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Perché oggi è molto più facile sentirsi offrire dello street food anziché del “cibo di

strada”?
Come mai i politici dichiarano di voler refreshare il Paese se intendono
semplicemente “rivoltarlo come un calzino”?
Chi teme un competitor e cerca un endorsement non potrebbe aver paura di un
“concorrente” o di un “avversario” e aspirare a un “sostegno” o a un “appoggio”?
Questi esempi ci segnalano un’evoluzione preoccupante dell’italiano che negli ultimi
anni si sta logorando non solo per il proliferare degli anglismi ma anche per un grave
peggioramento delle nostre cognizioni linguistiche. Siamo ormai un Paese dove i
fiumi non straripano (una parola perduta!) più, semmai esondano, e i tribunali
emettono “ordinazioni” (sacerdotali?) invece che “ordinanze”.
Come presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini combatte ogni
giorno per difendere la nostra meravigliosa lingua e attrezzarla per le sfide del
futuro. L’italiano, ci ricorda Marazzini, ha una storia diversa da quella dell’inglese o
del francese – nati con gli Stati nazionali – perché è fiorito ben prima che ci fosse
l’Italia: dopo essersi sviluppato nel Medioevo come idioma popolare figlio del
latino, si è arricchito splendidamente con la nostra grande letteratura diventando
così, fra tutte le lingue, la più colta, raffinata e amata all’estero. Vogliamo dunque
ora perdere questo nostro immenso patrimonio di sensibilità e di cultura?
In questo libro Marazzini, compiendo un’analisi rigorosa e approfondita, presenta
una lucida diagnosi dello stato di salute della nostra lingua e pone le basi per
invertire la rotta, appellandosi anche ai politici e alle università, spesso responsabili
della dispersione di parole e significati. Allo stesso tempo, passando in rassegna gli
errori di ogni genere che si stanno insinuando, ci offre l’opportunità di correggerci e
di recuperare le mille e mille sfumature della nostra meravigliosa lingua che forse ci
stanno sfuggendo.
CLAUDIO MARAZZINI (Torino, 1949), linguista, dal maggio 2014 è presidente
dell’Accademia della Crusca. Professore ordinario di Storia della lingua italiana al
Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale
Amedeo Avogadro (Vercelli), ha insegnato nelle Università di Macerata e Udine e ha
tenuto corsi all’Università di Losanna. Autore di molti saggi, libri e articoli su riviste
specializzate, svolge anche attività giornalistica: dal 1990 firma la rubrica di lingua
Parlare e scrivere del settimanale “Famiglia Cristiana”.
Claudio Marazzini
presidente dell’Accademia della Crusca

L’italiano è meraviglioso
Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua
Pubblicato per

da Mondadori Libri S.p.A.


Proprieta letteraria riservata
© 2018 Mondadori Libri S.p.A.

eISBN 978-88-58-69323-0

Prima edizione: aprile 2018

La citazione a pag. I è tratta da Progetto di opere future, in Poesia in forma di rosa di Pier Paolo Pasolini
(Garzanti, Milano, 1964).

Art Director: Francesca Leoneschi


Graphic Designer: Mauro De Toffol / theWorldofDOT

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Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
L’italiano è meraviglioso
Introduzione
Dal ponte di comando di una portaerei della cultura

Le discussioni sulla lingua, in Italia, nel corso dei secoli, sono state sempre vivaci e
infuocate. Il dibattito è cominciato con Dante, nel Duecento, si è impennato nel
Cinquecento, quando davvero è diventato motivo di forte scontro tra gli intellettuali;
ha raggiunto la punta massima nell’Ottocento, in un momento particolare per la
nazione, cioè in coincidenza con la realizzazione dell’unità politica. Non si può dire
che da allora questo dibattito sia cessato, anche se è mutato in parte, perché via via
sono emersi temi nuovi, determinati dal mutare della situazione sociale e politica.
Occuparsi di lingua significa necessariamente fare i conti con queste discussioni, con
quelle del passato che in parte proseguono, con quelle del presente, che sono la
nostra attualità, e anche con quelle che si prospettano nel futuro, perché dobbiamo
prepararci a quanto accadrà, per affrontare un destino di cui già si intravedono i
primi segnali.
Non siamo profeti, ma è facile intuire che la lingua italiana, nel mondo
globalizzato, andrà incontro a una crisi di cui si manifestano ora i primi sintomi
allarmanti, sintomi che spaventano anche altre lingue d’Europa, soprattutto quelle
latine. Abbiamo un grande passato, alle nostre spalle sta una grande cultura che è
cominciata con il Medioevo, si è sviluppata nell’Umanesimo e nel Rinascimento, ma
non siamo altrettanto certi di avere un grande futuro. O almeno, è probabile che per
avere un futuro decente occorra cambiare strada e abbandonare alcuni luoghi comuni
a cui ci si è affezionati in anni recenti.
Occuparsi di cose di lingua significa dunque fare i conti con la storia politica e
civile d’Italia, e non è certamente un modo sereno di baloccarsi con una materia
pacifica, neutra e inerte. Il tema della lingua trascina anzi con sé una bella dose di
passionalità: nelle scelte linguistiche entrano con forza elementi identitari, abitudini,
tradizioni, aspirazioni, campanilismi. Posso garantire che non è sempre facile la
condizione di chi si trova a presiedere l’Accademia della Crusca, la maggiore
istituzione esistente al mondo che si occupi di verificare lo stato della lingua italiana.
Le burrasche non sono rare.
Sembra impossibile che attorno alla lingua possano concentrarsi tante tensioni e
tante polemiche. Eppure è così, anche se nella sede dell’Accademia della Crusca, tra
le antiche mura della cinquecentesca Villa medicea di Castello, si respira
(all’apparenza) un’atmosfera di sicurezza rasserenante. L’Accademia è uno dei
simboli della cultura italiana. È nota in tutto il mondo. Ha sede nel comune di
Firenze, seppure un po’ ai margini, quasi al confine con Sesto Fiorentino.
L’Accademia ha un passato molto fiorentino, fin troppo fiorentino. È nata a Firenze
nel 1583, e lì è sempre rimasta, perché Firenze è la città in cui la lingua italiana è
nata e cresciuta, anche se poi si è fatta sentire l’influenza di altre regioni italiane, e
soprattutto di Roma e di Milano. L’Accademia non poteva essere se non lì: non ha
mai avuto filiazioni periferiche o sedi decentrate. È unica, come il Vaticano per la
Chiesa cattolica.
Il Vaticano sta in un posto solo, a Roma. Non potrebbe essere traslato altrove. La
michelangiolesca cupola di San Pietro, nella mente di noi tutti, si associa al Vaticano
in un’indissolubile immagine mentale. Così la Villa medicea di Castello si associa
alla lingua d’Italia. Siamo alle pendici di Monte Morello, in una posizione
geografica quasi campagnola. La città di Firenze si protende verso Sesto e Prato, con
le propaggini di urbanizzazione moderna, quelle che fanno rimpiangere la sapienza
urbanistica forte e discreta degli antichi fiorentini. Dalle finestre della Crusca si vede
l’aeroporto di Peretola, dedicato al navigatore fiorentino Amerigo Vespucci, il cui
nome di battesimo, che deriva dal germanico Haimirich, fu scelto nel 1507 dal
cartografo tedesco Martin Waldseemüller, su suggerimento di Matthias Ringmann,
per battezzare il nuovo continente scoperto da Colombo. Quello stesso Colombo che
nell’estate 2017 è stato vandalizzato in effigie nel Queens, e decapitato nel parco di
Yonkers, nello Stato di New York. «Cristoforo Colombo vittima di una furia
iconoclasta senza precedenti negli Stati Uniti» scrive l’ANSA in un comunicato del 1°
settembre 2017. Colombo è accusato di genocidio. Come se fosse stato lui a
eliminare gli Indiani d’America, e non avessero colpa alcuna i governi degli Stati
Uniti. Forse negli USA questi radicali anti-italiani dovrebbero rileggersi Alexis de
Tocqueville.
Dal cortile della Crusca, se si presta attenzione, si sentono gli aerei che atterrano
e decollano. Appena oltre il viale che conduce alla villa, corre la linea ferroviaria ad
alta velocità, senza la quale mi sarebbe impossibile svolgere la funzione di
presidente di un’istituzione fiorentina, visto che sono piemontese, abito a Torino, e
per di più sono docente in un’università del Nord Italia. Nella Villa medicea,
percorso il viale di accesso, la periferia urbana si attenua, quasi sparisce. Gli uliveti
che risalgono le pendici di Monte Morello, verso le zone boscose della cima, si
impadroniscono del paesaggio. I membri della famiglia Medici hanno edificato
sapientemente la villa. La usavano per le vacanze, e certamente erano in grado di
scegliere i luoghi migliori. Qualche cosa di quelle delizie ancora sopravvive. Il
giardino è uno dei più famosi al mondo, capostipite del giardino geometrico o
«all’italiana»: basterebbe questo a rendere eccezionale il luogo.
La sede della Crusca è in una delle ville medicee più belle, una delle quattordici
ora promosse al rango di patrimonio dell’umanità. In realtà sono un po’ meno di
quattordici, perché nella lista sono stati inseriti due giardini senza villa, quello di
Boboli e quello di Pratolino. Non dovrebbero esistere ville senza giardini e giardini
senza ville: ma la villa del giardino di Boboli è niente di meno che Palazzo Pitti, che
non aveva bisogno dell’Unesco per diventare celebre in tutto il mondo; quanto alla
Villa di Pratolino, non esiste più, perché fu demolita nel 1822. Quindi la villa della
Crusca è una delle dodici vere ville medicee. Qui è insediata l’Accademia della
Crusca, un’istituzione che a un dipresso corrisponde alle altre grandi accademie
nazionali che si occupano di lingua, come la Real Academia Española (RAE ) di
Madrid, o come l’Académie française di Parigi. Queste accademie hanno non dico un
prestigio, ma certo un ruolo analogo, forse anche superiore, a quello dell’Accademia
della Crusca: la Spagna e la Francia, infatti, hanno demandato a queste loro
istituzioni i compiti di controllo della lingua in maniera ufficiale. Sono poteri che la
Crusca non ha mai ricevuto. Eppure la Crusca è la più antica, è stata anzi il modello a
cui si sono ispirati i fondatori delle istituzioni d’Oltralpe. La RAE nacque nel 1713 a
opera dell’ottavo marchese di Villena, Juan Manuel Fernández Pacheco, grande di
Spagna e cavaliere del Toson d’oro. L’Académie française, più antica ancora, fu
fondata da Richelieu nel 1635. L’Accademia della Crusca nacque e operò ben prima,
dal 1583: nel 1612 aveva già realizzato il primo grande vocabolario della lingua
letteraria, quel vocabolario che i francesi poterono stampare solo nel 1694 (la Crusca
era allora alla terza edizione accresciuta), e gli spagnoli nel 1726, anno del primo
volume del Diccionario de autoridades, attento alla purezza del castigliano, così
come la Crusca era stata attenta alla purezza della lingua toscana.
Tutte e tre queste accademie sono vive e attive, dopo centinaia di anni. La Crusca
è la decana. Benché a differenza delle altre due consorelle non sia investita in forma
ufficiale del potere di controllo della lingua, ha una funzione forte, affidata alla
capacità di convincimento e all’autorevolezza degli studiosi che ne fanno parte. Lo
statuto dell’Accademia della Crusca, al primo articolo, prevede il «compito
essenziale di sostenere la lingua italiana, nel suo valore storico di fondamento
dell’identità nazionale». Quindi l’Accademia della Crusca deve vegliare sul destino
dell’italiano: non può non occuparsene, specialmente quando si profilano pericoli.
Questo libro nasce appunto dall’esperienza del presidente dell’Accademia, giunto al
suo quarto anno di mandato. Ma il libro parla soprattutto del futuro, anche se ogni
tanto uno sguardo indietro nel tempo aiuta a riflettere sulle caratteristiche
dell’italiano, che ha una storia piuttosto particolare, per molti versi differente da
quella delle altre lingue d’Europa.
I
Una lingua senza impero

Lingue e imperi
La storia dell’italiano è singolare, ben diversa da quella delle altre lingue di cultura,
prima di tutto perché la realizzazione della nazione politica, lo «Stato Italia», è
avvenuta molto più tardi rispetto alla stabilizzazione e diffusione della lingua.
Insomma, prima è venuta la lingua, poi è venuta l’Italia. L’idea stessa di Italia
geografica e culturale, se non politica, può essere fatta risalire a un’intuizione di
Dante, nel trattato De vulgari eloquentia, scritto alla fine del Duecento. In Italia, la
cultura e la letteratura hanno in qualche modo aperto la strada all’idea politica di
nazione. Senza la cultura, la nazione non ci sarebbe mai stata. A nessuno sarebbe
venuto in mente di unificare una Penisola così diversa nelle sue varie parti.
Questo svolgersi degli eventi, come dicevamo, è piuttosto differente da quello di
altri Stati, nei quali accadde la cosa più semplice: lì, la storia della lingua è
semplicemente il frutto di conquiste e di espansioni territoriali; la fondazione di un
saldo potere politico ne costituisce la base. In genere, le lingue si espandono e si
impongono proprio seguendo le armi e gli eserciti. Questo procedimento è molto
evidente nel caso del latino, al tempo dell’impero di Roma, ma anche in epoca
moderna, nel caso delle grandi lingue coloniali, per esempio inglese, francese,
portoghese e spagnolo. Tutti questi idiomi furono trasportati nel continente
americano. Senza il colonialismo, l’inglese non sarebbe la prima lingua al mondo per
prestigio e peso numerico, perché questo peso è legato alla forza degli USA , l’ex
colonia, non certo alla Gran Bretagna; senza le armi dei conquistadores, lo spagnolo
non avrebbe 350 milioni di parlanti, o 500 milioni, come afferma ora l’Instituto
Cervantes, l’istituzione pubblica «creada por España en 1991 para promover
universalmente la enseñanza, el estudio y el uso del español y contribuir a la difusión
de las culturas hispánicas en el exterior» (come si legge nel sito dell’Instituto
Cervantes di Madrid).
Nel caso dell’italiano, le cose sono andate in maniera completamente diversa.
Innanzitutto, non c’è stato mai un impero italiano (a parte quello, piuttosto meschino
e assai breve, durato dal 1936 alla fine della guerra mondiale: in tutto meno di dieci
anni, cioè un bel nulla rispetto alla millenaria storia dell’italiano). L’impero legato
alla storia della Penisola fu semmai quello latino, frutto del potere di Roma. Fu cioè
l’impero del padre dell’italiano, ma padre anche delle altre grandi lingue romanze, il
francese, lo spagnolo, il portoghese e il rumeno, che gli devono la loro comune
origine.
L’Italia non ereditò mai il potere romano (lasciamo da parte le caricature
imperiali del fascismo), anche se trasse dal latino preziose linfe vitali, tanto che
l’italiano può sentirsi quasi privilegiato per la somiglianza notevole al latino, per
esempio nel lessico. Se si guarda all’etimologia, le parole di origine latina presenti
nell’italiano sono circa tre volte più numerose di quelle che ci arrivano dal greco,
cinque volte più numerose di quelle che ci arrivano dall’inglese, quattro volte più
numerose di quelle che ci arrivano dal francese. Se poi si considera che molte parole
che ci arrivano dal francese o dall’inglese, a ben vedere, sono a loro volta di origine
latina, come abolizionismo (inglese abolitionism, dal latino aboleo), computer (lat.
computare), aggiornamento (fr. ajournement, lat. ad iurnus), si deve concludere che
la presenza del latino è enorme, anche a prescindere da fenomeni più complessi,
come il residuo di certi neutri o la sopravvivenza sporadica dei casi (che nel
passaggio dal latino alle lingue romanze si sono in genere persi).
Se vogliamo sapere chi (o che cosa) ha fatto diventare grande l’inglese, il
francese o lo spagnolo, non possiamo avere dubbi: dobbiamo riferirci alla storia di
alcune monarchie, alle imprese militari di dinastie reali, alla loro gestione del potere
politico. Dobbiamo elencare guerre e invasioni, spedizioni coloniali, sangue e
vittime. Non è l’esame di una storia pacifica, anzi si può dire che il successo
internazionale di queste grandi lingue gronda violenza. Il paragone con la storia
dell’italiano mostra una situazione piuttosto diversa. Il successo internazionale della
nostra lingua, quando questo successo ci fu davvero, nei secoli passati, si deve
unicamente all’interesse per la nostra cultura. Questo interesse fu precoce, fin dal
Cinquecento, quando tutta l’Europa fece propria la poesia di Petrarca, e quando si
affermò anche il modello novellistico di Boccaccio. Petrarca, con i Rerum vulgarium
fragmenta (il vero titolo del Canzoniere è proprio questo, in latino), e Boccaccio, con
il Decameron (in questo caso il titolo scelto era grecizzante), furono imitati da tutti.
Petrarca e Boccaccio furono letti e imitati anche più di quanto non si leggesse e
imitasse Dante, che era per parte sua troppo originale e irripetibile. Il petrarchismo,
cioè la poesia d’amore alla maniera di Petrarca, e la novellistica alla maniera di
Boccaccio, sono fenomeni europei, non solo italiani.
Poi venne l’Umanesimo, che ebbe in Italia la sua culla, e venne il Rinascimento,
altra svolta culturale tipicamente italiana. Umanesimo e Rinascimento sono entrambi
legati alla riscoperta della cultura classica, al mondo latino ancor più che a quello
greco. Dunque accentuarono lo stretto rapporto di simbiosi con la lingua latina, di cui
abbiamo già parlato riferendoci all’etimologia delle parole presenti ancora oggi, in
maggioranza assoluta, nell’italiano.

Italiano lingua troppo colta


L’italiano è una lingua colta, molto colta, forse anche troppo, che contiene molto
latino e che con il latino ha dovuto sempre fare i conti. Da una parte si può dire che
l’italiano si sia affermato sottraendo spazio al latino, e in questo senso si potrebbe
pensare a una sorta di conflitto permanente tra la vecchia lingua e la nuova lingua. Di
questo conflitto parla anche Dante nel Convivio, quando dice che l’italiano è il sole
nuovo che deve sorgere là dove il vecchio sole, il latino, deve tramontare; ma
sarebbe riduttivo vedere in questo scontro tra vecchio e nuovo il senso più profondo
dei rapporti tra italiano e latino, perché l’italiano ha tratto dal latino molta forza, ne
ha ricevuto una formidabile lezione per la crescita. Il latino ha fatto sì che l’italiano-
bambino fosse già quasi adulto in un tempo molto breve. Infatti chi usava il volgare
vi portava lessico latino, ne riproduceva strutture sintattiche complesse e ricche. Era
un travaso quasi inevitabile, perché le persone che utilizzavano l’italiano, benché
fossero abituate a comunicare quotidianamente nel loro dialetto locale, avevano in
comune soprattutto una cosa (oltre all’interesse per Dante, Petrarca e Boccaccio):
condividevano la conoscenza del latino, la lingua che usavano quotidianamente per
scrivere. Costoro non usavano il latino solo in quanto letterati: potevano essere notai,
giuristi, funzionari, diplomatici, cancellieri di corte.
Si consideri ora un altro elemento decisivo: tutti coloro che, dal tempo di Dante
fino alla fine del Quattrocento, tentavano di usare l’italiano, non avevano comunque
a disposizione strumenti normativi a cui far riferimento. Ciò significa che gli utenti
della lingua italiana dovevano scrivere arrangiandosi da soli, senza disporre di mezzi
di controllo, che invece per noi uomini moderni sono sempre a portata di mano: la
grammatica e il dizionario, ora persino in Rete e usando il telefonino. Allora le
grammatiche e i dizionari non esistevano ancora. Esistevano grammatiche del latino,
esistevano vocabolari di latino, ma non c’erano le grammatiche dell’italiano e i
vocabolari dell’italiano. Questi strumenti normativi furono creati nel Cinquecento, e
soltanto a partire da allora si diffusero. La prima grammatica italiana fu stampata nel
1516, e la seconda, quella di Bembo (il Grande Regolatore della nostra lingua), fu
pubblicata nel 1525.

Un’arte difficile: arrangiarsi senza strumenti normativi


Non dobbiamo sottovalutare, noi uomini del XXI secolo, le condizioni difficili in cui
si trovava uno scrivente italiano del Quattrocento e dell’inizio del Cinquecento, un
qualunque nostro antenato del XV o XVI secolo: oggi per noi è facile controllare il
significato di una parola, la sua grafia corretta, la forma di un verbo irregolare. Non
ci occorre nemmeno aprire un libro, come avremmo dovuto fare ancora una decina di
anni fa: ora ci basta digitare la parola dubbia sullo smartphone, sul tablet, sul PC , e i
suggerimenti fioccano abbondanti (forse non tutti perfettamente corretti: ma in
genere la sostanza si riesce a raggiungere). Quei nostri antenati, invece, dovevano
arrangiarsi senza mezzi.
Avevano però due modi per cercare soccorso: potevano far appello alla propria
lingua naturale, cioè al dialetto che era loro più familiare, e copiare da quello, oppure
potevano aggrapparsi al latino, che conoscevano. Il latino era allora l’unica lingua
che si insegnasse a scuola, almeno fino a quando non venne di moda anche il greco, e
i maestri di greco diventarono abbondanti, perché erano scappati in quantità
dall’impero romano d’Oriente, dopo la caduta di Costantinopoli sotto l’attacco dei
turchi di Maometto II (1456). Ma il greco rimase sempre una lingua elitaria,
riservata agli intellettuali e ai letterati più fini e specializzati.
Invece il latino era necessario a chiunque esercitasse una professione non
manuale. Il travaso dal latino all’italiano trovava dunque, in queste condizioni, un
ulteriore motivo di promozione. Di qui a eccedere, il passo purtroppo era molto
breve. Un autore del 1499, passato alla storia per il suo stile esageratamente debitore
al latino, scriveva così della sua amata: «inulnati amplexabonda gli lactei et
immaculati brachii circa al mio iugulo, suavemente mordicula cum la coraliata
buccula basiantime strinse». Voleva dire che costei «strette nell’abbraccio le lattee e
bianche braccia (lat. brachium) attorno al mio collo (lat. iugulum), dolcemente
morsicante (lat. mordicus) mi strinse baciandomi con la bocca rossa come il corallo
(lat. coralium “corallo”, grecismo usato da Plinio)». Certo questo è un caso limite,
ma dà un’idea della situazione. Troppa cultura può essere anche un rischio. Così
come poca cultura è sicuramente un enorme pericolo.

Primi gli spagnoli


Finalmente, all’inizio del Cinquecento, qualcuno seppe dotare il volgare italiano di
una grammatica, cioè di uno strumento normativo consultabile, da cui si potessero
ricavare le regole per un buon uso. Era l’uovo di Colombo. Come mai ci volle tanto
per una cosa così semplice? In fondo, visto che le grammatiche esistevano già per il
latino, perché non seguire il modello e riprodurlo per l’italiano? Evidentemente
qualche difficoltà c’era.
Per capire meglio il problema, possiamo prendere in mano una grammatica
preziosissima ma fallita nei suoi scopi, attribuita oggi all’architetto Leon Battista
Alberti, uno dei maestri del Rinascimento italiano. La grammatica in questione, che
risale alla prima metà del Quattrocento, è tramandata da un manoscritto, conservato
alla Biblioteca Vaticana di Roma, non di pugno dell’autore, anonimo. Ho detto che si
tratta di una grammatica «fallita». Non mi riferivo alla qualità dell’opera, che è di
alto livello, bensì alla sua fortuna, che fu assolutamente insignificante. Se l’opera
fosse stata apprezzata, diffusa e poi stampata all’avvento dell’arte tipografica di
metà Quattrocento, sarebbe stata la prima grammatica di una lingua europea ad
andare sotto i torchi: invece questo primato toccò alla lingua castigliana, a opera di
Antonio de Nebrija. La sua Gramática castellana fu pubblicata in una data molto
speciale per la Spagna, il 1492, il medesimo anno della scoperta dell’America, e il
medesimo della cacciata definitiva dei musulmani, con la caduta della cittadella di
Granada e il successo definitivo della Reconquista. Nella stampa della grammatica
della loro lingua, gli spagnoli arrivarono primi, in un anno assai significativo per la
loro storia. Gli italiani furono secondi, ma riuscirono nell’intento solo una volta
varcato il confine del secolo XVI: nel 1516, un letterato di cultura veneta,
probabilmente friulano, Giovan Francesco Fortunio, pubblicò ad Ancona (dove
svolgeva la funzione di podestà), presso un tipografo originario di Vercelli, le Regole
grammaticali della volgar lingua, la prima grammatica italiana a stampa. La
grammatica non portò fortuna al povero Fortunio, che fu anzi piuttosto disgraziato,
perché l’anno dopo, il 1517, finì la sua vita gettandosi o gettato dalle finestre del
palazzo podestarile. Però l’onore di essere il primo grammatico dell’italiano resta
tutto suo, anche se Pietro Bembo, che, come abbiamo detto, seguì con la seconda
grammatica, nel 1525, non solo non riconobbe i meriti del predecessore, ma anzi
ebbe a lamentarsi di essere stato plagiato da lui.

La grammatica c’è, ma è nascosta


Non entreremo in queste dispute, che mostrano come il tema della lingua trascinasse
con sé già allora non poche polemiche; ci limiteremo a constatare che finalmente, nel
primo trentennio del Cinquecento, tutti coloro che volevano scrivere in lingua
italiana avevano la possibilità, per la prima volta, di procurarsi una grammatica, con
la quale verificare le regole. Entrambe le grammatiche, però, sia quella di Fortunio
sia quella di Bembo, erano basate sulla lingua letteraria antica, del Trecento, il
secolo di Dante, Petrarca e Boccaccio. Questa impostazione le rendeva diverse dal
tentativo quattrocentesco di Leon Battista Alberti, il tentativo che ho detto «fallito».
L’Alberti aveva cercato di dare le regole della propria lingua fiorentina parlata,
moderna e in uso ai suoi tempi. Possiamo fare un esempio delle differenze.
Prendiamo l’articolo determinativo maschile singolare, «il». È il medesimo articolo
che usiamo nell’italiano d’oggi, ed è l’articolo che veniva indicato da Fortunio e da
Bembo. Nell’Alberti si trova invece l’articolo «el», che era adoperato nella Firenze
del Quattro-Cinquecento, per esempio da Machiavelli. Non è un caso che «el» oggi
non esista più, e invece «il» si sia affermato. I grammatici Fortunio e Bembo hanno
vinto la loro partita.
Comunque, finalmente, nella prima metà del Cinquecento le regole erano saltate
fuori: che il latino avesse regole, era infatti chiaro a tutti. Che il volgare potesse
averle, era meno evidente; anzi, molti ne dubitavano. Il volgare sembrava troppo
variabile, soggetto al mutamento, diverso di volta in volta nell’uso reale. Molti
Umanisti pensavano che valesse la pena di girare le spalle al volgare italiano. Meglio
usare il latino per tutti gli impieghi importanti, quando si volesse scrivere qualche
cosa che durasse davvero e fosse importante.
Leon Battista Alberti, che non la pensava così, si era dato molto da fare per
promuovere il volgare. Fra le sue iniziative, è importante appunto la stesura della
grammatica secondo l’uso di Firenze di cui abbiamo parlato. Era una grammatica
particolare: non aveva il compito di insegnare le regole; lo scopo era piuttosto
mostrare che quelle regole esistevano davvero. Se esistevano le regole del volgare,
ciò significava che esso era una lingua matura, dunque degna di stima e passibile di
un uso prestigioso. Voleva dire che anche la lingua del popolo poteva avere le regole,
e che quelle regole erano perfettamente funzionanti. La grammatica era insomma la
condizione del riscatto del volgare, che diventava degno di essere portato al livello
dell’arte.
Anche Fortunio, nel presentare la propria grammatica del 1516, prese le mosse
proprio da una constatazione analoga, cioè che le regole del volgare esistevano per
davvero. Però la fonte di queste regole non stava nella lingua naturale, dove le aveva
trovate l’Alberti. Del resto la lingua naturale di Fortunio sarebbe stata probabilmente
il friulano, non certo l’italiano di Toscana; inoltre Fortunio non aveva mai visto né
sentito nominare la grammatica dell’Alberti. Fortunio presentava al lettore le regole
spiegando come le aveva trovate: raccontava che, fin da quando era giovane,
leggendo i grandi scrittori Dante, Petrarca e Boccaccio, era rimasto ammirato dalla
loro perfezione, si era reso conto che i loro testi erano pieni di armonia: non poteva
dunque pensare che quella lingua da loro usata fosse priva di grammatica. Bastava
cercarvi la grammatica ed estrarla: là, in quei bei testi, le regole c’erano tutte. Non si
trattava dunque di osservare una lingua viva, come aveva fatto l’Alberti, ma di
schedare una serie di opere letterarie. Era nata la norma italiana modellata sulla
lingua letteraria.

Lingua impopolare
Come si vede, qui si era già posto il problema della norma, che tormentò gli scriventi
per secoli, e che ancora oggi assilla a volte gli utenti della lingua: da dove si devono
prendere le regole? Dalla lingua viva di un luogo particolare, la Toscana, Firenze o
Siena, oppure dalle opere degli scrittori? Se si devono prendere dagli scrittori, qual è
l’epoca migliore a cui fare riferimento? Bembo, nel 1525, raffinò molto il metodo
usato da Fortunio. Non gli bastò scegliere i tre scrittori che anche Fortunio aveva
ammirato, ma selezionò ulteriormente il loro apporto alla lingua, per distillare il
meglio: Petrarca fu messo per primo, poi venne Boccaccio per la prosa, ma lasciando
in second’ordine le parti del Decameron in cui aveva introdotto forme colloquiali.
Dante venne per terzo, ma con una selezione ancora più severa, perché in molti casi,
secondo Bembo, aveva scritto male, scivolando nella popolarità. Bembo era un
raffinatissimo intellettuale, un letterato che si ispirava al modello del ciceronianismo
latino. Aborriva sopra ogni altra cosa la popolarità. Il solo contatto con la popolarità
linguistica, a suo parere, poteva guastare la lingua.
Per quanto a noi moderni una simile tesi possa apparire strana e azzardata,
dobbiamo ricordarci che il classicismo italiano ebbe queste idee, e Bembo godette di
un’autorità enorme. Poiché la stabilizzazione normativa e grammaticale dell’italiano
risale a lui, e per molti anni fu ritenuta autorevolissima, non ci dobbiamo stupire se
l’italiano si stabilizzò come una lingua colta e d’élite. Ci piaccia o no, le cose stanno
così. Questa è stata la forza della nostra lingua, ammirata in tutta l’Europa per la sua
carica di raffinata letterarietà. Questa è stata anche la debolezza della nostra lingua,
quando si è dovuta trasformare in una lingua di popolo, perché con il popolo questa
lingua non andava molto d’accordo. Era nata vicino al popolo, nel Medioevo, ma se
ne era allontanata nel corso della stabilizzazione normativa del Cinquecento, proprio
quando se ne erano fissate le regole.

