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Ines Adornetti – Il linguaggio: origine ed evoluzione

I. Il linguaggio è la caratteristica che distingue l’uomo dall’animale, ovvero la capacità di articolare


suoni articolati attraverso cui comunicare specifici messaggi. Studiare il linguaggio vuol dire
studiare la produzione e comprensione verbale, prodotte attraverso meccanismi anatomici e
neurali caratteristici dell’Homo Sapiens. Primo passo è analizzare l’evoluzione dei meccanismi,
come il tratto vocale, responsabili della produzione sonora, con il contributo di numerosi ambiti di
ricerca.

Secondo alcuni, fra cui Aristotele nell’Historia animalium e Darwin ne L’origine dell’uomo e la
selezione sessuale, vi sarebbero numerose somiglianze tra i suoni prodotti dall’Homo sapiens e il
canto degli uccelli e, in entrambi i casi, l’acquisizione di queste capacità dipenderebbe dal contesto
di crescita. Numerosi studi odierni hanno, infatti, dimostrato come contribuiscano
all’apprendimento del linguaggio tanto fattori biologici innati quanto esperienze esterne. Uccelli
allevati isolatamente dalla propria specie, infatti, apprendono solo in parte la lingua dei consimili,
mantenendo alcuni tratti del canto dei genitori. È anche il caso delle lingue pidgin, nate dal contatto
tra lingue diverse di due comunità, poi evolute attraverso l’impiego di parlanti che sviluppano la
struttura morfo-sintattica della lingua nel creolo. Fondamentale è anche il periodo ‘critico’ di
apprendimento della lingua, ovvero la capacità di apprendere un linguaggio è più sviluppata nel
periodo adolescenziale sia negli uomini che negli uccelli. Anche negli uccelli riveste un ruolo
importante la sintassi, ovvero la capacità di unire elementi sonori in base a delle “regole
grammaticali” per determinare nuove sequenze.

Diversi studiosi hanno dimostrato che le similitudini comportamentali tra il canto degli uccelli e il
linguaggio articolato umano possono essere spiegate in riferimento a omologie e analogie tra il
cervello dei volatili e quello dei mammiferi, per quanto riguarda le aree neurali responsabili
dell’apprendimento uditivo-vocale e senso-motorio. Se le omologie tra i due sistemi
neuroanatomici lasciano intendere l’esistenza di un antenato comune, le analogie risultano essersi
evolute indipendentemente nelle due specie. Si tratti di due processi evolutivi convergenti che
hanno portato ad abilità simili perché le due specie sono state sottoposte ad analoghi problemi
adattativi. La genetica ha poi dimostrato la comune presenza del gene FOXP2, responsabile del
controllo oro-motorio. Il gene appartiene alla famiglia delle proteine forkhead, che codificano i
fattori di trascrizione nel programma genetico delle cellule. Una mutazione del gene comporta un
disturbo della parola noto come disprassia verbale. Varianti di questo gene sono presenti nel
corredo genetico di animali filogeneticamente imparentati con gli esseri umani o persino nel
genoma di animali molto distanti evolutivamente dall’uomo.

Le similitudini nei sistemi di comunicazione aumentano se si guarda ai mammiferi e, in


particolare, ai primati, basata su unità funzionali discrete dette “richiami” o “segnali”. Più unità
comprende un sistema, più è complesso. La complessità della comunicazione vocale è strettamente
connessa alla complessità del sistema sociale di una data specie, ovvero quelli in cui si interagisce
spesso e in contesti differenti. Un’idea già avanzata da Darwin ne L’espressione delle emozioni
nell’uomo e negli animali.

Il caso più celebre di comunicazione verbale tra primati è quello del cercopiteco verde, capace di
produrre dei richiami diversi a seconda della presenza di aquile, leopardi o serpenti. A ciascun
richiamo è correlata una differente risposta comportamentale sia dell’individuo che del gruppo di
conspecifici. Allo stesso modo, le scimmie reso di un’isola su Porto Rico producono cinque
differenti segnali, in relazione al tipo di aggressore e volti alla ricerca di alleati. Si potrebbe
obiettare che la risposta comportamentale sia stimolata dalla vista della scena e non dal richiamo
vocale, ma degli esperimenti hanno dimostrato il contrario. Anche le comunità di scimpanzé si
sono rivelate in grado di produrre richiami dello stesso tipo o in relazione alla nutrizione. Questa
capacità degli animali non umani di produrre segnali per comunicare “messaggi” relativi a oggetti
o eventi della realtà esterna è stata definita “comunicazione funzionalmente referenziale”.

