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Esistono suoni impronunciabili


se non si è un parlante nativo?

Il testo in epigrafe si trova su una cartolina molto popolare a Malta. A giudicare dalla parodia del tu-
rista italiano che parla inglese a Malta (la scelta è normalmente tra arabo maltese e inglese, ciò non la-
scia molte opzioni praticabili), la risposta alla domanda del titolo del capitolo sembra essere tragica-
mente positiva. C’è da chiedersi che cosa abbiano fatto gli italiani per meritarsi questa fama poco lu-
singhiera di pronunciatori di inglese. Ovviamente, la ragione non ha nulla a che fare con questioni ge-
netiche – non esistono popolazioni geneticamente meno predisposte all’apprendimento delle lingue –
ma culturali, legata alla tradizione di insegnamento delle lingue straniere.
Per rispondere alla domanda è necessario addentrarsi nella fonetica, che studia i suoni del linguaggio
umano, che sono l’elemento base del significante; ne sono i mattoni, come l’immagine seguente del co-
siddetto segno linguistico illustra:
Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

Questo significa che una parola, il ‘segno’ per eccellenza, consiste di un involucro che la rappresenta
(‘le dà voce’), il ‘significante’, e del ‘significato’ stesso. Il significante di ogni lingua umana parlata è
fonico: consiste di segnali sonori. I gesti sono la seconda scelta, per gli esseri umani: forniscono il ma-
teriale per costruire il significante per individui sordi; i segni che costituiscono la scrittura rimandano
alla lingua parlata, non la sostituiscono.

1. Fonetica
La fonetica studia come i suoni vengano prodotti (ARTICOLATORIA), in che cosa consistano (ACU-
STICA) e come vengano recepiti dall’orecchio, esterno e interno, e dalla parte del cervello a questo adi-
bita (UDITIVA):
ARTICOLATORIA creazione del suono
FONETICA ACUSTICA prodotto sonoro
UDITIVA ricezione del suono
L’aspetto più rilevante in questo contesto è la fonetica articolatoria, quella più direttamente connes-
sa alla comprensione dei fenomeni fonologici e che ha più ricadute sull’apprendimento-insegnamento
di una lingua straniera (o anche standard, nel caso degli studi di dizione).
Saper pronunciare i suoni di una lingua significa molto più che articolare i foni ‘equivalenti alle let-
tere dell’alfabeto’; oltre che (1) articolare i foni che compongono l’inventario di una lingua, occorre
(2) sillabificare gli stessi (raggrupparli in sillabe permesse dalla lingua), (3) metrificare le sillabe (as-
segnare la prominenza a ciascuna di esse, cioè il ritmo), (4) infine, occorre intonare le sequenze ottenu-
te, nello specifico frasi e parti di frase (assegnare la giusta intonazione, in funzione delle loro proprietà
sintattiche generali, in primis, e pragmatiche, in secondo luogo). L’esempio seguente (la parola è albe-
rello, in risposta a una domanda come ‘Che cosa hai detto?’) illustra il processo (ACCENTI: 1 PRIMA-
RIO, 2 SECONDARIO; TONI: – MEDIO, _ BASSO, – ALTO, \ DISCENDENTE):

1. ARTICOLAZIONE a l b e r e l: o
2. SILLABAZIONE al be rel lo
2 1
3. METRIFICAZIONE al be rel lo
_
– _ \
4. INTONAZIONE al2 be rel1 lo
La teoria fonetica offre strumenti preziosi per apprendere la pronuncia di una lingua straniera – in
particolare in età adulta, quando le capacità imitativo-percettive non sono più quelle di un bambino nei
primi anni di vita. Il metodo fonetico si fonda sulla conoscenza esplicita dell’apparato fonatorio, in par-
ticolare degli articolatori, e della loro fisiologia, i movimenti che compiono per modificare il flusso

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Marco Svolacchia

d’aria proveniente dai polmoni. La consapevolezza va unita alla cinestesia, la capacità di percepire i
movimenti del proprio corpo, degli articolatori in questo contesto. La cinestesia è un aspetto della pro-
priocezione, il senso che permette di auto-percepirsi. Va detto che quanto più un articolatore è esterno,
tanto più facile è rendersi conto dei suoi movimenti, analogamente a quanto è più facile osservarne i
movimenti, come mostra l’immagine seguente:

Osservare i movimenti delle labbra è banale, quelli della parte anteriore della lingua facile, quelli
del dorso della lingua abbastanza facile, quelli della radice difficile; osservare il movimento del velo
palatino è impossibile, come anche i movimenti delle corde vocali; non a caso, i tipici errori di pronun-
cia da parte di un individuo sordo sono connessi a questi due articolatori, a meno che non riceva un ad-
destramento logopedico specifico.
Nel sistema fonetico ogni suono linguistico articolato, ‘fono’, è categorizzato, cioè descritto in modo
essenziale; inoltre, è rappresentato graficamente tramite l’Alfabeto Fonetico Internazionale, in breve
IPA, dall’inglese International Phonetic Alphabet.
L’IPA è un ALFABETO perché ciascuna lettera è in relazione con un fono. In più, è un alfabeto per-
fetto, perché la corrispondenza tra foni e lettere è sempre biunivoca: a una sola specifica lettera corri-
sponde un solo specifico fono e viceversa. Non esistono digrammi, come gn, né lettere mute, come h in
hanno, né lettere ambigue, come e in pesca, né foni ambiguamente scritti, come [g], scritto g o gh, né
foni “ciechi”, come le vocali brevi nelle scritture consonantiche, ignorate dalla scrittura. È FONETICO
perché trascrive solo quello che viene pronunciato: ignora come una parola sia scritta nell’ortografia di
una particolare lingua o come una forma veniva pronunciata in passato – non presenta ortografie etimo-
logiche, come q in italiano, che aveva senso in latino – o segni senza contenuto fonetico, come
l’apostrofo o le maiuscole. È INTERNAZIONALE perché è in grado di trascrivere qualsiasi fono di qual-
siasi lingua del mondo in modo uniforme; p.e., la semiconsonante palatale sarà trascritta [j] per qualsia-
si lingua, a prescindere da come questo fono venga trascritto nei singoli sistemi di scrittura: i, j, y, й, ι, ‫ﻳ‬
‫י‬,, ecc. Insomma, è un ALFABETO FONETICO UNIVERSALE, sebbene si basi sull’alfabeto latino.

2. Apparato fonatorio
L’apparato fonatorio consiste essenzialmente nei polmoni, che forniscono l’aria per la fonazione, la
cavità faringea, la cavità orale, la cavità nasale. In realtà, il modo di fonazione pneumonico, pur es-
sendo incomparabilmente quello più utilizzato nelle lingue del mondo, non è esclusivo: esistono lingue,
nell’Africa australe, che presentano nel loro inventario fonologico anche suoni articolati diversamente;

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

trattandosi, però, di lingue di scarso interesse didattico per il resto dell’umanità, sebbene molto interes-
santi per gli addetti ai lavori, l’argomento non verrà approfondito.
Alla base della faringe si trova la LARINGE, il primo articolatore che la corrente d’aria incontra nel
suo percorso, che contiene le CORDE VOCALI. Tra la cavità faringea e quella orale si trova il VELO PALA-
TINO, il secondo articolatore, che abbassandosi mette in comunicazione la faringe con la cavità nasale.
Come la figura seguente illustra, nella cavità orale si trovano la lingua, l’articolatore orale per eccellen-
za, e le labbra, entrambi in grado di compiere diversi movimenti:

Tutti i foni di tutte le lingue del mondo sono prodotti dall’interazione di questi articolatori, che mo-
dificano l’aria proveniente dai polmoni, la quale passa prima attraverso la cavità faringea, poi attraver-
so la cavità orale e, se il velo palatino è abbassato, attraverso la cavità nasale.
La lingua, in realtà, consiste di fatto di tre articolatori diversi, indipendentemente attivabili, anche
contemporaneamente: radice, dorso e corona (la parte anteriore). Pertanto, gli articolatori sono sei:
corde vocali, velo palatino, radice, dorso, corona, labbra. Una rappresentazione più analitica
dell’apparato fonatorio è la seguente (nell’immagine figura ‘apice’, che è solo la parte estrema della co-
rona):

