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Aldo

Gabrielli
Il museo
degli errori
L'italiano
come si parla oggi
© 1977 Arnoldo MondRdori Editore S.p.A.
Edizione Club del Libro
su licenza della Arnoldo Mondadori Editore
In un mio precedente librettot ho cercato di risolvere il piu
chiaramente e il meno noiosamente possibile alcuni annosi
problemi grammaticali che non sempre, a mio avviso, le gram-
matiche trattano o risolvono in modo soddisfacente. Mi sono
occupato in quel primo libro di problemi piu strettamente mor-
fologici; in questo secondo tratto di problemi fonologici, sintat-
tici e addirittura stilistici, aiutando a scegliere costruttì e parole
da usare per un linguaggio il pill possibile corretto e italiano.
Il lettore non arricci subito il naso: non si tratta assolutamente
della solita cantilena puristica, dei soliti anatemi all'aria del de-
serto: come avrà sùbito modo di avvedersi fin dalle prime pagi-
ne, si tratta piuttosto di ragionevoli consigli suggeriti dal buon
senso, dal buon gusto, e fors'anche, ahimè, dall'età dell'autore .
A .G.

ISi dice o non si dice? , Oscar Mondadori, n. 641.


Il museo degli errori
L'italiano come si parla oggi
Problemi di pronunzia
Il rafforzamento sintattico
Prendiamo questo periodetto: «Carlo è venuto a dirmi che ha
fatto il c6mpito tutto da sé». Ora diamolo a leggere prima a
un Milanese (o genericamente a uno del Settentrione) e poi
a un Fiorentino (o genericamente a un Centrale): il primo lo
leggerà esattamente cosi come lo vedete scrittoc; il secondo
invece lo leggerà come se fosse scritto in quest'altro modo:
«Carlo è vvenuto a ddirmi che haffatto il compito tutto da ssé »:
raddoppierà cioè alcune consonanti iniziali di parole che nella
scrittura non figurano certo raddoppiate. Sbaglia il Milanese a
leggere come ha letto, o sbaglia il Fiorentino? Sbaglia il Milane-
se; e sbaglia perché non tien conto di quel fenomeno di fonetica
sintattica, proprio della nostra lingua, per il quale certe determi-
nate consonanti iniziali di parola quando vengano a trovarsi
davanti a determinate parole terminanti in vocale, si rafforzano,
cioè si pronunziano come se fossero doppie. Questo fenomeno
si chiama appunto rafforzamento (o raddoppiamento) sintattico.
Prima però di entrare a discutere da vicino questo interessan-
te fenomeno del tutto ignoto a tanta parte degli Italiani, voglio
prendere il discorso piu alla lontana, per chiarire meglio poi
tutto il resto.
Tutti sanno, e nessuno se ne meraviglia, che l'Italiano ha
nel corpo delle parole ora consonanti semplici e ora consonanti
doppie, e le scrive semplici o doppie secondo il caso: in gala,
pena, sego, caro tutte le consonanti sono semplici; ma in galla,
penna , seggo, carro le consonanti sono doppie, e hanno anche
un'importanza fondamentale in quanto cambiano completa-
mente significato alle parole. Questo fatto non sorprende certo
i Settentrionali perché nelle scuole, e fin dalle prime classi ele-
mentari, si sono abituati a osservare con gli occhi dove le con-
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sonanti san semplici e dove san doppie . Un Veneto dirà, è
vero, per influenza del suo dialetto, belo e vaporeto, ma scriverà
per la memoria visiva venutagli con la lettura e la scrittura,
bello e vaporetto. Quel che si dice dei Veneti può dirsi generica-
mente d'ogni Settentrionale, per influsso appunto dei dialetti
che sovente non rispettano le stesse leggi della lingua scritta.
Succede anche a volte che un Settentrionale, là dove la memo-
ria visiva non lo soccorre, venga a trovarsi nel dubbio tra con-
sonanti semplici e doppie.
Fin qui, dunque, tutto corre liscio con l'aiuto della scrittura.
Ma l guai cominciano proprio dove la scrittura non aiuta piu,
dove cioè certi raddoppiamenti esistono ma non si scrivono;
e sono appunto l raddoppiamenti delle consonanti non piu nel
corpo ma In principio di parola.
Facciamoci ora questa domanda: perché tante parole italiane
hanno nel loro corpo delle consonanti doppie? Come son nate?
Son nate per un fenomeno fonetico che va sotto il nome di
assimilazione (ci sono anche altre ragioni, ma qui non servireb-
bero altro che a confondere le idee). Per questo fenomeno una
consonante nel corpo della parola diventa in certi casi uguale
a quella che immediatamente la segue. Per esempio: casa vien
dal latino casa, ma cassa viene dal latino capsa, dove la p si
è assimilata con la s che segue, divenendo essa pure una s.
La parola patto viene dal latino pactum, dove cr è diventato
tt; la parola scrittura, analogamente, non è che la forma assimi-
lata del latino scriptura. Facciamo altri esempi per afferrar
sempre meglio il fenomeno: immobile è in realtà « inmobile »,
dove il prefisso privativa in- si è assimilato con la consonante
Iniziale di mobile (in latino immobilis da in-+mobilis ); illecito ci
viene dal solito in- assimilato con lecito (in latino illicitus, da
in-+licitus ); ammettere è In realtà« admettere »,dal latino admit-
tere; collegare è la forma assimilata di un «con legare>> derivato-
ci dal latino colligare, da cum-, con, e ligare, legare.
Arrivati a questo punto, penso che possiamo considerarci ab-
bastanza preparati a capire anche Il fenomeno che s'era detto
In principio: quello del rafforzamento sintattico. La stessa legge
fonetica che ha generato il raddoppiamento della s di cassa, l'as-
similazione delle due mm di immobile e di ammettere, eccetera,
non cessa di esistere neppure quando nel parlare ·si vengono
a creare certi accostamenti di lettere nella giuntura di due
parole consecutive le quall, se pur disgiunte nella scrittura, si

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trattano, nella corretta pronunzia, come una parola sola. Dal
latino ad Romam, abbiamo fatto l'italiano a Roma, assimilando
nella pronunzia la d di ad con la r iniziale di Roma, e creando
cosi la pronunzia corretta italiana a Rroma. Il latino ad me ha
generato a me con la pronunzia a mmé; da et voi, in latino
et vos, è nata la pronunzia e vvoi; da cittad( e) bella, caduta nella
pronunzia la e finale e assimilatasi la d con la successiva b
iniziale è venuta la pronunzia città bbella.
Ovviamente, poiché in questa sede non siamo tutti latinistl
e grecisti e filologi, bisogna trattar la questione piuttosto in su-
perficie; ma le leggi fondamentali del fenomeno son queste, e
penso che tutti abbiano ormai compreso il meccanismo di
questa vicenda storica che risale al latino e cioè all'origine
stessa del nostro linguaggio. Ecco perché sul principio ho detto
che la pronunzia corretta della frase« Carlo eccetera» era quella
del Fiorentino e non quella del Milanese. Il rafforzamento sin-
tattico è infatti ignoto alle parlate settentrionali ma regolarmen-
te rispettato nel Centro e nel Sud d'Italia, salvo eccezioni
dovute esclusivamente a influenze dialettali.
E a questo punto mi rivolgo )o stesso la domanda: e se un
Settentrionale volesse mettersi egli pure in regola con questa
legge fonetica, potrebbe farlo? Ci sono cioè regole che possano
istruirlo e guidarlo? Un attore, un oratore di professione, un
locutore radiofonico in particolare potrebbe tenere alla pronun-
zia esatta dei suoi discorsi. E rispondo: regole ci sono, e posso
allinearne molte qui di seguito, almeno le principali, risolvendo
la grandissima maggioranza dei casi, con poche eccezioni.
Sono rafforzative, chiedono cioè il rafforzamento della voce
sulla consonante semplice che segue:
l. tutte le parole pollsillabe tronche accentate: bontà divina
( bontaddivfna ), virfli vera ( virtuvvéra ), perché mai ( perchem-
mài ), an do' via ( andovvìa ), fin( male ( finimmàle ), sentf sonare
( sentissonàre ), sarò lontano ( sarollontàno );
2. tutti l monosillabi accentati: ché, dà, è, già, giù, chhi, là,
lf, né, pit.i, sf, sé, ciò, dié, pié, può, té: ché ti crucci? ( chetti cruc-
ci), dà tutto ( dattutto ), é vero ( evvero ), già detto ( giaddetto ),
né diro' ( neddirò ), Id vicino (!avvicino), lf sotto ( liss6tto ),
pié veloce ( pievvel6ce ), può farsi ( puoffàrsi ), té freddo ( teffréd-
do ), ecc.
3. i monosillabi in vocalè non accentata: a, che, chi, da, do,
e, ja, jo, fu, ha, ho, ma, me, (pronome), no, o, qua, qui, se,

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sta, sto, tu, tra, fra, va, vo: a te ( atté ), che vuoi f chevvuòl ),
da te ( datté ), chi sei ( chissèl ), se credi ( seccrédi ), sta sano
( stassàno ),fu lui ( fullùi ), ho sognato ( hossognàto ), ma che vuoi
( macchevvuòi ), qua sotto ( quass6tto ),fra tanta gente ( frattànta
gente), va via ( vavvia );
4. i monosillabi derivati da tronca mento: di (da die), fé ( fe-
de), fra (frate), pro' (prode) ecc.: il di di festa (il diddi festa),
la fé giurata (la feggiurata ), fra Paolo ( frappàolo ), b.uon pro'
ti faccia (buon pro'tti faccia), ecc.;
5. i bisillabi piani: come, dove, ove, qualche, sopra: come te
( cometté ), dove sei ( dovessèi ), qualche volta ( qualchevvòlta ),
sopra /'altro ( soprallàltro ). Però questi bisillabi, se usati come
avverbi o sostantivi, non vogliono il rafforzamento; perciò sopra
c'eri tu (e non<< sopracceri »);non sapevo né il come né il quando
( e non « comenné » ).
Ci sono, l'ho avvertito, anche altri casi di rafforzamento sin-
tattico; ma io mi fermerei qui per non complicar troppo le cose.
I casi piu frequenti li ho allineati tutti; e ne abbiamo già abba-
stanza, con un po' d'esercizio e di pazienza, per correggere la
nostra pronunzia.

Vocali aperte e chiuse


Si usa dire alla svelta che l'italiano ha cinque vocall, a, e, i,
o, u; ma in pratica poi queste vocali son sette, perché se il
suono delle vocali a, i, u non muta mai, quello della e e della
o muta sovente, e una volta esse si pronunziano aperte, o
larghe che dir si voglia, come in bène e Mosè, còlubro e però,
e una volta si pronunziano chiuse, o strette, come in péra e
perché, còmpito, e correre. Anche l'accento come segno scritto
muta di forma, e questo s'è già visto diffusamente in un mio
precedente libretto, parlando appunto degli accenti: il segno'
per la pronunzia aperta (e si dice accento grave), e il segno'
per la pronunzia chiusa (e si dice accento acuto).
Naturàlmente ci sono delle ragioni di fonetica storica che
hanno generato questi diversi suoni di uno stesso segno, e li
accenneremo tra poco, se pure per sommicapi, come mi par
necessario in questo libro, che è fatto per andar utilmente nelle
mani di tutti, anche se non hanno studiato latino (e oggi, pur-
troppo, càpita spesso). La realtà è che essendo l'Italia assai

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lunga, e uscita da una storia anche più lunga, e con la parteci-
pazione di numerose genti e parlate e dialetti, la lingua degli
Italiani, anche quella ufficiale e quindi formalmente e sostan-
zialmente uniforme, varia assai spesso, ahimè, nella pronunzia
di molte parole, soprattutto nella pronunzia delle vocali appunto
e e o. Anche qui debbo fare una distinzione netta tra il Nord
e il Centro della nostra penisola, ed escluderei il Sud che piu
risente dell'influsso dei dialetti. Allineerò poche parole italiane
d' uso generale: pesca (frutto), pesca (da pescare), bene, tempo,
motoretta, stella, verde, cielo, corridoio, perché, bellezza, differen-
za, vergogna, pomice: quattordici parole che corrono sulla bocca
di tutti; orbene, diamole a leggere al solito Milanese e al solito
Fiorentino, e con stupore vedremo che in tutte e quattordici
l'uno pronunzia la vocale tonica In un modo e l'altro In un
altro. Il Milanese infatti pronunzierà: pésca (con la e chiusa
tanto per il frutto quanto per l'atto del pescare), béne, témpo,
motorètta, stèlla, vèrde, ciélo, corridoio, perche', bellezza, differén-
za, vergogna, pomice. Il Fiorentino invece pronunzierà: pesca
(frutto), pésca (atto del pescare), bene, témpo, motorétta, stélla,
vérde, cielo, corridoio, perché, bellézza, differènza, vergogna,
pomice. Due Italiani, due pronunzie diverse. E chi del due leg-
gerà bene e chi leggerà male? Purtroppo leggerà male an~he
qui il Milanese che non ha avuto la sorte di nascere nella patria
di Dante.
Perché appunto a Firenze, e piu genericamente in Toscana,
e anche piu genericamente nell'Italia centrale, Il problema della
pronunzia si risolve sul nascere; qui Infatti la distinzione tra
le chiuse e le aperte soprattutto in parole ereditate dal latino
per trasmissione orale Ininterrotta nel secoli, si è serbata com'e-
ra all'origine assai piu che in altre regioni, dove l'Influenza del
linguaggi stranieri e dei dialetti locali ha invece agito in senso
opposto. Chi è nato fuor di quel confini, e tenesse a pronunziar
l'italiano come va pronunziato, non potrà certo illudersi di
risolvere la questione solo con una regoletta o anche con una
regolona, ma soltanto con lo studio, con la consultazione di
dizionari e di prontuari orto fonici (ce ne son degli ottimi In
commercio), e anche con l'ascoltazione di speciali dischi dove
si danno consigli ed esempi di corretta pronunzia Italiana. C'è
tantissima gente che si fa un dovere di ascoltare per ore e ore
dischi grammofonici per imparar bene la pronunzia inglese, e
la francese, e la tedesca, e la russa e magari anche la cinese

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e la tailandese, ma ce n'è pochissima che si prende la briga
di spender qualche lira e qualche ora della settimana per ascol-
tare un disco di pronunzia italiana. «Tanto l'Italiano lo lo so'»
E non sa di saperlo solo a metà.
Però, dopo questa chiacchierata, lo non Intendo affatto lascia-
re una parte dei miei lettori con la bocca amara e piena di vocali
sbagliate. Qualche consiglio pratico, qualche facile avvertenza,
qualche regoletta sia pure empirica, cosf come ho fatto per il
rafforzamento sintattico, si può dare anche a proposito della
e e della o aperta o chiusa. Non risolveremo del tutto il proble-
ma, ma una bella ripulita alla lingua potremo dargliela.

La vocale «e>>
La vocale e ha sempre suono aperto:
l. nel dittongo ie: pieae, dièci, iùi, viène, chièdere, carrièra,
miei, spiegano, raggièra, lèsi, Iesolo, Jèmolo, ecc.; fanno però ec-
cezione certi suffissi che hanno già per natura la pmnunzia
chiusa: ariétta,jogliétto, eporediése, ateniése, e simili;
2. nei suffissi diminutivi o vezzeggiativi in -ello, -ella: foche-
rel/o,jraticèllo, somarello, giovincèlla, pazzerella, porce·!la, ecc.;
3. nella desinenza in -endo del gerundio: sorgèndo, arrossèn-
do, vedendo; analogamente In sostantivi terminanti In -endo
-enda: treme'ndo, orrendo, ammènda, prebènda, vicenda, ecc.;
4. nelle parole in -èdine: acrèdine, salsèdine, pinguèdine, pu-
treaine, ecc.;
5. nelle parole in -erio, -eria: adulterio, vituperio, critèrio,
se'rio, miseria, matèria,jàia, lmpèria, ecc.;
6. nelle parole in -ezio, -ezia: screzio, inezia; Venézia, ecc.;
7. nei sostantivi e aggettivi con suffisso il] -enne: decénne,
ventènne, perènne, ecc.;
8. nei nomi in -ennio di derivazione numerale: decènnio, ven -
tènnio, biènnio, ecc.;
9. nei nomi etnici in -eno: madrilèno, cilèno, nazarèno, ecc.;
IO. nei nomi e aggettivi in -ensa, -ense: mènsa, immènsa,
dispènsa, amanuènse,forense, intense, ecc.;
Il. nelle parole in -ente: ardènte, differènte, gènte, accidènte,
corrènte , piangènte, veggènte, ecc.;
12. nelle parole in -enza: conoscènza, circonferènza, conse-
guènza, parvènza, potenza, seme'nza, sentenza, ecc.;

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13. nei nomi e aggettivi in -estre: semestre, sifvestre, terrestre,
Mestre, ecc.;
14. negli aggettivi in -èvo1o: benèvofo, mafèvofo;
15. nel suffisso numerale -èsimo: ventesimo, centesimo, miffè-
simo, ecc.;
16. nel suffisso superlativo -èrrimo: aspèrrimo, misèrrimo,
acèrrimo, celeberrimo, integèrrimo, sa/ubérrimo;
17. nelle forme del verbo essere quando è iniziale: essere,
è, èro, èri, èra, èrano, ènte;
18. nelle desinenze del condizionale -rei, -rebbe, -rèbbero:
sarèi, vorre·i, vedre'i, amerei, amereobe, amerèbbero, vedreobe, sa -
reobero, ecc.;
19. nelle desinenze del passato remoto -etti, -ette, -èttero:
temètti, temètte, temèttero, credètti, credètte, credèttero, e simili;
20. nei nomi tronchi in -è di origine straniera: caffè, canapè,
narghifè; analogamente nei nomi propri accentati tronchi: Noè,
Mosè, Ciriè, Cuorgnè e simili;
21. nei numerali sèi e sètte e nei loro composti: venrisèi, di-
ciassètte, quarantasèi, centosètte, e simili;
22. quando è seguìta da altra vocale, che non sia però parte
della desinenza antiquata -éa, -éano dell'i mperfetto invece di
-éva, -évano: ( vedéa, vedéano per vedéva, vedévano ): idèa, dea,
ricrèa, crèofo, fèudo, trincèa, pseùdo, coste'i, Andreà, Enèa,
Gèova, ecc.
Altri casi si potrebbero allineare, ma con eccezioni; e le ecce-
zioni , confermano sì la regola, ma anche la confondono. Prose-
guiamo.
La vocale e ha sempre suono chiuso:
l. nell'infinito dei verbi in -ere: bére, cadére, giacére, ve-
dére, ecc.
2. negli avverbi in -mente: certaménte, ta/ménte, vera-
ménte, ecc .;
3. nei nomi in -mento: moménto, torménto, reggiménto, stru-
ménto, ecc .;
4. nelle parole in -eccio: mangeréccio, caseréccio, vilferéccio,
cica/éccio, ecc.;
5. nei diminutivi in -etto: poverétto, ométto,fogfiétto, pezzétto,
amarétto, Gigérro, ecc .;
6. nelle parole in -éfice: oréjice, artéfice, ecc.;

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7. nei nomi in -eggio: campéggìo, diléggio, poscéggio, Corrég-
gio, ecc.;
8. negli aggettivi in -esco: pazzésco, manésco, furbésco, fré-
sco, ecc.;
9. nei nomi in -ese: mése, paése, arnése, cortése, palése, spése,
milanése,jerrarése, Canavése, ecc.;
l O. negli aggettivi in --évole: agévole , scorrévole miseré-
vole, ecc.;
Il. nei sostantivi in .-ésimo: cristianésimo, feuda/ésimo, uma-
nésimo, ecc.;
12. nei nomi con suffisso in -eto: agruméto, pioppéto, vignéto,
ecc.; analogamente Il femminile -eta: pinéta, alberéta, cipressé-
ta ,faggéta, ecc.;
13. nei nomi in -ezza: carézza, bel/ézza, asprézza, altézza, gio -
vinézza, ricchézza, larghézza , dolcézza, ecc.;
14. nei nomi femminili in -essa con vslore di suffisso: baro-
néssa, contéssa, projessoréssa, ostéssa, ecc.;
15. nei monosillabi, purché non siano troncamenti di parole
pol!sillabe: e, me, te, se, sé, che, ché; tutti i composti con che:
perché, giacché, benché, affinché, allorché, ecc.;
16. nel numero tre e nei suoi composti: ventitré, trentatré.
centotré, ecc.;
17. nelle desinenze del passato remoto -ei, -esti,' -é, -emmo,
-este, -érono: teméi, temésti, temé, temémmo, teméste, teméro-
no, e sim.;
18. nelle desinenze del futuro -remo, -rete: temerémo.
témeréte;
19. nelle desinenze dell'imperfetto del congiuntivo -essi,
-esse, -éssimo, -este, --éssero: teméssi, temésse, teméssimo, te-
méste, teméssero;
20. nelle desinenze del condizionale -resti, -remmo, -reste:
temerésti, temerémmo, temeréste;
21. nelle desinenze dell'indicativo presente e dell'imperativo
-ete: teméte , credéte, e simili.
Anche qui trascuro altri casi particolari che complicherebbero
soltanto le cose.

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La vocale «o»
La vocale o ha sempre suono aperto:
l. nel dittongo uo: buo'no, suo'no, tuono, cuo're, luogo, scuotere,
muovere,jigliuo/o,jagiuolo, giudeo; e resta aperto anche se il dit-
tongo si contrae nella sola o: gioèo,jagiolo,jig/iolo, e sim. Fanno
però eccezione certi suffissi che hanno già per natura il suono
chiuso: affettuoso, delittuoso, liquore, languore, e simili;
2. nel nomi in -orio e -oria: empdrio, avorio. balddria, sto'ria.
cicòria, ecc.;
3. nel nomi in -ozio e -ozia: nego'zio, sacerdozio, ozio, Beo'-
zia, ecc.;
4. in -occio, -occia, suffisso di nomi e aggettivi: barroccio
carroccio, cartoccio, bel/o'ccia, roccia, sacco'ccia, e simili;
5. nel suffisso - òide: mattdide, pazzoide, negro/de, tiroide, ecc.:
6. nelle terminazioni verbali tronche in -ò: verrò, fard, salto',
cacciò, ecc.; analogamente ogni altra terminazione In ·-ò accen-
tata: pero, senno·, cio'; o anche nei monosillabi con o tònica: no.
so, do, pro, ho, sto, Po, ecc.;
7. nel suffisso medico -osi: artrosi, tubercolosi cirròsi, cal-
colosi, ecc.;
8. nel suffisso -otto, -otta: sempliciotto, ga!eo'tto, bambolotto
quadròtta, chioggiòtto, ecc.;
9. nel suffisso -òttolo, -òttola: vidttolo, vidttola, nanerottolo
collottola, pianerdtto!o, ecc. ;
10. nel nomi propri In -oldo: Aràldo, Bertoldo, Leopo/do, ecc:
11 . nei nomi propri in -olfo: Ado'ljo, Rodo/fo Arndlfo.
Gandolfo, ecc.;
In altri casi particolari è meglio non addentrarci.
La vocale o ha sempre suono chiuso:
l. nelle parole in -ore: amore, genitore, senatore, ardore, ecc .
2. nei suffissi -oso, -osa di nomi e aggettivi: tuberosa , {{[liso
furioso, amoroso,festosa, vezzosa, ecc.;
3. nelle parole in -oio, -oia: vassdio, corridoio, mattatoio leva -
toio, passatdia, mangiatoia, scorciatoia, ecc.;
4. nelle parole in -ondo, -onda: fdndo, fecondo, mondo, IICl
scondo, giocondo, sdnda, baraonda, bionda. circonda . fronda
sponda, ecc.;
5. nelle parole in - ogno, -ogna: bisogna, cotogno, carogna rer
wfgna, rampdgna , rogna, Bologna, Cata/dgna, eCC .'

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6. negli aggettivi in -ògnolo: verdifgnolo, azzurrognolo, amaro-
gnolo, ecc.;
7. nella grandissima maggioranza delle parole in -one, -ona:
a.ffezione, cagione, condizione, ragione, Platone, elezione, girone,
intenzione, leone, orazione, perfezione, corona, padrona, persona,
Ancona, ecc. Qualche eccezione: testimone, zòna, nòna, e qual-
che altra.
E a questo punto farei davvero alto. Le troppe regole, i troppi
casi e sottocasi aggiungerebbero poco o nulla. Voglio insomma
dire che se l miei amici lettori terranno buon conto anche sol-
tanto di questo elenco di regole, la loro pronunzia se ne avvan-
taggerà almeno dell'ottanta per cento.

Pésca o pèsca, téma, tèma ...


Se avvertite qualcuno di certi errori di pronunzia che corrono
spontanei sul suo labbro, come quello frequentissimo di pésca
tanto per il frutto quanto per l'atto del pescare, o di téma, tanto
nel significato di «timore» quanto di «argomento», facendogli
notare che per ciascun significato cambia anche il suono della
e all'interno delle due parole, se lo avvertite di questo, c'è il
caso di sentirvi chiedere, come è successo a me: «Ma chi le
ha stabilite queste regole?».
Non già il capriccio di una persona, certamente, e neppure
del caso; ma l'origine stessa della parola; e in particolare, per
la pronunzia di queste benedette vocali e ed o, la struttura
stessa che aveva nel latino quella data parola giunta fino a noi
per trasmissione orale Ininterrotta attraverso il corso dei secoli.
Non tutte le parole del nostro lessico derivano, è vero, dal lati-
no, ma la stragrande maggioranza si; quindi le regole a cui ora
accennerò per chiarire anche quest'altro problema di pronunzia,
dovranno partire appunto dal latino. Non occorrerà essere lati-
nisti per seguirmi e capirmi; anche chi non sa il latino, infatti,
penso che potrà afferrare ugualmente almeno la « meccanica»
di questa vicenda linguistica.
In latino, dunque, tutte le vocali avevano un lc.ro valore, di-
ciamo pure un loro suono, che era « lungo» o «breve». Grafi-
camente le vocali lunghe si segnavano in alto con una lineetta
orizzontale: a, e, T, o, u; le vocali brevi invece con un mezzo
cerchietto, cosf:a, e, o, u.
l, Proprio da questo segnetto lungo
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o breve è derivata la pronunzia chiusa o aperta delle nostre
vocali e ed o. Ed ecco ·in generale il meccanismo. Dove il latino
aveva una e lunga Ce) oppure una i breve (l) l'italiano ha deri-
vato una e chiusa ( é ); infatti da seme n è derivato séme, da
stella è derivato stél!a, da tela è derivato téla, da habere è deri-
vato avére, da trés, tre pror"tunziato « tré », da st1is si è . avuto
séte, da vt1rum, vétro, da capt71us, capéllo, e via e via. Dove
invece il latino aveva . una e breve (e) oppure il dittongo ae
(che si leggeva è aperto), l'italiano ha ereditato una e normal-
mente aperta (è): pétto, lat. pectus, tèrra, lat. terra; bene, lat.
bene;jèrro, lat. jerrum; piètra, lat. petra; dièci , lat. decem; sètte,
lat. séptem; lièto, lat. laetus; siepe, lat. saepes; ciè/o, lat. caelum;
seèo/o, lat. saeculum, ecc.
Queste dunque le regole generali, che hanno naturalmente
numerose eccezioni giustificabili con le ragioni piu svariate, che
vanno da quelle puramente storiche a quelle dialettali e ben
spesso analogiche, per cui una parola di suono o di struttura
affine scambia con l'altra il valore originario della vocale. Poi
cl son le voci di formazione dotta, e quelle ecclesiastiche, e
quelle tecniche, e scientifiche, tutte con una loro origine parti-
colare che spesso si allontana dalla regola comune. Ma il noc-
ciolo di una lingua, la massa dei vocaboli tradizionali segue la
regola fedelmente, e solo i dialetti possono qua e là infrangerla.
E a questo punto, ora che siamo istr.uiti, come dicevo, del
« meccanismo», spieghiamoci perché il frutto si deve chiamar
pesca e non « pésca », e perché l'andar per pesci deve dirsi pésca
e non « pèsca ». Ecco qua: il nome del frutto, pesca, deriva dal-
l'aggettivo latino persica, con la e· breve (propriamente, «della
Persia», sottinteso a"rbor, albero, perché questa pianta venne
ai Romani dalla Persia); la e breve, abbiamo visto, dà la è italia-
na aperta; e di qui la pronunzia pesca, con l'accento grave.
La parola pésca, atto del pescare, risale invece al latino p(scis,
pesce, con la prima ( breve; di qui la corretta pronunzia
chiusa ereditata appunto da quella i : pésce, pésca, io pésco, tu
péschi, ecc.
Cosi per téma e tèma . Téma, che vuoi dir «timore», risale
al latino ti/neo, temo, ttmor, timore, timidus, pauroso, timido
ecc. tutti con la prima t breve, che dà all'italiano la é chiusa
come in pésca: quindi téma con l'accento acuto. Tèma, invece
con l'accento grave, che vuoi dire «argomento», deriva dal

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latino the'ina con la e~ breve; e da e· breve, ora lo sappiamo,
si svolge una è aperta, una è con l'accento grave.
Un analogo meccanismo si è svolto anche per la vocale o:
da una o latina lunga (o) o da una u latina breve ( u) si svolge
di regola una o di suono chiuso ( 6 ): dono, lat. donum; nome,
lat. nomen;fosco, lat. fuscus; noce, lat. nucem, ecc. Invece, da
una o latina breve (o) o dal dittongo latino au, è derivato nell'i-
taliano una o di suono aperto ( ò ): fuoco, lat. focus; luogo, lat.
focus; polo, lat. po7us; toro, lat. taurus; oro, lat. aurum; alfo'dola,
lat. alauda, ecc.
Il discorso è stato piuttosto lungo, me ne rendo conto; ma
potrà servirvl per rispondere con argomenti persuasivi a chi si
trovasse a chiedervi, come è successo a me: «Ma chi le ha
stabilite queste regole?».

Alcalino o alcàlino?
Bisogna pronunziare alca/ìno. E un aggettivo che non ha ovvia-
mente un'origine classica, ma è formato sul sostantivo àlcali
mediante un suffisso -ìno normalmente accentato sulla i. Ed
è tale l'attrazione di questa pronunzia piana, che anche gli
aggettivi cristallino e adamantino, dal latino crystàllinus e
adamdntinus, si accentano oggi correttamente sulla penultima,
cristaflìno e adamantino, lasciando la pronunzia etimologica, cri-
stdllino e adamdntino, solo ai poeti ( « il cielo in freddo fulgore
adamàntino brilla» poetò Il Carducci, segnando anche l'accen-
to). In particolare, la pronunzia cristàllino si sente a volte nel
linguaggio medico con riferimento al corpo trasparente dell'oc-
chio in forma di lente biconvessa.

Alchimia o alchimia?
La parola deriva dall'arabo al-krmiya, con cui si indicava la
pietra filosofale, cioè quel misterioso agente, affannosamente
e vanamente ricercato dagli alchimisti, per trasformare i metalli
vili in oro e per prolungare la vita; questo al-krmiya, dove al-
non è che l'articolo, deriva a sua volta, attraverso una forma
sirìaca, dal greco bizantino chyméia, che significa «mescola-
mento» « miscugllQ ». Di qui nacque nel latino medievale

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chiinia, con lo stesso significato, donde l'aggettivo chìmicus, e
poi la frase ars chimica, e sostantivato chimica, cioè la nostra
«chimica». Questo per quanto riguarda l'etimologia del voca-
bolo. Quanto alla pronunzia la formazione italiana alchimia, con
l'articolo fuso ( cosf come quella spagnola, alquimia, pronunzia-
ta « alkìmia ») ripeteva esattamente la pronunzia araba, cioè
aveva l'accento sulla prima 1; come del resto chiaramente
appare nei famosi versi con cui Dante chiude il XXIX canto
dell'l~ferno: «Si vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio Che
falsai li metalli con alchimia, E ti dèi ricordar, se ben t'adoc-
chio, Com' io fui di natura buona scimia ». Ma già prima di
Dante un Bonagiunta Orbicciani, rimatore lucchese, aveva poe-
tato che «Natura dà ciò ch'è primero E poi l'arte lo segue e
lo dirima; E sa piu d' arte chi è piu ingegnero E meno chi piu
sente de l' alchima »: dal quale esempio veniamo inoltre a sapere
che si usava, almeno in poesia, una variante alchima che non
poteva esser nata se non da un'alchimia.
Ma esempi numerosi ognuno può trarre dal grande e prezioso
dizionario del Battaglia, nei quali la pronunzia diciamo dantesca
ci appare costante; esempi poetici, naturalmente, ché solo dalla
poesia, legata all'accento ritmico e alla rima, una pronunzia si
palesa. Fazio degli Uberti (sec. XIV): «Qui mi disse Soli n: Sf
come il foco Vuoi temprato colui che fa l'archimia ... »; Luigi
Pulci (sec. XV): «E quando bene alla tua intenzione Non riu-
sciva il disegno e l'archimia, Dicevi il paternostro della sci mia»
il Folengo in volgare (sec. XVI): «E quel, che Alchimia si do
manda pormi »;l'Ariosto ( sec.XVI ): «E dice ch'ell'è alchimia:
e forse eh 'erra»; il Soldani (sec. XVII): «Qui non è del mentire
arte piu esimia, Del simular piu fertile semenza, Dell'adulaz'ion
piu certa alchimia»; e il Fagiuoli (sec. XVIII): «Ma l'oro è
d'altri, e ciò ch'è loro è alchimia». E fo punto, ché mi pare
che basti e avanzi. Gli esempi in prosa, come ho detto, nor
possono soccorrere. Però il D' Annunzio, sempre meticoloso
anche nella grafia, quando scriveva in prosa accentava di regola
la parola sulla i della seconda sillaba per evitare un'errata lettu-
ra . Un esempio per tutti, dal Forse che sf forse che no: «Tale
dei nostri Antichi chiamò alchimia il liscio delle donne».
Ora verrà fatto di domandarsi come sarà nata questa nuova
pronunzia con l'accento sulla seconda i. Senza dubbio sull'ana-
logia di numerosissime parole in -ìa, soprattutto scientifiche e
tecniche come astronomia, anatomia, economia eccetera. si co-

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minciò da qualcuno a spostare l'accento e a dire alchimìa.
Niente di drammatico, si capisce. Dispiace solo che una tradi-
zione tanto antica e costante debba essere stata d'un tratto can-
cellata per ignoranza o per capriccio. E dispiace di piu che certi
dizionari faccian subito posto, senza avvertimento alcuno, alla
nuova variante, e peggio ancora che qualche altro ignori addirit-
tura l'accentazione alchimia, che a me pare la sola legittima.

Alici piccanti e mollica di pane


Sedendo a una tavola lombarda è facile sentir questa frase con
questa singolare accentazione: « àlici piccanti e mòllica di pa-
ne». Strana davvero, perché la pronunzia corretta è tutta piana:
aliCi piccanti e mollica di pane.
Come siano avvenute queste ritrazioni d'accento son misteri
propri dei dialetti. Alìce è il latino hal/ec, hai/e'cis, che indicava
propriamente una salsa di pesce, e discende dal greco alykos,
salso. Poetava il Leopardi nei Nuovi credenti: «Che dirò delle
triglie e delle alici? Qual puoi bramar felicità pili vera Che far
d'ostriche scempio infra gli amici?».
Mollica deriva dal latino popolare molllca, che è da mollis,
molle; cioè la parte molle del pane.

Anòdino o anodìno?
Solo sdrucciolo: anddino; perché questa è una di quelle parole
dove le due pronunzie originarie, la greca e la latina, concorda-
no: il greco diceva anddynos, il latino anddynus. Perciò la forma
piana anodino, sebbene comunissima (la lingua italiana tende
alla pronunzia piana), almeno sulla bocca di una persona colta.
è errata. Per quei pochissimi, poi, che Ignorassero il significato
di questo aggettivo dòtto, dirò ch'esso vale propriamente «che
toglie il dolore», quindi calmante, sedativo, ed è composto del
prefisso privative an-, e di odjme, dolore.

Baule
E ancora nella memoria di molti un sorprendente ba'ule tele-

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visivo che se fece ridere quella mezza Italia che aveva sempre
pronunziato correttamente baù/e, mise invece in dubbio scon-
certante un'altra abbondante parte di Italiani che non aveva·
su questo accento un'opinione ben precisa. Le cose andarono
cosi: un radiocronista, per non so che misterioso delitto in cui
c'era di mezzo appunto un baule, intervistò un poliziotto, di
chiara origine meridionale, che fedele al suo dialetto pronunzia-
va costantemente bàule, accentato sulla a. Questo non poteva
sorprendere: in molte parlate meridionali si sente spesso bàule,
anche tra persone non del tutto digiune di lettere. Sorprese
invece il fatto che I'intervistatore, che aveva cominciato a pro
nunziare correttamente baùle, non so se preso da dubbio, o
piuttosto, voglio credere, per una specie di timidezza verso il
suo interlocutore, cominciò a sua volta a dire bàule con convin-
ta disinvoltura. Io penso che non ci sarebbe voluto molto,
anche senza mancar di garbo, a corregger l'errore di pronunzia,
ricorrendo magari a una battuta di spirito.
Quel che ho sempre rimproverato alla radio e alla televisione
- per tante altre cose lnvero lodevolissime - è questo prendere
troppo sottogamba la pronunzia delle parole. Esse , evidente-
mente, non si sono rese ben conto della loro incredibile forza
divulgativa. ·
Per ritornare a baule, dirò che la parola deriva dallo spagnolo
bali/, con tanto di accento acuto sulla u; e questo si riconnette
all'antico francese bahur o baiul (francese moderno bahut ), che
risale al XII secolo. La voce italiana si è cominciata a usare
nel Cinquecento, e si è sempre pronunziata piana, cioè baùle,
come del resto chiaramente dimostrano questo endecasillabo
del poeta cinquecentesco Buonarroti il Giovane: «Ma tu poni
un po' li quei tuoi bauli», e questi altri del poeta giocoso Filippo
Pananti (1766-1837): «Si credon sulle seggiole.curuli, E vanno
a viaggiar come i bauli>>.

Callifugo
Callifugo si pronunzia sdrucciolo, con l'accento sulla i. Tutti
1 composti con -fugo si pronunziano sdruccioli: vermifugo, feb-
brifugo, grandinifugo, centrifugo . . . Perché si pronunziano sdruc-
cioli? Perché il suffisso -fugo in italiano è sempre àtono cosi
come era àtono il suffisso latino -fugus da cui esso deriva: i

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Latini dicevano infatti, per esempio, nub{fugus, che mette in
fuga le nubi; /ucìfugus, che fugge dalla luce, ecc.

Circuito, gratuito, fortuito


Si sente spesso parlare in certe regioni del Nord del circuìto
di Monza e di porto gratuìto, pronunzie errate, ché circùito e
gratùito son le sole pronunzie da usare. Un discorsetto un po'
diffuso mi sembra opportuno su tale argomento perché questa
oscillazione di pronunzia ha già varcato di parecchio i confini
lombardi, e sempre plu dilaga; Inoltre può riferirsi anche ad
altre parole che hanno la stessa terminazione, come intuito e
fortuito. Se intuito, come sostantivo (col significato cioè di
«facoltà di intuire»), è sempre pronunziato sdrucciolo, intùito,
diversamente accade per fortuito, che anche da persone di di-
screta cultura ho sentito a volte pronunziarefortuìto.
Vediamo di mettere un po' d'ordine iP questa faccenda. Cir-
cùito: esso è pari pari il latino circwrus, che avendo la seconda
i breve, si pronunziava circùitus, sdrucciolo. La stessa cosa si
dirà per intuito: dal latino intuilus avremo ovviamente un intùi-
to. Tanto piu queste pronunzie sdrucciole sono da rispettarsl
In quanto le pronunzie piane, circwìo e intwìo, sono proprie
dei participi passati del verbi circuire e intuire. Dunque: « circùi-
to di Monza», «corto circùito », «sottile intùito »; ma «lo
hanno circuito con belle promesse», «aveva intulto l'inganno».
Fin qui, tutto semplice. Le cose cominciano alquanto a
complicarsi con altre due parole, gratuito e fortuito, l cui corri-
spondenti latini avevano una i lunga e si pronunziavano piani:
gratuaus efortultus. Indubbiamente, a stretto rigore etimologico.
le pronunzie legittime dovrebbero esser gratuìto efortuìto; e cosi
con ogni probabilità avranno pronunziato gli antichi. L'esempio
dantesco («Per che s'accrescerà ciò che ne dona, Di gratuito
lume il sommo bene, Lume ch'a lui veder ne condiziona», Pa-
radiso, XIV, 46-48) e l'esempio ariostesco («Tanta esaltazione
e cosi presta non fortuita o d'avventura casca ... », Orlando fu-
rioso, XXXV, 7) possono essere una prova di questa pronunzia;
ma non in modo assoluto, ché anche la pronunzia sdrucciola,
pur affaticando il ritmo del verso, non guasterebbe la prosodia.
Ma anche per queste due parole la pronunzia affermatasi ormai
da qualche secolo, e concordemente consigliata da tutti i dizio-

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nari, e quella sdrucciola, gratuito e fortu ito. Senza dubbio,
qui l'analogia con circùito e intuito ha avuto la meglio sull'eti-
mologia.

Cognàc e cordiàl
Quando lo dall'Italia centrale dov'ero nato e vissuto salìi per
la prima volta nell'Italia settentrionale, rimasi sorpreso, oltre
che per altre alterate pronunzie, anche per questo cognac pro-
nu nziato cosf, con l'accento sulla o. Io avevo sempre sentito
dir cognàc, e in Toscana cognàcc.he. SI tratta, come tutti sappia-
mo, di una parola francese, che poi non è altro che il nome
della cittadina nel dipartimento della Charente, la romana Com-
piàcum, dove questa particolare acquavite si produce.
In Francia, si capisce, il nome è tronco, « kognàk », e non
vedo perché noi si debba alterarlo in piano. Intendiamoci: casi
di nomi stranieri tronchi all'origine e diventati piani nel nostro
linguaggio certo non mancano; citerò, come mi vengono in
mente, àrem o harem (dal turco harem che è dall'arabo hariin );
càmion (dal francese, che pronunzia « kami6n » ); sòviet (dal
russo sovet che si legge « savièt » ). Ma a parte il fatto che anche
questi nomi io consiglierei di pronunziarli come all'origine (a-
rèm , camiòn, sovièt: ed è questa la pronunzia raccomandata
anche dai buoni dizionari), a parte questo, dico, per il caso di
cognac non mi pare possano esistere dubbi sulla pronunzia, spe-
cialmente da quando una speciale convenzione !taio-francese
del gennaio 1950 ha limitato l'uso di questo nome alla sola spe-
ciale acquavite del territorio di Cognac, in Francia, sf che oggi
normalmente a ogni prodotto similare fuor del territorio france -
se si dà il nome inglese di brandy. Per quello auten-
tico, francese, diciamo dunque correttamente cognàc, con l'ac-
cento sulla a.
Ma quest'uso di contrarre l'accento nelle parole tronche è
tipico di molte parlate settentrionali. G iacché siamo a parlar
di liquori, ecco un altro esempio di pronunzia errata: co'rdial
invece di cordiàl. A Milano, appunto, tutti ordinano un « còr-
dial )) e cosi pronunziano il vocabolo anche se lo fanno seguire
dal nome di una illustre fabbrica milanese di questo liquore.
Si potrebbe obiettare che la pronunzia « cordial )) ripete press'a
poco quella inglese; ma si risponde che qui l'Inghilterra non

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c'entra per niente, e, semmai, c'entra la solita Francia dove
la parola si pronunzia tronca, con l'accento sull'a. Ma io voglio
pensare che il cordiaf della ditta milanese sia piuttosto una
forma tronca del sostantivo italiano cordiale, usato cosi per ra-
gioni di eufonia, allo stesso modo come si troncano morta/,
ugual, tal e simili: «un mortai gelo)), «In ugual misura)), «fino
a tal ·segno ».

Cosmopolita, metropolìta
Cosmopolìta discende dal greco kosmopolìtes , accentato sulla i,
e non può avere altra pronunzia in Italiano; dire « cosmopòlita >>
come da molti si dice è dunque errore. È parola di formazione
tarda, non classica, ed è composta di kdsmos, mondo, e di poli'-
tes, cittadino: alla lettera, «cittadino del mondo>>. Il latino clas-
sico non la conobbe, diceva mundanus; noi l'abbiamo presa dal
francese cosmopolite, che apparve in quella lingua per la prima
volta verso la metà del Cinquecento in un'opera del filosofo
visionario e giramondo Guillaume Poste!, che predicava la
concordia mundi nel nome di Cristo e sotto l'autorità del re di
Francia. Nel resto d'Europa, e quindi anche da noi, la parola
si diffuse soltanto nel Settecento, con le nuove idee scaturite
soprattutto dalla Rivoluzione.
Anche la parola di struttura affine, metropolìta, va corretta-
mente pronunziata con l'accento sulla penultima sillaba. Questa
ci è venuta dal latino medievale metropofìra, modellato sul
sreco metropolìtes, alla lettera «cittadi no della metropoli», cioè
delia « città madre», e poi, nel linguaggio ecclesiastico, « vesco-
vo di città madre>>.

Deviare, avviare, ovviare


In una delle solite « tavole rotonde», dedicata questa al proble-
mi della viabilità e dell'automobilismo , un molto ferrato tecnico
si affannò ad avvertire che manovrando il volante in un certo
errato modo, la macchina « dèvia >> In maniera pericolosa, e per
evitare che « dèvii » bisogna eccetera eccetera.
Naturalmente la macchina non « dèvia » ma devia, perché il
. verbo deviare (di quattro sillabe: de-vi-a-re) si coniuga correr-

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tamente devio, deVIì, dev1à, dev1àno; e anche nelle forme devià-
mo e deviàte bisogna nella pronunzia corretta far sentire bene
la dieresi.
Del resto tutti i verbi composti con via seguono questa
medesima accentazione: avviare fa avwò, avv1ì, avvtà, avvtàno,
e nessuno ha mai pensato che si possa dire « àvvio », « àvvii »
eccetera. Identica cosa diremo per inviare e rinviare; e non
faremo eccezione neppure per ovviare, che correttamente co-
niugheremo ovVIò, ovvtì, ovVIà, ovVIàno. (È il latino obviare, com-
posto di ob-, contro, e via, via; alla lettera, «andare contro»,
«opporsi a qualche cosa»; perciò «ovviare a un errore» equiva-
le a «opporsi a un errore», cioè porvi rimedio.)

Diàtriba o diatriba?
Chi pronunzia diàtriba sdrucciolo mostra di rispettare la pro-
nunzia originaria latina del vocabolo. Il quale vocabolo non è
certo d'uso popolare, è anzi un vocabolo dòtto, limitato cioè
a un linguaggio di tono elevato o per lo meno tra persone di
una certa cultura. Ma non può considerarsi errata neppure la
pronunzia piana diatn'ba, registrata da tempo anche dai migliori
dizionari (lo stesso Tommaseo non accenna alla forma sdruc-
ciola). Il vocabolo risale al greco diatribé, e valeva propriamente
«consumo di tempo», derivato da diatrìbo, io consumo, e
indicò dapprima il tempo speso in discussioni dotte fra filosofi
e rètori. Passando al latino, in età piuttosto tarda, si ebbe diàtri-
ba, essendo breve la i della penultima sillaba. E diàtriba si pro-
nunziò anche nell'italiano, finché non intervenne a mutarne
l'accento la solita influenza francese: i Francesi fecero infatti
diatribe, pronunziando « diatrìb » ed estendendone il significato
a quello generico di discussione animata, recriminazione, litigio.
E in questo significato la parola si è generalizzata anche da noi,
assieme alla nuova accentazione, a cominciare dalla fine del
Settecento, il secolo della maggior influenza francese in Italia.
Concludendo: accettiamo pure le due pronunzie, ma ricordia-
moci che quella sdrucciola è sempre da raccomandarsi.

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Edile
Credo di non esagerare dicendo che specialmente nell'Italia set-
tentrionale una metà della popolazione pronunzia « èdile » con
l'accento sulla e Iniziale. Ed è una pronunzia grossolanamente
errata. Bisogna dire ed11e, accentato sulla i. «Io per voi spero ...
Rendere a queste mura e a questa terra E ristoro e vaghezza
all'apre edili ... »: so n versi del poeta Buonarroti il Gio-
vane, dove un « èdill » sdrucciolo avrebbe mandato all'aria la
prosodla.
Da aedes, tempio, e anche casa, fabbrica In genere, 1 Latini
fecero il sostantivo aedJ1ìs (con l'accento tonico sulla sillaba
centrale) con cui indicarono ciascuno del magistrati ai quali
era affidata la cura e la sorveglianza di quelle che oggi diremmo
le opere pubbliche: l templi, le case, l ponti, le strade, ecc. Aedì-
lìs, dunque, non « aèdllis »: sostantivo divenuto in Italiano ed11e
fin dal Cinquecento, e poi trasformato anche in aggettivo: arte
edìle, assistente edile, perito edìle. Il sostantivo è ancor oggi
vivlssimo per Indicare appunto la persona addetta all'arte mura-
ria: «Lo sciopero degli edìli », sempre col medesimo accento
sulla prima i.
Aggiungerò, ché non guasta, che dal primitivo aedes sono
nate altre numerose parole: edilizio, edilizia, edificio, edificare,
e anche edicola, In latino aedicula, che in origine significò
« tempietto ».
Non dovrebbe esser difficile ai molti che pronunziano erro-
neamente « èdile » (certo per analogìa con molti altri aggettivi
In -ile di pronunzia sdrucciola, comejdcile, docile, esile e simili)
· fare un piccolo sforzo e spostare l'accento al punto giusto. E
forse lo farebbero, se non cl si mettesse di mezzo assai spesso
la radio a crear confusione, e non ci si mettessero anche certi
dizionari 1 quali accanto alla pronunzia esatta registrano anche
« èdlle » avvertendo soltanto che questa pronunzia «è meno
corretta» dell'altra. Una cosa o è corretta o corretta non è.

Evaporare
Se a proposito dell'aggettivo edile ho potuto dire che buona
parte della gente lo pronunzia male, qui, parlando del verbo
evaporare dovrò dire, senza nessuna téma di esagerare, che a

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sbagliarne l'accentazione è Il novanta per cento degli Italiani.
Tutti dicono « evàporo », « evàporl », « evàpora », « evàporano »,
senza la minima idea di essere in errore, perché l'unica accenta-
zione corretta non può essere che evaporo, evapori, evapora,
evaporano . Non può esserci una pronunzia sdrucciola perchè
Il latino evaporare, derivato da vapor, vapdris, faceva all'indicati -
vo evaporo, evaporas, evapdrat, ... evaporant, inoltre anche il
nostro vapore reca l'accento sulla o, e nessuno si sognerebbe
di dir « vàpore ».
Non riesco a capire come sia nata questa errata pronunzia.
Tanto meno riesco a capirlo, In quanto altri due verbi gemelli,
vaporare e svaporare, nati dallo stesso vapore, tutti sono d'accor-
do a coniugarli correttamente io vaporo, tu vapori, io svaporo,
tu svapori. E non datemi del noioso se insisto a · dire che la
colpa di queste false pronunzie è anche di certi dizionari che
per vaporare e svaporare registrano solo la pronunzia corretta,
mentre per evaporare Insistono a registrare anche quella sbaglia-
ta, spesso senza una condanna aperta e perentoria. Non parlia-
mo poi della solita radlotivvù, dove problemi di questa sorte
nemmanco se li sognano.

Guaina
Per molti Italiani sarà una sorpresa sapere che la parola guaina
va pronunziata correttamente in un sol modo: gumna , accentata
sulla i, e non « guàina » accentata sulla a. La parola deriva dal
solito latino, vagtna, che vuoi dir «fodero», «involucro»:
glàdium e vagina edùcere, trarre la spada dalla guaina. Di conse-
guenza anche il verbo sguainare si coniugherà io sguai'no, tu
sguaini, egli sguai'na, essi sguainano, e non « sguàino » come
troppa gente insiste ancora a pronunziare.

Incàvo o incavo?
Bisogna dire incàvo. È vero che questo sostantivo è stato fatto
sul verbo incavare, preso dal latino tardo di Columella (uno
scrittore di agronomia vissuto nel primo secolo dopo Cristo),
e che la pronunzia del presente indicativo latino era sdrucciola,
t'ricavo, tncavas, t'ricavar, ecc., ma il fatto è che passando il verbo

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nella parlata volgare l'accento piano di cdvo ha avuto la meglio,
s! che è nata una pronunzia incàvo, incàvi, incàva , incàvano che
è la sola oggi usata. Ed è la sola legittima anche per il sostantivo
incàvo. Errata deve pertanto considerarsi la pronunzia sdruccio-
la, ìncavo , frequentissima nelle parlate settentrionali.
Questo fenomeno dell'accento di parole composte che si
sposta sulla posizione della seconda componente, è frequente
nella nostra lingua, come per esempio in verbi come involo,
invoco, perjr:fro, annòto, procrèo, ecc. che secondo la loro origine
latina dovrebbero pronunziarsi tutti sdruccioli « ìnvolo », « ìnvo-
co », « pèrforo », « ànnoto », « pròcreo » ), e che invece per l'at-
trazione dell'accento delle seconde componenti volo, voèo, foro ,
ndto, crèo si pronunziano piani.

Istigare, litigare
Il verbo istigare, che ha anche una seconda forma letteraria lati-
neggiante instigare, si coniuga regolarmente istigo, istighi, istiga,
istigano, con l'accento sulla seconda i e non sulla prima « isti-
go», ecc. come spesso si sente. I Latini dicevano infatti instigo,
e non c'è nessuna ragione che giustifichi una ritrazione d'ac-
cento. Leggiamo nell'Ariosto «Dove i venti Eolo instìga », fa-
cendo rima con riga e briga.
Accade Invece di sentir coniugare il verbo litigare con l'ac-
cento piano: « lltìgo », «litighi», « litìga », « litìgano », mentre
qui la pronunzia corretta è quella sdrucciola, lt'tigo, li"tighi, litiga,
litigano, che ripete la pronunzia del latino litigare da cui il
nostro verbo è derivato. In Toscana è comune la variante !etica-
re, anch'essa coniugata sdrucciola: lético, létichi, ecc.

Leccornia, ghiottornìa
In una trasmissione gastronomico-televisiva si è sentito ripetere
plli volte il vocabolo leccornia pronunziato con l'accento sulla
o, « leccòrnia ». Malissimo, sbagliatissimo, bisogna dire leccor-
nìa, con l'accento sulla i. Non si tratta, è vero, d'una parola
d'uso comune, ed è facile, a chi la incontra per la prima volta,
raccostarla per la pronunzia ad altre parole in --drnia, con l'ac-
cento sulla o, come sbornia e California. Leccornìa, bocconcino

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ghiotto, ghiottonerìa, deriva da un sostantivo, e anche agget-
tivo, /eccone , oggi pressoché sepolto, che valeva ghiottone, go-
losone; da questo /eccone si fece dapprima /ecconeria, cibo da
!eccone, e da lecconerìa , per sincope, /ecconri'a e con successiva
metàtesi, leccornìa.
Del resto, il medesimo fenomeno è avvenuto per ghiottorni"a,
nome anche più raro di /eccormà, che vuoi dire la stessa cosa:
da ghiottone nacque ghiottonenà, da ghiottonenà si fece ghiottor-
mà . Si tratta di vocaboli ormai poco usati anche in Toscana,
e spesso ignoti altrove; chi li usa, però, è necessario che li pro-
nunzi a dovere.
Un analogo errore di pronunzia si riscontra in un vocabolo
della stessa terminazione in -ia, codardia, che correttamente va
accentato codardìa, e che invece molti pronunziano «co-
dàrdia ». Questi errori si giustificano in parte per quel difetto
costituzionale della nostra lingua che è la scarsezza d'accenti,
a differenza dello spagnolo e del francese. Se si abbondasse di
piu in questi innocentissimi segnetti che non infastidiscono e
non affaticano nessuno, molti errori di pronunzia si eviterebbe-
ro fin dalle prime scuole con l'aiuto della memoria visiva.

Màcabro
Si deve pronunziare màcabro o macàbro? I dizionari oscillano,
e una risposta precisa non è possibile darla. La stessa etimologia
di questo aggettivo è tuttora controversa. Ma una cosa è certa:
macabro ci è venuto dal francese macabre (pronunziato, come
tutti sappiamo,« macàbr ») attraverso l'espressione danse maca-
bre, una danza di scheletri, di cadaveri, assai comune special-
mente nei secoli XIV e XV come motivo allegorico d' intento
morale: questi scheletri erano raffigurati nell'atto di portarsi via,
in danze allucinanti, personaggi potentissimi come papi, impe-
ratori e re. L'aggettivo macabre sarebbe poi un nome proprio,
Macabré; e in origine infatti si disse danse de M~cabré, dove
Macabré sarebbe un'alterazione popolare di Maccnabé, Macca-
beo; propriamente quindi, danza dei Maccabei.
Venendocl la parola dal francese; e volendola ltalianizzare,
la sua pronunzia piu naturale dovrebbe essere macàbro, appun-
to alla francese. E invece la pronunzia piu comune, e general-
mente raccomandata dai dizionari, è sdrucciola, mdcabro. E

33
dunque avvenuta, nel tempo, una ritrazione di accento. Feno-
meno non nuovo nella nostra lingua, analogo a quello avvenu -
to, per esempio, per rècluta, derivato dallo spagnolo recluta
(con la u tonica) che lo prese dal francese recrue, propriamente
« ricrescita », «aumento» (di forze armate); o per ca'libro , dal
francese calibre, che è dall'arabo kalib, propriamente «forma
da scarpe», e poi genericamente «modello».
Ma anche la forma macàbro non è raro incontrarla, special -
mente in poesia per ragion di metro. «Senti il ritmo macàbro
delle strigi »: è un verso del Gozzano, che segnò l'accento.

« Piròscafo » ma « motoscàfo >>


Una domanda vien certo naturale: perché mai due parole cosf
somiglianti, composte entrambe di un prefisso e della parola
scafo, debbono pronunziarsi l'una sdrucciola e l'altra piana?
La risposta è abbastanza se mplice. La parola piroscafo è di
origine dòtta, nata nel linguaggio scientifico poco meno di due
secoli fa, composta di un prefisso piro-, derivato dal greco pjr,
pyros, fuoco, e di skdphos, pur esso greco, che significa « battel-
lo»: «battello che va col fuoco», cioè col vapore generato dal
fuoco. Piroscafo ha perciò seguito l'accentazione sdrucciola
comune a molti termini di una famiglia di parole composte col
prefisso piro-, di formazione antica o anche recente: piro'ji/o,
piroforo, piro'geno, piro'mane, piro'grafo, piro'metro, e qualche
altra. Diversa è invece l'origine di motoscafo, nome che risale
al primo ventennio del nostro secolo, ed è tutto Ital iano, assolu-
tamente privo di ascendenze classiche. Esso è Infatti composto
di un primo elemento moto-, abbreviazione di motore, e dell'Ita-
liano scafo nel significato generico di «Imbarcazione »; cioè
«imbarcazione a motore ». Motoscafo fa quindi parte di un'altra
famiglia numerosissima e sempre proliferante di parole, tutte
costruite con questo prefisso !Jloto-, e tutte con accentazione
piana: motobarca, motonave, moto/ancia, motocarro, motociclo,
motopompa, motopista, eccetera. Sul modello di motoscafo si
sono anzi create recentemente altre due parole ugualmente
piane: batiscafo, composto col prefisso greco bathjs, «pro-
fondo», cioè «scafo per esplorazioni profonde», e aliscàfo,
composto con ali, cioè «scafo alato». Devo aggiungere che la
pronunzia sdrucciola motoscafo, appunto per attrazione di piro'-

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scafo, non è neppur rara, e qualche dizionario perfino la regi-
stra. Ma non è assolutamente da raccomandare. '

Regìme
La parola regime, che in molti luoghi sl preferisce pronunziare
sdrucciola e in altri piana (ma ora la pronunzia piana si va
generalizzando, per Influsso soprattutto della radio e della tele-
visione), deriva dal latino régimen, nel genitivo regìminis.
Secondo la regola, da tutti raccomandata, di rispettare tra due
pronunzie quella che ripete la pronunzia originaria latina,
nessun dubbio che la sdrucciola sarebbe da preferlrsi. Ma la
verità è che la voce si è diffusa tra noi, nel primo Ottocento,
attraverso la prosa francese del Codice napoleonico; e dal fran-
cese régime è derivata la pronunzia piana italiana. I puristi biasi -
marono non la pronunzia ma il vocabolo, perché pareva un
francesismo inutile («si dica reggimento», gridava il Fanfani);
e il Rlgutlnl lo giudicò perfino «un inutile latinismo ». Da Fi -
renze, il Tommaseo però avvertiva: «Dicono regìme, piano, non
sdrucciolo, perché lo ripetono dal francese. A noi non è neces-
sario ... Ma se s'ha a dire, dicasi non da barbari ». Il Tommaseo
dunque pendeva per la pronunzia sdrucciola, latineggiante.
Tuttavia, allo stato attuale della lingua, mi pare senz'altro da
preferirsi regìme, con l'accento sulla i. E cosi in ogni caso,
anche estensivamente parlando per esempio del motore di
un'automobile. È quest'ultima una delle tante derivazioni
analogiche e figurate del vocabolo, che propriamente significa
«governo», «forma di governo» (quel che in antico si diceva
appunto reggimento; e poi, modo di condursi, di regolarsi secon -
do l.erte norme igieniche («regime alimentare»). Entrato nella
tecnica, dilatò ancora il suo significato, e venne a indicare l'an-
damento di un fenomeno in certe determinate condizioni, e,
In particolare, parlando di un motore, in certe determinate fasi
del suo funzionamento.
Ma regime non è che una delle tantissime parole dall'accento
«errante», come diceva il Panzlni, che affliggono il nostro vo-
cabolario. Si continui nella lettura, e si vedrà.