Esistono anche importanti differenze tra il riferimento funzionali degli animali e quello degli
umani.

I. Non è chiaro se i meccanismi psicologici alla base della comunicazione siano gli stessi.
Negli animali, infatti, i messaggi sarebbero intenzionati a determinare una risposta
emotiva e, pertanto, l’espressione “comunicazione funzionalmente referenziale” denota
il modo con cui i segnali vengono prodotti ma non i meccanismi cognitivi coinvolti nel
processo.
II. Il grado di flessibilità delle associazioni segnale-significato, estremamente povero negli
animali e più ricco tra gli umani, a causa del fatto che nelle scimmie il repertorio vocale
è determinato geneticamente, mentre negli umani conta molto l’esperienza esterna.
III. Il termine “riferimento” usato in relazione ai richiami dei non umani non può essere
utilizzato per quelli degli umani. Nei non umani, la relazione tra espressione proferita e
entità designata è dovuta ad un fattore intero alla mente, mentre tra gli umani entra in
gioco anche una realtà esterna. Le parole usate dagli uomini, cioè, hanno un potere
referenziale che dipende dalla posizione occupata all’interno di un sistema organizzato
di altri simboli. (Posizione di Deacon)

Diversa è la teoria di Alison Wray, secondo cui i messaggi degli animali sarebbero espressione di
una comunicazione di natura olistica, i cui richiami sono privi di struttura interna e non vengono
mai combinati con altri segnali per creare un messaggio completo. Secondo Wray, le vocalizzazioni
animali sarebbero “manipolative” più che referenziali. Il sistema di messaggi del mondo animali
sarebbe, perciò, un precursore del linguaggio umano, composto non da parole, ma da messaggi.

Un forte ostacolo per lo studio sull’origine del linguaggio è che la maggior parte di specie di
ominini, gli antenati dell’Homo sapiens sapiens, si sia estinta. Mithen ha proposto un modello il cui
punto di partenza sono le vocalizzazioni dei primati, da cui la comunicazione degli ominini
avrebbe ereditato il carattere olistico e la natura manipolativa, a cui si sarebbero poi aggiunte la
musicalità e la multimodalità (cioè, l’utilizzo del medium sonoro e del medium gestuale). Ciascuna
delle quattro proprietà sarebbe presente, in maniera distinta, in diverse specie di primati per poi
ritrovarsi nei sistemi di comunicazione dei primi ominini, definiti HMMMM (holistic,
multimodale, musicale, manipolativo) e caratterizzati da un più ampio repertorio di
vocalizzazioni, causato dalle variazioni anatomiche (forma ed estensione di denti e mascelle e
conseguente mobilità di lingua e lebbra). I gesti articolatori sono così alla base di tutte le
vocalizzazioni e derivano dai movimenti oro-facciali legati alle esigenze naturali (succhiare,
leccare, ingoiare, masticare). La continua crescita dei gruppi di homines avrebbe poi causato un
aumento delle necessità comunicative e, di conseguenza, una specializzazione della lingua, le cui
componenti possono muoversi in maniera indipendente. Allo stesso modo, una diminuzione delle
dimensioni di denti e mascella avrebbe consentito un maggior numero di gesti articolatori.

Questione centrale è poi l’evoluzione del tratto vocale sopralaringeo (TVS). Gli umani hanno la
laringe in posizione più bassa rispetto alle grandi scimmie ed una cavità orale più allungata. Il TVS
umano è diviso in due porzioni: una orizzontale, comprendente lingua e orofaringe ed una
verticale, con gola e faringe. Caratteristica degli umani è la posizione ad angolo retto e il rapporto
di 1:1 tra le due porzioni, che rendono il TVS umano ‘a due canne’, mentre quello dei primati non
umani è ‘a canna unica’, nettamente sproporzionata a favore del tratto orizzontale. Questa
conformazione viene assunta, nei neonati, a partire dai 3 mesi di vita per poi stabilizzarsi verso i 3-
4 anni. La posizione ribassata della laringe permette un repertorio fonetico molto ampio, in quanto
è la laringe il principale organo di fonazione, assieme alle corde vocali, due lembi che la
circondano. Modificano la posizione delle labbra e della lingua, è possibile alterare le formanti per
produrre la gamma completa di suoni vocalici.

