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Insegnamento di Linguistica generale - Lauree triennali - a.a.

2021-22
prof. Laura Bafile - Università di Ferrara

IL LINGUAGGIO

1. CHE COSA SI INTENDE CON LINGUAGGIO


La parola linguaggio è usata con significati diversi. Ad esempio, può indicare un qualunque mezzo
espressivo che non usa parole (“linguaggio del corpo”, “linguaggio dei fiori”) o il sistema espressivo
e stilistico peculiare di varie arti (il “linguaggio della musica”, il “linguaggio delle arti figurative”, il
“linguaggio cinematografico”). E’ usata anche nell’espressione linguaggi artificiali, i sistemi formati
da lettere, cifre, simboli usati in modo convenzionale, utilizzati per esprimere in modo non ambiguo
teorie o connessioni formali (linguaggio della matematica o della logica); per dare istruzioni a
macchine (linguaggio informatico). Con linguaggio si possono indicare anche i sistemi di
comunicazione degli animali per la trasmissione di informazioni tra individui della specie (ad esempio
“linguaggio delle api”, “linguaggio delle balene”).
Nell’ambito della linguistica, la parola linguaggio ha un significato molto preciso e indica il
sistema mentale che permette di esprimere pensieri utilizzando suoni. Invece dei suoni, in alcuni casi
sono usati segni scritti; nel caso delle lingue dei segni, cioè quelle usate da persone sorde, come la
Lingua dei Segni Italiana (LIS), invece dei suoni sono usati segni manuali.
La capacità di associare significati a suoni (nel senso lato appena precisato), è detta facoltà del
linguaggio.
In italiano la parola linguaggio si affianca a un altro termine, lingua. Le due parole non sono
sinonimi, e indicano concetti diversi (anche se in alcune lingue, come l’inglese, i due significati sono
compresi nella stessa parola).
Il linguaggio è il sistema mentale che rende gli esseri umani capaci di imparare le lingue, di usarle,
cioè di produrre e comprendere frasi. In questo preciso senso, il linguaggio è una proprietà esclusiva
degli essere umani, biologicamente determinata, presente uniformemente in tutti gli individui
appartenenti alla specie. La facoltà di linguaggio non è dunque diversa in chi parla italiano e chi parla,
per esempio, cinese: le strutture della mente sono le stesse, sono gli stessi i principi fisiologici e
neurologici in base ai quali la mente funziona, e gli stessi i processi che si attivano quando parliamo
o comprendiamo il parlato di altri.
Le lingue, a volte definite lingue naturali in quanto sono naturalmente e spontaneamente apprese
e utilizzate dagli esseri umani, sono le diverse forme in cui si realizza la facoltà di linguaggio. Esse
sono prodotti diversificati e mutevoli di una facoltà che non cambia ed è uniforme in tutte le persone.
Per questa ragione, anche se sono superficialmente diverse, le lingue sono profondamente simili tra
loro.
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La linguistica è lo studio scientifico del linguaggio e delle lingue naturali.


La definizione che abbiamo dato del linguaggio pone alcune domande, alle quali cercheremo delle
risposte.

1. Esiste una specifica facoltà di linguaggio.


Domanda: “In che consiste e come funziona?”
La natura e il funzionamento del linguaggio costituiscono una questione fondamentale della
linguistica.
Il linguaggio è un sistema cognitivo, cioè una conoscenza interna alla mente umana che non può
essere osservata direttamente. La natura e le caratteristiche del linguaggio possono essere indagate
solo attraverso un’analisi indiretta; la linguistica persegue l’obiettivo di spiegare che cosa è il
linguaggio cercando di arrivarci da varie strade. Da una parte si può analizzare la struttura delle
lingue, anche mettendole a confronto tra loro e stabilendo cosa le accomuna e cosa le diversifica,
cercando in tal modo di individuare proprietà generali del linguaggio. L’altra strada per arrivare a
comprendere che cosa sia il linguaggio è quella di esplicitare in cosa consiste la competenza
linguistica, cioè i principi e le regole che i parlanti seguono e applicano quando producono e
comprendono le frasi nella propria lingua. In questa ricerca, un’ulteriore difficoltà sta nel fatto che la
competenza linguistica è una conoscenza quasi del tutto inconsapevole, che i parlanti mettono in atto
senza averne un’esplicita coscienza: sanno applicare le regole ma non sanno dire quali sono.
Nella seconda parte (I suoni del linguaggio) e nella terza parte (Le parole) di questo corso di
linguistica prenderemo in esame alcuni elementi fondamentali del funzionamento del lnguaggio. Qui
ci soffermeremo invece sulle caratteristiche che abbiamo individuato sopra per descrivere la facoltà
di linguaggio. Ciascuna delle seguenti affermazioni pone degli interrogativi, a cui sono dedicati i
prossimi paragrafi.