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Rubrìca
La pronunzia corretta è quella plana, rubrica; di conseguenza
« rùbrica », sdrucciolo, è semplicemente errore. La parola ci
viene dal latino rubrica, accentato sulla i, a sua volta derivato
dall'aggettivo ruber, rubri, che significa «rosso»; e rubrica, anzi
propriamente terra rubrica, poi usato assolutamente come so-
stantivo femminile, Indicava in origine una particolare « terra
rossa>>, una varietà di argilla, con la quale gli antichi prepa-
ravano una vernice destinata a vari usi. In particolare nell'arte
libraria essa serviva a tingere ai rosso l'asticciola di legno, l'um-
bilicus, intorno alla quale si avvolgeva a rotolo la striscia di
papiro o di pergamena che formava il voluìnen (donde l'italiano
volume, nel significato di libro, dal verbo vòlvere, volgere, avvol -
gere); con questa stessa rubrica si tingeva poi anche la custodia
del volùmen, e l'index, ch'era la striscia di papiro () pergamena
che pendeva dal rotolo e su cui erà scritto il titolo del libro .
Successivamente, nel periodo dei codici e degli incunaboli, con
la medesima terra rubrica o con altre sostanze dello stesso color
rosso, come il mlnio , si cominciarono a scrivere o a stampare
In rosso alcune parti del lìbro a cui si voleva dare particolare
risalto, come l titoli, le lettere iniziali dei capitoli, o anche intere
frasi o parti del corpo del testo, come il cosiddetto rubricario,
ch'era l'elenco dei capitoli contenuti nel volume, quello che
noi chiamiamo indice. Si che la parola rubrica fini con l'indicare
addirittura ciascuno di questi elementi o parti che apparivano
In inchiostro rosso anziché nel normale Inchiostro nero. Nei
llbrl liturgici, in particolare, si dicono rubriche le norme che
regolano le funzioni religiose, l riti sacri, perché sono appunto
scritte in rosso per distinguerle subito dalle formule di preghie-
ra, scritte in nero. Messa su questa via, la parola rubrica fece
presto ad assumere altri sign ificati estensivi, che col color rosso
non avevano ormai p!U niente che fare. Innanzi tutto, quello
generico di parte, sezione in cui può dividersi il contenuto, la
materia di un periodico, di un giornale, di una trasmissione
radiofonica o televisiva, si che si paria di rubrica letteraria, tea-
trale, sportiva, linguistica e via dicendo ; poi, nel linguaggio
comune, s'intende per rubrica ogni elenco o repertorio ordinata-
mente disposto, per Io piu secondo l'alfabeto, contenente nomi,
indirizzi, dati, eccetera (per esempio, la rubrica telefonica);
infine si chiama rubrica il quaderno, il libro che questi nomi

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e dati contiene, spesso coi margini tagliati a scaletta e contrad
distinti con lettere alfabetiche per la pronta ricerca.

Scentrare, scervellare
Provate a far leggere queste due parole a un Milanese e generi-
camente a un Lombardo: dirà s-centrare, s-cervel/are, staccando
nettamente la s iniziale da -centrare e -cerve/fare. E invece l'u- ,
nica lettura corretta del gruppo se- iniziale è identica a quella
di scena e di scettro.
Ho assistito a discussioni serrate dove persone di ottima cul-
tura sostenevano che la s di scena e di scettro non è la stessa
di scentrare e scervellare; qui si tratta infatti di un prefisso
privativa che risale al latino ex- Indicante appunto privazione,
separazione, allontanamento. Niente da eccepire in senso eti-
mologico; ma è anche indiscutibile che il nostro sistema fonolo-
gico non consente al nesso se-, quando sia seguito dalle vocali
e ed i, altra pronunzia che quella con la s sibilante palatale,
come appunto in scena e scettro, scivolo e scipito. Per pronunzia-
re staccate le due consonanti s-e occorre che siano seguite dalle
vocali a, o, u, come in scarno, scorno, scuro. Questo è quanto,
e ogni discussione anche cavillosa è inutile; anche se la logica
del prefisso privativa sembrerebbe consigliare la pronunzia alla
milanese « s-centrare » e « s-cervellare », sul modello di scarnifi-
care e scarrucolare.
Sono perciò rimasto veramente di sasso leggendo in un noto
dizionario, e neppur del peggiori, alla voce scentrare un'avver-
tenza come questa: « le lettere s e c non formano un solo suono
e vanno pronunciate separata mente »; alla voce scerve/lare l'av-
vertenza non è ripetuta, ma appare chiara dalla nota etimologica
che chiude la voce. Avvertenza che però è ribadita in tutte
lettere alla voce sceratura, che secondo questo lessicografo do-
vrebbe leggersi lombardamente « s-ceratura », operazione del
togliere la cera vergine dal favo delle api. Come se non bastasse
ecco ripetersi la stessa norma alla voce discentrare (ch'è tra
parentesi la voce italiana raccomandabile invece di scentrare
d'uso piuttosto regionale e ignorata dai buoni dizionari) e al
suo derivato discentramento, che dovrebbero leggersi « dis-cen-
trare » e « dis-centramento ». Data però questa sua personale
convinzione, non si capisce perché lo stesso lessicografo non

37
abbia ripetuto la medesima avvertenza per esempio alle voct
discernere, discingere e discinto, anch'esse formate del medesimo
prefisso separati vo dis- e di cernere, cingere e cinto, che per
coerenza dovrebbero leggersi « dis-cernere », « dis-cingere »,
«dis-cinto»: pronunzia per fortuna ignota anche al piu milane-
se dei Milanesi.

Separare, connparare
L'italiano ha certi verbi che risalgono al latino parare,« prepara-
re», come separare, riparare, preparare, comparare, imparare,
ecc. che, se dovessimo rispettare l'accento etimologico, do-
vremmo coniugarli cosi: separo, nparo, preparo, comparo,
ìmparo. Infatti separo, reparo, praeparo, cdmparo, imparo ( que-
st'ultimo è verbo del latino tardo) coniugavano i Latini, e cosi
dovremmo coniugar noi. Ma lo spostamento d'accento ha origi-
ni antiche, risale alla fase di passaggio dal latino classico a
quello volgare («Tristo impara» leggiamo già in Dante, rimato
col «gioco della zara »);ma mentre per i verbi riparare, prepara-
re e · imparare le forme piane sono le uniche sopravvissute, l
verbi separare e comparare, Intesi come verbi di tradizione
dotta, hanno ancora conservato, specialmente nell'uso lettera-
rio, l'accentazione originaria latina, separo e cdmparo, che si af-
fianca a quella piana sepàra e compara piu frequente nel parlar
comune. Leggiamo nell'Ariosto: «Ma far tra noi prima alcun
patto è buono Che il tuo valor si compari col mio» dove la
pronunzia di quel compari sarà stata, per il miglior ritmo del
verso, certamente sdrucciola. Il D'Annunzio non poteva che
preferire la forma sdrucciola: «Il cervo d'unghia nera Si sèpara
dal branco delle femmine E si rinselva ». E segnò infatti, a evi-
tare equivoci, l'accento.

Tèrmite e termite
Tutti sanno che la termite è un insetto simile alle formiche,
voracissimo e pericolosissimo, che vive In società numerose
corrodendo ogni sorta di materiale per scavarsi il nido. Ma se
tutti sanno plu o meno questo, moltissimi non sanno invece
pronunziare Il suo nome; e c'è chi dice termite e chi termi'te.

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Ma l'accentazione « termìte », anche se frequente perfino sulla
bocca degli scienziati, è sbagliata. Bisogna dire termite, sdruc-
ciolo, derivando la parola dal latino tardo termes, termitis, va-
riante di tarmes, tàrmitis, propriamente «tarma».
Ed è tanto pid necessario rispettare questa pronunzia sdruc-
ciola, in quanto l'Italiano ha un'altra termìte, questa si pronun-
ziata con l'accento sulla penultima, nome commerciale di un
miscuglio di ossido di ferro e di alluminio polverizzato che
acceso produce un altissimo calore. Nome derivato dal tedesco
Thermit, costruito col greco thérme, «calore», e a noi giunto
attraverso il francese thermite.

Gli ultràs
Termine entrato nel linguaggio giornalistico e politico per Indi-
care gli estremisti politici, sia di destra sia di sinistra. Si usa
anche il singolare: un ultrà. Andrebbe tutto bene se, scritte cosi,
con l'accento, le parole non fossero goffamente sbagliate. ·
Mi spiego. Ultra è propriamente l'abbreviazione di u/traroyali-
ste, antico termine del vocabolario politico francese, nato nel
periodo della Restaurazione (1815-1830) per indicare appunto
gli « ultrarealistl », l « piu realisti del re», cioè 1 sostenitori piu
intransigenti della monarchia assoluta e del pid cieco conserva-
torismo, gli oppositori accaniti di ogni tipo di riforma nata dalla
Rivoluzione. Il termine passò presto da questo significato speci -
fico a quello estensivo d! partigiano fanatico, sostenitore esalta-
to di un principio, di un'idea; e con questo significato è entrato
da tempo anche nel nostro lessico, come sinonimo di estremista
o o/tranzista. Ultra, si sa, è avverbio latino, e vale «oltre», «di
piu », «p id in là», spesso usato in parole composte per indicare
qualità, quantità superiori alla norma: u/tramoderno, u.'trapoten-
te, ultrasuono, eccetera. I Francesi, naturalmente, quando usano
questo avverbio isolatamente scrivono ultra e pronunziano « ill-
trà », con l'accento sulla finale. Nel plurale aggiungono una s:
/es ultras. Ma di accento scritto, ovviamente, neppur l'ombra.
Ora si capisce che questo accento non è giustificabile neppur
da noi in nessun caso: sia che usiamo ultra come francese, scri-
vendo un ultra, gli ultras, con la parola ultra tra virgolette o
sottolineata; sia che lo usiamo come italiano, nel qual caso lo
faremo invariabile, un ultra, gli ultra, e pronunziando con l'ac-
cento sulla u, alla latina.

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Utensile
Sentì! con sorpresa la pronunzia sdrucciola utensile quando
dalla Toscana salii al nord d'Italia. Io avevo sempre detto e
sentito dire utens11e: «gli utensìli del fabbro», «gli utenslli da
cucina». Ed è. questa la pronunzia corretta che si raccomanda
anche dai dizionari e prontuari ortofonicl quando il vocabolo
sia inteso come sostantivo. «Gli utensìli erano acuti» scrisse
il D'Annunzio, e mise tanto d'accento a evitare errate
pronunzie.
Oggi tuttavia si accoglie generalmente come buona anche
una pronunzia sdrucciola, utensile, ma solo quando il termine
sia usato come aggettivo, e In particolare nell'espressione
macchina utensile. Questa pronunzia, infatti, ripete quella del-
l'aggettivo latino utensilis, «atto all'uso», «utile», pronunziato
sdrucciolo. Errata, però, è da considerarsi la pronunzia sdruc-
ciola nel caso del sostantivo, ché questo non cl viene già dal-
l'aggettivo utènsi/is, ma da un sostantivo neutro utensl7ia, che
vale «cose utili», «oggetti usuali della vita» e in particolare
della vita domestica. Accettiamo perciò le macchine utensili, ma
diciamo sempre utensìli da cucina.

Vàluto o valùto?
Di regola per risolvere un dubbio di pronunzia si ricorre ai di-
zionari; ma anche qui chi volesse affidarsi, almeno per questo
verbo, a una tal fonte, avrebbe da rimanere non poco sconcerta-
to . Apro, tanto per fare un esperimento, tre fra i piu recenti
dizionari della nostra lingua, per molti rispetti da considerar tra
1 migliori. Uno dice:« Valutare, io valùto, meno corretto io vàlu-
to ». Apro il secondo: «lo vàluto, meno corretto io valùto »; e
infine il terzo, che salomonicamente consiglia: «lo valùto o
anche vàluto ». Capisco come a volte possa nascere una certa
sfiducia per i dizionari. Lasciamo pure andare quel «meno cor-
retto» che spesso spesso si incontra In questi libroni, ché una
cosa, come ho detto e ripetuto, o è corretta o non Io è affatto,
dato che nessuna cosa di questo genere può essere corretta a
metà; lasciamo pure questo; ma è possibile che sia cosi difficile
mettersi d'accordo sulla pronunzia unica e definitiva di un
verbo tanto comune? I signori lesslcografi sanno benissimo che

40
il verbo valutare deriva dal sostantivo femminile valùta (e ce
lo dicono chiaramente essi stessi nell'angolino riservato al-
l'etimologia del vocabolo), sostantivo che ebbe un primo signi -
ficato, oggi disusato, di «valore», «prezzo», e poi anche di
«pregio»; oggi ha più spesso il significato di «moneta», « dena-
ro», come sappiamo tutti che parliamo di «valuta cartàcea »,
di «valuta pregiata » e cosi via. Non c'è uno di noi che pro-
nunziando questa parola la dica sdrucciola, ma sempre piana,
valùta. Come sia venuto fuori, nel derivato verbale, codesto
« vàluto » resta un mistero. Si tratta, ma non vorrei sbagliare,
di una pronunzia inizialmente settentrionale, ora diffusasi per
tutto il continente, e come l'erba cattiva l' ha sempre vinta sul-
l'erba buona, anche la pronunzia sbagliata ha finito col sopraffa-
re quella giusta. Per ritornare un momento ai. dizionari, io penso
che ci sarebbe un solo modo di dir per bene le cose a proposito
di questo verbo: «valutare: io valùto, tu valu'ti, egli valùta, essi
valùtano; comune, ma errato, io vàluto, ecc.». Allora solo, il
povero consultatore saprebbe come regolarsi.
Aggiungerò, per concludere, che anche l composti di questo
verbo seguono naturalmente la stessa accentazione piana:
sopravvalutare, sottovalutare, svalutare: sopravvalùto, sottovalù-
to, svalùto.

Velòdromo, ippòdromo . ..
C'è molta oscillazione, tra regione e regione, sulla pronunzia
dei nomi composti in -dromo, sul tipo di velodromo, ippodromo,
autodro.mo e simili. La pronunzia piana « velodròmo », « ippo-
dròmo », « autodròmo » eccetera è comune soprattutto al Nord;
«il velodròmo V!gorelli », « l'autodròmo di Monza»: a Milano
si sente pronunziare generalmente così. Ma si tratta, con buona
pace degli amici milanesi, di una pronunzia sbagliata che biso-
gnerà affrettarsi a correggere.
Il suffisso -dromo, che ripete il suffisso greco -dromos, « cam-
po di corse», è sempre àtono, non reca cioè accento, e tutti
i composti a cui dà luogo sono di conseguenza sdruccioli. Molti
composti moderni sono stati modellati sul greco hippddromos,
passato poi anche ai Latini, hippòdromus, che indicava il campo
di corse dei cavalli ( hippos, cavallo). Su questo modello si è
fatto aeroaromo, campo di partenza e di arrivo degli aerei (oggi

41
detto pill comunemente aeroporto); velodromo, composto di ve-
lo (cipede) e -dromo, campo di corse In bicicletta; autoèlromo,
composto con auto-, abbreviazione di automobile, campo di
corse per automobili; cinodromo, campo di corse per cani, com-
posto col greco kjon, kynos, cane. L'ultimo della serie è il co-
smodromo, Il campo donde partono per il loro viaggio nel cosmo
le navicelle spaziall.
Un curioso composto in -dromo mi fu qualche anno fa se-
gnalato da un amico meridionale: In una cittadina a sud di
Napoli avevano inaugurato un quagfioèlromo, cioè un campo di
dove si fanno sollevare in volo le quaglie per l'insana delizia
di certi cacciatori da poltrona. Non so se questo quagliòdromo
cl sia ancora e abbia addirittura dato l'esempio ad altri campi
del genere; ma anche dal punto di vista linguistico mi sembra
da respingere: le povere quaglie non vi faranno certo gare di
corsa, ma piuttosto gare di fuga , badando bene di non posarsi
nemmeno per un attimo sull'infido terreno.

Zàffiro o zaffiro?
Si deve pronunziare zaffìro, con l'accento sulla i. La parola ci
è giunta dal latino sapphirus, con la i lunga e quindi da pronun-
ziarsi tònica, adattamento del greco sdppheiros, che è derivato
dal semitico sappir. Come pronu nziavano la parola i nostri anti-
chi? Evidentemente con l'accento sulla penultima , a cominciare
da Dante: «Dolce color d'orientai zaffiro, Che s'accoglieva nel
sereno aspetto Del mezzo, puro insino al primo giro» (Purg.
I, 13-14 ): la rima parla chiaro. E se non bastasse, ecco ancora
Dante che nel canto XXIII del Paradiso (versi 97-105) rima
zaffiro con giro e desiro, e fa rimare la forma verbale inzaffìra
con le parole tira e lira . Qualche esempio di poeta moderno.
Ecco il Foscolo delle Grazie (Inno II, Vesta, Il, 281-82 ): «Luce
che, mista allo splendor del sole, Tinge gli aerei campi di zaffi-
ro». Ed ecco il Carducci (Canto dell'amore, V. 49 sgg. ): «Io
non so che si sia, ma di zaffiro Sento ch' ogni. pensiero oggi
mi splende, Sento per ogni vena irmi il sospiro Che fra ia terra
e Il ciel sale e discende''· Lasciamo dunque « zàffiro » ai cosid-
detti malparlantl.

42
Gli accenti ballerini della scienza
Spesso spesso, ed è cosa certamente lodevole e da incoraggiare,
la televisione ci fa ascoltare interviste con medici illustri, so-
prattutto nel corso di congressi a carattere internazionale e di
altissimo livello, come oggi si dice. Dato appunto il superiore
carattere di questi incontri televisivi, può sorprendere a volte
il modo come certi luminari italiani pronunziano molti termini
della loro scienza. C'è per esempio chi dice sclèrosi e chi scierò-
si, chi flogosi e chi flogosi, chi flemmone e chi flemmòne. La
domanda che si fa l'ascoltatore comune è certo questa: si deve
dire in un modo o si deve dire in quell'altro? sbaglia il professo-
rane di Milano o quello di Napoli? ed è possibile che commetta
un errore di questa fatta chi si ciba, diciamo, mattina e sera
di queste parole?
Chiariamo in breve come stanno le cose. La doppia pronun-
zia di queste voci, e di altre moltissime che sarebbe impossibile
elencare, non costituisce errore; essa è dovuta al fatto che
alcune di esse hanno una doppia origine, sono nate cioè greche
ma sono giunte a noi non direttamente da questa lingua si bene
attraverso il latino o attraverso una forma latinizzata; e nel pas-
saggio da una lingua all'altra l'accento si è modificato, non già
per capriccio o per ignoranza, ma per certe leggi fonetiche che
sono proprie dell'una e dell'altra lingua.
Prendiamo come esempio una delle voci piu comuni, necrosi:
c'è chi dice neèrosi e chi necrosi: la prima forma ripete la pro-
nunzia greca sdrucciola, nékrosis (che vuoi dir «morte»), la
seconda ripete la pronunzia latina necrosis, che era piana per
la natura della s!llaba centrale -ero, che era lunga. La stessa
cosa è accaduta per sclerosi: pronunzia sclerosi chi si attiene
11 greco sklérosis che vale « indurimento » ), ma pronunzia scle-
rosi chi ripete il latino scientifico sclerosis. Di errore, dunque,
non si può certo parlare, avendo entrambe le pronunzie un fon-
damento storico indiscutibile. Potremo Invece domandarci
quale delle due pronunzie sia da preferirsi. Senza dubbio, quella
latina, ché dal latino piu direttamente queste parole ci derivano;
ma a questa argomentazione logica contrasta ben ·spesso la
logica dell'uso, che esce per lo piu vittoriosa in queste faccende
di lingua. Cosi, per fare qualche altro e~mpio, accanto a forme
alla latina anchilosi, anamnesi, edema, flogosi, ecchimosi, .fle'm-
mone, catetere, colédoco, eccetera, si sentono forme alla greca

43
anchi7osi, andmnesi, édema, flogosi, ecchimosi, jlemmo'ne, catetè-
re, coledoco, eccetera.
Per alcune di queste voci l'uso sembra preferire l'accento lati-
no, per alcune altre l'accento greco. Si tratta, certo, di oscillazio-
ni che non giovano alla nostra lingua, del resto traboccante,
anche fuori del campo medico, di questi altalenamenti da capo-
giro. Un'uniformazione perciò non guasterebbe; e si potrebbe
anche facilmente ottenere nel corso di brevi anni sol che questi
insigni maestri, che oggi ripetono per abitudine quel che appre-
sero sui banchi universitari da altri maestri, prendessero la
saggia risoluzione di fissare una volta per tutte l'accentazione
dellà loro terminologia scientifica. Come han fatto tutte le altre
lingue, dove gli accenti son leggi e non opinioni.
Lo stesso discorso si potrebbe fare anche per moltL altri voca-
boli della scienza fuor del ristretto campo medico; ma sarebbe
un discorso troppo lungo. Voglio invece soffermarmi un mo-
mento su alcuni nomi propri di persona dell'antichità classica,
l quali si continuano a pronunziare ora alla greca e ora alla
latina. Per esempio, la differenza di pronunzia di alcuni nomi
propri in -eo di origine greca dipende dal fatto che in greco
avevano un accento, ed erano di regola piani, e in latino ne
assunsero un altro, ed erano di solito sdruccioli (ma in poesia
anche piani). Ora è accaduto che l'uso nel corso dei secoli per
alcuni nomi ha fissato la pronunzia piana, per altri la sdrucciola;
ma molte oscillazioni permangono ostinate. Cosi si sente dire
Tesèo (gr. Theséus) e Tèseo (lat. Theseus ), Persèo (gr. Per-
séus ), e Pèrseo (lat. Peì'seus ); Nerèo (gr. Neréus) e .Nèreo (lat.
Nèreus) e cosi via. Quale delle due pronunzie scegliere? Tutti
possono aver ragione; ma anche qui la pronunzia sdrucciola
latina è da preferirsi per la ragione che sopra s'è detta. È però
sempre da scartare la pronunzia «Odisseo» invece del corretto
Odissèo. l Greci dicevano Odysséus, ma l Latini usavano la
forma alterata Ulìxes, Ulisse. Lo sdrucciolo « Odìsseo », che a
volte si sente, è un'errata forma analogica derivata dal greco
Odjsseia, il poema omerico che narra le avventure di Odissèo,
cioè l'Odissèa.

L'accento dei cognomi


Mi viene spesso rivolta questa domanda: «Ma è possibile che
il cognome di uno dei nostri piu noti uomini politici, Mariano

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Rumor, non si debba sapere come si pronunzia correttamente?
Ed è possibile che gli stessi suoi colleghi non lo sappiano, dato
che alcuni dicono Ru'mor e altri Rumor? E non è strano che
lo stesso parlamentare non si prenda cura di chiarire una volta
per tutte come il suo cognome va accentato?».
Domanda non oziosa, perché le due accentazioni, effettiva-
mente si alternano dappertutto, fin nelle au le parlamentari, e
lo stesso Fanfani, uomo politico di buon ceppo toscano e parla-
tore di ottima pronunzia, l'ho udito un giorno dire Rùmor, con
l'accento sulla prima sillaba.
Bisogna dire Rumo·r, soltanto Rumdr (non credo che sia
esatta la pronunzia Rumdr, con la o chiusa, come registra il
dizionario di pronunzia della Ral, anche se chiusa s! pronunzia
la o della parola rumore).
Per la pronunzia del cognomi, è vero, non esistono leggi
grammaticali: si pronunzia Segdla e non Ségala, Trai"na e non
Trdina, Castano e non Castàno, Tripodi e non Tripodi; ma gli
accenti si potrebbero in qualche caso anche invertire, e fanno
perciò bene quelli che nei casi dubbi sul cognome scritto metto-
no sempre l'accento (è il caso di Segà/a, ma non è il caso,
per esempio, di Bettiza, giornalista di primo plano, che molti
pronunziano « Bettìza » invece del corretto Be'ttiza ).
Per tornare a Rumor, aggiungerò che una norma generale
della nostra lingua dice che le parole tronche In consonante
si pronunziano accentate sull'ultima sillaba; salvo particolari
eccezioni , anche i cognomi seguono la stessa regola; e infatti
diciamo correttamente Pintor, Ber/ingue'r, Pocdr, Provenzdl. In
particolare, i cognomi veneti tronchi, in genere di origine dialet-
tale, come quello appunto di Rumor, si pronunziano tutti con
l'accento sulla sillaba finale: Padovàn, Piovesdn, Beàn, Carrù,
Correr, Bragadi"n, Savorgndn , Bordin, Coi"n, Manùz, Moschin ,
Tojjanln, Tojjoldn, Bettiol, Pezzidl, Bordigndn, Formentdn, Visen-
tln o Visinti"n, e via per centinaia di esempi.

Sempre a proposito di cognomi e del loro modo di pronun-


. ziarli. La metropolitana milanese, linea l, ha, o aveva, un capo-
linea intitolato a Veronica Gambara, poetessa del Cinquecento.
Orbene, specialmente nei primi mesi d'esercizio, ci fu una ridda
frastornante di « Gambàra » annunziato dal funzionari di servi-
zio attraverso gli altoparlanti per avviare nella giusta direzione

45
l viaggiatori In attesa. Solo molto tardi, e certo per l'intervento
di qualche colto personaggio municipale, si senti la pronunzia
giusta, Gàmbara, con sorpresa del pubblico e del tranvierl. Tut-
tavia, ancor oggi la pronunzia « Gambàra » domina su quella
corretta, e, cosa che potrebbe stupire, soprattutto sulla bocca
di studenti con folte basette, calzoni strozzacosce o mlnlgonne,
voglio dire di età e di studi avanzati. Una volta, fin dal ginnasio
si sapeva che nel Cinquecento era fiorita una soave trìade poeti-
ca femminile formata da Vittoria Colonna, Veronlca Gàmbara
e Gàspara Stampa: poetesse d'amore che le ragazze soprattutto
dovrebbero conoscere e amare. La Gàmbara In particolare, nata
In quel di Brescia nel 1485 e morta nel 1550 a Correggio nell'E-
milia, scrisse liriche riboccanti d'amore per il marito Gilberto,
signore di Correggio, che la lasciò vedova a soli trentatré anni.
«Occhi lucenti e belli, ...Or poi che voi mia vita e morte siete,
Occhi felici, occhi beati e cari, Siate sempre sereni, allegri e
chiari. .. »: sono alcuni versi della Gàmbara, letti ad apertura di
libro. Altro che Gambàra!

Invece, se Dio vuole, sempre piu si diffonde la pronunzia


Nobe'f, che è quella corretta, soprattutto questa volta per merito
della radio e della televisione: «premio Nobèl » e non «premio
Nòbel ». Non si tratta, come alcuni hanno creduto, di una
nuova pronunzia alla francese, ma della corrente pronunzia
svedese. Nobel è la forma abbreviata del cognome Nobelius
(molti nomi nordici hanno questa terminazione che per noi
suona alla latina: Markellus, Afzellus, Reinlus, Sibelius, Stagne-
lius, ecc.), e diScende dal nome di un paese della Scànta, la
regione piu meridionale della Svezia, Nobbefov, dove la famiglia
dello scienziato ha avuto origine.
Altro cognome spesso strapazzato nella pronunzia dagli Ita-
liani è quello del Murger, l'autore delle Scènes de fa vie de bohè-
me. Tutti da noi pronunziano alla francese, « milrjé », ma in
Francia pronunziano « mUrjèer », pronunzia dovuta all'essersi
scambiato il cognome per un cognome tedesco, e accettata
dallo stesso scrittore, che la fece sua.
Anche il cognome del famoso Montaigne, al tempo In cui
egli visse (secolo XVI), si pronunziava « montàgn »; oggi si è
tornati alla pronunzia regolare, e l Francesi dicono« montègn ».
E veniamo al nostro Salgari. La domanda che molti mi pon-

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gono è questa: si pronunzia Sàlgarl o Salgàrl? Si deve pronun-
ziare Salgàri. Il cognome è veneto (ricordiamoci che il popolare
scrittore di romanzi d'avventure era veronese), e in Veneto i
salgàri, forma contratta di saligàri, sono i sàlici; e non sono
pochi i cognomi veneti derivati da nomi di piante (Brugnàro
da brugna, prugna; Peràro da pera, ecc.). Il romanziere che cl
affascinò per tanta parte della nostra giovinezza, e che ancora
affàscina tanti giovani non solo d'Italia ma anche dell'estero,
fu infelice anche In questo: per tutta la vita s'ebbe li cognome
alterato nella forma sdrucciola, la quale ancora si sente pur
dopo una fortunata trasmissione televisiva che ha sempre ripe-
tuto la pronunzia corretta. Il compianto scrittore d'avventure
Luigi Motta, ch'era suo stretto parente, e che collaborò con
lui in alcuni romanzi, mi diceva tutto il cruccio del povero Sal-
gari nel sentire il suo cognome alterato per tutta la penisola.
Cerchiamo di non insistere nell'errore, confortando almeno In
questo l'agitata ombra dei fantasioso creatore di Sandokan. la
tigre della Malesia, e dell'indomabile Corsaro Nero.

Anglicizzomanìa
In una trasmissione televisiva dedicata a Napoleone a Sant'Eie- ·
na mi sorprese la notizia di una battaglia di « uotelùu » dove
li generale era stato sonoramente battuto. Non mi parve là per
là di aver mal sentito parlare di quest'altra disfatta napoleonica;
ma presto ripresoml , m'avvenne di capire che si trattava della
solita sconfitta di Waterloo, soltanto pronunziata all' inglese.
Ora, che gl'Inglesi leggano il nome all' inglese mi par naturale;
ma il nome, si sa, non è Inglese, è di origine neerlandese o
olandese che dir si voglia, e la pronunzia originaria è « vàater-
loo ». Ma poiché il paese sorge nel Brabante, pochi chilometri
a sud di Bruxelles, esiste anche una pronunzia francese, « vater-
lò » con la o aperta. Pronunziare all'inglese il nome della famosa
battaglia (sarà giusto dire all'inglese,« uotl:!lùu », il nome dell'o-
monima città statunitense nell' Iowa » è dunque Irragionevole
non trattandosi come s'è detto di nome inglese, e secondaria-
mente essendo la pronunzia francese quella ininterrottamente
usata da noi dal giorno che il nome della battaglia è entrato
nel nostro linguaggio.
Ma non è finito. In un'altra trasmissione, dedicata questa alla

47
riduzione del Davide Copperjie/d di Dickens, il nome del prota-
gonista Davide, che dalla Bibbia in poi l'avevamo pronunziato
sempre cosi com'è scritto, eccolo diventare« dèivid »all'inglese,
e in un inglese tanto compiaciuto quanto mal pronunziato che
a volte neppur si capiva di che personaggio si parlasse. Anche
Davide non è nome inglese, è l'ebraico Dawrd, e cosi comune
tra noi che anche in una traduzione dall'inglese non c'è ragione
alcuna di anglicizzarlo.
Questa manìa di anglicizzare ogni cosa, anche nomi salda-
mente consolidatisi da secoli nel nostro linguaggio,può far sup-
porre, piu che una cultura linguistica, una moda grossolana,
una posa priva di gusto oltre che di logica, la quale oltre tutto,
suffragata a volte dall'ignoranza, può portare a effetti catastrofi-
cl; come quella volta che una deliziosa annunciatrice, sempre
televisiva, dovendo citare il nome di Martin Luther senior, pro-
nunziò « sìnior », scambiando .il latino per inglese. Qualcuno mi
giura che attraverso le vie dell'etere si è già sentito anche
« giunlor » invece di junior: ma non ne ho prova diretta, e
non Insisto.
Un amico, commentando con me questa« anglicizzomanìa »,
aggiunse: «Vedrai che presto sentiremo alla radio frasi come
·questa: Vinai, va ida i, vaisai: come disse Cesare»: si tratta del
famoso Veni, vidi, vici che Imparammo a scuola.

Contagio angloamericano
Mi scrisse un giorno un amico che nella sua lontana giovinezza'
gli avevano Insegnato a chiamar Florìda Io Stato della confede-
razione americana, e Canadd il grande Dominio a nord degli
USA; proprio cosi: Florida accentato sulla i e Canadà accentato
sull'ultima a. Voleva sapere da me come si spiegava la nuova
accentazione sdrucciola Flòrida e Cànada che aveva ormai sop-
plantato quella vecchia. Gli risposi che si spiegava appunto con
la sua «lontana giovinezza>>: volevo dire cioè che gl'Italiani
delle generazioni anteguerra pronunziavano e pronunziano
ancora Florida e Canadà, mentre quelli delle generazioni dopo-
guerra, cresciuti nel nuovo clima linguistico angloamericano,
dicono all'inglese F/o'rida e Cdnada. Che è poi, si badi bene,
un inglese per modo di dire.
Florida non è, come qualcuno potrebbe pensare, il femminile

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dell'aggettivo jldrido , ma è nome spagnolo, dato alla penisola
americana dal suo scopritore, Juan Ponce de Le6n , che vi ap-
prodò il giorno della domenica delle Palme del 1513, giorno
che gli Spagnoli chiamano Pascuajlorida, cioè« Pasqua fiorita»,
cosi detto per la benedizione dei rami fioriti in luogo del tradi-
zionali ramo d'ulivo o di palma. Rimasto spagnolo per tre seco-
li, quel territorio dopo varie vicende fu annesso agli Stati Uniti
nel 1819, e i nuovi padroni non gli cambiarono già il nome,
solo lo pronunziarono secondo le loro leggi fonetiche, trasfor-
mandolo in qualcosa che suona come « flòride». Ora se questa
pronunzia sdrucciola è legittima in bocca Inglese, legittima non
è in bocca italiana. Faremmo perciò cosa saggia a continuare
a pronunziar Florida, come pronunziano gli Spagnoli e tutti gli
Italiani ancora immuni da contagi angloamericani.
Quanto a Canada', la pronunzia tronca ripete quella francese,
ché tutto francese era In origine quel territorio, e anche oggi
gli abitanti di lingua francese sono milioni. Canadd continuano
a pronunziar gli Spagnoli , con tanto di accento acuto sull'ultima
a . Il nome deriva da canada o canata, nome dato alle loro « ca-
pan ne» dalle popolazioni indigene. Come avranno pronunziato ·
questo nome quei lontanissimi nativi? Non certo « kènede »
come dicono oggi, press'a poco, Americani e Inglesi. A mio
avviso, perciò, abbiamo fatto malissimo ad annullare dalla sera
alla mattina, per pedestre imitazione, una pronunzia tradiziona-
le di secoli, inventando un Cdnada che, come Flo'rida, non è
né carne né pesce.

Caràibi, Caraibi, Carìbi?


Oggi , nell' isola della Martinica, non ci sono piu i Caribi che
vi trovò Cristoforo Colombo il 15 giugno 1502, quando vi pose
per la prima volta piede nel corso del suo quarto viaggio . Di
grande intelligenza e ardire, bellicosissimi, l Caribi furono in
parte uccisi e in parte deportati in altre isole dai Francesi del
Richelieu che colonizzarono l'isola nel Seicento. Oggi l'isola di
Madinina (è questo il nome indigeno di questo piccolo paradiso
delle Antille; il nome francese Martinique, donde il nostro Mar-
tinica , non è che l' alterazione del primitivo nome carìbico ), è
abitata .in gran maggioranza da Negri importati dall'Africa come
schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero, e da mulatti.

49
Ma il nome di Caribico resta al gran mare che la bagna a occi-
dente, e resta, soprattutto, nella nostra fantasia che va a quelle
isole di sogno attraverso 1 ricordi delle Indimenticabili avventu-
re salgariane. Mare dei Caraibi: ma si deve leggere Caràibi o
Caraìbi?; ed è comune anche una terza forma: Canoi. Quale
delle tre forme è da usare?
Il nome originario etnico è Kalina o Kalinga, che pare signifi-
casse·« uomo forte, valoroso»; da Kalina discende una terza va-
riante, Kalibi, e una quarta Kaniba o Kanniba. Ma le alterazioni,
da questo momento, col flusso dei popoli che si alternavano
come padroni e corne schiavi in quelle isole ricche e prometten-
ti, non si fermano piu. Cosi, tanto per elencarne solo alcune,
abbiamo cariba, ga/ibi, carive, kariua, caraibe, carahiba, karaib,
karaiua, carayble. I Francesi dicono Carai'bes e pronunziano
« caraìb »; gli Olandesi dicono Karaiben e pronunziano « caraì-
ben »;gli Inglesi e gli Americani dicono Caribbees; gli Spagnoli
Carìbes. La pronunzia francese, indicata chiaramente dalla die-
resi, ripetuta anche dagli Olandesi, ci indica senza esitare che
anche la nostra pronunzia esatta deve essere Carmoi, con l'ac-
cento sulla prima i e non « Caràibi », come assai spesso si sente
dire. Ma anche a Caratai è, mi sembra, da preferirsi la forma
Canoi, assai piu vicina al nome etnico originario.
A questo punto c'è da fare una piccola aggiunta che potrà
interessare i miei lettori. Dalla variante Kanniba, che sopra ab-
biamo visto, è derivata la parola cannibale, con cui si indica
il mangiatore di carne umana, l'antropofago. E questo perché
lo stesso Colombo prima, e poi l numerosi colonizzatori che
lo seguirono, raccontarono di certi riti magici di questi Indi nei
quali era praticata appunto l'antropofagia; e si coniò il nobe ca-
nibal o cannibal, come equivalente di antropofago. Studi recenti
hanno però precisato la realtà di questa costumanza: i Caribi
non mangiavano carne umana per cibarsene, ma mangiavano
soltanto alcune parti dei nemici uccisi, scelti tra i piu coraggiosi.
per trarre da queste un nutrimento di coraggio e di eroismo.

C ecoslovàcchia
La nazione cecoslovacca è di costituzione relativamente recente
( 14 novembre 1918 ), e di conseguenza il suo nome, privo di
una tradizione storica, ha subito nella pronunzia l'influsso della

50
semplice analogia. Poiché i nomi geografici in -ia ora si pro-
nunziano con la i àtona e ora con la i tònica (/tàlia, Ungheria),
questo nuovo nome si pronunziò fin dal principio con le due
diverse accentazioni: Cecoslovàcchia e Cecoslovacchia. Sulla se-
conda pronunzia agi soprattutto la lingua francese che era,
almeno nel primo dopoguerra, la piu diffusa e la pill comune-
mente usata nei rapporti diplomatici e internazionali. SI doman-
derà: qual è la forma p!U corretta? Senza dubbio la tradizione
latina, e di conseguenza quella italiana, dà la preferenza alla
i àtona, corrispondente alla i breve della term inazione latina -ta
comune a molti nomi geografici: Italia, Germama, Gallta, Etru -
na: pronunzia regolarmente rispettata anche In nomi di forma-
zione piu recente, come lugoslàvia, Carbonia, Fertt1ia, ecc. La
terminazione accentata -tà risale in parte al greco e in particola-
re al greco bizantino come nel caso di Romamà, e pill spesso,
come s'è detto, al francese (per es. Algenà, da Algérie; Tunistà,
da Tunisie, ecc.). Durante la guerra itala--etiopica, si sentì
spesso su bocca italiana la pronunzia Etioptà, per influsso del
francese Ethiopie, e non già dell'antico greco Aithiopfa da cui
era derivato il latino Aethio'pia, e l'italiano Etiopia . Concluden-
do, ci sembra che la pronunzia da raccomandare sia senza ten-
tennamenti Cecos/ovàcchia .

Friùli e Nùoro
Bisogna pronunziare Friù/i e Nùoro. I bravi Friulani dicono
Friùl, rispettando l'origine latina del nome, che risale a Forum
fu'lii, l'antico nome dell'odierna Cividale, ch'era il centro fortifi-
cato del primitivo territorio di quella colonia romana. Che qual-
che antico scrittore abbia usato la forma sdrucciola, e si trovino
in antichi testi perfino le forme alterate di Frigo/i e Frìvoli, non
giustifica la ritrazione dell'accento, che deve considerarsi arbi-
traria. La pronunzia sdrucciola di Nu'oro, rispettatissima da tutti
1 veri Sardi, deriva dal nome medievale della città, Nugoro, ac-
centato sulla u.
II
Problemi di forma
«Ad altri » o « a altri »?
Due paro!~ sulla d eufonica nelle preposizioni a, e, o. SI deve
dire a altri o ad altri? e egli oppure ed egli? Potranno sembrare
sottigliezze, ma si tratta di sottigliezze davanti alle quali si
rimane a volte perplessi. D'altra parte, proprio da certe sotti-
gliezze nasce l'armonia o la disarmonia di una lingua. Il Manzo-
n! si torturò tutta la vita sulle sottigliezze linguistiche; e se il
suo romanzo è ancor oggi, In fatto di lingua, un modello di
armonia, si deve appunto a questa sua premurosa cura della
forma che si indugiava fin sulle minuzle piu sottili. Di conse-
guenza, anche la faccenda della cosiddetta d eufonica fu da lui
attentamente considerata. E la conclusione fu questa: che es-
sendo la lingua parlata piuttosto restìa all'uso delle forme eufo-
niche ad, ed, od, non c'era nessun motivo di semlnarle nella
lingua scritta, la quale poi, all'atto della lettura, si trasforma
essa pure in lingua parlata. Il Tagliavini, in un breve ma acuto
studio su questo argomento, ci ricorda che il Manzoni appunto,
nell'edizione definitiva dei Promessi sposi del I 840, eliminò
quasi tutti gli ad e gli ed dell'edizione del 1825; e cita numerosi
esempi , che mi permetto di ripetere qui, almeno In parte. Nel
cap. 1: ed. 1825: ed ilarità; e ad ogni; ed. 1840: e ilarità; e a
ogni; cap. Xl: andate ad aspettare; andate a aspettare; cap. XII:
a trovare o ad aspettare; a trovare o a aspettare; cap. XV: incli-
nato ad aiutarvi; inclinato a aiutarvi; e via di questo passo.Dove
si vede che neppure l'incontro di due vocali uguali, come a
a-, lo indusse a conservare quella d eufonica che le grammati-
che, in questo caso, solitamente raccomandano.
Esempi di scrittori contemporanei non è il caso di farne,
tanto è incostante la forma da essi seguita. Né potrebbe essere

55
diversamente; ché qui non è certo il caso di parlar di norme
grammaticali, ma soltanto di gusto, ed è quindi piu che naturale
che, scrivendo, ciascuno si regoli come meglio gli suona l'orec-
chio. Per mio conto, se un sistema dovessi suggerire, consiglie-
rei di non usar mai la d eufonica davanti a parola che com'inci
con vocale diversa da quella della preposizione (a educare, a
illustri, a osservare, a uscio a uscio, e altri, e oltre, o anche, o
uscire, ecc., meglio assai che ad educare, ad uscio, ed altri, od
uscire); e anche negli incontri di vocali uguali, suggerirei la
massima economia, come si fa appunto, nella lingua parlata.
II mio indimenticabile Dino Provenzàl, toscanissimo, diceva Fi-
renze e Empoli, non già ed Empoli; io marchigiano, vado a
Ancona e non ad Ancona; se cosi si parla, che ragione c'è di
scrivere diversamente? Salvo che nello stile solenne, elevato,
dove spesso le parole si scolpiscono, si sillabano addirittura, e
anche una d modesta può avere la sua suggestione oratoria;
e, naturalmente, nel verso, per ragion di misura.

-àgine o -àggine?
Può accadere a volte che qualcuno, soprattutto influenzato dal
proprio dialetto, venga a trovarsi in imbarazzo sull'uso del suf-
fisso -dgine o -dggine, in parole come farragine e lombaggine.
Due g o una sola g? Un Veneto sarà piuttosto portato alla g
semplice, un Meridionale alla g doppia. Ma esiste un semplice
pratico espediente - non si tratta di una vera e propria regola
- che tornerà opportuno nei momenti di imbarazzo nella scelta
dell'uno o dell'altro suffisso.
Ecco qua: si usa il suffisso -dggine, con due g, quando, to-
gliendo alla parola questo sùffisso, resta qualcosa che ha, anche
se in forma alterata, un suo proprio significato; si usa invece
-dgine, con una sola g, quando, tolto il suffisso, resta qualcosa
che non significa niente.
Primo caso: lombaggine, asinaggine, goffaggine, dimenticaggine,
scempiaggine, ~facciataggine, dappocaggine; togliamo il suffisso
e avremo: lombo, asino, goffo, dimentico, scempio, sfacciato, dqp-
poco, tutte parole, nomi o aggettivi, che hanno un loro significa-
to nella nostra lingua.
Secondo caso: indagine, voragine,jarragine, immagine, cartila-
gine, compagine; togliamo il suffisso e avremo un residuo

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sempre senza senso: inda-, vora-,jarra-, imma-, ecc. Dunque,
in questi casi, sempre -dgine con una sola g.
Probabilmente qualcuno mi obietterà: ma allora Cartagine
perché si scrive con una sola g, se levando il suffisso resta una
parola italianissima e completissima, carta? Rispondo: qui si
tratta di un nome proprio, e la carta non c'entra per nulla. Devo
tuttavia onestamente avvertire che eccezioni a questa regoletta
- chiamiamola pure cosi - non ne mancano: propaggine, per
esempio, solitamente si scrive con due g: però in antico si scri-
veva piu correttamente propagine; e certo, con uno spoglio si-
stematico del vocabolario, qualche altra eccezione s troverebbe.
Ma nella grandissima maggioranza dei casi la regola è valida,
e potrà essere rammentata con profitto.

La famosa h
Davvero stupisce che in tempi dissacratori e ribelli come questi
che andiamo vivendo, resista indisturbata e tranquilla, quasi
unanimemente rispettata, una lettera tra le piu umili del nostro
alfabeto, tanto umile e modesta che bene spesso neppure si
sente. Parlo della lettera h in principio di alcune forme del
verbo avere, dove appunto non si sente affatto, ma che tutti
continuiamo a usare scrupolosamente come la cosa piu indi-
spensabile del mondo: io ho, tu hai, egli ha, essi hanno.
Chi non ha studiato latino, si domanderà: «Che significa
questa h?». Chi il latino lo ha studiato può essere che si do-
mandi: «Che significa questo vecchiume?». Una breve chiac-
chieratina sull'argomento potrà mettere in pace gli uni
e gli altri.
Dico subito . che questa h davanti a certe prime forme del
verbo avere si discute da almeno cinquant'anni: c'è chi la
vuole, c'è chi non la vuole. Ma non è nata per caso o dal ca-
priccio di qualcuno. Essa non è che un'eredità delle forme
latine del verbo habere, « avére »: hdbeo, io ho, habes, tu hai,
habet, egli ha, habemus, noi abbiamo , habetis, voi avete, habent.
essi hanno, e cosi via per tutta ·]a coniugazione. In verità, in
antico, quella h iniziale accompagnava anche altre forme del
verbo !talana; cosi come accompagnava gelosamente anche
tutte le altre parole latine comincianti con h e trasferitesi nell'i-
taliano; si scriveva infatti huomo, dal latino homo, si scriveva

57
honore, latino honor, e hora, latino hora, honesto, latino hone-
stus, ecc.
La campagna contro la h iniziale cominciò verso gli ultimi
del Quattrocento, e divenne sempre plu Intensa dal Cinquecen-
to in poi, per opera di alcuni scrittori diciamo piu progressisti
i quali, essendo ormai scomparsa l'h in tante altre parole che
la avevano come Iniziale nel latino, pensarono di abolirla anche
In tutte le forme del verbo avere. Soltanto in quelle forme che
potevano risultare ambigue per la presenza nel nostro linguag-
gio di altre parole di ugual forma ma di diverso significato, si
cominciò a usare la vocale accentata In sostituzione dell'h ini-
ziale: io ò, tu ài, egli à, essi ànno. Questa riforma ebbe come
massimi sostenitori artisti dell'autorità del Manuzio.
All'abolizione dell'h davanti alle parole di origine latina, come
huomo, honore, hora, ecc., erano seguite reazioni vivacissime
da parte di altri non meno autorevoli scrittori. Famose sono
le parole dell'Ariosto, strenuo sostenitore dell'h etimologica:
«Chi leva la H all'huomo non si conosce h uomo, e chi la leva
all'honore, non è degno di honore. E s'Hercole la si vedesse
levata dal suo nome, ne farebbe vendetta contro chi levata
gliela avesse, col pestargli la testa colla mazza». A questo terri-
bile reazionario si affiancò un secolo dopo la stessa Crusca, ma
In forma conciliatrice: manteniamo, disse la Crusca, l'h solo
in quelle forme verbali che potrebbero generare equivoco con
altre parole di identica grafia ma di significato diverso: o vocale,
ai, preposizione articolata, a vocale, anno, giro di dodici mesi.
La Crusca fece testo, e tutti, grammatici e stampatorl, accolsero
unanlmemente il sistema. Si capisce però che anche questa
volta non mancarono l dissidenti. Il Magalotti, per esempio, e
piu tardi l' Algarotti (siamo cosi al Settecento) furono fautori
ostinati delle forme accentate. Venuto l'Ottocento la disputa
si riaccese vivacissima, specialmente tra il Fanfani e il Rigutlni
da una parte, fautori dell'h tradizionale, e il Petrocchl dall'altra,
sostenitore delle forme accentate. Tra l linguisti piu recenti i
fautori delle forme accentate, il compianto Angelico Prati.
A che punto è oggi la lotta? Oggi la lotta non può ancora
dirsi spenta, e aggiungerò che, se mai, essa pende a favore,
pensate un po', della mite h di latina memoria. Neppure gli
scrittori delle ultime leve le hanno dato l'ostracismo. Ma optò
sistematicamente per le forme ò, ài, à, ànno Bruno Cicognani,
imitato dal Landolfl, e in certi casi particolari, per evitare l'in-
.:ontro di due h, dal Montale («Con le giade ch'ài accerchiate
sul polso»). A scuola, ad abolir l'h non si pensa davvero. Che

'i8
concludere? Entrambe le forme son buone, e ciascuno si atten-
ga a quella che gli garba di piu. Io sono per l'h, lo vedete,
non già per una particolare simpatia, ma solo per inveterata
abitudine.

In Ispagna
Si deve dire un viaggio in Spagna o in !spagna? Si tratta della
i detta dai grammatici prostètica o protètica (da prostesi, greco
prdsthesis, aggiunta, o anche da pròtesi, greco prdthesis, colloca-
zione innanzi, premessa): una i che si aggiunge all'inizio di una
parola cominciante con s Impura quando questa parola si venga
a trovare dopo una parola che termina con una consonante:
cosi, invece di dire e scrivere in Spagna, con stupore, per scritto,
si preferisce dire o scrivere in !spagna , con istupore, per iscritto.
E questo allo scopo di addolcire l'incontro di tutte quelle conso-
nanti che renderebbero difficile e sgradevole la pronunzia. Il
fenomeno della i prostètica, oggi vivissimo solo in Toscana,
dove si dice comunemente «non istìa ad aspettarmi», «era in-
fagottato in !stracci», non è un fenomeno recente, o almeno
da attribuirsi ai lezi che si sogliano addebitare alla parlata tosca-
na e specialmente fiorentina, ma un fenomeno antichissimo,
non ignoto neppure al latino, dove si diceva iseo/a Invece di
scola, ispeculator invece di speculator, come si legge in alcune
antiche iscrizioni. E cosi, per tutti i secoli, dall'origine del
nostro linguaggio, questa i eufonica fu sempre costante, special-
mente nel parlato. Si cominciò a trascurarla solo nell'Ottocento,
esclusa come s'è detto la Toscana; ma certe espressioni, come
per iscritto, per istrada si incontrano un po' in ogni regione,
e non soltanto nel linguaggio c61to.
Oggi alcuni grammatici sconsigliano di usare la i prostètica
A me pare un errato consiglio: trattandosi di un accorgimento
fonico, lascerei che ciascuno si regolasse secondo il proprio
orecchio e il proprio gusto.

I prefissi che raddoppiano


I dizionari raccomandano di scrivere soprattutto con due t al
centro di parola, e non sopratutto, che pure è forma usata da

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noti scrittori. Cè una legge che regola queste cose? Natural-
mente una legge c'è, non si tratta di un capriccio. Esistono
nella nostra lingua certi prefissi di parole composte che richie-
dono normalmente il raddoppiamento della consonante sempli-
ce iniziale della seconda componente; uno di questi prefissi è
appunto sopra-, con la variante sovra-.
Questo sopra- era In origine sopra ad (latino supra ad) dive-
nuto per elisione soprad-; perciò sopraffare, per esempio, era
In effetto soprad-fare, soprannome era soprad-nome, sopracciglio
era soprad-cig!io, e cosi via. Con l'assimilazione della d finale
del prefisso alla consonante iniziale della parola seguente (di
questa assimilazione abbiamo diffusamente parlato nel capitolo
precedente), si è avuto il raddoppiamento della consonante, e
di qui le forme definitive sopraffare, soprannome e sopracciglio.
Nei composti antichi, giuntici per ininterrotta tradizione in una
sola determinata forma, il raddoppiamento è di regola rispettato;
nessuno infatti scriverebbe · oggi << soprafare >>, <<soprano me>>,
« sopraciglio ». Nelle parole piu recenti, Invece, dove il prefisso
non è piu sentito come soprad- ma come il semplice sopra-,
spesso spesso il raddoppiamentç> non si rispetta; e cosi si hanno
oscillazioni come sopratutto é soprattutto, sopracoperta e sopro.c-
coperta, sopranazionale e soprannazionale, sopratassa e soprattas-
sa, sopraluogo e sopra/luogo, sopravalutare e sopravvalutare, ecc.
Oscillazioni che andrebbero ragionevolmente, e una volta per
sempre, cancellate dal nostro lessico per quella coerenza foneti-
ca che una lingua organica come la nostra non può non tenere
in conto. Ecco perché l dizionari pll.l attenti raccomandano le
forme raddoppiate per tutti l composti di sopra- e di sovra-,
senza eccezione alcuna tra l'antico e Il moderno. Perciò sempre
soprattutto, sopraccoperta, soprannazionale, sopra/luogo, soprat-
tassa, sopravvalutare, e via dicendo. (Ma attenti a non cader
nella trappola, scrivendo, come certi scrivono, sopravvanzare,
con due v; questo verbo non nasce da un composto di sopra
con un Insussistente« vanzare », ma di sopra+ avanzare.

Contraddittore
Altro prefisso che richiede sempre il raddoppiamento è contra-
che risale a un lati no contra( d)-: la d finale del prefisso, per
la solita legge dell'assimllazione, diventa uguale alla consonante

60
iniziale della seconda componente, e di qui nasce il raddoppia-
mento: contrabbando, propriamente contrad-bando; contraccol-
po, propriamente contrad--co!po; contravveleno, propriamente
contrad- ve!eno, e cosi per tutti gli altri numerosi composti con
questo prefisso.
La stessa legge val.e per contraddittore, parola che vediamo
scritta anche contradittore, e perfino contradditore e contradito-
re. Lasciando quest'ultima forma alla dolce parlata veneta, che
come sapete non conosce le doppie, soffermiamoci sulle altre,
che non son poche.
L'unica forma corretta, è chiaro, non può essere che la prima,
contraddittore, con due d e con due t. Il raddoppiamento della
d è richiesto dal prefisso contra-; occorrono Inoltre due t perché
il gruppo latino et di dictor (il latino diceva infatti contradictor)
diventa pur esso per assimilazione tt (cosi come da factus si
è avuto fatto) . Ricordiamoci anche di scrivere sempre contrad-
dittorio e non « contraddltorio » o « contradittorio », contraddizio-
ne, e non « contradizione », tutti derivati del verbo contraddire,
e non «con tradire ».

Semmai, sennonché . ..
Sappiamo già, ma ripetiamolo pure ché non guasta, che esiste
nel nostro linguaggio un singolare fenomeno fonetico per il
quale certe consonanti iniziali di parola, quando in una frase
vengono a trovarsi dopo certe altre parole terminanti in vocale,
si rafforzano, si pronunziano cioè come se fossero doppie.
Questo fenomeno è infatti chiamato dai linguisti ra.fforzamPnto
o raddoppiamento sintattico. Cosi avviene che nella pronunzia
corretta frasi come a me, già fatto, se dici, se tu, se vuoi, diventa-
no a mmé, già !fatto, se ddici, se tlli, se vvuoi. Tra le parole
che rafforzano la consonante iniziale della parola che segue è,
con molti altri monosillabi uscenti in vocale, anche, come ab-
biamo visto, la congiunzione se, che discende dal latino tardo
sed, nato dall'incrocio di si, «se», con quid, «che cosa». Se
di questo fenomeno di rafforzamento si può non tener conto
nel parlato, dovremo Invece tener sempre conto nello scritto
tutte le volte, s'intende, che le due parole si fondono in una
parola sola. Perciò scriviamo sebbene, seppure, semmai, sennò,
e di conseguenza anche sennonché

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Forme unite e forme separate
C'è chi scrive soprattutto ma anche chi scrive sopra tutto, chi
scrive sennò e chi se no, e via per molti altri analoghi casi.
Dico subito che tanto le forme unite quanto quelle separate
sono correttissime; si potrà solo aggiungere che certe forme se-
parate vivono piuttosto nello stile letterario. Ma per queste con-
giunzioni composte, che sono numerosissime, sarà meglio dire
che l'uso è quanto mai oscillante, perché segue soltanto il gusto
di chi scrive; c'è chi preferisce semmai a se mai, chi sennò a
se no, chi sennonché, a se non che. Per se bene, e bene, or bene
può dirsi che l'uso, anche letterario, propende per le forme
unite, sebbene, ebbene, orbene. SI battono ancora ad armi pari
sopra tutto e soprattutto; ben che ha da tempo ceduto le armi
a benché; e pure sostiene bene il confronto con eppure, ma né
pure appare da tempo manierato, e trionfa neppure; e poi è piu
frequente di eppoi. Potrei continuare con molti altri esempi. Ma ·
un'avvertenza voglio fare, che vale per tutti: volendo usare le
forme unite, non si dimentichi mai, dove occorre, il raddoppia-
mento della consonante generato dall'assimilazione: semmai e
non « semai », sebbene e non « sebene », soprattutto e non «so-
pra tutto», e cosi via.

Enimma, tennica, arimmetica


Anche queste forme, e tante altre simili, peraltro comuni sola-
mente in Toscana, sono il risultato del fenomeno fonetico di
cui abbiamo piu volte parlato, l'assimilazione. Abbiamo già
visto numerosi esempi: petto è il latino pectus, sette è il latino
septem, ottico è l'aggettivo greco optikos, «visivo». Fenomeno
antico dunque, di cui chi non si dedica a studi di lingua non
ha il minimo sospetto. Ma il fenomeno continua anche nel lin-
guaggio dei nostri giorni, e forme come enimma invece di enig-
ma, tennica invece di tecnica, arimmetica invece di aritmetica,
domma invece di dogma e tante altre simili possono francamen -
te sorprendere, soprattutto, come sopra dicevo, fuori della To-
scana dove certi fenomeni linguistici sono piu tenaci. Ma tenaci
restano anche nei dialetti. Nei nostri classici si incontrano nu -
merosi casi di assimilazione della r finale dell'infinito apocopato
dei verbi alla consonante che segue: vede/lo per veder/o, trova/le

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per trovar/e, e simili: orbene, in numerosi dialetti Italiani lo
stesso fenomeno puntualmente si ripete: «E je coreva appresso
p'acchiappalla », dice un verso romanesco di Trilussa; e famo-
sissimo è poi questo del Giusti: «E non vogliam Tedeschi: arri-
vedella».
Nel resto d'Italia l'evoluzione fonetica è ancora arretrata, e
i gruppi consonantici originari, come cn, gm, tm, ecc. ancora
resistono, specialmente nel linguaggio colto.

Sicché, ma sempreché
Qualcuno mi ha domandato perché sarebbe errore scrivere
« semprecché » con la c raddoppiata, mentre sicché, altro
composto col medesimo che, deve scriversi correttamente
con due c.
Ora che conosciamo bene il fenomeno del rafforzamento sin-
tattico, la risposta sarà facile e chiara. Nel caso di sicché, e cosi
pure di cosicché, giacché, perocché, il raddoppiamento della con-
sonante c è dovuto al fatto che la prima componente è una
parola forte, cioè accentata: si, cosi, già, però. Per il fenomeno
appunto del rafforzamento sintattico, sappiamo che un mono-
sillabo o polisillabo accentato richiede di regola, nella corretta
pronunzia, il rafforzamento della consonante iniziale della
parola che segue, consonante che si pronunzia come se fosse
doppia. Le frasi, per esempio, «si, vengo», «già detto», «però
tu» si pronunziano correttamente «si vvengo », «già ddetto »,
«però ttu ». Naturalmente il raddoppiamento in queste frasi
non appare nella scrittura, ché le due parole rimangono distinte,
non formano parola unica; ma quando le due parole material-
mente si fondono in una parola sola, formano cioè una parola
composta, la consonante raddoppiata deve sempre apparire
nella scrittura. Altri casi analoghi sono, per esempio, neppure
( né+pure ), laddove ( là+dove ), piuttosto ( piu+tosto ), eccetera.
Ben diverso è Il caso di sempreché, dove la prima componen-
te, sempre, non è parola accentata. In questo caso nella pronun-
zia non esiste rafforzamento sintattico, e di conseguenza non
esiste nella scrittura il raddoppiamento della consonante. Ana-
logamente scriveremo ammenoché e fintantoché con una sola
c, essendo le due prime componenti anch'esse parole piane.

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Diciassette, ma ventisette
Mi vlen fatta una domanda che a tutta prima può sembrar futi-
le, ma non è: come mal si dice diciassette con la s raddoppiata,
ma si dice ventisette, trentasette, ecc. senza il raddoppiamento?
Anche qui la risposta è semplice: la doppia s di diciassette
è dovuta anch'essa al solito fenomeno fonetico dell'assimilazio-
ne. La parola diciassette, composta di dicia-, variante di dieci
nei numeri composti, e di sette, deriva dal latino decem ac sep-
tem, dieci e sette; caduta nel parlato popolare la congiunzione
ac, si cominciò a dire piu speditamente decem septem, pronun-
ziato in una parola sola « decemsèptem »; per la naturale assimi-
lazione della m di decem con las di septem, e con la successiva
assimilazione del gruppo pt di septem in tt, la parola si trasformò
in « decessèttem »,da cui il nostro diciassette.
Identico discorso potremo fare per diciannove diverso da ven-
tinove, trentanove ecc. che si scrivono con una sola n. Anche
. qui il latino decem ac novem si semplificò in decem novem, da
cui un« decennòvem »e il nostro definitivo diciannove . '
Detto tutto questo è chiaro che nei composti come ventisette,
trentasette, ventinove, trentanove e simili, dove la prima com-
ponente termina in vocale (venti , latino viginti, trenta, latino
triginta, ecc.) non ci può essere assimilazione e di conseguenza
neppure il raddoppiamento della consonante.

Dipiu, viepiu . ..
Volendo fare della locuzione avverbiale di pili ( che è la forma
piu comune) una parola sola, bisogna scrivere dipili, con una
sola p. E questo per la semplice ragione che la preposizione
di non vuole in nessun caso il rafforzamento sintattico e di
conseguenza il caddoppiamento della consonante scritta. Analo-
gamente scriveremo digià e non « diggià » (ma piu comune di
già), difatti e non « diffatti » (meno comune di farti), didietro
e non « diddietro » (ma anche di dietro), dipoi o di poi, ma non
« dippoi », disopra e disotto, o di sopra e di sotto, ma non « disso-
pra >> e « dissotto ».
Uguale errore molti commettono con l'avverbio composto
viepili (anche scisso vie pili) che assai spesso vediamo scritto
vieppili. Anche questo vie, infatti, antica alterazione di via usata

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come rafforzativo del comparativi, non richiede mal il raddop-
piamento della consonante iniziale. Analogamente scriveremo
viepeggio (o vie peggio) e viemegfio (o vie meglio), e non « viep-
peggio » e « viemmeglio »: ma qui l'errore è piu raro data l'ormai
vieta pedanteria di queste due espressioni.

