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@ 1976 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Edizione Club del Libro


su licenza della Arnoldo Mondadori Editore
Due parole al lettore

Quando, parecchi anni fa, cominc1a1 un mio colloquio coi let-


tori di alcune riviste mondadoriane su argomenti di lingua ita-
liana, non pensavn davvero che quel colloquio potesse diventare
una conversazione nutrita e cordiale, e tanto meno prolungata
nel tempo. Ero mosso da una fede che aveva le sue radici nei
piu lontani anni della scuola, ma questo non mi impediva di
dubitare che mi stavo piuttosto apprestando a una specie di
sordo monologo davanti a persone ben poco desiderose di ascol-
tarmi, certamente persone distratte, capaci anche di affibbiarmi
la taccia di barbogio pedante e di solenne seccatore. Mettermi
a parlar di accenti, di virgole; di iati e di dittonghi, mettermi
soprattutto a gridar l'anatema contro anglicismi e francesismi,
neologismi deliranti e incallite sgrammaticature, proprio oggi,
figuratevi, che la gente spesso se ne fa vezzo, per di piu su
riviste in tutt'altre faccende affaccendate, poteva davvero sem-
brare una insensatezza, una pazzia... E invece no, sbagliavo,
sbagliavo di grosso; tanto vero che dopo tre lustri e passa quel
colloquio continua ancora e, come sembra, non accenna a fi-
nire. Si direbbe che dubbi e problemi di lingua e di gramma-
tica covassero da sempre nell'intimo di un'infinità di gente solo
in apparenza lontanissima da questi argomenti, e che aspettas-
sero l'occasione buona per sbottar fuori.
È avvenuto cosi che una settimana dopo l'altra domande e
risposte venissero a formare una tal montagna di carta che
non si poteva buttar via; erano domande nate sotto l'impulso
d'una necessità immediata che esigevano risposte pronte, chiare,
risolutive, convincenti, domande il piu delle volte intorno a pro-
blemi che nessuna grammatica s'era mai data la pena o aveva
avuto l'occasione di discutere e di risolvere. Le grammatiche, si

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sa, devono seguire schemi pm o meno fissi e generali, e non
possono sempre fermarsi su casi singolari, su difficoltà formali
spesso imprevedibili, su problemi a volte addirittura personali,
proprio quei problemi che lasciano bene spesso col pennino in
aria chi si accinge a scrivere anche una semplice lettera com-
merciale.
Questo spiega perché da piu parti mi sia stato ripetutamente
rivolto l'invito a raccogliere ordinatamente e organicamente il
succo di questo dialogo disperso per centinaia e centinaia di
colonne di giornale. E una volta accettato l'invito, ne è venuto
fuori questo volume, che non può quindi considerarsi una
grammatica nel senso tradizionale della parola, . ma soltanto -
come è scritto appunto nel titolo - un'aggiunta alla grammatica,
un supplemento pratico alle comuni grammatiche che vanno
per le scuole. Un volume, voglio aggiungere, che mi sono stu-
diatamente sforzato di liberare il piu possibile di quella plum-
bea austerità che hanno piu o meno tutte le grammatiche (le
regole grammaticali, amici miei, non son materia, no, da show
televisivo!), facendone piuttosto un consigliere bonario, chiaro
e convincente, una specie di casalingo « ricettario » linguistico
al quale ricorrère senza timorato rispetto ma con fiduciosa
semplicità.
Se ci sarò riuscito, tanto meglio per me e soprattutto per
il lettore.
Aldo Gabrielli
Si dice o non SI dice?
I
Maiuscole e minuscole
Maiuscole nei nomi comuni.
Vecchia questione, dove non sarà mai possibile mettersi d'ac-
cordo. La grammatica dice una cosa che sappiamo tutti: si scri-
vono con l'iniziale maiuscola tutti i nomi propri di persona e
di cosa; e questa, si, è una regola categorica. Ma il guaio è che,
fatta eccezione dei nomi di persona e di luogo, non c'è una regola
fissa che stabilisca quando un nome comune può diventar pro-
prio e quando no. Moltissimi sono infatti i nomi comuni, e
quindi scritti solitamente con la minuscola, che in un contesto
acquistano il valore di nomi propri; prendiamo come esempio
stato, novecento, libertà, bilancia; se è giusto scrivere « essere
in cattivo stato», « novecento lire », « combattere per la liber-
tà », « i pesi della bilancia», dovremo invece scrivere «lo Stato
italiano, « l'arte del Novecento», « la statua della Libertà», « il
segno zodiacale della Bilancia »; e questo perché, come avvertt
ancora la grammatica, questi nomi hanno subito una personi-
ficazione, cioè non esprimono piu un concetto generale, pro-
prio dei nomi comuni, ma un concetto singolo, isolato entro una
determinata categoria di cose comuni. Sono diventati, cioè, nomi
propri, come Mario, come Roma, come Sicilia.
Sembrerebbe davvero una regola facile; ma proprio sul con-
cetto di personificazione non sempre è possibile andare d'ac-
cordo. Cosi accade che, mentre la grammatica vorrebbe che si
scrivesse, per esempio, «l'Italiano è portato alla musica», « l'u-
morismo degli Inglesi», perché i due aggettivi italiano e inglesi
diventano come il nome proprio di un singolo individuo o di
un gruppo di individui considerati come un tutto a sé stante;
accade, dicevo, che un gran numero di persone scrive anche in
questo caso i due aggettivi con la minuscola.
Prendiamo ora la parola Dio: sempre con la maiuscola, si

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capisce, per indicare l'essere supremo creatore dell'universo;
«Pregare Dio», «Il Dio degli Ebrei»; ma, avverte là gram-
matica, sempre con la minuscola quando si tratta di una divi-
nità pagana, tanto piu che in questo caso abbiamo non solo
un femminile dea, ma anche i plurali dèi e dee. Tutto semplice.
E invece, incontriamo assai spesso anche qui la maiuscola: « la
Dea Venere », «i sommi Dèi ».
Per Sole, Terra e Luna, che sono certamente nomi propri
quando indicano i tre corpi celesti, la grammatica raccomanda
che si scrivano sempre con -la minuscola fuori del linguaggio
strettamente scientifico; perciò: « la Terra gira intorno al Sole
e ha come satellite la Luna »; ma «la terra imbruniva mentre
il sole calava all'orizzonte, e già sorgeva la luna». Eppure, son
nomi che s'incontrano con la maiuscola anche fuori dell'astro-
nomia, e gli esempi classici abbondano, e il caro amico Fabio
Tombari, scrittore fine e avveduto, ha condotto una battaglia "'-.
serrata per convincerci a scrivere Sole, Terra e Luna sempre con
la maiuscola; e mi duole sinceramente di non potergli dare
ragwne.
Ma dove la confusione rimane davvero grande è in quei casi
in cui con le maiuscole si vuole addirittura esprimere un sen-
timento personale di rispetto, di devozione, di ammirazione,
s'intende piu o meno sincero e sentito; il compianto Camilli
le chiamava « maiuscole reverenziali »; i casi, insomma, di
papa, re, imperatore, ministro, duca, presidente, ecc., nomi
che indicano dignità, titoli di onore. Si tratta propriamente di
nomi comuni, e si scriverà correttamente «l'elezione del nuovo
papa >>, «la residenza del vescovo»; ·ancora con la minuscola
quando il titolo è seguito dal nome: «papa Paolo VI », « il
conte Confalonieri ». Però la grammatica consiglia di usare la
maiuscola in quei casi in cui si indica col titolo la persona
stessa che lo incarna: « Il Papa ci ha benedetti », « Parlò il
Presidente », «Entrò il Conte». Ma ecco che un ateo scriverà
papa in ogni caso, un monarchico sempre presidente, e ormai di
conti con la maiuscola non se ne incontrano che nei romanzi
del Sette e dell'Ottocento.
Non parliamo di nomi di istituzioni e di enti, di titoli di
opere e simili, dove spesso il nome è un composto di piu parole.
Scriveremo Repubblica francese o Repubblica Francese? Banca
commerciale italiana o Banca Commerciale Italiana? Anche qui
le opinioni sono discordi. Ma a me pare che gli elementi com-

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positivi del nome non essendo in nessun modo separabili, deb-
bano considerarsi tutti nomi propri e vadano perciò scritti con
la maiuscola; e scriverei anche «la casa editrice Arnoldo Mon-
dadori Editore» e non «la Casa Editrice Arnoldo Mondadori
editore » perché la ragione sociale, vero nome proprio della so-
cietà, è appunto « Arnoldo Mondadori Editore». E coi titoli
di opere come la mettiamo? ·scriveremo Orlando furioso o
Orlando Furioso? Corriere della sera o Corriere della Sera?
Anche qui propendo per le maiuscole, escludendo, s'intende,
gli articoli e le preposizioni articolate; se però l'articolo fa parte
integrante del titolo, sempre maiuscolo: I Promessi Sposi, Le
Novelle della Pescara, Il Gattopardo.
Ma sento già l'obiezione: e con certi titoli sesquipedali, che
pur non sono rari, come se la caverebbe? Per esempio, Niente
di nuovo sul fronte occidentale, di Remarque, Figurine del
mondo vecchio e del secolo nuovo, - di Panzini? Certo, dopo il
consiglio ora dato, c'è da rimanere interdetti. Vado a guardare
sul catalogo mondadoriano: tutte minuscole, salvo, s'intende, la
prima iniziale. E credo che sia la risoluzione migliore, perché
in certi casi è bene metter da parte la regola e guardare alla
logica: anche l'occhio vuolla sua parte. E poi, su una cosa credo
che tutti, grammatici e non grammatici, vadano d'accordo:
meno maiuscole useremo e tanto meglio sarà.

Minuscole nei nomi propri.


La televisione, nei lunghi e a volte eterni elenchi di nomi di
attori, autori, registi, tecnici eccetera, usa spesso scrivere que-
sti nomi propri con la lettera iniziale minuscola. Molti" mi chie-
dono: ma non è un errore? Rispondo: è un errore. Se c'è una
parte della grammatica (ho appena finito di dirlo) dove tutti
si sono messi da secoli d'accordo è proprio questa che riguarda
l'iniziale dei nomi propri, e non solo di persona ma anche di
cosa, che si distinguono dai nomi comuni appunto per l'iniziale
mai~scola: « Alessandro Manzoni » e non « alessandro man-
zoni », « Milano » e non « milano » come la televisione mostra
sovente di preferire. Si capisce che si tratta, diciamo cosf, di
un vezzo, di una piccola stravaganza formale scaturita dal cer-
vello estroso di un tecnico grafico in vena di novità a tutti i
costi. Ma trasferir questo vezzo su uno schermo televisivo, e

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con un'insistenza che sembra ormai rasentare la norma, può
rappresentare un'imprudenza grave ai danni dei meno avveduti,
non solo, ma anche di chi piu facilmente soggiace alla sugge-
stione del nuovo e dello strambo. Infatti quest'uso della mi-
nuscola nei nomi propri si va sempre piu trasferendo dallo
schermo televisivo (e a volte anche cinematografico) sulla nor-
male carta stampata, come mi è dato sempre piu spesso di
vedere sulle carte intestate, sui biglietti di visita, sui manifesti
e perfino sulle copertine dei libri. Mi spiace di dovere con
tanta frequenza muovere appunti alla nostra televisione, per
tanti aspetti meritevole di caldissimi elogi. Ma i nostri diri-
genti televisivi devono rendersi sempre conto della potenza
espressiva del mezzo di cui dispongono, e vigilarsi costantemente
anche in quelle che possono considerarsi minuzie, come appunto
una piccola iniziale minuscola puramente cervellotica messa al
posto di una ragionevole tradizionale iniziale maiuscola.

Piazze, vie, mari, laghi, monti ...


Continuiamo il discorso delle iniziali maiuscole per casi piu par-
ticolari. Diremo Piazza Dante o piazza Dante, Corso Roma o
corso Roma, Via Mazzini o via Mazzini? Si può scrivere, si
capisce, nell'uno e nell'altro modo, errore non si farebbe; ma
se ragioniamo un attimo mi sembra che le prime forme con
entrambe le maiuscole siano da preferirsi: Piazza Dante fa tutto
un nome; io non posso dire «Ci vediamo in Dante», nessuno
mi capirebbe; dunque la parola piazza è strettamente collegata
a Dante, diventando un nome unico, e un nome proprio: perciò
tutte imziali maiuscole come si fa con i nomi e i cognomi. Ana-
logamente scriveremo Corso Roma e Via Mazzini: chi direbbe
« Abito in . Roma al numero 24 >~ o « L'ho incontrato in Mazzini
ieri sera »?
Scriveremo Teatro alla Scala o teatro alla Scala? Palazzo Bar-
berini o palazzo Barberini? Palazzo Reale o palazzo Reale?
Anfiteatro Flavio o anfiteatro Flavio? Pensiamoci un po' su, e
vedremo che qui pure gli elementi costitutivi di ciascuna frase
non sono assolutamente separabili l'uno dall'altro senza creare
qualcosa che non indica nulla. Quindi a mio avviso sempre maiu-
scole. In particolare questo appare ovvio quando il secondo
elemento è addirittura un aggettivo, come in Palazzo Reale:

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reale preso a sé non indica certo un palazzo, allo stesso modo
che Flavio, nome proprio di persona, non può indicare anche
un anfiteatro.
Veniamo ora a certi nomi geografici. Scriveremo senza esi-
tare fiume Po ché solo Po è il nome proprio del fiume: «Una
remata sul Po »; scriveremo ugualmente bene il fiume Adige
e il torrente Scrivia; ma dovremo scrivere, non ci son dubbi,
il Fiume Azzurro, il Fiume Giallo, ché «una remata nell'Az-
zurro o nel Giallo» farebbe spalancare gli occhi all'ascoltatore.
L'aggettivo, insomma, da solo non può creare il nome di un
luogo: perciò anche Monte Bianco, Monte Rosa, Monte Nero,
Lago Maggiore, Mar Rosso, tutte maiuscole; ma potremo scri-
vere il monte Etna ( « l'eruzione dell'Etna » va benissimo), il
monte San Gottardo ( « la galleria del San Gottardo » ), e anche
il lago di Garda ( « una gita sul Garda » ), il lago Trasimeno
( « le isole del Trasimeno » ), ecc.
Ci son tuttavia dei casi dove anche l'aggettivo può stare a
sé, può far da nome proprio: e avviene quando l'uso continuato
di questo aggettivo ha portato alla sua sostantivazione, e quindi
alla sua capacità di far da nome proprio: è il caso dell'Oceano
Atlantico, dell'Oceano Pacifico, del Mare Adriatico, del Mare
Tirreno e di tanti altri mari che possiamo tranquillamente sem-
plificare in Atlantico, Pacifico, Adriatico e Tirreno senza téma
alcuna di non essere capiti.

Le consonanti venute di fuori.


Diciamo meglio consonanti non specifiche del nostro alfabeto.
Sono cinque: la j (i lunga), la k (cappa), la x (ics), la y (fpsilon)
e la w (vu doppia). Solo la w può considerarsi straniera in
senso stretto, ché non fece mai parte del nostro alfabeto, men-
tre la j fu usata fin dal latino medievale, e poi, nel Cinque-
cento, venne introdotta anche nell'italiano; la x ci viene dal
latino fin dal periodo classico, e anche dal greco, sia pure con
diverso sègno; la k e la y ci vengono pur esse dall'alfabeto
greco e latino; tutte lettere, dunque, di stretta cuginanza.
Che uso faremo oggi di queste consonanti? Dico subito, un
uso molto molto ridotto, sempre che non si debba, natural-
mente, trascrivere una parola nella sua forma originaria. Esami-
niamole rapidamente una per una .

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La ; si usava in passato in alcuni preCisi casi: quando era
iniziale di parola seguita da vocale, come in jattura e jeri;
quando era iniziale di sillaba nell'interno di parola, come in
fornajo e cesoje; come terminazione plurale dei nomi in -io
àtono, come studj, varj, fornaj. Oggi tutto questo non piu . La i
resta solo in certi nomi propri per ragioni tradizionali, storiche
o anche soltanto anagrafiche, come ]àcono, Ojetti, Rèjna, Pistoj,
e solo in questi casi io consiglierei di rispettarla; in nomi propri
di paesi, regioni e simili e in certi nomi comuni dove l'uso della
j è del resto molto oscillante, piu che altro affidato al gusto
o all'abitudine di chi scrive, io direi di abolirla affatto: Aja,
ma meglio Aia, Jesi, meglio Jesi, e cosf Ionio, Iugoslavia , iodio,
iuta, iunior, invece di Jonio, Jugloslavia, jodio, juta, junior.
La k. Ci viehe come ho detto dal'alfabeto greco e latino, col
suono di c gutturale. Ormai da noi resta solo in alcuni simboli
della scienza e della tecnica (km, chilometro, kg, chilogrammo,
K maiuscola come simbolo del potassio, dal latino kàlium, ecc.).
Manterremo naturalmente questo segno nei nomi stranieri tra-
scritti come tali (Kaiser, Kirsch, Kursaal, Krapfen; Kiimmel,
Kant, Keplero, ecc.), ma la aboliremo, sostituendola col c guttu-
rale, in tutte quelle parole piu o meno italianizzate e ormai salda-
mente assimilate nel nostro lessico, si da considerarsi italiane
(cachi, invece di kaki, caiaco o caiacco invece di kaiak, capòc in-
vece di kapoc, caracùl invece di karakul, chepf o cheppi. invece
di képi, chimono invece di kimono, clacson invece di klaxon,
cherosene invece di kerosene, ecc.).
La x, consonante del greco e del latino, col suono di ics,
sopravvive in certi nomi propri come Ximenes, Bixio, Oxilia,
Xanto (ma Carducci scrisse Csanto1 ecc. Essendo però lettera di
suono aspro, contrario alla morbidezza del nostro idioma, si
tende sempre piu a evitarla sostituendola con una s di suono
sordo o con una doppia s: come in bauxite, uxoricida e uxoricidio
che s'incontrano anche scritti baussite, ussoricida e ussoricidio,
e piu frequentemente in tassi invece del francese taxi. Ma la
x è soprattutto frequente in principio di parole per lo piu di
origine greca, come xenòfobo, xilòfono, xilògrafo, ecc. dove
l'uso sempre piu dimostra di preferire - ed è una preferenza
da raccomandare - la semplice s tutta italiana: senofobia per
xenofobia, senòfobo per xenòfobo, serografia per xerogra/ia,
silèma per xilèma, silofagia e silòfago per xilofagia e xilòfago,
silòfono per xilòfono, silografia, silogràfico e silògrafo per xilo-

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grafia, xilogràfico e xilògrafo, silòide per xilòide, silolite per xilo-
lite, siloteca per xiloteca, e poche altre. Frequenti nella nostra
lingua sono poi le preposizioni latine ex ed extra, usate come
prefisso in frasi del tipo ex-deputato ed extrafino; ma qui pure
si tende ad addolcire la x di extra (per la semplice ex non sa-
rebbe possibile essendo sempre usata separatamente e mai fusa
con la parola che segue); cosi, invece di extrafino si dirà estra-
fino o addirittura strafino, invece di extradotale si dirà estra-
datale o stradotale, e analogamente scriveremo estraconiugale,
estracontrattuale, estragiudiziale o stragiudiziale, estralegale, estro-
parlamentare, estrapolare, estraterritoriale, estravagante, ecc.
Greca anche la y (c'è chi la chiama alla francese i greca), che
tende a sua volta a scomparire dal nostro alfabeto. Si eccettuano
i soliti nomi propri, come Scotland Yard, Nuova York, Yorick,
ecc. e quei nomi comuni non assimilati che perciò vengono
trascritti nella loro forma originale: yachts, yak, yankee e pochi
altri. In tutti gli altri casi, ove sempre piu si afferma la forma
italianizzata, la y si sostituirà con la semplice i: iamatòlogo per
yamatòlogo, iarda per yard, iatagan per yatagan, ioga per yoga,
iogurt per yoghurt, iole per yole, iprite per yprite, iucca per
yucca e qualche altro. Ci son poi certe ragazze snobiste che
mettono il loro orgoglio in una y da infiorarne il loro nome,
come Lydia invece del comunissimo Lidia, e Myriam invece di
Miriam. Dopo i diciott'anni queste fanciullaggini non saranno
piu permesse.
Resta l'ultima lettera, w, questa sf, come ho detto, schietta-
mente straniera. Comune nelle parole tedesche dove si legge
come il nostro v (Wagner, Wagram, .Wiirstel) e inglesi, dove
dovrebbe pronunciarsi come una nostra u (William, Wisconsin ,
wafer, whisky), in molte parole straniere da tempo assimilate
si sostituisce meglio con la semplice v; valchiria per walchiria o
walkiria (forme né italiane né tedesche), valzer invece di walzer,
vàpiti invece di wàpiti, vol/ramio invece di wolframio, ecc. An-
che in alcuni nomi propri l'italianizzazione preferisce Vanda
a Wanda, Vilma a Wilma, Volfango a Wolfango , ma spesso
trova resistenza negli interessati per il solito snobismo di cui
sopra.
II
Accenti obbligatorii, facoltativi e sbagliatl
Accenti obbligatorii.
In materia di accenti c'è da avvertir subito che la lingua italiana,
a mille e passa anni da quando è nata, è ancora un caos, un
tiremmolla, un pasticcio. E questo perché nessuno si è preso
mai la briga di sistemar le cose una volta per tutte, come han
fatto da tempo altre lingue, la francese e la spagnola per esem-
pio. In attesa che qualcuno pensi autorevolmente e definitiva-
mente a occuparsene, cercherò di mettere un po' d'ordine nella
faccenda, rifacendomi un po' alle grammatiche, un po' alle norme
sul segnaccento emanate dall'UNI (Ente per l'Unificazione Ita-
liana) e dirette in particolare agli editori e ai tecnici tipografici,
e un po' rifacendomi, infine; alla pratica e al buon senso.
Oggi come oggi, mi sembra che gli accenti nella nostra lin-
gua possano dividersi in tre distinte categorie: accenti obbli-
gatorii, accenti facoltativi, accenti sbagliati.
Sono obbligatorii quegli accenti che a non usarli si commette
errore di ortografia; sono facoltativi quegli àccenti che usati
secondo il giudizio e il gusto personale di chi scrive, servono
opportunamente a evitare ambiguità di senso o di lettura; sono
sbagliati quegli accenti che vengono collocati senza scopo alcuno
e, nel migliore dei casi, servono solo ad appesantir la scrittura.
Esaminiamoli particolarmente.

L'accento è obbligatorio:
l. su tutte le parole di due o piu sillabe tronche in vocale:
libertà, perché, fini, abbandonò, laggiu;
2. sulle parole monosillabe terminanti con due vocali di cui
la seconda ha suono tronco: chiu, ciò, diè, già, giu, piè, piu, può,
scià; però su qui e su qua, ricordiamocelo, l'accento non va (e
vedremo piu avanti il perché);

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3. sui seguenti dieci monosillabi per distinguerli da altri mo-
nosillabi di identica forma i quali, non accentati, hanno un
significato del tutto differente:
- ché, poiché, perché, congiunzione causale («Andiamo ché si
fa tardi ») per distinguerlo da che, congiunzione e pronome
( « Sapevo che eri malato», « Can che abbaia non morde » );
- dà, indicativo presente di dare (« Non mi dà retta ») per di-
stinguerlo da da, preposizione, e da', imperativo di dare («Viene
da Roma », « Da' retta, non partire » );
- di, giorno («Lavora tutto il df ») per distinguerlo da di,
preposizione e di', imperativo di dire ( « È l'ora di alzarsi»,
«Di' che ti piace»);
- è verbo ( « Non è vero ») per distinguerlo da e congiunzione
(«Io e lui»);
- là, avverbio di luogo ( « È andato là ») per distinguerlo da
la articolo, pronome e nota musicale ( « Dammi la penna », « La
vidi», « Dare il la all'orchestra » );
- lf, avverbio di luogo ( « Guarda lf dentro ») per distinguerlo
da li articolo e pronome («Li 24 ottobre », « Li ho visti»);
- né congiunzione ( « Né io né tu ») per distinguerlo da ne pro-
nome e avverbio ( « Ne ho visti parecchi », « Me ne vado su-
bito » );
- sé, pronome personale tonico ( « Lo prese con sé ») per di-
stinguerlo da se pronome àtono e congiunzione (« Se ne prese
la metà», « Se lo sapesse » );
- si, avverbio di affermazione o « cosf » ( « Si, vengo», « Sf
bello e sf caro ») per distinguerlo da si pronome ( « Si è ucciso » );
- tè, pianta e bevanda («Piantagione di tè», «Una tazza di
tè ») per distinguerlo da te (di suono chiuso, « té ») pronome
(«Vengo con te»).

L'accento è facoltativo, cioè dipende dal solo giudizio o gusto


di chi scrive, in tutti quei casi in cui può servire a evitare
ambiguità di senso o di pronunzia. Il caso piu frequente è quello
dell'accento sulla forma sdrucciola di una parola di significato di·
verso quando sia pronunziata piana: nèttare e nettare, compito e
compito, subito e subito, càpitano e capitano, àbitino e abitino,

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àltero e altero, àmbito e ambito, àuguri e auguri, bàcino e
bacino, circtiito e circuito, frustino e frustino, intuito e intuito,
malèdico e maledico, mèndico e mendico, nòcciolo e nocciolo,
rètina e retina, rubino e rubino, séguito e seguito, viola e viola,
vituperi e vituperi, eccetera eccetera. Si tratta di accenti utilis-
simi che vanno a vantaggio di chi legge, sempre che siano usati,
s'intende, a ragion veduta.
Accenti facoltativi, utili sempre e a volte addirittura neces-
sari, sono quelli che segnano la posa della voce sulle termina-
zioni in -io, -ia, -ii, -ie, come fruscio, tarsia, fruscii, tarsie, e
ancora: lavorio, leccornia, gridio, albagia, godio, gemitii, vi-
brio, brillio, codardia, e via per centinaia di casi. Necessari son
poi, come dicevo {e io li catalogherei addirittura tra gli obbli-
gatorii), in certi vocaboli di ugual forma ma che con diversa
accentazione cambiano a volte addirittura di significato; è il
caso di abbaglio e abbaglio, abbaio e abbaio, balla e balia, bacio
e bacio, gorgheggio e gorgheggio, colonia e colonia, gorgoglio e
gorgoglio, raschio e raschio, sdrudo e sdrucio, regia e regia,
eccetera.
Un'altra categoria di accenti facoltativi, questi detti propria-
mente fònici, è quella che avvia subito alla corretta pronunzia
delle vocali e ed o nell'interno di una parola la quale con la
pronunzia aperta ha un significato e con la pronunzia chiusa ne
ha un altro: foro, buco, fòro, piazza, téma, timore, tèma, argo-
mento, mèta, fine, méta, sterco, còlto, da cogliere, colto, istruito,
ròcca, fortezza, rocca, arnese per filare, ecc. Ma qui soprattutto
abbisogna cautela: chi ha dimestichezza con questi accenti acuti
e gravi, se ne serva pure, anche con larghezza; ma chi dime-
stichezza non ha, se ne tenga distante, o consulti bene prima
un dizionario.

E infine, ecco gli accenti sbagliati, e considero sbagliati gli


accenti inutili, che a metterli non si chiarisce nulla, che non
servono a nulla, perché non rispondono a nessuna esigenza di
senso o di pronunzia. Perciò è vero e proprio errore scrivere
« dieci anni fà », accentando il fa verbale che non potrà mai
confondersi con la nota musicale; come sarebbe errore scrivere
(e alcuni lo fanno trascinati dal suono tronco) «non lo sò »,
« cosi non vit » accentando senza ragione il so e il va.

2.3
Qui e qua.
La grammatica afferma che l'accento è prescritto in quei mono-
sillabi dove la vocale finale tònica è preceduta da un'altra vo-
cale: piu, giu, già, ciò, piè, chiu, ecc. Benissimo: ma allora
perché la stessa grammatica dice che scrivere qui e quà con
l'accento è errore da matita blu?
È un ragionamento serrato, che vorrebbe mettere la gramma-
tica, come sportivamente si dice, alle corde; ma non è cosf. In-
fatti la lettera q non si scrive mai isolatamente ma sempre ac-
compagnata dalla vocale u, formando il nesso inscindibile qu
a cui si fa sempre seguire una seconda vocale con la quale fa
sillaba; qua-le, q·ue-sto, quin-to, quo-ta. Inoltre, su questa u servile
della consonante q non cade mai l'accento. lq altre parole, è
una vocale che non è vocale a sé ma un elemento stesso della
consonante. E allora ecco che si segue per qui e per qua quel-
l'altra regola che dice: i monosillabi formati di una consonante
e di una vocale non si accentano mai: re, fa, tu, su, no, me,
te, lo, ecc. Si fa eccezione solo per quelle coppie di monosillabi
che hanno ugual forma ma significato diverso: è verbo, e con-
giunzione, dà verbo, da preposizione, ecc. come sopra s'è visto.
Qua, qui, accento o non. accento, si leggeranno sempre come si
leggono; invece piu, già, ciò, piè senza accento si leggerebbero
soltanto « pfu », « gfa », «do», « pfe ».

Dò, dài, dà ...


In fatto d'accenti, lo abbiamo visto, l'italiano non ha sempre
regole fisse. Il caso del verbo dare è uno dei tanti in cui cia-
scuno si regola come vuole. Le grammatiche prescrivono di limi-
tare l'accento alla sola terza persona singolare dell'indicativo
presente: egli dà. Invece poi, nell'uso, incontriamo accentate
anche la prima e la seconda persona singolare, io dò, tu dài,
e la terza plurale, essi dànno. Ho sempre sostenuto che un
accento in piu non guasta mai. Guardate che seminfo d'accenti
fanno i Francesi e gli Spagnoli. Gli stessi nostri scrittori vanno
a loro gusto: « La tessera l al secco taglio dài de la guardia»
(Carducci); <<Questo danno ci dài, questo scorno l ci dài »
(D'Annunzio); «I Malatesti non dànno quartiere» (D'Annun-
zio); «Se gli dài i biglièttoni da mille» (Moravia); «Sì dànno

24
al fuoco i casotti del dazio» (Carlo Levi). Il grande dizionario
del Battaglia accenta le forme dài, dà, dànno, però l'imperativo
dai lo fa senza accento: forse una dimenticanza; il «Dizionario
enciclopedico italiano » consiglia anche la form'l accentata io dò.
Regole fisse, dunque, non ce ne sono; ma se dovessi dare un
consiglio direi: accentate piu che potete, non fa male all'occhio,
ed evita qualche errore. D'Annunzio accentò perfino il passato
remoto désti: «Fiori tu désti alla città natale», certo per avver-
tire subito l'occhio della giusta pronunzia chiusa della vocale e.

V entitré, lungopò ...


Un ingegnere di Agrigento mi scrisse un giorno molto cortese-
mente per rammentarmi quel che avevo detto altra volta a pro-
posito dei composti del numerale tre, come ventitré, trentatré,
quarantatré e via all'infinito; avevo detto che questi composti
vogliono sempre l'accento, anche se il numerale tre, preso iso-
latamente, l'accento non lo vuole. Aggiungeva l'ingegnere: « Co-
me si spiega allora che alcuni autori, anche importanti, su libri
e su giornali, scrivono ventitre e trentatre senza l'accento? »
Rispondo: padronissimi codesti autori di scrivere ventitre senza
l'accento, ma resta il fatto che scrivendo cosi commettono un
errore di ortografia.
Potrei anche informare i miei contraddittori che lo stesso
Carducci trascurò l'accento, cosf come negli ultimi anni tolse
l'accento anche al suo nome Giosue; trascurò l'accento anche
il D'Annunzio, sebbene non costantemente; ma con tutto il ri-
spetto dovuto a questi grandi poeti, debbo ribadire che ventitré e
quarantatré e tutto il resto quando non vengano accentati; errori
sacrosanti restano e non c'è grandezza che possa giustificarli. Per·
ciò mi ha meravigliato che il famoso DOP (Dizionario d'ortogra-
fia e di pronunzia) edito dalla Rai, sempre raccomandabile per la
sicurezza e la severità dell'informazione, in questi e in altri simili
composti abbia inopinatamente allargato la manica, avvertendo,
accanto alla forma ventitré accentata, che questa forma è «meglio»
che ventitre senza l'accento; e accanto al trentatré e quarantatré,
ecc. che è «meno bene» scrivere trentatre e quaranta/re disaccen·
tati. In libri come questo, che voglion essere qualcosa come il co-
dice della corretta scrittura e pronunzia, a me pare che non
dovrebbero trovar luogo i « meglio» e i « meno bene », nota-

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zioni che quando non convalidano addirittura un errore, come
nel caso nostro, ad altro non servono che a perpetuare tutti
gli infiniti irre e orre della nostra ortografia, ancora fondata,
dopo secoli e secoli, sull'opinione di chi la usa.
Tutto questo discorso parte da una regoletta elementare, che
abbiamo visto piu sopra, per la quale nella nostra lingua tutte
le parole tronche in vocale, dal bisillabo in poi, vanno sempre
accentate. È una semplice legge grafica fondamentale felicemente
introdotta nella nostra scrittura fin dal Cinquecento, e bisogna
rispettarla; non si può fare eccezione per un ventitré, non ci si
può arzigogolare intorno con i « meglio » e i <<meno bene».
A proposito di questo tipo di accento ci fu un altro giorno
un tale, torinese, che mi rovesciò addosso gravi parole di
deplorazione perché avevo sostenuto che anche il . composto
lungopò richiede sempre l'accento, perché, se fosse senza ac-
cento non altrimenti potremmo leggerlo che « lungòpo », oppure
<< lungopo », se si preferisce. Mi disse che quel Po, nobile fiume,
con quel segnetto sopra non poteva assolutamente accettarlo.
Padronissimo di non accettarlo (poteva tuttavia scrivere lungo
Po, cosf come qualcuno scrive lung'Arno e lungo Tevere); però
vorrei ora chiedere a lui e a tutti i sostenitori del ventitre
disaccentato, come si regolano poi con parole del tipo viceré,
autogru, rossoblu, nontiscordardimé (cito quelle che mi vengono
sulla penna) le quali, per coerenza coi loro principii ortografici,
dovrebbero essere scritte tutte senza l'accento. E sempre per
coerenza, penso che dovrebbero abolire l'accento anche su molte
altre parole di composizione analoga ai nostri ventttré e lungopò;
per esempio, tutti i composti di che: altroché, benché, fuorché ,
sicché, giacché, e gli stessi perché e poiché, e poi lassu e quassu
e ahimè, e chissà ... Dice bene il Migliorini che <<l'ortografia deve
mantenere una sua coerente simmetria»: se scriviamo perché
per non leggere « pèrche », se scriviamo. lassu per non leggere
« làssu », è necessario scrivere ventitré, lungopò, viceré e auto-
gru per non leggere « ventftre », « lungòpo », « vicère » e « autò-
gru ». Non ci son santi!

26
Sé stesso, sé medesimo.
Una delle regolette fasulle piu dure a morire, e che le gram- ·
matiche continuano monotona:mente a tramandarsi l'un l'altra,
e molti scrittori, anche grandi scrittori, continuano scrupolosa-
mente ad applicare, è questa che dice: il pronome sé si accenta
sempre quando è isolato: «se lo porta con sé», per distinguerlo
dal primo se che è congiunzione; invece non si accenta davanti
a stesso e stessa, medesimo e medesima perché questa distin-
zione non è piu necessaria; però un momento: bisogna ugual-
mente accentarlo al plurale, e scrivere sé stessi e sé stesse
per non scambiarli con le forme verbali di stare; invece se mede-
simi e se medesime vanno sempre senza accento perché ·la con-
fusione, di nuovo, non è possibile ...
Se la nostra grammatica non fosse infarcita di queste sotti-
gliezze confusionarie, non sarebbe forse quella reietta che è.
Vorrei ripetere a tutti quelli che mi leggono, e in particolare ai
numerosi insegnanti ancora impastoiati in queste cianciafruscole,
che una volta stabilito che il sé pronome si deve scrivere ac-
centato per distinguerlo, come è giusto, dal se congiunzione
(e l'esempio sopra citato ne dimostra la necessità), non si capisce
poi perché uno stesso e un medesimo che seguono debbano
modificare questa regola. Si fanno forse eccezioni tra il sz affer-
mazione e avverbio e il si particella pronominale? Sempre ac-
centato il primo, mai accentato il secondo. Seguiamo dunque
una norma comune, e la regoletta fasulla andrà finalmente a farsi
benedire.

Il « sii » con l'accento.


In un romanzo di Riccardo Bacchelli si trova questa frase: « Su,
Agata, abbi coraggio». Quel su avverbiale con tanto di accento
è legittimo?
Legittimissimo, anche se non molto comune. In effetto, fra
ii su preposizione e il su avverbio c'è una notevole diversità
di suono. Il su preposizione è generalmente àtono: « Méttilo
su una tavola », « Guarda su quel monte ». Invece il su avver-
biale è fortemente tònic~: « Méttici su una tavola », « Guarda
su verso il monte». Questa maggior posa della voce alcuni
preferiscono segnarla anche visivamente con l'accento: « Lèvati

27
su», «Va su a vedere», «E meglio riderei su», «Metter ~u
casa», e simili. Anche perché, a volte, l'accento può tornar utile
per evitare confusione di senso: «Metti su una tovaglia ».
Il caso è raro, ma può accadere. È insomma uno di quegli ac-
centi che abbiamo definiti utili. Oltre al Bacchelli, usano l'av-
verbio su accentato (ma non mi sembra costantemente) il Pan-
zini, il Pirandello, il Bontempelli, il Monelli, il Landolfi e
qualche altro, per citar solo quelli che mi vengono in mente:
«Guardai in su le due file delle finestre» (Panzini); «Non
c'era che da tirar su lo sportello della gabbia» (Pirandello);
« Si precipitava a tenerla su » (Bontempelli).
E a proposito di su in funzione di preposizione, voglio accen-
nare a due forme antiche, ma sempre vive, sia pur rare: la
sur eufonica e la s' elisa davanti a vocale u- iniziale di parola
(s'un, s'una). Il Manzoni usò costantemente la sur prevocalica :
<< sur un panchetto», << sur una seggiolaccia )>, « sur un tavolino)>,
« sur una parte del pavimento», eccetera. Ma anche tra gli
scrittori piu recentl esempi se ne trovano: « sur un alto pioppo »
(Pascoli); «chi sur un sasso, chi sur un sacco a terra» (Sòf-
fici); « sur una scena » (Baldini). E nel Carducci leggiamo:
« s'una picca ».

Il circonflesso.
Due paroline potremo spenderle anche per questo particolare
accento, che ha, come sapete, la strana forma di una v rove-
sciata, ~ , e che va sempre piu scomparendo dall'uso. Si in-
contra ancora, ma anche qui di rado, nella poesia, per indicare
una sincope, cioè la soppressione di una sillaba nel corpo di
una parola: corre per cogliere, torre per togliere, féro per fecero,
losco per tossico, e cosi via; o anche per indicare un'apòcope,
cioè la soppressione di una sillaba in fin di parola: furo per
furono, amaro per amarono, perdéro per perderono, ecc. Ma
qual poeta moderno si attenterebbe piu a usare un corre, un furo
e un perdéro? E se anche li usassero preferirebbero forse ri-
correre anche qui ai due soliti accenti acuto e grave, secondo
la pronunzia: féro, perdéro, còrre, tòsco.
Il circonflesso resiste invece di piu (e meglio lo vedremo
parlando dei plurali) per indicare la contrazione in una delle
due i nascenti dal plurale dei nomi in -io con la i non accentata:

28
vari invece di varii, studi invece di studii, armadi invece di ar-
madii. Ma anche in questo caso il circonflesso appare inutile,
bastando una semplice i quando non sia possibile una confu-
sione di senso: vari, studi, armadi. Nei casi di senso incerto,
molti preferiscono addirittura la doppia i: assassinii, plurale
di assassinio, ma assassini plurale di assassino , ammalii, da amma-
liare, ma ammali da ammalare.

Due segni, due suoni.


Non tutti, anche quelli che insegnano grammatica, fanno gran
caso al fatto che la nostra lingua può disporre di due specie
di accenti tònici. uno che va da sinistra verso destra, , e uno
che va da destra verso sinistra, . Il primo si dice accento
grave , perché serve a indicare il suono largo o aperto di due
vocali, la e e la a, il secondo accento acuto, perché serve a
indicare il suono chiuso o stretto delle stesse vocali. Questi
accenti , in questa loro particolare funzione, assumono piu pre-
cisamente il nome di accenti fònici. Queste cose non c'è gram-
matica che non le dica; ma in pratica quanti sono che ne ten-
gono conto? Eppure si tratta di due segni niente affatto tra-
. scurabili, per il fatto che servono non solo a indicare la sillaba
tònica, quella sillaba cioè dove la voce deve posarsi pronun-
ziando quella determinata parola, ma anche il suono corretto
che dobbiamo darle nel pronunziarla. Tutto ciò, ripeto, riguarda
nella nostra lingua · solo il suono delle due vocali e ed o. Perciò
se io scrivo caffè, quell'accento grave segnato sulla vocale
tronca è mi fa sapere che essa va pronunziata correttamente
aperta; se invece scrivo perché vuoi dire che la é finale va
pronunziata correttamente chiusa. Ne viene come logica conse-
guenza che se scrivessi « perchè » non potrei pronunziare altri-
menti che con un suono finale aperto, e perciò scorretto; analo-
gamente dovrei pronunziare scorrettamente chiusa la vocale finale
di « caffé » se la scrivessi con l'accento acuto. Sarebbe quindi
piu che opportuno se anche scrivendo a mano o a macchina
ci abituassimo a usare i due diversi accenti secondo il suono
che dobbiamo dare alla sillaba tonica in vocale e. Lo stesso
ragionamento vale per la vocale o, che in sillaba finale tronca
ha quasi costantemente il suono aperto: però, amò, falò, ma che

29
nel corpo della parola può a volte avere anche suono chiuso,
come in f6ro, colto, c6mpito, ecc.
Ma chi si prende cura di tutto questo? Purtroppo certi avver-
timenti della grammatica sono ritenuti, anche da persone di
buoni studi, trascurabili pignolerie; ma se questo potremo per-
donarlo, che so, a un ingegnere o a un medico, non mi par
tollerabile in un insegnante di grammatica. Se fin dalle scuole
elementari si insegnasse a scrivere, per quanta è lunga l'Italia,
perché, né, trentatré, e poi cioè, caffè e Mosè, per indicare i
due diversi modi di pronunziar correttamente la vocale e,
si potrebbe forse ottenere, a lungo andare, quella uniformazio-
ne di pronunzia che è sempre stato il problema serio del no-
stro linguaggio. Un Milanese, che cominciasse a scrivere fin dai
sei anni perché avrebbe certo una buona guida visiva per cor-
reggere il naturale « perchè » del suo dialetto. Si obietterà:
ma quanti degli stessi insegnanti, specialmente delle regioni
settentrionali e meridionali, conoscono esattamente la pronun-
zia della e e della o tònica? Non tutti, siamo d'accordo; ma il
rimedio mi sembra ovvio: ricorrano, dove sono incerti, al voca-
bolario, e la lezioncina servirà a lungo andare anche per loro.
Pesavano a me pure, quando ero studente, le sottigliezze
grafiche e foniche che mi inculcavano i miei grandi maestri
Adolfo Gandiglio e Manara Valgimigli; parevano a me pure sotti-
gliezze da pedanti; ma poiché anche gli errori d'accento conta-
vano sul totale, e fioccavano i tre e i quattro anche in compiti
letterariamente sufficienti, imparai presto, e come, il valore di
quei due semplici segnetti; e ora essi mi vengono spontanei
sulla penna come mi vengono spontanei tutti i segni dell'alfa-
beto. Bisogna dunque insistere anche su queste apparenti mimi-
zie, e vorrei che gli insegnanti, soprattutto i piu giovani, mi
ascoltassero.
Quando, nel lontano 1925, come responsabile della cura tec-
nica dei volumi, mi ardii di introdurre in tutte le edizioni
Mondadori l'accentazione fonica, seminando di acuti e di gravi
opere di illustri autori, si scatenò un putiferio; non già tra gli
autori stessi, che furono anzi lietissimi dell'innovazione, ma
fra i tipografi compositori che videro sconvolta una loro lunga
indisturbata tradizione,' ch'era quella di accentare sempre, in
ogni caso, col segno del grave. Ma avendo l'editore stesso ac-
cettato la mia proposta, i tipografi, prato alla testa, dovettero
piegarsi al nuovo sistema. Non dico questo per stupida vanità,

30
si capisce, ché io non feci che seguire l'esempio degli editori
Zanichelli e Laterza dai quali rispettivamente il Carducci e il
Croce avevano da tempo ottenuto l'accentazione fonica delle
vocali e ed o nelle loro opere; lo dico solo per dimostrare una
volta di piu che ogni novità, quando è fondata sull'utilità e sul
buon senso, ed è applicata coraggiosamente e tenacemente so-
stenuta, finisce sempre col trionfare. Al punto che oggi non
c'è editore, e neppur rivista e perfino quotidiano - quelli al-
meno che hanno alle spalle direttori e redattori di buona cul-
tura e aggiungerei di buon gusto - che non abbiano adottato
l'uso dell'acuto e del grave, secondo la corretta pronunzia.
E per finire questo argomento degli accenti, aggiungerò che
sulla vocale a, che ha sempre per natura suono aperto, l'accento
da usarsi non creerà problemi: sarà se.mpre grave, come in città,
verrà, là, càpita, àncora. Qualche discussione si potrebbe fare
sull'accentazione delle vocali i ed u, che avendo per natura
suono chiuso, dovrebbero, per coerenza, essere sempre accen-
tate acute: li, fini, laggiti, Peru; e questo è il sistema che mi fu
insegnato e che io séguito a praticare per forza d'abitudine.
Ma poiché il suono di queste vocali, nell'un modo o neii'altro
accentate, non può cambiare, molti preferiscono usare anche per
esse sempre l'accento grave.
III
Le sillabe
Divisione sillabica delle paa-oie.
La divisione in sillabe delle parole e quindi la loro spezzatura
quando si debba andare a capo in fin di riga, è fonte non pic-
cola di incertezze. Vediamo di semplificare le cose nella ma-
niera piu schematica possibile, dando regole pratiche, da appli-
care senza titubanze sulla carta. Tutta la faccenda si può ridurre
a quattro regolette sole: la prima concernente le vocali iniziali
di parola, la seconda le consonanti semplici, la terza le conso-
nanti doppie, la quarta i gruppi di due o tre consonanti diverse
tra .loro.
Prima regola : una vocale iniziale di parola, seguita da conso-
nante semplice, fa sillaba a sé: a-mo-re, e-re-mo, i-so-la, o-no-re,
u-ma-ne-si-mo.
Seconda regola: le consonanti semplici fanno sillaba con la
vocàle che segue: se-re-no, ve-lo-ci-pe-de, ta-vo-li-no.
Terza regola: le consonanti doppie si dividono a metà: una
va in una sillaba, l'altra nella sillaba che segue: mot-tet-to, boz-
zel-lo, az-zur-ro, el-la.
Quarta regola, che riguarda i gruppi di consonanti diverse
tra loro. Qui bisogna distinguere due casi. Primo caso: gruppo
di due o tre consonanti che nella nostra lingua possono venire
a trovarsi in principio di parola e quindi anche di sillaba : in
questo caso tutto il gruppo si unisce alla vocale che segue:
A-bra-mo, ve-tro, bi-stro, ve-spro, a-cro-sti-co, sod-di-sfa-re, la-dro.
Infatti nella nostra lingua abbiamo parole che cominciano con
br- (bravo, breve), con tr- (trave, trono), con str- (strano, strofe),
con spr- (sprone, spruzzo), con cr- (croce, crisi), con st- (stato,
stufo), con sf- (sfera, sfasciare), con dr- (dromedario, drupa).
Secondo caso: gruppo di due o tre consonanti che nella nostra
lingua non possono venire a trovarsi in principio di parola

35
e qùindi di sillaba: in questo caso la prima consonante va con
la vocale della sillaba che precede, l'altra o le altre consonanti
con la vocale della sillaba che segue: el-mo, tec-ni-co, a-rit-me-ti-ca,
èrip-ta, ec-2~-ma, ac-qua, seg-men-to, A/c-ma-ne, spet-tro, al-tro,
con-trat-to, e-sem-pla-re, sub-do-lo, ac-me, Wag-ner, Gram-sci,
mar-xi-sta, op-zio-ne, am-ne-sia, Cad-mo, az-te-co, oc-to-pla-sma,
ecc. Nella nostra lingua infatti non abbiamo parole di pura
forma italiana che possano cominciare coi gruppi consonantici
come lm-, cn-, tm-, pt-, cz-, cq-, gm-, nt-, lcm-, ttr-, ltr-, ntr-,
mpl-, bd-, cm-, gn- [ghn], msc-, rx-, pz-, mn-, dm-, zt-, et-.
Tutto si può ridurre quindi alle suddette quattro semplici regole,
facili da ricordare.
Ma resta purtroppo la faccenda dei dittonghi e degli iati. Come
dividere parole come pausa, patJra, piove e piolo? Non tutti pos-
sono sapere che la divisione sillabica è la seguente: pau-sa ma
pa-u-ra, pio-ve ma pi-o-lo. Dinanzi a casi come questi, poiché
. la divisione sillabica serve in pratica soltanto nella scrittura,
quando si debba spezzare una parola in fin di riga la miglior
cosa è di attenersi a questa regola prudenziale: non si vada
mai a capo con una vocale; in fin di riga perciò divideremo
sempre au-ra, ie-ri, ae-reo, pau-sa, pau-ra, pio-ve, pio-lo; e
ancora: flui-do, flui-re, soa-ve, intui-to, bedui-no, ecc. senza
tenere alcun conto di dittonghi e di iati.
C'è infine la faccenda dei prefissi. Ci sono dei grammatici
che amano complicare le cose, e consigliano di lasciare Integri
i prefissi andando a capo col resto della parola; casi, per esem-
pio, come ben-arrivato, mal-augurio, in-abile, dis-dire, cis-alpino,
tras-porto, trans-atlantico e simili. È una complicazione inutile,
che può portare a errori disastrosi, perché non tutti son dotti
in etimologia e sanno distinguere un prefisso vero da un pre-
fisso falso. La miglior cosa è quella di attenersi alla regola
generale che stabilisce d1 dividere sillabicamente be-nar-ri-va-to,
ma-lau-gu-rio, i-na-bi-le, di-sdi-re, ci-sal-pi-no, tra-spor-to, tran-
sa-tltm-tico. In grammatica, quanto piu si semplifica tanto meno
errori si fanno.

« Legislatore » in sillabe.
Facciamo un caso particolare: come sillaberemo la parola legi-
slatore? Dopo quello che s'è detto, la sillabazione che si consi-

36
glia è le-gi-sla-to-re. Se si volesse rispettare la prima componente
latina si potrebbe certo anche sillabare le-gis-la-to-re; ma non
tutti sanno che la parola discende dal latino legislàtor, compost.a
di due parole distinte, legis, della legge, e làtor, proponitore. Si
è detto che dei prefissi, spesso :nsidiosi (in questo caso addirit-
tura una parola, legis) è meglio non tener conto. Meglio anche
qui attenersi alla regola generale secondo la quale i gruppi di
due o piu consonanti diverse tra loro formano sillaba con la
,vocale che segue, sempre che questi gruppi possano venire a tro-
varsi in principio di parola: e il gruppo sl- lo ritroviamo infatti
in parole come slavo, slitta, slogare.

E «ipnosi»? e << ipsilon »?


Come si dividono parole come queste correttamente in sillabe?
A voler seguire il primo caso della quarta regoletta sillabica
detta piu sopra bisognerebbe sillabare i-pno-si e i-psi-lon per il
fatto che nella nostra lingua esistono parole comincianti con i
gruppi pn- e ps-: pneumatico, psiche. È vero. Ma qui si tratta
di gruppi consonantici presi pari pari da. una lingua straniera
(in questo caso dal greco) e da considerarsi perciò non di schietta
formazione italiana. Sillaberemo perciò, seguendo il secondo
caso della quarta regoletta: ip-no-si, ip-si-lon.
IV
I dittonghi mobili
Suonare o sonare?
Ci troviamo di fronte alla regola famosa del dittongo mobile,
famosa perché sempre se ne parla nelle grammatiche e poi b.:n
pochi la rispettano. I dittonghi mobili sono due, uò e iè, e s.:
chiamano mobili per il fatto che restano o dovrebbero restar
tali quando si trovano in sillaba accentata, ma si contraggono nella
semplice vocale, rispettivamente o ed e, quando l'accento si spo-
sta su un'altra sillaba. Per esempio: suòno, perché l'accento cade
sul dittongo, ma sonàre perché l'accento si è spostato sulla sillaba
seguente; analogamente, sièdo , ma sedévo, e ancora scuòla, ma
scaletta, buòno ma bontà, piède ma pedestre, mièle ma melato,
lièto ma letizia.
Soprattutto nella coniugazione dei verbi questa mobilità del
dittongo appare evidente : suòno, suòni, suòna, però soniàmo,
sonàte, e di nuovo suònano perché l'accento è tornato sul dit-
tongo. Ancora: sièdo, sièdi, siède, ma sediàmo, sedéte e di nuo-
vo sièdono.
Questa, dunque, la regola. Ma poi, come sopra dicevo, ecco
che l'uso non se ne cura, e fa un po' quel che vuole; e infatti
si sente dire, e soprattutto si vede scritto, suonare, scuotevo,
muoverò, nuovissimo, buonissimo, invece dei corretti sonare,
scotevo, moverò, novissimo, bonissimo; per il dittongo ie: tiepi-
dezza, diecina, intieramente, invece di tepidezza, decina, intera-
mente.
Certo, non è bene seguire questi che in grammatica non pos-
sono non considerarsi errori ; anche perché l'uso non mostra nes-
suna coerenza in questi tralignamenti; infatti neppure il piu
sciatto dei malparlanti o il piu arrabbiato contestatore della gram-
matica scriverebbe, per esempio, « siedendo », « muorire » e
« nuovità». Rispettiamo dunque la legge, che oltre tutto non
aggiunge assolutamente nulla alla nostra fatica .