Secondo Aiello, l’adattamento del TVS sarebbe conseguenza del bipedismo, come testimonia il foro
occipitale in cui si innesta la colonna vertebrale. Negli esseri umani, l’apertura è collocata in basso
e in avanti, determinando una mandibola più piccola, un allungamento del tratto vocale e un
abbassamento della laringe. Il mutamento si sarebbe concluso, perciò, con homo ergaster e homo
erectus. Secondo la ricostruzione di Lieberman, l’homo neanderthalensis doveva avere capacità
fonetiche molto limitate, in quanto i cambiamenti del tratto vocale si sarebbe compiuti soltanto con
l’homo sapiens. Le ipotesi di Lieberman sono state messe in discussione dagli studi sull’osso ioide,
fissato alla cartilagine della laringe, a cui sono ancorati i muscoli necessari per l’articolazione del
linguaggio e che costituisce un indizio della posizione della laringe nella gola. Quest’osso, in un
esemplare di neanderthal, ritrovato a Kebara, è in posizione identica a quella degli uomini moderni,
cioè in basso nella gola e questo lascia pensare a un apparato fonatorio simile a quello dell’homo
sapiens. Questo testimonierebbe, grazie anche ad altri ritrovamenti, la perdita delle sacche d’aria di
cui le grandi scimmie sono dotate e il cui suono influenzerebbe quello prodotto dalle corde vocali.
Le sacche sono legate ad un allungamento a coppa dell’osso ioide, detto bolla ioide, assente negli
umani. Alcuni studi hanno dimostrato anche che l’abbassamento della laringe si verifica in alcuni
esemplari di mammiferi, ma temporaneamente, capaci di produrre suoni che puntano a
valorizzare la loro corporeità, grazie a suoni più bassi. Questo dimostrerebbe che l’abbassamento
della laringe sarebbe intervenuto molto presto, per poi interessare in special modo la specie
umana. L’abbassamento, quindi, servirebbe prima a sembrare più massicci e, in un secondo
momento, sarebbe stato implicato anche nella costruzione dell’apparato fonatorio. La produzione
di suoni implica, infine, anche una stretta connessione tra diversi movimenti articolatori. Questo ha
portato ad indagare i fossili alla ricerca di aree neurali implicate nella produzione del linguaggio,
come l’area di Broca e l’area di Wernicke, deputate rispettivamente alla produzione e alla
comprensione del linguaggio e probabilmente presenti già da molto tempo nel cranio degli
ominini. Queste deduzioni sono però pericolose perché la struttura del cranio non è sempre legata
alle funzioni del cervello. Alcuni studi hanno collegato le dimensioni del canale dell’ipoglosso,
dove passano i nervi che collegano il cervello alla lingua, al controllo motorio della lingua. Il canale
è infatti molto più largo negli uomini che nelle grandi scimmie. I Neanderthal potevano contare,
quindi, su capacità vocali simili all’homo sapiens. Successive ricerche hanno, però, dimostrato che,
essendo più largo il canale dell’ipoglosso anche in alcune scimmie, non è un indicatore affidabile.
Più indicativo è il canale delle vertebre toraciche attraverso cui passano i nervi responsabili della
respirazione e del diaframma. Il legame che questi nervi hanno con il canto hanno fatto ipotizzare
che un aumento delle dimensioni del canale toracico costituisca un adattamento per il controllo
delle vocalizzazioni e delle parole. Se homo neanderthalensis e le grandi scimmie hanno un canale
più stretto, questo si allarga con homo sapiens.

II. Anche i gesti sono un codice di comunicazione con cui stabilire relazioni sociali con i propri
simili. La gestualità, sia di natura deittica che rappresentativa, è cruciale anche nell’ontogenesi del
linguaggio, come ben visibile nei bambini. Il linguaggio è un sistema integrato di gesto e parola.
Una prima teoria sull’origine del linguaggio, risalente all’abate de Condillac (1746), pone, alla base
del linguaggio il gesto. [Favola di Mandeville dei due bambini nel deserto che producono ogni
sorta di gesto pur di comunicare le loro volontà]. Il divieto imposto dalla Società di Linguistica di
Parigi alle discussioni sul tema lo ha reso un tabù. Nel 1973, Gordon Hewes, pubblica un saggio in
cui descrive il fallimento nell’insegnare una lingua ad una scimmia e i successi nell’apprendimento
nella lingua dei segni. Hewes introdusse il concetto di “protolinguaggio”. Le teorie di Hewes
riprendono anche gli studi di Stokoe sulle lingue dei segni delle comunità sorde, che ottennero pari
dignità delle lingue parlate, dimostrata la loro complessità.