La tentazione delle analogìe


In un bel libretto che raccoglie numerose lettere del Pascoli
agli amici lucchesi, ce n'è una diretta all'amico del cuore, il
famoso Cas.elli, dove trovo questa frase, con allusione all'edito-
re Giusti di Livorno: «lo sono molto ossequiente, officioso con
lui...». Quell'ossequiente non può esser del Pascoli; questo li-
bretto è stato pubblicato postumo solo pochi anni fa, e il Pascoli
non ne ha visto certo le bozze. Non può esser del Pascoli
perché ossequiente è un brutto errore, dovendosi dire ossequen-
te. Possono dormicchiar tutti, siamo d'accordo, anche 1 grandi
poeti; ma non In queste cose.
Ossequente discende dal latino obsequentem, accusativo di òb-
sequens, obsequéntis participio presente del verbo o'bsequi, ubbi-
dire, accondiscendere . Quella i di troppo è naturalmente dovuta
alla i di ossequio (in latino obséquium) e all'analogia di molti
participi In -iente, come veniente, jiniente, saliente , ecc. Errori
dovuti a false attrazioni analogiche nella nostra lingua non sono
pochi. Ricordo una diminuizione invece del corretto diminuzione
(latino deminùrio, -ònis) che regnO per. qualche tempo alla TV
(ma poi fu in verità subito corretta) anche qui per l'Intrusione
della i di diminuire.
Errori frequentissimi sono anche, per esempio , gli astratti e/e-
mentarietà e complementarietà che stanno addiritttura sommer-
gendo le uniche forme corrette elementarità e complementarita'.
Ho infatti finito proprio ora di leggere un articolo di Illustre
firma, anche se non proprio illustre come quella del Pascoli,
dove si parla di «uguaglianza e complementarietà ecc. ». Qui
l'errore è dovuto all'analogia con forme del tipo contrarietd,
varietà e simili. Ma si tratta di due termlnazioni diverse . Contra-
rierà e varietà risalgono a una forma aggettivale in -aria: contra-
rio e vario; mentre elementarità e complementarità risalgono a
una forma aggettivale In -are: elementare e complementare;
ecco perché regolaritd e particolarità, da regolare e particolare,

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non potrebbero mal mutarsi In « regolarletà » e «particolari età»
senza far sorridere anche l piu ignoranti.

«Efficiente» ma« soddisfacente»


Qualcuno potrebbe domandarsi perché, per esempio, l'aggettivo
efficiente deve correttamente scriversi cosi, con la prima i della
terminazione -ente, (e certi dizionari esplicitamente avvertono:
«meno bene efficente » ), mentre il participio presente del verbo
soddisfare, soddisfacente, nessuno si sognerebbe di scriverlo
« soddisfaciente ». E si che la pronunzia è in ultimo la stessa,
quella i non si fa nella corretta pronunzia- sentire ( 1 Me-
ridionali però la pronunziano nettissima), e si potrebbe in ogni
caso abolire.
Il ragionamento fila; ma la verità è che qui Influisce la tradi-
zione, l'origine latina di certe parole si manifesta tenace anche
nella scrittura. L'aggettivo efficiente, cosi come anche sufficien-
te, insufjìciente e deficiente, tutti scritti con la i, sono è vero
derivati anch'essi dal verbo latino fa cere, «fare», sia pure nella
variante compositiva -fiéere, ma sono aggettivi dotti, meno io-
goratl dall'uso popolare, e ripetono esattamente la forma origi-
naria latina: efficiens, sufficiens, insufficiens, defiCiens. Gli altri
aggettivi come soddisfacente, confacente, stupefacente e simili,
sono invece propriamente participi presenti di composti di fare,
che nel participio presente si scrive facente, senza la i (rarissima
e antica la formafaciente ). Particolare è poi il caso di beneficen-
te, sempre scritto senza la i, perché è tratto dall'Italiano benefi-
cenza, In latino benefice'ntia.

«Aeroplano» o« aereoplano »?
Bisogna scrivere aeroplano. Il prefisso dero-, primo elemento
di numerosissime parole composte, ripete il latino der, deris,
che significa «aria». Il sostantivo piu comunemente usato, un
aèreo, non è, come qualcuno crede, l'abbreviazione di aeropla-
no, ma la forma sostantivata dell'aggettivo a èreo (latino aèreus,
è l'abbreviazione cioè della frase «apparecchio, o veicolo, aè-
reo ». II termine aeroplano ci è venuto direttamente dal francese
aéroplane (che l'aveva preso a sua volta dall'inglese aeroplane)

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ed è composto dal prefisso aéro-, aria, e di piane, che è dal
verbo p/aner, librarsi, donde anche Il nostro planare, che risale
al latino p/anus, piano, piatto, disteso: detto propriamente degli
uccelli che in questo speciale modo di volare non agitano le
ali ma le tengono piane, cioè «alzate e ferme» come dice
Dante. Dallo stesso nostro prefisso àero- abbiamo, come ho
detto, infiniti altri composti: aeronautica, aeroporto, aeromobile,
aeromodello eccetera; e sarebbe anche qui errore scrivere « aere-
onautica », «aereo porto» e cosf via.
Ma ancora un altro errore bisogna evitare: la forma areoplano,
che trasforma abusivamente il prefisso àero- in areo-, e
che sempre piu si diffonde purtroppo attraverso la pronunzia
popolare.

« Chi sa >> o « chissà »?


Scrivere chissà invece di chi sa era In passato maniera general -
mente disapprovata dai grammatici e mai usata dai migliori
scrittori di una volta. Anche il Panzini, nel suo dizionario, dice
che «questo attaccare le parole insieme non è conforme alla
nostra lingua: è meglio evitare». Ferdinando Martin i, scrivendo
a un noto e caro scrittore, per di plu toscano, Dlrio Provenzàl ,
gli chiese in certa occasione: «Mi dica perché anche lei scrive
chissà tutt'attaccato, e di un pronome e di un verbo fa una
parola che non si sa a quale delle parti del discorso apparten-
ga». E il Provenzàl replicò: « Lei mi domanda che cos'è in
grammatica chissà; è una interiezione. È vero che è formata
da un pronome e da un verbo, ma non importa; è una interie-
zione anche ahimè, che è formata da un grido e da un prono~
me». In realtà si tratta di una locuzione avverbiale, che nella
forma unita ripete esattamente la pronunzia corretta toscana,
col suo bravo raddoppiamento sintattico della s dopo il chi e
l'accentazione finale come di parola tronca. È una forma intro-
dotta nell'uso letterario credo soltanto verso la fine del secolo
scorso (ne trovo esempi nel M astro don Gesualdo del Verga,
ch'è del 1889); mai la usarono gli antichi, mai la usò il Manzo-
n!, mal la usò lo stesso Carducci che, da buon toscano, la forma
unita e rafforzata l'avrà avuta sovente sulla bocca. Oggi come
oggi, questo chissà lo troviamo in moltissimi scrittori, anche
non toscani, e le grammatiche han finito con l'accettarlo. Raris-

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simo è invece, ed è bene che tale rimanga, nei composti con
che, con chi, con dove, con come , ecc.: chissacché, chissacchf,
chissaddove, chissaccome, chissammai: scriviamo sempre chi sa
che, chi sa dove, ecc., anche se, pronunziando correttamente,
i rafforzamenti li faremo sentire.

«Con lo» o« collo»?


La risposta che si può dare è questa: entrambe le forme sono
corrette, e si trovano infatti registrate in tutte le grammatiche;
come si trovano registrate anche le altre combinazioni di questi;!
preposizio ne con l'articolo: con le e coffe, con gli e cogli. Negli
antichi classici, e anche, del resto, presso moderni scrittori, le
due forme si ritrovano con una certa frequenza. Quindi, non
c'è da temere; nell'una o nell'altra maniera, non si sbaglia. Però,
è meglio usare la forma scempia, la forma staccata; dire, cioè,
con lo, con fa, con le, con gli. E questo perché le forme unite
risultano parolette uguali ad altre parolette di significato assai
diverso: collo, parte del corpo che unisce il capo al busto; colla,
sostanza che serve per appiccicare; colle, piccola altura; cogli,
infine, è una voce del verbo cdgliere ... Vero è che a esser sottili,
ci sarebbe da obiettare che mentre i sostantivi collo, colla, colle
e il verbo cogli, se pronunziati a dovere, hanno tanto di d aperta,
mentre le preposizioni articolate, chi sa ben parlare, le pronun-
zia con la o chiusa: cd/lo, cd/la, edile, cdgli; ma quanti rispettano
questa pronunzia? E ve lo immaginate, poi , un periodo scritto,
e letto male, cosi: « Attàccalo colla colla»? Ecco perché, in defi-
nitiva, quelle stesse grammatiche che registrano l' una e l'altra
forma di preposizione articolata, finiscono poi col raccomandare
la forma staccata in ogni caso.

Coltura e cultura
Si leggano questi esempi di autori classici: «Vide terra nel
mezzo del pantano Sanza coltura, e d'abitanti nuda» (Dante);
ma il Boccaccio: «Alla bella cultura Delli orti suoi sollecita si
move ». Tra 1 moderni: «La cultura dei costumi e delle menti»
( Leopardi); ma il De Sanctis: «La coltura scampagnata da un
elevato senso morale è peggior male che l'ignoranza» (ch'è un

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bell'esempio anche fuor del nostro argomento). Ancora: «Non
hanno questi alberi bisogno di cultura alcuna» ( Redi ); «Moli è-
re contribui forse piU d'ogni altro alla coltura del suo paese»
(Baretti). Dai quali esempi si deduce che i due termini, coltura
e cultura, si sono usati fino a tutto il secolo scorso indifferente-
mente nei due significati: in quello proprio di coltivazione, e
in quello traslato di istruzione. L'origine, si capisce, è una sola:
il latino cultura, derivato da cultus, participio passato di còlere,
coltivare; anche Cicerone diceva cultura vitis e cultura animi.
Il Tommaseo non faceva distinzione tra i due termini: «coltura
e cultura, e dei terreni e della mente e del cuore». Uno dei
primi , se non il primo, a proporre la specializzazione dei due
termini fu il Fanfani, nel suo Vocabolario de' sinonimi: « Doven-
do porre un divario tra le due voci (coltura e cultura), potrebbe
dirsi che la prima si riserba a significare quella de' campi, de'
fiori; e la seconda quella metaforica dell'ingegno ... ». Eravamo
verso l'ultimo decennio del secolo scorso; ma non furono molti
a curarsi della distinzione. Oggi no, oggi quasi tutti questa tradi-
zione la rispettano: cultura, detto dell' intelletto, coltura , detto
dei campi.

Danaro o denaro?
Entrambe le forme sono usatissime e correttissime. Se però
volessimo attenerci alla stretta forma etimologica, dovremmo
preferire la forma denaro. La parola infatti deriva dal latino de-
ndrius, moneta che valeva in origine dieci assi, e discende dal
numerale deni, che valeva« a dieci a dieci».

Dozzena, magazzeno
La forma regolare è dozzina, ormai comune a tutte le regioni
d' Italia. Vive tuttavia ancora In qualche dialetto, soprattutto
settentrionale, la forma dozzena , che mantiene la pronunzia
della parola da cui discende, il francese douzaine, da douze, do-
dici. La forma In -ina è nata per analogia con dodicina, decina,
ventina, e simili. Un fenomeno analogo si è avuto anche per
la parola magazzino, che in certe parlate settentrionali suona
bene spesso magazzeno. Ma anche qui la forma corretta è la
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prima, derivando la parola dall'arabo makhazin plurale di makh-
zan, deposito. Dall'italiano l Francesi fecero il loro magasin, di-
latando il significato da semplice luogo di deposito per merci
anche a quello di luogo dove si vendono merci a minuto: «l
grandi magazzini», che son poi l nostri emporii; «magazzino
di mode», «magazzino di vini>>, che sono le nostre botteghe,
l nostri negozi. La variante magazzeno, ripete la pronunzia fran-
cese, e non è da seguire ..

Eclisse o eclissi?
Eclissi è parola dalle molte forme, e anche di entrambi 1 generi,
ma il maschile è raro, mentre oggi si usa normalmente il fem-
minile: la eclissi. Se si apre un buon dizionario si vedranno regi-
strate: eclissi ed eclisse, ecc/issi ed ecclisse; solo che le prime due
forme si alternano nell'uso moderno e sono da considerarsi en-
trambe corrette, mentre le altre due forme sono d'uso antico
o tutt'al piu popolare. La parola è di origine greca, ékleipsis,
propriamente «abbandono, mancanza», da ekléipo, manco,
vengo meno (con allusione al venir meno del disco solare o
lunare, al loro temporaneo scomparire). Dal greco si originò
il latino ecli'psis, e di qui una forma Italiana regolare in -e, eclisse
(come nave da navis e fine da finis ), accanto alla quale si affer-
mò tuttavia una forma dotta rispettosa della finale i del latino,
eclissi (la stessa alternanza di finale ritroviamo per esempio in
ellissi, ellisse). Quale delle due forme è oggi la pili comune?
Difficile rispondere con sicurezza: bisognerebbe fare un attento
spoglio di molti libri scientifici e interrogare in proposito astro-
nomi e scienziati; ma penso che eclissi sia la preferita. In Dante
troviamo costantemente eclissi, ed eclissi anche nel Boccaccio;
ma eclissi accanto a eclisse nel Caro. Galilei, secondo gli esempi
che ho sott'occhio, scrisse ora eclissi e ora eclisse: ma bisogne-
rebbe fare un attento riscontro sugli autografi per esserne certi.
Lo stesso Galilei, poi, usò anche la forma rafforzata ecc/issi,
dovuta alla pronunzia toscana. Circa il genere, non ·ci sono
dubbi: femminile In greco e In latino, tale è bene che resti;
1 pochi e:.empl antichi col maschile non possono far legge.

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Essiccare
Mi sembra che sempre ph.'i s'Incontri una forma essicare con
una sola c che è chiaramente sbagliata. Cosi anche ho veduto
un essicatoio invece di un essiccatoio, e un'essicazione invece
di una corretta essiccazione.
Il verbo discende dal latino exsiccare, composto dell'aggettivo
siccus, donde il nostro secco, che tutti scriviamo senza eccezione
con due c, e non« seco »con una c sola. Dunque, sempre essic-
care, io essicco, tu essicchi, essiccante, essiccato .
Un altro composto dell'aggettivo secco è il verbo disseccare,
anche questo da scriversi dunque sempre con la doppia c. E
qui l'errata scrittura cambierebbe addirittura senso alla parola.
Il verbo dissecare, con una sola c, esiste infatti in italiano ma
significa tutt'altra cosa: tagliare, recidere, ed è proprio del lin-
guaggio anatomico: «dissecare un cadavere per ragioni di stu-
dio», «dissecare un muscolo)). Non deriva dall'aggettivo secco,
ma dal verbo latino dissecare, composto del prefisso separativo
dis- e del verbo secare, segare, tagliare.

Familiare, filiale
Un'altra delle tante Incertezze ortografiche della nostra lingua
sono le doppie forme comefamiliare,filiale e simili che si alter-
nano confamigliare efigliale. Qual è la forma preferibile?
Sono entrambe forme corrette, e hanno larghissimi esempi,
l'una e l'altra, fin dai secoli plu lontani. Il fatto è che questi
aggettivi sono di formazione dotta, creati cioè dai letterati, dagli
scrittori in un momento di necessità, e non maturati per evolu-
zione naturale attraverso il linguaggio popolare. Esistevano in
origine, nei primi secoli della nostra lingua, le parole famiglia
e figlio, in latino familia e filius, ma non esistevano ancora gli
aggettivi corrispondenti. E allora si ricorse al latino, che aveva
familiaris e filialis, italianizzandoli pari pari in familiare e filia le.
Poi avvenne che questi aggettivi cominciarono a uscire dal
campo strettamente letterario, e si alterarono via via nell'uso
popolare per la grande somiglianza col sostantivi originari: e
cosi, mentre i dotti continuavano a scrivere familiare, il popolo
cominciò a dir famigliare, e le due forme convissero, e ancora
convivono, senza mai escludersi a vicenda. È l'uso popolare,

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dunque, quello che alla fine foggia i vocaboli e costruisce una
lingua. Tanto vero che famigliare, ormai dì uso comunissimo,
tende a soppiantare sempre piu la forma dotta familiare, cui
restano fedeli solo gli scrittori piu attaccati alla tradizione lette-
raria e, genericamente, le persone di cultura umanistlca. Resiste
invece di piu filiale, e ancor piu filiazione e filialmente, che il
popolo normalmente non usa; come resistono meglio le forme
familiaritd, familiarizzarsi, familiarmente, ancora piuttosto ri-
-strette al linguaggio c6lto. Verrà un giorno, certamente, che le
forme c6lte soccomberanno, e si fregeranno, nei dizionari, della
crocetta delle parole arcaiche. Per ora, perdurando la lotta, cia-
scuno parteggi per la forma che piu gli aggrada.
Ma attenti alla parola filiale; come aggettivo, ho detto, anche
figliale, sebbene assai meno comune di filiale; ma come sostan-
tivo femminile, per indicare un'azienda dipendente da un'altra,
bisogna usare sempre la forma filiale: «La filiale della ditta».

Fradicio o fracido?
La formafradicio è quella oggi generalmente usata un po' dap-
pertutto, Toscana compresa; però la forma originaria è fracido,
e cosi scrissero i nostri grandi classici per alcuni secoli. «Con
panni tutti stracciati e fracidi » si legge in Boccaccio. Il latino
diceva infatti frdcidus, da fra ce're, decomporsi, e questo da fra-
ces, che sarebbe la pasta melmosa che resta dalla torchiatura
de li e olive, cioè la sansa. Nell'uso popolare meridionale fracido
è forma comunissima anche tra le persone colte. L'alterazione
è dovuta a quel fenomeno linguistico che i grammatici catalo-
gano sotto il nome di metàtesi: cioè trasposizione di una o piu
lettere nel corpo di una parola. Fenomeno tutt'altro che raro.
Sudicio, per esempio, una volta era sucido, dal latino slicidus,
propriamente «unto», da sucus, sugo . «Su per le sucide onde»
dice Dante parlando delle fangose acque dello Stige. Altre me-
tàtesi: spegnere e spengere, la seconda forma ben viva in Tosca-
na (da expingere, propriamente «scolorire»); e ancora le forme
regionali o addirittura dialettali drento per dentro , padule per
palude, stroppio per storpio, ecc .. Per interpetrare, variante di
interpretare nata per lo stesso fenomeno, vedi qui appresso.

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«Glielo» o« glie lo»?
Per lo piu le grammatiche continuano a insegnare che il prono-
me personale gli seguito dai pronomi lo, la, li, le, ne, si fonde
con questi in un'unica parola, variando la forma in glie: e abbia-
mo cosi glielo, gliela, glieli, gliele, gliene. Però le stesse gramma-
tiche insegnano anche che i pronomi mi, ti, si, ci, vi, seguiti
dagli stessi pronomi lo, la, ecc., mutandosi in me, te, se, ce,
ve, formano i pronomi composti me lo, te ne, se li, ce la, ve
le, ecc., sempre scritti cosi, coi due termini ben distinti. Ora
si capisce che questa differenza di trattamento non può avere
nessuna giustificazione né logica né grafica, e pertanto non
pochi scrittori scrivono staccato anche glie lo, glie ne, glie li,
ecc. Se avessi tempo, potrei elencare numerosi esempi di queste
forme scisse. Ricorro a quei pochi esempi che ho sottomano:
Panzini: «Glie ne scrissero e dissero d'ogni colore»; Baldi n!:
«Glie le avresti potute recare »;« Glie lo vidi dare »; Bontempel-
li: «tese la mano, e Madina glie la strinse ridendo»; Cecchi:
«Temendo che glie ne derivi un'aria di non gradita novità»;
Tozzi: «Perché glie lo riempissero di vino».
Amerindo Camilli, nel suo prezioso trattatello Pronuncia e
grafia dell'italiano, dice esplicitamente che «la grafia da consi-
gliare è glie lo, glie ne, ecc., che si conforma a me lo , te ne,
ecc.»; e aggiunge: «Glielo, gliene sono due eccezioni ingiustifi-
cate ». Sono anch' io di questo parere, e alle forme staccate, per
mio conto, mi attengo pur ammettendo che le forme unite sono
ancora le pill comunemente usate . S'intende che quando questi
pronomi composti hanno funziÒne di suffisso di una forma ver-
bale non potranno scriversi che in una parola sola: dirglielo,
fargliene, ecc., come del resto accade anche per dirtelo e farme-
lo. E anche in poesia la fusione è necessaria quando codesti
pronomi sono usati tronchi, divenendo monosillabi : glie/ dissi,
glien diedi , cosi come si scrive men vado, sen venne. Le eccezio-
ni alla regola confondono sempre le idee; ecco dunque un'altra
delle tante eccezioni della nostra grammatica che sarebbe op-
portuno una volta per sempre eliminare.

Giungla o jungla?
Si deve dire giungla, unico adattamento logico della voce Inglese
)ungle. Questa deriva dall'indostano)angal (nome dato in quelle

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regioni alle sterminate lande steppose, a volte intrlcatlssime e
infestate da animali d'ogni genere), e fu foggiata in quel modo
per imitar da vicino la voce indigena; gli Inglesi infatti pronun-
ziano press'a poco « giàngl ». Se noi diciamo jungla creiamo
un pasticcetto che non è inglese e neppure imita la pronunzia
indiana.

Interpretare o interpetrare?
Entrambe le forme sono corrette, e abbondano gli esempi,
anche classici, con l'una forma e l'altra; cosi sarà anche lecito
usare tanto interprete quanto interpetre, Il sostantivo cioè da
cui Il verb'o deriva. È indubbio tuttavia che le forme interprete
e interpretare sono da preferirsi. Il latino classico diceva infatti
intèrpres, interpretis, e interpretari; la seconda forma segue
Invece un latino popolare intèrpres , inte'rpetris, e interpetrari, che
non si trova nei classici.
Non sono rari nella nostra lingua scambi di questo genere,
come abbiamo appena visto parlando di fradicio e di fracido
e della cosiddetta metàtesi. In Toscana prevale la seconda
forma di derivazione popolare, tanto vero che il toscanissimo
Petrocchi, nel suo dizionario, registra la voce sotto interpetrare,
registrando Invece interpretare come semplice rimando; e cosi
per interpetree per tutti i derivati.

Intravedere
Questo verbo si vede scritto ora con una sola v, ora con due:
«Non riuscii a intravederlo », «L'ho appena intravvisto ». Qual
è la forma corretta? Sempre e soltanto intravedere, con una sola
v. Lo so, l'errore è comunissimo, dovuto certo all'influenza del
verbo avvedersi, e vi battono Il naso anche i cosiddetti .buoni
scrittori. Molti prefissi, è vero, richiedono il raddoppiamento,
comefra, sopra, contra, ecc. e abbiamo infatti frapporre, sopras-
sedere, contraddire, ecc. Ma intra è proprio un di quei prefissi
che non vogliono il raddoppiamento; quindi, sempre intramez-
zare, intramettère, intraprendere e di conseguenza anche intra-
vedere, intravisto . Non è eccezione intravvenire, come potrebbe
a tutta prima sembrare, perché il verbo non è un composto

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di in tra e venire ma di intra e avvenire; e non è neppure eccezio-
ne imrattenere, che è composto non già di intra e tenere ma
di in e trattenere.

« Invece », « in vece »
Forme entrambe corrette; ma nell'uso, poi, si fa di solito una
distinzione. Quando l'avverbio invece si usa col significato di
«al contrario», «all'opposto», si scrive tutt'attaccato: «Pareva
un galantuomo, e invece era un imbroglione»;« Voi partite, noi
invece restiamo». Quando è seguito dalla preposizione di, e
assume il significato di «In luogo di», «al posto di>> e simili,
molti preferiscono scindere le due componenti: «Sono corso io
in vece di mio fratello», «Eccoti questo libro in vece di quello>>.
Ma si tratta, si badi, di semplice preferenza, ché anche a scrive-
re «invece di mio fratello» non si farebbe errore. Useremo però
sempre la forma staccata in vece davanti agli aggettivi possessi-
vi: «E venuto mio fratello in vece mia», «Parlarono loro in
vece nostra>> (e anzi l'aggettivo si usa meglio inserirlo, e dire
« In mia vece», «In nostra vece>>).

lpòcrita e ipòcrito?
Bisogna vedere di che ipocrita si tratta. La lingua italiana, infatti
registra due forme, ipocrita e ipocrita , entrambe corrette. La
forma singolare ipocrita, che vale tanto per il maschile quanto
per il femminile (un ipocrita, una ipocrita), e che fa nel plurale
ipocriti per il maschile e ipocrite per il femminile, ha valore di
sostantivo: «È un Ipocrita», «Siete tante ipocrite>>. La forma
ipocrita, invece, si usa ormai regolarmente solo come aggettivo
maschile, e ha quindi la forma singolare femminile ipocrita, il
plurale maschile ipocriti, e il femminile ipocrite: «zelo ipocrita»,
«carità Ipocrita», «discorsi Ipocriti», «chiacchiere ipocrite».
Con questo non si vuoi dire che la forma ipocrita non si possa
usare anche In funzione di aggettivo maschile, ma meglio
posposto al nome. Potremo cioè benissimo dire, per esempio,
«discorso ipocrita», «giudizio ipocrita», ma non diremo «un
Ipocrita discorso», «un ipocrita giudizio>>, (ma nel Giorno del
Parini leggiamo «l'ipocrita pudore>>). Aggiungerò, Infine, che

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la forma ipocrita si usava In antico anche come sostantivo: «un
lpocrito maligno», «un grande ipocrito »; ma ne trovo un esem-
pio nel Mulino del Po di Bacchelli: «l'ipocrita tristo».

Irruente
Bisogna dire una folla irruenta o una folla irruente? parlava
con tono irruento o con tono irruente? Bisogna dire folla irruen-
te, tono irruente, per la semplice ragione che un maschile singo-
lare « irruento » e un femminile « irruenta », coi rispettivi plurali
«Irruenti» e «Irruente>>, in buona lingua italiana non esistòno.
Esiste solo la forma irruente, unica per il maschile e il femmini-
le, e di conseguenza un solo plurale, irruenti. Perciò: «tono Ir-
ruente», «folla irruente>>, «toni irruenti», «folle irruenti».
Perché una sola forma? Perché irruente altro non è che la forma
aggettivata dl un participio presente modellato sul latino ìrruens,
irruèntis, derivato da irrùere, correre contro, irrompere. È
dunque un comune aggettivo da un participio presente come,
ad esempio, corrente che nessuno penserebbe mai di mutare
In « corrento ».
Si potrà obiettare: ma l'aggettivo « irruento » non potrebbe av-
vicinarsi per la forma all'aggettivo violento? È probabile che ir-
ruento sia nato per analogia di suono con violènto, ma In quanto
a forma siamo lontani. Violento discende direttamente da un
latino violentus, che ha un femminile violenta e un neutro vio-
lentum; e la riprova si ha nel fatto che esisteva In passato anche
una forma maschile e femminile violente, col plurale violenti,
derivata da una seconda forma latina vìo!ens, violentis: «Non
vi ha p ili violente forza di quella dell'amore» ( Salvini ): forma
che può ormai considerarsi scomparsa.
Detto tutto questo, fa davvero stupore che molti dizionari
diano la forma irruento In normale alternativa con irruente, o
la classifichino come forma letteraria, facendo cosi pensare che
irruente sia una forma d'uso addirittura comune, popolare. Con-
fortiamoci con qualche esempio: «All'irruente Pirro » (Monti);
«L 'irruente barbarie» (Carducci); «Irruente caccia» ( Graf);
«Irruente teutonlsmo » (Croce); «Parlatore caldo, irruente»
( Cicognanl ); «Forza tumultuosa, irruente» (Papi n i); «Pianto
caldo, irruente» (Com isso); «Piccolo, irruente, tutto pepe»
(Tecchl ).

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Malèvolo e benèvolo
Si deve dire ma/e'volo o malèvo!e? La forma corretta è malèvolo;
cosi come è sbagliato dire « benèvole » invece di benèvolo. È
un errore dal quale non va immune neppure qualche buon
autore moderno e in cui inciampò anche qualche autore antico.
Perché bisogna dire correttamente malèvo/o e benèvolo? Perché
questi aggettivi cl vengono dagli aggettivi latini malèvolus e be-
ne'volus, della seconda declinazione, e la terminazione -us latina
si trasforma normalmente nella desinenza -o del maschile
Italiano. Quindi «un discorso malèvolo », «una malèvola rispo-
sta >1, «testimoni benèvoli », « benèvole critiche» (e non « benè-
voli critiche>> come spesso si sente e si legge).
La terminazione errata in -e è certo dovuta all'analogia con
i numerosi aggettivi in -évole del nostro lessico; sennonché
questo suffisso si riconnette ai suffissi latini -ìbilis o -àbilis della
terza declinazione, quella declinazione appunto che dà normal-
mente i nomi italiani in -e: dilettévole, dal latino delectàbilis,
piacévole dal latino tardo placibilis.

Olimpiònico, olimpìaco, olìmpico


Una cosa è dire olimpidnico, un'altra è dire olimpìaco o anche
olimpico. 0/impio'nico deriva dal greco olympionìkes (e di qui
anche la pronunzia piana, olimpionfco, da qualcuno usata),
parola composta di 0/ympìa, l'antica città greca dove avevano
luogo questi giochi e donde parte la fiamma delle moderne
olimpiadi, e di nìke, che vuoi dir« vittoria»; dunque, il termine
significa esattamente «vincitore nei giochi di Olìmpia ». Si dirà
quindi bene «gli olimplonici Consolini e Berruti »;come aggetti-
vo, il termine sarà usato a proposito solo in riferimento a un
vincitore o a una vittoria olimpica: quindi «l'atleta olimpionico
del salto in alto>>, per indicare il vincitore di questo salto, e
anche « medaglia olimpionica » per indicare la medaglia che
consacra una vittoria riportata nelle olimpiadi. 0/impìaco, o
anche olimpico . sono invece aggettivi generici ( rispettivamente
dal latino olympLàcus e olympicus, in greco olympiakds e olympi-
kds ), che possono riferirsi a tutto ciò che concerne un'olimpia-
de in particolare o genericamente le olimpiadi; perciò diremo
«atleta, stadio olimpico o olimpìaco ». «gara, vittoria olimpica
o olimpìaca ».

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Profluvio
Quando una cosa, specialmente se delicata, va a finire In mano
di chi non sa usarla, novantanove volte su cento si sfascia.
E questa la sorte occorsa alla parola letteraria profluvio, che
caduta sulla bocca o sulla penna di chi non era preparato a
usarla, si è sfasciata, o meglio alterata, divenendo profluvie.
Ormai Infatti si legge e si sente da ogni parte, anche sui giorna-
li, anche sui libri, sissignori, «una profluvie di parole», «una
profluvle di incombenze» e cosf via. Anche il sesso le han cam-
biato alla poveretta, facendola di maschile femminile.
Profluvio, sostantivo maschile, viene dritto dritto dal latino
neutro profluvium, che è dal verbo flùere, fluire, scorrere; quin-
di, un flusso abbondante, propriamente di liquidi («un proflu-
vio di lacrime»). Una forma profluvie supporrebbe un latino
« profluvies », della quinta declinazione, che però non è
mai esistito.

Reboante o roboante?
La forma corretta è reboante; l'aggettivo deriva dal latino rèbo-
ans, reboàntis, participio presente di reboare, rimbombare, verbo
composto del prefisso Intensivo re- e di boare, risonare,
echeggiare (donde anche il nostro boato). Poiché un prefisso
Intensivo ro- non esiste nella nostra l!ngua, non si capisce
come perfino alcuni scrittori usino la forma sbagliata, e alcuni
dizionari anche la registrino, sia pure con l'avvertenza che si
tratta di una forma «meno corretta>>. Si può parlare di meno
corretto quando si tratta di un vero e proprio errore?

Scultòrio o scultòreo?
Scultoreo è forma abusiva, nata per Influenza dell'aggettivo,
concettualmente prossimo, marmoreo. Non dispongo di una do-
cumentazione sicura dell'aggettivo scultoreo, ma esso deve
essere apparso, anno plu anno meno, Intorno al Trenta; è
dunque una creazione che potremo considerare recentissima.
Fino a quella data, si era detto solamente scu!torio, a cominciare
dal Cinquecento. Era apparsa , in antico, anche una forma seui-

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toresco (la leggiamo nelle lettere del Caro), ma scomparve
presto dall'uso. II Croce usò anche scultura/e ( « linguag-
gio ... musicale, pittorico, sculturale, architettonico») che risente
del francese o dell'inglese sculptural: una di quelle coniazioni
che restano dove son nate. L'aggettivo scuftorio, di cui la docu-
mentazione piu arretrata è fin oggi, ch'io sappia, quella del
Trattato dei governi di Aristati/e dello storico fiorentino Bernardo
Segni ( 1549 ), è foggiata sul tardo latino pictorius, derivato di
pìctor, pittore (una forma latina scu/ptorius è probabile che sia
anche esistita, ma l vecchi dizionari non la registrano). Lo
stesso Segni usò anche pintdrio, da pintore, forma arcaica di
pittore, con la sostituzione della n di pingere. Gli scrittori plu
attenti usano costantemente scultorio, facendo benissimo a
meno dell'inutile doppione creato probabilmente o per disatten-
zione o per Ignoranza del termine già esistente. « Il bel corpo
scultorio» si legge in D'Annunzio, che non conobbe altra
forma; e scultorio usò I'Ojetti, scultorio il Plrandello ...
La propagazione dell'inutile doppione, sulla facile scia di mar-
moreo (che è dal latino marmoreus ), è stata anche notevolmen-
te favorita dai soliti dizior.ari faciloni o di manica larga, come
volete, i quali forse credono di apparir piu moderni registrando
tutto quel che la modernità può dare, compreso il ciarpame
piu inutile e le castronerie e gli errori. Mentre infatti l dizionari
pili annosi e quelli moderni pili ·responsabili o Ignorano del
tutto l'aggettivo scultoreo, o non mancano di avvertire che si
tratta di una forma abusiva che è consigliabile non usare, altri
ce ne sono che non solo non fanno distinzione alcuna tra l'una
e l'altra forma («seuitorio, o anche scultoreo»), ma addirittura
Ignorano il termine buono da cinquecent'anni, o lo registrano,
ch'è peggio, come secondario.

« Sùccubo »o« succube »?


La forma corretta da usare è una sola, sùccubo, per il maschile,
col femminile sùccuba; nel plurale rispettivamente, succubi e
succube. La forma maschile e femminile su·ccube, col plurale
sùccubi, è sbagliata, anche se è forse la piu comunemente usata,
anche se qualche dizionario la registra, e la ripete qualche co-
siddetto scrittore. I Latini avevano due verbi, succubare, giacere
sotto, e incubare, giacere sopra; da qui derivano due sostantivi,

79
uno femminile, sùccuba, ch'era uno spirito maligno In forma
di 4onna, e uno maschile, ìncubus (donde l'italiano mcubo ),
ch'era uno spirito maligno in forma di uomo : entrambi affligge-
vano variamente i poveri mortali durante il sonno. Dal femmi-
nile sùccuba si fece Il nostro sùccubo, nel significato di uomo
soggetto al dominio della donna o moglie che sia, ed estensiva-
mente di uomo debole di carattere che soggiace alla volontà
altrui. La forma succube è dunque del tutto ingiustlficata, e si
spiega solo per l'influenza che può aver avuto su di essa il fran-
cese succube. Cerchiamo almeno questa volta, di non essere .. .
succubl del francese.

Tra e fra
Vogliamo un poco pignoleggiare? Mi Invitano a volte a queste
minuzie (ma son proprio mlnuzle?) certi amici spesso anche
per saggiare, oltre che il mio giudizio, l'umore. C'è una diffe-
renza nell'uso delle due preposizioni tra e fra? Volentieri ri-
spondo: una differenza c'è, perché nulla nasce senza un motivo,
ma è piu di origine che di sostanza. Voglio dire che mentre
la preposizione fra discende dal latino infra , a sua volta contra-
zione di ìnfera, sottinteso pars, parte, cioè « parte Inferiore » e
vale propriamente « sotto», «di sotto», la preposizione tra
deriva da intra (pars ), cioè «parte interiore» e vale «in mez-
zo », «dentro ». Proprio partendo da questa diversa origine Il
Tommaseo, che amava sottilizzare, rite neva che sarebbe oppor-
tuno tener sempre distinti i due termini, « essendo il luogo inte-
riore tutt'altro dall'inferiore», e aggiungeva che «potrebbe lo
scrittore, discernendo i due significati, dare alla lingua maggiore
determinatezza e al suo dire proprietà». Faceva anche alcuni
esempi: meglio si direbbe « fra il labbro d i sotto e quello di
sopra » e non «tra il labbro»; meglio « tra il monte e la valle»,
«tra le pareti domestiche». . . Sottigliezze, d'accordo, ma in
passato gli scrittori badavano anche a queste minuzie. Il Car-
ducci, ragionando con spirito diverso, dichiarava di usare sola-
mente tra, perché il fra gli ricordava il frate, e non lo voleva
tra le sue righe.
Oggi, si capisce, il tra e il fra son considerati una medesima
cosa, e la scelta dell' uno o dell'altro, anche in un medesimo
contesto, è solo suggerita, quando è suggerita, dalla necessità

80
di evitare certi Incontri di sillabe che darebbero cattivo suono.
Perciò si preferisce dire « fra tre giorni », « fra traditori » e Invece
« tra fratelli >> e « tra fronde e fiori >>, evitando cosi l tra tre, l
tra tra, l fra fra, l fra fro, e altri simili gracchlamentl.

V ngarico e ungherese
MI viene rivolta questa domanda: «Perché .si dice impero au-
stro-ungarico, regno ungarico, esercito austro-ungarico, e non
impero austro-ungherese, regno ungherese, esercito austro-un-
gherese? D'altra parte nessuno direbbe pianura ungarica, cucina
ungarica, costumi ungarici, ma sempre ungherese. Ci sono parti-
colari motivi che giustificano l'uso ora dell'uno ora dell'altro
aggettivo?>>.
Rispondo. L'aggettivo ungarico deriva dal sostantivo ùngaro
( raramente usato come aggettivo) che risale al tardo latino
Hùngari, gli antichi Ùngarl o Màgiarl; mentre l'aggettivo unghe-
rese è foggiato su Ungheria, con la normale terminazione in
-ese. Gli aggettivi ùngaro e ungarico si usano soltanto nel signi-
ficato storico, e il primo, In particolare, solo con riferimento
alla storia antica, medievale: «Le scorrerie ungare In Italia e
in Germania>>;« Il primo regno ungarico ». L'aggettivo ungarico
si è poi anche stabilizzato in alcune espressioni composte tradi-
zionali, come- appunto esercito austro-ungarico, monarchia au-
stro-ungarica e simili.
Fuori del significato storico, Invece, l'aggettivo normalmente
usato è ungherese: «La pianura ungherese», «costumi unghe-
resi»,« la nazionale ungherese di calcio».

v on gole o con cole?


Un amico marchlgtano mi manda un curioso opuscoletto ac-
compagnato da questo succinto biglietto: «Dicono dappertutto
vongole Invece del corretto conco/e. Dimmi quel che ne pensi».
L'opuscolo di questo amico è scritto con una documentazio-
ne cosi minuta, con un amore cosi appassionato per questo pre-
giato mollusco che non si può non rispondergli. Tanto plu che
leggendo queste Intelligenti paginette ho rivissuto quegli anni
della mia fanciullezza, cresciuta lungo il litorale piceno, In cui

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non sentivo parlare altro che di conco/e e la voce vongola mi
era affatto sconosciuta. E li rivivo tutte le volte che càpito nelle
case dei plli vecchi miei conterranei, i quali parlano ancora solo
di « zuppa di con cole», e ricordano la « sagra delle concole »
della Cupra Marittima e dei dintorni. Ma, con buona pace del
mio amico e mia, devo ammettere che oggi il nome conco/a,
anche se schiettissimo e fregiato di illustri natali, ha ceduto
fatalmente il passo alla variante volgare vongola, di origine dia-
lettale napoletana, per merito di quegli lnsostltuibill «spaghetti
alle vongole» che imponendosi nel gusto di tutti gli Italiani
si sono imposti risolutamente anche nel loro lessico. Il mio
amico Insiste in alcune locuzioni gastronomiche: «vermicelli o
spaghetti alle conco le», « risotto alle concole », « conco le al vino
bianco», « concole In barca», «conco le in frittelle», e via da
leccarsene le dita. Ma c'è oggi un solo Marchigiano, che non
sia il mio vecchio zio di Ancona, che uscito dalla propria regio-
ne Insisterebbe a chiedere In trattoria un «piatto di spaghetti
alle concole >>? Si farebbe sicuramente correggere: « Concole?
Forse il signore voleva dir vongole».
La storia di questo nome è semplice: conco/a, dal latino con-
chula, diminutivo di concha, conchiglia. Da conco/a nacque una
variante popolare gongola, di origine veneziana, e da questa
infine una successiva variante napoletana vongola, che si è
subito affermata, come dicevo, per via degli spaghetti. Che vo-
gliamo concludere? DI fronte a certe realtà c'è poco da cavilla-
re, da pretendere. Fuor delle Marche e fors'anche dell'Abruzzo
o poco plu, bisognerà adattarsi a dir vongola, per quanto di origi-
ne dialettale sia, tanto piu che a essa hanno aperto le braccia
tutti l dizionari moderni, anche i piu severi, lasciando a conco/a,
salvo qualche eccezione, il significato secondariÒ di bacinella,
di catino. Al termine dotto resteremo fedeli pateticamente
In pochi, con la confortante compagnia del mio ammire-
vole amico.

Vermut
Sembra davvero strano che alcune ditte italiane di vermut con-
tinuino a scrivere il nome di questo tipico prodotto piemontese
In maniera diciamo stravagante. Non sarebbe male se esse

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provvedessero ad affermare In tutto il mondo, oltre che la
merce fabbricata, anche l'esatto nome italiano di questa merce.
Dal tedesco Wermut, scritto anche Wermuth che significa « as-
senzio» (è Infatti l'assenzio uno degli ingredienti di questo vi-
no-aperitivo), gl'Italiani fecero il nome vermut (col diminutivo
vermuttino ), che ripete esattamente la pronunzia tedesca, e i
Francesi, per .loro necessità fonetica, vermout scritto anche ver-
mouth. Orbene sapete come si vede scritto a volte sulle bottiglie
uscite di fabbrica? Si vede scritto vermuth o addirittura wer-
mouth, ibridi mostriciattoli né italiani né francesi né tedeschi,
ma un poco di tutto questo messo insieme. Se proprio non si
voglia usare (e non capisco perché) Il nome In Italia-
no, si scriva almeno In francese, si scriva In tedesco, ma si
scriva giusto!

Zitelle e maccheroni
Si deve scrivere zitella o zitte/la? Questo zitella, che noi alternia-
mo a nubile per indicare la donna matura non ancora sposata,
ma sempre con una connotazione piii o meno spregiativa o
anche soltanto scherzosa, aveva in origine il semplice significa-
to di «ragazzina», essendo il diminutivo vezzeggiativo di zitta,
maschile zitto, variante di citta, femminile di citta e cittino, ra-
gazzo, ragazzino, a !or volta forme abbreviate di piccitto (donde
anche il siciliano piccittu con l'accrescitivo picciotto, ragazzotto ).
La prima forma regolare fu dunque zitte/la, con due t, oggi tut-
tavia meno usata, ma non certo scorretta. Dal sign.tflcato di
ragazza, zitella venne a indicare dapprima la donna non ancora
sposata, anche se giovane, poi, specialmente nei dialetti meri-
dionali, la ragazza fidanzata e Infine la sposa nel giorno delle
nozze; quella che..oggi nel Mezzogiorno chiamano comunemen-
te la zita. E qui aggiungerò, per chi non la sapesse, questa curio-
sità: la tradizione meridionale vuole che nel grande pranzo di
nozze si debbano mangiare certi grossi maccheroni detti appun-
to «maccheroni di zita », abbreviati poi in ziti e a volte, se di
maggior grossezza, in zitoni.

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Buenos Aires
È questa la corretta grafia del nome della capitale argentina;
non già, come si vede perfino nelle targhe stradali di certe
grandi città Italiane, Buenos Ayres con tanto di ipsllon al posto
della semplice i. In passato gli Spagnoli scrivevano, è vero, In
questo modo; ma da un pezzo ormai questa vecchia scrittura .
è stata abbandonata, ed è assurdo che siamo proprio noi Italiani
a riesumarla.

Cina e China
Perché si dice da sempre muraglia della Cina, andare in Cina,
ma invece costantemente si dice inchiostro di China, nero di
China? Non s'intende parlare dello stesso paese?
A questa domanda rispondo Innanzi tutto che non è vero
che si dica da sempre muraglia della Cina; è vero invece che
fino a tutto l'Ottocento, e anche nel primi del nostro secolo,
Cina e China si alternavano nell'uso, e cosi pure si diceva indif-
ferentemente chinese e cinese; basta consultare qualche diziona-
rio non dei piu recenti per accertarsene. Il vecchio Petrocchi,
per esempio, registra l'uno accanto all'altro China e Cina, chine-
se e cinese, anche se poi avverte che cinese è piu comune. «Le
donne cinesi» scriveva Daniello Bartoli nel Seicento, ma «la
lingua chinese » troviamo nel Leopardi, «un ponte chinese » nel
Tommaseo, e perfino un «ombrello chinese » In Senilità di Italo
Svevo, scritto alla fine del secolo scorso.
Ma premesso questo, è chiaro che chiamar Cina il paese, se-
condo l'uso ormai divenuto comune, e dire invece inchiostro
di China , come pure comunemente si dice, è un'assurdità che
andrebbe alla fine tolta di mezzo. Senza dubbio la frase inchio-
stro di China resiste indisturbata perché è considerata una deno-
minazione tecnica, il nome stesso di un prodotto industriale
e quindi non suscettibile di modificazione. Ma penso che nel
nostro caso basterebbe che un coraggioso fabbricante si mettes-
se a dire inchiostro di Cina e la cosa presto si sistemerebbe.
Tanto piu opportuna, poi, mi sembra la forma Cina, riferita al-
l'inchiostro, in quanto molti scrivono addirittura inchiostro di
china con la minuscola, facendo cosi dubitare, per esempio, che
tanto l'inchiostro quanto l'elisir di china abbiano un'origine co-

84
mune: errore grossolano, ché la china dell'elisir è soltanto una
pianta del genere Clncona, per di piu di origine americana.
A questo punto resta solo da togliere una curiosità al miei
lettori: come si spiega la convivenza delle due forme China e
Cina? SI spiega con un errore di lettura; proprio cosi: un'errata
lettura del nome portoghese China, con cui cominciammo a
conoscere questo lontano paese; nome che l Portoghesi leggono
col eh pala tale, quasi « sclna », riproducendo così la pronunzia
cinese, e che noi prendemmo a leggere all'italiana.

Sanremo
Avvicinandosi alla frontiera di Ventimiglia, il viaggiatore non
può non rimanere sorpreso dalla continua oscillazione che subi-
sce sulle targhe stradali il nome della piu Importante stazione
climatica della Riviera, la città di Sanremo: ora si legge Sanremo
tutt'una parola; cento metri piu In là ecco San Remo, In due
parole; sul muri della stessa stazione ferroviaria, una volta si
legge Sanremo e un'altra San Remo. SI ha l'impressione che
lo-stesso Comune, gli stessi amministratori cittadini non sappia-
no qual sia la vera grafia del nome della loro città. Una grafia
ufficiale però esiste, ed è Sanremo, in una parola sola; ma nes-
suno la rispetta, a cominciare appunto dall'amministrazione
locale e poi dall'orario ferroviario, dal codice d'avviamento po-
stale, eccetera. II fatto che spiega ma non giustifica questa con-
fusione è presto detto. L'odierno nome di Sanremo deriva da
un adattamento dialettale del nome di San Romolo, il santo
vescovo di Genova a cui la città era consacrata. Questo gioiello
della Riviera ligure, nel lontano medio evo, era un borgo fortifi-
cato contro le continue incursioni saracene, e si chiamava In-
fatti Castrum Sancti Romuli, fortezza di San Romolo. In dialetto
il nome Romolo si alterava tanto da essere piu vicino a Remo
che a Romolo: San Romu, con la normale caduta della sillaba
finale, e l'alterazione tipicamente ligure della vocale o In 6, da
leggersi pressappoco e; ma non era certo logico, traducendo In
italiano, sostituire addirittura Remo con Romolo. DI qui la ne-
cessità di creare quasi un nome nuovo che tenesse conto della
pronunzia dialettale senza creare un santo nuovo che, a quanto
mi dicono, neppure esiste. E questo nuovo nome non può

85
essere che Sanremo, in una parola sola, che rispetta l'an-
tica pronunzia locale di Romolo ma non crea un santo che
non c'è.

Sigle
Le sigle (oggi se ne pubblicano interi dizionari) si scrivono nor-
malmente in lettere maiuscole, ché esse nascono appunto dalla
unione di lettere o di gruppi di lettere iniziali di parole formanti
una determinata frase: D.C., P.C.I., FIAT, NATO, ONU, ecc.
Il Migliorlni ha proposto di scrivere senza punti .le sigle che
si pronunziano con le lettere unite, come appunto FIAT,
NATO, ONU, UNESCO, AGIP, ecc., e di punteggiare, invece,
quelle che si pronunziano con le lettere staccate: C.L.N. [ci elfe
enne], Comitato di Liberazione Nazionale, C.G.I.L. [ci gi elfe],
Confederazione Generale Italiana del Lavoro, eccetera. Sarà
bene seguire questo sistema.
Sempre in fatto di sigle, avviene poi che alcune di esse diven-
tano di uso così comune da perdere il loro carattere di sigle,
fino ad assumere all'orecchio quello di veri e propri nomi, tanto
che poi, scrivendole, usiamo addirittura le lettere minuscole la-
sciando la maiuscola solo all'inizio della parola, come si fa con
tutti i nomi propri di cosa: è il caso della Fiat, dell' Enel, dell'A-
gip, dalla Snia, dell'lri e di mille altre. Per lo stesso motivo
si può arrivare a scrivere, cosi come si pronunzia correntemente
(e alcuni giornalisti, come per esempio lndro Montanelli, lo
fanno di regola) anche dicd e piccf, con tanto di accento In
fine e col rafforzamento sintattico della c, proprio della corretta
pronunzia italiana. Sarebbe invece errore usare le lettere minu -
scole quando la sigla si scrivesse come tale: la dc, il pci, il psi,
il msi, eccetera,
Un altro problemlno può sorgere a proposito di certe sigle:
quelle come MEC e ENIC debbono leggersi con la c finale
schiacciata come In cena o dura come in cane? La domanda
non è da considerarsi oziosa perché con la congerie di sigle
che sbucano da ogni parte, problemi come questo sorgono ogni
momento; soprattutto ne sono assillati gli annunciatori della
radio e della televisione che queste sigle debbono pronunziare
davanti a milioni di ascoltatori. Una prima soluzione del piccolo
problema che può venire spontanea, sarebbe questa: dare alla

86
lettera c lo stesso suono che ha come Iniziale della parola che
rappresenta; cosi In MEC, rappresentando la parola comune, si
dovrebbe leggere dura: mek; invece in ENIC (Ente Nazionale
Industrie Cinematografiche), si dovrebbe leggere schiacciata:
ènic'. Ma non è una soluzione pratica, ché, in effetto, di ben
poche sigle si conoscono là per là gli elementi costitutivi. D'al-
tra parte - come giustamente mi fece osservare altra volta il
Migliorinl - in tutte le parole del nostro linguaggio terminanti
con c, come le voci onomatopeiche trae, patatrac, tic tac, tac
tac, e simili, oltre le numerose parole latine che spesso ricorro-
no nel parlar comune come sic, ad hoc, ecc., noi usiamo costan-
temente la pronuncia gutturale o dura che dir si voglia; ed è
quindi giusto, oltre che sommamente pratico, conservare la
stessa pronunzia anche nelle sigle: quindi diremo, senza tanto
sottilizzare, ènik, per la suddetta sigla ENIC, ànik per la sigla
ANIC (Azienda Nazionale Idrogenazione Carburanti), àdik per
la sigla ADI C (Agenzia Informazioni Culturali), e cosi via.
Naturalmente rispetteremo la stessa regola anche per le sigle
terminanti in g: ANAG (Associazione Nazionale Arma del Ge-
nio) sarà dnagh, ACIG (Associazione Culturale !taio-Germani-
ca) sarà acigh, per analogia con la pronunzia gutturale.di zig-zag
e Gag e Magog.

Abbreviazione di «dottore»
Ho notato da infinito tempo, non solo sugli indirizzi ma anche
sui biglietti da visita, sulle targhe dei portoni, degli studi, ecc.,
dove si debba abbreviare la parola dottore, un errore costante:
la formula Dr. con tanto di punto fermo per ch iusura. Ma chiu-
sura di che? Il punto fermo serve, oltre al resto, come segno
di chiusura, è vero, ma solo nelle parole abbreviate per tron-
camento: avv. per avvocato, pro.f per professore, ing. per inge-
gnere, e cosi via. Anche fuor del titoli professionali, abbiamo
abbreviazioni come ecc., p. es., sign., u.s., e via di seguito, che
tutti leggiamo senza esitare «eccetera», «per esempio», «si -
gnor», «ultimo scorso». Cosf stando le cose, sarà corretta l'àb-
breviazione dott. dove quel punto sostituisce le lettere troncate
-ore (ed è questa la forma abbreviata piu comune, e che si
raccomanda). Ma nel caso che ho detto in principio non si
tratta di un'abbreviazione per troncamento ma di un'abbrevia-

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zlone per sincope, cioè per taglio nel mezzo della parola: e piu
precisamente per sincope della parola latina doètor; il punto
perciò dopo la r finale di parola è inutile, non dovendo sostitui-
re nessuna sillaba o lettera troncata (semmai dovremmo scrive-
re D.r, come si scrive dev.mo per «devotissimo», aff. ma per
«affezionatissimo» e simili). La sigla corretta è dunque
Dr senza il punto: «Dr Vincenzo Arzenti», «Dr Avv.
Luigi Verdi>>.
È !' identico caso di junior e senior, a volte aggiunti a nomi
propri di persona per indicare rispettivamente la persona « piU
giovane» o «p ili vecchia» dello stesso nome: molti abbreviano
l due termini col solito punto in fine: jr. e sr. Errore anche
questo, per lo stesso motivo detto sopra: salvo, s'intende, che
queste abbreviazioni siano in fin di periodo, nel qual caso il
punto fermo servirà a chiudere il periodo e non la parola.

Scespiriano, dickensiano . ..
È possibile stabilire una regola per la formazione degli aggettivi
derivati da nomi propri stranieri o di forma straniera? C'è chi
scrive shakespeariano, ma anche chi scrive scespiriano attenen-
dosi alla pronunzia del nome.
Anche questo è un problema che si dibatte da tempo tra i
linguisti; ma è chiaro che una regola rigida non è possibile sta-
bllirla potendo le soluzioni essere multiple, suggerite di volta
In volta dalla struttura stessa del nome straniero. Ci sono infatti
nomi stranieri di struttura prossima all'italiano, sia come suono
sia come grafia, e in questi casi l'italianizzazione è generalmente
facile, e viene spesso spontanea; altri invece ne sono lontanissi-
mi, e qui l' italianizzazione diventa spesso ardua se non addirit-
tura impossibile.
Appaitengono alla prima serie nomi come Hugo, Mo/ière,
Balzac, Dickens, Kant, Wagner, Lamartine, ecc.; appartengono
alla seconda nomi come Shakespeare, Rabelais, Boileau, Rous-
seau, Baudelaire, Nietzsche, Joyce, e via dicendo. Da Hugo è
facile fare hughiano, anzi, unendolo al prenome, addirittura
vittorughiano, e cosi da Molière faremo molieriano, da Balzac,
balzachiano o anche, come sotto vedremo, balzacchiano, da Dic-
kens, dickensiano, da Kant, kantiano, da Wagner, wagneriano,
e italianizzando di piu, vagneriano, come scriveva l'Ojetti. I

88
nostri cognomi preceduti dal de generalmente rispettano questo
prefisso: cosi da De Sanctis si è fatto desanctisiano, da De Ami-
cis, deamicisiano , da D' Annunzio, dannunziano; i Francesi
invece in genere Io aboliscono, e sul loro modello abb iamo fatto
lamartiniano, sansimoniano, mussetiano o mussettiano.
Assai diverso diventa il discorso con l nomi della seconda
serie. Qui le soluzioni potrebbero essere due: o rispettare fin
dove è possibile il nome straniero nella sua grafia facendolo
seguire dal suffisso italiano opportunamente adattato, o trascri-
vere il nome secondo la pronunzia pill o meno fedele, con l'ag-
giunta del solito suffisso. È il caso appunto di shakespeariano
e di scespiriano. Molti si allineano con la prima soluzione, molti
altri con la seconda, e non si può dare ovviamente torto a
nessuno. Io propenderei per la seconda, per pura coerenza lin-
guistica che mi consiglia, tutte le volte che mi è possibile, l'ita-
lianizzazione totale della parola e non una composizione ibrida,
mezzo straniera e mezzo italiana . Insomma preferirei ripetere
in tutte lettere quel che pronunzio: pronunzio « scespir » e
scrivo scespiriano, pronunzio « bodlèr » da Baudelaire, e faccio
bod/eriano, (il caro Baldini usò bodeleriano: fece un primo
passo, ma gli mancò l'animo di fare un passetto di p ili); e cosi
da Rabelais ( « rablè >>)avrò rablesiano , meglio a mio avviso che
rabelesiano e rabelaisiano; da Goethe ( « gote » ), goethiano , da
Schiller ( « sct1er » ), schi/leriano o anche scilleriano; da Heine
( « hà!ne » ), heiniano; da Nietzsche ( italianizzato in « nicce » ),
nicciano, e non nietzschiano, se non vogliamo distorcerci le ga-
nasce . Fin qui però le cose sono andate abbastanza facili per
la possibilità di una bùona sutura tra prefisso e suffisso. Ma
ecco i nomi di Boileau, per esempio, di Rousseau, con quella
finale tronca; da Boileau hanno fatto boleviano che ci sarà solo
l'inventore a capirlo; io direi semmai bua/oiano; da Rousseau
è in uso l'aggettivo russoviano, con quella solita finale in -viano
che è difficile giustificare. Piu ragionevole è il gioissiano da
Joyce, che Infatti già di frequente s'incontra. Io però in ques·ti
casi consiglierei di soprassedere all'aggettivazione del cognome,
dicendo piu chiaramente di Boileau, di Rousseau, di Joyce .
Tornando alla preferenza che io consiglierei di dare alla italia-
nizzazione il piii possibile completa del nome straniero, aggiun-
gerò che quest'uso di italianizzare non è certo cosa nuova, ma
in moltissimi casi stabilizzata da anni. Scriviamo tutti , senza
eccezione, donchisciottesco, e non « donquijottesco », scriviamo

89
ghigliottina e non « guillottina ». Nessuno scriverebbe cavouriano
o voltairiano, come un tempo si faceva, ma cavuriano (o cavur-
riano ), volteriano (o volterriano) come la cosa plu naturale del
mondo; e l recenti gollista e gollismo hanno presto spazzato via
il gaullista e il gaullismo che si usarono sul principio.
E qui voglio aggingere una piccola coda a proposito delle
doppie forme ora viste, come balzachiano e balzacchiano, cavu-
riano e cavurriano, volteriano e volterriano. Come si spiegano?
Si spiegano col fatto che questi nomi tronchi una volta italianlz-
zati tendono a rafforzare la consonante finale, come appare par-
ticolarmente evidente nella corretta pronunzia toscana; da
vermut i Toscani han fatto vermutte o vermùtte, col normale
diminutivo vermuttino; da bar l Toscani han fatto il barrista e
non il barista. Cosi, Balzac ltalianlzzato suona « balzacche » e
non «balzac he», Cavour diventa « cavurre », Voltalre diventa
«voi terre ». E di qui le forme rafforzate balzacchiano, cavurr}ano
e volterriano. Quale delle due forme preferire? Premesso che
sono entrambe corrette, avverrà che un Settentrionale preferirà
le forme semplici, un Toscano, e piu genericamente un Centra-
le, non saprà usare altro che le forme raddoppiate.
III
Concordanze e costrutti
Concordanze nel numero e nel genere
La grammatica è certo un complesso di regole, ma non è nep-
pure la matematica dove due piu due fanno sempre quattro.
La lingua nasce anche da un sentimento, da un gusto di chi
l'adopera, e non può avere la stessa rigidezza di una scienza
esatta. Ecco perché, per esempio, frasi come «Finché dura la
pioggia e il maltempo» o «Finché durano la pioggia e il mal -
tempo», «Mi sono messo la cravatta» o «Mi sono messa la
cravatta» sono tutte ugualmente corrette. Chi mi segue si sarà
accorto che io tendo, in via generale, a una codificazione il
piu possibile precisa e rigida delle leggi grammaticali; troppo
spesso infatti accade che la mancanza di una norma rigorosa,
oggi specialmente che tutti stampano su libri e giornali o parla-
no alla radio e alla televisione, porti alla codificazione di un
errore. Ma bisogna anche lasciare una certa libertà all'artista,
il quale ha istintivo il senso della responsabilità anche quando
esce, volutamente, dalla norma comune.
Parlando delle concordanze, cercherò di esaminare gli esempi
piu dubbi e di consigliare alcune regole pratiche. Cominciamo
con le concordanze riguardo al numero. La sintassi prescrive:
se una proposizione ha due o piu soggetti, il verbo si mette
al plurale: « Eurialo e N iso erano am ici Inseparabili»; un esem -
pio del Manzoni: «Vergogna e dovere sono un nulla per lui».
Tutto semplice e chiaro. Ma ecco quelle che, tanto per Inten-
derei, chiameremo eccezioni. Il verbo può mettersi tanto nel
plurale quanto nel singolare nei seguenti casi:
l. quando il soggetto è un nome collettivo seguito da un
complemento di specificazione: «Uno stormo di velivoli si solle-
varono dal campo» ( Panzinl ): ma si sarebbe potuto dire anchf'

93
«si sollevò» (ma di questo caso si parla plu diffusamente nel-
l'articoletto che segue);
2. quando due o piu soggetti sono concettualmente separati
l'uno dall'altro per mezzo delle congiunzioni disgiuntive o, op-
pure, né, si da costituire nel concetto due o piu elementi distin-
ti : «O incoscienza o cinismo ti fa parlare cosf »: ma si potrebbe
dire anche «ti fanno parlare cosf ». «Né la paura né l'interesse
mi rimoverà dal mio proposito»; ma si potrebbe anche dire «mi
rimoveranno>>.
3. all'opposto, quando due o piu soggetti sono strettamente
legati da congiunzioni coordinative, si che vengono a formare
un tutto unico, un' unica idea: «Bruto con Cassio nell'inferno
latra>> (Dante);« Grandine grossa, acqua tinta e neve Per l'aere
tenebroso si riversa >> ( Dante); « Da la scheggia rotta usciva
insieme Parole e sangue>> (Dante); «Il rom ore e il tumulto era
grande>> ( Machiavelli ); «il flusso e riflusso de' miei umori go-
verna ... >> (Foscolo); «Dove naturalmente Va la foglia di rosa
E la foglia d'alloro>> (Leopardi);« Sempre un villaggio, sempre
una campagna Mi ride al cuore, o piange, Severino» (Pascoli);
ma si poteva dire anche «latrano», «si riversano», «uscivano
insieme», «erano grandi», «governano», «vanno la foglia di
rosa e la foglia d'alloro», «mi ridono al cuore».

