono quelli che erano nomi di azione.
Passivo impersonale Occorre distinguere due diverse accezioni dell’impersonalità:
-in prospettiva funzionale e comunicativa, legata a aspetti pragmatici, in cui l’impersonalizzazione e
i suoi vari processi sono legati a ragioni di de-focalizzazione o backgrounding della gente. Si può
pensare che il concetto dell’impersonalità serva quindi a mettere in secondo piano la presenza di un
agente, una persona specifica. L’azione è rappresentata in assenza di un agente esplicito che la
compia
-in senso più strutturale, legato all’assenza di un elemento che abbia le caratteristiche del soggetto
canonico. I costrutti impersonali qui sono tipicamente quelli in cui il soggetto non è espresso perché
non individuabile il referente specifico (es. piove). Qualche volta anche predicati come piovere
ammettono la presenza di un argomento: es. piovono pietre, e sembrerebbe così che essendo l’unico
argomento esso sia il soggetto. Che esso non sia il soggetto a tutti gli effetti ce lo dice il fatto che
l’argomento non occupa la posizione che normalmente in italiano è riservata al soggetto, ma al
complemento (pietre piovono NON FUNZIONA!).
Predicati che denotano percezione ed esperienza: sono costrutti impersonali dal punto di vista
sintattico (lat. il predicato alla terza persona singolare, l’argomento non può essere soggetto perché
è in prima persona accusativo …). Gli argomenti di questi predicati sono riconducibili al ruolo
semantico di esperiente, ovvero subisce le conseguenze di uno stato o di una condizione; non
corrisponde al ruolo semantico di agente.
Siamo di fronte a costrutti impersonali che riflettono l’assenza a livello di struttura argomentale di
un elemento che abbia le caratteristiche del ruolo sintattico di soggetto.
Quello che è l’argomento che svolgerebbe il ruolo di soggetto viene rimosso per ragioni legate alla
struttura informazionale e messo in secondo piano, come il passivo impersonale e tutti i costrutti
anti-causativi, ovvero quelli in cui il predicato transitivo viene volto in costrutto intransitivo senza
alcuna apparente modificazione (affondare = l’iceberg affondò il Titanic / il Titanic affondò). Il
soggetto viene quindi semplicemente omesso, e quello che precedentemente era oggetto passa a
essere soggetto. È un modo per ridurre la valenza del significato. In questo caso la ragione dell’uno
o dell’altro costrutto è maggiormente legata ad elementi di struttura discorsiva, ovvero cosa si vuole
mettere in evidenza (la causa che innesca l’evento o l’evento in sé).
Costrutti passivi personali o promozionali. ‘i bambini hanno mangiato la torta’ ‘la torta è stata
mangiata dai bambini’: l’argomento non agentivo è pienamente promosso a ruolo sintattico di
soggetto acquisendo tutte le sue caratteristiche, passa ad essere l’elemento che regge l’accordo con
il predicato. A questo si accompagnano altre caratteristiche
-l’argomento soggetto/agente del costrutto attivo può comparire nella frase passiva, ma non è più
obbligatorio: ciò vuol dire che esso non è più argomento del significato (diventa circostanziale-
posso anche dire ‘la torta è stata mangiata’). Quindi oggetto + status di soggetto / - statuto
argomentale del soggetto della frase attiva. Predicato transitivo > intransitivo.
È possibile rilevare le notevole restrizioni che ci sono sull’applicabilità di questo costrutto e che
fanno sì che esso si possa affidare solo ai predicati transitivi. Potremmo andare ancora più avanti e
dire non semplicemente ai predicati transitivi, ma a quelli prototipicamente transitivi. La nozione
della prototipicità è infatti scalare: sotto di essa si possono raccogliere costrutti che pur
apparentemente simili sono in realtà sintatticamente differenti, tant’è che questo si riflette nella
possibilità di applicare o meno la costruzione promozionale del passivo promozionale.
1) Mario rompe la finestra
2) Il biglietto costa due euro
Dal punto di vista dell’ordine lineare dei costituenti sono due costrutti uguali (SVO). In realtà, nel
primo caso l’oggetto è ciò che subisce le conseguenze dell’azione, muta il suo stato e esperisce
quindi l’azione dettata dal predicato verbale; questo oggetto può, infatti, diventare soggetto se si
volge la frase al passivo: ‘la finestra è rotta (da Mario)’. Questo test dell’applicabilità della forma
passiva ci fa subito capire che i due costrutti non sono la stessa cosa, perché ‘due euro’ non è un
argomento e ciò lo vediamo dal fatto che non può essere promosso allo status di soggetto. È
semplicemente un modificatore, non un argomento. Dietro quella che è una definizione
apparentemente ampia di transitività in realtà si celano elementi differenti.
Ci sono poi dei livelli intermedi che coinvolgono soprattutto i verbi supporto, in cui a seconda dei
vari gradi di lessicalizzazione o di idiomaticità del costrutto abbiamo un grado maggiore o minore
di transitività: fare una scelta VS fare festa. In entrambi i casi fare è usato come verbo supporto (il
contenuto semantico dell’azione è contenuto dai nomi, il verbo codifica semplicemente gli elementi
necessari, persona, aspetto, tempo ecc.).
Fare una scelta: una scelta si comporta come un oggetto, e può essere infatti promossa a soggetto
Fare festa: festa non si comporta come un argomento del verbo fare, infatti non può essere volto al
passivo
La differenza più evidente è la presenza nella frasi 1 di uno specificatore che quantifica e definisce
l’oggetto facendone un sintagma nominale pieno, mentre nel 2 manca. Se attraverso specificatori e
modificatori rendo ‘festa’ un sintagma nominale adeguato, posso volgerlo tranquillamente al
passivo (Mario fece la festa di laurea in quel locale > la festa di laurea fu fatta in quel locale).
ES. Giustizia è stata fatta: in questo caso siamo legati al diverso grado di lessicalizzazione di questi
costrutti. Pur non identificato e quantificato, l’oggetto avrebbe status argomentare superiore rispetto
a ‘fare festa’. Anche perché quest’ultima frase è parafrasabile come ‘festeggiare’, mentre ‘fare
giustizia’ non può essere tradotto con ‘giustiziare’.
Uno dei parametri principali della transizione è il grado di definizione, individuazione,
quantificazione, specificazione, per cui ‘mangiare un piatto di pasta’ è un costrutto transitivo,
mentre ‘mangiare pasta è intransitivo’. Alcune lingue trattano in maniera diversa un predicato
transitivo in costrutto affermativo e negativo: se l’azione è negata l’oggetto non è coinvolto
dall’azione, e la frase negativa è quindi meno transitiva di quella affermativa.
Questi vincoli fanno sì che solo nei predicati strettamente transitivi, in cui c’è la presenza di un
argomento che ricopre il ruolo sintattico di argomento, sia possibile il passivo personale.
La differenza notevole con il passivo impersonale sta nel fatto che anche quando c’è un oggetto
presente all’interno di una struttura transitiva, questo non viene nel passivo promosso a soggetto,
ma continua a conservare le caratteristiche di un oggetto. Inoltre, dal momento che non richiede la
promozione oggetto>soggetto si applica anche ai predicati intransitivi.
Il passivo impersonale è molto presente nelle lingue indoeuropee, in particolare in latino, dove
abbiamo forme passive applicate a predicati intransitivi. Es. i-tur ad-te, Pseudole= si va incontro a
te, Pseudolo. 3° persona del verbo andare, con la tipica desinenza del passivo sintetico latino ‘tur’.
Andare è chiaramente un verbo intransitivo, non ha nessun oggetto, semplicemente viene rimosso il
soggetto, il che conferisce alla forma ‘itur’ quel valore di soggetto generico non individuabile che ci
fa tradurre questo costrutto come ‘si va incontro a te’, qualcuno ti sta venendo incontro, ma non
sappiamo chi, non possiamo individuare il referente di questo qualcuno. Viene quindi messo in
background il soggetto, perché non è così importante chi ma piuttosto che qualcuno ti stia venendo
incontro.
Ciò non vuol dire che non ci sia un soggetto individuabile es. ‘disputatur in consilio ab Petreio
atque Afranio = ci fu una discussione nell’assemblea da parte di Petreio e Afranio. Il soggetto è
espresso tramite un sintagma preposizionale (a+ablativo=complemento d’agente), ma quello che dal
punto di vista della struttura informazionale è importante mettere in evidenza è che ci fu una
discussione, l’evento in sé e non da parte di chi (potrebbe tranquillamente essere omesso).
Nei costrutti transitivi, invece, l’oggetto è presente ma non viene promosso a soggetto. Es.
‘facciatur … et triclinia’ = ci si rappresenti (sul monumento) anche i triclini. Triclini sarebbe
l’oggetto diretto del corrispettivo attivo di questa frase, ma rimane (non concorda con la forma
singolare del verbo). Conserva le caratteristiche proprie dell’oggetto. Anche qui, l’importante è che
qualcuno rappresenti anche i triclini, viene messo in evidenza l’evento (è accusativo, non
nominativo, e si vede dalla non concordanza con il verbo).
Passivo impersonale:
Costrutti intransitivi-il passivo impersonale mette in secondo piano il soggetto e focalizza
sull’azione.
Costrutti transitivi-ci sarebbe l’oggetto espresso, ma non viene promosso a soggetto per mettere in
evidenza l’attivo.
Altri esempi
Lingua osca (centro meridionale.) Sacarater = ‘si fa un sacrificio’, ‘si sacrifica’ (sacar=sacrificare).
Anche qui, questa forma serve a mettere in evidenza l’azione da compiere, non importa da parte di
chi venga fatta. Un caso come questo, che potremmo tranquillamente trovare in latino come
sacrificatur, in realtà non viene trovata in latino: questo perché
-abbiamo il morfema che ci indica il significato del verbo
-abbiamo il suffisso che forma il congiuntivo perfetto
-morfema del passivo
ma, a differenza del latino, manca il morfema della persona, 3° persona singolare che in latino
invece c’è. Conservano quindi una fase ancora più antica di impersonale in cui le forme verbale
erano nel senso morfologico del termine impersonali perché non c’era proprio il morfema che
indicava la persona. Il passivo impersonale è quindi ancora più antico rispetto a quello personale.
[Altri es. SLIDE]
Anche nelle lingue celtiche abbiamo forme in cui al morfema lessicale del verbo viene aggiunta
direttamente la desinenza –r del passivo senza il morfema lessicale. È stato uno degli elementi che
ha fatto ipotizzare una parentela tra latino e celtico, ma poi si è trovato anche in lingue molto
lontane e si è capito che non può essere un indizio su cui contare per collegare le due lingue.
Il passivo impersonale quindi
-può quindi cancellare la realizzazione sintattica del soggetto (non lo fa per forza)
-non promuove in caso di intransitivi l’oggetto in soggetto
-conserva un’interpretazione attiva tipicamente associata a un agente umano indefinito e generico
(si è disputato=c’è stata una disputa, azione rappresentata come attiva, non ha interpretazione
passiva, è compiuta da qualche referente umano che semplicemente non è definibile).
Fino a che punto è o non è individuabile la causa esterna descritta dall’azione del passivo? In realtà
possono essere impersonali in gradi diversi ‘viene provocato turbamento in tutta la campagna’ -
l’agente non è minimamente individuabile VS ‘disputatur in consilio’ (…) – l’agente è
semplicemente messo in secondo piano, ha un ruolo secondario, e in qualche caso è comunque
morfologicamente espresso. Altre volte per ragioni di struttura dell’informazione, la prima persona
è messa in background a indicare specificamente che quello che bisogna mettere in evidenza è che
l’azione verrà compiuta.
Sono quindi tutti impersonali in vario grado; quello che accomuna tutti questi casi è una ben precisa
funzione legata alla struttura dell’informazione di fare riferimento all’azione verbale di per sé.
Difatti, si parla di ‘centered focus constructions’ dove il picco di salienza informativa è su tutta la
frase. Il dominio del focus, l’elemento più rilevante dal punto di vista informativo, è la frase nel suo
complesso. [Altri es. SLIDE]
Questa focalizzazione sull’azione viene trovata spesso anche in alcuni nomi di azione.
31.10
In alcuni casi sembra di poter dimostrare l’origine del passivo impersonale da nomi deverbali di
azione, dato che spesso hanno affinità strutturale e contiguità diacronica.