Ipercultura e varietà
Oltre al carattere schiettamente culturale dell’italiano, lingua di poeti e letterati
prima che lingua di popolo, occorre tener conto della varietà linguistica del territorio
italiano. Occorre distinguere tra dialetti e lingue minoritarie. Incominciamo da
queste ultime, e anzi dalle aree in cui vivono alloglotti che non parlano idiomi
romanzi. «Alloglotti» è una parola tecnica, un cultismo costruito sul greco, per
indicare coloro che parlano una «lingua altra». In Italia abbiamo tedescofoni,
slavofoni, grecofoni, albanesi. Tutti costoro non sono di lingua romanza, perché
tedesco, slavo (gli sloveni delle province di Trieste e Gorizia, e i croati del Molise),
greco, albanese non sono lingue derivate dal latino. Sto facendo riferimento alle
cosiddette minoranze storiche, cioè a minoranze molto antiche. Tra queste
minoranze, abbiamo quelle germaniche: non sono soltanto gli abitanti sudtirolesi
della provincia autonoma di Bolzano. Ci sono anche altri tedeschi, seppure in piccolo
numero e da considerare quasi una rarità: per esempio i Walser delle montagne
attorno al Monte Rosa, insediatisi lì fin dal Medioevo. Gli albanesi della minoranza
storica arrivarono, con la loro religione cristiana di rito greco-ortodosso, quando i
turchi conquistarono la loro terra, nel Quattrocento. Le minoranze storiche, cioè
quelle antiche, contano poi i provenzali delle valli piemontesi, i francoprovenzali di
Piemonte e Valle d’Aosta, i catalani di Alghero, i tabarchini di Carloforte in
Sardegna, giunti nel 1738 (portatori di una parlata ligure, discendenti di una
comunità di pescatori di corallo passata attraverso una lunga permanenza in Africa
settentrionale, nell’isola di Tabarca). Anche i friulani e i sardi sono minoranze
riconosciute dalla glottologia e dalla legge.
L’elenco avrà forse stupito chi non si è mai soffermato a riflettere sulla varietà
linguistica italiana. Ma non è finita qui. Alle minoranze storiche vanno aggiunti i
nuovi immigrati, che sono parte della storia recente e recentissima dell’Italia, e che
entreranno con un certo peso nella sua storia futura, come è facile prevedere, anche
come nuovi cittadini, visto che sono più giovani degli italiani, fanno più figli, mentre
la popolazione italiana invecchia ed è ben poco prolifica. La fecondità totale delle
donne italiane è scesa nel 2016 a 1,34 figli per donna (nel 2015 era 1,35), mentre per
le donne straniere il tasso di fecondità media è stato di 1,95 figli.
I nuovi immigrati sono, in ordine decrescente, rumeni, albanesi, marocchini,
cinesi, ucraini, filippini, indiani, di Moldova, del Bangladesh, egiziani, pakistani,
dello Sri Lanka, senegalesi, peruviani, polacchi, tunisini, nigeriani, ecuadoregni,
macedoni, bulgari, ganesi, brasiliani, cosovari, serbi, russi, dominicani, della Costa
d’Avorio, bosniaci, cubani, algerini, turchi, colombiani, croati, del Mali, georgiani,
del Burkina Faso, boliviani, del Gambia, salvadoregni, del Camerun, afgani, iraniani,
e qui mi fermo, perché ho seguito fedelmente la tabella Istat (dati.istat.it, agosto
2017) tenendo conto del numero, partendo da 1.168.552 rumeni, a calare fino ai
10.794 iraniani, e ho deciso di non scendere sotto i 10.000. A seguire, ci sarebbero gli
eritrei, che sono «solo» 9.394. In tutto, gli stranieri elencati nella tabella Istat
ammontano a 5.047.028, calcolati al 1° gennaio 2017. Sono complessivamente (a
prescindere dalla diversa presenza nelle varie Regioni) l’8,3% della popolazione
italiana, la quale, per conto suo, nel corso del 2017 è calata di 86.000 unità.
Il quadro variegato dei nuovi immigrati arricchisce ancora la gamma degli idiomi
parlati sul territorio nazionale. È vero che il numero più alto è quello dei rumeni, che
parlano una lingua romanza, di origine latina esattamente come la nostra, anche se
ricca di elementi slavi. Però è alto il numero di arabofoni e cinesi. Si può osservare
che una differenza sostanziale tra le minoranze antiche e le nuove minoranze sta
nella dispersione attuale, rispetto alla concentrazione del passato, quando si sono
formate intere comunità di greci, o albanesi, o un’intera città catalana (Alghero).
Però in parte questa differenza non vale, o almeno non vale per tutti, perché, almeno
in certi casi, le nuove minoranze sono raggruppate in maniera compatta. Lo sono per
esempio i cinesi a Prato, in Toscana. In quella comunità, può accadere che il cinese
venga usato come lingua predominante anche nella vita sociale e lavorativa, benché
si sia in Italia, non lontano da Firenze, la città natale dell’italiano.
Insomma, tra antiche e nuove minoranze, la situazione linguistica italiana è
davvero babelica. Inoltre non abbiamo ancora completato l’elenco con i francofoni
della Valle d’Aosta, che sono in realtà franco-provenzali, ma usano il francese come
lingua di cultura. Una legge, la n. 482 del 15 dicembre 1999, tutela una piccola serie
di minoranze linguistiche, scelte tra quelle «storiche»: sono menzionate le minoranze
albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate, francesi, franco-provenzali,
friulane, ladine, occitane e sarde (l’elenco così esposto è eterogeneo, ma l’ho ripreso
pari pari dall’art. 2 della legge, che è scritta proprio così). È evidente che si tratta di
un quadro quasi museale, rispetto alla complicata situazione reale dell’Italia di oggi,
come ben sanno gli insegnanti, i quali a volte si trovano classi di allievi per la
maggioranza non nati da famiglie italiane, anzi provenienti da diversi continenti, e a
questi allievi misti devono insegnare la lingua italiana, che è anche il passaggio
necessario per l’integrazione, non solo per l’integrazione nel nostro Paese, ma anche
per evitare che si creino ghetti nazionali in base alla provenienza, chiusi e
impermeabili.
Eppure in anni passati c’è stato chi ha proposto di insegnare l’arabo o il cinese ai
nuovi venuti: si trova sempre qualcuno che propone soluzioni improvvide, purtroppo.
Oggi è più chiaro che solo la lingua italiana può legare gente di origine
assolutamente diversa, che ha deciso di rimanere in Italia per farsi una nuova vita.
Dialettomania e dialettofobia
Oltre alle lingue di minoranza, riconosciute o meno dalla legge, di origine romanza o
non romanza, la varietà italiana si è espressa da secoli nei dialetti. I dialetti sono un
patrimonio straordinario dell’Italia, unico nel suo genere, a tal punto che la parola
«dialetto» è di traduzione quasi impossibile. Gli apparenti corrispondenti in lingua
inglese e francese, dialect e dialecte, hanno un significato diverso. In inglese e in
francese «dialetto» significa una forma particolare della lingua, una sua varietà,
adoperata da un gruppo sociale o in un certo luogo. I francesi usano il termine patois,
che indica una lingua non standard, o anche vernaculaire, che indica il parlato
rispetto allo scritto, caratteristico della lingua nazionale. Il significato della parola
italiana «dialetto», però, è molto diverso. Infatti i dialetti regionali italiani non sono
«varietà» dell’italiano, ma hanno la stessa origine dell’italiano, perché provengono
dal latino. Molti di essi hanno uno standard, una vera tradizione grammaticale e
lessicografica. Spesso lo standard si riferisce all’uso della città capoluogo, che in
certi casi era anche capitale politica e culturale. Nell’area di ogni dialetto esistono
varietà diverse, con un diverso rango sociale e una tradizione differenziata. Inoltre i
dialetti italiani non sono solo «lingua parlata». Sicuramente furono parlati, e molto,
quando in italiano si parlava pochissimo o mai. Però furono anche scritti, talora
prima che si scrivesse in lingua toscana. I primi testi letterari in volgare italiano,
anzi la prima scuola poetica italiana, è quella di Federico II di Svevia, in volgare di
Sicilia, seppure ingentilito e nutrito di modelli poetici provenzali.
L’esempio del siciliano prova che la storia dei dialetti non è esente da legami con
la storia della cultura alta, e anzi non sarebbe possibile raccontare sul serio la storia
della letteratura italiana senza inglobare in essa la vicenda dei dialetti. Essi non
vanno visti, dunque, come i nemici dell’italiano, i concorrenti della nostra lingua, ma
come una parte della tradizione culturale nazionale. Basti pensare ai più ricchi di
letteratura, come il napoletano, il siciliano, il veneziano, il milanese, il romanesco.
Come si potrebbe svolgere un discorso serio sulla letteratura della prima metà
dell’Ottocento senza parlare dei sonetti romaneschi del grande Belli, o senza far
riferimento al milanese del Porta? Belli diede voce al popolino della città dei papi,
Porta diede voce a personaggi popolari della plebe milanese. Come si potrebbe
parlare della narrativa del Seicento se non si nominasse Basile, il letterato che portò
meglio di ogni altro nella letteratura colta le fiabe popolari di magia? E come si
potrebbe parlare del teatro italiano senza menzionare le commedie dialettali di
Goldoni? Si noti che Basile e Goldoni, autori di magnifici testi in dialetto, furono
allo stesso tempo autori in lingua italiana: segno evidente che la scelta dell’uno o
dell’altro codice non era in radicale opposizione, ma dipendeva dal genere, dalla
situazione, dagli obiettivi che gli autori si ponevano di volta in volta. Coloro che
tentano di contrapporre lingua e dialetto come avversari l’un contro l’altro armati
non hanno capito praticamente un bel nulla della letteratura italiana.
Dunque i dialetti possono essere considerati una ricchezza linguistica nazionale e
un segno ulteriore della varietà linguistica italiana, assieme alle lingue di minoranza.
Resta da vedere come mai in molte occasioni la contrapposizione tra lingua e dialetto
sia potuta degenerare in forme di conflittualità.
Incominciamo con le responsabilità dei fautori della lingua nazionale. Per molti
secoli, come abbiamo visto, il possesso della lingua, perlomeno a buoni livelli di
comunicazione, fu riservato alle classi colte, mentre il popolo ne rimaneva
sostanzialmente escluso, o utilizzava varietà ibride, incroci tra lingua e parlata
locale. Quando si diffusero ideali illuministi, e i membri maggiormente progressisti
delle classi elevate ritennero che il popolo dovesse essere portato a vivere in
condizioni migliori, e che l’istruzione fosse il primo passo necessario, allora il
dialetto incominciò a essere guardato con sospetto, come una prigione in cui i
cittadini non istruiti fossero rinchiusi con danno loro e della società intera. Non era
solo una prospettiva italiana, anzi il modello veniva dalla Francia rivoluzionaria.
Per la Francia, si è soliti ricordare l’abbé Grégoire, vescovo costituzionale e
deputato della Convenzione nazionale, grande avversario delle parlate locali francesi.
Grégoire era sicuramente un uomo di idee progressiste e avanzate: era contrario ai
privilegi, avversario della schiavitù (che ancora esisteva), era sostenitore del
suffragio universale: insomma, era un democratico dalle idee molto moderne,
sinceramente avverso alla tirannia, tanto è vero che fu poi profondamente
antinapoleonico, contrario all’impero del Bonaparte. Nel 1807 pubblicò un intervento
in cui sosteneva che la presunta inferiorità razziale dei negri, in quell’epoca ritenuta
un dato di fatto indiscutibile, era fondata su di un pregiudizio, e dipendeva solo dalla
mancanza di istruzione e educazione. Un negro istruito sarebbe stato capace di
rivaleggiare con un bianco. Fra l’altro era contrario alla pena di morte, anche nel
caso della condanna del re Luigi XVI, poi ghigliottinato. Si vede bene che un uomo
del genere, capace di sostenere queste idee, non può essere messo da parte come un
reazionario. Invece i giudizi sull’abbé Grégoire formulati da chi si occupa di lingua
esprimono una condanna totale, perché Grégoire era assolutamente avverso ai patois
locali. Li riteneva un ostacolo alla costruzione della nazione e un impedimento alla
crescita civile e sociale del popolo. Avrebbe voluto operare per far sparire
completamente quelli che gli sembravano «gerghi» adatti solo a ostacolare il
progresso dei lumi. Voleva rendere universale la lingua francese. Proprio le sue idee
illuministe e progressiste avevano come sbocco una forte dialettofobia, facile da
comprendere, se si tiene conto della situazione delle plebi alla fine del Settecento.
Occorre saper storicizzare queste posizioni. Anche in Italia, all’inizio
dell’Ottocento, circolavano idee simili, pur se non tradotte in politica attiva, come
aveva potuto fare Grégoire, che era stato deputato e membro dell’Assemblea
costituente. Pietro Giordani, letterato e intellettuale italiano dell’inizio
dell’Ottocento, quello che può essere considerato il «maestro» e il primo estimatore
di Giacomo Leopardi, di cui fu anche un grande amico, quanto ai dialetti, la pensava
più o meno come l’abbé Grégoire. Anche Giordani era convinto che il dialetto finisse
per perpetuare l’ignoranza della plebe, e lo scrisse in un intervento da letterato quale
egli era, recensendo la raccolta della letteratura dialettale milanese che si era
cominciata a stampare a Milano nel 1816, curata dal lessicografo dialettale
Cherubini. Quella raccolta di opere dialettali, fin dal primo volume, si presentava
come una difesa della vitalità e qualità del dialetto. Contro il Giordani polemizzò il
poeta milanese Carlo Porta, in una serie di poesie satiriche molto aggressive e molto
ben riuscite, che tuttavia, per quanto divertenti, non mutano la valutazione generale
che abbiamo espresso: nel contesto storico, nella situazione che realmente esisteva
tra Settecento e Ottocento, l’ostilità al dialetto non era segno di atteggiamento
reazionario, ma poteva essere frutto di un profondo amore per il progresso.
Ovviamente oggi le cose non stanno allo stesso modo.
Insomma, la disputa, dialetto sì, dialetto no, non è certamente esclusiva della
nostra epoca. Anzi, ai tempi nostri le condizioni sono radicalmente mutate, perché si
tratta semmai di valorizzare il dialetto in un contesto in cui ormai tutti conoscono
l’italiano e lo parlano. Più di metà degli italiani sono ancora in grado di utilizzare il
dialetto in situazioni familiari e parlando con amici, ma sono allo stesso tempo in
grado di passare all’italiano, se sono presenti persone che non conoscono il dialetto
locale. L’uso prevalente dell’italiano in famiglia riguarda il 45% della popolazione
dai sei anni in su, l’uso prevalente del dialetto in famiglia è limitato al 16%, secondo
i dati Istat diffusi nel 2007. L’istruzione obbligatoria, impartita in lingua nazionale,
proprio come avrebbero desiderato Grégoire e Giordani, ha fatto il miracolo: ha reso
i cittadini più uguali, e ha anche permesso che il dialetto potesse essere rivalutato
come una risorsa aggiuntiva da non disprezzare affatto.
Il grande linguista Graziadio Isaia Ascoli sosteneva che conoscere la lingua, e in
aggiunta conoscere il dialetto, è un vantaggio. Sicuramente aveva ragione di pensarla
così. Ma conoscere solo il dialetto, non la lingua, è come stare in una prigione.

Dialetto è una parolaccia


Tante dispute hanno lasciato tuttavia un’eredità di tensioni irrisolte, in cui si sono
inseriti campanilismi e localismi di vario genere, segnati da una certa ripresa proprio
negli ultimi trent’anni della storia d’Italia. All’orecchio di molti, la parola «dialetto»
è diventata un insulto. Lo sforzo maggiore dei sostenitori delle lingue locali sta nel
cancellare questa denominazione, ritenuta a torto offensiva. Sembra che i fautori del
dialetto, in realtà, abbiano fatto proprio il punto di vista dei nemici delle parlate
locali come Grégoire e Giordani. La soluzione, per loro, è diventata pura questione
nominalistica: per risolvere il problema, credono basti cancellare la parola
«dialetto», sostituendola con «lingua», e così il gioco è fatto. Sembra incredibile, ma
molti politici locali hanno immediatamente cercato il consenso dichiarandosi fautori
di questa ingenua soluzione.
Quando si discusse la legge sulle minoranze linguistiche del 1999, la legge 482
che già abbiamo citato, ci fu un tentativo di infilare nell’elenco delle lingue di
minoranza alcuni dialetti italiani. Poiché il tentativo non andò in porto, essendo
chiara e accolta dal parlamento nazionale la distinzione tra lingue di minoranza non
italiane e dialetti italiani, diversi consigli regionali procedettero autonomamente,
dichiarando «lingua» la loro lingua locale. Il Consiglio regionale del Piemonte, con
un ordine del giorno del 15 dicembre 1999, riconobbe la «lingua piemontese quale
lingua regionale del Piemonte». Si noti la data: il 1999 è l’anno della legge sulle
lingue di minoranza, e infatti l’ordine del giorno si apre con la sofferta constatazione
che il Senato della Repubblica non ha incluso «il piemontese nell’elenco delle lingue
meritevoli di tutela da parte dello Stato». Per questo il Consiglio regionale si diede
da fare, rimediando a modo suo, come abbiamo visto. Non è l’unico organo
istituzionale ad aver compiuto questa scelta. Buoni ultimi sono arrivati i lombardi, e
non con un ordine del giorno, ma addirittura con una legge regionale. Il Consiglio
regionale della Lombardia ha approvato nel settembre 2016 una legge che ha come
titolo IV la «Salvaguardia della lingua lombarda». Paolo D’Achille, che dirige
l’Ufficio di consulenza dell’Accademia della Crusca, ha spiegato in un circostanziato
e chiaro intervento le ragioni per le quali questa dicitura è priva di senso, fra l’altro
perché una «lingua lombarda» proprio non esiste, in quanto il milanese è diverso dal
bergamasco e via dicendo, per cui non avrebbe senso nemmeno parlare di «dialetto
lombardo», ma semmai si dovrebbe dire «dialetti lombardi». In genere, i politici che
approvano una leggina, un regolamento, un ordine del giorno in cui si sostituisce la
parola «lingua» alla parola «dialetto», cercano consenso a buon mercato, senza avere
idea, nemmeno in modo approssimativo, di che cosa sia una lingua e che cosa sia un
dialetto. Senza rifletterci troppo, assecondano il luogo comune che ha preso piede da
un po’ di tempo, quello secondo il quale «dialetto» è una parolaccia, che comunque
va eliminata. Senza saperlo, sono seguaci di Grégoire.
Per fortuna le varie norme regionali che mirano a imporre la parola «lingua» al
posto della parola «dialetto» non prevedono una sanzione, altrimenti un linguista che
facesse lezione esponendo il quadro storico dei dialetti italiani potrebbe essere
multato (non dico incarcerato, per quanto sia difficile porre limiti al fanatismo). Le
conseguenze di queste assurde prese di posizione sono comunque imprevedibili. Il 9
dicembre 2016, il «Corriere del Veneto – Padova e Rovigo» ha dato notizia che Paolo
Tonin, sindaco leghista di Campo San Martino, «traduce» in veneto gli atti comunali.
«Per esempio,» scrive la giornalista «l’Ordine del giorno del consiglio comunale del
3 novembre scorso recita così: “Elenco degli oggetti da trattare – Lista dee robe da
discutare”; “Lettura e approvazione verbali della seduta – Letura e approvasion
verbai dea seduta”; “Variazione al bilancio – Variasion al biancio”; “Interpellanze –
Interpeanse”.» Il giornale descrive anche il modo di procedere del sindaco-
turcimanno: «Noi prepariamo i documenti in italiano e poi il bibliotecario li converte
in veneto» spiega il sindaco. «Il via libera finale spetta a me, che intervengo per
tradurre i termini più difficili. Siamo orgogliosi di tutelare le nostre radici.» Del
resto, alcuni veneti preferiscono il dialetto o l’inglese, piuttosto che l’italiano.
L’assessore alla salute della Regione Veneto interviene a Raiuno il 13 ottobre 2017
per parlare del tema del suicidio assistito di Loris Bertocco e di un suo memoriale
che mette sotto accusa la mancanza di aiuto pubblico. Dice l’assessore: «Ho sentito
di questo memòrial».
Il 13 luglio 2017, la versione on line del «Corriere del Mezzogiorno» ha riportato
la notizia che, nelle Marche, la giudice Francesca Preziosi ha deciso di nominare un
interprete per alcuni imputati napoletani i quali sostenevano di non capire l’italiano.
L’interprete è stato nominato alla buona, con una procedura familiare: dalla
«prossima udienza l’avvocato Andrea Di Buono, di Civitanova, originario di Napoli,
a titolo gratuito, sarà il primo interprete della lingua napoletana in un processo
celebratosi in un tribunale italiano». L’estensore dell’articolo ha così commentato:
«Questa ... decisione [cioè la decisione del tribunale che ha concesso l’interprete]
contiene una nota positiva: il riconoscimento del napoletano come lingua. Un
riconoscimento che riprende quello già effettuato, qualche anno fa, dall’Unesco».
Come si vede, siamo alle solite. Basta cambiare l’etichetta, incollare «lingua» dove
prima c’era «dialetto», e tutti sono contenti. Salvo la confusione: una notte nera in
cui si muovono gatti tutti neri.
Cerchiamo di definire il quadro linguistico dell’Italia, quello a cui dovrebbe
essere affezionato ogni cittadino del nostro Paese.
L’Italia è caratterizzata da una grande varietà di idiomi, che corrispondono alla
ricchezza delle tradizioni locali. Una parte di questi idiomi sono definibili «dialetti»,
senza alcun intento spregiativo. «Dialetto» non è una varietà «brutta» della lingua,
non è italiano corrotto. «Dialetto» è semplicemente una lingua locale originata dal
latino, dunque sorella della lingua italiana, ma parlata in una determinata zona, su di
un territorio geograficamente ridotto rispetto alla nazione intera, e caratterizzata da
varietà locali a loro volta più circoscritte, ma non per questo illegittime. Su questo si
deve insistere, perché si è arrivati al punto di guardare con scarso rispetto le
sottovarietà dialettali, solo perché diverse dall’eventuale dialetto dei capoluoghi che
si voleva promuovere a «lingua». Invece i dialetti si caratterizzano proprio per la
varietà al loro interno. Il piemontese di Torino è in parte diverso da quello di
Vercelli o da quello del basso Piemonte, e non c’è motivo perché i cuneesi o i
vercellesi passino al torinese. Il bergamasco è diverso dal milanese, e via dicendo.
Le varietà dialettali che hanno espresso una letteratura, ne hanno tratto
solitamente un certo prestigio, anche se si trattava di varietà rustiche. Si può citare
l’esempio del pavano antico, usato da Ruzante, nel Cinquecento, per scrivere
bellissimi testi teatrali. Ovviamente il pavano è molto diverso dal veneziano, che a
sua volta può vantare una grande tradizione letteraria. Detto ciò, mi pare giusto
ribadire che il rispetto e anzi l’ammirazione nei confronti dei dialetti italiani è un
dovere. Ciò non toglie che, là dove esistevano i dialetti, si sia scelto tuttavia da secoli
di usare, per gli scopi più elevati e per la comunicazione trans-regionale, una lingua
diversa. Per un certo tempo questa lingua fu il latino, ma poi la scelta privilegiò
l’italiano, che non è altro che il dialetto fiorentino del Trecento passato attraverso la
penna dei tre grandi scrittori Dante, Petrarca e Boccaccio, poi codificato da Fortunio
e da Bembo, poi introdotto nel Vocabolario della Crusca, che fu il primo grande
vocabolario di una lingua europea.
Il toscano, adottato da tutti gli italiani, non rimase sempre identico a se stesso. Il
toscano che si diffuse in tutte le regioni non era quello popolare, parlato dalla gente
comune, ma quello scritto dai grandi autori che abbiamo citato prima. Per quanto si
cercasse di ottenere una lingua omogenea, elementi di varietà si insinuarono anche
nella scrittura. I toscani scrissero utilizzando non di rado la loro lingua naturale,
anziché quella antica codificata dalla grammatica di Bembo. Basta leggere
Machiavelli o Guicciardini per rendersene conto. Inoltre, nelle varie regioni, si
adoperarono a volte, più o meno volontariamente, forme locali. L’italiano, nel corso
dei secoli, benché fosse nato fiorentino, divenne insomma il risultato dell’opera di
molti, anche dei non toscani. Dopo l’Unità d’Italia, si avviò a essere una lingua di
popolo, e quest’ultimo passaggio non fu facile. La storia dell’italiano si lega da
questo momento in poi alla storia della scuola e al progresso delle classi popolari.
Quanto alle lingue di minoranza, non le possiamo definire dialetti, perché sono
estranee al gruppo delle parlate italiane. Il sardo ha caratteristiche speciali, che il
glottologo gli riconosce senza difficoltà. Lo stesso accade per il friulano. In altri
casi, per il tedesco, il francese, il franco-provenzale, l’occitano, il serbo, il croato, il
greco, tutti idiomi che abbiamo visto presenti presso alcune popolazioni della
penisola, siamo di fronte a lingue che hanno una tradizione anche fuori dei confini
italiani. Dunque non sono dialetti italiani. Però la situazione di queste parlate,
all’interno della Penisola, rispetto alla lingua nazionale italiana, è in realtà
esattamente identica a quella dei dialetti: non servono per gli usi sociali nazionali,
non servono per le leggi, per il dibattito politico, per la trasmissione della scienza. Si
potrebbe osservare che la situazione è diversa per minoranze come quelle dei
francofoni della Valle d’Aosta e dei tedescofoni del Sud Tirolo italiano.
Indubbiamente le norme e gli accordi rendono speciale la situazione della Regione
autonoma Valle d’Aosta e della provincia autonoma di Bolzano. Si tenga tuttavia
presente che buona parte della popolazione che vive ora in Valle d’Aosta non è
davvero francofona, e che i tedeschi di Bolzano non parlano un tedesco letterario, ma
un dialetto tedesco, e semmai devono studiare il tedesco letterario a scuola.
Quanto ai gruppi di minore entità, la caratterizzazione glottologica, che in fondo
è un valore puramente classificatorio e accademico, è stata usata per costruire
gerarchie che alla fin fine sono di scarso valore sociolinguistico e pratico. Non
dobbiamo pensare che una lingua di minoranza valga, in quanto tale, più di un
dialetto italiano. Il greco di Calabria e del Salento, il provenzale delle valli alpine
piemontesi, non contano più del piemontese di Torino o di Cuneo. Se la pensassimo
diversamente, dovremmo dare ragione agli sforzi di chi vuole rimpiazzare sempre la
parola «dialetto» con la parola «lingua». Invece deve essere chiaro che tutte le
parlate presenti nel territorio italiano, lingue o dialetti che siano, sono di grande
interesse culturale, meritano di essere studiate e rispettate, per la loro storia e per i
loro caratteri; ma non possono prendere il posto della lingua nazionale, che
comunque è un bene di tutti, e ha funzioni diverse.
La tradizione culturale e letteraria della lingua nazionale, per merito di tutti (non
certo per merito dei soli toscani), si colloca a un livello di maggiore complessità e
ricchezza. Senza contare che in certi casi, come già abbiamo detto, i migliori
capolavori nei dialetti entrano di diritto nella storia letteraria nazionale. Rimuoverli
da questo contesto per chiuderli nella piccola gabbia della regione o della provincia
sarebbe un modo formidabile per ridurne la portata, oltre che per non intenderli.

L’azione delle classi dirigenti


Piaccia o non piaccia, il vero quadro linguistico dell’Italia è quello che abbiamo
descritto. Sono prive di fondamento le ricostruzioni storiche che hanno fantasticato
sulla presunta colonizzazione operata dall’italiano a danno dei dialetti e delle lingue
di minoranza, incolpando di questa colonizzazione i primi capri espiatori che
venivano a tiro, per esempio i governanti piemontesi degli anni dell’Unità. La lingua
fiorentina o toscana non è stata imposta all’Italia dalle picche dei granduchi Medici,
signori di Firenze. I re piemontesi, per conto loro, erano anzi piuttosto estranei alla
lingua italiana, che tuttavia si era imposta in Piemonte fin dal Cinquecento, anche
nell’amministrazione pubblica, accanto al francese (lo Stato sabaudo era infatti
bilingue: il francese era usato a Nizza, nella Savoia e in Valle d’Aosta).
I re piemontesi, per fortuna, non tentarono di imporre il piemontese o il francese,
che erano le loro lingue locali (il francese in particolare, perché i Savoia venivano
appunto dalla Savoia: le loro antiche tombe sono a Chambéry). Adottarono invece
l’italiano, e sarebbero stati giustamente considerati pazzi se avessero fatto
diversamente. L’italiano di matrice toscana, di tipo letterario come lo voleva Bembo,
era già stato scelto dalla classe dirigente, concorde, in tutti gli Stati preunitari,
indipendentemente l’uno dall’altro, e continuò a essere scelto dopo l’Unità. I fautori
della teoria delle lingue tagliate e della colonizzazione se la prendano dunque, se
proprio hanno necessità di un capro espiatorio, con la classe dirigente dei loro
rispettivi territori, a partire da quella del Cinquecento. Non diano la colpa a chi non
ce l’ha. La lingua nazionale si impose per forza di cultura e per consenso delle classi
colte. Non per forza di armi, non per forza di impero. Perché anzi l’italiano è stato,
appunto, una lingua senza impero.
II
Dove va l’italiano: un futuro piuttosto buio

Le smanie della globalizzazione

Non siamo soli


Non bisogna pensare che la situazione dell’italiano di oggi sia sostanzialmente
diversa da quella di altre lingue. Tutte le lingue d’Europa, in particolare quelle
romanze, si trovano a fare disperatamente i conti con una prevalenza universale e
quasi dittatoriale dell’inglese. Il problema è comune, anche se comuni non sono le
risposte.
La dittatura dell’inglese in sostanza mette a rischio tutti allo stesso modo. Si
tratta di un problema analogo a quello della globalizzazione, la quale appiattisce tutti
quanti sulla base di un’utopia universalistica che poi di fatto non dà i risultati sperati,
anche se continuiamo ad ascoltare la nenia sui grandi vantaggi che possono venire da
ogni forma di globalizzazione. Questo è un punto nodale. La globalizzazione è
certamente un dato di fatto. Nessuno potrebbe cancellarla, anche volendo.
L’alternativa sta semmai nell’esserne entusiasti fino al punto di sforzarsi di
anticiparne le conseguenze più radicali e magari ancora remote, o, al contrario, nel
tentare di convivere con essa senza esaltazioni eccessive, senza sentimenti
messianici e palingenetici, e anzi ricordando che la conservazione di una parte non
globalizzata delle nostre tradizioni e abitudini non è solo un dovere, una forma di
rispetto verso noi stessi e verso la nostra storia, ma anche una necessità.