Veniamo ora alle concordanze riguardo al genere . Do qui di


seguito tutti i casi possibili:
l. se nella proposizione ci sono pili soggetti dello stesso gene-
re, il verbo concorda naturalmente con essi nel genere: «Lucio
e Carlo sono partiti», «Lucia e Carla sono partite»;
2. se invece i soggetti sono di genere diverso, cioè un po'
maschili un po' femminili , la concordanza si fa nel genere ma-
schile: «Lo dosso e 'l petto e ambedue le coste Dipinti avea
di nodi e di rotelle>> (Dante);« Tutte le lllusionl e tutti i disin-
ganni e i dolori e le gioie e le speranze e i desideri! degli uomini
gli apparivano vani e transitorii» ( Pirandello ); « Renzo e Lucia
furono perseguitati da don Rodrigo »; «Le donne e i bambini
furono salvati per primi>>. C'è però da aggiunger questo: quando
i soggetti sono persone di sesso diverso, la regola si applica se-
veramente, cioè sempre il maschile plurale, come nel caso ora
detto di Renzo e Lucia, delle donne e dei bambini; nel caso
Invece che l soggetti siano cose, concrete o astratte, l'accordo
<>i può fare anche col soggetto piu vicino: «Molti applausi e

94
molte risate furono udite nella sala», cioè l'accordo si può fare
anche nel femminile, con riferimento alle sole risate; perciò nel-
l'esempio di Dante si sarebbe anche potuto dire «dipinte avea »
accordando con le coste anziché con lo dosso;
3. nelle forme riflessive apparenti (in quelle forme cioè in
cui le particelle mi, ti, ecc. non sono in funzione di comple-
mento oggetto, ma di complemento di termine), il verbo può
correttamente concordarsi tanto col soggetto quanto col com-
plemento oggetto; potremo cioè dire tanto «Mi sono messo la
cravatta», «Gino si è lavato le mani», « Lina s'era tolta il cap-
pello» quanto «Mi sono messa la cravatta», «Gino si è lavate
le mani», « Lina s'era tolto il cappello». Alcuni esempi di auto-
re: « ( Renzo) s'era levata la chiave di tasca» ( Manzoni ); «La
mercantessa s'era visto morire il marito» ( Manzoni ); «S'era
perfino tolto gli occhiali» (F. M. Martini ); «Il dubbio d'essersi
messi le streghe in casa» (Fucini).
Ma la faccenda delle concordanze verbali non finisce qui. Si
deve dire, per esempio, «Ho letto molti libri» oppure «Ho letti
molti libri», «Ha fatto la domanda» o «Ha fatta la domanda»,
«I libri che ho letto» oppure «che ho letti», « La domanda che
ho fatto» o «che ho fatta»? Una volta tanto la grammatica
ci lascia mano libera: possiamo dire nell'un modo e nell'altro,
secondo il nostro gusto. E infatti ecco alcuni esempi di scrittori:
«Aveva cambiata la domanda» (Alfieri); «Il sarto, il quale
aveva fatta loro l'imbasciata» ( Manzoni ); «Rido della bugia che
hai detto» (Collodi); «l muratori avevan rizzati palchi d'ogni
parte» ( Bacchelli ); «Ha dimesso all'improvviso le sue arie di
duchessa offesa, ha curvate le spalle» ( Landoifi ): quest'ultimo
usa addirittura le due concordanze nello stesso periodo. Il For-
naciari preferiva distinguere e diceva: si metta il verbo nel ma-
schile singolare quando l'oggetto segue: «Ho letto molti libri»,
« Ho fatto la domanda», «Hai detto molte bugie»; si faccia
invece l'accordo quando l'oggetto precede: «I libri che ho letti»,
« La domanda che ho fatta», « Le molte bugie che hai dette».
Chi voglia, segua questa regola. Io però, se mi fosse consentito,
vorrei suggerirne una piu semplice: si metta sempre il verbo
nel singolare maschile, in ogni caso: «Ho letto molti libri, «Ha
fatto la domanda», «Hai detto molte bugie», «I libri che
ho letto», «La domanda che ho fatto», «Le molte bugie che
hai detto».
Ma c'è ancora un ultimo caso da considerare: quello del com-

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plemento oggetto rappresentato dai pronomi mi, ti, ci, si, vi an-
teposti al verbo composto con avere. Qui la concordanza del
verbo con l'oggetto è quella preferita; tuttavia si può anche la-
sciare la forma verbale invariata nel maschile singolare. Diremo
perciò «La vostra ditta ci ha informati» ma anche «cl ha infor-
mato»; «Sorella mia, ti ho vista» ma anche «ti ho visto»; «Ci
avete lasciate sole» ma anche «Cl avete lasciato sole ». Se però
Il complemento oggetto è rappresentato dai pronomi dimostrati-
vi lo, la, li, le, l'accordo tra verbo e oggetto è obbligatorio: «Le
ho viste lo quelle facce» (Manzo n!); «Li ho presi io stama-
ni» (Fucini); «Lo avevo pregato di venire»; «La avevo udita
piangere.

I collettivi
SI leggono a volte frasi come questa: «La gran maggioranza
dei cittadini si erano ribellatl... » E allora uno si domanda: es-
sendo la gran maggioranza, soggetto della frase, di numero sin-
golare, non si dovrebbe dire La gran maggioranza dei cittadini
si era ribellata?
Come ho accennato nella nota precedente, si tratta di una
particolare concordanza a senso ammessa dalla grammatica
quando il soggetto è un nome collettivo. Co,llettivo si dice quel
nome che esprime nella forma al singolare un insieme di piu
persone, di piu animali, di piu cose, si da apparire quasi come
un plurale. Sono collettivi nomi come popolo, folla, gente, pub-
blico, schiera, moltitudine, mandria, gregge, sciame, stormo,
gruppo, serie,fogliame,jlotta, ecc. Sono considerati nomi collet-
tivi anche quei numerali che indicano una somma di piu perso-
ne o cose concepita come unità: coppia, paio, dozzina, ventina,
duetto, terzetto, un migliaio, qualche centinaio, e simili. Ancora:
si dà valore collettivo a espressioni come la maggioranza, la
maggior parte, un'infinità, un gran numero, e cosi via.
Orbene la regola è questa: quando un nome collettivo singo-
lare sia seguito da un complemento di specificazione (per es.
una folla d'uomini, uno sciame d'api, un migliaio d'anni, un'infi-
nità di eccezioni) potremo usare tanto il verbo nel singolare,
concordandolo col numero singolare del collettivo, quanto il
verbo al plurale, concordandolo a senso col valore plurale del
collettivo stesso. Potremo cioè dire: « Una folla d'uomini invase

96
la piazza», «Uno sciame d'api si levò in volo», «Passera un
migliaio d'anni prima che questo avvenga»; «C'è un paio di
osterie », «C'era una ventina di persone», «Sarà una dozzina
d'anni», ma potremo anche dire « Una folla d'uomini invasero
la piazza», «Uno sciame d'api si levarono in volo», « Passeran-
no un migliaio d'anni prima che questo avvenga», «Ci sono
un paio di osterie», «C'erano una ventina di persone», « Saran-
no una dozzina d'anni ».
Lo stesso vale, si capisce, per l'espressione collettiva maggio-
ranza, e per altre simili, come nell'esempio qui sopra: «La gran
maggioranza dei cittadini si erano ribella ti»; ma si potrebbe
anche dire, naturalmente: «La gran maggioranza dei cittadini
si era ribellata ».
Se il complemento di specificazione manca, il verbo sarà
usato nel singolare: «Una folla invase»,« Uno sciame si levò»,
« La maggioranza si è ribellata ». Ma non mancano, si badi,
esempi di costruzione col verbo al plurale anche in questo parti -
colare caso. Famoso questo del Manzoni: «Sappia dunque che
questa buona gente son risoluti d'andar a metter su casa altro-
ve »: la normale concordanza vorrebbe che si dicesse «questa
buona gente è risoluta ... »

Licenza di sbagliare
Uno apre l Promessi sposi e incontra un periodo come questo:
«Un religioso che, senza farvi torto, val pill un pelo della sua
barba che tutta la vostra». Allora si ferma e dice: «Ma questo
è un periodo che non sta in piedi. Dove se n'è andata la sintas-
si?» E si domanda: «Possibile in un Manzoni? ».
Possibilissimo. Infatti leggiamo ancora, sempre nei Promessi
sposi: «Non sapete che t soldati è il loro mestiere di prender
le fortezze?»; e ancora: «Quelli che muoiono bisogna pregare
Iddio per loro»; e ancora: «Lei sa che noi altre monache ci
piace di sentir le storie per minuto». Tutti errori dunque? In
un certo senso si; ma la grammatica li chiama anacoluti. La
grammatica, che non è affatto quella vecchia arpia che tutti
credono, ha aperto le braccia anche a questo tipo di sgrammati -
catura, e le ha messo appunto anche un nome, anacoluto.
Perché di sgrammaticatura certo si tratta; ma è chiaro che qui
si tratta di sgrammaticature volute, che uno scrittore riprende

97
nette nette dal linguaggio parlato e piu popolare, allo scopo di
ottenere particolari effetti di naturalezza e di vivacità espressiva.
L'anacoluto, secondo la felice definizione di Luciano Satta, «è
quella licenza di sbagliare che, come le sigarette e le chiavi di
casa, si proibisce ai giovanissimi e si concede al grandi». Se
periodi come quelli sopra riportati li avesse scritti uno scolaretto
sarebbero stati altrettanti errori blu; li scrive un Manzoni e di-
ventano anacoluti. Anacoluto viene dal greco anakdluthos che
significa «senza collegamento», cioè unione di parole che non
segue lo schema prescritto dalle regole sintattiche.
Gli esempi manzonianl che abbiamo visto non sono certo
i soli delle nostre lettere; si possono dare esempi a cominciare
dai nostri piu lontani classici; questo è del Machiavelli: «MI
pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui».
Ma veniamo al nostri giorni: il Pascoli: «Io la mia Patria or
è dove si vive»; Panzini: «Io, dice ella, quando sento parlare
di affari, di roba di avvocati, mi viene la pelle d'oca»; Pavese:
«Piero era il suo genere spaventare la gente»; Sòffici: «Il mio
baracchino, ci si sta cosi bene, distesi nelle ore calde e lunghe»;
Tozzi: «La terra, restata soda, v! nascevano le canaptcchle e
gli stoppionl »; Fenoglio: «Un ragazzo di paese che i suoi sono
possidenti»; Gadda: «I capimastri, quando le loro madri se li
portavano ancora, alle dette madri gli Si fecero vedere dei cam-
melli, dei canguri, delle giraffe»; Landolfi: «Era un giovane
che, come suoi dirsi, gli puzzavano i baffi)). Potrei continuare,
ma mi pare che basti.
L'anacoluto, se si scorrono le grammatiche, si vedrà che è
addirittura elencato tra le cosiddette «figure sintattiche »,
assieme alla sillessi, alla prolessi, alla ipàllage e altre diavolerie
di questo genere. Ora però, dopo questo che ho detto, non met-
tiamoci a inzeppar le nostre prose di anacoluti. Noi non siamo
dei Machiavelll, non siamo dei Manzoni, e nemmeno del Panzl-
ni. In attesa di diventarlo, teniamoci alla regola, buoni buoni,
se non vogliamo passar per somari.

«Affittasi appartamenti», «V endesi locali» . ..


Non sono pochi quelli che sostengono la perfetta correttezza
di frasi come Affittasi appartamenti, Vendesi locali, dove quella
forma verbale al singolare stride malamente col plurale del

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nome a cui è congiunta. Ma stride evidentemente a pochi, se
scritte come queste si vedono a ogni angolo di strada.
Si tratta di un problemino di grammatica tanto elementare
che stupisce sentire gente che discute su frasi come queste.
Chi le trova corrette crede evidentemente che quel si unito alla
forma verbale formi una proposizione impersonale come in si
dice, si vede, si parte, cioè che quel si sia un pronome Indefinito
corrispondente al francese on. Niente di tutto questo . Per avere
una proposizione di questo genere occorre che quel si, col signi-
ficato di «la gente», «tal uno», «alcuno», sia il soggetto indefi-
nito di una proposizione dove il predicato verbale venga usato
intransitivamente o assolutamente .(dice , vede, parte). Anche
con vendere, affittare, comprare io posso costruire proposizioni
dove il si abbia valore di pronome indefinito: «Oggi si vende
a buon mercato», «Col prezzi che corrono, si affitta male»,
e simili. Ma nelle frasi viste piu sopra cl troviamo semplicemen-
te dinnanzi a normalissime proposizioni costituite da un sogget .
to e da un verbo nella forma passiva. Quel si, voglio dire, non
è un prònome indefinito ma la particella, detta appunto dai
grammatici « passivante », con cui si possono formare le terze
persone singolari e plurali del passivo del verbi. Vendesi negozio:
«negozio», soggetto singolare, « vendesi » "si vende, è venduto,
viene venduto, terza persona singolare dell'indicativo presente
passivo. L'accordo è perfetto. Affittasi appartamenti: «apparta ·
menti » soggetto plurale, «affittasi» ~ è affittato, viene affittato,
terza persona come sopra ma di numero singolare: errore evi -
dente perché una legge elementare della grammatica vuole che
a soggetto plurale corrisponda un verbo al plurale. Diremo
perciò Affittansi o Si affittano appartamenti, Vendonsi o .')';
vendono locali, e analogamente Compransi terreni, Lavansi pavi-
menti, Acquistansi vecchi mobili, ecc. Frasette di tutti i giorni,
grammaticalmente corrispondenti a frasi come «Si lodano le
buone azioni», «I negligenti si bocciano», «Sui tabelloni delle
case si scrivono errori marchiani ». Errori marchiani che si ripe-
tono monotonamente perché certe frasi diventano stereotipate,
diventano formule , e molta gente le usa cosi, senza pil.i ragio ·
narvi sopra.

99
«Che ora è?» o «Che ore sono? »
Si può dire in tutt'e due l modi. Dicendo <<Che ora è?» ci si
riferisce all'ora singola segnata dall'orologio In quel momento;
dicendo invece «Che ore sono?» ci si riferisce al complesso
delle ore segnate sul quadrante a partire da mezzanotte o da
mezzodì. A proposito di ora, ricordo che un giorno mi fu chie-
sto se debba dirsi «Sono le una » oppure «È l'una ». Dicendo
«Sono le una» si fa una proposizione ellìttica, cioè una proposi-
zione mancante di un elemento facilmente sottinteso: «Sono
le ore una». Anche qu i noi ci riferiamo a tutto il complesso
delle dodici ore segnate sul quadrante dell'orologio, tra le quali
peraltro concentriamo la nostra attenzione su un'ora sola: la
una dopo mezzogiorno o dopo mezzanotte. Debbo però subito
aggiungere che questa forma di domanda è propria di certe re-
gioni, e non oserei raccomandarla. In buona lingua si dice
meglio È l'una (=È l'ora una), grammaticalmente piu convin-
cente. Il plurale si userà correttamente dalle due in poi, nume-
rali per natura plurali: Sono le due, Sono le tre e cosi via.

Uno delle due dita


Mi hanno sottoposto questo problemi no: «In un testo di eserci -
zi musicali c'è questa frase: "sollevare poi uno delle due dita" .
E corretto quell'uno? Non sarebbe stato meglio dire "una delle
due dita?"»
Rispondo: no, sarebbe stato errore: dito, al singolare, è
sempre maschile, e non potrà mai associarsi all'articolo femmi-
nile una . Però il problemino resta, e non è davvero risolvibile
coi semplici precetti grammaticali. Anche il Leopardi, parlando
di certi uccell i, si trovò davanti al problema , ma scrisse senza
esitare« uno delle loro uova». Tuttavia la stonatura non è poca.
L'autore del libro musicale di cui sopra, particolarmente sensi-
bile alle stonature, avrebbe fatto meglio a girare l'ostacolo di-
cendo «uno dei due diti», o dire plu semplicemente, poiché
nulla si opponeva, «sollevare poi un dito». Il Leopardi non
aveva questa scappato ia . Infatt i in casi come questi sempre a
scappatoie bisogna ricorrere: dove un plurale è doppio, uno ma-
sch ile e uno femminile. la scelta è facile. Dante stesso, parl ando
di Manfredi, disse «ma l'un de' cigli un colpo avea diviso »:

100
cigli, non ciglia. Ma è sempre meglio ricorrere a un giro di frase
che allontani il piu possibile l'un genere dall'altro. Come fece
appunto lo stesso Dante, al canto XXX dell'Inferno, verso 55
e seguenti: «Faceva lui tener le labbra aperte, Come l'etico fa,
che per la sete L'un verso il mento e l'altro in su rinverte ».

Mezzo
L'aggettivo numerale mezzo, come ogni altro aggettivo, si accor-
da nel genere e nel numero col nome al quale si accompagna:
«fumare un mezzo sigaro», «bere due mezzi litri», «scarpe con
mezze suole», «mangiarsi mezza pagnotta». Su questo, tutti
d'accordo. Le incertezze cominciano quando mezzo, precedendo
un altro aggettivo, viene usato in funzione di avverbio, col si-
gnificato di a metà, per metà («Un uomo mezzo morto»),
oppure in funzione di sostantivo neutro, col significato di una
metà, posponendolo a un altro sostantivo a cui viene unito con
la congiunzione e («Un litro e mezzo»). È ovvio che se si
vuoi rispettare pienamente questo valore avverbiale, si deve
lasciare invariato l'aggettivo mezzo nella sua forma singolare
maschile in ogni caso; e si dirà correttamente, seguendo soprat-
tutto l'uso toscano, «Una donna mezzo morta», «Fiori mezzo
dischiusi», «Case mezzo crollate»; e analogamente, «Una pa-
gnotta e mezzo», «Due ore e mezzo». Leggiamo infatti in Papi-
n!: «In quella chiesa mezzo vuota».
Ma l'uso, anche qui, e fin dalle origini della nostra letteratura,
non è andato tanto per il sottile, ed esempi di concordanza,
anche presso ottimi scrittori, non ne mancano: « Rilucevano
due tizzoni già mezzi spenti» (Boccaccio); « La donna è mezza
morta di paura» (Ariosto); «Le montagne eran mezze velate
di nebbia» ( Manzoni ); e cosi pure:« Una libbra e mezza d'oro»
(Bembo); «Alle ore due e mezza di notte» ( Magalotti ). Come
si vede, ecco un altro dl quei casi dove la lingua italiana lascia
decidere al gusto di chi parla e di chi scrive. Se però un consi-
glio ci venisse chiesto, non esiteremmo a suggerire il rispetto
della forma avverbiale Invariata; specialmente nel secondo caso,
e in particolare nelle indicazioni delle ore quando il sostantivo
è sottinteso: «Sono le cinque e mezzo», «Ci vedremo alle dieci
e mezzo».

lO!
Salvo, eccetto
Si deve dire salvo le eccezioni stabilite dalle leggi oppure salve
le eccezioni stabilite dalle leggi? Sì può dire nell'un modo e
nell'altro, ma non sì dice la stessa cosa. Salvo, In costruzione
assoluta come nel caso nostro, può mantenere il suo valore di
aggettivo oppure assumere il valore di preposizione. Come ag-
gettivo deve naturalmente concordarsi sempre nel genere e nel
numero col nome a cui si riferisce; come preposizione resta
Invece Invariato. Usato con valore di aggettivo ha il significato
di «salvando», «purché sia salvo», «rispettando», «purché sia
rispettato», come è facile vedere in questo esempio: «È con-
sentito fare ricorso ecc. salve le eccezioni stabilite dalle leggi»,
e si dice anche, Infatti, «salve restando le eccezioni ecc. ». An-
cora: «Ammettiamo pure questi privilegi, salvi però i diritti
della comunità». Con valore Invece di preposizione il significa-
to cambia, e corrisponde a <<escludendo», «escluso», « fuor-
ché», «eccetto»; in questo caso, come ho detto, salvo resterà
Invariato: «Salvo incidenti, arriveremo In serata»; «Gli hanno
preso ogni cosa, salvo la macchina»; «Sono partiti tutti, salvo
le sorelle». Tornando al primo esempio, si potrà dire «salvo
le eccezioni» in una frase come questa: «Hanno applicato tutti
i vari casi della norma, salvo le eccezioni stabilite dalla legge»:
dove quel salvo significa appunto« fuorché».
Cl sono altri costrutti assoluti come questo che possono ge-
nerare dubbi. Per esempio, compreso : si deve dire «ha speso
centomila lire compreso le mance» o «comprese le mance»?
Qui , contrariamente a quanto pensa qualche grammatico, com-
preso non assume mai valore di preposizione o d'avverbio, ma
resta sempre aggettivo, e perciò la concordanza è d'obbligo:
«comprese le mance», «ingresso compreso», «compresi gli as-
senti». Ancora: escluso: «sono ammessi tutti, escluso i ragazzi»
o «esclusi 1 ragazzi»? Anche qui, sempre aggettivo, e perciò
la concordanza è d'obbligo: «esclusi i ragazzi». Analogamente,
per eccettuato: «eccettuate le spese», «riceve tutti i giorni ec-
cettuata la domenica». Non cosi invece per eccetto, che essen-
do solo preposizione resterà Invariabile: «eccetto me», «eccetto
voi », «eccetto la domenica».

102
Un costrutto che dà tono
MI ha scritto molto sorpreso uno studente romano per dirmi
che In certo mio articolo ho detto testualmente: «Di aggettivi
buoni per sostituire questo francesismo ce n'è parecchi». Non
solo, ma in un annuncio pubblicitario ha Ietto questa frase: «Di
cioccolatini ce n'è quattro in ogni astuccio». E aggiunge: «A
me hanno insegnato che si deve sempre accordare singolare
con singolare, plurale con plurale, e che bisogna dire perciò:
"Di aggettivi ce ne sono parecchi", "Di cioccolatini ce ne sono
quattro"». E conclude: «Mi hanno Insegnato male? Ho impara-
to male?».
Niente affatto, rispondo: gli hanno insegnato bene, e ha im-
parato benissimo: solo che non ha imparato tutto; ma a Impara-
re dell'altro c'è sempre tempo. La grammatica a proposito di
concordanze dice infatti che a soggetto plurale deve accordarsi
una forma verbale plurale: per esempio, «Toccano sempre a
me questi rimproveri», «MI sembrano mille anni», «Ci saran-
no state dieci persone», «Mancavano solo cinque minuti».
Però la grammatica non si ferma qui, perché aggiunge: l verbi
impersonali e anche quelli usati impersonalmente si mettono
a volte al singolare anche con un soggetto plurale. Perciò le
frasi ora dette possono svolgersi in forma impersonale cosi:
«Tocca sempre a me questi rimproveri»,« Mi sembra mille an-
ni», <<Ci sarà stato (non state, attenzione!) dieci persone»,
«Mancava solo cinque minuti». Perché è permesso far questo?
Perché in queste proposizioni il nome plurale, che nella costru-
zione personale fa da soggetto e richiede il verbo al plurale,
quando si passa alla costruzione impersonale col verbo al singo-
lare viene considerato complemento oggetto, e di conseguenza
non è piu necessaria la concordanza né in numero né in perso-
na. Spieghiamoci con qualche esempio. «Tocca a me questi
rimproveri: tocca a me che cosa? questi rimproveri »;« Mi sem-
bra, che cosa? mill'anni »; «Ci sarà stato, chi? dieci persone».
C'è di piu: è anche frequente l'anteposizione del sostantivo
plurale al verbo singolare: «Ladri ce n'è dappertutto», « Rim-
proveri me ne tocca tanti»; e perciò anche «DI aggettivi ce
n'è parecchi»,« DI cioccolatini ce n'è quattro». Si tratta, si ca-
pisce, di un di quei costrutti particolari che dànno colore, tono
a una lingua (non c'è lingua che non ne abbia), e che fanno
parte del gusto. dello stile di chi parla e di chi scrive. Chiamia-

103
mola una fiorettatura, un abbellimento, come dicono i musici-
sti. Fuor di Toscana, e soprattutto al Nord, può certo stridere
all'orecchio un accostamento ch'è in effetto una sconcordanza;
ma anche la costruzione a senso è una sconcordanza, anche
l' accordo d'un collettivo singolare col verbo plurale è una
sconcordanza, e quale sconcordanza maggiore di un anacoluto!
Vogliamo, come il solito, piluccare qua e là qualche esempio
firmato? Famoso è questo d i Dante: «L'un delli quali, ancor
non è molt'anni» (lnf, XIX, 19 ). Questo è del Leopardi:« V'ha
alcune poche persone al mondo, condannate a riuscir male in
ogni cosa». Nel Manzonl se ne raccolgono a manciate: « S'ag-
giunga quattro disgraziati»; «Ammalati non ce n'è, ch' io sap-
pia»;« Soldati non ne verrà certamente». Altrettanti, si capisce,
possiamo trovarne nel toscanissimo Fucini: «Mi sembrava mil-
l'anni »; «C'è punti morti?»; e cosi pure nel non meno toscano
Papini: «C'è ancora de' cristiani che han sentito raccontare ... ».
Nessuno del resto si stupisce più, neppure al Nord, davanti a
frasi come «Vent'anni fa», «Due mesi fa», le quali rovesciate
suonano «Fa vent'anni », «Fa due mesi». È la stessa identica
costruzione con un verbo impersonale singolare e con un sog-
getto plurale trasformato in complemento oggetto: «Fa che
cosa? vent'anni».

È con piacere che . ..


Questa volta l'occhio mi s'è fermato proprio sul principio d'una
lettera, che dice: «È con vero piacere che io leggo ... » Ahi ahi!
Un periodo cosi costruito, che incomincia cioè con una forma
impersonale del verbo essere seguìta dalla congiunzione che, ri-
calca esattamente il modello francese (c'est avec p/aisir que je
lis ... ), ed è assolutamente estraneo alla lingua italiana. Lo so:
è maniera tanto comune, ormai, che non ne vanno Immuni
neppure i grandi scrittori di oggi («È dopo una morte non de-
precata che si consuma tanta carta stampata», Moretti; «Fu
con grande ritardo che Raffaele apri gli occhi», Si! o ne); e dap-
pertutto si sente dire «E a te che parlo», «Fu per la speranza
di vederti che son venuto qui», «Sarà con vero diletto che leg-
gerò», «Non è senza commozione che io ricordo qui. .. », e via
di questo passo. Mi ascoltino l miei pazienti lettori: questa non
è lingua italiana. La vera lingua italiana tradurrebbe cosi le frasi

104
ora dette: «Parlo proprio a te», « Son venuto qui per la speranza
di vederti », oppure con piu forza, « Solo per la speranza di ve-
derti son venuto qui»;« Grande sarà il diletto con cui leggerò.»,
«Non senza commozione io qui ricordo ... ». Chi volesse soste-
nere che la costruzione alla francese ha maggior forza ed evi-
denza di quella Italiana pura, sbaglierebbe: si provi a considerar
questi e altri esempi, e se ne convincerà.
Naturalmente non sono invece errati i costrutti come «È lui
che ha parlato», «Sono loro che lo vogliono» e simili. Qui In-
fatti quel che non è congiunzione come negli esempi çli prima,
ma è un pronome relativo, equivalente a il quale, i quali.

Due sbagliatissimi « con»


«Con lunedì prossimo verremo in ufficio alle otto», «Con
domani comincio le mie ferie»: frasi · comunissime, ma .anche
sbagliate. Si tratta di una forma comune a molti dialetti set-
tentrionali, passata anche al gergo burocratico: «Con domani
verrete un'ora prima», «L'orario estivo andrà in vigore col
prossimo giugno». Con è preposizione che esprime compagnia;
il moto da luogo, sia pure in senso temporale, si esprime con
la preposizione da; diremo perciò «da lunedì prossimo», «da
domani», «dal prossimo settembre».
E giacché ci siamo, voglio richiamare l'attenzione del lettore
su un altro sbagliatissimo con, pur esso dialettale: «Con piO
mangi, piO Ingrassi». L'italiano dice «quanto piO mangi tanto
piu ingrassi», o piu alla spiccia« piu mangi e pili ingrassi».

Onde sapere, onde conoscere, onde fare ...


Lasciamo le onde al mare. Quando ricevo lettere che comincia-
no, per esempio, con questo piglio: «Mi rivolgo a lei onde sape-
re ... »; «Le scrivo onde conoscere ... », e via cosi ondeggiando,
in verità mi si arriccia il naso. Tuttavia devo subito aggiungere
che il mio purismo non arriverà mai a consigliarmi di affiggere
cartelli come quello che affisse Basilio Puoti a una parete della
sua scuola napoletana, che diceva testualmente: «Chi usa onde
in !scambio di affinché o di per è un solenne somaro!». Non
arriverò a questo. Ma il consiglio di non usarlo, o almeno di

105
evitarlo tutte le volte che è possibile, lo do con molta convin-
zione, non già perché, come dicono certe frettolose grammati-
che, sarebbe errore, ma perché quell'onde plu l'infinito con
valore finale, è brutto, è pomposo, e puzza ormai di burocratico
lontano un miglio.
Ho detto che errore non è; vediamo la faccenda con calma.
Si tratta di un avverbio che può assumere significati numerosi:
da quello primo di avverbio di luogo (da dove, donde, da cui,
attraverso cui: «Onde venisti?», Carducci; «Quella finestra
Ond'eri usata favellarmi», Leopardi;« Boschi inospiti e selvaggi
Onde vanno a gran rischio uomini ed arme», Petrarca), ecco
svilupparsi il valore di pronome relativo con funzioni diverse:
di cui («I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi Onde cotanto ragio-
nammo insieme», Leopardi), per cui («Qual è colui che cosa
Innanzi a sé Sùbita vede ond'e' si maraviglia », Dante); con cui
(«Quei sospiri ond'io nudriva 'l core», Petrarca), ecc. Fer-
miamoci al valore di con cui, cioè all'onde in funzione di com-
plemento di mezzo: vediamo subito che esso può assumere
analogo valore anche quando è seguito da un verbo all'infinito:
«E nella borsa !asciami cercare, Ch'io non mi trovo, onde cena-
re, un grosso» ( Redi ); «Non mancheravvi modi, onde obbli-
garmi » ( Forteguerri ); «L'un di soavi essenze intrisa spugna
Onde tergere i denti , e l'altro appresta Ad imbianchir le guance
util li core» (Panni). Il costrutto, si badi, risale al latino tardo,
come in questo esempio tratto da una predica dell'alto medio
evo: psa/mos jrequentius dicere unde anima m sua m a diabo/o li-
berare: «recitare piu spesso i salmi onde (=con cui) llberare
l'anima sua dal diavolo». Da questo onde plu infinito in funzio-
ne di complemento di mezzo, il passo alla funzione di comple-
mento di fine è stato breve, si che onde ha acquistato lo stesso
significato di per finale. E gli esempi abbondano anche tra le
«grandi firme»: «E che ti manca ond'essere il primiero?»
(Monti); «Manda una masnada sul Li montino onde castigare
que' villani della loro rebellione » (Grossi); e glu giu fino ai
giorni nostri: «Si affrettò di scendere In cerca di Pinella onde
avere un pretesto di lasciare il volume sul tavolino» ( Fogazza-
ro); nel Verga ne trovo a dozzine: «Fece un giro lungo onde
evitare la farmacia di Bomma », «Vengono apposta, onde ap-
profittare dell'occasione»,« Facendo gli scalini a quattro a quat-
tro, onde correre dalla baronessa», ecc .; « E adunato il consiglio
onde giudicare il grave caso» (Panzi ni); «Bevevano birra, onde

106
con un profondo sonno acquistare le forze necessarie per l pros-
simi strapazzi» ( Borgese ); «Doveva uscire .. .onde definire con
sollecitudine il nuovo stato dei giovani » ( Palazzeschi ); «Dove t-
t! pertanto compiere nuove e complicate giravolte onde rag-
giungere la stanza attigua» ( Landolfi ).
Con tutto questo, ch'era giusto dirlo, io rimango sempre del
parere che se le lettere che ricevo cominciassero con un «le
scrivo per conoscere » anziché «onde conoscere» mi eviterebbe-
ro quel famoso arricciamento di naso.
E mi spiace davvero di non essere d'accordo, in questa mia
convinzione linguistica, col Leopardi; si, proprio col poeta reca-
natese. Perché quella faccenda del cartello affisso dal Puotl alla
parete non fini li. Ché un giorno, Infatti (ce lo racconta France-
sco De Sanctis che fu allievo del Puoti ), capitò nella scuola
del letterato napoletano il Leopardi appunto, e si parlò, si capi-
sce, di letteratura e di linguaggio; e venne in discussione anche
quell'onde. Incredibile a dirsi: mentre il De Sanctis ne condan-
nava fieramente l'uso, e il Puoti compiaciuto approvava, il
poeta tranquillamente disse che quell'onde «non gli pareva un
peccato mortale, a gran mara vigila e scandalo di tutti noi»; e
aggiunse che «nelle cose di lingua si vuole andare molto a
rilento ... , e dire con certezza che di questa o quella parola o
costrutto non è alcun esempio negli scrittori, gli è cosa
poco facile ».

Il gerundio proibito
«È vero che non si può cominciare un periodo con un gerun-
dio?»: domande come questa mi piovono addosso a temporale.
E devo confermare che questa del « gerundio proibito » è una
di quelle storie di cui parlavano anche a me quando andavo
alle elementari. Nell'evoluzione del linguaggio, che oggi ha as-
sunto il carattere di alluvione e addirittura di frana, per cui
vengono spazzate via come fuscelli leggi sintattiche di ben altra
mole e peso, resistono, lncrollabilmente abbarbicati chi sa a che
cosa, strani miti, ubbiosi precetti; come questo del gerundio ca-
pofila, èome quello della virgola che non si mette mai prima
della congiunzione e, come quello del ma però e dell'a me mi
piace, che sono poco meno del peccato mortale. Sfatiamo
dunque una volta per tutte questa leggenda, e affermiamo che

107
col gerundio si pç>ssono cominciare tutti 1 periodi che si voglio-
no; «né a usar! o» disse bene una volta Leo Pestelli che era
stato anche lui tirato a .. . gerundiare «sembra volerei piu senno
linguistico di quello della farfalletta della "Vispa Teresa": Vi-
vendo, volando, che male tifo?». Come sarà nata questa leggen-
da cosi dura a morire, che tutti i maestri elementari ripetono
e che nessuna grammatica s'è mai sognata di insegnare? Miste-
ro. Apriamo Dante: «Ascoltando chinai in giu la faccia»;
«Cantando come donna innamorata»; Petrarca: «Fuggendo la
pregione ove Amor m'ebbe»; Boccaccio: « Perseverando adun-
que il giovane e nello amare e nello spendere»; il Manzoni:
«Divenendo sempre piu difficile il supplire all'esigenze della
circostanza ... »; il Carducci: «Ansimando fuggia la vaporiera»:
c'è da andare avanti per tutt'un libro. Vado giusto rileggendo
in questi giorni il Trionfo della morte di Gabriele D'Annunzio,
e mi imbatto spesso in periodi che attaccano con un gerundio:
«Andando verso le stanze della madre si sentiva meno inquie-
to»; «Camminando all'aria aperta .. . ». In una sola pagina del
capitolo X, seconda parte, ne ho incontrati quattro : «Pensando
ch'egli si sarebbe disteso ... »; «Essendo le canne di bocca al-
quanto larga ... »; «Contemplandosi nell'atto di far partire il col-
po ... »;« Accertando ch'egli poteva non uccidersi...». Ma c'è da
giurare che tra cent'anni si parlerà ancora a scuola di questo
gerundio.

Non lo fare, non farlo


Si può restare dubbiosi nella scelta di questi doppi costrutti:
non lo fare o non farlo, andarlo a trovare o andare a trovar/o?
Doverti dire o Dovere dirti?
I due costrutti sono entrambi corretti. È uno di quel casi
dove la grammatica cede il passo allo stile, al gusto personale.
La grammatica impone di collocare il pronome sempre dopo
il verbo, formando con esso un'unica parola, soltanto quando
questo pronome è il complemento di un Imperativo guàrdafo,
àmala, di un infinito (vengo per sa/utarti ), o di un gerundio
(vedendo/o , guardandola). In altri casi, che ora elencherò, il
pronome può precedere o anche seguire il verbo.
Primo caso: nell'imperativo negativo, formato con l'infinito

108
e la negativa non: Non farlo, ma anche Non lo fare; analogamen-
te, Non ti illudere o Non illuderti, Non glie lo dire o Non dirglielo .
Secondo caso: quando l'infinito è preceduto da un altro verbo
da cui dipende: Lo dovevi dire o Dovevi dirlo . La stessa regola
vale quando l'infinito dipende da un altro verbo pur esso all'in-
finito: solo che in questo caso il pronome sarà sempre posposto
e potrà unirsi all'uno o all'altro verbo: Potersi amare o Potere
amarsi, Andarlo a vedere o Andare a veder/o. Un esempio del
Redi: «E se anche lo puote tralasciare, può tralasciarlo » (parla
del latte da dare a un malato). Anche la seconda volta poteva
dire lo puo· tralasciare, ma ne veniva fuori un periodo non bello.
E questo esempio del Fucini: «Dovevi dirglielo, farglielo capi-
re ... Ecco, sf, glie lo dovevi dire». Anche qui si poteva ripetere
dovevi dirglielo: ma si sente subito che la diversa posizione del
pronome, con quella sillabazione spezzata, dà alla frase una
forza espressiva che altrimenti non avrebbe.

La prego di scusarmi
È piu corretto dire la prego scusarmi, mi pregio riferir/e oppure
la prego di scusarmi, mi pregio di r(ferirle? Questa povera prepo-
sizione· di è stata sempre la cenerentola della nostra lingua; a
cominciare dal di che introduce un complemento di specifica-
zione («il povero genitivo», come lo compiangeva Ugo Ojetti ),
che appena si può si abolisce, quasi fosse una parolona chilo-
metrica da levare il fiato e per niente intonata con la fretta
di questi nostri affrettatissimi tempi: scalo merci, posteggio auto ,
cassa malattie, sporte/lo raccomandate .. . Poi c'è, come nel nostro
caso, il di che introduce una proposizione retta da un verbo
all' infinito: anche· qui spesso si sopprime come inutile e pedan-
tesco: «Mi pregio riferirle », «Dimenticavo dirti », «Vi preghia-
mo volerei comunicare». La buona grammatica insegna che il
di davanti a un verbo all'infinito si può sopprimere solo quando
questo infinito funge da soggetto della proposizione: « È vietato
fumare» (cioè il fumare è vietato); «Non era permèsso fare
foto grafie » (il fare fotografie no n era permesso); e analoga-
mente: « Non mi fu possibile convincerlo»,« Gli era facile libe-
rarsene ». Potremo tuttavia dire anche benissimo: « È vietato
di fumare», «Non era permesso di fare fotografie », « Non mi
fu possibile di convincerlo », « Gli era facile di liberarsene ». Un

109
esempio di Pirandello: «Gli piaceva di studiare e di leggere»,
dove studiare e leggere sono i soggetti della proposizione. Ma
quando l'Infinito non fa da soggetto, il di bisogna sempre met-
terlo; perciò bisognerà dire: «La prego di scusarmi », «Mi pregio
di riferirle », e, analogamente, «Desideravo di vederti », «MI
onoro di ricever la », e cosi via.

«Fa niente» o« Non fa niente»?


La regola grammaticale a cui bisogna attenersi, a proposito del
due pronomi indefiniti niente e nulla, è semplice: essi hanno
forza di negazione solo quando sono preposti al verbo; quando
Invece sono posposti, richiedono sempre, nel corretto stile mo-
derno, un altro elemento negativo (non, nessuno, senza , ecc. ).
Esempi: «Niente mi piace»; «Nulla temo»: frasi correttissime.
Ma posponiamo niente e nulla al verbo, e dovremo dire: «Non
mi piace niente», « Non temo nulla». Ho detto nel corrente
stile moderno; perché In passato il costrutto senza la doppia
negazione era abbastanza frequente; famoso l'esempio dantesco:
«L'anima sempllcetta che sa nulla»; e questo del Tasso: «Non
so, né posso, né voglio se non replicar le medesime cose: son
nulla, so nulla, posso nulla, e voglio nulla». Avvertiva il Forna-
clari che questo trasgredire la regola poteva a volte conferire
forza e grazia al discorso; ma lo considerava sempre un'eccezio-
ne da lasciare soltanto a chi abbia autorità di scrittore. Oggi,
chi dice «Fa niente», «So niente», «Costa niente» e simili,
non lo fa certo con l'intenzione di dare forza e grazia al suo
discorso, ma semplicemente per Influsso dei dialetti, special-
mente settentrionali: Bugia nen, Fa gnént, Mi su gnént, e cosi
via. Teniamoci dunque alla regola, in attesa di avere autorità
di scrittori.

«Niente che fare» o «a che fare»?


Leggiamo a volte «Questo non ha niente a che fare con que-
sto», ma leggiamo anche «non ha niente che fare con questo>>.
Quale delle due è la forma corretta? Senza dubbio la seconda,
sebbene sia oggi la meno usata. Questo infinito in proposizioni
relative dipendenti è d'uso antico, che risaie addirittura alle ori-
gini della lingua. «Non sapeva che dirsi», leggiamo in Boccac-

110
cio; e anche oggi diciamo «non so che dire, che fare». Quel
che, uguale a che cosa, è un nòrmale complemento oggetto.
Altri modi analoghi sono per esempio «non c'è che dire», o
«c'era che vedere e che ascoltare», come leggiamo nel Verga.
L'espressione era dunque all'origine «avere» o «non avere che
fare»; e Infatti leggiamo per esempio nelle Cene del Grazzini
detto il Lasca (sec. XVI): «Che hai tu che fare con cotesto
villano?»; e nel Manzoni, al capitolo XV: «Mi lascino andare
ora ... lo non ho che far nulla con la giustizia»; e poco piu sotto:
«Ma io non ci voglio andare dal capitano di giustizia. Non ho
che far con lui>>. Come sarà sbucato fuori quell'a modificando
la frase in a che fare? Certamente da un incrocio del modo
tutto toscano ho a fare (fu or di Toscana ho da fare) con ho
che fare. Gli avverbi niente o nulla sono semplici aggiunte raf-
forzative. Consiglierei pertanto di attenersi alla forma antica;
e di dire, analogamente, «non ho nulla che vedere in questa
faccenda», «non ho mai avuto che dire con lui>>, meglio di
« a che vedere» e « a che dire ».

Piatti a farsi
La frase piatti a farsi, che nelle liste dei ristoranti si contrappone
a piatti del giorno, è una frasaccla alla francese, come tante altre
frasi ed espressioni proprie di queste liste, anzi menù, come plu
comunemente si dice. In italiano si dice piatti da farsi, cioè
da cucinarsi su ordinazione del cliente, cosf come tutti diciamo
(compresi l padroni e l gestori dei ristoranti) libro da leggere,
e non « libro a leggere », biancheria da lavare e non «biancheria
a lavare». Se l Francesi usano per il complemento di destinazio-
ne la preposizione à, e dicono /ivre à lire, finge à /aver, gl'Italiani
usano invece la preposizione da: ogni lingua, che diamine, ha
sue precise leggi, e bisogna rlspettarle anche al ristorante. Il
quale ristorante, ama particolarmente il francese, essendo un
tempo la cucina francese Il modello di tutte le cucine. DI qui
l'uso di Intitolare con pomposi nomi transalpinl le plu semplici
e comuni pietanze di casa nostra.

O bere o affogare
Con funzione semplicemente disgiuntiva, In una serle di parole
o di proposizioni coordinate, la congiunzione o è bene ripeterla

Ili
dinanzi a ciascun termine della serle, e in ogni caso sempre
tra l due ultimi. Potremo avere cioè questi tre costrutti: «O
bianca o nera o rossa, ma non gialla»; «Bianca o nera o rossa,
ma non gialla»; « Bianca, nera o rossa, ma non gialla>>. Ma
appare subito che Il primo costrutto, con la disgiuntiva ripetuta
davanti a ciascun termine, dà maggior forza alla proposizione:
«Sarà dolce insieme ragionare, Lungo i roseti, ne la notte bella;
O dormire su l'erbe; o pur vegliare Cantando in coro qualche
ballatella >> (D'Annunzio).
Se però la disgiuntiva o ha valore alternativo, essa deve
essere sempre ripetuta davanti al primo termine della serie:
«Disse tra sé: o n'ha fatta una, o qualcheduno la vuoi fare
a lui» (Ma ozoni); e sentite questo periodo del Boccaccio: « Sen-
za dubbio o ella t'ama, o ella t'ha In odio, o egli non è né
l'uno né l'altro». Ecco alcune frasi che abbiamo tutti nell'orec-
chio e che non si potrebbero costruire altrimenti: «O
bere o affogare»; «O mangiar questa minestra o saltar questa
finestra».
Ancora: se i termini si Intendono legati a coppie, la disgiunti-
va si ripete solo fra i termini di ciascuna coppia: «E qual sia
ph1, fa dubbio all'intelletto, La speranza o Il timor, la fiamma
o il gelo» (Petrarca); «Antichi o moderni, in prosa o in poesia,
famosi o meno famosi, i libri belli mi piaccion tutti».
Resta ora da dire l'ultima regola, che è quella, forse, che pll1
lascia perplessa la mia interrogante: quando la congiunzione o
disgiuntiva lega piu parole rette da un medesimo verbo, Il verbo
si mette di regola nel singolare: «Ritengo che l'uno o l'altro
figlio debba provvedere al mantenimento del padre»; «Sono
certo che tuo padre o tuo fratello mi verrd a trovare». Il verbo
non può essere messo nel plurale perché l'azione è ristretta a
una singola persona. Certo, la semplice o, cosi collocata, puo
essere scambiata per una congiunzione copulativa, assumendo
il valore della congiunzione e; ma non è questa certo la sua
natura. E allora, chi sa ben scrivere, o ricorre a una disgiuntiva
di maggiore spicco, cioè a oppure, o meglio ancora dà un giro
diverso alla frase : «Ritengo che al mantenimento del padre
debba provvedere o l'uno o l'altro figlio ». Si consideri questa
frase : «Suo padre o sua sorella lo accompagnerà»: frase corret-
tissima; ma molto meglio girarla cosi: «Lo accompagnerà suo
padre o sua sorella>>.

112
Sia .. . sia...
Oggi è comunissima la correlazione sia .. . che, anziché sia ... sia,
che è quella raccomandata dalle grammatiche; un sia ... sia .. . ,
ripetuto costantemente quante volte occorra. E un costrutto
che si richiama al latino sive ... sive, o seu ... seu, che negli anti-
chi testi classici troviamo ripetuto fin tre e quattro volte. Inol-
tre, anche l piu antichi esempi italiani lo confermano. In un
commento alla Commedia d'un contemporaneo di Dante, tro-
viamo: «Racconta gli effetti delle sue opere, e ciascuna pare
che voglia fama, sia di bene sia di male)); e sentite questo perio-
do di Daniello Bartoli, politlsslmo prosatore del Seicento: «A
voi solitario e romito, sia per natura, sia per professione, sia
perché la qualità e la condizion degli studi vi tiene In astrazione
di pensieri... )).
Se avessi tempo di cercare, troverei che questa e nessun'altra
è la correlazione che si usò in origine nella nostra lingua, ed
è quindi lndubitato che questo essendo Il costrutto originale,
esso andrebbe In ogni ca::.o rispettato. Ma, ben sappiamo, spesso
l'uso traligna, e qui anche ha tralignato. Già nel Tommaseo-
Belllni si può leggere che « il sia si ripete, ma può anche usarsi
il sia la prima volta e la seconda il semplice o ». In dizionari
piu recenti, anche nei migliori, si avverte che il secondo ele-
mento della correlazione può essere Introdotto anche da che.
Cioè si può anche dire: «Sia lui o un altro, per me è lo stesso)),
« Era Indifferente sia al biasimo che alla lode )). Specialmente
il che è oggi comunissimo anche presso l migliori scrittori. Ma
va da sé che se un consiglio dovessi dare, raccomanderei di
attenersi alla vecchia classica forma del sia .. . sia, ripetuto
anche dieci volte.

Entrare dentro, uscire fuori ...


Si ascoltano e si leggono spesso frasi come queste: entra dentro,
esca fuori , sali su, scendi giti... Ma è ovvio che chi entra va
dentro, chi esce va fuori , e cosi via. Uno potrebbe chiedersi:
«Non si tratta di una ripetizione Inutile?))
Bisogna fare Innanzi tutto una distinzione: quando dentro,
fuori, su e giri sono usati come preposizione e quando sono usati
come avverbio. Come preposlzlone è ovvio che non si potrebbe

113
abolirli: «entrò dentro il bosco»; «usci fuori dell'uscio»; «sali
sulla panca>>. Resta dunque solo il caso In cui queste parole
vengono usate come avverbio: «entrò dentro, e si guardò attor-
no »; «esca subito fuori! »; « sali su, e si affacciò alla finestra»;
«Scendi giu, se non vuoi romperti il collo!». E qui la .risposta
è semplice: gli avverbi dentro, fuori, su e giti sono qui aggiunti
al verbo allo scopo di dare alla frase una forza, un'evidenza,
un'lnclslvità che altrimenti non avrebbe. Sono cioè usati in fun-
zione intensiva. È un uso antico, come ben dimostra questo
esempio del Boccaccio: «E chetamente andatosene alla cella,
quella apri, ed entrò dentro e l' uscio richiuse ». A un seccatore
maleducato piu che un semplice «esca!» ci vien fatto di dire
«esca fuori!»; una madre che veda il figlio arrampicato su una
scala col pericolo di cadere, non si limiterà a dire un semplice
«scendi!» sia pure Imperativo, ma piuttosto uno «scendi giu! »,
dove quel giti sembra aggiungere la forza di uno scappellotto.

Dentro nel cassetto


Il costrutto della preposizione dentro con in o nel è frequentissi-
mo, ma oggi è piuttosto d'uso dialettale, frequente soprattutto
nel Settentrione. La grammatica Insegna che dentro, quando è
usato come preposizione, si può costruire sia direttamente (la
matita è dentro il cassetto), sia con l'ausilio della preposizi(tne
a (la matita è dentro al cassetto), sia infine, ma assai raramente,
e nell'uso letterario, col di (dentro del cassetto). Aggiungerò
che la preposizione di è invece prescritta davanti ai pronomi
personali: dentro di me, dentro di noi, dentro di loro; qualche
eccezione troviamo solo in poesia. Questa la regola generale
a cui sarà prudente attenersi. Perciò: «La giacca è dentro l'ar-
madio », «Guarda dentro alla valigia», « Osserviamo bene
dentro di noi prima di giudicare gli altri».
È chiaro che la costruzione con in, nel è nata dal bisogno
di rafforzare il concetto di dentro con un'altra preposizione di
significato affine; ma è un rafforzamento che qui non mi senti-
rei di giustificare. Accettabilissimo è invece l'uso di in o nel
dopo dentro quando quest'ultima preposizione è usata col suo
schietto valore avverbiale: «Era dentro fino al collo in quel pa-
sticcio», «Vedo ben dentro nella faccenda». Voglio tuttavia
~oncludere, a conforto del mio cortese lettore, che la costruzio-

114
ne «dentro nel cassetto» non è di oggi, ma è antica di secoli.
Un esempio dalla Vita del Cellini: «Non verrà a restare alcun
imbratto dentro nella tua forma». (Vero è che la prosa del Cel-
lini, presa dal vernacolo toscano, è zeppa di idiotismi e a volte
perfino di sgrammaticature.)

Davanti al, davanti il


Questo davanti (antiquato d'avanti) In funzione di preposizione
si costrui fin dall'origine in quattro modi: davanti il, davanti
di, davanti da e davanti a. Ecco quattro esempi classici: « Pas-
sando un giorno davanti la casa dove la bella donna dimorava»
(Boccaccio); «E come Il presente davanti di voi sarà posto»
(Boccaccio); «Si trovò un glorno ... davanti da lui assai nella
vista malinconoso » (Boccaccio); «Cosi davanti a' colpi della
Morte Fuggo>> (Petrarca). Le prime tre forme col correr dei
secoli languirono fin quasi a spegnersi; riappaiono solo in qual-
che testo letterario, come piacque fare al Carducci che Intitolò
una sua famosa poesia «Davanti San Guido» (il quale Carduc-
ci, però, scrisse anche «Il dittatore, solo, a la lugubre Schiera
d'avanti»); restò nell'uso solo la quarta forma con a; ed è quella
appunto che le grammatiche raccomandano.

«Dissimile a questo» o« da questo»?


Altro dubbio di costrutto (sono proprio questi i dubbi che ph1
spesso fanno restar sospeso con la penna in aria anche chi non
è proprio digiuno di lettere). Si può dire nell'uno e nell'altro
modo: dissimile a e dissimile da. In origine ci si atteneva allo
stesso costrutto di simile, essendo dissimile uguale a «non
simile»; e infatti leggiamo, per esempio , nel Boccaccio:
«Quantunque sieno spesse volte le figliuole a' padri e alle madri
dissimili>>. Ma presto dissimile si confuse coi sinonimi diverso
e differente, che si costruiscono con la preposizione da; e sull'a-
nalogia di «questo è diverso da quello>> si cominciò a dire
«questo è dissimile da quello»: «Qual fui! quanto dissimile Da
quel che tanto ardore, Che si beato errore Nutrii nell'alma un
di! » (Leopardi, Il risorgimento ).

11 5
« Insieme con », ((Insieme a»
Tanto l'una quanto l'altra forma si sono usate e si usano da
secoli: e aggiungerò che da secoli si usano anche le altre forme
assieme a e assieme con. Ricorriamo ai soliti esempi: «Però che
so n con noi insieme andati» (Dante);« Con lei insieme n'andò
· In Cipri » (Boccaccio); il Cellini: «Fu richiesto dai pifferi della
Signoria di sonare insieme con esso loro»; ma lo stesso Celllnl:
«Venne a trovarml assieme con un certo giovane». Altri esem-
pi, alla rinfusa: « Vientene insieme Con noi, ch'a viva forza
uscirem quinci » (Ariosto); «Lo alleverò assieme con i miei»
(Della Casa);« Insieme alla vostra sceltissima e meravigllosissi-
ma sorella» (Varchi);« Insieme ai suoi signori fratelli» ( Gali -
lei). Tra i moderni e contemporanei: «Il disegno . .. di correre
il mondo insieme a voi >> (N levo); « Le sette vele stanche Ve n-
go no innanzi insieme con la sera» (D'Annunzio); «Insieme
alla natura» (Montale); «Linda è insieme con Pablo >> ( Pave-
se);« Il cappellano era insieme a un soldato» (Cassola).
Insieme deriva dal latino in simul Unsimul), corrottosi nel
latino volgare in ìnsemel, sostituendo cioè seme/, una volta, a
simul, Insieme. Il latino simul si costruiva normalmente col cum
(=con), donde la nostra forma regolare insieme con; ma si co-
struiva anche con l'ablativo ( Simul nobis habitat dice Ovidio),
ed è probabile che l'ablativo plurale, simile alla forma dativa,
sia stato Interpretato come un complemento di termine: e di
qui il costrutto insieme a. L'altra forma, assieme, posteriore di
tre secoli, nata per un semplice scambio di prefisso, a Invece
di in, ha Imitato gli stessi costrutti. Che conclusione trame?
Ovviamente tra insieme e assieme, la forma etimologicamente
legitt ima è la prima. Lo stesso Tommaseo avverte che la prepo-
sizione insieme «è preferita dagli scrittori plu tersi». In quanto
al con o alla a con cui debba associarsi, anche il con è senz'altro
da preferirsi perché esprime relazione di compagnia, mentre a
esprime piuttosto direzione o appartenenza. Ma questa conclu-
sione che può valere di fronte alla forza dell'uso? Gli esempi
di sopra parlano chiaro, e sono essi che contano. Ciascuno usi
dunque la forma che piu gli piace, e magari ora l'una e ora
l'altra, secondo che gli consigli l'orecchio.

l 16
A Piazza Navona
Si sentono spesso in bocca romanesca, e si leggono anche In
libri di scrittori romani , frasi come queste: «Abitiamo a Piazza
Navona », «Rapinato un negozio a Via Nazionale». Doman-
da: l'uso della preposizione a invece di in, in questo caso è
corretto?
Qui non si può parlare di corretto o di scorretto; direi piutto-
sto che l'uso piu generale, in casi come questi, preferisce la
preposizione in di stato in luogo. Anche la preposizione a,
infatti, ha tra le sue varie funzioni quella di introdurre un com-
plemento di stato in luogo; dic iamo, per esempio,« vivo a Ver-
celli», «abitiamo alla periferia di Milano», «resterò a casa tutto
il giorno», «ci incontrammo a Trastevere »; ma possiamo anche
usare la preposizione in, e dire «vivo in Vercelli», «abitiamo
nella periferia di Milano», «resterò in casa», <<ci incontrammo
in Trastevere ». Voglio dire che lo scambio tra le due preposizio-
ni col valore di stato in luogo è frequente nella nostra lingua,
e solo l'uso, che può variare tra regione e regione, dà la prefe-
renza ora a questa ora a quella. Leggiamo, per esempio, nel
primo capitolo dei Promessi sposi: «il nome di questa, né il
casato del personaggio non si ritrovan nel manoscritto, né a
questo luogo né altrove». L'uso toscano, che è poi quello piu
generale, avrebbe preferito «né in questo luogo né altrove»; ed
è quello stesso uso, come prima dicevo, che ci consiglia di pre-
ferire« in Via Nazionale» e« in Piazza Navona ».

«Biglietto di visita)) o« da visita))?


La guerra tra il da e il di è sempre accesa: si deve dire biglietto
da visita o di visita ,festa da ballo o di ballo? Il li nguista di fronte
a queste battaglie, si trova francamente perplesso: da una parte
c'è il suo scrupolo linguistico che lo porta a sottilmente distin-
guere il valore dell'una o dell'altra preposizione; da un'altra
parte, invece, c'è l'uso, il larghissimo uso che guarda le cose
piu alla spiccia, piu praticamente se vogliamo, e che gli consi -
glierebbe di dire: ma lascia correre!
Ecco qua come stanno le cose: la preposizione da è di regola
usata a dovere nel complemento di fine o scopo, cioè quando
indica una destinazione occasionate, particolare, una idoneità,

117
un'attitudine singolare e non generale o specifica del soggetto.
B ben detto perciò sala da ballo o da pranzo perché il fatto
che Ci SI balli O Ci Si pranzi è un USO particolare assegnato a
una sala, che potrà domani anche diventare da conferenze o
da concerti;jazzoletto da naso in quanto destinato al naso, per
distinguerlo da quelli che possono essere destinati al collo o
alla testa. Diremo invece festa di ballo perché quella festa è
tale In quanto è di ballo, biglietto di visita perché la sua qualità
specifica è quella di rappresentare la persona che fa visita a
qualcuno; per lo stesso fatto diciamo senza tentennare biglietto
di viaggio, biglietto d'ingresso, biglietto di condoglianze, e non« da
viaggio)), «da ingresso)), «da condoglianze)). Ma, ripeto, c'è poi
l'uso che non ha simpatia per tante sottili distinzioni (anche
discutibili, a volte), e preferisce sempllflcare, e dire sala da ballo
e festa da ballo, fazzoletto da naso e biglietto da visita . Traggo
dal dizionario del Battaglia questo gruppetto d'esempi molto
esemplare davvero: «Un mazzetta di bel biglietti da visita»
(Leopardi); «I miei biglietti di visita)) ( Tommaseo ); «Una
trentina o quarantina de' miei biglietti da visita)) (Carducci);
«Un biglietto di visita sul quale era scrltto: "Vi amo ... ")) ( Ver-
ga); «I biglietti da visita)) ( Borgese ); « Innumerevoll biglietti
da visita)) ( Cecchi ). C'è da restare piu che mai sull'altalena.
Perciò, vorrei concludere, in sede teorica si potrà anche discute-
re e distinguere; ma in pratica, poi, non mi sentirei di emettere
una condanna severa.

Anche Dante diceva « ma però »


Anche questa domanda quante volte mi è stata rivolta? «Ma
però)) si può dire, o è errore? B un problemi no vecchio, un
problemino di sempre; se ne parlava un secolo fa, se ne parlerà
tra cent'anni. Ma perd non è errore, come molti credono e
come nelle scuole si continua a ripetere, non è neppure una
inutile ripetizione. B una semplice locuzione avverbiale raffor-
zata che dà un tono particolare al discorso. Strano che non si
discuta mai su altri rafforzamenti consimili, come ma invece,
mentre invece, ma tuttavia, ma nondimeno, ma pure. Quando
un mio maestro mi corresse il primo ma però, io non conoscevo
ancora Dante, se no avrei forse osato segnalargli il verso 143
del XXII canto dell'Inferno, che dice: «Ma però di levarsi era

118
neente ». Ma poi esempi di autori classici, per non dir dei mo-
derni e dei contemporanei, se ne trovano quanti se ne vuole.
Lo storico Giovanni Villani: «Si cominciò in Firenze infermità,
ma però non fu cosi grande .. . »; il Pulci: «Ma non tanto però
quanto n'ho visto». Non parliamo poi del Manzonl: «Io taccio
subito; ma è però certo che, quando Il mondo s'accorge che
uno ... » ( cap.l ); « .. .allora già in decadenza; ma non però a se-
gno ... » (cap. II); «Non era un conto che richiedesse una
grande aritmetica; ma però c'era abbondantemente da fare una
mangiatina » ( cap.XVII ). Tra l contemporanei non c'è che
l'Imbarazzo della scelta: «Ma però volle stare a sentire la con-
clusione del discorso» (Verga);« Neanche il Biondo aveva fatto
testamento, ma però lui sapeva ... » ( Cicognani ); «Sicuramente
ero ancora un ragazzo; ma però sognavo d'essere più grande»
( Baldini ).