Questo vale per tutte le lingue del mondo: suoni misteriosi non esistono. Questo vuol dire che una
buona descrizione fonetica mette in condizione di descrivere la pronuncia di qualsiasi lingua del mon-
do; con un po’ di esercizio, anche di pronunciare con buona approssimazione qualunque fono. Questo è
particolarmente utile, ai fini pratici dei più, per pronunciare correttamente le parole delle lingue con or-

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tografie opache – come il francese o, ancor di più, l’inglese – che sono poco affidabili per risalire alla
pronuncia di una parola che non si conosce, in particolare quando la si legge senza mai averla sentita
pronunciare. Generalmente, i moderni dizionari sono corredati dalla trascrizione IPA della pronuncia di
ogni entrata lessicale.
La laringe è l’articolatore che più ha subito trasformazioni nel corso della nostra filogenesi. Se si
confronta la posizione della nostra laringe con quella di un primate vicino alla nostra linea evolutiva,
p.e. uno scimpanzè, come nella figura in basso, si constata che la nostra è posta molto più in basso lun-
go il canale faringeo, che risulta quindi più ampio e ad angolo retto con la cavita orale: ‘il canale sopra-
laringeo dell’uomo funziona quindi come un organo a due canne, a differenza di quello dello scimpan-
zè’:

Nei primati la laringe è posta immediatamente sotto la radice della lingua; questa posizione è fun-
zionale: serve a proteggere le vie aeree dall’ingresso di cibo, liquidi e altri agenti estranei. Questo signi-
fica che un primate non umano, a differenza nostra, può contemporaneamente mangiare ed emettere
suoni senza conseguenze. Si parla di questo fenomeno evolutivo che ha interessato la linea umana
(Homo) in termini di ‘discesa/abbassamento della laringe’. Conformemente al noto, seppur discreditato,
aforisma di E.H. Haeckel (‘L’ontogenesi è la ricapitolazione breve e veloce della filogenesi’), nei neo-
nati la laringe ha lo stesso assetto che nei primati non umani: solo dopo qualche mese (4-6) comincia a
scendere verso la posizione “umana”.
Qual è stato il vantaggio evolutivo della discesa della laringe? La questione è molto discussa e
l’ipotesi attualmente più accreditata è che non abbia nulla a che vedere col linguaggio, contrariamente a
quanto affermato da alcuni biologi, in particolare P. Lieberman, ma che serva a spaventare eventuali
aggressori: la posizione abbassata della laringe crea dello spazio libero superiore che viene utilizzato
come amplificatore, permettendo al suono di aumentare di intensità e gravità, dando l’impressione che
chi lo produce sia più grande; sarebbe il parallelo uditivo della strategia visiva del gonfiarsi, come av-
viene, tipicamente, in alcuni rettili, uccelli e pesci. Tattersall rifiuta l’idea che la discesa della laringe si
sia evoluta a fini linguistici in quanto già presente negli umani c. 600.000 anni fa, molto prima che
comparisse il linguaggio, e discute altre possibilità (forme più arcaiche di espressione vocale? Vantaggi
nella respirazione?).
Qualunque sia la ragione della sua affermazione, sta di fatto che questa innovazione è stata utilizzata
con successo dalla nostra specie ai fini del linguaggio: il maggiore spazio sopralaringeo così creato non
solo amplifica il suono, aumentandone l’udibilità, ma ne migliora la qualità, aumentando la percettibili-
tà delle distinzioni di suono. Il linguaggio umano, come vedremo, utilizza distinzioni di suono anche
molto fini per dare voce al linguaggio. Questo permette di utilizzare molti più foni per rappresentare le

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parole di quanto non sarebbe possibile se la nostra specie non disponesse dei mezzi per creare delle dif-
ferenze di suono ben percepibili da un orecchio umano: comporterebbe la necessità, poco economica,
di parole molto più lunghe. Insomma, la discesa della laringe non si sarebbe verificata per favorire il
linguaggio, ma sarebbe stata utilizzata in seguito a questo fine, perché adattiva. Il linguaggio può al
massimo aver esercitato un’azione di rinforzo. In biologia, per situazioni di questo tipo si parla di
esaptazione: l’uso della posizione ribassata della laringe ai fini linguistici sarebbe un’esaptazione del
suo uso a fini difensivi. È comunque evidente che la trasformazione subita dalla nostra laringe ha avuto
un effetto sul rapporto costi-benefici: mentre il linguaggio ne ha beneficiato, il rovescio della medaglia
è stato una minore protezione della trachea e una minore capacità aerobica, dato che la laringe restringe
di un 50% il diametro della trachea.
Molto più in generale, tutto il cosiddetto ‘apparato fonatorio’ è una sistematica esaptazione di organi
formatisi con un’altra funzione, che continuano ad avere come primaria: i polmoni servono in primis a
respirare; la laringe ha una funzione protettiva delle vie aeree; il velo palatino serve a mettere in comu-
nicazione la cavità nasale con la faringe, permettendo l’ingresso di aria filtrata dal naso; la lingua è
primariamente un organo del gusto, connesso all’alimentazione, come anche le labbra. Pertanto, nessu-
no degli ‘organi dell’apparato fonatorio’ ha come funzione primaria la fonazione. Se non fossimo così
abituati a parlare e sentire gente che parla, saremmo stupiti di come riusciamo ad articolare elementi di
suono molto complessi continuando a respirare in modo pressoché naturale, come nulla fosse. In con-
clusione, in un certo senso non esiste alcun apparato fonatorio, nel senso di un sistema anatomicamente
ben definito e coerente, come l’apparato digerente; si tratta, piuttosto, di un coacervo di elementi diver-
si a cui si è sovrapposta una coordinazione funzionale.
La laringe, un organo cartilagineo, con piccoli muscoli, legamenti, fasce connettive e mucose, con-
tiene le CORDE VOCALI, che a dispetto del nome hanno poco a che vedere con delle corde: si tratta di
formazioni tendinee. Per questo sono anche denominate ‘pieghe o pliche vocali’ (vocal chords o vocal
folds dell’inglese sono etimologicamente equivalenti alle denominazioni italiane). Le corde vocali sono
attivabili in due parti autonome: le corde vocali in senso stretto e le aritenoidi; le figure seguenti illu-
strano la laringe (viste dall’alto, col viso in basso) con le aritenoidi, in alto nelle figure, e le corde voca-
li divaricate al massimo, come avviene durante la respirazione forzata, mediamente, come nella respira-
zione normale, e al minimo, quando una persona si accinge a parlare:

RESPIRAZIONE FORZATA RESPIRAZIONE NORMALE ASSETTO FONAZIONE

Quando le corde vocali e le aritenoidi sono divaricate la corrente d’aria dei polmoni non viene modi-
ficata significativamente e i foni che risultano si definiscono ‘sordi’, cioè senza vibrazione (come nella
pronuncia di [h] nella parola inglese hat).
L’assetto fondamentale per la fonazione umana è quello in cui corde vocali e aritenoidi sono acco-
state con una leggera tensione per opporre una leggera resistenza alla corrente d’aria, producendo così
il cosiddetto ‘tono glottidale’, ovvero la voce umana, che è caratterizzata da vibrazione; quindi, da suo-

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no periodico, come lo si usa, al massimo grado, nel canto. A livello linguistico, produce foni cosiddetti
‘sonori’, accompagnati da vibrazione, come, al massimo grado, nelle vocali; la figura seguente illustra:

A seconda della tensione delle corde vocali il tono glottidale avrà frequenza diversa: maggiore la
tensione, maggiore la frequenza e più acuto il tono; questa possibilità è utilizzata nel canto e, a livello
linguistico, soprattutto nell’intonazione, oltre che per altri elementi linguistici. Se le corde vocali e le
aritenoidi sono accostate, come nella figura sopra, ma con una tensione tale da non permettere alcun
passaggio dell’aria e poi rilasciate repentinamente, l’aria accumulata sotto la laringe fuoriesce violen-
temente e il risultato è un fono esplosivo chiamato ‘occlusiva glottidale’, che ricorre in molte lingue; a
livello non linguistico, è il familiare colpo di tosse, utilizzato per espellere elementi indesiderati dalla
laringe.
Ci sono altre configurazioni possibili, anche se meno importanti; nel BISBIGLIO, ad esempio, le corde
vocali sono accostate ma le aritenoidi sono divaricate; il risultato è che il suono prodotto è solo molto
debolmente vibrato, quindi debolmente periodico, perché la maggior parte dell’aria fuoriesce attraverso
le aritenoidi, che non oppongono alcuna resistenza; pertanto, la loro udibilità risulta molto diminuita,
che è lo scopo principale del suo uso; tuttavia, questo assetto è anche usato in alcune lingue per produr-
re foni durante l’emissione normale, che risultano grosso modo intermedi tra quelli sordi e quelli sono-
ri:

BISBIGLIO

Va sottolineato che le immagini che precedono sono idealizzazioni ricavate da radiografie; nella
realtà osservabile ad occhio nudo la laringe si mostrerebbe in modo molto diverso, essendo ricoperta da
uno strato mucoso, come mostra la figura seguente ottenuta in endoscopia:
A B

Sia in (A), in assetto divaricato, che (B), in assetto accostato, si distinguono comunque le aritenoidi,
in alto, dalle corde vocali in senso stretto.
La velocità e la precisione di questo organo fonatorio sono impressionanti. Le variazioni di assetto
sono rapidissime: un ciclo completo di chiusura-apertura-chiusura, come nella sequenza seguente, dura
all’incirca un centesimo di secondo, come si vede confrontando le figure (1) e (10):

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

Il secondo articolatore che la corrente d’aria incontra nel suo cammino è il VELO PALATINO, la parte
terminale del palato, detto anche ‘palato molle’, in quanto può essere attivata. Quando il velo palatino è
sollevato, l’aria fuoriesce unicamente attraverso la cavità orale: il fono sarà ORALE (A); quando il velo
palatino è abbassato, l’aria accede anche alla cavità nasale: il fono sarà NASALIZZATO (B); quando la
cavità orale è completamente ostruita da un articolatore il fono sarà NASALE (C): l’aria fuoriuscirà uni-
camente attraverso la cavità nasale; per questo i foni nasali sono ‘occlusivi’, sebbene non siano esplosi-
vi in quanto l’aria esce in modo continuo attraverso il naso. Le immagini seguenti esemplificano:
A. ORALE B. NASALIZZATO C. NASALE

La posizione di riposo dell’apparato fonatorio, cioè quando non è posizionato per parlare, è la se-
guente, una nasale labio-coronale, col velo palatino abbassato per consentire la respirazione nasale,
spesso usata per intonare enunciati senza parole (‘mhn?’):

La LINGUA, il terzo articolatore che l’aria incontra nel suo cammino verso l’esterno, oltre a muoversi
orizzontalmente e verticalmente, può assumere diverse forme, che producono differenze sonore ben
percepibili. Può essere piatta, come per la pronuncia di [t]); ‘solcata’, cioè concava, con tensione delle
lamine, le parti laterali della lingua, che produce suoni sibilanti, come [s]: solo un canale centrale è la-
sciato libero al passaggio dell’aria, che fuoriesce quindi con maggiore pressione e frequenza, generan-
do quella sorta di sibilo da cui prendono il nome; infine, contratta di lato, cioè convessa, con attivazio-
ne della sola parte centrale: l’aria fuoriesce solo dai due lati della lingua, producendo foni perciò de-
nominati ‘laterali’, come [l]:

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Le LABBRA, a loro volta, possono assumere forme diverse. L’apertura dipende dal movimento del
dorso della lingua; ad esempio. nella pronuncia di [a], in cui la lingua è massimamente abbassata, le
labbra sono massimamente aperte; l’arrotondamento, o labializzazione, cioè con le labbra protese in
avanti – più alta la lingua, maggiore l’arrotondamento – è invece indipendente e può essere utilizzato
da alcune lingue come una proprietà in grado di identificare parole diverse.
La differenza tra i vari foni utilizzati nel linguaggio non dipende solo da quali articolatori sono atti-
vati e con quale movimento, ma anche dal grado di attivazione, che determina il grado di ostruzione al
passaggio dell’aria.
La prima differenza fondamentale a questo riguardo è tra CONSONANTI E VOCALI. La differenza è
reale; convenzionale è la definizione più ricorrente: una vocale sarebbe un fono articolato senza ostru-
zione, cioè senza alcun articolatore orale che intervenga, mentre le consonanti sarebbero ostruite. La
realtà è più complessa: esiste una linea soglia al di sotto della quale i foni vengono mentalmente cate-
gorizzati universalmente come vocali, con tutte le differenze fonologiche che ne conseguono, in parti-
colare a livello della formazione delle sillabe:

[a], una vocale pronunciata con la lingua completamente abbassata, è uno de foni meno ostruiti pos-
sibili; viceversa, [p, b, t, d, k, g] sono i più ostruiti possibili: sono occlusivi, in quanto articolati con la
completa ostruzione della cavità orale, a cui segue il rilassamento dell’articolatore impegnato, con
esplosione della corrente d’aria, per cui sono anche chiamati esplosivi.
Tuttavia, molti foni si situano tra i due estremi: [i] e [u], pur essendo vocali, sono molto più ostruiti
di [a], essendo articolati con la lingua molto più in alto; da questa proprietà discende il diverso compor-
tamento sillabico: mentre [a] occupa solo il centro della sillaba, il ‘nucleo’, [i] e [u] possono occupare
anche le altre due posizioni, l’’attacco’, l’elemento che precede il nucleo, e la ‘coda’, l’elemento che lo
segue; quando questo accade, si hanno dei piccoli aggiustamenti: vengono articolati con la lingua leg-
germente più alta e con una durata minore, più in attacco, dove vengono denominati ‘semiconsonanti’,
che in coda, dove vengono denominati ‘semivocali’. Inoltre, foni come [f] e [s] sono molti diversi da
quelli occlusivi in quanto sono continui, in quanto il passaggio dell’aria non è mai interrotto, ma
l’ostruzione comporta una notevole tensione muscolare, tale che prolungarli è molto dispendioso, per
cui vengono denominati FRICATIVI; ad esempio, nessuno li utilizzerebbe per intonare una melodia. In-
vece, foni come [n], nasali, [l], ‘laterale’, e [r], ‘vibrante’, sono sì consonantici, perché il livello di

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emissione di aria è insufficiente a categorizzarli come vocali, ma diversi dai foni fricativi perché artico-
lati con minore tensione, per cui prolungarli non comporta eccessivo sforzo; ad esempio, non è infre-
quente canticchiare con la sequenza sillabica ‘la-la-la’. Di conseguenza, i foni occlusivi e fricativi sono
OSTRUENTI, mentre le vocali e i foni approssimanti sono SONORANTI; questa distinzione ha delle conse-
guenze importanti: mentre le ostruenti hanno una spiccata predilezione per essere pronunciate sorde, le
sonoranti hanno una spiccata predilezione per essere pronunciate sonore: in tutte le lingue del mondo
esistono approssimanti sonore ma solo in pochissime ne esistono di sorde. In conclusione, in base al
grado di emissione dell’aria, i foni si dividono come segue, astraendo da ulteriori suddivisioni:
VOCALI
SONORANTI
APPROSSIMANTI

FRICATIVE
OSTRUENTI
OCCLUSIVE

Nelle lingue del mondo, seppure più raramente, ricorrono foni affricati, che sono la combinazione
compressa di una sequenza occlusiva-fricativa, come [ʦ] in pazzo.
Le immagini schematiche che rappresentano l’assetto dell’apparato fonatorio durante l’articolazione
di un fono sono chiamate spaccati sagittali e mostrano un viso (o solo una parte) di lato, rivolto nor-
malmente a sinistra. A titolo esemplificativo, diamo di seguito gli spaccati sagittali di alcune consonan-
ti, ordinate per articolatore e tipo di ostruzione (per economia, vengono ignorate le corde vocali; per-
tanto, per le ostruenti ognuno dei seguenti spaccati sagittali vale in realtà anche per il fono sonoro cor-
rispondente; ad esempio, [b] = [p], [v] = [f]):
LABIALI
OCCLUSIVA FRICATIVA