Dal confronto tra la gestualità dei primati e quella degli umani si ha una prima ipotesi di origine
gestuale del linguaggio. La limitatezza del repertorio vocale dei primati non umani dipende anche
dall’incapacità di controllare i suoni emessi e dalla loro determinazione genetica. La produzione di
suoni è poi legata alle emozioni. Un danno delle zone subcorticali del cervello deputate alla
regolazione delle emozioni comporta anche un’incapacità di produzione di suoni. Il tratto
neocorticale, invece, è indispensabile per la produzione vocale, poiché permette agli umani di
controllare i suoni prodotti nella laringe. Un danno in quest’area provoca una paralisi oro-facciale.
Nonostante la paralisi, le scimmie sono comunque in grado di produrre richiami non molto
alterati. Questo dimostra che la parte neocorticale, negli umani, è responsabile interamente del
controllo volontario dei muscoli coinvolti nella produzione di suoni. Pertanto, il linguaggio parlato
deve essersi sviluppato solo dopo che l’uomo si è separato dagli altri mammiferi, nella linea
evolutiva.

Parte del linguaggio animale è composta, così, da gesti, prodotta volontariamente e liberamente
dai primati. Caratteristica della gestualità animale è, perciò, l’intenzionalità, ovvero il fatto che il
gesto sia prodotto con la volontà di suscitare una reazione nel consimile, che, solo se attento, è in
grado di cogliere il messaggio e reagire di conseguenza. Questo è ulteriormente dimostrato dalla
“perseveranza comunicativa”, ovverosia il fatto che, in caso di fallimento comunicativo, il primate
torni a ripetere o ad ampliare il gesto, pur di intercettare il destinatario del messaggio. Un’altra
caratteristica è la flessibilità, ovvero la dissociazione tra il significato di un gesto e la sua
realizzazione. La maggior parte dei gesti, nonostante alcuni siano di origine genetica, è frutto di
apprendimento.

Recenti studi, che hanno rinvenuto la presenza di “neuroni specchio” nei macachi, lasciano
ipotizzare l’esistenza di una comunicazione gestuale anche negli ominini. I neuroni sono coinvolti,
infatti, sia nella costruzione che nella percezione del gesto e agiscono proiettando l’immagine a cui
si assiste in un repertorio di azioni che il primato è in grado di compiere. Il sistema “specchio”
trasforma l’informazione in conoscenza. I neuroni si collocano, poi, in un’area del cervello dei
macachi, simile all’area di Broca. Il sistema specchio, infatti, consente anche l’azione di mimesi. Se
nei macachi, il sistema specchio viene utilizzato per il grasping, negli umani è utile anche per atti
intransitivi. Secondo Corballis, i gesti hanno col tempo perso il loro valore iconico in favore di una
convenzionalizzazione, che vede perdere il linguaggio della componente iconica, facendolo
diventare più immediato, spesso accostandolo ad una vocalizzazione. Acquisita quest’ultima, il
messaggio può definitivamente perdere la componente gestuale e passare all’ambito orale. L’area
di Broca dei macachi sarebbe stata utile anche in quest’ultimo caso, poiché, dopo aver incorporato i
gesti manuali, avrebbe assimilato e conseguentemente permesso il riconoscimento delle
vocalizzazioni. Esperimenti hanno poi dimostrato la connessione dell’area che controlla i
movimenti gestuali con quella deputata ai movimenti oro-facciali. È probabile, dunque, che una
prima fase dell’incremento della comunicazione riguardi lo spostamento di messaggi dalla
comunicazione gestuale a quella facciale, per poi completarsi con le vocalizzazioni. Corballis,
giustificando questa ipotesi, fa riferimento alla teoria motoria della percezione del parlato, secondo cui
percepire suoni è percepire gesti, basati su sei organi (lingua, labbra, etc.). Di conseguenza,
l’attivazione del sistema motorio è necessaria per l’articolazione del linguaggio. I neuroni specchio
sono, infatti, “audio-motori”, in quanto riconoscono anche il suono connesso ad un movimento
particolare. Ricerche hanno anche dimostrato l’attivazione dei muscoli implicati nell’articolazione
vocale all’ascolto di segnali linguistici.