Amemi
Altra espressione, come il famoso «ma però», che è da sempre
argomento di accese discussioni ed è costantemente condanna-
ta nelle scuole. Come devo ripeterlo? Non è errore, non è da
segnare con matita blu, e nemmeno con matita rossa. Qui pure
si tratta semplicemente d'un di quei casi in cui la grammatica
concede l'inserzione In un normale costrutto sintattico di
elementi sovrabbondanti al fine di dare alla frase un'efficacia
particolare, un particolare tono . E insomma uno del tanti accor-
gimenti stillstici di cui tutte le lingue fanno uso . Nel nostro
caso, il valore rafforzativo di quel mi pleonastico non può sfug-
gire a nessuno: «a me non la dai a intendere», «a me non
me la dai a intendere»; « a me questo non piace », « a me questo
non mi piace»: Identico concetto, ma tono diverso.
Si badi poi che questo a me mi non è un costrutto inventato
oggi; cl sarebbe da allineare esempi classici a bizzeffe, a comin-
ciar dal Boccaccio; del quale, nella novella ottava della giornata
nona, leggo questa frase: «Che arrubinatemi e che zanzeri mi
mandi tu dicendo a me?». Ed ecco un altro esempio, del Firen-
zuola: «Che mi fa a me? Ti conterà le cento lire, e tu me le
darai poi a me»; e uno del Redi: «Mi tratta meglio degli altri
autori, perché infine infine a me mi dà del signore, che non
lo dà agli altri»; e un altro del Salvini: «Non mi dite a me

119
che ad ogni modo ella non sappia». E, si badi, tanto il Redi
quanto Il Salvinl erano accademici della Crusca, e dèspoti nella
compilazione del famoso Vocabolario. Useremo matita blu per-
fino coi cruscanti? Ma veniamo ai giorni nostri: un esempio
del Giusti: «Ma In verità a me mi pareva di aver fatto la cosa
piu naturale del mondo»; questo del Carducci «Non mi dare
a me la colpa, Che no 'l seppi ritornar»; quest'altro del Verga:
«A me non me ne Importa nulla di quello che mi hai detto»;
e questo infine del Panzini: «Per di piu a me mi ha rovinato
Ovidio ».
Costrutto corretto, dunque, cosi come sono analogamente
corretti i costrut(i «lo so che a te non ti va questa faccenda»,
«a voialtri non vi dirò pili niente». Potremo forse aggiungere
questo: che trattandosi di una libertà stllistica, conviene frenar-
la, almeno nella scuola.

«Vuoi venire o non?»


Quanta gente, anche colta, scrive in questo modo, e non sa
di sbagliare! «Che tu lo voglia o non, la cosa non mi riguarda»,
«Che questo gli piacesse o non ci sembrava indifferente»: frasi
raccolte sul giornali, fin sui libri. E sono frasi sbagliatissime,
proprio da matita blu. Bisogna dire: «Vuoi venire o no?»,« Che
tu lo voglia o no», «Che gli piacesse o no». Ed è presto spiega-
to il perché.
La negativa no, cosi fortemente tonica, riassume In sé tutto
un discorso (l grammatici la definiscono parola olofrastica,
come il sf affermativo): «Vuoi venire o no?»; quel monosillabo
no racchiude infatti l'intera frase sottintesa« non vuoi venire?»;
tanto vero che noi possiamo anche dire distesamente «Vuoi
venire o non vuoi venire?». La negativa non, invece, non ha
questo valore riassuntivo, ma è soltanto la premessa negativa
di una frase che segue. Nessuno Infatti alla domanda «Vuoi
venire?» risponderebbe col semplice «Non», che lascerebbe la
frase In sospeso; ma o risponderebbe per esteso «Non voglio
venire», o userebbe la negazione «No» che riassume questa
frase. Vittorlni intitolò un suo libro Uomini e no, come dire
«Uomini e non uomini»; «Uomini e non» sarebbe stato un
titolo strafalcionato.

120
Abboccare
È nato transitivo, non ci son dubbi. Da un primitivo significato,
ora fuor d'uso, d! ((incontrare affrontando», usato nel riflessivo
reciproco abboccarsi, quasi «scontrarsi a bocca a bocca, a faccia
a faccia», come chiaramente appare da questo esempio di Gio-
vanni Villani (sec. XIV): «Si feciono loro incontro . .. abboc-
candosi a battaglia», da questo significato ecco derivarne un
secondo, per maggiore influsso della componente «bocca», che
è quello tuttora vivo di «afferrare con la bocca»; e se ne cita
un primo esempio quattrocentesco, dal Morgante del Pulci:
« Fecesi incontro un fier lion gagliardo, Che si pensava abboc-
care un agnello». Da allora gli esempi classici abbondano, e
tutti transitivi: «Il toro abbocca l'erba con destrezza» (Giovan-
ni Andrea Dell'Anguillara, sec. XVI); <<Abbocca la zinna Del
fiasco e della tazza» (Buonarroti il Giovane, sec. XVII); « Que-
ste farfalle sono agevolmente abboccate dai pesci» (Giovanni
Targioni Tozzetti, sec. XVIII); fino agli autori moderni e
contemporanei: «Imitano la volpe della favola, che sfatava i
grappoli dell'uva come troppo acerbi, solo perché non poteva
abboccarli» (Gioberti); «È fatto come i merluzzi, che abboc-
cherebbero un chiodo arrugginito» (Verga);« I cani che ustola-
no sotto la tavola del padrone per abboccare i minuzzoli e gli
ossicini che cado n per terra» ( Papin! ); «L'anguilla non lascia ...
quel che ha abboccato» (Via n i). Sempre transitivo anche nel-
l'uso · figurato: « Correano i cuori semplicetti... Ad abboccar
quell'esca» ( Redi, sec. XVII);« Avevamo sperato che la nostra
proposta, abboccata da loro, avrebbe attirato l'Ordine intero))
( Manzoni ). È poi frequentissimo l'uso assoluto del verbo, cioè
non seguito da un complemento: «Agitavo la lenza in modo
che i poveri animali non potessero abboccare)) ( Svevo ); e nel
figurato: « Pentiti di avere abboccato troppo alla leggera)) ( Pa-
lazzeschi ).
Proprio da quest'uso assoluto è nata, a mio avviso, quella
forma intransitiva che ha finito col soppiantare quasi la forma
originaria transitiva del verbo, si che oggi sempre piu comune-
mente si dice« abboccare all'amo, all'esca)). E una forma relati-
vamente recente, che parte ·dalla fine del secolo scorso; lo stesso
Verga, che come sopra s'è visto aveva usato nei Malavoglia
la forma transitiva, poco piu tardi, in un suo racconto, usò
quella intransitiva: «La baronessa fingeva di abboccare alle
121
lodi »; e da questo momento l'intransitivo predomina, spe-
cialmente negli scrittori piu recenti: «Non abboccavano alle
polpettine avvelenate» (L ili i); «Io avevo l'ingenuità di abboc-
care immancabilmente a questi ami grossolani» (Mora via);
«Neppure per quella via abboccavo alle sue piacevolezze »
(Bernari ). .
Si rimane a questo punto perplessi: quale costrutto scegliere?
Rispettiamo pure l'autorità degli illustri autori ora citati; resta
però incontroverso che il verbo .nacque transitivo e che tale
restò per quasi sei secoli consecutivi senza oscillazioni di sorta;
e io non esito a dire che il costrutto «abboccare all'amo, all'e-
sca» non può non considerarsi abusivo.

Abdicare
Il latino ab(/icare nacque transitivo; esso valeva propriamente
«respingere», «rifiutare», «non riconoscere», composto com'è
di ab separatlvo e di (/icare, dichiarare solennemente. I Latini
dicevano, costruendo col complemento oggetto, ab(/icare legem,
respingere una legge, abdicare magistratum, consu!atum, rifiuta-
re la carica, il consolato. E transitivo è sempre rimasto, dalle
origini fino al secolo scorso. Un esempio del Boccaccio:« Abdi-
cò Olimpia (la ripudiò) e prese per moglie una sua nepote >>.
Altri esempi: «Lo sventurato ... aveva ... abdicato, per dir cosi,
sé medesimo» ( Manzoni ); «Il nostro programma l'abbiamo
talora taciuto ... non l'abbiamo abdicato mal» (Mazzin!). Se si
consultano i dizionari piu antichi, si trova che abdicare è regi-
strato soltanto come transitivo; cosi fa appunto il Tommaseo,
che cita gli esempi «abdicare un diritto», «abdicare la propria
libertà>>.
L'uso intransitivo di abdicare fu introdotto, ripeto, nel secolo
scorso, probabilmente per influsso di rinunziare, che ha subito
la stessa evoluzione di costrutto. Il primo esempio Intransitivo
che trovo sul dizionario del Battaglia è del Nievo: «Egli ricade
a Lipsia; abdica all'Impero di Francia, al Regno d'Italia e si ritira
all'isola d'Elba». Cosi, via via, la costruzione intransitiva si
afferma; tanto che i dizionari piu recenti danno a questa la pre-
minenza, registrando quella transitiva come meno comune o
letteraria o addirittura antica.

122
Adempiere
SI deve dire adempiere una cosa o adempiere a una cosa? E
indubbio che il verbo latino adimplère era soltanto transitivo,
e si costruì sempre col complemento oggetto; e sempre transiti-
vo restò anche in Italiano, almeno fino a quasi tutto il Seicento.
Adimplére è verbo composto del prefisso ad- e di implére, empi-
re, e significò dapprima «empire interamente» e plu tardi
«compiere>>. Come da implére sono derivate le due forme ém-
piere ed empire, cosi abbiamo anche la doppia forma adémpiere
e adempìre, entrambe vive nell'uso; con gli stessi mutamenti
di coniugazione: adempio o adempisco, adempiuto e adempito.
Dunque, verbo nato transitivo, e gli esempi, dai plu antichi,
vanno tutti d'accordo: cominciando dal duecentesco Iacopone
da Todi («Pigliare voglio pensamento A no adempir lo suo ta-
lento») e proseguendo con Dante («Quello ufficio adempie
Che non si può fornir per la veduta»), col Boccaccio («I ior
disii adempierono»), col Tasso («Il mio desir, tu che puoi solo,
adempi»), per arrivare ai moderni, come il Manzoni, che usò
costantemente il transitivo («per adempiere interamente il suo
obbligo», «adempire un dovere preciso», ecc.), il Leopardi
(«La natura crude!, fanciullo Invitto, Il suo capriccio adem-
pie»), fino ai contemporanei come il Croce («Equilibrato è
colui che conosce e adempie la sua propria e Individuale mis-
sione»), il D'Annunzio («A ilor sarà adempiuta la parola che
è scritta»), il Bontempelli («Solo cosi potrò adempiere il mio
compito»), il Silone («Poiché il voto era fatto, doveva adem-
pierlo»), ecc. ecc. Nell'uso letterario si incontra ancor oggi il
verbo adémpiere nel significato originario di «riempire», «col-
mare»; e anche qui si trovano esempi con costruzione transiti-
va: «Ecco, io vi mostro di quella dolcezza Che tutto adempie
il regno d'ond'io fui» (Carducci);« L'accappatoio che adempi-
va la forma e la statura della bella defunta» ( Bacchelll ).
I primi esempi di costruzione intransitiva appaiono, come ho
detto, alla fine del Seicento. Si cita, solitamente, quello del Sal-
vini: «Negligenza d'adempiere agli uffici e ai doveri»; il quale
Salvinl però, bene spesso si valse anéhe della costruzione
transitiva: «Adempiono le veci e l'ufficio di Dio». Tra l nostri
contemporanei, esempi di costruzione intransitiva certo non
mancano, anche fra scrittori vigilati, se non proprio di tem-
peramento puristlco: «Non aveva adempiuto alla promessa>>
123
( Pirandello ); «Il fante adempie intanto alle prescrizioni del me-
dico» ( Baldini ). Ma là costruzione transitiva, l'unica storica-
mente valida, è senz'altro da preferire.

«Appropriarsi una cosa» o« di una cosa»?


Appropriarsi non è una forma riflessiva e neppure intransitiva
pronomlnale, non corrisponde affatto ad «appropriare sé», ma
ad «appropriare a sé». Appropriare è infatti verbo transitivo e
significa «dare in proprietà»: « Ebbono il castello di Simifonte,
e fecionlo disfare e Il poggio appropriare al comune»: cosi si
legge nella Cronica di Giovanni Villani. Assai piu usata, fin
dalle origini, è tuttavia la forma appropriarsi, che vale, ripeto,
«appropriare a sé», «dare in proprietà a sé», e quindi « attri -
buirsi»,« prendersi» come chiaramente e costantemente appare
dal seguenti esempi, che coprono il corso di sette secoli: ii Co-
storo s'appropriano tutti gli onori» (Dino Compagni); «Perché
tu veggi con quanta ragione Si move contr'al sacrosanto segno
E chi 'l s'appropria e chi a Lui s'oppone » (Dante); «N iuna
cosa non ci appropriamo e non prendiamo se non in prestanza»
(Sacchetti);« Non posso persuadermi che Vostra Signoria Illu-
strissima si debba appropriare offesa comune» (Tasso); «Il
corpo ha due mani, colle quali s'appropria l'uso delle cose este-
riori» (Giordani); «S'appropriò l beni che amministrava>>
( Tommaseo ); «Si parlava .d'indurre Maria Teresa ad appropriar-
si il Friuli Veneto>> ( Nievo ); «Si appropriò il dolore, le angu-
stie, le piccole cose che aveva intorno>>(Renato Serra);« Gente
che s'appropria il male altrui >> ( G.A ..Borgese ); «Il comuni-
smo tenta di appropriarsi l'arte e la cultura dell'Occidente >>
( Moravia).
Se si trattasse di. un autentico riflessivo, la particella prorio-
minale si sarebbe il complemento oggetto della proposizione;
ma nelle frasi ora citate il complemento oggetto è un altro:
«tutti gli onori», nell'esempio del Compagni, «il sacrosanto se-
gno>> nell'esempio di Dante, « niuna cosa>> in quello del Sac-
chetti, «offesa comune», nell'esempio del Tasso, e cosi via.
Dunque, il si è un complemento di termine. È lo stesso caso,
come sopra ho accennato, dei verbi, in qualche modo sinonimi,
attribuirsi, arrogarsi, prendersi: «Attribuirsi un titolo», « Ar-
rogarsi un diritto», «Prendersi le cose altrui». Un uso

124
schiettamente riflessivo di questo verbo si ha, per esempio, nel-
l'accezione, in verità poco comune, di «adattarsi in modo pro-
prio, in IT)Odo conveniente»: «Parole che male si appropriano
a questo genere di musica».
So bene che il costrutto «appropriarsi di una cosa » è comu-
nissimo nell'uso, e non è raro trovarlo anche presso qualche
scrittore («Mi sono permesso di appropriarmi di questo cesti-
no», Tomasi di Lampedusa; «Tentavo di appropriarmene»,
Piovene); questo però non toglie che sia un costrutto errato.
Senza dubbio esso è nato per analogia con altri verbi di signifi-
cato affine, come impadronirsi, impossessarsi, i quali sono peral-
tro verbi intransitivi pronominafi, e si costruiscono appunto con
la preposizione di: «Impadronirsi del denaro altrui», « Impos-
sessarsi di un oggetto ».

Assolvere
Anche il verbo assolvere è nato transitivo, e transitivo resta
almeno fino a nuovo ordine (vero è che gli ordini, oggi, vengo-
no appunto dagli sgrammaticatl ). Il latino absò/vere, da cui il
nostro verbo discende, si costruiva infatti soltanto con l'accusa-
tivo; che sarebbe il nostro complemento oggetto, in ogni sua
accezione; e questo costrutto è stato costantemente rispettato
nella nostra lingua, sta nel primo significato di sciogliere, libera-
re («Onde Morte m'assolve, Amor mi lega>>, Petrarca); sia nel
significato di liberare da un'accusa, prosciogliere («Assolver
non si può chi non si pente>>, Dante); sia infine nel significato
di compiere, disbrigare, adempiere, quasi come liberazione da
un obbligo assunto («Dante ha perfettamente assoluto quello
che in diversi autori si trova», Lorenzo de' Medici;« Assolvono
con entusiasmo il compito» Sbarbaro; «Raccontare per adorne
parole ciò che tu assolvi In due tratti», Panzini ). È proprio in
quest'ultima accezione che oggi s'Inciampa nell'errore, dicendo
«assolvere al propri Impegni»,« assolvere al compi t~ ricevuto».

Attenere
Un altro dei tanti verbi appetiti fino alla nausea dal solito
linguaggio burocratico: «Per quanto attiene alla gestione del-

125
l'azienda ... », «Questo non attiene all'argomento», e cosi via
attenendo. Una volta si usavano verbi meno ricercati, come
riferirsi, concernere, riguardare, e cl si capiva benissimo; soprat-
tutto non si rischiava di sbagliarne il costrutto. Infatti oggi mol-
tissimi, scambiandolo per un transitivo, dicono «attenere una
cosa» e non «attenere a una cosa: «Per quanto attiene la gestio-
ne dell'azienda» e non «alla gestione dell'azienda», «Questo
non attiene l'argomento » invece di «Questo non attiene all'argo-
mento». Si tratta di un impennacchiato latinismo, del solito pa-
rolone, uno dei tantissimi del moderno linguaggio. E i paroloni
spesso tendono insidie pericolose a quelli che vogliono trastul-
larsi con cose p!U grandi di loro.

«Derogare a» o «da»?
Si deve dire «derogare a una legge», «derogare a una norma»;
bisogna cioè usare quel complemento di termine che corrispon-
de al caso dativo usato dai Latini: Cicerone diceva infatti dero-
gare legi. Questo verbo, schietto latinismo, fu all'origine della
nostra lingua d'uso squisitamente letterario; cominciò a usarlo
Dante nel Convivio: «Non intendo però a quella in parte alcuna
derogare, ma maggiormente giovare». Lo usò spesso il Boccac-
cio: «Al primo sacramento debitamente fatto, niuno puote di
ragione derogare» (Fi/o'co/o ); « Niuna legge si riformava, a
n iuna si derogava» ( Vita di Dante); e via via molti altri autori
fino all'Ottocento.
A questo punto, entrato nel linguaggio cancelleresco, se ne
fece tanta orgia che il verbo si vide socchiudere in faccia, se
non proprio chiudere, la porta dell'uso letterario piu vigi lato.
Oggi derogare trionfa nelle aule dei tribunali, in quelle parla-
mentari, negli uffici amministrativi: luoghi tutti, senza far torto
a nessuno, dove il linguaggio anziché raffinarsi si deteriora.
Cosi, negli uffici nacque l'errore di costrutto, che poi passò alle
stampe e alla radio. Resta ora da domandarci come possa essere
nato questo nuovo costrutto; l'origine non può essere che ana-
logica: è il richiamo di altri verbi col prefisso de-, e corretta-
mente costruiti col da, che ha generato l'errore; come detrarre
(«detrarre dal totale»), come desistere («desistere dalla lot-
ta>>), come decadere («decadere dall'antica grandezza») e
alcuni altri.

126
Firmarsi
SI sente dire a volte: « Il tale si è firmato con un nome falso ».
Come si spiega questa forma riflessiva? Può uno «firmare sé
stesso»?
L'italiano firmare deriva dal firmare latino che significava
«confermare»; perciò firmare una lettera, un contratto, signifi-
ca propriamente confermare con il proprio nome scritto in calce
quel che sopra è dichiarato. In passato, come formula di chiu-
sura delle lettere, si usava addirittura il riflessivo confermarsi;
In frasi, per esempio, come questa che traggo da una lettera
del Galileo: «Non ho per ora che dir plU a vostra signoria illu-
strissima, salvo che il confermarmele servitore umilissimo»:
cioè dichiararmi fermamente suo ecc. Voglio dire che firmarsi
non significa «firmare sé stesso» ma confermarsi, dichiararsi
fermamente quella tale persona che ha scritto ciò che è conte-
nuto nella lettera, nel documento e simili. Questa conferma si
fa poi materialmente col nome vergato di proprio pugno, cioè
con la firma. Qualche esempio classico di questa forma riflessi-
va: «Immemore in ciò di sé stesso, non arrossi di sempre fir-
marsi: Voltaire, Gentiluomo di camera del re» (Alfieri); «Fin
qui ci sono, e mi ci firmo anch' io» (Giusti); e un esempio
di scrittore contemporaneo: «Sul registro della Pensione s'era
firmato: commendator Basilio Gori » (P lrandello).

«Fuggir di casa» o« da casa»?


Il moto da luogo o la provenienza si esprime correttamente
tanto con la preposizione da quanto con la preposizione di. Una
regola che fissi nettamente l'uso ora dell'una ora dell'altra
preposizione non può stabilirsi: le grammatiche infatti !segnano
genericamente che spesso con valore di moto da luogo, di pro-
venienza, la preposizione da può sostitui;rsl con di, dando mag-
gior finezza alla frase. La regola è quindi dettata dall'uso, spesso
dalla tradizione regionale, spessissimo dal gusto di chi parla o
di chi scrive. Un Milanese dirà «fuggire da casa», un Toscano
dirà «fuggir di casa». Normalmente si dice «uscirono dalla cit-
tà», «venivano da Firenze», ma un Toscano preferirà dire « u-
scirono di città», «venivano di Firenze>>. Ricordiamo Dante:
«Si della scheggia rotta usciva insieme Parole e sangue»; o

127
anche: « Vegno del loco ove tornar disìo ». E un esempio del
Boccaccio: « Partirsi di Palermo». E questo d'un moderno, del
Giusti:« Li spinge di Croazia e di Boemme ».
Ci sono poi frasi dove la preposizione di si è stabilizzata dap-
pertutto, anche nel Settentrione: «l'automobile è uscita di stra-
da» e non «dalla strada»; «lo hanno portato via di prigione>>
e non «dalla prigione». Specialmente si preferisce il di con gli
avverbi di luogo: «va' via di qui», «uscite di là », «movetevi
di lì », «scendeva di lassù», «levatevi di t6rno » ecc. Anche
quando sia espresso il secondo termine di moto a luogo le due
forme si alternano: «da qui a li», ma anche «di qui a li»; «da
qui a Torino», ma anche« di qui a Torino».

Inerente
Questo inerente è il participio presente di un verbo inerire ormai
pressoché scomparso dal comune linguaggio, e perciò general-
mente non registrato dai minori dizionari; esso affiora solo
tratto tratto in certi linguaggi particolari, come in quellogiuridi-
co e filosofico, per esempio. Oggi solo inerente è nell'u so, e
non sempre si costruisce a dovere; tanto che frasi come «atti
inerenti la causa», «indagini inerenti il delitto» si incontrano
sempre piu di frequente negli atti giudiziari soprattutto. Sono
frasi sbagliate perché il verbo inerire, etimologicamente affine
ad aderire, si costruisce, come questo, col complemento dl ter-
mine e non col complemento oggetto: «atti inerenti alfa cau-
sa», «indagi ni inerenti al delitto».
!nerire viene dal latino inhaerere, propriamente« essere attac-
cato», e significa «avere stretta connessione con qualche co-
sa», «direttamente riferirsi», «essere attinente» e simili. I
Latini costruivano questo verbo col dativo (che corrisponde ap-
punto al nostro complemento di termine), ma anche con l'ad
e l'accusativo o con l'in e l'ablativo. L'italiano si attiene comu -
nemente al dativo: «Ragioni inerenti alla sostanza e all'origine
delle cose» ( Tommaseo ); «La -libertà di Dio inerisce alla sua
eterna ragione» (Croce); con l'in, ormai disusato, trovo un
esempio del Magalotti: « Facoltà ... inerenti in un fondo dell'l-
stessa natura ». Niente complemento oggetto, dunque, errorac-
cio assolutamente da evitare. Il quale complemento, certo,
deriva da un'errata analogia con altri verbi, come concernere

128
e riguardare, che si costruiscono Infatti col complemento
oggetto: «Atti concernenti la causa», «Indagini riguardanti il
delitto».

Iniziare
« Le lezioni st tntztano alle nove » o « tntztano alle nove »? .. .
Alcuni anni fa avevo cominciato a raccogliere in un quadernet~
to, per mia documentazione, tutti gli iniziare usati intransitiva-
mente ritagliandoli da riviste e giornali. I giornali, si sa, si fanno
in fretta, spesso non si possono neppure correggere con la
dovuta attenzione, e certi errori possono fino a un certo punto
spiegarsi. Ma poi ecco che questi ritagli cominciarono a formar
mucchio, non solo, ma anche a fregiarsi di firme autorevoli
e piu responsabili di quelle di frettolosi cronisti o di affannati
inviati speciali. E allora pensai che era piu semplice fare l'opera-
zione opposta, ritagliare cioè 1 documenti dell'uso transitivo di
questo verbo, l'unico , a mio avviso, che possa dirsi corretto.
Da questa premessa chiaramente si deduce che l'uso intransi-
tivo di iniziare è quello ormai imperante, e le ripetute disappro-
vazioni dei linguisti, di fronte a questa battaglia ormai perduta,
a questa disastrosa disfatta, potranno apparire soltanto come
vane ciance o tutt'al piu come patetici rimpianti. Ma una
giustificazione dell'errore devo pur darla a quei lettori che mi
rivolgeranno la domanda: perché l'uso di iniziare intransitivo
è sbagliato? E sbagliato perché il verbo deriva dal latino initiare
che fu sempre e soltanto transitivo; e come transitivo si usò
dall'origine anche il nostro iniziare; e i pochissimi esempi anti-
chi di uso intransitivo, che vanno oltre il Quattrocento, non
possono certo alterare una cosi secolare e ininterrotta tradizio-
ne. Dai primi del Trecento fino a qualche anno dopo questo
secondo dopoguerra~ il corretto Italiano (sull'esempio di Dante:
«Pensa, Iettar, se quel che qui s'inizia Non procedesse, ecc.»)
aveva detto sempre «lo spettacolo si inizia», «si iniziano le
lezioni», «le lezioni si sono iniziate», e non come oggi da tutti
si dice «lo spettacolo inizia», «Iniziano le lezioni», «le lezioni
sono iniziate», inconsciamente irrispettosl di quel si passivante
che è uno dei modi di volgere al passivo un verbo transitivo
attivo («iniziare lo spettacolo»,« Iniziare le lezioni»). Altro che
ritorno ct'i un'antica abitudine, come qualcuno ha voluto gene-

129
rosamente giustificare Il nuovo costrutto! La verità è che l' uso
intransitivo oggi imperante, ben lontano dal rlconnettersl a
qualche Isolato esempio del passato, si deve soltanto all'errore
del solito sgrammaticato scrittore, digiuno di latino e di buone
lettere, il quale trascinato dall'analogia col verbo cominciare,
che ha appunto fin dall'origine 1 due costrutti transitivo e In-
transitivo, prese a dire «le lezioni iniziano alle nove» cosi come
aveva sempre detto «le lezioni cominciano alle nove ».

Ritornare
Questo verbo usato come transitivo nel significato di « rende-
re», «resti t'..! ire», «rimandare indietro», «riportare indietro>> e
simili è stato sempre avversato dai puristl, anche dai piu blandi
e di manica larga. «Ti ritorno il libro che mi hai prestato»,
«Vi ritorniamo l'acclusa ricevuta ... ». Lo difese, come tanti altri
veri o presunti francesismi, il Viani, che fu anche accademico
della Crusca. Tutti gli altri, una voce sola di condanna. Senza
dubbio io stesso non mi sentirei di condannare una frase come
« Ritornare in vita un morto », ché già nel Boccaccio leggiamo
«nel primo stato e in maggiore intendeva di ritornarlo »; c'è
poi nell'Ariosto un analogo uso nei versi « Or l'alta fantasia ...
quindi mi guida E mi ritorna ove ... », cioè mi riaccompagna,
mi riporta. Sono anche noti i versi carducciani del Passo di Ron-
cisvalle: «Non mi dare a me la colpa Che no 'I seppi ritornar .. . »,
e mi vien sott'occhio, tra i miei spogli, questa frase del De
Sanctis: «La vita militare gli ritornò il sapore della vita». Potrei
allineare altri esempi (il Vlani, appunto, ne citò parecchi, a co-
minciare dal Quattrocento); ma sarebbero tutti esempi di lette-
rati, spesso trascinati all'uso dal metro o dalla rima. Ma usato
cosi nudo e crudo come nelle frasi «Vi preghiamo di ritornare!
l'allegato documento», «Vi ritorniamo la merce speditaci in
data ecc. » è francamente brutto, per di pi\1 Inutile, e perciò
da lasciare al solito linguaggio commerciale o ai dialetti.

Sbagliare, sbagliarsi
Le forme raccomandate dai grammatici sono quelle Intransitive
(«ho sbagliato», « attento a non sbagliare»), che troviamo co-

130
stantemente usate da quegli scrittori classici l quali ci fornisco-
no la prima documentazione di questo verbo: scrittori neppur
tanto antichi, della seconda meta del Seicento, il Magalotti e
il Salvini, entrambi toscani. E in Toscana, ancor oggi, la costru-
zione intransitiva è quella comunemente rispettata.
Come sarà nata la forma sbagliarsi, ch'lo definirei riflessiva
piuttosto che intransitiva pronominale? Risaliamo all'origine del
verbo: esso deriva da un bagliare, oggi disusato e di incerta
etimologia (Angelico Prati lo fa discendere da una forma popo-
lare balliare, alterazione di ballare, esprimente il tremolìo della
luce), il cui significato è lo stesso del suo primo derivato abba-
gliare: cioè offuscare la vista, e in senso figurato ingannare.
Cosi come abbagliare, anche sbagliare non è che una forma in-
tensiva di bagliare, ottenuta col prefisso s- che ritroviamo in
funzione rafforzativa in altri numerosi verbi: battere e sbattere.
graffiare e sgrajfiare, conciare e sconciare, ecc. Orbene, sull'ana-
logia della forma riflessiva, legittlmlssima, abbagliarsi, che tro-
viamo perfino nel Boccaccio proprio nel significato figurato di
ingannarsi («Tu t'abbagli Nel falso immaginar»), sarà nata
anche la forma riflessiva sbagliarsi; In altre parole, dire «mi
sono sbagliato», «attento a non sbagliarti )), equivale a dire «mi
sono abbagliato)), «attento a non abbagliarti)). Del resto anche
In una prosa del Ségnerl, contemporaneo del Salvini sopra ricor-
dato, si trova un abbagliarsi proprio nel significato di sbagliarsi:
«Considera quanto abbaglisi chi si crede, ecc.)); come dire:
«quanto sbàglisl )).
I puristi dell'Ottocento condannarono aspramente questo ri-
flessivo perché lo consideravano una meccanica imitazione del
se rromper francese. Ma qui il francese non c'entra. Tirando
ora le somme, pur riconoscendo che la forma intransitiva è
quella che rispetta il modello classico, ancor vivo nell'uso to-
scano, non mi sentirei di condannare una forma verbale etimo
logicamente giustificabile.

Sottrarre
Il verbo sottrarrr: si costruisce tanto con a quanto con da ( seb-
bene piu comunemente con a) nel significato di «allontanare>>,
<<toglier via>> e simili, come negli esempi che seguono: <<E il
cor sottragge A quel dolce pensier che in vita il tiene)) ( Pe-

131
trarca ); « Piacendogli, potrebbe la sorella dal fuoco sott~arre »
(Boccaccio);« Se il già canuto intendi Capo sottrarre a piu fatai
perlglio » (Parini); «Sottrarsi dal pericolo» ( Tommaseo ); «Lo
hanno sottratto per miracolo alla morte» ma anche «dalla mor-
te »; e cosi via.
Ma sottrarre vuoi anche dire «portar via astutamente», «e-
storcere», «rubare» e allora si costruisce sempre con a: « sot-
trarre a uno una cosa»: «Gli hanno sottratto il portafogli»,
«Sottrassero alla biblioteca un prezioso manoscritto». Nel signi-
ficato matematico, sempre con da : «Sottrarre venti da trenta».
«Sottrarre un numero da un altro».

L'autostrada trafficata
Un annunciatore televisivo ha fatto un particolare uso del
verbo trafficare; ha detto che «l'autostrada dei Laghi è molto
trafficata». Qui sarei generoso: direi che più che uno sbaglio
è una stravaganza; e se ne fa un uso ormai cosi frequente che
presto nessuno ci farà plu caso. La lingua, si dice, oggi deve
correre col tempi, senza guardare in faccia a nessuno; oggi, si
dice anche, son necessarie parole comode e leste; 1 giornali,
frettolosi per natura, subito le fanno proprie, e la radio figurate-
vi se si lascia sfuggir l'occasione per accaparrarsele; si aggiunga
a tutta questa fretta una certa dose di impreparazione linguisti-
ca, e il colpo è fatto: niente piu sbaglio, niente piu Stravaganza,
e la parola a poco a poco va a finire sul libri e spesso spesso
sui dizionari. Si badi però che questo trafficare transitivo, usato
per ora, se non erro, soltanto nella forma del participio passato
con valore passivo («strada molto, poco trafficata», cioè per-
corsa da un traffico di veicoli e di pedoni piu o meno intenso),
non è, come si potrebbe credere, un'invenzione recente di
questo o di quel radiocronista, ma deve aver già sulle spalle
almeno una trentina d'anni e anche piu, e ne fanno larghissimo
uso soprattutto i tecnici della strada. Non è propriamente
un'accezione aggiunta al vecchio verbo trajjicare intransitivo
(«trafficare in legname», «trafficare per casa») o transitivo
( «trafficar vino e granaglie»); è un verbo nuovo, derivato diret-
tamente da traffico nel particolare significato di movimento di
veicoli e pedoni su una strada (ma anche sulle acque: si è già
letto sui giornali di «oceani trafficati», di «ro tte marine inten-

132
samente trafficate»). Era un participio passato proprio necessa-
rio? Una volta parlavamo tutti di strade molto o poco battute,
molto o poco frequentate, di strade con molto o con poco traffico.
E a me queste vecchie espressioni bastano e avanzano anche
oggi perché dicono esattamente la stessa cosa. Sarei perciò ten-
tato di consigliare tutti quelli che tengono a esprimersi con un
minimo di buon gusto di non farsi incantare né da questa né
da altre molte zeppe piu o meno cervellotiche del piu recente
linguaggio, !asciandole semmai solo ai tecnici, o anche ai soliti
cronisti sempre avidissimi di inutili novità.

Le settimane lavorate
In uno dei tanti moduli dell'INPS per il versamento dei contri-
buti ai lavoratori domestici si legge questa frase stampata in
carattere neretto per darle spicco maggiore: «Tutte le settimane
del trimestre sono state lavorate?>>.
Apriamo un qualsiasi dizionario, e leggiamo alla voce lavora-
re che questo verbo, quando è usato transitivamente («lavorare
una cosa») significa «sottoporre una materia a un lavoro»
(«lavorare un vestito all'uncinetto»), o piu precisamente « ope-
rare su qualche cosa per ridurla alla forma, allo stato voluto»
(«lavorare il ferro sull'incudine», «lavorare bene la pasta prima
di ridurla a sfoglia»). Ma «lavorare una settimana», che equi-
varrebbe a « sottoporla a lavorazione», non si è mai sentito.
Bisognava dire, è chiaro, «Tutte le settimane del trimestre sono
state impiegate nel lavoro?», oppure, piu alla svelta, come oggi
piace,« Tutte le settimane del trimestre sono state lavorative?>>.
Speriamo che la direzione dell'importante istituto faccia tesoro
di questa mia timida segnalazione.

Soddisfare
Si deve dire soddisfare una cosa o soddisfare a una cosa? E
quale forma è preferibile: soddisfare con due d o sodisfare con
una sola d?
Cominciamo dalla seconda domanda. Soddisfare deriva dal
latino satisfdcere ( sdtis, abbastanza,jdcere, fare: alla lettera, fare
abbastanza, fare a sufficienza); di qui le forme italiane originarie
133
satisjare e sadisfare, presto trasformatesl In sodisfare, perché la
sillaba Iniziale sa fu interpretata come prefisso, ma un prefisso
tanto insolito che fu presto scambiato col prefisso regolare so-,
che è Il latino sub, sotto. E poiché il prefisso so- richiede nor-
malmente il raddoppiamento della consonante Iniziale della
parola a cui è unito, per il noto fenomeno dell'assimilazione
(sollevare, dal latino sublevare; sovvenire, dal latino subvenire,
e simili), ecco nascere subito la forma raddoppiata soddisfare,
che dal Trecento in poi continua ad alternarsi con la
forma scempia sodisfare, la quale però oggi è considerata piutto-
sto letteraria.
Passando ora alla prima domanda, e rifacendomi ancora al
latino, dirò che satisjàcere si costruiva col dativo, corrisponden-
te al nostro complemento di termine; si diceva infatti satisfàcere
a!tèui, soddisfare a uno, e satisfàcere a!tèui rei, soddisfare a una
cosa. E fu questa la primissima costruzione Italiana, usata da
Dante: «Perché non soddisface a' miei disii»; «E qui convien
ch'i' questo peso porti Per lei tanto ch'a Dio si soddisfaccia».
Tuttavia già nella Cronica di Giovanni Villani, contemporaneo
di Dante, troviamo «soddisfare l suoi cavalieri»; e nel Boccac-
cio i due costrutti addirittura convivono: «Soddisfece all:l sua
domanda», « Il Sal adi no interamente il soddisfece », « Della sua
persona gli soddisfece». Questa alternanza dei due costrutti è
ancora viva, anche se quello intransitivo è piuttosto della prosa
eletta, mentre il parlar comune preferisce il transitivo. SI deve
anche aggiungere che l'intransitivo è plu frequente col signifi-
cato di «fare compiutamente», «compiere», «adempiere»:
« soddisfare al propri doveri », « soddisfare agli obblighi di leva»
e simili; mentre il transitivo è oggi quasi costante col significato
di «appagare», «contentare», «esaudire»: «soddisfare i gusti,
i desideri!, i capricci di qualcuno»; specialmente col comple-
mento di persona: «Questo non lo soddisfaceva», rarissimo
« non gli soddisfaceva ».

Vicino a
Bisogna dire, per esempio, «Sono stato in vacanza In un paese
vicino a Napoli», o è preferibile dire« in un paese vicino Napo-
li », cioè senza la preposizione a?
Vicino a Napoli, vicino a Milano, vicino alla casa, vicino

134
a te: sono queste le forme prescritte dalla grammatica; cioè la
locuzione prepositiva corretta è vicino a. Si incontrano, è vero,
anche presso qualche scrittore, esempi come questi: «Abitava-
mo vicino Roma», «Vicino casa avevamo un'officina», ma si
tratta di un uso regionale che è meglio non seguire. In passato
sl diceva anche vicino di: «Stavamo vicino di San Frediano »:
ma ora si incontra solo in qualche dialetto.
IV
Il buono e il meno buono
Tre imperativi dimenticati
Diceva la nostra vecchia retorica che per ben comunicare a
parole con i nostri simili occorre rispettare tre Imperativi: chia-
rezza di idee, concisione, chiarezza di linguaggio. E infatti piu
che ovvio che per trasmettere ad altri un' idea bisogna innanzi
tutto averla ben chiara in testa, in ogni suo particolare. Ma è
proprio sempre cosi? C'è poi la concisione; e qui mi limito a
ricordare quel che disse il Carducci in una delle sue prime le-
zioni all'università di Bologna: «Colui che potendo dire una
cosa in dieci parole la dice in venti io lo ritengo capace di male
azioni». Non voglio arrivare a tali estremi, ma è certo che chi
esagera sproloquiando non fa che annacquare e distorcere le
proprie idee.
C'è infine la chiarezza di linguaggio; e questo significa che
le parole da usare per esprimere un concetto devono essere il
piu possibile quelle che l'ascoltatore è abituato a intendere
senza incertezza di significato, per evitare che le capisca a
mezzo, o che le capisca a rovescio, o che addirittura non le
capisca affatto. Scriveva Ferdinando Martin! a Pietro Pancrazi
che gli sollecitava certi scritti da tempo promessigli, di pazienta-
re ancora un po' perché «da molti anni non licenzio scritto
alle stampe senza averlo corretto e ricopiato almeno tre volte».
E spiegava: «Per scriver bene? No, per esser chiaro». Molti
credono infatti che un discorso perché sia bello e venga meglio
apprezzato debba sfoggiar parole ricercate e rare, mentre la
verità è che lo fanno soltanto goffo e spocchioso. Strani tempi
davvero son questi che oggi viviamo; in un mondo che piu
sbracato e sgangherato di cosi non s'era mai visto, dove l'igno-
ranza gode aggio sul sapere, il nozionismo è proscritto, e latino
e greco son peggio della lebbra, ecco fiorire fin nel linguaggio

139
piu comune e pedestre parole latineggianti e grechegglanti raffi-
nate e preziose con cui la gente sembra gargarizzarsi come un
rinfrescante collutorio: parole come afferente, fatiscente, caren-
te, pregresso, ultro'neo , obsoleto, attenere, inerire , recepire, oblite-
rare, verbi, sostantivi e aggettivi che i comuni vocabolari non
s'eran mai sognati di registrare, parole che nemmeno le trove-
remmo in D'Annunzio, tanto schifato oggi specialmente dal
giovani per le sue prelibatezze, quel D'Annunzio che si vantava
di aver usato piti di quarantamila parole tutte di ottima marca
di fronte alle sole diciassettemila usate da Dante. E qui calza
bene quel che diceva un saggio francese, il La Bruyère, a
proposito di questi ampollosi parlanti: «Volete dire che piove?
Dite: piove».

Parole nuove
Ma poi non è questo il peggio. Il peggio è dato dalle parole
di nuovo conio, per le quali gli Italiani d'oggi vanno dimostran-
do un inesauribile genio inventivo. Ci fu una volta un collega,
che molto stimo e attentamente seguo sui giornali In cui scrive,
il quale per la mia Istintiva diffidenza di fronte a ogni parola
nuova in cui mi vien fatto di inciampare, ebbe a dire che «il
nascere e il diffondersi di una parola non è mai un fatto gratui-
to, perché nel neologismo, bello o brutto che sia, si manifesta
quell'eterna vitalità e mobilità d'una lingua contro cui, affron-
tando la faccenda da filosofi prima che da pÙristi, non ha senso
opporsi». E questo sarebbe sacrosantissimamente vero se non
fosse vero invece il contrarlo, cioè che oggi la nascita di moltis-
sime parole è spesso un fatto assolutamente gratuito.
Non parlo di parole ricalcate su modelli stranieri in modo
piti o meno goffo e irrazionale, da fare a pugni con le piti tolle-
ranti leggi morfologiche del nostro idioma, del tipo , per capirci,
di shokkare, shakerare, containerizzare, budgetario, assemblaggio,
e chetiamoci subito per amor di patria; son parole che normal-
mente restano circoscritte In un linguaggio loro particolare,
quello tecnico, burocratico, pubblicitario e simili, e quindi con
un proprio canale di scarico che non intorblda Il corso schietto
del linguaggio. ParlQ delle parole inventate a vanvera, senza
nessun giustificato motivo, spesso addirittura grossolane altera-
zioni di parole già esistenti da secoli; parole chiaramente im-

140
provvisate per pigrizia mentale o ignoranza, e che per la natura
stessa dei loro inventori, di solito comizianti e tribuni, sempre
strettamente associati ai cosiddetti mezzi di massa e all'altopar-
lante, hanno immediata e amplissima ·diffusione; mi riferisco,
a mo' d'esempio, alla risultanza, alla calendarizzazione, all'in-
nocuizzare, all'opzionare, al diluvio delle parole in -afe, come
accessoria/e, istintuale, concorsuale, controversia/e, cassazionale,
generazionale, gestionale, vertenzia/e e via delirando; oppure ai
termini allungati come serpi, quali completizzare invece di com-
pletare, organizzativistico invece di organizzativo, produttivistico
invece di produttivo; e infine a voci non proprio novissime ma
riprese, rispolverate e lustrate, come concretiz=are invece di con-
cretare, semplicizzare, invece di semplificare, statua/e, invece di
statale, e via per decine e decine di altre, da togliere il fiato
e il buon umore.
Non meno letale per una lingua mi sembra poi l' uso di certe
parole accettabilissime di per sé ma dotate di non so quale fa-
scino da fartele trovare tra i piedi nei momenti piu impensati,
come per esempio il verbo proporre, per cui un autore non
scrive un romanzo ma lo propone, un regista non mette in
scena un film ma lo propone, e propone il pianista un pezzo
musicale invece di sonarlo; mi preoccupa la pertinace permissi-
vità che ha mandato a spasso la tolleranza, l'acquiescenza, l'in-
dulgenza e un'aitra mezza dozzina di sinonimi; mi sconforta
l'ossessiva promozione che ha sotterrato lo sviluppo, l'incremen-
to, l'accrescimento; per non parlare della carenza, del macrosco-
pico, dell'istanza, del messaggio, del dialogo, dell'implicazione, del
provocatorio, della strumentalizzazione e chi piu ne ricorda piu .
ne metta . A queste son poi da affiancare certe frasi fatte,
sempre le stesse, in casa, a scuola, in ufficio e in ogni luogo ,
come al limite, nel quadro, a misura d'uomo, e i tempi lunghi,
i salti di qualità, le sfere di competenza, la presa di coscienza,
il risvolto della situazione, il momento nodale, il corale consenso,
il problema di fondo, la scelta di civiltà ... Che acquitrino ranoc-
chiesco, che gracidante pantano!

I caramogi
È chiaro che non tutta questa roba, a volte appena tollerabile
e p!U spesso da respingere, può essere oggetto di una diffusa

141
discussione in questo e nel capitolo che segue; ho dovuto liml-
tarmi all'essenziale, a quelle parole, cioè, e a quelle locuzioni
che essendo di piu frequente e plll affermato uso mi è sembrato
doveroso segnalare al distratto lettore perché le tenga bene in
vista e si astenga dall'usarle. Ho intitolato l'ultimo capitolo, ma
senza pedantesca burbanza, «Mostri, babau e caramogi », e av-
verto qui In particolare che caramogio, per chi non lo sapesse,
è termine derivato dal persiano kharmush, che vuoi dir« topo»,
e si usò in passato (oggi infatti può dirsi voce arcaica) per indi-
care una persona di piccolissima statura, brutta e deforme (in
particolare si diceva dei nani di corte), e Infine genericamente
un mostriciattolo. Infatti nelle Lepidezze di Carlo Roberto Dati
(sec. XVII) leggiamo di un tale che «essendo egli deforme,
e simile a un caramogio, faceva il zerbino», faceva cioè lo zerbi-
notto, il bello, il vagheggino: com'è appunto di certi pa-
roloni d'oggi che sembrano incantare tanta gente e non son
che mostri.

Alternativa
«Non ci resta ormai che questa sola alternativa: rinunciare al-
l'affare»; e ancora: «Andare o restare? Egli esitava davanti a
queste due alternative»; oppure: «Scegli tra queste alternative:
pagare, vendere o fallire»: frasi come queste le leggiamo ogni
giorno sui giornali, le sentiamo normalmente alla radio o alla
televisione, e ormai le incontriamo perfino nei libri; ma quanti
si avvedono che sono ridicolmente sbagliate? Sono sbagliate
perché la parola alternativa non può significar altro che « possi-
bilità di scelta tra due cose»; essa deriva infatti dal latino alter,
che vale «l'uno dei due», e non dei tre o dei quattro. Perciò
la prima frase è sbagliata perché se l'alternativa è una sola deve
avere due termini di scelta e non uno soltanto: per esempio,
rinunciare all'affare o pagare di piu; sbagliata è anche la secon-
da, perché «andare o restare» rappresenta una sola alternativa
e non due; è sbagliata infine la terza perché i tre termini, «paga-
re, vendere o fallire» non possono rappresentare un'alternativa.
Questi errori derivano dal fatto che si dà ormai alla parola alter-
nativa il significato del tutto gratuito di possibilitd, ·soluzione,
rimedio e simili; vediamo perciò di evitarli; alternativa (se volete
un accorgimento pratico) va correttamente usata nel significato

142
che ha un'altra parola: dilemma; nessuno direbbe mal «mi resta
un solo dilemma: rinunciare all'affare». Prima di concludere,
pilucchiamo tra i classici qualche esempio corretto di questa
insidiosa parola: «Noi facciamo questa alternativa: o Vitellozzo
si fermerà in Arezzo con le sue forze, o non fermandovisi, giu-
dichiamo ... essere ancora la vittoria dubbia» ( Machiavelli ); «O
sarà sprofondato nella povertà, o toccherà a noi tutti a sommi-
nistrargli quel piu che gli abbisognerà. Bella alternativa!» ( Ba-
retti);« Una popolazione ridotta all'alternativa o di cadere sotto
un potere nemico, o di mantenersi sotto la protezione di un
potere protetto» (Manzo n i).

Anabbagliante, antiabbagliante
Nelle pubblicazioni tecniche che mi vengono sottomano incon-
tro a volte i due aggettivi anabbagliante e antiabbagliante usati
indifferentemente con riferimento a luci, a fari automobilistici.
Sono dunque termini sinonimi? Io direi di no; non sono un
tecnico, non dispongo di fari di questo tipo, ma direi ugualmen-
te di no.
I due prefissi ana- e anti- non possono creare sinonimia.
Anabbagliante e antiabbagliante sono aggettivi di coniazione re-
cente, il primo è anche piu recente del secondo: lo registra per
primo, se non vado errato, il Migliorini nelle Parole nuove, che
sono del '63. Antiabbagliante non figurava ancora nel dizionario
dell'Accademia, che è del '41. Dunque, direi termini ancora in-
fanti, e male non sarebbe dare a ciascuno di essi una precisa
determinazione. E dico questo non solo perché, come ho detto,
le pubblicazioni tecniche ne fanno un uso indiscriminato e
spesso improprio, ma anche perché mi avvedo che gli stessi
dizionari piu recenti, registrando i due aggettivi, non ne fanno
una distinzione netta, e danno addirittura esempi da cui essi
risultano assolutamente sinonimi: anabbagliante: che non
abbaglia, che impedisce l'abbagliamento; antiabbagliante: anab-
bagliante, che impedisce l'abbagliamento: faro, siepe antiab-
bagliante.
Esaminiamo i due termini in breve. Anabbagliante è compo-
sto del prefisso privativa alla greca an- (corrispondente all'alfa
privativa con l'inserimento di una n eufonica davanti a nomi
comincianti con vocale), e dell'aggettivo abbagliante, e vale

143
«che non abbaglia». Diremo perciò con assoluta proprietà luci,
fari anabbaglianti, cioè luci, fari che non abbagliano la persona
che procede di fronte a essi. Usatissima è anche la sostantiva-
lione dell'aggettivo: gli anabbaglianti. Guardiamo ora il secondo
termine, antiabbagliante: composto del prefisso anti-, che indica
azione contraria, e abbagliante: cioè «che è contro l'abbaglia-
mento», «che Impedisce l'abbagliamento». Ora mi par chiaro
che una cosa che impedisce l'abbagliamento è diversa da una
cosa che non produce abbagliamento; perciò se diciamo fari
anabbaglianti, dovremo dire siepe antiabbagliante, schermo
antiabbagliante, occhiali antiabbaglianti. Potrà sembrare una
sottigliezza, ma non è. I due prefissi, ripeto, non sono tra loro
scambiabili, e anche nella scienza se ne fa da tempo un uso
ben -distinto . Apirètico è ben diverso da antipirètico: aplrètico
è il malato che non ha febbre; antipirètico è il medicamento
che combatte la febbre; ana/cdlico significa «che non contiene
àlcole », e abbiamo Infatti le bevande analcoliche; antialco'/ico
significa «che è contro l'àlcole», e abbiamo le cure an -
tialcòliche, la lotta antialcòlica e la campagna antialcòlica per
combattere l'alcolismo. Sarebbe bene che anche nella tecnica
automobilistica questa netta distinzione fosse rispettata.

Ancestrale
Orribile gallicismo, lo definì il Panzinl quando questo aggettivo
cominciò ad apparire nella prosa scientifica, in particolare In
quella dei biologi. Rincarò la dose I'Ojettl sulle colonne del Cor-
riere della Sera:« Volevano inventare una parola? E lecitisstmo,
e qualunque dizionario etimologico della lingua fra-ncese avreb-
be spiegato . .. che il francese ancestre e l'inglese ancestor deriva-
no da antecessor. Un italiano doveva risalire a questo latino
per creare un termine italiano, e non buttarsi per comodo sul
giaciglio male spianato da francesi e Inglesi». Infatti questo an-
cesira/e è preso pari pari dal francese ancestral, tolto a sua volta-
di peso dall'inglese ancestral, forma contratta di ancestorial, che
discende da ancestor, antenato, modellato sull'antico francese
ancestre, moderno ancétre, che deriva (e tiro Il fiato) dal latino
antecèssor, antecessore, predecessore, insomma «antenato»-
Una traflla, come si vede, alquanto complessa e piut-
tosto impura.

144
Il significato è dunque chiaro: <(Che concerne gli antenati»,
«che proviene dagli antenati» e simili; quel che in buona e
semplice lingua italiana, da sempre, si era espresso con gli ag-
gettivi atavico o avito, e piu genericamente, secondo i casi, con
ereditario , o anche originario, primigenio, primitivo, primordiale,
oppure patriarcale, millenario, o semplicemente antico. Ha ra-
gione l'Ojetti: se proprio i signori biologi sentivano la necessità
di un vocabolo nuovo, dovevano rifarsi all' antecessor latino,
creando, come dice il Migliorini, un « antecessorio » o un «an-
tecessorale ». I biologi, e non solo loro, ma tutti gli scienziati
e i tecnici in generale sono portati spesso a sottilizzare dando
ai neologismi certe sfumature di significato che, a ragione o
a torto, i vocaboli preesistenti sembrano non avere.
Ma ammesso pure che ancestrale abbia · nel linguaggio
scientifico quel valore che né atavico né avito possono avere
( « atayico » spiegava per esempio il botanico Raffaele Ciferri «si
riferisce al fenomeno in sé, senza esplicito riferimento agli
esseri che ne sono oggetto; ancestrale indica il fenomeno in re-
lazione ai viventi nei quali si manifesta il fenomeno stesso»),
ammesso pure questo, la medesima cosa non potrà dirsi quando
ci riferiamo alla lingua comune, assolutamente estranea a
queste sottigliezze della scienza. Perciò le «ancestrali strade»
che incontro in un racconto del Beltramelli non sono che le
antiche, primitive, centenarie, millenarie strade del suo paese;
«il fondo ancestrale della lingua» di cui parla Mora via in un
suo romanzo non è che il fondo primitivo, originario della lin-
gua; le «libertà ancestrali» di Pratolini sono quelle avite, eredi-
tarie o primordiali, secondo il gusto dello scrittore.
Con tutto questo discorso, ancestrale continuerà naturalmen-
te a usarsi a dritta e a manca; sonante com'è, e di sapor raro,
subisce anch'esso, come tanti altri vocaboli del nostro nuovo
linguaggio, l'influsso della moda.

Anguria o cocomero?
A ogni estate ecco riapparire i termini anguria e cocomero per
indicare lo stesso notissimo e gradevolissimo frutto rubescente
e sugoso; ed ecco anche risorgere la vecchia questione: si deve
dire anguria o cocomero? il termine anguria è accettabile in
lingua, o puristicamente si deve dire soltanto cocomero?

145
Il discorso è sempllce. Ormai le due forme coesistono, ché
questo andare e venire da una regione all'altra per affari o per
diporto ha finito col mescolare le parlate e i dialetti. Cosf trovia-
mo anguria perfino in qualche scrittore toscano, come il Pratoli-
ni. Tuttavia è risaputo che lo schietto termine italiano, che
ripete quello dei botanici, è cocomero, latino scientifico Czicumis
citrullus o Citrullus vulgaris, e cocomero si dice infatti in tutta
l'Italia centrale (io molti anni fa imparai anguria solo salendo
al Nord), mentre nell'Italia meridionale l'espressione comune
è mellone (o melone) d'acqua, per distinguerlo dal mellone di
pane, dalla polpa gialla o biancoverdastra, che sarebbe poi l'lta-
llano melone puro e semplice, in Toscana anche popone.
Anguria è termine pl\1 propriamente regionale che invade
tutto il Settentrione, con varianti dialettali notevoli, come
inguria In Lombardia e /anguria In Romagna, dove ho inteso
dire anche gcimber o gcimbar, e a Bologna cucoìnbra . Per confon-
der poi anche piu le idee, ecco che nella stessa Lombardia e
In vari luoghi del Piemonte e perfino del Mezzogiorno, chiama-
no cocomero il cetriolo!
Ritornando all'anguria, dirò che il nome risale al tardo greco
angzirion (che indicava propriamente il cetriolo), termine ve-
nutoci con la dominazione bizantina e diffuso in tutta l'Italia
settentrionale attraverso l'Esarcato di Ravenna. Anguria, in con-
clusione, ha certamente ormai pieno diritto di cittadinanza, e
possiamo pertanto tranquillamente usarlo al posto di cocomero.

l Arrangiare
Arrangiare, arrangiarsi, siamo tutti d'accordo, proprio un bel

l verbo non è: non è elegante di forma, ha anche un suono aspri-


gno, e si capisce che in un discorso pulito, in una prosa ben
levigata, cl starebbe come uno straccio In un salotto. Tuttavia
anche gli stracci servono in certe determinate occasioni, e guai

l a non averne al momento giusto. Cosf è appunto di questo ar-


rangiare o arrangiarsi, che si pu6 sempre sostituire, è vero, con
verbi piu eleganti e plu schietti come aggiustare, accomodare.
rimediare, acconciare, adattare, e adattarsi, aggiustarsi, ingegnar-
si, industriarsi, arrabattarsi, secondo il bisogno e il gusto di chi
parla o scrive, ma che In certa prosa spiccia, alla buona, dicia-
mo anche risoluta, può cadere, mi sembra, a pennello. E questo

146
non lo dico solo per arrangiare, come Infatti vedremo nel corso
di queste chiacchierate, ma per numerose altre parole che se
appaiono stonate in un luogo possono intonarsi benissimo in
un altro.
La ragione vera per cui questo verbo fece tanto arricciare
il naso al vecchi censori della lingua è la sua origine straniera.
È infatti l'adattamento dell'arranger francese, costruito su rang,
ordine, fila, rango (dunque anche rango è francesismo e do-
vremmo usarlo con cautela), e di qui il significato proprio di
«mettere in fila, in ordine», «disporre nel ranghi», e poi quello
traslato di «disporre convenientemente» le cose per poter rag-
giungere il fine voluto. E un verbo nato nelle caserme, dunque
di origine gergale, e di qui la sua seconda condanna: una con-
danna da far sorridere In tempi come questi che sulle bocche
specialmente dei giovani si sentono parole al cui confronto ar-
rangiare sembra un figurino. Qualcuno, in particolare, vorrebbe
che non si usasse arrangiare al posto dello schietto conciare
conciar per le feste; benissimo, preferiamo conciare; ma arrabbia-
moci davvero, e vedrete se non ci scappa un azzeccatissimo
«Ora t'arrangio io!». Mi raccontò un giorno Dino Provenza!,
che aveva sempre una esemplare storiella per ogni occasione,
di quell'alunno messo davanti a un compito sulla scrittura
pulita e corretta; dopo molto agitarsi, mangiarsi le unghie e
grattarsi la testa, fini col chiedere all'arcigno insegnante: «Non
so come fare, non riesco a trovare una parola adatta a sostituire
il brutto arrangiarsi ... 11. «Davvero non la trovi? l> rispose
l'altro che doveva aver le lune per traverso, «peggio per te:
arràngiati! ».
Dove però mi sembra che questo verbo sia brutto davvero.
anche perché assolutamente inutile, è nella frase arrangiare un
pezzo musicale, cioè trascrlverlo in modo da adattarlo a stru-
menti o a complessi strumentali diversi da quelli originali voluti
dall'autore. Il termine italiano c'è già, adattare, e in certi parti-
colari casi ridurre, soprattutto quando si tratti di adattare un
pezzo a mezzi fonici piu ristretti e piu comuni rispetto a quelli
originari. Vien poi da sé che espelleremo dal nostro linguaggio
musicale anche il derivato arrangiamento, ricalcato sull'arrunge
ment francese, sostituendolo con adattamento o riduzionr!.
E giacché ci siamo, vorrei anche sconsigliare l'uso di ar-
rangiarsi nel significato di accordarsi, accomodarsi, venire :1 un
compromesso: «Invece di litigare cercate di arrangiarvi ,.~· modo.

147
soprattutto comune nella locuzione «venire a un arrangiamen-
to», che meglio assai si sostituirà con «venire a un accomoda-
mento, a un accordo, a un compromesso».

Candidare
« Lo hanno candidato alla segreteria del partito», «Ha Intenzio-
ne di candidarsi come segretario politico»: frasi di questo
genere son proprie del linguaggio politico e giornalistico, con
quel nuovo verbo candidare, e il suo bel riflessivo candidarsi:
invenzione abbastanza recente, e neppure forse delle piu brutte,
almeno in questa particolare accezione di «presentare o presen-
tarsi come candidato» in una elezione. Ma andatelo a cercare
nei dizionari: resterete delusi; lo troverete solo nelle Parole
nuove del Migiiorini, senza alcun commento (e avvertiva lo
stesso Migliorini nella prefazione del libro che non è vero che
chi tace acconsente, perché «chi tace non dice niente»), e in
un recente dizionario generosissimo, come del resto voleva il
suo assunto, verso questi neologismi della civiltà contempora-
nea. Ripeto: non mi sembra .tra l neologismi, sia pure del
linguaggio politico, il meno accettabile, e passerà sicuramente
in lingua. ·
II vecchio participio sostantivato candidato, nel significato di
«aspirante a una carica, a un ufficio», facilmente invogliava
a risalire a un infinito candidare, pili breve di «proporre come
candidato», e quindi piu gradito allo sbrigativo stile giornalisti-
co. È dunque un verbo anomalo, che ha come padre il figlio .
Il latino un verbo candidare Io aveva, derivato da candidus, can-
dido, e voleva dir «render candido», «imbiancare», e poi
estensivamente «vestire di bianco», si che il suo participio
passato candidatus, alla lettera «imbiancato», passò anche a in-
dicare gli aspiranti alle cariche pubbliche, consolari, pretorie,
tribunizie, che per tutto il periodo elettorale indossavano come
segno di riconoscimento una toga bianca, resa addirittura can-
dida per mezzo di una speciale apparecchiatura gessosa. « Can-
didiamoli» pure, dunque, questi nostri futuri reggitori, e che
Dio ci assista; anche se poi costoro sono, come già commentava
il Tommaseo piu di un secolo fa , «rossi, neri, arlecchini, can-
gi», cioè «cangianti», ch'è forse il colore piu usato da quando
esiste politica.