Nella fricativa il labbro inferiore non tocca il labbro superiore ma gli incisivi, che non possono bloc-
care l’aria ma solo ostacolarla: si genera un fono sforzato ma continuo.
CORONALI ANTERIORI
OCCLUSIVA FRICATIVA

Questi foni sono articolati con la parte anteriore della corona. Il fono fricativo [θ], come nell’inglese
three, è detto ‘interdentale’; in realtà, la punta della lingua è piatta, come per [t], e tocca la base degli
incisivi, che, come per le fricative labiali, ostruiscono il passaggio dell’aria senza bloccarla. Il fono [s]
è pronunciato in modo simile, ma con un’importante differenza: la lingua è ‘solcata’, ovvero assume un
atteggiamento leggermente convesso in modo da restringere il passaggio dell’aria. A differenza di [θ],

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l’articolazione di [s] richiede notevole tensione articolatoria e controllo; questa è la ragione per cui agli
inizi i bambini la pronunciano come [θ], popolarmente denominata ‘s moscia’, che in alcuni adulti di-
venta stabile.
CORONALI DISTRIBUITE
AFFRICATA FRICATIVA

In questi foni – [ʃ] come in sci; [ʧ] come in cena – la parte della corona attivata è più estesa che per
le precedenti; la lingua è ancora solcata. [ʧ] è ‘affricata’; la ragione per cui non si ha una vera occlusiva
in questo assetto articolatorio è che la sezione della lingua interessata è molto ampia, cosicché il rila-
scio dell’occlusione non è immediato ma si crea una transizione fricativa. Un’altra caratteristica di que-
sti foni e di essere labializzati.
DORSALI
OCCLUSIVA FRICATIVA

La fricativa dorsale non ricorre in italiano, a differenza di molte altre lingue, come tedesco, neder-
landese, spagnolo, greco e lingue slave.
Un cenno a parte è richiesto per i foni convenzionalmente denominati ‘vibranti’: in realtà, la vibra-
zione, il passaggio ripetuto da una fase quasi occlusiva a una quasi vocalica, è solo il modo di rilascio
dell’aria più diffuso per questi foni nelle lingue del mondo, tra cui in italiano, ma non esclusivo. Ad
esempio, in inglese /r/ è realizzata senza alcuna vibrazione, ma come un’approssimante con la corona
retroflessa, come nella figura seguente (notare il simbolo IPA):

Esistono anche foni complessi, prodotti con un articolatore orale secondario; oltre ai già visti coro-
nali-distribuiti, articolati anche con le labbra, si può ricordare la “dark l” dell’inglese come in Bill, con
innalzamento del dorso della lingua, come nella figura seguente (si noti il simbolo IPA):

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1.1 Consonanti
Quante consonanti esistono, ovvero quante consonanti diverse il nostro apparato fonatorio è in grado
di articolare? La risposta dipende, come sempre, dal grado di sottigliezza fonetica considerata. Di quel-
le pneumoniche la tabella dell’Associazione Fonetica Internazionale, organo ufficiale dell’IPA, ne
elenca qualche decina, di cui però solo una metà ricorrono in molte lingue (IPA Chart 2020; in ogni
cella, quella a destra è sonora; le celle ombrate indicano articolazioni ritenute impossibili):

L’IPA prevede anche una serie di diacritici per sotto-categorizzare le consonanti (p.e., [kw] indica
[k] labializzata, come in cuore), con i quali si può arrivare a distinguere centinaia di foni; si tratta, però,
normalmente di foni relativamente rari.
Un fatto importante della tabella IPA è che le consonanti non sono categorizzate per articolatore ma
per luogo (o ‘punto’) di articolazione: le etichette nella prima riga; le etichette nella prima colonna si
riferiscono invece al modo di articolazione, che corrisponde sostanzialmente al tipo di ostruzione, an-
che se in modo non del tutto coerente. In sé questa è una scelta curiosa; ad esempio, [t] è categorizzato
come dentale, ma i denti non effettuano nessun movimento. In altre parole, la teoria fonetica, tradizio-
nale, di cui l’IPA è un prodotto, non è adeguata dal punto di vista fisiologico: si preoccupa solo di cate-
gorizzare i foni in modo statico, senza considerare il movimento che li ha prodotti. Per questa ragione,
quando si cerca di capire i fenomeni fonologici, ad esempio l’influenza che i foni esercitano tra di loro
o la distribuzione dei foni nelle lingue del mondo, l’IPA è di scarsa utilità e si utilizza una teoria fisio-
logica, come quella che è stata abbozzata sopra.
Questo non significa, però, che sia inutile apprendere l’IPA né che sia senza fondamento. È ancora
indispensabile apprenderla innanzitutto per questioni pratiche: fornisce l’unico sistema di simboli con-
diviso per categorizzare in modo adeguato tutti i foni in cui ci si possa imbattere. Inoltre, può avere un
fondamento fisiologico: è possibile che i luoghi di articolazione siano i bersagli propriocettivi degli ar-
ticolatori, cioè i punti della cavità orale verso cui un articolare mira nel suo movimento, come mostrano
i riaggiustamenti che gli articolatori subiscono in seguito alla perdita dei denti, o di altri parti della ca-
vità orale in seguito a interventi chirurgici.
Per questa ragione, in alcune descrizioni fonetiche si cerca un compromesso: i foni vengono caratte-
rizzati sia per articolatore, ‘articolatore attivo’, sia per luogo di articolazione, ‘articolatore passivo’
(sebbene ‘attivo’ sia ridondante riferito a un articolatore e ‘passivo’ contraddittorio riferito a un artico-
latore). Gli spaccati sagittali seguenti esemplificano questa tecnica descrittiva (‘A’ = attivo; ‘P’ = pas-
sivo):

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Marco Svolacchia

[f]: labbro + incisivi [t]: corona + alveoli [k]: dorso + velo [q]: radice + uvula

1.2 Vocali
Nella fonetica tradizionale, rappresentata dall’IPA, le vocali sono categorizzate in modo completa-
mente diverso dalle consonanti, anche qui oscurando delle analogie con le consonanti, quindi in modo
inadeguato a cogliere i fenomeni fonologici.
Le vocali sono foni prodotti con un numero molto minore di opzioni articolatorie rispetto alle con-
sonanti: (1) sono solo sonore; (2) il dorso è l’unico articolatore primario impiegato; (3) tutte le vocali
sono articolate con poca ostruzione; per questo non ha senso parlare di ‘modo di articolazione’: il loro
è, appunto, ‘vocalico’. Non si parla nemmeno di ‘luogo di articolazione’ perché non è affatto evidente,
o non lo era in passato, quale sia il loro articolatore passivo, ovvero verso quale zona del palato, in sen-
so lato, il dorso punti. Per differenziarle ci si riferisce al movimento orizzontale del dorso, che produce
vocali più o meno anteriori, e a quello verticale, che produce vocali più o meno alte.
Secondariamente, le vocali possono essere accompagnate da altri articolatori: il velo palatino (sono
nasalizzate, se abbassato), la radice della lingua (sono tese, se avanzata) e le labbra (sono arrotondate,
se protese).
La figura seguente mostra l’insieme dei moventi vocalici del dorso della lingua nella cavità orale; si
tratta delle vocali anteriori e posteriori, più o meno alte, dell’inglese, che rende bene l’idea dei movi-
menti della lingua nel produrre foni vocalici (le vocali posteriori sono notate con una linea disconti-
nua):

Se si uniscono i punti estremi dello spazio vocalico, lo spazio toccato dal dorso della lingua per arti-
colare le vocali, si ottiene un trapezio, i cui angoli in alto corrispondono a [i] (anteriore) e [u] (posterio-
re) e quelli in basso corrispondono a [æ] (anteriore; simile all’inglese bat) e quello in basso a [ɑ] (po-
steriore; simile all’inglese car); come si vede, quando la lingua arretra, si abbassa automaticamente;
questo accade perché la cavità orale non è un parallelepipedo, ma è uno spazio irregolare delimitato
dall’arco palatale.