2. La facoltà di linguaggio è esclusiva degli esseri umani.


Domande:
“Gli animali comunicano?”
“Gli animali sarebbero in grado di usare il linguaggio?”

3. La facoltà di linguaggio è biologicamente determinata.


Domanda: “Da che cosa lo capiamo? Da che cosa capiamo che invece non è una capacità che
viene appresa, e che si trasmette culturalmente di generazione in generazione?”

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4. Il linguaggio è uniforme ma le lingue sono diversificate e soggette a cambiamenti.


Domande:
“In che cosa consiste la variazione linguistica?”
“Che cosa può e che cosa non può cambiare tra una lingua e l’altra?”

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2. LA COMUNICAZIONE NEGLI ANIMALI


D 2 Gli animali comunicano? Gli animali sarebbero in grado di usare il linguaggio?

E’ del tutto evidente che la facoltà del linguaggio è esclusiva degli esseri umani: se ad esempio un
bambino e un cagnolino crescono insieme, dopo pochi mesi di vita il bambino manifesterà
immancabilmente i segni della sua predisposizione ad imparare una lingua, e anche più di una se
cresce in un ambiente plurilingue, cosa che non avverrà per il cucciolo. D’altra parte, è evidente che
anche tra gli animali esistono forme di comunicazione. Possiamo quindi chiederci in che cosa tali
sistemi differiscano dalla comunicazione linguistica umana e, allo stesso tempo, se vi siano elementi
comuni.
Per rispondere a questo interrogativo, dobbiamo innanzitutto precisare che cosa si intende con
comunicazione.
Una definizione essenziale di comunicazione è:
‘passaggio di informazioni ottenuto attraverso l’utilizzo di segnali’.
Così intesa, è facile stabilire che nel mondo animale esistono sistemi di comunicazione, che
utilizzano diversi tipi di segnali per trasmettere informazioni importanti per la sopravvivenza, il
nutrimento, la riproduzione. Le diverse specie di animali si servono di uno (talvolta più di uno) dei
seguenti mezzi:
segnali visivi, che consistono in movimenti e posture del corpo, espressioni degli occhi e della
bocca; oppure in segnali luminosi, come nel caso delle lucciole;
segnali sonori, ad esempio il canto di insetti, uccelli e mammiferi marini, o le vocalizzazioni di
alcuni primati;
segnali chimici, consistenti nell’emissione di sostanze percepibili da altri individui nell’ambiente.
Possiamo però intendere comunicazione in un senso più restrittivo. In questa accezione più
specifica, la comunicazione è ‘passaggio di informazioni ottenuto attraverso l’utilizzo di segnali’, ma
deve essere caratterizzata da tre aspetti:
capacità simbolica, cioè la capacità di fare riferimento a cose o concetti attraverso simboli;
intenzionalità, cioè il fatto che ci sia una consapevole intenzione comunicativa;
capacità combinatoria, cioè la capacità di esprimere significati complessi e nuovi attraverso la
combinazione di simboli.
Questi tre aspetti sono presenti nella comunicazione umana. Lo sono anche nella comunicazione
animale?
Attraverso gli studi comparativi (che confrontano le abilità cognitive di specie diverse,
inclusa la specie umana) degli ultimi decenni, gli studiosi del comportamento e della mente
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degli animali hanno mostrato tra l’altro che diverse specie animali hanno capacità cognitive,
cioè capacità di sviluppare e conservare conoscenze mentali, che prima non si pensava che
avessero. Alcune di queste capacità entrano in gioco anche nella comunicazione. Un caso ben
noto è quello dei cercopitechi dell’Africa orientale.
I cercopitechi sono un genere di scimmie di piccola corporatura che abitano le foreste
dell’Africa tropicale ed equatoriale. E’ stato osservato che essi emettono segnali sonori di
pericolo per avvertire gli altri individui del loro gruppo della presenza di predatori. Tali segnali
sono nettamente differenziati tra loro, per specificare il tipo di predatore, ed ogni specifico
segnale è più o meno lo stesso nei diversi individui. Al segnale ‘leopardo’ emesso da uno o più
individui, i cercopitechi reagiscono arrampicandosi sulle cime degli alberi, al segnale ‘serpente’
si ergono sulle zampe posteriori scrutando il terreno, al segnale ‘aquila’ si nascondono nei
cespugli. Tale comportamento fa pensare che questi segnali sonori non siano semplicemente
l’espressione di uno stato emotivo di paura, perché in tal caso non si spiegherebbe il fatto che i
segnali sono differenziati e sono usati in modo sistematico. Si deve concludere quindi che in
questi segnali rivelano almeno in certa misura intenzione informativa, oltre che un uso di
simboli. Perciò, due delle tre caratteristiche della comunicazione umana sono presenti, seppure
in misura limitata, nella comunicazione tra cercopitechi.