Passivo impersonale: non c’è la realizzazione sintattica del soggetto, se c’è non promuove l’oggetto
a soggetto, l’aione conserva interpretazione attiva e si applica anche a predicati intransitivi. È
funzionale a una strutturazione dell’informazione che vuole porre in evidenza l’evento di per sé
indipendentemente da chi è svolta. Alcune di queste caratteristiche ci permettono di far rientrare il
passivo impersonale nei passivi non promozionali.
Occorre però vedere se l’impersonalità di questi passivi sia una non realizzazione fonetica del
soggetto, o se effettivamente anche a livello sintattico manchi all’interno della struttura argomentale
un elemento in grado di svolgere il ruolo sintattico di soggetto. È frequente il caso delle lingue
Protrop (ita) di oggetti non foneticamente espressi o realizzati, ma presenti nella struttura
argomentale (VS. inglese che richiede la specificazione).
Ci sono test che verificano la presenza di un soggetto sintattico nullo (non realizzato foneticamente
ma presente nella struttura argomentale del predicato).
-compatibilità del costrutto con i pronomi riflessivi e con le strategie di riflessivo. Un pronome ha
bisogno di un antecedente rispetto al quale funge da rinvio anaforico; se prendiamo una lingua
come l’italiano, posso tranquillamente avere costrutti come ‘mi lavo, mi asciugo’. Qui il soggetto io
non è foneticamente espresso, ma è presente nella struttura sintattica, altrimenti il pronome
riflessivo ‘mi’ non potrebbe essere presente, perché in quanto pronome ha bisogno di un
antecedente al quale riferirsi. I passivi impersonali sono incompatibili con il riflessivo; ciò ci dice
che il ruolo sintattico di soggetto nei passivi impersonali viene cancellato, non solo foneticamente
ma nella struttura argomentale stessa. Quello che a volte possiamo trovare è un complemento di
agente, elemento che indica una causa esterna ma non gli assegna il ruolo sintattico di soggetto.
-È incompatibile anche con i modificatori subject-oriented, ovvero quei modificatori avverbiali che
si applicano al predicato ma che per potersi applicare richiedono la presenza di un soggetto con i
tratti semantici tipici dell’agente (es. attentamente, distrattamente, volontariamente). Per applicare
un avverbio come questo a un predicato occorre che il soggetto di questo predicato sia un
partecipante in grado di agire con attenzione, distrazione o volontà: implica quindi la presenza di un
soggetto con tratti animati. Non si applicano ai passivi impersonali, ma solo se l’agente è
esplicitamente codificato (es. latino con costrutto preposizionale ab*ablativo), ma in quel caso il
costrutto stretto è quello che attiva la presenza dei modificatori subject-oriented, altrimenti al
passivo normalmente non si applica.
-Sono compatibili con sintagmi preposizionali tipo by-phrase, ovvero sintagmi preposizionali che
esprimono il complemento d’agente. Questo perché di per sé non hanno un agente, che altrimenti
già occuperebbe quel ruolo semantico. Es. vado a Pisa da me (da me come complemento
d’agente) il passivo NON FUNZIONA perché c’è l’io sottinteso, anche se non foneticamente
espresso. Siccome nei passivi impersonali questa posizione è in realtà assente (non c’è un elemento
che funga da soggetto), ecco che essi sono compatibili con sintagmi che codificano complementi
d’agente (es. disputatr Petrio adque Afranio).
-I costrutti passivi impersonali non sono coordinabili con forme personali.
Queste caratteristiche sono proprie dei passivi impersonali ma non di altre forme di impersonale,
ciò si nota provando a fare questi test su altre forme di impersonale.
Bisogna fare attenzione a tenere separati i piani: il ruolo sintattico di soggetto, che può fungere da
antecedente e attiva i meccanismi di co-referenzialità VS le caratteristiche semantiche del soggetto
prototipico, che possono essere assenti, se questo svolge il ruolo di espediente, e questo viene
codificato (quando è presente è marcato dall’accusativo)
Passivo personale: cancellato sul piano della struttura sintattica, il ruolo sintattico di soggetto può
essere reintrodotto a fini puramente discorsivi un complemento d’agente che indici chi/che cosa è
responsabile dell’azione
La caratteristica principale dei predicati costruiti con passivo impersonale (cancellazione del
soggetto e non promozione dell’oggetto a soggetto), la ritroviamo in maniera non casuale in alcuni
nomi di azione.
Passivo impersonale e nomi di azioni hanno entrambi la funzione di mettere in evidenza l’azione di
per sé.
Normalmente, quando si nominalizzano predicati, in italiano e nella maggior parte delle lingue con
cui abbiamo maggior confidenza, il nome di azione assume un tipo di reggenza nominale e non
verbale (nome di azione non regge complemento, argomento, ma regge un sintagma
preposizionale). I barbari distrussero Roma / la distruzione di Roma: vediamo che nella
nominalizzazione del predicato, dei due elementi obbligatori nella forma verbale finita (i barbari e
Roma), soltanto uno dei due continua a essere obbligatorio, mentre l’altro perde il proprio status
argomentale: quello che nella forma flessa e finita era l’oggetto continua ad essere obbligatorio.
Già in questo, le nominalizzazioni anche in italiano non si comportano in maniera tanto diversa dai
passivi impersonali. In qualche caso, quando l’azione viene nominalizzata, il costrutto risultante si
può comportare come si comportano i passivi impersonali.
Questo è l’unico tipo di reggenza che troviamo in italiano, qualche traccia di forma nominale del
verbo che in italiano abbiano ancora reggenza di tipo verbale la troviamo in qualche formula
totalmente cristallizzata, linguaggio burocratico, es. in presenza di un originario participio presente
‘comandante’ se in italiano è utilizzato a tutti gli effetti come un nome, esso avrà reggenza di tipo
nominale. Altre volte, frasi come ‘il facente le funzioni di’ è una forma nominalizzata del verbo che
però conserva reggenza di tipo verbale; regge l’oggetto della forma finita.
Al di fuori di questi casi ristretti, in italiano tutti i nomi d’azione hanno una reggenza nominale e ce
l’avevano già in latino. Il latino però in qualche caso testimonia la sopravvivenza di una reggenza
ancora di tipo verbale: è una costruzione residuale che tende comunque a scomparire.
Nomi di azione che, come se fossero verbi, reggono l’accusativo
Es. Astrologorum signa (NOM/ACC) in caelo quid sit obseruationis? cos’è questo osservare le
costellazioni degli astrologi nel cielo? : l’oggetto dell’osservazione non è un genitivo, come
dovrebbe essere in latino, ma un accusativo plurale neutro.
Es. Quid tibi hanc (ACC) curatio est rem (ACC)? che significa questa tua preoccupazione per
questa cosa? curatio continua a reggere un oggetto e non un circostanziale esattamente come se
fosse una forma finita del verbo curare.
Es. Quae misera in exspectatione est Epignomi aduentum (ACC) ‘Che, preoccupata, è in attesa
dell’arrivo di suo marito Epignomo.’:
Quindi, questa caratteristica di cancellare il soggetto sintattico e conservare oggetto al caso
accusativo senza promuoverlo al ruolo di soggetto, rende estremamente simili i passivi impersonali
e i nomi di azione.
Questa affinità era stata precedentemente notata da studi tipologici in lingua del nord America in
cui era stata notata similarità tra passivo impersonale e nominalizzazione. Il caso meglio
documentato e più discusso è quello dei passivi impersonali non promozionali all’interno di una
lingua del nord America, Ute, (da sempre tra le meglio studiate) del gruppo Uto-Azteco, parlata
nello stato del Colorado. Questa lingua ha un tipo di passivo impersonale.
ta’wach sivaatuch-i pakha-pᵾga uomo/SOGG. capra-OGG uccidere-REM
“L’uomo uccise la capra.”
L’uomo uccise la capra: primo elemento = uomo (il soggetto in questa lingua non ha morfema
esplicito), secondo elemento = capra marcato da morfema i, il verbo è marcato da un morfema di
passato remoto.
Passivo: sivaatuch-i pakha-ta-pᵾga capra-OGG uccidere-PASS-REM
“(Qualcuno) uccise la capra / la capra fu uccisa (da qualcuno).”
Come possiamo vedere, manca il soggetto del costrutto attivo (uomo), e il verbo prende suffisso
‘ta’, ovvero la marca morfologica del passivo in Ute, e l’oggetto nella frase attiva continua a
mantenere il morfema i che codifica l’oggetto.
Inoltre, sappiamo che i passivi impersonali si applicano anche ai verbi intransitivi, e questo esempio
ce lo attesta ancora una volta:
Attivo: mamach tᵾvupᵾ-vwan ’avi-kya-’u donna/SOGG terra-LOC giacere-ANT-3SG.F
“La donna giaceva a terra.”
Passivo: tᵾvupᵾ-vwan ’avi-ta-qa-ax terra-LOC giacere-PASS-ANT-3SG.N
“(Qualcuno) giaceva a terra / si giaceva a terra.”
Vale la pena notare che nella frase attiva, in fondo c’è il morfema del femminile 3° persona
singolare, che concorda con il soggetto: il fatto che nel passivo impersonale questo soggetto non sia
presente nella struttura argomentale, lo capiamo anche dal fatto che il morfema viene sostituito da
una 3° singolare neutra: evidentemente, quello che era il soggetto della frase attiva è eliminato dalla
struttura argomentale.
Es. La donna lavorò molto – ci fu molto da lavorare/qualcuno lavorò molto, senza indicare chi.
In questa lingua, come si comportano e come vengono codificati i nomi deverbali (nomi di azione)?
Già in questa descrizione troviamo qualcosa di familiare rispetto a quanto detto: un tipo di
nominalizzazione in Ute si applica soltanto a sintattico verbali escludendo il soggetto che viene
quindi interpretato come generico e impersonale (quando queste forme sono nominalizzate possono
a loro volta fungere da soggetti). Queste nominalizzazioni tendono a comparire senza alcuna marca
di tempo/modo/aspetto.
Frasi finita attiva: come viene nominalizzata in questa lingua
costrutto transitivo—il verbo non ha morfemi o referenziali, c’è solo il morfema lessicale =
uccidere e quello che indica il tempo (in questo caso anteriorità). I due argomenti del predicato (il
ragazzo / l’aquila) sono distinti da soggetto - non marcato e oggetto - morfema di accusativo.
‘áapachi ‘u kwanach-i ‘uway paqha-qa
ragazzo-SOGG ART-SOGG aquila-OGG ART-OGG uccidere-ANT
“Il ragazzo uccise l’aquila.”
1- nome deverbale (oggetto generico) fonde il verbo uccidere con l’oggetto dell’azione. Il
significato di questa prima nominalizzazione è molto più generico, ovvero l’azione generica di
uccidere aquile.
Unica differenza tra le due: flessione temporale. Il passivo impersonale, ha questo ultimo morfema
che indica il tempo.
In realtà, il costrutto passivo si è sviluppato diacronicamente e ancora somiglia a una frase
nominalizzata perché il passivo impersonale in uteh non è altro che un nome di azione a cui è stata
aggiunta una marca di temporalità. Proprio in lingue ascrivibili a quest’area infatti, la dislocazione
temporale può essere codificata anche sui nomi. Il passivo impersonale in Uteh non è altro che un
nome di azione a cui è stata aggiunta una marca di temporalità. Questa lingua permette di
ricostruire una trafila diacronica per cui abbiamo forme nominali del verbo che finiscono per essere
progressivamente integrate nel paradigma verbale. Dal punto di vista sincronico oggi vediamo
queste due forme (passivo impersonale, nome deverbale) ma da un punto di vista diacronico il
passivo impersonale non è altro che un nome flesso nel verbo.
A livello di ipotesi, anche per le lingue indoeuropei si è pensato che la ‘r’ del passivo impersonale
sia in origine la stessa che noi troviamo nei neutri forti.