Babele, la Bibbia e la pluralità delle lingue


Chi si esalta di fronte alla globalizzazione, è vittima di una sorta di grande illusione,
che colpisce anche la lingua: per questo noi ci interessiamo al problema, dal nostro
punto di vista, squisitamente linguistico. Si può osservare, facendoci storici, che
siamo di fronte a un vecchio mito, attivo già al tempo in cui il testo della Bibbia era
il principale e più autorevole riferimento culturale: nella Bibbia si legge che la
dispersione dei popoli deriva dalla divisione dei linguaggi, a sua volta determinata
dalla condanna di Dio per il folle tentativo della torre di Babele. Si trattava di
spiegare, mediante una interpretazione religiosa, la presenza al mondo di tante lingue
diverse, in contrasto con l’unica lingua anteriore alla cacciata dal giardino dell’Eden:
una sola lingua edenica, ma tante lingue nel mondo post-edenico. La presenza di
tante lingue era vista dunque come qualche cosa di dannoso, proprio in quanto effetto
di una punizione divina.
Non tutte le culture hanno giudicato in questo modo. La cultura medievale
sicuramente vedeva nella confusio linguarum una maledizione di Dio, mentre la
cultura del Rinascimento vedeva nelle lingue e nella loro varietà una ricchezza. Sono
due posizioni assolutamente antitetiche: nella cultura italiana, la prima è la posizione
di Dante, la seconda quella di Benedetto Varchi, letterato del maturo Rinascimento.
Oggi molti tornano a vedere con favore la risposta medievale, e identificano nella
dominanza dell’inglese il ritorno alla condizione edenica. Tutto questo produce
risultati immediati non tanto sul piano della comunicazione reale, perché in realtà le
lingue nazionali non sono così facili da accantonare, e le masse delle popolazioni per
fortuna non sono in grado di passare rapidamente all’inglese. Le conseguenze più
gravi si hanno invece su di un piano che potremmo definire psicologico, e che poi si
traduce in azioni e politiche concrete spesso pericolosissime. Il mito edenico
dell’inglese incide direttamente sulla considerazione che all’interno di ogni nazione
viene attribuita alla lingua nazionale. Si badi, una soluzione intelligente potrebbe
favorire un bilinguismo effettivo: conoscere bene la propria lingua nazionale, come
prima necessità, e poi conoscere bene anche la lingua internazionale dominante, e
magari conoscere anche più di una lingua internazionale. Sarebbe questa la soluzione
ottimale, la quale non richiede affatto che si assuma un atteggiamento di disprezzo
nei confronti della propria lingua d’origine. Però questa soluzione plurilingue
(dunque non edenica) costa più fatica, e soprattutto non favorisce l’illusione
dell’universalismo, il mito medievale che perdura ancora, nonostante tutto, e che
anzi trae forza dalle condizioni del presente, interpretate in maniera riduttiva.

La Francia e la Spagna
Come dicevo, di fronte alla dittatura della lingua inglese, la reazione, nelle varie
nazioni, è analoga, ma non identica. Le nazioni di maggior tradizione culturale, di
maggiore compattezza sociale e politica, si difendono in maniera migliore.
Certamente non sono in grado di rovesciare la situazione, ma almeno possono
contare sul consenso di gran parte della popolazione attorno ai valori di cui la lingua
nazionale è portatrice​.
L’esempio più interessante è sicuramente quello della Francia, ma non è l’unico.
Certo, la Francia è famosa per l’attenzione prestata alla propria lingua, anche se oggi
si riscontra qualche segno di cedimento. Tuttavia i cedimenti sono minori che da noi:
mi ha colpito per esempio che nello scontro finale di fronte al pubblico televisivo,
nell’ultima campagna elettorale per la nomina del presidente della Repubblica, i due
candidati, Marine Le Pen e Emmanuel Macron, abbiano toccato entrambi il tema
della lingua, brevemente ma con molta intensità, mostrando (loro così divisi su tutto)
di condividere il massimo apprezzamento per la lingua francese. Marine Le Pen è
partita all’attacco accusando Macron di non voler proteggere la lingua francese, e
Macron ha risposto, proprio nell’appello finale agli elettori, esaltando il proprio
amore per il francese, per notre langue qui m’a fait, – come egli ha detto – «la nostra
lingua che mi ha fatto», e ha continuato: «e che mi ha fatto crescere». Trovo che
l’espressione renda benissimo la funzione formatrice di una lingua nazionale in cui si
ripone fiducia. Non ho mai sentito uomini politici italiani, in momenti decisivi della
loro battaglia, trattare in questo modo temi analoghi; non ho mai sentito un uomo
politico italiano parlare della lingua nazionale come del nutrimento costitutivo della
propria identità, come base della propria formazione, anzi della propria natura.
Ogni nazione valorizza la lingua secondo i propri sentimenti collettivi di identità
nazionale, più o meno forti. I francesi sono da questo punto di vista sicuramente più
solidi degli italiani, anche perché la loro storia nazionale è molto più lunga, e da
molto più tempo sono riuniti sotto una stessa bandiera. Nel bene e nel male, la loro
nazione da secoli si muove sul palcoscenico della storia. La nostra nazione lo fa
appena da un secolo e mezzo. La dimensione temporale delle due nazioni non è
dunque paragonabile, la nostra maturità è ancora incompleta.
Ogni Stato, di fronte alla dittatura dell’inglese, tenta di mettere in campo
soluzioni coerenti con la propria storia e con il proprio passato, e cerca di proiettare
l’eredità del passato nel futuro. Per contro, i sostenitori della globalizzazione e della
lingua unica accusano tutti coloro che non la pensano come loro di essere troppo
legati al passato. In sostanza, spesso insinuano che il passato è passato, e che esiste
solo il futuro, ovviamente già prestabilito secondo i piani che essi ritengono vincenti.
Vediamo come si comporta chi invece cerca di sfruttare il proprio passato per
dargli un seguito vitale. Consideriamo per esempio la Spagna: la Spagna, la cui
lingua è il castigliano, non si trova senza difficoltà, benché lo spagnolo-castigliano
sia una lingua con più di 350 milioni di parlanti, cioè una delle lingue più diffuse al
mondo. Sul fronte interno, deve subire però la concorrenza delle lingue delle
comunità locali, in primo luogo del catalano. Il prezzo da pagare all’apertura verso i
localismi non è stato piccolo, per la nazione spagnola. La Spagna non può trascurare
il fatto che lo spagnolo è una lingua con un numero di parlanti abbastanza limitato
nel vecchio continente. Gli abitanti della Spagna sono 46.560.000 (ma con più di 7
milioni di catalani), contro 60.600.000 italiani, 66.900.000 francesi, 82.670.000
tedeschi. Se però si considera la presenza dello spagnolo in America e nel mondo (la
piccola minoranza delle Filippine, la Guinea equatoriale, l’Isola di Pasqua), i numeri
crescono enormemente, fino a 350 milioni di parlanti e forse molto oltre. Lo
spagnolo, grazie all’America (Argentina, Bolivia, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile,
Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay,
Perú, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Uruguay e Venezuela), è una delle grandi
lingue del mondo, assieme all’inglese e al cinese; ma evidentemente la situazione
dello spagnolo è tutta speciale. Fra l’altro, la tendenza al panispanismo proietta la
Spagna al di là dei confini dell’Europa, in qualche modo allontanandola un poco da
obiettivi comuni europei, ai quali potrebbe dare forza. Sul fronte interno, semmai, la
Spagna ha dovuto fare i conti con le spinte autonomistiche di alcune minoranze, in
particolare quella catalana.

Studenti stranieri e internazionalizzazione


La concorrenza dell’inglese si fa sentire anche rispetto a lingue non romanze. Non si
può dire certamente che anche il tedesco non ne sia investito. Tutto sommato, però, è
in gara con un’altra lingua germanica, e questo ammorbidisce il conflitto. In
Germania la promozione del tedesco è comunque messa in atto. Anzi, viene attuata
in forme sicuramente più efficaci di quelle che possiamo vedere in Italia. Basti citare
il fatto che gli studenti stranieri, attirati in base ai criteri moderni di
internazionalizzazione nelle università tedesche, sono sottoposti a corsi di tedesco.
Uno degli obiettivi della loro presenza sta proprio nella volontà della Germania di
diffondere la lingua tedesca tra stranieri, nel mondo. In molti casi, quasi in tutti i
casi, in Italia, in tempi recenti, l’internazionalizzazione è stata concepita in maniera
molto diversa, soprattutto da parte delle università: è stata intesa cioè come un modo
per attirare studenti da collocare in un mondo artificiosamente inglese, costruito ad
hoc, un mondo che in Italia in realtà non esiste. Lo scopo non era certo insegnare
l’italiano a questi nuovi studenti in visita nel nostro Paese. Non era avvicinarli
all’Italia, alla nostra cultura e quindi alla nostra lingua. Semmai si veniva a creare
una situazione paradossale: la presenza di alcuni allievi stranieri, a volte pochissimi,
veniva invocata come pretesto per costringere gli studenti italiani, seduti sugli stessi
banchi, a sopportare mediocri lezioni in inglese. Questo è un dato di fatto innegabile.
Come mai in Italia la difesa è organizzata in forme blande, o anzi è addirittura
inesistente, e semmai si attivano con facilità, anzi vorrei dire con incoscienza,
meccanismi di emarginazione della lingua italiana? La spiegazione si ricava dalla
storia, diversa da nazione a nazione. Si tratta di valutare nei singoli Paesi quanto sia
diffuso un minimo di sentimento nazionale, e l’Italia è tendenzialmente un Paese con
un sentimento di identità molto debole. Gli italiani sono rimasti al tempo del
campanile. Non è solamente colpa del carattere degli italiani, poco abituati al senso
civico e agli obiettivi comuni che non siano partite di calcio, ma è anche e
soprattutto frutto avvelenato ed eredità nociva di una storia politica molto molto
debole, non di rado infelice, ogni volta che ha voluto avvalersi della forza.

Anglicizzazione stupida
In scala, il livello più basso è rappresentato da quella che chiamerò, senza
nascondermi dietro eufemismi di cortesia, l’anglicizzazione stupida, di cui sono
vittima coloro che l’inglese magari manco lo sanno parlicchiare, e probabilmente
non dovranno mai usarlo nella vita per fare cose serie e per raggiungere risultati
importanti.
In questo caso, va precisato, non siamo per fortuna di fronte a un tentativo di
sostituzione totale della lingua nazionale, tentativo di cui parleremo ancora più
avanti in un diverso contesto, ma siamo di fronte all’inserimento più o meno
fastidioso di una gran quantità di parole inglesi o pseudo-inglesi all’interno della
lingua nazionale. Ovviamente questo è il livello più innocuo: non determina
immediatamente grandi danni, anche se veicola l’idea (falsa) di una superiorità
naturale dell’inglese sul nostro idioma, l’inglese che dovrebbe permettere di dire
cose che gli italiani non sanno e non riescono a dire in altro modo.
Incominciamo dunque da questo livello elementare. Ricordiamo prima di tutto
che illustri studiosi della lingua italiana, fin dal Settecento, hanno insistito sul fatto
che i prestiti non sono di per sé un danno, anzi possono essere addirittura un
arricchimento. Perché ci sia un arricchimento, tuttavia, occorre che la parola
forestiera rechi un concetto nuovo, o indichi un oggetto mai visto. Se così non è,
l’arricchimento resta pura illusione. Tra gli arricchimenti che definisco pura
illusione, possiamo ricordare alcuni anglismi stupidi, come step che è diventato
costante per indicare qualunque tipo di progresso di qualunque tipo, o qualunque
obiettivo da raggiungere, qualunque mission, quasi che si procedesse sempre verso
gli obiettivi con il salto della rana, e non con un percorso graduale di avvicinamento.
C’è poi il food, per indicare qualunque tipo di cibo, ora anche nelle variante visual
food per le «creazioni belle da mangiare» e street food, a cui per fortuna l’italiano
«cibo di strada» dà un po’ di filo da torcere. VisualFood. Creare, Stupire, Gustare è
il titolo di un libro uscito nell’ottobre 2014, diventato subito un «best seller tra gli
appassionati di food art», se è vero quanto annunciato da una pubblicità in Rete.
Abbiamo poi la location per indicare qualunque bella posizione di albergo o
ristorante, specialmente nelle descrizioni vergate dai recensori che si dilettano a
compilare le schede di TripAdvisor. Ma non si tratta solo di quelle: già il Gr1 del 2
marzo 2013 parlava della location segreta dei grillini in occasione del loro incontro
in un albergo romano. I grillini attirano neologismi: in un giornale del 2013 ho letto
che vogliono refreshare il Paese, cioè rivoltarlo come un calzino. In politica,
particolarmente sciocchi e frutto di una provinciale imitazione dei sistemi
d’oltreoceano appaiono il competitor, perfetto equivalente di concorrente o
avversario, e l’endorsement, inteso come sostegno o appoggio. Non parliamo della
ricerca tecnologica: a Radio Parlamento del 3 febbraio 2014 veniva presentata una
nuova traversina ferroviaria, concepita secondo «un nuovo concept di traversina».
Perché questi anglismi sono così irritanti? Il progresso non è sempre per step,
come dicevo, e la location uccide una serie di sinonimi della lingua italiana che
potrebbero essere i tradizionali luogo, sito, posizione, posto; per di più, a volte,
location viene usato a vanvera per indicare la suggestione di un locale tipico e
caratteristico: c’è chi parla della location legata alla presenza delle tovaglie a
quadretti nel ristorante, cioè qualche cosa che in Italia indicheremo come atmosfera,
fascino di un locale tipico. Quanto al food, l’unica scusante sta nel fatto che lo si
utilizza spesso per il commercio internazionale, e inoltre in versione ironica, come lo
Slow Food che indica uno stile tutto italiano alternativo al Fast food, e cerca di
spiegarlo agli stranieri. Lo Slow Food di Carlo Petrini trova una buona
giustificazione, ma sicuramente è stupida la moltiplicazione indiscriminata di food
in tutti i contesti estranei all’antitesi con il fast food, specialmente quando l’impiego
dell’anglismo si accompagna alla celebrazione ormai esagerata e quasi mistica del
primato alimentare italiano, che semmai, proprio in quanto italiano, meriterebbe di
essere propagandato in lingua italiana, anche in considerazione del fatto che la parola
italiana più diffusa del mondo è pizza. Ovviamente la cultura americana mangia
tutto: si racconta un aneddoto, non so se vero o inventato, ma certo significativo, a
proposito di quell’italiano che, in visita negli USA , deve rispondere alla seguente
domanda: «Come si chiama in italiano la pizza?». L’americano è insomma convinto
che pizza sia una parola inglese. Annamaria Testa, nel sito «Dillo in italiano», cita
parole come form quando si può dire modulo, jobs act quando si può dire legge sul
lavoro, market share quando si può dire quota di mercato, fashion quando si può dire
moda, e show o performance per spettacolo ed esibizione. Aggiungerei il più recente,
quanto a successo: il sold out, che equivale perfettamente a tutto esaurito.

Scansare gli anglismi inutili

Anglismi: ma non sono tutti uguali


Ci sono ormai molti libri che elencano parole inglesi affiancandole ai loro bravi
sostituti italiani. Sono tutti libri fortunati, a cui arride un certo successo di vendita,
perché esiste un pubblico che vuole comprendere il significato delle parole che non
conosce, parole straniere come CEO , auditing, backstage, car pooling, car sharing,
cluster, compliance, convention, crowdfunding, dress code, endorsement, fake news,
fast track, rumour e via dicendo. Il comune utente, magari, gradirebbe non vedere
nemmeno quelle parole oscure, che cominciano persino a dargli fastidio. Ma i
giornali ne sono pieni, e piene ne sono le conversazioni dell’intellighenzia, tanto per
usare una parola russa di moda in altri tempi per indicare il fior fiore degli
intellettuali. Il successo della raccolta di firme avviata e conclusa nel 2015 dalla
pubblicitaria Annamaria Testa, firme poi consegnate all’Accademia della Crusca per
invitare a porre un freno all’eccesso di anglismi, è la prova che questo argomento,
almeno in parte, incontra il favore della gente.
Esaminiamo un primo problema. Come si fa a distinguere tra anglismo «utile» e
anglismo «inutile»? La cosa più semplice sarebbe senza dubbio una posizione di
condanna indiscriminata: potremmo assumere un atteggiamento puristico, e bandire
tutte le parole forestiere, senza distinzione; ma non crediamo che questa sia la
posizione giusta. Molte parole forestiere sono davvero insostituibili di fatto, se non
in teoria, come wi-fi o stent, perché sono parole nuove giunte a noi con il loro
contenuto tecnologico o concettuale nuovo. Questa doppia novità le giustifica.
Proviamo a scorrere l’elenco che abbiamo appena fornito nel primo capoverso di
questo stesso paragrafo. Non ci sarà difficile verificare quali siano le parole che
davvero hanno un contenuto concettuale realmente nuovo, e quali ne sono prive, cioè
sono banalissime, tali da non creare problemi in caso di sostituzione. Il CEO , in
genere, è un semplice amministratore delegato, che prima si indicava come AD senza
problemi di sorta. L’auditing è una semplice «audizione», colorata però di una
superiorità che non esiste se non nella mente di chi adopera questo inutile termine
per darsi l’aria di tecnocrate. Backstage è il «retroscena», o quello che accade «dietro
le quinte»; abbiamo una buona tradizione di teatro, per cui non sarà il caso di
accattare parole di scena. Sempre più spesso il cluster è indicato molto
pomposamente nei più recenti programmi di convegni, ma in realtà si tratta di una
cosa banalissima: è semplicemente un «gruppo» che si riunisce per trattare un
argomento specifico in una sessione riservata a quel tema; dunque «gruppo» basta e
avanza, ma ovviamente le esigenze della retorica modernizzante operano con forza.
In questo caso producono anche una certa confusione, perché cluster è forestierismo
già entrato nel linguaggio scientifico italiano per designare un ammasso di stelle.
Altrettanto banale è la convention, null’altro che un «raduno» o «congresso», e si può
persino rammentare la «convenzione», termine che gli storici adoperano per eventi
quali la celebre Convenzione di settembre, l’accordo diplomatico stipulato a
Fontainebleau il 15 settembre 1864 tra le delegazioni del Regno d’Italia e della
Francia di Napoleone III, l’accordo che prevedeva lo spostamento della capitale da
Torino a Firenze.
E ancora: il dress code viene invocato secondo un’etichetta anglosassone, perché
quella italiana prevede semplicemente l’«abito scuro», senza indicare il concetto di
«codice d’abbigliamento»; e per fortuna la formula «abito scuro» si legge ancora
negli inviti del cerimoniale della nostra Presidenza della Repubblica. Non è così,
però, negli inviti di certi ambienti della finanza e dell’industria, in cui l’anglofilia è
assai più forte. L’endorsement, la cui fortuna è crescente, ha molti equivalenti
italiani, come «adesione» e «sostegno»; l’anglismo, in questo caso, rappresenta
davvero una soluzione risibile, quasi come lo sono le forme popolari mission e
location. Una ricerca nell’archivio elettronico di «Repubblica» permette di reperire
endorsement, ancora usato tra virgolette, già nel 1984-85; poi, nei primi anni del
nuovo millennio, le virgolette sono cadute e la parola si è diffusa senza freno. Ecco
ora le fake news: non sono altro che «false notizie» o «fandonie». Sono sempre
esistite, ma dette in inglese appaiono più gigantesche e tecnologiche, almeno agli
occhi degli ingenui. Non voglio nemmeno commentare il rumour, che arriva
all’inglese dal latino rumor, passando in questo come in altri casi attraverso l’antico
francese. L’inglese rumour equivale perfettamente al nostro «voce» (e a
«pettegolezzo», «diceria»). Come si vede, non ho commentato né tradotto alcune
parole dell’elenco, perché ho scelto di intervenire soltanto sugli anglismi
palesemente inutili, oserei dire, anzi, sciocchi. Forse alcuni degli anglismi che non
ho discusso potranno sembrare inutili, ma, almeno, la maggior difficoltà di indicare
una traduzione soddisfacente vale come prova che in essi vi è comunque qualche
elemento di novità, per cui possono essere presi un po’ più sul serio. Questo può
essere appunto un modo di distinguere la semplice zavorra dal prestito che riveste
qualche interesse intellettuale.

Italiano lingua corrotta?


Farò a questo proposito un altro esempio, evocando una coppia di parole che
esemplifica bene quanto abbiamo appena detto. Una serie di provvedimenti recenti
nel settore della lotta alla corruzione hanno visto l’impiego larghissimo di due nuove
parole inglesi, whistleblower e maladministration. A me piacerebbe che entrambe
queste parole restassero estranee all’italiano, ma devo ammettere che tra le due vi è
una profonda differenza. Infatti la prima deriva da una tradizione giuridica
americana, che in questo come in altri casi abbiamo copiato con entusiasmo, come
ormai ci accade continuamente. Sarebbe stato raccomandabile non inserire
whistleblower nelle leggi italiane, per ragioni di chiarezza e di rispetto verso i
cittadini: infatti la Crusca ha suggerito (attraverso il gruppo Incipit) l’equivalente
«allertatore civico», che funziona benissimo. Non è stato facile trovare questo
equivalente, perché, nella cultura popolare italiana, facilmente si scivola, in casi
simili a questo, verso parole connotate negativamente, come spione, gola profonda,
delatore e via dicendo. Il «fischiettatore» americano, da noi, assume subito la
connotazione di un fischio poco gradevole. In tal caso dobbiamo ammettere che
l’anglismo, pur poco trasparente, copre un’area semantica di novità, vuota in
italiano. Per contro, di fronte a una banalità come maladministration, davvero cadono
le braccia. Che differenza c’è tra maladministration e malamministrazione?
Assolutamente nessuna. Ho sotto gli occhi la delibera dell’Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC ) n. 1208 del 22 novembre 2017. Qui maladministration ricorre
cinque volte, e una sola volta, a p. 47, malamministrazione, che quindi almeno in
quel singolo caso è conosciuta e considerata parola esistente e valida. Negli altri
cinque casi, no: chissà perché alle pp. 15, 33, 55, 67 e 69 c’è sempre e soltanto
maladministration? Forse si tratta di sciatteria nella stesura, o nella revisione,
nell’editing, come dicono quelli che preferiscono l’anglismo.
Occorre ora esaminare una possibile obiezione. Alcuni diranno infatti che gli
italiani e la Crusca sono fieri quando scoprono che in tutto il mondo si usano parole
provenienti dalla nostra lingua, per esempio per indicare prodotti alimentari come la
pizza o il pandoro o il panettone. Si usano parole italiane anche per indicare prodotti
di cultura, in particolare nel campo della musica, delle forme metriche e poetiche: i
movimenti musicali sono in italiano in tutto il mondo, e tante forme metriche, come
l’inglese sonnet che viene dal nostro sonetto, sono prestiti e calchi sull’italiano.
L’Accademia della Crusca ha persino pubblicato un libro che raccoglie gli
italianismi nel mondo. Allora come si fa a mettere d’accordo due reazioni che
sembrano contraddittorie, cioè la soddisfazione per il successo delle parole italiane
al di là delle Alpi, e la resistenza alle parole inglesi al di qua dalle Alpi? Stiamo
usando due misure di giudizio diverse?
Naturalmente non è così: l’eccesso di anglismi produce un moto di ripulsa in
condizioni particolari, cioè in presenza di anglismi privi di senso. Nei casi di
importazione di prodotti tecnologici o di cose intelligenti che arrivano con il loro
nome inglese, questa reazione non c’è. Resta senza dubbio il rammarico di non aver
inventato per primi, ma alla fine ci si rassegna alla superiorità degli altri, quando
sono più bravi e meritano il loro primato. Diverso il caso in cui ci si trovi di fronte
all’invenzione dell’ombrello. La maladministration è un magnifico esempio di
questa categoria di forestierismi inutili: in questo caso la reazione negativa è
sacrosanta. Guai se non ci fosse, anche perché l’effetto morale è devastante:
adottando una banalità come maladministration si lascia credere agli italiani che
l’unica possibilità di analizzare in maniera critica i fenomeni della cattiva
amministrazione, l’unica maniera di trovare rimedi e forme di controllo, consista
nell’abbandono della nostra povera lingua, che (ovviamente, o almeno così ci lascia
pensare l’ANAC ) abbonda di tecnicismi come guappo, camorra, bustarella,
intrallazzo e via dicendo. L’italiano, dunque, è, a quanto sembra, una lingua
immorale. Per questo, forse, è meglio parlare inglese per amministrare bene, per fare
good admnistration. Come se Ambrogio Lorenzetti non avesse mai dipinto i celebri
affreschi del Buon governo e del Cattivo governo.

Lotta per la lingua: l’italiano in tribunale

La sfiducia nell’italiano
Purtroppo non si tratta soltanto di controllare e contrastare l’introduzione di un certo
numero di anglismi più o meno utili. Se il problema fosse soltanto questo, le cose
andrebbero ancora abbastanza bene; ma la partita per l’italiano del futuro non si
gioca in modo così semplice. Ormai il problema è un altro: cioè quello dell’italiano
nel suo complesso, o, per meglio dire, della scarsa fiducia che molti italiani hanno
nella loro lingua, e spesso questi italiani privi di fiducia sono proprio quelli che
hanno più responsabilità della conduzione della vita sociale. Si apre dunque un
capitolo molto difficile e incerto: di fronte al tentativo di una parte
dell’intellighenzia italiana di marginalizzare la lingua nazionale, estromettendola da
una serie di funzioni importanti, e prima di tutto limitandone l’uso nell’Università e
nella cultura. Assistiamo a un paradosso incredibile. Già dobbiamo fare i conti con la
marginalizzazione delle lingue diverse dall’inglese, le quali sono oggi in posizione di
debolezza. Fare i conti realisticamente con questo fatto non significa assecondare le
tendenze che riteniamo pericolose, in quanto inutilmente anticipatrici di processi che
comunque non si sono ancora compiuti. Significa invece, se si opera con buon senso,
raggiungere un sano equilibrio tra le reali necessità del momento e il doveroso sforzo
di mantenere prestigio e funzionalità per la lingua nazionale.
Vedremo tra poco che molte significative vicende che si sono svolte nel 2017
hanno dato, in questo senso, un segnale estremamente negativo, e questo segnale non
è venuto dal basso, ma è venuto dalla classe dirigente, da coloro che ci dovrebbero
guidare con saggezza ed equilibrio. Non dico che tutta la classe dirigente sia
colpevole di queste scelte, ma una parte sì, e ne porterà nel tempo una gravissima
responsabilità. Ogni volta che si solleva la questione, i nemici dell’italiano alzano la
voce, perché ritengono che sia stato perpetrato un attentato
all’internazionalizzazione. È un’interpretazione falsa, contro la quale bisogna avere
il coraggio di lottare a viso aperto. In questa battaglia, occorre prima di tutto aprire
un dialogo costruttivo con gli uomini di scienza. È necessario convincerli che non
devono abbandonare l’italiano.

Una frattura che ha provocato molti danni


La battaglia fondamentale per la sopravvivenza dell’italiano si dovrà combattere
anche nel confronto con gli scienziati, cercando la loro alleanza, perché la scienza
detta «dura» (in contrapposizione a quella di tipo umanistico) ha assunto di fatto una
posizione largamente egemonica. In gran parte, questa battaglia dovrà essere
combattuta nell’Università, che oggi è sostanzialmente controllata proprio dagli
scienziati e dai tecnologi. Sono finiti i tempi in cui gli scrittori e gli umanisti
detenevano il controllo della lingua. La dittatura degli umanisti è durata per secoli.
All’inizio, è stata senza dubbio positiva, anche perché la scienza moderna non era
ancora nata. Sono stati i letterati e gli scrittori gli artefici del grande successo della
lingua, del suo migliore sviluppo, da Dante fino ad arrivare al Rinascimento e
all’Illuminismo.
Già con l’Illuminismo le cose sono cambiate. Gli scienziati sono diventati
sempre più importanti, e qualche volta hanno anche collaborato con gli Umanisti. Ci
sono stati formidabili scienziati-umanisti, scienziati scrittori, scienziati promotori
della lingua italiana. Possiamo vantare fin da epoca antica scienziati che al tempo
stesso sono stati grandi maestri di lingua: l’esempio massimo è quello di Galileo, a
cui si può aggiungere uno dei collaboratori della Crusca della seconda metà del
Seicento, Francesco Redi. In altri secoli, l’accordo tra gli scrittori e i letterati e gli
scienziati non è stato altrettanto buono, qualche volta addirittura il rapporto si è
deteriorato, e ciò è accaduto in particolare tra la fine dell’Ottocento e la prima metà
del Novecento, in un’epoca segnata dall’idealismo crociano. Forse proprio in quegli
anni si è scavato un solco non più colmabile tra le due culture, e in Italia il solco è
stato anche più profondo che in altre nazioni.
Sarà molto difficile riuscire a rimediare a questa frattura, che pesa sui rapporti
tra le cosiddette «due culture», e pesa davvero, tutti i giorni, in tante scelte
quotidiane. Come ho detto, il destino della lingua, lo si voglia o no, si gioca proprio
nel rapporto con gli scienziati. Non possiamo abbandonarli ai loro sogni di
universalismo globalizzante; dobbiamo farli riflettere sulle loro responsabilità
relativamente alla lingua nazionale, all’italiano, e alla necessità di mantenere viva la
comunicazione sociale, cioè la comunicazione con la gente del proprio Paese,
attraverso la lingua che usano tutti, non attraverso l’inglese degli addetti ai lavori.
Il guaio è che gli scienziati tendono a far volentieri a meno dell’italiano. Gli
girano le spalle con estrema facilità. Un tempo, almeno, alcuni scienziati avevano
una salda formazione umanistica. Tra costoro, primeggiavano i medici. Oggi questa
formazione umanistica non esiste quasi più, specialmente per i giovani. Gli scienziati
si muovono in una specializzazione disciplinare caratterizzata dalla notevole
parcellizzazione, per cui, paradossalmente, c’è persino il rischio che si realizzi oggi
quel pericolo che Benedetto Croce credeva in atto all’inizio del Novecento, quando
se la prendeva ingiustamente con gli scienziati, definendoli «ingegni minuti», e
rivendicava ai soli filosofi la responsabilità di una visione generale dei problemi
della scienza e della cultura, affettando un certo disprezzo (davvero fuori luogo) per
le scienze matematiche. Allora Benedetto Croce aveva torto, e le sue tesi avevano il
potere di mettere in difficoltà gli scienziati, talora di indebolire il loro potere sociale.