I segnali sonori dei cercopitechi si trovano qui: http://www.bbc.co.uk/programmes/p016dgw1


Un cercopiteco adulto... ...e un lattante

In realtà, mentre la capacità di alcune specie animali di usare segnali simbolici è accertata,
sull’intenzionalità della comunicazione i risultati degli studi sono controversi.
L’intenzionalità presuppone una capacità cognitiva detta teoria della mente, che consiste
nell’essere consapevoli che gli altri individui hanno una mente. Grazie alla teoria della mente siamo
capaci di rappresentare nella nostra mente gli stati mentali degli altri. In altre parole, si tratta della
consapevolezza che anche gli altri hanno pensieri, desideri, sentimenti, intenzioni, e della capacità di
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immaginare che cosa gli altri “abbiano in mente”. La teoria della mente è chiaramente una
caratteristica umana; è invece meno chiaro se sia anche una caratteristica anche di altre specie, e se
sì in quale misura.

2.1 Altre somiglianze tra linguaggio e sistemi di comunicazione degli animali.


Indipendentemente dalle caratteristiche della funzione comunicativa, in certe specie di animali si
riscontrano alcuni interessanti elementi di somiglianza con il linguaggio umano. Un esempio di ciò
è osservabile nel canto di alcune specie di uccelli (gli uccelli “canori”, cioè quelli che hanno un
apparato fonatorio specifico e particolarmente efficace, come ad esempio merli, usignoli, fringuelli,
cardellini, corvi, rondini). In queste specie:
- il canto viene appreso, cioè è necessario il modello di un adulto perché il piccolo impari
perfettamente a cantare;
- l’apprendimento procede attraverso stadi successivi, e infatti nei più piccoli si osservano melodie
imperfette;
- c’è un periodo nei primi mesi di vita in cui la capacità di apprendimento è massima, e poi
decresce;
- il canto degli uccelli è controllato prevalentemente dall’emisfero sinistro del cervello.
Tali caratteristiche, come vedremo più avanti, sono anche tipiche del linguaggio umano .

2. 2. Gli studi sull’apprendimento linguistico nei primati


Un’idea largamente condivisa attualmente nella comunità scientifica è che ciò che rende gli esseri
umani diversi dagli animali sia una caratteristica del cervello, e quindi della mente, che fa sì che la
nostra specie sia predisposta al linguaggio. Al contrario, una concezione che era prevalente intorno
agli anni ’50 negli USA, considera il linguaggio non come una specifica facoltà, ma piuttosto come
un’abilità che utilizza capacità mentali generali e che viene appresa attraverso l’esperienza e
l’imitazione. Adottando questa concezione del linguaggio, che si definisce comportamentista, alcuni
studiosi pensarono di poter dimostrare che il linguaggio non è una facoltà specificamente umana ma
piuttosto un comportamento appreso, e che quindi anche altre specie con elevate capacità cognitive,
ad esempio le scimmie “antropomorfe” (scimpanzé, gorilla, orango) potrebbero sviluppare il
linguaggio umano se poste nell'ambiente adatto, cioè in presenza di stimoli linguistici sufficienti.
Nella seconda metà del Novecento, alcuni ricercatori negli Stati Uniti, utilizzando scimmie
(soprattutto scimpanzé) di pochi mesi, provarono a insegnare loro l’uso del linguaggio, allevandoli in
famiglia, o comunque in situazioni molto simili a quelle in cui i bambini imparano a parlare. Nei
primi tentativi si provò, senza alcun successo, ad addestrare i primati alla lingua orale, ma questa

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strada fu subito abbandonata perché questi animali non hanno buone capacità di imitazione vocale e
di articolazione fonetica. Successivamente furono utilizzati sistemi non vocali, come la Lingua dei
segni americana (American Sign Language, ASL), cioè la lingua usata dalle persone sorde, o sistemi
artificiali basati su simboli grafici.
Nel 1967, due ricercatori dell’Università del Nevada, Allen e Beatrice Gardner, iniziarono il loro
esperimento con Washoe, una femmina di scimpanzé di 2 anni (Washoe è morta nel 2007),
addestrandola alla lingua dei segni. Secondo i Gardner, Washoe sapeva utilizzare circa 250 segni
della ASL, ma questo risultato è molto controverso, e in molti considerano il dato non attendibile.
Ancora nel 1967, Ann e David Premach (Università di Pennsylvania) cominciarono il loro
addestramento di Sarah, anch’essa uno scimpanzé, a cui insegnarono ad usare dei simboli visivi (pezzi
di plastica di varia forma e colore).
Nel corso degli anni ’80 e ‘90, Sue Savage-Rumbaugh (Università di Georgia/Iowa) ha
sperimentato l’addestramento al linguaggio con vari scimpanzé della specie bonobo, ottenendo i
migliori risultati con Kanzi, un maschio nato nel 1980. Il linguaggio che è stato insegnato a Kanzi è
fatto di simboli visivi astratti, cui corrispondono significati: come nel linguaggio umano, questi
simboli non sono iconici, in quanto il loro significato è arbitrariamente collegato alla forma. Una
figura rossa, ad esempio, significa ‘ananas’, mentre una viola significa ‘latte’. Kanzi è in grado di
indicare il simbolo corrispondente al significato che gli viene richiesto, e sa anche associare il simbolo
alla forma sonora della parola pronunciata in inglese. Ha dimostrato cioè di avere buone capacità
simboliche e di poter imparare un piccolo vocabolario di alcune decine di segni, e di saperlo usare
per riferirsi a oggetti o azioni.
Nel complesso, gli studi di addestramento linguistico con scimmie antropomorfe hanno mostrato
che questi animali sono in grado di usare un numero cospicuo di simboli (intorno a 150) in riferimento
a entità presenti nell’ambiente, e anche di mettere insieme alcune coppie di simboli per indicare azioni
(mangiare+banana, tagliare+cipolla).