Se volessimo idealmente mettere in fila quelli che sono i vari passaggi attraverso cui si può arrivare
al passivo personale/promozionale come lo usiamo noi, potremmo vedere in partenza una forma
nominale del verbo che progressivamente si integra nel paradigma verbale. Tutto questo passaggio
è frammentario, ma ciò che riusciamo a documentare meglio è il passaggio successivo, ovvero da
passivo impersonale a personale (progressiva verbalizzazione del costrutti passivi). Possiamo
documentare i contesti che hanno reso possibile lo sviluppo di un passivo personale da quello che
era originariamente un passivo impersonale. Ci sono dei contesti inerentemente ambigui che
rendono possibile l’interpretazione della forma verbale tanto come personale quanto come
impersonale: ovvero quando l’argomento della forma passiva è una forma neutra (in quel caso, il
neutro accusativo e nominativo coincidono).
Latino
Aurum rapitur. (Pl. Aul. 392) Aurum è neutro, potrebbe essere soggetto di una forma personale
e oggetto di una forma impersonale. Sono costrutti ambigui; forme di passivo impersonale possono
qui essere state reinterpretate come costrutti personali.
“(Qualcuno) ruba il mio oro / si ruba il mio oro / il mio oro viene rubato.”
Osco
Saahtúm tefúrúm […] sakahíter. (Tab.Agnone, Ve 147a, 17-19: III c. BC)
stabilito-NOM=ACC.SG.N tefurum-NOM=ACC.SG.N stabilire-IND.PRs.3SG.PASS
“Si sancisce il tefurum stabilito / viene sancito il tefurum stabilito.”
Proprio lo studio del pass imp in olandese ha aperto la strada a tutto un altro filone di studi, ovvero
quelli legati all’idea che la classe dei predicati intransitivi raccolga in sé almeno due tipologie
diverse di predicato che si comportano in maniera differente (INACCUSATIVITA’ e
INTRANSITIVITA’ SCISSA)
06.11 SLIDE 8
Passivi impersonali- questa questione ha ricadute importanti su un altro tema centrale degli studi di
interfaccia tra semantica e sintassi (quegli aspetti della lingua semanticamente determinati e
sintatticamente codificati), in particolare la questione dell’intransitività scissa. I primi passi negli
studi di questo concetto sono stati mossi a partire da uno studio dedicato ai passivi impersonali,
dove ci si comincia a rendere conto della proprietà dell’intransitività scissa = i predicati intransitivi
non sono una classe omogenea, ma si ripartiscono in due sottogruppi (predicati inaccusativi e
inergativi) che si comportano in maniera diversa in molti processi morfosintattici.
Una delle manifestazioni meglio studiate di questo fenomeno è la selezione dell’ausiliare perfettivo
nelle lingue romanze (soprattutto italiano) per la formazione dei tempi composti: i predicati
inaccusativi selezionano essere, gli inergativi selezionano avere.
I due principali aspetti legati alla semantica del predicato che entrano in gioco nell’inaccusatività
scissa
-AZIONALITA/AKTIONSART criterio di classificazione semantica dei predicati. L’idea che i
diversi predicati fossero classificabili in classi semantiche diverse sulla base di proprietà inerenti,
risale al lavoro di Vendler del ’77, che nota che il valore di questa operazione di classificazione non
è solo un’operazione tassonomica, ma il fatto che un predicato faccia parte di una classe o un’altra
condiziona i suoi comportamenti morfosintattici. Le classi individuate sono ormai note come le
quattro classi di Vendler; la terminologia italiana attualmente in uso per le quattro categorie è:
predicati stativi, predicati di attività, trasformativi e risultativi.
Esse vengono definite sulla base delle diverse combinazioni possibili tra tre tratti semantici inerenti
ai predicati: dinamicità, duratività, telicità. In base a come si combinano, risultano rientrare in una
delle categorie.
Dinamicità: un verbo è dinamico quando l’evento rappresentato configura lo svolgimento di
un’azione, non il protrarsi di uno stato o di una condizione. Predicati eventivi + dinamici / predicati
stativi – dinamici. Per definire la dinamicità di un verbo si può
-verificare la compatibilità con la perifrasi progressiva con il gerundio (sta mangiando, sta
correndo, sta lavorando)
-utilizzare il verbo all’imperativo, perché ciò si dice che è un’azione che può essere svolta (mangia,
corri, parla). I predicati stativi e dinamici sono compatibili con l’imperativo, non lo sono invece
alcuni stativi. Al loro interno si instaura infatti una differenza tra quelli che denotano stati
temporanei, che possono essere mutati e che hanno quindi un controllo volontario da parte del
soggetto, e quelli che descrivono qualità intrinseche e inalienabili, che non implicano un
mutamento e che non possono quindi avere controllo volontario da parte del soggetto.
Duratività: distinzione tra predicati che denotano un tipo di evento che si protrae e quelli che
parlano di eventi momentanei, che hanno rappresentazione puntuale.
-compatibilità con i modificatori di tipo avverbiale es. ‘per X tempo’ – Mario ha parlato per due ore
OK / Mario è inciampato per due minuti NO. Di fronte a un costrutto come questo, l’unica lettura
possibile è quella che scompone questo evento in tanti sotto eventi).
Telicità: quando l’azione configura il raggiungimento del punto terminale di un evento (greco
TELOS, punto di arrivo).
- modificatore avverbiale ‘in X tempo’: pone un limite temporale entro cui l’azione si svolge, e se il
predicato è compatibile con questo modificatore avverbiale, è telico. Predicati come abitare
(protarsi di una condizione per un lasso di tempo) non prevedono telicità.
C’è una distinzione tra predicati inerentemente telici (es. asciugare) che prevedono nella loro
articolazione semantica lo stato di partenza (bagnato) e di arrivo (asciutto) VS predicati con telicità
configurazionale, ovvero legata al contesto, con tutti gli elementi con cui il predicato si combina
(polarità della frase, aspetto verbale…).
Per quanto riguarda i predicati inerentemente telici, essi possono essere costruiti all’interno di
particolare contesti in modo da attribuire loro una lettura non telica es. cadere: un caso come cadere
nel vuoto detelicizza il predicato.
Uno dei casi più evidenti e dei primi che si citano per indicare la natura configurazionale della
telicità riguarda quella serie di predicati che in italiano non sono pochi, che in italiano denotano
un’attività quando hanno lettura intransitiva, ma che ammettono la presenza di un complemento
oggetto (mangiare, dipingere, scrivere…) che li rende non telici. Mario ha mangiato TELICO
Mario mangia pasta tutti i giorni ATELICO. Non a caso, in un caso abbiamo il presente, nell’altro
il passato prossimo: la diversa aspettualità dei tempi (perfettivo e imperfettivo) condiziona molto la
lettura telica o atelica di un costrutto (perfettivo-telica / imperfettivo-atelica).
Anche la polarità può condizionare il diverso grado di telicità: frase affermativa Mario distolse lo
sguardo dalla porta TELICO VS frase negativa Mario non ha distolto lo sguardo per tutta la sera
ATELICO.
Altro aspetto: grado di animatezza del soggetto: Mario attraversa la strada TELICO VS la strada
attraversa il bosco ATELICO.
Ibridismo azionale: un predicato di per sé può appartenere a più classi azionali a seconda di come
entrano in gioco i fattori che abbiamo visto. I casi in cui si può assegnare univocamente un
predicato a una classe azionale sono veramente rari.
Combinano duratività, dinamicità e telicità abbiamo, con diverse combinazioni, queste quattro
classi di Vendler:
Predicati stativi: non dinamici, non telici, durativi. Descrivono situazioni che si protraggono nel
corso del tempo.
Predicativi di attività: non telici, non durativi, dinamici.
Predicati risultativi: dinamici, durativi, telici. Includono tutti quei predicati transitivi in cui
l’oggetto diretto subisce un mutamento di stato in conseguenza diretta di un’azione. Hanno una
sottoclasse, gli incrementativi, che rispetto ai risultativi il punto terminale che essi raggiungono
non è un punto definitivo, ma può essere ulteriormente cambiato es. ingrassare è più grasso
rispetto a prima, ma potrebbe ingrassare ulteriormente VS uccidere punto terminale definitivo.
Predicati trasformativi: spesso vengono trattati, insieme ai risultativi, una classe unica, perché
l’unica differenza è la duratività, ovvero se il punto terminale del processo si raggiunge
immediatamente (trasformativi) o dopo un determinato lasso di tempo (risultativi). Sono sia
dinamici che telici, ma non durativi. Anche essi hanno una sottoclasse, i semelfattivi, che pur
essendo dinamici ma non durativi sono non telici; sono una classe molto ristretta es. tossire e
starnutire, sono dinamici, momentanei ma non telici.
Aspetto: funzione semantica in base alla quale vengono classificati i verbi. Adspectus : radice di
guardare, da quale prospettiva guardiamo l’azione stessa.
[Sul piano terminologico, sulla letteratura inglese è stata fatta e ancora c’è una certa confusione:
aspect = azionalità. Negli anni ’70, un tipologo scrive un testo dedicato alla semantica verbale
intitolandolo aspect, salvo poi trattare come aspetto ciò che è l’azionalità. Questo equivoco è
perdurato, quindi è preferibile adottare il termine tedesco aktionsart, o usare azionalità e aspetto per
distinguerle (azionalità: proprietà che sono inerenti all’evento stesso; aspetto: fatto morfologico, ha
a che fare con il punto di vista che il parlante adotta rispetto all’azione).]
L’italiano non ha delle desinenze con cui codificare l’aspetto perfettivo o imperfettivo, ma le
codifica rifunzionalizzando con valore aspettuale i tempi.
Aspetto imperfettivo
-può avere una lettura abituale (Mario fuma, Mario fumava) descrivendo un’azione che ripete
abitualmente nel tempo uguale a sé stessa
-progressivo: l’azione è presentata in corso di svolgimento (Mario stava andando a lavoro)
Aspetto perfettivo
-è vista e rappresentata nella sua compiutezza
-aspetto perfettivo compiuto l’azione si è compiuta, le conseguenze dell’azione permangono al
momento dell’enunciazione / aspetto aoristico azione compiuta, ma le conseguenze non sono
necessariamente valide all’enunciazione
Ibridismo azionale molto influenzato dall’aspetto: aspetto imperfettivo, rappresentando un’azione
in corso di svolgimento, è particolarmente compatibile con una lettura atelica, VS aspetto
perfettivo, già rappresentando l’azione da un punto di vista esterno come compiuta nella sua
interezza, seleziona una lettura telica (Mario sapeva come stavano le cose - atelico / Mario seppe
come stavano le cose - telico)
Predicati inaccusativi e predicati inergativi coincidono nelle diverse lingue? Perlmutter la chiama
‘universal allignment hipotesys (ipotesi di un allineamento universale di due diversi classi di
predicati intransitivi prevedibile su base semantica) ed è stata smentita dai fatti. Le diverse lingue
infatti selezionano diversi punti del continuum di inaccusatività e inergatività su cui porre il
discrimine tra una classe e l’altra.
Perlmutter: appartengono ai predicati inergativi, quei predicai che descrivono azioni volute o
volontarie e ivi compresi i verbi che indicano atti di parola più alcuni processi involontari (quelli
che noi chiameremmo i predicati di attività più i semelfattivi). Sono invece predicati inaccusativi i
risultativi, trasformativi e stativi.
Vedremo che telicità e controllo volontario sull’azione sono i tratti per individuare l’inaccusatività
prototipica da una parte e l’inergatività prototipica dall’altra.
07.11 FINE SLIDE 8
Perlmutter dà un elenco di predicati che racchiudono i tratti semantici comuni che ammettono il
passivo impersonale (che lui chiama inergativi-che descrivono azioni che sono soggette a controllo
volontario e alcuni processi corporali involontari. Dovendo ridare una definizione in termini
azionali, questi predicati sono per lo più predicati di attività, dinamici, atelici e durativi con un
gruppo ristretto di ‘semelfattivi’ affini a quelli di attività ma non sono durativi e non sono
dinamici). Individua poi la sottoclasse dei predicati inaccusativi che non ammettono il passivo
impersonale: predicati stativi o predicati telici (risultativi/trasformativi). In realtà stativi e telici
sono simili, perché sono tutti predicati di stato-gli stativi esprimono uno stato inerente, che si
protrae indefinitamente nel corso del tempo, mentre i trasformativi e risultativi esprimono uno stato
risultante.
I criteri dell’azionalità quindi ci permettono di individuare in maniera più chiara il funzionamento
del passivo impersonale in olandese: i predicativi intransitivi inergativi che ammettono il passivo
impersonale sono di attività, i predicati intransitivi inaccusativi che non lo ammettono sono telici e
stativi.