Altre teorie sull’origine del linguaggio partono dalla critica all’unimodalità delle teorie gesture-first.
Un protolinguaggio esclusivamente gestuale avrebbe dato vita, infatti, a lingue dei segni, piuttosto
che a lingue parlate differenti. Allo stesso modo, la teoria secondo cui il protolinguaggio sarebbe
partito con la pantomima sarebbe errata in quanto esclude la parola. Queste teorie, quindi,
pongono su uno stesso piano l’evoluzione di gestualità e linguaggio parlato, che riguarderebbero
due distinti processi interpretativi: il primo implicherebbe un processo immaginativo, l’altro uno
di tipo linguistico. I due processi entrano in conflitto, in quanto il gesto ha carattere globale, mentre
il codice linguistico è combinatorio. Il gesto non è scomponibile in unità minime ed ha un processo
di determinazione del significato up-down, mentre il codice linguistico ne ha uno bottom-up.
Secondo McNeill, le due componenti erano originariamente compresenti nella comunicazione. A
questo punto, entra in gioco il “circuito di Mead”. Secondo Mead, i gesti diventano simboli densi
di significato nel momento in cui suscitano in un individuo la stessa reazione che provocherebbero
negli altri. Il circuito di Mead avrebbe subito un mutamento, un’inversione delle funzioni dei
neuroni specchio, divenendo capace di riconoscere i propri gesti come se fossero altrui. Quindi, i
gesti individuali sarebbero divenuti gesti sociali e pubblici e i neuroni specchio renderebbero
disponibili il gesto e la sua immagine nell’area di Broca, capace, a questo punto, di coniugare
gestualità e parola nell’immagine gestuale. L’ipotesi di McNeill trova riscontro in alcune recenti
scoperte che hanno dimostrato che la produzione vocale delle scimmie non è così automatica e
involontaria e che le grandi scimmie, soprattutto gli scimpanzé, usano un sistema di
comunicazione multimodale, combinando, attraverso aree cerebrali simili a quella di Broca, gesti e
suoni. La volontarietà della produzione vocale delle scimmie ha indebolito molto le teorie gesture-
first.

III. È necessario completare gli studi sull’origine del linguaggio con lo studio dei processi cognitivi.
Se la comunicazione non è altro che un passaggio di informazione da emittente a ricevente tramite
un canale, allora la perfetta codifica e decodifica dovrebbe far risultare il messaggio identico
all’inizio e alla fine del processo. Questo modello di comunicazione è definito “modello del
codice”, che combina la metafora del canale e la teoria matematica della comunicazione, secondo
cui il messaggio viene passato attraverso un canale in cui si verificano interferenze. La
comprensione è garantita dallo stesso codice che permette di associare al messaggio una
rappresentazione fonologica. Alla base di questo modello, vi sono due assunti, per cui tutti gli
enunciati hanno un significato che dipende dai significati delle parole che li compongono e dalle
regole sintattiche con cui sono combinati e l’idea che il significato di un enunciato è indipendente
da ciò che il parlante intende significare. Il codice, però, permette solo l’estrazione di proprietà
linguistiche, lasciando non specificati molti aspetti dell’interpretazione di un enunciato. Il modello
del codice crea così un gap tra la rappresentazione semantica di un enunciato e la sua
comprensione.