Kanzi

Qui si trovano due video relativi a Kanzi:


https://www.youtube.com/watch?v=wRM7vTrIIis
https://www.youtube.com/watch?v=2Dhc2zePJFE

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Ci sono però differenze fondamentali tra queste abilità acquisite e il linguaggio umano, che
riguardano sia il vocabolario, sia la “grammatica”.
In primo luogo, questi animali utilizzano le loro “parole” in un modo molto diverso da quello che
avviene nel linguaggio. Per Kanzi, ad esempio, la parola apple indica una ‘mela’, ma anche ‘mangiare
una mela’, ‘posto dove stanno le mele’, ‘tagliare la mela’, ‘coltello con cui tagliare la mela’; dunque,
il legame tra la parola e l’oggetto a cui si riferisce è approssimativo e impreciso. Inoltre, come è
ovvio, le “parole” usate dagli animali in questi esperimenti non hanno nessuna delle caratteristiche
delle vere parole, come i nomi e i verbi delle lingue naturali, che esprimono anche concetti
grammaticali come singolare/plurale, passato/presente, o reale/ipotetico eccetera.
Un’ulteriore differenza sta nel fatto che le “parole” di Kanzi indicano direttamente degli oggetti
presenti nell’ambiente, mentre il significato linguistico funziona in un modo diverso. Nelle lingue
naturali, anche parole semplici che indicano oggetti concreti, come acqua, albero, hanno un
significato complesso. Il significato di albero è la somma di una serie di proprietà che noi
riconosciamo come comuni alla classe delle cose che chiamiamo “albero”. Il significato linguistico
non consiste semplicemente nel fatto che un simbolo si riferisce a un oggetto del mondo esterno. Nel
linguaggio tale riferimento passa attraverso una rappresentazione mentale, cioè un concetto, che può
includere tutti gli individui che rientrano in una data categoria: tutti gli alberi, quelli che vediamo
davanti a noi mentre parliamo, ma anche quelli che abbiamo visto in passato, e anche quelli che non
abbiamo mai visto, magari perché stanno dall’altra parte del mondo. Le parole delle lingue naturali
si riferiscono a entità concrete o astratte, che possono essere vicine o lontane, presenti o assenti, reali
o fantastiche, passate o future. Kanzi invece non è in grado di usare i simboli in questo modo.
Un’altra differenza fondamentale è che gli animali addestrati al linguaggio non sanno combinare
le parole per costruire frasi e comunicare significati nuovi: a loro manca, cioè, la capacità sintattica.
In conclusione, se da una parte gli studi sull’apprendimento nei primati hanno contribuito in modo
interessante alla conoscenza delle capacità cognitive di specie non umane, ne è risultato con evidenza
che nessuno dei animali sottoposti a esperimenti di addestramento linguistico ha acquisito la capacità
più specifica del linguaggio umano, cioè la grammatica.
I risultati di questo tipo di esperimenti sono discussi tra l’altro nell’interessante articolo di Terrace
et al. (1979) "Can an ape create a sentence" Scienze 206: 891-902, che si può trovare e scaricare da
Internet.

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2.3. Conclusioni
Nella facoltà di linguaggio umana convergono molte abilità diverse.
Ad esempio, per quanto riguarda i suoni, sono necessarie una fine capacità motoria per
l’articolazione dei suoni, la capacità percettiva di distinguerli gli uni dagli altri, la capacità di
imitazione dei suoni necessaria all’apprendimento della fonologia.
Tuttavia i suoni sono solo una parte del linguaggio, quella che serve alla “esternalizzazione”, cioè
alla traduzione verso l’esterno di ciò che sta nella nostra mente, in modo che diventi percepibile e
decodificabile da parte di altre persone. C’è però anche il linguaggio interno alla mente, fatto di
significati e di regole che servono a mettere insieme le parole per costruire le frasi.
Complessivamente, quindi, il linguaggio richiede un insieme di capacità di tipo motorio-percettivo
e di tipo concettuale. Alcune delle abilità che sono indispensabili al linguaggio umano si trovano
isolatamente anche in altri animali. Ad esempio, l’imitazione dei suoni è molto sviluppata in certe
specie di uccelli e di cetacei.
Ma in nessuna specie oltre a quella umana è presente il complesso di tutte le capacità che formano
la facoltà di linguaggio, e in nessuna specie è presente la capacità combinatoria, almeno nella forma
complessa che caratterizza la sintassi delle lingue umane.