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Carreggiata e corsia
Si legge purtroppo assai spesso, nelle cronache dei tanti inci-
denti automobilistici, la notizia di macchine che, per un im-
provviso malore del conducente, o per un guasto meccanico
o per altra causa «saltano da una corsia a quella opposta dopo
avere scavalcato o sfondato lo spartitraffico». Tale notizia, oltre
che molto dolorosa per la tragedia quasi sempre causata da quel
salto, è anche tecnicamente mal formulata in quanto una
macchina che supera lo spartitraffico non salta da una corsia
all'altra ma da una carreggiata all'altra. Infatti le moderne auto-
strade, e anche certe superstrade come si usa chiamarle, sono
costituite da due carreggiate, separate da una barriera spartitraf-
fico , dove il moto dei veicoli si sviluppa nei due sensi opposti,
da nord verso sud o da est verso ovest in una, e da sud verso
nord o da ovest verso est nell'altra. Ciascuna carreggiata, poi,
è suddivisa in corsie, delimitate di solito da strisce di vernice
sull'asfalto, per lo piu in numero di tre: una per la corsa ordina-
ria, una per il sorpasso e un'ultima, di misura ridotta, per le
fermate dovute a cause accidentali.
Tutto questo per contribuire alla precisione della terminolog!a
stradale, come mi fa sapere opportunamente un pezzo grosso
delle autostrade. ·

Celibatario
Calato di Francia in Italia verso la fine del Settecento, questo
celibatario s'ebbe sùbito la condanna dell'Ugolini («ci è venuto
di Francia, e dovrebbe accompagnarsi al confini») e dell' Arlla
(«sciocco gallicismo che qualcuno vorrebbe accettare per citta-
dino italiano»); d'uso piuttosto letterario, tra gli scrittori con-
tempera 1ei è stato condannato dal Monelli, uno dei pochi eroici
difenson rimasti di una causa perduta: la purezza della lingua
italiana. Ma nonostante tutte queste condanne, celibatario
continua a vivere indisturbato tra noi, e sostituisce spesso e
volentieri la schietta voce Italiana celibe anche presso qualche
scrittore di cartello.
I Francesi avevano la parola célibat con cui si Indica lo stato
' dell'uomo che non ha contratto matrimonio; da célibat fecero
célibataire, cioè l'uomo che vive nel celibato. Noi, piu ragione-

149
volmente, seguimmo la strada opposta: da celibe, latino caelebs,
facemmo celibato, latino caelibatus, la condizione del caelebs.
Francesismo da accompagnarsi ai confini, dunque? Io direi di
si; anche perché non ha consistenza alcuna la differenza, da
molti sostenuta, che celibe voglia indicare l'uomo senza moglie
in generale, e celibatario l'uomo celibe avanti in età. II francese
stesso non ha affatto questa sfumatura di significato. L'anziano
celibe noialtri lo chiamiamo vecchio scapolo o, con una punta
di bonaria ironia, scapolone.

Colazione, pranzo e cena


Nell'Italia settentrionale per colazione e pranzo si intendono
cose diverse che in altre regioni del Centro e del Sud, e si
ignora quasi completamente la cena. Per chi arriva la prima
volta, per esempio, a Milano, questo fatto porta qualche confu-
sione di idee. E la portò infatti a un mio amico toscano che
trovandosi appunto per la prima volta in una città del Setten-
trione fu invitato a colazione da certi suoi parenti, di schietta
origine meneghina. Gli parve subito un invito strano, tanto piu
che la sua colazione consisteva di solito in un semplice cappuc-
cino o addirittura in un caffè nero; ma tra parenti, pensò, c'è
confidenza. Si presentò verso le nove del mattino (tirò anzi
in lungo per non apparir troppo mattiniero), e quando apparve
mise il subbuglio in quella casa. Per colazione quei bravi parenti
intendevano quel che egli soleva chiamare pranzo. Questo acca-
deva parecchi anni fa, ché oggi, col viavai che c'è tra Nord
e Sud, la confusione si va generalizzando, e ormai anche Tosca-
ni e Marchigiani e Romani hanno imparato l'antifona. Ma la
confusione resta, e non sarà male chiarire un poco le idee.
L'Italiano, normalmente, fa tre pasti: uno di mattina, appena
alzato, uno dopo il mezzodì, un terzo qualche ora prima di
andare a letto. Da tempo infinito, questi tre pasti si chiamavano
con un loro specifico nome, e confusioni non ne nascevano.
Colazione il primo, che può andare dal semplice caffè al caffel-
latte o cioccolata o tè con crostini, marmellata, burro e altro,
secondo l'appetito e l'abitudine; c'è, per la precisione, anche
la colazione alla forchetta (in antico a forchetta), quando al cibo
liquido si unisce un cibo solido, da prender con la forchetta.
Secondo pasto, il pranzo, che si fa dopo il mezzogiorno (l'ora,

150
si sa, è molto variabile da luogo a luogo ), ed è In ogni modo
il pasto principale della giornata. (I Toscani, veramente, Io
chiamano desinare, e indicano con pranzo il pasto particolar-
mente ricco o signorile; normalmente, voglio dire, si invita a
desinare; quando si invita a pranzo, significa che c'è da sciala-
re.) Finalmente, ecco la cena ch'è Il pasto della sera, piu leggero
del pranzo o desinare che sia.
Tutto qui, e mi par semplice e chiaro, come è semplice e
chiaro tutto ciò che si rlallaccia alla schietta, sobria tradizione
Italiana. Ma ecco che a un tratto le cose si complicano: e a
complicar le cose concorrono, si capisce, gli usi, le costumanze,
le quali, essendo l'Italia molto lunga, variano di parecchio dal
Nord al Sud. Nel Nord, dove c'è poco tempo per un vero pran-
zo, che nel Sud occupa Invece anche un paio d'ore, il pasto
sodo si fa spesso e volentieri la sera, magari al ristorante; e
allora scompare la cena, e al posto del pranzo si mette una
semplice colazione. Per essere piu precisi, anzi, i Settentrionali
distinguono la prima colazione, che sarebbe il caffè o il caffellat-
te appena desti, e la seconda colazione, il pasto, piuttosto fretto-
loso, dopo mezzodì. È, si badi, un uso estensivo assolutamente
improprio; e il buon Minucci, il letterato senese che commentò
cosi gustosamente il Ma/manti/e del Lippi, avrebbe ragione di
scuotere il capo. «Il primo mangiare» spiegò infatti chiaramen-
te costui «che si fa tra l'alba e il mezzogiorno, si chiama ascidi-
vere, ed alle volte colazione)): lasciamo andare l'asciòlvere, che
oggi non userebbe neppure il Puoti, e teniamoci alla colazione.
Tornando un momento al pranzo, è tanto vero ch'esso indica
il pasto che si fa dopo mezzogiorno, che s'usa prendere anche
come designazione di tempo: dire dopo pranzo, o addirittura do-
popranzo, è lo stesso che dire dopo me:t;zogiorno, e la locuzione
serve a indicare tutto il primo pomeriggio. Sono le locuzioni,
le frasi tradizionali quelle che fissano, che determinano l'esatto
significato d'un vocabolo; cosi come avviene per la cena, il cui
valore di ultimo pasto serale è dato inequivocabilmente dal
notissimo avverbio: «Chi va a letto senza cena, tutta notte si
dimena)). _
A questo punto potrei anche fermarmi e passare ad altro ar-
gomento; ma siccome mi piace precisare fino in fondo (e poi,
a tavola non si invecchia!), diamo un'occhiatina anche a quel
pasti secondari che, quando si è di bocca buona, hanno la loro
brava importanza. Come si chiama la colazioncina leggerissima

151
che alcuni Inseriscono tra la colazione e il pranzo, spesso ac-
compagnata dall'aperitivo? Si chiama spuntino o stuzzichino; e
non è da confondere con la merenda, che è esattamente il pic-
colo pasto (tanto caro ai ragazzi) che interrompe l'attesa tra
il desinare e la cena.
E c'è perfino il termine esatto con cui l'italiano, il gran signo-
re dei linguaggi, indica il pasto eccezionale che si fa a tarda
ora, di solito dopo il teatro o il cinema, quando sì è cenato
da parecchio tempo e si ha di nuovo appetito: questo pasto
si chiama pusigno, termine che pochi conoscono, che nessuno
usa, ma che ha tutte le sue carte in regola e che giustamente
l dizionari continuano a registrare. Pusigno deriva dal latino po-
stce'nium, composto di post, dopo, e di cena, cena; alla lettera,
il dopocena. Ed esiste anche il verbo pus ignare, fare Il pusigno.
Li regalo, sempre che li gradiscano (magari per farci una risata
sopra), al tanti Settentrionali, milanesi soprattutto, che dopo
la faticosa giornata, e dopo due o tre ore di spettacolo, senza
l'assillo dell'orario e del telefono, possono finalmente distendere
le gambe sotto un tavolino apparecchiato per la mensa .

Usiamo troppi« colpi»


Tutti diciamo con molta naturalezza «dammi un colpo di tele-
fono», e ci capiamo benissimo; ma a pensarci solo un attimo
sentiamo che è un modo di dire ridicolo, come se si chiedesse
di darci una botta In testa col microfono. E infatti in qualche
commedia, in qualche film questa frase stravagante è stata fa-
cilmente sfruttata per una scenetta comica, con un effettivo
colpo dato sulla testa per mezzo del microfono. Su questo e
su altri «colpi» della stessa razza si è molto discusso in passato,
e non soltanto dai cosiddetti puristi. C'è tutta una grandinata
di colpi nel nostro comune linguaggio, per la piu gran parte
dei quali, come per il «colpo di telefono», l'aggettivo piu bona -
rio potrebbe essere appunto «stravagante». Si pensi al «colpo
di testa», al «colpo di fortuna», al «colpo d'occhio», al «colpo
di scena» .. . Quasi tutte queste frasi ci vengono dal francese,
dove Il gusto della metafora, del senso figurato è particolar-
mente sentito e diffuso. Sono frasi, avverto subito, ormai radi-
catlssime nel nostro linguaggio e non c'è neppure da pensare
a sradicarle; le incontriamo anche nelle pagine degli scrittori

152
plii avveduti, piU cauti; ma questo non significa che, molte
volte, a resplngerle non si farebbe male. Un tempo si badava
assai piu a queste cose. «Colpo di fortuna» lo troviamo, si,
perfino in Dante, nel Convivio, ma nel significato di sventura,
sorte avversa, avversità, e l'immagine appare subito giusta;
come appaiono giusti, sempre in Dante, e questa volta nella
Commedia, l «colpi di ventura», nello stesso significato di av-
venimenti avversi, disgrazie. Nel significato opposto di «caso
fortunato», dove l'Immagine del colpo, della botta, evidente-
mente stona, la frase si cominciò a prender dal francese assai
pi(i tardi, almeno quattro secoli dopo. Questo però è il caso
meno vistoso, non sa di ridicolo come il colpo di telefono o
d'occhio o di testa o di scena. Si capisce come queste frasi siano
nate: dall'idea della rapidità, della immediatezza, della impreve-
dibilità contenuta nella parola «colpo», che nel significato
proprio vale urto violento, percossa. In certe espressioni figura-
te, perciò, il colpo è accettabilissimo: «colpo di sole», « colpo
di fulmine», «colpo d'aria», «colpo di vento», e anche «colpo
apoplettico ». Potremo spingerei ad accettare per la stessa ragio-
ne, anche la locuzione «far colpo», cioè fare impressione in
modo tale da parere di ricevere un colpo , un urto. Dove il tra-
slato esagera fino all'assurdo, come nei casi piu sopra detti, mal
non sarebbe, ripeto, se si pensasse di evitarlo, non dico nel par-
lato, ché verba volant, ma almeno nello scritto. «Dammi un
colpo di telefono»: diciamo «fammi una telefonata», e p ili alla
spiccia « telèfonami »; «a colpo d'occhio»: diciamo «a prima
vista», «alla prima occhiata»; «un bel . colpo d'occhio» è piu
ragionevolmente «una bella vista» o «un bel panorama»; un
«colpo di testa» potrebbe diventare una capestreria, un capric-
ciaccio, una pazzia; il «colpo di scena» è «l'effetto scenico»;
«tutto in un colpo» corrisponde a «tutto a un tratto», « d'im-
provviso» ... e cosi via all'infinito. Provino l lettori stessi a tro-
vare, per tante altre di queste frasi cervellotiche, l'equivalente
piu ragionevole e di miglior gusto.

Congeniale
Parola composta del prefisso con- di compagnia e dell'aggettivo
geniale, non è da tutti considerata di schietta formazione Italia-
na perché modellata piuttosto sull'inglese congenial. Introdotta

153
nel linguaggio filosofico dal Croce nei primi di questo secolo,
insieme coi derivati congenialità e congenia/mente, ha avuto in
tempi pili recenti una fortuna immensa tanto che oggi si può
dire entrata nel linguaggio piu comune. Il significato lo sappia-
mo tutti: che è conforme al genio di una stirpe, di una persona,
cioè al suo spirito, alla sua Indole, al suo carattere, alla sua
natura. «Questi studi mi sono congeniali»; «Non posso fare
questo lavoro perché non mi è congeniale», non si confà alla
mia natura, alla mia indole. Il concetto è dunque vecchio come
la nostra lingua, e di conseguenza la parola o addirittura le
parole che esattamente lo esprimono noi le avevamo già da
sempre: connaturale, prima di tutto, e poi secondo i casi anche
innato, (·ongenito, ingenito, e perfino confacente, come sopra s'è
visto. Leopardi scrisse: «Il desiderio di un'immensa felicità,
congenito agli animi loro»; oggi qualcuno avrebbe preferito
congeniale. Quest'altro esempio è del Bacchelli: «Finiva con
l'interessare vivacemente Il suo nativo e congeniale amore della
voce, ... dello strumento nel trattare il quale egli era insuperabile
artista»; e questo è del Montale: «Una lingua che gli riuscisse
congeniale e vicina».
Non è, Intendiamoci, aggettivo da condannare e da proscrive-
re: è, come s'è visto, di buona formazione italiana, e ha gradito
suono, la qual cosa giova spesso alla fortuna delle parole. Ma
è la sua fortuna eccessiva, e soprattutto l'uso indiscriminato
e spesso spesso stonato che se ne fa a renderlo inaccetto agli
scrittori pill sottili e scrupolosi. Ricordiamoci che si tratta di
un aggettivo nobile, raro, buono per una prosa elevata, lettera-
ria; facciamone perciò un uso moderato, senza dimenticare
quegli altri sinonimi, plu schietti, di cui la nostra lingua s'era
per lungo corso di secoli servita.

Culinario e cucinario
Mi disse un giorno un amico: «Non ti sembra che sarebbe l'ora
di cancellare dal nostro dizionario l'aggettivo culinario e il so-
stantivo culinaria sostituendoli con cucinario e cucinaria? ». Mi
sembra, certamente, anche se queste cancellazioni non possono
farsi per legge o per decreto; però mi sembra anche che, sia
pure a fatica, cucinario vada guadagnando terreno. L'aggettivo
culinario, e peggio li sostantivo culinaria, sebbene di origine

114
squisitamente classica, hanno il torto di creare un'associazione
etimologica francamente volgare. Furono 1 Latini a fare da cu/i-
na, cucina, contratto da coquifina, e questo dal verbo coquere,
cuocere, l'aggettivo cutinarius. Ma al classico cutina si sostituf
in epoca tarda il popolare coquina, poi alterato In cocina, da
cui il nostro cucina. Ecco perché cutina e derivati sem-
brano non aver piu nulla in comune con quello che vogliono
esprimere.
Culinario, giova avvertirlo, non lo abbiamo creato noi di
prima mano; Io abbiamo preso dal solito francese, che verso
la metà del Cinquecento foggiò l'aggettivo culinaire (pare che
lo abbia usato per primo il Rabelais che amava certe scaltre
raffinatezze); e nel nostro lessico non entrò prima dell'Ottocen-
to. Esisteva invece già, da oltre un secolo, l'aggettivo cucinario,
regolarmente foggiato su cucina; Io Incontriamo Infatti In uno
scritto del medico letterato beneventano Antonio Cocchi, vis-
suto nella prima metà del Settecento: «Senza fuoco e senza
molta preparazione cucinarla». Anche in scrittori posteriori si
incontra di frequente; questo è un esempio del Faldella, lettera-
to piemontese morto nel 1928: «Egli ha assaggiato tutto quello
che l'arte cucinarla della nuova civiltà può ammannire»; e
questo della Serao: «La pizza è una delle adorazioni cucinarle
napoletane». Non parliamo poi del D'AnnUnzio, artista troppo
estetizzante per indugiar nella scelta: «Per far cucinarla strage
di noi tutti». Si potrebbe facilmente derivare qualche considera-
zione Ironica sulla sfacciata fortuna dell'aggettivo culinario,
giunto tra noi buon secondo ma affermatosi prepotentemente
nell'uso a scapito del primo. Sta a noi, ora, ristabilire Il diritto
della precedenza.

Coprire
Non so dar torto a quegli amici che si meravigliano con me
dell'uso, anzi dell'abuso, che si fa del verbo coprire: «L'affare
non copre le spese», «Il corridore ha coperto la distanza In
un 'ora e tre primi», « Gli coprf la ritirata», «Ha coperto per
tre anni il posto di direttore», e via coprendo un po' questo
e un po' quello. Non gli so dar torto; ma son tutti modi con
molti anni sulle spalle, ereditati, si capisce, dal solito francese:
couvrir une distance, couvrir une p/ace, eccetera. Merce d'Impor-

155
tazione, dunque, come tantissima altra merce di quel capace
magazzino che è il nostro lessico; e In parte, ormai, perfino
tollerabile. Se infatti diciamo, come anche dicono 1 Francesi ,
«coprire uno di vergogna, di rossore, di ridicolo, di contume-
lie » e di tant'altre cose di questo genere, potremo tutt'al plu
passare per esagerati (e già la vecchia retorica ammetteva l'esa-
gerazione o lpèrbole) creando come l'immagine d'un tale avvol-
tolato, incappottato in cose per lo plu sgradite. Ma proviamo
a passare a un'altra metafora: «Coprire la ritirata all'esercito
in rotta »: qui le cose appaiono subito meno chiare, perché la
ritirata, a uno che scappa non si copre, semmai si scopre, si
spalanca piu che si può; e non vedo come il verbo coprire si
possa, sia pur metaforizzando, dilatarlo fino a farlo si-
nonimo di proteggere , che mi sembra l'unico verbo calzante nel
caso nostro.
Altro esempio: «L'affare non copre le spese »: qui pure non
mi riesce di vedere come il verbo coprire possa assumere lo
stesso valore di verbi come compensare, ripagare , risarcire, rim-
borsare, pareggiare e simili. Siamo anche qui per lo meno nello
stravagante, ed è cosa che non può sfuggire a un orecchio che
non sia diventato ottuso dalla consuetudine burocratica.
Proseguiamo: «Coprire una distanza», cioè percorrer/a : qui
siamo piuttosto nell'ardito, vediamo addirittura il tenace cam-
minatore coprire a metro a metro il terreno che percorre con
le orme polverose delle sue enormi piote; immagine che potreb-
be apparire perfino bella se poi non se ne facesse quel mal uso
che sappiamo, dilatandola a tutto ciò che si muove In uno spa-
zio, fino alle navi e agli aeroplani e alle astronavi. Ma dove
all'arditezza si aggiunge il ridicolo e una buona dose di volgarità
è nella frase «coprire un posto» o una carica, o un ufficio,
invece di occupar/o, tener/o, esercitarlo, averlo, perché qui alle
piote s'è voluta sostituire diversa anatomia . Perfin l'au stero
Tommaseo fu trascinato a dire netto netto che questo è modo
« che presenta il magistrato dalla parte del sedere». Un tale che
abbia coperto per tre anni il posto di direttore non può non
suscitare in noi l'immagine di un uomo incollato alla poltrona
«con la tenacia di una ventosa» (come dice l'amico Satta ),
solo occupato a non mollare un attimo la presa.
È vero: ci fu una volta un lettore che mi sciorlnò davanti
un esempio del Parini: «La carica di Professore dell ' Eloquenza
obbl iga chiunque la copre a saper l'arte ch'egli insegna». Io

156
rispondo che questo non cambia niente: anche il Parini quella
volta usò male il verbo coprire. E io usò forse peggio il Colletta,
che nella Storia del rea me di Napoli ci fa sapere che il re « copri
quarantaquattro sedi vescovili, rimaste lungo tempo vacanti ».
Cambiano solo i soggetti: un professore nel Parini, quaranta-
quattro vescovi nel Colletta: ma il richiamo anatomico resta
sempre quello.

Fasullo
Questo fasullo mi piace, come mi piacciono molte parole di ori-
gine dialettale che, non contrastando nella forma con la buona
tradizione linguistica, appaiono ormai poco meno che necessa-
rie per quel loro particolare sapore che non sempre parsi ritrovi
nelle corrispondenti parole di lingua. Se fasullo si è cosi rapida-
mente e saldamente affermato nel nostro linguaggio, e non sol-
tanto in quello comune, tanto che ha perfino conquistato il suo
posticino nei dizionari piu severi, se questo è avvenuto, ciò si-
gnifica che la parola aveva in sé qualche cosa che è parsa utile
e opportuna: e questo basta e avanza per consacrare la legittimi-
tà di un nuovo vocabolo.
Fasullo vuoi dir propriamente «falso», e deriva dal gergo ro-
manesco che lo trasse dall'ebraico postbiblico pasti/, non legitti-
mo, non valido. Si disse dapprima delle monete, dei metalli
preziosi; poi, estensivamente e figuratamente, l'aggettivo acqui-
stò significati sempre piu ampi che mal si esprimerebbero con
« falso»; cosi, accanto al documento fasullo, alla firma fasulla,
per i quali l'aggettivo «falso» calza ancora a puntino, abbiamo,
per esempio, le scarpe fasulle, che son .quelle di cattiva qualità,
o non adatte al piede o all'uso; abbiamo la matita fasulla, che
scrive male o non scrive affatto; la risposta fasulla, cioè una
risposta sbagliata ma anche insufficiente, incompleta o incon-
cludente; la bomba fasulla, che non scoppia, o che scoppia
quando non dovrebbe scoppiare, o, se scoppia, non produce
gravi danni; e cosf via. Oggi si parla anche di aziende fasulle,
nate senza capitali, o anche male amministrate; di idee fasulle,
false, sf, ma anche strambe, insensate; di libri fasulli, vuoti cioè
e disadatti o semplicemente inutili ...
In conclusione, un aggettivo accettabilissimo, tutt'altro che
da respingere; ma che va usato, si capisce, con quell'attento

157
criterio di scelta che non deve o non dovrebbe mai mancare
per ogni altro vocabolo, nell'atto del parlare e dello scrivere.

Fatiscente
Fatiscente è certo un bell'aggettivo, sonante, rotondo, direi
pomposo, di quelli che un tempo si usavano solo in prosa di-
stinta, letteraria, e che i dizionari indicavano come raro. Oggi
eccolo invece apparire con una frequenza Imprevedibile in ogni
genere di prosa, fino in quella plu alla buona, e se ne fa spreco
soprattutto nella cosiddetta cronaca nera. È un latinismo, uno
dei tanti Iatlnismi venuti di moda proprio oggi che del latino
si fa quel conto che tutti sapete, del tipo obsoleto, afferente,
recepire, obliterare, pregresso, tanto per capirci. Si tratta del
latino fatt'scens, fatiscéntis, participio presente del verbo jatisci,
fendersi, spaccarsi, screpolarsi. In Virgilio leggiamo di navi che
si sfasciano (n aves jatiscunt) sotto l colpi della tempesta che
apre numerose falle nello scafo; e oggi infatti questo fatiscente
si accompagna generalmente a case, a costruzioni, a oggetti che
vanno in pezzi per vecchiaia o abbandono; quel che una volta,
quando il latino si studiava davvero, si diceva piu semplice-
mente e chiaramente cadente, o decrepito , o in rovina, o in che
altro modo si voglia. Intendiamoci, non voglio dire con questo
che si tratti di un aggettivo da condannare, dico solo che in
certa prosa corrente, specialmente quando è diretta a un pubbli-
co che il latino neppure se lo sogna, esso rappresenta una sto-
natura bella e buona.

Gemello
Può sorgere qualche dubbio sull'uso della parola gemello.
Quando s! tratta di una coppia di nati la parola va liscia; ma
quando i nati sono tre o piu !n una volta, la parola è ancora
correttamente usabile? si può cioè dire, come spesso si dice,
«la tale ha avuto tre gemelli»?
Il fatto è che la parola gemello, dal latino gemel!us, diminutivo
di geìninus, doppio, ha assunto da un pezzo oltre che il significa-
to proprio di «nato In coppia» anche quello piu generale di
((nato a uno stesso parto»; perciò sono diventate comunissime
e correttissime frasi come «le cinque gemelle Dionne», « Carlo
è gemello di Luigino e di Teresa», «ha avuto due, tre, quattro
gemelli».
Si dice anche correttamente «parto trigèmino, quadrigèmi-
no » oppure « trigemellare », « quadrigemellare », che non vuoi
già dire «tre, quattro volte doppio», ma soltanto parto di tre,
quattro figli, di tre, quattro gemelli. Si parlò anche di trigemelli
e quadrigemelli, ma non son termini dell'uso comune.

Grosso
Avete notato l'uso indiscriminato che si fa dell'aggettivo gros-
so? In una recente trasmissione sportiva mi son divertito a con-
tare tutti i grossi dell'annunciatore, il quale nel giro di pochi
minuti ha parlato di grossa partita, di grossi giocatori, di grosso
episodio sportivo, di grossi interessi, e di altri due o tre grossi
che non ho fatto In tempo a registrare. Aggiungo che un'altra
sera non si sottrasse al generale contagio neppure il grosso pre-
sentatore del grosso « Rischiatutto » per il quale furono grossi
non solo i particolari concorrenti della serata, ma grossa fu
anche la flessuosa Lollobrigida, nonché il bravo comico Bramie-
ri, grosso certo un volta ma ora ridotto appena alla metà.
Questo aggettivo è una di quelle tante parole comode, buone
per tutti gli usi e le occorrenze, che il nostro nuovo linguaggio
ama e usa a man salva, per la semplice ragione che risparmia
cosi la fatica di cercarne altre. Ne incontreremo parecchie in
queste pagine; ma è chiaro che andando avanti di questo passo
finiremo col ridurre il nostro Ingombrante vocabolario a una
_ specie di prontuario per turisti: qualche centinaio di parole al
massimo, e tutti in pace.
Mi pare ovvio che questo grosso sarebbe bene destinarlo a
persone o a cose considerate nel senso del volume, della capaci-
tà, dell'ampiezza. Parlando di un grosso libro la prima Immagine
dovrebb'essere, ed è, quella di un librone ingombrante e pesan-
te come un dizionario, non già un libro d! gran merito, impor-
tante, eccellente. Un grosso uomo è per me solo un uomo che
tocca il quintale. E tale immagine non può cambiare anche se
parliamo di grosso pitrore, grosso cantante, grosso concorrente a
« Rlschiatutto ». Intendiamoci: non voglio dire che l'aggettivo

159
grosso non possa assumere anche significati estensivi e figurati
non pochi, come in espressioni del tipo grosso affare, grosso ri-
schio, grosso errore; ma c'è sempre in tutte queste espressioni
il senso dell'ampiezza, della quantità, del volume. Diciamo
anche, è vero, che il tale è un pezzo grosso, volendo dire che
è importante e influente: ma anche qui resta l'immagine figura-
ta del volume e non dell'eccellenza. Volume e non eccellenza
che troviamo in altre molte simili frasi, come grosso imprendito-
re, grosso mercante, grosso editore, dove è piuttosto sottintesa
la massa degli affari che fa. Un grosso editore è una cosa, un
grande editore è un'altra. Può essere che in tutta questa faccen-
da ci sia l'influenza del francese gros e dell'inglese big, dove
è appunto contenuto anche il significato di eccellenza e di valo-
re . La nostra lingua però è meno sbrigativa, ama le mezze tinte,
i chiaroscuri. Il grosso giocatore di calcio preferiamo chiamarlo
bravo, valoroso, ouimo; la Lollobrigida non è una grossa artista,
semmai grande, e se non vogliamo Impegnare! troppo dic iamo
squisita e magari famosa. E non dimentichiamoci infine che
grosso vale piuttosto, in certi casi, «grossolano», «ottuso»:
«Erano uomini di grosso ingegno», dice il Boccaccio: e non
voleva dire sapienti.

Locale
«Appartamento di tre locali»;« Per i miei bisogni, questa villet-
ta dovrebbe avere un locale in piu »: frasi come queste lasciano
oggi indifferenti anche i pill scrupolosi linguisti; ma in passato
non avrebbero evitato una condanna severa per il fatto che quel
locale, usato cosi come sostantivo, è uno smaccatissimo france-
sismo; e come tale è ancora condannato da qualche recente
dizionario.
Infatti locale, dal tardo latino localis derivato di focus, luogo,
è nato aggettivo perché aggettivo era anche in latino; perciò
l'uso corretto vorrebbe che fosse usato sempre e soltanto come
aggettivo: costumi locali , tempo locale , ora locale, cioè« del luo-
go ». Ma un giorno arrivò tra noi il foca/ francese in funzione
di sostantivo, col significato di fabbrica o fabbricato o anche
di parte di fabbricato. L'italiano subito assorbi quest'uso, e co-
minciarono ad apparire frasi come «Il teatro tale è un gran bel
locale», «Appartamento di tre locali». I puristi d'allora (era va-

160
mo nella seconda metà del secolo scorso) saltarono su come
molle e gridarono all'orribile barbarismo.
Ma la cosa non si fermò alle sole discussioni tra linguisti;
inondò, e per piu giorni, addirittura l'aula del Senato! Cose che
paion sogni. Sentite qua. SI dovevano votare in quei giorni
alcuni articoli del nuovo codice penale, e uno degli articoli
messi in discussione (il diciottesimo) diceva esattamente cosi:
«I condannati per reati commessi col mezzo della stampa scon-
tano la detenzione in luoghi distinti da quelli destinati agli altri
delinquenti». Chiese la parola il senatore Giuseppe Gadda, un
eroe delle Cinque Giornate, il quale propose di sostituire « luo-
ghi distinti» con «locali distinti», per il fatto che per «luoghi
distinti» si poteva intendere un carcere diverso. Si oppose il
piemontese Lorenzo Eula, vicepresidente del Senato e pitl tardi
ministro di Grazia e Giustizia, facendo notare che il termine
«locali» non era affatto ammesso in buona lingua e insistette
per «luoghi». A questo punto chiese la parola il senatore Mi-
chele Amari, palermitano (che fu anche ministro dell'Istruzio-
ne), il quale, per appianare il disaccordo, propose di respingere
tanto «luoghi» quanto «locali» e di usare la parola stanze. Non
piacque neppure la proposta conciliativa dell'Amari. La discus-
sione si accese, si infervorò al punto che la cronaca della sedu-
ta, riportata fedelmente dal giornale L'Unità cattolica, registra
nu merose volte «clamori». Chiese allora di parlare Il mini stro
guardasigilli Paolo Onorato Viglianl, il quale, fatto presente che
dell'eletta assemblea faceva parte Giambattista Giorgini, dichia-
rò che solo il parere del Giorgini poteva avere un peso nella
discussione. E il Giorglni, rivoluzionario com'era in fatto di lin-
gua, sostenitore dell'uso popolare al ferri corti, dichiarò che se
«locali» diceva chiaramente quel che si voleva dire, non
vedeva perché non si dovesse usare in un testo di legge. Si
passò al voti, e cosi fu vista un'intera assemblea senatoriale
italiana votare per appello nominale sulla proprietà di una voce
di vocabolario, che aveva il torto di non possedere le carte in
regola. Potrebbe sembrare, oggi, una favola; ma non è.

Malgrado
Esistono nell'uso d'ogni giorno frasi, locuzioni, anche semplici
parole non sempre collocate a proposito In un determinato con-

161
testo; si tratta di elementi linguistici che avevano In origine un
significato e una destinazione molto precisi; l'uso comune, poi,
fini con l'alterare e guastare ogni cosa. È il caso, per fare un
esempio molto comune, dell'avverbio malgrado. Questo malgra-
do vuoi dire propriamente «contro il gradimento di», «contro
la volontà di» ed è perciò riferibile soltanto a persona, a cui
è dato facoltà di gradire e di volere; questa persona è general-
mente espressa da un aggettivo possessivo, mio, suo, tuo, ecc.
È quindi corretto dire: «Dovette accettare suo malgrado la pro-
posta», «Dovemmo nostro malgrado far buon viso a cattivo
gioco» e simili. Ma ecco che il parlante comune non sempre
bada a questa relazione logica, usa lo stesso malgrado anche
con riferimento a cosa: «Girava senza cappello malgrado il
freddo», «Usci di casa malgrado l'ora tarda» o anche « malgra-
do fosse tardi». È un uso, si capisce, sicuramente improprio,
e farebbero bene i dizionari a segnalarlo. Anche perché questo
malgrado, sempre un po' solenne, può in ogni caso sostituirsi,
quando si riferisca a cosa, con nonostante, sebbene, benché,
quantunque, ancorché: «Girava senza cappello nonostante il
freddo», «Usci di casa nonostante l'ora tarda», oppure« sebbe-
ne fosse tardi ».
Alcuni, sul modello di certi antichi esempi classici, dicono
anche malgrado di, a malgrado mio, a mio malgrado: «Lo farò ,
malgrado di mio padre», «Lo dirò, a vostro malgrado»: ma
son forme che suonano ormai pedantesche.

Massivo
È sbucato fuori dal francese massi/, nel femminile massive, che
tutti i dizionari francesi traducono nell'italiano massiccio. Quel
massiccio appunto che anche nel nostro linguaggio si usa nel
senso proprio e figurato: oro massiccio, un lastrone massiccio,
. braccia massicce: «l'opinione di tanti dottori massicci» ( Redi ),
cioè solenni, accreditati; «Scienza massiccia» ( Tommaseo ),
cioè solida, vasta. Nel bollettini dell'ultima guerra si parlò
spesso di «bombardamenti massicci», di «azioni massicce di
artiglieria», e simili. Tutte espressioni correttissime. Però, un
bel giorno, massiccio, non bastò piu; e sul modello del francese
dose massive, injections massives, nel nostro linguaggio medico
si cominciò a parlare di dose trtassiva. di iniezioni massivP. di

162
infezione massiva, eccetera. La parola parve subito nuova e
bella; tanto bella che il vecchio massiccio fu messo in cantina,
e i giornalisti specialmente cominciarono a cibarsene con cre-
scente appetito. Ora nulla è piu massiccio, né intenso, né ingen-
te, né forte, né enorme, o che si voglia, ma soltanto massivo .
Cosi si legge comunemente di emigrazioni o immigrazioni mas-
slve, di Interventi massivi di parlamentari in una discussione,
e perfino di errori massivi e di massive burle, che nel novello
e raffinato linguaggio vorrebbero sostituire piu efficacemente
l vecchi e logori aggettivi grossolano, madornale e marchiano.
Il Migliorini ci fa sapere che qualcuno ha adoperato perfino
massaie! Poiché sarà difficile estirpare dal lessico questa nuova
erbaccia, si lasci almeno al solo linguaggio medico, tecnico e
scientifico.

Meridione
Se si vanno a consultare i vocabolari del secolo scorso, come
il Tommaseo, il Fanfani, il Petrocchi, il vocabolo non si trova;
ma l piU recenti lo registrano, anche se (ma non sempre) con
l'avvertenza che si tratta di una voce inutile, sgarbata, e del
peggior uso burocratico e giornalistico. Non si tratta, si badi,
di un neologismo: meridione è un sostantivo che conta piu di
quattrocent'anni, ché apparve la prima volta nel Vocabolario di
cinque mila vocaboli toschi del napoletano Fabrizio Luna, pubbli-
cato nel 1536. Il Luna, a vero dire, non lo registrò come voce
a sé stante, ma gli usci dalla penna nella prefazione, elencando
i punti cardinali: levante, ponente, settentrione e meridione. C'è
quindi da supporre che si tratti d'un V!JCabolo di origine dialet-
tale meridionale. rimasto per secoli nell'uso locale e diffusosi
in tutta la penisola soltanto dopo la sua unificazione, cioè dopo
il 1870, attraverso le scritture dei burocrati, e ripreso poi nelle
cronache dei giornalisti.
Aferidione dispiace ai puristi perché non discende da un
latino « meridio, meridionis », che non e mai esistito, cosi come
invece settentrione legittimamente discende dal latino septéntrifì,
septentriònis, derivato dal plurale septentriònes, cioè séptem triò-
nes, i sette buoi da lavoro, con cui si identifkavano le sette
stelle deli'Orsa maggiore, la costellazione che indica il Nord
Meridione è semplicemente un sostantivo foggiato sull'aggettivo

163
meridionale, e alla sua forma zione ha certamente concorso il
rapporto settentrione-settentrionale. Allo stato attuale della
lingua, la condanna purlst!ca contro questo vocabolo si è certo
molto raddolcita. Meridione, nel significato di parte meridionale
di una nazione ( « Il meridione d'Italla » ), e assai spesso come
specifica indicazione dell'Italia meridionale (in questo caso,
meglio con la maiuscola: «I problemi del Meridione») è voce
entrata ormai largamente nell'uso, purtroppo anche letterario,
e merita una certa tolleranza . Ma assai meglio si dirà mezzogior-
no («Il mezzogiorno d'Itali.a », «I problemi del Mezzogiorno>>).
E cosi dicono infatti gli scrittori piu avveduti.

Mestieri
Una mia amica lombarda usa normalmente la parola mestieri
per Indicare quelle che lo chiamo faccende di casa, jaceende
domestiche, e anche soltanto/accende; dice, per esempio:« Fini-
sco i miei mestieri e corro a fare la spesa», «È tardi e ho ancora
tutti l mestieri da fare>>. Si tratta di un uso tipicamente lombar-
do, ma ormai diffuso anche in altre regioni. Però è bene sapere
che in corretto italiano la parola mestiere, sia pure al plurale,
indica tutt'altra cosa; cioè un'attività specifica, per lo piu di ca-
rattere manuale, abitualmente esercitata e sempre a scopo di
guadagno. Abbiamo, voglio dire, il mestiere del falegname, del
fornaio, del rilegatore di libri. Si contrappone di solito a profes-
sione o arte. A volte, In senso estensivo, si indica con mestiere
anche un'attività artistica o intellettuale, ma considerata
piuttosto dal punto di vista della consuetudine quotidiana, della
necessità per vivere, oppure quando di queste attività si consi-
derano piuttosto gli aspetti tecnici e pratici: «Il duro mestiere
dello scrittore, dell'Insegnante», «Fare il pittore per mestiere»,
«Un attore che sa Il suo mestiere>>. Altri usi estensivi, fino
a quello della spolveratura dei mobili e del riassetto delle stan-
ze, non ce ne sono.
Questo uso Improprio se rimanesse nello stretto linguaggio
parlato, familiare, non sarebbe gran male; il guaio nasce quando
queste forme regionali passano nella prosa scritta e perfino in
quella cosiddetta letteraria, generalizzando, senza nessun plau-
sibile perché, forme e modi che sono veri e propri errori
di lingua.

164
Metro o metrò?
Quando si inaugurò la ferrovia sotterranea milanese tornò a
galla un vecchio problema sorto già quando entrò in funzione
quella romana: è corretto dire il metro' alla francese? o con quale
espressione pill schietta potremo sostituirla? Due righe di storia
serviranno a chiarire meglio il piccolo problema.
Quando si inaugurò la ferrovia sotterranea parigina, nel 1900,
questa venne ufficialmente chiamata chemin de fer métropo/i-
tain, ferrovia metropolitana, cioè ferrovia che serve una metro-
poli, una grande città. Naturalmente, per far piu presto, la lunga
espressione si abbreviò in le meìropolitain (in italiano la me-
tropolitana); e, abbreviando ancora, le métro. Quel le, articolo
maschile, si spiega col nome maschile chemin de fer, che in
italiano. corrisponde al nome femminile la ferrovia . Di conse-
guenza, abbreviando secondo il sistema francese, verrebbe
logica l'abbreviazione italiana la metro, pronunziata corretta-
mente con l'accento grave sulla e: la mètro. E questo era il
giusto suggerimento del linguisti, e ad esso sarebbe stato bene
attenersi. Diceva infatti il Migliorini, già qualche anno prima
dell'inaugurazione della ferrovia milanese (c'era dunque tutto
il tempo per tenerne conto): «Il vocabolo (la metro) cosi accor-
ciato s'inquadra perfettamente nella serie la foto, la moto, la
radio, la polio . .. Diciamo dunque, finché si è ancora in tempo,
la metro e non il metro'». Sagge parole. Ma chi le ha ascoltate?
Nessuno, a cominciare dallo stesso giornale dove il Migliorini
aveva lanciato l'appello, che non solo continua a stampare a
caratteri d! scatola il metrò, ma ha anche sostenuto in un suo
trafiletto che solo metrò debba dirsi, perché è finito Il tempo
delle sanzioni e dell'autarchia, perché questo è il tempo dei
mercati comuni e degli scambi internazionali, e che la lingua,
dopotutto, la fa chi la parla. Purché la parli bene, aggiungo io.

Necessitare
«Questa casa necessita di molti restauri», «Gli necessitavano
centomila lire»: frasi come queste, con questo verbo necessita-
re, si odono spesso, si leggono spesso, ma non sono di buona
lingua. Intendiamoci, non si tratta di un verbo nuovo, tutt'altro,
risale per lo meno al Trecento; ma è verbo nato transitivo,

165
mentre negli esempi sopra citati è usato come intransitivo. La
sua macchia è tutta qui. Ripreso tal quale dal latino medievale,
significava soltanto «mettere nella necessità», «obbligare»,
«costringere»: «Il minacciargli da piu parti lo necessitava a fare
in piu luoghi guardie grandi»: è un esempio del Guicciardini;
e questo è del Galilei: «Le opinioni fattemi mi necessitarono
a pensarvi sopra». Se quindi oggi scrivessimo, per esempio, «Il
bisogno lo necessitò a chiedere un prestito» nessuno potrebbe
nulla obiettare: sarebbe un modo di scrivere forse un po' pedan-
tesco, ma che si riallaccerebbe alla nostra piu schietta tradizio-
ne. Tuttavia, come ho detto, ben pochi lo usano con questo
significato. Comune è invece l'uso intransitivo col significato
di «abbisognare», «aver bisogno>>, «avere necessità»: «La
nostra scuola necessita di alcuni ·ammodernamenti», «La fine-
stra necessita di un vetro », «Ragazzi che necessitano di amoro-
sa assistenza»; o anche. di «occorrere»: «Gli necessitava un
vestito nuovo». Frequentissimo poi il costrutto impersonale col
significato di «esser necessario», «bisognare»: «Necessita di
provvedere all'ammodernamento della scuola», «Necessitava
far presto»; e con proposizione soggettiva: «Necessitano mag-
giori precauzioni», «Necessitava che Io vedessi subito». Frasi
comunissime, ho detto, che s'incontrano tutti i giorni, ma che
fanno istintivamente arricciare il naso a chi ha il gusto della
buona. lingua. Quanto suonano piu gradevoli all'orecchio queste
altre frasi che dicono, spesso con maggiore efficacia, la stessa
identica cosa: « La nostra scuola ha bisogno di alcuni urgenti
ammodernamenti», «Ragazzi che abbisognano di amorosa assi-
stenza», « Urgeva, Bisognava far presto », «Gli accorrevano,
Gli urgevano centomila lire».

Petrolifero e petroliero
Si continua a parlare, purtroppo, di crisi petrolifera: ma questo
aggettivo petrolifero unito a crisi non è un controsenso?
Il suffissoide -fero, dal latino /erre, «portare», in origine
aveva un solo significato: «che porta», «che produce»; e i
primi aggettivi presi direttamente dal latino o sul modello latino
foggiati fin dalle origini della nostra lingua, non alterarono mai
Il primitivo valore. Presto questi aggettivi anche si sostantivaro-
no, e già nel Cinquecento il Castiglione ci parla del sonnifero,

166
cioè del medicamento portatore del sonno. Altre numerose
composizioni in -fero si foggiarono nel Sei-Settecento, so-
prattutto nel linguaggio scientifico, e nell'Ottocento, con lo svi-
luppo della tecnica, se ne ebbe addirittura un'Inondazione: a
cominciare dal fiammifero, propriamente «produttore di fiam-
ma>>. Tutto a posto, dunque, fin qui. Ma le lingue, si sa, non
sempre seguono scrupolosamente certi valori, e la loro tendenza
è anzi quella di estendere 1 significati, a volte addirittura di dila-
tarli fino all'assurdo. È una realtà comune a molti suffissi, non
soltanto al nostro -fero (se «regione frutticola» e «campagna
frutticola» calzano a pennello: regione che coltiva frutti, cam-
pagna per la coltivazione della frutta, le frasi «coltivazioni frut-
ticole» e «prodotti frutticoli» sono assolutamente strampalate:
e pure si usano). Ma se questo è un fenomeno linguistico ormai
generalizzato e consolidato da accettare quindi senza riserve,
riserve ci sarebbero da fare in tutti quei casi dove una scelta
piu logica tra due o piu aggettivi servirebbe a evitare certi duri
contrasti di senso. È il caso appunto dell'aggettivo petrolifero
(preso dal francese pétrolifére, nato alla fine del secolo scorso)
che ha accanto un altro aggettivo, petroliera ( pur esso di origine
francese, pétrolier ), ciascuno con un significato ben distinto:
«che contiene, che produce petrolio», Il primo, «che riguarda
il petrolio», «che ha attinenza col petrolio», il secondo. Perciò
diremo bene giacimento, pozzo, regione, terreno petrolifero in
quanto destinato alla produzione del petrolio, ma dovremmo
dire sempre nave petroliera, industria petroliera, produzione pe-
troliera, e piu che mai, sempre per rispetto della logica, crisi
petroliera, provvedimenti petrolieri, restrizioni petroliere e cosf via.
Il Grande Larousse edizione del '63, non manca di inserire sotto
la voce pétrolifère questa chiara avvertenza: «questo termine
si usa soltanto con riferimento a un giacimento, un terreno,
una roccia, una regione ». L'uso estensivo, dunque, in Francia
è giustamente ignorato.

Praticamente, comunque ...


«Oggi il cielo è praticamente tutto sereno»; «È stata una bella
gara, comunque ce l'ho messa tutta»: non si tratta piu, è ovvio,
di ragionevoli avverbi, ma di semplici intercalari, e perciò
spesso introdotti a vanvera nel bel mezzo della frase. Soprattut-

167
to di comunque si fa una vera e propria orgia quotidiana, che
si manifesta in tutto il suo grottesco clamore specialmente nelle
interviste sportive, studentesche, sindacali, psicanalitiche, che
sono i pezzi forti della nostra televisione. «Mi sento davver0
in gran forma; e comunque spero proprio di vincere.>> Uso piu
sconclusionato di comunque non si potrebbe davvero concepi-
re . E si tratta, badate, di un avverbio fino a non molt'anni fa
considerato dotto, del linguaggio colto, elevato; e pure oggi non
c'è moccioso scolaretto o pecoraio analfabeta che non ne faccia
scialo. Vale propriamente «in qualsivoglia modo che>>. Essendo
un'espressione incompiuta, per non restare a gambe all'aria do-
vrebbe sempre appoggiarsi al verbo di una proposizione che
segue; diremmo dunque bene «Comunque tu dica, dici male»,
«Comunque vadano le cose resto qua»;« Comunque sia, prefe-
risco andarmene». Possiamo anche tollerare (e avviene spesso)
che ·Si sopprima la forma verbale quando questa sia facilmente
sottintesa: «Comunque (sia), preferite i restare»;« Doveva, co-
munque (fosse), dirmelo>>. Oggi si dà insomma al comunque
il significato schietto schietto di «tuttavia», «peraltro», «in
ogni modo»; ma spesso gli si toglie anche, proprio perché è
diventato un semplice e Inconscio intercalare, ogni significato
logico, come nel caso di quel corridore che sentendosi in gran
forma vincerà comunque di sicuro.

Pregresso
In un referto radiologico ho letto: «Non si evidenziano l
segni di una pregressa frattura ... >>. Parliamo un po' di questo
pregresso.
I signori radiologi, l signori medici, gli specialisti, l tecnici
in generale dispongono tutti di un loro particolare linguaggio,
che bene spesso è un gergo dove il profano stenta a capire qual-
cosa. Se questo sia un bene o un male, non so; per il cliente
di codesti benemeriti professionisti certo bene non è, ché a tutti
è capitato di restare con in mano un referto, una ricetta come
solitamente si resta davanti a una scrittura geroglifica egiziana
o ideografica cinese. Ma parlando tra loro, ne son certo, l tecni-
ci si valgono di questo loro linguaggio per capirsi meglio, anche
perché ben spesso certe espressioni nascondono tra le lettere

168
una sfumatura di significato che una plu comune espressione
non avrebbe.
II nostro pregresso comunemente usato nel linguaggio medico
(«trauma pregresso )), «malattie pregresse )) ) corrisponde né piu
né meno che a precedente; quindi il referto dello stimato radio-
logo si potrebbe tradurre In chiare lettere cosi: «Non si riscon-
trano segni di precedenti fratture)) (di quel brutto evidenziare
si parla altrove, fra l mostri). Ma c'è in quel pregresso, mi assi-
curano, una celata sfumatura di significato: c'è l'idea cioè che
il fatto precedentemente avvenuto (la frattura, il trauma, la ma-
lattia) ha avuto una durata piu lunga del normale. Sarà; ma
lo preferisco a quel pregresso tenebroso un solare precedente,
che non lascia all'oscuro, e spesso In pena, il malato. Il peggior
guaio è poi questo: che l'aggettivo pregresso, cosi pomposo e
solenne, non si è accontentato di restare nel linguaggio del me-
dici; come accade spesso dei paroloni difficili ha Invaso non
soltanto il linguaggio letterario ma perfino quello comune, si
che oggi si sente parlare di «tempi pregressi )) che sarebbero
quelli passati, trascorsi, del « pregresso servizio )) di un Im-
piegato, cioè svolto In precedenza, che a me pare una goffa
stonatura.
E concluderò avvertendo, per chi volesse, che pregresso
deriva dal latino praegressus, participio passato di praégredi,
andare Innanzi, precedere.

Protagonista
E facile Incontrare frasi come queste: «La commedia avrà come
principale protagonista l'attore tal del tali)); oppure: «I protago-
nisti principali dello spettacolo sono tutti stranieri)), e simili.
Ebbene: sono tutte frasi sbagliate per l'uso improprio che
si fa della parola protagonista. Vediamo in breve come
stanno le cose. ·
Questo protagonista è vocabolo di origine greca, protagonistés,
composto di protos, primo, e di agonistés, agonista (cioè chi
prende parte a un agone, a una gara: in Grecia gli agonisti eran
quelli che concorrevano a gare di vario genere, ginniche soprat-
tutto, ma anche poetiche e musicali). Nell'antico teatro greco
il protagonistés era perciò l'attore che recitava la parte principale
del dramma o della commedia; era Insomma quel che oggi si

169
dice primo attore. Secondo la tradizione fu Eschilo a introdurre
sulla scena anche un secondo attore, che si disse deuteragoni-
stés, deuteragonista (da déuteros, secondo), e poi un terzo, il
tritagonistés, tritagonista (da tritos, terzo). Deuteragonista e tri-
tagonista, dunque, e non secondo e terzo protagonista come
molti sarebbero Indotti a dire, e dicono infatti.
La parolaprotagonista (le altre due non sono entrate nell' uso
corrente, neppure In quello strettamente teatrale) si diffuse
nella nostra lingua tra il Sei e Settecento col corretto significato
di attore principale, primo attore di un'opera teatrale, In prosa
e In musica. Era il tempo infatti In cui l'intera azione scenica
si Imperniava su un solo personaggio intorno al quale tutti gli
altri personaggi avevan plu o meno la funzione di coro; e questo
era ancor vero fino a non molti decenni fa, Imperando sulla
scena attori come Novelli, Zacconi, Ruggerl. Un secolo dopo,
al primi dell'Ottocento, la parola protagonista cominciò ad assu-
mere Il significato estensivo di persona che in un'azione qual-
siasi sostiene la parte principale. SI cominciò cosf a parlare del
protagonista di una spedizione polare, di una vicenda giudiziaria
e cosi via. Ma poiché spesso chi partecipava a queste vicende
con parti di uguale importanza e peso eran due o tre o anche
molte persone, avvenne che la parola protagonista, specialmen-
te nelle cronache dei giornali, assunse presto il significato gene-
rico di partecipante a una data azione, a un dato avvenimento.
Si pensi poi che nello stesso teatro, soprattutto in questi ultimi
tempi, la figura del protagonista classico è andata sempre plu
diluendosi, essendosi l'azione ripartita fra piu Interpreti della
stessa importanza. E cosi è avvenuto che lo stretto significato
originario del termine protagonista si è esteso a quello di «attore
principale)) e piU genericamente di «interprete». La stessa
forma plurale lo conferma: « La Loren e Mastroianni sono i pro-
tagonisti del tale film »; « Albertazzi e la Proclemer sono stati
gli applauditi protagonisti del tale dramma», e uscendo dalle
scene teatrali, «Siamo stati protagonisti di una terribile
avventura», «I protagonisti dello scandalo delle autostrade»,
eccetera.
Allo stato attuale del nostro linguaggio, queste e altre consi-
mili frasi non potremo considerarle errate. Errata invece è l'e-
spressione «protagonista principale» perché il concetto di
«principale», di «primo)) è già contenuto nella stessa parola
protagonista. DI conseguenza le due frasi Iniziali di questa

170
chiacchierata dovranno correttamente mutarsi In questo modo:
«La commedia avrà come protagonista l'attore tal del tali»
oppure «avrà come principale interprete, ecc.», «gli interpreti
principali dello spettacolo sono tutti stranieri».

Realizzare
Quando i Francesi, nel secolo XVI, foggiarono sull'aggettivo
medievale latino realis, reale, il loro réa/iser, gli dettero l'unico
significato logico che potesse avere, quello di «render reale»,
«tradurre nella realtà», quello insomma che l'italiano dice col
verbi attuare, effettuare, compiere e molti altri che piu sotto
vedremo. Passato il verbo in Inghilterra, il to realize acquistò
in quella lingua un secondo significato tutto particolare: quello
di «capire chiaramente » una cosa, « rendersi conto di », « ac-
corgersi di» e simili (quasi «render reale, cioè evidente, a sé
una cosa»). La Francia quasi mossa da gelosia, con questo si-
gnificato si affrettò a reimportare il verbo verso gli ultimi anni
del secolo scorso (il dizionario etimologico del Dauzat ci precisa
la data: 1895 ). Chi ne fece subito largo uso fu soprattutto il
popolare romanziere Pau! Bourget, seguito dall'autorevole criti-
co Henri Bremond: si che oggi il verbo è d'uso comune In
Francia anche in questa particolare accezione, e i dizionari lo
registrano senza riserva alcuna. Il piu recente Larousse ne ri-
porta un esempio addirittura dell'accademico Claudel: « Nous
réalisons que ce m onde extérieur est notre monde ».
Furono soprattutto i romanzi del Bourget, largamente tradotti
in Italia, a Inserire anche nel nostro lessico questa singolare
accezione del verbo, per merito, si fa per dire, del soliti
traduttori orecchianti. Conviene tuttavia aggiungere che questo
significato s'era andato via via perdendo nel nostro comune lin-
guaggio, tanto che lo stesso Panzinl, nel suo Dizionario Moder-
no, lo citava, si, ma senza particolare evidenza e senza un dei
suoi soliti caustici commenti. Solo In questi ultimi anni di totale
asservimento linguistico anglo-americano il to realize è entrato
trionfalmente perfino nel linguaggio cosiddetto letterario. In un
recente articolo storico ho letto per esempio questa frase: «Ba-
starono poche parole del ministro a Caterina perch'ella realiz-
zasse con terrore l'Immensità della catastrofe». Ricordo poi, per
l'impressione che mi fece, un film di buon successo, Boccaccio

171
70, dove il to realize Inglese apparve trionfalmente in technlco-
lor. «Tu non reallzzl la gravità della situazione» dice press'a
poco l'avvocato all'aristocratico spendaccione romano , nell'epi-
sodio diretto dal Visconti. E l'aristocratico risponde: «Realizzo,
realizzo», cioè me ne rendo conto esattamente.
C'è davvero da sorridere quando si pensi che il verbo realiz-
zare suscitò un mucchio di discussioni tra l vecchi purlsti fin
dal suo primo apparire nel significato originario francese di
«render reale», «attuare» e simili; soprattutto per la sua sfac-
ciatissima fortuna che subito ebbe; fortuna che facilmente si
spiega essendo un di quei tanti verbi di comodo, da me spesso
segnalati, che adattandosi a cento significati diversi risparmiano
la fatica di ricorrere ad altri che richiedono, per trovarli, un
minimo di ricerca e di fantasia . Se uno si volesse prender la
briga di questa ricerca, presto si avvedrebbe che lo squallido
realizzare corrisponde ad alcune decine di altri verbi nostrani
non solo piu schietti ma anche piu adatti e calzanti nelle singole
occorrenze. Un sogno che si realizza è un sogno che si avvera;
un proposito che si realizza è un proposito che si attua; chi
realizza una promessa la mantiene; chi realizza un capitale inve-
l stito in un'impresa lo ricupera; lo scultore che realizza una
statua !afa, la scolpisce, la modella; chi realizza un lavoro qual-
siasi, lo esegue; il calciatore che realizza una rete la segna ; il

l commerciante che realizza un buon guadagno lo ricava; chi


vuoi realizzare un buon successo intende ottener/o, e via realiz-
zando da riempirne una pagina intera. ~
Contro questo verbo, sia chiaro, non ho nessuna animosità

l puristica preconcetta; nel suo significato di origine può cadere,


a volte, anche opportuno. È il significato all'inglese che non
riesco ad accettare; e non mi spiego la simpatia che esso sembra
suscitare anche in alcuni scrittori toscani che certi rozzi esoti-
l smi dovrebbero ripudiare per istinto. Padronissimi tuttavia gli
scrittori di farne l'uso che vogliono; ma nessuna indulgenza,
nessuna giustificazione è possibile per quei dizionari, di cui
alcuni strombazzatissimi, che danno rlcetto al nuovo aberrante
significato senza il pur minimo accenno di esotismo.

Recepire
Preso dal duecentesco recépere, usato in poche forme, con un
participio passato receputo, e con un presente recepo, recépi,

172
ecc. («Acqua recepe Raggio di luce permanendo unita>>, come
leggiamo in Dante), derivato dal latino reci'pere, donde anche
il nostro ricevere, .questo recepire, passato alla terza coniugazio-
ne, era fino a pochi anni fa una delle tante squisitezze del lin-
guaggio giuridico: « principii del diritto romano recepiti nella
legislazione moderna>>, « i patti lateranensi sono stati recepiti
nella Costituzione Italiana)); insomma, un duplicato latlnegglan-
te dei comuni verbi accogliere, far proprio, ricevere, acquisire,
accettare, inserire, ammettere, adottare, secondo l casi. Oggi
ahimè, questo verbo, dimessi colletto e cravatta e Indossati ma-
glione e blue jeans, s'è cacciato fin nei vicoli e negli angiporti
del piu squallido suburbio, sbuca come gramigna In ogni plu
scomposto comizio, in ogni piu sbracata assemblea, e non c'è
analfabeta o mocçioso che non ne faccia sfoggio. Altro che lin-
guaggio giuridico! Ché dappertutto oggi si recepisce o si dovreb-
be recepire: il governo le istanze dei pensionati, il datore di
lavoro le richieste dei lavoratori , i prèsidi le esigenze degli stu-
denti, e gli improvvidi genitori i diritti sacrosanti dei nati e del
nasci turi.
Non si discute Il verbo, se ne discute l'abuso.

Risvolto
Apro il giornale e leggo: «le domande del magistrato sono diret-
te a chiarire tutti i risvolti di questa angosciosa storia>>; volto
pagina e leggo che «Il nuovo scandalo petroliera cela numerosi
Inquietanti risvolti politici >>; e se voltassi ancora pagina sono
sicuro che mi imbatterei in altri numerosi risvolti, che saranno
ora finanziari, ora ideologici, ora comici e ora drammatici...
Siamo qui infatti in un altro impero, quello del risvolto. Ogni
tanto nasce una parola, o si dissotterra, o si prende a prestito
da oltre confine, una o due persone la usano, piace, fa colpo,
cresce a dismisura, Inonda, invade, dilaga; e allora non si
prende in mano penna o microfono senza gingillarsene come
di un prestigioso ornamento. La colpa maggiore di tutto questo
- diciamocelo in un orecchio - è proprio dei giornalisti i quali,
pur con l'attenuante della fretta che spesso li punge, non fanno
il minimo sforzo per rifiutare il trito vocabolo annidatosi nei
loro meandri cerebrali come un assillante ritornello. Non solo
non lo rifiutano ma finiscono col dare a esso tutti quei si-

173
gnificati e tutte quelle sfumature di significato ai quali meglio
si presterebbero - ma valle a cercare! - tante altre diverse parole
Italiane. Il plu delle volte questo strano risvolto non è che sino-
nimo di aspetto , di particolare, di elemento, («esaminare tutti
gli aspetti della situazione»; «chiarire tutti i particolari di una
storia»); ma può anche essere il sinonimo, secondo i casi, di
conseguenza, implicazione, ripercussione, sottinteso, e chi sa
quanti altri se ne potrebbero allineare. Anche qui non voglio
dire, si capisce, che questo risvolto in senso figurato sia senz'al-
tro da scartare: un traslato può essere sempre accettabile o
almeno sostenibile. Quel che guasta è il solito abuso, che fa
schifare, come tutti sanno, anche le pernici.

Sfuso
« Caramelle sfuse », «zucchero sfuso », «biscotti sfusi »: questo
sjuso non è orribile in sé, ma trattandosi di un aggettivo di
schietta origine dialettale entrato nell'uso non da tropp'annl,
per di pili niente affatto necessario, direi di non farne eccessivo
conto, di lasciarlo dove è nato, e non, come purtroppo avviene,
trasferirlo fin nella prosa letteraria. Si tratta, è chiaro, di una
forma rafforzativa dell'aggettivo/uso, mediante il prefisso inten-
sivo s-, cosi come vuotare si rafforza in svuotare, battere si raf-
forza in sbattere, ecc. In alcuni dialetti settentrionali si cominciò
a rafforzarlo, dicendo per esempio «cera sfusa », «burro sfuso »
invece del semplice fuso. Di qui l'aggettivo si estese anche alle
cose che non si potevano fondere , e si disse merce sfusa, siga-
rette sjuse, biscotti sjusi, volendo dire che quella merce, quelle
sigarette, quei biscotti non erano confezionati, non erano conte-
nuti in pacchi, in scatole, ma soltanto sciolti, l'aggettivo
appunto che in buona lingua si era sempre usato fln allora:
« Vammi a comprare cinque sigarette sciolte», «I biscotti li
vuole in pacchetti da mezzo chilo o sciolti?». Ripeto: non c'è
da sparare a zero su questo strano sjuso, che sempre pili dilaga
e s'Impone. Io non sento mai il bisogno di usarlo. Come ho
detto altre volte, parole nuove, espressioni nuove siano le ben-
venute, ma solo per esprimere concetti nuovi. nott già per espri-
mere, male, concetti vecchi di secoli.