Si tenta, perciò, di spiegare la comunicazione umana attraverso una teoria proposta da Sperber e
Wilson, detta ‘della pertinenza’, basata sullo studio delle capacità cognitive che permettono
all’uomo di comprendere e produrre espressioni linguistiche e sui metodi della psicologia
cognitiva. La teoria della pertinenza riprende le ipotesi del filosofo Grice, secondo cui al centro
della comunicazione stanno le intenzioni, per cui è necessario distinguere tra significato
dell’espressione e significato del parlante. Sperber e Wilson concepiscono la comunicazione come un
processo di formulazione di inferenze e di riconoscimento delle intenzioni comunicative.
Propongono un modello “ostensivo-inferenziale”, in cui il parlante fornisce all’ascoltatore solo un
indizio della sua intenzione di comunicazione e l’ascoltatore comprende attraverso una serie di
inferenze. Sono quindi in gioco due tipi di intenzione: informativa e comunicativa. La
comunicazione ha esito positivo quando viene riconosciuta la seconda delle intenzioni. In questo
senso, è fondamentale l’indizio e soprattutto la concezione di ‘pertinenza’, la proprietà in grado di
determinare quale informazione particolare riceverà l’attenzione di quell’individuo in un dato
momento. La pertinenza si definisce quindi attraverso i concetti di effetto cognitivo e sforzo di
elaborazione, che stanno in rapporti di proporzionalità inversa. Secondo questa teoria,
l’interpretazione si compone di due fasi: la prima in cui viene decodificata l’informazione; la
seconda, in cui i processi pragmatici forniscono un’interpretazione dell’espressione del locutore.
Secondo i teorici della pertinenza, la comunicazione è resa possibile dalla teoria della mente: la
capacità di rappresentare mentalmente gli stati mentali propri e altrui. Si definisce, così, mind-
reading ricorsivo la capacità di elaborare livelli multipli di rappresentazioni incassate. Lo studio
della capacità di lettura della mente costituisce un settore specifico di riflessione all’interno della
scienza cognitiva, sviluppatosi attorno ad un paradigma sperimentale noto come “test della falsa
credenza”, una prova empirica che dà conto della capacità di mentalizzazione nei bambini. Dal test
emerge che solo a partire dai 4 anni circa il bambino è in grado di rappresentare lo stato mentale di
un’altra persona. Altri esperimenti hanno poi dimostrato come anche i bambini di circa un anno,
attraverso una rielaborazione del test della falsa credenza, abbiano capacità di mentalizzazione. Il
mind-reading ricorsivo sarebbe, pertanto, non solo una capacità presente sin dalla più tenera età, ma
anche una capacità cruciale per lo sviluppo ontogenetico della comunicazione ostensiva
inferenziale.

Secondo alcuni studiosi, la capacità di lettura della mente ha avuto un ruolo particolare
nell’origine del linguaggio. In un articolo, Premack e Woodruff sostengono che gli scimpanzé sono
in grado di interpretare il comportamento degli umani attribuendo loro stati mentali. In un
esperimento, avevano sottoposto una scimmia ad una scelta che, una volta presa, mostrava che
l’animale aveva compreso l’intenzione dello sperimentatore. Dopo dieci anni, Premack è tornato
sull’argomento, rivedendo le sue teorie, dopo un esperimento in cui lo scimpanzé aveva messo in
difficoltà la sua assistente, nonostante ne conoscesse la volontà. Questo accadeva perché lo
scimpanzé non aveva una conoscenza della conoscenza dello sperimentatore. Di fronte ad un test
della falsa credenza, gli scimpanzé hanno ugualmente fallito. Un esperimento di Tomasello, su
dove si diriga uno scimpanzé subordinato conscio del fatto che il suo superiore possa vedere un
solo piatto e lui due, ha dimostrato che anche gli scimpanzé sono in grado di valutare i
comportamenti altrui sulla base dell’attribuzione di stati psicologici. Riemerge, dunque,
l’intenzionalità della comunicazione gestuale delle scimmie. Si possono così individuare due tipi di
gesti: i movimenti di intenzione e i richiami dell’attenzione. I movimenti intenzionali, primi passi
di azioni abituali, hanno un significato intrinseco. I richiami dell’attenzione, invece, hanno due
livelli: un mezzo di comunicazione esplicito e un fine comunicativo implicito.

Al di là dell’intenzionalità, comune ai sistemi comunicativi di umani e primati, alcuni studiosi


riconoscono alla comunicazione umana delle specificità, ad esempio l’interpretabilità secondo i
termini del modello del codice. Secondo Scott-Philips, la comunicazione animale è intenzionale ma
non ostensiva, cioè priva della doppia intenzione, informativa e comunicativa. La comunicazione
ostensiva è, perciò, intenzionalmente manifesta e quella animale non può esserlo in quanto non è
in grado di attuare il mind-reading ricorsivo. Secondo Moore, però, i criteri minimali generalmente
utilizzati per attestare nei bambini piccoli la presenza di comunicazione ostensiva sono
riscontrabili anche nei primati, che avrebbero pertanto una forma di comunicazione ostensiva. Uno
di essi è il contatto visivo con l’interlocutore sua prima che durante la produzione di un segnale.

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