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3. LE BASI BIOLOGICHE DEL LINGUAGGIO


D3: Da che cosa capiamo che il linguaggio è una facoltà biologicamente determinata, e
non semplicemente trasmessa culturalmente?

Il linguaggio è un sistema biologico. E’ un sistema, in quanto è un dispositivo costituito da più


componenti, ciascuno dei quali svolge il proprio ruolo interagendo con gli altri. E’ biologico, in
quanto è previsto dalla natura, come altri sistemi, ad esempio quello visivo. Essendo un sistema
naturale, il linguaggio si differenzia dai sistemi artificiali, cioè inventati, come ad esempio i sistemi
di scrittura, che sono sistemi indipendenti, anche se collegati al linguaggio.
In quanto sistema biologico, il linguaggio è nelle sue proprietà essenziali una facoltà innata, e non
una conoscenza appresa culturalmente. Possiamo chiarire il concetto di innatezza, considerando un
altro sistema biologico, il sistema visivo.
Il sistema visivo non si limita semplicemente a recepire gli stimoli luminosi che colpiscono la
retina, ma li elabora e li interpreta cognitivamente, creando una rappresentazione mentale di forme
che non sono oggettivamente presenti negli stimoli. Ad esempio, nella forma della Figura 1, l’occhio
umano, ma sarebbe più giusto dire la mente umana, riconosce la forma di un triangolo, anche se un
triangolo non è effettivamente disegnato:

Figura 1 Triangolo costruito dal sistema visivo

Si potrebbe pensare che la nostra capacità di vedere nella figura una forma che non è disegnata
come tale dipenda dal fatto che nella nostra mente è già presente il concetto di ‘triangolo’; si potrebbe
pensare cioè che la percezione del triangolo si basi su una conoscenza preesistente. Le cose non stanno
così, e infatti noi siamo capaci di individuare allo stesso modo, in base agli stessi principi propri della
percezione visiva, anche forme non predefinite, che non necessariamente abbiamo visto prima e che
non hanno un nome, come quella nella Figura 2. Possiamo quindi concludere che la nostra capacità
di vedere forme in questo tipo di figure non richiede una precedente esperienza fatta nella nostra vita,
ma si basa su meccanismi innati che regolano il sistema visivo.

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Figura 2 Figura non predefinita costruita dal sistema visivo

In modo analogo, il modo in cui gli esseri umani imparano le lingue e usano il linguaggio risponde
a dei principi che dipendono da caratteristiche della mente umana, quindi dei principi biologicamente
determinati.
Non tutti i linguisti condividono l’idea che il linguaggio abbia delle basi biologiche, cioè che, nella
sua essenza e nei suoi fondamenti, esso sia una facoltà prevista dalla natura della specie umana.
Alcuni ritengono al contrario che le lingue naturali siano dei sistemi convenzionali culturalmente
trasmessi, basati su facoltà mentali generali, cioè non specificamente linguistiche, e sviluppati per
finalità sociali e comunicative. Non adotteremo in questo corso questa ipotesi.
La concezione secondo cui l’abilità linguistica è in effetti una facoltà biologicamente determinata
si fonda su una serie di osservazioni, che riguardano il modo in cui gli umani apprendono e usano il
linguaggio. Vediamone alcune.

3.1 Acquisizione del linguaggio


Un bambino impara a usare la sua lingua in pochi anni, molto prima di andare a scuola, e lo fa in
modo spontaneo, senza un impegno particolare, mentre è impegnato ad imparare altre cose importanti
(camminare, socializzare). E questo avviene per tutti i bambini, quelli più seguiti e stimolati e quelli
deprivati di attenzione o anche quelli che si trovano ad avere difficoltà di apprendimento di altre
conoscenze, come per esempio il calcolo o la scrittura. Pur tenendo conto delle differenze individuali,
si può affermare che l’acquisizione avviene attraverso determinate tappe di sviluppo, in tempi
relativamente veloci e sostanzialmente uguali per tutti gli individui.
Se guardiamo cosa succede ad un adulto che vuole imparare una lingua, ci accorgiamo che è tutto
diverso. Anche coloro che trovano minori difficoltà, hanno bisogno di una forte motivazione, di
applicazione, di studio, e traggono beneficio dalla guida di un insegnante. E nonostante l’impegno,
l’apprendimento difficilmente ci porta al punto di conoscere la seconda lingua come la conoscono i
parlanti nativi. Questo ci fa capire che l’acquisizione del linguaggio è un processo naturale, che
avviene spontaneamente nei tempi previsti dalla natura.