Possiamo così cogliere i due poli opposti del continuum.
Oltre alla telicità o non telicità dell’evento, interviene secondariamente un altro parametro, legato
alle proprietà semantiche inerenti del referente che funge da argomento del predicato – se il
soggetto è provvisto o meno di controllo volontario sull’azione. Oltre a stabilire una discriminante
nel caso del passivo impersonale in olandese tra predicati che lo ammettono e che non lo
ammettono, lo ritroveremo come pertinente in altre manifestazioni dell’intransitività scissa. Il fatto
che questo possa contare da fattore discriminante in olandese, è messo in evidenza attraverso le
‘coppie minime’, in cui si mantiene lo stesso verbo e si cambia il grado di animatezza e di
agentività del soggetto.
Es.
chinarsi
-ammette il passivo impersonale se il soggetto è umano e può controllare l’azione del chinarsi
De edeln buigen voor de koning.
‘The nobles bend (bow) before the king.’
-non lo ammette se il soggetto è un argomento non umano
De bloemen buigen in de wind.
‘The flowers bend in the wind.’
Con il verbo cadere vediamo che, anche un verbo che all’apparenza potrebbe sembrare poco atto ad
avere un referente con controllo sull’azione, può, con un referente animato, diventare un predicato
adatto alla formazione del passivo impersonale.
-De nieuwe acteur is in bet tweede bedrijf op bet juiste ogenblik gevallen.
‘The new actor fell at the right moment in the second act.’
In bet tweede bedrijf werd er door de nieuwe acteur op bet juiste ogenblik gevallen.
-Twee mensen zijn uit de venster van de tweede verdieping gevallen.
‘Two people fell out of the second-storey window.’
È un parametro pertinente ai fini della scissione tra le due diverse classi di predicati.
I due tratti rilevanti a definire il polo dell’inaccusatività e inergatività sono quindi:
–diverso grado di telicità
–diverso grado di controllo volontario
Le modalità con cui interagiscono definiscono le diverse sottocategorie.
SLIDE 9
Un caso particolarmente approfondito e meglio documentabile è la manifestazione
dell’intransitività scissa nella selezione dell’ausiliare perfettivo nelle lingue romanze, con
particolare riferimento all’italiano.
Italiano: ausiliare avere con predicati transitivi / ausiliare essere o avere con predicati intransitivi.
L’ausiliare essere è usato come costruzione del costrutto passivo perifrastico (unico modo di
formare il passivo che l’italiano ha ereditato dai vari modi del latino). All’interno della classe dei
predicati intransitivi ritroviamo una scissione tra due diverse sottoclassi rispetto all’ausiliare
selezionato per la formazione dei tempi composti. Come spesso accade, non è una scissione
categorica: non c‘è una classe chiusa di predicati che ammette unicamente e categoricamente
l’ausiliare avere che si contrappone ad una che altrettanto categoricamente accetta essere. Tra
questi due poli c’è un ampio margine di variazione.
Sul polo di destra (tutte le forme
in nero) troviamo tutti i predicati
intransitivi che selezionano avere;
sulla sinistra tutti i transitivi che
selezionano essere (inergativi i
primi, inaccusativi i secondi)
mentre quelli in blu sono tutta una
serie di predicati in cui i due
ausiliari possono alternare (tutti i casi di ibridismo azionale, in base al contesto e della costruzione,
fanno sì che mutino le proprietà azionali del predicato e con esse la selezione dell’ausiliare es. è
corso in casa perché iniziava a piovere VS ha corso tutti il giorno).
Es. SQUILLARE il telefono ha squillato/è squillato
PIOVERE ha piovuto tutto la notte/è piovuto tutta la notte
Questo raggruppamento già tiene conto delle diverse proprietà azionali e del diverso grado di
controllo volontario dell’evento che governano la distribuzione dei due ausiliari perfettivi in molte
lingue romanze.
Al polo della massima inergatività (predicati che selezionano sistematicamente e senza eccezioni
avere, colonna a destra) troviamo predicati dinamici e atelici nei quali il soggetto esercita maggior
grado di controllo volontario. Quando all’interno dei predicati di attività abbiamo invece predicati
senza controllo volontario del soggetto, ecco che i predicati cominciano ad ammettere
un’alternanza tra avere ed essere (squillare, sbandare, piovere, sbandare).
SBANDARE: è ammesso anche un soggetto umano che può avere controllo volontario, ma
l’alternanza dei due diversi ausiliari suggerisce due letture diverse dell’evento: Mario è sbandato
evento totalmente sottratto al controllo volontario VS Mario ha sbandato (per evitare un
ostacolo) rappresentazione più legata al controllo volontario.
Nel momento in cui il soggetto di suonare fosse qualcosa di inanimato, come le campane: le
campane hanno suonato/sono suonate tutta la notte, mentre se il soggetto è inanimato la situazione
cambia - Mario ha suonato per tutta la notte MA Mario è suonato per tutta la notte Pur
soggiacente ai tratti azionali, anche il parametro del controllo volontario risulta un tratto pertinente
ai fini della selezione dell’ausiliare; quindi in italiano ai fini della selezione dell’ausiliare
individuiamo una classe di predicati prototipicamente inergativi (ovvero predicati di attività il cui
soggetto esercita un controllo volontario). L’inergativo meno prototipico è invece il predicato di
attività il cui soggetto non esercita il controllo volontario.
Il maggiore o minore grado di prototipicità del predicato ergativo fa sì che in un caso abbiamo
sistematicamente avere come ausiliare, nell’altro caso abbiamo una possibile alternanza tra avere e
essere. Le proprietà semantiche del predicato e dei suoi argomenti sono codificate a livello
morfosintattico nella combinazione tra un certo ausiliare e un certo predicato.
La classe che ammette maggiore alternanza è quella dei predicati stativi; in italiano buona parte dei
predicati stativi selezionano automaticamente essere, così come gli inaccusativi prototipici-sono
entrambi predicati di stato, uno stato inerente e uno stato risultante. C’è però anche una serie di
verbi non marginale in cui abbiamo di nuovo alternanza tra essere e avere come ausiliare perfettivo,
come appunto Mario è vissuto a Roma/Mario ha vissuto a Roma.
Es. due sinonimi: abitare rispetto a vivere configura un maggior grado di controllo volontario
sull’evento da parte del soggetto, abitare nella sua struttura prevede un soggetto agentivo (Mario è
vissuto MA Mario è abitato).
Se ci spostiamo alla colonna più a sinistra ci avviciniamo al polo di massima inaccusatività, in cui
il grado di controllo volontario non è più un parametro funzionante, ma risulta pertinente solo la
classe azionale. In realtà però c’è una differenza sottile tra i predicati che individuano un
mutamento di luogo fisico (polo di massima inaccusativita) e quelli che indicano mutamento di
stato, che hanno invece ancora un certo margine di selezione di avere (in italiano questo non
succede molto, ma francese di più).
Prototipo dell’inaccusatività: predicati telici, in particolare i verbi di mutamento di luogo.
Quindi tra i due poli di massima inaccusatività (predicati telici, che indicano mutamento di luogo) e
massima inergatività (predicati di attività controllati dal soggetto) troviamo classi intermedie in cui
assistiamo a un grado è più o meno elevato di variazione a seconda della classe.
Situazione analoga all’italiano la troviamo in francese: come l’italiano presenta una doppia
ausiliazione imperfettiva (etre e avoir), anche se in francese il dominio di avoir è molto più ampio
rispetto a avere in italiano.
I predicati di attività
soggetti a controllo, così
come in italiano adottano
sistematicamente avere, in
francese hanno avoir, MA
lo hanno anche i predicati
di attività in cui il soggetto
NON esercita un controllo volontario (anche eventi atmosferici). Selezionano avoir anche quasi
tutti i predicati stativi (in it. buona parte hanno essere, altri hanno variazione essere/avere). In
qualche caso, come restare/rimanere, selezionano essere (così come in italiano). Il francese fa un
ulteriore passo (ragione per cui all’interno dei predicati telici quelli di movimento solo il nucleo
dell’inaccusatività): tra i predicati telici, quelli che indicano un mutamento di stato troviamo che
avoir ha conquistato ampie porzioni. Abbiamo etre nel caso di nascere/morire, ma nel caso di
ingrandire o arrossire (quindi mutamento di stato), in francese abbiamo avoir. L’unico nucleo che
in francese ammette solo etre sono i predicati dinamici e telici che indicano mutamento di luogo.
All’interno dell’inaccusatività quindi, sulla base del confronto inter linguistico, il prototipo degli
inaccusativi sono i verbi di movimento di luogo, mentre sono predicati inaccusativi anche quelli
che indicano mutamento di stato, ma sono più marginali, tanto che in una lingua come il francese
alcuni di essi ammettono un comportamento tipico dei predicati inergativi (ovvero la selezione di
avoir come ausiliare perfettivo). All’interno delle lingue romanze questi fenomeni di
ristrutturazione della gerarchia di selezione dell’ausiliare hanno anche un correlato diacronico,
dimostrato dal fatto che un’altra lingua romanza come lo spagnolo ha generalizzato haber come
unico ausiliare perfettivo. Qualcosa del genere è successo anche in rumeno, dove a parte pochissimi
casi è stato generalizzato l’esito di habere latino. Sostanzialmente, la sincronia di questi tre sistemi
linguistici fotografa tre fasi diacroniche di un sistema che ha interessato tutte le lingue romanze. La
creazione dei succedanei di habere come ausiliari perfettivi è un’innovazione delle lingue romanze
(latino aveva solo esse, le lingue romanze hanno affiancato il succedaneo di habere e questa
innovazione ha avuto più o meno successo nelle varie lingue romanze). Questo è ovviamente legato
alla diversa storia delle singole lingue: l’italiano-ha tra le tre la forma più diacronicamente antica
dove i domini di avere sono ancora abbastanza ristretti, perché esso fotografa quello che era il
fiorentino trecentesco che aveva questa situazione che si è poi cristallizzata. Il francese attuale
fotografa quella che è diventata una lingua nazionale solo alla formazione dello stato nazionale,
ovvero qualche secolo più avanti rispetto all’italiano. In spagnolo le ultime attestazioni di ser come
ausiliare perfettivo risalgono al 16/17 secolo, dopodiché haber è diventato l’unico ausiliare.
La doppia ausiliazione è quindi un fenomeno prettamente romanzo che risponde a un mutamento
strutturale prettamente romanzo, ovvero la distinzione all’interno dei tempi perfettivi tra perfettivi
aoristici e risultativi. Il latino assommava in sé in un solo perfetto queste due classi, mentre le
lingue romanze creano distinzioni tra quello che diventerà un passato remoto e la nuova creazione
del passato prossimo che, con una forma perifrastica, codifica una nuova categoria, il perfetto
risultativo, ovvero un’azione le cui conseguenze continuano ad avere validità al momento
dell’enunciazione. Questo tipo di mutamento è detto ‘mutamento innovante’, ovvero che crea
opposizione tra categorie che prima non c’era (‘mutamenti non innovanti’ anche detti ‘conservanti’
o ‘conservativi’: interessano solo l’aspetto formale, non creano né cancellano categorie es.
imperfetto da io amava/tu amava/egli amava è diventato io amavo/tu amavi/egli amava, muta
qualcosa ma non altera le categorie linguistiche, codifica le stesse funzioni di prima).
Le proprietà azionali dei predicati e anche altre proprietà semantiche diventano poi parametri
rilevanti ai fini di questo fenomeno, che fa parte dei tanti che hanno a che fare con l’intransitività
scissa che a sua volta più in generale è una delle tante manifestazione dei fenomeni di interfaccia
tra semantica e sintassi («Unaccusativity is semantically determined but syntactically represented.»
(Levin e Rappaport Hovav, 1995: 21) – le ragioni della scissione tra le due diverse classi di
predicati intransitivi sono ragioni di ordine semantico, ma la manifestazione ha a che fare con le
sue manifestazioni sintattiche, es. con l’ausiliare con cui si combinano o la possibilità di essere
soggetti o meno alla trasformazione in passivo).
Costrutti risultativi in inglese: costrutti in cui un attributo (nella maggior parte dei casi un
aggettivo) indica lo stato risultante dall’azione su un determinato argomento. Es. predicati
transitivi: l’argomento di cui viene indicato lo stato risultante è l’oggetto
TRANS. John hammered the metal flat
In italiano per rendere questa frase dovremmo usare una perifrasi del tipo John ha martellato il
metallo fino a farlo diventare piatto.