Guai se la scienza non sa più parlare italiano


Oggi, ahimè, la situazione di cui parlava Croce potrebbe diventare vera, se dovesse
crescere l’insensibilità di alcuni uomini di scienza, di tecnologia e di tecnica verso i
problemi di ordine culturale. Tra questi, il problema che ci interessa in questa sede è
relativo all’uso della lingua italiana, insostituibile proprio al fine di mantenere uno
spazio per la scienza nella coscienza collettiva. La conversione totale all’inglese non
risolve affatto tutti i problemi. Torniamo sempre al medesimo tema: le illusioni della
globalizzazione. La scienza è molto meno globale di quello che credono alcuni:
intanto, è finanziata dallo Stato, cioè dai cittadini della nazione che pagano le tasse;
poi, ha delle ricadute nazionali molto forti, spesso in concorrenza con gli interessi
commerciali di altre nazioni; inoltre ogni nazione ha bisogno di parlare di scienza.
Specialmente l’Italia ha tale necessità, perché gli italiani sono un popolo con una
mentalità distantissima dalla scienza. Lo si è visto in molte occasioni, per esempio
nelle incredibili polemiche relative alle vaccinazioni. Ogni volta che emerge un
problema scientifico, gli italiani non riescono a coglierlo nella sua dimensione
razionale, dalle vaccinazioni fino alle questioni energetiche. Con molta facilità,
prende piede una reazione di tipo emotivo, quel tipo di reazione che con una banale
formula oggi molto di moda si usa definire «ragionare con la pancia». Come si fa a
evitare di ragionare con la pancia? Soltanto una buona educazione alla scienza
fornisce i necessari anticorpi. Soltanto l’abitudine ad ascoltare le discussioni degli
uomini di scienza può mettere al sicuro la nazione da scelte superficiali e può
allontanare il rischio terribile del «ragionare con la pancia», via sicura alla rovina
delle nazioni. «Ragionare con la pancia», cioè strillare ragioni dettate da emotività e
da interesse individuale, elaborate con logica meschina, può mettere in crisi l’intera
società.
Immaginiamo dunque una società in cui il ragionamento scientifico sia ormai
affidato totalmente a una lingua straniera. Immaginiamo una nazione in cui la lingua
nazionale sia sistematicamente estromessa dagli argomenti importanti. La frattura
sociale diventa incolmabile. Il dialogo sociale non esiste più, o diventa monopolio
dei guitti e degli agitatori di piazza. In parte, questo sta già accadendo.
La lingua nazionale non può fare a meno della scienza. Una lingua che non abbia
nessun controllo sulla scienza non è più lingua, ma scivola verso il dialetto, perché
viene circoscritta alla sfera della colloquialità familiare e della vita privata. Un
dialetto non ha le stesse possibilità di assolvere al compito dell’educazione popolare,
e l’educazione popolare resta fondamentale anche nel momento in cui la scienza, a
livello internazionale, parla una lingua diversa, cioè l’inglese. Ma la divulgazione
nella lingua nazionale, almeno quella, va difesa con le unghie e coi denti, perché
rappresenta l’ultima frontiera, l’ultima occasione per permettere lo scambio
comunicativo tra gli scienziati e la popolazione di quella nazione che fra l’altro ha in
gran parte finanziato le carriere e le ricerche di quei medesimi scienziati. Questo non
è un problema difficile da cogliere. Eppure, a volte, ad alcuni scienziati, sfugge
completamente.

L’Università, vero luogo di scontro


Purtroppo il problema sfugge anche a molti di coloro che gestiscono il sistema
universitario, cioè il sistema più vicino alla cultura scientifica, il sistema che ha il
compito di trasmetterla e di divulgarla, formando gli scienziati del futuro. Proprio
nel mondo dell’Università sono nate e si sono sviluppate negli ultimi anni le
posizioni più ostili alla lingua italiana, posizioni che hanno persino portato il tema
della lingua nei tribunali. Questa è una vera novità storica, perché di solito, in
passato, le questioni linguistiche non finivano di fronte al giudice togato, ma
restavano diatribe di intellettuali e letterati, per quanto le polemiche fossero vivaci.
Invece oggi abbiamo dovuto vedere anche questo: il giudice chiamato a dare
sentenza sulla lingua, chiamato a intervenire da coloro che si sono sentiti offesi
perché si voleva abolire l’italiano nell’insegnamento universitario. È la vicenda,
ormai tristemente nota, del Politecnico di Milano.
La vicenda ha preso l’avvio nel 2012, e si è risolta solo alla fine di gennaio 2018
con la sentenza definitiva del Consiglio di Stato, lungamente attesa. Ma andiamo con
ordine, e proviamo a ricapitolare brevemente i fatti. Nel 2012, l’allora rettore del
Politecnico di Milano fece approvare una norma in base alla quale l’italiano veniva
abolito completamente nei corsi avanzati dell’Università e nei corsi di dottorato. Un
colpo di mano del genere non poteva certamente incontrare il favore di tutti. Un
centinaio di professori dello stesso Politecnico si rivolse al Tribunale amministrativo
regionale della Lombardia, avviando un ricorso contro il provvedimento del rettore, e
il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, nel 2013, emise sentenza,
dando ragione a coloro che avevano avviato il ricorso. La cosa sarebbe potuta finire
lì. Ma anche nella giustizia amministrativa esiste la possibilità del secondo grado di
giudizio. Il rettore di Milano che aveva perso la causa di fronte al TAR , e, con lui
solidale, l’allora ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, interposero appello,
come loro diritto, al Consiglio di Stato. Lo spazio di tempo intercorso tra il ricorso
dei professori contro il loro rettore e la sentenza del Tribunale amministrativo
regionale della Lombardia era stato abbastanza breve: la sentenza si era avuta nel
giro di un anno. Di lì in poi, il procedimento richiese molto più tempo. Infatti il
Consiglio di Stato si rivolse alla Corte Costituzionale, per verificare se alcune righe
della riforma universitaria, la cosiddetta «riforma Gelmini», sulla quale si era basato
il rettore di Milano per introdurre l’obbligatorietà dell’inglese, fossero
costituzionalmente legittime. La sentenza della Corte Costituzionale venne
finalmente resa pubblica nel mese di febbraio 2017. Porta il numero 42: è appunto la
sentenza 42/2017.
La Corte Costituzionale non ha dichiarato illegittime le poche righe della riforma
Gelmini che avevano per oggetto il «rafforzamento dell’internazionalizzazione anche
attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi integrati di
studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e di ricerca
e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili
a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione
svolti in lingua straniera». L’articolo della legge di riforma universitaria in
questione, da noi citato tra virgolette, prevede un «rafforzamento
dell’internazionalizzazione» attraverso una serie di modalità, tra le quali, proprio in
conclusione di periodo, compaiono gli «insegnamenti», i «corsi di studio» e le
«forme di selezione», attivabili «in lingua straniera». La legge non diceva che la
lingua straniera fosse una sola. A rigore, il problema avrebbe potuto porsi anche per i
corsi in francese o in tedesco; ma naturalmente non è stato così. La lite si è scatenata
per l’inglese.
La Suprema Corte non ha dichiarato illegittime queste indicazioni di legge, ma le
ha interpretate. Tutta la discussione gravita attorno al peso e valore di una sola
parola, la parola «anche». Si rilegga il passo che abbiamo prima citato, tenendo conto
dei corsivi che vi introduciamo ora: l’internazionalizzazione si deve conseguire
«anche attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi
integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e
di ricerca e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali
disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di
selezione svolti in lingua straniera». Che cosa significa quell’«anche»? Vuol dire che
i corsi in inglese possono soppiantare quelli in italiano, o vuol dire che essi si devono
aggiungere a quelli in italiano? Si intendeva un’aggiunta all’esistente, oppure una
sostituzione totale, come aveva tentato di fare il rettore del Politecnico di Milano?
La Corte Costituzionale ha deciso che quell’«anche» significa un’aggiunta, e che
mai e poi mai una lingua straniera può rimpiazzare e mettere in un canto la lingua
italiana, una lingua il cui riconoscimento è implicito anche nell’articolo 9 della
Costituzione. La sentenza della Corte Costituzionale è molto bella, molto ben scritta,
piena di principi dettati da un profondo senso dello Stato e trasmessi con tutta
l’autorevolezza necessaria. Eppure, quando nel mese di febbraio del 2017 la sentenza
della Suprema Corte fu resa nota, si scatenò sui giornali una polemica caratterizzata
dalla sordità e dal disprezzo per la lingua italiana, con una determinazione quale mai
si era vista prima. Secondo coloro che protestavano contro la Corte, l’unica
possibilità di sopravvivenza della scienza e della cultura nelle Università italiane era
affidata all’abolizione del italiano.

Una sentenza «contorta»?


Noi italiani siamo indubbiamente molto bravi a farci del male da soli, e siamo anche
molto propensi a confondere l’internazionalizzazione con l’abolizione di qualunque
sentimento di identità nazionale. Uno studioso di prim’ordine come Sabino Cassese,
in un’intervista al «Foglio» del 7 marzo 2017, arrivò a sostenere che la proposta di
rendere costituzionale l’affermazione secondo la quale la lingua italiana è «lingua
ufficiale della Repubblica e suo fondamento culturale» era dettata da nazionalismo e
statalismo, ed era tale da destare preoccupazione non meno della politica di Trump.
A suo giudizio, la decisione della Suprema Corte era «contorta» e criticabile.
Concludeva con l’affermazione (citava in questo caso il linguista Serianni) che una
lingua «la proteggono i parlanti». Già, ma quali parlanti? Forse quelli che la vogliono
abolire? Questa, come protezione, non sarebbe di grande aiuto. E i parlanti che la
vogliono proteggere, quelli che hanno fatto resistenza? Secondo Cassese, costoro
hanno torto, peccano di nazionalismo e statalismo. Allora restano in gioco solo
coloro che vogliono aver mano libera per eliminarla. Cassese si soffermava sul
dovere di proteggere le lingue di minoranza, secondo i princîpi della legge 482 del
1999, e invitava a non cadere nella «trappola degli avvocati dell’italiano». In pratica
tutte le lingue sono da proteggere, comprese le parlate locali, tutte tranne una sola, la
lingua italiana, appunto in quanto perfida espressione (essa sola) di nazionalismo e
statalismo. Inoltre Cassese evocava il miliardo di persone che al mondo parlano
inglese, perché l’hanno come lingua naturale o perché lo hanno studiato più o meno
bene. Questo numero ha impressionato anche i giornalisti: se esistono tanti
anglofoni, allora è evidente che questa deve essere la lingua dell’Università!
Considerazione invero piuttosto impropria, perché quel miliardo non si deve affatto
iscrivere all’Università, ma spesso fa un uso strumentale e limitato del globish,
l’inglese globale lingua franca, che non serve affatto per la ricerca scientifica e per la
didattica avanzata.
Le sentenze sono molto lunghe, e anche la 42/2017 lo è. Proviamo dunque a fare
uno sforzo nella selezione del testo. Cerchiamo la parte in cui si ricava il senso
fondamentale del discorso dei giudici. Mi pare di grande rilievo la conclusione, che
contiene l’interpretazione definitiva che la Corte assegna alle righe controverse della
«legge Gelmini», una volta che sia chiarito il significato di quell’«anche» di cui
parlavamo prima. Qui la sentenza, che non è contorta per nulla, spiega che gli atenei
hanno la libertà e la facoltà di aprire singoli corsi in inglese (non interi corsi di
laurea) anche senza che esista un corrispondente corso in italiano. L’istituzione di
interi corsi di laurea senza l’italiano, invece, è sottoposta a limiti: non può essere
dettata da un semplice slancio di simpatia nei confronti dell’adozione dell’inglese.
Vengono introdotti i principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, che
vanno commisurati sul primato della lingua italiana, che esiste ed è un dato di fatto
di cui si deve comunque tener conto:

Solo con un eccesso di formalismo e di severità potrebbe affermarsi che ... i


principî costituzionali di cui agli artt. 3, 6, 33 e 34 Cost. impongono agli atenei di
erogare [i corsi in inglese] a condizione che ve ne sia uno corrispondente in
lingua italiana. È ragionevole invece che, in considerazione delle peculiarità e
delle specificità dei singoli insegnamenti, le università possano, nell’ambito della
propria autonomia, scegliere di attivarli anche esclusivamente in lingua straniera.
Va da sé che, perché questa facoltà offerta dal legislatore non diventi elusiva dei
principî costituzionali, gli atenei debbono farvi ricorso secondo ragionevolezza,
proporzionalità e adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva
offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come
del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà
d’insegnamento.

Alcuni critici della sentenza si sono smarriti prima di intendere la parte finale qui
riportata. Oppure si devono essere arrestati troppo presto, annoiati dal lungo
riepilogo dei fatti. Se i detrattori avessero letto e inteso questa parte della sentenza,
ora non si strapperebbero i capelli per i presunti «vincoli» posti alle scelte
dell’Università italiana, di qui in avanti (secondo loro) «meno libera»
nell’impostazione dei programmi di internazionalizzazione. Si legga bene il passo
riportato dalla sentenza: nessuno impedisce alle Università di attivare i corsi in
inglese, ma la Corte invita a farlo con un po’ di equilibrio e in maniera non
sconsiderata. La Corte non lo dice, ma noi tutti conosciamo bene il rischio, più volte
segnalato nei dibattiti sull’argomento, di corsi in cui l’inglese risulta di fatto molto
più modesto dell’italiano, che sarebbe stato più funzionale se usato in una
comunicazione di qualità, di fronte a un pubblico costituito unicamente da italiani.
Questa sentenza – va detto a chiare lettere – difende la nostra libertà, difende il
diritto di scelta necessario alla libertà didattica, contro un atto di autoritarismo
linguistico messo in atto da qualcuno che della libertà ha un’idea a dir poco curiosa,
perché, mentre toglie agli altri la lingua, si stupisce che facciano qualche resistenza.
La differenza sta in questo: l’imposizione del Politecnico toglieva totalmente il
diritto all’italiano, mentre la sentenza 42 non toglie (come abbiamo letto nel
chiarissimo passo citato) la possibilità di usare l’inglese, ma semplicemente invita
all’uso dell’italiano, quando non sia necessario staccarsi da esso. Giudichi chi legge,
da quale parte stia la più evidente privazione di libertà.
Molte voci si levano per spiegarci che l’inglese è la lingua internazionale della
scienza, ma la sentenza della Corte non richiede che ci addentriamo nell’eventuale
discussione di questo luogo comune, che in questo modo, sostenuto senza
discernimento, sembra più vicino alle rivendicazioni di primato del francese tra
Seicento e Settecento, culminate con gli eccessi della Rivoluzione e dell’Impero, al
tempo delle rivendicazioni di primato mondiale dell’idioma d’Oltralpe. Tralasciamo
anche un altro topos, l’esaltazione del latino nell’Università del Medioevo:
l’Università medievale appare ora come il modello più bello, perché si teneva
lezione in una lingua unica (allora il latino), secondo il pensiero di molti fautori del
progresso, dimentichi che l’Università moderna non discende in maniera diretta (per
fortuna) da quella medievale, e che la sua capacità di creare è andata di pari passo
con lo sviluppo delle lingue nazionali.
Tuttavia la lingua della scienza in quanto tale, considerata di per sé, non c’entra
per nulla con questa sentenza: la Corte, infatti, non ha mai discusso quale sia o debba
essere la lingua della scienza. Non è di sua competenza stabilire una cosa del genere.
La lingua della scienza è quella che gli scienziati e gli studiosi adottano via via. È
affidata a un libero mercato, in cui non mancano tuttavia forti condizionamenti
politici ed economici.

Lingua, scuola, tecnocrati e scienziati

La lingua della didattica


Si ammetta pure che la lingua della ricerca scientifica vede oggi una dominanza
dell’inglese, anche se non un’esclusività. Tuttavia questi discorsi ci portano fuori
strada. La Corte non si è occupata di un argomento su cui non aveva alcuna autorità o
competenza, cioè la lingua della scienza. Ha discusso però (e lo ha fatto molto bene)
quale debba essere la lingua della didattica. La didattica non è la scienza. La
differenza va ribadita, perché è determinante, anche se spesso sfugge agli osservatori
ingenui (e ora anche ad alcuni che ingenui non dovrebbero essere). La didattica
consiste nelle lezioni che si tengono all’Università allo scopo di formare operatori
delle varie discipline. Non tutti costoro diventeranno ricercatori e andranno a
lavorare nello spazio rarefatto e isolato dei grandi laboratori internazionali. È vero
che siamo ormai abituati a spedire all’estero decine di migliaia di laureati dopo avere
speso molti soldi per formarli, una cooperazione internazionale con cui aiutiamo
Paesi ricchi. Tralasciamo il fatto che siamo riusciti a piazzare all’estero questi
lavoratori qualificati anche senza i corsi integrali in inglese invocati dai mistici
dell’internazionalizzazione, a riprova del fatto che all’estero interessa soprattutto
quello che la gente sa, e sa fare, nel proprio settore di specializzazione.
Per la verità, in tempi recenti l’integralismo linguistico inglese è stato invocato
non tanto per fabbricare i giovani da «esportare». L’integralismo linguistico è
invocato ora per fare il contrario: non per esportare, ma per «attrarre», ovvero per
importare, almeno temporaneamente e quasi sempre a nostre spese (intendo: con i
soldi dei contribuenti italiani; perché l’Università sarà pure internazionale, ma per
ora vive, più o meno bene, su finanziamenti dello Stato in cui è collocata).
Teniamo tuttavia conto del fatto che molti laureati non andranno a vivere
all’estero (così speriamo). Qualcuno rimarrà anche da noi, per nostra fortuna: e
quelli che rimarranno dovranno parlare e spiegare in italiano a italiani le cose che
hanno imparato, utili per la nostra società ancora rozzamente arcaica e ascientifica.
Molti dibattiti nostrani, molte reazioni dell’opinione pubblica su temi come l’alta
velocità, le trivellazioni, l’espianto degli ulivi, le vaccinazioni, mostrano che c’è
bisogno di parlare di scienza in italiano, non in inglese. La nazione intera non solo è
nel pieno diritto di non essere estromessa dal sapere, ma condivide poco il sapere:
per questo è urgentissimo parlare di scienza in italiano con gli italiani. Si dovrà
parlare italiano nella medicina, nell’architettura, nell’ingegneria, nella tecnica
edilizia, nella scienza dei materiali, nell’agricoltura e viticultura, nell’igiene, nella
veterinaria, nelle scienze sociali, nella didattica (compresa quella delle lingue), e
persino nell’informatica. La farsa dell’inglese tra italiani (per far finta di essere
internazionali quando non lo si è, o lo si è ben poco) non serve per diffondere
conoscenza, non serve per formare professionisti migliori, anzi porta quasi sempre al
calo della qualità.
I dati dell’inchiesta OCSE -PIAAC 2013, che si leggono in Rete (versione completa
di 400 pagine in inglese, ma esiste anche una sintesi in italiano), mostrano che lo
scollamento tra il sapere e il nostro popolo è già sufficientemente ampio, per cui chi
escogita strumenti per accentuare questo divario si comporta come un irresponsabile
e rivela la propria natura aristocratica ed elitaria, nascosta dietro la maschera del
cosmopolitismo. Involontariamente, è un reazionario.

L’Italia non è l’Olanda


È anche giunto il momento di abbandonare l’abusato quanto distorto paragone con
nazioni come la Finlandia e l’Olanda (a cui fa riferimento anche l’intervento di un
luminare come Sabino Cassese, nella citata intervista al «Foglio» del 7 marzo 2017).
Questi paesi, stimabilissimi nelle loro scelte, sono costretti inevitabilmente a un uso
dell’inglese più largo del nostro. Sta di fatto, però, che un paragone più realistico
richiede per l’Italia un confronto diverso. Il raffronto, per essere di qualche interesse,
deve tener conto del numero degli abitanti: la Germania ne ha oltre 80 milioni, la
Francia 66 milioni, l’Italia 59 milioni, la Spagna 46 milioni, l’Olanda 16 milioni, la
Finlandia 5 milioni e mezzo. Si rifletta sul fatto che la Lombardia da sola ha 10
milioni di abitanti, e Lazio, Campania, Sicilia e Veneto viaggiano attorno ai 5
milioni di abitanti: ciascuna di queste regioni è dunque paragonabile alla Finlandia.
La politica linguistica di Sicilia, Campania, Veneto potrà essere eventualmente
raffrontata – se si vuole – a quella della Finlandia, a beneficio di chi ama questi
paragoni. Ma stiamo discutendo d’altro, d’italiano, cioè di una delle quattro grandi
lingue di cultura dell’Europa, con circa 60 milioni di parlanti, lingua ufficiale anche
in Svizzera, e ricca di due milioni di persone che la studiano all’estero, quarta lingua
più studiata al mondo, secondo i dati diffusi dal MAECI.
Converrà dunque aver chiaro una volta per tutte che una nazione la quale conta
tanti abitanti quanti quelli di una regione italiana non può avere la stessa politica
linguistica che si raccomanda invece per una delle nazioni europee che superano i 50
milioni di abitanti. Non a caso, la Germania, nel rivendicare il ruolo del tedesco tra
le lingue di lavoro dell’Unione, ha sempre fatto valere il criterio del numero. La
Spagna, per parte sua ha sempre puntato sugli ispanofoni nel mondo, calcolabili
attorno a 400 milioni. Un po’ di attenzione al mondo reale, sicuramente plurilingue,
ben diverso dalle Università medievali dove si leggeva noiosamente la lezione in
latino, gioverebbe a intendere meglio le esigenze del nostro tempo.

L’identità sfocata
Converrà anche smettere di assumere un atteggiamento di presuntuosa sufficienza
ogni volta che si parla della cura rispettosa della propria lingua perseguita dai
francesi, con attiva partecipazione della loro Académie. Un esame della politica
economica espansiva della Francia, per esempio nel settore della grande
distribuzione, mostra che i francesi se la cavano benissimo a livello internazionale,
anche se guardano alla propria lingua con un sentimento intenso di affetto e fiducia.
E guardare alla propria lingua con affetto e fiducia non vuol dire non imparare
l’inglese. Infatti mediamente i francesi lo parlano meglio degli italiani. Tra le due
cose, amore per la propria lingua e conoscenza delle lingue straniere, non c’è alcuna
contraddizione.
È dunque scandaloso, a parer mio, che qualcuno si sia scandalizzato perché la
Suprema Corte ha messo per iscritto una cosa che dovremmo pensar tutti, e cioè che
per nessuna ragione si può ridurre la lingua italiana «a una posizione marginale e
subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e
dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio
culturale da preservare e valorizzare».
Ha ben ragione Michele Ainis («la Repubblica», 8 marzo 2017, p. 33) quando
ribadisce che l’italiano costituisce un bene culturale in sé, e negarlo significa solo
mostrare apertamente che molti italiani hanno «un’identità debole, sfocata», che la
nostra storia è scandita dal localismo, più che dal nazionalismo. La Corte, parlandoci
di «ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza», cioè invocando il senso della
misura (che nel Paese del massimalismo è stato subito interpretato come ambiguità),
ci ha dato un segnale: può essere l’occasione per un grande percorso che aiuti a
elaborare una politica linguistica moderna, capace di limitare in nome di principi
comuni l’autonomia sconsiderata di atenei travolti non dall’ansia
dell’internazionalizzazione (come vogliono farci credere), ma massacrati e ridotti ai
minimi termini da defatiganti e artificiose gare di concorrenza pseudo-aziendale in
cui si consumano le poche risorse che restano, e che potrebbero essere meglio
impiegate diversamente. Ci serve insomma una politica capace di valorizzare
l’italiano, lingua materna, lingua di avvio, con il plurilinguismo come punto
d’arrivo, ricordando (come ha scritto la scienziata Maria Luisa Villa) che l’inglese,
da solo, non basta.

Dicembre 2017: una nuova polemica


Il 2017 si era dunque aperto con la discussione attorno alla sentenza 42 della Corte
Costituzionale, sentenza che aveva rinfocolato le polemiche relative all’uso
dell’italiano e dell’inglese nell’Università. Chi avrebbe immaginato che lo stesso
2017 era destinato a chiudersi con una nuova polemica relativa, questa volta, alla
lingua da utilizzare nelle domande di finanziamento per le ricerche di interesse
nazionale dell’Università dirette al Ministero della Pubblica istruzione? La ministra
Carrozza e il Ministero si erano schierati con gli avversari dell’italiano. La nuova
ministra Valeria Fedeli, che pure aveva nominato il linguista Luca Serianni a capo di
un gruppo incaricato di migliorare il livello dello studio dell’italiano nella scuola, ha
compiuto la stessa scelta, come vedremo tra poco. Chissà perché, i ministri
dell’Istruzione italiani (o dovrei dire le ministre?) sembrano non amare la nostra
lingua. Oppure dicono di amarla, forse la amano davvero, ma poi sono pronti a
girarle le spalle, quando è il momento di prendere davvero le decisioni.
I fatti, prima di tutto. Sabato 30 dicembre, sulla prima pagina del «Sole-24 Ore»,
con un tempismo notevole, battendo in velocità anche l’Accademia della Crusca, che
pure dovrebbe vegliare ed essere la più celere in casi come questo, è comparso un
allarmato e allarmante articolo di Annalisa Andreoni, che pubblicamente ha
denunciato la scelta del Ministero dell’Università. Infatti il 27 dicembre 2017 il
MIUR ha diffuso l’attesissimo bando per il nuovo PRIN . Si chiama PRIN (Progetti di
Rilevante Interesse Nazionale) il bando per il finanziamento dei progetti universitari
di ricerca di interesse nazionale, un po’ di ossigeno per la sottofinanziata ricerca
italiana. Nel bando si leggeva che la domanda avrebbe dovuto essere scritta soltanto
in lingua inglese, con un buffo codicillo, cioè che eventualmente era possibile
aggiungere una versione facoltativa in italiano. Tale aggiunta suona ancor più
offensiva nei confronti della nostra lingua, che assume in questo modo una funzione
ancillare, a beneficio non si sa di chi, forse di qualche attardato cultore delle vecchie
discipline umanistiche, desideroso di sperimentare la traduzione nell’antico idioma
di Dante.
La condanna di Annalisa Andreoni era severa, così ben espressa che difficilmente
i Cruscanti avrebbero potuto dire meglio, anche se fossero arrivati primi. Faccio
notare che Annalisa Andreoni è ricercatrice di Letteratura italiana (con abilitazione
all’ordinariato), dunque coltiva una disciplina umanistica, ma allo stesso tempo può
vantare un curriculum in cui le esperienze internazionali spiccano con un’evidenza
indiscutibile. È stata assegnista di ricerca nel dipartimento di Studi italianistici
dell’Università di Pisa e nell’a.a. 2007/2008 è stata fellow a «Villa I Tatti», The
Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, ha partecipato a incontri
internazionali (tra i quali i Congressi della Renaissance Society of America di
Chicago e Los Angeles, il Congresso della British Society for Eighteenth-Century
Studies, e il Convegno su Aristotelian Philosophy and the Vernacular in the
Renaissance della University of Warwick. Così scriveva la studiosa sulla prima
pagina del «Sole-24 Ore»:

È grave che il Ministero dell’istruzione della Repubblica italiana tratti la lingua


nazionale alla stregua di una lingua minore, rendendone facoltativo l’uso nella
stesura di progetti che hanno nel loro nome l’aggettivo «nazionale». ... La
promozione e la ripresa del Paese passano anche da questo: dal rispetto che si ha
della propria lingua. La scelta di rinunciare alla lingua nazionale, nella sua
insensatezza, ha conseguenze negative sul piano culturale ed economico, poiché
rischia di rendere vani gli sforzi di tutti coloro che operano per il rilancio del
nostro Paese. Perché mai dovremmo affaticarci a promuovere l’italiano in giro
per il mondo – e con la lingua viaggiano anche la creatività e la produzione
italiana, non dimentichiamolo – se a considerarlo inutile sono coloro che per
primi dovrebbero difenderlo? Spiace dirlo, ma è l’ennesima prova del
provincialismo dell’attuale ceto politico, drammaticamente inadeguato alle sfide
che abbiamo di fronte, che scambia per internazionalizzazione la dismissione
dell’identità nazionale. Ci permettiamo di dare un suggerimento al Ministero
dell’istruzione: visto che l’italiano per loro è evidentemente una lingua inutile, la
prossima volta scrivano il bando direttamente in inglese; forse, allora, riusciremo
a prenderli sul serio.

Non si potrebbe dire meglio. Su questa materia, il MIUR si muove da anni con
incertezza. Mi si perdoni se entro in una materia un po’ tecnica, ma qui il caso lo
richiede. Prima di questo bando 2017, si ebbero il bando PRIN 2015 e il bando PRIN
2012. Come si vede, questi bandi sono intervallati da periodi di silenzio, perché i
finanziamenti alla ricerca dell’Università non vengono erogati tutti gli anni. La serie
PRIN è dunque quella che ho detto: 2012, 2015, e ora 2017. Nel 2012, si richiese una
domanda compilata in lingua italiana e in lingua inglese. In questo modo si affianca
alla lingua nazionale la lingua con la quale il progetto può essere più facilmente
sottoposto al giudizio di studiosi stranieri. Nel 2015 la scelta fu ancora differente: si
lasciò la libertà di adottare l’inglese o l’italiano. Anche questa soluzione è
interessante: affida la scelta alla progettualità di chi presenta la domanda,
salvaguardando gli ambiti in cui un giudice competente deve per forza conoscere la
lingua italiana, come accade per molte discipline umanistiche. Nel 2017 invece,
come abbiamo visto, si è passati integralmente all’inglese.

Il Piemonte non era stato da meno


Le incertezze in materia di lingua non sono monopolio del MIUR . Esiste un
incredibile precedente. La Regione Piemonte, nel 2008, ha diffuso un «Bando
Scienze umane e sociali», pubblicato sul supplemento ordinario n. 2 del Bollettino
Ufficiale della Regione Piemonte n. 48 del 27 novembre 2008. In quell’occasione fu
reso obbligatorio l’uso dell’inglese. Il bando, a differenza della domanda richiesta ai
concorrenti, era in italiano (come del resto è ora in italiano il bando PRIN 2017). Nel
caso della Regione Piemonte, la scelta era tanto più ridicola, se si considera che le
ricerche presentate proponevano (come ovvio, trattandosi di un bando regionale), uno
stretto riferimento alla cultura del Piemonte, per cui i revisori anonimi
appositamente individuati avrebbero pur dovuto capire qualche cosa di italiano, e
forse anche di dialetto, di provenzale, di franco-provenzale e di francese. La loro
capacità di leggere domande redatte in italiano sarebbe stata semmai una garanzia di
giudizio competente ed equilibrato. Questo è probabilmente un caso-limite, e si
sperava che fosse acqua passata, ma la scelta del MIUR per il PRIN 2017 ce l’ha fatta
tornare in mente, con tanto maggior disappunto, se pensiamo che nel febbraio 2017 è
stata resa pubblica la sentenza n. 42 della Corte Costituzionale relativa all’equilibrio
tra inglese e italiano nell’Università. Dopo una sentenza del genere, sembra persino
incredibile che un ministero della Repubblica italiana abbia potuto disinvoltamente
decidere di bandire la lingua italiana dalle domande di finanziamento per la ricerca
di interesse nazionale.