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Un ulteriore dato da considerare riguarda le condizioni in cui avviene l’acquisizione linguistica.


In genere i bambini non trovano nell’ambiente un modello esaustivo e coerente della lingua che
devono imparare. Le persone intorno a loro non pronunciano sempre enunciati perfetti e coerenti,
anzi spesso è vero il contrario (nel normale uso del linguaggio si fanno molte “false partenze”, frasi
frammentarie o incomplete). E sicuramente, una volta raggiunto un certo livello di acquisizione, i
bambini sono in grado di costruire e capire frasi che non hanno sentito in precedenza. Considerando
tutto questo, dobbiamo concludere che la capacità dei bambini di imitare e ripetere quello che sentono,
per quanto indispensabile, non può bastare a spiegare il sistema coerente di regole che ogni individuo
costruisce nella propria mente, per lo più in modo inconsapevole, nel percorso dell’acquisizione.
Anche l’intervento correttivo da parte degli adulti risulta avere un’importanza limitata. Gli adulti
infatti, quando intervengono direttamente, tendono a correggere soprattutto aspetti riguardanti l’uso
comunicativo del linguaggio, più che la grammatica; ad esempio possono dire “Non si dice voglio, si
dice vorrei”; oppure “Si dice grazie”. A volte la correzione riguarda aspetti della morfologia, ad
esempio le forme dei verbi irregolari, che i bambini sostituiscono con forme regolari, anche se
sbagliate: “Non si dice aprito, si dice aperto”. Di fatto queste correzioni non ottengono grandi risultati,
e si osserva che nella fase in cui stanno imparando le regole morfologiche, i bambini continuano a
usare le forme regolari anche laddove la lingua adulta ha forme diverse. Più in generale i bambini
sono refrattari a recepire le correzioni. Anche le correzioni relative alla pronuncia sono scarsamente
efficaci, perché i bambini sono generalmente poco recettivi.
Gli studi fatti sull’acquisizione mostrano che il bambino non procede alla cieca nel capire come
funziona la lingua e nel costruirsi nella mente la grammatica; non procede cioè per ‘tentativi ed
errori’. Al contrario, per la maggior parte di ciò che impara, segue un percorso che appare predefinito
(perché sostanzialmente parallelo in tutti i bambini di tutte le lingue), che non è determinato dalle
specifiche caratteristiche dell’ambiente linguistico in cui si trova a crescere.

3.1.1 Acquisizione della fonologia


Sull’acquisizione della fonologia sono state fatte negli ultimi decenni alcune notevoli scoperte.
Nei neonati il sistema uditivo è già molto sviluppato ed essi sono capaci di percepire molte più
differenze fonologiche rispetto agli adulti. La loro capacità di cogliere la differenza tra tutti i possibili
suoni usati nelle lingue naturali, capacità che gli adulti non hanno più, spiega il fatto che alla nascita
un bambino ha le potenzialità per imparare qualsiasi lingua.
Solo in un secondo momento i bambini cominciano a concentrarsi maggiormente sui suoni presenti
nella lingua a cui sono esposti, e questo processo li porterà a perdere una parte della loro abilità
iniziale. Si osserva infatti che nei primi 10 mesi di vita la capacità di riconoscere suoni che non sono

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presenti nella lingua target (cioè la lingua che sta imparando) decresce progressivamente; a circa un
anno di vita i bambini non sono più in grado di riconoscere le differenze tra suoni che non sono
presenti nella loro lingua target. Ad esempio, tutti i neonati distinguono le sequenze [la] e [ra]; ma
mentre un bambino di 10 mesi che apprende l’italiano o l’inglese continuerà a riconoscerle perché
sono distintive in quelle lingue (ad esempio in italiano lame e rame sono parole diverse), non accade
lo stesso in genere per un bambino che sta imparando il giapponese, in cui la differenza tra [l] e [r]
non è distintiva, cioè non porta differenze di significato. Il bambino giapponese “dimentica” quella
differenza, e da allora in poi non saprà né riconoscerla, né pronunciarla. La Figura 3 mostra la
differenza tra bambini americani e bambini giapponesi esaminati in una ricerca riguardante la capacità
di distinguere i suoni [l] e [r]: mentre intorno a 7 mesi i due gruppi hanno la stessa capacità e
riconoscono circa il 65% delle occorrenze di questi suoni, nei mesi successivi le loro capacità si
differenziano progressivamente:

Figura 3 Diminuzione della capacità di discriminazione fonetica di [l] e [r]

Fin dai primi giorni di vita i bambini emettono molti suoni e vocalizzi, ma è solo intorno ai 6 mesi
che questi suoni hanno una forma regolare, cioè quella di sillabe: comincia il fenomeno del balbettio
o lallazione, cioè della produzione di sillabe costituite da una sequenza consonante-vocale (di
preferenza la vocale [a]). La lallazione può essere descritta come un esercizio motorio, un
allenamento all’articolazione dei suoni, che corrisponde a una tappa naturale dell’acquisizione del
linguaggio. E’ significativo a questo riguardo il fatto che anche i bambini sordi, nell’acquisizione
delle lingue dei segni, passano attraverso una fase corrispondente detta di balbettio manuale, in cui
ripetono ritmicamente alcuni movimenti manuali, che, come le sillabe, non hanno ancora alcun
significato.