Questa stessa costruzione in inglese è permessa anche da alcuni predicati intransitivi, gli
inaccusativi telici, in cui c’è all’interno della rappresentazione semantica uno stato risultante.
INTRANS. The river froze solid
l’aggettivo indica lo stato risultante in cui l’argomento (sogg. Intransitivo) si trova come esito del
processo indicato dal predicato.
Questo non è possibile con gli intransitivi inergativi es. *The dog barked hoarse
Anche il costrutto risultativo dell’inglese è quindi un criterio diagnostico valido per individuare due
diversi comportamenti all’interno della classe dei predicati intransitivi. Alcuni lo ammettono
(inaccusativi), altri no (inergativi), e la ragione è sempre di ordine semantico.
Verbi come abbaiare ammetterebbero questa costruzione se fatta con il riflessivo
es. The dog barked itself hoarse
questo perché aggiungiamo un oggetto (itself) che referenzialmente coincide con il soggetto
dell’azione, ma che sintatticamente svolge le funzioni di un oggetto, venendo trattato così come se
fosse un costrutto transitivo, dove hoarse è lo stato risultante dell’argomento itself. Così come The
dog barked (the neighbours awake), dove awake è risultante rispetto a neighbours.
Abbiamo visto che i predicati inaccusativi che incorporano nel loro significato uno stato risultante
sono telici e selezionano essere (ita e fr.).
In italiano essere è anche ausiliare del passivo; ma il soggetto del costrutto passivo è quello del
costrutto attivo che subisce un mutamento di stato, un argomento di predicato che indica uno stato
risultante. Per questo passivi e inaccusativi sono spesso affini nel loro comportamento
morfosintattico. Un caso più evidente è quello della possibilità di essere ripreso dal pronome ‘ne’:
il soggetto dell’inaccusativo come arrivare può essere ripreso da ne (sono arrivati alcuni ragazzi /
ne sono arrivati alcuni), ma anche il soggetto del predicato passivo (sono state mangiate delle
mele / ne sono state mangiate alcune). Di nuovo, questi due costrutti sono affini rispetto a molti
comportamenti, e ciò deriva dal fatto che entrambi sono legati a stati risultati, sono di tipo telico.
13.11 SLIDE 9
La rappresentazione in forma logica- un modello che ci consente di scomporre le proprietà
semantiche del predicato in uno dei tanti possibili sistemi di scomposizione, tale che dalla struttura
del predicato e di come è rappresentato l’evento possiamo derivarne le proprietà azionali ma
soprattutto i ruoli semantici assegnati ai suoi argomenti. Versione semplificata della
rappresentazione adottata nella grammatica del ruolo e del riferimento (Role and reference
grammar) – autore di riferimento per questo filone è Van Valin. Modello con approccio
funzionalista che parte dall’assunto che la lingua codifichi a livello sintattico e morfosintattico le
proprietà semantiche e pragmatiche.
Da questo punto di vista, la struttura semantica del predicato determina la struttura di tutto il nucleo
predicativo (predicato + argomenti - il cui numero varia in base alla valenza del predicato).
In questo modello i due tipi di predicato, di attività e stativi, sono utilizzati come punto di partenza
per derivare le altre classi. Sono i due costituenti di partenza perché rappresentano l’opposizione
semantica e cognitivamente fondamentale tra movimento e assenza di movimento, basilare nella
cognizione umana e nello specifico anche linguistica (l’opposizione animato-inanimato in funzione
della presenza-assenza di movimento è già presente ad esempio nell’indovinello della Sfinge di
Edipo).
Predicati stativi (non dinamici, durativi, non telici) e di attività (dinamici, durativi e non telici)
costituiscono quindi la base per derivare anche le altre classi. Nel formalismo adottato da questa
rappresentazione, i predicati stativi sono rappresentati come semplici predicati riportando tra
parentesi gli elementi che fungono da argomento del predicato, che servono quindi a saturare la
valenza del predicato.
Predicati stativi:
Es. Mario è malato = malato (Mario) abbiamo solo indicazione dello stato con a fianco
l’argomento del predicato stesso, in questo caso il soggetto.
Mario ha un libro = avere (Mario, libro) abbiamo anche predicati biargomentali, il verbo con i
suoi due argomenti.
Il biglietto costa due euro = costare’ (biglietto, (due euro)) due euro è ulteriormente tra parentesi
perché non è un argomento del predicato costare, ma solo un modificatore.
Il fatto che ‘due euro’ non sia propriamente un argomento (così come un libro) è dimostrato dal
fatto che non possono essere volti al passivo.
Predicati di attività: viene indicato per convenzione ‘do’ che indica movimento, poi abbiamo il
predicato e l’argomento e la valenza come per gli stativi, ma indicando con ‘do’ la presenza di un
evento dinamico viene indicato anche l’argomento che avvia l’evento, e che svolge il ruolo
sintattico di soggetto.
Es. Mario nuota: do’ (Mario, [nuotare’ (Mario)])
Mario dipinge quadri: do’ (Mario, [dipingere’ (Mario, (quadri))])
A partire da queste due forme di rappresentazione dell’evento (una per eventi stativi e una per
eventi dinamici) è possibile derivare le altre due classi azionali, ovvero trasformativi e risultativi. La
loro caratteristica più saliente è la telicità (la maggiore duratività di uno rispetto all’altro è un tratto
che linguisticamente non si traduce in una codifica che li distingua l’una dall’altro, è più importante
la telicità). Nella rappresentazione in forma logica, un predicato telico (che preveda quindi un punto
di arrivo) si rappresenta usando la stessa forma dei predicati di stato, predicato + argomento
preceduta dall’operatore ‘become’ che indica il passaggio a un nuovo stato, una mutazione avvenuta
che porta a uno stato finale diverso dalla condizione iniziale di partenza.
Es. La vernice è asciugata = BECOME asciutto’ (vernice)
Il palloncino è scoppiato = BECOME scoppiato’ (palloncino)
L’altra grande classe che analizziamo è quella dei predicati transitivi veri e propri, anche detti
causativi o anche gli usi telici dei predicati di attività. Ha una struttura più complessa delle altre. In
un predicato transitivo tipico l’oggetto riveste il ruolo semantico di paziente e subisce le
conseguenze di un’azione a sua volta avviata dal soggetto, o agente. Anche nella struttura logica, il
predicato transitivo è scomponibile in questi due eventi.
Es. Leonardo dipinse la Gioconda = do’ (Leonardo, [dipingere’ (Leonardo, Gioconda)]) CAUSE
[BECOME dipinta’ (Gioconda)] l’intervento è scomposto in questi due sotto eventi: la prima
parte corrisponde alla struttura del predicato di attività che avvia l’azione. Questo sotto evento
causa un secondo sotto evento, ovvero un mutamento di stato nel secondo argomento del predicato,
che ha la struttura che abbiamo visto per i risultativi.
Combinando quindi i due predicati di base abbiamo la rappresentazione in forma logica dei
predicati transitivi.
Per precisare ulteriormente, nella proposta di rappresentazione in forma logica, Van Valin propone
una distinzione tra i predicati in cui l’agentività del soggetto è lessicalizzata nel predicato stesso, e
quei casi in cui il soggetto potrebbe non essere agentivo.
Nel primo caso, propone di utilizzare DO in maiuscolo (I congiurati assassinarono Cesare= DO
(congiurati, [assassinare’ (congiurati, Cesare)]) CAUSE [BECOME ucciso’ (Cesare)]
Questa distinzione ha qualche conseguenza a livello di codifica grammaticale es. assassinare VS
uccidere: assassinare= implicita la presenza di un soggetto agentivo / uccidere=soggetto potrebbe
non essere agentivo in forme come uccidere, verbo pienamente transitivo, a volte è possibile
omettere l’oggetto. In quel caso il predicato assume un’interpretazione di tipo abituale (è in carcere
perché ha ucciso), che diventa meno accettabile in un caso come assassinare dove invece abbiamo
un’agentività lessicalizzata nel predicato stesso.
Abbiamo visto quindi che i predicati tipicamente inaccusativi, che selezionano categoricamente
essere in italiano, sono i predicati telici, che indicano mutamento di stato o luogo. ‘Essere’ si
seleziona anche come ausiliare di passivo quando l’oggetto transitivo viene promosso a soggetto;
l’oggetto transitivo viene inserito nella stessa struttura logica in cui vengono inseriti i soggetti dei
predicati inaccusativi. Quindi ‘essere’ funziona sia da ausiliare perfettivo per inaccusativi che da
ausiliare passivo nei transitivi perché chiama in causa la presenza di un argomento che è inserito in
una struttura logica di questo tipo. Entrambe codificano uno stato risultante. La rappresentazione in
forma logica ci consente quindi di mettere insieme manifestazioni diverse di uno stesso fenomeno
(in questo caso, quello dello stato risultante).
La scomposizione degli eventi in diversi sotto eventi ci fa cogliere questa affinità.
Quello che ulteriormente consente la rappresentazione in forma logica dei predicati è quello di
derivare anche i ruoli semantici degli argomenti proprio a partire dalla struttura logica. Ad esempio,
nei predicati transitivi: l’argomento (Y) che subisce lo stato risultante corrisponde all’oggetto,
mentre l’argomento (X) che avvia l’attività è quello che corrisponde al soggetto. Da qui vengono
derivati i due principali ruoli semantici, anche se nell’ambito della ‘role and reference grammar’ si
parla più di macroruoli semantici. Essi sono un modo di rappresentare i rapporti semantici
all’interno della struttura predicativa.
Si è scelto di non attenersi ai classici ruoli semantici (agente, paziente, beneficiario etc.) perché se
cominciamo a cercare una rappresentazione dei diversi ruoli semantici che gli argomenti possono
assumere, individuiamo sicuramente dei punti focali come agente: tipo di partecipante animato con
controllo volontario sull’evento che avvia un’azione della quale non subisce le conseguenze /
paziente: argomento privo di controllo volontario, che subisce le conseguenze dell’azione, ma al
fianco dell’agente potremmo inserire un ruolo semantico detto dell’ ‘efficiente’ che pur non agendo
volontariamente provoca un cambiamento nel paziente (Mario uccide Luigi VS un fulmine uccise
Luigi). Potremmo quindi individuare una grande serie di ruoli semantici (‘esperiente’, ovvero
partecipante non sempre volontario, animato che subisce esso stesso una condizione espressa dal
predicato es. io penso / io ho fame), tanti quanti sono i predicati che ci vengono in mente, perché
ogni azione ha proprie caratteristiche che la distinguono dalle altre (to dance- dancer, to kill-killer,
to run-runner).
Il primo passo è quello di passare a un livello più astratto, in cui troviamo quindi tutti i vari ruoli
che si potrebbero ipotizzare riuniti sotto le etichette più classiche (agent, experiencer,pacient etc.). I
macroruoli racchiudono poi a livello ancora più alto i vari ruoli sotto il nome di attore e undergoer;
questi due macroruoli (che potremmo definire nel seguente modo actor: partecipante che avvia e
controlla la situazione denotata dal predicato, undergoer: non avvia la situazione ma ne è in qualche
modo coinvolto) chiamano in causa almeno tre diversi tratti
-controllo volontario
-dinamicità dell’evento
-grado di coinvolgimento
e ancora una volta hanno al proprio interno una struttura prototipica: actor si realizza
prototipicamente nel ruolo di agente, ma come membri più marginali può avere anche l’efficiente o
l’esperiente, così come l’undergoer che ha come realizzazione prototipica il paziente, ma può
includere ad esempio anche il tema. Actor prototipico: ha controllo volontario, è argomento di un
predicato di attività, non subisce conseguenze dell’evento
Undergoer: non ha controllo volontario, è argomento di predicato di stato, subisce la conseguenze
dell’evento.
Partendo dalla rappresentazione in forma logica, vediamo che l’argomento tipicamente associato al
macroruolo di undergoer è quello del predicato di stato risultante (oggetto transitivo) o stato
inerente (il libro è sul tavolo), telici (subiscono mutamento di stato). Il prototipo dell’actor è invece
il primo argomento di un predicato di attività
I casi più sfuggenti sono gli stativi bi argomentali, dove gli elementi non hanno proprio le
caratteristiche di un costituente argomentale a tutti gli effetti (Mario ha un libro non può
esattamente essere passivizzato). I due argomenti sono quelli che creano più problemi dal punto di
vista della codifica morfosintattica. Non realizzano le corrispondenze canoniche e più frequenti tra
i macroruoli semantici e i ruoli sintattici.