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

Le vocali vengono categorizzate tradizionalmente tramite il trapezio vocalico, una versione schema-
tica dello spazio vocalico nella cavità orale. Le vocali estreme sono dette ‘vocali cardinali’ e vengono
utilizzate per individuare le altre come nella figura seguente:

Una versione completa del trapezio vocalico, fin troppo ricca, è la seguente, che diamo solo a titolo
informativo, perché in realtà solo una metà ricorrono in molte lingue (IPA Chart 2020; nelle coppie di
vocali, quella a destra è arrotondata, cioè con le labbra protese):

Le vocali dell’italiano standard sono le seguenti:

Come si vede, si tratta di un sistema “triangolare”, in cui l’unica vocale bassa è centrale, [a], che è
anche l’unica vocale centrale. Come in moltissime lingue del mondo, le vocali posteriori sono anche ar-
rotondate, per ottimizzare la loro caratteristica di essere relativamente gravi rispetto alle vocali centrali
o anteriori.

2. Sistemi fonologici
I foni che abbiamo finora descritto corrispondono, grosso modo, alle potenzialità articolatorie della
nostra specie; tuttavia, ciascuna lingua ne utilizza solo una piccola parte, quale più, quale meno.
La selezione delle unità di suono che vengono utilizzate per dare voce a parole e forme varia da lin-
gua a lingua ma in modo debolmente arbitrario: ogni lingua preferisce selezionare i foni più semplici
prima di quelli meno semplici, sebbene il concetto di ‘semplicità’ sia meno lineare di quanto ci si possa

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Marco Svolacchia

aspettare, perché la semplicità articolatoria interagisce con quella percettiva, con cui a volte è in con-
flitto. Di conseguenza, se in una lingua è presente un fono articolatoriamente complesso, sarà normal-
mente anche presente quello più semplice corrispondente, ma non viceversa: si parla di ‘universale im-
plicazionale’. Ad esempio, le occlusive aspirate, come ph, th, kh nel greco antico, sono relativamente ra-
re nelle lingue del mondo, mentre quelle semplici ricorrono in tutte le lingue; pertanto, non esistono
lingue in cui ricorrono solo occlusive aspirate.
La conseguenza per l’apprendimento della pronuncia di una lingua straniera è che i foni che costitui-
scono il problema maggiore sono, detto in generale, quelli meno comuni, sui quali converrà indirizzare
gli sforzi maggiori di apprendimento e insegnamento; nello specifico, le difficoltà di apprendimento
sono prevedibili sulla base del contrasto tra la propria lingua e la lingua di apprendimento.
Che cosa vuol dire, però, ‘pronunciare bene’ un’altra lingua? Se la risposta fosse ‘come un parlante
nativo’, allora sarebbe fuori portata per la stragrande maggioranza degli individui. In realtà, questo
obiettivo non solo è pochissimo realistico, ma nemmeno necessario: un parlante nativo può giudicare
‘buona’ una pronuncia, sebbene riconosca che non si tratta di un parlante nativo. Ovviamente, ci sono
diversi livelli qualitativi nella pronuncia; quello fondamentale consiste nel rispetto di tutti i contrasti di
suono della lingua di apprendimento, anche quelli che non ricorrono nella propria lingua. Con ‘contra-
sti di suono’ si intendono quelle differenze articolatorie che permettono di differenziare tutti i suoni di-
stintivi di una lingua, i cosiddetti ‘fonemi’, cioè le unità di suono che danno voce a tutte le forme di una
lingua, parole e morfemi grammaticali.
Tuttavia, il fatto che gli stessi contrasti di suono esistano in due lingue diverse non significa che
vengano realizzati esattamente nello stesso modo; ad esempio, un fonema di tipo /r/ esiste in moltissi-
me lingue del mondo, e spesso ha una pronuncia simile a quella dell’italiano, ma non sempre: si ricor-
derà che in inglese standard, sia britannico che americano, è pronunciato in modo sensibilmente diver-
so, senza vibrazione alcuna; in francese e tedesco standard sono pronunciati in un altro modo ancora,
ma anche questo senza vibrazione. La differenza di pronuncia non è tale da impedire l’identificazione
del fonema: gli italiani identificheranno come /r/ anche il fono inglese, e quello del francese e del tede-
sco, e viceversa; tuttavia, la pronuncia straniera di questo fonema ha l’effetto di caratterizzare immedia-
tamente come “aliena” la pronuncia di uno straniero, una sorta di ‘shibbòlet’. Come vedremo più avan-
ti, le differenze di pronuncia degli stessi contrasti di suono possono anche portare a difficoltà di perce-
zione.
Nella trattazione seguente passeremo in rapida rassegna gli inventari fonologici di alcune lingue fa-
miliari.

2.1 Italiano
L’inventario dei foni che l’italiano utilizza per distinguere le parole, consonanti e vocali, è il seguen-
te:
LABIALI CORONALI DORSALI
OCCLUSIVE p b t d k g
AFFRICATE ʦ ʣ ʧ ʤ
FRICATIVE f v s ʃ
NASALI m n ɲ
LATERALI l ʎ

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

VIBRANTI r
ALTE i u
MEDIO-ALTE e o
MEDIO-BASSE ɛ ɔ
BASSE a
L’inventario di cui sopra è massimale: comprende cioè tutti e solo i foni che possono formare parole
diversi (i ‘fonemi’); questo non significa però che possano ricorrere in ogni posizione, in particolare
all’interno della sillaba; anche questo fa la differenza tra lingua e lingua, creando potenziali difficoltà di
apprendimento di una lingua straniera. Ad esempio, tutte le consonanti possono ricorrere in attacco di
sillaba (la parte che precede il nucleo, cioè il centro della sillaba; ad esempio, in trom-ba [t] e [r] for-
mano l’attacco, [o] il nucleo e [m] la coda di sillaba), come anche le vocali alte, che diventano [j] e
[w]). Nel nucleo, in italiano possono solo ricorrere vocali. In coda, solo pochissime consonanti: N (una
nasale non specificata per articolatore), l, r, s; inoltre, qualunque consonante a condizione che sia il
primo membro di una geminata (“doppia”, come in pat-to). Nel secondo elemento dell’attacco, possono
ricorrere solo [l, r, j, w]. In sillaba atona (‘che non ha un accento primario’) le vocali medio-basse non
ricorrono; in sillaba tonica (‘che ha un accento primario’) finale di parola le vocali medio-alte non ri-
corrono ([e] ricorre solo in poche parole funzionali). In sillaba atona finale di parola [u] non ricorre,
ecc., ecc.
In alcune descrizioni dell’italiano figura anche il fonema [z], il corrispettivo sonoro di [s]. In realtà,
questo fono ha autonomia fonologica solo per alcuni toscani. Inoltre, anche per questi parlanti lo status
di /z/ è molto dubbio: ricorre solo dopo una vocale all’interno di parola e mai geminato, oltre al fatto
che non regna accordo riguardo alle parole in cui ricorre. In questi casi si parla di ‘quasi-fonemi’, per
indicare che giocano un ruolo secondario in una lingua. Di conseguenza, sarebbe assurdo insegnare a
uno straniero questa distinzione che risulta estranea a quasi tutti gli italiani.
Quello che caratterizza l’italiano in generale, e che può rappresentare un problema di apprendimento
per alcuni stranieri, sono il contrasto tra i due gradi di vocali medie, che non è presente nemmeno tra
tutti i parlanti di italiano, le affricate, foni relativamente rari, e le consonanti palatali, che in molte lin-
gue del mondo non ricorrono. Un’altra particolarità dell’italiano è che è sensibile alla lunghezza della
maggior parte delle consonanti; in altre parole, la lunghezza consonantica è distintiva in italiano, sia a
livello lessicale (a-c) sia grammaticale (d), come mostrano i seguenti esempi di coppie minime:
a) casa cassa
b) pena penna
c) caro carro
d) vedremo vedremmo
Non si tratta di una proprietà rara tra le lingue del mondo, ma lo è tra le lingue europee; pertanto,
può costituire un problema di pronuncia per molti stranieri.
Va notato che alcune consonanti, [ʦ, ʣ, ʃ, ʎ, ɲ], non presentano il contrasto breve/lunga, ma vengo-
no pronunciati sempre lunghe laddove possibile, i.e. senza violare la struttura sillabica dell’italiano; in
pratica, quando una di queste consonanti si trova tra vocali, anche appartenenti a parole diverse: p.e.,
ascia [aʃːa]; sci [ʃi], ma lo sci [loʃːi].