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3.1.2. Acquisizione del lessico


Il primo problema che si presenta ai bambini è quello della segmentazione, cioè la suddivisione in
parole degli enunciati prodotti dalle persone attorno a loro. Si tratta di un compito non facile, dal
momento che il parlato nelle lingue naturali è un flusso ininterrotto di suoni, solo ogni tanto
intervallato da momenti di silenzio. Si è scoperto che per riconoscere le parole all’interno degli
enunciati i bambini utilizzano degli indizi, come la posizione dell’accento, o la durata delle sillabe,
che indicano dove finisce una parola e ne comincia un’altra. Ad esempio, in francese l’accento cade
generalmente sulla sillaba finale delle parole; i bambini possono osservare questa caratteristica nelle
parole pronunciate in isolamento, e poi usarla come un indizio utile a stabilire dove è il confine tra
una parola e la seguente all’interno di un enunciato. In italiano generalmente le parole finiscono in
vocale, e in base a questo i bambini possono prevedere che il confine tra due parole all’interno di un
enunciato si trovi dopo una vocale e non dopo una consonante. Studi al riguardo hanno mostrato che
i bambini fanno delle analisi di tipo statistico per stabilire i confini tra le parole. Si parte da alcune
parole più semplici (il proprio nome, e quello di altri protagonisti della vita quotidiana) e poi da lì si
prosegue nell’individuazione delle altre unità lessicali.
Un altro problema è capire il significato delle parole. All’inizio infatti il bambino riconosce le
parole senza sapere che hanno un significato; è verso i 10-12 mesi che comincia la scoperta dei
significati. Per innescare questo processo di acquisizione semantica è necessario che inizialmente vi
sia una stretta correlazione tra parola e oggetto. Questa condizione è favorita dal tipo di scambi
linguistici che il bambino ha in questa fase: enunciati ripetitivi, con significati concreti, riferiti a
circostanze e oggetti presenti, spesso indicati anche con segni delle mani.
Intorno ai 12 mesi il bambino sa riconoscere circa 70 parole, ma non ne pronuncia ancora nessuna.
Compaiono dopo questa fase le protoparole, cioè sequenze fisse come lala, nanna, che hanno un
significato, o magari più significati, per il bambino e per le persone che fanno parte del suo ambiente.
Le prime vere parole si riferiscono a cose che il bambino sente o vede, presenti e concrete. E’ l’inizio
dell’acquisizione di parole dal significato stabile e generale, un processo graduale e non omogeneo.
Verso i 24 mesi inizia la cosiddetta esplosione lessicale, una fase in cui il bambino arriva a imparare
anche 50 parole nuove alla settimana.

3.1.3 Acquisizione della sintassi


Intorno a 18 mesi i bambini pronunciano ancora solo parole isolate. In realtà non sono più
semplicemente parole, si tratta più precisamente di enunciati “olofrastici”, in cui la singola parola
assume il significato che corrisponde a un’intera frase. Se osserviamo bene, queste parole sono

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prodotte con un’intenzione comunicativa precisa, e spesso hanno un’intonazione (cioè un profilo
musicale) appropriata. Sono enunciati interpretabili solo in relazione al contesto.
E’ intorno a 20 mesi, quando sanno usare circa 50 parole, che i bambini cominciano a fare le prime
combinazioni. E’ il momento in cui stanno scoprendo un mondo di relazioni intorno a loro, e
cominciano a esprimerle in modo “linguistico”, cioè usando la combinazione sintattica. Si tratta di
frasi brevissime, costituite in genere da due parole: “Latte tanto”, “Palla giù”, “Lupo soffia”. Oltre ad
essere brevi, queste frasi sono diverse da quelle della lingua degli adulti, in quanto non contengono
gli elementi grammaticali, come ausiliari, articoli, preposizioni. Però esprimono delle relazioni
strutturali (negli esempi di sopra si tratta, rispettivamente, di relazioni nome-modificatore, nome-
luogo, agente-verbo), le stesse che caratterizzano le frasi degli adulti.
Diversi studi, condotti su numerosi bambini di lingue diverse, hanno dimostrato che i bambini
sviluppano la morfologia e la sintassi passando attraverso stadi, con una progressione in gran parte
prevedibile. Questo dimostra che l’acquisizione non è un processo passivo di assorbimento e
imitazione di uno stimolo, ma un processo di costruzione di una grammatica mentale, che segue un
percorso stabilito in natura e non determinato culturalmente.