41
Ci sono, ben inteso, delle eccezioni che per lunga tradizione
storica sòno ormai cosf radicate nell'uso da non apparir piu
eccezioni; è il caso, per esempio, del dittongo ie di alcuni ver-
bi, come allietare, miètere, lievitare, risièdere, che resiste, in
barba alla regola, per tutta la coniugazione: allietare, e non
« alletare », lievitare, e non «!evitare», mietevo, e non «mete-
va », risiedeva, e non « risedeva »; e questo par ragionevole
soprattutto quando la contrazione del dittongo potrebbe inge-
nerare ambiguità: è il caso, appunto, di lievitare e di !evitare,
che sussistono come due verbi distinti di diverso significato;
di nuotiamo da nuoto, e di notiamo da nota, di vuotiamo da
vuoto e di votiamo da v6to, e simili. Altra eccezione è data
dalle parole composte, come buongiorno, buongustaio, fuori-
bordo, luogotenente, ecc. Se si dovessero considerare come una
parola sola, corretto sarebbe dire « bongiorno », « foribordo »,
« logotenente »; ma le due componenti sono tuttora ben distinte
all'occhio e all'orecchio, e lo stesso accento si fa sentire su
entrambe, sf che la permanenza del dittongo ci sembra, in que-
sti casi, pienamente giustificata. In ogni altro caso è consigliabile
applicare la semplice regola del dittongo mobile, semplice anche
per uno scolaretto delle elementari.
Però a questo punto una postilla polemica voglio pur farla.
Ci son dei grammatici - dico grammatici, non geometri o tecnici
o barbieri - i quali nel far notare che questo dittongo mobile è
da molti ignorato o negletto, ben lontani dal consigliarne il ri-
spetto, sia pure, diciamo, cordialmente, senza alcun piglio severo,
sembrano predicare invece il contrario, spingono addirittura alla
disobbedienza, e ne godono, al pari di un carabiniere che messo
là di piantone desse una strizzata d'occhio al ladruncolo, come
a dire : «Bravo! glie l'abbiamo fatta al padrone e alla legge».
Che gusto, che scopo c'è, dico io, a dichiarare, come qualcuno
ha fatto, che i principali dizionari correnti « non fanno bella
figura » a sostenere a gara la forma novissimo perfin nel titolo;
e a compiacersi del fatto che un grande dizionario preferisce dir
buonissimo al posto di bonissimo, e che perfino in Toscana, se
Dio vuole, -il novissimo è in continuo regresso? Che l'uso spesso
s'infischi del dittongo mobile, l'ho detto anch'io; ma che poi io
debba addirittura goderne, e augurarmi che al piu presto questo
infelice dittongo s'affossi, mi sembra davvero paradossale.

42
v
I segni d'interpunzione
Piccoli ma importanti.
Come si usano i segni d'interpunzione? C'è una regola che
stabilisca tassativamente come vanno usati, quando vanno usati
e quando no?
Cominciamo con una risposta generale, per scendere poi ai casi
particolari: una regola fissa, tassativa, per l'uso di tutti i se-
gni della punteggiatura non c'è, né ci potrebbe essere. Poiché
questi segnetti, piccoli ma importanti, che collochiamo qua e là
nei nostri scritti hanno, come tutti sappiamo, la funzione di
pause tra l'uno e l'altro concetto- e di pause lunghe piu o meno
secondo la nostra precisa ed esclusiva intenzione - essi non pos-
sono, ovviamente, esser legati a un sistema fisso di collocazione.
Essi fanno parte, piuttosto, dello stile stesso di chi scrive. Per-
ciò c'è chi punteggia · con abbondanza e chi con parsimonia,
chi dà, poniamo, alla virgola un certo valore di pausa e chi un
altro, piu o meno reciso; chi ama fare i periodi brevi, e ricorre
quindi a frequenti punti fermi, e chi preferisce invece i perio-
di lunghi, complessi, e di punti fermi ha perciò raro bisogno.
E cosi via. Certo è che punteggiare con logica e misura fa par-
te strettissima dello scrivere bene.
Dirò, come consiglio generale, che non bisogna mai fare un
uso esagerato della punteggiatura; l'eccesso di virgole, di punti
e virgole, di due punti eccetera può dare al discorso, anziché
colore ed efficacia, un andamento frammentario, affannoso e
zoppicante.

La virgola.
E veniamo ora ai casi particolari. I segni d'interpunzione, dico
quelli che interessano normalmente i miei lettori, sono sette:

45
la virgola, il punto e virgola, i due punti, il punto fermo, il
punto esclamativo, il punto interrogativo, i punti sospensivi.
La virgola sta a indicare la pausa piu breve nel corpo del pe-
riodo; essa non stabilisce un vero e proprio distacco tra un
membro e l'altro del periodo, ma segna piuttosto un passaggio
tra i successivi membri, come i gradini di un'unica scalinata. Se
osserverete come ho collocato le virgole nel periodo che or ora
avete letto, capirete meglio quel che ho voluto dire. Natural-
mente, come prima dicevo, essendo le pause del nostro discorso
legate al nostro gusto e alla nostra intenzione, alcune delle vir-
gole che io pongo in questo scritto altri potrebbe benissimo
abolirle, senza commettere per questo nessun errore (un esem-
pio: la virgola posta tra abolirle e senza piace a me; ad altri
potrebbe non piacere).
Ma ci son certi casi dove collocare la virgola è obbligatorio;
eccoli: 1. prima e dopo il vocativo: Avanti, signori, c'è posto;
Mamma, vengo subito; 2. per separare gli incisi, le apposizioni,
che son poi le parti accessorie di un periodo principale: Anna,
salutata l'amica, se ne andò; Roma, capitale d'Italia, ha origini
millenarie; Lo vedete, quel che voglio l'ottengo.
In certi altri casi l'uso o no della virgola ha un'importante
funzione stilistica. Nelle enumerazioni, per esempio, o nelle ri-
petizioni, la virgola solitamente si usa quando si voglia scolpire
bene ciascun elemento, anche se ciascun elemento sia preceduto
da una e con semplice valore rafforzativo: Carta, penna, cala-
maio, non ti manca nulla; E va, e torna, e va ancora, senza darsi
pace; E uno, e due, e tre, all'infinito; Certo, certo, ha ragione
lei. Ma alcune volte che si vuoi dare alle ripetizioni o alle enu-
merazioni una maggiore scioltezza, anzi tutta la scioltezza pos-
sibile, la virgola naturalmente si abolisce: Corri corri corri, ec-
colo arrivato; Un due tre, chi non è povero sarà re; Pioggia
neve grandine e caldo e freddo e gelo, le abbiamo provate tutte:
qui la virgola appare solo alla fine della lunga elencazione che è
sprovvista di pause allo scopo di far tutto un mucchio del-
le sofferenze patite. E si potrebbe esemplificare per un pezzo.
Ci son poi casi dove la collocazione d'una virgola può addi-
rittura mutare il significato d'una frase. Prendiamo per esempio
questo periodo: «Quel giovane che conobbi a casa tua, mentre
ero a Milano mi ha scritto>>; spostiamo la virgola, e ne cambia-
mo il senso: « Quel giovane che conobbi a casa tua mentre ero
a Milano, mi ha scritto». Qui la posizione della virgola ha

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dunque una funzione determinante per il senso. Ma potremo
anche scrivere cosi: « Quel giovane, che conobbi a casa tua
mentre ero a Milano, mi ha scritto »: qui le due virgole rac-
chiudono una frase alla quale si vuoi dare particolare risalto
(risalto che, leggendo, viene segnato, oltre che dalle due brevi
pause, anche da un leggero cambiamento del tono della voce).

Il punto e virgola.
E veniamo al punto e virgola, che dà maggior filo da torcere a
chi non è proprio ferrato nel mestiere dello scrivere. Questo
punto e virgola serve a indicare una pausa piu lunga della sem-
plice virgola, ma piu corta del punto vero e proprio; piu pre-
cisamente, esso serve a staccare i diversi elementi di uno stesso
concetto, senza tuttavia interromperne l'unità. Attenzione a que-
sto periodo del Bontempelli, dove successivi elementi del perio-
do, pur rimanendo legati insieme, sono nettamente separati
l'uno dall'altro: «Posò il libro senza chiuderlo; si alzò, tirò
giu la sacca e se la mise accanto, ne tolse un astuccio e una
scatola di fiammiferi e dall'astuccio una sigaretta; appoggiò
sigaretta astuccio e scatola sul libro aperto». Avete osservato
quanta sapiente distribuzione di pause, or piu lunghe or piu
corte, in questo unico e complesso periodo?
Un altro esempio piu terra terra, senza scomodare artisti di
fama: «Domani partiremo per Venezia; appena giunti prende-
remo una gondola e ci recheremo in Piazza San Marcò; il resto
del programma lo stabiliremo là per là».
Anche per il punto e virgola va detto quel che si dice per
tutti i segni di interpunzione: il suo uso è regolato dal gusto
di chi scrive, e dal peso che si vuoi dare a questa o a quella
pausa. Come il solito, non bisogna abusarne.

l due punti.
Anche questi due punti, rappresentano una pausa tra l'uno
e l'altro membro di una proposizione, di un periodo. Ma che
pausa? Il punto e virgola, abbiamo visto, è una pausa un po'
piu lunga della virgola; i due punti, invece, non sono né una
pausa piu lunga né una piu corta, ma piuttosto una pausa tutta

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particolare che ora può essere piu lunga, ora piu breve, ma
sempre con caratteri propri .
La funzione piu semplice e piu comune dei due punti è quel-
la di introdurre un discorso altrui; essi rappresentano cioè
la ·pausa che uno fa quando, nel racconto, riferisce le parole
testuali di un'altra persona: Egli allora mi rispose: «Sta bene,
verrò da te»; Si sedette al tavolino e ordinò: «Un caffè, per
favore». Quest'uso, come ho detto, è semplice, e ne hanno sen-
tore anche i ragazzini che cominciano a leggere le prime fiabe.
(Bisogna solo spendere due altre paroline per quelle virgolette,
« », con cui si suole ormai comunemente circoscrivere le pa-
role testuali di un personaggio. Queste virgolette si aprono, «,
come suoi dirsi, subito dopo i due punti, e si chiudono, », non
app~na il discorso riportato è finito. Alcuni autori o stampatori
invece di queste virgolette preferiscono usare le lineette: per
es.: Al richiamo, il cacciatore rispose: -Tornerò questa sera-,
e riprese il cammino: questione di gusti; sono segni che servo-
no soltanto a mettere in maggior risalto le parole che si ripor-
tano testualmente; ma non pesano sul valore dei nostri due
punti; e si potrebbero, tutto sommato, anche abolire.)
Ma i due punti hanno anche altre precise e piu complesse
funzioni. Una, molto importante, è quella di introdurre una
enumerazione di cose o di concetti; per esempio: I precetti del
diritto sono tre: vivere onestamente, non nuocere ad altri, rico-
noscere a ciascuno il suo. Ancora: I casi sono due : o pagare o
fallire.
Un'altra importante funzione dei due punti è questa: di in-
dicare che quanto sta per seguire è una determinazione piu
chiara, piu diffusa, piu particolare di tutto il pensiero detto in
precedenza. Qualche esempio per capirci meglio: V ed remo che
cosa saprai fare all'esame: sarà la prova piu bella di come avrai
studiato. E questo esempio, un po' lunghetto ma parlante, del
Manzoni: Un de' bravi s'alzò, e gli disse: «Padre, padre, venga
pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuccini: noi siamo
amici del convento: e io ci sono stato in certi momenti che fuori
non era troppo buon'aria per me: e ;e mi avesser tenuta la
porta chiusa, la sarebbe andata male ».
Il punto fermo.
Ed è ora di passare al punto fermo, o, come si dice piu breve-
mente, al punto. Qui il discorso non può esser diffuso od oscu-
ro, perché questo punto è il solo segno che abbia una funzione
ben precisa e tassativa: quella di chiudere un periodo compiu-
to in ogni suo elemento, e tutto ciò che vien dopo quel segno
fa parte ' di un nuovo pensiero, di un nuovo ragionamento; in
breve, di un nuovo periodo grammaticalmente inteso. Dopo il
punto fermo, infatti, il discorso si riprende .con la lettera maiu-
scola. Esempi? Basterà dare una scorsa a queste pagine per
averne a centinaia. Ma non voglio privarvi di questo brano di
Alfredo Panzini, dove i brevi periodi si succedono come i parti-
colari d'un grande quadro osservato a occhiate: «Mattino di
primavera. Sedile dei giardini pubblici al margine del laghetto
romantico dove vanno a spasso le oche bianche. Dolce silenzio,
dolce sole. Cespugli di serenelle spandono il loro odorino amaro.
Romeo e Giulietta siedono sul sedile. Romeo ricama in silen-
zio, col bastoncello, segni sconsolati sopra i sassolini. Giulietta
si asciuga col fazzolettino una lacrima ».
Infine, c'è da ricordare una cosa: che il punto fermo serve
anche a indicare l'abbreviatura di una parola: per es. significa
per esempio; a.C., d.C. valgono avanti Cristo e dopo Cristo; prof.,
professore; sign., signore; dott., dottore; n., numero; ecc., ecce-
tera; on., onorevole; e via abbreviando.
Ultima avvertenza: nei titoli dei libri, dei giornali e nelle
iscrizioni, il punto fermo non si segna; ma solo per ragioni
estetiche.

Il punto esclamativo e interrogativo.


Il punto esclamativo e il punto interrogativo, è chiaro, servono
a chiudere una frase esclamativa o interrogativa: Com'è bello!;
Come stai? Ma le cose non filano sempre cosi lisce, e spesso
c'è un po' di imprecisione nell'uso di questi due segni d'inter-
punzione. Vi consiglio di seguire le seguenti • regole: dopo il
punto esclamativo o interrogativo, quando essi chiudono com-
piutamente il periodo, il nuovo periodo si incominci con lettera
maiuscola: «Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura
a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete

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creduto che Dio non saprebbe difenderla! V01 avete disprezzato
il suo avviso! »; «Lucia, volete mancarmi ora? Non dovremmo
esser già marito e moglie? Il curato non ci aveva fissato lui il
giorno e l'ora? »: sono due esempi del Manzoni.
Quando però piu proposizioni esclamative o interrogative si
seguono, avendo stretta relazione tra loro, s1 che l'una spiega,
rafforza, giustifica l'altra, allora dopo il segno di esclamazione
o d'interrogazione si userà la lettera minuscola. E ricorriamo
ancora al Manzoni, che è una fonte inesauribile di esempi di
bella scrittura: « Che preziosa visita è questa! e quanto vi devo
esser grato d'una si buona risoluzione! »; «Oh via! per amor di
chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora? e farmi fare
uno sproposito? ». Avete osservato bene, in questi esempi, i
diversi valori di quelle maiuscole e di quelle minuscole? Si ca-
pisce che, sempre, codesti valori è lo scrittore che li fissa; perciò
~i è detto che i segni di interpunzione danno tono, colore, sfu·
matura al discorso, e bisogna usarli con molta misura e cautela.
Ricordatevi soprattutto di non abbondar mai neppure in questi
due ultimi segni. C'è chi fa spreco di punti esclamativi, e ne
mette fin tre o quattro in fila: Che bellezza!!! Come chi, vo-
lendo stupir troppo, finisce col non stupir piu nessuno.

Punti sospensivi.
Resta in ultimo da parlare dei cosiddetti punti sospensivi o di
reticenza, chiamati piu brevemente puntini. È un segno di pun-
teggiatura molto importante che troppi o non conoscono affatto
o usano spesso senza regola e senza logica. Questo segno è rap-
presentato da tre punti fermi (dico tre, perché questo è un nu-
mero sufficiente; metterne di piu, come alcuni fanno, è una
fatica perfettamente inutile), con i quali si sospende a mezzo
una frase, riprendendola subito dopo o !asciandola addirittura
incompiuta.
Quando si fa questa sospensione? Primo caso: quando si voglia
indicare una pausa in una frase dubitativa, o anche soltanto af-
fannosa o agitata da qualche passione; questi puntini, cioè, in-
terrompono per un attimo il discòrso come il respiro è inter-
rotto dall'ansia. Citerò, ora e in seguito alcuni esempi tolti tutti
dal solito generoso Manzoni, il quale anche in fatto di punteg-
giatura non faceva le cose alla leggera. Esempio che illustra

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il caso suddetto: «Non saprei se monsignor illustrissimo ... in
questo momento ... si trovi... sia ... possa ... Basta, vado a vedere».
Secondo caso: quando si voglia tacere qualcosa che non si
desidera o non si può dire: «Veramente ... se vossignoria illu-
strissima sapesse... che intimazioni... che comandi terribili ho
avuti di non parlare ... E restò H senza concludere, da far rispet-
tosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne
di piu ».
Terzo caso: quando si voglia indugiare a dir cosa che par
troppo forte o troppo grave, e poi si dice lo stesso: « Mi tocca
a vedere e a sentir cose... ! cose di fuoco! ».
Quarto e ultimo caso: quando si voglia indicare una brusca
interruzione del discorso: « Se avete bisogno di denari - disse
Renzo - ho qui tutti quelli che m'avete mandati, e ... - No.
no, - interruppe la vedova ».
Tutto q~i; è abbastanza semplice, ma da tenere in conto.
Perché, ripeto, i punti sospensivi sono una vera calamità di
certe scritture fatte da chi non sa scrivere. Ho visto scritture
cosf tempestate di puntolini sospensivi da parere addiritura un
crivello.
Aggiungerò, prima di far punto sul serio su questo argo-
mento, un'ultima avvertenza: dopo i punti sospensivi non si
usa la lettera maiuscola; salvo, ben inteso, il caso in cui essi
chiudano definitivamente un periodo. Si osservino gli esempi dati
piu sopra, e quest'altro per sopraggiunta: «Ma parlerò io alla
madre badessa, e una mia parola ... e per una premura del padre
guardiano ... Insomma do la cosa per fatta ».

La virgola prima di« e».


Vive tenace nelle scuole quest'altra regola fantasma: «prima
della congiunzione e non si mette mai la virgola ». Ricordo
d'averla ascoltata anch'io, e fors'anche applicata, quando andavo
alle elementari. Di queste regole fasulle e ostinate già ne ab-
biamo incontrate in queste pagine, ma ancora ne incontreremo.
Ho detto che la virgola e tutti gli altri segni di interpunzione
hanno una funzione essenzialmente stilistica, e il loro uso non
· può essere regolato che molto genericamente dalla grammatica.
Ho detto anche che essi sono come le pause musicali: metti,

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togli, sposti una pausa, e la musica cambia. lo, per esempio,
posso dire, liscio liscio, che « Marta è una donna giovane e
bella »; ma posso anche dire, volendo sottolineare con una
breve pausa la seconda qualità, la bellezza: «Marta è una
donna giovane, e bella»; come a dire «e anche bella». In quali
casi metteremo dunque questa virgola? In tutti quei casi in
cui si voglia, con quel segnetto, dar risalto a un particolare
elemento del periodo, anche se questo elemento è preceduto dalla
congiunzione e. Sentite come usava queste pause il Foscolo in
quel poema sinfonico che sono I Sepolcri: « Si spandea lungo
ne' campi l di falangi un tumulto e un suon di tube l e un
incalzar di cavalli accorrenti, l scalpitanti su gli elmi a' mori-
bondi, l e pianto, ed inni, e delle Parche il canto ». È un
esempio lampante: le prime due e, nessuna virgola, ché il pe-
riodo deve svolgersi sciolto, precipitoso; le ultime tre e, tutte
precedute dalla virgola, che spezza il periodo in tre pause brevi
e solenni, rotte come singhiozzi.
Ma non solo le virgole possono precedere la congiunzione e;
tutti i segni di interpunzione possono precederla, perfino il
punto fermo. Abbiamo sott'occhio I Sepolcri; riprendiamoli: «I vi
Cassandra .. . l venne; e all'ombra cantò carme amoroso, l e
guidava i nepoti, e l'amoroso l apprendeva lamento a' giovi-
netti. l E dicea sospirando: Oh, se mai d'Argo ... ».
Continuerà ancora per molto nelle scuole questa storiella della
e allergica alle in terpunzioni?

Simboli senza punto.


Il simbolo di metro, di ettaro, di ettolitro eccetera deve essere
seguito dal puntino oppure no? È una domanda che mi rivol-
gono in molti . E subito rispondo che tutti i simboli, e non
solo quelli della metrologia, vanno scritti senza il punto fermo .
In passato, è vero, il puntino si metteva, e cosf ci insegnarono
a scuola, e i piu vecchi ancora lo usano: m. per metro, km. per
chilometro, e cosf via. Ora non piu. E l'innovazione, relativamen-
te recente, è ragionevole, trattandosi non già di parole abbre-
viate ma appunto di simboli. La grammatica, come abbiamo vi-
sto, dà al punto fermo anche questa funzione: di chiudere la
spezzatura di una parola accorciata; perciò scriviamo dott ., pro/.,

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intr., a.C. per dottore, professore, intransitivo e avanti Cristo.
Ma km non può certo considerarsi una forma accorciata di chilo-
metro e neppure di kilometro (accorciatura sarebbe chi!. oppure
kil., questa sf col punto). Trattandosi dunque di simboli, come,
per capirci, quelli della chimica (o ossigeno, c carbonio, ao
acqua, ecc.) o delle targhe automobilistiche (MI Milano, PD
Padova, ecc.), il punto fermo appare superfluo, direi anzi er-
rato. Bene hanno fatto perciò gli scienziati e i tecnici ad abolire
questo puntino: m = metro, cm = centimetro, ha = ettaro,
l = litro, dal = decalitro, e cosi via. In verità non tutti rispet-
tano questa norma, specialmente, come ho detto, i piu vecchi,
per inveterata abitudine nata nella scuola; però anche una re-
cente grammatica, parlando del punto, dà esempi di simboli
seguiti dal puntino. Aspettiamo che si aggiorni.
VI
L'apostrofo
Forme piene e forme elise.
È preferibile scrivere, per esempio, io lo ho saputo oppure
io l'ho saputo, egli se ne è andato oppure egli se n'è andato?
La grammatica italiana lascia ampia libertà nell'uso dell'elisio-
ne e quindi dell'apostrofo; ma si sa che la libertà, una volta
concessa, fa presto a diventare licenza. Cos1 è avvenuto che,
salvo pochissimi casi nei quali, allo stato attuale della lingua,
certe forme intere anziché apostrofate non potrebbero non con-
siderarsi errore, tutto il resto è affidato al gusto, e spesso al
cattivo gusto, di chi scrive. Tutte le grammatiche, anche le piu
recenti, hanno il loro bravo elenco di regolette a questo proposito.
Regole semplici, che si possono ripetere in breve.
L'elisione, e di conseguenza l'apostrofo, è obbligatoria negli
articoli lo, la, una, nelle preposizioni articolate con lo e la (dello,
dallo, nello, sullo, allo, ecc.), e basta. Tutto il resto è facoltati-
vo. È facoltativo elidere l'articolo gli davanti a una i; è facolta-
tivo elidere l'articolo femminile plurale le, e cosi pure le forme
atone lo e la dei pronomi personali di terza persona, le particel-
le pronominali mi, ti, si, ci, vi, la preposizione semplice di, e
perfino la preposizione da, che dovrebbe restare integra a ogni
costo ma che tuttavia ogni tanto chiude un occhio e si lascia
elidere senza reagire. Tutte qui le regole. Ma poi, all'atto pratico
pochi le applicano o per meglio dire ciascuno le applica come gli
pare e piace. Una sola resiste: quella che si riferisce all'articolo
maschile lo e alle relative preposizioni articolate; qui siamo tut-
ti d'accordo: l'uomo, l'elefante, l'oltraggio, dell'onore, ché nes-
suno, fino a oggi, si è attentato a scrivere «lo uomo», «dello
onore» (ma anche qui, ora che ci penso, la brava eccezione esi-
ste: quando in fin di riga la carta manchi, nessuno esita a scri-
vere lo/uomo, dello/onore; e certi grammatici incoraggiano que-

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sto strafalcione gridando l'anatema a quell'apostrofo in fin di
riga di cui parlerò a parte, diffusamente).
Mi sono preso il gusto di aprire a caso, qua e là, qualche
autore d'oggi; non solo ciascuno la pensa a modo proprio, e
questo potrebbe apparire anche legittimo; ma dimostra di non
tenere in nessun conto questa faccenda, tanto è oscillante in uno
stesso scrittore l'uso dell'elisione, fuori, s'intende, d'ogni neces-
sità stilistica, d'ogni esigenza espressiva. Vediamo un po': Tomasi
di Lampedusa: un'anima, ma una abitudine; se n'usci, ma non
ce ne era bisogno; Soldati: quest'idea, quest'atmosfera, ma della
infinita; Vittorini: la iniezione, ma subito dopo l'iniezione; Rea:
l'impudica, ma la oscurità; Piovene: se n'era andata, l'ambascia,
ma quella animazione; Buzzati: un'illusione, ma una imposta.
Potrei continuare per un pezzo.
Intendiamoci: questa allegra libertà nell'uso delle forme in-
tere o apostrofate non è cosa di questi ultimi tempi: essa è
antica quanto è antico l'apostrofo, dura cioè da poco meno di
cinquecent'anni (l'apostrofo fu introdotto dal Bembo, e diffuso
dal Manuzio). Esempi ottocenteschi in contrasto con la gramma-
tica troviamo citati in abbondanza nella « Storia della lingua
italiana» del Migliorini: la idea, la Italia, nel Guerrazzi; lo an-
tropofago, nell'Imbriani; la egloga, nel Carducci; la immagina-
zione, nel Fogazzaro; di fronte, poi, ad altre forme elise, che
meglio ci aspetteremmo intere: l'amicizie, nel Foscolo; l'arti e
l'ore, nel Mazzini; nell'idee, nel Niccolini.
Nel Manzoni si legge: «Addio, monti sorgenti dall'acque .. . »
Quel dalle è bene apostrofato? Non c'è dubbio che anche qui il
Manzoni ha fatto le cose a dovere. Poteva scrivere, si capisce,
anche dalle acque, senza elisione, ma al suo orecchio di artista
in quel punto sonava meglio un trisillabo (dal-l'ac-que) che un
quadrisillabo.
C'è chi fa una distinzione: apostrofa l'erbe (incontro di due
e) ma non apostrofa le ultime. Anche qui, solo questione di gu-
sto. Ecco un esempio del Petrarca: «Vedove l'erbe, e tor-
bide san l'acque»: ma qui si tratta di poesia, dove la neces-
sità della misura metrica si impone, a volte, anche al gusto
personale. C'è un'avvertenza importante da fare: si sconsiglia di
usar l'elisione quando l'articolo precede una parola invariabile nel
plurale, per non generare equivoco. Infatti l'analisi, l'estate,
l'età e simili hanno normalmente valore di singolare; si potrà
tollerare l'elisione solo quando la parola invariabile abbia il

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plurale specificato da una forma verbale o da un aggettivo:
« L'età passate », « L'iniquità erano di tutti i giorni».
Leggendo questo o quell'autore, ho avuto l'impressione che
oggi l'uso delle forme piene tende a diventare abuso, a tutto
danno di quella fluidità, di quell'armonica fusione di suoni che
son proprie della nostra lingua. Incontri come una abitudine,
la ostentazione, quella animosità, se ne è andato, anche io, sono
francamente brutti, e dovrebbero essere di regola evitati. Il bello
è poi che, parlando, tutti ci guardiamo bene dal farne.

«Qual è» o « qual'è >>?


Leggendo non solo giornali ma anche libri di autori che vanno
per la maggiore c'è ancora qualche incertezza nell'uso dell'apo-
strofo in casi come qual è, tal è, qual altro, tal altro e simili,
che si incontrano scritti anche qual'è e tal'è, qual'altro e tal'altro.
Sarebbe possibile stabilire una regola che fissasse una volta per
tutte la giusta grafia? A una domanda come questa rispondo
senza esitare che tutto è possibile in materia di regole ortogra-
fiche: l'ortografia, si sa, altro non è che convenzione, e tutto
sta nel mettersi d'accordo. Nel Quattrocento l'apostrofo non
esisteva ancora, e si scriveva !anima, luomo, longegno ( = lo
'ngegno) e cosf via. Poi, nel Cinquecento, come sopra ho accen-
nato, venne il Bembo a metter ordine in questa faccenda, e
sull'esempio del greco introdusse l'apostrofo per indicare l'eli-
sione di una vocale in fine di parola foneticamente fusa con una
successiva parola cominciante con altra vocale. L'innovazione
apparve la prima volta in un'edizione del Petrarca stampata dal
Manuzio nel 1501. Da allora siamo futti d'accordo, e scriviamo
senza esitare l'anima, l'uomo, l'ingegno.
Ma in grammatica esiste anche il fenomeno del troncamen-
to, e questo è valso a mettere alquanta confusione nell'uso del-
l'apostrofo. Il troncamento consiste nella soppressione dell'ulti-
ma vocale àtona (cioè non accentata) d'una parola che si venga
a trovare davanti a un'altra parola cominciante con consonante,
e con la quale sia strettamente associata per ragione di senso.
È il caso, per esempio, di « signor mio », « amor pateJnO »,
« buon giorno », « mar Tirreno », e anche di « qual donna » e
« tal libro». Il troncamento, a volte, riguarda addirittura l'intera
ultima sii!aba àtona di una parola: «gran cosa» (per grande

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cosa) «san Giovanni» (per santo Giovanni), «fra Ginepro»
(per frate Ginepro), ecc. Per indicare il troncamento di una
vocale o di una sillaba finale non si usa mai l'apostrofo (non
si scrive, cioè « amor' paterno», « gran'cosa » ), a differenza del-
l'elisione, che richiede sempre l'apostrofo. Fissata bene questa
semplice premessa, vediamo che cosa può accadere in pratica.
Può accadere che in un contesto una parola troncata come
signor, buon, mar, qual, tal venga a trovarsi non piu davanti
a parola cominciante con consonante, ma davanti a parola co-
minciante con vocale; e allora nasce confusione nell'uso o nel
non uso dell'apostrofo, perché l'analogia formale trascina a
collocare l'apostrofo anche dopo una parola che non è elisa ma
troncata; e si vede perciò scritto tal'è, qual'è perché si scrive
l'elmo, l'uomo. È evidente, però, che come nessuno scrive
« signor'Angelo >>, « mar'Adriatico >>, « suor'Anna >>, cosi non si
deve neppure scrivere qual'è e tal'è, né tal'altro, qual'altro e si-
mili, ma soltanto qual è, tal è, tal altro e qual altro. Per evitare
l'errore, si tratta insomma di appurar bene se ci troviamo davanti
a parola elisa o a parola tronca.
C'è un modo semplice, alla portata di tutti, per fare con
sicurezza questa distinzione? C'è, ed è questo. Se una parola
privata della vocale finale può stare cosi accorciata davanti ad
altra parola cominciante con consonante, si tratta di una parola
troncata; se invece non può stare, si tratta di una parola elisa.
Pertanto, scriveremo un asino perché si può dire «un cavallo»;
ventun anni, ventun isole, perché si può dire « ventun cavalli >>,
« ventun lettere >>; nessun esempio, perché si può dire «nessun
libro>>; scriveremo mar Adriatico perché si può dire « mar Tir-
reno>>; analogamente: fin allora, e non « fin'allora », perché si
può dire «fin da domani»; qual esempio, e non «qual'esempio>>,
perché si può dire «qual fortuna>>; tal amico, e non «tal'amico»,
perché si può dire« tal nemico>>; fior alpestre, e non «fior' alpestre>>
perché si può dire «fior campestre», ecc. Si tratta insomma di
troncamenti, e non richiedono l'apostrofo. Bisognerà scrivere in-
vece un'asina, e non «un asina», perché non si può dire «un
cavalla>>; nessun'età, nessun'epoca, perché non si può .dire « nes-
sun donna»; buon'amica, e non «buon amica», perché non si
può dire «buon nemica>>, analogamente, buon'annata ma
buon anno. Qui si tratta infatti di parole elise, che richiedono
sempre l'apostrofo.
Come si vede, la regola per fissare una volta per tutte la

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giusta graffa in casi come quelli ora esaminati, esiste già, ed è
facilissimo applicarla. Il guaio è che non tutti la conoscono, o,
se anche la conoscono, non si prendono poi la cura di appli-
carla. E questa è sciattonerfa tanto meno perdonabile in uno
scrittore, specie se di cartello. In passato è vero si badava meno
a queste cose, ma è bene che una lingua si stabilizzi sempre
piu nella sua scrittura. Predica perciò bene il Migliorini: « Che
si scriva un uomo e non un'uomo, un enorme peso e invece
un'enorme ingiustizia è una distinzione non fondata sulla fone-
tica ma su una schematizzazione dei grammatici. Distinzione arti-
ficiale è perciò quella fra troncamento e elisione, ma una volta
che questa distinzione si accetti come la pratica esige che si fac-
cia, ne discende come un corollario ineluttabile che si debba scri-
vere senza apostrofo tal è, qual è>>. Rispettiamo dunque la regola.

<< Pover'uomo » o << pover uomo >>?


Giurerei che la causa di tutto il gran discutere ' che si trascina
da oltre mezzo secolo intorno a questa frase deve ricercarsi
specialmente in una poesia del Carducci, una poesia tra le sue
piu note, direi quasi popolare, perché non c'è antologia scola-
stica che non la riporti, non c'è insegnante che non la faccia
imparare a memoria: Davanti San Guido; si che anche una
persona di mediocre cultura ne rammenta qua e là qualche
verso. O cipressetti, cipressetti miei ... Orbene, appunto in que-
sta poesia il Carducci usa la scrittura senza l'apostrofo là dove
dice «Ben lo sappiamo: un pover uom tu se' ». Nello scrivere
a questo modo, il Carducci ebbe probabilmente dinanzi agli occhi
un famoso verso dantesco del XVI del Purgatorio: « Buio d'in-
ferno e di notte privata - D'ogni pianeta sotto pover cielo»;
e fors'anche quell'altro verso, pure dantesco, della Vita nuova,
che dice « Ond'io pover dimoro ». Gli era sfuggito però il fa tto
che il Manzoni aveva piu volte usato la forma apostrofata po-
ver'uomo.
Insomma, quel pover cosi monco dell'ultima vocale il Car-
ducci l'aveva negli occhi e negli orecchi, e l'usò cosi liscio
liscio senza affatto pensare se fosse un troncamento oppure
un'elisione. Perché la soluzione del problemino sta proprio
nell'appurare se scrivendo pover si faccia troncamento o elisio-.
ne. Se è troncamento, non ci vuole apostrofo; ci vuole invece

61
se è elisione. La regola s'è vista or ora: una parola è tronca
quando può stare cosi accorciata davanti a un'altra parola che
cominci con consonante; una parola è invece elisa quando cosf
accorciata non potrebbe stare davanti a parola cominciante con
consonante. Orbene, se in antico si diceva « pover cielo», « po-
ver dimoro », oggi come oggi nessuno direbbe piu, forse nep-
pure in poesia, « pover fanciullo », « pover diavolo », « pover
cuore >>, « pover me ». Siamo quindi davanti a un caso di eli-
sione, che richiede sempre l'apostr?fo: dunque pover'uomo e
mai « pover uomo».
In verità, se si ·scorrono le pagine degli scrittori piu recenti,
la preferenza mi sembra che vada alla forma apostrofata ; ma
non san pochi neppur quelli che preferiscono la forma, diciamo
cosi, carducciana; a cominciare dal De Amicis e dal Pirandello,
per seguitare col Lampedusa e col Moretti e finire col Monta-
nelli che da buon toscano scrive addirittura pover òmo, senza
apostrofo ma con tanto di accento . Ci sarebbe un modo, tut-
tavia, per evitare la contestazione: rifarsi alla forma intera,
poveruomo, nell'uso popolare anche povero m o (« Oh! il pove-
rome! >> leggiamo nel Pascoli), col suo bravo plurale poveruomini.

Tutt'i diritti, tutt'e due.


S'incontra a volte l'elisione della parola tutto in frasi come
tutt'i diritti , tutt'i contestatori, tutt'i presenti. È lecita questa
elisione? Ma leggendo ad alta voce, chi ascolta non potrebbe .
intendere tutti diritti, tutti contestatori, tutti presenti, frasi che
hanno un significato affatto differente?
L'elisione è certamente lecita. Come è lecita l'elisione in frasi
come tutt'altro, tutt'e due, tutt'il giorno, a tutt'oggi, tutt'uno,
cosf sarà altrettano lecita nelle frasi sopra citate. Posso solo
aggiungere che codesta elisione davanti alFarticolo maschile
plurale è meno comune, e si preferisce dire tutti i ... ; ma nulla
impedisce che chi la gradisca la usi. « Né bengala e fanfare di
tutt'i suoni e di tutt'i colori >> scrisse il Carducci, che però scrisse
anche « tutti i fatti e le idee». Né credo nella possibilità che
ascoltando queste frasi comprese in un contesto si possa interi-
derle in modo errato. Leggendo ad alta voce, parlando, queste
elisioni, queste fusioni di lettere, di sillabe si fanno normalmente;
nel caso nostro, nessuno pronunzierà, salvo uno straniero, la

62
frase tutti i presenti staccando le tre parole, ma fondendola in
una parola sola, « tuttipresenti ». Chi sa parlare a dovere poserà
alquanto la voce sulla seconda sillaba di tutti, strisciando sulla
i quasi a raddoppiarla; mentre nella frase tutti presenti la voce
poserà piuttosto sulla prima sillaba tut-, accennando appena
alla i della seconda sillaba. Fate voi stessi la prova.
Ma prima di chiuder l'argomento, vorrei soffermarmi sul tutt'e
due visto piu sopra. La forma piu comune è certo tutti e due,
e cosi tutti e tre, tutti e quattro, ecc.: la particella e ha qui fun-
zione eufonica e rafforzativa. Cominciò a usarla Dante: « Vinto
dal sonno in sull'erba inchinai - Là 've già tutti e cinque seda-
vamo ». Ma c'è anche una terza forma, tutti due (tutti tre,
tutti quattro, ecc.), però piuttosto rara: «Roma ognora- Con gli
occhi di dolor bagnati e molli - ti chier (chiede) mercé da tutti
sette i colli »: sono famosi versi del Petrarca. Ma non mancano
esem'pi moderni e modernissimi: Ferdinando Martini: «presero a
sbraitare tutti due come ossessi»; Manara Valgimigli: « Erava-
mo affamati tutti due »,

L'elisione del « che ~~.


Il che può essere eliso davanti a parola che comincia con le
vocali e, i; e in tal caso diventa sempre ch': ch'egli, ch'io. Que-
sto è ovvio; la h è necessaria per conservare la pronunzia dura,
gutturale della consonante c. Ma la stessa elisione può anche
farsi davanti a parole che cominciano con a, o, u; e allora po-
tremo scrivere: ch'altri, ch'ode, ch'urla, ma anche, posto che
la pronunzia gutturale è data dalla vocale iniziale di parola,
c'altri, .c'ode, c'urla. Tuttavia questo secondo modo io non lo
consiglio perché l'abolizione della h mi pare assolutamente arbi-
traria. L'elisione, non dimentichiamolo, è legittima solo per la
vocale finale di parola. Ultimo caso: il che davanti alle forme
verbali ho, hai, ha, hanno. Le forme elise saranno: ch'ho, ch'hai,
ch'ha, ch'hanno; meno bene, e generalmente sconsigliate per il
motivo ora detto, c'ho, c'hai, c'ha, c'hanno. Chi preferisce le
forme verbali accentate senza la h, scriverà ch'ò, ch'ài, ch'à,
ch'ànno; assolutamente da non usare le forme c'ò, c'ài, ecc.
C'è per ultimo da avvertire, in generale, che le stesse regole
valgono anche per le èlisioni di certe congiunzioni come anche,
perché, finché, benché, per l'aggettivo indefinito qualche, ecc.:

63
anch'egli, anch'oggi, bench'io, perch'io, finch'ebbe, ecc. Pascoli
scrive: « Qualch'altra felicità »; Baldini invece: «Di H a qual-
c'altra settimana ». Ma salvo che per anche, tutte le altre elisioni
son rare nella prosa.

Gl'ultimi, gl'altri ...


« In uno degl'ultimi numeri della nv1sta ... »: erroracci come
questo non sono poi tanto rari sulla carta stampata; nelle scuo-
le, poi, càpita di incontrarli con sconcertante frequenza: cosi
almeno mi assicura un amico professore di liceo.
Non faccio fa fica a crederlo: l'ho ·incontrato anch'io appunto
in una rivista; e che lo facciano certi studenti di liceo, e,
aggiungo, perfino universitari, per non parlar di qualche gior-
nalista, diciamo, disattento, è cosa da farci su un pensierino,
e non di .color rosa. L'articolo plurale maschile gli, Io abbiamo
appena visto, si elide solo davanti alla vocale iniziale i della
parola che segue: questa è · grammatichetta. E non è neppure
obbligatorio: gl'insegnanti, ma anche gli insegnanti. Non è nem-
meno un'invenzione recente, risale ai primi secoli della lingua.
Troviamo gl'ingegni in Dante, e gl'intagli nel Boccaccio, anche
se si scriveva glingegni e glintagli, tutt'unito, come si scriveva
anche !anima e lhonore, ché il segno grafico dell'apostrofo fu
introdotto, come sappiamo, solo nel Cinquecento. Ma sempre
gli occhi e gli altri troviamo in Dante, e gli animi nel Petrarca,
con alternanza di li (li altri, li ultimi, forma arcaica che si
incontra perfino in qualche autore moderno, come nel Pascoli:
« Pendeano li agli e le cipolle in reste » ). L'uso attuale respinge
l'apostrofo anche davanti alla i segufta da altra vocale: gli iati,
gli iugeri, gli iuniores, e non gl'iati, gl'iugeri, gl'iuniores. La
legge è dunque questa; si che gl'altri· non può leggersi che
« glarti », come glabro, e gl'ultimi non può leggersi che « glul-
timi », come glutine.

Apostrofo in fin di riga.


È ammissibile l'apostrofo in fin di riga? si può scrivere, cioè,
/' j ordine, con l' che chiude la riga e ordine che comincia la
riga successiva?

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Sono almeno tre lustri che mi batto per questo apostrofo; ma
rutte le volte che mi viene rivolta questa domanda, la mia
prima tentazione è quella di non rispondere. E ·questo perché
una mia risposta favorevole all'apostrofo in fin di riga, data
tempo fa a una dattilografa milanese, procurò alla malcapitata,
che aveva seguito e sostenuto il mio consiglio rid:nendolo auto-
revole, una minaccia di licenziamento da parte del principale.
Però, mi dico poi, se non rispondiamo noialtri che ci gingilliamo
con questi problemi da mane a sera, chi deve rispondere? Le
grammatiche tacciono su queste e altre questioni pratiche; gli
insegnanti si rifanno alle grammatiche; e cosf tutto resta al punto
di prima, e le dattilografe e, quel ch'è peggio, i compositori
tipografici continuano ad ammannirei sconci come dello l uomo,
una l aquila, da l altra parte, allo l estremo, tutto l altro,
un bello l asino, sconci che oltre a essere veri e propri errori
di grammatica, violano la precisa volontà dell'autore che non
si è mai sognato di strafalcionare in questo modo. « Come si
farebbe a sapere, » si domanda il Migliorini « ove un tale an~
dazzo s'imponesse definitivamente, se il titolo del panegirico
del Giordani Allo Imperatore · Napoleone è dovuto a una pre-
cisa scelta dell'autore o è un arbitrio piu tardo di un tipografo
o di una dattilografa? ».
La questione riguarda soprattutto la scrittura a macchina e
la stampa, ché per la scrittura manuale il problema neppur si
pone, potendosi le righe allargare o stringere come si vuole; ri-
guarda la stampa specialmente, dove tutte le righe piene deb-
bono essere uguali, al capello. Le macchine· compositrici hanno
certo dispositivi speciali per portare la riga sempre alla giu-
stezza, cioè alla misura voluta, e i bravi compositori normal-
mente se ne valgono; ma ormai la gente s'è cosf abituata all'a-
bolizione dell'apostrofo e alla reintegrazione arbitraria della vo-
cale elisa, che questi stessi compositori trovano piu conveniente,
nelle affrettate linee di un quotidiano, comporre una l anima,
dello l antico, anziché perdere qualche secondo di piu nella ri-
cerca di una giustificazione tipografica conveniente; perché . (e
parlo per chi non è pratico di tipografia) nel caso, per fare un
esempio, di dell'antico è molto piu sbrigativo collocare in fondo
alla riga un dello che un dell'an-.
Alcuni linguisti, pur condannando l'uso e l'abuso delle forme
piene contrarie alla grammatica, condannano recisamente anche
l'uso dell'apostrofo in fin di riga per il fatto che la stessa gram-

65
matica dice che in fin di riga non si può mai spezzare una sil-
laba (infatti nel caso di dell'antico la sillabazione è del-l'an-ti-co).
Ma a me sembra che in questo caso la questione di una divisio-
ne sillabica non sia neppur da considerare: qui si tratta della
semplice spezzatura di un nesso sintattico, foneticamente accet-
tabile, imposta da un limite di spazio; «l'apostrofo» dice an
cora il Migliorini « può ben indicare, oltre all'elisione, la neces-
sità di continuare la lettura alla riga seguente, senza che la re-
gola della sillabazione sia minimamente violata»; tanto vero che
questa spezzatura non richiede l'uso della lineetta, che è appunto
il segno convenzionale della spezzatura sillabica. Sarebbe certo
errore scrivere l'- l anima, dell'- l antico, ma non già, come si
- raccomanda , l' l anima e dell' l antico.
Fu il Camilli che si occupò tra i primi di questo problema
grafico, consigliando questa che è l'unica soluzione possibile;
ma già altri linguisti prima di lui, come il D'Ovidio, avevano
manifestato parere favorevole all'apostrofo. Tale soluzione, pe-
raltro, non è stata inventata né dal D'Ovidio, né dal Camilli, né
da altri studiosi contemporanei. Ho sott'occhio un'edizione bo-
doniana dell'Aminta del 1787, e subito alla riga ottava dell'in-
troduzione m'imbatto in un sull' l Istmo ch'è un piacere guar-
darlo. Il Bodoni, infatti, grande maestro d'arte tipografica, usò
normalmente questa forma di spezzatura grafica. Raffaello Ber-
tieri, che fu direttore a Milano di una famosa scuola del libro
e della rivista «Risorgimento grafico », pubblicò tra l'altro un
diffuso studio su « L'arte di Giambattista Bodoni>>. Corro a
esaminarlo: in una composizione tipografica perfetta, sono riu-
scito a contare, si e no in cento pagine, una ventina almeno di
queste spezzature apostrofate: uomo d' l arte, un' l annua pen-
sione, tutt' l altro, fors' l anche, eccetera. Apro anche a caso
un testo che non ha pretese grafiche, ma grammaticali certo: il
tomo primo del Vocabolario degli 'Accademici della Crusca, edi-
zione veronese del 1806: nella penultima riga della dedica del
padre Cesari al Principe Eugenio, trovo subito quest'esempio :
«Io m'inchino all' l Altezza Vostra Illustrissima ... ». E non ho
voglia di cercar altri esempi. Esempi, del resto, in cui m'imbatto
sovente anche sfogliando il dizionario del Tommaseo-Bellini, ri-
stampa del 1929.
Conclusione: poiché l'apostrofo in fin di riga senza lineetta
non può aver valore di spezzatura sillabica, e non contravviene
perciò a nessuna legge grammaticale; poiché l'apostrofo non

66
offende l'occhio (dicono alcuni che quel segnetto appeso in fin
di riga sta male; ma perché allora non sta male la virgola, appesa
solo una frazione di millimetro piu in basso?), e poiché, in com-
penso, impedisce un autentico errore morfologico a cui si va
pericolosamente assuefacendo il già guasto orecchio degli Ita-
liani; credo che sia giunto il momento di mettere in pratica
costante questa forma grafica, invitando i grammatici a porvi
il crisma della loro autorità. Non so i principali delle dattilo-
grafe, ma i proti e i compositori tipografici in genere han già
fatto buon viso all'innovazione, specie dopo che l'UNI (Ente
nazionale italiano di unificazione), ha sancito il divieto per i
tipografi di completare arbitrariamente le sillabe, avvertendo che
« esistono nella tradizione tipografica esempi insignì che giusti-
ficano il libero uso dell'apostrofo in fin di riga», e perciò testual-
mente stabilisce (luglio 1969): «Non è permesso integrare le
parole apostrofate per evitare l'apostrofo dopo consonante in
fin di linea. Esempio: quell'uomo si dividerà cosf: quel- f l'uomo
o quell'uo- l mo o quell' l uomo, ma non cosf: quello l
uomo». Oggi come oggi, posso dire con compiacimento che la
massima parte dei giornali e dei periodici in genere ha adottato
questa innovazione (se non vado errato, il primo quotidiano è
stato La Notte di Milano, nel 1970); solo pochissimi le si oppon-
gono, insistendo nell'errore e nell'orrore. Non si capisce il
perché.
VII
Maschio o femmina?
Amàlgama.
La parola amàlgama di che sesso è? È maschio? è femmina?
Se consultate i dizionari, vedrete che non ce n'è uno che vada
d'accordo con l'altro. Io mi sono preso questo gusto.
Sono per il femminile il vecchio Tramater, il Petrocchi, il Mè-
stica, il Dizionario Etimologico Italiano del Battisti-Alessio; sono
per il maschile il Tommaseo, il Fanfani, Io Zingarelli, l'Alfani,
il Palazzi, l'Albertoni-Allodoli, il Migliorini, il Passerini Tosi,
il Devoto-Oli, il Dizionario d'ortografia e di pronunzia (DOP)
della Rai, il De Felice-Duro. II grande dizionario del Battaglia, in
corso di pubblicazione, salomonicamente spacca il male in mez-
zo, e sulla base di numerosi esempi antichi e moderni lo registra
come maschile e femminile, a piacere.
Amalgama è da almeno tre secoli nel nostro lessico, e sul
suo significato siamo tutti d'accordo. Non siamo ancora d'ac-
cordo sul sesso. I Francesi l'accordo lo hanno trovato da un
pezzo: è maschio; gli Spagnoli anche: è femmina. Come va
questa faccenda? Andiamo all'origine del vocabolo. Amalgama
deriva da un latino medievale degli alchimisti amàlgama, di
genere neutro, probabile deformazione araba (al-malgan) del
greco m!t!agma, mistura, impasto, che discende a sua volta dal
verbo matassa, rammollisco (per l'aspetto molle della lega). Se-
condo altri, invece, il neutro latino sarebbe l'alterazione del
sinonimo algama, dall'arabo al-gamaa, che significa « riunione».
L'oscillazione del genere è dovuta evidentemente alla termina-
zione -a del vocabolo, propria dei femminili italiani. Ma l'italiano
non difetta neppure di nomi in -a di genere maschile: il papa,
l'auriga, il profeta, il collega, l'eremita, ecc. Di qui la confu-
sione, alimentata dai quotidiani esempi, anche autorevolissimi
e recenti: «nell'amalgama interna» (Palazzeschi); «creazione di

71
un amalgama » (Sinisgalli); « amalgama armoniosa» (Sòffici);
«un'amalgama di poesia» (Cecchi); «questo amalgama» (Sol-
dati) ... Decidiamoci: l'origine del vocabolo è di genere neutro;
si sa che il neutro latino sfocia normalmente nel maschile ita-
liano. Facciamolo maschile.

Ambage.
«Avevo scritto» mi dice uno studente liceale «dopo molti am-
bagi, convinto di aver scritto una frase molto raffinata. Ma mi
hanno detto che è una frase sbagliata ». Senza dubbio. La parola
ambage, che vale propriamente «cammino tortuoso», e figurata-
mente «giro di parole oscuro, intricato », è certo una parola raf-
finata; però è femminile fin dalla nascita; si doveva perciò di-
re, molte ambagi. È un errore in cui cadono non soltanto
gli studenti liceali, ma persone anche di superiori studi, certa-
mente per via di quella forma singolare in -e che non ha sesso
ben definito. Ricordiamo i bei versi dannunziani, dove la parola
è usata nel significato di intrico, avvolgimento tortuoso: « ma
d'improvviso irretiti - in non so qual divina - ambage di rosei
veli».

Arancio e arancia.
Qui i dizionari sono generalmente tutti d'accordo: arancio, ma-
schile, l'albero, arancia, femminile, il frutto; è una regola co-
mune a moltissime piante arboree da frutto: il melo e la mela,
il pero e la pera, il noce e la noce, il pèsco e la pèsca ... Fanno
eccezione le piante erbacee: il fagiolo, pianta e frutto, analoga-
mente la fava, pianta e frutto, e il melone, e il cocomero (ma
nel dialetto anche la cocomera per il frutto: « cocomere zuc-
cherine di Faenza» dice il Panzini). Tralignano però dalla re-
gola arborea, a quanto pare, le piante di agrumi: il limone,
pianta e frutto, e cosf il mandarino, e il cedro, e il bergamotto,
e il chinotto, e il pompelmo, eccetera. Farebbe eccezione, dun-
que, solo l'arancio; tanto che mi ardirei a dire che il maschile
arancio per indicare il frutto sia la regola e il femminile sia
l'eccezione regionale. La verità è che il frutto al maschile s'ode
in buona parte dell'Italia centrale e in tutta l'Italia meridionale.
In Toscana si dice, è vero, arancia; ma ecco un antico esempio

72
del fiorentinissimo Buonarroti il Giovane, nipote del grande
Michelangelo, dove il frutto è maschile: «O belle zane D'aranci,
di cedrati e di lumfe! ». E trovo anche un esempio maschile
del torinese Baretti: « Tracannare sugo d 'aranci con acqua».
Voglio anche citare un esempio del Campanella, calabrese, di
una regione dove, almeno quando ero ragazzo, di arance fem-
mine non ho sentito mai parlare: « Gli aranci e i limoni sino
al primo caldo di primavera non maturano ».
Ma rispettiamo pure la regola arborea: una piantagione di
aranci, un cesto pieno di arance.

Asma.
Anche questa odiosa malattia dà il suo da fare ai grammat1c1:
è maschio, è femmina? L'uso comune, si sa, la vuoi femminile,
con un plurale regolare le asme; e tutti dicono infatti asma
cardiaca, allergica, isterica. Ma la voce è correttamente maschile,
con due plurali, gli asmi e gli asma. In antico c'era la forma
chiaramente maschile asmo ( « A me venga el mal de l'asmo »
canta Iacopone da Todi), ma s'usava anche la variante àsima,
femminile («A vederle mi vien l'asima », Poliziano). Questa
oscillazione di genere sta nell'origine della parola, ch'era neu-
tra, tanto in greco, asthma, (( affanno », quanto 'nel derivato
latino asthma. Ma dal neutro solitamente l'italiano ha tratto il
genere maschile, e maschile infatti s'usa piu spesso nel lin-
guaggio scientifico. Apro un dizionario medico e leggo infatti:
asma cardiaco, asma uterino, asma isterico, asma uremico, asma
allergico e via per tutta una pagina. L'altalena dei generi c'è anche
all'estero: femminile in spagnolo, asma; maschile in francese,
asthme; neutro in tedesco, asthma. Si capisce che quell'a finale
ha fatalmente trascinato il termine nella serie dei nomi femminili.
I dizionari rispettano di regola questa oscillazione, e registrano
entrambi i generi, pur dando la preferenza al maschile. Ma il
Migliorini è rigido: solo maschile.