È facile individuare queste corrispondenze all’interno della lingua: undergoer = oggetto diretto /
actor = soggetto. Anche rispetto al piano pragmatico è possibile individuare delle corrispondenze
privilegiate: soggetto = topic / oggetto = comment. Ovviamente non è detto che tutti le
corrispondenze corrispondano sempre al 100%; quando questo succede, le lingue lo segnalano in
qualche modo. Un caso particolarmente evidente e molto studiato (sembra quasi un universale
linguistico) è quella dei ‘costrutti esistenziali’ o ‘presentativi’, ovvero del tipo ‘C’è
qualcuno/qualcosa’.
Italiano: ci sono tanti ragazzi in classe tanti ragazzi si comporta dal punto di vista dell’accordo
morfosintattico come un soggetto a tutti gli effetti, ma occupa la posizione che non è tipicamente
dell’oggetto (si trova dopo il verbo), e se lo mettessimo in ordine non suonerebbe (tanti ragazzi ci
sono in classe). Analizzandolo vediamo che, anche se ricopre il ruolo sintattico del soggetto, dal
punto di vista semantico (è un tema) e pragmatico (non è topic, ma è un referente introdotto in quel
momento durante il discorso) non ha le caratteristiche tipiche del soggetto.
In tante lingue del mondo, in strutture di questo tipo il soggetto non viene codificato, e non è un
caso. Questi costrutti hanno struttura abbastanza affine (es. hanno quasi tutti un elemento locativo)
-Ingl. there are many students le proprietà tipiche del soggetto in inglese (accordo con predicato,
posizione preverbale) sono compiute da due diversi elementi: many students fa l’accordo con il
predicato, mentre l’elemento locativo there sta in posizione preverbale (è quello che al passivo si
sposta, come farebbe normalmente un soggetto). L’unico elemento referenziale presente non ha
tutte le caratteristiche proprie del soggetto, perché semanticamente e pragmaticamente non è né un
actor prototipico, né un topic prototipico.
-Ted. es gibt einen (*ein) Mann nel caso del tedesco, un argomento di questo tipo è realizzato
all’accusativo; trattato come un oggetto a tutti gli effetti.
-Fr. il y a des garçons des garçons non regge l’accordo ed è in posizione preverbale, il soggetto è
‘il’. Questa costruzione con avoir nel senso di esserci proviene dal latino, es. ‘hic habet reliquias’ =
qui c’è le reliquie del martire …
Questa mancanza di accordo tra sintagma nominale e forma verbale la troviamo anche in qualche
forma regionale dell’italiano (soprattutto toscano) ‘c’è tanti problemi’. Qui siamo di fronte a
costrutti esistenziali dove l’argomento che dovrebbe avere le caratteristiche del soggetto
intransitivo, manca di alcune di esse. Questa altro non è che la conseguenza del fatto che
l’argomento non ha né proprietà semantiche né pragmatiche tipicamente associate al ruolo
sintattico del soggetto; c’è dietro l’assunto tipicamente funzionalista secondo il quale le proprietà
semantiche e pragmatiche vengano codificate a livello sintattico e morfosintattico.
In assenza delle corrispondenze canoniche tra piano semantico e sintattico, a livello sintattico e
morfosintattico vengono codificate le proprietà di un argomento non tipicamente associate all’actor
ma all’undergoer, tanto che in alcuni casi lo troviamo marcato all’accusativo o in posizione post
verbale.
Gli altri tipi di costrutti dove gli argomenti hanno caratteristiche dell’underogoer e sono trattati
anche sintatticamente come oggetti sono i costrutti esperenziali. Così come negli esistenziali,
troviamo strategie di codifica non canonica degli argomenti, segno che siamo in un punto critico
della grammatica dove salta la normale corrispondenza tra macroruolo semantico e ruolo sintattico.
Es. ho fame / ho sete / ho freddo in italiano il soggetto viene grossomodo trattato come tale, ma il
costrutto di per sé non è transitivo o passivizzante.
tedesco: unico argomento che riveste il ruolo semantico dell’esperiente e che ha tratti tipici
dell’undergoer, in questi costrutti è marcato dal caso accusativo come se fosse un oggetto es
hungert mich = ciò affama me, es friert mich = ciò raffredda me.
inglese: in Shakespeare o Tannison era trattato come argomento marcato all’accusativo di un
predicato di conoscenza ‘Me thinkes you are sadder’ = penso che tu sia più triste l’argomento
esperiente del verbo pensare è marcato come ‘me’, come se fosse un oggetto come accade nei
predicati impersonali (impersonali perché manca un soggetto canonico, ovvero un soggetto che
abbia i tratti semantici tipicamente associati al ruolo sintattico di soggetto).
Ci sono lingue in cui il principio semantico dell’opposizione tra actor e undergoer si applica
sistematicamente nella codifica degli argomenti del predicato (es. l’argomento del predicato di un
verbo come nuotare riceve la stessa marca del soggetto di un predicato come uccidere, ma
l’argomento di un predicato come morire riceve la stessa marca dell’oggetto del verbo uccidere).
Sono lingue tipicamente del Nord America o indigene del sud America, in cui vige l’opposizione
tra argomenti semanticamente attivi (actor) e passivi (undergoer). Per vedere all’opera un
fenomeno del genere bisogna andare indietro nel tempo, perché un sistema di questo tipo si è
diffuso nella transizione tra latino e lingue romanze; è fondamentalmente la ragione per cui il
paradigma nominale romanzo tranne pochi casi ha una forma unica che prosegue quello che era
l’accusativo latino.
L’accusativo ha infatti a un certo punto iniziato a marcare non solo l’oggetto, ma anche soggetti
inaccusativi, poi soggetti inergativi e infine soggetti transitivi diventando l’unica forma casuale del
paradigma. Questa distinzione che associa i soggetti inaccusativi all’oggetto e i soggetti inergativi
al soggetto intransitivo, che il principio semantico che sta dietro a tutti i fenomeni visti finora,
affonda le sue radici nel latino tardo dove era molto diffuso. Nella situazione canonica del latino
classico la morfologia nominale prevede che gli oggetti transitivi siano marcati dall’accusativo,
mentre tutti i soggetti dal nominativo; vige l’accordo tra soggetto e verbo; tendenzialmente il
soggetto precede l’oggetto.
Dal IV secolo d.C. però cominciamo ad avere in testi abbastanza vicini alla lingua d’uso costrutti di
questo tipo
Sard-am (SOGG) exossatur et teritur […] ment-am (SOGG). (Apic. VII 13.5: fine IV sec. d.C.) =
abbiamo due costrutti passivi: la sardina viene deliscata e viene tritata la menta. I due soggetti sono
marcati con il caso accusativo, che sarebbe quello dell’oggetto. Il soggetto passivo corrisponde
all’oggetto transitivo, è un undergoer prototipico.
Fit oration-em (SOGG). (Aeth. XXV 3: ca. 400 d.C.) = qui abbiamo soggetti intransitivi e
inaccusativi: viene fatta una preghiera, dove soggetto passivo è semanticamente un oggetto
transitivo / ha luogo una preghiera, dove abbiamo un predicato intransitivo inaccusativo il cui
argomento ha i tratti tipici dell’undergoer.
Tot-am curation-em (SOGG) haec est. (Mul. Chir. 526: IV sec. d.C.) = tutta la cura è questa:
predicato stativo, soggetto marcato all’accusativo.
Si pulmon-em (SOGG) dolebit. (Mul. Chir. 368: IV sec. d.C.) = se il polmone darà dolore:
predicato intransitivo inaccusativo, soggetto marcato all’accusativo
Quant-os-cumque fili-os (SOGG) […] ei nati fuerint. (Lex Cur. XVIII 8: inizio IX sec. d.C.) =
quanti siano i figli che sono nati a lui: predicato inaccusativo, soggetto marcato all’accusativo.
In questa fase della transizione abbiamo esattamente un allineamento con l’accusativo che viene
utilizzato tanto per gli oggetti quanto per soggetti inaccusativi; è qui che si crea per le lingue
romanze la ripartizione tra i due diversi tipi di argomenti, actor e undergoer, dove l’accusativo
cessa di essere il caso dell’oggetto e diventa il caso dell’undergoer, marcando l’oggetto ma anche
gli argomenti che ricoprono il ruolo semantico di undergoer.
Questa opposizione si è progressivamente neutralizzata, perché in fasi successive l’accusativo
inizia a marcare anche soggetti intransitivi inergativi e da ultimo arriva a marcare anche i soggetti
transitivi (a questo punto abbiamo ormai una situazione protoromanza in cui l’accusativo è
diventato ormai l’unica forma del paradigma nominale e la codifica rimane ruolo solo dell’accordo
morfosintattico e dell’ordine dei costituenti).
Ma perché a un certo punto in latino tardo alcuni soggetti hanno iniziato a essere marcati
all’accusativo? Perché c’è stato un momento in cui si è persa progressivamente la competenza del
latino e sono quindi fenomeni legati a un momento di crisi della lingua e si sono ristrutturati dei
rapporti nella struttura del predicato, oppure ampliano tendenze già presenti nella lingua?
In alcuni testi troviamo nomi maschili con allomorfi neutri (che vengono rappresentati non come in
‘us’ ma in ‘um’)
-Autumnus (masch.) MA
Autumnum ventosum fuerat. (Varr.At. Eph. in Non. Comp.Doc. 71 M) ‘L’autunno era stato
ventoso.’
-Uterus (masch.) MA
Uterum dolet. (Pl. Aul. 691) ‘Mi duole il ventre.’
E si nota che compaiono come neutri esclusivamente in questi casi (non abbiamo nessun caso di
neutro plurale per autunno). Analizzano il contesto in cui compaiono, notiamo che compaiono oltre
che come marche in funzione dell’oggetto, anche soggetto di predicati inaccusativi. Niente vieta di
vedere queste forme non come neutre, dato che non è attestato in altri casi, ma accusativi maschili:
siamo quindi di fronte alla stessa estensione dell’accusativo in funzione di soggetto inaccusativo
che ritroviamo poi più amplificata in latino tardo. I presupposti strutturali li avremmo quindi già nel
I secolo a.C., il che segna un punto a favore della continuità, ovvero molti di quei fenomeni che
troviamo in questo periodo riemergono qualche secolo più tardi, quando il sistema entra in crisi e
inizia la transizione verso lingue romanze.
SLIDE 10
Questa variazione si spinge ancora più in là, perché c’è almeno un altro tipo di sistema di codifica
delle relazioni grammaticali attestato nelle lingue del mondo, che funziona in maniera ancora
diversa: i sistemi di codifica su base semantica. Essi non sono definibili in funzione delle tre
posizioni argomentali, dei tre primitivi A, S, O, quanto piuttosto sull’opposizione di natura
semantica tra actor e undergoer.
Il primo a fornire una descrizione di questi sistemi di codifica è stato Sapir, che essendosi molto
occupato di lingue Nord Americane, nota che in queste lingue gli elementi pronominali sono
classificati in due gruppi che non corrispondono alle nostre normali categorie di soggetto e oggetto.
Alcune sono lingue in cui il soggetto intransitivo e l’oggetto transitivo vengono distinti dal soggetto
transitivo: S e O vengono distinti da A, che corrisponde al sistema ergativo-assolutivo. Altre lingue
invece distinguono soggetti inattivi e oggetti transitivi, dall’altra soggetti attivi; per definire queste
lingue viene quindi già introdotto un parametro semantico questa seconda tipologia è quella che
configura i sistemi di codifica su base semantica, dove gli argomento vengono distinti non in
funzione della posizione argomentale ma in funzione del diverso macroruolo.