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Marco Svolacchia

2.2 Inglese
L’inventario delle consonanti dell’inglese è il seguente:
LABIALI CORONALI DORSALI LARINGALI
OCCLUSIVE p b t d k g
AFFRICATE ʧ ʤ
FRICATIVE f v θ ð s z ʃ (ʒ) h
NASALI m n ŋ
LATERALI l
VIBRANTI ɹ
Le consonanti in grassetto non esistono in italiano e costituiscono potenzialmente un problema di
pronuncia per un italiano. (ʒ) è un quasi-fonema, perché ha una distribuzione molto limitata, non ricor-
rendo in inizio di parola; lo stesso vale per [ŋ]. [h] ricorre invece solo in inizio di parola. Seguono al-
cuni coppie minime significative, cioè parole distinte solo per un elemento di suono):
θ thin; faith ‘fino’; ‘fede’ t tin; fate ‘latta’; ‘fato’
ð then; breathe ‘allora’; ‘respirare’ d den; breed ‘tana’; ‘allevare’
z zip ‘sibilo’ s sip ‘sorso’
ŋ singer ‘cantante’ n sinner ‘peccatore’
In inglese standard /r/ è pronunciato retroflesso – cioè la corona della lingua si piega all’indietro, più
nell’americano che nel britannico – e senza vibrazione. Come in italiano, esiste il contrasto tra occlusi-
ve sorde e sonore, ma in inglese queste sono pronunciate in alcuni contesti in modo sensibilmente di-
verso dall’italiano; in particolare, le sorde sono aspirate in sillaba tonica, come /t/ in tin; invece, in fina-
le di parola le sonore si desonorizzano parzialmente, come in head, dando l’impressione a molti italiani
che si tratti una sorda. Infine, come si ricorderà (§6.1.1), quando non è in attacco di sillaba /l/ è pronun-
ciato ‘velarizzato’, cioè con un lieve innalzamento del dorso della lingua; in americano standard è sem-
pre pronunciato così.
Il vero problema della pronuncia dell’inglese per un italiano è però rappresentato dalle vocali, che
differiscono notevolmente da quelle dell’italiano. Molte vocali dell’inglese sono di due tipi: RILASSATE
o TESE. Le rilassate sono relativamente brevi, centralizzate e articolate con poco sforzo; le tese sono
lunghe e pronunciate all’estremità del trapezio vocalico con la partecipazione della radice della lingua.
Di seguito, le vocali sono date astraendo dalla lunghezza; le vocali rilassate sono quelle nel rettangolo
grigio; in americano al posto di [ɒ] si ha [a] breve:
ANTERIORI CENTRALI POSTERIORI
i u
ALTE
ɪ ʊ
e o
MEDIE ə
ɛ ɒ
BASSE æ ʌ ɑ
Segue una coppia minima per ciascun contrasto vocale rilassata-breve/tesa-lunga:
ɪ bit ‘mordere’ ɪː beat ‘picchiare’
e bed ‘letto’ eɪ bait ‘esca’
ʊ full ‘pieno’ ʊː fool ‘sciocco’
ɒ cot ‘culla’ əʊ coat ‘cappotto’

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

Le vocali tese-lunghe sono in realtà dittonghi, perché la prima parte è più centralizzata della secon-
da; questo è manifesto nelle trascrizioni abituali di [eɪ, əʊ], ma non nelle altre, che per maggiore preci-
sione andrebbero trascritte come [ɪi, ʊu]. Nello standard americano al posto di [əʊ] si ha [oʊ].
È propria questa la caratteristica della pronuncia dell’inglese che nella storiella della cartolina malte-
se provoca la maggior parte degli equivoci (piss vs. piece/pease; shit vs. sheet, ecc.) nella satira del
bontempone autore maltese. Al di là della parodia, è purtroppo vero che molti italiani sono mediocri
pronunciatori dell’inglese.
La vocale rilassata per eccellenza è [ə], schwa, anche denominata ‘vocale centrale’ (in senso anche
verticale) o ‘vocale indistinta’; quest’ultima denominazione fa riferimento al fatto che, essendo pro-
nunciata al centro del trapezio vocalico, è di difficile categorizzazione, specialmente per chi non l’abbia
nella propria lingua. In inglese ricorre solo in sillaba debole, cioè senza alcun accento, come in aˈbout
‘circa’. In italiano non esiste, ma ricorre in molti dialetti di tipo meridionale, come nella pronuncia na-
poletana di pane. Nella pronuncia della maggior parte degli italiani tende a essere sostituita da una vo-
cale piena (in genere [e], ma più spesso dalla vocale ortografica: p.e., police ‘polizia’, invece di
[pəˈlɪːs], viene tipicamente pronunciata come [poˈlis]). In inglese esiste anche una versione lunga, [əː],
che si trova unicamente in sillaba tonica, come in bird ‘uccello’, pronunciato normalmente come [ɛ],
eventuali pronunce ortografiche a parte.
Un’altra difficoltà potenziale è rappresentata da /æ/, una vocale anteriore più bassa di /ɛ/
dell’italiano; di conseguenza, per molti italiani risulta difficile percepire, e quindi produrre, la differen-
za tra forme come bad ‘cattivo’ e bed ‘letto’, man ‘uomo’ e men ‘uomini’, che tendono ad essere pro-
nunciate in modo identico.
Altri contrasti di suono che possono essere ignorati dagli italiani sono i seguenti:
oː lord ‘signore’ əʊ load ‘carico’
ʌ cut ‘taglio’ ɑː cart ‘carro’
Entrambe le vocali in (a) sono lunghe, ma solo la seconda è tesa; pertanto, non uniforme per tutta la
durata. Le vocali in (b) sono differenziate soprattutto per la lunghezza, sebbene anche la qualità sia un
po’ differente in quanto [ɑː] è sempre più bassa di [ʌ]. La vocale di cut, qui trascritta come [ʌ], è pro-
nunciata in modo variabile nei paesi di lingua inglese: si va da una vocale centrale a una posteriore non
arrotondata; anche l’altezza può leggermente variare, pur essendo sempre più alta di [a] italiana. Questo
per quanto riguarda le pronunce che si possono considerare ragionevolmente standard; nei dialetti può
essere pronuciato in modo sensibilmente diverso.

2.3 Francese
Le uniche due consonanti potenzialmente difficili per un italiano sono le fricative sonore, che non
esistono in italiano come foni autonomi. /z/ tende a essere pronunciato [dz] e [ʒ] come [dʒ], cioè sosti-
tuendo le fricative inesistenti in italiano con le affricate corrispondenti: zéro ‘zero’; jardin ‘giardino’.
La principale difficoltà nella pronuncia del francese per un italiano è rappresentato dal vocalismo, le
VOCALI ANTERIORI ARROTONDATE (a) e quelle NASALIZZATE (B):
[y] pure ‘puro’; [ø] peu ‘poco’; [œ] cœur ‘cuore’.