Automobile.
In alcuni dizionari, anche recenti, stupisce che la voce automo-
bile sia indicata oltre che di genere femminile anche, sebbene

73
raramente, di genere maschile. Ma chi si attenterebbe oggi a
dire «Ho comprato un nuovo automobile»?
In qualche dialetto, specialmente meridionale, e in partico-
lare in Sicilia, un automobile al maschile ancora comunemente
si dice. E aggiungerò che questo maschile non è che il tenace
residuo di un turbinoso passato; perché l'automobile, pochis-
simi lo sanno, anche se vi si inscatolano dalla mattina alla sera,
è nato maschio, e femmina è diventato solo col passare degli
ann1.
Il nome, foggiato sul modello di locomobile (routière), loco-
mobile (stradale), apparve la prima volta in Francia esattamente
nel settembre del 1875 (ricordiamoci di festeggiarne il centena-
rio). Però non era ancora sostantivo, era soÌtanto aggettivo:
voiture automobile, vettura automobile, vettura che si muove
da sé, termine ibridamente composto del greco aut6s, e del
latino mobitis, mobile. Eravamo ai primi tentativi di vettura
automobile a vapore, e poi anche ad aria compressa, come ap-
prendiamo, per esempio, da queste righe del giornalista scien-
ziato Henri de Parville, pubblicate sul "JoU:rnal des Débats"
del 30 marzo 1876: « Rien de si ingénieux, de si facile a con-
duire que la voiture automobile à air comprimé que l'on voit
fonctionner sur le tramway de l'Arc-de-Triomphe, à Neuilly ».
Automobile restò aggettivo per almeno quindici anni, fino al
1890, quando la vettura, avendo acquistato una certa popola-
rità almeno nel nome, fu detta piu brevemente, con forma so-
stantivata, automobile. E qui appunto cominciò il travaglio. Per-
ché essendo una precisa caratteristica dei sostantivi di avere un
genere grammaticale loro proprio, si presentò subito anche per
automobile la domanda: maschio o femmina? un automobile o
une automobile?
Intorno a questa non certo futile questione linguistica si acce-
sero presto vivacissime discussioni, accompagnate da una non
meno vivace campagna di stampa che metterebbe conto di an-
dare a rivedere e a ripubblicar per intero. Chi per primo si trovò
di fronte al dilemma fu il Consiglio di Stato francese, incari-
cato di stilare il complesso regolamento sull'uso pubblico di que-
sto nuovo « bello e orribile mostro » sferratosi sulle strade
parigine fra il terror dei pedoni. II Consiglio, rispettoso delle
competenze, credette opportuno di ricorrere ai lumi non già dei
tecnici del motore ma dei tecnici della lingua (da noi queste
cose si ignorano, e perciò tante parole della tecnica nascono

74
con le gambe storte); ricorse addirittura ai grandi dell'Accade-
mia; e questi grandi, certo affascinati dalla potenza e dal fragore
della nuova invenzione, decretarono che automobile doveva essere
sostantivo maschile. E maschile troverete infatti it vocabolo se
consulterete i dizionari francesi di quel tempo, compreso il primo
Larousse. D'altra opinione tuttavia furono gli esperti del lin-
guaggio, i grammatici, i linguisti, e tra questi un dei piu auto-
revoli, Miche! Bréal, il quale piu ragionevolmente sostenne che
essendo il termine automobile la sostantivazione della frase fem-
minile voiture automobile, femminile doveva restare: une
automobile.
Diffusasi la macchina, lo stesso problema si presentò via via
anche alle altre nazioni . La Spagna restò ferma al maschile,
un autom6vil. Da noi fu naturalmente la Fiat, sorta nel 1899,
a doversene occupare. E poiché la massima autorità letteraria era
allora il D'Annunzio, a lui piu volte si rivolse il senatore Agnelli
ponendo il quesito. Rispose alla fine il Poeta con questa letterina
che val la pena di riportar per intero: « Mio caro Senatore, in
questo momento ritorno dal mio campo di Desenzano, con la
Sua macchina che mi sembra risolvere la questione del sesso già
dibattuta. L'Automobile è feminile. Questa ha la grazia, la
snellezza, la vivacità d'una seduttrice; ha, inoltre, una virru
ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle
donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza. Incli-
nata progreditur. Le stringo la mano. Il Suo Gabriele d'Annun-
zio. Il Vittoriale, 18 febbraio 1926 ». Si faccia caso alla data:
1926; la Fiat, come dire la stessa automobile, esisteva in Italia
già da ventisette anni, e la questione del sesso non era stata
ancora risolta. La Fiat accolse definitivamente la sentenz~ dan-
nunziana, e usò costantemente la forma femminile afferman-
dola cosi nell'uso comune.
Ma non fu una vittoria assoluta, ché il maschile continuò ad
apparire qua e là, tenacemente. Gli scrittori nostrani non sem-
bravano accorgersi troppo della nuova, rombante e, aggiungia-
mo, costosa invenzione. La nostra letteratura del primissimo
Novecento resta fedelmente aggrappata alle redini della diligen-
za e del landò. In una lettera del Pascoli da Barga a un suo
amico lucchese, in data 27 dicembre 1901, ecco la voce appare,
sia pure alterata nella forma diminutiva cara al poeta delle
Myricae: «Avere un automobiletto da venire un giorno sf e
uno no, a ritrovare il mio socio, il mio collaboratore»: dunque

75
il Pascoli era per il maschile. Un verso del « Totò Merumeni >>
gozzaniano, anteriore al 1911 , sonava esattamente, in una delle
prime edizioni che ebbi sottomano, « S'arresta un automobile
fremendo e sobbalzando» : ancora maschile; peccato che poi
uno zelante correttore di bozze, in una postuma edizione dei
Colloqui, abbia inserito, certo di sua iniziativa, l'apostrofo, man-
dando a monte quell'interessante documento linguistico.
Per il femminile s'era però a lungo battuto l'inesorabile puri-
sta Costantino Arlia, che nei suoi « Passatempi filologici », pub-
blicati nel 1902, gridava : «Lasciamo stare che i Francesi se la
sbrighino fra loro; quanto a noi dico che, essendo la voce auto-
mobile un adiettivo, essa prende il genere del sostantivo al quale
si unisce. Nel caso nostro il sostantivo sarebbe vettura o car-
rozza; onde vettura automobile, carrozza automobile, e, usando
automobile sostantivamente, essa conserva lo stesso genere, per-
ché si sottintende il sostantivo : il che avviene in altri casi si-
mili, come per es. La territoriale, La mobile, La riserva, dove
si sottintende milizia ».
Cosi si spiega perché a cento anni di distanza ancora qualche
dizionario sembra che tentenni. Ma a proposito di dizionari, ecco
qualche notizia per completare questo curricolo automobilistico,
che non ha nessuna pretesa, si badi bene, d'esser neppure lon-
·tanamente completo. Il primo dizionario a registrare il termine
come aggettivo fu in Francia il Littré, edizione del 1877: «auto-
mobile, adj. Terme de mécanique. Qui se meut de soi-meme
et sans l'aide du mécanicien ». Da noi si dovette attendere
ancora un po'. Il dizionario del Petrocchi, per esempio, che è
del 1902, ancora lo ignora. Il Panzini, nel «Dizionario mo-
derno», prima edizione 1905, lo registra come «voce nuova»,
cosi commentata con la sua solita arguzia: «Automobile : in
origine aggettivo, poi sostantivo, per indicare la nota vettura a
motore, spavento dei viandanti, concorrente con le ferrovie ».
Cita ancora il termine il Prèmoli, nel suo «Vocabolario nomen-
clatore », che è del 1909, con un diffuso elenco delle parti che
compongono la nuova invenzione, e con questa presentazione:
« vettura da diporto, signorile, docile e rapidissima, la quale si
muove da sé con meccanismi ingegnosi. Si è .disputato per deci-
dere di che genere debba essere il sostantivo automobile: il ge-
nere maschile tende a prevalere».
Guardate che tiremmolla! Ma va da sé che invece è la forma
femminile quella che ha vinto la battaglia, e consiglierei pertanto

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i prossimi lessicografi a chiuder la discussione esprimendosi cosi:
«Automobile, sostantivo femminile; in origine anche maschile».
Oggi tuttavia nel parlar comune si preferisce il termine ab-
breviato auto, sempre femminile («la mia auto»), o anche
macchina, come dire la macchina (ahimè) per eccellenza. I Fran-
cesi dicono voiture.
E chiuderò con una nota curiosa: al suo primo apparire, ma
anche oggi in alcuni dialetti, la voce fu spesso alterata in modi
stravagantissimi: altomobile, attomobile, e perfino rotomobile.

La barbèra.
« Produttore di vino », mi scrive un noto enologo della Morra,
nelle Langhe, « tutte le volte che devo presentare la barbèra
mi scontro con ... il barbèra. Posso chiederle la sua opinione? »
La mia opinione? Non sono un esperto, non sono neppure
piemontese o almeno settentrionale, e potrei quindi dire soltan-
to una timida opinione di spilluzzicatore di cose linguistiche. Del
resto, sul genere di certi vini si è sempre discusso, cosi come
sempre si è discusso e si discuterà sui nomi, lo abbiamo già
visto, di certi fiumi, di certe città, il cui genere sorge piuttosto
dall'uso, dalla tradizione. C'è chi dice il marsala e chi la marsala,
chi il frèisa e chi la frèisa, però sulla vernaccia, dopo l'esempio
dantesco ( « l'anguille di Bolsena e la vernaccia ») nessuno p ili
discute: sempre femminile. Gli esperti dicono piu spesso la
barbera; ripetendo l'uso locale piemontese, Morra compresa.
Fui appunto un giorno alla Morra, e sentii portarmi della
barbera in contrasto con me che avevo chiesto del barbera.
Perché io, essendo centrale, avevo sempre sentito pronunziar
cosi, nel maschile. Non credo infatti di sbagliare dicendo che
il vocabolo è costantemente femminile soltanto in Piemonte. Nei
casi dubbi, di solito si ricorre agli esempi classici piu autorevoli;
ma a parte che i classici non sembrano essersi occupati molto
di questo vino (il vocabolario del Tommaseo, infatti, neppure
lo registra), bisognerebbe aspettare, per numerosi spogli, la nuo-
va Crusca. Ci vorrà del tempo. Restano gli autori moderni e
recentissimi, che in genere però seguono l'uso del proprio paese
natio. Sul dizionario del Battaglia, di solito traboccante di esem-
pi, ne trovo pochi utili al caso nostro. Ce n'è uno del Carducci,
tratto dall'epistolario: « Il vino francese è il solo degno di me,

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quando ho l'onore di pranzare da solo a solo con te: non mi va
allora il chianti, e il barbera è troppo duro». Il toscano Car-
ducci usa dunque il maschile; ma lo usa qui; ché altrove, come
ci fa sapere il Monelli, lo stesso Carducci ebbe a improvvisare
un « ritrattino gastronomico » che dice: « Generosa barbera. -
Bevendola ci pare - d'essere soli in mare - sfidanti una bufera»:
un femminile nato probabilmente dalle villeggiature settentrionali
degli ultimi anni. Un altro esempio, pute maschile, è del mila-
nese Emilio de Marchi: «Dopo avere allungato il barbera con
due grosse lagrime, alzò il bicchiere e lo votò d'un fiato ». C'è
infine il noto verso pascoliano: « Serba la tua purpurea bar-
bèra ... », femminilissima, e con tanto d'accento.
Paolo Monelli, modenese, ma fatto esperto dai suoi alpini di
Piemonte, e soprattutto òptimus pòtor, in quel suo delizioso libro
dedicato al Vero bevitore, dichiara espressamente: « Barbera.
È uno dei pochi vini di sesso femminile , come la freisa, l'albana,
la vernaccia, la rUfina, e in Svizzera la dòle; ma se è femmina
è una virago da mettere fuori combattimento la gioventu tene-
rella e delicatina che usa oggi ». Anche Mario Soldati, piemon-
tese di Torino, è naturalmente per la barbera.
La bilancia sembra pendere, dunque, dalla parte del femmi-
nile. Ma vediamo un po' che ne pensano i dizionari che, lingui-
sticamente, dovrebbero avere il peso maggiore. E anche qui la
bilancia pencola ora a destra ora ·a manca, come una barchetta
su un mare agitato. Sono per il maschile il Battaglia, il Devoto-
Oli, il De Felice-Duro, il Dizionario Enciclopedico Italiano, il Di-
zionario Etimologico Italiano, il vocabolario della vecchia Accade-
mia d'Italia; sono per ambo i generi il Migliorini, il Dizionario di
pronunzia della Rai, il Garzanti, l'ultima edizione dello Zinga-
relli, che in passato teneva per il maschile. Il vecchio Palazzi
distingue: femminile l'uva, maschile il vino. Prende posizione
netta il Passerini Tosi : maschile il vitigno, maschile e meno
bene femminile, il vino. Il vecchio Petrocchi non si sbottona:
agg. e sost., senz'altra aggiunta . Siamo nel buio piu fitto. Ricor-
rere all'etimologia? Ma per l'etimologia di barbera ancora si
brancola. Quella piu ripetuta fa risalire il nome, assieme al lom-
bardo albèra, mutato in bianchera, e al toscano albiglio , due
nomi di viti, al latino albuèlis, vitigno che prosperava sulle altu-
re, come si legge in Columella; e questo da alba, altura: perciò,
alla lettera, vite che prospera sulle alture. Benissimo; ma il
genere della parola? E allora, a mio avviso, non ci resta che

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accettare l'uso concordemente femminile del luogo di ortgme,
tanto per il vitigno quanto per il vino. Può essere che questo
femminile sia nato per influsso dei sottintesi vite ~ uva, e che si
sia poi mantenuto, come generalmente accade, anche per il
prodotto. Sul maschile invece avrà influito certamente il nome
sottinteso vino.
Discotso lungo, conclusione poca; la stessa cosa che avverrebbe
del resto con molti altri vini; con l'albana, per esempio: «albana
vero » dice Marino Moretti, « bianca albana » dice Rìccardo
Bacchelli: e son nati entrambi, press'a poco, negli stessi luoghi
Schieriamoci dunque piemontesemente con la barbera, e che
buon pro ci faccia.

«La cellofan» o« il cellofan>>?


Su cellofan ci sono molte cose da chiarire, e non solo intorno
al genere. Perciò vorrei richiamarmi alle origini. Sul finire del
secolo scorso si fabbricò in Francia una materia laminare e
trasparente, resistente e flessibile , ottenuta dalla viscosa con
l'aggiunta di glicerina o di altra sostanza plastificante (se sba-
glio, mi si corregga). A questa materia fu dato ·il nome di cel-
lophane, composto di cella-, abbreviazione di cellulose, cellu-
losa, e del greco phan6s, lucido, trasparente, sul modello di dia-
phane, diàfano: come dire, cellulosa trasparente. Coniato il vo--
cabolo, i Francesi ne fissarono anche il sesso: femminile : la
cellophane; e su questo in Francia sono tutti d'accordo. D'ac-
cordo sono anche gli Spagnoli che, trasformando il vocabolo
francese secondo le loro esigenze linguistiche, hanno fatto cel6-
fana, femminile.
La ridda, l'anarchia comincia da noi, che ripreso il francese
tal quale, lo abbiamo trasformato a orecchio in cellofan, pro--
nunziando « cellofàn », diciamo cosf, alla francese, ma piu comu-
nemente « cèllofan », seguendo il vezzo, tutto settentrionale, anzi
lombardo, di contrarre l'accento sulla prima sillaba in tutti i voca-
boli tronchi in consonante (per esempio fèstival, cògnac, còrdial
invece dei corretti festivàl, cognàc, cordiàl, ecc.). Una volta
accettata la forma francesizzante sarebbe stato naturale, io penso,
mantenerle piu o meno la pronunzia, e dire cellofàn. Ma questo è
il meno. C'era piuttosto da stabilire il genere del nome, e non
era una cosa semplice perché mancava quella vocale finale che

79
nel nostro linguaggio è la guida piu sicura per questa faccenda.
A me pare che il genere femminile sarebbe stato ·il piu logico
e naturale in quanto, come appunto il francese, avrebbe tenuto
conto del primo elemento, e il piu importante, del vocabolo,
che è cellulosa, pacificamente femminile. Dunque, la cellofàn.
Invece no: molti hanno cominciato a dire e a scrivere il cèllofan.
Tuttavia il discorso non finisce qui. Giustamente i nostri lingui-
sti non si sono rassegnati ad accettare questa forma tronca,
senza dubbio di formazione popolare, troppo spiccia e troppo
in contrasto con le nostre esigenze linguistiche. E allora ascoltate.
Per avere un'idea dell'iradiddio che vortica intorno a questo
innocente vocabolo, basta aprire il monumentale e ottimo di-
zionario del Battaglia: « Cèllofan, sostantivo maschile (anche
cellofàn, cello/ane, cellofano; disusato cellòfane, cellofània) ».Non
capisco quel « disusato » e quel « cellofània » invece del piu na-
turale « cellofanfa >>, che avrebbe ripetuto almeno il modello ve-
trofania. Restano poi ignoti i generi di alcuni vocaboli tra paren-
tesi. Il vecchio Zingarelli aveva cellofàne, femminile, ma il
nuovo si corregge e lo fa maschile, aggiungendo anche la forma
cellòfane, raro cellòfano; è maschile nel Battisti-Alessio; il Prati
suggerisce un cellòfane maschile, come anche il Migliorini, che
però vi segna accanto una cellòfana femminile; il Dizionario
Enciclopedico Italiano ha nell'ordine: cèllofan o cellofàn ; an-
che cellòfane, piu raro cellofàno, tutti maschili; il Devoto-Oli
e il De Felice-Duro stanno per il cèllofan o cellofàn, maschile; e
infine l'autorevole DOP oltre il cèllofan o cellofàn maschile, av-
verte che c'è una seconda forma, rara, cellòfane, pure maschile.
Ditemi ora voi come farà a raccapezzarsi il cosiddetto uomo
della strada. Il quale, a mio avviso, seguendo la legge dell'uso,
farà bene a continuare a dire la cellofàn, femminile invariabile,
accentata sull'ultima vocale.

Cervello ...
Al ristorante, un Milanese ordinerà una cervella fritta; un
Romano, invece, un cervello fritto, un fritto di cervello. Qual è
il genere giusto?
Il sostantivo cervello ha due plurali: uno regolare maschile, i
cervelli, uno irregolare femminile, le cervella (lo rincontreremo
quando parleremo dei nomi sovrabbondanti). Questo secondo

80
plurale, però, si usa soltanto in certe particolari locuzioni, tut-
te tragiche, come « bruciarsi le cervella », « farsi sal tar le cer-
vella», «fracassarsi le cervella», « le cervella dell'ucciso». In
ogni altro caso, e in particolare nel significato figurato di
mente, giudizio, senno, memoria, si deve usare soltanto cer-
velli. In certe regioni settentrionali, tuttavia, col plurale fem-
minile le cervella si indica anche l'organo degli animali macel-
lati quando è usato come vivanda, e si dice « una porzione di
cervella», « oggi si mangia cervella»: plurale ignoto in ogni
altra regione d'Italia, ma tutto sommato tollerabile, perché que-
sta vivanda si prepara normalmente in numerosi pezzettini, cioè
in numero superiore all'unità. Ma il guaio è che gli stessi Set-
tentrionali, ingannati da quella terminazione della parola in -a,
hanno finito con l'intender cervella come singolare femminile,
e perciò dicono « ho ordinato una cervella », « la cervella mi ha
fatto male », « era una cervella fritta davvero squisita . E questo,
si capisce, è un errore grave, che bisogna in ogni caso evitare .

... e purè.
Ancora in trattoria: a Milano si ordinerà normalmente una
purè, al femminile; nell'Italia centrale si ordinerà piu spesso
un purè, al maschile; ma si obietta che purè in .francese è
femminile.
Certo, in francese è femminile, ma allora bisogna scrivere
purée, e pronunziare « piiré ». Se invece si usa l'adattamento ita-
liano purè, questo è maschile (e il maschile ci viene probabilmente
dallo spagnolo un puré}. Il francese purée, con cui si indica
quella specie di pappa mangereccia ottenuta spremendo, passan-
do per lo staccio o per altro apposito arnese patate, legumi, ver-
dure bollite, deriva da un antico verbo purelé che significava
appunto spremere, strizzare sugo (secondo il Dauzat, il primo
significato del verbo sarebbe tutt'altro che d'ordine mangerec-
cio: vorrebbe dir suppurare, produrre pus). Nell'Italia settentrio-
nale è anche molto diffuso un altro adattamento, pur esso fem-
minile, purèa: «una purèa di patate».
A proposito di questa vivanda mi vien voglia di riferire quel
che dite il famoso Artusi nel suo ricettario di cucina: « Ormai
in Italia se non si parla barbaro, trattandosi specialmente di
mode e di cucina, nessuno v'intende; quindi per esser capito

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bisognerà ch'io chiami questo piatto di contorno non passato
di patate, ma purée di patate, o piu barbaramente ancora pata-
te mdchées ». Certo, queste righe l'Artusi le scriveva a Firenze,
alla fine del secolo scorso, in piena battaglia puristica. Ma a
leggere oggi queste cose, per di piu in un ricettario di cucina,
sembra di viver davvero in un altro pianeta.

Errata-còrrige.
Nota espressione latina con cui si indica l'elenco degli errori di
stampa sfuggiti al correttore o genericamente al tipografo e non
piu riparabile essendo il libro già stampato. Si colloca di solito
in fondo al volume dopo l'indice, con questa intestazione ap-
punto, e piu raramente in testa o addirittura in un foglietto
v-olante inserito in ciascuna copia del libro. Errata-còrrige (attenti
alla lettura: còrrige e non «corrige »l): alla lettera «correggi
le cose erra te, correggi gli errori >>.
Si discute sul genere da dare all'espressione: un errata-còrrige
o un'errata-còrrige? Fu usata, e a volte si usa, anche al fem-
minile, per via di quella desinenza in -a di errata; ma la parola
è neutra (è il plurale di erratum, errore) e meglio la useremo quin-
di al maschile che è il modo piu regolare, come già s'è visto, di ren-
dere il neutro latino e greco in italiano. Dunque diremo un errata-
còrrige, lasciando il plurale invariato: gli errata-còrrige. Un'ulti-
ma avvertenza; mettete sempre il trattino tra le due parole;
i due elementi compositivi sono infatti inseparabili, fanno come
una parola sola, e la funzione del trattino è appunto quella di
rappresentare questa inscindibile unione. Vero è che a volte,
parlando, si dice anche semplicemente errata ; « L'errata è stam-
pato in fondo al volume ».

Gala.
Ormai si legge e si sente dappertutto un gala benefico, il gala
canoro, i partecipanti al gran gala, e cosi via. Ma una volta
gala non era sostantivo femminile? Non si diceva la gala, una
gala?
E infatti tutti i dizionari, dal piu antico al piu recente, Io re-
gistrano sempre femminile, in ogni sua accezione; ma l'uso e

82
·l'abuso giornalistico e televisivo lo hanno ormai fatalmente ma-
scolinizzato; almeno nel significato particolare di ricevimento,
tratt~nimento solenne, elegante, fastoso. Per capire come sia
avvenuto q,uesto singolare fenomeno, bisogna delineare, sia pure
in breve, la storia di gala. Dall'antico francese gale, divertimen-
to, spasso, allegria, festa, da un verbo galer, di origine germa-
nica, che voleva dire « divertirsi », nacque nel secolo XIII l'ita-
liano la gala, femminile, come la maggior parte dei nostri nomi
in -a, che acquistò via via, nel corso dei secoli, vari significati:
trina, nastro, guarnizione ( « un abito pieno di gale » ); lusso,
sfarzo, apparato solenne (con le frasi comuni «mettersi in ga-
la», cioè in gran lusso, in ghingheri, in fronzoli ; «spettacolo di
gala», lussuoso, sfarzoso; « ricevimento di gala, di mezza gala»,
ricchissimo o meno ricco); di qui, con particolare accezione · nel
linguaggio della marina, « la gala di bandiere » detta anche pa-
vese, cioè ornamento di bandiere disposte a festoni suli.e navi;
infine (e ci siamo), per ulteriore evoluzione di significato, gala
passò a significare la festa, il ricevimento stesso ricco di pompa
e di apparati, e si disse « Una gala di corte », « La gran gala
di capodanno», «Partecipare alla gala di beneficenza». Sempre
femminile, come ben ricorderanno quelli dai quarant'anni in su.
Ma ecco a questo punto che cosa accade: accade che l'ita-
liano gala, verso i primi decennii del Settecento, passa in Fran-
cia con tutti i suoi significati; ma per la tendenza propria della
lingua francese di mascolinizzare i nomi in -a (le réséda, la re-
seda, le vodka, la vodka, le ténia, la tenia, ecc.) anche la nostra
gala diventò le gala (letto naturalmente « galà » ): diventò cioè
sostantivo maschile. Il resto è chiaro: il solito traduttore orec-
chiante (non dirò, come un tempo s'usava dire, infranciosato)
di fronte a frasi francesi come le gala de cour, un gala de bien-
faisance, tradusse disinvoltamente « il gala di corte », « un gala
di beneficenza ». Leggendo, si fosse almeno mantenuta la pro-
nunzia tronca alla francese, che avrebbe giustificato l'improv-
visa mascolinizzazione; no, « gàla », sempre « gàla », all'italiana;
e. questo non può non considerarsi errore. Ha tentato il Mi-
gliorini una giustificazione di questo abuso: considerare gala, in
questo particolar significato, come una forma ellittica di spet-
tacolo di gala, cosi come il varietà, maschile, sta per teatro o
spettacolo di varietà. Abile giustificazione, certo. Ma non di-
mentichiamo che gala ha già, fin dall'origine, il significato com-
piuto di spettacolo solenne, di trattenimento pomposo e festoso.

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II Gènesi.
Parlando del primo libro della Bibbia molti oggi dicono il
Genesi, al maschile, mentre in passato si. è sempre sentito dire
la Genesi.
La parola gènesi, come nome comune, è senza dubbio fem-
minile, come era femminile in Iatiho, gènesis, che l'aveva presa
dal femminile greco génesis, nascita, origine, creazione; siamo
tutti d'accordo perciò nel dire «la genesi del mondo». Co-
me nome proprio, invece, riferito al titolo del primo libro del
Vecchio Testamento, quello che parla appunto della creazione
del mondo, si usò spesso anche nel maschile, il Genesi, a comin-
ciare da Dante, che lo fa accentato, lo Genesi (Inf., XI, 107),
con chiaro riferimento alla parola « libro »; cioè, propriamente,
il (libro della) Genesi. E cosi, nei secoli, il nome biblico fu
usato ora al femminile e ora al maschile, con regolare alter-
nanza; lo usò al maschile il Villani (sec. XIV), ma al femmi-
nile il Davanzati (sec . XVI); tra i moderni trovo in Fogazzaro
« il primo capitolo del Genesi », ma in Papini « rilessi ... tutta
la Genesi». La forma femminile è tuttavia la piu comune.

« II guardaroba » o << la guardaroba »?


Direi che il maschile è ormai il genere preferito largamente
nell'uso: il guardaroba, invariato nel plurale, i guardaroba. I
dizionari, a cominéiar dal Tommaseo, Io fanno generalmente
ambigenere; ma appare certo che l'origine del vocabolo fu fem-
minile: la guardaroba, plurale le guardarobe, tanto nel signifi-
cato di luogo o stanza o armadio dove si conservano vestiti e
biancheria, quanto nel significato di luogo, nei ritrovi pubblici,
dove si depositano temporaneamente soprabiti, ombrelli, ecc.,
quanto ancora nel significato estensivo di complesso di abiti
posseduto da una persona, da una famiglia. Gli esempi classici
(dal sec. XIII) che ho sott'occhio danno il vocabolo sempre
come femminile: «Volendo andare alla guardaroba» (Sacchetti),
«Fummo menati da lui a una guardaroba» (Firenzuola), «Una
ricchissima guardaroba» (Varchi),« Fanno serbare ogni cosa nelle
guardarobe» (Ségneri). Nel francese abbiamo costantemente il
femminile, la garderobe, e cosi pure nello spagnolo, la guardar-
rapa. E certo preferibile sarebbe mantenerlo nel femminile an"

84
che nella nostra lingua, come fanno infatti gli scrittori piu
accurati(« Eravamo alla soglia della guardaroba», D'Annunzio;
«Gran mastro della sua guardaroba», Ojetti). La forma ma-
schile sarà certamente nata per analogia con molti altri nomi
maschili composti della forma imperativa guarda- e di un so-
stantivo femminile: guardacoda, guardastiva, guardasala, guar-
dacaccia, guardapinna, guardaspiaggia, ecc.
Aggiungerò, giacché siamo in argomento, che la parola guar-
daroba si usò anche per indicare la persona addetta alla custo-
clìa della guardaroba; invariabile nel singolare (il, la guardaro-
ba), faceva nel plurale i, le guardaroba o anche i, le guardarobe,
e perfino, per il maschile, i guardarobi: ne trovo un esempio
nella Vita di Michelangelo del Condivi: « mandandogli un giorno
papa Paolo cento scudi d'oro per messer Pier Giovanni, allora
guardaroba di Sua Santità»; e leggiamo nel Manzoni, capito-
lo XXXI dei Promessi Sposi: «e furono in quel luogo so-
printendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri,
guardarobi, lavandai .. . ». In questo senso, tuttavia, il vocabolo
è pressoché sepolto, e s'usa in sua vece guardarobiere, nel fem-
minile guardarobiera.

Medium.
Nasce a volte una discussione sull'uso della parola medium.
Se si tratta di una donna, si deve dire un medium o una medium?
La parola medium è il neutro sostantivato dell'aggettivo latino
medius, mezzo,. che sta in mezzo; propriamente quindi «la perso-
na che sta· in mezzo, che fa da mediano, da intermediario tra il
mondo di qua e il mondo di là». Si tratta di una parola che
io giudico invariabile e da usar sempre nel maschile: il medium,
i medium, siano maschi o femmine. Perciò dire «una· medium »
e «le medium » dico che è sbagliato. In una novella del Piran-
dello, La casa del Granella, trovo questo periodo che potrebbe
metter fine alla discussione: « La signorina Piccirilli, Tinina, si
rivelò un medium portentoso ».

85
Retrobottega.
Il vocabolo retrobottega da alcuni dizionari è dato come fem-
minile, da altri maschile, da altri di entrambi i generi.
Ma retrobottega è correttamente femminile, soltanto femmi-
nile: la retrobottega, le retrobotteghe. Quei dizionari che lo re-
gistrano come maschile non fanno che seguire l'uso prevalente,
che non è certo quello corretto; quelli poi che lo registrano
d'ambo i generi peccano anche di piu perché convalidano, col
loro irre orre, un sistema facilone che serve solo ad accrescere
il già grave disordine regnante nel nostro moderno linguaggio.
Un dizionario serio dovrebbe se mai dire: « retrobottega, so-
stantivo femminile; errato, anche se comune, come sostantivo
maschile invariabile ».
Perché errato? Perché nella nostra ·lingua v.,utte le parole com-
poste con retro- assumono correttamente lo stesso genere della
parola che segue il prefisso. Sono quindi femminili, oltre retro-
bottega, anche i sostantivi retrobocca, retrocàmera, retrocessione,
retroguardia, retrocàrica, retromarcia, retrostanza, retrovia, ecce-
tera. Sono invece maschili retroaltare, retrocamino, retrofeudo,
retrofrontespizio, retrogusto, retrosapore, retrovisore, e qualche
altro.
Lo stesso accade, del resto, nei composti con anti-; per. cui
son femminili, per es., anticamera, anticarica, antidatazione, an-
tiporta, ecc., e sono invece maschili antiporta, antipasto, anti-
fu mo, antiscalo, antibecco , ecc. ecc.
Chi usò per la prima volta retrobottega come maschile senti
certamente quel prefisso retro- come sostantivo maschile, il retro,
cioè il didietro, la parte posteriore: « Il retro della bottega».
Ma gli scrittori piu avveduti useranno sempre il femminile
(«Due ragazze che stavano nella retrobottega », Monelli).
Ci sono due sole eccezioni alla regola che riguarda il prefisso
retro-, ora detto; due eccezioni entrambe spiegabili e sempre
discutibili : retroterra e retroscena. Retroterra, di formazione re-
lativamente recente (risale circa alla fine della prima guerra
mondiale), traduce il tedesco Hinterland, composto di hinter,
dietro, e Land, territorio, paese: propriamente, « territorio che
sta dietro » (sottintendendo « una zona costiera » ). Prima di crea-
re il termine italiano noi usavamo quello tedesco, correttamente,
come maschile: l'Hinterland, un Hinterland; volgendolo in ita-
liano, abbiamo conservato lo stesso genere. E fu certo un errore.

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Retroscena è regolarmente femminile nel significato proprio
di « parte del teatro che sta dietro la scena»; quindi: «Gli attori
attendono nella retroscena », « I pettegolezzi delle retroscene ».
Ma diventa improvvisamente maschile invariabile quando assume
il senso figurato di «ciò che accade dietro la scena»; diciamo
cosf « il retroscena del processo», «i retroscena della politica».
Nel cambio di genere ha certamente agito il senso figurato dell'e-
spressione «ciò che accade»; espressione di valore neutro,
corrispondente al maschile italiano.

(< Il soprano » o (< la soprano »?


Soprano era in origine aggettivo, disceso da un latino volgare
superanus, poi contratto in supranus, da super, sopra. Alla let-
tera, che sta sopra, superiore. « Vfdil seder sopra il grado so-
prano», dice Dante dell'angelo che siede sul gradino piu alto
della porta del Purgatorio. Vive ancora nell'uso letterario; per e-
sempio, leggiamo nell'Innocente di D'Annunzio: «Attinsero le al-
tezze soprane », cioè le massime altezze; e s'incontra in qualche
topònimo per indicare una località situata in posizione domi-
nante rispetto ad altra località omonima: Vezzano Soprano,
Petralia Soprana, in opposizione a sottana (da un latino volgare
subtanus, da subtus, sotto, donde anche la femminile sottana,
propriamente « veste che si mette sotto un'altra veste»). Ag-
giungerò che da soprano si fece la variante sovrano, cosi come
da sopra si era fatto sovra, e si usò come aggettivo (« Omero,
poeta sovrano», Dante) e come sostantivo, nel significato di
re, di monarca (propriamente, colui che sta sopra gli altri, che
ha il piu alto potere).
Nel Seicento si passò dall'aggettivo al sostantivo, e si chiamò
maschilmente soprano (ma propriamente «canto o registro so-
prano ») la voce umana di piu alto registro, quella che è propria
delle donne e dei ·fanciulli, ma che un tempo era anche degli
uomini, i quali la ottenevano con i noti mezzi inumani o anche
mediante il cosiddetto falsetto. In seguito questo sostantivo,
ripeto solo maschile, si adattò anche alla persona dotata di tal
voce, donna, uomo o ragazzo che fosse. E di qui nasce l'incer-
tezza, che ancora sussiste, sul genere di questo sostantivo oggi
che i soprani maschi non esistono piu. Non mi par dubbio,
però, che l'unico uso corretto sia il soprano, al maschile, anche

87
con riferimento a donna; nel plurale, i soprani. Un esempio del
D'Annunzio: « Tilde era un primo soprano non molto giovane»;
nel linguaggio dei critici musicali piu vigilati questa forma
maschile è poi quella generalmente rispettata. Diremo perciò
« il celebre soprano Maria Caniglia », « Questa ragazza diverrà
un ottimo soprano ». Dire, come correntemente spesso si dice,
la soprano, una soprano, e nel plurale le soprano, mi pare fran-
camente un abuso, che consiglierei di evitare. Va da sé che
la stessa regola dovrà valere per il mezzosoprano, plurale i mezzo-
soprani, e anche per il contralto ( « II celebre contralto Marietta
Alboni » ), che farà nel plurale i contralti.

Sòsia e Mecenate.
Quante volte ho letto e sentito frasi come queste: «Anna ~ la
sosia di sua madre», « Quell'attrice non è certo la sosia della
Garbo », parlando di due persone che si somigliano come due
gocce d'acqua o non si somigliano affatto. E tutte le volte mi
vien da dire: che erroraccio! Erroraccio perché? Ma perché sòsia
è un nome maschile, e maschio ha da restare, anche se da
nome proprio una trasformazione l'ha già fatta divenendo nome
comune.
Infatti questo Sosia, per chi non lo ricordasse, è il nome del
servo di Anfitrione, nella famosa commedia di Flauto. (Di nomi
maschili in -a ce n'è parecchi, basterebbe ricordare Enea, Leò-
nida, Bàrnaba e Bàbila: vero è che a Milano il popolo dice
normalmente santa Ba bila!) Nella commedia plautina accade che
un giorno Mercurio, mandato sulla terra da Giove, assume l'iden-
tico aspetto di Sosia, allo scopo di giocare alcune beffe diciamo
piccanti all'infelice Anfitrione. Questo soggetto fu poi ripreso
dal Molière nella commedia intitolata appunto Amphitryon;
e il nome del servo, divenuto subito popolarissimo in Francia,
da proprio si trasformò in comune, venendo a indicare persona
somigliantissima a un'altra al punto da essere scambiata con
questa. Noi riprendemmo il termine dal francese in questa acce-
zione figurata verso la metà dell'Ottocento. Ma sempre come
termine maschile, si capisce. Perciò dobbiamo dire il sosia, nel
plurale i sosia, sia con riferimento a uomo sia con riferimento
a donna. Non possiamo dare a Sosia una sorella dallo stesso
nome! Diremo quindi correttamente: «Anna è il sosia di sua

88
madre », « Quell'attrice non è certo il sosia della Garbo ».
Stona quel maschile accostato a un femminile? Ma stona forse
dire «Anna è il ritratto , il doppione, il modello, lo stampo
di sua madre »?
Una volta una signora mi scrisse press'a poco cosf, a propo-
sito àppunto di questo sosia: « Lei sostiene che sosia resta
sempre maschile anche se riferito a donna. Ma con la parola
mecenate, per esempio, come ci si deve regolare? Si deve dire
che la signora tale è il mecenate degli artisti? Non sente ch'è
una stonatura? »
Non sento; la sentirei se si dicesse «la mecenate ». Mecenate
era un fior di cavaliere. romano, fors'anche con tanto di barba,
e non vedo perché, trasformandosi il suo nome in comune, do-
vrebbe cambiar di sesso. Non tutti i nomi, che diamine, pos·
sono avere i due generi. D'altra parte questi accostamenti di
due generi opposti, in similitudini e paragoni, sono frequentis
simi. Di una donna che veste con colori sgargianti e male acco-
stati si dice che è un arlecchino e non già « un'arlecchina »;
cosi come si dà del pappagallo, e non della « pappagalla », a
donna che imita pose e abiti di altra persona; un uomo che ha
modi e arti raffinate di seduzione può essere definito una
sirena e mai « un sirena », ché di sireni maschi non s'è mai
vista l'ombra in nessuna mitologia. Certe lanciatrici russe di
peso o di disco, massicce e muscolose, sembrano altrettanti ercoli,
nome che piu maschile di cosf non si potrebbe. Voglio dire che
quando si vuole usare un vocabolo bisogna usarlo a dover~ senza
forzature di sorta, specialmente di sesso. Che se poi all'orec-
chio certi accostamenti stonano, c'è sempre il modo di girare
l'ostacolo: per sosia, s'è già visto che il ritratto, il modello
e simili vanno benissimo; per mecenate anche piu semplice:
diciamo che quella tal signora è la protettrice, la benefattrice,
la sostenitrice degli artisti e l'orecchio sarà accontentato.

Nomi geografici.
Si può stabilire una regola per il genere dei nomi propri geo-
grafici? Perché, per esempio, si dice la Colombia, la Bòrmida, ma
si dice il Guatemala e il Ghana?
Basterebbero questi pochi esempi per dimostrare che una
regola non è possibile stabilirla, salvo che si voglia considerar

89
regola una pura e semplice enunciaZione generica seguita dal
solito codazzo di eccezioni. La regola, semmai, è questa: che
i nomi propri geografici seguono in quanto al genere la mede-
sima sorte dei nomi comuni indicanti cose inanimate; le quali
cose, non potendo avere un sesso come Io hanno gli uomini e
gli animali, dovrebbero considerarsi propriamente di genere neu-
tro (come accade infatti in alcune lingue antiche e moderne);
ma l'italiano non ha il neutro, e perciò è stato assegnato alle cose
inanimate ora l'uno ora l'altro dei generi, secondo l'origine, se-
condo la tradizione o l'uso.
Certo, generalmente si dice che sono maschili i nomi che
escono in -o e femminili quelli che escono in -a, e senza dubbio
anche la maggior parte dei nomi propri geografici segue questa
regola; ma come abbondano le eccezioni per i nomi comuni (la
mano, il poeta), cosf abbondano anche per i nomi propri geo-
grafici: il Canadà, il Ghana, il Guatemala, il Kenia, il Panamà,
il Ruanda, il Tanganica, il Venezuela, l'Alto Volta, ecc. La
Cambogia spesso si mascolinizza nel Cambogia, e la Costa Rica, .
sempre femminile quando è scritto in due parole, diventa il Co-
starica quando è scritto (malamente) in una parola sola.
Per i nomi di fiumi, di laghi, di mari, di monti ecc., spesso
influisce sul genere il nome comune corrispondente; cosi abbia-
mo il Caspio (sottinteso mare), la bella Cipro (sott. isola), il
Volga ( sott. fiume), ma meglio la V alga, come presto vedremo,
il Garda (sott. lago), ecc. I nomi di città si considerano gene-
ralmente femminili appunto per la sottintesa parola città, vale-
vole poi anche per i semplici paesi e i borghi e i villaggi : «Roma
eterna», «la vecchia Aosta», e anche « la regal Torino», « l'in-
dustriosa Milano», «la marzia Todi». Ma qui pure, quante ecce-
zioni! Ecco « il rapido Mella» manzoniano, ecco «la Piave»
del Gozzi, di Paolo Monelli e di tutti i Veneti, di fronte al
Piave dello Zanella, del Carducci, del D'Annunzio, dei bollettini
di guerra e del famoso inno patriottico; canta ancora il Car-
ducci l'« Asti repubblicana» e «l'alta Spoleto» ma anche «il
dolce Mondovf ridente»; e i Fiorentini inneggiano al «bel mf'
Firenze ». Insomma, un'iradiddio di eccezioni, di contraddizio-
ni che nascono appunto dal fatto che tutta questa roba rientra nel-
la categoria dei nomi comuni e non ha, né potrebbe avere, un ses-
so definitivo. Dove si potrebbe tuttavia mettere un po' d'ordine
sarebbe nei nomi di città, facendoli tutti femminili, pur rispet-
tando quei casi dove il genere maschile si è ormai storicamente

90
e amministrativamente stabilizzato: il Cairo, il Pireo, Monte-
catini Alto, Belvedere Marittimo, Loreto Aprutino. E diciamo,
lasciando ai poeti, come sempre, libertà d'azione, «la sabauda
Torino», « la generosa }.filano», « Assisi francescana», «Como
industriosa », e anche, perché no?, « la bella San Marino >).

L'Etna.
Si è letto questo titolo su un giornale: «L'Etna si è risvegliato>).
L'Etna è dunque nome maschile? Il dizionario di pronunzia
della RAI lo fa maschile, altri lo fanno femminile. Era femmi-
nile in greco, Aitne, e nel latino, Aetna. Virgilio, se pure il
poemetto Aetna è suo, cantò il vulcano al .femminile. Ma il Rapi-
sardi, poeta siciliano di pura razza, lo cantò al maschile:. « E tu
tranquillo di vermiglie arene E di colti e di boschi ampio t'am-
manti >). Ma discutere del sesso dei nomi geografici, ho appena
finito di dirlo, è fatica vana. Meglio è attenersi all'uso, e pre-
feribilmente a quello del luogo. Non avendo a portata di mano
un Siciliano adeguato, vorrei girar la domanda a qualche let-
tore di buona razza etnea. Nel maschile hanno certo influito
i sottintesi monte o vulcano; come altri sottintesi influiscono sul
genere di moltissimi topònimi.

«Il Volga» o <<la Volga»?


In russo, Volga è femminile; femminile è anche in francese; ma-
schile è invece in spagnolo, e comunemente maschile s'usa in ita-
liano. Però il femminile la Volga s'incontra anche presso alcuni
scrittori(« dalla Volga al Golfo persico» leggo in D'Annunzio), e
soprattutto presso gli slavisti, che rispettano il genere origina-
rio russo. Il Lo Gatto, per esempio, usa costantemente la Volga.

La donna negli uffici.


Tutte le volte che la donna fa un passino avanti nelle sue con-
quiste sociali (speriamo con suo e nostro vantaggio), succede
il solito parapiglia grammaticale. Un « affezionato lettore » mi
scrisse un giorno a questo proposito: «Vedo che tutti i dizionari,

91
anche quelli piu recenti e piu voluminosi, trascurano di dirci
qual è il femminile di ferroviere, oggi che numerose sono le
donne nei ruoli delle ferrovie . Aggiungerò con disappunto che
i dizionari in genere, salvo rarissime eccezioni, e neppur sem-
pre costanti, si dilungano in notizie non propriamente linguisti-
che, ma tacciono poi davanti a certi dati squisitamente gram-
maticali, come le varianti femminili di nomi maschili, i plurali
o le forme verbali irregolari o difficili, e via dicendo; si che
spesso ci fanno chiudere il volume delusi e indispettiti».
È vero. Io stesso ho fatto spesso questa osservazione. La
modernità, l'utilità di un dizionario non è solo nel numero dei
vocaboli che si vanta di registrare, ma anche, e direi soprat-
tutto, nella chiara indicazione del modo come vanno corretta-
mente usati. Molti nostri lessicografi, occupatissimi a sciupare
·spazio e tempo preziosi per descriverei minutamente, poniamo, i
ciclostomi o la coriotide e le corriat-ràcee, e a indicarci con molta
pignoleria le parti in cui si divide l'encefalo (tutte bellissime
nozioni, che però meglio e piu opportunamente andremo a cer-
care nelle enciclopedie dove sarà possibile trovare maggiore
esattezza e compiutezza di informazione), farebbero meglio, a
mio parere. ad occuparsi di quelle nozioni di lingua che sono
di stretta pertinenza dei vocabolari.
Come nel caso della voce ferroviere, che può essere tanto
aggettivo quanto sostantivo, tanto maschile quanto femminile.
Il femminile è ovvio? Certo è ferro viera, cosi come da infermiere
si è fatto infermiera. Ma tanto ovvio non pare, se poi la gente,
nella pratica, va a scartabellare il volu~e per sapere come ca-
varsi d'impaccio. E poi a me sembra che in sede di vocabolario
sia piu utile la pur ovvia informazionedella ferroviera femmina,
che venirci a dire che l'amamèlide ha fiori a glomel"t!li ascellari
e il frutto a capsula deiscente.
Ma lasciando questo pur opportuno argomento, torniamo ai
nostri ferrovieri, che una volta divenuti femmine non potranno
chiamarsi altro che ferroviere, e non ferrovieri in gonnella come
qualche giornalista le ha battezzate. Aggiungerò, restando nel
campo ferroviario, di aver letto tempo fa un articolo di gior-
nale che, dovendo trattare appunto delle nuove assunzioni fem-
minili nell'amministrazione delle ferrovie, aveva messo il croni-
sta in una pastoia grammaticale molto penosa. Dopo aver par-
lato di « donne ferroviere» , con una felice concordanza di due
femminili plurali, ecco che subito il giornalista inciampò in una

92
donna conduttore, col relativo plurale donne conduttori, scu- ·
sandosi della stridente sgrammaticatura col fatto che «non esi:
ste ancora nella terminologia ferroviaria la parola conduttrice»;
come se la parola conduttore non avesse avuto fin dall'origine
un femminile regolare conduttrice, di cui si potrebbero ripor-
tare esempi fin dal Quattrocento. È proprio necessario aspet-
tare una circolare governativa per applicar questo femminile a
un'impiegata delle ferrovie?
Ma la cosa non si fermò qui. Nello stesso articolo si parlava
anche del grado di capostazione ora assegnato ad alcune gio·
vani donne. II cronista se la cavò col solito capostazione in gon-
nella. Io non mi attenterò mai di chiamare « il capostazione »
una ragazza femminilmente in fiore sol perché non è venuta an-
cora da Roma l'autorizzazione a chiamarla, come la logica e la
grammatica consigliano, la capostazione. Questi composti con
capo- ne danno, certo, del filo da torcere; ma nel caso nostro le
cose dovrebbero andar piuttosto lisce dopo i numerosi termini
ormai vecchietti e stabilizzati nel nostro linguaggio come la
capufficio, la capoclasse, la caposquadra, la capoturno e cosi
via, coi loro bravi plurali invariabili le capufficio, le capoclasse,
le caposquadra, le capoturno. Ed ecco invece il solito cronista
fare un nuovo scivolone: « le capistazione ». I capistazione ma-
schi, si; ma femminilizzando, lasceremo anche qui invariato il
termine, e diremo le capostazione; e, quando verranno, anche
le capotreno.

Sindachessa, ambasciatrice ...


Altra domanda che molti si fanno, e che i dizionari al solito
non risolvono: un sindaco in sottana è una sindachessa o resta
sindaco? Un avvocato che si chiama Maria o Maddalena resta
avvocato o -si tramuta in avvocatessa?
Ricordo le chiacchiere che si profusero quando, per la prima
volta al mondo (almeno cosi credo), fu nominato come amba-
sciatore americano a Roma una donna, la squisita signora Cla-
ra Boothe Luce. Nessuno osava chiamarla ambasciatrice; ma tut-
ti « l'ambasciatore Clara Luce » e allora venivan fuori cosette
davvero amene, come quella volta che un giornale, nel reso-
conto di una serata di gala, avverti compiaciuto che l'ambascia-
tore americano era intervenuto indossando « un superbo abito di

93
seta color malva molto scollato», e un altro giornale parlò im-
perterrito del «marito dell'ambasciatore americano a Roma»,
alludendo all'editore Henry Luce, coniuge di Clara. Di fronte
a queste baggianate, la logica e la grammatica ebbero alla fine
la meglio; e finalmente si senti dire e si vide stampato l'amba-
sciatrice Clara Luce.
Voglio dire che per me, che cerco di ragionare sempre a fil
di logica, appunto, e di grammatica, certi problemi, come questi
del sindaco e della sindachessa, dell'ambasciatore e dell'amba-
sciatrice, non si pongono neppure. La grammatica insegna una
cosa elementare: che per gli uomini esiste un maschile e per le
donne un femminile. Non si può fare eccezione per un sindaco
o per un ambasciatore. Il fatto è che certe svolte sociali, come og-
gi si ama dire, portano sempre con sé perplessità e discussioni in
ogni campo. Sentite questa, che è storica. Un tempo, tutti i pit-
tori erano maschi, almeno quelli celebri, quelli noti. Ma ecco
che tra il Seicento e il Settecento spuntano due astri pittorici
femminili, Artemisia Gentileschi e, mezzo secolo piu tardi Ro-
salba Carriera. Fin allora s'era usata la sola parola pittore (con
le varianti p ili antiche dipintore e pintore ); ora bisognò classi-
ficare anche queste donne artiste, e sorse il problema lingui-
stico: come definirle? Il latino classico non suggeriva niente in
proposito, offriva solo il pictor, pictoris maschile. Esisteva pe-
rò un aggettivo femminile, pictrix, pictricis, creato nel basso la-
tino: si diceva, per esempio, natura pictrix, natura pittrice;
e a questo aggettivo si rifecero i letterati dell'epoca sostantivan-
dolo, e dissero la pittrice Artemisia Gentileschi, la pittrice Ro-
salba Carriera. Da allora pittrice al femminile diventò comune
nell'uso, e nessuno oggi penserebbe di poter dire che la Genti-
leschi e la Carriera furono « due celebri pittori ».
Solo un centinaio d'anni fa o poco piu, le donne non eser-
citavano nessuna pubblica professione, e assai rare eran pure le
professioni private, si che i nomi professionali eran tutti maschi-
li. Oggi chi discuterebbe sull'appellativo di maestra da dare a
un'insegnante di scuola elementare? Arrivarono poi le profes-
soresse, arrivarono le dottoresse e le medichesse e le ragioniere, e
oggi nessuno piu si meraviglia di questi appellativi. Non riesco
davvero a capire la perplessità soprattutto di certi giornalisti
di fronte a questi problemi che non esito a definire elementari.
Un giorno eleggono al senato una donna, e nelle redazioni si
crea lo smarrimento. Com'è il femminile di senatore? Si può

94
dire il senatore Merlin? Nessuno pensa che i nomi in -tore fan-
no normalmente in -trice, come da imperatore si fa imperatrice;
alla fine, è vero, spunta il femminile senatrice, ma ce n'è vo-
luto del tempo e del coraggio per decidersi ad appiccicarlo al nome
di una donna.
Si è letto anche di donna e donne deputato; ma perché non
dire subito la deputata, le deputate? Da una terminazione ma-
schile in -o nasce regolarmente un femminile in -a : dunque de-
putata; tanto piu che qui si tratta di un patticipio passato del
verbo deputare : cioè persona deputata a rappresentare in par-
lamento un certo numero di elettori. Una donna che abbia otte-
nuto questo incarico non può essere che una deputata, e non
una deputatessa, come alcuni anche oggi insistono a dire.
Per avvocato, la stessa cosa: altro participio passato, questo
di origine latina: advocatus, da advocare, chiamare presso, cioè
persona chiamata presso chi deve essere assistito in un giudizio,
propriamente assistente, protettore. Maschile in -o, femminile in
-a: avvocata, e niente avvocatessa (del resto avvocata nostra, nel
senso di « divina protettrice » si recita da secoli nelle preghie-
re come attributo della Madonna).
Mi torna ora alla mente la perplessità di un presentatore tele-
visivo quando doveva rivolgersi al notaio per risolvere qualche
problemuccio procedurale; finché questo notaio fu maschio, tut-
to semplice: « Signor notaio »; ma un giorno allo stesso tavoli-
no giudicante misero una donna, ed ecco il presentatore doman-
darsi: notaio o notaia? Poi risoluto spaccò salomonicamente il
problema a mezzo e disse: «Signora notaio». Non pensò che i
sostantivi in -aio fanno al femminile -aia, che dal cartolaio si fa
la cartolaia, dal fornaio si fa la fornaia, dallavandaio la lavandaia,
e che dicendo signora notaia si evitava di mandare a gambe al-
l'aria la grammatica.
E non parliamo dei ministri in gonnella. L'orgasmo linguistico
cominciò quando fu nominata all'alta carica di primo ministro
una gentile signora indiana. Ch'io sappia, nessuno ha mai ten-
tato di chiamarla ministra ; eppure la grammatica dice che il
femminile di sinistro, per esempio, è sinistra.
Qualcuno obietta: esistono da tempo, è vero, alcuni femminili
di nomi indicanti professioni, ma usati solo per designare la mo-
glie di chi questa professione esercita. È un ragionamento che
non cambia di un pelo la questione. Se ambasciatrice e sinda-
chessa e ministra si usavano fino a ieri per indicare la moglie

95
dell'ambasciatore, del sindaco e de! mm1stro (si usava anche
ministressa, ma con valore ironico o scherzoso), che cosa impedi-
sce, dal punto di vista grammaticale, che gli stessi femminili si
trasferiscano alla donne titolari delle stesse cariche?
S'intende, e sia ben chiaro, che il maschile resta maschile
quando si voglia impersonalmente indicare la carica, il titolo in
sé: « La signora tale è stata nominata sindaco di Spello », «Co-
me ministro sceglieranno la figlia di Nehru ·>>. Ma solo in que-
sto caso.

Giudicessa.
Dalle trasmissioni televisive di una serie intitolata Di fronte alla
legge, gli Italiani appresero che esiste un vocabolo: giudicessa.
« B un vocabolo nuovo? » mi chiesero. « Non sarebbe meglio di-
re la giudice? »
Giudicessa non è un vocabolo nuovo, è anzi antichissimo, e
risale al latino medievale iudicissa, femminile del classico iudex,
iudicis, da cui l'italiano giudice.
Aggiungerò che non solo il termine è antico, ma ebbe in ori-
gine una determinazione specifica, designando inizialmente la
donna a capo di un giudicato. La Sardegna medievale fu per
un certo tempo divisa in quattro giudicati, divisioni territoria-
li autonome con a capo un giudice che rappresentava il supre-
mo organo giudiziario e amministrativo del territorio. Quando,
morto Mariano II giudice del giudicato di Arborea, assunse il
potere sua figlia Eleonora, non si disse, come oggi si sarebbe
detto, « il giudice Eleonora di Arborea », ma « Eleonora giudi-
cessa di Arborea », come infatti si legge scritto in tutti i do-
cumenti dell'epoca. Accanto a giudicessa si usò anche la forma
gìudichessa, che si riallaccia al verbo giudicare piuttosto che
al sostantivo giudice, e che mi sembra meno raccomandabile.
Ma a parte la validità linguistica del vocabolo, c'è però da
osservare che nel significato moderno l'unico termine da usare
con riferimento a donna addetta all'amministrazione della giu-
stizia è la giudice, plurale le giudici; si tratta di uno dei tanti
nomi in -e, che la grammatica chiama «di genere comune», che
non mutano cioè passando dal maschile al femminile: come il
nipote e la nipote, il custode e la custode, il coniuge e la coniu-
ge, ecc. C'è anzi un precedente specifico, la preside, oggi d'uso

96
normale dentro e fuori della scuola. Facciamo dunque che art-
che la giudice diventi di uso comune dentro e fuori dei tribunali.