La Crusca batte, e la ministra risponde


Di solito le questioni relative alla scuola superiore e al reclutamento degli
insegnanti, che coinvolgono migliaia di persone alla caccia di posti di lavoro,
suscitano grande interesse nell’opinione pubblica. Invece le questioni universitarie
sono molto più tecniche e circoscritte, difficilmente raggiungono le pagine dei
giornali, a meno che non si tratti di qualche scandalo, della parentopoli dei concorsi
o del rientro dei cervelli. La lingua da adottare per una domanda di finanziamento
non sembrerebbe insomma tema di notevole rilevanza giornalistica. Invece, nel caso
del bando PRIN 2017, l’eco giornalistica è stata immediata. Come già abbiamo detto,
l’avvio è stato dato dall’articolo del «Sole-24 Ore», poi immediatamente seguito
dall’intervento dell’Accademia della Crusca. Quando l’opinione pubblica è
interessata a un argomento linguistico d’attualità, la Crusca, in genere, dice la sua
pubblicando un «Tema del mese» nel proprio sito. Il «tema del mese» della Crusca
può essere definito come una sorta di articolo di fondo, generalmente a firma del
presidente dell’Accademia, o di qualche accademico. Il tema del mese dedicato alla
lingua delle domande del PRIN ha avuto immediata fortuna. L’argomento è stato
subito ripreso in varie interviste radiofoniche e giornalistiche, tanto che il 6 di
gennaio 2018 la stessa ministra Fedeli, sul quotidiano «Il Giorno» (p. 6), ha
polemizzato con coloro che mostravano di non condividere la scelta dell’inglese, e,
tra questi, in modo speciale, con il presidente dell’Accademia della Crusca.
La risposta della ministra è stata molto chiara, utile per fugare ogni dubbio, nel
caso in cui si fosse pensato a una semplice svista: «la redazione obbligatoria delle
domande in lingua inglese appare funzionalmente indispensabile» dichiara Valeria
Fedeli. Le ragioni? L’inglese «è, semplicemente, la lingua veicolare della
comunicazione internazionale fra ricercatrici e ricercatori» (si potrebbe rilevare
l’effetto involontario del «politicamente corretto» di tipo antisessista, che qui
rischia, per contro, di suonare estremamente sessista). A questo punto, almeno, la
questione appare più chiara: purtroppo il Ministero, nel dare un calcio all’italiano, ha
compiuto una scelta deliberata e ponderata.
Ho tralasciato un aspetto più squisitamente tecnico: la ministra afferma che la
scansione cronologica dei bandi PRIN che io ho indicato, cioè 2012 (con l’obbligo di
compilare la domanda in italiano e in inglese), 2015 (con la possibilità di scegliere
liberamente tra italiano e inglese) e 2017 (con l’obbligo assoluto dell’inglese) è a suo
giudizio errata, perché nel 2014 il bando SIR già richiedeva l’uso esclusivo della
lingua inglese, e SIR «era l’acronimo del PRIN di quell’anno». Spiace che un ministro
dell’Istruzione non sappia che un bando SIR non è mai stato il succedaneo del PRIN ,
ma una cosa completamente diversa. L’acronimo medesimo lo rivela: a differenza
dell’acronimo PRIN («Progetti di Rilevante Interesse Nazionale»), SIR deriva da
parole inglesi: significa «Scientific Independence of young Researchers». Si tratta di
un bando riservato ai giovani, e corrisponde ai bandi ERC , «European Research
Council». Per questo non ci fu nel 2014 alcuna levata di scudi contro la domanda in
lingua inglese. Viene anche da chiedersi: se il Ministero era tanto fiero della propria
scelta anglofila del 2014 per il bando SIR , perché nel 2015 cambiò idea, e passò
all’opzione volontaria nella scelta della lingua? La risposta è una sola: il Ministero,
su questo tema, brancola pericolosamente nella più assoluta incertezza. A volte
protegge l’italiano, a volte se ne sbarazza. Non è escluso che ci siano divergenze tra i
funzionari del MIUR , e che queste ne siano le conseguenze.

Resistenti e insipienti

I nemici dell’italiano si rivelano


Nel sito della Crusca, i temi del mese riservano uno spazio per l’intervento dei
lettori, e il tema del mese sulla lingua del PRIN 2017, inevitabilmente, suscitò molti
commenti. La maggior parte degli interventi erano a favore della lingua italiana, cosa
del resto prevedibile, perché generalmente chi frequenta il sito della Crusca ama la
nostra lingua. Ma c’è anche chi dissente. Consideriamo dunque gli argomenti di
coloro che non la pensano come noi, e vediamo che cosa ci possono insegnare. Ecco
quanto afferma un professore ordinario che (ci tiene egli stesso a sottolinearlo)
appartiene all’area umanistica:

Non scrivo un articolo scientifico in italiano dal... 1993, se non erro. Confesso
che non ne sarei capace, e se anche lo facessi potrei tranquillamente riunire i
colleghi italofoni nel salotto (che, credetemi, è molto piccolo) di casa mia.
L’uso «scientifico» dell’italiano da parte mia e di tanti colleghi si limita ai
progetti del Ministero e poco più, in cui si rende in italiano, faticosamente e
grossolanamente (evitando termini troppo tecnici, che spesso in italiano non
esistono) ciò che già si è pensato e redatto in inglese. Pensavo che questo doppio
lavoro si rendesse necessario al fine di rendere il messaggio comprensibile a
colleghi o tecnici ministeriali che forse hanno poca familiarità con le
pubblicazioni internazionali. Adesso scopro che si tratta invece di difendere un
«patrimonio storico», un «primato», una «tradizione» – il tutto condito da un
abbondante uso dell’aggettivo «nazionale».
Speravo che questo doppio lavoro fosse finito e che l’italiano si potesse relegare
all’ambito informale e quotidiano che gli appartiene. Forse non lo sarà
quest’anno, ma lo sarà a breve.
Forse per molti colleghi di area umanistica l’italiano è davvero necessario; forse
è la loro prima lingua – la mia è una di quelle «cose» senza nome che la Crusca
chiama «dialetti» perché così le chiamano le leggi della Repubblica (in barba a
ogni considerazione scientifica. Ma questa è un’altra storia).

Questa lettera, che fu «postata» nel sito della Crusca nel pieno del dibattito, mostra
un incomprensibile quanto immotivato odio per la lingua nazionale, ma è preziosa,
perché contiene tutte le ragioni per le quali noi ci battiamo contro la
marginalizzazione dell’italiano. Se prevarranno idee del genere, è evidente che
l’italiano non avrà futuro, e non avrà futuro nemmeno la nazione in cui viviamo. Si
dissolverà nei particolarismi, illudendosi di compensare la propria insignificanza
nella globalizzazione.
È evidente che chi non usa mai l’italiano per comunicare la propria scienza, alla
fine non sa più farlo: il racconto di questo professore ne è un esempio da manuale,
così come è da manuale la sua insensibilità per la comunicazione sociale. Costui vive
la sua esperienza solipsistica, e ne gode, chiuso nello spazio ristretto della sua bella
torre d’avorio, comunicando con quelli che soli ritiene i propri pari.
Che cosa accade se la pensano così anche studiosi il cui contributo al sapere
collettivo potrebbe risultare prezioso? È lecito tollerare che costoro si vantino della
propria solitudine? Sordità verso le esigenze degli altri; in fondo, si tratta soprattutto
di questo: non basta a costoro poter scrivere liberamente in inglese, se lo ritengono
opportuno. A costoro interessa, invece, abolire o almeno sminuire l’italiano,
invocando, secondo il caso, l’inglese o il dialetto, disprezzando coloro che dichiarano
di voler far uso della lingua nazionale in cui si sono formati, trattandoli per questo
come retrogradi e sopravvissuti. Questo è il vero scopo di chi, però, la carriera l’ha
fatta in Italia, e ha lo stipendio pagato da contribuenti che, nonostante tutto,
continuano a parlare italiano.

La selezione degli insegnanti: un problema d’inglese?


A proposito dell’attenzione del MIUR per la lingua italiana, potremmo richiamare un
intervento di Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera» del 22 dicembre 2017.
Questa volta non si parla di finanziamenti ministeriali alla ricerca, ma di concorsi
per diventare insegnanti. Ma la questione dominante è sempre la medesima:
l’inglese. Scrive Di Stefano:

Il nuovo concorso per aspiranti professori nelle scuole secondarie, che verrà
bandito in gennaio [2018] dal Ministero, prevede per tutti i candidati un
colloquio in lingua straniera. Se, come viene anticipato, si richiederà la
conoscenza dell’inglese almeno al livello B2, vale la pena porsi alcune domande.
Primo, fermo restando che l’inglese è la lingua più parlata in Europa, siamo
sicuri che a Milano o a Palermo un insegnante di storia, di italiano, di musica o di
matematica capace di ordinare con scioltezza una birra scura a Soho sia un
insegnante migliore di un altro che nella stessa situazione mostri qualche
impaccio?

Sembrano molto distanti i due mondi, quello della ricerca, di cui prima parlavamo,
con le domande per i finanziamenti del PRIN , e la scuola, con la formazione dei
ragazzi. Eppure, improvvisamente, questi due mondi si collegano, e ciò avviene
proprio durante la polemica che stiamo raccontando. A collegarli, è un intervento
pubblicato il 5 gennaio 2018 sul «Corriere della Sera», a firma di Gianna Fregonara.
La giornalista prende posizione a favore della scelta per l’inglese compiuta dal
ministro dell’Istruzione, e non sembra voler stare tra gli amici dell’italiano, visto ciò
che scrive a proposito delle domande in inglese: «Con realismo questa volta i
“burocrati” hanno ammesso che richiedere la versione italiana è inutile, uno spreco
di tempo. E che, poiché i valutatori non sono solo italiani, avere una versione
“universale” rende il processo di selezione più semplice». L’italiano è dunque una
lingua che nella cultura non serve più a niente.
Lo sappiamo: si tratta di un’opinione ormai non rara. Sappiamo anche che le
opinioni vanno rispettate, il che non vuol dire che non si richieda almeno un po’ di
coerenza nel ragionamento, e qui la coerenza viene meno. Scrive infatti la
giornalista, questa volta manifestando un po’ di tardiva simpatia per le sorti
dell’italiano:

Ci sarebbe anche una seconda domanda: la lingua si salva se un’élite di


ricercatori – stiamo parlando di qualche migliaio di domande – si esercita in
italiano o se si riesce ad insegnarla a scuola in modo decente facendo sì che quei
quindicenni che vengono testati dall’OCSE -PISA possano finalmente avere un
risultato nell’uso della loro lingua natia in media con i loro coetanei degli altri
Paesi europei? Magari anche attivando finalmente quei corsi di italiano seconda
lingua per gli stranieri che studiano in Italia che diffonda la lingua anche a chi
arriva e si stabilisce nel nostro Paese. O riuscendo a far innamorare i ragazzi
della lettura, in un Paese dove in una casa su due non ci sono libri, in italiano.

Ma come si fa a propagandare l’inutilità dell’italiano ai fini della scienza, e allo


stesso tempo preoccuparsi della buona didattica dell’italiano nella scuola? Non vi è
contraddizione tra questi due atteggiamenti? Il problema sta proprio in questo: nella
perdita di prestigio della lingua nazionale agli occhi dei giovani e delle famiglie, e
tale perdita di prestigio è causata da scelte come quella compiuta per il PRIN . Esiste
una chiara relazione tra due cose apparentemente così diverse. Come si può chiedere
ai giovani di impegnarsi nello studio dell’italiano, come si fa a invogliarli a leggere
libri italiani, come si fa a proporre loro i nostri classici che contano, da Dante a
Machiavelli a Galileo, se allo stesso tempo si dichiara pubblicamente che l’italiano
non serve a niente, e che gli scienziati e studiosi di oggi ne possono (anzi ne devono)
fare tranquillamente a meno? Se l’italiano è una lingua in pantofole, se conta come
un dialetto, chi mai dovrebbe impegnarsi per impararlo? Chi mai dovrebbe perderci
del tempo? Credo che, proseguendo così, le statistiche PISA e OCSE vedranno l’Italia
scivolare sempre più giù.
Ma non è ancora finita. Leggiamo la conclusione dell’articolo della giornalista
Fregonara:

La polemica sull’inglese contro l’italiano per attività così specialistiche come la


ricerca scientifica rischia di essere lontana anni luce da quello che è il sentimento
diffuso degli italiani. Basterebbe un semplice esercizio, andare ad un incontro tra
genitori di una qualsiasi scuola superiore: si parla solo di come si impara
l’inglese – attività nella quale la scuola italiana fatica particolarmente – e non del
livello di italiano dei propri figli. Un’ansia che può essere sicuramente eccessiva
ma sulla quale chi ha responsabilità sulla scuola, la lingua e l’istruzione farebbe
bene a riflettere. Sarebbe sicuramente più utile all’italiano e all’interesse
nazionale di un progetto scientifico declinato nella lingua di Dante.

Attese della gente, ma non del tutto spontanee


L’aspettativa del grande pubblico, sempre più spesso, è davvero quella descritta qui
sopra. Si tratta di vedere se sia spontanea o naturale, e se sia da prendere sul serio, o
da combattere, o almeno da ridimensionare alla luce del buon senso. Tempo fa, il
giornalista Paolo Di Stefano, ospite all’Accademia della Crusca, ebbe occasione di
ricordare un aneddoto personale. In una riunione di genitori della scuola frequentata
da suo figlio, ci si lamentava per la mancanza di insegnanti, non ancora nominati per
lentezze burocratiche. Quando Di Stefano si dichiarò preoccupato per la mancanza
del professore di italiano, che insegnava (a suo giudizio) «la materia più
importante», fu tacitato dagli altri genitori, pronti a negare che l’italiano fosse
davvero così importante. Quei genitori avevano assorbito un’ideologia comune,
senza rendersi conto del male che per questo poteva toccare ai propri figli. Possiamo
chiederci di chi sia la colpa della diffusione di luoghi comuni di questo genere.
Possiamo chiederci chi ne sia il responsabile. Se gli italiani si sono convinti di queste
cose, perché mai i loro figli dovrebbero sobbarcarsi la fatica di imparare l’italiano a
scuola? Perché mai i genitori si dovrebbero preoccupare delle inchieste OCSE -PISA e
PIAAC , che testimoniano scientificamente che gli italiani non sanno l’italiano, ciò
che, a questo punto, non appare di per sé particolarmente grave, anzi quasi quasi
sembra diventare un vantaggio?
Forse, per assecondare quel largo pubblico evocato dalla giornalista del «Corriere
della Sera», potremmo decidere di passare totalmente all’inglese, come toccò a
Malta, che è rimasta oggi, dopo la Brexit, l’ultimo Stato nell’Unione Europea in cui
l’inglese stesso è lingua ufficiale. Se facessimo questa scelta, avremmo un primato
da vantare di fronte al mondo: saremmo stati i primi ad aver gettato alle ortiche la
nostra lingua nazionale da soli, senza essere stati costretti da nessuno. Sarebbe una
libera scelta tutta nostra. Nelle scuole si potrebbe finalmente passare direttamente
dai dialetti all’inglese, come sognano tanti fautori della spontaneità linguistica.
Sarebbe la degna conclusione di uno sforzo compiuto per essere internazionali e
creolizzati al tempo stesso. Un tempo si guardava alle lingue creole con sospetto,
ritenendole incomplete e minori, ma oggi c’è chi spiega che la povertà delle lingue
creole è soltanto una fandonia dettata dal pregiudizio razzista e colonialista. Dunque,
via ogni timore. Creolizziamoci. Sarà un formidabile suicidio assistito.

Aggressori e aggrediti
Il giorno 8 gennaio 2018, nel blog di Marco Bella, è comparso un intervento sulla
questione della lingua dei bandi PRIN . Marco Bella è professore di chimica organica,
e ama presentarsi così: «Negli ultimi anni ho vissuto vicino all’Oceano Pacifico di
San Diego, California, il Mar Baltico di Aarhus, Danimarca e il Mare Tirreno di
Anzio». Ha il cuore e la testa per metà in America, come tanti italiani. Il titolo del
suo intervento è molto chiaro: Per una volta il Miur ha ragione. Intende dire che il
Ministero ha fatto bene ad abolire l’italiano.
Vediamo dunque le ragioni per le quali uno scienziato dà ragione al MIUR che
abolisce l’italiano. La prima ragione sta nel fatto che la selezione dei progetti di
ricerca deve essere affidata a revisori stranieri, perché questo permette di limitare i
comportamenti non trasparenti in un ambiente nel quale «bene o male tutti
conoscono tutti». Servono arbitri imparziali, e questi ce li garantisce, secondo lo
scienziato, l’uso della lingua inglese. Marco Bella prosegue spiegandoci che in
chimica, fisica, biologia e medicina le pubblicazioni scientifiche recenti sono
esclusivamente in lingua inglese. Non esiste una rivista scientifica con un minimo di
prestigio la quale accetti articoli in italiano. Ma poi lo scienziato si fa più benevolo:
«Posso capire – ammette – i colleghi di altre aree, come Legge e Lettere, nelle quali
la produzione accademica in italiano è invece rilevante».
Io spero che gli scienziati non ragionino tutti così. L’oggetto del contendere,
giova ricordarlo, era: se il Ministero avesse ragione o torto nell’abolire l’italiano
come lingua ufficiale per le domande di finanziamento.
Ma è poi vero che l’italiano non si usa più nella ricerca universitaria? Proviamo a
consultare i dati ufficiali, che si possono ricavare dalle campagne di valutazione
condotte dall’ANVUR , l’«Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario
e della Ricerca» a cui è affidato il compito di controllare e giudicare il sistema
universitario del nostro Paese. Per la valutazione triennale 2011-2014, ultima svolta
e conclusa, i cui dati sono ormai disponibili, ogni docente universitario della
Repubblica è stato chiamato a presentare una serie di «prodotti» della ricerca.
«Prodotti» è l’espressione poco gradevole che si usa oggi, dopo che è invalso un
linguaggio modellato su quello aziendale. Questi «prodotti» sono in larghissima
parte pubblicazioni, in qualche caso progetti o brevetti, e l’ANVUR li ha anche
classificati in base alla lingua in cui sono scritti. Ogni docente ha dunque inviato una
scelta delle pubblicazioni o «prodotti» che riteneva migliori, allo scopo di essere
giudicato e valutato per quelli.
Una tabella del rapporto finale dell’ANVUR ci fornisce la percentuale di italiano e
inglese, ripartita per aree disciplinari.
Per leggere la tabella, è ovviamente necessario conoscere quali siano le aree
scientifico-disciplinari. Sono le seguenti:
Area 01 - Scienze matematiche e informatiche
Area 02 - Scienze fisiche
Area 03 - Scienze chimiche
Area 04 - Scienze della terra
Area 05 - Scienze biologiche
Area 06 - Scienze mediche
Area 07 - Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 - Architettura (8a) e Ingegneria civile (8b)
Area 09 - Ingegneria industriale e dell’informazione
Area 10 - Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche (11a) e psicologiche (11b)
Area 12 - Scienze giuridiche
Area 13 - Scienze economiche e statistiche
Area 14 - Scienze politiche e sociali
Percentuale di prodotti conferiti per area e lingua del prodotto

I dati della tabella numerica possono essere visualizzati in forma di grafico:


La tabella ci aiuta a capire, per prima cosa, perché è nato il conflitto nel Politecnico
di Milano: si vede bene che nell’area dell’Architettura l’uso dell’italiano per la
ricerca scientifica è maggioritario rispetto all’inglese, a differenza di quanto accade
nell’area dell’Ingegneria civile. È evidente che i professori di Architettura non
potevano essere allineati ai loro colleghi ingegneri, perché nella loro ricerca l’uso
della lingua è del tutto differente. Nel loro caso, applicare l’uso dell’inglese nella
didattica appariva un’evidente contraddizione con la realtà della disciplina nella sua
esistenza effettiva, cioè in rapporto alla produzione scientifica degli addetti ai lavori.
Analoga contraddizione si verifica nelle Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche
(11a) e psicologiche (11b), anche se lì il conflitto non è mai esploso, perché nessuno
ha tentato di mettere in atto un sopruso a danno degli altri.
La tabella mostra una situazione molto diversa nei vari settori. La percentuale dei
«prodotti» in italiano nelle discipline delle aree da 1 a 7, e poi 9 e 13, è
estremamente bassa (ma ancora non azzerata). Tuttavia l’italiano mantiene una
posizione assolutamente maggioritaria nelle aree 8a, 10, 11a, 12, 14. Le aree 10, 11a
e 14 sono caratterizzate più di altre da maggiore disponibilità al plurilinguismo, dove
è presente la categoria «altre lingue straniere», diverse dall’inglese. La percentuale è
particolarmente rilevante nell’area 10, che comprende gli insegnamenti di lingue e
letterature diverse, francese, spagnolo, tedesco ecc., perché (per fortuna) i docenti di
queste discipline pubblicano non di rado nei paesi in cui queste lingue sono in uso.
Alla luce dei dati, si deve convenire che uno zoccolo duro nell’uso dell’italiano
in certe aree scientifico-disciplinari c’è, ed è necessario tenerne conto. Ecco, fra
l’altro, la ragione per la quale la domanda PRIN 2017 avrebbe dovuto ammettere
l’italiano. Per alcune discipline, si tratta di una scelta necessaria, non di un’opzione
facoltativa, come ha creduto il MIUR (che pure dovrebbe essere al corrente dei dati
ANVUR ). È dunque necessario ragionare seriamente sulle necessità e sulla situazione
reale delle diverse discipline universitarie, smettendola una volta per tutte di
invocare il monolinguismo inglese per tutti, e deponendo atteggiamenti autoritari
spacciati per l’unica soluzione possibile nel mondo globalizzato.
L’esistenza di studiosi che operano nel campo delle lettere, dell’architettura,
della storia, della filosofia, delle scienze politiche e sociali e della giurisprudenza,
dove ancora si usa l’italiano, rende evidente che si è compiuto un sopruso nei loro
confronti, anche perché nessuno di costoro pretendeva di abolire l’inglese degli
scienziati, e poteva rimanere la possibilità della doppia lingua, come era sempre
stato. Dunque si è compiuto un atto autoritario. Ciò va rimarcato in maniera netta.
L’altro argomento, quello dei giudici obiettivi solo quando parlano inglese, fa
dolorosamente ricordare la storia italiana del Cinquecento, quando i principi italiani
si affannavano a chiamare in aiuto gli stranieri, e ne pagavano poi le conseguenze.
Una tesi del genere è assai ingenua, specialmente se sostenuta da chi pur conosce
discipline che hanno alle spalle grandi interessi commerciali.
In realtà l’Italia e gli italiani hanno un disperato bisogno che la scienza continui a
parlare in italiano, continui cioè a dialogare con la propria nazione insegnando un
linguaggio razionale che sa soppesare il valore delle idee e sa confrontarsi con i fatti.
Le sciocchezze che circolano su temi scientifici dovrebbero fare riflettere gli
scienziati fieri del loro isolamento linguistico. Dal bel libro di Alessandro Amato
Sotto i nostri piedi. Storie di terremoti, scienziati e ciarlatani (Codice edizioni,
Torino, 2016) si possono ricavare un bel po’ di bufale circolanti tra il popolo italiano
relativamente alla possibilità di prevedere i terremoti; dalla lunga serie descritta
dall’autore traggo soltanto l’episodio delle «valvole anti terremoto», piccole
costruzioni a forma di cono alte un paio di metri, con la punta verso l’alto, che per
qualche misterioso motivo dovrebbero allontanare i terremoti in arrivo. Questa
bufala fu messa in circolazione nel 1998 dalla trasmissione televisiva Report, e di lì
fu ripresa variamente dagli organi di stampa, sempre in base al principio che esiste
una scienza rifiutata da quella ufficiale, ma ricca di verità e di mirabolanti
invenzioni. La trasmissione televisiva Voyager del 13 maggio 2009 presentò
nuovamente le valvole anti terremoto come una straordinaria scoperta trascurata e
ignorata dalla scienza ufficiale. Se la scienza vera continuerà a parlare inglese,
episodi come questi si moltiplicheranno all’infinito.

L’italiano della chimica e la storia delle cefalosporine


A questo punto, possiamo aprire un libro prezioso, Ingegni minuti. Una storia della
scienza in Italia, scritto da Lucio Russo ed Emanuela Santoni (Feltrinelli, Milano,
2010). Non è un libro tenero con gli Umanisti, anzi non risparmia loro un giusto e
severo rimprovero per le colpe che davvero hanno. Basti far caso a quel riferimento
del titolo, agli «ingegni minuti», l’espressione con cui Benedetto Croce se la
prendeva con i matematici. Ma ora non stiamo a rifare il processo agli Umanisti, che
pure hanno tante colpe, ma vediamo invece come Russo e Santoni descrivono il
crollo dell’industria farmacologica italiana, cioè di una parte della nostra industria
chimica.
La svolta fondamentale avvenne nel settembre 1968, e, per ironia del destino,
proprio nella città di Firenze, la città della lingua italiana. In quell’occasione
avvenne quella che uno scienziato famoso, Giancarlo Pepeu, ha chiamato la
«rivoluzione culturale» dell’industria farmacologica. Il cambiamento epocale si
realizzò per le scelte della Società Italiana di Farmacologia, la SIF . Nel settembre
1968 si tenne il 1° Joint meeting fra la SIF e la British Pharmacological Society (BPS ),
la quale volle che fosse introdotto l’inglese come sola e unica lingua del meeting. Nel
1969, l’«Archivio italiano di scienze farmacologiche», prestigiosa rivista nata negli
anni ’30, fu sostituito da un nuovo giornale in lingua inglese chiamato
«Pharmacological Research Communication».
Il medesimo studioso da cui abbiamo tratto il racconto di questi fatti ci avverte
che il peso politico della SIF fu sempre limitato e non riuscì a influenzare in nessun
modo la politica industriale relativamente all’industria farmaceutica, poi
praticamente scomparsa in Italia. I due fatti vanno connessi: da una parte abbiamo
l’abbandono entusiasta della lingua italiana, ma l’uscita della lingua dalla scienza ha
visto contemporaneamente l’uscita del Paese dalle produzioni di alta tecnologia.
Russo e Santoni osservano che si tratta di due elementi parzialmente connessi:
sarebbe infatti strano che la letteratura farmacologica usasse la lingua di un Paese
privo di industria farmaceutica. Diamo nuovamente la parola a Santoni e Russo (p.
455):

quando Vittorio Erspamer e Giulio Natta scrivevano ancora in italiano, oltre e più
spesso che in inglese, non solo su riviste italiane ma anche su riviste
internazionali, lo facevano anche perché, oltre che ai colleghi stranieri, si
rivolgevano anche a chimici e farmacologi impegnati nell’industria nazionale (e
a nessuno sarebbe venuto in mente di considerarli provinciali per questo: anche
Brotzu, prima della «rivoluzione culturale» celebrata da Pepeu, scriveva i suoi
lavori di farmacologia in italiano, ma ciò non gli aveva impedito di ottenere la
laurea honoris causa dell’università di Oxford).

Il riferimento a Brotzu, presente nel passo del libro di Santoni e Russo che abbiamo
citato qui sopra, merita di essere approfondito, perché in Italia è forte la distanza
dalla scienza e dagli scienziati, e ci ricordiamo più di poeti e artisti che di ricercatori
di talento. Quello di Brotzu è un caso di grande interesse: fu il pioniere nella scoperta
delle cefalosporine, utilizzate come antibiotico. Era professore di Igiene
nell’Università di Cagliari, e fin dagli anni ’20 aveva osservato che le salmonelle
convogliate in mare con le acque delle fognature sparivano rapidamente in certi punti
delle acque costiere, ma non dappertutto, bensì solo in certi punti. Continuando le
osservazioni, Brotzu riuscì a isolare nelle acque marine un fungo microscopico del
genere delle cefalosporine, e ne verificò l’azione antibatterica, che utilizzò anche per
cure ai malati. Nel frattempo, però, Brotzu era stato epurato, perché colpevole di
essere stato rettore dell’Università negli anni del fascismo. Brotzu inviò una cultura
del suo fungo a Oxford, a uno dei vincitori del premio Nobel 1945. Alla fine furono
gli americani a raccogliere i risultati commerciali di questa scoperta, e Brotzu si
accontentò di una laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Oxford.
Gli studi di Brotzu sulle cefalosporine erano ovviamente in italiano. Il senso di
questa storia è molto semplice: contano i risultati e le scoperte, e chi scopre cose
importanti le può comunicare anche in italiano. Aggrapparsi all’inglese può essere,
forse, un modo per andare al traino del carro del vincitore, nel momento in cui si è in
piena decadenza.

Una sentenza definitiva e un dibattito per radio


Il 9 gennaio 2018, quando ancora non si erano placate le polemiche dopo l’esclusione
dell’italiano dalle domande di ricerca del PRIN 2017 di cui abbiamo già parlato, è
stata resa pubblica la sentenza del Consiglio di Stato relativa all’eliminazione
dell’italiano nella didattica dei corsi magistrali e di dottorato: la sentenza chiudeva
definitivamente la causa che aveva opposto un centinaio di professori al rettore del
Politecnico di Milano, nell’ormai lontano 2012. Lontano negli anni, il 2012, tanto
che la questione sarebbe forse potuta passare quasi inosservata; ma invece era tema
scottante e ancora ben attuale. La prova di ciò sta nelle polemiche violentissime della
settimana successiva, dopo che la sentenza era stata salutata con entusiasmo dal
presidente dell’Accademia della Crusca, cioè dall’autore di questo libro che state
leggendo. La sentenza dava ragione senza riserve ai professori, e torto all’ateneo, al
rettore e al Ministero: una volta tanto, nel quadro cupo che abbiamo delineato in
questo capitolo, si era accesa una luce di speranza, perché si trattava di una decisione
all’ultimo grado di appello previsto nell’ordinamento italiano, dunque almeno
teoricamente inaggirabile. Non tutti però l’hanno condivisa, e subito si è scatenata
una gara nel diffondere interpretazioni distorte sulle possibili conseguenze. Si è
inteso (o si è voluto far intendere) che così si impedisse l’istituzione di corsi in
inglese, che si sancisse l’allontanamento della nostra Università dal resto del mondo,
che si tarpassero le ali alla comunità scientifica, sacrificandone l’azione per colpa di
pochi parrucconi oscurantisti. Si sono levate voci per invocare l’allontanamento
forzoso di quei professori universitari che per qualunque motivo non accettassero di
far lezione in inglese. Anche in quest’occasione, i numerosi nemici dell’italiano non
si sono minimamente curati di valutare le specificità disciplinari e le diverse
esigenze degli insegnamenti.
A questo proposito, posso citare un aneddoto di cui sono stato protagonista. La
sera del 1° febbraio 2018, nel corso di un dibattito molto teso, durante la
trasmissione radiofonica Zapping, su Radio1, ho fatto notare alla persona con cui mi
facevano discutere (ovviamente si trattava di una voce molto critica verso la
sentenza) che, tra i ricorrenti contro la scelta totalmente anglofona del Politecnico di
Milano, si contavano molti docenti di architettura; nei corsi di architettura si insegna
anche storia dell’arte, e in un corso di storia dell’arte dedicato al Rinascimento o a
Michelangelo può accadere che si leggano le Vite del Vasari, un libro fondamentale
tra le fonti primarie per le notizie sull’arte italiana. La mia tesi era assai semplice: a
mio parere, è sciocco obbligare all’uso dell’inglese un professore intento a spiegare a
studenti italiani l’arte di Michelangelo mediante le pagine di un autore come Vasari.
La mia combattiva avversaria (forse lei si autodefinirebbe con maggior
compiacimento competitor), l’onorevole Irene Tinagli, mi ha risposto che non
vedeva nulla di male nell’uso dell’inglese nel far lezione su Vasari, e che anzi ciò
garantiva straordinari vantaggi. Non mi fu concesso, quella sera, il diritto di replica,
e l’onorevole Tinagli ebbe il piacere e il vantaggio dell’ultima parola, in un dibattito
disuguale, condotto da un moderatore palesemente sfavorevole alle tesi pro-italiano;
ma avrei voluto replicare che l’accostamento alle fonti nella lingua originale è
l’unica garanzia seria e irrinunciabile dell’insegnamento universitario, e senza questa
garanzia non si fa vera scuola universitaria, ma semplice divulgazione, che è cosa del
tutto differente. Ho tuttavia il sospetto che la mia interlocutrice non avrebbe recepito
l’argomento.
Purtroppo si va sviluppando una progressiva insensibilità per l’accesso alle fonti
primarie. Si tratta di una forma di insensibilità alla ricerca scientifica, la quale
viceversa non dovrebbe ammettere faciloneria e approssimazione. Si confondono
così la divulgazione e la ricerca, che sono cose assolutamente diverse.
Sempre al seguito della sentenza del Consiglio di Stato, vorrei riflettere inoltre
sulla reazione del prof. Alberto Coen Porisini, informatico, rettore dell’Università
dell’Insubria, riportata da «Milano Cronaca» del «Corriere della Sera» (edizione on
line del 21 febbraio 2018). Si tratta di uno studioso equilibrato nei suoi giudizi, che
mi pare ammetta almeno la legittimità dell’italiano nei corsi umanistici, ma tuttavia
è piuttosto avverso alla sentenza. Giustifica la propria avversità ricordando il tempo
in cui studiava negli Stati Uniti. Gli studenti che verranno in Italia, a suo parere,
impareranno comunque da soli la nostra lingua e la nostra cultura, a Como o a
Varese. «Io stesso ho capito molto degli Stati Uniti quando ci ho vissuto per studio.»
Il rettore Coen Porisini ha ragione, ma in che lingua studiava, verrebbe da chiedergli,
quando era negli Stati Uniti? Ovviamente in inglese, circondato da parlanti
anglofoni. Viceversa, se fosse stato chiuso in un ghetto in cui si parlava italiano, non
la lingua del posto, e avesse frequentato solo lezioni in italiano, che cosa avrebbe
capito degli USA ? Certo non molto, o molto di meno. Noi, in Italia, vogliamo
costruire questi ghetti esclusi dalla lingua nazionale, e siamo convinti di essere così
sulla strada dell’internazionalizzazione, e di conseguirla per questa via.