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Marco Svolacchia

[y, ø, œ] sono, rispettivamente, [i, e, ɛ] con l’arrotondamento delle labbra. Alcuni italiani pronuncia-
no in modo inaccettabile queste vocali, normalmente ignorando la labializzazione (p.e., peu come [pe]
e cœur come [kɛr]); al posto di [y] spesso si ha la pronuncia [ju] (p.e. pure diventa [pjur]).
[õ] bon ‘buono/bene’; [ã] manger ‘mangiare’; [ẽ] vin ‘vino’.
[õ, ã, ẽ] sono, rispettivamente, [o, ɔ, ɛ] col velo palatino abbassato (anche se le ultime due possono
essere pronunciate un po’ più basse da alcuni parlanti). Le forme con vocali nasalizzate tendono a esse-
re pronunciate dagli italiani in modo inadeguato: o dandone una pronuncia ortografica o pronunciando
la nasale insieme alla vocale nasalizzata (p.e., garçon [gaˈrsõ] verrebbe pronunciato come [gaˈrsɔn] o
[gaˈrsõn]).
Anche Il francese ha schwa, cioè una vocale centrale tipica dei contesti deboli, ma a differenza di
molte altre lingue è arrotondato; in IPA si trascrive [ɵ]: p.e., petit ‘piccolo’.
Sebbene non faccia troppi danni, una difficoltà per un italiano è la pronuncia di [ɛ] e [ɔ] in sillaba
atona, come per spectacle ‘spettacolo’, e horloge ‘orologio/sveglia’, in quanto non ricorrono in italiano,
che tenderà a pronunciarli medio-alti. All’inverso, un italiano tenderà a pronunciare medio-basse le vo-
cali medio-alte in finale di parola, come in livret [liˈvre] e bateau [baˈto].
Come in altre lingue, schwa è soggetto a non essere pronunciato in alcuni contesti, che è importante
conoscere, non tanto per ottenere una pronuncia più naturale, quanto per abituarsi alle forme ridotte ti-
piche del parlato naturale. La generalizzazione è che [ɵ] non può essere cancellato se la sua omissione
produce una sillaba illegittima in francese, come mostrano gli esempi seguenti (la vocale barrata sta per
‘non pronunciato’; quella sottolineata per ‘pronunciato’):
OMISSIBILE NON OMISSIBILE
peloton, secours, fuselé, se trouver, cheval petit, monsieur, dedans, atelier, redis
Nella frase, col processo della risillabificazione, la pronunciabiità di schwa diventa troppo complica-
ta per illustrarla qui in dettaglio. A titolo di esempio, schwa deve essere pronunciato in demander, per-
ché [dm-] non è un attacco di sillaba possibile in francese, ma in le demander ‘domandarlo’ è omissibi-
le, in quanto /d/ diventa la coda della sillaba precedente, essendo [lɵd] una sillaba possibile.
Un fenomeno simile è la liaison, ‘legamento’, ovvero il risultato della risillabificazione di una con-
sonante in finale di parola come attacco della sillaba iniziale della parola seguente, producendo una
pronuncia alternante tra consonante non pronunciata e pronunciata. L’esempio più tipico è rappresenta-
to dall’articolo plurale, les, normalmente pronunciato [le], come in les garçons ‘i ragazzi’, ma pronun-
ciato [lez] prima di una parola che inizia in vocale, come in les enfants ‘i bambini’. Per pronunciare in
modo accettabile il francese è necessario rispettare queste alternanze, che non è possibile descrivere in
dettaglio in questa sede, pena la stigmatizzazione da parte dei francofoni.

2.4 Tedesco
Le consonanti che non esistono in italiano sono evidenziate in grassetto:
LABIALI CORONALI DORSALI RADICALI LARINGALI
OCCLUSIVE p b t d k g
AFFRICATE pf ts ʧ
FRICATIVE f v s z ʃ ç h
NASALI m n ŋ
LATERALI l

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

VIBRANTI R
Si noti l’affricata labiale [pf], molto rara nelle lingue del mondo. La ‘erre’ tedesca è uvulare, come
in francese e come per alcuni italiani con questo tipo di ‘erre moscia’.
Una caratteristica del tedesco è di utilizzare relativamente poco la sonorità: non esistono affricate
sonore né alcune fricative sonore. [ç], fricativa coronale palatale, alterna con [x], fricativa dorsale; sto-
ricamente, [ç] era una variante di [x] dopo una vocale anteriore, ma nel tedesco standard contempora-
neo il rapporto si è invertito: [x] è la pronuncia di [ç] dopo una vocale non anteriore.
Una peculiarità del tedesco è la realizzazione del contrasto tra occlusive sorde e sonore sensibilmen-
te diversa rispetto all’italiano, tale da essere fonte di difficoltà articolatorie e percettive per un italiano.
Mentre in italiano è la sonorità il parametro più importante per differenziare tra le due serie, in tedesco
la sonorità gioca un ruolo marginale, essendo la forza articolatoria il parametro più importante. Così, in
sillaba forte (con un accento di qualunque grado) le occlusive sorde tedesche sono aspirate come in in-
glese, mentre le sonore sono sì leni ma desonorizzate, suonando così a un orecchio italiano come sorde.
Ad esempio, la coppia minima Bier ‘birra’ e Pier ‘molo’ suona in tedesco diversamente da come ver-
rebbe pronunciato spontaneamente da un italiano medio sulla base dell’ortografia; sostanzialmente, un
italiano percepirebbe entrambe le parole come inizianti in /p/. Questa è la fonte dello stereotipo per cui
i tedeschi pronuncerebbero solo consonanti sorde, come in un noto fumetto in voga molti anni fa, in cui
i soldati tedeschi parlavano italiano con solo consonanti sorde. Allo stesso modo, la pronuncia delle oc-
clusive sorde da parte degli italiani – specialmente del centro-sud, specialmente dopo una sonorante –
può essere percepito come sonoro da un tedesco. La conclusione è che per pronunciare bene il tedesco
è necessario apprendere delle nuove abitudini articolatorie e percettive delle occlusive, sebbene le due
serie, sorde e sonore, esistano in entrambe le lingue, come riflesso anche dall’ortografia, che può essere
però fuorviante.
Anche nel tedesco la difficoltà maggiore è rappresentata dal vocalismo, con la distinzione tra vocali
brevi-rilassate e lunghe-tese, già vista per l’inglese (si noti anche schwa) e con la distinzione tra ante-
riori neutre e arrotondate, già vista per il francese. Le coppie minime seguenti esemplificano il sistema
vocalico del tedesco:
bitten ‘pregare bieten ‘offrire’
Bett ‘letto’ Beet ‘aiuola’
Hüte ‘cappelli’ Hütte ‘capanna’
Hölle ‘inferno’ Höhle ‘caverna’
Russe ‘russo’ Ruße ‘fuliggini’
Ofen ‘forno’ offen ‘aperto’
Fall ‘caduta’ fahl ‘sbiadito’
Una particolarità del tedesco è che nessuna sillaba può cominciare con una vocale; se una sillaba
non è provvista di una consonante, viene assegnata automaticamente un’occlusiva glottidale; ad esem-
pio, Theater ‘teatro’ è pronunciato [teɁatə]. Si noti la seguente coppia minima: vereist [feɁaɪst] ‘ghiac-
ciato’ vs. verreist [feRaɪst] ‘partito’.

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Marco Svolacchia

2.5 Arabo egiziano


L’arabo è un esempio di lingua ricca di consonanti, un buon numero delle quali non esistono in ita-
liano, in particolare le consonati ‘gutturali’, pronunciate con la radice della lingua o con la laringe.
L’inventario consonantico seguente è dell’arabo standard parlato in Egitto:
LABIALI CORONALI PALATALI DORSALI RADICALI LARINGALI
OCCLUSIVE b t d ŧ đ k g q ʔ
FRICATIVE f θ ð s z ᵴ ƶ ʃ χ ʁ ħ ʕ h
NASALI m n
LATERALI l
VIBRANTI r
j w
Si notino le consonanti faringalizzate [ŧ, đ, ᵴ, ƶ], pronunciate con l’aggiunta dell’innalzamento della
radice della lingua, quindi “gutturalizzate”, e le gutturali vere e proprie. /j, w/ sono in realtà vocali;
nella tabella precedente sono state elencate tra le consonanti per comodità, in funzione di ciò che segue.
Un aspetto della fonologia dell’arabo riguarda la pronuncia dell’articolo definito, il (indifferenziato
per numero e genere), che varia in funzione della consonante iniziale della parola seguente. Se questa
comincia con una “lettera solare” [l] dell’articolo si assimila; se la parola seguente comincia con una
“lettera lunare”, [l] dell’articolo non si assimila. La denominazione tradizionale si spiega col fatto che
‘sole’ in arabo è /ʃams/, che comincia con una “lettera”, ovvero un fonema, che si assimila, e ‘luna’ è
qamar, che comincia con una “lettera” che non si assimila. La tabella seguente esemplifica il fenome-
no:
LETTERE SOLARI LETTERE LUNARI
θ, ð iθ-θaman, ið-ðahab funduq, bajt f, b
t, d it-taʔriiχ, id-dars madiina m
s, z is-saaʕa, iz-zajt jawm j
ŧ, đ iŧ-ŧaaʔira, iđ-đajf kursi, gamal k, g
ᵴ, ƶ iᵴ-ᵴadiiq, iƶ-ƶuhr il- walad w
ʃ iʃ-ʃams ‘sole’ qamar ‘luna’ q
n in-nahr χamr, ʁurfa χ, ʁ
l il-laban ħamdu, ʕajn ħ, ʕ
r ir-raʔs ʔab, hawaaʔ ʔ, h
Su quale proprietà di suono si basa questa regola di pronuncia? Tutte e solo le consonanti “solari”
sono coronali, cioè pronunciate con la parte anteriore della lingua; nessuna delle consonanti “lunari” è
pronunciata con la corona (sono labiali, dorsali, radicali e laringali). Anche /l/ dell’articolo è una coro-
nale: si tratta di assimilazione totale tra foni che già condividono lo stesso articolatore.
Questo esempio mostra un altro aspetto dell’apprendimento della pronuncia di una lingua straniera:
non basta imparare ad articolare i singoli foni, ma occorre imparare, tra l’altro, anche le regole di pro-
nuncia che dipendono dal contesto.