La vigile urbana.
La giunta municipale milanese decise qualche anno fa di bandi-
re un concorso per vigili urbani riservando venti posti a gio-
vani donne disposte a svolgere questa attività. E subito risorse
il problema: come chiamare queste guardie in gonnella? Un
giornalista, commentando la notizia, si fece infatti la stessa do-
danda; e cosi sbrigativamente la risolse: «brutto termine vigi-
lesse, meglio hostesses della strada ».
Che a molti Italiani, anche di buona cultura, sembri ormai piu
adatta per capirsi la lingua inglese che la propria, è un fatto
che vado notando da un pezzo; ma qui mi sembra che il giornali-
sta esageri. Siamo infatti di fronte, nel caso d'oggi, a un · pr.J-
blemino di grammatica elementare, quello stesso che abbiamo
appena finito di considerare a proposito della giudice e della
giudicessa. Anche la paro1a vigile fa parte di quella categoria
di nomi in -e che vengono chiamati « di genere comune » per-
ché hanno un'unica forma tanto per il maschile quanto per il
femminile, e per distinguerne il genere bisogna osservarne l'arti-
colo. Perciò se nel maschile abbiamo il vigile, i vigili, nel fem-
minile ripeteremo esattamente la stessa forma, cambiando solo
l'articolo: la vigile, le vigili. Niente di trascendentale, come si
vede. Nessuno, voglio sperare, vorrà creare un goffo termine
nuovo, vigilessa, solo perché chi vigila ha le gonnelle invece dei
calzoni . E non voglio neppur commentare l'espressione hostesses
della strada dove, parola inglese a parte, quella specificazione
« della strada » appare piuttosto una irrigua-rdosa qualificazione.

Le soldate d'Israele.
Leggo su una rivista questa didascalia:« Donne soldato israelia-
ne in esercitazione». Un amico mi dice: «Quel donne soldato
mi stona. Non sarebbe meglio dire soldatesse? »
Ho detto già, e qui ripeto, che in casi come questo la solu-
zione piu semplice è quella di seguire gli schemi morfologici tra·
dizionali, che solo in pochi casi, sempre risolvibili di volta in

97
volta, oppongono vere difficoltà di soluzione. Da una terminazio-
ne maschile in -o non può nascere normalmente che un femmi-
nile in -a; lo abbiamo visto per deputato e per avvocato che fan-
no nel femminile deputata e avvocata. Quindi da soldato non
può nascere che saldata. Inoltre, anche soldato, come già vedem-
mo per deputato e avvocato, non è che una forma verbale sostan-
tivata, e propriamente il participio passato del verbo saldare,
verbo oggi disusato, ma nato assai prima di quell'assoldare che
invece è tuttora vivo nella nostra lingua. Saldare, derivato da
soldo nel significato di paga, mercede, voleva dire « prendere a
soldo », « prendere a mercede », e il verbo nacque quando le
milizie erano appunto mercenarie, cioè al servizio di questo o di
quello che meglio le pagava. Un soldato, un « assoldato », non
può diventare nel femminile altro che una saldata, anche se og-
gi il soldo, almeno nel senso antico, non c'entra per nulla. Sol-
datessa , con quella terminazione -essa che in certi casi dà al vo-
cabolo una connotazione spregiativa o ironica, !asciamola a cer-
te viràgini la cui mascolinità non è nella funzione ma nel carat-
tere: « Quella soldatessa di sua moglie ... » Niente in comune con
le soldate israeliane o cinesi.

Il direttore Carolina.
Ci fu una volta una bella e colta signora che mi scrisse questa
lettera: « Mi hanno affidato la direzione di un periodico setti-
manale, e devo per legge, come lei sa, apporre il mio nome e la
mia qualifica in testa o in coda del periodico stesso. Come devo
firmarmi : direttori! o direttrice? » La domanda mi parve ele-
mentare, non credetti insomma che rappresentasse un proble-
ma; e subito risposi alla signora press'a poco cosi: «Dato che
lei, secondo quanto mi dichiara, è donna, l'unico termine che
le si compete per natura e per grammatica non può essere che
di genere femminile; quindi direttrice, che è appunto il femmi-
nile di direttore ».
Come neppure detto; perché il periodico, diretto con vera
competenza da questa signora che chiamerò, tanto per capirci,
Carolina Orsini, continua a uscire da qualche anno infiorettato
sul bel principio da questa sgrammaticatura: «Carolina Orsini,
direttore responsabile». E non è il solo, intendiamoci.
Obiettano: ma qui direttore si vuoi riferire impersonalmente

98
all'ufficio, alla carica. Obiezione respinta: diremo, si capisce,
impersonalmente al maschile, « chi è il direttore del periodico? »,
non conc•scendo chi lo dirige; diremo: « Siamo in cerca di un
buon direttore », «Qui ci vorrebbe un direttore di polso», e al-
tre frasi di questo genere; ma se a questo sostantivo, per lo piu
collocato in funzione appositiva, facciamo seguire o anche pre-
cedere un nome proprio . femminile, fondendoli insieme in un
costrutto sintattico compiuto, la concordanza nel genere s'impo-
ne, non ci son santi. Diciamo Luigi XV re di Francia, ma dicia-
mo Caterina II imperatrice di Russia, non già imperatore.
Scrisse a questo proposito il compianto Giacomo Devoto al-
cune righe che raccomando alla lettura di questi strani direttori
impropri, com'egli li chiama: «Ci sono donne che tengono al-
la mascolinità del loro grado e firmano il direttore dell'istituto.
Le disapprovo per l'alone di cui inconsapevolmente si circon-
dano. Fino a tanto che non le conosciamo, questi direttori impro-
pri ci richiamano accenti, fattezze e trascuratezze mascoline, del-
le quali poi non appare traccia. Raggiunta la parità di diritti,
non c'è ragione che le donne si mimetizzino da uomini, facen-
do violenza a strutture grammaticali non adatte ad acconten-
tarle».
VIII
Plurali facili e no
Ciliegie e province.
Si apre un vocabolario e si apprende che il plurale di ciliegia è
ciliege; se ne apre un altro, e si scopre che il plurale è invece
ciliegie; uno prescrive provincie, un altro province. Ma non c'è
dunque una regob per i plurali di questi nomi in -eia e in -gia?
Una regola unica e tassativa sul plurale di questi nomi non è
in teoria possibile per la semplice ragione che la i àtona delle
due terminazioni -eia e -gia non ha sempre Io stesso valore:
ora infatti è puro segno grafico per ottenere la pronunzia
schiacciata delle consonanti c e g, come in micia e valigia; ora
invece ha valore sillabico, fa cioè parte integrante della parola,
come in provincia e in orgia. È chiaro che nel primo caso la i
nel plurale appare superflua, e perciò dovremmo scrivere mice
e valige ; nel secondo caso invece bisognerebbe mantenerla an-
che ·nel plurale, scrivendo provincie e orgie. Ma una difficoltà
salta subito agli occhi: come si fa a sapere se quella benedetta i
è puro segno grafico, e perciò sopprimibile nel plurale, oppure è
vocale sillabica, e perciò non sopprimibile? Solo gli specialisti
(e non sempre, perché a volte essi stessi si trovano a non andar
d'accordo) possono sapere con che razza di i si abbia che fare .
Di qui la necessità di proporre una regola pratica, semplice sem-
plice che anche uno scolaretto elementare possa rammentada e
applicarla, una regola che alla fine risolva almeno uno dei piu
comuni problemi ortografici che da secoli si trascinano senza ra-
gione alcuna nella nostra lingua. E la regola è stata trovata; è
certo una regola « di comodo » , ma è ormai generalmente consi-
gliata dalle grammatiche non solo perché è pratica, ma anche
perché ha il merito di dare nella grandissima maggioranza dei ca-
si lo stesso risultato che darebbe una regola storicamente formu-
lata. Qual è questa regola? Eccola: le parole dove -eia e -gia (con

103
la i àtona) sono precedute da vocale fanno il plurale in -cie e
-gie, mentre le parole dove -eia e -gia sono precedute da conso-
nante fanno il plurale iQ -ce e -ge; avremo perciò audacie, fiducie,
ferocie, contumacie, camicie, bigie, regie, grigie, valigie, ciliegie,
micie; ma avremo province, pance, pronunce, gocce, bisacce, orge,
bolge, frange, micce. Rientrano nel secondo caso della regola an-
che le parole in -scia, che nel plurale termineranno sempre in -sce:
fascia, fasce, striscia, strisce, ascia, asce.
È chiaro che questa regola non può valere per le parole dove
la i sia tònica, cioè accentata, come in farmacia, nevralgia, bugia,
nostalgia, ecc. : qui la i è necessaria anche nel plurale, e scrivere-
mo farmacie, nevralgie, bugie, nostalgie. Tutto qui. Non sba-
glia perciò chi scrive provincie, perché si attiene alla regola sto-
rica, come non sbaglia chi scrive province, perché si attiene al-
la regola pratica. L'ortografia, lo sappiamo, altro non è che una
convenzione, e a me sembra che quando una regola serve a ri-
muovere senza danno un motivo continuo di dubbi e di confu-
sione, debba essere approvata e raccomandata. Ci sono perfino
dei grammatici che con questo lodevole intento vorrebbero an-
dare anche piu in là, abolendo la i nel plurale in ogni caso; ma
davanti a parole come audace, efficace, feroce, sagace che dovreb-
bero andar bene sia come aggettivi singolari sia come sostantivi
plurali, io, che sono sempre propenso a semplificare, resto fran-
camente perplesso.

Fàrmachi o fàrmaci?
Per il plurale dei nomi in -eia e -gia una regoletta s'è dunque
trovata, sia pure empirica, ma soddisfacente. Ora vien fatto pe-
rò di chiedersi se un'analoga regola, empiricissima quanto si vo-
glia ma pratica, sia possibilé trovarla anche per un altro ordine
di plurali spinosissimi, quelli delle parole in -co e in -go, come
farmaco e archeologo, stomaco e chirurgo. Dobbiamo dire far-
mathi o farmaci, archeologhi o archeologi, stomachi o stomaci,
chirurghi o chirurgi?
In verità, una regola per questi plurali è stata parecchie vol-
te tentata, ma sempre con risultati poco o nulla soddisfacenti:
non si può infatti chiamar regola quella che, a stento acciuffa-
ta per i capelli, finisce poi con l'affogare in un'ondata di ecce-
zioni. Del resto, fin dal Seicento l'accademico segretario della

104
Crusca Benedetto Buonmattei aveva detto chiaro e tondo che
questo plurale « non si può ridurre a regola ». Egli aveva in-
fatti ben presenti esempi fin dal Trecento, che alternavano
salvatichi a pratici, dittongi e dialogi a sindachi e a equivochi,
fino ai suoi contemporanei che scrivevano aprici e bifolci ma
fantastichi e reciprochi. La cosa poi non è di molto mutata nei
secoli seguenti, tanto che troviamo parrochi nel Manzoni, reci-
prochi nel Foscolo, pratichi nel Tommaseo, e via via avvicinan-
doci ai nostri giorni, aprici e pudici nel Carducci e lombrici nel
Rapisardi (questi e molti altri esempi allinea il Migliorini nella
sua « Storia della lingua italiana»). E oggi? L'altalena con-
tinua, anche se un po' rallentata almeno nei vocaboli di mag-
gior consumo. Ma stomachi vuole ancora Paolo Monelli e lastri-
chi Virgilio Lilli.
Una regola in strettissimo senso non potrebb'essere che quel-
la suggerita dal latino, dove a una terminazione in -cus e in -gus
(donde appunto le terminazioni italiane in -co e in -go) corri-
spondeva sempre una terminazione plurale -ci e -gi: focus, cadu-
cus, diàlogus, pròfugus avevano il plurale foci, caduci, diàlogi,
pròfugi : ma, come si vede, si tratta proprio di parole dove il
plurale italiano si è ormai stabilizzato nella forma gutturale,
fuochi, caduchi, diàlogbi, pròfughi, e nessuno potrebbe seria-
mente pensare di modificarlo oggi in palatale: « fuoci », « dialo-
gi », ecc. Dunque, di una regola unica, stabile non è certo il ca-
so di parlare.
La ragione di queste alternanze di plurali, ora con suono
gutturale ora con suono palatale, sta nella vita stessa di ciascu-
na parola : alcune sono di derivazione popolare, altre sono di
derivazione dotta. Nel primo caso, il plurale è stato foggiato
sul suono gutturale del singolare: da fuoco si è fatto fuochi,
da caduco, caduchi, da largo, larghi, fuori d'ogni legame con i
plurali latini corrispondenti, foci, caduci, largi; nel secondo ca-
so, invece, la formazione dotta ha scrupolosamente rispettato
la forma latina palatale, e cosi da amico si è fatto amici, da
greco, greci, da asparago, asparagi. Per molte di queste parole,
l'una o l'altra forma hanno assunto una stabilità che nessuno
ormai piu discute; per molte altre, invece, le oscillazioni sono
ben vive, e creano quella confusione, quelle incertezze nella
pratica quotidiana del parlare e dello scrivere che si trascinano,
come s'è visto, da secoli. :B il caso appunto di farmachi e far-
maci, manichi e manici, chirurghi e chirurgi, stomachi e stoma-

105
ci, filologhi e filologi, sarcofaghi e sarcofagi, e di centinaia di
altre parole di antica e di nuova formazione.
Se le grammatiche, invece di cincischiar regolette stente che
vengono poi sommerse da valanghe di eccezioni, dicessero fran-
camente che una regola qui non esiste perché -non è possibile
che esista, e rimandassero per questi plurali semplicemente ai
dizionari; e se i dizionari, per loro conto (intendo quelli redatti
per fini pratici, scolastici), nei casi di doppio plurale si risol-
vessero a indicarne uno solo, si finirebbe, piu presto di quel
che non si creda, col risolvere anche questo problema di sem-
plicé ortografia. Che scopo c'è di continuare ad avvertire che
farmachi, si, è corretto, ma forse è meglio dir farmaci; che
stomachi è piu usato di stomaci, che parrochi nessuno piu lo
usa e ' si preferisce dir parroci, ma il Manzoni scrisse parrochi
e perciò possiamo servircene anche noi tranquillamente? Che
scopo c'è, dico in sede pratica, di continuare a confonder la
testa con queste grammaticherie?
Mi è stato detto che io ho la mania della pianificazione. In
fatto di ortografia, sL Non si offende certo il genio di una lin-
gua, non. se ne àltera certo la fondamentale struttura met.tendo
un epo' d'ordine in certe faccende di natura strettamente orto-
grafica, che si sa come son nate e perché son nate. D'altra par-
te, l'enorme massa dei parlanti e degli scriventi deve pur sapere
a quale norma attaccarsi senza tanti quotidiani tentennamenti.
Il letterato, l'artista è sempre fuor di questione anche in que-
ste faccende di forma : egli può scegliere tutte le forme che
vuole, e anche inventarne, se crede: la responsabilità resta tut-
ta sua.
E da questo discorso, si, mi pare che potrebbe nascere una
« regola»; e se autorità avessi, vorrei cosi proporla: primo, ri-
spettare tutte le forme plurali, palatali o gutturali, ormai con-
solidate nell'uso; secondo: attenersi sempre e soltanto alla pro-
nunzia palatale, secondo la legge latina, in tutte le altre forme
ancora oscillanti: perciò soltanto farmaci, parroci, manici, sto-
maci, intonaci, chirurgi, taumaturgi, intrinseci, reciproci, ecc. Per
le parole in -lago, che son moltissime e sempre se ne coniano
di nuove, atteniamoci alla distinzione, ben funzionante, tra pa-
role che indicano cose, come monologo, apologo, prologo, epi-
logo, riepilogo, dialogo, le quali hanno sempre il plurale gut-
turale, monologhi, apologhi, prologhi, epiloghi, riepiloghi, dia-
loghi, e parole che indicano persone, come filologo, psicologo,

106
sociologo, astrologo, archeologo, teologo, che hanno sempre il
plurale palatale: filologi, psicologi, sociologi, astrologi, archeolo-
gi, teologi. Le parole in -fugo si sono ormai stabilizzate nella
forma gutturale, e cosi resteranno: callifugo , callifughi, ver-
mifugo, vermifughi, febbrifugo, febbrifughi . Oscillazioni da mal
di capo hanno invece le parole in -fago: ebbene, fissiamole
una volta per sempre nella forma palatale -fagi, e non soffriremo
piu: perciò, sarcòfagi, lotòfagi, antropòfagi, esòfagi e via di
questo passo. Ho detto il mio pensiero. E datemi pure del pia-
nificatore.

Giudizi o giudizii?
Cominciamo col fare subito una distinzione tra parole in -io,
con la i tonica, cioè accentata, e parole in -io, con la i àtona,
cioè non accentata; tra parole, cioè, come leggio e calpestio,
e parole come giudizio e studio. Nel primo caso (f accentata),
il plurale è naturalmente sempre -ii : leggii, calpestii, e ancora,
zio, zii, restio, restii, pio, pii, natio, natii, bacio, badi, ecc. Per il
secondo caso si è sempre fatta, fin dall'antico, parecchia confusio-
ne. Cosf, accanto al semplice studi, si trova scritto studii o studi,
e fino a non molto tempo fa anche studi, e perfino studj e studi'.
Oggi si tende a semplificare e a uniformare la formazione di que-
sti plurali, e si consiglia di usare la semplice -i, contraendo cioè le
due i finali in una sola. Scriveremo perciò studi, giudizi, esem-
pi, baci, raggi, fasci, mugghi, sobri, oli, armadi, spazi.
Soltanto in pochi casi questa soluzione, ch'è la piu pratica e
spiccia, può dar luogo a equivoci tra parole di identica forma
ma di diverso significato. In questi casi (ma solo quando in
un . contesto si possa davvero generar confusione) è consiglia-
bile usare la doppia i finale, o anche, se si preferisce, la i col
circonflesso: cosf, i plurali delle parole come principio, palio,
condominio, assassinio, martirio, beneficio, oratorio, direttorio e
simili sarà opportuno scriverli principii o principi, patii o pali,
condominii o condomini, martirii o martiri, beneficii o bene/i-
d, oratorii o oratori, direttorii o direttori, per non confonderli
con principi, plurale di principe, pali plurale di palo, condomini,
plurale di condòmino, assassini, plurale di assassino, martiri,
plurale di martire, benefici, plurale di benèfico, oratori, plurale
di oratore, direttori, plurale di direttore. Per la parola tempio se-

107
guiremo la stessa regola: !empii, per distinguerlo da tempi, plu-
rale di tempo, sempre che non si preferisca la forma dotta tem-
pli (dal latino templa).
Ma anche in questi particolari casi, certi grammatici consi-
gliano di ricorrere, anziché alla doppia i o al circonflesso, piut-
tosto all'àccento tonico; consigliano cioè di scrivere con una
sola i le parole piane come principi, arbitri, martiri, benefici,
ecc. rispettivamente plurali di principio, arbitrio, martirio, be-
neficio; e di scrivere invece con l'accento le parole che si pro-
nunziano sdrucciole : principi, àrbitri, màrtiri, benèfici, come
plurali di principe, arbitro, martire, benefico. E anche questo
è un accorgimento possibile, per chi sappia valersene.

Le superficie, le superfici ...


Mi scrisse un giorno un'insegnante lucchese per dirmi di aver
letto in un mio scritto un plurale le superficie che l'aveva la-
sciata perplessa : era forse, mi chiese, un errore di stampa?
No, non era un errore di stampa; la verità è invece che l'uni-
co plurale legittimo di la superficie è proprio le superficie,
invariato, anche. se poi la forma plurale illegittima le superfici si
sia da tempo affermata nell'uso, divenendo anzi la piu comune.
Un'identica sorte è toccata alla parola effigie, il cui plurale cor-
retto dovrebbe essere anch'esso invariato, le effigie, ma che piu
spesso viene sostituito da le effigi, regolarmente accolto nei di-
zionari.
Come si spiega la coesistenza di questi due plurali? La spie-
gazione è semplice. I nomi con la terminazione in -ie, non ab-
bondanti in verità nella nostra lingua, come appunto superficie,
effigie, e ancora specie, serie, carie, barbarie, calvizie, canizie,
ci derivano dalla quinta declinazione latina la quale, come un
tempo sapevano anche gli scolaretti della prima media (oggi pro-
prio non giurerei), ha un'unica desinenza tanto per il nominativo
singolare quanto per quello plurale: .superficies singolare, super-
ficies plurale, effigies singolare, effigies plurale, species singolare,
species plurale, ecc. Si tratta poi di nomi di tradizione dotta, dove
la i della sillaba finale -cie, -gie nel passaggio dal latino all'italiano
si è tenacemente conservata. Però è avvenuto anche questo: che
entrando queste parole sempre piu largamente nell'uso, la i
di superficie, effigie e specie, quasi muta nella pronunzia, ha

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finito con lo scomparire anche nella scrittura; e si ebbero cosi
le doppie forme superfice, effige e spece (quest'ultima, piu ra-
ramente; ma la troviamo già in Dante, forse per rimare fece e
Ieee; e lo imitò il Giusti nella Chiocciola: « Contenta ai comodi
Che Dio le fece, Può dirsi il Diogene Della sua spece »; inoltre
in alcuni codici danteschi già s'incontra la forma effige). A que-
sto punto era inevitabile che i doppioni senza la i fossero con-
siderati come appartenenti alla grande categoria dei nomi italia-
ni in -e, come pace e ambage, che hanno il plurale in -i; e sul-
l'analogia di paci e ambagi ecco nascere i plurali superfici ed
effigi. Resiste ancora il plurale le specie; e resistono per neces-
sità i plurali le serie, le carie, le barbarie, le canizie e le calvizie
perché la i del singolare non potrà mai scomparire per quanto
popolari esse possano diventare. (Qui però è avvenuto un guaio
anche peggiore, ché qualcuno dalle forme canizie e calvizie, in-
tese soltanto come plurali, ha tratto fuori due singolari sproposi-
tati, la canizia e la calvizia, sul modello di la rosa, le rose!)
Tirando ora le somme di tutto questo discorso, vorrei dire che
usando i plurali le superficie e le effigie si rispetterebbe, come io
rispetto, la piu schietta tradizione latina, cosi come tutti incon-
sapevolmente rispettano, almeno finora, la forma plurale latineg-
giante le specie.

La spezie, le spezie.
Continuando il discorso sulle parole in -ie, come superficie ed
effigie, voglio aggiungere che c'è da tenerne in conto un'altra in
particolare, le spezie, sostantivo plurale con cui indichiamo le
note sostanze aromatiche usate per condire i cibi. Orbene, su
una rivista medica ho letto che « il pepe è una spezia saluta-
re », dove quel singolare una spezia è purtroppo errato. Anche
questo vocabolo infatti risale a quello stesso latino species,
« specie », che come abbiamo appena visto resta invariato nel
singolare e nel plurale: la specie, le specie (anticamente an-
che spezie; famoso il verso dantesco « l'umana spezie eccede ogni
contento » ). In latino con la parola species si indicava in par-
ticolare ogni cosa derivata per elaborazione da un'altra cosa; il
vinum, per esempio, era la species del genere uva. Anche ciascu-
na droga che ci veniva dall 'Oriente era la species di questo o di
quel genere di piante. Data poi la natura minuta di questa mer-

109
ce, la parola si usò quasi costantemente nel plurale, le specie, poi
stabilizzata nella forma arcaica le spezie. Il singolare è rimasto
praticamente inusato, almeno nel linguaggio corrente: cosf si
spiega il fatto che, volendone indicare una sola, al redattore del-
la rubrica medica sia venuta spontanea sulla penna la forma sin-
golare una spezia che è evidentemente errata. Correggiamo dun-
que cosi: « il pepe è una spezie salutare»; forma invariata, co-
si come diciamo una serie, una canizie.

Alcoli, non àlcooli.


Alcuni formano il plurale della parola alcool con la desinenza
del plurale italiano -i: gli alcooli. Ma è giusto questo plurale?
Prenderò il discorso piu da lontano, dicendo che anche que-
sto nome, come tanti altri venutici di fuori, ha stentato parec-
chio a trovare una sua grafia definitiva, e direi che ancora non
l'ha trovata posto che le due forme àlcool e àlcole si alternano
bellamente nell'uso. I piu antichi dizionari, a cominciar dalla fi-
ne del Settecento, registrano una prima forma alcohol, e quindi
alkool, alcool (accentando « alcoòl »), alcoole (accentando «al-
coòle »), e infine àlcol e àlcole. Ora, mentre tutte le altre for-
me son seppellite da un pezzo, restano ancora in vita, come s'è
detto, alcool, probabilmente presa dal francese ma con l'accento
ritratto (àlcool), e àlcole, generalizzata soprattutto nel periodo
dell'ultimo purismo di Stato, e oggi preferita, mi sembra, nell'uso
dei chimici. E veniamo al plurale. Chi sceglie la forma àlcole non
ha problemi: l'unico plurale regolare non può esser che àlcoli.
Ma è chiaro che un analogo plurale àlcooli sarebbe possibile so-
lo se si accettasse un singolare àlcoole, che però, come s'è visto,
è disusato da un pezzo. Poiché invece abbiamo accettato la forma
singolare àlcool, questa dovremo !asciarla invariata nel plurale,
gli àlcool, cosi come lasciamo invariati nel plurale tutti gli altri
nomi tronchi in consonante venutici da lingue straniere: gli
sport, i bar, i film, i tram. Aggiungerei a questo punto che la
forma con l'o semplice è da preferirsi soprattutto nei derivati:
diremo perciò alcòlico meglio che alcoolico, e diremo alcolismo,
analcolico; antialcolico, eccetera. E vorrei finire con una noti-
ziola etimologica. Il nome risale all'arabo al-kuhl, con cui si in-
dicava una polvere sottilissima di solfuro di piombo usata dalle
donne orientali per tingersi di nero le ciglia. Piu tardi gli alchi-

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misti diedero alla parola il senso generale di polvere impalpabi-
le e poi quello piu estensivo di parte sottile, essenziale di qual-
che cosa. A questo punto Paracelso (sec. XVI) creò l'espressione
alcohol vini, cioè « essenza del vino»,. « spirito del vino», dive-
nuto poi piu brevemente alcohol.

Assise.
« La grande assise ecumenica», « L'assise repubblicana al Pa-
lazzo dei Congressi », «La nuova assise per le monete»: titoli
come questi si leggono con sconfortante frequenza sui giornali
e perfino sui libri. Perché sconfortante? Perché sono sbagliati,
non rispettano la concordanza grammaticale. La parola assise
è femminile, sf, ma è anche plurale.
Il grossolano errore si spiega col fatto che in passato la parO-
la si usava soltanto nell'espressione Corte d'Assise, e oggi inve-
ce è entrata nel linguaggio comune col significato di «grande as-
semblea », «solenne adunanza», e non tutti son preparati a
usarla. Oggi, come tutti sappiamo, è l'età dei paroloni oltre
che delle parolacce; ma mentre per queste occorre solo ignoran-
za e cattiva educazione, per quelle ci vuoi grammatica, e la
grammatica qualche volta manca. Dicendo « la grande assise »
molti non hanno neppure il sospetto di sgrammaticare, per-
ché quella -e finale è sf il plurale comune di tutte le parole
femminili in -a (la pianta, le piante), ma è anche la desinenza
singolare di molte parole femminili come neve e pieve; sf che
è già una fortuna che finora non si sia generalizzato sulle stam-
pe quell'assisi plurale che abbiamo incontrato in un giornale mi-
lanese (« le grandi assisi politiche » ), e che piu spesso s'incon·
tra nella locuzione « Corte d'Assisi», ravvicinando un tribuna-
le alla patria di san Francesco.
La parola assise, venutaci in questa particolare accezione at-
traverso il francese assises, altro non è che il participio passato
femminile sostantivato del verbo assidersi, sedersi, e corrispon-
de esattamente all'altro participio passato femminile sedute,
usato sostantivamente nello stesso significato: « le sedute dei mi-
nistri ». Dire perciò «la grande assise» è come dire « la gran-
de sedute»: una sgrammaticatura elementare in cui neppure un
analfabeta va a cadere. Si domanderà: perché questo plurale?
Perché la parola assise fu usata cosi al plurale fin dalle origini

111
(il piu lontano medio evo) per significare un'assemblea con piu
sedute. Queste assise medievali erano nell'età feudale alla base
dell'organizzazione dello Stato. L'imperatore, il principe le con-
vocava periodicamente non solo allo scopo di rendere giustizia,
ma anche per esaminare e controllare l'andamento generale del-
la cosa pubblica. E c'erano le grandi e le piccole assise:
le prime si tenevano una volta l'anno, spesso alla presenza del-
lo stesso monarca, le seconde erano convocate piu volte duran-
te l'anno per la discussione degli affari ordinari. Coi secoli, la
parola languf fino a scomparire, salvo, come ho detto, nel-
l'espressione Corte d'Assise, alla lettera « Corte di sedute» per
giudicare dei · piu gravi delitti.
Per concludere, visto che la parola rara è arrivata fin sulle
bocche della gente comune, cerchiamo di usarla a dovere, cioè
come sostantivo femminile plurale, e diciamo << le grandi assi-
se repubblicane». Che se poi quel plurale ci stona, usiamo sen-
za esitazione il singolare assisa, cosi come diciamo « adunan-
za», « assemblea»: «la prossima assisa socialista», «la grande
assisa ecumenica ». (L'italiano ha anche un'altra assisa, antico
francesismo piuttosto raro, nel significato di « divisa », « uni-
forme», specialmente militare; esso deriva dallo stesso assise
francese, participio passato di asseoir, ma nel significato figurato
di « fissare , « stabilire »: propriamente, abito fissato, stabilito
per una certa categoria di persone.)

Bello.
L'aggettivo qualificativo bello può presentare qualche difficol-
tà sia quando è usato nel singolare sia nel plurale. Nel singolare
rimane immutato quando viene a trovarsi davanti a una s impu-
ra (s seguita da consonante) oppure davanti a gn, pn, ps, x e z:
« bello studente», « bello gnomo», « bello pneumatico», «bel-
lo psichiatra», «bello xilofono», «bello zio». Si tronca inve-
ce sempre in bel davanti a ogni altra consonante o gruppo di
consonanti: «bel ragazzo», «bel libro» , « bel pranzetto ». Da-
vanti a parola che cominci con vocale, elide la desinenza o del
maschile e meno comunemente la desinenza a del femminile:
« bell'uomo», «bell'esempio», «bell'aspetto », «bell'anima»,
« bell'isola » (ma anche «bella isola »).
E veniamo al plurale. Qui le forme maschili sono tre: belli,

112
begli e bei. Useremo belli quando l'aggettivo è collocato dopo
il nome: « uomini belli», «libri belli»; useremo begli qu;tndo
·è collocato prima del nome e questo nome comincia con vocale
o con s impura, o gn, pn , ps, x, :z: «begli .esempi», «begli uo-
mini », « begli ingegni» (anche « begl'ingegni » ), <<begli studen-
ti», « begli zii», ecc. Useremo infine bei davanti a ogni altra
consonante o gruppo consonantico: «bei ragazzi», «bei tramon-
ti ». Questa la regola che si raccomanda di seguire scrupolosa-
mente . Non manca però, ma solo nell'uso letterario, chi dice bel-
li anche davanti a vocale: Ugo Ojetti, per esempio, scriveva nor-
malmente « belli ufficiali», «belli occhi». Il plurale femminile
è sempre belle in ogni caso: « donne belle », « belle donne »,
«belle anime », «belle specchiere», «belle zie».
Aggiungerò, per concludere l'argomento, che bello si può an-
che elidere e quindi apostrofare in frasi come bello e fatto o bel-
l'e fatto, bella e morta o bell'e morta, belli e fritti o bell'e fritti.

Il cachi.
Si sente comunemente anche sulla bocca di persone colte, « man-
giare un caco », « il caco non è ancora maturo ». Ma è sbagliato.
La parola cachi con cui si indica la nota pianta che dà un
frutto dolciastro dalla buccia di color giallo rossiccio, e il
frutto stesso, è invariabile, rimane cioè immutata tanto nel sin-
golare quanto nel plurale. Bisogna dunque dire « il cachi ha
messo i frutti », « mangiare un cachi», « il cachi è maturo», « un
cestello di cachi appena colti ».
Il nome è di origine giapponese - come la stessa pianta del
resto - e si scrive anche esoticamente kaki; ma questa grafia
non è affatto necessaria da noi, come non è affatto necessario
scrivere polka e mar:zurka, invece di polca e mazurca; si tratta
di parole straniere ormai radicate nel nostro linguaggio, e chi
scrivesse k ak i peccherebbe d'affettazione come certe ragazzine
che scrivono i loro nomi Sophia, Yole e Wanda . Il nome scien-
tifico è· diòspiro, il Diòspyros kaki di Linneo, e significa greca-
mente <<frumento di Giove )): composto di Di6s, di Giove, e
pyr6s, frumento.
Tutt'altra origine ha poi l'aggettivo cachi, pur esso invaria-
bile, per indicare un colore tra il bruno e il giallastro simile a
quello della terra arida, riarsa. Nessuna relazione col colore

113
del -frutto ora detto. L'origine è inglese, khaki, e questo dal-
l'indostano kdki, che vuoi dir «polveroso, color polvere» , a sua
volta derivato dal persiano kbak , polvere. Fu il colore, in ori-
gine, delle uniformi militari inglesi in India; colore scelto per
la sua facile mimetizzazione col terreno riarso di quelle contra-
de. Si dirà «stoffa cachi» (anche questa è la graffa da seguire),
«abito cachi », «uniformi cachi ». E se ne fa anche un sostanti-
vo maschile invariabile : « tessuto d'un bel cachi intenso ».

I carceri, le carceri.
« Gli arrestati sono stati chiusi in celle di isolamento in due
diversi carceri piemontesi»: cosf diceva una recente notizia su
un quotidiano, con stupore di molti lettori per quei carceri nel
plurale maschile invece del comune femminile le carceri.
È corretto dire i carceri o è scorretto?
La parola carcere è· una parola alquanto stravagante: suona
maschile, normalmente, nel singolare, il carcere; però, sempre
normalmente, nel plurale preferisce il femminile: le carceri.
<< Nel doloroso carcere », come leggiamo in Dante; ma « Lo han-
no portato nelle carceri di Volterra» come leggiamo in Pavese.
Ecco però altra stravaganza: a volte, ma piuttosto nell'uso lette-
rario, le piace essere femminile anche nel singolare: la carcere;
e infatti leggiamo nel Manzoni: <<Il trasporto alla carcere ...
portava lo stesso · pericolo della liberazione ». Ma non è finito:
ama vestirsi da maschio, sebben assai raramente, nel plurale, e
diventa i carceri: ecco un esempio modernissimo, tratto da una
lettera del Gramsci: « Pensando che i carceri coltivano le atti-
tudini artistiche dei galeotti ».
Si sa che la parola carcere indica a un tempo il luogo dove si
sconta una pena detentiva (« lo hanno chiuso in carcere ») e poi
la pena stessa ( « gli hanno dato tre anni di carcere » ). In que-
sto secondo senso era comune in passato la frase carcere duro,
con cui· si indicava una pena detentiva particolarmente rigorosa;
« significa » ci spiega il Pellico << essere obbligato al lavoro, por-
tare la catena ai piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il
piu povero cibo immaginabile ». Questa espressione singolare
maschile aveva normalmente un plurale maschile: i carceri duri.

114
Le gesta o le geste?
I Latini usavano il plurale neutro gesta, gestorum, da gestum,
participio passato neutro del verbo gèrere, fare, compiere, con
lo stesso significato della frase res gestae, «cose fatte», « im-
prese compiute», specialmente militari, eroiche. L'italiano pre-
se la parola tal quale, e la fece femminile plurale, le gesta, allo
stesso modo di molte altre parole . plurali femminili in -a,
come le miglia, le castella, le cervella, ecc. Dire perciò « le sue
gloriose gesta » è correttissimo: « Le sue gesta partigiane »
leggiamo in Pratolini.
Questo plurale in -a fu piu tardi inteso come un singolare
femminile , la gesta, con un plurale regolare le geste, di cui
troviamo molti esempi negli scrittori antichi e moderni: « Ove
dorme il furor d'indite geste », Foscolo.
C'è ancora da avvertire che nell'uso letterario e poetico an-
che la forma singolare la gesta s'incontra a volte sia nello
stesso significato di impresa, spedizione ( « Il suo duce prigion
bandf la gesta », Carducci; «La gesta di Ronchi», D'Annun-
zio), sia in quello di esercito, schiera ( « Dopo la dolorosa
rotta, quando - Carlo Magno perdé la santa gesta», Dante).

Marrone.
Si . deve dire guanti marrone oppure guanti marroni?
L'accordo al plurale del sostantivo marrone, inteso come co-
lore, è certo assai comune («guanti marroni», «stoffe mar-
roni » ), ma è proprio del linguaggio popolare e non è corretto.
Correttamente, marrone, nome di colore simile a quello che ha
il frutto di una varietà di castagno, è di regola invariabile e
bisogna perciò dire guanti marrone, abito marrone, scarpe
marrone, stoffa marrone scuro. Marrone, facciamo bene at-
tenzione, non è aggettivo come verde, giallo, rosso, azzurro,
celeste, ecc., che richiedono, ovviamente, l'accordo nel genere e
nel numero col sostantivo da cui dipendono: veste azzurra, calze
rosse, libri gialli, prati verdi, ecc.; marrone è sostantivo, e
segue la stessa legge dei sostantivi rosa, ciliegia, ciclamino , viola,
arancio (in questo caso sempre nel maschile, mai arancia), ce-
nere, corallo, seppia, ocra, ecc. quando sono assunti come de-
terminazione di colore. Nessuno direbbe « vesti rose », «ca-

115
pelli ceneri», « seta coralla », ma sempre e soltanto «vesti
rosa», « capelli cenere», « seta corallo»; si costruisce cioè,
mentalmente, una frase ellittica che suona, in forma distesa,
«vesti color della rosa», « capelli color della cenere », « seta
color del corallo ». Di conseguenza diremo guanti marrone, cioè
«guanti color del marrone».

Silo e autosilo.
Quanti Italiani sanno che dicendo un silos si fa errore, e grossola-
no errore? Da quanto vedo e sento direi che son pochini davvero.
I Greci avevano una paroletta, seir6s o sir6s, che indicava
una buca scavata ad arte per conservare granaglie. I Latini imi-
tarono la buca, e trasformarono il nome in sirus. Questo sirus
passò solo nel lessico spagnolo, trasformandosi in sito; nel plu-
rale, secondo l'uso di quella e di altre lingue, con l'aggiunta di
una s, diventò las silos. La voce si diffuse soprattutto attraverso
gli impianti portuali, dove queste grandi costruzioni cilindriche
sopra terra sono sempre piu d'una; perciò il nome si indicava
generalmente nel plurale: silos. Quando gli Italia~i presero il
vocabolo, lo presero tutt'intero, anche con quella codina dell's;
e dissero tranquillamente il silos, i silos. Ora, l'errore è chiaro.
Vogliamo accettare il vocabolo? Accettiamolo pure, ma accet-
tiamolo correttamente e diciamo il sila e i silos; ma, meglio as-
sai, adattiamolo alla nostra lingua e diciamo il sito, un sito, e nel
plurale i sili.
Da questo primo errore se ne è generato un secondo. In-
fatti mi fu dato di leggere in un titolone d'un grande giornale
nazionale che l'Alitalia aveva costruito in non so quale aero-
stazione (il giornalista, veramente, aveva preferitÒ dire termina!)
«un albergo e un autosilos ».
Un giornalista, anche assillato dalla fretta, non deve trascu-
rare l'elementare concordanza di un articolo col suo sostantivo.
Oltre tutto, la parola autosilo di coniazione recentissima (1955),
è nata tutta italiana, e credo a Milano, con riferimento al
deposito sotterraneo di automobili in Piazza Diaz (non dovreb-
be esser difficile conoscere anche il nome del suo effettivo
creatore): è una composizione regolare. del prefisso auto- nel
significato di «automobile », e del solito silo. Perciò il singo-
lare autosilo avrà come plurale gli autosili.

116
Nomi composti: plurali da capogiro.
In un mio dizionario che chiamerò « grammaticale » 1 perché
il suo primo intento è quello di spiegare e possibilmente di
risolvere i tanti dubbi di grammatica che fanno della nostra
lingua bene spesso una specie di vicolo buio dove si cammina
a tentoni, io ho cercato di mettere un po' d'ordine, valendomi
anche dell'opinione e del consiglio di altri grammatici, alla
faccenda dei plurali dei nomi composti, cosf chiamati perché
sono il risultato dell'intima fusione di due parole diverse: per
esempio, biancospino e grattacapo.
Chi volesse dare un'occhiata a questa faccenda, e scartabel-
lasse qua e là qualche dizionario, e neppur tanto alle lunghe,
subito si accorgerebbe che per la formazione di questi plurali
non solo non si segue nessuna logica e nessuna regola, ma tutto
si riduce piuttosto 9. un'opinione.
Qualche esempio. Coprifuoco, dice il dizionario, fa al plurale
coprifuochi, ma coprifocone resta tale, è invariabile; copri-
punto è anch'esso invariabile, i copripunto, ma coprigiunto no,
fa i coprigiunti; copribusto, copriletto non mutano: i copri-
busto, i copriletto. Se poi mettiamo in fila piu dizionari, sce-
gliendo anche tra i piu recenti e meglio fatti, la confusione,
se possibile, aumenta ancora, perché uno dice una cosa e l'al-
tro l'opposto; questo infatti ti avverte che devi dire i copriletto,
ma quell'altro ti prescrive un plurale i copriletti; uno registra
i copricapi, un altro i copricapo, e un altro ancora, per non far
torto a nessuno, li registra tutt'e due: i copricapi, meno comune
i copricapo. Va e decidi.
È ragionevole continuare cosP Non sarebbe l'ora che an-
che la nostra ortografia si risolvesse a crescere e a non andar
piu sull'altalena? I Francesi, e non loro soltanto, queste cose
le hanno già regolate da un pezzo: copricapo, couvre-chef, plu-
rale les couvre-chefs e basta; copriletto, couvre-lit, plurale !es
couvre-lits; coprigiunto, couvre-joint, plurale les couvre-joints.
Una regola dunque ci vorrebbe, e non ci vorrebbe molto a farla;
e una volta fatta , le grammatiche, e i dizionari soprattutto (che
di solito non fanno che ripetere quel che ha detto il prece-
dente, perpetuando nei secoli la confusione), dovrebbero rispet-

1
Dizionario Linguistico Moderno, Edizioni Scolastiche Mondadori, Mi-
lano, VI edizione, 1975.

117
tarla. Solo cosf nel giro di qualche anno an ·be questo pastic-
cetto formale sarebbe risolto. Mi si obietta. ma come si fa
se gli stessi scrittori usano spesso forme differenti? Il Pan-
zini, per esempio, dice i copricapo, mentre D'Annunzio dice
i copricàlici? È naturale: non essendoci una regola, ciascuno si
regola da sé. Anche perché, in genere, questi particolari com-
posti sono di formazione piuttosto recente, alcuni recentissima,
e se ne possono creare sempre di nuovi, e non hanno una base
storica su cui appoggiarsi.
Il «Dizionario d'ortografia e di pronunzia» della Rai, che
spesso cito con elogio, rappresentava un'ottima occasione per
normalizzare il piu possibile certi secolari tiremmolla, data
soprattutto l'autorità dei suoi compilatori. Invece anche qui si
trascinano i soliti « però » e i soliti « anche », e il « piu
comune» e il «meno comune», e il « piu corretto» e il «meno
corretto », tutte cose che vanno benissimo in un dizionario stO-
rico della lingua ma assai meno in un prontuario al quale,
come dice il nome, si ricorre per avere una risposta pronta,
univoca, senza tentennamenti. Si tratta oltre tutto di cosette
formali, e non si farebbe davvero sacrilegio respingendo o for-
zando certi vecchi usi, e fissando per esse una struttura ra-
zionale e definitiva. Se il Bembo scriveva spatio invece di spazio
e l'Ariosto scriveva honore invece di onore dovremmo anche
noi continuare ad altalenare tra le due scritture?
Ora, come sopra dicevo, appunto in quel mio dizionario
grammaticale ho cercato di dare una certa uniformazione almeno
a questi plurali dei nomi composti, raggruppando razionalmen-
te certe forme stabilizzate nell'uso e da tutti accettate senza
eccezioni, e desumendone una regola comune.
Ripeterla qui credo che possa giovare ai miei lettori.

Ho diviso le parole composte in dieci gruppi: esaminiamòli a


uno a uno.
l. Nomi composti di un aggettivo e di un sostantivo ma-
schile o femminile: formano il plurale come fossero nomi
semplici, cambiando cioè solo la desinenza del secondo ele-
mento: biancospino, biancospini, francobollo, francobolli, bas-
sorilievo, bassorilievi, altorilievo, altorilievi, bassopiano, basso-
piani, altopiano, altopiani, bassofondo, bassofondi, nerofumo,
nerofumi, altoforno, altoforni, mezzogiorno, mezzogiorni, mez-

118
zanotte, mezzanotti, vanagloria, vanaglorie, falsariga, falsarighe.
Poche le eccezioni ormai stabilizzate, e le troviamo in quei
vocaboli dove il primo termine è piu sentito isolato dal secondo
termine specialmente nei composti con mezzo: mezzaluna, mez-
zelune (e infatti si scrive anche mezza luna), mezzalana, mezze-
lane (ma anche mezza lana), mezzatinta, mezzetinte (anche
mezza tinta), mezzamanica, mezzemaniche (anche mezza ma-
nica); meziobusto, mezzibusti (anche mezzo busto), purosangue,
fa purisangue o resta invariato, mezzosangue si comporta nello
stesso modo.
2. Nomi composti di due aggettivi: formano il plurale
come fossero nomi semplici, cambiano cioè solo la desinenza
del secondo termine: chiaroscuro, chiaroscuri, pianoforte, pia-
noforti, sordomuto, sordomuti, sordomuta, sordomute, grigio-
verde, grigioverdi, agrodolce, agrodolci, sacrosanto, sacrosan-
ti, ecc.
3. Nomi composti di un sostantivo maschile o femminile
e di un aggettivo: formano il plurale mutando la desinenza
sia del primo sia del secondo termine, si comportano cioè come
se fossero separati: caposaldo, capisaldi, fabbroferraio, fabbri-
ferrai, caposcarico, capiscarichi, cartapesta, cartepeste, acqua-
forte, acqueforti, collotorto, collitorti, casamatta, casematte,
cassaforte, casseforti, melagrana, melegrane, terracotta, terrecot-
te, gattamorta, gattemorte, pellerossa, pellirosse, ecc. Eccezione
ormai stabilizzata: palcoscenico che fa palcoscenici.
4. Nomi composti di due sostantivi: distinguiamo due ca-
si: se i sostantivi sono entrambi maschili o entrambi femmi-
nili modificano nel plurale solo la seconda desinenza: arco-
baleno, arcobaleni, cartapecora, cartapecore, pescecane, pesce-
cani, madreperla, madreperle, cassapanca, cassapanche, topora-
gno, toporagni, ecc. Se invece i due sostantivi sono di genere
diverso variano nel plurale solo il primo elemento: grillotalpa,
grillitalpa, pescespada, pescispada, pescesega, pescisega, pesce-
luna, pesciluna, ecc. Eccezioni stabilizzate: boccaporto fa bocca-
porti, banconota fa banconote, ferrovia fa ferrovie (ma qui
ferro ha piuttosto valore aggettivale: via di ferro, fèrrea).
5. Nomi composti di una forma verbale e di un sostan-
tivo plurale: nel plurale restano invariati (si cambierà natu-
ralmente solo l'articolo); il battipanni, i battipanni, il guarda-

119
sigilli, i guardasigilli, il segnalinee, i segnalinee, il guastafeste, i
guastafeste, il portapenne, i portapenne, lo schiaccianoci, gli
schiaccianoci, il baciapile, i baciapile, ecc.
6. Nomi composti di una forma verbale e di un sostan-
tivo singolare maschile: variano nel plurale la desinenza
del sostantivo: grattacapo, grattacapi, coprifuoco, coprifuochi,
copricapo, copricapi, copribusto, copribusti, passaporto, passa-
porti, parafango, parafanghi, rompicollo, rompicolli, passatem-
po, passatempi, perditempo, perditempi, segnalibro, segnalibri,
ecc. Prima avvertenza importante: seguono la stessa regola an-
che le parole composte con mano, sebbene' femminile, per la
sua terminazione in -o, tipica del maschile: asciugamano, asciu,
gamani, baciamano, baciamani, paramano, paramani, corrimano,
corrimani, ecc.
Seconda avvertenza: certi composti di questo gruppo in-
dicano qualità riferita a persona, e a volte son nomi maschili
ma a volte femminili: per es. un ficcanaso, ma anche una
ficcanaso , un rompicollo ma anche una rompicollo. Come ci
regoleremo nel plurale? Se il nome è maschile, lo sappiamo
faremo plurale il secondo elemento: i rompicolli, i ficcanasi;
se è femminile lo lasceremo invariato: le rompicollo, quelle
ficcanaso. ·
7. Nomi composti di una forma verbale e di un sostan-
tivo singolare femminile: se il nome composto risultante è
di genere maschile nel plurale resta invariato: il portacenere,
i portacenere, il porta/rutta, i porta/rutta, lo spazzaneve, gli
spazzaneve, il portabandiera, i portabandiera, il cavalcavia, i
cavalcavia, lo scioglilingua, gli scioglilingua, l'aspirapolvere, gli
aspirapolvere, il battistrada, i battistrada, il cacciavite, i caccia·
vite, il salvagente, i salvagente, ecc. Se Invece il nome risultante
è femminile, prende nel plurale la desinenza femminile: la guar-
daroba, le guardarobe, la portabandiera, le portabandiere, ecc.
8. Nomi composti di due forme verbali: restano inviaria-
ti nel plurale: il dormiveglia, i dormiveglia, il parapiglia, i
pm·apiglia, il saliscendi, i saliscendi, il fuggifuggi, i fuggifuggi,
il tiremmolla, i tiremmolla, ecc.
9. Nomi composti di una preposizione o di un avverbio
e di un sostantivo: se il nome composto è dello stesso genere
del . sostantivo componente, nel plurale si declina questo sostan-

120
tivo: il sottufficiale, i sottufficiali, il soprammobile, i sopram-
mobili, il surgelato, i surgelati, il contrordine, i contrordini, il
dopopranzo, i dopopranzi, il sottaceto, i sottaceti, il contrab-
baf!ldo, i contrabbandi, il fuoribordo, i fuoribordi, il lungote-
vere, i lungoteveri, il lungarno, i lungarni, il lungomare, i lun-
gomari, il lungofiume, i lungofiumi, il lungolago, i lungolaghi,
la soprascarpa, le soprascarpe, l'anticamera, le anticamere, l'in-
tervista, le interviste. Se invece il sostantivo componente è di
genere diverso rispetto al nome composto, il plurale resta in-
variato: il sottobottiglia, i sottobottiglia, il sottocoda, i sottoco-
da, il sottoscala, i sottoscala, il retroterra, i retroterra, ecc.
Il decimo e ultimo gruppo è quello dei nomi composti con
capo-. Trattandosi di un discorso particolarmetne diffuso, pre-
ferisco parlarne in un capitoletto a sé.

Capostazione e capocronista.
In una trasmissione televisiva, mi pare di « Rischiatutto », as-
sistemmo a un certo punto a uno spettacolo scoraggiante: di
fronte ad alcuni plurali di nomi composti del tipo capolavoro
nessuno dei concorrenti seppe rispondere, e lo stesso presen-
tatore dichiarò molto sinceramente che se non avesse avuto
sott'occhio la risposta scritta non avrebbe saputo rispondere
con sicurezza.
Ora io vorrei qui aggiungere che la stessa televisione, sce-
gliendo questo particolare tipo di quesito, aveva corso il ri-
schio piu grave, quello di vedersi contestare come errate alcune
delle risposte ritenute valide dai cosiddetti esperti. Anche per
questo tipo di composti, infatti, l'anarchia nei plurali regna so-
vrana, e basta aprire i soliti dizionari per accertarsene. Per
alcuni infatti il plutale di capolavoro è capolavori, ma per altri
è capilavori, per altri ancora l'uno e l'altro vanno benissimo;
caprogruppo fa capigruppo ma anche capogruppi, e cosi capolinea
che si barcamena tra i capolinea e i capilinea, il capotamburo tra
· i capotamburi e i capitamburi, e via da perderei la testa.
Vediamo allora come si potrebbe anche qui « pianificare »
con un po' di buon senso.
Si tratta di parole composte con un primo elemento capo-,
avente valore di preminenza, di superiorità, di eccellenza, e di un
secondo elemento rappre.sentato da un sostantivo; per esempio,

121
capostazione e capocronista. Esaminiamoli da vicino. Quando di-
ciamo capostazione vogliamo dire« il capo della stazione»; quan-
do però diciamo capocronista non intendiamo dire « il capo del
cronista » ma il « cronista che è a capo ». Questo capo- può dun-
que avere due funzioni ben distinte: nel primo caso ha funzione
di soggetto, nel secondo di semplice attributo ..Noi daremo la for-
ma plurale solo all'elemento principale del composto: nel primo
caso a capo, nel secondo a cronista; diremo perciò i capistazione
(i capi di una stazione) ma diremo i capocronisti (i cronisti a capo
di uno o piu cronisti). Qualche altro esempio: capoclasse, il
capo della classe, caporeparto, il capo del reparto, e ancora
capoturno, capofabbrica, caposquadra, capotreno, caposervizio,
capofamiglia, capodivisione, capofila, capoposto, caposezione:
il primo elemento è preminente, e lo metteremo al plurale:
capiclasse, capireparto, capiturno, capifabbrica, capisquadra, ca-
pitreno, capiservizio, capifamiglia, capidivisione, capifila, capi-
posto, capisezione.
Esempi della seconda serie: capomacchinista, macchinista
che è capo di altri macchinisti, capotecnico, tecnico che è a
capo di altri tecnici, e ancora caporedattore, capocomico, capo-
luogo, capocuoco, capolavoro, capodanno, capoverso: qui è
preminente il secondo elemento, e sarà questo solo che faremo
plurale: capomacchinisti, capotecnici, caporedatt~ri, capocomici,
capoluoghi, capocuochi, capolavori, capodanni, capoversi.
Tutto semplice, mi pare. Resta solo da risolvere il plurale
femminile di questi nomi, dato che oggi la capostazione, la
capoclasse, la capoturno, ecc. non sono proprio un· fenomeno
tanto raro da ignorarlo, come fanno quasi tutti i dizionari. Nel
caso dei nomi della seconda serie la soluzione è semplice: si
metterà al femminile il secondo termine esprimente la funzione,
la carica, e se ne farà il plurale: la capotecnica, le capotecniche,
la capocomica, le capocomiche, la capocuoca, le capocuoche, la
capomastra, le capomastre, la capocronista, le capocroniste, la
caporedattrice, le caporedattrici, ecc. Per i nomi della prima ·
serie non c'è altra soluzione possibile: !asciarli invariati nel
plurale: le capostazione, le capoclasse, le caporeparto, le capo-
turno, le caposquadra, le capofila, le capolista, le capoufficio
e meglio le capufficio.
Ma non è ancora finito; ché a volte la parola capo viene
posposta, e si hanno formazioni come consigliere capo, com-
messo capo, redattore capo e simili, dove la parola capo si

122
scrive separata dal nome a cui si riferisce. In questi casi il
plurale come si forma? La soluzione è semplice. Quel capo,
posposto al nome con funzione appositiva, forma un'espres-
sione ellittica che si svolge cosf: « che è a capo» cioè, consi-
gliere, commesso, redattore che è « a capo » di altri consi-
glieri, di altri commessi, di altri redattori (i francesi dicono
en chef, gli spagnoli en jefe). E resta pertanto invariato nel plu-
rale. Diremo perciò il consigliere capo e i consiglieri capo, il
commesso capo e i commessi capo, il redattore capo e i redattori
capo, il cronista capo e i cronisti capo. Per la donna avremo la
commessa capo, la redattrice capo, la cronista capo, e nel plurale
le commesse capo, le redattrici capo, le croniste capo.