Un altro attacco all’italiano: il CLIL con un seguito peggiore


Esiste anche questo, purtroppo, tra le novità introdotte nella scuola superiore
italiana: la maldestra idea di impartire l’insegnamento di una disciplina non
linguistica in lingua non italiana. L’idea è quella di insegnare in inglese le scienze, o
la filosofia, o la matematica. Le scuole devono fare proprio così: glielo impone la
vigente normativa. Tale esperienza si realizza già nelle scuole superiori. Il CLIL , il
Content and Language Integrated Learning, è una delle iniziative messe in atto nel
corso degli anni dal MIUR . Il CLIL , tuttavia, non è stato oggetto di ricorsi e sentenze.
Non ha provocato nemmeno proteste, forse perché gli insegnanti sognavano corsi di
lingue gratis, e soggiorni all’estero.
Il CLIL rappresenta senza dubbio un esempio della deliberata decrescita
qualitativa a cui è soggetta la didattica nella scuola italiana, sotto la pressione di un
mal riposto culto dell’inglese, concepito come lingua totalizzante e unico strumento
di comunicazione culturale degno di attenzione: è la deviazione che in larga parte ha
determinato anche la vicenda del Politecnico di Milano della quale ci siamo
occupati.
La frana del CLIL , la scoperta della sua inapplicabilità, si è manifestata nel
momento in cui si è stati costretti ad abbassare il livello di conoscenza della lingua
straniera richiesto ai docenti italiani che avrebbero dovuto assumere il compito di
insegnare in questo esperimento fantasioso. All’inizio si parlava di livello C1 o C2,
cioè dei livelli di conoscenza professionale della lingua straniera, gli unici che
avrebbero potuto permettere una didattica decente, seppure meno buona di quella in
lingua materna. Poi, pian piano, si è scesi di livello, facendo i conti un po’ più
realisticamente con la realtà. Si stanno organizzando corsi per patentare rapidamente
i docenti, cosa comoda per le Università, che in questo modo accedono a una fettina
della torta, acquisendo qualche risorsa in tempi di miseria. Il Ministero, con nota
10872/10 e successiva n. 4969, del 25 luglio 2014, ha avviato percorsi di formazione
per raggiungere il livello linguistico C1. Ai corsi di perfezionamento universitari
abilitanti si potrà infatti accedere solo con un livello C1, ma in via sperimentale è
intanto possibile insegnare la materia in lingua straniera con un livello pari a B2.
Ci si rende facilmente conto che la disciplina, insegnata in questo modo, si riduce
a un puro pretesto. I contenuti non vengono più trasmessi. Tutta l’operazione si
trasforma in un semplice gioco linguistico elementare. Insomma, l’effetto è una
didattica scadente, che non giova né alla conoscenza della lingua straniera, né alla
conoscenza della disciplina che si vuole insegnare. Non è un caso che le proteste
contro il CLIL siano venute proprio dagli insegnanti di lingua inglese, i più
competenti a valutare l’errore che si stava compiendo.
Sarebbe interessante una ricognizione sul comportamento effettivo delle scuole
che sono obbligate alle procedure CLIL , e tentano con vari artifici di surrogare
all’impossibilità di applicare davvero in maniera seria questa normativa. Per
esempio, talora i ragazzi di una scuola in cui non era stato possibile trovare un
professore adatto, sono stati riuniti assieme e hanno ascoltano una conferenza di
qualche storico o filosofo che vantava di conoscere meglio l’inglese. Il riempitivo
burocratico ha insomma risolto provvisoriamente il problema.
Tuttavia le cose non finiscono qui: c’è sempre un peggio. In questo caso, il
peggio non è stato organizzato dal Ministero, ma dipende da un abile business che si
avvantaggia delle attese di genitori e studenti, e trae linfa dalle difficoltà di attuare il
CLIL . Il tema che toccheremo non è molto noto, per ora, ma si tratta di qualche cosa
che sta penetrando rapidamente nelle scuole italiane e sta andando molto oltre al pur
limitato (a questo punto dobbiamo dire così) esperimento del CLIL . Probabilmente
questo business non si sarebbe realizzato da solo in forma compiuta, ma, una volta
abbattuta la porta, è facile per tutti entrare dentro all’edificio, l’edificio della scuola
italiana. Mi riferisco al progetto dei licei Cambridge International, che si sta
affermando in Italia in molte scuole statali, qualche volta negli istituti paritari o in
istituti privati. Si tratta in sostanza di abbandonare completamente l’impostazione
dei programmi così come è prevista dalla normativa italiana per una serie di materie,
e di studiarle in modo diverso, così come fanno gli studenti inglesi, con un metodo e
con un programma diversi e sulla base di libri di testo non italiani, ma britannici,
ovviamente in lingua inglese. Questo progetto si inserisce nell’IGCSE , acronimo che
sta per International General Certificate of Secondary Education. Anche i sistemi di
valutazione non sono più quelli in uso in Italia, ma diventano quelli britannici, che si
ispirano a una presunta assoluta oggettività. La didattica in classe viene svolta da
professori italiani coadiuvati da «lettori» madrelingua, che peraltro non hanno alcuna
abilitazione per insegnare le discipline specifiche su cui avviene la sperimentazione.
Ho messo la parola «lettori» tra virgolette, perché si tratta di coadiutori tecnici
nell’insegnamento della lingua i quali, chiamati in questo modo, come si usa in
Italia, hanno già dato luogo in passato a gravi problemi giuridici per le nostre
Università, perché l’equivalente di «lettore» italiano è stato inteso come lecturer
inglese, e in inglese lecturer significa niente di meno che docente, professore a tutti
gli effetti. Ma costoro ovviamente professori non sono affatto. Sono semplici
collaboratori nella didattica delle lingue, con una specializzazione non di rado molto
modesta, semplicemente favoriti dalla nascita in qualche Paese anglofono, non
necessariamente gli Stati Uniti d’America o l’Inghilterra. Tornando al sistema di
Cambridge, la prestazione di ogni studente è valutata direttamente in Inghilterra, e il
voto dell’esame non è in forma numerica da 1 a 10, come da noi, ma con lettere da A
a G.
Una rivoluzione del genere in qualunque Paese del mondo sarebbe stata
eventualmente realizzata attraverso una riflessione collettiva, una riflessione almeno
degli enti responsabili. Da noi avviene invece surrettiziamente, nel quadro
dell’autonomia di sperimentazione di singole scuole, che aspirano a vincere la gara
in una concorrenza reciproca che permetta loro di sopravvivere, e permetta ai
dirigenti scolastici di realizzare le proprie ambizioni, abbellendo l’offerta formativa,
rendendola più alla moda e attraente, magari correndo dietro a una serie di promesse
relative all’uso della certificazione internazionale di Cambridge, di cui, a quanto si
legge in vari siti della Rete (mi pare interessante e documentato il sito «Educazione
globale», mentre quello ufficiale di Cambridge International appare soprattutto
propagandistico), in realtà è abbastanza difficile fare davvero uso al momento
opportuno.
I «licei Cambridge» ottengono ovviamente il permesso di inserire il logo di
Cambridge nei loro siti, e questo non soltanto sembra essere un segno di prestigio,
ma promette agli osservatori ingenui la certezza del conseguimento di grandi
competenze nel campo dell’inglese, mentre ai genitori sfugge che l’innovazione
maggiore non sta tanto nelle ore di inglese, quanto nel radicale cambiamento dello
studio delle discipline, un cambiamento che non è necessariamente un passo in
avanti, ma sicuramente produce la cancellazione dell’approccio tipicamente storico
utilizzato dalle scuole italiane, oggi valutato positivamente anche da molti
osservatori stranieri (così come vengono rivalutati i sistemi, in uso da noi,
dell’interrogazione orale). Il metodo in uso in Italia ha sempre funzionato benissimo
allo scopo di formare una base culturale critica, una base culturale che invece,
adottando metodi pratici e casistiche più o meno funzionali di problem solving
puramente applicative, si perde completamente. Basta scorrere i siti delle scuole che
reclamizzano questa mirabolante attrattiva, e leggere per confronto quanto si dice in
alcuni siti molto interessanti, che commentano queste innovazioni didattiche, per
verificare quanta confusione ci sia attorno a questa materia, e come serie speranze di
una facile acquisizione dell’inglese, opportunamente arricchite dal fascino
dell’Università di Cambridge, si mescolino confusamente per costruire un castello di
attese che probabilmente saranno in larga parte frustrate o risulteranno irrealistiche.
Non è vero per esempio che il sistema dell’Università di Cambridge adottato nelle
scuole italiane renda immediata l’iscrizione in Università inglesi, perché anzi quelle
Università continuano a non riconoscere il sistema di valutazione dell’esame di Stato
in uso nel nostro Paese, ritenendolo non oggettivo. Quindi noi adottiamo ciecamente
i sistemi britannici, ma nel mondo britannico giustamente diffidano di ciò che è in
uso nel sistema italiano; dico «giustamente» non nel senso che i britannici abbiano
ragione, ma per il fatto che essi partono dal principio che i requisiti necessari
debbano essere quelli loro propri, non quelli importati in gran fretta. Noi, per contro,
ci riveliamo sempre esterofili senza riserve e senza riflessione sulle reali
conseguenze dei nostri atti.
È interessante notare come una tradizione culturale molto valida come quella
italiana, impostata su base storica, venga liquidata in questo modo in quattro e
quattr’otto, in omaggio ai programmi scolastici in uso in un Paese che ormai ha
deciso di uscire dall’Unione Europea, e tutto ciò non avviene per scelta di chi ha il
compito di indirizzare gli studi in Italia, ma in maniera del tutto casuale, per
intervento di qualcuno che ha un evidente interesse commerciale nello stabilire la
propria salda presenza nelle scuole, controllando fra l’altro le certificazioni di lingua
di valore internazionale, un business non indifferente. In tutto questo, il Ministero è
silente. Ciò che accade non è colpa sua. Ma d’altra parte non sembra nemmeno che
sia stato esercitato il debito controllo, o almeno che venga fornita tutta la debita
informazione. Anzi, come si diceva, molte scuole si avviano sulla strada dei «corsi
Cambridge» perché in questo modo risolvono il problema del CLIL , che non riescono
ad affrontare con le proprie forze.
Si vede bene che in fondo a tutto questo c’è, nuovamente, una svalutazione totale
dell’italiano e delle sue funzioni, un assoluto disinteresse per il rapporto tra la lingua
italiana e la tradizione culturale del nostro Paese. Siamo cioè giunti a individuare i
medesimi elementi di crisi che abbiamo più volte denunciato nelle pagine precedenti.
III
Finché c’è lingua c’è speranza

Chi comanda la lingua

Consenso della maggioranza


Apparentemente, il concetto di «norma linguistica» sembra una delle cose più
semplici del mondo: devi scrivere così, perché soltanto così è giusto. Tutto chiaro,
certo, finché si consulta una grammatica sola o un insegnante solo. Però a volte
nascono discussioni a non finire, si deve far ricorso ad altre grammatiche, e talora
non basta. Si consultano esperti, si scrive alle rubriche di lingua presenti nei giornali
(da anni ne curo una sul settimanale «Famiglia Cristiana»), e se ancora non basta, si
fa appello alla Crusca, all’Accademia che custodisce la tradizione della lingua
d’Italia.
Dunque, se si va ad analizzare il principio di autorità che guida le lingue, per dare
alla ragione e al torto un contenuto un po’ più certo delle semplici opinioni
soggettive, le cose si fanno complicate. Eppure, se non si raggiunge qualche certezza
sul principio di autorità e su che cosa esso si basi, è molto difficile che si riescano ad
avere le idee chiare relativamente alla grammatica e alle sue vere o presunte «leggi».
Si parla di «leggi della grammatica», ma in che senso? Certamente queste «leggi»
non sono stabilite da un parlamento che si riunisca apposta, o da un consiglio di
dotti, o da un’accademia. Che cos’è dunque questa «norma» che regola la lingua, alla
quale si fa appello tanto facilmente quando si vuole condannare un errore?
Se si apre il Dizionario di linguistica e di filologia, metrica e retorica di Gian
Luigi Beccaria e si cerca la definizione del concetto di «norma linguistica», si trova
citata la teoria di un grande linguista del Novecento, il rumeno Eugenio Coseriu, a
lungo professore in Germania. Coseriu, per definire in maniera moderna e scientifica
la norma, faceva ricorso a un concetto che forse molti potranno trovare curioso: la
«media delle realizzazioni accettate in una determinata comunità». Non è l’unico a
ragionare così. Se non proprio di «media», si parla di prevalenza statistica, di uso più
frequente, di uso accettato dalla maggioranza.
Se qualcuno eventualmente trovasse troppo lasca la teoria di Coseriu, potremmo
rincarare la dose di relativismo, ricordando certe tesi correnti negli anni ’70 del
Novecento. Non a caso, quelli erano gli anni della rivoluzione sessantottina. Un
grande linguista francese del tempo, André Martinet, rapidamente liquidava la
«norma», spiegando che si trattava di una vecchia eredità del mondo classico, che
tutto il settore normativo era legato a idee di Aristotele, e che lo sbocco naturale di
simili sciocchezze risultava il purismo, l’odiatissimo purismo. L’esito puristico,
secondo Martinet, è dovuto al fatto che la concezione classica della grammatica ha
come scopo quello di scartare come irrazionali gli usi scorretti, ma alla fine la
ragione si trova a dover invalidare una gran quantità di forme che sono convalidate
dall’uso, per cui non resta che far ricorso al dogmatismo della condanna. Uno dei
meriti maggiori della linguistica moderna, secondo Martinet, stava appunto «nella
presa di coscienza del carattere non scientifico dell’atteggiamento normativo». E
proseguiva: «il passaggio dal punto di vista normativo a quello scientifico della
grammatica ... costituisce, almeno per i linguisti moderni, un completo
rovesciamento di prospettive». Ecco la transizione dalla prospettiva precettiva e
normativa della grammatica a quella descrittiva. Nella linguistica moderna, tuttavia,
il concetto di «norma» qualche volta ritorna, interpretato in chiave statistica, o di
medietà, o di consenso della maggioranza, come abbiamo visto poco fa.
La novità di questo concetto di norma, intesa in maniera moderna, è costituita
soprattutto dall’utilizzazione di una componente «numerica», «misurabile». La
norma statistica non è di per sé «buona». La norma non rende necessariamente
migliore la lingua, anche se a volte la semplifica. Quindi la norma non è legata a un
contenuto ideale. È semplicemente garantita da un dato di fatto, cioè la sua
prevalenza quantitativa.
Non in tutte le epoche si è ragionato così. Per esempio, se ritorniamo indietro di
qualche secolo, fino alla speculazione degli Illuministi, incontriamo il concetto di
«consenso della maggioranza». La norma non deve scaturire, secondo gli Illuministi,
da un principio di autorità, ma deve avere origine dal consenso e dalla razionalità. Si
noti che gli Illuministi, pur disposti a una considerazione della norma intesa come
risultato del consenso, non erano pronti a consegnare alle classi popolari il potere
normativo sulla lingua. Quando parlavano di consenso, avevano sempre in mente una
ben chiara gerarchia, in cui i colti, gli scienziati, gli esperti, mantenevano una
posizione dominante. Inoltre gli Illuministi ritenevano che fosse possibile una
sostanziale semplificazione delle regole, ottenuta ricorrendo ai «principj
fondamentali», distinguendo il «capriccio dell’uso» o la «mera bizzarria», dall’«uso
costante, e universale», fondato sulla natura o «genio» della lingua. In questo modo,
si apriva persino la possibilità di esprimere un giudizio valutativo sulla maniera con
cui lingue diverse risolvevano determinate situazioni comunicative, cioè reagivano
alle medesime condizioni di trasmissione del messaggio, rivelando i loro pregi e
difetti. Avevano dato il loro contributo alla definizione razionalistica della norma
anche i maestri della cosiddetta grammatica generale di Port-Royal, nel Seicento.
Ancora una volta si vede che la maggior novità moderna sta proprio nella
disponibilità ad accordare coscientemente largo spazio alle innovazioni popolari.
La lingua è di tutti e di nessuno
Il riconoscimento del dominio sulla lingua da parte delle masse, intese come vere
depositarie di una «media statistica», dipende proprio dai successi della linguistica
moderna, che ha fatto largo uso dei concetti di variabilità e di cambiamento,
verificati in contesti di cultura orale, poco o nulla esposti alle interferenze con la
lingua scritta e di cultura. La lingua scritta diventava anzi un accidente estraneo, per
cui si poteva avere l’impressione che solo sottraendo la lingua popolare al
contaminante influsso della tradizione scolastica e normativa si potesse arrivare a
comprendere per davvero la dinamica della trasformazione linguistica, che avviene
spontaneamente in una comunità.
Si imponeva insomma quello che è uno dei principi della linguistica moderna,
cioè la certezza che solo la lingua parlata, nella dimensione dell’oralità, è oggetto
degno delle ricerche del linguista (distinto dal filologo e dal letterato), interessato
alla scoperta del «sistema» nelle sue più profonde e autentiche dinamiche. La lingua
sembra essere un organismo che vive per conto suo e che si trasforma secondo regole
proprie. Il fascino della ricerca sta dunque nello scoprire queste regole, e le regole
non sono più il segno della stabilità, ma sono le modalità del cambiamento.
In questa prospettiva, non interessa la «norma» intesa come codice esplicito di
regole prestabilite messe in bell’ordine dai grammatici: nella quotidiana
comunicazione, un uso anomalo, fuori della «media», un’innovazione, possono
essere accolte, ma possono anche essere eliminate, e in questo caso andranno a
perdersi, come accade nella trasmissione della cultura popolare orale, nel repertorio
delle fiabe o dei canti. Così interpretata, la norma esiste ancora, pur se è meno
afferrabile, perché caratterizzata dalla variabilità, dalla coesistenza di usi diversi,
come in una sorta di perenne banda di oscillazione. La grammatica tradizionale, per
contro, ha sempre mirato a ridurre il più possibile questa banda di oscillazione, anzi
ad annullarla, formulando il maggior numero di regole univoche.

La norma è stabilità
Vediamo alcune formulazioni del concetto tradizionale di norma diverso da quello
della linguistica moderna. Scorreremo alcune definizioni di norma o regola, così
come furono espresse dai grammatici italiani a partire dal secolo XV. In questo come
in altri casi, le più antiche formulazioni degli autori italiani si collegano a una
tradizione grammaticale più antica, greca e latina. Il peso della tradizione classica
risulta forte: senza di essa, non potremmo nemmeno pensare allo sviluppo di una
normativa autonoma delle lingue moderne, e della nostra in particolare.
Prendiamo dunque la prima grammatica italiana a stampa, quella di Giovan
Francesco Fortunio, del 1516. Fortunio, nella prefazione alla sua grammatica, spiega
come ha fatto a scovare le norme. Non è stato difficile, perché non erano da inventare
ex novo. Le regole, come già si è detto, erano racchiuse negli scrittori: in Dante, in
Petrarca, in Boccaccio. Dunque la regola si presentava prima di tutto come armonia,
come qualità di scrittura. Più che un concetto linguistico, sembra un frutto dell’arte,
e infatti le categorie tradizionali di grammatica e retorica sono ben presenti in una
prospettiva del genere. Da tempi remotissimi si insegnava che la retorica è la diretta
prosecuzione della grammatica.
La grammatica doveva servire a dare stabilità alla lingua. Il più grande
grammatico del Cinquecento, Pietro Bembo, uno dei maestri del classicismo italiano,
in quel capolavoro che sono le Prose della volgar lingua (1525), aveva invitato «a
sentire quanta variazione è oggi nella volgar lingua ..., con la qual noi e gli altri
Italiani parliamo, e quanto è malagevole lo eleggere e trarne quello essempio, col
quale più tosto formar si debbano e fuori mandarne le scritture». Al contrario della
linguistica moderna, dunque, il grammatico antico voleva allontanarsi per quanto
possibile da ogni instabile contaminazione. La regolarità era il suo obiettivo
fondamentale. Si noti che l’aspirazione dei grammatici cinquecenteschi alla
regolarità fu largamente condivisa dal loro pubblico. Lo dimostra il successo degli
strumenti normativi nel Cinquecento e la smania correttoria dei tipografi del
Rinascimento.
In quell’epoca, nessuno aveva interesse a perpetuare la condizione di incertezza
propria della variabilità linguistica del Quattrocento, quando il latinismo aveva
dovuto di necessità supplire alle carenze normative del volgare, in assenza di
strumenti e regole a cui fare riferimento, non essendoci né grammatiche né dizionari
disponibili per la consultazione. Si potrebbe forse chiosare, di fronte a questi sforzi,
che la variabilità è bella soprattutto quando la si è superata. Inoltre agli occhi degli
uomini del Rinascimento ogni discesa o concessione alla popolarità sarebbe stata
reputata un vero crimine contro la lingua.

Il «non si può» e il «non mi piace»


Del resto un gesuita sapiente e prudente del Seicento, un letterato che era anche
scienziato e che aveva scritto la storia della Compagnia di Gesù, dunque uomo
prudente e abile nell’uso della penna, padre Daniello Bartoli, aveva spiegato la
necessità di porre la massima cautela nell’esercizio normativo, specialmente di
fronte alla tentazione di usare una poco meditata e soggettiva censura:

quanto altri più sa della lingua, ben appresa nelle sue radici, tanto va più ritenuto
in condannare: e a sì fatti uomini non udirete uscir di bocca, se non se il fallo sia
inescusabile, un di que’ NON SI PUÒ , che in altri val quanto: NON MI PIACE ; un
Non è secondo le regole del tal Grammatico, che solo ho studiato; un Non si
confà co’ principj che m’ho fitti in capo, e co’ quali ognuno si de’ regolare: un
Non così scrivono, o parlano, questi, o quegli Accademici, e simili.

Secondo Bartoli, infatti, dal confronto tra i vari principi di autorità sui quali fondare
la norma, cioè il riferimento al latino (potremmo parlare della «ragione
etimologica»), l’uso moderno, l’uso antico, emergeva una mescolanza equilibrata di
ragioni razionalmente giustificabili e di preferenze arbitrarie, cioè «si mescola quasi
per metà la Ragione e l’Arbitrio, e di quella ve ne ha per ciascuna parte del sì e del
no, la sua giusta porzione, e questo, se non vogliam fare d’uomini bestie, si de’
lasciar libero a ciascuno».
Alcuni grammatici italiani, dunque, hanno espresso già secoli fa opinioni critiche
nei confronti di una norma eccessivamente rigida o ispirata a un criterio di
valutazione esclusivo. Tali prese di posizione possono essere utilmente affiancate
alle analoghe affermazioni di autori moderni. Si legga per esempio quanto viene
proposto nell’Introduzione della Grammatica italiana di Serianni e Castelvecchi,
dove si fa riferimento ai fattori di variabilità, ma anche al «portato dei tanti secoli di
storia» che hanno segnato la fisionomia dell’italiano. A questo proposito, viene
proposto l’esempio di «a faccia a faccia» contro il deteriore «faccia a faccia», ma
allo stesso tempo si ammette che, in certi casi, «non è stato possibile individuare una
norma o anche solo orientare il lettore tra diverse possibilità».

L’educazione linguistica, più o meno democratica

Proprio la «variabilità» era stata invocata da coloro che denunciarono, negli anni ’70,
l’inadeguatezza e l’arbitrarietà nell’applicazione tradizionale del concetto di
«norma», soprattutto nella scuola. Si pensi per esempio alle famose Dieci tesi per
l’educazione linguistica democratica, un testo collettivo preparato dai soci del
GISCEL nel 1975, ma largamente ispirate dall’insegnamento del linguista Tullio De
Mauro. Le Dieci tesi esponevano in maniera netta (e anche polemica) i presupposti
teorici e le linee d’intervento dell’educazione linguistica, proponendole
all’attenzione di coloro che ritenevano di lavorare per una scuola «democratica», ciò
che significava appunto mettere in primo piano l’educazione al parlato, l’oralità, la
valorizzazione del repertorio naturale degli studenti. Questo pareva allora lo
strumento fondamentale della nuova pedagogia linguistica, perché

La vecchia didattica linguistica era dittatoriale. Ma la nuova non è affatto


anarchica: ha una regola fondamentale e una bussola. E la bussola è la
funzionalità comunicativa di un testo parlato o scritto e delle sue parti a seconda
degli interlocutori reali cui effettivamente lo si vuole destinare ...

È vero, d’altra parte, che il momento di maggior affrancamento dalla norma, se non
altro nelle formulazioni teoriche e di principio, non si ebbe nell’età dei Lumi, o in
età romantica, e forse nemmeno a seguito dell’ideologia libertaria degli anni ’70 del
Novecento. Il filosofo Benedetto Croce, nella prima metà del secolo XX, teorizzò
l’«impossibilità di una grammatica normativa». Era ammessa la legittimità della
grammatica solo come «raccolta di schemi utili all’apprendimento delle lingue,
senza pretesa alcuna di filosofica verità», mentre era riconosciuta la verità della
storia delle lingue nella loro «realtà vivente». La teoria di Croce, benché molto
ascoltata in Italia, non produsse danni nell’insegnamento, perché la scuola era allora
estremamente rigida e severa, e accoglieva al proprio interno studenti che
provenivano dalle classi agiate e colte. Quindi la distanza dalla grammatica si
tradusse semplicemente in una maggiore libertà degli scriventi rispetto ai modelli.
Contro la posizione crociana si è levato il lamento dei grammatici e linguisti di
oggi. Vi è dunque una perenne dialettica tra l’attenzione all’individuo intento a
manifestare la propria libera espressività, e la norma, la quale esiste, per lo meno
come vincolo sociale, più o meno forte a seconda dei diversi momenti storici. Non si
può certo negare che la libertà del parlante sia reale, ma, là dove interviene la norma
sociale, la libertà totale viene meno, anche se non si esaurisce la possibilità di scelta.
Quindi la norma esiste, ha pieno valore, può essere analizzata in relazione al cambio
linguistico, per frenarlo o per accelerarlo.
C’è un noto Dizionario di pronuncia italiana, acronimo D iPI, di Luciano Canepari
(Zanichelli, Bologna, 1999), eccellente strumento che copre un settore molto
particolare della lingua, quale appunto è la pronuncia. Questo libro interpreta assai
bene il concetto moderno di «norma», inteso come alternativa fra diverse possibilità,
e ci può servire per esemplificare il concetto di norma «mobile»: il D iPI non registra
solamente la pronuncia ritenuta migliore, ma le affianca, quando possibile, la
pronuncia «tradizionale» (quella consigliata un tempo, oggi magari passata di moda),
la pronuncia «accettabile» (meno consigliabile di quella migliore, ma pur sempre
utilizzabile), la pronuncia «tollerata» (ancor meno consigliabile, ma tuttavia non
soggetta a una condanna senza appello), e infine quella «trascurata», davvero da
evitare, in quanto segno di ignoranza. Il D iPI prevede anche la pronuncia
«intenzionale», rara, ma utilizzata da chi vuole esibire la propria raffinata cultura.
Talora ci sono varianti particolari, come motòscafo che, oltre a essere «trascurato»
(cioè una pronuncia che andrebbe assolutamente evitata), è anche proprio
dell’italiano del Canton Ticino. Questo può essere il modo esemplare di affrontare il
problema della norma, anche al di là della questione della pronuncia.
Nessuno oggi può aspirare a un’omogeneità come quella che ingenuamente
qualcuno voleva raggiungere, non molto tempo fa, durante il governo Berlusconi,
attraverso la proposta (poi finita in nulla) di istituire un Consiglio superiore della
lingua italiana con l’autorità di compilare la «grammatica di Stato». Non è detto
però che la diffusione di una norma vada lasciata al caso, o sia affidata al predominio
dei mezzi di comunicazione di massa, o delegata solo a custodi pedanti come i
puristi fanatici, o a custodi occulti, come il correttore grammaticale del programma
di scrittura Word.
Una lunga tradizione italiana ha elaborato regole largamente condivise,
accordando piena fiducia agli scriventi colti, gli scriventi «che contavano». Non è
necessario prescindere da questo principio. Esiste pur sempre un criterio legato al
«prestigio», un criterio che molti di noi applicano nei casi dubbi, confrontandosi non
solo con i suggerimenti delle grammatiche, ma anche con l’uso degli scrittori.
Quest’ultimo è una forza sempre in gioco, come al tempo dei grammatici antichi
dell’italiano, anche se sappiamo che l’uso, il nostro, così come quello degli scrittori
antichi, non sarà mai rigorosamente unitario e univoco. Si tratta di aspirare alla
norma, più che applicare una norma rigida. Sulla definizione del corpus degli
scrittori autorevoli si potrà eventualmente discutere, purché si mettano per sempre da
parte le esagerazioni di don Milani, che nella lingua normata vedeva il marchio della
«ditta», la classe dei padroni di cui era esponente il papà di «Pierino del dottore»,
genìa identificata proprio attraverso l’osservanza delle regole grammaticali, e magari
anche di comportamento, imperdonabili segni di appartenenza. Nessuno
sottoscriverebbe ormai l’affermazione che le «lingue le creano i poveri e poi
seguitano a rinnovarle all’infinito», e i «ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi
non parla come loro». Anche questa è, indubbiamente, una raffigurazione icastica
della «norma», e tuttavia la dinamica linguistica risulta più complessa, anche per le
classi popolari.