3.2. Periodo critico dell’acquisizione


Molti studiosi ipotizzano che esista un periodo critico per l’acquisizione del linguaggio.
Il periodo critico è una fase della vita di un organismo in cui esso presenta una spiccata sensibilità
agli stimoli esterni che sono necessari allo sviluppo di una determinata abilità, L’abilità in questione
non si sviluppa, o si sviluppa solo parzialmente, se lo stimolo non è sufficiente, ma è anche necessario
che lo stimolo sia disponibile nel momento giusto.
L’esistenza di una finestra temporale si osserva per diverse capacità innate, che, proprio come il
linguaggio, non sono sviluppate già alla nascita e la cui maturazione richiede un’adeguata esposizione
a specifici stimoli che si trovano nell’ambiente. Effetti di periodo critico sono stati osservati in
numerose specie di uccelli in relazione all’apprendimento del canto proprio della specie (o, in alcuni
casi, proprio della ‘popolazione’, cioè di un gruppo isolato che si distingue per qualche aspetto dal
resto della specie).
Per quanto riguarda il linguaggio, il periodo critico si manifesta nel fatto che la capacità di
apprendere ‘perfettamente’ una lingua decresce gradualmente a partire dagli 8 anni di vita. Questo
dato è evidente per quanto riguarda l’apprendimento di una seconda lingua: se un bambino passa i
primi anni di vita in un ambiente plurilingue può acquisire due o più lingue in modo spontaneo;
l’apprendimento di una seconda lingua per un adulto è invece molto più faticoso e porta a risultati
peggiori. Ovviamente, le prove dell’esistenza di un periodo critico nell’acquisizione della

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madrelingua sono molto più difficili da trovare, perché normalmente i bambini sono tutti esposti agli
stimoli necessari all’acquisizione fin dai primi giorni di vita. Tuttavia ci sono testimonianze di casi
diversi.
Ad esempio, sono riportati nella letteratura dati relativi ai cosiddetti “bambini selvaggi”, cioè
cresciuti in uno stato di deprivazione linguistica nella prima infanzia. Uno è il caso, ben documentato
e risalente alla fine del Settecento (raccontato in un film di Truffaut), di Victor, un ragazzo vissuto in
un bosco vicino a Parigi fino a quando fu raccolto e istruito da un medico che se ne prese cura. Non
imparò mai a usare il linguaggio.
Un caso molto più recente è quello di Genie. All’età di 13 anni Genie, una bambina di Los Angeles,
fu trovata dalla polizia. Da quando aveva un anno e mezzo era stata tenuta dai genitori chiusa in una
stanza dove di giorno era legata su una sedia e di notte era tenuta in un lettino chiuso con una gabbia.
Il padre di Genie era convinto che la bambina fosse gravemente ritardata e aveva proibito alla madre
e al fratello di parlarle. Dopo la liberazione, fu seguita e istruita da un team di psicologi e linguisti.
In questo percorso di riabilitazione Genie fece dei progressi importanti, ma dal punto di vista del
linguaggio arrivò ad una capacità paragonabile a quella di un bambino di due anni.
E’ indubbio che in casi come questi la mancata esposizione agli stimoli linguistici abbia
compromesso il naturale processo di acquisizione del linguaggio. Non è altrettanto chiaro, però, che
questi casi siano di per sé una prova dell’esistenza di un periodo critico per il linguaggio; ci sono
motivi per ritenere che la segregazione e la deprivazione cognitiva e affettiva abbiano impedito in
queste persone un normale sviluppo cognitivo generale, e quindi anche linguistico.
Invece sono molto più chiari i dati che riguardano i bambini sordi nati da genitori udenti che non
conoscono lingue dei segni, cioè lingue che utilizzano per la percezione il canale visivo anziché quello
uditivo. La sordità impedisce ai bambini di recepire gli stimoli orali necessari all’acquisizione della
lingua dei genitori, e se nell’ambiente in cui vivono nessuno parla una lingua dei segni, questi bambini
si trovano nell’assenza degli stimoli necessari all’acquisizione linguistica. Si tratta di bambini che
crescono in condizioni relazionali e affettive normali ed hanno uno sviluppo cognitivo normale.
Tuttavia, se questi bambini vengono esposti solo tardivamente a una lingua dei segni, la imparano
peggio, e se questa esposizione inizia dopo la pubertà, la completa competenza della lingua è
decisamente compromessa.

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Figura 4 Periodo critico nell’acquisizione linguistica

La Figura 4 sintetizza questa osservazione, mostrando come la capacità di apprendere una lingua
cominci a decrescere rapidamente dopo i 7 anni di età, e raggiunga valori minimi già dopo la pubertà.

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