Romanzo-fiume, guerra-lampo.
Voglio ora parlare di una particolare categoria di nomi, che
non hanno nulla che fare con i nomi composti, ma che pure
risultano dall'accoppiamento di due sostantivi, e che creano
anch'essi qualche perplessità nel momento di metterli al plu-
rale. C'è una differenza anche visiva tra questi e i nomi com-
posti, ché i due elementi costitutivi si scrivono sempre sepa-
rati e uniti tra loro da una lineetta: romanzo-fiume, guerra- '
lampo, porta-finestra, decreto-catenaccio, eccetera eccetera, ché
la lingua moderna continuamente ne crea per il vezzo crescente
di dir molte cose in breve e anche per influsso delle lingue
straniere.
Ben diversi dal tipo francobollo, pescecane e madreperla,
questi nomi non possono rientrare per la formazione del plu-
rale nelle regole fondamentali che abbiamo veduto poco fa .
Sono combinazioni di nomi che in definitiva rappresentano un'in-
tera frase abbreviata; e per questo appunto si raccomanda di
scriverli col trattino, avendo il trattino fra i vari suoi usi
anche quello di simbolizzare un intero discorso taciuto. Come
si scrive infatti normalmente autostrada Firenze-Mare, frase
ellittica che vale distesamente « autostrada che va da Firenze
al mare», cosf si deve scrivere romanzo-fiume, « romanzo . lungo
come un fiume », guerra-lampo, « guerra fatta, finita in un
lampo 1>, carro-bestiame, «carro per il trasporto del bestiame»,
e cosf via.
Per la formazione del plurale di questi nomi accoppiati

123
ricorreremo a una regola particolare, che è unica per tutti ed è
semplicissima: metteremo al plurale solo il primo elemento
lasciando invariato il secondo; e questo perché è solo il primo ele-
mento che cambia numero, mentre il secondo, che esprime
soltanto una specificazione, un paragone, rimane qual è: infatti
se un romanzo è lungo come un fiume, anche piu romanzi
saranno lunghi come un fiume, se un carro serve a trasportar
bestiame, anche piu carri serviranno a trasportar bestiame. C'è
inoltre il fatto che non sempre questi nomi risultano dall'ac-
coppiamento di due sostantivi di genere uguale, tutt'e due
maschili o tutt'e due femminili, rendendo impossibile la con-
cordanza.
Avremo dunque in pratica questi plurali: romanzi-fiume,
guerre-lampo, carri-bestiame, porte-finestra, decreti-catenaccio,
treni-lumaca, cani-poliziotto, ragazzi-prodigio, ragazze-prodigio ,
ragazze-squillo, navi-traghetto, case-asilo, gonne-pantalone, uo-
mini-rana, giacche-fantasia, governi-fantasma, donne-cannone, car-
te-carbone, torri-vedetta, palazzi-alveare, orologi-calendario, pe-
sci-pilota, ecc.

Italo-americano, centro-meridionale.
C'è infine una seconda categoria di parole risultanti dall'accop-
piamento strettissimo di due e anche tre e piu parole le quali
sono però tutte aggettivi: attore itala-americano, cucina centro-
meridionale, mercato orto-floro-frutticolo. Qui pure, come ve-
dete, gli elementi costitutivi saranno legati sempre tra loro dal
solito trattino.
Anche per questi vocaboli compositi a noi interessa ora la
formazione del plurale; e la cosa è ancora semplice: a diffe·
renza di quel che accade coi nomi accopp1at1 or ora v1st1, noi
qui metteremo al plurale soltanto l'ultimo aggettivo del grup-
po, n.a turalmente concordandolo nel genere col sostantivo a cui
si riferisce. Esempi: visita medico-fiscale, visite medico-fiscali; at·
tore itala-americano, attori itala-americani, attrice itala-americana,
attrici itala-americane; dialetto centro-meridionale, dialetti cen-
tro-meridionali; guerra /ranco-tedesca, guerre franco -tedesche;
trattato russo-/ranco-americano, trattati russo-franco-americani ;
mercato orto-floro-frutticolo, mercati orto-floro-frutticoli.; e via
su questo metro.

124
Acquavite.
Un'altra parola che suscita spesso discussioni è acquavite, sul
cui plurale non sono tutti d'acèordo. Luigi Veronelli, esperto
di bevande alcoliche oltre che di cibi, dice acqueviti. Si tratta
però di un composto che rientra nella categoria dei nomi for-
mati dì due sostantivi femminili, del tipo madrevite, cartape-
cora, cassapanca, madreperla, nomi composti che, come abbì~mo
visto, modificano nel plurale solo il secondo elemento lasciando
invariato il primo: le madreviti, .le cartapecore, le cassapanche,
le madreperle. Perciò il plurale dovrà essere acquaviti. E
acquaviti infatti dice di regola il Monelli, altro esperto di be-
vande alcoliche oltre che di lettere, come vedo nel suo già
citato libro « Il vero bevitore>>. Una sola volta, se non erro,
Monelli usa acqueviti, ma deve piuttosto trattarsi di una svi-
sta tipografica. Anche in Bacchelli incontro. « acquaviti di limpi-
dezza adamantina >>. Non capisco perché quasi tutti i dizionari
(salvo il vecchissimo Tramater e il recente De Felice-Duro) igno-
rino il plurale dì acquavite, come se di questo liquore esistesse
un solo esemplare. Ma la grappa, il cognàc e tutti gli altri
distillati del vino non sono forse acquaviti?

Pellerossa, pellirosse.
Il plurale di pellerossa qual è: i pellirosse, i pellerossi, oppure
i pellerossa, invariabile?
Lo abbiamo visto: diciamo i pellirosse, rispettando cosi la
regoletta che dice: i nomi còmposti di un sostantivo piu un
aggettivo formano il plurale mettendo nel plurale entrambi i
componenti. Infatti dai singolari caposaldo, fabbroferraio, cassa-
forte, terracotta abbiamo i plurali capisaldi, fabbriferrai, casse-
forti, terrecotte. Di conseguenza, pellerossa, pellirosse.
Nel caso nostro, però, devo affrettarmi ad aggiungere che si
tratta di un nome in verità nato plurale, in quanto si riferiva
a una gente, a una pluralità di persone . .Lo àbbiamo infatti
preso, negli ultimi decennii del secolo scorso, dal plurale fran-
cese Peaux-Rouges, ricalcandolo dapprima in Pelli Rosse, poi
in pellirosse, tutto attaccato. E di qui appunto abbiamo poi
fatto il singolare pellerossa, alternato nell'uso con una seconda

12.5
forma pellirossa, che lascia invariato il primo termine non piu
sentito come plurale.
E giacché siamo a parlar· di questi Indiani dell'America set·
tentrionale, non mi sembra inopportuno avvertire che il nome
di Pelli Rosse fu dato la prima volta dal navigatore italiano
Giovanni Caboto, nel 1497, alle popolazioni indigene di Terra-
nova, i Beothuc, oggi estinti; e non per un naturale color
rossiccio della pelle, che non avevano, ma perché usavano tin-
gersi il viso e altre parti del corpo con ocra rossa.

Pomodoro, pomodori.
Di questo sostantivo si incontrano ben tre plurali: pomidoro,
pomidori, pomodori. Qual è da preferirsi?
La parola pomodoro è certo parola composta: pomo d'oro,
per il particolare color fiammante del frutto (lo chiamarono,
dapprima, anche pomo d'amore!). Perciò, il plurale i pomidoro
parrebbe il piu logico. E cosf fu infatti usato in principio
(sec. XVI) da Giovanvettorio Soderini nel suo «Trattato di
agricoltura », e anche da altri, scritto tanto in due parole quanto
in una parola sola. Anzi, sul plurale staccato pomi d'oro si
rifece piu tardi il singolare unito il pomidoro, da cui la forma
plurale i pomidori. È accaduto però che nel corso del tem-
po, per l'uso frequentissimo del vocabolo, si è andata via via
perdendo la nozione espressa dai due elementi compositivi, in
modo che essi han finito col fondersi saldamente. Ne consegue
che il plurale pomodori, foggiato secondo la regola comune dei
normali nomi maschili in -o, è quello preferito dai lessicografi
piu recenti, e che io mi permetterei di consigliare. La coppia
plurale i pomidoro e i pomidori è, intendiamoci, ancora abba-
stanza comune, ma è d'uso piuttosto regionale.

I film, gli sport.


Nei giornali, anche in quelli linguisticamente piu scrupolosi,
si vedono diversamente trattati i plurali di certi nomi stranieri:
c'è chi scrive i films e chi i film, chi gli sports ma anche gli sport.
Qual è la forma che conviene seguire?
A proposito dei plurale dei nomi stranieri in un contesto

126
italiano, c'è da precisare questo: o noi li usiamo come tali,
cioè come stranieri, e allora bisognerà scriverli ovviamente nella
forma plurale della loro lingua: « i films americani», « gli
sports nautici»: in tal caso però essi andranno sottolineati
in un testo manoscritto, o messi in corsivo in un testo a
stampa, cosi come siamo soliti sottolineare o stampare in corsivo
una p!trola straniera; oppure li consideriamo vocaboli italiani,
inseriti da tempo nel nostro lessico, e in tal caso essi ricadono
nella comune regola grammaticale che prescrive di lasciare
immutati nel plurale i nomi terminanti in consonante; perciò
come scriviamo gli amor, i cavalier, scriveremo i film, gli sport,
i tram, i camion, i bar, i gol, i cognac, i cordial.
E a questo secondo sistema si consiglia di attenersi sempre,
anche per evitare di cadere in qualche grossolano errore, sem-
pre possibile quando non si ha sicura conoscenza di certe lin-
gue straniere; o di prendere qualche goffa cantonata, come av-
venne a quel tale che scambiando la parola travet per francese
(si tratta, come ognun sa, d'un nome proprio di persona, tratto
dalla famosa commedia in dialetto piemontese Le miserie
d'monsu Travet, di Vittorio Bersezio, divenuto poi nome co-
mune per indicare l'impiegatuccio statale schiavo del dovere
e dei superiori), ne trasse fuori un sorprendente plurale i
travets!
Ripeto: la regola sopra detta deve valere solo per quei
vocaboli stranieri che, inseriti da tempo nel nostro linguaggio,
fanno parte ormai del nostro lessico. Va da sé, invece, che
per ogni altro nome di diversa lingua citato e sentito come
straniero dovremo usare la forma plurale che gli è propria;
cosi diremo, per es., «A me piacciono i film dove agiscono i
cow-boys (nel plurale e sottolineato)», «Molte ladies inglesi era-
no presenti alla cerimonia ».

Referendum, curriculum, memorandum ...


Se si dovesse usar la parola referendum al plurale, come ci si
regolerebbe? Diremo i referenda, dato che la parola è latina, o la-
sceremo le cose come stanno, e diremo i referendum? E per cur-
riculum, e per memorandum come ci regoleremo?
Vive da tempo indisturbato nel nostro lessico un gruppetto
di queste parole latine ormai cosi radicare nell'uso che potremo

127
considerarle alla stessa stregua di molte parole straniere, spe-
cialmente inglesi, le quali ormai definitivamente inserite nel no-
stro idioma, hanno per il plurale lo stesso trattamento delle no-
stre parole tronche, restano cioè, come abbiamo appena visto piu
sopra, invariate; per citare solo le piu comuni, i tram, gli sport,
. i film, e non i trams, gli sports, i films .
Io penso che si possa benissimo considerare straniero, almeno
dal punto di vista morfologico, anche questo gruppo di parole la-
tine, come referendum, ultimatum, curriculum, memorandum, au-
ditorium, solarium, album, per tacere del comunissimo lapis. Per-
ciò la prima risposta alla domanda potrebbe esser subito questa:
· il referendum, i referendum, il curriculum, i curriculum, il me-
morandum, i memorandum, e cosf via. Del resto per alcune
di queste parole la forma latina invariabile si è stabilizzata da
tempo. Tutti, e fin dal Cinquecento, diciamo e scriviamo senza
nessuna esitazione il lapis e i lapis, anche se il latino lapis,
propriamente « pietra », imporrebbe un plurale làpides. La
parola album, venutaci dalla Germania settecentesca dove in-
dicava un libro per la raccolta di ricordi, di versi e di auto-
grafi augurali di amici, resiste ancora in questa forma inva-
riabile, gli album, nella medesima accezione e in altri usi
estensivi, come « album di francobolli, di fotografie, di dischi »,
ecc. Ma sempre la forma italiana albo, plurale gli albi, usiamo
in ogni altro caso (l'albo dei medici, degli avvocati; albo d'o-
nore; l'albo dei promossi, ecc.). Salario, col plurale i solarii,
da almeno un secolo ha sostituito il latino invariabile solarium,
che fa capolino solo raramente; e lo stesso è accaduto per
auditorium che da tempo ha ceduto il passo alla forma audi-
torio, plurale auditorii. Alquanto diverso è il caso di ultima-
tum, referendum e memorandum, tutte parole latine, è vero,
ma che ci sono venute attraverso il linguaggio politico straniero,
di solito il francese, e perciò lasciate tal quali anche nel plu-
rale. Tuttavia anche per queste qualche tentativo di italianizza-
zione c'è stato; il Foscolo, per esempio, usò ultimato, e il
Pananti parlava di memorandi. Nulla impedirebbe di usare una
forma referendo, con un plurale regolare i referendi, e. cosf.
pure sarebbe ottima cosa cominciare a dire il curricolo, nel
plurale i curricoli: basterebbe che si mettessero a divulgarle
la radio e la televisione, seguite dalla stampa quotidiana, e le
due parole nel giro di pochi mesi sarebbero sulla bocca di

128
tutti. Anche speczmen è parola latina, ma venutaci essa pure
attraverso il francese (che l'aveva presa dall'inglese). Il latino
nel plurale fa spedmina; e noi come da crimen, criminis ab-
biamo fatto crimine, plurale crimini, avremmo potuto benissi-
mo fare specimine, spedmini. Ma anche qui, essendo di impor-
tazione francese, abbiamo lasciato la parola invariata nel plu-
rale.

I sovrabbondanti.
Esistono dei . nomi maschili detti da alcuni grammatici sovrab-
bondanti perché, invece del solito unico plurale, di plurali ne
hanno due: uno regolare in -i, di genere maschile, e uno irre-
golare in -a, usato nel femminile; come frutto (i frutti, le frutta),
muro (i muri, le mura), lenzuolo (i lenzuoli, le lenzuola), anello
(gli anelli, le anella), calcagno (i calcagni, le calcagna), ciglio
(i cigli, le ciglia), ginocchio (i ginocchi, le ginocchia), ecc. Alcuni
di questi doppi plurali si adoperano a piacimento, senza diffe-
renza di significato (per es., i due plurali di sopracciglio:
i sopraccigli, le sopracciglia, quelli di ginocchio: i ginocchi, le
ginocchia; di vestigio: i vestigi, le vestigia; di vestimento: i
vestimenti, le vestimenta; e qualche altro); ma quasi sempre tra
le due forme c'è differenza di significato, a volte sfumato, ma a
volte anche notevole. Osserviamo queste semplici frasi: « Lo
strinse tra le braccia », « Si appoggiò ai bracci della poltrona»;
«Aveva le labbra rosse», «I labbri rossi del vaso»; «I fonda-
menti di una scienza», « Le fondamenta del palazzo»; «Case
dai muri cadenti», « Città recinta da antiche mura»; « Gli
anelli della ·catena », « Capelli cascanti in soffici anella »; « Albe-
ri lungo i cigli delle strade», «Occhi dalle lunghe ciglia»;
«Strade che sembrano budelli», «Riempirsi le budella» ; « But-
tar via gli ossi del pollo>>, «Gli dolevano le ossa >>: le differen-
ze di significato saltano agli occhi.
In particolare, per dito, dirò che i due plurali spesso si con-
fondono, secondo le regioni d'Italia . « Ho i diti indolenziti»,
«Ho le dita indoknzite »; il D'Annunzio, nella Sera fiesolana,
anche per ragione di rima, dice « su i pini dai novelli rosei diti >>;
ma, solitamente, la forma maschile si preferisce quando si vuol
fare una specificazione: i diti pollici, i diti anulari; in senso

129
collettivo, meglio il femminile le dita: « Le dita della mano».
Per orecchio c'è da dir questo: che si tratta di un nome
sovrabbondante fin nella forma singolare: l'orecchio e l'orecchia,
con i rispettivi plurali, gli orecchi e le orecchie. La forma ma-
schile è quella piu comune, e l'unica del linguaggio scientifico;
la forma femminile è d'uso piuttosto regionale, specialmente
al plurale. Orecchia, poi, è generalmente usata nel significato
figurato: «Un libro pieno di orecchie»: «pieno di orecchi» non
si direbbe. Nel significato musicale, invece, sempre maschile:
« Ha un orecchio finissimo», e anche in certe locuzioni: «Porre,
porgere, prestare orecchio a una cosa ». Come si vede, un muc-
chio di sfumature, dove soltanto l'uso può dare consiglio.
Anche lenzuolo ha due plurali. S'usa il maschile plurale i
lenzuoli, quando si parla di essi in senso generale: « Ho com-
prato dei nuovi lenzuoli •>, « Che bei lenzuoli ho visto in ve-
trina ». S'usa il femminile le lenzuola in senso collettivo, quando
si vuole indicare il paio che si mette a letto: « Cacciarsi tra le
lenzuola », «Cambiare le lenzuola».
Membro ha un plurale femminile le membra, usato solo rife-
rendosi a .parti del corpo animale, specialmente prese nel loro
complesso: «Stirarsi le membra»; e un plurale maschile, i mem-
bri, che si usa quasi soltanto in senso figurato, per indicare le
parti di alcunché: «I membri del consiglio», «I membri del
periodo».
Corno ha i plurali le corna e i corni. Il primo si usa nel
senso proprio: le corna degli animali, le corna del bue, e anche
del diavolo; i corni si usa in senso soprattutto metaforico: i cor-
ni della luna, del dilemma, un suono di corni.
Il sostantivo maschile frutto con un suo plurale regolare frutti
si riferisce a tutto ciò che la terra produce, sia esso mangerec-
cio o no: « La mela è il frutto del melo», « L'albero è carico
di frutti ». Ma esiste anche un singolare la frutta che si riferi- .
sce in senso collettivo solo al prodotto mangereccio di una
pianta, già còlto per essere mangiato: « Mangio una frutta
e mi basta» (ma è anche corretto dire «Mangio un frutto»,
usando cioè il maschile): «Un piatto di frutta fresca», << Què-
st'anno c'è poca frutta». Questo singolare la frutta ha due plu-
rali : le frutta e le frutte; perciò possiamo dire «Un piatto di bel
le frutta » oppure « Un piatto di belle frutte ».
Anche il plurale di calcagno è duplice: i calcagni e le calcagna.
Ma il primo è l'unico da usare in senso proprio: « S'è sbucciato

130
i calcagni », e anche estensivamente, « I calcagni delle calze, del-
le scarpe »; il secondo s'usa solo in alcune locuzioni: « Stare al-
le calcagna di uno », seguirlo da vicino; « Battere, alzare le cal-
cagna» , darsela a gambe, scappare.
Citerò ancora, tra i nomi sovrabbondanti, il sostantivo tergo,
col plurale i terghi riferito piuttosto a cose: «i terghi degli ar-
madi, delle monete », cioè i rovesci; nel significato di schiena, di
persona o animale, piu comune le terga: «Volgere le terga».
Urlo, grido, strido hanno tutti il doppio plurale: gli urli e
le urla, i gridi e le grida, gli stridi e le strida. A volte nell'uso
questi doppi plurali si confondono, ma di solito si preferiscono
i plurali maschili se riferiti ad animale, uomo o cosa: « Gli urli
della bufera»; «Due gridi lamentosi ci fecero trasalire»; « Si
udivano gli stridi rauchi degli sparvieri»; piu spesso s'usano
i femminili riferiti solo all'uomo e in senso collettivo: « Le gri-
da della folla»; «Le strida dell'infelice», «Le urla del malca-
pitato ».

Fili, file e fila.


« In un discorso ufficiale tenuto nella nostra città da un pezzo
grosso, ho udito piu volte ripetere frasi come queste: « nelle fi-
la del nostro partito», «serrare le fila ». Cosi mi avverte un
amico.
In questo errore marchiano cadono pezzi grossi e piccoli e
anche mezzani: voglio dire un po' tutti. Non c'è discorso dove
l'oratore non inciampi nelle « fila del partito» o non inviti i se-
guaci a « stringere le proprie fila ». L'italiano è certo una lingua
difficile, e anche piena di trabocchetti, ma forse è troppo igno-
rata anche da chi non dovrebbe ignorarla. Esiste un sostantivo
femminile singolare la fila, « serie di persone o cose piu o meno
allineate una dietro l'altra», che ha un plurale regolare le file;
si dice perciò che davanti ai negozi si formano « lunghe file » di
persone per comprare il pane, e che i militari « rompono le fi-
le», cioè rompono il loro allineamento. Esiste poi un secondo
sostantivo, ma di genere maschile, il filo, propriamente il prodot-
to della filatura (un filo di lana, di cotone) che ha, purtroppo,
due plurali: uno regolare maschile, i fili, e uno irregolare fem-
minile, le fila. E dunque un altro di quei nomi sovrabbondanti
che a'bbìamo esaminato or ora. Il plurale piu comune è quello

131
regolare, i fili: « Le Parche filano e tagliano i fili della vita
umana », « i fili del telegrafo», « tre fili di perle ». Il plurale
femminile le fila è d'uso piu limitato: si incontra in senso col-
lettivo, per indicar molti fili presi insieme: abbiamo cos1 «le
fila dell'ordito», e diciamo che il formaggio fuso « fa le fila »;
ma piu spesso in frasi figurate, come « le fila della congiura »,
« il traditore ordisce le sue fila». Tutto qui . E dunque attenzio-
ne, pezzi grossi e piccoli: le fila del cacio e del tradimento; ma
le file del partito, dell'associazione e dell 'esercito.
IX
Gli articoli
Lo zio, gli pneumatici.
Si dice e si scrive lo zio, lo gnocco , gli pneumatici, uno psicologo,
ma si dice e si scrive anche il :zio, il gnocco, i pneumatici, un
psicologo. Questa e altre incertezze nell'uso dell'articolo non so-
no un guaio solo dei giorni nostri; esse rappresentano piuttosto
le piu recenti scaramucce di una lunga guerra - lunga di se-
coli - che si combatte tra le doppie forme degli articoli de-
terminativi e indeterminativi il, i, lo, gli, uno e un. La gram-
matica, com'è giusto, ha tentato di metter fine a questa guer-
ra, e ha perciò fissato una regola sulla quale finalmente po-
sarsi. È una regola semplice, che sappiamo tutti: gli articoli
lo, gli, uno si usano, invece di il, i, un, davanti a parole che
cominciano con :z, con s impura (cioè seguita da consonante),
=
con i gruppi se, gn, ps, pn, e con x ( ks) ; perciò: lo zampillo,
uno scudo, lo sciacallo, uno gnocco, gli gnocchi, uno psicologo,
gli pneumatici, uno xilografo. La stessa regola si deve esten-
dere anche ad altri gruppi consonantici estranei alla nostra
lingua: lo bdèllio, lo mnemonismo, lo pterigio, lo ctònio, uno
Cnidio, gli pterodàttili, gli ftalati, e simili.
Questa la regola; la quale non è stata fatta a capriccio ma par-
tendo dal presupposto che l'incontro di un articolo o di una pre-
posizione articolata terminante in consonante con certi gruppi
consonantici iniziali di parola intralcia, rende meno fluida la
pronunzia; perciò meglio lo zio che il zio, meglio lo pneumatico
che il pneumatico, meglio lo psicologo che il psicologo, meglio
uno sbirro che un sbirro. Si tratta dunque di una faccenda di
suono, di una questione di orecchio.
Cominciò il Bembo, nel Cinquecento, a rendersi conto di que-
ste stonature, e cercò di mettere un po' d'ordine in questa fac-
cenda. Egli stesso, per esempio, che aveva scritto « Una sol vo-

135
ce in allettando il spirto », corresse piu tardi il verso cosi:
«Una sol voce in allettar lo spirto ». Ma le sue regole furono
ben !ungi dall'essere uniformemente rispettate; e ancora nel-
l'Ottocento la lotta tra le due forme era assai viva: il Foscolo
scriveva i stemmi, il Berchet, un spergiuro. Piu forte l'oscilla-
zione tra lo e il dinanzi alla z, con preminenza assoluta di il;
basterà citare ancora il Foscolo, nel famoso sonetto Alla sera:
« Le nubi estive e i zeffiri sereni», forma ripetuta nei Sepolcri:
« Di puri effluvii i zefiri impregnando ». Il Pindemonte cosi
scriveva, il 18 maggio 1810, al classicheggiante Mario Pieri: « Io
poi dico il zelo e non lo zelo, e prego lei a guardarsi anch'ella
da tale affettazione»; e lo stesso padre Antonio Cesari, cruscan- .
tissimo e rigido purista, non esitò a tacciare addirittura di
« schifiltosi » quelli che usavano lo zio al posto di il zio. No-
tissimo a tutti, del resto, è il zappatore leopardiano; e lo stesso
D'Annunzio, se scrisse lo zibellino, non esitò davanti a il zibet-
to e a i zaini. Numerosi gli esempi anche tra gli scrittori contem-
poranei, come coi zoccoli del Panzini, un tenente dei zappatori·
del Bacchelli, il zanni del Monelli, il zirlare del Linati.
Identica confusione di articoli si riscontra, fin dal Seicento,
davanti a parole, un tempo rare ma oggi sempre piu frequenti,
comincianti con i gruppi consonantici sopra allineati. Troviamo
nel Mattioli (secolo XVI) lo psillio, ma anche il psillio (un'erba,
detta anche pulicaria); nel Bartoli (sec. XVII) troviamo del
pseudolegista. Il Tommaseo consiglia di dire i pseudonimi;
sembra meno crudo, infatti, l'incontro consonantico nel plurale,
ché dire i pseudonimi è come dire ipsilon, dire i pneumatici è
come dire ipnosi. Del resto, anche il Carducci non esitò davanti
a il psicologismo. Anche per il gruppo gn, uguale confusione: il
Redi (sec. XVII) ha «non faccia Io gnorri»; ma il Menzini, suo
contemporaneo, dice « fo il gnorri»; e ancora il Tommaseo, sot-
to gnòstico, dà questo consiglio: « I gnostici pronunziasi meglio
che gli; ma uno gnostico meglio che un ». L'altalena continua
fra i contemporanei: i gnocchi dice il Panzini, i gnomi l'Ojetti,
il gnaulio il Calvino; il Gadda ha addirittura nel sciocchezzaio.
Tutto questo, e potrei continuare, dimostra appunto che
l'incertezza odierna non è che la naturale conseguenza dell'in-
certezza antica. Incertezza che, una volta tanto, la nostra gram-
matica ha voluto toglier di mezzo con quella semplice regoletta
che s'è detta in principio. Alla quale però un'obiezione si potreb-
be muovere. Va bene il cattivo suono dell'articolo il e un da-

136
vanti alla s impura: il scolaro è impronunciabile, un sdegno
storce la bocca, un xilofono sembra uno starnuto; ma già le cose
cambiano con l'articolo plurale i: i scolari ripete il suono di
iscariota, i sbirri suona come l'isba russa; e ancòra i specchi suo-
na come ispettore, i gnocchi come ignorante, e già s'è parlato di
i pseudonimi, i psichiatri che suonano come ipsilon, e di i pneu-
matici che suonano come ipnosi, ipnotismo. E non parliamo della
z iniziale; è troppo facile l'obiezione: perché respingere le forme
il zoppo, il zio, un zoppo, un zio, quando poi pronunziamo
senza il minimo sforzo alzare, milza, punzone e ronzio?
Queste obiezioni se le fa, certo inconsciamente, il popolo il
quale tende sempre a inserire parole e costrutti negli schemi
piu semplici e uniformi. Cosi si spiega la sempre maggior fre-
quenza di i pneumatici e un psicologo, parole nate dotte ma
ormai sulla bocca di tutti, e la resistenza di forme come lo
psicomante e uno pterodàttilo, ancora riservate alle persone c61-
te, piu ossequenti alle leggi grammaticali.
A proposito anzi delle forme sempre piu comuni il psicologo,
un psicologo, Luciano Satta, in una sua bella grammatica, opina, a
mio avviso ragionevolmente, che « una spinta a questa preferen-
za è spiegabile probabilmente con il modo in cui si leggono cer-
te sigle : il partito socialista italiano conserva l'articolo il an-
che quando è siglato: il PSI ». Anche il disciolto PSIUP fu
sempre il PSIUP e mai lo PSIUP, e nessuno dice lo MSI ma il
MSI quando non si preferisca risolverlo in MIS.
Ma, detto tutto questo, mi affretto ad aggiungere che sono
ben lontano, Dio me ne guardi, dal consigliare di non tener
conto della regola predicata da tutte le grammatiche; insisto
anzi nel raccomandarla, e io sempre a essa mi attengo; ma non
possiamo neppure ignorare una realtà fin troppo evidente che
ripudia sempre piu gli pneumatici e uno pseudonimo, ma con-
tinua a rispettare scrupolosamente lo specchio e uno scemo , come
l'istinto le detta.

Il iodio, lo iodio.
« Il iato delle troppe vocali » scriveva il Foscolo, « gli iati
della versificazione » scriveva il Carducci, «m'ha l'aria d'un
iettatore» scriveva D'Annunzio, « era uno iettatore» scriveva
Baldini. La grammatica piu severa prescrive che con le parole

137
comincianti con una i segufta da vocale (cioè la i detta semi-
consonante) si debbano usare gli articoli determinativi lo, plu-
rale gli, e l'indeterminativo uno; perciò lo iodio, lo iato, lo iet-
tatore, lo iugero, lo iugoslavo; gli iati, gli iugoslavi, gli iettatori;
uno iugoslavo, uno iettatore. Ma ecco che a questo punto inter-
viene l'uso, che nasce dall'istinto stesso del parlante, il quale
spesso ignora leggi grammaticali e tradizioni; e abbiamo cosf il
iato e il iodio, un iugoslavo e un iettatore. È lo stesso fenomeno
avvenuto, come abbiamo appena visto, con le parole comincian-
ti con ps, pn, gn. ecc., sf che, contestando antiche leggi gram-
maticali, si dice sempre meno lo psicologo, lo pneumatico e lo
gnocco, e sempre piu il psicologo, il pneumatico e il gnocco.
Sappiamo come son nate queste leggi: per le cosiddette ragioni
eufòniche, cioè di bel suono, di maggior facilità di pronunzia;
ma si può dubitare che sia piu facile pronunziare lo iato e gli
iati che il iato e i iati, e che lo iugoslavo e gli iugoslavi scorrano
meglio che il iugoslavo e i iugoslavi. Ciascuno quindi potrà
concluder da sé: per l'una e per l'altra forma c'è da appoggiar-
si, come sopra s'è visto, a nomi di cartello.

Perché <<gli dèi »?


Diciamo i deboli, i devoti, i deserti; ma perché allora gli dèi e
non i dèi?
E sempre esistita, dall'origine della nostra lingua, accanto al-
la normale forma Dio una forma Iddio nata dall'espressione ar-
ticolata il Dio (il Dio per eccellenza, il Dio cristiano) per con-
crezione dell'articolo col nome. Questo nome cosf composto,
scritto anche con la minuscola specialmente riferito alle divinità
pagane, ebbe un plurale iddii, con un femminile iddia, plurale
iddie. Altre forme composte furono iddeo, plurale iddei, coi
femminili iddea e iddee, piu vicine alle forme latine deus e dea.
Di tutte queste forme, solo' Iddio, quasi sempre riferito alla di-
vinità cristiana e perciò scritto con la maiuscola, è ancora vivo
nell'uso comune, mentre tutte le altre del primo gruppo appaio-
no a volte solo nella poesia ( « gl'itali iddii » del Carducci);
quelle del secondo gruppo, iddeo, iddei, eccetera sono tutte mor-
te. Ciò premesso, l'origine di quello strano articolo gli da-
vanti a vocale è presto spiegata: è il residuo della forma artico-
lata plurale gli iddei, apostrofata gl'iddei, fusa nella pronunzia

138
in « gliddei ». L'articolo è rimasto anche quando il gruppo ini-
ziale id- è scomparso dall'uso.

Lo suocero.
In alcuni dialetti settentrionali, e in particolare in Emilia, si
sente dire lo suocero, allo suocero, dello suocero, anche da per-
sone di buona cultura. Ma si tratta, è chiaro, di un errore gros·
soiano: le sole forme corrette sono il suocero, al suocero, del suo-
cero, La grammatica, l'abbiamo visto, prescrive quando bisogna u-
sare l'articolo lo e quando l'articolo il. L'articolo lo è d'obbligo
(ripetiamolo un'ennesima volta) solo davanti a parole che comin-
ciano con z, con gn; pn, ps, x e in particolare con la s im-
pura. In ogni altro caso si deve usare il. Lo vive ancora, e
tenacemente, appunto nell'espressione lo suocero (e di conse-
guenza gli suoceri e uno suocero). Ma la ragione di questo
fatto la spiega chiaramente un chiaro linguista, il Tagliavini,
ch'è bolognese: gli Emiliani e i Romagnoli, egli dice, pronun-
ciano in molti casi, nel loro dialetto, e anche quando non par-
lano in dialetto, la semivocale u come una v; e dicono, per es.,
angvéla, per anguilla, cvesto, cvello, Avgusto per questo, quello,
Augusto. «Non ci si può dunque meravigliare» conclude il Ta-
gliavini « che chi pronuncia, per abitudine fonetica regionale,
svòcero invece di suòcero, sente all'inizio un s impuro e quindi
è portato a usare l'articolo lo, che è d'obbligo appunto in casi
come lo sviluppo, ecc. » Giustissimo. Però questo errore, spie-
gabile in bocca emiliano-romagnola, rimane inspiegabile in boc-
ca lombarda, per esempio, dove pure l'espressione lo suocero è
comunissima. Qui si tratta, probabilmente, di una piatta imita-
zione non sostenuta da nessuna tradizione fonetica.

L'articolo coi nomi stranieri.


Anche questo è un problema non sempre discusso o risolto dal-
le comuni grammatiche; ma specialmente oggi che le parole
straniere son di casa nel nostro comune linguaggio mi sembra
che sia arrivato il momento di esaminarlo e di risolverlo. Per
fortuna, una soluzione sembra qui abbastanza facile, almeno nel
suo principio generale. Che è questo: nella scelta dell'articolo

1.39
italiano da collocare davanti a una parola straniera dobbiamo
tener conto non già della consonante o del gruppo consonanti-
co iniziale di parola, ma della sua effettiva pronunzia; per esem-
pio, se dobbiamo porre l'articolo alla parola francese chèque
non dobbiamo tener conto del gruppo iniziale eh, che in italiano
è sempre di suono duro, come in che e in chela, ma del modo
come in francese questo gruppo viene pronunciato, cioè « scè »;
non diremo quindi «il chèque», «i chèques », «un chèque»,
come diciamo il chenopodio, i chenopodi, un chenopodio, ma
diremo lo chèque, gli chèques, uno chèque, cosi come diciamo
lo scettro, gli scettri, uno scettro. Accettata questa norma, che
è l'unica accettabile, tutto filerà liscio per tutte le parole fran-
cesi con Io stesso gruppo iniziale: chalet, chef, choc, champagne,
chiffon, Chénier, Champs-Élysées, eccetera, dove gli articoli ita-
liani da usare saranno gli stessi ora visti per chèque: lo chalet,
gli chalets, uno chalet , lo chef, lo champagne, uno chiffon , i ver-
si dello Chénier, gli Champs-Elysées. E useremo gli stessi artico-
li anche davanti a quelle parole d'altra lingua che hanno per
iniziale la s seguita da consonante, quella che noi diciamo s
impura, come nelle parole sport, speaker, stand, scout, slip:
lo sport, lo speaker, uno stand, gli scouts, gli slips (o anche
slip invariato, considerandola ormai parola italiana).
Gli stessi articoli useremo anche per quelle parole straniere
comincianti col gruppo consonantico sh o sch che si pronun-
ziano come il gruppo se di scemo; e come diciamo lo scemo,
gli scemi, uno scemo, diremo lo show, gli shows, uno show, uno
shampoo, lo Shelley, lo Shakespeare, lo Schiller, eccetera.
Conoscendo questo facile meccanismo gran parte delle diffi-
coltà saranno presto superate; Diremo perciò il jockey, perché
pronunziamo « giòki »; diremo lo yacht ( « iòt ») o anche il
yacht come diciamo lo iodio o il iodio; diremo il jazz ( « giàs » ),
il jet, un jet ( « gèt » ), il jumbo, un jumbo , nome proprio di ele-
fantino volante, dato scherzosamente a un colossale apparecchio
aereo per la sua mole appunto, e pronunziato in inglese « giàm-
bou » (ma anche italianizzato in iumbo, invariabile).
Qualche difficoltà presenta invece la h iniziale di molti nomi
stranieri, comuni e propri, specialmente inglesi e tedeschi. Nel-
la nostra lingua la h è sempre muta, è come se neppure esistes-
se all'inizio di una parola, e perciò noi scriviamo senza pensiero
alcuno l'ho fatto, l'hai visto, cosf come altri scrive anche l'ò fat-
to, l'ài visto. Ma quando in un nome straniero questa h iniziale

140
è una vera e propria consonante dal suono aspirato, come si fa a
ignorarla? dovremo cioè scrivere lo humour, lo hobby, lo handi-
cap, lo Hinterland, lo Heine, lo Hegel , lo Humboldt , lo Hem-
ingway, rispettando la h consonantica aspirata, o ignorarla, e
scrivere, come anche correntemente si pronunzia, l'humour, l'bob-
by, l'handicap, l'Hinterland (anzi, addirittura l'hinterland con
la minuscola), l'Heine, l'Hegel, l'Humboldt, l'Hemingway? Que-
sto problema non esiste per lo spagnolo dove la stessa h è muta
come da noi: l'hidalgo, l'Hernandez; e muta anche nel francese,
almeno nella grande maggioranza delle parole da noi comune-
mente usate: l'hOtel, l'hangar, l'Hugo, l'Hoche. Sul problema di
questa h i fonetisti, si capisce, son rigidi: il valore di questa let-
tera va rispettato, e quindi si deve scrivere e dire correttamente
lo Heine e l'Hugo, l'hidalgo ma lo humour. Si abbietta tuttavia,
e l'obiezione ha il suo bel peso: ma quanti, anche di ottima cul-
tura, sanno là per là sempre distinguere una h semplice segno
grafico e quindi muta, da una h consonantica aspirata? Si trat-
ta dunque di una scelta, da lasciare, a mio avviso, a chi verrà a
trovarsi davanti a questo problema. Chi conosce il valore del se-
gno h saprà come regolarsi, chi non lo conosce non potrà che
regolarsi secondo la legge italiana; o meglio, se uno scrupolo
gli resta, cercherà una scappatoia, aggirando abilmente l'ostaco-
lo: invece dell'Heine dirà, per esempio, di Enrico Heine, del
poeta Heine, , del grande Heine o anche soltanto di Heine. E
cosi anche i piu rigidi fonetisti saranno placati.
Non è finito, c'è ancora un'ultima difficoltà da superare: la w
iniziale nelle parole tedesche, olandesi e inglesi. Per il tedesco
e l'olandese nessunissima difficoltà: la w in queste lingue cor-
risponde nella· pronunzia esattamente alla nostra consonante v:
quindi il W agner, il W eber, il W iirstel, come in italiano si di-
ce il V erga e il vulcano. Per l'inglese invece il ragionamento è
diverso; e lo faremo nel capitoletto che segue.
Ma un'aggiuntina non farà male. Si è parlato finora della for-
ma dell'articolo da usare davanti ai nomi stranieri; ma quanto
al genere come dovremo regolarci? Questo problema sorge al-
lorché la parola straniera è di genere diverso dalla corrisponden-
-te parola italiana; e sì incontra soprattutto nei titoli di certe ope-
re letterarie che si vogliano citare nella lingua di origine. Per
esempio: il francese mémoire è maschile, ma in italiano è fem-
minile, la memoria; diremo allora «i Mémoires di Carlo Goldo-
ni » o « le Mémoires di Carlo Goldoni »? e ancora diremo « le

141
Fleurs du mal di Baudelaire » o « i Fleurs du mal » perché
fleur in francese è femminile ma in italiano fiore è maschile? A
me pare che l'unica soluzione ovvia sia quella di porre l'articolo
nello stesso genere della parola straniera: «i Mémoires di Gol-
doni » « le Fleurs du mal di Baudelaire »; e analogamente «le
Pensées di Pasca! », « le Etudes historiques di Chateaubriand ».
Ci sono infine certi titoli latini di genere neutro plurale che si
considerano generalmente maschili; cosf si dice « i Levia Gravia
di Carducci », e dello stesso poeta «i Juvenilia »; eccezione
fa però l'espressione, pur essa neutra plurale, opera omnia,
« tutte le opere», con cui si indica la raccolta di tutte le opere
di un autore stampate in volumi di stile tipografico uniforme.
Orbene, questo plurale neutro latino si rende in italiano nel
femminile invariabile: «l'opera omnia dannunziana», «le
opera omnia dei principali poeti italiani».

Il whisky o l'whisky?
« Si deve scrivere il whisky o l'whisky? La prima forma è quel-
la piu comunemente usata. » A questa domanda che mi viene
spesso rivolta, non c'è che una risposta: il whisky è certo la for-
ma piu comunemente usata, ma è indubbio che è anche la forma
sbagliata.
Abbiamo appena finito di vedere la norma che regola l'uso
dell'articolo italiano coi nomi stranieri, regola fondata sulla
effettiva pronunzia del nome straniero e non sulla sua graffa;
perciò una delle due: o leggiamo whisky, e altri nomi inglesi co-
mincianti con w, come west, water, week-end, W ells, W ebster,
ecc. cosf come sono scritti, cioè dando a quella w il suono della
nostra v, e diciamo « viski », « vest », « vàter », « vikènd »,
« vells », « vebster », e allora scriveremo ovviamente il whisky,
il west, il water, il week-end, il W ells, il W ebster; o li leg-
giamo come in realtà si pronunziano, « uiski », « uèst », « uòote »,
« ufikend », « uèls », « uèbste », perché questa w inglese non è
una consonante come nel tedesco e non si legge v, ma è una se-
mivocale corrispondente alla nostra u come in uomo e uovo, e
allora non avremo altra scrittura possibile se non l'whisky,
l'west, l'water, l'week-end, l'W ells, l'W ebster, pronunziando
« l'uiski », « l'uèst », « l'uòote », « l'ulikend », « l'uèls >),
« l'uebste ». Chi sostiene il contrario, e sono i piu, dovrebbe

142
prima dimostrare la legittimità delle forme italiane « il uomo ~ e
«il uovo».
L'amico Luciano Satta che è della schiera, tanto piu folta del-
la mia, del whisky, forse sente una specie di ripugnanza visiva
per quell'apostrofo messo davanti a quella w cosf prepotente-
mente consonante ai nostri occhi; nessuno però muove piu la mi-
nima obiezione e sente la minima ripugnanza per molte altre
analoghe forme, come lo chalet, lo champagne, lo choc, dove l'ar-
ticolo italiano· tiene giustamente conto solo della pronunzia e
non del gruppo consonantico iniziale di parola. Ma whisky e
week-end in particolare sono nomi inglesi di introduzione ab-
bastanza recente nel nostro comune linguaggio, e ogni novità,
si capisce, crea perplessità e dubbi anche nella scrittura. Un
tempo l'inglese era conosciuto in Italia da pochissimi, si che
quando nel 1910 dilagò la Fanciulla del West di Puccini, nes-
suno si pose il problema dell'articolo, nemmeno gli autori del
libretto, ché tutti leggevano (come del resto molti leggono an-
cora), « del vèst ». Ma con l'anglomania che c'è oggi è ancora
giustificabile l'errore?

La Spezia, della Spezia.


Si deve scrivere della Spezia, alla Spezia, oppure de La Spezia,
a La Spezia, come piu spesso si vede?
Sono molti i nomi di città e di luogo, e piu erano in passato,
che si accompagnano all'articolo determinativo, e perciò il pro-
blema contenuto nella domanda si presenta assai di frequente,
e non sempre, a mio vedere, viene assennatamente risolto. Po·
tremmo ricordare città come la Mirandola, la Cattolica, la Mad-
dalena, la Morra, l'Impruneta, il Forte dei Marmi, le Focette, la
Mira, il Castagno Val d'Elsa, e tante altre; fuor dei nostri confi-
ni, il Cairo, il Pireo, la Mecca, l'Aia, l'Avana, la Corufia, eccetera.
Questo articolo per alcune nostre città è andato perduto, tanto
che oggi si parla di Cattolica, di Mirandola, di Mira, di Forte
dei Marmi senza l'articolo. E questo è un male, perché è un'altra
bella tradizione che se ne va. L'articolo infatti è stato appo-
sto al nome dall'uso parlato popolare, e si è tramandato nei seco-
li con maggiore o con minore fortuna; sul luogo resiste meglio,
fuori invece sovente si trascura e a poco a poco scompare. Da
noi si è fatto un apposito decreto per conservare l'articolo solo

143
per due capoluoghi di provincia, un articolo con tanto di maiu-
scola: La Spezia e L'Aquila. E il problema è sorto proprio da
quella maiuscola. Dobbiamo dire, per esempio, « vado a La
Spezia » o « vado alla Spezia »?, « i monumenti de L'Aquila » o
« dell'Aquila »? Quer decreto fu fatto male: bisognava stabili-
re soltanto che l'articolo tradizionale ·applicato ai nomi Spezia e
Aquila andava rispettato in ogni caso, anche nelle preposizioni,
senza parlare affatto di maiuscola; trattando cioè la Spezia e
l'Aquila come tratteremmo, tanto per capirci, espressioni come
«la Rosina » e «la Teresa ». Perciò, « visitare la Spezia», « sor-
volare l'Aquila», «vado alla Spezia», «i monumenti dell'Aqui-
la», e non «visitare La Spezia», «sorvolare L'Aquila», «vado
a La Spezia», «i monumenti de L'Aquila», come tutti scrivono;
analogamente, « presso il Cairo », e non « presso Il Cairo »,
«il porto del Pireo, «la Corte dell'Aia», «un pellegrinaggio
alla Mecca », <<il porto del Ferro!», e cosi via. L'Grticolo con la
maiuscola si scriverà, ovviamente, solo quando il nome si trovi
all'inizio di un periodo, o sia usato come citazione a sé stante,
per esempio nelle carte geografiche, nelle intestazioni di lettere
e documenti accanto alla data, e in altri simili casi.

Ne « I Promessi Sposi >>.


Come ci si comporta con le preposizioni articolate quando que-
ste precedono un altro articolo che fa parte del titolo di un'ope-
ra letteraria, di un giornale, di una ditta e simili? Si deve dire,
per esempio, «de l Promessi Sposi» o «dei Promessi Sposi»?
diremo « alla Rinascente » o « a La Rinascente »?
Innanzi tutto bisogna precisar questo: il problema nasce in
un solo caso, quando si voglia o sia necessario conservare l'inte-
grità formale di un titolo, di un nome; la qual cosa avviene so-
lo in casi particolari, come nelle citazioni bibliografiche piu se-
vere, in certi documenti ufficiali e simili. Nelle citazioni corren-
ti, dove non è atfatto richiesta questa assoluta integrità di for-
ma, lascerei da parte ogni perplessità e scriverei tranquillamen-
te, cosi come si dice parlando, «un'edizione dei Promessi Spo-
si», «un articolo sulla Stampa», « i negozi della Rinascente ».
Cosi ristretto il problema a pochi casi particolarissimi, vediamo
poi che esso si riduce a solo quattro preposizioni capaci di
crearci inciampi: di, a, da e in; per tutte le altre, con, su, per,

144
tra difficoltà non esistono perché l'accostamento dell'articolo è
sempre possibile: « con l Promessi Sposi », « su La Stampa »,
« per La Rinascente », « tra il Giorno del Parini ecc. ». La so-
luzione che viene spontanea per le prime quattro preposizioni
articolate è quella di scomporle nei loro elementi costitutivi,
s'composizione del resto comunissima un tempo e ancora abba-
stanza frequente nella prosa letteraria e specialmente in poe-
sia: de lo, a le, da la, ne lo, ne gli invece di dello, alle, dallà,
nello, negli. Perciò scriverei senza esitare, come infatti molti
già scrivono, « ne Lo Scialo di Pratolini », « ne l Promessi Spo-
si», « da Le Novelle della Pescara», « note a Gli Italiani di
Barzini jr » e cosf via. Resta però un ostacolo: la preposizione
seguita dall'articolo maschile singolare il. Dovremo scomporre
anche qui e scrivere de il, a il, da il e ne il? Ammetterei anche
questa scomposizione, del resto logicissima e coerentissima, e
scriverei, per esempio, « note a Il Giorno del Parini », « ne
Il Fuoco di D'Annunzio>>, ~<brani da Il Mulino del Po di Bac-
chelli », «lo stile de Il Deserto dei Tartari di Buzzati ». Solu-
zioni diverse non ne vedo, e in casi come questi non c'è che
da ricorrere a una convenzione. Tutta la scrittura del resto è
convenzione: basta accettarla e rispettarla d'amore e d'accordo.

Il Mario, Ja Maria.
B consuetudine propria di certe parlate settentrionali, ma con-
dannata dai puristi, quella di far precedere dall'articolo i nomi
propri maschili (il Mario, il Gino); è invece ammesso l'articolo
davanti ai nomi femminili(« è la Titti come una passeretta ... »).
Come si spiega questa differenza?
Questa consuetudine settentrionale, a dire il vero, va dilagan-
do: in numerose altre regioni si sente ormai dire il Mario, il
Gino; perfino in Toscana dove, al tempo del purismo, si eleva-
rono grida severe contro tale uso. Da una lettera di Ferdinando
Martini a una signora Maria V.B. di Ancona, pubblicata nel vo-
lume Di palo in frasca, tolgo questo espressivo finale: « ... se
per caso Ella ·sentisse il prurito di dirmi qualche altra impertinen-
zuola, d'una cosa la prego: non dica il Ferdinando Martini; an-
che l'Aleardi, Io so, scrive il Daniele, il Lorenzo; nondimeno
io Le sarei veramente grato se quell'articolo determinativo me lo

145
risparmiasse: sono ancora giovine (il Martini scriveva cosf nel
1879, a 38 anni), e per tenermi ritto non c'è bisogno di appun-
tellarmi le spalle con una sgrammaÙcatura ».
Il diffondersi della quale dipende, si capisce, dal quotidiano
andirivieni tra regione e regione, che va sempre piu uniforman-
do, un po' in bene un po' in male; il nostro linguaggio. Da-
vanti ai nomi propri femminili, l'articolo è invece antico quanto
la lingua italiana, e abbondano esempi di scrittori classici, a
cominciare da Dante: «I' vidi Elettra con molti compagni, ·
Tra' quai conobbi Ettor ed Enea, - Cesare armato con li occhi
grifagni, · Vidi Cammilla e la Pentesilea ..~ ». Di il Mario, il Gi-
no neppur l'ombra, ch'io sappia, fino alla piu recente prosa con-
temporanea. Come si spiega?
Si spiega con una realtà ·storica. La donna in tutti i tempi an-
tichi, e in particolare presso i Romani, entrava nel numero del-
le « cose » appartenenti al padre e, dopo il matrimonio, al mari-
to. Il suo nome, perciò, nacque propriamente come appellativo,
che si foggiava sul nome gentilizio mediante una desinenza fem-
minile; da Tullio, Marzio, Giulio si foggiarono gli appellativi
la Tullia, la Marzia, la Giulia; cosf come in tempi moderni da Mo-
rosini, da Foscari si foggiarono gli appellativi la Morosina, la Fo-
scarina. Gli appellativi hanno sempre bisogno d'un articolo deter-
minativo, come i cognomi e i soprannomi; diciamo infatti Alessan-
dro il Grande, Isotta la Bionda, diciamo l'Alighieri, il Boccaccio,
diciamo il Tonto, lo Sciancato. Il nome maschile, no; esso era
veramente un nome proprio, in quanto nell'uomo stava la rap-
presentanza assoluta di sé e dei suoi, là dove nella donna era la
rappresentanza di una persona dipendente o con relazione ad al-
tre persone.
Anche nel volgare italiano, formatosi dal latino, i nomi neo-
latini femminili ebbero valore di appellativo; e l'uso dell'arti-
colo è infatti soprattutto comune in Toscana, dove è piu tena-
ce la tradizione linguistica. La riprova di quanto s'è detto è
che l'articolo tende sempre piu a cadere via via che la donna
acquista una sua personalità spiccata. Parlando d'una donna il-
lustre nessuno userà l'articolo, nessuno dirà la Maria, la Fran-
cesca parlando di Maria Stuarda e di Francesca da Rimini. E
anche nell'uso di tutti i giorni l'articolo coi nomi propri fem·
minili è piuttosto un distintivo di umiltà, o anche di familiarità,
di confidenza. Quanto ai nomi propri maschili con l'articolo,
tutto è nato per semplice analogia: avendo sentito dire e ripe·

146
tere la Carla, la Mariuccia, i Lombardi si misero a dire il
Carletto, il Mario. Ed è un uso, ho detto, che va dilagando.
Una specie di rivendicazione storica; se vogliamo ...