174
Spintonare
E certo un verbo di coniazione popolare, ma a mio avviso effl-
èace e in moderata misura accettabile. Foggiato su spintone,
dice assai di piu del semplice spingere . Se non erro, deve essere
nato sui campi di calcio, dove gli atleti lavorano non poco di
spintoni. Quando un atleta butta a terra l'avversario facendolo
addirittura caprloleggiare, lo « spintona » non lo «spinge». Si
tratta di un normalissimo verbo denominale, sul modello di pic-
cone-picconare, ce.ffone-ceffonare e moltissimi altri. Ha dunque
le sue carte in regola. Su spinta, del resto, si era fatto in passato
uno spinteggiare, premere a piccole spinte, dare delle spintarelle,
che il Tommaseo registra come dell'uso senese, ma che rara-
mente s'incontra nella prosa d'oggi. Sarebbe a mio parere un
verbo da riesumare, utilissimo oggi soprattutto che la spinterel-
la, nel proprio e nel figurato , è comunissima. «A forza di spin-
teggiare riuscimmo a guadagnar l' ingresso dello stadio»; e come
riflessivo reciproco: « Gente ammassata che si spinteggia In
tram»; e figurato: «L'hanno spinteggiato alcuni pezzi grossi
fino al grado di capodivisione».

Suicidarsi
Il verbo suicidarsi, è vero, è nato sbagliato, ma è anche vero
ch'esso è ormai nell'uso da oltre un secolo e che tutti conti-
nuano a servirsene. Ce lo ha regalato il francese, che dice se
suicider, verbo che considerato nei suoi elementi significa esat-
tamente « suicidare sé stesso». Nato in Francia sul finire del
Settecento, stupi 1 buoni cultori di queiia lingua e fu costante-
mente avversato dai puristi. Il dizionario dell'Accademia si
decise ad aprirgli le porte soltanto nel 1935. Come si spiega
la stramba formazione di questo verbo? Si spiega col fatto
ch'esso è figlio del sostantivo suicida (in francese suicide), ben
modellato su omicida e simili, e composto del latino sui, di sé.
e di -cida, da caedere , uccidere; quindi , alla lettera, «uccisore
di sé stesso». Da suicida il derivato regolare sarebbe stato suici-
da re, già con valore riflessivo; ma del riflessivo non aveva la
forma, e di qui l'istintiva aggiunta della particella riflessiva si.
E un barbarismo Illogico, notava il Panzini; ma aggiungeva ras-
segnato che l'uso vale piu della logica. Oggi suicidarsi stona

175
meno all'orecchio, non essendo pili avvertito il riflessivo conte-
nuto nel prefisso; e usar questo verbo non può certo costituire
errore. Ma sarà bene evitarlo tutte le volte che si può, ricorren-
do al sinonimi uccidersi, ammazzarsi, sopprimersi, ecc.

Verificare
Questa potrà sembrare a molti una pedanteria, ma si tratta
invece di pulizia linguistica di cui non possiamo farci beffe,
come di tutte le pulizie in genere. Il verbo verificare, dal latino
medievale verificare, significa «fare il vero», «stabilire la verità
di una cosa»; si userà quindi con proprietà in frasi come« veri-
ficare l'esattezza di una testimonianza», «verificare un conto,
la risoluzione di un problema» e simili; con significato piu
ampio, «verificare la solidità di una costruzione, il funziona-
mento di un meccanismo». Dalla forma transitiva, ecco nasce-
re la forma intransitiva pronominale verificarsi, che non potrà
avere altro significato che questo: «farsi vero», «confermarsi
come vero», in una parola «avverarsi»: «Tutto ciò che preve-
devo si è veriflcato », «Speriamo che l'avvenimento auspicato
si verifichi». Ma ecco che a questo punto il verbo degenera,
assumendo il significato generico di accadere, avvenire, succede-
re, capitare, che col significato proprio del verbo non ha piu
nulla che fare: «Si verificò un guasto al motore»,« Si è verifica-
to un imprevedibile incidente», «Queste disgrazie non debbono
piu verificarsi ».
SI tratta, com'è chiaro, di un'improprietà grossolana, eviden-
tissima, a cui solo il frequente mal uso ha abituato l'o-
recchio. Una improprietà che con nulla, proprio con nulla, si
può evitare.

Mugugnare ma con moderazione


MI chiedono sovente se certi termini come mugugnare e mugu-
(?no, e menagramo, e malloppo e altri numerosi termini di questa
fatta, propri come sappiamo di questa o quella regione e perfino
provincia o città, si possono usare In un contesto letterario, o
almeno In un linguaggio parlato che non sia propriamente dia-
lettale. Rispondo subito senza esitazione che si, si possono

176
usare, e Infatti si usano anche da autori di vigllatissimo stile.
Tutto sta ad usarli a dovere, cioè a tempo e luogo . Ci vuole
insomma quell'accortezza e misura che non deve mai mancare
soprattutto negli scrittori, i quali devono conoscere bene il con-
trappunto della loro lingua.
Questi termini non proprio di lingua i grammatici li chlama-
·no idiotismi, da una parola greca che significa «particolarità»,
cioè termine particolare di questo o quel luogo; vestitisi di una
corretta forma linguistica, hanno spesso tal forza e colore, tanta
capacità espressiva che usarli è a volte poco meno che necessa-
rio. Prendiamo appunto Il mugugno e ti mugugnare. Mugugno
corrisponde certo a borbottio, a brontolio, quel suono a mezza
bocca di chi mostra noia e scontentezza; ma in mugugno il
suono Imitativo preso da mug!iare incrociatosi con mugolare
rende assai meglio, mi sembra, il senso di una scontentezza
interiore, chiusa, profonda, propria di chi protesta non aperta-
mente ma dice e non dice. Menagramo sembra pill grave che
iettatore (parola del resto essa pure di origine dialettale, dal na-
poletano iettare, gettare, propriamente «gettare Il malocchio»);
mal!oppo in certi casi è assai pit1 espressivo, con quella sua roz-
zezza, che non la forbitissima rejurtiva.
Preziosissimo è dunque l'apporto dei dialetti nel nostro mi-
gliore linguaggio. Del resto, Il nostro lessico letterario è ricco
di vocaboli ormai insospettatissimi che sono Invece di schietta
origine dialettale. Ne potrei citare una lunghissima sfilza: mine-
strone, risotto, teppista , cl vengono dal lombardo; fòiba, bora e
gondola dal veneto; abbacchio, buttero, cioce dal laziale e dall'a-
bruzzese; pizza, mozzarella, camorra, ciuccio dal napoletano; dal
siciliano abbiamo preso la cassata; e via per centinaia e centina-
ia di voci. Trasferltisi nella lingua, questi vocaboli hanno acqui-
stato a poco a poco pieno diritto di cittadinanza.
Ripeto che gli idiotismi sono bene spesso il condimento, Il
sale e il pepe di una lingua; bisogna dosarli a dovere, si capisce,
come si fa con tutti i condimenti. Non si dice che bdgola, bago-
lare e bagolone debbano soppiantarr ciancia, cianciare e ciancio-
ne, ma in certi casi saranno da preferirsi; omarino spesso spesso
calza meglio di ometto e omettino, paina meglio di damerino;
e cosi guappo per smargiasso, abbozzare per tollerare, ciucca, per
sbornia, buriana per bufera o baldoria; meglio assai magone che
affanno o accoram ento. ·
Certi idiotismi poi hanno assunto ormai · una connotazione

177
cosi particolare che sarebbe arduo sostituirli; è il caso, per
esempio, di fasullo, che dice assai di piu del generico falso (Io
abbiamo visto pili avanti); è il caso di racchio, che dice tutto
quel che sgraziato o goffo non diranno mai. Perciò già i dizionari
cominciano a registrarli.
Largo agli idiotismi, dunque? Sf, ripeto, ma con misura. Biso-
gna insomma anche qui che l'uso non diventi abuso, come in
certi autori d'oggi che ricorrono agli idiotismi e peggio solo per
partito preso. Mi sembra, a dir poco, inutile usare senza motivo
stillstico quegli idiotismi che non fanno che ripetere men bene
o anche soltanto non meglio ciò che un vocabolo di lingua può
benissimo dire; è il caso, per esempio, di prestinaio invece di
fornaio, di tornate, invece di pomodori, di dindo invece di
tacchino.

Cari saluti
Ecco uno di quei casi sottili intorno ai quali tanto si davan
da fare gli antichi puristi e schiumava di rabbia il bonarissimo
Arlla, che non avrebbe osato far male a una mosca, ma promet-
teva «sante nerbate » a tutti coloro che avessero osato maltrat-
tare la lingua. Vediamo un po': che vuoi dire caro? Vuoi dire
«amato», «a cui si porta affezione». Diremo bene, perciò,
«caro babbo», «mia cara figliola». Ma cari saluti? Amati da
chi? Da chi li manda? Tanto meno da chi deve rlceverll. Peggio
ancora, si mandano «Gentili saluti», «Saluti gentilissimi». Il
giudicare i nostri saluti come cari, cioè graditi al punto da
essere amati, è cosa di assoluta pertinenza del destinatario, e
non del mittente; e sulla gentilezza di un nostro saluto bisogna
lasciare il giudizio a chi li accoglie non già a chi li invia. Una
sottigliezza, d'accordo, una innocente illogicità, che general-
mente sfugge, ma è anche tanto facile evitarla. Diremo perciò
«cordiali saluti», «affettuosi saluti», perché tanto l'aggettivo
cordiale, «che viene dal cuore», quanto l'aggettivo affettuoso,
«che dimostra affetto», sono in questo caso azzeccatissimi. Il
famoso poeta tragico Giambattista Niccolini scrisse un giorno
all'amico Mario Pieri, letterato e prosatore raffinato, unalettera
di sfogo contro gli accademici della Crusca che avevano as-
segnato un seggio al canonico Moreni anziché al Roscoe, un
Inglese studioso di lettere e arti italiane. «Lo crederesti?» si

178
scandalizzava il Niccolini «fu preferito a Guglielmo Roscoe il
canonico Moreni, uomo ignoto alle lettere e cosi bestiale scrit-
tore che in una lettera stampata si è sottoscritto: Vostro carissi-
mo amico!>>
Non mancano poi altri aggettivi, buoni per tutti gli affetti
e per tutte le confidenze: saluti amichevoli, rispettosi, devoti,
oppure tanti, tantissimi saluti, saluti infiniti, e perfino un ardito
salutissimi. Andrei piano con sinceri saluti: è una dichiarazione
non richiesta che potrebbe mettere in sospetto chi Il riceve.
Per lo stesso motivo asteniamoci dai migliori saluti, ché l « peg-
giori saluti>> non si mandano neppure a un nemico. In quanto
a distinti saluti, confesso che non mi riesce di arricciare il naso,
come certi fanno, di fronte a questa formula che, se anche di
schietta derivazione francese, è sempre difendibile: potrebbe
trattarsi, voglio dire, di saluti specialissimi, ben «distinti>> da
quelli comuni che si mandano a persone cosi cosi, o con le
quali abbiamo confidenza.
E giacché ci siamo, torniamo un momentino al caro, aggetti-
vo di cui si fa spreco non solo nella chiusura, ma anche nella
intestazione delle lettere: «Caro signore)), «Cara signora».
Nulla da dire, intendiamoci, sulla giustezza dell'aggettivo In
questo caso, ma sovente sulla sua opportunità. Gli antichi, Io
so, scialavano con ben altra aggettivazione. Nel Settecento, per
esempio, e anche nel primi dell'Ottocento, erano di tutti i giorni
intestazioni come questa: «Illustrissimo Signore e Padron co-
lendissimo», e nessuno rideva. Il mio compianto amico Dino
Provenza!, in un suo libro intorno a queste faccende epistolari,
dice che «noi siamo pronti a sorridere della facilità con cui
i nostri trisavoli davano al prossimo del "padrone" quasi che
fossero tutti servi; ma forse i nostri posteri rideranno di noi
giudicandoci ottimisti, bonaccioni, creduloni, poiché anche a
gente a cui scriviamo per la prima volta diamo del "caro signo-
re" o della "cara signora">>. Sfortuna di molte parole che,
troppo abusate, hanno finito col non significare piu niente.
Abolire anche questo caro, dunque? Scrivendo a persona
davvero cara, no di certo; ma con persone alle quali non ci
può legare nessun affetto particolare, meglio ricorrere ad agget-
tivi piu sinceri: a egregio, per esempio, che unisce alla proprietà
anche la nobiltà dell'origine. È una parola a cui è capitata una
sorte strana, che non ammette mezzi termini: o signore o pez-
zente. Disceso dal latino egregius, composto dJ ex, fuori, e dJ

179
grex, gregge, si disse di uomo o di cosa eccezionali per valore,
degni d'esser tirati fuori come esempio dall'informe gregge
umano. Dante: «Sal quel che fe', portato dagli egregi Romani
incontro a Brenno »: si tratta nientemeno dei grandi conquista-
tori di Roma. E il Foscolo: «A egregie cose il forte animo ac-
cendono L'urne dei forti»: si tratta di imprese eroiche, di atti
sublimi. Poi, fortunato fino all'eccesso, ecco l'aggettivo diventar
cosi comune da perder tutto l'oro dell'origine, tanto che oggi
può essere egregio anche un modestissimo straccivendolo.

« C osa » o « che cosa »?


L'uso di cosa o che cosa nelle interrogazioni dirette o Indirette
può dar luogo a qualche dubbio o addirittura a qualche discus-
sione. Si può dire, per esempio, «Cosa si può fàre? »o è meglio
dire «Che cosa si può fare?>>.
Dico subito che il semplice cosa invece di che cosa non deve
considerarsi errore come qualche volta ho sentito sbrigativa-
mente affermare . Gli stessi puristl dei tempi d'oro lo riguarda-
vano con molta tolleranza. Il rigidissimo Fanfani, per esempio,
confortato dal fatto che il semplice cosa è comunissimo in To-
. scana, gli apriva volentieri le braccia, e aggiungeva che «anzi,
In taluni casi, può tornar bene ed elegante, in ispecial modo
nella poesia». Il Fornaciari cosi si esprimeva: «Il vietare come
novità queste maniere quando siano usate con parsimonia e
con garbo, pare a me soverchio e ingiustificato rigore». Il D'O-
vidio, infine, affermava che nell'uso di cosa e che cosa c'è «tal -
volta luogo a una scelta che non è senza motivo». Si può
dunque concludere che entrambe le forme sono buone; ciò che
conta è saperle usare con quel garbo, con quel gusto che racco-
mandavano il Fornaciari e il D'Ovidio; chi ha buon orecchio
sa quando è da preferire l'una e quando l'altra. Cosa appare
piii sciolto, piii sbrigativo, che cosa piii lento, piu incisivo, piU
netto. Ma non dimentichiamo una terza forma, quella del sem-
plice che, pronome Interrogativo di valore neutro che spesso
a un buon orecchio non pare sostituibile né con cosa né con
che cosa: «A che pensi?», «Di che ti lamenti?», «Che ne dire-
sti?». Sostituite quel rapido che, e roviniamo tutto . Il Manzoni
usò, si capisce, tutt'e tre le forme, e con quel giudizio che mai
gli falliva . «Cos'è? Cos'è? Campana a martello!» (cap. VIII);

180
«Cosa? Cosa? che vuoi tu dire?» (cap. XXI);« Cosa v'ha ispi-
rato il timore, l'amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete
pensato?» ( cap.XXV ); «A Lucia, ch'era a sedere, orlando non
so che cosa, cadde il lavoro di mano» (cap. XVIII); «E se
non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro?»
(cap. XXV). Potrei continuare per un pezzo; ma già appare
chiaro che tutt'e tre le forme fanno comodo a chi, sapendo
scrivere, non mette le parole a caso come vien viene.

Di fondo
Questioni di fondo, ragioni di fondo, problema di fondo, richieste,
riforme di fondo ... , basta aprire un attimo radio e televisione
e allungare l'orecchio. La lingua italiana, a conti fatti, si riduce
su certe bocche a poche dozzine di parole, sempre le stesse,
sempre uguali , che solo tratto tratto si rinnovano, a raffiche,
a ventate, secondo la moda del momento. Uno dice una parola
nuova, ricalcandola malamente da una lingua straniera o addi-
rittura inventandola, e un altro la ripete, spesso a vànvera solo
perché gli piace, poi altri ancora; la raccolgono i giornalisti; la
radio e la televisione, manco a dirlo, subito se l'appropriano
con bramoso furore, e la parola va, corre, trionfa, buona per
tutti gli usi , come certi coltelli col cavaturaccioli e il nettaun-
ghie, spazzando via in un momento mucchi di altre belle vec-
chie parole. Passata la moda, la parola tutt'a un tratto tentenna,
languisce e può darsi anche che muoia. Giusto destino; ma in-
tanto la sua parte di guasto l'ha fatta, ha impantanato il linguag-
gio, ha corroso i nostri orecchi...
Ora è la volta della locuzione di fondo, come se « fondamen-
tale», «essenziale», «principale>>, «primario>>, «sostanziale»,
«capitale>>, « piu importante >> ~ « piu necessario», e via via non
esistessero piu. Tutto finito, tutto sepolto, tutto è diventato di
fondo, In un gran sentore di tomba o di cantina. Questo è l'ita-
liano d'oggi. E poi viene uno a dire che il torto è di noi retrogra-
di pedanti, perché mettiamo i bastoni tra le ruote di questo
veicolo linguistico il quale ha da rimanere sempre snello e velo-
ce, sempre allineato coi tempi. E rimane piu statico, plu sta-
gnante di una palude.

181
Ex generale
«E morto Attillo Rossi, ex generale d'Armata nell'ultimo con-
flitto mondiale ... » Se il defunto generale potesse leggere questa
frase molto probabilmente se ne adonterebbe. E pure si sentono
frequentemente . frasi analoghe, come ex professore, ex avvocato,
ex ingegnere e cosi via, tutte, a ragionar sottilmente, da giudica-
re improprie. Infatti la preposizione latina ex, alla lettera «fuori
di », si usa correttamente solo davanti a titoli di natura tempo-
ranea, per indicare .cioè che quel titolo ora non c'è plu, è finito.
Diremo perciò correttamente ex sindaco, ex deputato o ministro,
ex presidente, ex direttore, ex prefetto eccetera, ché si tratta in
ogni caso di cariche a termine, cessate le quali non si è plu
sindaco, deputato, ministro e cosi via. Invece l titoli di generale,
di professore, di avvocato, di ingegnere e tutti i moltissimi altri
acquisiti con regolari corsi di studio o concessi con brevetti uffi-
ciali di carattere l'ermanente non si possono certo annullare
con la cessazione delia funzione effettiva o col passar dell'età.
Il presidente Giovanni Leone alla fine del suo mandato divente-
rà ex presidente della Repubblica Italiana, ma resterà avvocato
senza alcun prefisso anche quando lascerà la toga.
L'uso di questo ex con questo particolare significato risale
al latino classico, che diceva, per esempio, ex consule, per Indi-
care Il console alla fine della sua carica; uso ripreso in Francia
durante la Rivoluzione, quando le cariche pubbliche si succede-
vano con precipitosa frequenza, e di là passato a noi con molti
altri del linguaggio rivoluzionario.

Nel quadro
«Incontri e discussioni a Roma e a Parigi nel quadro dei recenti
accordi !taio-francesi », « Bisogna operare nel quadro delle pro-
prie specifiche competenze», e cosi via: frasi di questo genere
s'Incontrano ormai a ogni piè sospinto, la radio e il telegiornale
e le tavole rotonde ne fanno sc ialo quotidiano. Di dove è
sbucato questo quadro? Dico subito che non si tratta di merce
Italiana ma di importazione francese. Nel quadro di è infatti la
traduzione letterale della locuzione francese dans le cadre de,
neppur tanto antica nella stessa lingua di origine. Sappia;no be-
nissimo che qui la parola quadro è intesa nell'accezione figurata

182
di «limite entro cui si svolge una determinata attività, o si con-
sidera un determinato fatto»; ma per dir questo l'italiano aveva
sempre usata la parola àmbito, aveva sempre usato la locuzione
nell'ambito di, e gli bastava: «Incontri e discussioni nell'àmbito
dei recenti accordi», ecc. o anche «In relazione ai recenti ac-
cordi» o «relativi al recenti accordi»; «Operare nell'àmblto
delle proprie competenze», o anche «nel campo, nei limiti,
nella cerchia, nel settore, nella sfera delle proprie competenze».
Un po' di fantasia, che diamine, signori giornalisti della carta
stampata e della radio. Questa monotona ripetizione di frasi
fritte e rifritte, questo non voler mai uscire dai solito blnarietto
delle locuzioni di comodo, finiranno - o hanno già finito? --
col dissanguare, con l'intislchlre il nostro vocabolario quotidia-
no. Ma poi ci son casi dove lo stesso concetto si può esprimere
in maniera anche pili sbrigativa: «Tra l provvedimenti presi dal
ministro nel quadro della lotta contro il terrorismo ... »: lasciamo
stare il quadro e diciamo «provvedimenti presi per la lotta,
ecc. »; invece di «Trattative fra i vari partiti nel quadro di un'in-
tesa comune in vista delle prossime elezioni», diciamo meno
tortuosamente e affannosamente «trattative per un' intesa co-
mune»: ci capiremo meglio e cl accorderemo di pili.

Nome e cognome
V n giorno (questa è storia autentica) si presentò a Giosuè Car-
ducci, quando era professore a Bologna, uno studente, pregan-
dolo di volergli firmare il libretto di frequenza. «Come si
chiama lei?», gli domandò il Poeta. E quello, timidamente, ri-
spose (poniamo) Rossi Arturo, dicendo prima il cognome e
poi il nome. Bruscamente, quasi sgarbatamente, il Carducci gli
restituf il libretto senza neppure aprirlo, dicendogli: <<Tenga: le
farò la firma quando avrà imparato a dire correttamente il suo
nome!». Cadendo dalle nuvole, lo studente guardò il professore
con aria interrogativa. E il Carducci, pitl brusco che mai: «Per
sua regola, si dice sempre e si scrive sempre il nome prima
del cognome. L'eccezione è ammessa solo in caso di necessità
alfabetiche!». E il libretto non fu firmato .
Posso anche convenire che il Carducci, facendo saltare al
malcapitato una sessione d'esami , abbia un poco esagerato;
sono certo, tuttavia, che nessuno meglio di quello studente avrà

183
in séguito applicato alla perfezione la norma tradizionale della
nostra lingua, che vuole il nome collocato sempre prima del
cognome. lo stesso ho notato, in numerose lettere dei miei
cortesi corrispondenti, una notevole frequenza della giuntura
cognome piti nome, e non da parte di gente Incolta, o sprovve-
duta, come oggi si preferisce dire, ma di gente con tanto di
titolo accademico e professionale. E questa è cosa che stupisce
davvero. Cl sono anche insegnanti che, nel fare l'appello, si
attengono alla formula del loro registro che, essendo per ordine
alfabetico, ha di solito i nomi posposti ai cognomi; e questo
fatto Inculca nei ragazzi un'abitudine che si porteranno dietro
per un pezzo, e magari per tutta la vita.
Qualcuno obietterà (di obiettori ce n'è sempre un mucchio
in queste faccende linguistiche): e che male c'è a mettere prima
il cognome e poi il nome? Risponderò con le parole dell'Ugoli-
nl, il quale, nella sua grammatica, dichiara netto netto che
questa inversione altro non è se non« un indizio di scarsa edu-
cazione culturale». Si vuoi dire cioè che come è errore scrivere
«azzio ne» con due z, è errore scrivere Brambilla Arturo e To-
gnetti Virglnia (sono nomi messi g!U a caso, ben s'Intende).
Ogni lingua ha le sue leggi, i suoi sistemi, le sue tradizioni:
e l'italiano, In fatto di nome e cognome, ha questa tradizione
appunto, che risale almeno al Cinquecento, e non vedo perché
bisognerebbe sovvertirla proprio ora. In certi indici di libri cin-
quecenteschi e secenteschi, dove pure l'ordine alfabetico avreb-
be giustificato l' inversione, le persone sono registrate sempre
sotto il nome di battesimo: Angelo Poliziano sotto la lettera
«a», Niccolò Machiavelli sotto la lettera «n». In libri piti mo-
derni, e anche contemporanei, è rispettato l'ordine alfabetico
del cognome, ma questo si fa ugualmente precedere dal nome
di battesimo: Dante Alighieri, Cristofaro Allori, Bartolomeo
Ammannati, e cosi via.
li nostro codice civile, del resto, dichiara esplicitamente che
« nel nome si comprendono il prenome e il cognome» (dirò
qui di scappata che quel prenome, sebbene di origine latina,
ci è venuto di Francia, dove si ha la sequenza prénom et nom
equivalente all'italiano nome e cognome; ma avendo dato a
nome il significato comprensivo dei due termini, quel prenome
veniva quasi necessario; dire nome di battesimo non sarebbe
stato opportuno nel codice di uno Stato che ammette tutte le
confessioni religiose). Aggiungerò poi che c'è un'altra buona

184
ragione pratica per attenerci alla sequenza «nome piu cogno-
me»: se io leggo Alberto Sruno, e la regola non si rispetta, non
saprò mai qual è il nome e quale il cognome di questo signore;
e se dico Rosina Alessio posso restare a lungo nel dubbio se
si tratti di un uomo o di una donna.
Tutte le lingue europee, del resto, rispettano questo ordine
tradizionale, salvo l'ungherese, che si attiene all'ordine Inverso,
ma fisso: Petofi Sandor ( Petofi Alessandro), Molnar Ferenc
( Molm1r Francesco): ma quella lingua, è risaputo, ha aspetti
e strutture ben diverse da quelle di tutte le altre lingue d'Euro-
pa. L'inversione del nostro ordine storico e tradizionale può
essere giustificato, come avverti il Carducci all'infelice studen-
te, solo in certe elencazioni alfabetiche, come schedari anagrafi-
ci, elenchi telefonici, o anche nel dizionari biografici e nelle
enciclopedie, ove peraltro una virgola che separi il cognome
dal nome sarà li a dimostrare la voluta Inversione.
In ogni altro caso, dunque, atteniamoci alla sequenza storica
e tradizionale che, oltre tutto, non aggiunge un filo di fatica
in chi parla o in chi scrive. Piu che d'ignoranza, si tratta anche
qui di trascuratezza, della scarsa importanza che si usa dare
da noi alle cose della grammatica e dello stile. Ma questo, per
gli Insegnanti soprattutto, mi parrebbe una mancanza assai
grave: le brutte abitudini l ragazzi le apprendono soprattutto
nelle scuole. Perciò agli insegnanti in particolare è diretto l'a-
neddoto carducciano, al quale, di rincalzo, ne aggiungerò un
altro che ha per protagonista Alessandro Manzoni. A uno che
gli domandava se fosse proprio suo un sonetto che recava la
sua firma, rispose, dopo aver osservato la copia a stampa della
lirica: «Quand'anche non l'avessi vista, sarebbe per me nota
sufficiente di falsità il sapere che il cognome cl si trova antepo-
sto al nome di battesimo, cosa non mai usata da me nel sotto-
scrivermi ».

La mia signora
«Signora, per moglie», avvertiva il Panzinl, «è spagnolismo
usato dalla nostra borghesia. Salutami la tua signora. L'uso di
tale parola, specie fra persone amiche e di umile stato, mi ha
sapore d'affettazione e di Ironia involontaria. Nelle campagne
il popolo dice il mio uomo, la mia donna». Benissimo. Però io

185
distinguerei; perché qui l casi sono due: c'è il caso della sua
signora, e il caso della mia signora, e non mi par giusto metterli
sulla stessa bilancia. Signora è antica voce di rispetto per Indica-
re la donna maritata, e quando una terza persona parli della
moglie al marito, e non sia in confidenza o voglia usare un
linguaggio cortese, non vedo perché non possa legittimamente
servirsene. Il Tommaseo, del resto, lo ammette espressamente:
«Parlando della moglie al marito, con cui non s'abbia o non
si Voglia aver confidenza, dicesi: La signora; Come sta la signo-
ra?». Piuttosto, nel discorso diretto è opportuno tacere quel
possessivo suo, che tornerà invece necessario nel discorso indi~
retto: «Ho visto Renzo con la sua signora».
Altro ragionamento mi sembra debba farsi per frasi come
«Le presento la mia signora»: cioè quando è il marito stesso
che parla della propria moglie. Qui la maggiore o minor confi -
denza non c'entra affatto, e neppure la deferenza, il rispetto.
Per una donna maritata non può esserci termine piu confiden-
ziale e deferente, e diciamo pure affettuoso, che quello di mo-
glie: «Le presento mia moglie», «Unisco al miei i saluti di mia
moglie». C'è donna che preferirebbe sentirsi chiamare, spagno-
lescamente, la mia signora?

Tante cose .••


Se noi, scrivendo o parlando, ci soffermasslmo un attimo a con-
siderare con un minimo di attenzione questa o quella locuzione
di cui è inzeppato tutto il nostro patrimonio linguistico, special-
mente quello d'uso corrente, quante volte ci accorgeremmo,
con un certo stupore, che alcune di esse prese alla lettera sono
proprio campate in aria, e se hanno un significato logico è
perché glie l'abbiamo dato noi mentalmente, per sottinteso.
Una di queste locuzioni, che ricorre specialmente nelle lettere
ma frequentemente anche nei quotidiani saluti che cl scambia-
mo direttamente o per telefono, è appunto «tante cose a lei
e alla signora», «tante cose a suo marito», «molte cordialità
a lei e tantissime cose al suoi figlioli», e cosi via.
Tante cose .. . che cosa? Noi tutti, si capisce, sappiamo ormai
benissimo di quali cose si tratta: rispettosi ossequi, cortesissime
riverenze; ma solo perché abbiamo ormai tutti convenuto di
dare alla frase questa particolare interpretazione. La frase, presa

186
a sé, può far pensare Invece a tutto quel che si vuole, meno,
direi, che alle riverenze e agli ossequi. A orecchi italiani, conve-
niamone, essa suona per lo meno stravagante. E questo perché
noi l'abbiamo presa pari pari dai Francesi che hanno orecchio
diverso dal nostro: bien des choses à Madame, à vous, à votrt
màe. Gl'infranciosati dell'Ottocento la portarono nei salotti e
qualcuno ha poi creduto bene di tradurla alla lettera come è
accaduto di tante altre frasi ridicole e grottesche. Io, per mio
conto, frasi come questa di cui vo parlando non le uso mai,
e non me ne sento affatto impacciato. Dico «tanti saluti a lei
e alla signora», «un abbraccio a te e tante cordialità, tanti osse-
qui, rispetti, complimenti alla signora». Che se proprio mi ve-
nisse il gusto di quel «tante cose», sentirei subito il bisogno
di aggiungere una specificazione, e direi, che so, «tante cose
amabili, cortesi, affettuose, rispettose alla signora».
v
Mostri, babau e caramogi
Acclarare
Piace al burocrati e basterebbe questo a condannarlo. Ha oltre
tutto un suono pacchiano, e Italiano certo non è. È preso pari
pari dallo spagnolo aclarar, render chiaro, che risale al latino
clarus, chiaro. Non c'è motivo al mondo che ne consigli l'uso,
avendo già l' italiano i verbi chiarire, oltre che appurare, accerta-
re, e la locuzione mettere in chiaro.« Bisogna acclarare 1 termini
della questione»: chiariamoli, e faremo meglio.

Il cachi
La parola cachi con cui si indica la nota pianta che dà un frutto
dolciastro e dalla buccia di color giallo rossiccio, e il frutto stes-
so, è Invariabile, rimane immutata cioè tanto nel singolare
quanto nel plurale. Bisogna dunque dire «il cachi ha messo
l frutti», «mangiare un cachi», «il cachi è maturo», «un ce-
stello di cachi appena colti» e non, come da tutti si dice,« man-
giare un caco », «Il ca co è maturo».
Il nome è di origine giapponese - come la stessa pianta del
resto - e si scrive anche esoticamente kaki; ma questa grafia
non è affatto necessaria da noi, come non è affatto necessario
scrivere po/ka e mazurka invece di polca e mazurca . SI tratta
di parole straniere ormai radicate nel nostro linguaggio, e chi
scrivesse kaki peccherebbe d'affettazione come certe ragazzine
che scrivono 1 loro nomi Sophia, Yole e via dicendo. Il nome
scientifico è diospiro, il Diospyros kaki di Linneo, e significa gre-
camente «frumento di Giove»: composto di Dios, di Giove. e
pyros, frumento.
Tutt'altra origine ha poi l'aggettivo cachi, pur esso invariabile.

191
per Indicare un colore tra il bruno e il giallastro simile a quelld
della terra riarsa. Nessuna relazione col colore del frutto ora
detto. L'origine è inglese, khaki, e questo dall'indostano kdki,
che vuoi dire «polveroso, color polvere», a sua volta derivato
dal persiano khdk, polvere. Fu in origine il colore delle uniformi
militari inglesi in India, colore scelto per la sua facile mime-
tlzzazione col terreno arido di quelle contrade. SI dirà «stoffa
cachi » (anche questa è la grafia da seguire), «abito cachi»,
«uniformi cachi». E se ne fa anche un sostantivo maschile in-
variabile: «tela di un bel cachi intenso».

Capottare
Qui dovremmo esser tutti d'accordo: un verbo come capotare,
e anche capottare e perfino cappottare, non può trovare tra noi
giustificazione alcuna né per significato né per suono. È un
brutto barbarismo e basta. Preso pari pari dal francese capoter,
cioè jaire capote, è termine di origine marinara per indicare il
capovolgersi, il rovesciarsi di una nave. Insomma andar capo-
sotto, ribaltare, capovoltarsi, capovolgersi. Dalle navi il termine
passò alle automobili e poi anche agli aerei; e ci si è cosi radica-
to che ingenuo sarebbe pensare di abolirlo. I tecnici si affezio-
nano molto a certe parole, e può essere che mi vengano a dire
che altro è capotare e altro è ribaltare, anche se poi l'una cosa
e l'altra portano difilato all'ospedale.
Diffuso e radicato è anche il derivato capotala, con le solite
varianti capottata e cappottala (che parrebbe piuttosto un colpo
dato col cappotto); in italiano ribaftamento, ribaltata, ribaftone,
capovolta . Ma lasciando liberi i tecnici di fare a loro gusto, male
non farebbero davvero certi giornalisti a dire invece di «Passa
col rosso, tampona un'auto e capota>> piu italianamente «Passa
col rosso, investe un'auto e si capovolge».

Cobelligerante, coproprietario . ..
Tutto cominciò col cobelligerante, apparso durante gli ultimi
anni della seconda guerra mondiale. Cobelligerante si portò poi
dietro la cobelligeranza, 'che sarebbe la belligeranza fatta insieme
con altri. Chi per primo coniò questi due termini modellandoli

!92
sull'inglese cobel/igerent, dimostrò chiaramente di conoscere
forse l'inglese ma di non conoscere affatto l'italiano, che
avendo leggi sue proprie dice combe/ligerante e combelligeranza.
Era prevedibile che la cosa non si fermasse qui; e infatti,
sempre su l modello inglese, ecco apparire la non meno famosa
coproduzione, sempre vivissima nel linguaggio cinematografico
e televisivo, cui presto si affiancò, al tempo della fusione di
due partiti politici affini, il cosegretario, cioè un segretario af-
fiancato a un altro segretario. A questi preziosi campioni di lin-
gua, altri numerosi seguirono, e continuano a seguire, sempre
scrupolosamente foggiati alla maniera inglese: perché le cose
cattive, come è risaputo, figliano prodigiosamente; finché appar-
vero il copresidente, il coproduttore, il corevisore con la relativa
corevisione, il codirigente con la codirigenza, il cogerente con la
cogerenza, il copilota, che sarebbe il secondo pilota di un aereo,
fino a un impressionante coregista, che è, mi affretto a chiarire,
l'aiutante del regista. Preso questo avvio, era fatale che anche
le vecchie parole composte di questo tipo dovessero piegarsi
alla nuova moda, ed ecco apparire il coproprietario, il coprotetto-
re e il copatrono («il santo copatrono ») e chi sa quanti altri,
che avevan dalla nascita sentito chiamarsi comproprietario, com-
protettore e compatrono . Ormai si tratta, com'è chiaro, di una
pericolosa epidemia che tende sempre a diventar piu maligna.
Intervenire, anche se con poca speranza di vfttoria, mi sembra
necessario; ed eccomi perciò a predicare, il p!U chiaramente
possibile, la semplice regoletta, tanto semplice che è alla portata
della cosiddetta scuola dell'obbligo (a proposito: ma perché non
chiamarla, come si diceva una volta, obbligatoria? che si tratti
di un aggettivo contrastante con qualche disposizione costitu-
zionale?). La regola dunque dice: a) il prefisso con resta inva-
riato davanti a tùtte le parole che cominciano con · consonante;
abbiamo perciò concittadino, condiscepolo, confratello, congenero,
consanguineo, consocio, contitolare, convittore; b) il prefisso con
si trasforma in com per ragioni eufoniche davanti alle
consonanti b e p: combaciare (con-baciare), comburente
( con-burente ), combattere (con-battere), compatriota ( con-pa-
triota), comprimario (con-primario), e quindi anche comprodu-
zione (con-produzione); c) il prefisso con, infine, si assimila
davanti alle consonanti l, m ed r: collaterale (con-laterale), col-
legare (con- legare), commutare (con-mutare), commisurare
(con--misurare), corréo (con-reo), corresponsabile ( con-respon-

193
sabile ). In un solo caso il prefisso con Si trasforma in co:
quando la parola che segue comincia con vocale: coabitare, coe-
dizione, cointeressare, coordinare, coutente. Come si vede, una
regola semplicissima, che essendo regola bisogna rispettare
anche quando si tratti di parole nuove modellate magari su
parole straniere.
Naturalmente nelle infinite combinazioni che possiamo
creare con questo benedetto prefisso (e oggi francamente se
ne abusa), è possibile che nascano delle parole omògrafe, cioè
uguali di forma ma di diverso significato; ma anche in questi
casi non mi par giusto che per evitare un male se ne crei un
altro. B il caso, per esempio, del rettore associato a un secondo
rettore, il quale per la regola del con- assimilato diventerebbe
correttore, che vale però anche «colui che corregge»; e quello
della gestione fatta insieme da due gestori che diventerebbe
congestione, vocabolo piu pertinente al linguaggio medico. Po-
tranno esserci altri casi di questo genere; ma mi hanno sempre
insegnato che a tutto c'è rimedio fuorchè alla morte; perciò
nulla impedisce che al posto dell'errato «coretto re» da alcuni
usato si possa benissimo dire secondo rettore, e al posto della
«cogestione» si dica gestione a due o gestione comune, come
si preferisce.
E consentitemi un breve codicillo a proposito della coprodu-
zione, del coproduttore e di eventuali composti con quel sospetto
copro Iniziale: voglio dire che questi composti ci richiamano
maledettamente all'orecchio certi altri vocaboli composti come
coprojagìa, coprolallà, coprolito ecc. dove quel copro-, qui vero
e proprio prefisso, derivato del greco kdpros, vale «sterco»,
come ben sa chi ha studiato questa lingua antica.

Comminare
Dando notizia di una sentenza di condanna pronunciata da
questa o quella magistratura, molto spesso stampa radio e tele-
visione dicono che il tal giudice «ha comminato a Tizio e a
Caio tanti anni di prigione». Quanti sanno che questa comunis-
sima frase racchiude un errore grossolano?
Questo verbo comminare ci è venuto dal latino comminari che
vuoi dire alla lettera «minacciare insieme» composto com'è di
un prefisso cum, con, indicante generalità di effetto, di azione,

194
e minari, minacciare. Perciò '<comminare una pena)) significa
minacciarla collettivamente, prescriverla genericamente per
tutti coloro che si rendessero colpevoli di quel determinato
reato. Chi può comminare una pena, cioè minacciarla, stabil irla,
non può essere perciò che la legge, e per essa il codice: «per
il delitto di rapina il codice penale italiano commina la reclusio-
ne da 3 a 10 anni...». Il giudice dunque non commina, non
minaccia la pena ma la applica in base a quanto stabilisce il
codice, la dà, la infligge, l'assegna, o anche, con un latinismo
proprio del linguaggio curialesco, la irroga.

Contattare
Ho appena finito di leggere di un tale, evidentemente abituato
a vivere di intrallazzi, che« in questi giorni ha iniziato un'inten-
sa attività, partecipando a riunioni, rendendo visite, contattando
persone e organismi che possono essere utili, ecc. >>. Chiudo
il giornale e penso: contattare, da contatto, un normale denomi-
nale come in italiano ce ne son tanti (amoreggiare da amori'!,
ancorare da àncora, cucinare da cucina, eccetera), e pure non
lo sento italiano, mi stona maledettamente. E infatti l'hanno
preso pari pari dall'inglese to contact, che fu presto imitato dal
francese contacter. Pensino i miei lettori che i linguisti di una
volta arricciavano il naso quando sentivano parlare di «contatti
col pubblico» o di «mettersi In contatto con uno». Quella
parola contatto, che era bene usata nel significato proprio di
stretto accostamento di due corpi («non mi piace stare a
contatto con una persona sudicia»), era invece usata male nel
signilìcato traslato di relazione, rapporto, un traslato di deriva-
zione francese. I benparlanti, insomma, non dovrebbero dire
1< mettersi in contatto col signor ministro» ma <<mettersi in rela
zione, in rapporto col signor ministro». Tuttavia per i nostri
tempi ultraveloci queste espressioni avevano il difetto, non piu
puristico ma pratico, di essere troppo lunghe; ed ecco nascere,
sul modello inglese e francese il verbo contattare, per di piu
transitivo; per cui io non «contatto con una persona», ma
«contatto una persona»; si che una frase innocentissima come,
per esempio, «Nell'assenza del direttore sono riuscito a contat -
tare la sua segretaria» potrebbe sonare a un orecchio distratto
per lo meno maliziosa.

195
Vorrei poi fare una postilla: che questo contattare sia necessa-
rio, che possa tornare utile sia pure in una frettolosa lettera
d'ufficio, lo escludo assolutamente; quanti contatti sono stati
presi prima che nascesse il verbo contattare! E l'orecchio che
si va sempre piu guastando, è !l gusto che di giorno in giorno
sempre piu si altera; quell'orecchio e quel gusto, almeno dei
piu giovani, che trovano armonioso fin l'urlo delle motociclette.

Deragliare
Elenco questo verbo, e il figliol suo deragliamento, non certo
con l'ingenua speranza d! poterlo cancellare da quel generoso
lessico italiano dove almeno da un secolo ha trovato casa e
diritto di cittadinanza, ma solo per illustrarne in poche righe
la storia, e mostrare quanto sia stato sciocco e inutile dargli
il passaporto. Perché, lo sappiamo tutti, italiano non è, né po-
rrebbe esserlo per via di quel ragliare che da noi ha significati
assolutamente estrane! alle cose ferroviarie. È il calco senza
troppi scrupoli linguistici del dérai!ler francese, costruito col de-
separat!vo e col rail inglese che vuoi dire «rotaia», parola
questa di ritorno perché gli stessi Inglesi l'avevano presa a loro
volta dall'antico francese rei/le, discendente dal latino régufa,
che significa « règolo », «sbarra»; quindi «uscir dalle sbarre»,
che sono poi le rotaie su cui il treno corre. Posso assicurare
che questa volta i tecnici hanno fatto da tempo !l dover loro
sostituendo il francesismo col verbo sviare, né hanno dimenti-
cato di mettere al posto del deragliamento il sostantivo svio.
Cosa lodevolissima ma che è rimasta solo sulla carta dei regola-
menti ufficiali, ché una sola volta ho· udito un capostazione
parlare di sviare e di svio, e mai una volta li ho trovati su lle
pagine dei giornali. Fortuna sfacciata di certe parole, special-
mente quando son brutte (ma si dice anche delle donne brutte
che trovano i migliori mariti). Forse ha ragione il Pestelli
quando dice che in questa « vociaccia » è «una idea grandiosa
di disastro» per via di quel suono aspro di ferraglia come l'ha
appunto il raglio dei somari. «Se la fortuna dei barbarismi si
potesse spiegare,» aggiunge il Pestelli «questa potrebbe essere
una spiegazione>>.

196
Dichiara, convalida . ..
Non sono forme verbali, da dichiarare e convalidare, sono so-
stantivi femminili, forme abbreviate di dichiarazione e convali-
dazione : «la dichiara dei redditi», «occorre la convalida della
direzione ». Di queste parole mozze possiamo formare in verità
una tanto ricca quanto mostruosa famiglia: abbiamo, oltre la
dichiara, e la convalida anche la delibera, la giustifica, la certifi-
ca, (a notifica, la continua (si, lessi un giorno su un cartellone
pubblicitario che «questo film è la continua della serie di Ange-
lica»), e alcune altre che non ho la voglia di andare a cercare,
le quali sono ancora allo stato selvatico e quindi, a Dio piacen-
do, ancora relegate nel famigerato linguaggio burocratico. Poi
ce ne sono altre che, dàgli e dàgli, sono riuscite a sgattaiolar
fuori da codesto chiuso, coine per esempio delega, bonifica e
ver(jìca, e, ripulite dal lungo uso, non sorprendono ormai piu
nessuno. Oggi anche uno scrittore forbito non indugerebbe a
dire « dèlega dei poteri» e «bonifica pontina »;a dire delegazione
e bonificazione si passerebbe certo per pedanti. Infine, ci sono
parole che hanno assegnato ai loro mozziconi un significato
tanto specifico che non sarebbe piu possibile espellerli dal
lessico: per esempio classificazione e classifica, moltiplicazione e
moltiplica: abbiamo infatti la classificazione delle piante ma la
classifica del campionato di calcio; abbiamo la moltiplicazione
aritmetica e la moltiplica della bicicletta.
In un delizioso libro di Dino Provenza! sulle curiosità e i
capricci della lingua italiana, trovo alcune preziose righe dedica-
te appunto a queste parole che l'Arlìa chiamava, col veleno
alla bocca, «cani senza coda». Sentite qua: «Le persone di
buon gusto arricciano il naso davanti alla parola dichiara,
dicono con qualche antipatia giustifica, ma accettano verifica.
Perché? Soltanto perché quest'ultima è stata scorciata da piu
tempo, e questo è il male: gli ignoranti, gli spropositoni, i sevi-
ziatori della lingua finiscono col prevalere; in ogni guerra, anche
in quella degli strafalcioni, vince chi insiste, chi si ride dei pu-
dori, dei riguardi, delle delicatezze ». Sante parole.

197
Dimissionare
Qui non è tanto il caso di parlare di corretto o di scorretto
quanto ancora e sempre di inutilità. Dimissionare non è verbo
mal formato: è uno dei mille verbi della nostra lingua formati,
come ho appena detto, su un nome, nel nostro caso sul nome
dimissione. Ma non basta una formazione regolare a rendere ac-
cettabile una parola nuova. Chi foggiò la prima volta il verbo
dimissionare dimenticò evidentemente che già esisteva da secoli
il verbo dimettere (dal latino dimìttere ), che diceva la stessissi-
ma cosa: «Dimettere uno dall'ufficio», ((Lo hanno dimesso
dopo vent'anni di impiego», e nel riflessivo «Ha preferito di-
mettersi».
E a proposito di riflessivo, mi viene ora in mente d'aver letto
alcuni mesi fa su un giornale questa frase che ho diligentemen-
te ritagliato e che gelosamente conservo: «Il primo ministro
Tal dei Tali, battuto abbondantemente in parlamento, avrebbe
dovuto dimissionare subito ... ». La qual cosa sta a dimostrare
che questo bel mostriciattolo, non contento d'esser nato transi-
tivo, aspira ormai anche alla categoria degli intransitivi, ché tale
è appunto l'uso che ne ha fatto il disinvolto giornalista.

Direzionare
Scorrendo il codice della strada mi sono imbattuto nella frase
« direzionare le correnti del traffico». Capisco che pretendere
della buona lingua in un codice stradale è per lo meno ingenuo;
ma bisogna anche ammettere che questo direzionare in sosti-
tuzione di dirigere è una tra le piu eccelse invenzioni che sia
scaturita dal cervello dei nostri burocrati immaginosi. Ai quali
suggerisco, in caso sempre possibile di ravvedimento, altri due
verbi utili ai loro problemi di traffico: avviare, e guidare . Cerchi-
no di farne tesoro .

Disdettare, stortare
Possiamo ripetere quel che si è detto per dimissionare: anche
questi due verbi denominali, da disdetra e da storto, come for-
mazione non possono certo dirsi scorretti, hanno tutte le loro

198
carte in regola; sennonché sono anch'essi verbi inutili perché
doppioni alterati di altri antichi verbi che dicono la stessa cosa,
e per di piii di origine schiettamente dialettale; basta questo
a condannarli.
Disdettare: l'italiano ha già da secoli il verbo disdire con lo
stesso identico significato: «disdire un contratto», «disdire un
appartamento». Perciò è giustamente ignorato da tutti 1 dizio- ·
nari, e non c'è scrittore serio che se ne valga. Esso appare
invece frequenti ssimo nelle lettere commerciali di certe regioni
del Nord, e l'ho Ietto in qualche comparsa giudiziaria, oltre che
udito comunemente da quei Lombardi che parlano sotto l'in-
flusso del dialetto .
La stessa cosa diremo del ridicolo stortare, comunissimo
anche questo in Lombardia anche fuor del dialetto e già da
me piu volte incontrato in qualche cronaca di giornale. Ma l'ita-
liano ha già storcere, vecchio di almeno seicento anni, e del
nuovo giunto non ha alcun bi sogno.

Evidenziare
«Con un rinvio analitico e minuto ... è possibile evidenziare
la strettissima relazione funzionale ... »: questo scampolo di
prosa enucleo da una rivista di economia che si pubblica presso
un alto istituto scientifico milanese. Ma evidenziare si incontra
ormai sempre piu spesso tra i soliti vociferanti politici, e perfino
in qualche produzione letteraria dell'ultima ora.
Costruito su evidenzia, forma arcaica di evidenza, ha anch'es-
so quel marchio comune a moltissimi denominali che è la loro
assoluta inutilità. Ha solo per la nostra società goffamente fret-
tolosa il merito di dire in una parola ciò che prima si diceva
in due o tre, come se anche per chi parla il merito maggiore
sia quello di. .. arrivare primo. Mettere in evidenza, dar risalto,
render chiaro, rendere evidente e simili, sono, per certi frettolosi,
espressioni lente e stantie. Tanto vero che non si sono fermati
al verbo, ma hanno sentito la necessità di estrarne anche un
aggettivo e un sostantivo: evidenziabile ed evidenziazione.

199
Illazione
Vedo sempre piu affermarsi una nuova stortura linguistica: la
parola illazione, ormai sulla bocca di tutti, sta cambiando si-
gnificato, sta diventando sinonimo di supposizione, congettura,
ipotesi. È la solita moda dei paroloni che crea queste storture,
paroloni che allettano proprio i meno preparati a usarli; e cosi
avviene quello che da un pezzo sta avvenendo, non solo per
la povera illazione: parole che si traviano, si distorcono, cambia-
no significato senza una ragione al mondo, e poi magari arriva
il dizionario accogliente che registra e santifica anche l'acce-
zione sballata. l//azione, parola dotta, dal tardo latino i/làtio,
illatidnis, altro non significa che «conclusione derivata come
conseguenza logica da una premessa», cioè in parole spicce un
giudizio dedotto, una deduzione: «trarre da qualche cosa un'il-
lazione». Si capisce benissimo come da deduzione si sia finiti
al significato di ipotesi o supposizione; ma l'errore è cosi grosso-
lano che va immediatamente segnalato, speriamo (ma non cl
credo troppo) con qualche buon successo. Per fortuna, ch'io
sappia, non si è ancora resuscitato il verbo il/azionare Invece
di dedurre, che fece andare in bestia il Fanfani e l' Arlla poco
meno di un secolo fa . Oggi lo userebbero, figurarsi, nel signifi-
cato di congetturare, supporre .

Incentivare
Che dire di questo nuovo giunto tanto caro al linguaggio politi-
co-sindacal-tribunizio? «Incentivare la produzione, l'edilizia
pubblica ... » Facciamone brevemente la storia.
I Latini avevano un verbo, incinere, formato da in e canere,
cantare, che significava «far risonare», «regolare il canto, Il
suono», «intonare». Da indnere fecero l'aggettivo incentivus,
che significava «atto a regolare il canto», e lo riferirono agli
strumenti a fiato sul suono dei qual! il canto si intonava. E
non solo si intonava, ma prendeva naturalmente regola, incita-
mento, avvìo. Da questo concetto sorse nella tarda latinità il
vocabolo neutro incentivum, cioè la cosa che Incita, spinge,
avvìa, e di qui il nostro incentivo che vale, come ognun sa,
stimolo, sprone, incitamento, impulso. Quanto al verbo incenti-
vare non posso dirne che male, non perché sia malformato,

200
ma perché è assòlutamente inutile, perché è un superfluo
doppione di fa vorire, incoraggiare, spingere , incitare, stimolare,
promuovere, eccetera. Verbo per di plu fecondo: ha partorito
l'incentivazione.

Inchiestare
B senza dubbio uno dei piu brutti mostri del nos tro museo,
« orrendo termine giornalistico» secondo la definizione del Mi-
gliorini. Lo hanno fabbricato sul modello francese enquéter, e
ci so n quelli che lo usano senza arrossire: «Inchiesteremo
minutamente su questo nuovo scandalo»: so n parole di un mi-
nistro recentemente lette su un quotidiano; sarà colpa del mini-
stro o del cronista che ha riferito le sue parole? I verbi indagare
e investigare, in ogni modo non sono venuti in mente né al
ministro né al cronista. Ma non si fermano alla forma Intransiti-
va, lo fanno anche transitivo : « inchiestare un ministro», « In-
chiestare il testimonio», cioè sottoporre a Inchiesta oppure a
Intervista, interrogare minutamente. Un tempo esisteva il bel
verbo inchiedere, che significava press'a poco la stessa cosa:
«Di nostro paese e della vita C'inchiese »: è Sordello, nel canto
VI del Purgatorio. Si seppellisce il buono e si crea il cattivo.

Lisare
« Questo detersivo non lisa la biancheria.» A quanto mi risulta,
finora nessun dizionario ha aperto le sue colonne a questo
verbo che ci è giunto dal Nord assieme ai detersivi e alle lava-
trici. E questo è certamente un bene; ma l'uso dilaga sempre
piu, per opera soprattutto della pubblicità, e non sarà facile ap-
porvi una seria diga . Già il verbo lisare, con tutta la sua brava
coniugazione, appare sui giornali, anche fuori delle pagine pub-
blicitarie. È stato italianizzato dal lombardo lisà, che ha anche
una forma intensiva slisà, consumare, logorare, deri vato dall'ag-
gettivo lis, corrispondente all'italiano liso, in uso fin dal Seicento
e ben rappresentato in testi letterari: «Io sto ben della mia (te-
la) che ... non mi sembra lisa E non si strappa per ogni tirata»
( Forteguerri ); « Non son cicala Ch'ha un sol vestito, e quando
è liso, muore » (Pascoli). Questo liso deri va per afèresi da eliso,

201
participio passato di elidere, sul modello del latino elisus, da
elidere, rompere. Finché si resta nel dialetto, lisà, slisà vanno
benissimo, e sono anche espressivi; ma fuor dei dialetti, non
potendo ricorrere all'originario elidere, che in Italiano ha suoi
significati propri non riferibili alla biancheria, ricorreremo ad
altri verbi che la buona lingua ci offre: logorare, consumare, ro-
dere, corrodere, limare, ragnare .. . Giusto, ragnare; ch'è però, si
badi, verbo intransitivo: «Con questo detersivo la biancheria
non ragna »; verbo che ci consolerà e cl farà sorridere per l
famosi versi dell'Alfieri appena calato di Piemonte in Toscana:
«Che dia voi fate voi, madonna Nera? Darmi persln co' buchi
le calzette?» «Co' buchi, eh? Dio 'l sa s'i l'ho rassette; Ma
elle ragnano si ch'è una dispera.»« Ragnar, cos'è, monna voca-
boliera? » «Oh! la roba che l'uom mette e rimette, Che vie n
via per tropp'uso a fette a fette, Non ragna ella mattina e giorno
e sera?» « Ragnar? non l' ho p ili udito e non l'intendo.» « Pur
gli è chiaro; la rompa un ragnatela, Poi vedrem se con l'ago
i' lo rammendo. »

Posizionare
N ella prima colonna della pagina 4 di un prezioso libretto sul
«Codice di àvviamento postale» pubblicato alcuni anni fa dal-
l'Amministrazione delle Poste e Telecomunicazioni , Direzione
Generale P.T., si avverte che «i francobolli e le impronte delle
macchine affrancatrici debbono essere posizionati sulla parte
anteriore della busta, In alto, a destra». Gli Italiani sono
dunque avvertiti: «posizionino» francobolli e Impronte secondo
la prescrizione ministeriale, e si affrettino anche a cancellare
dal vocabolario i vecchi verbi porre, disporre e collocare. Come
è poi di moltissimi verbi della nostra lingua, anche questo
nuovo arrivato ha amato farsi il suo bravo figlio; così è nato
il posiziona mento ( « Esempio di corretto posizionamento dell'in-
dirizzo>>: titolo in caratteri maiuscoli alla stessa pagina, colonna
a destra, dello stesso ministeriale libretto), rendendo anche
qui superflui gli antichi sostantivi posizione, disposizione, col-
locazione.

202
Propagandare
Avverto subito i signori commercialisti, gli agenti pubblicitari
e tutti quelli che in un modo o nell'altro svolgono un'attività
commerciale, di continuare a usare tranquillamente questo
verbo propagandare: per l'uso e il mal uso di certe parole grazie
a Dio non c'è galera. Però è anche giusto ch'io li avverta che
propagandare è un brutto verbo, tollerabile solo in una lettera
commerciale, in un pieghevole pubblicitario, ma non altrove.
E dirò subito la ragione di questa bruttezza.
Propagandare deriva da propaganda, sostantivo femminile che
altro non è se non una forma verbale latina italianizzata. Da
almeno quattro secoli risiede a Roma una sacra congregazione
il cui nome latino è, per disteso, Sacra Congregatio de propagan -
da fide, alla lettera «Sacra Congregazione per la fede da propa-
garsi», e In forma pll1 Italiana, «per la propagazione della fede».
Essa ha appunto lo scopo di propagare, diffondere la fede catto-
lica nel mondo: invìa missionari nei paesi infedeli, èduca gli
ecclesiastici destinati a queste missioni, redige pubblicazioni
sacre In tutte le lingue conosciute, ecc. Dunque, la parola pro-
paganda, che fa parte del nome di questa congregazione, è, in
origine, la forma gerundiva del verbo latino propagare. Come
spessissimo accade nelle denominazioni troppo lunghe, anche
il titolo di questo sacro istituto si venne, nell'uso di tutti l gior-
ni, via via accorciando, finché diventò solo Propaganda, con
l'iniziale maiuscola, trattandosi di un nome proprio.
A questo punto che è avvenuto? È avvenuto che il vocabolo
sostantivato come nome proprio pàssò dal sacro soglio allo
scanno assai meno sacro del commercio, dell'industria, ecc.,
divenendo ·nome comune. Cosf, si cominciò a dire «far la pro-
paganda al tale prodotto», col significato di diffonderne la co-
noscenza, la stima tra i consumatori. Fin qui niente di male:
il salto dal sacro al profano era stato un po' brusco, ma si sa
che la lingua non può sempre guardar queste cose. Il guaio
cominciò dopo, per iniziativa dei soliti frettolosi del linguaggio,
i quali, giudicando troppo lenta la locuzione «far propaganda»,
inventarono Il verbo propagandare, senza pensare che propagan-
da era già forma di un verbo preesistente, e non c'era nessun
bisogno di tlrarne fuori un altro. Se invece di dire «propaganda-
re una merce» si fosse detto, com'era naturale,« propagare una
merce», non si sarebbe detto meglio e piu brevemente la stessa

203
cosa? Ecco perché questo verbo è brutto. Senza contare che
l'italiano ha anche altri verbi che possono sempre opportuna-
mente sostituirlo: diffondere, divulgare, propalare, secondo l
casi; e anche, occorrendo, lanciare, stamburare, strombazzare e
via e via.
E ora, per lasciare i miei lettori di buon umore, voglio ripetere
qui la storiella, nota certo a molti ma senza dubbio a moltissimi
Ignota, che l'insigne grammatico Raffaello Fornaciari soleva
raccontare ai suoi allievi per tenerli in guardia dal verbo propa-
gandare. Diceva il Fornaciari: «Dal verbo propagare nacque una
figlia , propaganda, cioè una signorina che doveva essere propa-
gata. Ma dopo un po' la fanciulla si dette a vita sregolata e
cominciò a propagare da sé: e nacque un mostro, propagandare,
che faceva concorrenza sleale al nonno che si chiamava propa-
gare. Da lui nascerà un'altra figlia, che si chiamerà propaganda-
zione, che farà un figlio che avrà nome propagandazionare, che
avrà una figlia nominata propagandazionazìone, e un figlio di
nome propagandazionazionare ... ».

Ratizzare
Non sono un contabile, non sono un bancario, non capisco
nulla di ragioneria, e tratterò la questione dal punto di vista
strettamente linguistico. A me sembra che una volta creato dal
sostantivo rata Il verbo rateare, dividere a rate, si poteva fare
benissimo a meno di rateizzare e di ratizzare; avendo già ratea-
zione, mi sembrano superflui l termini rateizzazione, ratizzazione
e perfino rateizzo e ratizzo. Non parliamo poi del ràteo, che po-
trebbe essere, a mio avviso, un doppione tanto della rateazione
quanto della rata . Ripeto: sono in queste cose ignorantissimo;
ma ho il vivo sospetto che molta di questa cianfrusaglia potreb-
be essere utilmente abolita.