Ma tanto si capisce lo stesso


Sicuramente il confine della legittimità della norma non potrà mai essere misurato
solamente con il metro della comprensibilità complessiva del messaggio,
considerando solo il punto di rottura del canale comunicativo. Enorme sarebbe lo
scadimento prodotto da tale opzione, che infatti nessun teorico ha mai sostenuto, ma
che di fatto viene applicata in certe situazioni scolastiche, caratterizzate da estrema
tolleranza o dall’incapacità di individuare il concetto di errore e di accettarne la
sanzione. La comunicazione di concetti modesti passa anche in condizioni precarie,
cioè: una frase scorretta può essere intesa lo stesso, perché l’atto comunicativo si
avvale di elementi ridondanti e ausiliari che riescono a trasmettere il messaggio in
condizioni critiche, e il ricevente può integrare fino a un certo punto quanto è andato
perso o quanto è carente. Qualunque italiano capisce che cosa vuol dire «io ando a
casa», anche se il verbo è coniugato male. Chi riceve il messaggio, lo ricostruisce in
un processo mentale che riporta «ando» a «vado». La norma, però, serve appunto a
garantire uno scambio in cui il ricevente ritrovi senza sforzo, e senza metterci troppo
del suo, gli elementi utili alla comunicazione. Tuttavia non basta questa concezione
puramente strumentale, perché anche la componente retorica vuole la sua parte, e la
norma, per quanto labile o frutto di arbitrio, o meglio frutto di tradizione (che è cosa
tutto sommato diversa), può essere segnale di eleganza formale, di aderenza al
livello colto, senza che ciò costituisca titolo di vergogna, come certe interpretazioni
radicali e populiste volevano far credere.
Si prenda il caso del costrutto «sia ... sia ...», che oggi è ormai stabilmente «sia ...
che ...» anche nell’italiano scritto di livello formale, in autori spesso stimati e validi.
È ovvio che la norma sta cambiando. Risulta ormai assolutamente ignoto a molti il
costrutto regolare, pur tipico di tutta la tradizione italiana. Applicare ancora una
vecchia norma, tuttavia, non è solo il frutto di libero arbitrio; può essere anche segno
di una puntigliosa volontà di distinzione. La norma, dunque, può essere usata per
riaffermare la propria personalità, l’eleganza del proprio stile. Obbedire o
disobbedire diventa una scelta di campo.

Il sentimento della norma


Come ho già detto, sono titolare dal 1990 di una rubrica di lingua in un noto
settimanale. Vi si danno risposte ai quesiti dei lettori. Nel corso del tempo, ho notato
diversi cambiamenti. I giovani, questa è la mia impressione, da qualche anno a
questa parte scrivono di meno alla mia rubrica linguistica. In passato, le loro
numerose lettere traevano spesso lo spunto da un conflitto nato a scuola, nella
correzione della prova di italiano. Scrivendo alla rivista, si cercava un aiuto, una
conferma, un’alleanza contro l’insegnante. La rubrica serviva un po’ come la
consulenza dell’avvocato o del fiscalista.
Via via, però, ho visto diminuire queste lettere, anche se ne arrivano ancora molte
di studenti universitari, i quali sembrano imbattersi per la prima volta, quasi
sorpresi, nei problemi della scrittura. Di fatto, però, mi sembra che il conflitto sulla
norma, a scuola, sia meno avvertito. Forse la norma è ormai largamente condivisa. In
tal caso saremmo di fronte a una stabilizzazione che rende più sereno l’uso della
lingua scritta. Ma davvero è così? Oppure (e la spiegazione sarebbe, in questo
secondo caso, di segno molto diverso) una parte della scuola, avendo accolto in
maniera superficiale le indicazioni di chi avanzava istanze sociali, e avendole
contaminate con i ragionamenti scientifici della linguistica, ha cessato non tanto di
correggere (credo che la correzione venga ancora proposta nella maggioranza dei
casi), ma almeno di sanzionare. Ciò ha sicuramente sdrammatizzato il rapporto con
la norma, ma l’ha anche vistosamente allentato, tanto che in occasioni formali
(circolari di amministratori, avvisi pubblicitari, pagine Internet aziendali, talora nei
giornali) riscontriamo infrazioni, ma non quelle prevedibili, dove la norma è debole
o in fase di mutamento (per esempio «i pneumatici» al posto di «gli pneumatici»),
ma anche quelle dove la norma è certa. Si è attenuato il senso di vergogna e
inferiorità, che un tempo era forte quando si veniva colti in errore.
Si sono venuti così indebolendo i meccanismi di autocorrezione che agiscono in
ogni parlante, specialmente quando affronta quella «zona grigia» tra «giusto» e
«sbagliato», per usare la bella espressione di Serianni, in cui le incertezze aumentano
con il decrescere del livello culturale. Ciò produce non tanto l’«errore» singolo, che
si può perdonare, ma un atteggiamento di trascuratezza nei confronti della
comunicazione, tanto che da ultimo si sono levate con insolita forza voci di censura
proprio da coloro da cui forse non ci si sarebbe aspettato un lamento sulla perdita
delle espressioni idiomatiche tradizionali o sull’oblio di cultismi abbastanza banali,
come «imperito», che un gruppo di giovani ha inteso come «in buona salute» (lo ha
segnalato il linguista Raffaele Simone).
Sciatti, senza lingua, e ultimi in graduatoria
Un sondaggio svolto empiricamente farebbe pensare che i giovani di oggi siano in
difficoltà a intendere le parole ricorrenti in «Topolino» degli anni ’70, termini come
«tirchio» appellativo di Paperone, per intenderci. In questo caso si tratta di lessico.
Tuttavia, quale sarà il sentimento della norma di questi nuovi parlanti, ai quali si
chiede ora di conoscere perfettamente l’inglese se vogliono trovare lavoro, e
palesemente, da parte di industriali e politici, ahimè, si fa sentire che l’italiano è
meno importante, o non è importante per niente? Il rischio è trovarsi senza lingua,
cioè senza il possesso perfetto di almeno una lingua, qualunque lingua, sia essa
l’italiano o l’inglese, perché senza una lingua di partenza posseduta alla perfezione, è
ben difficile non solo apprendere, ma anche misurare il livello di possesso di una
lingua seconda.
È nella scuola, dunque, che si gioca la partita per restituire prestigio all’italiano,
ciò che significa anche dare peso alla norma, almeno nei casi in cui tale norma è
certa per gli utenti colti, ristabilendo un’equilibrata ma irrinunciabile sanzione, che
non può essere barattata con il recupero di elementari valori comunicativi. In fondo
la scuola non è un’accademia che abbia come compito l’osservazione del
cambiamento in atto nella lingua italiana, ma, come tutte le istituzioni educative, è
prima di tutto il luogo in cui si trasmette la tradizione e ci si confronta con essa.
Gli errori di italiano non sono rintracciabili soltanto negli elaborati degli studenti
medi, che in fondo sono apprendenti a cui qualcosa si può perdonare. Ora gli errori
incominciano a essere frequenti anche all’Università. Si sono scatenate di recente
vivaci polemiche relativamente agli errori degli studenti universitari: nel 2017, è
passato alle cronache il cosiddetto «Manifesto dei 600», promosso dal «Gruppo di
Firenze per la scuola del merito e della responsabilità», un gruppo che fa riferimento
a un professore di Firenze, Giorgio Ragazzini. «È chiaro ormai da molti anni che alla
fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e
faticano a esprimersi oralmente»: così comincia il manifesto fatto circolare da
questo gruppo con notevole successo, tanto è vero che è stato firmato da autorevoli
rappresentanti della cultura italiana, come Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari, Carlo
Fusaro, Paola Mastrocola, Ernesto Galli della Loggia, Luciano Canfora, Chiara
Frugoni, Mario Isnenghi, Giuseppe Valditara.
Ho parlato di polemiche. Molti docenti legati alle linee di intervento a suo tempo
indicate dal linguista Tullio De Mauro e dal GISCEL non hanno gradito l’intervento
del gruppo di Firenze, e ne hanno contestato le indicazioni. Non entreremo nel merito
di questa polemica, se non per rilevare che essa palesa un malessere della scuola. È
interessante che il documento risulti firmato da autorevoli professori universitari:
questo non è casuale, perché ormai è esperienza comune dei docenti dell’Università
la correzione di tesi di laurea difettose proprio per le lacune che rivelano nella
conoscenza della lingua. Un professore universitario, a differenza di quanto accadeva
un tempo, è costretto talora a intervenire nelle vesti di maestro elementare. Si badi,
questo non accade per tutte le tesi, ma tuttavia accade, e non troppo raramente. Uno
studente che non sa scrivere in italiano non viene allontanato, anche perché le
Università vengono sistematicamente poste sotto accusa nel momento in cui perdono
studenti nel passaggio da un anno all’altro. La pressione contro quella che viene
chiamata «dispersione scolastica» si fa particolarmente marcata nel momento in cui
si va a caccia di risorse finanziarie. Gli atenei mirano ad assecondare questa politica,
soprattutto al fine di ottenere i finanziamenti del Ministero, o per non ridurre gli
studenti ai numeri minimi, con il rischio di mettere in moto meccanismi che
potrebbero portare alla chiusura dei corsi, in ossequio ad algoritmi prefigurati allo
scopo. Gli atenei devono dimostrare di integrare tutti gli studenti, di essere in grado
di recuperarli, anche quando l’operazione non è realisticamente possibile. Si tenga
presente, fra l’altro, che tutti i tipi di studi permettono l’accesso a tutti i tipi di
Università (a parte la selezione per chi ha il numero chiuso, quando è reale); dunque
è finita l’epoca in cui si arrivava all’Università dopo un percorso in un liceo di
qualità. Semmai gli atenei dei paesi esteri possono permettersi di scegliere gli
studenti verificando il loro curriculum e i risultati ottenuti, e, messa in atto questa
selezione, possono anche offrire formazione a costi bassi o gratuitamente. La
sopravvivenza della loro istituzione non si lega certo a operazioni di propaganda per
attirare studenti, camuffate pomposamente sotto l’etichetta dell’orientamento,
mentre in realtà si tratta di ben altra cosa, cioè di marketing, per far crescere il
numero degli iscritti.
Purtroppo, con queste premesse, il recupero degli studenti svantaggiati avviene
soprattutto compilando carte, relazioni, statistiche: si tratta di un recupero di
carattere sostanzialmente burocratico, mentre in realtà, semplicemente, le maglie
della rete si allargano sempre di più. Si rischia invece, in tutto il sistema scolastico,
un effetto perverso, perché quelli veramente penalizzati sono alla fine gli studenti
migliori. L’attenzione del sistema scolastico, sia nelle scuole superiori sia
nell’Università, è rivolta agli studenti peggiori, nello sforzo disperato di provvedere
al recupero, anche se oggi si parla molto delle «eccellenze» e della loro
valorizzazione.
Ma la crisi nell’uso dell’italiano non riguarda soltanto il mondo della scuola. La
crisi investe ormai le professionalità che dovrebbero pur garantire una certa
competenza nella lingua italiana. Basta ascoltare la radio o la televisione, o (meno
spesso, perché qui le cose vanno un po’ meglio) leggere i giornali, per imbattersi in
un uso dell’italiano estremamente approssimativo. Da tempo annoto su di un mio
quadernetto gli errori che sento alla radio (mi soffermo sulla radio perché l’ascolto
con più frequenza rispetto alla televisione). Gli errori, naturalmente, possono essere
interpretati in maniera diversa, come la frontiera del cambiamento della lingua. Ma
vediamo di che si tratta.
Si prenda per esempio il caso del verbo affondare, che ormai viene utilizzato
spesso in maniera nuova e, a mio giudizio, ridicola. Ecco un esempio: «il presidente
Moratti affonda». Non vuol dire che il presidente Moratti sia andato sott’acqua, ma
che ha «fatto un affondo», secondo la metafora che viene dalla scherma, e vorrebbe
dire che ha portato un attacco deciso e improvviso. D’altra parte, il verbo
«affondare» non ha affatto il significato della scherma di «fare un affondo», ma in
italiano esiste soltanto nel senso di «andare sott’acqua». Una giornalista (siamo nel
gennaio 2016) parla di Rosa Capuozzo, sindaco di Quarto presso Napoli, cacciata dal
movimento dei grillini, ma che vuol restare al suo posto. La giornalista annuncia che
Renzi difende la sindaca: «E Renzi affonda...». Anche in questo caso, come nel
precedente, si intende dire che Renzi ha fatto un affondo. Un altro esempio analogo,
del settembre 2016: «la minoranza Dem sceglie di non affondare». Non si intende
dire che i Dem scelgono di sopravvivere, ma si allude a un mancato affondo contro
Renzi.
Un altro verbo che sta cambiando significato è paventare. Paventare significa
«temere qualche cosa», ma a Gr Parlamento del 3 aprile 2014 si annunciano «le
osservazioni delle prefetture sul progetto paventato dal premier Renzi». In realtà il
premier Renzi non paventava affatto il progetto, visto che lo aveva elaborato e lo
stava sostenendo: Renzi semmai minacciava una riforma delle prefetture, ed erano
semmai le prefetture a paventare, perché temevano quell’intervento. Il significato sta
diventando proprio questo, «minacciare», mentre prima era «temere». Un perfetto
rovesciamento di senso. Ecco un altro esempio dal Gr1 del 21 novembre 2017:
«Dopo le dimissioni di Tavecchio, Malagò ha paventato il commissariamento della
Lega calcio». Dall’intervista si ricava che il presidente del CONI Malagò ha avanzato
la proposta di commissariamento, e quindi non ha paventato, ma semmai ha
minacciato.
Tra le parole che hanno cambiato significato, vi è similitudine. La similitudine, in
italiano moderno, è termine ormai specializzato per designare la figura retorica che
si studia a scuola, quando si dice, per esempio, che un certo guerriero si muove così
come il leone che assalta la preda; ma ormai la parola similitudine sta sostituendo
somiglianza, con curioso ritorno a un significato antico e obsoleto, ben poco
raccomandabile nella comunicazione quotidiana, in cui finisce di comparire come
una ricercatezza del tutto fuori luogo. Il 31 maggio 2013 al Gr1 intervistano una
giovane atleta che viene paragonata alla Simeoni: «Cosa ne dici quando ti si accosta
in questa similitudine?». In un altro caso, si parla di una possibile rinascita del
terrorismo, ma l’esperto intervistato (questa volta non si tratta di un giornalista)
rassicura: «non c’è similitudine tra oggi e la situazione al tempo del rapimento
Moro». L’uso si estende anche alla lingua scritta; per esempio, in un bel libro scritto
da uno scienziato sismologo, Sotto i nostri piedi. Storie di terremoti scienziati e
ciarlatani, trovo a p. 173 la nostra indebita «similitudine»: «tra NEO [Near Earth
Objects, asteroidi che possono colpire la Terra] e terremoti ci sono molte più
similitudini di quante si potrebbe pensare». Qui l’uso di similitudine di sapore
arcaico stride fra l’altro con la modernità di una lingua che utilizza acronimi inglesi.
Abbastanza comune è anche il proseguo per prosieguo, che potremmo definire una
lectio facilior. Si sa, l’italiano è una lingua difficile e ipercolta.
Ci sono poi gli effetti ridicoli involontari. Raiuno, 8 e 35 di mattina del 26
gennaio 2016, notizie sul traffico. Annunciano che «in virtù di un certo incidente», il
traffico è bloccato. Evidentemente in virtù è ormai inteso come «a causa di». Altro
effetto comico: si dà notizia che in seguito ai gravi attentati avvenuti in Francia, in
quella nazione ora c’è un «clima di massima sicurezza». Ovviamente si intende di
«massimo allarme», perché la sicurezza è proprio quella che è venuta meno a causa
degli attentati. Rai, 5 aprile 2000, giornale radio: viene trasmessa un’intervista sulla
scarcerazione improvvida di boss della malavita calabrese. Meditando sulle
responsabilità, la giornalista parla della ricerca di un «capo espiatorio». La
giornalista ha pensato forse a una testa che cade, o a un «capo», un dirigente che
perde il suo grado. Invece si tratta proprio di un antico rito in cui si sacrificava un
animale, il capro, il caprone, come espiazione per le colpe della collettività. Nei
modi di dire si serba a volte la memoria di antichi usi scomparsi. In questo caso
anche la memoria è scomparsa. Vengono usate in maniera distorta parole colte,
latine, per la verità nemmeno troppo difficili. Gr Parlamento del 6 maggio 2013:
«Berlusconi ha ribadito il suo ultimatum all’abrogazione dell’IMU ». In realtà, è
proprio il contrario: Berlusconi ha annunciato l’abolizione dell’IMU , e un ultimatum
semmai potrebbe venire da quelli che sono contrari. In un Tg1 del 21 novembre 2012
si parla dei distingui, al plurale: ma la parola è invariabile. A Raidue, Gr2 del 27
novembre 2014, si dà notizia di un colpo banditesco fallito, dopo che si era tentato di
bloccare un trasporto di valori interrompendo il traffico sull’autostrada: «Il colpo è
stato sfumato». Il verbo sfumare, ovviamente, non può essere usato in questo modo, a
meno che un pittore non stia ritraendo la scena. Ecco il Giornale Radio del Piemonte,
17 maggio 2014: si dà notizia di una ordinazione del Tribunale di Torino,
confondendo ordinazione e ordinanza.
Nelle redazioni non si usano più i dizionari di pronuncia, e ciò non è bene. Al
terzo giorno dell’alluvione del Piemonte, nel 1994, ancora si parlava del fiume
«Tanàro» esondato (ora i fiumi esondano, non straripano più). Un’altra alluvione
meno grave di quella del ’94: il Gr1 delle 8 di mattina del 27 novembre 2016 parlava
dell’acqua che aveva raggiunto «Monèsi» (località sciistica della Liguria). Mi è
capitato di sentire errori di pronuncia per piccole località del Piemonte, certo poco
note: ma si trattava in quel caso di un Gr regionale, che parlava di Carcofòro, che in
realtà è nome sdrucciolo, e di Chiàppera, che invece nome sdrucciolo non è. Altri
errori nella posizione dell’accento, magari meno irritanti, nel Gr1 delle 8 del 25
dicembre 2016, Latàkia anziché Latakìa, la città della Turchia, e scandìnavo ripetuto
più e più volte invece di scandinàvo. Quest’ultimo è errore perdonabile, tanto è
ormai consueto. Questo che dirò ora, consueto non è: al Gr1 delle 8 di mattina del
giorno 8 dicembre 2014, la conduttrice ha parlato di una città che (secondo lei) si
chiama Montevìdeo, forse in onore della televisione. Infine, i nomi di persona: il 9
marzo 2017, al Gr2 delle 8 e 30 di mattina, viene annunciata la morte di uno
scienziato noto anche al pubblico televisivo: è morto Dànilo Mainardi, con l’accento
sulla prima (e non era né serbo né croato, nel qual caso l’accento ritratto sarebbe
stato giusto). Il 14 gennaio 2018, il Gr2 delle 8 e 30 di mattina annuncia che «ci sarà
anche Mattarella a ricordare il terremoto del Belìce»: occorre ricordarlo sì, se
abbiamo dimenticato persino il nome.
Mi rendo ben conto che trascrivere qui gli appunti dei miei quadernetti in cui ho
raccolto gli errori dei giornalisti significa compiere una specie di gioco al massacro.
Siamo pienamente d’accordo: un lapsus va perdonato come un incidente scusabile.
Può capitare a tutti di lasciarsi sfuggire un errore, specialmente quando si parla.
All’inizio di gennaio 2018, i giornali e la Rete hanno molto ricamato su di un «più
migliore» della ministra Fedeli, e qualcuno ha misurato la pausa tra le due parole,
per verificare se si trattasse di un’esitazione o di un comparativo di maggioranza. Ma
non si tratta di dar la caccia ai lapsus. Quello che si vuole sottolineare è
l’atteggiamento di generale sciatteria, di disinteresse per il controllo effettivo della
lingua, cosa particolarmente grave nel momento in cui si lavora con un medium come
la radio, che, appunto, trasmette lingua.
Sciatteria della scrittura nella scuola, sciatteria nella comunicazione di alcuni
giornalisti. L’errore non fa più paura, non desta alcuna preoccupazione, anzi ci si può
cullare tranquillamente nell’italiano deteriore, forse nella speranza di essere i primi a
introdurre una novità che farà strada.
La verità è che gli italiani non conoscono l’italiano. Lo parlano male, ma molto
spesso non lo capiscono. Un documento, al suo apparire, preoccupò molto Tullio De
Mauro, che ha fatto cenno a questa preoccupazione in diverse sue opere. Si tratta del
rapporto PIAAC ISFOL 2013, un’inchiesta dell’OCSE sulla capacità, verificata in varie
nazioni, di comprendere un testo e utilizzare la matematica. Noi tralasciamo i
risultati della matematica, che non è di nostro interesse in questa sede. Ci limiteremo
all’esito nella comprensione di un testo, badando a quella che in inglese si chiama
literacy, cioè «alfabetizzazione». Ancora oggi in Internet si possono leggere due
interventi che presentano in forma chiara e divulgativa i risultati di quell’inchiesta
del 2013. Una di queste presentazioni è di Michele Pellizzari, l’altra è di Andrea
Moro; entrambi sono professori di economia. Riporterò qui le parole con cui
Pellizzari sintetizza l’esito dell’inchiesta, per quanto riguarda noi italiani:
Oggi l’OCSE e la Commissione Europea hanno reso pubblici i risultati della prima
indagine PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult
Competencies). Si tratta di uno studio finalizzato a misurare competenze linguistiche
e matematiche della popolazione adulta in modo comparabile tra paesi.

IL CAMPIONE E I TEST
Campioni rappresentativi della popolazione di età compresa tra i 16 e i 65 anni
sono stati selezionati in 24 paesi (22 membri dell’OCSE ) e alle persone
campionate è stato sottoposto un questionario per rilevare alcune informazioni di
base (sesso, composizione famigliare, condizione occupazionale, etc.) ed è stato
chiesto loro di partecipare a un test delle competenze linguistiche e matematiche.
Si tratta di test che rilevano, per esempio, la capacità di comprensione di testi
scritti oppure di svolgere operazioni matematiche di varia complessità. Le
domande dei test sono le stesse in tutti i paesi, semplicemente tradotte nella
lingua locale, garantendo così, grazie anche all’armonizzazione delle tecniche di
campionamento, la comparabilità dei risultati.

GLI ITALIANI: UN VERO DISASTRO


I risultati dell’Italia in questo particolare confronto internazionale sono pessimi,
forse oltre le aspettative. Siamo i peggiori in termini di competenze linguistiche
e penultimi per un soffio in matematica.

Per comodità dei lettori, riporterò qui il grafico a cui ha fatto riferimento Pellizzari:
Non è qui la sede per commentare e spiegare questo grafico, o per illustrare i criteri
con cui sono stati raccolti ed elaborati i dati. Quanto ai criteri di elaborazione, devo
dire che non sono stati esaminati nemmeno da coloro che pure hanno commentato in
libri e giornali i risultati negativi dell’inchiesta. Però è palese che gli italiani sono in
ultima posizione, dopo gli spagnoli. La parte scura della barra utilizzata nel grafico
mostra la percentuale dei più sfavoriti; lo spostamento a sinistra rispetto alle altre
barre denuncia la condizione negativa; ma anche le eccellenze, nella parte destra
della colonna, sono in posizione sfavorevole.
Per farla breve, diremo che sono entrate nei criteri di valutazione non soltanto
verifiche sulle capacità di lettura applicate a un testo di tipo tradizionale, ma, in
genere, in maniera più ampia, si è tenuto conto del rapporto con tutto ciò che si
presenta in forma scritta, tenendo conto, per esempio, anche della capacità di trarre
informazioni da una pagina web. È importante soprattutto ricordare che molte
inchieste analoghe riguardano il mondo della scuola, cioè i ragazzi in età scolare,
mentre la caratteristica più importante della ricerca PIAAC 2013 sta nel fatto che
fotografa la situazione degli italiani dall’età scolare fino all’età della pensione.
Questo insomma è veramente il desolante ritratto di una società, la nostra, su cui c’è
molto da riflettere.

Profeti del nuovo italiano

La lingua del futuro


Negli anni ’60, Pier Paolo Pasolini scatenò una polemica che è ormai entrata a buon
diritto nei manuali di storia della lingua italiana. Pasolini intervenne con una
conferenza tenuta in varie città italiane, pubblicata sulla rivista «Rinascita» il 26
dicembre 1964 con il titolo Nuove questioni linguistiche. In questo intervento, si
preoccupava prima di tutto di svolgere un discorso strettamente letterario,
analizzando il rapporto tra la lingua italiana e gli scrittori. Annunciava poi in
maniera clamorosa un grande e inatteso evento: la nascita del nuovo italiano
nazionale, un italiano «tecnologico», sviluppatosi nei centri di elaborazione
linguistica del Nord Italia, nei centri industriali, che non coincidevano più con quelli
tradizionali, con città come Firenze e Roma a cui si era guardato fino ad allora per la
lingua. Il nuovo italiano non veniva più creandosi lì, ma era legato al fiorire della
nuova classe egemone, la borghesia neocapitalistica. Non dimentichiamo che negli
anni ’60 andavano molto di moda le categorie del marxismo, e il neocapitalismo era
quindi proponibile come una verità certa e assoluta. La nuova lingua
«neocapitalistica», a giudizio di Pasolini, era «comunicativa» ma «non espressiva».
L’opposizione tra «espressione» e «comunicazione» veniva a Pasolini dalla lettura
dell’opera di un linguista francese della scuola di Ferdinand de Saussure, Charles
Bally. Di qui Pasolini ricavò quest’opposizione funzionale, a cui attribuiva anche un
valore storico e politico. A completare la teoria, ovviamente, soccorrevano le pagine
di Gramsci, altro pensatore comunista, nelle quali il mutamento della lingua veniva
spiegato nel quadro generale del rapporto tra le classi sociali.
L’articolo di «Rinascita» ebbe ampia eco, sollecitò una grande quantità di
interventi di studiosi, giornalisti, scrittori. Gli argomenti di Pasolini furono ripresi da
vari giornali. Entrarono nella discussione scrittori come Arbasino, Moravia, Ottieri,
Calvino, Sereni, Vittorini, e uno studioso di comunicazioni di massa come Eco.
Generalmente gli specialisti di linguistica e gli scrittori e giornalisti intervenuti nel
dibattito diedero torto a Pasolini, negando che la contrapposizione tra espressività e
comunicazione potesse essere così netta e reale, negando che le trasformazioni
linguistiche potessero accompagnare in maniera immediata quelle sociali, tanto da
esserne uno specchio fedele.
Oggi, però, a distanza di tempo, pur riconoscendo sul piano strettamente tecnico
la validità delle critiche rivolte alla tesi di Pasolini, non si può negare che lo scrittore
intuì meglio degli altri la tendenza alla quale si avviava la lingua nazionale, la quale
iniziava davvero un processo di definitivo distacco dalla propria tradizione
umanistico-letteraria.
Sicuramente Pasolini, che pure aveva una sensibilità raffinata nel cogliere le
tendenze della lingua in atto, non intuì i rischi che poteva correre in futuro l’italiano,
o meglio li intuì in parte, perché il problema, come al solito, è proprio questo: è
facile essere profeti indovinando qualche cosa del futuro. Ma ciò che viene
indovinato, nella realtà, si mescola in maniera complicata con altre cose che nessuno
ha immaginato, per cui il risultato finale resta assolutamente imprevedibile. Occorre
essere molto cauti nel dar retta a coloro che vantano di saper delineare il futuro.
Molti di costoro, anche quando si presentano come padroni di grandi competenze
tecniche, svolgono una funzione analoga a quella dei maghi che si muovevano nelle
corti dal Medioevo al Cinquecento, ricavando auspici per il futuro dalle stelle e
raccontando storie agli uomini potenti, disposti generalmente a crederci. Poche menti
illuminate presero le distanze da queste previsioni, e i pensieri, i Ricordi, di
Guicciardini ci possono aiutare ancora oggi a immunizzare questa malattia perenne
dell’umanità, quest’infantile illusione: «Le cose future sono tanto fallaci e sottoposte
a tanti accidenti, che el più delle volte coloro ancora che sono bene savî se ne
ingannano». E ancora, sempre Guicciardini: «Quanto disse bene el filosofo: De
futuris contingentibus non est determinata veritas! Aggirati quanto tu vuoi, che
quanto più ti aggiri, tanto più truovi questo detto verissimo».

La morte dell’italiano secondo Pasolini


Lo scrittore Pier Paolo Pasolini, comunque, aveva fatto occasionale profetico
riferimento alla morte dell’italiano, parlando della propria funzione di poeta
«ultimo» e della morte della poesia. Forse questo era un modo per interpretare la
«fine del mandato» degli scrittori:

nell’epoca in cui l’italiano sta per finire


perduto da anglosassone o da russo
torno, nudo, appunto, e pazzo, al verde aprile

al verde aprile, dell’idioma illustre


(che mai fu, mai fu!) alto-italiano...
Così scriveva in Progetto di opere future (vv. 24-28), nella raccolta Poesia in forma
di rosa, vagheggiando una lingua poetica ricavata dalle parlate settentrionali, forse
dal friulano che gli era caro. Questi versi portano la data del 1963, e ciò spiega come
mai Pasolini potesse supporre, riferendosi a quella che era allora la doppia sfera di
influenza esercitata sull’Italia dalle grandi potenze protagoniste della «guerra
fredda» (Stati Uniti d’America, Unione Sovietica), che la lingua russa potesse farci
correre qualche pericolo. La conoscenza del russo, effettivamente, veniva allora
imposta dall’Unione Sovietica ai paesi satelliti: di qui avrà preso lo spunto Pasolini,
immaginando la vittoria in Italia di uno dei due imperialismi, quello americano o
quello sovietico, quest’ultimo vincitore se avessero trionfato i partiti di estrema
sinistra, allora filosovietici.