L'articolo partitivo.
È comunissimo l'uso dell'articolo partitivo in frasi come Avre-
te delle noie, Dategli del vino da bere, e simili. Alcuni lo ac-
cusano di francesismo; io direi di no.
Tutti piu o meno sanno che l'articolo partitivo, rappresenta-
to dalle preposizioni articolate del, dello, eccetera, si usa quan-
do nel discorso si voglia indicare solo una parte o un numero
indeterminato di uomini o di cose: « C'eran degli uomini che
urlavano », cioè alcuni uomini, « Dategli del vino », cioè un po'
di vino. Nonostante l'opinione contraria di alcuni puristi, l'ar-
ticolo partitivo non può considerarsi un francesismo: è d'uso
antico nella nostra lingua, e se ne trovano numerosissimi esem-
pi in tutti i nostri migliori classici, dal Trecento in poi, per-
fino nei cinquecentisti piu severi, nei cruscanti, fino al Man-
zoni, che ne ha qualche decina. Ne cito alcuni. Quattro scrit-
tori del Cinquecento: « Io questo che esso dice ho già udito
dire a degli altri ~> (Bembo); «Con tali parole e con dell'altre
assai » (Berni); «Sono venuto per del foco » (Caro); «Diamo
nondimeno a degli altri... » (Varchi). Uno scrittore del Seicento:
« Vi si perderono per degli anni» (Daniello Bartoli). Ed ecco
infine il Manzoni, con tre esempi dai Promessi Sposi: «Come
con delle spugne »; « Il viandante che fosse incontrato da de'
contadini »; « C'eran de' morti da portar via». E non parlia-
mo, poi, degli scrittori contemporanei: « Le bocche calde e car-
. nose stamparono dei sigilli sulle sue guance» (Palazzeschi);
« Tentò di ragionare, di fare dei sistemi» (Moravia ); «Bada
che ci sono degli scalini » (Bassani). Si può parlare, dunque, di
francesismo? Diremo semmai che mentre il francese fa un uso
costante di questo costrutto, la lingua italiana preferisce far-
ne un uso moderato, e, sempre che sia possibile senza scapito
della chiarezza, ne fa benissimo a meno.
Ci son anche dei casi dove questo partitivo è addirittura illogi-
co, diciamo sbagliato: «Una signora con delle gambe bellissime ~>,
«Aveva degli occhi assassini »... Come se quella signora aves-

147
se piu braccia e piu occhi, dei quali alcuni particolarmente
belli o assassini.

Li 31 gennaio...
È curioso davvero come certe inveterate abitudini siano dure
a morire anche nel campo della lingua. In tempi come que-
sti nei quali tutto sembra vecchio e superato, tanto .che il dise-
gnatore di un mobile o di una saliera non è contento se non
vien chiamato designer, il direttore artistico diventa l'art direc-
tor, e la cameriera vuol essere chiamata colf altrimenti ricorre
ai sindacati, in tempi come questi è curioso che tenacemente
persistano parole e formule vecchie inacidite di almeno due-
cent'anni; e non già su carte burocratiche, che non farebbe stu-
pore, ma anche su carte private, perfino sui biglietti di augurio.
Io ricevo spesso lettere datate cosi: li 31 dicembre, li 22
gennaio, li 12 agosto. Non solo: spesso questo li reca addirit-
tura l'accento : lZ 22 gennaio. Di dove è nato questo muffitissi-
mo li? Si tratta della variante ormai morta e sepolta dell'artico-
Io maschile plurale i o gli («Tornate a riveder li vostri liti»,
Dante; « Su per l'onde fallaci e per li scogli», Petrarca); morta
e sepolta anche nei versi dei poeti piu tradizionalisti, e tuttavia
ben viva e fiorente sotto le dita delle nostre piu sofisticate dat-
tilografe. «Li 22 gennaio», cioè « I 22 (giorni di) gennaio».
Ora si capirà anche meglio perché questa calla diventa addi-
rittura un grossolano errore quando viene accentata, li, con-
fondendola con l'avverbio di luogo affine a là. E si capirà
perché sia anche errore usarla, come molti fanno, con riferi-
mento al primo giorno di ciascun mese: li 1 gennaio 1975:
un articolo plurale accordato con un numero singolare.
x
Gli aggettivi
« Pit'i bene » e « meglio >>.
Un Meridionale si trova spesso imbarazzato sull'uso di piu
bene e di meglio. Quando usare l'una forma e. quando l'altra?
Si deve cioè dire « scrivi piu bene tu che lui » o « meglio tu
che lui»?
Tanto piu bene quanto meglio sono forme comparative di
bene, ed effettivamente, ma non soltanto nel Mezzogiorno, si
usano un po' a caso, senza tanto sottilizzare. Dico subito che
le due frasi « scrivi piu bene tu che lui » e « scrivi meglio tu
che lui» sono entrambe corrette; ma è certo che un Toscano,
per esempio, preferirebbe la seconda forma, con meglio. E
questo perché meglio è da preferirsi a piu bene quando il
comparativo ha il significato avverbiale di « in modo miglio-
re»: «Oggi mi sento meglio di ieri», « Cerca di far meglio
un'altra volta», «Carlo ha risposto meglio di te>>. Useremo
invece piu bene quando bene ha valore di sostantivo, e il
comparativo assume il significato di « un bene maggiore»:
« Vuole piu bene a te che a me », « Ha fatto piu bene lui
all'azienda che non tutti i suoi predecessori», e simili. È una
distinzione facile da ricordare, e converrà tenerne conto al-
l'occorrenza.

I meglio e i peggio.
Usar meglio e peggio per migliore e peggiore come superlativi
relativi, è errore?
Niente affatto: è anzi forma vivissima in tutte le regioni
d'Italia; è uso elegante e vivace a un tempo, che s'incontra,
infatti, presso i migliori scrittori: «I meglio spettacoli d'Ame-

151
rica », «È il meglio -medico del paese», «Le meglio cose
che poteva dire me le disse». E si badi che questo meglio
si usa anche in funzione sostantivata: « I meglio · purtroppo
muoiono presto», « Scegliete le meglio». È del Manzoni que-
sta frase : « Piglia con te un paio de' meglio»; e si noti che
nella prima stesura del suo romanzo aveva scritto: «Un paio
dei migliori» . Quest'altra è del Verga: «Marciava da pari a
pari coi meglio del paese».
La stessa cosa, naturalmente, può dirsi di peggio usato in-
vece di peggiore: « Ai peggio porci vanno le meglio pere »,
è un vecchio proverbio toscano; « Mi ha dato la peggio frutta
che avesse»; e sostantivato: «Ho scelto proprio i peggio»,
«Le peggio sono loro».

Il piti infimo, intimissimo...


Si leggono a volte frasi come queste: « Fu messo nel pm
infimo posto della classifica », « Era il mio piu intimo amico »,
« Siamo intimissimi », e simili. Vien fatto di chiedersi: non
sono frasi sbagliate? intimo e infimo non sono già aggettivi
superlativi?
Si tratta infatti di superlativi di derivazione latina, ma non
piu sentiti come superlativi si bene come normali aggettivi
di grado positivo e quindi suscettibili di una forma compa-
rativa e superlativa come tutti gli aggettivi in genere. Infimo
è propriamente il superlativo alla latina (infimus) dell'ag-
gettivo basso, e ha anche il comparativo inferiore (latino infè-
rior); intimo (latino intimus) è il superaltivo di interno, col
comparativo interiore (latino intèrior). Perduto presto il loro
piu schietto valore di superlativo e di comparativo, questi ag-
gettivi sono stati fin dall'antico usati anche nella forma
comparativa piu infimo e piu intimo, in quella ·superlativa
relativa il piu infimo e il piu intimo, e perfino in quella super-
lativa assoluta infimissimo e intimissimo. « Nella parte piu
bassa e piu infima di tutte fu posta» (P. F. Giambullari, sec.
XVI); « Dar fama ai piu infimi» (Alfieri); «La sua faccia
apparve anche piu infima» (Tozzi). E sentiamo spesso dire
che una persona « è di infimissima estrazione», cioè di bas-
sissima origine. Qualche esempio di intimo: « La piu intima
luce » (Fra Giordano, sec. XIV); « I suoi piu intimi pensie-

152
ri » (G. Gozzi); «Uno dei piu intimi e sensibili poeti » (Pa-
pini). E frasi come «siamo intimissimi », «invitò solo gli
intimissimi » si ripetono tutti i giorni senza errore.
Di questi aggettivi comparativi e superlativi alla latina ce
n'è parecchi altri; ma uno in particolare voglio ancora citare,
ché anch'esso viene usato sovente nelle forme alterate del
comparativo e del superlativo italiano: l'aggettivo prossimo
(latino pròximus), superlativo di prope, vicino, che vale per-
ciò « vicinissimo ». Anche qui non esitiamo a usare frasi ·
comparative come « Non hai un parente piu prossimo », o
superlative relative come « Uno dei suoi piu pross1m1 pa-
renti», e addirittura superlative assolute come «Un prossi-
missimo parente».
Usiamo dunque tranquillamente frasi come queste:. non sono
frasi sbagliate.

Deteriore.
Frasi come « Gli aspetti piu deteriori dell'attuale situazione
politica », « Merce della piu deteriore qualità » e simili,
non sono rare sui giornali e, purtroppo, anche sui libri. Ma
sono frasi grossolanamente errate. Errate perché deteriore è
già aggettivo comparativo, e significa «peggiore», « piu cat-
tivo». Deriva dal latino detèrior, comparativo di un dèter,
« cattivo », non documentato. Dire perciò piu deteriore equi·
vale a dire « piu peggiore », che neppure un modesto scola-
retto oggi userebbe. Come avvengono questi incidenti lingui-
stici? Avvengono perché si tratta in origine di parole scelte,
proprie del linguaggio colto, che poi un bel giorno scappano
dal nobile chiuso dove erano sempre vissute e ben trattate,
e vanno a finire nelle mani di persone impreparate a certe
squisitezze. Solo una quarantina d'anni fa, in Italia questo
aggettivo erano si e no in cento a usarlo; oggi sono falange .
Per di piu oggi il latino è sempre piu relegato nel fumoso
mondo dei miti inutili, e chi si avvicina a deteriore non ha
neppure il minimo sospetto che si tratti di una forma com-
parativa latineggiante. :h la sorte toccata in questo dopo-
guerra a molte altre parole rare, che una volta restavano,
come ho detto, nello stretto cerchio di chi sapeva usarle, ma
che oggi per mezzo dei giornali, della radio e della televisione

153
arrivano agli orecchi di milioni di persone impreparate a rice-
verle, sempre però pronte a raccoglierle, spesso per snobismo
o per semplice imitazione, e a usarle cosi come vien viene.

Ampissimo e amplissimo.
L'aggettivo ainpio ha due forme di superlativo: ampzsszmo e
amplissimo, entrambi usabili e corretti. In latino esisteva un
aggettivo, amplus, dal quale nacquero tre forme nel nostro
linguaggio, ampio, ampio e amplio, la prima di carattere popo-
lare, le altre due di carattere dotto. Amplio scomparve presto,
ampio e ampio rimasero, e s'ebbero rispettivamente i super-
lativi ampissimo e amplissimo. La forma positiva amplo oggi
si può dire scomparsa anche dall'uso letterario (sul grande
dizionario del Battaglia vedo un esempio del Nievo, come piu
recente documentazione: «Nell'ampio esercizio della sua au-
torità»). Resta la forma ampio, dell'uso letterario e comune.
Piu fortunato il superlativo dotto amplissimo, che sempre piu
si impone forse per attrazione analogica delle comuni voci
ampliare, amplificare, ampliamento e simili.

Superlativi dotti.
Si legge a volte un superlativo acrissimo, in contrasto con la
forma acerrimo insegnata dalla grammatica. Nella Fiammetta
del Boccaccio, scritta intorno al 1340, già si legge, per esem-
pio, questo periodo: « Colui che fu del nostro peccato ca-
gione, colui di quello è stato acrissimo purgatore » .
Effettivamente, le grammatiche insegnano che gli aggettivi
acre, aspro, celebre, integro, misero e salubre (non sàlubre),
seguono di regola, nella formazione del superlativo, la forma
latina, e abbiamo quindi acerrimo, asperrimo, celeberrimo, inte-
gerrimo, miserrimo e saluberrimo. Ma sono tutte forme pro-
prie della lingua scelta, letteraria, e il popolo non le usa,
preferendo dire « molto celebre», « assai aspro» e cosi via.
Certi scrittori poi, classici e moderni, non esitano a ricor-
rere alla formazione regolare in -issimo. Perciò, oltre ad acris-
simo, che ora s'è visto, abbiamo esempi numerosi soprattutto
di asprissimo: il Redi, nel ditirambo famoso: «Pioggia rea di

154
ghiaccio asprissimo»; il Tommaseo: « Altercazioni asprissi-
me» ; il Leopardi: « Principio asprissimo a tollerare». Mise-
rissimo Io usò piu volte il Boccaccio nel Decamerone. Di inte-
gro esiste anche una forma superlativa integrissimo ; ma in
senso morale non si userebbe in nessun caso invece di inte-
gerrimo. Di celebre e di salubre non si conoscono, ch'io sap-
pia, esempi classici di superlativo in -issimo.

Augurissimi.
Si può fare il superlativo di un sostantivo? per esempio, augu-
rissimi, salutissimi? Si può fare; anzi oggi si fa spesso, fin
troppo. Nelle lettere specialmente, ·come piu o meno sincera
esplosione di un sentimento, si suole scrivere salutissimi, ab-
braccionissimi e perfino bacissimi. Questi superlativi assoluti
foggiati come sostantivi contrastano si capisce con la legge
grammaticale che riserva il superlativo soltanto all'aggettivo;
ma non sono di oggi, si badi, perché si incontrano numerosi
esempi antichi, e d'autori classici; il guaio è che oggi, come
ho detto, se ne abusa. Superlativi tutti moderni, e di dubbio
gusto e di piu dubbia efficacia, sono per esempio occasionis-
sima, affarissimo, spettacolissimo, strennissima, veglissima e
chi sa quant'altri. Tutti ricordano il campionissimo Coppi, le
stellissime della canzone, la Canzonissima.
Ma anche fuori di un certo linguaggio enfatico o propria-
mente pubblicitario, il superlativo del nome può tornar buono
quando occorra insistere su una qualità, su un valore, anche
senza nessuna intenzione ironica o spregiativa. « La vaga fan-
ciulla, sf come quella che garzonissima era » dice il Bembo
(sec. XVI). Il Leopardi ha bagattellissime, il Baretti ha vergo-
gnissima, e potrei continuare per parecchio. Del resto nes-
suno si stupisce piu di fronte al superlativo padronissimo; tutti
accettiamo le finalissime dello sport, le direttissime dell'alpi-
nismo, i veglionissimi di carnevale; e il superlativo generalis-
simo non incrina l'autorità militaresca. Non parliamo poi di
alcune locuzioni che corrono ormai sulla bocca di tutti e anche
normalmente si stampano: d'accordissimo , in gambissima, in
frettissima, a propositissimo, per !empissimo, e varie altre.
Conclusione: questo superlativo è ammesso ormai anche
dalle grammatiche, ma solo come eccezione, e va usato con

155
avvedutezza. « Il superlativo assoluto » diceva Ugo Brilli, buon
letterato e carducciano per la pelle « è uno sdrucciolo, ma
badate a non abusarne: perché non è saldo in gambe, il super-
lativo può diventare, con quella lunga coda dell'issimo, uno
sdrucciolone. »

I nostri unici amici.


Si dice comunemente «i nostri umc1 am1c1 », «due uniche rap-
presentazioni » e cosi via. Non è un errore? Se sono piu di uno
come possono essere unici?
Risponderò con le parole del Tommaseo, tratte dal suo
vocabolario : « Sebbene il senso non pare lo comporti, talvolta
s'usa il plurale, non solo Figliuoli unici, parlando di piu fi-
gliuoli di genitori diversi, ma anche, Le uniche mie speranze,
e simili, riguardando que' piu oggetti come un oggetto solo >>.
Anche il latino unicus aveva il suo bravo plurale. Il fatto
è che noi diamo spesso a unico il medesimo significato che
diamo all'aggettivo solo, con in piu una connotazione raffor-
zativa; e come diciamo «due soli errori», « le nostre sole
speranze », cosi diciamo, rafforzando, « ho fatto due unici
errori », « sono queste le nostre uniche speranze». Anzi, so-
vente rafforziamo anche di piu, e accoppiamo l'uno all'altro
aggettivo: « In quel triste momento foste voi i nostri unici e so-
li amici generosi >>.

Un grand'errore.
La pubblicità radiofonica e televisiva non solo è, come tutti
da teJ;Dpo sappiamo, ossessiva, ma può essere anche perniciosa
quando non sia fatta a dovere. Specialmente nel campo lin-
guistico. Per esempio, appare tratto tratto sugli schermi ap-
punto televisivi la frase gran aroma riferita a una merce di
largo consumo; la frase non solo è pronunziata cosi, ma ap-
pare anche in primissimo piano scritta cosi, a grossi caratteri.
È evidente che un simile erroraccio messo davanti agli occhi
di migliaia di scolaretti alle prime armi con la grammatica
non ci metterà molto a passare sui quaderni di scuola, sui
tèmi in classe: «un gran amico >>, «una gran occasione». È

156
solo questione di tempo. Nella speranza che questo non ac-
cada, proviamo a ripetere qui la regoletta elementare.
L'aggettivo grande può troncarsi in gran solo quando la
parola che segue (maschile o femminile, singolare o plurale)
comincia con consonante; consonante però che non deve es-
sere né S impura, né X, né Z, e neppure gn, pn e ps: diremo
perciò gran signore, gran signora, gran maestri, gran parole;
ma diremo grande specchio, grandi zazzere, grande psicologo,
eccetera. (Nell'uso popolare è tuttavia accettabile il tronca-
mento anche in questi ultimi casi: gran sfoggio, gran zoticone
e simili;) Ma davanti a parola che cominci con vocale, grande
non si tronca mai; può soltanto elidersi in grand' segufto
dall'apostrofo: grande uomo o grand'uomo, grande albero o
grand'albero. « Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
Che m'ha fatto cercar lo tuo volume », dice Dante. Grande
amore, dunque, o grand'amore, tutt'al piu; ma «gran 11more »
mai. Veda perciò la televisione di far correggere la frase pub-
blicitaria in grande aroma: farà opera utile piu che non sembri.

Codesto.
Il povero codesto restringe sempre piu l'area del suo g1a mo-
\ desto regno, che è la Toscana. Escludendo in modo assoluto
l'Italia settentrionale, dove il codesto è ignoto, ed escludendo

l il Mezzogiorno, dove esiste una forma corrispondente dialet-


/ tale quesso, ridotta spesso per afèresi a 'sso ( « Lassa 'ssa
preta », lascia codesta pietra), si può infatti dire che solo il
popolo toscano usa distinguere nettamente gli usi dei tte ag-

l gettivi o pronomi dimostrativi questo, codesto e quello; salvo,


s'intende, le cosiddette persone colte di altre regioni, le quali
però, come spesso mi è accaduto di sentire, usano il codesto

l anche a sproposito.
Debbo precisare l'uso corretto di questi dimostrativi? Non
c'è grammatichetta elementare che non lo riporti; ma posso
farlo anch'io in due parole.
Qttesto indica la persona o la cosa vicina o prossima a chi
\ parla: «Questo abito mi sta a pennello»; «Questo ragazzo
è mio figlio ».
Codesto (e meno comune cotesto) indica invece la persona
o la cosa vicina o prossima alla persona alla quale si parla :

157
« Cotesto abito ti sta proprio bene»; «Codesto tuo giudizio
non lo condivido».
Perciò se un oratore (come appunto mt e capitato di ascol-
tare), parlando in una piazza di Milano rivolto ai Milanesi,
dicesse, per esempio: « Sono venuto qui tra voi, in codesta
bella città, ecc. », sbaglierebbe, ché Milano è città vicina anche
all'oratore oltre che alla gente che lo ascolta.
La regoletta però non si ferma qui; continua dicendo che
si può usare ancora codesto invece di questo quando chi parla
vuoi creare una vicinanza ideale alla mente, all'animo di chi
ascolta, quasi distaccandosi dall'argomento che egli ha appena
espresso. Esempi antichi e recenti potrei allinearne a iosa.
Alfieri: « Confesserò di aver avuto in quel punto la viltà
di desiderare la ricchezza piu ancora che la bellezza di cotesta
ragazza». Leopardi: <<Passeggere: - E pure la vita è una cosa
bella. Non è vero? - Venditore: · Cotesto si sa .. Passeggere: •
Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il
tempo passato ... ? ». Emilio Cecchi: «Si trattava di una cifra
di trenta centesimi; e per il momento non sapevo capire in
che modo cotesto capitale si fosse prodotto, in che modo
cotesta ignota donazione fosse discesa sul mio tavolino ».
Resta il terzo dimostrativo, quello, che si usa per ind,i,car
cosa o persona lontana tanto da chi parla quanto da chi
ascolta: « Quella signora che viene verso di noi è mia madre »;
« Guarda quella stella lassu ». Ma oggi i nove decimi degli
Italiani dicono « Lèvati dal dito quell'anello», perché codesto
anello Io dicono solo i Toscani.
Il discorso che ora s'è fatto potrà ripetersi per gli avverbi
di luogo qui, qua, costi, costà, lt, là, colà. Lo faremo tra poco.

Gli stranissimi sette.


Anche tra gli aggettivi ci son gli strani, gli stravaganti. :È
bene aiiinearli qui sotto per evitare che qualcuno caschi nel-
l'errore al momento di metterli al superlativo assoluto: benè-
fico, malèfico, benèvolo, malèvolo, magnifico, malèdico e mu-
nifico. Sette aggettivi, tutti di origine latina, costruiti sui verbi
fare, dire e volere, non certo del parlar piu comune, e perciò
ancora attaccatissimi alle loro forme originarie. Infatti questi
aggettivi non hanno un superlativo assoluto regolare in -issimo

158
come qualcuno potrebbe pensare, non si può dire cioè, « bene-
ficissimo », « maleficissimo », « malevolissimo » eccetera, ma
bisogna ricorrere alle stesse forme usate dai Latini.
Benèfico, in latino benèficus, aveva il superlativo beneficen-
tissimus, che è piuttosto il superlativo di beneficente; perciò
diremo anche noi beneficentissimo. Malèfico, in latino malè-
ficus, superlativo maleficentissimus, in italiano maleficentissi-
mo; e cosf tutti gli altri: benevolentissimo, malevolentissimo,
magnificentissimo, maledicentissimo, munificentissimo. Come ho
detto, però, si tratta di superlativi alquanto solenni, e non
sono certo di uso comune. Perciò nel linguaggio corrente si
preferisce dire « è un signore molto benefico », « donazione
assai munifica », « giudizi malevoli in massimo grado », e si-
mili. « Sovrana tua beneficentissima » leggiamo nel Parini;
ma il Manzoni preferi dire « uomo sommamente benefico e
liberale» .
Ma a proposito di benèvolo e di malèvolo, attenti all'errore,
attenti a non dir « benèvole » e « malèvole », come ho sen-
tito dire a molti, facendo di questo aggettivo maschile in -o
e femminile in -a un aggettivo in -e, come celebre, fedele e
amabile, buono cioè per ambi i generi. Diremo cioè « un uomo
benevolo », « una donna benevola », «malevolo consiglio»,
« critica malevola », «con benevole intenzioni », « malevoli giu-
dizi». .

l
l
l
l
XI
I pronomi
Tu e te.
È corretto dire, come molti dicono, io e te, hai ragione te,
vieni anche te?
Può stupire che una lingua, a mille e passa anni dalla
sua nascita, debba ancora presentare tanti dubbi come la no-
stra. Ma cosf è. Non son pochi, per esempio, quelli che mi
domandano: « Alla radio, alla televisione, nei libri, nei gior-
nali, e quasi regolarmente nel parlare comune, ci si dà del
te e non del tu, e ci sono perfino insegnanti che dicono io e
te, vieni anche te, e te che cosa ne pensi? e altre cose di
questo genere. Ma insomma: si deve dire io e te o io e tu? ».
Dubbio in verità presto risolto: bisogna dare del tu, e
dire io e tu o tu e io, vieni anche tu, tu che cosa ne pensi?,
e cosf via. La grammatica insegna che il pronome personale
tu è d'obbligo come soggetto, mentre nei complementi biso-
gna usare te; perciò «io e tu (soggetti) partiremo», «io
(soggetto) partirò con te (complemento di compagnia) ». Il
bello è che soprattutto in Toscana si fa spreco di questo te
stravagante. (In Toscana, figuratevi, accoppiano addirittura- la
forma giusta e quella scorretta, e dicono, per esempio, « te tu
chi sei? » «Te tu che vuoi? ».) Ma errore resta. Si tratta di
uno di quegli errori che i grammatici chiamano solecismi, e
sono errori propri di un dialetto, del parlare alla buona, che
non possono aver nulla che fare con . la lingua corretta.
Si capisce che questi solecismi possono anche essere usati
da urio scrittore per fini artistici, cioè allo scopo di dare un
particolar colore a una frase, a un discorso; ma sempre come
solecismi bisogna trattarli, usandoli con molta discrezione e
soprattutto con ragione. Il Panzini intitolò un dei suoi ro-
manzi migliori Il padrone sono me!, ripetendo una frase del

163
protagonista, contadino romagnolo. « Sei te che comandi le-
galmente... sei te che disponi» leggiamo nel toscano Cico-
gnani; « Sei te che non ce l'hai. Te credi che la pazienza sia
un'erba! » scrive il marchigiano Tombari. E Beppe Fenoglio,
piemontese, può anche scrivere « me e te siamo due bei stu-
pidi >>, sgrammaticando a destra e a manca; ma son certo che
questi illustri artisti, una volta saliti su una cattedra scola-
stica, queste sgrammaticature non le avrebbero ammesse. E
all'amico Luciano Satta !asciamogli pur difendere, lui toscanaccio
di Siena, il vacci te che in posizione enfatica « suona meglio
di vacci tu »; ina poi vorrei vederlo se lo lascerebbe passare
in un tèma di prima liceale.
Concludo : quando una regola c'è, bisogna rispettarla; poi
va da sé che ciascuno è libero di farne quell'uso che crede:
la responsabilità resta tutta sua.

Lui, lei, loro.


Le grammatiche avvertono che i pronomi di terza ' persona da
usar come soggetto sono egli, ella, esso, essa, essi, esse; per
i complementi bisogna invece usare lui, lei, loro; bisogna cioè
dire « egli studia », « ella è brava », « essi verranno », « vi-
dero lui che studiava>>, «lo dirò a lei>>, «fallo per loro>>.
Però le stesse grammatiche avvertono anche che lui, lei e loro
si possono sostituire come soggetti a egli, ella, esso, ecc. tutte
le volte che occorra dare a questo soggetto un particolare ri-
lievo. Insomma avviene in certi casi che alla legge generale
della grammatica si sostituisca la legge particolare dello stile.
Lui, lei, ecc. sono usabili come soggetti intensivi. Per esem-
pio, quando si mettono in contrapposizione le azioni di due
soggetti diversi: « Lui studia e lei se ne va a spasso»; certo,
potremmo dire anche: « Egli studia ed ella se ne va a spasso»;
ma l'espressione sembra perdere la sua forza. Si usano ancora
lui, lei, loro quando sono preceduti da parole come nemmeno,
neppure, anche, pure, piu, come, tanto, quanto, ecc.: « Nem-
meno lui lo sapeva >>, << Pure lei è bionda >> 1 « Ne sappiamo
quanto loro», «Non sembra piu lei».
Ma poi, nel parlar comune, anche trasferito in testi lette-
rari, l'uso di questi soggetti è frequentissimo, a cominciar
dalle origini : « Lui cadde bocconi, eglino smontati l'uccisono >>

164
scrisse Dino Compagni nella sua Cronica trecentesca; e Dan-
te: « Ma perché lei che df e notte fila ... »; e Lorenzo de'
Medici: « Lei piu veloce innanzi a lui si fugge ». Esempi
troppo antichi? Eccone di moderni e di modernissimi: il Man-
zoni ne ha a bizzeffe (« Lui sa quel che fa .. . »; «Ma Renzo,
lui non sa ... »; « Lui l'ha veduto co' suoi occhi», ecc.); ma
anche il Panzini : « A questa fanciulla lui, già da tempo, aveva
mandato un biglietto»; e il poeta Dino Campana: «Lei calma
gli spiega le stranezze del cuore ... »; e Saba: «Loro si com-
perano una casa a tre piani». Direi che, al gusto d'oggi,
egli e soprattutto ella suonano addirittura pedanteschi, e sem-
pre piu perdono terreno.
Ci son però due casi in cui lui, lei e loro come soggetto son
d'obbligo; primo caso, quando il verbo precede il soggetto:
« Lo ha detto lui », « Ora parlerà lei », « L'hanno voluto lo-
ro »; secondo caso, nelle esclamazioni come «Fortunato lui»,
« Lei benedetta! », « Beati loro! »

Chi per esso.


Sono giuste le frasi, comumss1me nel linguaggio burocratico,
«il signor Tale o chi per esso», « La firma del padre o di
chi per esso»? Non sarebbe meglio dire « o chi per lui»?
Anche il pronome personale esso dà parecchio filo da tor-
cere ai comuni scriventi, ché il suo uso è molto oscillante tra
regione e regione, tra secolo e secolo e tra scrittore e scrittore.
Le grammatiche sono fin troppo recise e metodiche special-
mente quando dicono che il pronome singolare esso, femmi-
nile essa, si riferiscono solo ad animali e cose, mentre per le
persone bisogna usare egli ed ella, lui e lei; e invece i plurali
essi ed esse possono usarsi tanto per le persone, quanto per
gli animali e le cose. Distinzione clamorosamente smentita dai
fatti, ché fin dalle origini l'italiano ha usato esso ed essa
riferìti a persona, tanto come soggetto quanto nei complemen-
ti. « Quei fe' segno - Ch'io stessi cheto ed inchinassi ad esso »
(Dante); «Ma pur esso ed essa corsero insieme, e vinse
Ipomenes » (Boccaccio); « Ei non mi vuoi mai credere: peg-
gio per esso >> (Alfieri); « Era essa l'ultima figlia del princi-
pe,, (Manzoni); «Essa non guardava nessuno» (Borgese);
«Anch 'essa parla - di te» (Montale). Chi poi non ricorda

165
il titolo che l'Alfieri usò per la sua biografia? «Vita di Vit-
torio Alfieri scritta da esso».
Qui bisogna però aggiungere che la lingua d'oggi dimostra
sempre meno simpatia per esso, essa eccetera. Sono pronomi
che resistono, è vero, nel linguaggio parlato centrale e soprat-
tutto meridionale; ma è anche vero che le forme lui, lei, loro
vanno sempre piu generalizzandosi, dando al periodo maggiore
agilità e scorrevolezza~ Specialmente nei complementi riescono
francamente pesanti: «dillo a esso»; «uscirò con essa»;
« insieme ad essi »... Perciò lasciamo ai burocrati il chi per
esso e diciamo piu speditamente o chi per lui.

Il « lei )) allocutivo.
Qual è l'esatta concordanza del pronome personale lei usato
come maschile nel discorso diretto? Si deve dire: Lei, signore,
è stata in villeggiatura oppure è stato in villeggiatura?
Il pronome allocutivo lei, che si accompagna al piu sussie-
goso ella, col quale ci si rivolge direttamente e con particolar
cortesia ad altra persona, vale tanto per il maschile quanto
per il femminile. Sappiamo la sua origine, e sappiamo anche
che esso entrò nell'uso nei primi del Quattrocento, e il feno-
meno si generalizzò nel secolo successivo per influsso dello
spagnolo. Nelle nostre corti principesche e nelle nostre can-
cellerie ci si rivolgeva ai personaggi d'importanza con le locu-
zioni Vostra Signoria, Vostra Eccellenza e simili; locuzioni
reverenziali che, divenendo soggetto della proposizione, porta-
vano necessariamente all'uso d'un verbo di terza persona:
«Vostra Signoria desidera ... ». Erano locuzioni propriamente
femminili, anche se buone per entrambi i sessi, e portavano
di necessità a un pronome fèmminile di terza persona: ella
appunto o lei: «Vostra Signoria desidera che la persona che
ella ha raccomandato sia assunta a corte; io la assicuro che
lei sarà accontentata».
Detto in breve tutto questo, appare chiaro che da un punto
di vista strettamente grammaticale il verbo dipendente da
questo lei dovrebbe accordarsi nel femminile: « Lei, signor
colonnello, si sarà accorta ... », « Spero che lei, dottore egregio,
si sarà molto divertita ... ». Ma ecco che a questo punto il
nostro buon senso si ribella all'incoerenza di un tal rapporto

166
grammaticale, tanto lontano dal nostro attuale costume. Lo
stesso Manzoni mostrò di oscillare fra il costrutto rigidamente
grammaticale e quello logico: « Eh via, sappiam bene che lei
non è venuta al mondo col cappuccio in capo », dice don
Rodrigo al padre Cristoforo nel capitolo quinto dei Promessi
Sposi; ma ecco che nel capitolo 38° don Abbondio cosi dice
al signor marchese: « Giacché vossignoria illustrissima è tanto
inclinato a far del bene ». La lingua d'oggi, che ha perduto
il ricordo di quei sottintesi soggetti femminili signoria, magni-
ficenza, eccellenza, ecc., prescrive ormai l'accordo al maschile
quando ci si rivolge a un uomo; ho sottomano tre esempi,
ma se ne potrebbero trovare a centinaia: «-Lei è molto orgo-
glioso» (Fogazzaro); «Lei non è penetrato della gravità della
situazione» (Fucini); «Lei è troppo buono, troppo sensibile»
(Panzini). Questo esempio del Piovene consideriamolo piutto-
sto _un'eccezione: «Neppure lei si è comportata bene»: quel
lei è un uomo.
Diverso è il caso della forma pronominale atona la, come
nelle frasi « Signor colonnello, arrivederla»; «Domani, dot-
tore, la verrò a prendere alla stazione ». Usare lo sarebbe qui
una sconcordanza che però incontriamo nel linguaggio popolare:
«E non vogliam Tedeschi, arrivedelle », come dice il Giusti.
Ci son tuttavia anche oggi dei casi in cui quelle solenni
cerimoniose frasi, dirette a soggetti maschili, vengono espresse
in tutte lettere; la concordanza femminile, nei verbi, negli ag-
gettivi, nei pronomi sarà allora obbligatoria: «Vostra Eccel-
lenza sempre cosi magnanima e comprensiva ... », « Sua San-
tità si è degnata di rivolgere ... », eccetera eccetera.

\
Da Ella.

l Mi ha scritto un industriale lombardo: « È stata sottoposta


alla mia firma una lettera contenente questa frase: "In rela-
zione alle mansioni da Ella svolte ... ". Ho corretto "da Ella"

l in "da Lei" perché, secondo quanto ho imparato a scuola,


è questa la forma del pronome da usate nei complementi.
Tuttavia una professoressa d'italiano, da me successivamente
interpellata, mi ha detto che la forma "da Ella" è certamente
arcaica ma non errata. Lei che cosa può dirmi? ».
Posso dire che la professoressa probabilmente aveva nell'o-

167
recchio qualche verso dantesco, come « E dnsela e girossi
intorno ad ella», oppure « Io non m'accorsi di salire in ella »;
o anche questo verso petrarchesco: « Girmen con ella in sul
carro d'Ella ». Gli esempi potrebbero continuare, perché ef-
fettivamente il pronome ella (oggi unico residuo di una serie
completa ello, ella, elli, elle, di cui sono però ben vive le
forme senza capo lo, la, li, le: «lo vidi» :::::: «ello vidi»),
il pronome ella, dicevo, e tutti gli altri si usavano sia come
soggetto sia come complemento. Ancora Dante: « Ello passò
per l'isola di Lenno», e «Noi eravam partiti già da ello ».
Tuttavia, accanto a queste forme, per i casi obliqui presto
apparvero anche le forme lui, lei, loro, si che nello stesso
Dante leggiamo « Grazie· riporterò di te a lei » e « Donnesca-
mente disse: Vien con lui », solo per citare due esempi.
Allo stato attuale della lingua, però, le cose si sono ben
stabilizzate; ed ella si usa solo per il soggetto, mentre lei si
usa per il soggetto e per i complementi. Se non si rispetta
questa legge si fa errore. Mantengono il loro antico costrutto
(lo abbiamo visto poco fa) solo i pronomi esso, essa, essi, esse,
usabili tanto come soggetto quanto nei complementi, si che
sono corrette, anche se considerate pedantesche, frasi come
«Firmerà il direttore o chi per esso», « Parti con essa»,
«Di esse non mi curo», «A essi non perdono». Detto que-
sto, c'è da precisare che nel caso citato dal mio industriale
il pronome Ella è di quelli detti « allocutivi » o « di cortesia »,
che si usano cioè come forma di rispetto nella conversazione
diretta; e per distinguerli si usa spesso scriverli con la maiu-
scola. Ma anche precisato questo, la cosa non cambia, e l'uso,
che oggi differenzia nettamente le due forme, deve essere
severamente rispettato.
Guardiamo, per esempio, questa frase tolta da una lettera
di Giosuè Carducci (che usava spesso il deferentissimo Ella)
a un sottosegretario alla Pubblica Istruzione: « Ella conoscerà
di certo il professar Alfredo Panzini, il quale, valentissimo
insegnante, potrebbe essere, ove a Lei paresse, chiamato alla
suppjenza ... » E questa dello stesso Panzini al Carducci: «Ella
torna dalla gloria di S. Marino, io, Alfredo Panzini, a impor-
tunarLa ... Per la venerazione e per l'amore che ho per Lei,
mi aiuti questa volta ... ». Non a Ella, dunque, non per Ella.
Sono regole, che diamine, elementàri.
Voglio aggiungere, per soddisfare la curiosità di qualche

168
lettore, che l'allocutivo Ella, come ho già accennato piu sopra,
apparve nel linguaggio cortigianesco nei primi del Quattrocento,
e si usò solo come soggetto: per l'oggetto e per ogni altro comple-
mento si usò sempre il Lei; dal secolo seguente in poi si affermò
il Lei anche come soggetto. Ho detto linguaggio cortigianesco.
Ella e Lei infatti si riferiscono alle allocuzioni, Vostra Signoria,
Signoria Vostra , V ostra Grazia, Vostra Magnificenza e simili,
con cui si cominciò a rivolgersi dapprima a personaggi d'al-
to affare, e poi piu genericamente a gente di medio o anche
basso e perfino mal affare, quando l'influenza spagnola gene-
ralizzò l'uso di dar del Signore e della Signoria a tutti quanti.
Un uso che fece torcere il naso a non pochi avveduti letterati
del tempo, anche per la confusione grammaticale che poteva
creare (e la crea sovente anche oggi). Il Caro, poi, non esitò
a considerare « cosa stranissima e stomacosa questo modo di
parlare con uno come se fosse un altro». E sempre a propo-
sito di Ella ricorderò che Ferdinando Mattini, in una lettera
al Fanfani, dopo un Lei allocutivo aggiunse tra ' parentesi:
«dovrei dire Ella? non mi ci va». Dico questo anche per
avvertire i miei lettori che faranno bene d'ora in poi a met-
tere in soffitta questo Ella, e ad attenersi al meno impen-
nacchiato Lei.

Un biasimato « Io ».
In una vecchia ma non dimenticata opera del Morselli, Glauco,
il protagonista dice rivolto a Scilla: «Tu sei saggia e io non
sono ». Altri avrebbe detto « e io non lo sono ». Quale delle
due forme è preferibile?
L'uso di questo lo invariabile in unione di una forma del
verbo essere - « e io non lo sono » - fu sempre avversato
dai puristi piu intransigenti, e ancor oggi, sebben meno acre-
mente, le grammatiche gli storcono la bocca. Non perché sia
errato, ma perché spesso appare pleonastico e inelegante: « Sia-
mo poveri, ma presto non lo saremo piu »; «È impiegato da
voi? » «Lo era, ma si è dimesso». Esaminiamo questi due
esempi, e vediamo subito che questo lo, sia pur pesante e
impaccioso, non è evitabile, salvo che non si voglia dare un
diverso giro al discorso. Primo esempio: « Siamo poveri, ma
presto non lo saremo piu »: potremo mutare in questo modo:

169
« Siamo poveri, ma presto non saremo piu tali » o anche « ma
presto non saremo piu poveri », oppure « ma presto diven-
teremo ricchi», che altererebbe però il valore originario della
frase . Secondo esempio: « È impiegato da voi? » « Lo era,
ma si è dimesso»: per evitare il lo bisogna ripetere : «Era
impiegato, ma si è dimesso ».
Come s'è detto, in queste due frasi il lo non è proprio un
intruso, anche se per qualcuno non ha una faccia simpatica.
Dove invece appare intruso davvero, e da mettere alla porta,
è in questi altri esempi: « Lei è bella, e sua sorella lo è
altrettanto»: diciamo: « Lei è bella, e sua sorella altrettan-
to » e avremo detto meglio la stessa cosa. « Dice di essere
ricco ma non lo è» : diremo meglio: «Dice di essere ricco
e non è», oppure, con piu forza, «e ricco non è». «Molti
furono invitati ma io non lo fui»: diciamo: «ma non io»,
e piu incisivamente « ma io no». «Era paziente con tutti, ma
non lo era con i maleducati»: mutiamo cosi: «ma non al-
trettanto con i maleducati », o anche « meno che con i male-
ducati».
Ma ora che lo abbiamo esaminato, discusso, assolto o èon-
dannato, domandiamoci : che cos'è esattamente questo lo? Mi
par chiaro: è una particella pronominale invariabile di valore
neutro che si unisce come predicato nominale a una forma
del verbo essere col significato generico di « questa cosa»,
« questo», «ciò», «tale» e simili: «Diceva di essere ricco
e non lo era », vale a dire « e tale non era».
È, si badi, di nascita antica, e gli esempi che si potrebbero
allineare, a cominciar dal Due-Trecento, son centinaia. Vedia-
mone alcuni. Il Boccaccio nella Vita di Dante: «Solo in una
cosa fu impaziente o animoso, cioè in opera appartenente a
parti; poiché in esilio lo fu troppo piu che alla sua sufficienza
non si apparteneva». Un esempio del Caro: «Ciascheduno è
tanto misero quanto s'immagina d'esserlo». Del Filicaia: « Ah
non mai nato io fossi, o fossi stato - Cieco negli occhi, come
il ( = lo) fui n:el core». Dei numerosissimi di Daniello Bar-
toli .mi pare che basti questo: « Allegrissimo quanto mai non
l'era stato in sua vita». Veniamo al Redi: «Galeno era veri-
dico, e tutti gli altri menzogneri, siccome ancora lo sono tutti
coloro, ecc. »; e al Magalotti : « Capace di formare uno stile, e
in quello di riuscir maraviglioso al pari di quello che lo sono
stati quegli altri ne' loro ». E infine il Monti: « Se furono

170
miseri di pensiero, nol furono al certo di stile ». E non sto
a tediarvi con i contemporanei, che sono valanga.
Diceva il Fanfani: «So che non vuol chiamarsi (questo lo)
errore dai filologi di maniche larghe, e so che a difenderlo
si sono recati dal Gherardini sino a 44 esempi, a' quali io
stesso potrei aggiungerne altri cinque o sei. Ma ciò che rileva?
Di ciascuna voce e modo piu spropositato si può portare esem-
pio di scrittore citato ... ; ma sopra l'autorità di gente che niuno
crede infallibile ci sta l'uso costante dei migliori, e ci sta il
senso di chi dee scegliere tra il buono e il reo». Parole fin
troppo' forti, alla maniera dell'ottimo Fanfani. Ma anche qui,
come in tante altre dibattute questioni di forma e di stile,
si tratta piuttosto d'orecchio e di misura.

Gli e loro.
«Oggi si leggono a destra e a manca frasi di questo tipo: Ci
hanno scritto se potevano venire, e noi gli abbiamo risposto
di si. Un periodo come questo, con quel gli a1 posto di loro,
ci avrebbe procurato a scuola un segnaccio blu »: cosi si sfoga
con me un vecchio amico.
È vero, una volta un gli per loro (complemento di termine)
era un erroraccio che procurava un brutto voto. Tante cose
una volta erano considerate errori che ora non sono piu, an-
che fuor della scuola. Le stesse grammatiche, che son fatte
del resto da uomini e perciò mutevoli di gusto e perfino di
capricci, oggi non torcono piu il naso a questo gli, come invece
in passato concordemente facevano. La verità è, tuttavia, che
gli usato come complemento di termine plurale, anche se bia-
simato dai puristi fin dal Cinquecento, non è stato mai errore:
è antico quanto è antica la nostra lingua, piu antico della
forma loro. Di solito si risale con gli esempi al Boccaccio, ma
certo altri esempi anteriori numerosi troveremo nel nuovo
vocabolario della Crusca, quando Iddio ce lo manderà. Si co-
minciò dunque con l'usare gli al plurale, e solo in séguito si
passò al loro, sovvertendo anche il costrutto comune a tutti
gli altri pronomi in funzione di complemento, i quali prece-
dono il verbo (« io gli dico » ), mentre loro, salvo in poesia
e raramente nella prosa letteraria, si colloca sempre dopo il ver-
bo (« io dico loro » ). Ecco uno dei tanti esempi che potrem-

171
mo togliere dal Boccaccio: « Ma poi che con loro in piace-
voli ragionamenti entrata fu ... essa piacevolmente donde fos-
sero e dove andassero gli domandò» (Dee., nov. 9, g. 10).
Questo è del Della Casa (sec. XVI): «L'esser amati gli è
sommamente caro»; e questo è del Galilei (sec. XVII): «Alli
padri Gesuiti... gli potrà dar la copia della lettera». Nella
stessa Vita di Cristo dell'abate Cesari ( 1760-1828), capo rico-
nosciuto dei puristi del suo tempo, leggiamo: « Provveduta-
mente usando le cose del mondo a quel fine che gli furono
concedute; conducono ordinatamente la temporal vita e nel-
l'eterna s~ranno felici». Se poi veniamo all'età nostra c'è da
riempire pagine intere di esempi. Numerosi nel Manzoni;
due me ne vengon sott'occhio nel capitolo undecimo: «Chi
si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? »; «E
andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia, come
se gli fossero state peste l'ossa »; e questo è nel capitolo se-
sto: « La legge l'hanno fatta loro, come gli è piaciuto». Il
Manzoni, come dimostra il secondo esempio che ho qui ripor-
tato, non esitò a preferire la forma piu spedita anche fuor del
discorso alla buona affidata alla gente minuta: si dice infatti, di
solito, che questa forma è tollerabile solo nella cosiddetta prosa
familiare, cioè non letteraria. Bisogna invece dire con Fran-
cesco D'Ovidio, grande linguista e scrittore di finissimo gu-
sto, che questo gli « si rende poco men che · necessario do-
vunque loro o lor ci riesce piu pesante del solito ». È dun-
que soltanto una questione di gusto, di stile, ed è l'orecchio
che deve consigliarci l'uso dell'una o dell'altra forma . Se certi
grammatici tenessero conto della priorità storica della forma
gli su loro, e badassero al fatto che questo gli vale anche « a
loro» sia pure nelle forme articolate glie lo, glie la, ecc. , ·non
continuerebbero forse tanto a discutere e a cincischiare. Piut-
tosto mi sembra che dagli esempi che solitamente si danno
si potrebbe pensare che l'uso debba limitarsi solo al genere
maschile- plurale. Ma qui pure direi che non ci sia da restar
dubbiosi: gli plurale, discendendo dall'illis latino ch'era ma-
schile e femminile insieme, è da accettare anche al femmi-
nile (ma il Carducci, e non solo lui, per lo stesso motivo,
teneva come buono anche gli per le singolare: « Oso pre-
gare la signora Sansoni a fare ciò che gli sia meglio possi-
bile», Lett., XIX, 33).
E ora, prima di finire, voglio dare qualche esempio di scrit·

172
tori contemporanei, tutti di severa coscienza linguistica, spil-
luzzicando nei miei spogli frettolosi. «Volli prendere le pa-
role di questo poeta: esse di balzo volarono via ... Passerotti
e rosignoli gli volarono dietro» (Panzini, Il bacio di Lesbia);
«Ti mando queste bozze, perché tu gli dia un'occhiata» (Val-
gimigli, lettera a Pancrazi); « Bisogna perdonargli, divente-
ranno buoni sempre anche loro » (Bontempelli, L'amante fe-
dele); « Il bello è quando ancora non sanno discorrere: inse-
gnargli a dire le prime parole» (Cicognani, Villa Beatrice);
« I Grandi Spiriti ... riescono ad aver qualche notizia del culto
e delle cure che quaggiu gli spendiamo » (Baldini, Il sor Pietro,
ecc.); « Si ha il sospetto che osti e trattori comperino i vini
a caso, dal primo commesso viaggiatore che gli si presenta »
(Monelli, Il vero bevitore); «Quando gli piace una cosa non
guardano il prezzo: la prendono e la portano via » (Tombari,
L'incontro) ; «Non hanno nessuno quei due, che gli scopi
la stanza? » (Pavese, La bella estate); «Anche a Silvana e a
tutte le altre, gli hai detto che erano il tuo boccino? » (Pra-
tolini, Le ragazze di San Frediano ).
Credo che possa bastare. E ora provate a sostituire questi
gli con altrettanti loro, e sentirete che gusto .

« Suo » e « proprio ».
Non è sempre facile decidere quando, in un discorso, si
debba usare il possessivo suo o il possessivo proprio. Si deve
cioè dire: Gina tiene molto alla sua salute oppure Gina tiene
molto alla propria salute?
Quando nella frase non esiste nessuna possibilità di dubbio,
si . può usare ugualmente bene tanto l'uno quanto l'altro pos-
sessivo, tenendo presente che proprio ha un valore piu inci-
sivo, p!U scolpito di appartenenza. Diremo quindi bene, nel-
l'esempio sopra citato, sia nell'una sia nell'altra maniera. Si
badi poi che in certi casi i due termini suo e proprio, per
ottenere una precisione anche maggiore, si possono riunire
insieme, formando una rafforzativa reciproca: «Gina tiene
molto alla sua propria salute »; « Ciascuno chiude in sé i
suoi propri segreti» .
Ci sono però dei casi m cui possono sorgere nel contesto
dubbiezze e confusioni. Per esempio: « Gina scrisse a Maria

173
che era molto preoccupata della sua salute ». La salute di chi,
di Gina o di Maria? In questi casi si segua la regola seguente:
si usi il possessivo proprio quando il possesso si riferisce al
soggetto della proposizione, si usi invece suo quando il pos-
sesso si riferisce a persona diversa dal soggetto. Pertanto, nel-
l'esempio ora detto, se intendiamo parlare della salute del sog-
getto (Gina), diremo: «Gina scrisse a Maria che era molto
preoccupata della propria salute»; se invece intendiamo par-
lare della salute di Maria, diremo: « Gina scrisse a Maria
che era molto preoccupata della sua salute». In passato, per
evitare l'equivoco, si ricorreva anche alle espressioni di lui,
di lei, ecc.: «Gina scrisse a Maria che era molto preoccu-
pata della di lei salute ». Ma si tratta di espressioni pedantesche,
che recisaménte si sconsigliano a chi vuole scrivere bene.

« Questi » e << quegli >>.


Si va sempre piu diffondendo l'uso dei pronomi singolari ma-
schili questi e quegli non già in posizione di soggetto, come
tassativamente prescrive la grammatica, ma nei complementi.
Si · tratta di un grossolano errore, e come tanti grossolani er-
rori sempre piu si diffonde con l'aiuto di certa stampa e di
certe trasmissioni radiotelevisive. (Son queste le cose che mi
sconcertano, queste storture e brutture linguistiche dovute
esclusivamente all'ignoranza, peggio, all'ignoranza verniciata di
cultura; perché, dàgli oggi, dàgli domani, finiscono col diventar
regola.)
Per chi piu non lo ricordasse, ripeterò che questi e quegli
rappresentano un doppione, piuttosto dell'uso letterario, dei
pronomi dimostrativi maschili singolari questo e quello; ma
mentre questo e quello possono usarsi tanto come soggetto
(« .questo non mi piace », « quello è matto»), quanto nei com-
plementi ( « non voglio questo ma quello», « dillo a questo
e non a quello » ), i pronomi singo1ari maschili questi e quegli
si usano solo come soggetti e riferiti a persona, o anche ad
animale personificato, come spesso avviene nelle favole. Cioè,
io posso dire, per es.: «Remo e Pietro sono due bravi ra-
gazzi, ma questi (Pietro) studia davvero, mentre quegli (Re-
mo) è piuttosto svagato»; però sbaglierei se dicessi: « ... ma
a questi piace lo studio, mentre a quegli non piace ». E sba-

174
glierei appunto perché avrei usato i due pronomi in funzione
di complemento di termine. Ricordiamo anche l'esempio no-
tissimo di Dante, che parla dell'apparizione del leone; « Questi
parea che contra me venesse »; dove questi è usato· appunto
come soggetto.

Cui, a cui.
Cui è un pronome libero, che non ama briglie e pastoie, ri-
belle a ogni regola e remota di sorta; invariabile nella forma,
vuoi essere singolare e plurale, maschile e femminile al tempo
stesso.
È propriamente il latino cui, dativo del pronome relativo
qui, «il quale», e vale quindi «al quale»; ma nell'italiano
il suo uso è stato presto esteso anche agli altri casi, con o
senza il soccorso di una preposizione, come sostitutivo del
pronome che : «La persona di citi ti parlo», «L'amico a cui
diedi il libro», « Il luogo in cui siamo », « La città da cui
provengo», e cosi via.
Fin qui tutto in regola con le norme comuni della gramma-
tica. Ma dicevo che è un pronome intollerante di ogni briglia.
E infatti subito vediamo che in funzione di complemento di
termine ama a volte scrollarsi di dosso la preposizione a, man-
tenendo anche cos1 da solo lo stesso significato; «L'amico a cui
diedi il libro», ma anche « L'amico cui diedi il libro». Bi-
sogna tuttavia aggiungere che questo secondo costrutto privo
di preposizione è d'uso piuttosto letterario. Qui il pronome
cui conserva infatti il valore originario di complemento di ter-
mine che aveva in latino; e fu solo per analogia con gli altri
complementi ch'esso venne poi associato alla preposizione a,
propria di questo complemento di termine. Le due forme si
alternarono presto nell'uso, tanto .che le ritroviamo in uno
stesso autore; «A guisa d'un soave e chiaro lume - Cui nu-
trimento a poco a poco manca », sot:J.o due famos1 versi del
Petrarca; ma un altro verso non meno famoso dello ~te~so
poeta dice; « Gente, a cui si fa notte innanzi sera ». E queste
due forme si sono mantenute nei secoli, fino ai giorni nostri;
e aggiungerò che la forma priva di preposizione appare sem-
pre piu di frequente negli scrittori contemporanei: «Luna -
cui sotto il mento s'incurva - una collana» (D'Annunzio);

175
« Pronunciava nomi cui i due compagni non s'interessavano »
(Bontempelli); «Quei futuri cui oggi si legano ed accoman-
dano le letterarie speranze» ( Cecchi); «Non l'atterrivano i
disagi e le privazioni cui andava incontro» (Moravia). La
scelta dei due costrutti è dunque legata semplicemente al gu-
sto dello scrittore.
Altra scrollata di briglie nel complemento di specificazione.
Il costrutto normale sarebbe il di cui, la di cui, i di cui, le
di cui; ed esempi di questo costrutto in verità non mancano;
questo è del Redi, autore, come sappiamo, di Crusca: «Come
si può vedere nel pesce rondine, nella di cui bocca due ordini
di denti si trovano»; e questo del Baretti, prosatore vigilato
come pochi: «Quei tanti mondi ' o globi ... le di cui ampiezze
e distanze possiamo anzi calcolare e misurare». Ma fu sem-
pre sentito come costrutto troppo contorto e pesante, si che
fin dall'antico la preposizione di fu messa da parte, ed è que-
sto il costrutto corretto che ora s'usa e si raccomanda: «Don-
na scese dal ciel, per li cui prieghi ... » (Dante); « Io ti dirò
verso quali reami - d'amor d chiami il fiume, le cui fonti -
eterne a l'ombra de gli antichi rami - parlano nel mister
sacro dei monti» (D'Annunzio).
Ma non basta. Sia pure nella sola poesia o nella prosa piu
eletta, cui si arroga anche la parte del complemento oggetto,
in sostituzione del pronome regolare che: «Il ciel cui tanti lumi
fanno bello» (Dante); « Il severo militar costume, - cui da trop-
pi anni io servo» (Alfieri); «Oh solitaria casa d'Aiaccio, - cui
verdi e grandi le querce ombreggiano» (Carducci); «Romagna
solatia, dolce paese, - cui regnarono Guidi e Malatesta, -
cui tenne pure il Passator cortese, - re della strada, re della
foresta » (Pascoli).
Altre intemperanze, altre eccezioni alla normale gramma-
tica potrei ricordare a proposito di questo stravagante prono-
me; ma nella pratica poco mteresserebbero i miei lettori. Non
voglio invece trascurare una bruttura stilistica dove molti ca-
dono nell'uso di questo pronome, con l'assoluta avvertenza di
ben guardarsene. Non si usi mai il cui nel significato neutro
di « ciò», « questo», «la qt.al cosa» e simili, in frasi come:
«Studiò poco, per cui s'ebbe una bocciatura», oppure «Arrivò
tardi, di cui molto si dispiacque ». Diciamo « Studiò poco, e
per questo s'ebbe una boccia;ura », «Arrivò tardi, e molto se
ne dispiacque».