Sapir ci dà inoltre una rassegna dei diversi sistemi di codifica vigenti in queste lingue; due sono
riconoscibili come due che abbiamo già affrontato. Troviamo infatti nella prima riga il sistema
ergativo-assolutivo, nella quarta riga il sistema nominativo-accusativo. Poi nella terza riga,
troviamo un sistema in cui ciascuno tipo di argomento ha una marca morfologica diversa: l’oggetto
è marcato con caso A, il soggetto intransitivo con caso B e quello transitivo con caso C (sistema
tripartito). Ci sono anche lingue che non operano distinzione morfologica tra i diversi argomenti:
sono lingue con sistema neutro (come l’italiano, che dal punto di vista morfologico non differenzia
soggetto e oggetto, tranne nei pronomi personali di 1°,2° e 3° persona). Il problema maggiore sorge
alla seconda riga, dove l’oggetto transitivo ha marca A, che ritroviamo per alcuni soggetti
intransitivi; altri soggetti intransitivi sono invece codificati come il soggetto transitivo: la categoria
di soggetto intransitivo è scissa. Questo significa che non ci possiamo avvalere, se non per praticità
descrittiva, del primitivo sintattico S in queste lingue, perché non esiste una categoria unitaria S.
Questi sono appunti i sistemi detti attivo/inattivo, o ‘sistemi di codifica su base semantica’.
1.O = S ≠ A: assolutivo/ergativo
2.O = SO ≠ SA = A: attivo/inattivo
3.O ≠ S ≠ A: tripartito
4.O ≠ S = A: nominativo/accusativo
5.O = S = A: neutro
In opposizione ad esso possiamo individuare i ‘sistemi di codifica su base sintattica’ (ovvero il
sistema nominativo-accusativo, ergativo-assolutivo e il sistema tripartito), che sono descrivibili a
partire dai tre primitivi che individuano le tre diverse posizioni sintattiche di un argomento.
Lo studio dei vari sistemi di codifica morfologica si basa su uno studio del 2005, dove in un
capitolo sono classificate 190 lingue e classificate sulla base dei diversi sistemi che individua. Di
queste, 98 mostrano morfologia di tipo neutro, 52 hanno morfologia di tipo nominativo-accusativo,
32 di tipo ergativo-assolutivo e soltanto 4 hanno un sistema tripartito. Ci sono poi anche 4 lingue
con sistema attivo/inattivo; visto così sembrerebbe che attivo/inattivo sia un sistema molto raro, ma
in realtà c’è una distorsione creata dal tratto preso in esame (solo morfologia casuale). In realtà, le
lingue con sistema attivo/inattivo non funzionano con morfologia casuale, ma con un sistema di
affissi aggiunti direttamente al predicato, quindi in realtà sono un po’ più di 4.
Mettendo da parte gli altri tipi e analizzando solo lingue con sistema nominativo-accusativo,
ergativo-accusativo, notiamo che sono molto meglio attestate rispetto al sistema tripartito.
Nelle prime versioni del lavoro di Comrie era previsto un ulteriore tipo, il ‘sistema doppio-
obliquo’, del quale Comrie rilevava un solo esempio. In esso A e O sono codificati alla stessa
maniera e distinti da S.
Se c’è una sproporzione evidente, perché tra tutti i sistemi le lingue preferiscono quelli accusativo e
ergativo rispetto agli altri, qualche vincolo universale deve esserci. La spiegazione che viene data
normalmente (Comrey) è che la cosa principale della codifica degli argomenti del predicato è
quella di individuarli ciascuna in maniera univoca, marcando quale sia il ruolo di ciascuno rispetto
agli altri. Nel caso di un argomento di tipo S, non occorre alcuna marca esplicita perché il soggetto
intransitivo ricorre sempre da solo (anche Greenberg nota come il soggetto intransitivo è quello con
marca più semplice). Gli altri argomenti, A e O, ricorrono insieme perché argomenti del predicato
transitivo: per marcare uno dei due, possiamo usare quella che si usa per il soggetto intransitivo,
visto che ricorrono in predicati diversi, ed è quello che fanno i sistemi nominativo-accusativo e
ergativo-assolutivo. Il primo usa la marca di S per marcare anche A, il secondo per marcare anche
O. Con sole due marche casuali si possono così distinguere tre posizioni argomentali; sono i sistemi
di codifica più economici.
Il tripartito è più raro perché è il meno economico, visto che ogni posizione ha la sua marca. Anche
laddove presente nelle lingue del mondo, questo sistema non è mai dominante nelle lingue in cui
appare.
Il sistema doppio-obliquo invece dà una marca esplicita a S, ma non opera distinzione tra A e O che
sono gli argomenti che ricorrono insieme.
Un sistema che invece, affianco ai due di base sintattica, risulta molto importante, è quello su base
semantica, che configura una lingua in cui la codifica del soggetto intransitivo è scissa: alcuni sono
codificati come gli oggetti, altri come i soggetti transitivi O = SO ≠ SA = A
Di nuovo, salta fuori una scissione nella categoria dell’intransitività. I vari tentativi per descrivere
questo sistema (Sapir, Klimov, Perlmutter, Dixon) chiamano sempre in causa fattori semantici.
Una delle lingue più studiate in questo ambito è il Lakhota, dove gli argomenti del predicato sono
marcati con affissi pronominali aggiunti al predicato. Questi affissi possono appartenere a due
diverse serie:
serie ‘wa’
serie ‘ma’
In questa lingua gli argomenti alla terza persona vengono omessi: ‘io ucciderò’ il soggetto
transitivo di uccidere (argomento A) è marcato con ‘wa’, viceversa ‘egli mi ucciderà’, l’argomento
alla terza persona è omesso ma la prima persona in funzione di oggetto diretto viene marcato con
‘ma’. Argomento A e O vengono quindi marcate con affissi diversi.
Ciò che distingue questa lingua dalle altre è che questo sistema di codifica lo troviamo anche nei
predicati intransitivi: ‘io ho nuotato’ il soggetto è marcato come il soggetto di uccidere / ‘io sono
caduto’ il soggetto è marcato come l’oggetto di uccidere. La codifica degli argomenti del
predicato intransitivo è quindi scissa, alcuni sono marcati come A, altri come O.
Se guardiamo con quali predicati intransitivi troviamo affissi della serie ‘wa’ e con quali troviamo
affissi della serie ‘wa’, capiamo che tutti gli argomenti che esercitano controllo volontario
sull’azione sono marcati con ‘wa’, di contro gli argomenti dei predicati che non esercitano
controllo volontario sull’azione sono marcati con ‘ma’. Il tratto oppositivo è quindi di natura
prettamente semantica (si oppongono argomenti ascrivibili al macroruolo di actor a quelli
ascrivibili a macroruolo di undergoer)
27.11 SLIDE 10
Lingua Lakhota- gli argomenti del predicato vengono marcati tramite affissi pronominali che si
aggiungono al predicato. Ci sono due serie di affissi pronominali:
-serie ‘wa’
-serie ‘ma’
PREDICATO TRANSITIVO
wa-(A)ktékte ma-(O)ktékte
1SG.ATT-uccidere.FUT 1SG.INATT-uccidere.FUT
“Io ucciderò (lui/lei/quello/…).” “(Egli/ella/…) mi ucciderà.”
primo argomento affisso ‘ma’ che segna il secondo
PREDICATO INTRANSITIVO
wa-(SA)núwe ma-(SO)hįxpaye
1SG.ATT-nuotare 1SG.INATT-cadere
“Io ho nuotato.” “Io sono caduto.”
Unico argomento codificato con wa unico argomento marcato con ma
Nei predicati intransitivi la codifica è scissa: in alcuni casi come il primo argomento dei predicati
transitivi, in altri come il secondo argomento dei predicati transitivi.
Prefissi della serie attiva (verbi camminare, nascondersi)
Prefissi della serie inattiva (essere stanco/alto/felice, morire)
In questa lingua quindi il tratto rilevante alla categorizzazione degli argomenti non è un tratto
sintattico (non dipende dall’ordine delle parole nella frase), ma di natura semantica. Quindi, in
lingua Lakhota gli argomenti che esercitano un controllo volontario sull’evento sono marcati con
affissi della serie attiva, quelli non esercitano controllo volontario sono marcati con quelli della
serie passiva. Indipendentemente dalla transitività del significato, i predicati si differenziano in
attivi (controllo volontario) e inattivi (no controllo volontario).
Proprio per questo motivo, in queste lingue possiamo avere costrutti cosiddetti a ‘doppio paziente’
in cui, se i due argomenti in un predicato bi argomentale denotano entrambi i partecipanti che non
hanno controllo volontario, possono essere marcati entrambi da affissi di verbi inattivi, non è
quindi pertinente la distinzione tra argomento A e argomento O:
ˀiyé- ni- ma- hakeča
stesso- 2SG.INATT- 1SG.INATT- essere.di.altezza
“Io (-ma-) sono alto come te (-ni-).”
Per questa ragione, sistemi di questo tipo sono definiti sistemi di codifica su base semantica: la
categorizzazione degli argomenti non riflette l’opposizione tra posizioni sintattiche, ma
l’opposizione tra i due macroruoli.
Un’altra lingua di questo tipo che è stata molto studiata è il Guaranì, dove le cose funzionano
grossomodo alla stessa maniera. Rispetto alla situazione del Lathoka però, l’opposizione di natura
semantica non è determinata dallo stesso tratto, perché se in Lakhota il tratto che discriminava i due
argomenti era il controllo volontario, in questa lingua il tratto è l’opposizione tra il predicato di
attività e il predicato stativo. Il parametro è sempre di natura semantica, ma non ha più a che fare
con il controllo volontario, quanto piuttosto con l’azionalità del predicato.
Questo succede perché, sempre basandoci sui tre principali tratti dei due macroruoli, ciascuna
lingua che adotti questo sistema di codifica dà maggiore salienza ad un rispetto che all’altro; infatti
ad es. verbo morire: in Lakhota è pertinente il controllo volontario, quindi codificato con affissi
della serie inattiva, mentre in Guaranì è codificato con serie attiva prechè è pertinente l’opposizione
predicati stativi-attivi.
Questo invalida le obiezioni che sono state fatte rispetto all’ipotesi di un parametro semantico come
discriminante delle diverse strutture argomentali in queste lingue. L’obiezione veniva avanzata
perché l’ipotesi di partenza, la universal allignemt hypotesis di Perlmutter, (ipotesi che fosse
possibile individuare caratteristiche semantiche che universalmente spiegassero opposizione tra
predicati inergativi e inaccusativi) era sbagliata, perché le lingue individuano all’interno dei vari
tratti che definiscono i macroruoli un singolo tratto che sia determinante. Ciò non significa che non
sia possibile in toto tratti semantici pertinente all’opposizione, semplicemente ciascuna lingua
individua come determinante uno di questi tratti.
L’opposizione tra caso attivo e caso passivo quindi riflette sì l’opposizione tra i due macroruoli, ma
a loro volta i due macroruoli sono definibili sulla base delle tre caratteristiche, e ciascuna lingua tra
le tre caratteristica ne individua solo una come tratto determinante (es. Lakhota controllo
volontario, Guaranì predicati attivi o stativi) – arbitrarietà nella selezione dei tratti distintivi,
argomento già affrontato da de Saussure.
Una volta che si è capito che erano i macroruoli semantici ad essere pertinenti nella codifica
argomentale, è stato possibile fare diverse ipotesi. Quelle fondamentali sono due: l’IPOTESI
FORTE ha carattere più universale nelle sue intenzioni. Si riconosce che sono pertinenti i due
macroruoli: per stabilire quali argomenti saranno codificati con affissi la serie attiva e quali con
affissi la serie inattiva, bisogna vedere quanti tratti tipici di un macroruolo quel singolo argomento
contiene. Si tratta quindi di fare la somma delle caratteristiche semantiche di un argomento e
decidere in base a quello (se ha più caratteristiche tipiche dell’actor-affisso attivo/ha più
caratteristiche dell’undergoer-affisso inattivo). Questo però presenta dei problemi: morire e cadere
in Guaranì hanno più tratti delll’undergoer (subiscono mutamento, non esercitano controllo
volontario) eppure il Guaranì li codifica con affissi della serie attiva, perché non ci si basa sulla
sommatoria delle caratteristiche, piuttosto (IPOTESI DEBOLE:) ciascuna lingua seleziona come
pertinente un singolo tratto. Questa ipotesi ha un approccio meno universalistico.
Inoltre, in queste lingue la transitività non viene esplicitamente codificata.
Takhota: verbo ‘uccidere’: argomento alla 3° persona omesso, anche se il predicato prevede
teoricamente due argomenti, viene codificato esattamente come un intransitivo, tipo nuotare.
es.