Reticenza
Da un Importante personaggio televisivo ho ascoltato sere fa
questo giudizio circa un altro importante personaggio di diversa
ideologia politica: <<questa sua mancanza di risolutezza, questa
sua naturale reticenza di fronte a un'azione pronta e voliti-

204
va .. . ». Reticenza? Sono rimasto francamente sorpreso. Poi ho
pensato che parlando davanti a un microfono, improvvisando
questo o quel concetto, certi errori sono sempre possibili e biso-
gna trattarli con tolleranza. Ma ecco che un amico mi fa sapere
che si tratta di un errore tutt'altro che raro, e che questa reti-
cenza scambiata per renitenza o riluttanza si incontra piu spesso
che non si creda, perfino nei giornali. Molti dicono anche reti-
cente a fare, a ubbidire, a decidere, confondendo anche qui reti-
cente con renitente, riluttante, restio.
Reticente, da cui reticenza, si riferisce solamente al parlare
non all'agire. Reticente è colui che non dice quello che sa o
che dovrebbe o potrebbe dire. È il latino rèticens, reticèntis, par-
ticipio presente del verbo retice'fe, forma rafforzativa di tacere.
Si tratta dunque di un errore grave, e pare che si vada diffon-
dendo rapidamente con quella misteriosa fortuna che è tanto
piu sfacciata quanto piu lo strafalcione è marchiano.

Riciclaggio
È appena nato ma è già di una vitalità impressionante. Regala-
toci dal francese recyclage, nel linguaggio della tecnica indica,
come tutti piu o meno sappiamo, quell'operazione per la quale
si rimette in un nuovo ciclo di lavorazione una materia già la-
vorata per meglio trasformarla o piu utilmente sfruttarla (spiego
cosi all'ingrosso, si capisce, e non datemi dell'ignorante se la
definizione non fosse proprio azzeccata). In francese ha anche
altri significati, come li ha anche il verbo recycler, da cui abbia-
mo tratto senza troppa fatica il nostro ricic/are. Il Larousse no-
vissima edizione avverte poi che « on dit aussi recirculation »,
che sarebbe l'itaiiano ricircolazione.
Dall'industria il sostantivo e il verbo sono passati alla crona-
ca, soprattutto a quella dei sequestri di persona, e le espressioni
« il riciclaggio del denaro sporco in pulito», « ric iclare il riscatto
incassato» e simili sono, come sappiamo, sulle pagine di tut! .
i quotidiani e in tutte le trasmissioni radiotelevisive. Accettia-
mo pure questa dilatazione figurata dei due termini, visto che
nessuno ha pensato a ricircolazione e a ricircolare (nel caso del
denaro« sporco» consiglierei piuttosto riconversione e ricon verti-
re ); ma quel -e/aggio che cl sta a fare, tanto smaccatamente
francese e fastidioso all'orecchio? Da ciclo il buon italiano non

205
può creare che un riciclo, e cosi Infatti alcuni attenti dizionari
registrano il nuovo termine, e lo consigliano. Ma chi ne fa uso?

Schettini, schettinare . ..
Hanno inaugurato tempo fa In una cittadina che non nomino
un «Circolo di schettinaggio » con questa vistosa scritta, che
essendo al neon fa bello spicco anche di notte. Alla mia timida
osservazione che forse era meglio dir pattinaggio, mi hanno ri-
sposto che la parola schettinaggio è ormai parola italiana che
si ritrova su tutti 1 dizionari.
Tutti forse no; ma molti, è vero, la registrano, non solo, ma
anche schettinare, schettinatoio e schettinatore, e naturalmente
il genitore di tutta questa roba, schèttini, dicendo si e no che
si tratta di italianizzazionl di parole inglesi, e senza il minimo
accenno al fatto che trattandosi di vocaboli estranei alla nostra
lingua e assolutamente Inutili, è buona cosa tenersene lontani.
Su uno dei dizionari piu recenti leggo: « schettlnaggio: lo sport
del pattinare con 1 pattini a rotelle o schettini »; plu sotto:
« schettinare: pattinare con gli schettini »; pll1 sotto ancora:
«schettinatdre: pattinatore su schettinl ». Tralascio ogni com-
mento su questo pasticcio fra schèttinl e pàttini, tra schettinare
e pattinare, e do gran lode al vecchio Palazzi che registrava
questo bastardume solo per avvertire che si trattava di voci ri-
prese e inutili, e al dizionario del Migliorinl che addirittura lo
Ignora. La funzione di un dizionario di lingua deve essere, per-
bacco, normativa oltre che Informativa, libero poi chi lo consul-
ta <.h regolarsi come meglio crede; ma una norma deve darla,
se non vuoi essere un puro e semplice elenco di parole buone
e cattive prese su a cappellate come vien viene.
L'inglese skate, di provenienza olandese (in origine pro-
priamente «trampolo»), corrisponde esattamente all'italiano
pàttino; il verbo to skate vale pattinare, skating-ring è la
pista di pattinaggio o piu brevemente Il pattinatoio, skater è il
pattinatore.
SI sono anche create da noi numerose varianti: abbiamo cosi
oltre gli sche'Ttini anche gli sche'tini, gli scàttini e gli scàtini, e
analogamente schetinare, scattinare e scatinare, e tutto il resto.
Per fortuna termini come questi, una volta tanto, sono ignorati
dalla nomenclatura ufficiale sportiva· infatti in un dizionario

206
sportivo che ho sott'occhio non c'è traccia di schèttini e di
schettinatori. Si parla soltanto di pàttini, e si distinguono,
quando si voglia distinguere, l pattini da ghiaccio ( in francese
patins à giace, in inglese semplicemente skates) e i pàttini a
rotelle (in francese patins à roulettes, In inglese roffer ska-
tes ); come si distingue Il pattinaggio su ghiaccio e il pattinaggio
su rotelle.

Sciancrato
«Camicie sciancrate »: l'aggettivo è di razza francese, un france-
sismo dei peggiori, e di vecchia data; si usava anche prima delle
camicie floreali di cui si abbelliscono i torsi giovanili d'oggldl;
si parlava di «abito sciancrato », di «giacca sciancrata In vita»;
qualche sarto piu raffinato preferiva addirittura il francese
échancré. Ché di qui appunto Il mostriciattolo deriva, rifatto
a orecchio come moltissimi francesismi soprattutto della moda .
Dove vivono naturalmente tutte le altre forme dei verbo échan-
crer, in Italiano sciancrare («questa giacca me la sciaQ.cri un
po' di piu »),e il sostantivo sciancratura, dal francese échancru-
re. È probabile che se si conoscesse l'etimologia del verbo fran-
cese tutti questi francesismi si userebbero meno. Un'etimologia
che risale a chancre, cancro; si che échancrer significa scavare,
corrodere come un cancro ...
Se si dicesse camicia o veste attillata, o stretta a vita, o anche
semplicemente camicia, veste a vita, si userebbero modi tradi-
zionali e di buona lingua; ma se proprio si vuole un term ine
unico e specifico, si dica sfiancare, sjiancato e sjiancatura , come
dicevano alcuni sarti d'una volta.

Scioccare
«Nel vederlo rimase scioccata », «La tragica notizia lo aveva
scioccato », «E stata per tutti un'esperienza scioccante»:
questa, secondo certi lessicografl recenti, sarebbe lingua Italia-
na; perché son tutti esempi tolti quasi di peso da certi dizionari
cosiddetti della lingua italiana che vanno ora per le scuole. A v-
vertissero almeno che si tratta di puri barbarismi da evitare
tutte le volte che si può. E si potrebbe sempre. Infatti scioccare

207
è verbo preso netto dal francese, choquer, urtare, colpire in ma-
niera piu o meno violenta, deri vato dall'olandese schokken, e
da cui deriva anche l'inglese to shock, affermatosi da noi nel
linguaggio medico in questi ultimi quarant'anni o poco piu . I
Francesi dal significato proprio del verbo ( choquer un passant,
urtare un passante) hanno derivato quello figurato: choquer l'o-
reifle, urtare l'orecchio, choquer f'amour-propre, ferire l'amor
proprio. Che ragione c'era di andare a fabbricare un verbo scioc-
care che, oltre che inutile, richiama un aggettivo, «sciocco»,
che col verbo non ha proprio niente che fare? Il nostro lessico
allinea tutti i verbi possibili per sostituire il brutto e inutile
scioccare In ogni occorrenza; non c'è Infatti che da scegliere
oltre che tra urtare, colpire e ferire sopra detti, anche tra scuote-
re, impressionare, turbare, sbigottire, agitare, sconcertare, sconvol-
gere, costernare, sgomentare, stordire, e chi sa quant'altri che
non ho voglia di cercare.
Ma un' ultima cosa voglio aggiungere a proposito di certi di-
zionari di larghissima manica che registrano senza battere ciglio
le voci piu balorde come fossero oro di coppella. Ce n'è plu
d' uno che alla voce scioccare scritta almeno all' italiana, rimanda
a una voce shoccare che non si capisce che italiano possa esse-
re, e c'è chi registra perfino la variante shockare, avvertendo
che si coniuga io shoèko, tu shoèki, ecc. Con questi illustri inse-
gnamenti vogliamo stupirei che certi mostri si ràdichino nel
nostro moderno linguaggio?

Sgorgare il lavandino
Questo verbo, da quando esiste, è stato sempre intransitivo ed
ha avuto un solo preciso significato: uscir fuori con forza o
in abbondanza, riferito quindi a liquidi: l'acqua sgorga da una
polla sorgiva, il sangue sgorga a fiotti da una feri ta, e sgorgano
le lacrime dagli occhi d'una fanciulla bocciata agli esami. Esten-
sivamente; si dice anche dei fiumi nel significato di sboccare,
sfociare: «Da dove Tronto e Verde in mare sgorga» come dice
Dante. Tutto qui. Del significato transitivo di sturare, stasare,
usato nella frase «sgorgare il lavandino », raccattato di peso dai
dialetti lombardi , neppur l'ombra. Non ci fosse in lingua una
. parola che dica con uguale efficacia il concetto che vogliamo
esprimere, prendiamola pure dai dialetti e mettiamola al servi-

208
zio di tutti; ma non è il caso nostro. L'italiano ci offre, come
s'è visto, non uno ma due verbi che dicono esattamente e bene
quel che dice male il dialettalismo sgrammaticato. Il quale dia-
lettalismo, mi par chiaro, è nato come contrario di ingorgare;
ch'è però intransitivo a sua volta, e normalmente usato nella
forma pronominale ingorgarsi: cioè far gorgo, accumularsi, rife-
rito a liquidi , ad aria, a fumo; poi, con significato estensivo,
intasarsi , otturarsi : «il lavandino si è ingorgato »: frase correttis-
sima. Da un ingorgare inteso erroneamente come transitivo i
dialetti settentrionali, cambiando il prefisso, hanno creato il
verbo sgorgare ; ma la forma corretta sarebbe, semmai, « disin-
gorgare ». Conclusione: non diciamo mai «sgorgare il lavandi-
no» ma« stasare, sturare il lavandino».

Snobbare
Giunto tra noi sì e no da una ventina d'anni , ne ha fatta della
strada! Quasi tutti l dizionari piu recenti lo registrano, e perfino
qualche degno scrittore lo ha accolto nella sua prosa. Non di-
scuto i gusti altrui; ma a me pare un verbo di una inutilità
a tutta prova. Non deriva dall'inglese snob come alcuni credono
e qualche dizionario dichiara, ma dal verbo, pure inglese, to
snub, che vale propriamente «rimproverare», «umiliare».
Snobbare una persona equivale dunque a umiliarla, a trattarla
male, a considerarla dall'alto in basso, con un tono di ostentata
superiorità sr da mortlficarla, da farla apparire inferiore o ridico-
la . Si snobba perciò un'amica che fa la superba trascurandola
nei nostri inviti, si snobba un avversario battendolo in modo
umiliante; si snobba anche un contraddittore proplnandogli un
linguaggio superiore alla sua preparazione culturale si da crear-
gli un complesso di ignoranza, e cosf via. Ripeto che l'italiano
non può non disporre di termini propri per esprimere queste
cose tanto comuni all'uomo fin da quando è nato . Perciò chi
voglia lasciar da parte l'anglicismo - e mi sembra un ragio-
nevole consiglio - può sempre scegliere, secondo il bisogno,
tra umiliare, avvilire, mortificare, confondere, ferire, svergognare,
scornare, e volendo caricar lo spregio, anche scornacchiare e
scorbacchiare. Conosco un elegante scrittore che usò, in questo
senso, l' antico e delicato smusare. Troppo delicato per i tempi
che corrono!

209
Sparare
Titolo letto su un noto quotidiano: «L'uomo sparato dal rivale
si salverà». C'è da rimanere sgomenti di fronte a questo sor-
prendente costrutto del verbo sparare. Il quale verbo, come
ogni dizionario spiega, è sì transitivo, regge cioè un comple-
mento oggetto, ma questo oggetto non è mal la persona contro
cui si spara. Esso vale infatti: mettere in azione un'arma da
fuoco: «sparare la rivoltella, il fucile, il cannone»; far partire
per mezzo di un'arma da fuoco: «sparare una fucilata, un colpo
di cannone, una scarica di mitra». Frequente è poi l'uso assolu-
to del verbo, cioè al verbo non si fa seguire il complemento
oggetto espresso ma si sottintende: «Non sa !>parare», sottinte-
so «il fucile», «la rivoltella» o che altro si voglia; «sparare
a una persona», sottinteso «un colpo», «una fucilata» e simili;
analogamente «sparare alla lepre», «sparare sul nemico»,
«sparare contro la folla», sempre sottintendendo fucilate, colpi
o altre simili delicatezze. Diremo quindi « spàragli » e non « spà-
ralo », «gli hanno sparato» e non «lo hanno sparato». Si dice
anche, sempre assolutamente, spararsi, che non vuoi già dire
«sparare sé» ma «sparare a sé», cioè quel si non è un comple-
mento oggetto ma un complemento di termine: «sparare a sé>>
sottinteso «una rivoltellata», «un colpo», eccetera. Dire, coìne
spesso si dice e anche si stampa, «Lo ha sparato per gelosia»,
«Sparò la moglie che lo tradiva>> si può tollerare nei dialetti,
ma non in un corretto itallano. Errore tanto piu grave in quanto
l'italiano ha un altro sparare che significa «spaccare in due»,
«squartare», «sventrare»: sparare il maiale, il bue; «E s'era ·
altro ch'Orlando ... , L'avrìa sparato fin sopra la sella» dice l'A-
riosto. Perciò «l'uomo sparato>> di cui sopra in buon italiano
non può essere altro che un uomo spaccato In due, sventrato,
squartato, e quindi con pochissime possibilità di guarigione.

Trancio, tranciare
Non solo a Milano, ma in tutta la Lombardia, la parola trancio
è di casa da secoli, e cosi il verbo tranciare, e tranciarore e
tranciatrice e rranciatura. Ma poi questo deprecato trancio
appare già anche in molte altre regioni centrali e meridionali,
ché oggi le parole non ristagnano piu nei luoghi di origine come

210
un tempo poteva accadere, ma emigrano, volano, e cosi anche
l barbarismi, le storpiature si diffondono dappertutto, spesso col
valido soccorso della radio e di sorella televisione. Né escludo
che nella stessa Firenze parole di questa fatta stiano già facendo
il loro nido. Certo, a un orecchio non lombardo, trancio e tutto
il resto può sonare stonato o per lo meno curioso. L'italiano
dice fetta (di panettone, di salame), un tanto alla fetta e non
«al trancio »; dice affettare il panettone, il salame e non « tran-
ciarlo ». All'origine di questi termini stonati è il verbo francese
trancher, tagliare, mozzare, variante dell'antico trenchier, che
risale al latino truncare, donde anche il nostro troncare. È una
serie di termini che dovrebbe rimaner confinata nel linguaggio
tecnico, dove impera la trancia o tranciatrice, che sarebbe una
macchina per tagliare i metalli , detta meglio, nello stesso lin-
guaggio tecnico, cesoia o cesoiatrice, accompagnata dal trancia-
tore (meglio cesoiatore ), cioè colui che esegue la tranciatura
(meglio cesoiatura ).

Travet
Ho letto testualmente su un giornale «bisogna favorire l'esodo
a buone condizioni ai poveri travets che attendono da anni ec-
cetera». Evidentemente l'estensore dell'articolo scrivendo tra-
vets, cosi con quella s finale con valore di plurale, ha creduto
che la parola fosse francese. Debbo avvertirlo, e con lui tutti
quelli che usano una simile grafia, che francese non è, ma è
invece una parola dialettale piemontese corrispondente all'ita-
liano travetto, travicello. Come molti sanno, si tratta propria-
mente di un nome proprio, quello del protagonista di una
famosa commedia di Vittorio Bersezio, scritta appunto in dialet-
to piemontese, Le miserie 'd monsù Travet, rappresentata la
prima volta nel 1863, e poi tradotta anche In lingua col titolo
Le miserie del signor Travetti (la versione italiana, se non ricor-
do male, fu trasmessa non molt'anni fa dalla televisione). La
gran fortuna che ebbe questa commedia ha fatto si che il nome
di quel monsù Travet , modesto impiegato statale, divenisse
nome comune per indicare appunto l' impiegatuccio schiavo del
dovere, mal pagato e spesso tartassato dai superiori, umile e
oscuro, è vero. ma nello stesso tempo necessario travetto, cioè
necessario ~ostegno di quel gran baraccone che è, da sempre.

211
l'amministrazione dello Stato. Essendo perciò travet parola dia-
lettale piemontese non può certo prendere al plurale una s alla
francese, ma resterà invariata, come restano invariate nel plura-
le tutte le parole italiane o italianizzate che terminano tronche,
in vocale o In consonante (te verità, gli amor, i tram). I France-
si, per indicare l'impiegatuccio, il burocrate modesto, dicono
rond-de-cuir, alla lettera «ciambella di cuoio», quella ciambella
che rende men dura l'eterna seggiola di chi è condan nato alla
scrivania tutto il giorno fino alla vecchiaia. Invece del termine
piemontese, noi usiamo a volte, nello stesso senso figurato, l'i-
taliano travetto, con un plurale regolare travetti: «Ci stanno dei
travetti a tavolino, con la soprammanica, le mani nere d'inchio-
stro» (A. Baldi n i).

Ultròneo
Ecco un altro di quei paroloni rari venuti in uso proprio nel
mezzo del pi\1 sciatto linguaggio d'ogni giorno. Questo aggettivo
ultrdneo che fino a oggi il novantanove per cento degli Italiani
non aveva mal sentito nominare, è entrato quasi nell'uso
comune col significato di «superfluo»: «È ultroneo dire che ... »
si sente nelle aule giudiziarie, e càpita di leggere anche sui gior-
nali. È un significato sbagliato. U/tro'neo viene dal tardo latino
u/tròneus, costruito sull'avverbio ultra che aveva tra i vari altri
significati anche quello di «spontaneamente»; e perciò esso
vale spontaneo, volontario e simili. Esiste anche l'avverbio ul-
troneamente, che vale spontaneamente, volontariamente, di pro-
pria volontà.
È facile che parole rare come questa, adatte solo a un lin-
guaggio elevato, letterario, uscendo dal loro naturale ambiente
subiscano di questi infortuni. Certamente quell'ultra iniziale,
inteso quasi come «oltre il necessario», ha tirato in inganno,
e di qui il fatale scivolone.

Urgenzare
Ahimè, esiste anche questo . «Ci permettiamo urgenzarvi l'in-
vio di quanto richiestovi nella nostra del... » Raccontò un
giorno il poeta Francesco Pastonchi in un suo articolo sul Cor-

212
riere: «Ero da un libraio, quando entra un tale, frettoloso, e
chiede se sono arrivati certi libri, e · alla risposta negativa, si
meraviglia dicendo: "Già da una settimana li avevo ordinati;
e li ho anche urgentati" . Allibisco: ho inteso bene? "Ha detto
urgentati?" domando io all'amico libraio appena l'uomo, urgen-
tato anche lui, se ne esce. "Sì, ha detto proprio urgentati. Ma
è dell'uso comune tra gente d'affari" ». Dunque, come si vede,
esiste anche urgentare; urgenzare da urgenza, urgentare da ur-
gente. Intendiamoci: come numerose altre volte ho ripetuto,
non è tanto il neologismo che si vuoi condannare, quanto la
sua assoluta inutilità, bastando da secoli, a dir la stessa cosa,
il verbo sollecitare.

A far data
«A far data da lunedì prossimo l'orario sarà cambiato.» Tutto
è cominciato il giorno che si è dato al verbo datare, alla maniera
francese, lo stesso significato intransitivo di «cominciare»,
«principiare». Infatti un'altra formula assai brutta usata non
meno normalmente nella corrispondenza commerciale, non
solo, ma spesso anche in certo stile letterario, è a datare da:
«Lei sarà assunto a datare dal mese prossimo», cioè a comin-
ciare dal mese prossimo. Ma datare era in origine solo transiti-
vo, col significato di «contrassegnare con la data», «fornire
di data»: datare una lettera, datare un documento. Perciò, a
datare da, in buon italiano, si dovrebbe sempre sostituire oltre
che nel modo ora detto, anche con a partire da, partendo da,
a decorrere da , con decorrenza da, cominciando da, con inizio
da, o piu semplicemente dalla data tale, dal giorno tale. Ora
è av ven uto che da questo datare intransitivo col significato di
«avere inizio» è derivato al sostantivo data il significato di «I-
nizio», «principio», ed ecco nascere la mostruosa frase a far
data dal, che vorrebbe dire propriamente <<a far inizio dal»,
dove anche quel <<fare», si capisce, è usato a sproposito come
tante volte avviene a questo povero verbo. Devo anche aggiun-
gere che il mostro ne ha richiamati altri due, aventi lo stesso
significato: a far tempo e a far luogo: «A far tempo da lunedì
l'orario sarà cambiato»; «Le pensioni saranno pagate a far
luogo dal giorno venti». Come si dovrebbe dire? Come diciamo
tutti d'istinto, quando non siamo davanti a una lettera commer·

213
ciale: «A cominciare, a partire, cominciando da lunedì» o
plll semplicemente ancora «Da lunedì prossimo l'orario sarà
cambiato».

A gratis
Questo curioso a gratis me lo sento ronzare intorno, qui nel
Settentrione, con molta frequenza, anche su bocche di persone
di cultura pill che elementare. Si capisce che questo strafalcione
è nato d'istinto in opposizione alla frase a pagamento: «Sono
pill quelli che viaggiano a gratis che quelli che viaggiano a pa-
gamento». Gratis è avverbio latino, forma contratta di gràtiis,
ablativo plurale di gratia, grazia, favore, compiacenza; vale
quindi «per grazia», «per favore», «per compiacenza», e si
contrapponeva a pretio, in italiano «a prezzo», «a pagamento».
Cicerone diceva: gratis rei publicae servire, servire lo Stato senza
mercede. Gratis, trasportato di peso nel nostro linguaggio, corri-
sponde all'avverbio gratuitamente; e come nessuno direbbe «a
gratuitamente», cosf non si deve dire a gratis ma semplicemen-
te gratis, senza nessuna preposizione: «viaggiare gratis»,« man-
giare gratis», «questo libro l'ho avuto gratis», « inedico che
cura gratis l piu poveri». A volte si rafforza il concetto con
la frase tutta latina gratis et amore Dei, per grazia e amore di
Dio, o pill brevemente gratis et amore: «vedendo quel trofeo
in aria, uno gridò: "viva il pane a buon mercato!" . "A buon
mercato! " disse Renzo: "gratis et amore"» ( Manzon! ).

A mezzo posta
<<VI spediamo a mezzo posta, a mezzo corriere ... »: frasi come
queste sono normalissime nell'uso commerciale, ma non sono
di buona lingua, e molti neppure lo sospettano. Infatti la locu-
zione a mezzo in italiano non può avere correttamente che un
solo logico significato, quello stesso che ha la locuzione a metà:
lasciare un lavoro a mezzo è fasciarlo a metà, fare a mezzo
di una cosa è farla a metà fra due persone, e una donna a
mezzo servizio è quella che lavora da te a metà giornata. « Fai
tanto sottili Provvedimenti, ch'a mezzo novembre Non giunge
quel che tu d'ottobre fili» dice Dante, cioè «a metà novem-

214
bre ». Se frasi come « a mezzo corriere», «a mezzo fattorino »
non le ripetessimo meccanicamente ma ci fermassimo solo un
attimo a ragionarle tra noi, vedremmo subito quanto sono illo-
giche e stravaganti. Si capisce perciò che la locuzione a mezzo
usata m questo modo non è di conio nostrano, ma sa d'altra
lingua da cui è stata ripresa a orecchio senza troppo sottilizzare.
E infatti è ricalcata sulla locuzione francese au moyen de (ma
i Francesi dicono anche par le moyen de), e se in quella lingua
va benissimo per il particolare valore che può assumervi la pre-
posizione à, da noi benissimo non può andare. « NoFi tanto cl
scandalizza» notava il Migliorini «l'origine straniera della locu-
zione, quanto il fatto che essa, entrando in italiano, è venuta
a turbare i significati tradizionali di a mezzo ... Una parola di
nuovo conio o anche di origine forestiera che prenda posto nel
vocabolario senza turbare il sistema di significati esistenti, può
essere accettabile. Ma tutt'altro è il caso quando essa venga
a sconvolgere lo stato delle cose.» Stato di cose, oltre tutto,
che potremo rispettare senza nessunissima fatica dicendo per
mezzo Invece di a mezzo, oppure soltanto pero con: «vi inviamo
per mezzo della posta » o «per posta» o «con la posta»; « rice-
verete per raccomandata, con raccomandata, per mezzo di rac-
comandata», e simili.
Per ritornare un attimo alle lettere commerciali, dirò che
spesso mi è capitato d'incontrare la forma matematicizzata a
l l 2: «Vi rimett iamo la fattura a l 12 raccomandata ... ». In com-
mercio, si dice, la velocità è denaro; ma allora perché non scri-
vere per raccomandata ? Perché richiede tre sole. battute, mentre
in certe macchine dattilografiche a l l 2 ne richiede. spazio com-
preso, cinque.

Andare e venire
Nei baracconi delle fiere i verbosi imbonitori hanno l'incarico
di avvertire il gentile pubblico e l'inclita guarnigione di provve-
dersi subito del biglietto d'ingresso perché lo spettacolo «va a
incominciare ». E agli imbonitori tutto si perdona. Il guaio è
che questo andare a incominciare l'ho sentito anche in bocca
di chi imbonitore non è. L'uso del verbo andare in questo parti-
colare significato (che si ritrova perfino In scritture antic he di
qualche secolo) non è italiano ma schiettamente francese. I

215
Francesi usano infatti aller nel significato di «essere sul punto
di», e quindi dicono al/er commencer, af/er faire, aller dire,
essere sul punto di incominciare, di fare, di dire. Noi però dicia-
mo le stesse cose in modi diversi: stare per incominciare, o
anche soltanto incominciare; e analogamente, stare per dire ,
stare per fare una cosa, accingersi a dire, a fare; cominciare a
fare, a dire. Ogni lingua ha le sue leggi, e bisogna rispettarle.
-Ma c'è di piu. Poiché ad andare corrisponde anche il verbo
contrario, venire, cosi giustamente i Francesi dicono venir de,
seguìto da un infinito, per dire che l'azione espressa all'infinito
è appena appena terminata: venir de faire, venir de dire, aver
appena fatto, avere appena detto. Ma quante volte abbiamo sen-
tito frasi come queste: «Vengo ora dal dirti», «Venivamo dal
fare una passeggiata»? Maniera davvero strana di parlare. L'ita-
liano dice «Ti ho appena detto», «Ho appena finito di dirti»,
«Avevamo appena fatto una passeggiata », «Eravamo appena
tornati da una passeggiata».

Farsi la manicure
Questa frase è comunissima in bocca a tutti, ed è una frase
ridicolmente sbagliata. Essa è infatti intesa come se si dicesse
«farsi la cura delle mani», ma non è così. Manicure è la forma
italianizzata del francese manucure (composto del latino manus,
mano, e del tè ma di curer, curare), termine che non indica
già la «cura delle mani » ma «la persona che cura le mani».
Si suggeri anche una forma femminile manicura con un ma-
schile manicuro, ma non hanno avuto fortuna; come raramente
s'usa una seconda variante manicurista: «la voce acuta della
manicurista >> leggiamo in Pavese. Ora si capisce perché «farsi
la manicure» sia una frase ridicola, tal quale come frasi del
tipo « farsi la pettinatrice », o « farsi la parrucchiera». Molte di
queste frasi stravaganti derivano dalla scarsa conoscenza di una
lingua non propria, e dal suo frettoloso adattamento agli usi
nostrani. Se invece di manicure si fosse scelto manicurista l'erro-
re si sarebbe facilmente evitato.

216
Luigi quindici
Sappiamo tutti che parlando di stili dell'arte, soprattutto di mo-
bili, argenti, monili e altre simili raffinatezze, gli antiquari, gli
addobbatori, gli intenditori in genere non dicono «stile Luigi
decimoquinto » ma « stile Luigi quindici» (io però ho sentito
certo regista parlare addirittura di «Luigi decimocinque » che
è un bel passo avanti nel linguaggio dei tecnici). Analogamente
si parla di «Luigi quattordici » e di «Luigi sedici», e cosi via
cambiando solo il nome del regnante. Tutta questa roba, si ca-
pisce, è una stramberia, presa tal quale dal francese, dove peral-
tro stramberia non è. Ogni lingua ha le sue leggi linguistic he,
le sue maniere, le sue formule, le quali possono diventare
stramberie quando si trasferiscono irragionevolmente in un
altro linguaggio avente storia diversa e diversa tradizione.
In italiano la numerazione progressiva dei papi, dei re In
genere si fa coi numeri ordinali, cosi detti appunto perché stabi-
liscono un ordine progressivo di cose e di persone. Diciamo
perciò, come ho sopra detto, Luigi decimoquinto o quindicesimo,
Leone tredicesimo o decimoterzo, Paolo sesto, e scriviamo Luigi
XV, Leone XIII, Paolo VI, usando cioè quei numeri romani che
rappresentano graficamente i nostri ordinali. I Francesi invece,
numerando papi e regnanti , usano i numeri cardinali, anche
se poi nella scrittura ricorrono agli stessi numeri romani, e leg-
gono Louis quinze, Léon treize e Pau/ six. Non c'è davvero nulla
che giustifichi il trasferimento nella nostra lingua di una con-
s uetudine straniera che diventa, in questo passaggio, una vera
e propria sgrammaticatu·ra.

Pezza giustificativa
Chi ha solo un po' di fiuto linguistico sente subito, anche senza
aver frequentato studi specializzati, che certe parole, certe frasi
di cui è inzeppato il parlar d'ogni giorno stonano prima che
all'orecchio al buon gusto, al buon senso: si sente anche che
sono goffe, a volte addirittura ridicole, oltre che poco o nulla
italiane. Una di queste frasi che ricorre spesso nel linguaggio
burocratico e commerciale oltre che in quello curialesco è pezza
giustificativa, usato piu spesso nel plurale, calco grossolano del -
l'espressio ne francese pièce justificarive; questa piéce vuoi dire
genericamente pezzo di qualche cosa, parte, elemento di un
tutto, e qui in particolare pezzo di carta, documento, scrittura

217
che serve a giustificare un fatto, a provare la verità di qualche
cosa. I Francesi per dire la stessa cosa hanno creato anche la
pie'ce à l'appui, e noi a tradurre a orecchio pezza d'appoggio.
Ora è vero che il francese p ieee vuoi dire anche «pezza»,
cioè pezzo di stoffa, ma è indubitato che a un orecchio italiano
la «pezza» si sposa subito al concetto di toppa cucita per tappa-
re un buco a una manica o ai calzoni, o a quello di straccio
o qualcosa di simile. Dicendo documento, certificato, atto giusti-
ficativo, elemento giustificativo o che altro si voglia si direbbe
meno goffamente la stessa cosa. Gli avvocati parlano comune-
mente di pezze processuali, che son poi gli atti processuali e
niente di plu.

Senza cessa
« Lavorare senza cessa>>, «Parlare senza cessa»: c'è piii d'uno
che si esprime ancora coGL Si tratta della locuzione francese
sans cesse e corrisponde al vecchio pulito italiano senza posa,
senza tregua, senza sosta, incessantemente. Da cessare l'italiano
non poteva fare altro che cessazione o cessamento, ma non mal
cessa. E infatti in antico si trovano esempi di locuzioni costruite
su questi due vocaboli: «Sostenemmo ... pestilenza senza cessa-
mento» (Giovanni Villani, sec. XIV); «La nave del cuore
sempre è percossa dall'onda de' pensieri, ed è spinta in
qua e in là senza cessazione» (Sant'Agostino vòlgarizzato,
sec. XIV).

Non me ne voglia
«La prego, non me ne voglia»,« Se ti dico questo non volerme-
ne, lo dico per il tuo bene »: ecco delle frasi comunissime, che
si dicono tutti i giorni, senza neppur supporre che sono frasi
di marca strettamente francese. Il francese dice en vouloir à
quelqu'un per dire quello che noi diciamo con la frase avercela
con qualcuno. « L'envieux en veut à tout le monde »: di fronte
a questa frasetta il solito traduttore traditore che sa poco di
francese e fors'anche poco di italiano, che fa? prende il vocabo-
lario e traduce alla lettera: «L' invidioso ne vuole a tutto il mon-
do >>. Se la frase fa parte, poniamo, di una commedia, ecco che
essa è imparata e ripetuta fedelmente dall'attore, e specialmente

218
se la commedia è trasmessa per radio fa presto a fare il giro
di tutta Italia, diventando a poco a poco patrimonio nazionale.
È il caso frequentissimo di parole e frasi sbagliate che entrano
nel nostro lessico per la porta dell'ignoranza. Infatti se quel tra-
duttore avesse conosciuto la lingua da cui traduceva, la frase
l'avrebbe tradotta italianamente cosi: «L'invidioso ce l'ha con
tutti». Ma ci sono anche altri modi per rendere italianamente
una frase alla francese come « La prego, non me ne voglia»:
diciamo «La prego, non se n'abbia a male, non si offenda, non
se la prenda, non mi serbi rancore ».

Vorrebbe trattato . ..
Una frase come «E un problema che vorrebbe trattato in ma-
niera pill approfondita» è una frase sbagliata. Perché è sbaglia-
ta? Perché quel vorrebbe unito cosi al participio passato trattato
è modo schiettamente dialettale, anche se frequentissimo per
quanto è lunga l'Italia. «Questo ragazzo vuoi preso con
le buone», «Gli spaghetti vogliono mangiati al dente»: tutto
sbagliato.
Intendiamoci: il verbo volere, in questo particolare significato
di «dover essere», è di schiettissima lingua; ma è quell'unione
diretta del verbo col participio che dà un pugno alla sintassi.
Basterebbe aggiungere un essere e tutto tornerebbe a posto: «Si
tratta di un problema che vorrebbe essere trattato in maniera
pill approfondita», «Questo ragazzo vuoi essere preso con le
buone», «Gli spaghetti vogliono essere mangiati al dente».
C'è tuttavia in italiano un verbo che può essere unito diretta-
mente al participio con lo stesso significato di «dover essere»:
è il verbo andare: «Un problema che andrebbe trattato eccete-
ra», «Questo ragazzo va preso con le buone».

Lingua epistolare
E consentitemi, per finire, questo sfogo che solo marglnalmt:mte
ha che far con la lingua; e non datemi del pedante oltre che
del muffito tradizionalista. Io per moltissimi anni, per necessità
del mio ufficio, ho dovuto rispondere a lettere pervenuteml da
ogni parte del mondo: lettere in lingua inglese, francese, te-
desca, danese, finlandese, perfino turca. Ricordo benissimo la

219
letterina turca di un diplomatico, tutta ghlrigorata da destra a
sinistra ch'era una bellezza a vedere e fu un problema a tradur-
re. Ma la tradussi; e risposi, io italiano, in italiano, scrivendo
da sinistra a destra, come a me si conviene. Il diplomatico mi
rispose a tono, e cosi per qualche tempo, comprendendoci per-
fettamente. La cosa ci parve a entrambi logicissima: il Turco
scrive in turco cosi come l'Italiano scrive in italiano. Oggi non
piu. Cioè, oggi tutti i popoli della terra possono scrivere nella
loro lingua materna; solo l'italiano deve, dico deve, scrivere non
nella propria lingua ma nella lingua del destinatario.
Venni a parlare una sera di questo argomento con un grande
Industriale lombardo. Questo premuroso signore mi Informò,
con non celato orgoglio, di avere organizzato nella sua moder-
nissima azienda un ufficio di corrispondenza capace di rispon-
dere In tutte le lingue del mondo, russo compreso. Una ·schiera
di traduttori stenografi era sempre li, pronta agli ordini di un
capufficio poliglotta. Alla mia domanda: .« Si è mai domandato
perché il Francese scrive in francese, l'Inglese in inglese, lo
Svedese in svedese, e Io stesso Russo in russo, e lei, che è
italiano, scrive invece in tutte le lingue della terra fuorché nella
sua?» l'industriale rispose, dopo un attimo di esitazione: «Ma,
io penso, per una superiorità organlzzatlva ». «No» risposi io
«per un antico complesso di inferiorità che è divenuto per di
piu inconscio».
Si tratta infatti di un fenomeno che si ripete da secoli nel
nostro bel suolo. Ricorderanno un po' tutti la tedescomanìa di-
lagante nel periodo dell' ultima guerra; tedescomanìa frenata in
tempo solo dal corso degli avvenimenti. Oggi si tratta di anglo-
mania .. . E domani?
Rifacciamoci al passato, se il passato ha ancora da Insegnar
qualche cosa al presente. Si sa che nel Cinquecento lo straniero
dominante in Italia veniva soprattutto dalla Spagna, ed era per-
tanto Io spagnolo la lingua di maggior moda . Ad Annibal Caro,
uomo letteratissimo, e anche uomo politico e segretario di prln-
cipi, ma soprattutto italiano, fu un giorno rivolto, nel 1562, un
quesito che riguardava la lingua da usare nelle lettere dirette
a Spagnoli: a quelli che scrivon spagnolo si deve rispondere
nella medesima lingua? Rispose il Caro: «Non si può parlar
della lingua in questo caso, che non si parli dell'imperio, e della
nazione che domina, e di quella che è dominata;... meglio, con
piu decoro, con men sospetto d'adulazione, e men pregiudizio
di servitu, si scrive e si risponde nella lingua propria che nell'al-
trui»(Letterejamiliari, II, Venezia, 1587, pp. 163-164).

220
Indici
Indice analitico

a (vocale), 14; (preposizione), a me mi, 119


55, 116 a mezzo (posta, cornere e siro.),
abbàcchio, 177 . 214
abboccare, 121 ammenoché, 63
abbozzare, 177 amméttere, 12
abbreviazione di parole, 87 anabbagliante, 143
abdicare, 122 anacoluto, 97
accento: grave e acuto, 14 sgg.; analcòlico, 144
nei cognomi, 44 anamnesi, 44
acclarare, 191 ancestrale, 144
adamantìno, 22 anchilosi, 44
adémpiere, 123 andare a (con l'infinito), 215
aèreo (sost. maschile), 66 anguria, 145
àero- (prefisso), 66 annotare, 32
aeròdromo, 41 anòdino, 24
aeromòbile, 67 ·an ti- (prefisso), 143
aeronàutica, 67 antiabbagliante, 143
aeroplano, 66 antialcòlico, 144
aeroporto, 67 antipirètico, 144
a far data, 213 antropòfago, 50
a far luogo, 213 apirètico, 144
a far tempo, 213 appropriare, appropriarsi, 124
« affittasi » appartamenti, 98 arem, 27
aggettivi da nomi propri stra- aritmètica, arimmètica, 62
nieri, 88 sgg. arrangiare, arrangiarsi e derivati,
-àgine, -àggine (nomi in), 56 146 sgg.
alcalìno, 22 asciòlvere, 151
a·lchìmia, 22 assemblaggio, 140
alìce, 24 assieme, 116
aliscàfo, 34 assimilazione, 12, 62
allòdola, 22 assòlvere, 125
alternativa, 142 attenere, 125

223
autòdromo, 41 carreggiata , 149
avére verbo), 57 Carrèr, 45
avviare. 28 Cartàgine, 57
casa, 12
cassa, 12
bàgola e derivati, 177 cassata, 177
barista, barrista, 90 Càstano. 45
batiscàfo, H ca terere. 44
baùle. 24 Cecoslovàcchia, 50
Beàn, 45 celibatario, 149
bellézza, 15 celibato. 149
bène, 14, 15, 21 cena. 151
beneficente. 66 centrìfugo, 25
benèvolo, 77 cenìfica (sos t. femm.), 197
Berlinguèr. 45 cessa (senza) , 218
Bettiòl. 45 che (pronome interrogativo), 180
Bèttiza , 45 che cosa?. 180
biglietto di visita, 117 che ora è?, che ore sono?, 100
bonifica (sos t. femm .), 197 chìmica, 23
bòra. 177 China, Cina, 84
Bordign6n, 45 chi sa. chissà, 67
Bordìn, 45 cièlo, 15, 21
Bragadìn, 45 ciglio, cigli, ciglia, 101
brandy, 27 Cina, China, 84
budgetario, 140 cinòdromo, 42
;Buenos Aires, 84 ciòcia, 177
buriana, 177 circùito, 26
bùttero, 177 ciriè, 17
citta, 83
cachi, 191 ciucca, 177
caffè, 17 ciuccio, 177
càlibro, 34 classìfica e derivati, 197
callìfugo, 25 co- (prefisso), 194
camion, 27 cobelligerante e derivato, 192
camorra, 177 cocomero, 145
Canadà, 48 cognàc, 27
canapè, 17 cognome, 183; accento net co-
candidare e derivati, 148 gnomi, 44
cannìbale, 49 Coìn, 45
capéllo, 21 colazione, 150
capottare e derivato, 192 coledoco, 44
Caraìbi, 49 collegare, 12
caram6gio, 142 collettivi (nomi) :oncoràanza,
Carìbi, 49 93, 96
caro, 178 sg. colpo, 152

224
coltura, cultura , 68 d eufònica, 55-
còlubro, 14 da (preposizione), 117, 127
cominciare, 130 danaro, denaro, 69
·comminare, 194 data (a far), 213
comparare. 38 datare, 213
compito, 14 davanti (preposizione), 115
complementarità, 65 Dàvide, 48
completizzare, 141 decadere, 126
compreso (agg.), 102 deficiente, 66
comunque. 167 dèlega (sost. femm.). 197
con- (prefisso), 194 dclìbera (sost. femm.), 197
con (preposizione) , 68 , 105 denaro. danaro, 69
concola, 81 dentro, 72: in funzione intensivr
concordanze, 93 sgg. 114 ; come preposizione, 114
conface nte, 66 deragliare e deri vato, 196
congen iale e derivati, 15.3 derogare, 126
con lo, collo, 68 desinare (sosr: maschile), 151
conscnanti sempliCi e doppie, 11 desìstere, 126
conrain e rizzare , 140 de trarre, 126
contattare, 195 deuteragonista, 170
continua (sost. femm.) , 197 deviare, 28
con tra- (prefisso), 60 di (preposizione), 109, 127
contrabbando. 61 dialetti, 177
contraccolpo, 61 diatriba, 28
contraddire e derivati, 61 dichi ara (sost. femm.), 197
contravveleno, 61 diciannove. 64
convàlida (sost. femm.), 197 diciassette, 64
coprire, 155 didiet.ro, 64
copro- (prefisso), 194 dièci, 21
coproduzione, 194 difatti, 64
cordiàl, 27 differènte, 115
correlazione, 113 sgg.
di fferènza, l 5
correre, 14
di fondo. 181
corridoio, 15
di già, 64
corsla, 149
diminuzione, 65
cosa?, che cosa?, 180
cosegretario, 193 dimissionare, 198
cosicché, 63 dindo, 178
cosmopolì ta, 28 di piu, 64
cosmòdromo, 42 di poi, 64
costrutti vari, l 08 sgg. direzionate, 198
cristallìno, 22 discentrare , 37
culinario, cucinario, 154 di scernere, 38
cultura, coltura, 68 discingere, 38
Cuorgnè, 17 discinto. 38

225
disdettare, 198 -ènte (parole in), 16
disopra, 64 -ènza (parole in), 16
disotto, 64 .ére (desinenza verbale), 17
disseccare, 71 -èrio, ·èria (parole in), 16
dissimile, 115 -èrrimo (suffisso su per l.), 17
dito, dita, l 00 escluso ( agg. ), l 02
dittongo iè, 16, 21 -ésco (aggettivi in), 18
dittongo uò, 19, 22 .ése (suffisso), 18
diverso, 115 ·èsimo (suffisso), 17
dogma, domma, 62 ·ésimo (parole in), 18
dono, 22 -éssa (suffisso), 18
dopo pranzo, 151 èssere (verbo), costruito con la
dottore (abbreviazione di), 87 cong. che, 104
dozzèna, dozzina, 69 essiccare e derivati, 71
-dromo (composti in), 41 -èstre (suffisso), 17
estremista, 39
Etiòpia, 50
e (vocale), 14, 16, 17, 18, 20; ·étto, ·étta (suffissi dimin.), 17
(preposizione), 55 evaporare, 30
ebbène, 62 evidenziare e derivati, 199
eccetto (preposizione), l 02 -évole (suffisso), 18, 77
eccettuato, l 02 -èvolo (suffisso), 17
ecchimosi, 44 ex, 182
-éccio (suffisso), 17 -ézza (parole in), 18
eclissi, 70
edema, 44
edìcola, 30 fa (in frasi come un anno fa), 104
edificare, 30 facènte, 66
edificio, 30 familiare, famigliare, 71
edìle, 30 Fanfani (Amìntore), 45
edilìzio e derivato, 30 fasullo, 157, 178
-èdine (parole in), 16 fatiscènte, 158
efficièn te, 66 febbrìfugo, 25
-éfice (parole in), 17 -fero (suffisso), 167
-éggio (parole in), 18 fèrro, 21
egrègio, 179 festa di ballo, 117
elementarità, 65 filiale, figliale (agg.), 71
ellissi, 70 filiale (sost. femminile), 72
-èllo, -èlla (suffissi dimin.), 16 fintantoché , 63
-èndo (parole in), 16 firmare, firmarsi, 127
enigma, enimma, 62 flemmone, 44
-ènne (suffisso), 16 flogosi, 44
-ènnio (suffisso), 16 Florìda, 48
-èno (parole in), 16 fòiba, 177
-ènsa, -ènse (suffisso), 16 fondo (di), 181

226
Forment6n, 45 immòbile, 12
-fortùito, 26 imparare, 38
fosco, 22 in (preposizione), 117
fra, tra, 80 incàvo, 31
fràdicio, fràcido, 72 incentivare e derivato, 200
Friùli, 51 inchiestare, 201
fuggir di (o da) casa, 127 Ìncubo, 80
-fugo (nomi in), 25 inerènte, 128
fuòco, 22 inerire, 128
fuori (in funzione intensiva), 114 ingorgare, 209
iniziare, 129
insieme, 116
Gàmbara (Verònica), 45 instigare, v. istigare
gemello, 158 insufficiente, 66
gerundio (in principio di perio- interpretare, interpetrare e deri-
do), 107 vati, . 74
ghiottonerìa, 33 in tra- {prefisso), 74
ghiottornìa, 33 intravedere, 74
giacché, 63 intùito, 26
giu (in funzione intensiva), 114 invece, in vece, 75
giungla, jungla, 73 invocare, 32
giustìfica (sost. femm.), 197 inzaffirare, 42
glielo, glie lo, 73 ipòcrita, ipòcrito, 75
gliene, glie ne, 73 ippòdromo, 41
gondola, 177 irruente, 76
grandinìfugo, 25 istigare, 32
gratis, 214
gratùito, 26
grosso, 159 jungla, giungla, 73
guaìna, 31 junior, 48, 88
guappo, 177

kaki, 191
h (nelle forme del verbo avere),
57
harem, 27 labbro, labbri, labbra, 100
laddove, 63
lavorare, 133
i (vocale), 14; (prostètica, come lavorativo, 133
in iscuola), 59 !eccone, 33
idiotismo, 177 lecconerìa, 33
iè (dittongo), 16, 21 leccornìa, 32
iettatore, 177 leticare, 32
illazione, 200 lièto, 21
illécito, 12 lingua epistolare, 219

227
lisare, 201 narghilè, 17
litigare, 32 necessitare, 165
locale, 160 necrosi, 43
Luigi quindici e simili, 217 neppure, 63
luògo, 22; (nella frase a far luo- Nereo, 44
go). 213 niente, nulla (in frasi negative),
110
niente che fare, 110
macabro, 33 no ( olofràstico ), 120
macchina utènsile, 40 Nobèl, 46
magazzeno, magazzino, 69 noce, 22
magone, 177 Noè, 17
malèvolo, 77 nome, 22
malgrado, 161 nome e cognome, 183
malloppo, 176 nomi collettivi (concordanza con
manicure, 216 i), 93, 96
Manìn, 45 nomi propri stranieri (aggettivi
ma però, 118 derivati da), 88 sgg.
massivo, 162 non volermene, 218
MEC, 87 . notìfica (sost. femm .), 197
menagramo, 176 nove (composti di), 64
-ménte (suffisso avverbiale), 17 nulla, niente (in frasi negative),
-ménto (suffisso nominale), 17 IlO
merenda, 152 numerazione di papi, re, impera-
meridione, 163 tori, ecc., 217
mestieri, 164 Nùoro, 51
metàtesi, 72
metro, metrò, 165
metropolìta, 28 o (vocale), 14, 19, 22; (preposi-
mezzo (agg. numerale), 101 zione), 55; (cong. disgiuntiva),
mezzo (a), 214 111
minestrone, 177 -òccio, -òcc ia (suffissi), 19
mollìca, 24 Odissèa, 44
moltiplica, 197 Odissèo, 44
moltiplicazioPe, 197 -6gno (parole in), 19
monosillabi in -e, 18 -6gnolo (aggettivi in), 20
Montaigne, 46 -òide (suffisso), 19
Moschìn, 45 -6io, -6ia (parole in), 19
Mosè. 14, 17 -òldo (parole in), 19
motorétta, 15 -òlfo (parole in), 19
motoscàfo, 34 olìmpico, olimpìaco, olimpiònico,
Motta (Luigi), 47 77
mozzarella, 177 olofràstiche (parole), 120
mugugnare, 176 oltranzista, 39
Murger 46 omarino, 177

228
onde (con l'infinito), 105 sgg. piuttosto, 63
-ondo, -onda (parole in), 19 pizza, 177
o no?, 120 Pocàr, 45
oppure, 112 pòìo, 22
ora (sost. femminile), 100 pomice, 15
orbene, 62 posizionare e derivato, 202
-ore (parole in), 19 pranzo, 151
organizzativistico, 141 praticamente, 167
-òrio, -òria (parole in), 19 prefissi (che richiedono il rad-
òro, 22 doppiamento), 59 sgg.
-òsi (parole in), 19 pregresso, 168
-oso, -osa (parole in), 19 prenome, 184
ossequènte, 65 preparare, 38
òttico, 62 prestinaio, 178
-òtto, -òtta (suffissi), 19 procreare, 32
-òttolo, -òttola (suffissi), 19 produttivistico, 141
ovviare, 28 profluvio, 78
-òzio, -òzia (parole in), 19 promozione, 141
pronunzia delle parole, 14 sgg.,
20 sgg.
Padovàn, 45 propagandare, 203
paìno, 177 propàggine, 57
palude, padule, 72 proporre, 141
parole nuove, 140 sg. pròstesi della i, 59
patto, 12 protagonista, 169
péra, 14 Provenzàl, 45
perché, 14, 15 pusigno e derivato, 152
perforare, 32
permissività, 141
però, 14; (preceduto da ma), 118 quagliòdromo, 42
perocché, 63 quadro (nel), 182
Perseo, 44
pèsca, 15, 20, 21
pésca, 15, 20, 21 ràcchio, 178
petroliera, 166 raddoppiamento sin tattico, 11,
petrolifero, 166 59, 61, 62 , 67
pètto, 21 , 62 rata e derivati, 204
pezza giustificativa, 217 ratizzare, 204
Pezziòl, 45 realizzare, 171
piatti a farsi, 111 reboante, 78
picciotto, 83 recepire, 172
piètra, 21 recluta, 34
Pintòr, 45 regìme, 35
Piovesàn, 45 renitenza, 205
piròscafo, 34 reticenza, 205

229
riciclare e derivato, 205 settentrione, 163
riparare, 38 sfuso, 174
risotto, 177 sgorgare, 208
risvolto, 173 sguainare, 31
ritornare, 130 shakerare, 140
rubrìca, 36 shokkare, 140, 208
rubricario, 36 si (particella passivante), 99
Rumòr , 45 sia ... sia, 113
sicché, 63
sièpe, 21
Salgàri, 47 sigle, 86
saluti, 178 signora (per moglie), 185
salvo (agg. e preposizione), 102 snobbare, 209
Sanremo, 85 soddisfacente, 66
Savorgnàn , 45 soddisfare, sodisfare, 133
sbagliare, 130 sopra- (prefisso), 60
se (pronunzia del gruppo), 37 sopracciglio, 60
seentrare, 37 sopraccoperta, 60
sceratura, 37 sopraffare, 60
scervellare, 37 sopralluogo, 60
scespiriano, 89 sopr.a nnazionale, 60
schèttini e derivati, 206 soprannome, 60
sciancrato, 207 soprattassa, 60
scioccare, 140, 207 soprattutto, 60
sclerosi, 43 sopravanzare, 60
scrittura, 12 sopravvalutare, 41, 60
scultorio, 78 sottovalutare, 41
se (congiunzione), 61 sottrarre, 131
sebbene, 62 soviet, 27
sècolo, 21 sovra- (prefdsso), 60
Segàla, 45 sparare, 210
sèi (numerale), 17 spegnere, spengere, 72
séme, 21 spinteggiare, 175
semmai, 61 spintonare, 175
semplicizzare, 141 spuntino, 152
sempreché, 63 statuale, 141
sènior, 48, 88 stélla, 15, 21
sennò, 61 storpio, stroppio, 72
sennonché, 61 stortare, 198
senza cessa, 218 stupefacente, 66
separare, 38 stuzzichino, 152
seppure, 61 su (in funzione intensiva), 114
séte, 21 sùccubo, 79
sètte {numerale), 17, 21, 62; sùdicio, sùcido, 72
(composti di), 64 sufficiente, 66

230
suffissi diminutivi (-èllo, -èlla, urgenzare, 212
-étto, -étta), 16, 17 utensile, 40
suicidarsi, 175
svalutare, 41
svaporare, 31 vagina, 31
valùta, 41
valutare, 40
tante cose (come fòrmula episto- vaporare, 31
lare), 186 véce, 75
tècnica, tènnica, 62 velòdromo, 41
téla, 21 << vendesi » locali, 98
tèma, 20, 21 venire dal (con l'infinito}, 216
téma, 20, 21 ventisette, 64
tèmpo, 15; (nella frase a far vérde, 15
tèmpo), 213 vergogna, 15
teppista, 177 verìfica (sost. femm.}, 197
tèrmite, 38 verificare, 176
termìte, 38 vermìfugo, 25
tèrra, 21 vèrmut, 82, 90
Teseo, 44 vétro, 21
Toffanìn, 45 via (composti con}, 29
Toffolon, 45 vicino, 134
tornate, 178 viemeglio, 65
tòro, 22 viepeggio, 65
tra, fra, 80 viepiu, 64
trafficare, 132 violento, 76
Traìna, 45 Visentìn, Visintìn, 45
trancio, tranciare, 210 vocali, 14 sgg.
travèt, 211 volume, 36
tre (numerale), 18, 21 vongola, 81
trentasette, 64 volere (in frasi negative, come
Tripòdi, 45 non volermene), 218; {nel sign.
tritagonista, 170 di voler essere, dover essere),
219

u (vocale), 14
Waterloo, 47
ultra- (prefisso), 39
ultrà, 39
ultròneo, 212 zaffìro, 42
ungherese, ungàrico, ùngaro, 81 zita, 83
uò (dittogno), 19, 22 zitella, 83
uovo, uova, 100 zitoni, 83
Indice degli Autori citati

Agostino (sa~t') volgarizzato, 218 Buonarroti il Giovane (Michelan-


Alfieri (Vittorio), 95, 127, 202 gelo), 25 , 121
Algarotti (Francesco), 58
Alighieri (Dante), v. Dante
Anguillara (Giovanni Andrea Camilli (Amerindo), 73
dell'), 121 Carducci (Giosuè), 22, 42, 76,
Ariosto (Ludovico), 23, 26, 32, 80, 106, 108, 115, 118, 123,
38, 58, 101 , 116, 130, 210 130, 139, 183
Arlìa (Costantino), 149, 197 Caro (An nibale), 70, 79, 220
Cassola (Carlo), 116
Cecchi (Emilio), 73, 118
Bacchelli (Riccardo), 76, 95, 123, Cellini (Benvenuto), 115, 116
154 Cicognani (Bruno), 58, 76, 119
Baldini (Antonio), 73, 89, 119, Ciferri (Raffaele), 145
124, 212 Claudel (Pau!), 171
Baretti (Giuseppe), 69, 143 Cocchi (Antonio), 155
Bàrtoli (Daniello), 84, 113 Colletta (Pietro ), l 57
Battaglia (dizionario), 23, 118, Collodi, 95
122 Comisso (Giovanni), 76
Beltramelli (Antonio). 145 Còmpagni (Dino ), 124
Bembo (Pietro), 101 Croce (Benedetto), 76, 123, 128,
Bernari (Carlo), 122 154
Bersèzio "(Vittorio ì, 211
Boccaccio (Giovanni), 68, 70,
101, 108, 110, 112, 114, 115, D'Annunzio (Gabriele), 23 , 38,
116, 119, 122, 123, 126. 128, 79, 108, 112, 116, 123, 140,
130, 131, 134, 160 155 .
Bomempelli (Massimo), 73, 123 Dante, 23 , 26, 38, 42, 68 , 70, 94,
Borgese (Giuseppe Antonio), 107, 100, 104, 106, 108, 110, 116,
118, 124 118, 123, 124, 125, 127, 134,
Bourget (Pau!), 171 153, 173, 180, 201, 208 , 214
Bremond (Iienri), 171 Dati (Carlo Roberto), 142

233
· Dauzat (Albert), 171 94, 100, 104, 106, 107, 115,
Della Casa - (Giovanni), 116 118, 123, 154
De Sanctis (Francesco), 69, 107, Lilli (Virgilio), 122
130 Lorenzini (Carlo), v. Collodi
D'Ovidio (Francesco), 180 Lorenzo de' Medici, 125
Luna (Fabrizio), 163

Fagiuoli (Giovan Battista), 23


Faldella (Giovanni), 155 Machiavelli (Niccolò), 94 98,
Fanfani (Pietro), 35, 58, 69, 180 143
. Fazio degli Uberti, 23 Magalotti (Lorenzo). 58, 101,
Fenoglio (Beppe), 98 128, 131
Firenzuola (Agnolo), 119 Manzoni (Alessandro), 55, 95,
Fogazzaro (Antonio), 106 97, 101, 104, 108, 111, 112,
Folengo (Teòfilo), 23 117, 119, 121, 122, 123, 143,
Fornaciari (Raffaello), 95, 110, 180, 185, 214
180, 204 Martini (Ferdinando), 67, 95, 139
Forteguerri (Niccolò), 106, 201 Mazzini (Giuseppe), 122
Foscolo (Ugo), 42, 94, 180 Migliorini (Bruno), 87, 143, 145,
Fucini {Renato), 95, 104, 109 148, 163, 165, 206, 215
Minucci (Paolo), 151
Montale (Eugenio), 58, 116, 154
Gadda (Carlo Emilio), 98 Montanelli (Indro), 86
Galilei (Galileo), 70, 116, 166 Monti (Vincenzo), 76, 106
Gàmbara (Veronica), 45 Moravia (Alberto), 122, 124, 145
Gioberti (Vincenzo), 121 Moretti (Marino), 104
Giordani (Pietro), 124
Giorgini (Giambattista), 161
Giusti (Giuseppe), 63, 120, 127, Niccolini (Giambattista), 178
128 Nievo (lppolito), 116, 122, 124
Gozzano (Guido), 34
Graf (Arturo), 76
Grazzini (Antonio Francesco), 111 Ojetti (Ugo), 79, 89, 144
Grossi (Tommaso), 106 Orbicciani (Bonagiunta), 23
Guicciardini (Francesco), 166

Palazzeschi (Aldo), 107, 121


Jacopone da Todi, 123 Palazzi (dizionario), 206
Pananti (Filippo), 25
Pancrazi (Pietro), 139
La Bruyère (Jean de), 140 Panzini (Alfredo), 35, 73, 93, 98,
Landolfi (Tommaso), 58, 95, 98, 106, 120, 125, 144, 171
107 Papini (Giovanni), 76, 104, 121
Lasca (Il), v. Grazzini Parini (Giuseppe), 75, 106, 132,
Leopardi (Giacomo), 24, 69, 84, l'57

234
Pascoli (Giovanni), 65, 94, 98, Serao (Matilde), 155
201 Serra (Renato), 124
Pastonchi (Francesco), 212 Silone (Ignazio), 104, 123
P avese (Cesare), 98, 116 Sòffici (Ardengo), 98
Pestelli (Leo), 108, 196 Soldani (Jacopo), 23
Petrarca (Francesco), 106, 108, Svevo (Itala), 84, 121
113, 115, 125, 132
Petrocchi (Policarpo), 58, 84
Piovene (Guido), 125 Tagliavini (Carlo), 55
Pirandello (Luigi), 79, 94, 110, Targioni Tozzetvi (Giovanni), 121
124, 127 Tasso (Torquato), 110, 123, 124
Poste! (Guillaume), 28 Tecchi (Bonaventura), 76
Prati (Angelico), 58, 131 Tomasi di Lampedusa (Giusep-
Pratolini (Vasco), 145 pe), 125
Provenzàl (Dino), 55, 67, 147, Tommaseo (Niccolò), 35, 69, 80,
179, 197 84, 113, 118, 122, 124, 128,
Pulci (Luigi), 23, 119, 121 132, 148, 156, 186
Puoti IBasilio), 105, 107 Tozzi (Federigo), 73, 98
Trilussa, 63

Rabelais (François), 155


Redi (Francesco), 69, 106, 109, Ugolini (Filippo), 149
119, 121 Ugolini (Francesco), 184
Rigutini (Giuseppe), 35, 58

Varchi (Benedetto), 116


Sacchetti (Franco), 124 Verga (Giovanni), 67, 106, 111,
Salvini (Anton Maria), 76, 119, 118, 119, 120, 121, 122
123 , 131 Viani (Lorenzo), 121
Satta (Luciano), 157 Viani (Prospero), 130
Sbàrbaro (Camillo), 125 Villani (Giovanni), 119, 121,
Ségneri (Paolo), 131 124, 134, 218
Segni (Bernardo), 79 Vittorini (Elio), 120
Indice

I
9 Problemi dì pronunzia
II
53 Problemi di forma
III
91 Concordanze e costrutti
IV
13 7 Il buono e il meno buono
v
189 Mostri babau e caramogi

L23 ln.dice analitico


233 Indice degli Autori citatz
Questo volume è stato impresso
nel mese di aprile dell'anno 1982
presso la Nuova Stampa Mondadori
Cles (TN)

Stnmpato in Italia - Printed in ltaly

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