176
Lo strano << che ».
Càpita spesso di leggere frasi come queste: La domenica che
ti incontrai, Il giorno che siamo andati, ecc. E allora vien fatto
di domandarsi: «Ma questi due strani che, sono o non sono
errati? »
Non sono errati. L'uso del pronome relativo che, prece-
duto o no da una preposizione, col significato di del quale,
nel quale, ecc., è antichissimo, ~ gli esempi si affollano. Con la
preposizione di ecco un esempio del Petrarca: «Gli occhi di
ch'io parlai sf caldamente»: cioè, gli occhi di cui io parlai
ecc.; con la preposizione a, questo di Dante: «Quel gran
seggio a che (a cui) tu gli occhi tieni». Ma questo costrutto
è ormai raro, e solo del linguaggio poetico.
Ben vivo è invece l'uso di che senza nessuna preposizione,
assumendo di volta in volta valore temporale, locale, modale,.·
ecc. Esempi, quanti se ne vogliono: «Con quel furore e con
quella tempesta - Ch'escono (con cui escono) i cani» (Dante);
«Ed io son un di quei che (a cui) il pianger giova» (Pe-
trarca); «Ci custodisca Iddio per ogni via che (per la quale)
andiamo» (Tommaseo); «Una soffitta che ci (dove) si saliva
per la scala grande» (Pavese).
Ma soprattutto l'uso di questo che ellittico è frequente col
valore temporale di «in cui », «nel quale», «quando»:
« Era già l'ora che volge il disfo - Ai naviganti e intenerisce
il core - Lo d! ch'han detto a' dolci amici addio» (Dante);
« Era il giorno che al sol si scoloraro, - Per la pietà del suo
Fattore, i rai » (Petrarca); «Dal giorno che mandato fu da
lei» (Ariosto); «Vi sono de' giorni ch'io non posso fidarmi
di me» (Foscolo); «Tempo forse verrà ch'alle ruine - Delle
italiche moli - Insultino gli armenti (Leopardi); «Quei giorni
di novembre, che fa bello, - che si -colma la botte del buon
vino» (Pascoli); «Doveva datare dal giorno che non c'erano
gli orologi » (Panzini); «In queste nottate che la luna si
leva tardi » (Papini); «Una domenica di sole che la gente
va a messa» (Pavese). È un modo di costruire il periodo con
andamento piu spedito e disinvolto (si potrebbe anche dire,
s'intende, « In queste nottate nelle quali ecc. »; «Una dome-
nica di sole in cui ecc. » ), e vi ricorrono gli scrittori quando
non si debba dare al contesto una cadenza letteraria, solenne;
e vi si ricorre anche di sovente nel comune linguaggio di tutti

177
i giorni, per la stessa efficace speditezza: « La chiave che ci
si apre la cantina», «La pentola che ci si cuoce il ·brodo»,
per non ricordare il proverbio popolarissimo « Paese che vai
usanze che trovi ». Avverte il Devoto che «delle tre forme
"l'anno nel quale son nato", "l'anno in cui son nato", "l'anno
che son nato" l'ultima va diventando comune».
XII
Gli avverbi
Affatto.
Ecco una specie di quiz ai miei lettori: se io chiedo a un amico:
« Ti piace questo quadro? » e lui mi risponde « Affatto »,
come devo intendere: che non gli piace per niente, o, vice-
versa, che gli piace moltissimo? Capisco la perplessità di qual-
che mio lettore; perché frasi come questa, e col significato ne-
gativo dell'avverbio affatto , sono ormai comunissime, e già co-
minciano ad apparir perfino nei libri. Ma questo non toglie che
tale uso debba considerarsi scorretto. L'avverbio affatto è nato
con un suo significato preciso, e vale « interamente>>, « compiu-
tamente », «in tutto e per tutto», « del tutto »; e perciò, se
alla mia domanda «Ti piace questo quadro? » l'amico mi ri-
spondesse « Affatto >>, sarebbe come se rispondesse che gli piace
interamente, compiutamente, e cioè moltissimo. Insomma, il sem-
plice affatto ha solo valore affermativo e non negativo; perché
possa assumere un significato negativo bisogna farlo sempre pre-
cedere da una espressione negativa: niente affatto, nulla affatto,
ecc., come ora vedremo.
Rifacciamoci a qualche esempio classico, cominciando dal
Trecento, dove affatto, assolutamente usato, ha appunto il si-
gnificato di «del tutto », « interamente». Giovanni Villani:
« Dal loro capitano furono ritenuti, acciocché non compiessono
la· loro infortuna d'essere affatto sconfitti». Il Tasso: « Giac-
que un'ora e piue - Stordito affatto e di sé stesso fuori». Il
Manzoni: « Scalzi una gran parte, ben pochi interamente vestiti,
chi affatto in camicia>>. Il Giusti: « L'immaginazione mi s'è
inaridita quasi affatto ». E termino con qualche moderno e con-
temporaneo: « È necessario che ogni corrispondenza sia alme-
no per ora affatto sospesa fra noi» (Carducci); «Né il malizioso
è affatto inesperto del bene, né l'innocente può essere affatto

181
privo di malizia» (Croce); infine, un esempio di Emilio Cecchi:
« Noi partivamo da punti di vista affatto diversi ». Si usa anche
rafforzar questo avverbio ripetendolo due volte, o anche facen-
dolo superlativo: affattissimo: « Si può dir che sia pazzo affatto
affatto» (Berni). Certi poi dicono anche tutt'affatto, ma dicono
male perché è l'inutile ripetizione del tout à fait francese.
E ora, qualche esempio dove affatto serve soltanto come
forma rafforzativa di una negazione, acquistando, piu o meno,
lo stesso valore che ha la locuzione «niente del tutto»: «Non
però debbe aver la colpa affatto» (Ariosto); «Non è mai affatto
inutile il conoscere l'origine degli errori» (Manzoni); «Voi dite
che il bagarino non poteva firmare se nò il responsabile diven-
tava lui. Ma niente affatto! » (Panzini); «Un concetto ... è indi-
stinto, cioè nient'affatto pensato» (Croce); «Non glie ne im-
portava proprio nulla di conoscerla, nulla affatto» (Palazzeschi).
Attenti, dunque, a non sbagliare.

Costi, costà.
«Mettiti costi», «Venite via di costà»: due frasi come que-
ste si sentono comunemente solo in Toscana, o si leggono in
qualche libro di scrittore toscaneggiante. Si tratta infatti di
avverbi di luogo stretti parenti dell'aggettivo-pronome codesto,
di cui s'è parlato a suo luogo.
Rileggiamo insieme in breve la regola grammaticale che li
riguarda: qui, qua, costi, costà, li, là, colà sono avverbi di
luogo con significati corrispondenti ai significati visti per questo,
codesto e quello. Precisamente: qui e qua servono a indicare
un luogo vicino a chi parla o scrive e valgono « in questo luo-
go»: « io mi fermo qui», « Io, qua, non ci resto»; costi e
costà servono a indicare un luogo dov'è la persona a cui si
parla o si scrive, e valgono « in codesto luogo»: « Come ti
trovi seduto costi? », « Che tempo avete costà? »; li e là, con
la variante colà oggi pochissimo usata, indicano un luogo lon-
tano tanto dalla persona che parla o scrive quanto dalla persona
a cui si parla o si scrive, e vale «in quel luogo»: « Mettilo li
sul tavolino», «Guarda là su quel monte».
Ora accade però che mentre qui e qua e !t e là sono sempre
usati a dovere tanto in Toscana quanto fuor di Toscana, il còsti
o il costà si usa solo in Toscana; fuor di Toscana, quando si usa,

182
bene spesso si usa a sproposito; come fece quel tale che seden-
dosi su un prato erboso per uno . spuntino disse ai compagni
che gli erano intorno: « costà ci staremo benone ». Al posto di
costi o costà l'uso sempre piu generalizzato ricorre agli avverbi
/t e là, e dice, per esempio: « Lèvati di là>>, « Che hai H sul
naso? », invece di « Lèvati di. costà», «Che hai costi sul naso? ».
Ma si capisce che è un uso tollerabile solo nel parlar comune,
e bene farebbero certi bravi e anche ottimi scrittori a rispettar
questa regola, salvo in quei casi, s'intende, in cui particolari
esigenze d'arte consigliassero di non rispettarla.
Una particolare funzione di questi avverbi è poi quella di
rafforzare gli aggettivi o pronomi questo, codesto e quello,
formando le coppie questo qui, codesto costi e quello li o là,
in frasi come: «Questo qui è piu bello di quello là», « Codesto
costf non mi garba ». E ho voluto ripetere questa ovvia rego-
letta per uno scopo preciso: per ricordare ai Lombardi che
sbagliano gravemente quando dicono, per esempio (e lo dicono
spesso), «Quello qui non mi piace», «Quella qui mi sembra
un po' matta ».
E prima di finire facciamoci una domanda : tra queste coppie
in -i e in -a, cioè tra qui e qua, tra costi e costà, tra li e là
c'è una differenza di significato e quindi di uso? A voler esser
sottili una differenza c'è, anche se a volte minima e sovente
anche opinabile, ed è questa: qui, costi, li rispetto a qua, costà, ·
là indicano un luogo piu ristretto e piu determinato; perciò
meglio si dice « Siediti qui vicino a me >>, « Ci troviamo qui
attorno a un tavolo», mentre piu vagamente si dice «Andavamo
di qua e di là », «Abita di qua dal fiume »; analogamente
diremo « Resta fermo costi >> ma diremo « Costà a Roma come
vi trovate? »; ancora: « Mettilo H su quella sedia» ma « Por-
tatelo di là ». Non sempre questa distinzione è sentita e quindi
osservata; in certi casi però è lo stesso istinto che ci guida a
dire correttamente: «Là a Roma come stavate?» e non «H a
Roma»; «Andavamo di qua e di là» e non «di qui e di H».

Punto, punti...
Si usa spesso in Toscana la parola punto in frasi come « Non
ne ho punta voglia » per dire « Non ne ho nessuna voglia ». E
un ·uso corretto o da lasciare solo al dialetto?

183
t:: un uso correttissimo, proprio dei Toscani, è vero, ma_
anche dello stile letterario. Come è nato? Bisogna risalire al
nome punto, forma sostantivata del participio passato di pungere,
che è propriamente il segno che si lascia su una superficie
pungendo. Di qui discendono i vari significati figurati di « cosa
piccolissima, o scarsissima », di « spazio limitatissimo », di cosa
insomma minuta nel tempo e nello spazio: « In quel punto si
udf un grido», cioè in quell'attimo ristretto di tempo; «Fui
a un P'lnto dall'essere investito», cioè fu questione di pochi
centimetri perché non venissi travolto.
Dal sostantivo nacque l'avverbio, con un primo significato di
«poco», «in quantità minima» e simili : «Non fur mai tante
né tali (le preghiere) - Che per merito !or punto si pieghi -
Fuor del suo corso la giustizia eterna» (Petrarca); « Come un .
fiore appena sbocciato,... pronto a concedere le sue fragranze
alla prim'aria che gli aliti punto d'intorno» (Manzoni). A volte,
per maggior forza, perfino si raddoppia: ancora il Manzoni:
«Voleva esser servito (il popolo), e, punto punto che qualche
fornaio indugiasse, pressava e brontolava».
Ma, sempre come avverbio, è piu frequentemente usato
nel significato di « niente affatto », per rafforzare una frase
negativa : «L'ombra che s'era al Giudice raccolta - Quando
chiamò, per tutto quello assalto - Punto non fu da me guardare
sciolta » (Dante); «Ella né allora né poi il conobbe punto»
(Boccaccio); «A la turba volgare che si prostra - Non badar
punto» (Parini); «Aveva cercato di trattenerla con chiac-
chiere, com'ella diceva, non punto belle » (Manzoni).
Ma i Toscani, non paghi, lo han fatto perfino aggettivo, e
dicono, per esempio, «Non ho punta fame », «Non ho punti
quattrini », « Parla schietto, senza punte moine ». Anche l'uso
letterario lo ha fatto suo, ma fuor di Toscana è raro che s'in-
contri: « Mi vide entrare nella sala dell'adunanza senza punte
carte in mano» (Fucini) . Spesso, in frasi ellittiche, come risposta
negativa : « Quattrini ne hai? >> « Punti »; « Buone notizie? »
« Punte». E per finire, ecco un uso sostantivato . della parola
punto: « I grandi poeti , pochi o punti li conoscono» (Emilio
Cecchi): cioè « nessuno li conosce».
l

XIII
I numeri
Cifre o lettere?
Dovendo scrivere in un contesto dei numeri, ci si trova a volte
impacciati : si devono usare le cifre arabiche oppure bisogna
scriverli in tutte lettere?
Si capisce che da questo problemino bisogna senz'altro esclu-
dere un contesto di argomento matematico o tecnico, dove i
numeri, quando vengono citati, debbono essere di regola t:ap-
presentati per mezzo di cifre arabiche. La faccenda riguarda
unicamente la prosa narrativa; e qui una buona regola è que-
sta: i numeri vanno scritti in tutte lettere. « Pensino ora i
miei venticinque lettori... »; « Eran vent'otto mila fanti, e sette
mila cavalli ... »; « .. . aspettate d'esser quindici o venti, da con-
durmi via insieme ... »; « Le stanzine eran dugent'ottantotto ».:
son tutti esempi del Manzoni. Nelle date, invece, si preferisce
usare i numeri arabi, e lo stesso Manzoni seguf questa regola:
« Quella grida per le bullette, risoluta il 30 ottobre, non fu
stesa che il 23 del mese seguente ». Ma il Leopardi : « Ricevo
la tua dei nove» (si noti, di passaggio, il plurale, che una volta
si usava per i numeri dal due in avanti).
Se nelle date si cita il millesimo, si ·useranno di regola le
cifre arabiche: «Il 7 dicembre 1968 ... ». Cosi pure, nelle indi-
cazioni del numero delle strade: «Abitava in Via Giusti 32 ».
Fatte dunque queste eccezioni, mi sembra che la conclusione
possa esser questa: in un contesto letterario sarà da seguire
la regola dei numeri in tutte lettere, salvo in quei casi in cui
il numero debba avere un particolare risalto aritmetico.

187
Date.
Come si devono scrivere certe date nel corso di un testo?
:È giusto scriverè, per esempio, « il mattino dell'H novembre
1968 » oppure si deve scrivere « del 11 novembre 1968 »?
Può certo diventare un piccolo problema anche questo dell'a·
postrofo davanti ai numeri comincianti in vocale. Bisogna conve-
nire che la forma dell'll, cosi come, per es., l'B di gennaio, l'XI
Bersaglieri, dall'l all'800, possono a tutta prima sorprendere
l'occhio (è la stessa cosa che avviene col famoso l'whi-
sky, che alcuni preferiscono· scrivere il whisky). Ma quel
che conta non è, in un contesto, il puro segno grafico, ma
il modo come si pronunzia. Perciò, dovendo usare certi numeri
arabi o romani che nella pronunzia hanno una vocale iniziale,
la forma apostrofata è l'unica da usare. Il solito Manzoni, che
a queste cose badava come pochi, evitò l'ostacolo, e scrisse
in tutte lettere il numero cominciante con vocale: « Fin dal·
l'otto aprile dell'anno 1583 », «L'undici di giugno»; però,
dove il numero cominciava con consonante, egli ritornò alle
cifre arabiche: « Il 5 giugno dell'anno 1593 ». Mi sembra
che il consiglio da dare sia questo: seguire l'esempio del
Manzoni tutte le volte che sarà possibile.

L'apostrofo nei millesimi.


Nell'accorciatura dei millesimi tutte le grammatiche raccoman·
dano l'uso dell'apostrofo, quasi a simbolizzare la caduta delle
cifre precedenti: « i moti del '48 », « siamo nel '75 », «il
'500 » (cioè il secolo). Ma è solo una raccomandazione, non un
obbligo; pertanto non farebbe errore chi scrivesse « nel 48 »,
« il 500 >>. Nei numeri accoppiati, poi, non occorre mai l'apo-
strofo per il secondo elemento; scriveremo perciò « la guerra
1915-18 » oppure «la guerra del '15-18 ». Cosi pure l'apo-
strofo si abolisce sempre quando un altro apostrofo precede:
« nell'89 >> e non « nell' '89 ».

Trentaseiesimo.
Si deve dire trentaseiesimo e non « trentaseesimo », cosi come
si deve dire ventiseiesimo, quarantaseiesimo, ecc., e mai « ven-

188
tiseesimo », « quarantaseesimo ». Insegna infatti la grammatica
che i numerali · ordinali, dopo il decimo, si formano aggiun-
gendo al numero cardinale il suffisso -esimo. Il cardinale es-
sendo trentasei, avremo trentasei-esimo, e analogamente venti-
sei-esimo, quarantasei-esimo, e cosf via. Come si potrebbe giu-
stificare l'elisione della vocale finale i del numero cardinale?
L'elisione è giustificabile in ventesimo, ventiquattresimo (quasi
« vent'esimo », « ventiquattr'esimo », come in vent'anni e in
quattr'occhi), e in undicesimo, dodicesimo e simili, dove la
finale i di undici, dodici è, agli effetti della /pronunzia, assolu-
tamente superflua. I numeri tronchi come ventitré, trentatré, ri-
badiscono la regola generale per la quale la finale accentata
non si elide; e avremo perciò ventitre-esimo, trentatre-esimo,
eccetera.
Lo stesso discorso si potrà fare per i numeri composti c.on
-enne, come ventiduenne, ventitreenne, ecc., cioè i composti
modellati sul latino biennis, di due anni (da annus, anno) .
Avremo cioè ventunenne (ventun-enne), ventiquattrenne (come
« ventiquattr'anni »), ventitreenne (ventitré-enne), e infine ven-
tiseienne (ventisei-enne) e non « ventiseenne » come alcuni an-
che accettano.

Centuno o centouno?
Quando si debbano scrivere in tutte lettere numeri come 101,
1:08, 301, 901, 908 come ci si deve regolare? Scriveremo
centuno o centouno, centotto o centootto, e cosf via?
Chi maneggia assegni bancari si troverà spesso davanti a que-
sto problema. Il numero cento, nella formazione dei numeri
composti con uno e con otto, i due soli numeri comincianti con
vocale, dovrebbe comportarsi esattamente come si comportano
tutti gli altri numeri, come venti, trenta, quaranta, ecc.: eli-
dendo cioè la vocale finale e fondendola con la vocale che se-
gue; cosf, come abbiamo ventuno, ventotto, trentuno, trentotto,
quarantuno, quarantotto, dovremmo avere centuno, centotto,
trecentuno, trecentotto, novecentuno, novecento/lo. Questo vor-
·rebbe la logica. E invece no. Nell'uso si dice e si scrive centouno,
centootto, trecentouno, trecentootto, ecc. Illogicità, stravaganza.
E, illogicità anche maggiore, si dice e si scrive centottanta e
non « centoottanta », duecentottanta e non « duecentoottanta »

189
ecc. Centottanta si ma centotto no . Come si spiegano queste in-
congruenze? Si spiegano con l'uso. Si capisce però che baste-
rebbe cominciare a dire e a scrivere centuno, centotto, due-
centuno e duecentotto perché presto o tardi la logica finirebbe
col trionfare . Io, per mio conto, cosf dico e scrivo. (Per mille
il discorso è diverso; il suo uso è coerente in ogni composto:
sempre staccato: milleuno, milledue, milletré, milleotto, mil-
leundici ... Mai « milluno », « millundici » o « millotto ».)

Trentun anno o trentun anni?


Ho finito di sfogliare non so quante grammatiche, e delle mi-
gliori, e tutte dicono, press'a poco, questo: i numerali cardi-
nali composti con -uno, quando siano seguiti da un sostantivo,
vogliono di regola questo sostantivo nel singolare, ma l'uso
ammette anche il plurale: quindi, di regola, ventun soldato,
trentun anno, e come eccezione consacrata dall'uso anche ventun
soldati, trentun anni. Per il femminile come ci regoleremo?
Ancora le grammatiche: sempre l'accordo nel singolare femmi-
nile: ventuna lettera , trentuna donna.
Poi, come sempre accade, queste stesse grammatiche allinea-
no le eccezioni. Il sostantivo va sempre al plurale: quando esso
precede il numero: soldati ventuno, lettere ventuna; quando al
sostantivo è unito un aggettivo: ventun soldati italiani; quando
il numerale è preceduto dall'articolo: i trentun libri che mi
desti. Non risulta però chiaro come ci si debba regolare, nei
due ultimi casi, coi sostantivi femminili : dovremo dire, cioè,
trentun donne milanesi o trentuna donna milanese ; le trentun
lettere che ti scrissi o le trentuna lettera eccetera?
Insomma, anche qui, grande perplessità e, in ultimo, un gran
pasticcio. Una cosa, senza dubbio, è vera: l'uso ammette tutt'e
due le forme, e si dice e si scrive tanto trentun (o trentuno)
cardinale quanto trentun (o trentuno) cardinali: nel primo caso,
si tiene conto soltanto della seconda componente del numero
'(come se fos se scritto cioè trenta e uno); nel secondo caso, si
considera il numero come un complesso tutto intero, con valore
di plurale, come sono del resto tutti gli altri numeri cardinali,
dal due all'infinito. E questo valore plurale è cosi sentito,
che le forme ventun soldato e trentuna donna perdono ogni
giorno terreno, mentre va sempre piu affermandosi la forma

190
col sostantivo plurale, buona tanto per il maschile quanto per
il femminile, tanto se il numero precede quanto se segue, tanto
se precede l'articolo quanto se segue l'aggettivo.
Perciò, per semplificare le cose, e senza voler m n.: re di
rispetto alla piu antica tradizione, mi permetterei di consig11.re
i lettori di attenersi sempre a questa secondo forma che ha,
per giunta, il merito di contentare meglio l'orecchio. Diremo
perciò: -«Un'adunanza di trentun cardinali »; « Una fila di
ventuno vetture»; « Alle ore ventuno »; «Le centuno lettere
dell'epistolario ».
Qualche esempio classico? Ce n'è a iosa. Non mancano, si
capisce, esempi accordati nel singolare, come questo, antico,
del Machiavelli: «Uno spazio di trentun braccio», e questo,
contemporaneo, dell'Ojetti: «In casa del pittore Vespasiano
Bignami che ha ottantun anno»; ma sentite questi altri: « Eleg-
gevano ventun cittadini~> (Varchi); «Intervennero centotrentuno
senatori» (Varchi); «Accozzatisi in cinquanta giorni cinquan-
tuno cardinali in conclave» (Ségneri); « Sessantun fedeli di se-
dici diverse nazioni >> (Daniello Bartoli); « Ventuno articoli della
lor fede» (Pallavicina); e potrei continuare per un pezzo.
Dei moderni scrittori è inutile dire, ché si attengono anch'essi
per la massima parte alla forma con l'accordo al plurale.
XIV
Questioni verbali
Sbagliare, studiare, premiare ...
I verbi che . dinanzi alla terminazione dell'infinito in -are hanno
nella loro radice una i (quali, per esempio, sbagli-are, premi-
are, graffi-are, concili-are e simili) che cosa fanno di questa
i quando venga a trovarsi dinanzi a una desinenza verbale
che cominci con un'altra i, come -iamo e -iate?
La risposta è semplice: quando avvenga nella coniugazione
di questi verbi l'accostamento di due i successive, la i della ra-
dice si fonde con quella della desinenza, e se ne scrive una
sola. Esempi: sbagli-are, sbagli-amo (non « sbagli-iamo » ), sbà-
gli-no (non « sbàgli-ino »); studi-are, tu studi (non « studii »),
che essi studino (non « studiino » ); di conseguenza avremo an-
cora : graffiare, gràffino; conciliare, concilino; ammobiliare, am-
mobilino; pigliare, piglino; vegliare, véglino; calciare, càlcino;
iniziare, inizino, ecc.
Ma ci sono, come avviene spesso in grammatica, delle compli-
cazioni. Prendiamo il verbo premiare: scrivendo con una sola i
la seconda persona dell'indicativo presente, tu premi, non si
rischia di confonderla con la seconda persona dello stesso indi-
cativo presente del verbo prèmere? Infatti, le forme complete
sarebbero: premi-are, premi-i; prèm-ere, prem-i. Rispondo: pos-
sibilità di confusione in un discorso tra premiare e prèmere ce
ne saranno una su .mille; ma se quell'una si presentasse, si
scriva pure la seconda persona di premiare con due i ( « Se tu mi
premii, ti prometto che studierò»). Casi analoghi: vari-are,
vari-i, vàri-ino; var-are, var-i, vàr-ino; allevi-are, allevi-i, allèvi-
ino; allev-are, allev-i, allèv-ino, ecc.
C'è poi il caso dei verbi nei quali questa fatale i, nella prima
persona deii'indicativo presente (e in altre) è tònica, cioè accen-
tata: come il verbo avviare, che fa avvfo, avvfi, avvfa. Come

195
regolarsi in questo caso? I verbi come avviare, che nel presente
indicativo in -fo hanno la i accentata, conservano sempre la i
della radice anche quando essa perde l'accento: avvf-o, avvf-i,
avvi-àmo, avvi-àie, avvi-ano. Ma questa i si perde quando viene
a trovarsi dinanzi a desinenza che cominci con un'altra i e (sta'
te attenti!) la i della radice non sia accentata; che se invece
fosse accentata anch'essa rimarrebbe e si sposerebbe bella-
mente alla i della desinenza. Chiariamo subito con un esempio:
i della radice non accentata: cade dinanzi a un'altra i: noi
avv-iàmo (avv(i)-iàmo), ch·e voi avv-iàte (avv(i)-àte); i della
radice accentata: restano tutt'e due le i: che io avvf-i, che tu
avvf-i, ch'egli avvi-i, che essi avvi-ino. La cosa è semplice anche
se la spiegazione appare complicata.

Baciare, mangiare, lasciare ...


Ho messo in fila questi tre verbi che hanno valore di semplici
modelli : modelli di verbi terminanti in -ciare, in -giare e in -scia-
re, le cui coniugazioni possono a volte condurre in errore. La
regola per la corretta coniugazione è semplice: questi verbi
perdono sempre la i della loro radice dinanzi alle desinenze
verbali comincianti con la e o con la i. Facciamo i soliti esempi,
tanto piu chiari della regola: baci-are, baci-o, baci-a; però:
bac-i, bac-erete, bac-erò, bàc-ino (e non «baci-i», « baci-erete »,
« baci-erò », « bàci-ino » ). Mangi-are, mangi-o, màngi-ano;
mang-erei, mang-ereste (e non « mangierei », « mangiereste »,
ecc.). Lasci-are, lasci-o, lasci-ava, lasci-ato; lasc-erò, lasc-erete,
lasc-erebbero e simili (e non, come spesso si vede, « Iascierò »,
« lasciereste », « lascierebbero » ecc.). E questo perché? Perché
quella i è solo un segno grafico per dare alla c o alla g di quei
verbi un suono schiacciato, un suono palatale dinanzi alle desi-
nenze comincianti con a o con o. In altre parole quella i serve
a far pronunziare baciare invece di «bacare», lascio invece di
« !asco». Dinanzi alla e o alla i questo problema non sussiste, e
quindi la i della radicale se ne può andare.

196
Sognare, spegnere, grugnire ...
I verbi in -gnare, come anche quelli (pochi) in -gnere e -gnire
mantengono sempre la i della desinenza -iamo dell'indicativo
presente: sogn-iamo, spegn-iamo, grugn-iamo, e non sogn-amo,
spegn-amo, grugn-amo. Però alcune grammatiche ammettono
anche le forme senza la i, perché, dicono, tanto la pronunzia
non cambia. Una ragione simile, una volta accettata, porterebbe
una vera rivoluzione nella nostra ortografia. Ma poi è evidente
çhe il mantener codesta i è addirittura indispensabile nelle
forme del congiuntivo presente: che noi sogniamo, che voi
sogniate. Leggete questo periodo: « Insigniamo con meritate
onorificenze i migliori soldati perché anche voi giovani pugniate
con valore e agogniate di imitare le imprese eroiche degli an-
ziani»: abolite la i di pugniate e di agogniate e falserete addi-
rittura il senso del discorso. Qualcuno dirà: manteniamo allora
la i solo nelle forme che possono generare equivoci, ma sop-
primiamola dove equivoci non possono nascere... Ci sono dei
grammatici che si compiacciono di questi distinguo, df questi
cincischiamenti, ma son quelli appunto che riducono la lingua
italiana a un affannoso e complicato tiremmolla.

Continuare.
È vero che il verbo continuare manca della prima persona plu-
rale dell'indicativo presente e della prima e seconda persona
plurale del congiuntivo presente, non potendosi dire - come
specificamente si avverte in alcuni dizionari - continuiamo e
continuiate?
Alcuni dizionari, è vero, dicono questo, e non da ora; anche
il vecchio e pur glorioso Petrocchi ha di tanto in tanto di
queste curiose eccezioni. Le quali in realtà non esistono affatto. ·
Nessuna grammatica seria afferma che i verbi in -uare non pos-
sono avere le forme verbali di cui sopra si parla. Si potrebbe
dire, se mai, che forme come continuiamo e continuiate sono
brutte, faticose a pronunziarsi, e perciò tutte le volte che è
possibile sarà meglio evitarle; ma niente di piu. Il curioso è
poi questo: che quegli stessi dizionari che dichiarano l'inesi-
stenza delle forme verbali continuiamo e continuiate, ammet-
tono invece l 'esistenza di queste medesime forme in tutti gli

197
altri verbi in -uare, dato che sotto questi verbi, come attuare,
evacuare, accentuare, graduare non si fa menzione alcuna del-
l'eccezione. E allora, come regolarsi? Niente: è un'altra delle
tante sottigliezze, o meglio fisime, di cui non è il caso di tener
conto; e si dica e si scriva, senza téma di errare, continuiamo,
continuiate, attuiamo, attuiate, accentuiamo, accentuiate, gra-
duiamo, graduiate, ecc.

Dessi, stessi.
Al Leopardi, un giorno di esasperata malinconia e influenzato
dal dialetto, in una lettera gli scappò scritto « Si sta in mez-
zo alla moltitudine ... come si stasse in solitudine»; ma nep-
pure il no e del Leopardi ci potrà autorizzare a considerar
buono uno stassi invece di un regolare stessi. Queste doppie
forme dd verbo dare e stare (dassi, stassi ecc. dell'imperfetto con-
giuntivo invece di dessi, stessi ecc.) sono assolutamente dialet-
tali e tali restano, anche se un grande scrittore ci va a cascare.
Si capisce come son nate : per analogia coi verbi regolari della
prima coniugazione (per esempio, amare, che fa appunto
amassi). Queste alterazioni analogiche sono frequenti oltre che
nei dialetti anche nelle parlate dei bambini, i quali sono natu-
ralmente portati a seguire in ogni caso, non solo nei verbi, le
flessioni regolari anziché quelle irregolari. Flessioni irregolari
non nate da capriccio, bensi da ragioni etimologiche: dessi e
stessi dalle forme latine dedissem e stetissem, con la caduta
delle sillabe intermedie -di- e -ti-. Invece amassi deriva dal latino
ama(vi)ssem, come lodassi da lauda(vi)ssem, cantassi da can-
ta( vi)ssem, eccetera.

Imperativi monosillabici.
Dubbi possono sorgere sulla scrittura degli imperativi di quat-
tro verbi: dare, stare, fare e andare. Si presentano tre forme:
dà, sta, fa e va, oppure dài, stai, fai, vai, o anche da', sta', fa',
e va'. Quale delle tre è da preferirsi?
Tutt'e tre le forme sono corrette e quindi usabili: «Ehi,
Mammolino, stai fermo » (D'Azeglio); «E va con Dio per la
tua strada » (Ada Negri); « Va', va' di là; sii ragionevole» (Pi-

198
randello). Resta da vedere come sono nate, e se ce ne sia
una tra esse da preferire.
La forma dà (sempre accentata per non confonderla con la
preposizione da) e la forma sta sono la continuazione diretta
delle seconde persone singolari dell'imperativo dei verbi latini
dare e stare. L'imperativo italiano fa discende dall'imperativo
latino fac ( troncamento di un primitivo face) dove quel -c è
caduto, come è caduto, per esempio, in sic, da cui è nato il
nostro si. Per la forma va il discorso è un po' piu lungo. Tutti
sappiamo che alcune forme del verbo andare ripetono quelle
del verbo latino vàdere, che nell'imperativo faceva vade (ben
nota è la frase evangelica « Vade retro, Satana! » ). Da questo
vade si ebbe una forma volgarizzata vae, da cui poi discese il
nostro vai, che sarebbe dunque la sola forma legittima del-
l'imperativo di andare. Sennonché anche questo vai presto si
ridusse al semplice va per analogia con gli altri imperativi
dà, sta e fa. E va usarono non solo Dante, ma anche il Boc-
caccio e il Petrarca e quasi tutti i maggiori classici della nostra
letteratura, fino al Manzoni («Va, va, povero untorello ... »).
A questo punto resta da chiederci: come si spiegano le se-
conde forme imperative dai, fai e stai (per vai conosciamo già
la perfetta legittimità dell'origine), da cui sono poi derivate le
forme elise, e perciò apostrofate, da', fa' e sta'? Esse ripetono,
evidentemente, le seconde persone singolari dell'indicativo pre-
sente; le quali nell'italiano, come già nel latino, assumono so-
vente la funzione dell'imperativo; come, per esempio, nelle se-
guenti frasi: «Tu mi dai questo libro, non quello! »; «Questo
lavoro tu lo fai e subito»; «Tu stai qui, e non ti muovi». Si
tratta di forme usate soprattutto dai Toscani, e alcuni gram-
matici le considerano proprie del cosiddetto linguaggio fami-
liare; ma sono ormai comuni a ogni linguaggio e a ogni re-
gione, come s'è visto sopra nell'esempio del D'Azeglio, cui si
potrebbero far seguire numerosi altri esempi.
Ma di questi imperativi monosillabici ce n'è un altro, quello
del verbo dire (che non è, sia detto per inciso, della terza co-
niugazione come potrebbe suggerire quella terminazione in -ire,
sibbene della seconda, quella dei verbi in -ere, in quanto esso
è la forma contratta del latino dicere; e la stessa cosa diremo
di fare, che non appartiene alla prima coniugazione in -are,
ma anch'esso alla seconda, essendo a sua volta la contrazione
del latino fàcere). Circa l'imperativo di dire, dunque, i gram-

199
matici propongono due forme: una semplicemente accentata,
di, e un'altra elisa, e quindi apostrofata, di'. Ma io respingerei
senz'altro la forma accentata, già usata come vedemmo, per in-
dicare il sostantivo di, sinonimo di « giorno » ( « Lavora tutto
il df ») distinguendolo cosf dalla preposizione di; e consiglierei
di attenersi alla forma apostrofata di', giustificata oltre tutto
dal fatto che si tratta del troncamento .dell'originario impera-
tivo latino dic, a sua volta forma tronca di un primitivo dice.
Riassumendo tutta questa chiacchierata, direi di rispettare
le seguenti forme: dà (sempre accentato), meglio che dai, inu-
tile da'; sta, meglio che stai, inutile sta', errato « stà »; fa o
anche fa', meglio che fai, errato « fà »; va o anche va', meglio
che vai, errato « và »; di', meglio che di.

Riavere.
Si deve scrivere rianno o rihanno?
Questo problemino grafico, si capisce, interessa tutt'e quattro
le forme dell'indicativo presente del verbo avere: ho, hai, ha,
hanno. In passato, quando l'h di tradizione latina, e non solo
nel verbo avere, era sacra, si scriveva normalmente rihò, rihai,
rihà, rihanno; ma oggi queste forme appaiono francamente pe-
dantesche. Perciò rispettiamo pure la h nelle forme semplici,
consacrate ormai da una secolare tradizione, ma aboliamole sen-
za titubanza dal verbo composto, e scriviamo riò, riai, rià,
rzanno.

Giacere, piacere, tacere.


Ce n'è parecchi che a coniugar questi tre verbi bene spesso
inciàmpicoo.o. Si deve dire io giacio, noi giaciamo o io giaccio,
noi giacciamo? « Le ostriche non mi piaciono » oppure « non mi
piacciono»? Sono verbi irregolari, un po' pazzerelli, che ora
raddoppiano ora non raddoppiano la c della radice giac-, piac- e
tac-. Questo raddoppiamento riguarda solo l'indicativo presente
e il congiuntivo presente, ma mentre nel congiuntivo è costante,
nell'indicativo oscilla. La miglior cosa sarà coniugare Giacere:
io giaccio, tu giaci, egli giace, noi giacciamo, voi giacete, essi
giacciono; errate sono le forme « io giacio », «noi giaciamo>-'.

200
«essi gtactono ». Congiuntivo: sempre raddoppiato: che io, tu,
egli giaccia, che noi giacciamo, che voi giacciate, che essi giac-
ciano. La stessa coniugazione seguono piacere e tacere: piaccio,
piaci, piace, piacciamo, piacete, piacciono; taccio, taci, tace, tacCia-
ma, tacete, tacciono ; nel congiuntivo sempre doppia c: piaccia,
piacciamo, piacciate, piacciano; taccia, tacciamo, tacciate, tac-
'Ciano.
Per molti saran cose ovvie; per alcuni forse no.

Esigere, redigere, transigere.


Tre verbi scabrosi, sui quali converrà fare un diffuso discorso.
Sono tutt'e tre di schietta derivazione latina, exigere, redigere ,
transigere, tutti composti del verbo àgere. Purtroppo questo
àgere, che nel perfetto dell'indicativo faceya ègi e nel participio
passato actus, non ci è giunto nella sua forma originaria, che
Io avrebbe elencato tra i verbi della seconda coniugazione, ma
sf nella forma della terza coniugazione, agire, con un passato
remoto regolare agii, e un participio passato agito. Non avendo
perciò come base la coniugazione del verbo fondamentale da
cui direttamente discendono, le coniugazioni di esigere , redigere
e transigere risultano oscìllanti nel passato remoto, e irregola-
ri nel participio passato; tanto vero che le grammatiche elen-
cano questi verbi tra quelli detti appunto irregolari.
Non potendosi conservare le forme latine del perfetto indi-
cativo « exègi » (sia pure nella forma italianizzata « esègi » ), « re-
dègi » e « transègi », si dovette ricorrere per il passato remoto al-
le forme della seconda coniugazione regolare che ha come desinen-
.ze -éi o -ètti: nacquero cosf le forme esigéi o esigètti, redigéi o re-
digètti, transigéi o transigètti, cosi come si dice teméi o tem ètti.
E veniamo al participio passato. Il participio passato del la-
tino àgere, era, come abbiamo visto, actus, e di qui i participi
passati dei suoi composti exactus, redactus e transactus. Ed ecco
perché exactus ha dato un participio passato esatto, e non già
« esigito » costruito sul participio passato agito, e cosf redactus
ha dato redatto e non « redigito », e transactus ha dato tran-
satto e non « transigito ».
Ma a questo punto che avviene? Avviene che essendo il
participio in -atto proprio dei verbi con l'infinito in -arre,
come trarre, tratto, attrarre, attratto, distrarre, distratto, ecc.,

201
per una naturale fortissima spinta analogica ecco crearsi altre
due forme di infinito, redarre e transarre, poi fissatosi quest'ul-
timo in transare; non solo, ma anche una seconda forma di pas-
sato remoto redassi, sul modello di trassi, attrassi, distrassi, ecc.
Ora, se di questo secondo passato remoto possiamo sostenere
la legittimità alla stessa stregua dell'altra forma redigéi o redi-
gètti, pur essa etimologicamente irregolare (aggiungerò anzi che
redassi, redasse, redassero sono oggi le forme piu raccoman-
ùate dai grammatici), non altrettanto potremo dire degli altri due
mfmiti redarre e transare, forme del tutto spurie, inutilissimi
doppioni delle uniche forme legittime redigere e transigere.
Per fortuna questo transare, tanto caro al solito stile commer-
ciale, è usato in pochissime forme, di solito nel solo infinito,
ché forme come « transo », « transi », « transerò », « transassi »,
ecc. sorprenderebbero perfino i suoi affezionati utenti. Ai quali
raccomando di affrettarsi a sostituire il goffo transare, ignorato
da tutti i piu seri vocabolari, con transigere, dicendo « transi-
gere la lite » , cioè evitarla venendo a reciproche concessioni,
« su questo non transigo », « transigerò per amor di pace », e
via transigendo e non « transando ».
E un'ultima osservazione c'è da fare a proposito del verbo
esigere, e pm propriamente del suo participio passato esatto:
il quale viene usato in uno solo dei due significati del verbo,
in quello di « incassare », « riscuotere », riferito a denaro:
« esatte lire trentamila per quote d'abbonamento», « somma an-
cora non esatta », cioè non ancora riscossa. Nel secondo signi-
ficato di « richiedere con forza », « pretendere » (« esigere una
spiegazione », « esigere una prova ») la forma esatto non si usa,
ma si ricorre a participi passati sinonimi, come preteso, richie-
sto, imposto, voluto , forme che mi permetto di raccomandare
agli inventori dell'ineffabile « esigito ».

Traslare.
Anche traslare, come transare, è un verbo inventato; diciamo
meglio, foggiato abusivamente su traslato, aggettivo d'uso piut-
tosto letterario che significa « trasferito », « trasportato», ve-
nutoci dal latino translatus, participio passato del verbo tran-
sferre, «trasferire». Traslare in italiano non esiste, non si tro-
verà in nessun dizionario, ma si troverà traslatare, che però si

202
avvia a scomparire dall'uso Oggi si dice « traslare una salma >>
(solo in quest'uso funebre il verbo appare ormai), ma corret-
tamente bisognerebbe dire « traslatare una salma ». Un esem-
pio del D'Annunzio, dal Notturno: «Il sacrario rotondo ove
sarà traslata.ta l'umile eroina ». Potremo tuttavia sempre ricor-
rere a verbi come trasferire, trasportare o anche rimuovere,
senza bisogno di cervellotiche invenzioni.

Risolvere.
Questo risolvere è verbo dovizioso, e può disporre di ben tre
passati remoti: risolvéi, risolvètti e risolsi, tutti e tre ben rap-
presentati negli autori classici: «Mori Papa Giovanni XII ...
che tutto il suo corpo si risolvette » (G. Villani; qui quel risol-
vette significa si consumò, si dissolse, che fu il primo signifi-
cato del verbo, risalente al latino sòlvere, sciogliere); « Risolvé
di presentarsi, e la mattina appiccar la zuffa» (Guicciardini);
«Mi risolvei a farvi le nozze della reina Ester» (Vasari); «Mi
risolsi che di animale che prima era, fosse convertito in pianta »
(Leopardi). Si potrebbe aggiungere che delle tre forme risolvéi,
risolvètti e risolsi (e continuando a coniugare, risolvé, risolvètte,
risolse, risolvérono, risolvèttero, risòlsero) la terza è la piu co-
mune, rimanendo le prime due, risolvéi e risolvètti, piuttosto
nello stile letterario. E c'è da aggiungere che questo verbo è
copioso anche nel participio passato, con le forme risolto e riso-
luto: «Ho risoluto di partire>>, « S'era risolto ad accettare>>,
« Questione risoluta >>, « Questione risolta>>. Ma solo risoluto
come aggettivo nel significato di « deliberato », « pronto »,
« fermo » e simili: «Era risoluto e forte», «Con animo ri-
soluto».
Ma di verbi con doppie e triple forme l'italiano abbonda:
da persistere, persistéi e persistètti; da sedere, sedéi e sedètti;
da perdere, perdéi o perdètti o persi, perso o perduto;
apparire, appaio o apparisco, apparvi o apparii o apparsi, ap-
parso o apparito, e via per centinaia di casi.

203
Disfano o disfanno?
I composti del verbo fare, non meno che quelli del verbo
dire, come presto vedremo, danno del filo da torcere agli stessi
grammatici, che non si trovano sempre d'accordo nello stabi-
lire questa o quella regola fissa.
Fare, si sa, è un verbo irregolare che, come s'è già accennato
parlando del suo imperativo, solo apparentemente appartiene
alla prima coniugazione come lodare e curare, ma in realtà ap-
partiene alla seconda, come lèggere e temere. Fare non è che
la forma sincopata di un arcaico fà(ce)re, ch'è poi il fàcere
latino. La vocale a dell'infinito fare non appartiene quindi alla
desinenza, come appunto in lod-are e cur-are, si bene alla radice
del verbo: propriamente, fac-ere; essa corrisponde, per capirci
meglio, alla o di lodare e alla u di curare. E le forme regolari
sono proprio quelle -che si costruiscono su questa radice fac-:
faccio, facciamo, facevo; e tutte le altre forme dell'imperfetto;
quelle del passato remoto, feci, facesti, ecc.; quelle del con-
giuntivo presente e imperfetto, faccia e facessi, ecc.; il participio
presente, facente, il participio passato, fatto (lat. factus ), il
gerundio facendo.
Ora, che cosa accade in certe forme di alcuni composti di
fare? Accade che si perde facilmente di vista la struttura di
queste che sono, ripeto, le forme regolari del verbo, e si appli-
cano per impulso analogico le desinenze verbali della prima
coniugazione direttamente a una radice che è soltanto presunta_
È il caso appunto. dei verbi composti disfare e soddisfare, sen-
titi con una radice disf- e soddisf-, avente -are come desinenza.
Di qui (mi limito a esemplificare il solo disfare, ché l'identico
discorso vale anche per soddisfare e strafare) le forme disf-o
(come lod-o), disf-i (come lod-i), disf-a (come lod-a), disf-iamo
(come lod-iamo), disf-ano (come lòd-ano); e ancora: disf-erò
(come lod-erò) invece del corretto disfarò; il congiuntivo che
io disf-i (come lod-i) invece di che io disfaccia. Sovente, nelle
persone meno colte, si sentono anche forme come disfavo e
disfàvano, invece di disfacevo e disfacévano, disfando invece di
disfacendo, appunto per l'analogia di lodavo, lodàvano e lodando.
E veniamo al dunque. A stretta regola grammaticale, nei
composti del verbo fare le uniche forme legittime dovrebbero
essere quelle che ripetono le stesse forme di questo verbo ori-
ginario: disfaccio o disfò (corrispondenti alle due forme rego·

204
lari faccio e fa), disfai, disfà, disfacciamo, disfate, disfanno; di-
sfacevo, disfacevi, ecc.; disfarò, disfarai, disfarà, ecc.; disfaccia,
disfacciamo, disfacciate, disfàcciano; disfacessi; disfarei; disfa-
cente; disfatto; disfacendo. Sennonché l'uso, nel linguaggio par-
lato prima e poi anche in quello scritto, ha finito con l'affer-
mare alcune forme che contrastano con la legge grammaticale.
Si tratta, per ripeterle ordinatamente, di disfo, disfi, disfa, di-
sfano dell'indicativo presente (il Goidànich accetta anche disfia-
mo); di disferò, disferai, ecc., del futuro dell'indicativo; di disfi
e disfino del congiuntivo presente (ma lo stesso Goidànich am-
mette anche disfiamo e disfiate accanto a disfacciamo e disfac-
ciate); e di disferei, disferesti, ecc. del condizionale. Doppie
forme, dunque, che si possono ormai considerare legittime. Va
poi da sé che i piu severi tradizionalisti non finiranno mai di
considerarle spurie, relegimdole semmai nel cosiddetto linguaggio
familiare.

Benedicevo o benedivo?
Anche tutti i composti di dire danno da discutere, da benedire
e maledire a disdire, indire, contraddire, interdire, predire, ridire
e cosi via. Questo dipende dal fatto che l'originario dire, verbo
irregolare, è propriamente, come s'è già visto, la forma sinco-
pata di un precedente di(ce)re, schietto latino ancor vivo in alcuni
dialetti, sf che viene opportunamente aggregato dai grammatici
alla seconda coniugazione, quella dei verbi in -ere, come temere,
e non alla terza, come farebbe pensare la sua desinenza in -ire.
Ora avviene fatalmente che nei composti, dove le forme originali
del verbo sono meno sentite, le due coniugazioni, quella della
seconda in -ere e quella della terza in -ire, si scontrino e si
confondano soprattutto nel linguaggio parlato. Senza dubbio,
l'unica • coniugazione regolare dei composti di dire è quella pro-
pria di questo verbo componente : benedico, benedici, bene-
dice, benediciamo, benedite, benedicono; per l'imperfetto le for-
me corrette sono benedicevo, benedicevi, ecc.; per il passato
remoto, benedissi, ecc.; per l'imperfetto del congiuntivo, bene-
dicessi, ecc. (Fa eccezione l'imperativo: benedici, maledici, di-
sdici, indici, contraddici, interdici, predici; ma ridire segue la
forma regolare ridi.) Ma ecco, appunto, insinuarsi qua e là al-
cune forme delia terza in -ire; e cosf come regolarmente diciamo,

205
da servire, serviamo, servivo, servii, che io servissi, siamo spinti
a dire benediamo, benedivo, benedii e che io benedissi.
C'è di piu. Una vasta categoria di verbi in -ire inserisce tra
desinenza e radice il suffisso isc, come finire che fa finisco; e
allora accade perfino di sentire le forme popolari benedisco,
benedisci, ecc. e quelle del congiuntivo benedisca, benediscano,
che oggi sono considerate erroracci blu, ma che in antico spun-
tano nelle pagine di solenni scrittori, come per esempio il Varchi
( « Tu lo maledisci e cerchi che un uomo dabbene ... ») o il
Cavalca ( « In ogni tempo benedisci il Signore » ). La conclusione
è che oltre le forme regolari, i grammatici han finito con l'ac-
cogliere, ma solo nel linguaggio cosiddetto popolare, alcune
forme irregolari, e precisamente quelle dell'imperfetto indica-
tivo, benedivo, eccetera invece di benedicevo, eccetera; del pas-
sato remoto, benedii, benedisti, benedi, benedimmo, benediste,
benedirono invece di benedissi, benedicesti, benedisse, eccetera;
dell'imperfetto del congiuntivo, benedissi, benedisse, benedis-
simo, benedissero invece di benedicessi, ecc. Da condannare sen-
za remissione sono invece le forme benedisco, benedisci, ecc.,
come piu sopra ho detto.

Prevenfi, interveni...
Mi informano che in una trasmrsstone televisiva è stata udita
piu volte una battuta come questa: « Io prevenli la sua richie-
sta ... »: questo prevenii, commenta il mio informatore, ci avreb-
be fruttato, ai nostri tempi, un bel quattro in italiano.
E anche oggi, io penso e spero. Un errore resta, o dovrebbe
restare, sempre un errore. Questo prevenfi televisivo fa del re-
sto il paio con un interveni, pur esso televisivo, che imperò
per parecchio tempo in certo « Carosello ».
L'errore, purtroppo oggi molto diffuso, deriva da un fenome-
no abbastanza comune nel nostro linguaggio, per il quale i
composti di un verbo irregolare tendono ad assumere le forme
della coniugazione regolare (lo abbiamo appena visto per fare e
per dire). Venire è appunto uno di codesti verbi irregolari, e i suoi
composti, come prevenire, provenire, intervenire, divenire, conve-
nire eccetera, invece di seguire senza eccezione possibile la
sua stessa coniugazione, per il fenomeno ora detto modellano
certe loro forme, specialmente quelle del passato remoto, su

206
quelle corrispondenti della coniugazione regolare; si che ac-
canto alle forme corrette prevenni, intervenni, prevenne, inter-
venne, prevennero, intervennero (modellate su venni, venne, ven-
nero) sempre piu tendono ad affermarsi le forme scorrette pre-
venfi, interventi, prevenf, intervenf, prevenirono, intervenirono
(modellate su sentii, senti, sentirono). La spiegazione dell'errore
è questa, ma non vuoi certo servire da giustificazione. Preoc-
cuperebbe poco il fatto, se tutto rimanesse nei confini del
cosiddetto linguaggio popolare alla buona. Il guaio è che oggi
l'errore parlato trova sempre mille occasioni per travasarsi sulla
carta stampata, quando non viene addirittura diffuso tra milio-
ni di ascoltatori coi potentissimi mezzi tecnici della radio e
della televisione.

Dormente e dormiente.
I verbi in -ire della nostra terza coniugazione hanno, come
sappiamo tutti, il participio presente in -ente : vestente, ser-
vente, languente, ruggente. In latino i verbi in -ire costituivano
una quarta coniugazione, e nel participio presente conservavano
la i, che faceva parte del tema; cosi da venire si aveva il parti-
cipio presente vèniens, da dormire, dòrmiens, da nutrire, nu-
triens, e cosi via. Ora è avvenuto che in alcuni verbi italiani
in -ire si sono conservate due forme di participio presente,
quella regolare in -ente, e quella latineggiante in -iente; ab-
biamo cosi venente e veniente, dormente e dormiente, nutrente
e nutriente, esordente ed esordiente, finente e finiente, udente e
udiente, morente e moriente, salente e saliente, servente e ser-
viente, ecc. Di queste forme latineggianti in -iente alcune sono
ormai scomparse dall'uso, come serviente e udiente; altre sono
rare e s'incontrano solo nella prosa letteraria o in poesia, come
finiente , moriente, saliente (che però è comune come sostantivo
maschile: « il saliente del colle », o come aggettivo in certe
espressioni tecniche : « acque salienti » ); altre infine si alter-
nano nell'uso. Ma anche l'uso qui tende a fare una scelta:
preferisce la forma regolare quando è schiettamente verbale:
«La bimba dormente sul divano»; ma preferisce la forma in
-iente nelle sostantivazioni: «Non svegliate la piccola dormien-
te»; cosi si preferisce dire «La barca venente verso di noi»
ma « Salutate i nuovi venienti ». E questa distinzione si fa a

207
volte anche tra la forma aggettivale e la pura forma verbale:
« La lupa nutrente i due gemelli » ma « Un cibo sano e nu-
triente»,
Come si vede, ci sono casi dove l'una o l'altra forma si è
stabilizzata nell'uso: oggi nessuno direbbe « un cibo nutrente »
o «confortare i morienti ». In altri casi invece la scelta del-
l'una o dell'altra forma è lasciata al gusto di chi la usa: « Il
polso batte nell'istesso modo ne' dormienti che nei vegghianti »
(Galilei); «Larve di dormenti» (Cecchi); «I sordi e i dor-
mienti» (Serra); «Dormente che cammina » (Cardarelli).