TRANSITIVO wa-(A)ktékte (io ucciderò) affisso pronominale attivo + predicato / manca la
codifica del secondo argomento uguale all’INTRANSITIVO wa-(SA)núwe (io ho nuotato)
affisso pronominale attivo + predicato
VERBO TRANSITIVO ma-(O)ktékte (mi ucciderà) affisso pronominale inattivo + predicato /
manca la codifica del primo argomento, uguale all’INTRANSITIVO ma-(SO)hįxpaye (io sono
caduto)
Importante anche analizzare lingue con argomento sintattico privilegiato: tipo di argomento che
appare in costrutti che pongono delle restrizioni sul numero di argomenti che possono comparire al
loro interno. Queste lingue sembrerebbero prive di un cosiddetto pivot sintattico (non ci sono
indagini mirate con risultati certi).
Es. Acehnese (zona Indonesia), lingua in cui il tratto discriminante è la presenza/assenza di
controllo volontario. Questo tratto sembra essere pertinente anche nella selezione degli argomenti
che possono comparire nelle costruzioni ‘a controllo’ (es. volere: l’argomento della frase
completiva è omesso perché co-referenziale con l’argomento del verbo della principale).
Possiamo avere costrutti con primo argomento del predicato transitivo:
Geu-tém taguen bu
3SG.ATT-volere cuocere riso
‘Egli/ella vuole cuocere del riso.’
SLIDE 11
Marcatezza- una forma è più marcata rispetto ad un’altra. È uno strumento di indagine molto
gettonato, perché sulla base dei diversi rapporti di marcatezza che si instaurano tra le forme
linguistiche è possibile capirne anche il diverso comportamento. Una definizione univoca di
marcatezza, però, non è semplice da individuare; una forma marcata può essere più difficile di una
non marcata, ma è anche al tempo stesso più rara della non marcata, che assoggetta maggiori
vincoli… ogni definizione coglie aspetti diversi delle tante manifestazioni a livello linguistico del
concetto di marcatezza.
I rapporti di marcatezza non si instaurano solo in ambito linguistico; è più in generale un tipo di
organizzazione (gerarchie di marcatezza) di anche altri domini cognitivi e di rappresentazione
dell’esperienza umana. Ogni situazione tipizzabile, ogni rituale, ogni testo o categoria linguistica
sono coerentemente organizzati attraverso la concatenazione di una seria di proprietà in cui, la
presenza di alcune implica la presenza di altre, mentre altre ancora ci paiono fuori luogo in quel
contesto.
Ad esempio… su una spiaggia ad agosto ci aspettiamo gente in costume e non con lo smoking,
perché abbiamo determinate aspettative. Così, prendendo in considerazione una categoria della
lingua, un suono sonorante ce lo aspettiamo con una realizzazione sonora.
I diversi approcci a una definizione di marcatezza in senso linguistico sono riconducibili a due
contributi abbastanza recenti, che prendono in esame due aspetti diversi.
1. Andersen, 2001. Rappresenta le relazioni di marcatezza in termini di iperonimia e iponimia: il
termine non marcato è l’iperonimo del termine marcato. Il marcato avrebbe tratti in più rispetto al
non marcato tanto da restringerne la frequenza e la diffusione. Ad esempio, il plurale= marcato
rispetto al non marcato singolare, perché caratterizzato dal plurale con tratto in più rispetto al
corrispettivo non marcato. Il singolare però in quanto categoria non marcata può essere usata come
plurale, perché avendo men caratteristiche specificate può ricoprire anche le caratteristiche della
forma marcata (il cane è il migliore amico dell’uomo cane=tutti i cani; nomi collettivi), non
abbiamo al contrario nomi plurale che abbiano referenza singola.
2. Haspelmath, 2006. Rileva la correlazione costante tra marcatezza e frequenza (le non marcate
sono più frequenti), e ne fa il tratto esplicativo della marcatezza. Egli crede infatti che è proprio
perché certi costrutti sono usati più raramente che diventano marcati, non il contrario.
Quello che entrambi colgono, seppur nei differenti approcci, è che queste relazioni sono sempre di
tipo asimmetrico. Ad esempio singolare-plurale: relazione asimmetrica sono due diversi tratti del
valore di numero che applichiamo alla categoria di nome, ma non sono sullo stesso piano: il
singolare può fare la veci del plurale ma non viceversa. Maschile-femminile: relazione
asimmetrica il participio al maschile può riferirsi a un soggetto femminile ma non viceversa.
La relazione è asimmetrica tra due elementi linguistici altrimenti uguali (Croft).
In linguistica il concetto di marcatezza si può intendere in parecchi modi diversi; Hasmelmath
indica 12 diverse accezioni negli studi linguistici. Sono poi raggruppabili entro 3 significati di
marcatezza più generali e circoscrivibili.
1. marcatezza come complessità: l’elemento marcato della correlazione ha qualche tratto in più
rispetto al non marcato (più o meno stesso concetto di Andersen). Vale sia su piano fonologico che
semantico che morfologico.
Es. piano fonologico: fonema più complesso di un altro perché ha un tratto in più- suoni sonori più
marcati dei suoni sordi / suoni nasali più marcati dei suoni orali, hanno in aggiunta il tratto della
nasalità. Questa complessità riflette una complessità articolatoria – produrre un suono
sonoro/nasale è più complesso rispetto a un suono sordo/orale. I più complessi sono anche i più rari
(vocali nasali molto più rare delle vocali orali). Nel momento in cui si aumentano i tratti di un
elemento, lo specifichiamo e ne restringiamo il campo estensionale (più è particolareggiato, meno
sono i referenti a cui si può applicare).
Anche tra questi piani diversi si possono istituire delle correlazioni: ciò che semanticamente è più
marcato è anche morfologicamente più marcato (singolare-plurale: a livello morfologico ha anche
il suffisso del plurale in più / presente-passato). In tutti questi casi, quello che hanno in comune i tre
diversi piani è la presenza di un qualcosa in più nelle forme marcate rispetto alle non marcate.
L’idea di marcatezza=complessità è spesso sovrapposta ad altre diverse accezioni, che vedono i
rapporti di marcatezza come un diverso grado di difficoltà, inteso come difficoltà nel produrre o
analizzare una certa forma rispetto ad un’altra.
2. marcatezza come difficoltà di produzione, analisi, acquisizione. In qualche caso troviamo
coinvolto lo stesso rapporto che avevamo visto prima in marcatezza=complessità (nasali VS orali
prevede più difficoltà nell’articolazione).
Es. piano fonetico: affricate più marcate delle occlusive, più difficili da produrre.
Es. piano morfologico: plurale inglese dog-dogS è molto più identificabile rispetto a mouse-MICE.
I fenomeni di allomorfia producono forme che possiamo definire come più marcate, perché più
difficili da far corrispondere a un certo paradigma, o più difficili da scomporre.
Es. piano concettuale (sintattico): passivo costrutto più marcato dell’attivo, altera le corrispondenze
canoniche tra piano semantico e sintattico. In più non tutte le lingue del mondo hanno il passivo, e
anche nelle lingue che lo hanno è molto più raro dell’attivo. Le diverse manifestazioni della
marcatezza tornano quindi ad essere correlate.
3. marcatezza come rarità, anormalità, non canonicità. Non è tanto diverso da quello che abbiamo
detto tra attivo e passivo. Può essere inteso sia come rarità nella produzione linguistica, sia come
quella di Levinson, che nel parlare dei rapporti di marcatezza li correla direttamente a una
maggiore o minore marcatezza della reale situazione del mondo esterno che viene codificata nella
lingua. Ovvero, una situazione insolita e anormale verrà codificata con mezzi linguistici più
marcati. Questa posizione è la più complicata da prendere totalmente per valida, perché quello che
noi notiamo nelle lingue in virtù dell’arbitrarietà radicale di Saussure non c’è isomorfia tra
complessità del reale e complessità linguistica. Ad es. singolare meno marcato/plurale più
marcato/duale ancora più raro: se noi prendiamo i corrispettivi valori aritmetici di queste categorie
linguistiche, notiamo che quello che linguisticamente si codifica come ‘duale’, nella realtà extra-
linguistica è molto più semplice e diffuso della pluralità. Se la marcatezza linguistica riflettesse la
marcatezza della realtà, dovremmo aspettarci da tutte le lingue il singolare, il duale e in meno
lingue il plurale.
La marcatezza non si manifesta mai in un’unica accezione, si declina sempre in più manifestazioni
differenti. Tipologicamente, guardando l’ordine basico degli elementi, quello SOV e SVO sono
quelli non marcati (maggior parte delle lingue del mondo lo presentano), mentre sono più rari gli
OVS o VSO. Ciò è la conseguenza della marcatezza in quanto disallineamento tra il normale ordine
della struttura informativa della frase e quello che abbiamo in queste due strutture: infatti, in prima
posizione si colloca normalmente ciò di cui si parla, mentre OVS e VSO lo mettono in ultima o
seconda posizione, disallineando l’ordine topic-comment basico. Inoltre, sono tipologicamente
marcati perché rari tra le lingue del mondo.
Es. marcatezza distribuzionale: elemento marcato più raro perché soggetto a maggiori restrizioni,
come argomento sintattico privilegiato e il non privilegiato (pivot-non pivot). Ciò si traduce
ovviamente in una maggiore distribuzione dell’uno rispetto all’altro.
Es. marcatezza parametrica: unica accezione usata anche in ambito generativista. Costrutti
marcati=si discostano dai principi della grammatica universale dal punto di vista della variazione
parametrica. La loro rarità viene dal fatto che non sono conformi al modello della grammatica
universale. Jakendoff: caso non marcato, quello selezionato dalla grammatica universale – caso
marcato, quello che si discosta da essa.
Tutte queste diverse accezioni di marcatezza si possono assommare in una più generale definizione,
che abbia una natura multifattoriale (prende in esame le principali manifestazioni della
marcatezza).
Elementi marcatati: semanticamente più complessi, esplicitamente codificati (hanno un morfema
deputato a codificarli) sono più rari nei testi, si trovano solo in alcune lingue, hanno distribuzione
più ristretta. Tutte le manifestazioni sopracitate sono infatti qui riassunte e comprese.
Se dovessimo identificare dei test che ci consentano di capire i rapporti di marcatezza, possiamo
fare riferimento ai criteri della marcatezza individuati da Croft in un lavoro sugli universali nel
linguaggio, in cui identifica delle proprietà che le categorie marcate avrebbero rispetto alle non
marcate.
Codifica strutturale: Croft riformula in maniera più debole questo principio, dicendo che il valore
marcato di una categoria grammaticale sarà espresso da almeno tanti morfemi quanti saranno quelli
impiegati per esprimere il non marcato.
Es. singolare < plurale
(minor mlabri) Ɂɛɛw ↔ Ɂɛɛw
car ↔ car-s
libr-o ↔ libr-i
Potenziale comportamentale/Behavioural potential: come si comportano dal punto di vista di
flessione e distribuzione le forme marcate e non marcate. Le non marcate hanno un potenziale
flessivo maggior rispetto alle marcate, ovvero morfologicamente conoscono più forme flesse
rispetto alle marcate.
Es. singolare < plural
(inglese) he / she / it<they
singolare < plurale < duale (greco)
ánthropos ánthropoi anthrṓpō
ánthrope ánthropoi anthrṓpō
ánthropon anthrṓpous anthrṓpō
anthrṓpou anthrṓpōn anthrṓpoin
anthrṓpōi anthrṓpois anthrṓpoin
il singolare ha 5 distinzioni casuali, il plurale 4 e il duale 2.
Questo comportamento morfologico coglie bene una delle manifestazioni morfologiche dei diversi
gradi di marcatezza.
Potenziale sintattico: marcatezza distribuzione che ha a che far con il numero di contesti con cui le
diverse forme possono comparire (non marcate distribuzione più estesa delle marcate).
Es. attivo < passivo
John killed Paul ~ Paul was killed by John
That cloud resembles a fish ~ *A fish is resembled by that cloud (cf. it. sembrare, costare,
…)
John killed himself ~ *Himself was killed by John
Passivo ammesso da un minor numero di verbi rispetto a quelli che ammettono l’attivo.
Ovviamente, quando una forma ha più restrizioni di un’altra, sarà anche meno frequente.
Text frequency