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Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici

3. Il ‘fenomeno Conrad’
There was once a Polish sailor who settled in England at the age of twenty, and
he developed such an interest in the language and the literature of his adopted
country that he became one the greatest English writers of all the times. His
name was Joseph Conrad. But could he pronounce English correctly? No, he
never lost his thick foreign accent.

La morale di questa lunga discussione è che non esistono suoni impronunciabili per chi apprende
una lingua straniera: tutti i suoni linguistici sono fatti della stessa materia e sono emessi dagli stessi ap-
parati fonatori. Non esistono “bocche” straniere.
Con questo non si vuole dire che non esistano differenze tra le lingue del mondo; al contrario, la ri-
cerca linguistica dell’ultimo secolo, condotta sulle più svariate lingue del mondo – alcune delle quali
molto lontane geneticamente, spazialmente e tipologicamente dalle lingue europee – ha chiarito in qua-
le misura le lingue possano differire riguardo al suono linguistico, che non è né tanto né poco: i non ad-
detti ai lavori tendono, a seconda dei casi, a sopravvalutare o a sottovalutare le differenze tra le lingue.
Tuttavia, un bambino piccolo, qualunque sia il DNA e la cultura dei suoi genitori, imparerà perfetta-
mente qualsiasi sistema di suoni di qualsiasi lingua del mondo, senza bisogno di metodi di apprendi-
mento o di insegnamento, e senza sforzo, a patto che sia esposto sufficientemente a una lingua.
Da adulti le cose vanno un diversamente: con l’arrivo della pubertà l’’istinto per il linguaggio’, co-
me qualcuno l’ha chiamato, si indebolisce sensibilmente. In realtà, già da molto prima la capacità di
sentire i suoni per quello che sono, senza il filtro del proprio sistema di suoni, il ‘filtro fonologico’,
come qualcuno l’ha chiamato, non è più la stessa. In queste condizioni c’è la possibilità che la semplice
imitazione, per quanto sia l’approccio più consigliabile in prima battuta – immensamente migliore che
cominciare dalla scrittura, per intenderci – possa non essere sufficiente: mentre non si riscontrano vere
differenze di apprendimento tra i bambini, tra gli adulti la capacità discriminatoria e imitativa può esse-
re sensibilmente diversa, per motivi affatto chiari. In ogni caso, per quanto un adulto possa essere dota-
to, quasi inevitabilmente lascerà qualche ferito sul terreno, a volte, anche qualche morto: fallirà
nell’apprendimento di alcuni elementi essenziali della pronuncia della lingua straniera.
Lupus in fabula è Joseph Conrad, anglicizzazione del nome polacco Józef Teodor Konrad Korze-
niowski, protagonista di uno dei casi più famosi di eccezionale apprendimento di una lingua straniera
da adulto. Il paradosso che lo riguarda, il cosiddetto ‘Joseph Conrad phenomenon’, è che – a dispetto
dell’indiscussa maestria nell’apprendimento della morfosintassi e, ancora di più, del lessico inglese, ta-
le da essere considerato uno dei più grandi scrittori in lingua inglese – la sua pronuncia dell’inglese ri-
sultò fino all’ultimo molto meno impressionante; addirittura, a detta di molti contemporanei, era ‘in-
comprensibile’, in quanto caratterizzata da un pesante accento straniero.
La morale è che, in tutti i casi in cui l’istinto viene meno, il metodo fonetico può essere di grande
aiuto, insieme alla teoria FONOLOGICA, che tratteremo più avanti. In particolare, l’IPA è uno strumento
formidabile per studiare la pronuncia reale di parole e frasi, evitando di affidarsi alla scrittura, con tutte
le conseguenze del caso: pronunce ortografiche, dipendenza dalla vista più che dall’udito e apprendi-
mento di pronunce idealizzate (lente, iper-articolate, artificiose). Nello specifico, come sarà risultato
evidente dalla precedente discussione, è la diversità delle proprietà di suono rispetto alla propria lingua,

22
Marco Svolacchia

che rappresenta il maggiore ostacolo all’apprendimento. Proprio in questi casi la teoria fonetica, e fono-
logica, possono essere di grande aiuto.
Un esempio estremo di differenza notevole è nell’uso dell’intonazione, che in italiano e in molte al-
tre lingue più familiari viene usata solo per differenziare frasi o parti di frase, p.e. una frase affermativa
da una interrogativa. In alcune lingue l’intonazione viene utilizzata anche per differenziare una parola
dall’altra; si parla di ‘lingue tonali’ o ‘lingue a tono’. Una di queste lingue è il cinese mandarino, o pe-
chinese, la lingua più parlata al mondo, in cui esistono quattro toni di base diversi. Questo significa che
una stessa sequenza di foni può diventare quattro parole diverse con l’aggiunta di uno dei quattro toni.
Le parole seguenti, tutte pronunciate [ma], sono differenziate solo dal tono; la trascrizione è in pinyin,
il sistema adottato in Cina dal 1958 per trascrivere i caratteri cinesi:
má ALTO ‘madre’
mă ASCENDENTE ‘canapa’
mâ DISCENDENTE ‘cavallo’
mã DISCENDENTE-ASCENDENTE ‘rimprovero’
Come si può facilmente intuire, ignorare il tono, perché in italiano non gioca questo ruolo nel lessi-
co, sarebbe disastroso: ogni parola va appresa col proprio tono, esattamente come molte parole
dell’italiano vanno apprese col proprio accento: prìncipi e princìpi non sono la stessa parola. Di esempi
simili di differenze importanti tra i sistemi fonologici delle lingue se ne potrebbero fare molti.

Conclusioni
Qual è allora la risposta alla domanda iniziale? È probabilmente più articolata di quanto molti po-
trebbero attendersi, o vorrebbero attendersi. Potrebbe essere formulata nei seguenti termini: non esisto-
no suoni linguistici di per sé impronunciabili, qualsiasi essere umano è in linea di principio capace di
apprendere la pronuncia (la grammatica dei suoni) di qualunque lingua del mondo anche da adulto, ap-
prossimandosi alla competenza di un parlante madrelingua; per la maggior parte dei casi, però, non ba-
sta lasciar fare all’istinto, specialmente per gli aspetti più diversi dalla propria lingua (o lingue familia-
ri): serve conoscenza e un po’ di applicazione, oltre che, ovviamente, la volontà di non accontentarsi di
comunicare “pressappoco”.
Nelle parole di Daniel Jones, uno dei pionieri della fonetica moderna:
I gradually came to see that Phonetics had an important bearing on human relations that when people of
different nations pronounce each other’s languages really well (even if vocabulary & grammar are not per-
fect), it has an astonishing effect of bringing them together, it puts people on terms of equality, a good un-
derstanding between them immediately springs up.
Come direbbe il famoso prof. Higgins (nel Pygmalion di G.B. Shaw, Atto II) ‘È solo questione di
pratica’:
Higgins: Tired of listening to sounds?
Pickering: Yes. It’s a fearful strain. I rather fancied myself because I can pronounce twenty-four distinct vow-
el sounds, but your hundred and thirty beat me. I can’t hear a bit of difference between most of them.
Higgins: Oh, that comes with practice. You hear no difference at first, but you keep on listening and presently
you find they’re all as different as A from B.

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