Cotto e cociuto.
Un altro di quei verbi, questo cuocere, che dà a volte da pen-
sare. Verbo anch'esso elencato tra gli irregolari, ha una coniu-
gazione bislacca, per di piu complicata dal cosiddetto dittongo
mobile, quel dittongo uo che vive solo quando vi cada l'accen-
to. Conviene ripeter qui la coniugazione per disteso: cuòcio,
cuòci, cuòce, cociàino, cocéte, cuòciono, non bene cuociamo,
cuocete; imperfetto: cocet'O, cocevi, coceva, cocevamo, cocevate,
cocévano, non bene cuocevo, cuocevi, ecc.; passato remoto: còssi,
forma stravagante che risale esattamente al latino còxi, come pu-
re còsse e còssero, cocesti, cocemmo, coceste, non bene cuocesti,
cuocemmo, cuoceste; futuro: cocerò, cocerai, ecc., non bene
cuocerò, cuocerai, ecc.; congiuntivo: che io, tu, egli cuocia,
che noi cociamo, che voi cociate, che essi cuòciano, non bene
cuociamo, cuociate; cocessi, ecc. e non cuocessi; condizionale:
cocerei, coceresti, ecc. e non cuocerei, cuoceresti, ecc.; participio
presente, cocènte e non cuocente; gerundio, cocèndo e non cuo-
cendo; infine il participio passato còtto (lat. còctus). Ma pro-
prio di questo participio sarà bene dire qualcosa di piu;
perché accanto alla forma Iatineggiante còtto l'italiano ha fog-
giato un altro participio regolare che segue la coniugazione dei
verbi in -ere: il participio cociuto (non cuoci uta), sul modello di
temuto.
Lo so, questo cociuto non è comune nell'uso, e molti perfino
lo ignorano; però esiste, e ha una sua particolare funzione. In-
fatti, mentre còtto si usa solo nel significato proprio: « La mi-
nestra è cotta», o anche· figurato riferito a passioni ardenti:
« Era cotto d'amore»; l'altro participio, cociuto, s'usa come

208
intranslttvo nel significato figurato di «rincresciuto», «preso
da dispetto» e simili. Si dice infatti « Quell'osservazione mi co-
ceva», cioè mi rincresceva, mi indispettiva, mi bruciava; do-
vendo usare ·il participio passato, in questo senso dovremo sem-
pre ricorrere a cociuto e non a cotto; diremo perciò « Quell'os-
servazione mi era molto cociuta », « Figure eimili sarebbero co-
ciute a tutti». Un esempio da Villa Beatrice dfCicogn,ani: « L'e-
sclusione aveva cociuto alla signora Isabella ».
Qualcuno mi obietterà: cociuÌo, ma che brutto participio! A
me però sembra che anche rincresciuto non scherzi (e rimando
a quel eh~ dirò tra poco per il procombuto ).

Provvisto e provveduto.
Provvisto e provveduto sono entrambi participi passati di prov-
vedere. Ma hanno usi particolari. Provveduto si usa sempre
nei tempi composti del verbo quando questo ha valore intran-'
sitivo: « Ho provveduto a prendere tutto l'occorrente»; ma con
valore transitivo, le due forme si alternano: « Lo avevo prov-
visto di tutto » e « Lo avevo -provveduto di tutto ». Provveduto,
poi, come aggettivo, è il solo usato nel significato di prepa-
rato a capire, a operare, colto, esperto, accorto. « I lettori piu
provveduti » di un libro sono quelli meglio preparati a capirlo,
i piu colti; un «uomo provveduto» è un uomo abile, accorto,
esperto a fare qualche cosa. Il suo contrario è sprovveduto, ag-
gettivo di cui oggi 'forse si abusa, ma che serve spesso eufemisti-
camente a evitare la parola « ignorante».

Riflesso e riflettuto.
Sono entrambi participi passati del verbo riflettere, ma hanno
un significato completamente diverso l'uno dall'altro. Si dice ri-
flesso nel primo significato, usato nella fisica, di « respinto »,
« rimandato indietro>>; quindi, « raggi riflessi», «luce riflessa>>;
si dice invece riflettuto nel secondo significato di « pensato »;
quindi, « ho riflettuto a lungo», « dopo aver riflettuto ».
Si noti poi che il verbo riflr:ttere ha anche due forme di pas-
sato remoto: riflessi, nel primo significato: « Lo specchio rifles-
se un raggio di sole»; riflettéi, nel secondo significato: « Ri-

209
flettéi a lungo prima di decidere». Vero è che non sempre, nel-
l'uso, questa distinzione viene rispettata, si che la seconda for-
ma, riflettéi, ecc. si incontra spesso anche nel primo significa-
to: « Lo specchio rifletté un raggio di sole».

Procombuto, soccombuto, incombuto ...


<i Uno prende la penna in mano e subito comincia ad assillarsi»:
cosf press'a poco si lamentò con me un bravo studentello di do-
dici anni, che da qualche tempo era « assillato » appunto dalla for-
mazione di certi participi passati intorno ai quali grammatiche
e dizionari o tacciono o dicono le cose a mezza bocca. I parti-
cipi del mio ragazzo erano quelli dei verbi incombere e soccom-
bere; ma io voglio subito aggiungere che sono molti di piu; e
metto in fila, cosi come mi vengono alla mente, i verbi pro-
combere, pendere, spandere, stridere, mescere, splendere, ri-
splendere, fendere e chi sa quanti altri. Come fanno nel partici-
pio questi verbi? Ovviamente, come tutti gli altri verbi della
seconda coniugazione she hanno il participio passato in -uta:
quindi, procombuto, ' penduto, spanduto, striduto, mesciuto,
splenduto, risplenduto, fenduto, e di conseguenza anche incom-
buto e soccombuto.
So già che tutti arricceranno il naso e diranno che sono orri-
bili. Può essere; ma solo perché non abbiamo fatto mai l'orec-
chio a queste forme verbali; tuttavia corrette sono, non ci son
santi; e fanno male, malissimo i dizionari e le grammatiche a
ignorarle, e peggio a dire che non esistono affatto. La verità è,
ripeto, che a certi suoni bisogna abituarsi, come ci siamo abi-
tuati a suoni non meno brutti come quelli dei participi per-
duto, creduto, caduto, bevuto, riflettuto, piovuto, giaciuto, com-
battuto, taciuto, temuto, piaciuto, cresciuto, rincresciuto, e via
all'infinito. Si cominci a usare soccombuto, incombuto e penduto
e alla fine il naso non lo arricceremo piu.
Esempi di questi « brutti » participi non mancano, soprattut-
to presso gli antichi, ma neppure i moderni li hanno sempre
ignorati. Non ho il tempo di fare uno spoglio accurato e neppu-
re sommario, ma un paio di esempi li ho qui sottomano. La
compianta Manzini, parla di occhi « vischiosi nella palpebra
appena fenduta»; Salvatore di Giacomo, invece, preferiva dire
che il tempo « aveva fesso» la roccia: dalla padella nella brace.

210
Il D'Annunzio usò moltissime di queste forme; una per tutte,
dalla Canzone per la tomba di Giosue Carducci: «Necessità
del fuoco, hai risplenduto! ». Capisco che un ragazzo di dodi-
ci anni rifacendosi a questi esempi letterari potrebbe andare
incontro, nel migliore dei casi, a un fregaccio rosso dell'inse-
gnante; ma per uno scolaro c'è sempre modo di evitar questi ri-
schi. Nel vocabolario italiano c'è tanta mai varietà di parole e di
forme che resta solo l'imbarazzo della scelta: « Il sole ha ri-
splenduto tutto il giorno»: diciamo che «ha brillato» e siamo
a posto; « Il tale è soccombuto al dolore»: diciamo che «ha ce-
duto» e diremo lo stesso; « Il vino s'era spanduto a terra»:
facciamo che si sia « spanto» o « sparso» e torneremo in pa-
ce. Però i dizionari smettano di dar l'ostracismo a questi parti-
cipi.

Passato prossimo e passato remoto.


Anche questa del passato prossimo e del passato remoto è
una faccenda seria. È proprio vero che l'uso di questi due
tempi divide l'Italia in Nord e in Sud, come dice il gram-
matico Emilio Peruzzi. L'Italia settentrionale, nei suoi dialetti,
conosce soltanto il passato prossimo: «ho fatto», «ho detto»;
l'Italia meridionale preferisce di gran lunga il passato remoto,
e la Sicilia, anzi, usa nel suo dialetto solo questo tempo:
« feci , « dissi >>. Ma questi due tempi del verbo hanno una loro
precisa ragione d'essere. Essi esprimono, si, e l'uno e l'altro,
un'azione compiuta nel passato; ma il passato prossimo esprime
un'azione passata e tuttavia ancora in relazione col presente,
una relazione, direi, di effetti e di affetti ( « Ieri a Roma è
avvenuto un fatto strano»; « I Romani ci hanno tramandato
una civiltà imperitura »; « Mio fratello è partito tre anni fa e
non mi ha dato ancora sue notizie » ); il passato remoto, invece,
esprime un'azione passata, ma sentita come a sé stante, senza
relazione alcuna col presente ( « Nel 79 d.C. avvenne la terri-
bile eruzione del Vesuvio»; «I Romani combatterono contro
i Sanniti »; « Mio fratello parti che aveva solo nove anni » ). Si
capisce che questa relazione o no col presente risulta chiara
solo in un contesto completo, dove appare evidente il senti-
mento di chi parla o scrive. Ma è ovvio che il passato prossimo
è obbligatorio tutte le volte che l'azione è collocata nel mo-

211
mento attuale: « Ieri a Roma è avvenuto un fatto strano >~,
« Quest'anno ho passato un buon Natale, l'anno scorso lo pas-
sai malissimo ».

I famosi servili.
Spesso spesso debbo rispondere a domande sull'uso dell'ausiliare
essere o avere coi verbi servili dovere, potere, volere, quan-
do questi sono posti a servizio dèll'infinito di un altro ver·
bo. Si deve dire Sono dovuto andare oppure Ho dovuto andare?
Anche qui, naturalmente, la grammatica ha fissato la sua brava
regoletta, che dice: i verbi servili dovere, potere e volere assu-
mono, nei tempi composti Io stesso ausiliare (essere o avere)
richiesto dal verbo all'infinito con cui si accompagnano. Perciò
bisogna dire: « Io sono dovuto andare», perché si dice «io sono
andato»; ma « Io ho dovuto parlare », perché· si dice «io ho par-
lato ». C'è un esempio del Manzoni che sembra fatto apposta
per fissar questa regola: «Non ha mai voluto mangiare, non
è mai voluta venire ... »: è la vecchia, messa a guardia di Lucia,
che parla all'Innominato (cap. XXII). Il Manzoni ha detto «non
ha mai voluto mangiare» perché il verbo mangiare richiede l'au-
siliare avere (« ho mangiato » ), ma ha detto « non è mai vo-
luta venire» perché il verbo venire richiede l'ausiliare essere
( « sono venuto »). Un altro esempio, del Leopardi: « Una pic-
cola parte del genere umano non è potuta altrimenti pervenire
al presente stato civile, se non dopo una quantità innumere-
vole di secoli». Il Leopardi ha detto « non è potuta pervenire »
perché anche pervenire, come prima venire, esige l'ausiliare es-
sere ( « sono pervenuto » ). La regoletta è dunque molto sem-
plice e va, in via generale, seguita.
Sovente però avviene questo: che essendo i verbi dovere,
potere e volere per natura transitivi, e richiedendo pertanto
l'ausiliare avere quando sono usati come indipendenti (per es.
« avresti dovuto », « non ho potuto », « avrei voluto » ), avviene,
dico, che chi parla o scrive sia portato a usarli in ogni caso
con l'ausiliare avere anche quando sono in funzione di servili,
e senza tenere in nessun conto il verbo che essi servono. Sem-
. pre piu frequenti perciò si incontrano, anche presso ottimi
scrittori, frasi come « ho voluto andare», «ho dovuto restare »
che, a norma di grammatica, dovrebbero sonare « sono voluto

212
andare», «sono dovuto restare». E questo accade quando par-
lando o scrivendo si sente il bisogno di sottolineare il concetto
di dovere, di possibilità, di volontà espresso dal verbo, senza
badare all'infinito che segue. Lo stesso Manzoni trasgredf, per
questo fine, la regola generale. Eccone due esempi: «Essa ha
dovuto partir di nascosto dal suo paese»; «Ho voluto venire
anch'io a vedere i fatti miei ». L'uso, che tende ovviamente alla
semplificazione, ricorre piu frequentemente all'ausiliare avere;
ma è certo· raccomandabile, specialmente a chi non ha autorità
di scrittore, di attenersi sempre, come sopra ho detto, alla re-
gola generale.
Una piccola aggiunta, di cui di solito non si occupano le gram-
matiche: quando il verbo all'infinito è essere che servile usere-
mo? diremo cioè « Son voluto essere presente anch'io» oppure
«Ho voluto essere presente anch'io »? Rispettiamo anche qui la
regola: come si dice sono stato e non «ho stato», diremo << Son
voluto essere presente anch'io».

« È piovuto » o « ha piovuto »?
La grammatica insegna che con i verbi impersonali indicanti
condizioni atmosferiche o celesti (tali appunto piovere, grandi-
nare, nevicare, fioccare, diluviare, tonare, balenare, lampeggiare,
annottare, albeggiare, ecc.) l'ausiliare da usarsi, come con
tutti i verbi impersonali in genere, è il verbo essere. Chiarisco
che si chiamano impersonali quei verbi che esprimono un'azio-
ne o una condizione non attribuibile a persona o a cosa deter-
minata. Cosf dunque, come diciamo « era accaduto che si faces-
se notte », « gli è sembrato che volessi parlargl{ », dovremo dire
anche « oggi è piovuto a dirotto », « era appena albeggiato »,
« è nevicato sui monti », e via di seguito.
Anche il Manzoni, infatti, usò questo ausiliare: « Come se
fosse grandinato» (cap. XXXIII dei Promessi Sposi); «Non era
mai spiovuto» (cap. XXXVII). Questa la regola. Ma la stessa
grammatica subito aggiunge: tuttavia nell'uso, che sempre piu va
affermandosi in ogni regione meno forse che in Toscana, con que-
sti particolari verbi impersonali indicanti fenomeni atmosferici si
preferisce ormai il verbo ausiliare avere; perciò piu comune-
mente si sente dire «ha piovuto», « aveva appena albeggiato»,
« avrà nevicato in montagna », « mi pareva che avesse tonato » e

213
simili. E questo accade perché chi parla si crea inconsciamente
un soggetto che compie l'azione, in questo caso un soggetto
che può essere il cielo, il tempo o qualcosa di simile, come se
si dicesse insomma « oggi il cielo ha piovuto a catinelle » . In
conclusione, senza tanto sottilizzare, si può dire che tutt'e due
gli ausiliari sono ammessi, e che « ha piovuto » o « è piovuto »
sono entrambe forme corrette.
Indici
Indice analitico

abbraccionissimi, 155 alcòlico, 110


a.C. (= avanti Cristo), 49 alcolismo, 110
accento: obbligatorio, facoltativo, allevare, 195
inutile o sbagliato, 21-22; acu- alleviare, 195
to e grave, 29-31; circonflesso, allocutivi (pronomi), 166-169
28; fònico, 23; sui composti di altoforno, 118
tre, come ventitré, 25; sui com- altopiano, 118
posti di che, come perché, 26; altorilievo, 118
su alcune voci del verbo dare, Alto Volta, 90
24-25; sull'avverbio su, 27 altroché, 26
accentuare, 197 amàlgama, 71
accordissimo, 155 ambage, 72
acèrrimo, 154 ambasciatore, 93-96
acquaforte, 119 ambasciatrice, 94
acquavite, 125 amico, 105
acre (superlativo di), 154-155 ammobiliare, 195
acrfssimo, 154 àmpio (superlativi di), 154
affarissimo, 155 analcolico, 11 O
affattissimo, 182 anche (elisione di), 63
affatto, 181-182 andare (imperativo di), 198-200
aggettivi accoppiati del tipo itala- anello, 129
americano (plurale degli), 124 annottare, 213-214
aggettivi dimostrativi (questo, co- anti- (composti col prefisso), 86
desto, quello), 157-158 antialcolico, 110
aggettivo, 151-159 antibecco, 86
agognare, 197 anticamera, 86, 121
agrodolce, 119 anticarica, 86
ahimè, 26 antidatazione, 86
albeggiare, 213-214 antifumo, 86
albo, 128 antipasto, 86
album, 128 antiporta, 86
àlcole, 11 0-111 antiporta, 86

217
antiscalo, 86 attuare, 197
antropòfago, 107 audacia, 104
Aosta, 90 auditorio, 128
apologo, 106 auditorium, 128
apostrofo, 57-67; davanti ai nu- augurissimi, 155
meri, 188; in fin di riga, 64-67; ausiliare coi verbi servili, 212-213;
nei millesimi, 188; nell'elisio- coi verbi impersonali, 213-214
ne, 59-60 autogru, 26
apparire, 203 automòbile, 73-77
aprico, 105 autosilo, 116
a propositissimo, 155 avverbio, 181-184
Aquila (!'), 143-144 avviare, 195-196
arancio, arancia, 72 avvocata, 95, 98
archeologo, 104, 107 avvocatessa, 95
arcobaleno, 119 avvocato, 9.3-98
arlecchino, 89
armadio, 107
articolo, 135-148; uso dell'apostro- baciamano, 120
fo nell', 57-61; davanti a i se- baciapile, 120
guita da vocale, come iodio, baciare, 196
iato, 137-138 ; davanti ai nomi bàcio, 107
propri femminili e maschili, bado, 107
145-146; davanti ai nomi stra- bacissimi, 155
nieri, 139-143; davanti al no- bagattellissima, 155
me plurale dèi, 138-139; nei balenare, 213-214
topònimi del tipo la Spezia, banconota, 119
143-144; nel titolo di opere, bar, 127
giornali, enti e sim., 144-145 barbarie, 108-109
articolo li nelle date, 148 barbèra, 77
articolo partitivo, 147 bassofondo, 118
ascia, 104 bassopiano, 118
asciugamano, 120 bassorilievo, 118
asma, 73 battipanni, 119
aspàrago, 105 battistrada, 120
aspèrrimo, 154 bauxite o baussite, 16
aspirapolvere, 120 bdèllio, 135
asprissimo, 154 bello (plurale di), 112-113; (elisio-
aspro (superlativi di), 154-155 ne di), 113
assassinio, 107 Belvedere Marittimo, 91
assassino, 107 benché, 26; elisione di, 63
assisa, 112 benedire, 205-206
assise, 111-112 beneficentissimo, 159
Assisi, 91 beneficio, 107, 108
Asti, 90 benèfico, 107, 108; superlativo di,
astrologo, 107 158-159

218
benevolentissimo, 159 capogruppo, 121
benèvolo (superlativo di), 158• capolavoro, 121, 122
159 capolinea, 121
biancospino, 117, 118 capomacchinista, 122
bifolco, 105 capoposto, 122
bfgia, 104 caporedattore, 122
bisaccia, 104 caporeparto, 122
Bixio, 16 caposaldo, 119, 125
boccaporto, 119 caposcarico, 119
bolgia, 104 caposervizio, 122
Bòrmida, 89 caposezione, 122
budello, 129 caposquadra, 93 , 122
bugia, 104 capostazione, 93, 121-122
capotamburo, 121
capotecnico, 122
cacciavite, 120 capotreno, 93, 122
cachi (colore), 113-114 capoturno, 93, 122
cachi (pianta e frutto), 113-114 capoverso, 122
caiaco o kalak, 16 capufficio, 93
Cairo (il}, 91 caractil o karakul, 16
calcagno, 129, 130 carcere, 114
calciare, 195 carie, 108-109
callifugo, 107 carro-bestiame, 123, 124
calpestio, 107 carta-carbone, 124
calvizie, 108-109 cartapècora, 119, 125
Cambogia, 90 cartapesta, 119
camicia, 104 casa-asilo, 124
camion, 127 casamatta, 119
campionissimo, 155 Caspio, 90
Canadà, 90 cassaforte, 119, 125
cane-poliziotto, 124 cassapanca, 119, 125
canizie, 108-109 cavalcavia, 120
Canzonissima, 155 celebèrrimo, 154-155
capo- (nomi composti con), 121- celebre (superlativo di), 154-1.5.5
122 cellofàn, 79-80
capòc o kapoc, 16 centro-meridionale, 124
capoclasse, 93, 122 cervello, 80"81
capocomico, 122 chalet, 140
capocronista, 122 champagne, 140
capocuoco, 122 Champs-Elysées, 140
capodanno, 122 che, cong. e pronome, 22; prono-
capodivisione, 122 me relativo, 177-178; eliso in
capofabbrica, 122 ch', 63-64
capofamiglia, 122 =
ché ( perché), 22
capofila, 122 chef, 140

219
Chénier, 140 copricapo, 117, 120
chepi o képi, 16 coprifocone, 117
chèque, 140 coprifuoco. 117, 120
cherosene o kerosene, 16 coprigiunto, 117
chiaroscuro, 119 copriletto, 117
chiffon, 140 copripunto, 117
chimono o kimono, 16 cordiàl, 127
chi per esso, 165, 168 corno, 130
chirurgo, 104-106 corrimano, 120
chissà, 26 costà, costi, 182-183
choc, 140 Costa Rica, 90
-eia (plurale dei nomi in), 103- costi, costà, 182-183
104 cotesto, v. codesto
ciglio, 129 cotto, part. passato di cuocere,
ciliegia, 104 208-209
ciò, 24 cow-boy, 127
Cipro, 90 crimine, 129
circonflesso (accento), 28 cronista capo, 122-123
claxon o klaxon, 16 Csanto o Xanto, 16
Cnidio, 135 ctònio, 135
-co (plurale dei nomi in), 104-107 cui, 175-176
cociuto, part. passato· di cuocere, cuocere (coniug. di), 208-209
208-209 curricolo, 128
codesto o cotesto, 157-158 curriculum, 127-129
cognac, 127 custode, 96
colà, 182
collotorto, 119
Colombia, 89 da (prep.), 2?.
commesso capo, 122-123 dà, dai, da' (imperativo di dare),
Como, 91 22, 24, 198-200
conciliare (verbo), 195 d'accordissimo, 155
condominio, 107 dare, 24-25, 198-200
condòmino, 107 d.C. ( = dopo Cristo), 49
conduttore, 93 decreto-catenaccio, 123, 124
coniuge, 96 dèi (plurale di dio), 138-139
consigliere capo, 122-123 deputata, 95, 98
consonanti straniere, 15 deputato, 95, 98
continuare, 197 dessi (voce del verbo dare), 198
contrabbando, 121 deteriore, P3-154
contraddire, 205-206 di (prep.), 22
contralto, 88 di' (imperativo di dire), 22, 198-
contrordine, 121 200
co·1tumacia, 104 di ( = giorno), 22, 200
convenire, 206-207 dialogo, 105-106
copribusto, 117, 120 diluviare, 213-214

220
Dio, dio, 11, 138-139 esatto, part. pass. di esigere, 201-
diòspiro, 113 202
dipintore, 94 esclamativo (punto), 49-50
dire: imperativo di, 198-LùO; esempio, 107
composti di, 205-206 esigere, 201-202
direttissima, 155 esòfago, 107
direttore, 98-99, 107 èssere (verbo aus.), 212, 213-214
direttorio, 107 esso (pron.), 164-166, 168
direttrice, 98-99 estra- invece di extra-, 17
disdire, 205-206 Etna, 91
disfare, 204-205 étude, 141
dito, 129 evacuare, 197
dittonghi mòbili, 41-42 ex-, prep., 17
dittongo, 36, 105 extra- mutato in estra- 17
divenire, 206-207
divisione sillàbica delle parole,
35 fa, fai, fa' (imperativo di fare),
Dizionario Enciclopedico Italia- 24, 198-200
no, 25, 80 fabbroferraio, 119, 125
donna-cannone, 124 -fago (nomi terminanti in), 107
DOP (Dizionario d'ortografia e falsariga, 119
di pronun2lia), 25, 71, 78, .80, fantastico, 105
118 fare: composti, 204-205; forme
dopopranzo, 121 dell'imperativo, 198-200
dormente e dormiente, 207-208 farmacia, 104
dormiveglia, 120 fàrmaco, 104-106
dottoressa, 94 fascia, 104
dovere (verbo servile), 212-213 fascio, 107
due punti, 47-4.8 febbrifugo, 107
femminile dei nomi professionali,
91-99
e (cong.), 22; collocazione della fendére, 210
virgola prima della, 51 ferocia, 104
è (verbo), 22 ferrovia, 119
effigie, l 08 ferroviera, 92
egli, 164-165 ferroviere, n
elisione, 59; di bello, 113; di che, fiducia, 104
63-64; di grande, 156-157; di fila, 131-132
tutto, 62-63 film, 126, 127, 128
ella, 164-165; pronome allocuti- filo, 131-132
vo, 166-167, 16.8-169 filòlogo, 106, 10/
epilogo, 106 finalissima, 155
equivoco, 105 fioccare, 213-214
èrcole, 89 Firenze, 90
errata-còrrige, 82 fleur, 141

221
francobollo, 118 -go {plurale dei nomi in), 104-107
franco-tedesco, 124 goccia, 104
frangia, l 04 gol, 127
-frego (nomi terminanti in), 107 gonna-pantalone, 124
frèisa, 77 governo-fantasma, 124
frettissima (in), 155 graduare, 197
frutto, 129, 130 graffiare, 195
ftalato, 135 grande {elisione e troncamento
fuggifuggi, 120 di), 156-157
fuoco, 105 grandinare, 21.3-214
fuorché, 26 grattacapo, 117, 120
fuoribordo, 121 greco, 105
grido, 1.31
grigia, 104
gala, 82-8.3 grigioverde, 119
gambissima (in), 155 grillotalpa, 119
Garda, 90 grugnire, 197
garzonissima, 155 guardaroba, 84-85, 120
gattamorta, 119 guardarobiere, 85
generalissimo, 155 guardasigilli, 119
genere del neutro latino italianiz- guastafeste, 120
zato, 142 Guatemala, 89, 90
Gènesi, 84 guerra-lampo, 123, 124
geogràfici (nomi), v. nomi
gesta, 115
Ghana, 89, 90 h aspirata {articolo davanti a no-
-gia (plurale dei nomi in), 10.3- mi stranieri comincianti con),
104 140-141
già, 24 h muta (articolo davanti a nomi
giacca-fantasia, 124 stranieri comincianti con), 140-
giacché, 26 141
giacere (coniug. di), 200-201 handicap, 141
ginocchio, 129 hangar, 141
giudice, 96-97 Hegel, 141
giudicessa, 96-97 Heine, 141
giudizio, 107 Hemingway, 141
gli (art.), 1.35-148; quando si apo- Hernandez, 141
strofa, 64 hidalgo, 141
gli { = a loro), 171-17.3 Hinterland, 86, 141
gn- {articolo davanti a), 135-148 hobby, 141
gnaulio, 136 Hoche, 141
gnocco, 135-137 hotel, 141
gnomo, 1.36 Hugo, 141
gnorri, 136 Humboldt, 141
gnòstico, 136 humor, 141.

222
i (art.), 135-148 Iònio o Jònio, 16
i- seguita da vocale (articolo da' ipnosi (divisione in sfllabe), 37
vanti a), 137-138 iprite o yprite, 17
-fa (plurale dei nomi femminili ipsilon (divisione in slllahe), 37
in), 104 italo-americano, 124
iamatòlogo o yamatòlogo, 17 iucca o yucca, 17
iarda o yard, 17 Iugoslavia o Jugoslavia, 16
iatagan o yatagan, 17 iugoslavo, 138
iato, 36, 138 iunior o junior, 16
Iddio, 138-139 iuta o juta, 16
-ie (nomi con terminazione in),
108-110
-iènte (part. presente in), 20t- ] , 15-16; articolo con le parole
208 straniere comincianti con, 140
lesi o Jesi, ·16 Jàcono, 16
iettatore, 13 7, 138 jazz (articolo con), 140
il (art.), 135-148 Jesi o lesi, 16
imperativo di dare, dire, stare, jet (articolo con), 140
fare, andare, 198-200 jockey (articolo con), 140
impersonali (verbi), uso dell'au- jodio o iodio, 16
siliare, 213-214 Jònio o Iònio, 16
incombere, 210-211 Jugoslavia o Iugoslavia, 16
indire, 205-206 jumbo (articolo con), 140
Infimo, 152-153 junior o iunior, 16
in frettissima, 155 juta o iuta, 16
in gambissima, 155
iniziare, 195
integèrrimo, 154-155 K, 15-16
integrissimo, 154-155 kaiak o caiaco, 16
Integro (superlativo di), 154-155 kaki o cachi, 16
interdire, 205-206 kapok o capòc, 16
interpunzione (segni di), 45-53 karakul o cararul, 16
interrogativo (punto), 49-50 Kenia, 90
intervenire, 206-207 képi o chepf, 16
intervista, 121 kerosene o cherosene, 16
Intimo, 152-153 kimono o chimono, 16
intrinseco, 106 klaxon o clacson, 16
-io àtono (nomi terminanti in)
107-108
-io tònico (nomi terminanti in), la (art. e pron.), 22
107-108 là (avv.) 22, 182
iodio o jodio, 16, 137-138 ladie (nome inglese), 127
ioga o yoga, 17 lampeggiare, 213-214
iogurt o yoghurt, 17 lapis, 128
iole o yole, 17 largo, 105

223
lasciare, 196 maledicentissimo, 159
lassu, 26 maledire, 205-206
làstrico, 105 maleficentissimo, 159
Laterza (editore), 31 malèfico (superlativo di), 158-
leggio, 107 159
legislatore (divisione in sillabe}, malevolentissimo, 159
36-37 malèvolo (superlativo di), 158-
lei, 164-165; pronome allocutivo, 159
166-167, 168-169 mangiare, 196
lenzuolo, 129, 130 manico, 105
li (art. e pron.), 22; articolo plu- -mano (plurale dei composti con),
rale nelle date (li 5 gennaio e 120
sim.), 148 marrone (colore), 115-116
H (avv.), 22, 182 marsala, 77
Lidia o Lydia, 17 martire, 107, 108
lo (art.), 24, 135-148 martirio, 107, 108
lo (pronome} unito a una forma mazurca, 113
del verbo essere, del tipo lo me, 24
sono, lo erano e sim., 169-171 mecenate, 88-89
-logo (plurale dei nomi terminan- medichessa, 94
ti in), 107-108 medico-fiscale, 124
lombrico, 105 medium, 85
Loreto Aprutino, 91 meglio, 151-152
loro (pron.), 164-165 melagrana, 119
loro ( = a loro), 171-173 Mella, 90
lotòfago, 107 membro, 130
lui, lei, loro, 164-165 mémoire, 141
Luna o luna, 12 meinorando, 128
lungarno, 121 memorandum, 127-129
lungofiume, 121 méscere, 210
lungolago, 121 mezzalana, 119
lungomare, 121 mezzaluna, 119
lungopò, 26 mezzamanica, 119
lungotevere, 121 mezzanotte, 119
Lydia o Lidia, 17 mezzatinta, 119
mezzobus'to, 119
mezzogiorno, 118
madreperla, 119, 125 mezzosangue, 119
madrevite, 125 mezzosoprano, 88
maestra, 94 miccia, 104
magnificentissimo, 159 mfcia, 103, 104
magnifico (superlativo di), 158- migliore, 151-152
159 Milano, 90, 91
maiuscola (iniziale), nei nomi co- mille, 190
muni, 11 ministra, 95

224
ministressa, 96 nomi stramert (Jtalianizzazione
ministro, 95 dei), 16-17; (articolo coi), 139-
minuscola (iniziale), nei nomi 143
propri, 13 nomi (plurale dei): in -eia e -gia,
Miriamo Myriam, 17 103-104; in -co e -go , 104-107;
miserissimo, 154-155 in -ie (come serie), 108-110; in
misero (superlativi di), 154-155 -io àtono (come bacio), 107-
misènimo, 154-155 108; in -io tònico (come bacio),
mnemonismo, 135 107-108; in -fago, 107; in -fugo,
Mondovi, 90 107; in -lago, 107-108; femmi-
monologo, 106 nili in -ia, 104; composti, 117-
Montecatini Alto, 91 122; composti con capo- (come
MSI, 137 capostazione, capolavoro), 121-
mugghio, 107 122; composti con -mano (come
munificentissimo, 159 baciamano), 120; accoppiati
muro, 129 come ragazzo-prodigio), 123-
Myriam o Miriam, 17 124; del tipo redattore capo,
122-123; terminanti in conso-
nante (come film), 126-127
natio, 107 nomi (superlativo dei), 155-156
nave-traghetto, 124 nontiscordardimé, 26
qe (pron. e avv.), 22 nos talgla, l 04
né (cong.), 22 notaia, 95
nerofumo, 118 notaio, 95
neutro latino (genere italiano del), numeri, 187-191; in cifre o in
142 lettere? 187; nelle date, 188;
nevicare, 213-214 ordinali in -èsimo, 188-189;
nevralgia, 104 composti del tipo quattrenne
nipote, 96 e sim., 189; cardinali composti ·
no, 24 con -uno e -otto, 189-190; con-
nomi comuni con iniziale maiu- cordanza dei composti con -uno,
scola, 11-13 190-191
nomi di enti, società, palazzi, ecc.,
14; di vie, piazze e sim., 14
nomi di genere comune, 96
nomi geografici (iniziale nei), 15; occasionissima, 155
(genere dei), 89-91 olio, 107
nomi latini del tipo memoran- opera omnia, 142
dum, 127-129 oratore, 107
nomi professionali femminili, 91- oratorio, 107
99 orecchio, 130
nomi propri con iniziale minusco- orgia, 10.3, 104
la, D orologio-calendario, 124
nomi sovrabbondanti, 80, 129- orto-floro-frutticolo, 124
132 osso, 129

225
-otto (numeri cardinali composti piacere (coniug. , di), 200-201
con), 189-190 pianoforte, 119
Oxilia, 16 Piave, 90
piè, 24
pigliare, 195
padronissimo, 155 pintore, 94
palazzo-alveare, 124 pio, 107
palcoscenico, 119 piovere (uso dell'ausiliare con),
palio, 107 213-214
palo, 107 Pireo, 91
Panamà, 90 Pistoj, 16
pancia, 104 pittore, 94
pappagallo, 89 pittrice, 94
parafango, 120 piu, 24
paramano, 120 piu bene, 151
parapiglia, 120 plurale: dei nomi in -io àtono
parroco, 105, 106 (come bacio), 29, 107-108; dei
participio passato in -uto, 210- nomi in -io tònico (come bacio),
211 107; dei nomi femminili in -ia,
part!Clplo presente dei verbi in 104; dei nomi in -ie (come se-
-ire (doppie forme), 207-208 rie), 108-110; dei nomi in -eia
passaporto, 120 e -gia, 103-104; dei nomi in -co
passatempo, 120 e -go, 104-107; dei nomi in
passato (di patate), 82 ·fago, 107; dei nomi in -fugo,
passato pro~simo (suo uso); 211- 107; dei nomi in -logo, 107-108;
212 dei nomi sovrabbondanti, 129-
passato remoto (suo uso), 211-212 132; dei nomi in consonante,
peggio, 151-152 tipo film, bar e sim., 110, 126-
peggiore, 151-152 127; dei nomi latini, tipo me-
pellerossa, 119, 125-126 morandum, 127-129; dei nomi
pèndere, 210 composti, 117-122; dei nomi
pensée, 141 composti con capo- (come ca-
perché, 26; elisione di, 63 postazione, capolavoro), 121-
pèrdere, 203 122; dei nomi composti con
perditempo, 120 -mano (come baciamano), 120;
per es. ( = per esempio), 49 dei nomi del tipo redattore ca-
persistere, 203 po, 122-123; dei nomi accop-
personificazione dei nomi comuni, piati del tipo romanzo-fiume,
11 123-124; degli aggettivi accop-
per tempissimo, 155 piati del tipo itala-americano,
pescecane, 119 124
pesceluna, 119 pn- (articolo davanti a), 135-148
pesce-pilota, 124 pneumatico, 135, 137
pescesega, 119 poiché, 26
pescespada, 119 polca, 113

226
pomodoro, 126 psichiatra, 137
portabandiera, 120 psicologismo, 136
portacenere, 120 psicologo, 106, 107,.135, 137
porta-finestra, 123, 124 psicomante, 137
portafrutta, 120 psillio, 136
portapenne, 120 PSIUP, 137
potere (verbo), 212-213 pterigio, 135
pover'uomo, 61 pterodàttilo, 135, 137
pratico, 105 pudico, 105
predire, 205-206 pugnare, 197
prefissi, 36 punteggiatura, 45-53
prèmere, 195 punti sospensivi, 50-51
premiare, 195 punto esclamativo, 49-50
preside, 96 punto e virgola, 47
prevenire, 206-207 punto fermo, 49; nei simboli, 52
principe, 107, 108 punto interrogativo, 49-50
principio, 107, 108 punto (avverbio e aggettivo), 183-
procombere, 210-211 184
professoressa, 94 purè, 81-82
prologo, 106 purosangue (plurale di), 119
pronomi, 163-178
pronomi dimostrativi (questo,
codesto, quello), 157-158 qua, 24, 182
qual altro, 59
pronomi personali, tu, te, 163-
qualche (elisione di), 63
164; egli, ella, esso, essa, essl,
qual è, 59
esse, 164-166, 168; lui, lei, lo-
ro, 164-166, 168; allocutivi quarantatré, 25
(lei, ella), 166-167, 168-169;
quassu, 26
quegli, questi (pronomi persona-
gli per loro, 171-173; questi,
li singolari), 174
quegli, 174
quello, 157-158
pronuncia (plurale di), 104
questi, quegli (pronomi personali
propositissimo (a), 155
singolari), 174
proprio e suo, 173-174
questo, codesto, quello, 157-158,
prossimo (agg.), 153
qui, 24, 182
provenire, 206-207
provincia (plurale di), 103-104
provvedere, 209 ragazza-squillo, 124
provveduto, part. passato di prov- ragazzo-prodigio, 124
vedere, 209 raggio, 107
provvisto, part. passato di prov- ragionièra, 94
vedere, 209 re, 24
ps- (articolo davanti a), 135-148 reciproco, 105, 106
pseudolegista, 136 redarre, 202
pseudonimo, 136-137 redatto, part. pass. di redigere,
PSI, 137 201, 202

227
redattore capo, 122-123 Ruanda, 90
redfgere, 201-202 russo-franco-tedesco, 124
referendo, 128
referendum, 127-129
règia, 104 s impura (articolo davanti ·a), 135-
Rèjna, 16 148
restio, 107 sacrosanto, 119
retro- (composti col prefisso), 86- saliscendi, 120
87 salubèrrimo, 154-155
retroaltare, 86 salubre (superlativo di), 154-155
retrobocca, 86 salutissimi, 155
retrobottega, 86-87 salvagente, 120
retrocàmera, 86 salvatico, 105
retrocamino, 86 San Marino, 91
retrocàrica, 86 sarcòfago, 106-107
retrocessione, 86 sbagliare, 195
retrofèudo, 86 sbirro, 135, 137
retrofrontespizio, 86 se- (articolo davanti a), 135-148
retroguardia, 86 scemo, 137
retrogusto, 86 sch- (articolo davanti a parole
retromarcia, 86 straniere comincianti con), 140
retrosapore, 86 schiaccianoci, 120
retroscena, 86-87 Schiller, 140
retrostanza, 86 sciacallo, 135
retroterra, 86, 121 sciocchezzaio, 136
retrovia, 86 scioglilingua, 120
retrovisore, 86 scolaro, 137
riavere (coniugaz. di), 200 sconto, 140
ridire, 205-206 scudo, 135
riepilogo, 106 sdegno, 137
riflesso, part. passato di riflètte- se (pron. àtono e cong.), 22
re, 209-210 sé (pron. tònico), 22
riflèttere, 209-210 sedere (verbo), 203
riflettuto, part. passato di riflètte- segnalibro, 120
re, 209-210 segnalinee, 120
risolto, p art. pass, di risò! vere, segni di interpunzione, 45-53
203 sé medesimo, 27
risoluto, part. passato di risòlvere, senatore, 94-95
203 senatrice, 95
risòlvere {coniug. di), 203 senofobia o xenofobia, 16
risplendere, 210, 211 senòfobo o xenòfobo, 16
Roma, 90 serie, 108-109
romanzo-fiume, 123-124 serograffa o xerograffa, 16
rompicollo, 120 servili (verbi), 212-213
rossoblu, 26 sé stesso, 22, 27

228
sh- (articolo davanti a parole sottoscala, 121
straniere comincianti con), 140 sottufficiale, 121
Shakespeare, 140 sovrabbondanti {nomi), 80, 129-
sha~poo, 140 132
Shelley, 140 sovrano, 87
show, 140 spàndere, 210
si (pron.), 22 spazio; 107
si {avv.), 22 spazzaneve, 120
sicché, 26 speaker, 140
sillabe (divisione delle parole in), specchio, 137
35 specie, 108-110
silo, 116 spècimen, 129
silògrafo o xilògrafo, 16 specfmine, 129
silòide o x;i!òide, 17 spegnere, 197
silo1ite o xilolite, 17 spettacolissimo, 155
siloteca o xiloteca, 17 Spezia {la), 143-144
simboli, senza il punto, 52 spezie {plurale di), 109-110
sindachessa, 93-96 splendere, 210
sindaco, 93-96, 105 Spoleto, 90
sirena, 89 sport, 126, 127, 128
slip, 140 sprovveduto, 209
sobrio, 107 sta, stai, sta' (imperativi di sta·
socc6mbere, 210-211 re), 199-200
sociologo, 107 stand, 140
soddisfare, 204-205 stare, 198; forme dell'imperativo,
soggetto intensivo, 164 199-200
sognare, 197 stellissima, 155
solarium, 128 stessi (voce del verbo stare), 198
saldare, 98 stomaco, 104-106
saldata, 97-98 strafare, 204-205
soldatessa, 98 strennissima, 15 5
soldato, 97-98 str.idere, 210
Sole e sole; 12 strido, 131
solecismi, 163 striscia, l 04
solo, 156 studiare, 195
sopracciglio, 129 studio (plurale di), 107
soprammobile, 121 su, 24; accentato, 27; modificato
soprano, 87-88 in sur, 28
soprascarpa, 121 s'un (invece di su un), 28
sordomuto, 119 suo e proprio, 173-174
sòsia, 88-89 suocero (articolo davanti a), 139
sospensivi (punti), 50-51 superficie {plurale di), 108-109
sottaceto, 121 superlativo : di ampio, 154; del
sottobottiglia, 121 tipo latineggiante acèrrimo, 154-
sottocoda, 121 155; dei sostantivi, 155-156;

229
di benèfico, malèfico, benèvolo, ultimatum, 128
malèvolo, magnifico, malèdico, un, uno, una (art.), 1.35-148
munifico, 158-159 unico, 156
sur (invece di su), 28 -uno (numeri cardinali composti
surgelato, 121 con), 189-190; loro concordan-
za, 190-191
uomo-rana, 124
tacere (coniug. di), 200-201 urlo, 131
tal altro, 59 ussoricida o uxoricida, 16
tal è, 59 -uto (part. passato in), 210-211
Tanganka, 90 uxoricida o ussoricida, 16
tassi o taxi, 16
taumaturgo, 106
taxi o tassi, 16 Va, vai, va' (imperativi di anda-
te (pron.), 22, 24, 163-164 re), 198-200
tè (pianta e bevanda), 22 valchiria o walchiria, 17
tempio (plurale di), 107-108 valigia, 103, 104
ternpissimo (per), 155 valzer o walzer, 17
tempo (plurale di), 108 vanagloria, 119
teòlogo, 107 Vanda o Wanda, 17
tergo, 131 vàpiti o wàpiti, 17
Terra e terra, 12 varare, 195
terracotta, 119, 125 variare, 195
tiremmolla, 120 vegliare, 195
Todi, 90 veglionissimo, 155
tonare, 213-214 veglissima, 155
toporagno, 119 Venezuela, 90
Torino, 90, 91 venire (composti di venire}, 206-
torre-vedetta, 124 207
tram, 127, 128 ventitré, 25 '
transare, 202 verbo, 193-214; in -iare (come
transatto, part. pass. di transigere, premiare), 195-196; in -ciare,
201, 202 -giare, -sciare, 196; in -gnare,
transigere, 201-202 -gnere, -gnire, 197; in -uare,
traslate, 202-203 197-198; forme verbali dessi,
traslatare, 202-203 stessi, 198; imperativi mono-
travèt, 127 sillabici (dà, di', sta, fa, va),
-tré (numeri cardinali composti 198-200; composti di fare, 204-
con), 25-26 2'05; composti di dire, 205-206;
treno-lumaca, 124 composti di venire, 206-207;
trentatré, 25 participio presente in -ente e
troncarnento, 59; di grande in -iente, 207-208; participio pas-
gran, 156-157 sato dei verbi in -c6mbere, 210-
tu, 24, 163-164 211; passato prossimo e remo-
tutto (apostrofato in tutt'), 62 to, 211-212; servili (dovere, po-

230
t ere, volere), 212-213; ausilia- wolframio o volframio, 17
re coi verbi impersonali, 213- Wi.irstel, 141
214
vergognissima, 155 X, 15-16; articolo con parole co-
vermffugo, 107 mincianti con, 135-148
vernàccia, 77 Xanto o Csanto, 16
vestigio, 129 xenofobia o senofobia, 16
vestimento, 129 xenòfobo o senòfobo, 16
viceré, 21. xerograffa o serograffa, 16
vigile urb?na, 97 xilòfono o silòfono, 16, 137
vigilessa, 97 xilògrafo o silògrafo, 16, 135
Vilma o Wilma, 17 xilòide o silòide, 17
virgola, 45-47; prima della con- xilolite o silolite, 17
giunzione e, 51 xiloteca o siloteca, 17
volere (verbo), 212-213 Ximenes, 16
Volfango o Wolfango, 17
volframìo o wolframio, 17
Volga, 90, 91 Y, 15, 17; articolo con le parole
straniere comincianti con, 140
yacht, 140
yamatòlogo o iamatòlogo, 17
W, 15, 17; articolo davanti ai no- yard o iarda, 17
mi stranieri comincianti con, yatagan o iatagan, 17
141-143 yoga o ioga, 17
Wagner, 141 yoghurt o iogurt, 17
walchiria o valchiria, 17 yole o iole, 17
walzer o valzer, 17 yprite o jprite, 17
Wanda o Vanda, 17 yucca o iucca, 17
wàpiti o vàpiti, 17
water (articolo con), 142 Z (articolo davanti a parole co-
Weber, 141 mincianti con), 135-148
Webster, 142 zampillo, 135
week-end (articolo con), 142 Zanichelli (editore), 31
Welss, 142 zappatore, 136
west (articolo con), 142-143 zibellino, 136
whisky (articolo con), 142-143 zio, 107, 135, 137
Wilma o Vilma, 17 zolfo, 137
Wolfango o Volfango, 17 zoppo, 137
Indice degli Autori citati

Agnelli (Giovanni), 75 Bontempelli (Massimo), 28, 47,


Albertoni-Allodoli (dizionario), 71 173, 176
Aleardi (Aleardo), 145 Borgese (Giuseppe Antonio), 165
Alfani (dizionario), 71 Bréal (Miche!), 74
Alfieri (Vittorio), 152, 158, 165, Brilli (Ugo), 156
166, 176 Buonarroti il Giovane (Miche-
Alighieri (Dante), v. Dante. langelo), 73
Ariosto (Ludovico), 118, 177, 182 Buonmattei (Benedetto), 105
Arlia (Costantino), 76 Buzzati (Dino), 58
Artusi (Pellegrino), 81, 82
Calvino (Italo), 136
Camilli (Amerindo), 12, 66
Bacchel!i (Riccardo), 27, 79, 125,
Campana (Dino ), 165
136
Baldini (Antonio), 28, 64, 137, Campanella (Tommaso), 73
Cardarelli (Vincenzo), 208
173
Carducci (Giosuè), 16 24 25 31
Baretti (Giuseppe), 73, 155, 176
58, 61, 62, 77, 78, 9o, io5, '115:
Bartoli (Daniello), 136, 147, 170,
136, 137, 138, 168, 172, 176,
191
Bassani (Giorgio), 147 181
Battaglia (dizionario), 71, 77, 78, Caro (Annibale), 147, 169, 170
80, 154 Cavalca (Domenico), 206
Battisti-Alessio (dizionario), 71, 80 Cecchi (Emilio), 72, 158, 176,
Bembo (Pietro), 58, 59, 118, 135, 182, 184, 208
147, 155 Césari (Antonio), 66, 136, 172
Berchet (Giovanni), 136 Cicognani (Bruno), 164,173, 209
Berni (Francesco), 147, 182 Compagni (Dino), 165
Condivi (Ascanio), 85
Bersezio (Vittorio), 127
Bertieri (Raffaello), 66 Croce (Benedetto), 31, 182
Boccaccio (Giovanni), 154, 155,
165, 170, 172, 184, 199 D'Annunzio (Gabriele), 24, 25,
Bodoni (Giambattista), 66 72, 75, 85, 87, 88, 90, 91, 115,

233
118, 129, 136, 137, 175, 176, lacopone da Todi, 73.
203, 211 lmbriani (Vittorio), 58
I>ante, 61, 63, 77, 84, 87, 109,
114, 115, 146, 148, 157, 165,
168, 175, 176, 177, 184, 199 Landolfi (Tommaso), 28
I>auzat (Albert), 81 Leopardi (Giacomo), 136, 155,
I>avanzati (Bernardo), 84 158, 177, 187, 198, 203, 212
!)'Azeglio (Massimo), 198 Levi (Carlo), 25
I>e Amicis (Edmondo), 62 Lilli (Virgilio), 105
I>e Felice-I>uro (dizionario), 71, Linati (Carlo), 136
78, 80, 125 Littré (Émile), 76
I>ella Casa (Giovanni), 172 Lo Gatto (Ettore), 91
I>e Marchi (Emilio), 78 Lorenzo de' Medici, 165
I>evoto (Giacomo) 71 78 80,
99, 178 ' ' '
I>i Giacomo (Salvatore), 210
!)'Ovidio (Francesco), 66, 172 Machiavelli (Nicolò), 191
Magalotti (Lorenzo), 170
Manuzio (Aldo), 58, 59
Fanfani (Pietro), 71, 169, 171 Manzini (Gianna), 210
Fenoglio (Beppe), 164 Manzoni (Alessandro) 28 48 49
Filicaia (Vincenzo da), 170 50, 51, 58, 85, 9Ò, 105, '1o6:
Firenzuola (Àgnolo), 84 114, 147, 159, 165, 167, 172,
Fogazzaro (Antonio), 58, 84, 167 181, 182, 184, 187, 199, 212,
Foscolo (Ugo), 52, 58, 105, 113, 213
128, 136, 137, 177 Martini (Ferdinando), 63, 145,
Fra Giordano, 152 169
Fucini (Renato) 167, 184 Mattioli (Pierandrea), 136
Mazzini (Giuseppe), 58
Menzini (Benedetto), 136
Gadda (Carlo Emilio), 136 Mèstica (dizionario), 71
Galilei (Galileo), 172, 208 Migliorini (Bruno), 26, 58, 61, 63,
Gandiglio (Adolfo), 30 64, 71, 73, 78, 80, 83, 105
Garzanti (I>izionario), 78 Monelli (Paolo) 28, 78, 86, 90,
Gherardini (Giovanni), 171 105, 125, 136, 173
Giambullari (Pier Francesco), 152 Montale_(Eugenio), 165
Giusti (Giuseppe), 109, 167, 181 Montanelli (Indro), 62
Goidànich (Pier Gabriele), 205 Monti (Vincenzo), 170
Gozzano (Guido), 76 Moravia (Alberto), 24, 147, 176
Gozzi (Gaspare), 90, 153 Moretti (Marino), 62, 79
Gramsci (Antonio), 114 Morselli (Ercole Luigi), 169
Guerrazzi (Francesco I>omenico),
58
Gukciardini (Francesco), 203 Negri (Ada), 198

234
Niccolini (Giovanni Battisti), 58 Rapisardi (Mario), 91, 105
Nievo (Ippolito), 154 Rea (Domenico), 58
Redi (Francesco), 136, 154, 170,
176
Ojetti (Ugo), 16, 85, 113, 136,
191 Saba (Umberto), 165
Sacchetti (Franco), 84
Satta (Luciano), 143, 164
Ségneri (Paolo);-84, 191
Palazzeschi (Aldo), 71, 147, 182 Serra (Renato), 208
Palazzi (dizionario), 71, 78 Sinisgalli (Leonardo), 72
Pallavicina (Sforza), 191 Soder.ini (Giovanvettorio), 126
Pananti (Filippo), 128 Sòffici (Ardengo), 28, 72
Panzini (Alfredo), 28, 49, 72, 76, Soldati (Mario), 58, 72, 78
118, 136, 163, 165, 167, 168,
173, 177, 182
Papini (Giovanni), 84, 153, 177 Tagliavini (Carlo), 139
Paracelso, 111 Tasso (Torquato), 181
Parini (Giuseppe), 159, 184 Tomasi di Lampedusa (Giuseppe),
Parville (Henri de), 74 58, 62
Pascoli (Giovanni), 28, 62, 64 Tombari (Fabio), 12, 164, 173
75, 176, 177 Tommaseo (Niccolò), 66, 71, 77,
Passerini Tosi (dizionario), 71, 78 84, 105, 136, 155, 156, 177
Pavese (Cesare), 173, 177 Tozzi (Federigo), 152
Pellico (Silvio), 114 Tramater (vocabolario) 71, 125
Petrarca (Francesco), 58, 63, 148
175, 177, 184, 199
Valgimigli (Manara), 30, 63, 173
Petrocchi (dizionario), 71, 76, 78, Varchi (Benedetto), 84, 147, 191 ,
197
206
Pieri (Mario), 136 Vasari (Giorgio), 203
Pindemonte (Ippolito), 136 Veronelli (Luigi), 125
Piovene (Guido), 58, 167 Villani (Giovanni), 84, 181, 203
Pirandello (Luigi), 28, 62, 85, 199 Virgilio Marone, 91
Poliziano (Angelo Ambrogini det- Vittorini (Elio), 58
to il), 73
Prati (Angelico), 80
Pratolini (Vasco), 173 Zanella (Giacomo), 90
Prèmoli (Palmiro), 76 Zingarelli (dizionario), 71, 78, 80
l
l
l
l
l

l
Indice

9 I Maiuscole e minuscole
19 II Accenti obbligatorii, facoltativi e sbagliati
33 III Le sillabe
39 IV I dittonghi mobili
43 v I segni d 'interpunzione
55 VI L'apostrofo
69 VII Maschio o femmina?
101 VIII Plurali facili e no
133 IX Gli articoli
149 x Gli aggettivi
161 XI I pronomi
179 XII Gli avverbi
185 XIII I numeri
193 XIV Questioni verbali
217 Indice analitico
233 Indice degli Autori citati
Questo volume è stato impresso
nel mese di aprile dell'anno 1982
presso la Nuova Stampa Mondadorì
Cles (TN) -

Stampato in Italia - Printed in ltaly

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