La morte dell’italiano secondo Calvino


Tra le risposte che vennero date a Pasolini, sono particolarmente interessanti quelle
di Italo Calvino, perché anche questo scrittore, per l’occasione, ha cercato di dire
qualche cosa sul futuro dell’italiano. Intanto, il modello di lingua che piaceva a
Calvino era assolutamente diverso dalla lingua cara a Pasolini. Basti pensare che
Calvino definisce i dialetti italiani con le qualificazioni di «decaduti, bolsi, corrotti»
(così nell’articolo L’italiano, una lingua tra le altre lingue). È noto che Pasolini
aveva invece un grande interesse per i dialetti. Su «Il Giorno» del 3 febbraio 1965,
Calvino scrisse un articolo, intitolato L’antilingua, diventato poi molto celebre,
appunto per la trovata dell’«antilingua». Esempio emblematico di produttore di tale
deleterio strumento comunicativo è il brigadiere che riceve la denuncia di un
cittadino qualunque e la trasforma in burocratese. Questo piccolo capolavoro di
Calvino è stato estrapolato dal contesto. Il contesto è stato dimenticato, e il brano del
brigadiere è diventato, da solo, un pezzo d’antologia, citato da tutti quelli che si
dichiarano avversi alla lingua burocratica e alla banalità della lingua amministrativa
e giuridica. Ma non è il pezzo sull’antilingua che ci interessa in questo caso, bensì la
piccola serie di profezie che Calvino inserì alla fine dell’articolo. Eccole:

le mie previsioni sono queste: ogni lingua si concentrerà attorno a due poli: un
polo di immediata traducibilità nelle altre lingue con cui sarà indispensabile
comunicare, tendente ad avvicinarsi a una sorta di interlingua mondiale ad alto
livello; e un polo in cui si distillerà l’essenza più peculiare e segreta della lingua,
intraducibile per eccellenza, e di cui saranno investiti istituti diversi come l’argot
popolare e la creatività poetica della letteratura.
L’italiano nella sua anima lungamente soffocata, ha tutto quello che ci vuole per
tenere insieme l’uno e l’altro polo: la possibilità d’essere una lingua agile, ricca,
liberamente costruttiva, robustamente centrata sui verbi, dotata d’una varia
gamma di ritmi nella frase. L’antilingua invece esclude sia la comunicazione
intraducibile, sia la profondità espressiva. La situazione sta in questi termini: per
l’italiano trasformarsi in una lingua moderna equivale in larga parte a diventare
veramente se stesso, a realizzare la propria essenza; se invece la spinta verso
l’antilingua non si ferma ma continua a dilagare, l’italiano scomparirà dalla carta
linguistica d’Europa come uno strumento inservibile.

A giudizio di Calvino, dunque, il vero rischio per l’italiano sta in quella che chiama
l’antilingua. In sostanza, il pericolo maggiore è dato dalla pressione del linguaggio
retorico e burocratico, svuotato di significato, avulso dalla realtà e dalla concretezza
delle cose. Per rendere meglio queste affermazioni, dobbiamo tornare all’articolo
precedente, in cui Calvino spiegava il proprio ideale di scrittura:

il mio ideale linguistico è un italiano che sia il più possibile concreto e il più
possibile preciso. Il nemico da battere è la tendenza degli italiani a usare
espressioni astratte e generiche. Per svilupparsi come lingua concreta e precisa
l’italiano avrebbe possibilità che molte altre lingue non hanno. Ma la necrosi che
tende a farne un tessuto verbale in cui non si vede e non si tocca nulla lo sta
cancellando dal numero delle lingue che possono sperare di sopravvivere ai
grandi cataclismi linguistici dei prossimi secoli.

Calvino dunque intuiva che qualche cosa di grave stava succedendo nel rapporto tra
le lingue d’Europa e del mondo. Non a caso usa qui la parola «cataclisma». Anche
Calvino, tuttavia, non riusciva a essere davvero profeta, perché non è possibile
indovinare tutto il futuro. Non intuiva che la crisi sarebbe stata provocata dal potere
debordante e incontrollato dell’inglese.

Cambiare rotta
Non è difficile trarre le conclusioni, dopo tutti gli argomenti che abbiamo svolto. È
facile dire, anzi, con giusto e severo realismo, che la società italiana si caratterizza,
oggi come in passato, per scarsa densità della cultura, scarsa conoscenza della lingua
nazionale a livelli di qualità, faciloneria nell’uso dell’italiano anche nella
comunicazione pubblica (basta ascoltare certi discorsi degli onorevoli in
parlamento); non sono rare forme di approssimazione nell’uso della lingua,
un’approssimazione formale che inevitabilmente si accompagna, e anzi ha per
conseguenza, un’approssimazione nella sostanza.
Dobbiamo prendere atto che è molto grande la distanza tra il sentire della nazione
e la cultura scientifica moderna, anche a causa del disinteresse degli scienziati per la
comunicazione in lingua italiana, e ciò si accompagna inoltre alla perdita della
tradizione umanistica viva nel passato. Coronamento di tutto questo è lo scarso
sentimento della propria identità nazionale, identità che facilmente si disgrega in
particolarismi che fanno riemergere un passato lontano. Oppure ci si orienta verso
modelli radicalmente diversi, che vengono dall’estero, anche perché la disponibilità
totale, spesso acritica, per ciò che è straniero (e apprezzato in quanto tale, senza
ulteriori approfondimenti) si accompagna a una scarsa capacità di considerare le
proprie tradizioni, anche quando sono positive, eccettuato forse il campo del food, in
cui si assiste a un’esaltazione ormai stucchevole del concetto di italianità, del resto
asservito a banali obiettivi commerciali.
In questo quadro si inserisce il problema della lingua. Ovviamente non è che una
piccola parte di un problema più grande di identità nazionale e di alfabetizzazione,
ma la questione linguistica è un segnale importante, forse uno dei canali attraverso i
quali si può cercare di costruire una coscienza nazionale e civile capace di
confrontarsi con i modelli dell’Europa e con i modelli d’oltreoceano, in modo da far
convivere un po’ meglio, nell’età della globalizzazione, il nuovo e l’antico, evitando
di gettare via quello che abbiamo di buono, assieme a quello che abbiamo di meno
buono. Per questo ritengo che la battaglia della lingua e per la lingua sia una
questione di civiltà.
La lingua non è soltanto lo strumento con cui possiamo leggere i nostri scrittori,
cioè quelle fonti di italianità che sono venute molto prima che l’italianità si
trasformasse in un dato politico. Alcuni di questi scrittori sono stati e sono tuttora
ammirati e letti in tutto il mondo, da Dante a Petrarca a Machiavelli a Galileo, per
citarne soltanto pochissimi di primo piano. Non ci serve una classe dirigente che, per
affrontare i problemi dell’Italia, abbia la testa soltanto rivolta verso l’estero. Non ci
serve una classe dirigente malata di inguaribile esterofilia provinciale. Ci serve
qualcuno che sappia guardare all’estero, sì, per imparare, ma che allo stesso tempo
sappia tener conto di ciò che noi siamo e di ciò che abbiamo di buono e di valido.
Occorre ricordare che le lingue straniere non si imparano per davvero, al fine di
un uso importante, se non si parte dalla competenza salda nella propria lingua
materna, e la lingua materna degli italiani è l’italiano. Ovviamente mi riferisco a un
uso ben diverso da quello necessario per dire poche parole per l’acquisto di un
panino o durante un viaggio su di un aereo di una compagnia low cost. La salvezza
non verrà mai dal globish, l’inglese povero e globale che qualcuno immagina come
un toccasana, tanto da sognare la sua imposizione forzosa anche nella didattica
universitaria, la quale invece abbisogna di lingue vere, ricche e complete.
Occorre respingere le tentazioni di coloro che ci fanno sognare un piccolo eden
attraverso il rimpianto di mondi dialettali, utilizzati con il fine recondito e non
dichiarato di gettare le basi per un’eventuale futura secessione, e comunque con
l’idea di disgregare ciò che in questo momento è unito. La formula «inglese più
dialetto», subdola, accarezzata da alcuni nemici dell’italiano, non ci affascina
minimamente, anzi la riteniamo una forma di suicidio, soprattutto nel quadro
dell’Europa di oggi, che dovrebbe per contro coltivare il plurilinguismo come una
risorsa preziosa.
Occorre resistere alle sirene tentatrici che ci fanno credere che non esista più
alcuna norma linguistica davvero stringente, ma che l’unico scopo della
comunicazione sia coltivare l’espressività e la naturalezza. Tale atteggiamento
libertario viene trasportato facilmente nella scrittura della Rete, esaltata come più
vicina al parlato, più spontanea, più immediata, in conclusione, più significativa;
mentre in realtà spesso si tratta solo di spazzatura verbale. Anche nel campo della
lingua, è bene puntare su modelli alti e di qualità. Non è soltanto questione di forma,
ma semmai un modo per avvicinare la forma alla sostanza. Occorre smetterla di
disprezzare l’italiano, di avvilirlo e di metterlo da parte, di contrapporgli
un’internazionalizzazione autolesionista. Occorre smetterla di introdurre leggi e
norme che tendono a ridurre il ruolo della nostra lingua, anche contro le chiarissime
indicazioni della sentenza 42 del 2017 della Corte Costituzionale. Tutto questo
significa cambiare rotta, e cambiare rotta è necessario.
IV
Come la lingua cambia senza tradire il passato

Neologismi: non tutto vien per nuocere

Adattamento e selezione
La crisi dell’italiano che abbiamo descritto nei capitoli precedenti si è accompagnata
a una curiosa crescita di atteggiamenti puristici: quando si protesta contro l’eccesso
di parole inglesi, si trova facilmente, in quel solo caso, il consenso di molti: gente
comune, ma anche intellettuali, giornalisti e scrittori. Non tutti costoro, in altre
situazioni, quando si tratta di difendere per davvero l’italiano dall’emarginazione
(per esempio, nelle questioni di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo di questo
libro), sono altrettanto disposti a darsi da fare. Sembra un paradosso, ma è così.
Classificherei questo atteggiamento come un nuovo genere di purismo, un amore
per la lingua italiana che nasconde una forma rischiosa di conservatorismo. Più o
meno consciamente, costoro mirano a imbalsamare la lingua, ancorandola al suo
passato; ma le lingue, in questo modo, muoiono. Diventano come gli idiomi classici,
il latino e il greco, si staccano dalla realtà contemporanea. La conservazione del
passato può dare soddisfazione, può essere frutto di un certo gusto erudito, ma
sicuramente non porta verso il futuro. Per questo i linguisti sostengono che la
produzione di neologismi è garanzia di vitalità.
Naturalmente, c’è neologismo e neologismo. Ci sono i forestierismi crudi, i
prestiti integrali, sui quali ho già detto tutto quello che penso, là dove ho distinto i
forestierismi stupidi (come step, mission, competitor, maladministration, sold out) e
i forestierismi inevitabili (come wi-fi, che del resto francesi e spagnoli, a differenza
degli italiani, non pronunciano alla maniera inglese). Discriminante tra l’una e l’altra
categoria è la novità effettiva dell’oggetto designato. La novità è particolarmente
evidente per tutto quello che appartiene al campo della tecnologia: chi introduce
un’innovazione tecnica ha il diritto di imporre una parola nuova. Ci sono però le
pseudo-innovazioni, innovazioni finte, verso le quali l’atteggiamento deve essere ben
diverso.
Non tutti i neologismi sono forestierismi. Certo, moltissimi lo sono. Se si
interroga la versione elettronica nel vocabolario Zingarelli 2018, il più aggiornato
dei vocabolari italiani, perché esce ogni anno rivisto e ammodernato, si può
constatare che le parole nuove registrate da questo vocabolario, entrate in italiano a
partire dall’anno 2000, sono in totale 467. Ovviamente la selezione è frutto di una
scelta, ma si tratta di una scelta oculata, e quindi si può dare a questo numero una
certa fiducia. Tra queste 467 voci, ben 228 sono originate dall’inglese o da una sorta
di pseudo-inglese, con combinazioni di inglese e italiano, come nella parola
acquaspinning. Si può dunque concludere che delle circa 500 parole accolte da un
vocabolario italiano come neologismi, a far data dall’anno 2000, una quota quasi pari
al 50% è inglese o risente fortemente dell’influsso dell’inglese. Il dato è
indubbiamente significativo.
Il neologismo spesso ha una radice forestiera, ma per fortuna dà luogo a una
parola italiana, ottenuta mediante suffissazione o adattamento: così taggare o
swappare. In questo caso i linguisti riconoscono che il forestierismo si è piegato
almeno in parte alle regole della lingua ricevente. L’adattamento è visto in genere
come un fatto positivo. Un tempo l’adattamento delle parole forestiere era più forte:
riguardava addirittura i nomi propri e i toponimi, per cui non si diceva New York ma
Nuova York. Oggi l’adattamento dei nomi geografici è molto più limitato, ma in certi
casi resiste, almeno per le parole che sono diventate italiane da molto tempo, per cui
abbiamo Parigi e non Paris, Londra e non London.
I linguisti osservano i neologismi, cercando di individuare il momento in cui le
parole nuove emergono per la prima volta. Non è raro che la prima comparsa di un
neologismo sia nei giornali, nella televisione o sulla Rete. I linguisti che si occupano
di compilare i dizionari, inoltre, devono assumersi la responsabilità di stabilire quali
neologismi abbiano diritto di entrare nel patrimonio della lingua, simbolicamente
rappresentato dal «vocabolario».
Qualche volta i lessicografi vantano il numero di neologismi introdotti nei loro
vocabolari. È soprattutto un espediente di mercato, con cui si cerca di attirare il
pubblico, dando l’idea di un aggiornamento significativo e continuo. In realtà le cose
sono più complicate, perché non tutti i neologismi sono davvero destinati a durare.
Allora la domanda è la seguente: quando un neologismo può essere accolto dal
vocabolario? Chi decide qual è il momento opportuno per la parola opportuna? Un
neologismo può essere accolto solo quando raggiunge una certa stabilità. Unicamente
in quel caso siamo di fronte a una vera parola della lingua. Ma qual è il momento in
cui il cambiamento avviene ed è riconoscibile? L’operazione è delicata. Si basa su di
un presupposto fondamentale di cui abbiamo già discusso: che la proprietà della
lingua appartenga alla società dei parlanti. I parlanti e gli scriventi decidono quando
una parola è destinata a fortuna nel tempo futuro e quando invece è destinata a cadere
e sparire. Non lo decidono riunendosi in un consiglio o mettendo ai voti la decisione;
la decisione nasce spontanea da sé, dall’uso della società, dall’azione combinata di
coloro che parlano e scrivono.

Parole che vanno e vengono


Dunque alcuni linguisti si dedicano con molta attenzione a osservare la nascita, e
soprattutto la crescita e la durata delle parole nuove. In passato, questo compito
veniva svolto in modo diverso. Un tempo, i migliori osservatori del fenomeno della
neologia erano i severi puristi, gli arcigni raccoglitori delle parole da proscrivere,
cioè proprio coloro che si davano da fare per condannare le parole nuove. Costoro
erano impegnati in una continua osservazione critica della lingua, pronti a emettere
la loro condanna, appena notassero un cambiamento. I dizionari puristici del passato,
malgrado le intenzioni censorie dei loro autori, sono ancora oggi una ricca fonte di
informazione, se ci interessa sapere quando certe parole sono entrate nell’italiano.
Purtroppo, questa particolare e imprevista funzione dei dizionari puristici può
indurre a un equivoco: può dar l’idea che ogni forma di conservazione, ogni freno
all’innovazione linguistica, sia frutto di un atteggiamento sbagliato, e che tutte le
novità siano sempre da accettare. Invece le cose non stanno così. Il problema è
semmai distinguere tra le novità che contano e che devono durare, e le novità
destinate a cadere in breve tempo.
Ho di fronte a me il Lessico della corrotta italianità compilato da Pietro Fanfani
e Costantino Arlìa, pubblicato nel 1877, e successivamente riedito con un titolo
anche più severo, Lessico dell’infima e corrotta italianità. Il titolo è già un’evidente
indicazione del programma degli autori. Si tratta di una raccolta di parole che essi
condannano e vogliono eliminare. Si può credere che queste parole siano
terribilmente corrotte. Invece troviamo una bella quantità di termini oggi normali,
accolti anche dagli utilizzatori più schizzinosi, come abbandonarsi, abbassare,
abbasso!, abbastanza, abbeverare, abbonare, aberrazione, abietto, abile,
analfabetismo. Ce n’è abbastanza per convincersi che l’atteggiamento del purista
spesso conduce a giudizi sbagliati. Nella raccolta della Corrotta italianità ci sono
anche parole oggi sparite, per esempio il termine absentismo: questo era un tipo di
alcolismo che colpiva coloro che abusavano di bevande alcoliche a base di assenzio.
Oggi l’assenzio nelle bevande alcoliche è passato di moda (o almeno lo si spera).
Non dobbiamo però credere che il purista sbagli sempre. Qualche volta indovina.
Per esempio, Fanfani e Arlìa condannano l’espressione «all’impensata», in una frase
di questo tipo: «giunse qui il conte all’impensata». Gli autori suggeriscono di
sostituire «all’impensata» con «improvvisamente», e una volta tanto il loro
suggerimento ha colto l’indirizzo futuro della lingua, perché «all’impensata» non lo
dice più nessuno, mentre «improvvisamente» continuiamo a usarlo anche
nell’italiano d’oggi. Un altro caso in cui i puristi Fanfani e Arlìa hanno indovinato, è
stato la condanna della parola asilare per «cercar rifugio». Dunque occorre essere
comprensivi nel giudicare i puristi: quasi sempre la loro smania di purezza li porta a
condannare parole destinate al successo, ma in qualche caso colgono il ridicolo in
parole che effettivamente finiscono per uscire dall’uso. Il problema è sapere di volta
in volta quale sarà la sorte di una parola.
Proviamo ora ad aprire un altro famoso dizionario ricco di parole nuove: si tratta
del Dizionario moderno di Panzini, che l’autore definì «supplemento ai dizionari
italiani», perché doveva contenere quelle parole che nei dizionari italiani del tempo
non si trovavano. La prima edizione del Dizionario moderno di Panzini risale al
1905. Raccoglie parole di vario tipo, anche dialettali, termini che in qualche modo
facevano capolino nell’uso, per esempio la voce del dialetto veneziano amolo, che
vuol dire «susina».
Molte delle parole nuove di Panzini, ma non tutte, sono rimaste nella lingua,
anche perché Panzini, con acume, selezionava parole utili: troviamo per esempio
amperometro, amovibile, ampolla, anamnesi, anarcoide, e anche espressioni come
andare a Canossa, o andare a vapore. Andare a Canossa vuol dire «ricredersi, fare
un atto di sottomissione». «Andare a vapore» significa, secondo Panzini, «andare in
gran fretta», «compiere alcuna cosa con grande sollecitudine». Quest’espressione
pian piano è uscita dalla lingua, e forse oggi nessuno la capisce più, e ciò è
spiegabile: la tecnologia ha fatto sì che il treno a vapore del 1905 non sia più un
esempio di grande velocità. Oggi potremmo dire «andare in Freccia Rossa», se fosse
già nata questa espressione che ancora non esiste. Oppure si potrebbero usare altre
espressioni, come «andare sparati» o «andare a tutto gas» o «a tutta birra» (errata
traduzione del francese «aller à toute bride» che significa, letteralmente «andare a
briglia sciolta», inteso, nell’etimologia popolare, attribuendo una speciale virtù alla
birra, o piuttosto, secondo altri, affidandosi al valore onomatopeico di brrr, simile al
rumore di un motore).
Leggere e consultare il dizionario di parole nuove del passato è un’esperienza
interessante perché, sulla base della lingua moderna, possiamo subito verificare
com’è andata a finire, cioè qual è stata la sorte della parola. La cosa è ben diversa se
la nostra attenzione si sposta sui neologismi del presente. In questo caso,
evidentemente, non sappiamo affatto come andrà a finire. È uscito di recente un libro
di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle, intitolato Che cos’è un neologismo.
Adamo e Della Valle hanno grande esperienza nel campo dell’osservazione della
neologia, e nel loro libro spiegano come una parola nuova nasce, come si diffonde, in
quali circostanze o condizioni può durare, quali sono i meccanismi che attraverso
suffissazioni, alterazioni e prefissi ne permettono la costruzione. Il libro è
ricchissimo di esempi, e contiene un indice dei neologismi citati. Poiché questo libro
è del 2017, qui davvero possiamo cercare un elenco di neologismi dei nostri tempi.
Basta scorrere l’elenco per essere sollecitati a rispondere alla domanda: quanto
dureranno queste parole? hanno diritto di entrare nel vocabolario?
Proviamo a scorrere questo elenco. Troviamo abuso di diritto, acchiappa-
consensi, accordicchio, acquisto compulsivo, aerogel, afrocentrismo, afrofobia,
ambulanziere, americofonia, amiantato, ammazza-sprechi, anti-eutanasia, anti-
inciucio, anti-iPad, anti-Monti, anti-omofobo, anti-Renzi, anti-vaccinazione,
arbitropoli, avanspettacolare, biopattumiera, biofarmaco, biodepuratore, birroso,
bisteccheria, bloggarolo, bolla finanziaria, bomba d’acqua... non è facile stabilire
quali di queste parole siano destinate a entrare stabilmente in italiano, e quante per
contro siano invenzioni, giochi linguistici, trovate giornalistiche. Qualche
distinzione, tuttavia, si riesce a fare: si capisce, per esempio, che gli anti-qualche
cosa, per esempio gli anti-Renzi, dureranno soltanto finché durerà la stagione
politica di Matteo Renzi, finché sarà sulla breccia. Alcune di queste parole
spariranno, ma la loro registrazione avrà sempre un’utilità: servirà a intendere, a
distanza di anni, i testi in cui le parole stesse comparivano. Sarà come conservare la
chiave della cronaca del passato.

La vicenda di «petaloso»
Bisogna rendersi conto che creare neologismi è un’attività comune nella lingua. Non
riguarda soltanto gli addetti alla scrittura professionale, i giornalisti, i narratori. Si
inventano parole anche nella vita quotidiana, nella lingua comune, nella
conversazione di tutti i giorni. Spesso inventare una parola significa strappare un
sorriso, una risata, riscuotere successo nel circolo degli amici. Significa mostrare la
nostra capacità di invenzione. Questo non ci fa onomaturgi, cioè «creatori di parole»,
ma ci permette di esercitare la nostra vitalità di utenti della lingua materna. In una
lingua straniera il gioco sarebbe più difficile, uscirebbero solo calchi e incroci
involontari, semplice segno di imperizia.
Si è discusso molto di neologia quando si è scatenata la vicenda di petaloso, nel
febbraio 2016. Il bambino di terza elementare di Copparo in provincia di Ferrara
aveva usato petaloso in un tema scolastico, e l’insegnante aveva corretto la parola,
però, al tempo stesso, aveva consigliato al bambino di chiedere all’Accademia della
Crusca se quell’invenzione linguistica non potesse essere in qualche modo
giustificata. Il bambino scrisse, e l’Accademia rispose che petaloso era una parola
costruita in modo accettabile. Vale la pena di riprodurre la lettera della dott.ssa
Maria Cristina Torchia, dell’ufficio di consulenza linguistica della Crusca, colei che
ebbe la ventura di scrivere la risposta:

Caro Matteo,
la parola che hai inventato è una parola ben formata e potrebbe essere usata in
italiano così come sono usate parole formate nello stesso modo.
Tu hai messo insieme petalo + oso > petaloso = pieno di petali, con tanti petali.
Allo stesso modo in italiano ci sono:
pelo + oso > peloso = pieno di peli, con tanti peli
coraggio + oso > coraggioso = pieno di coraggio, con tanto coraggio.
La tua parola è bella e chiara, ma sai come fa una parola a entrare nel
vocabolario? Una parola nuova non entra nel vocabolario quando qualcuno la
inventa, anche se è una parola «bella» e utile. Perché entri in un vocabolario,
infatti, bisogna che la parola nuova non sia conosciuta e usata solo da chi l’ha
inventata, ma che la usino tante persone e che tante persone la capiscano. Se
riuscirai a diffondere la tua parola fra tante persone e tante persone in Italia
cominceranno a dire e a scrivere «Com’è petaloso questo fiore!» o, come
suggerisci tu, «le margherite sono fiori petalosi, mentre i papaveri non sono
molto petalosi», ecco, allora petaloso sarà diventata una parola dell’italiano,
perché gli italiani la conoscono e la usano. A quel punto chi compila i dizionari
inserirà la nuova parola fra le altre e ne spiegherà il significato.
È così che funziona: non sono gli studiosi, quelli che fanno i vocabolari, a
decidere quali parole nuove sono belle o brutte, utili o inutili. Quando una parola
nuova è sulla bocca di tutti (o di tanti), allora lo studioso capisce che quella
parola è diventata una parola come le altre e la mette nel vocabolario.
Spero che questa risposta ti sia stata utile e ti suggerisco ancora una cosa: un bel
libro, intitolato Drilla e scritto da Andrew Clements. Leggilo, magari insieme ai
tuoi compagni e alla maestra: racconta proprio una storia come la tua, la storia di
un bambino che inventa una parola e cerca di farla entrare nel vocabolario.
Grazie per averci scritto.
Un caro saluto a te, ai tuoi compagni e alla tua maestra.
Maria Cristina Torchia
Redazione della Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca

La risposta è ineccepibile. Come spiega la dottoressa Torchia, l’ingresso reale di


petaloso nella lingua sarebbe potuto avvenire solamente se i parlanti italiani avessero
trovato interessante e utile la parola.
Il caso volle che la risposta data al bambino fosse scritta in una lettera con carta
intestata dell’Accademia (non su una e-mail elettronica), con tanto di protocollo. La
lettera fu fotografata e pubblicata nei social, scatenando un improvviso interesse.
Non era solo questione della lettera in sé. Il presidente del Consiglio del tempo,
Matteo Renzi, nella conferenza stampa di presentazione di Human Technopole, il
nuovo polo di ricerca sull’area di Expo 2015, citando più volte l’Accademia della
Crusca, riprese l’espressione «progetto petaloso». In Rete è ancora reperibile il
filmato con l’intervento del presidente del Consiglio. Così Matteo Renzi:

Ieri un bambino di otto anni ha scritto insieme alla sua insegnante una lettera
all’Accademia della Crusca. Quel bambino ha coniato una parola, che
l’Accademia dopo una lunga discussione ha ritenuto essere una parola che deve
entrare nel vocabolario italiano. Quella parola è stata anche rilanciata dai social
ed ora è entrata nell’uso della lingua italiana. Ecco, così, direi che anche questo
progetto potrebbe essere definito «petaloso».

Il caso ha voluto che il presidente del Consiglio si chiamasse Matteo, e Matteo il


bambino che ha inventato petaloso. Così, nello stesso giorno, il 24 febbraio 2016,
Matteo Renzi lanciava un tweet: «Grazie al piccolo Matteo, grazie @Accademia
della Crusca una storia bella, una parola nuova #petaloso». Nel giro di poche ore, la
parola fu ripresa da altri personaggi della politica. In quel momento, tutti vedevano
in questa parola, nata dall’immagine di un fiore, un simbolo positivo della rinascita
dell’Italia. Certo, esageravano un po’ dicendo che l’Accademia della Crusca aveva
deliberato di introdurre la parola nel vocabolario italiano. Come abbiamo visto nella
lettera della redattrice della Consulenza, l’Accademia era stata molto più cauta. Ma
quella parola piaceva a molti, portava una ventata di ottimismo. Probabilmente
proprio questa è la chiave per spiegare il successo mediatico di qualche cosa che
sembrava opporsi all’area semantica del gufare, tanto spesso criticamente evocata
dal presidente del Consiglio.
Il successo della parola petaloso nei giorni seguenti divenne travolgente.
Sembrava che nessun giornale volesse occuparsi d’altro. L’Accademia della Crusca,
con il suo referto su petaloso, inteso più o meno bene, era sulle prime pagine di tutti i
quotidiani nazionali. Le interviste al presidente dell’Accademia si succedevano una
dopo l’altra. Più avanti, ci fu chi se la prese con il bambino e con l’Accademia,
incolpata di aver approvato una parola che invece sarebbe stata da condannare: una
reazione, questa, vagamente isterica, che non si giustifica nei confronti di un
bambino. Potremmo poi estendere la ricerca per verificare quanto l’invenzione del
bambino si legasse alle parole analoghe che poteva avere ascoltato, per esempio nella
pubblicità, dove ricorreva l’inzupposo di Antonio Banderas per una nota ditta di
prodotti alimentari. Sicuramente il piccolo Matteo non poteva sapere che petaloso
esisteva già, se non in italiano, almeno in latino: era stato usato nel 1695 dal celebre
botanico inglese James Petiver. Petiver, nella sua farmacia di Londra, riceveva
diversi campioni di piante che arrivavano dall’India, e per descrivere una di queste
piante esotiche usò l’espressione latina «flore petaloso». Qualcuno ha anche
segnalato che il presunto neologismo non era tale, perché era attestato in
«Panorama» del febbraio 1991, usato dal giornalista Michele Serra: «I fiori di
Sanremo sono iperrealisti: troppo petalosi e colorati, sono fiori di rappresentanza e
dunque la mettono giù dura». Certamente anche di questo precedente il piccolo
Matteo non poteva saper nulla, ma è una conferma della bontà della sua intuizione.

Webete e altri
Da allora, dalla vicenda di petaloso, le parole suffissate in -oso vengono proposte in
grande quantità alla Crusca, perché molti sperano di passare alla storia con la loro
invenzione verbale. Va detto che nel sito dell’Accademia esiste uno spazio dedicato
in maniera specifica ai neologismi, e in questo spazio è persino disponibile una
scheda con cui si possono segnalare parole che il pubblico ha incontrato o creato. I
neologismi segnalati dai lettori compaiono poi in una colonna laterale, in cui la
dimensione del carattere è proporzionata al numero di segnalazioni che sono giunte.
In pratica, la dimensione del carattere è già segno di una gerarchia. Nel momento in
cui sto scrivendo questo capitolo, le parole che si possono leggere nella colonna sono
le seguenti: taggare spoilerare gengle chattare shazammare capelloso laggare
morbidoso appetitoso apericena petaloso merendare kebabbaro babbano
cioccolatoso scialla bullizzare shish shippare zipote arcobalenoso boscoloso webete
gentismo puccioso whatsappare obsistenza padelloso pisellabile arcobalenato
callifonia googlare scodinzoloso alpinità biciclare mail di carta ti amoro killare
docciarsi cippettare psicoismo colazionare disiscaldarsi petoso bambinità inzupposo
croccantini forneria.
Nella serie, si riconoscono parole suffissate in -oso, certamente legate alla
fortuna di petaloso, e compare anche petaloso. Nell’elenco, si nota la parola webete,
che ha goduto di notevole celebrità nel 2017. L’invenzione di questo neologismo è
stata attribuita a Mentana, anche se poi in realtà il termine esisteva già in un
significato leggermente diverso. Mentana l’ha adoperato per stigmatizzare individui
aggressivi che scatenano la loro rabbia nel web; il vocabolario Zingarelli 2018, in
questo senso, usa il termine inglese hater, che potremmo tradurre in italiano come
portatore d’odio. Pare che all’origine webete indicasse chi usa la Rete credendo che
consista soltanto nelle risorse del web. In sostanza webete era un individuo
scarsamente competente delle risorse tecnologiche moderne. Come si vede, l’uso di
Mentana è diverso: siamo di fronte a ciò che scientificamente si definisce una
«risemantizzazione». Lo Zingarelli 2018 non ha registrato webete, e l’ha fatto a
ragion veduta, perché registra solo parole che ritiene abbiano acquisito una certa
stabilità. Nell’elenco delle parole accettate, trovo bacaro, brexit, ciclostazione,
coparentale, dronista, flaggare (nel senso di mettere un segno di spunta), post verità,
sviluppismo, oltre naturalmente, a hater (che abbiamo già menzionato). Come si
vede, pochi di questi neologismi sono forestierismi integrali. Molte sono parole
italiane, addirittura c’è una parola che viene dal dialetto, sicuramente antica, come il
bacaro, un tipo di osteria che esiste a Venezia. Come mai bacaro arriva solamente
ora? Arriva soltanto ora, perché la moda popolare del food (come si usa dire oggi, al
posto del banale cibo) ha probabilmente rilanciato un termine tipico della tradizione
regionale italiana. Nel bacaro o bacareto si beve un bicchiere di vino e si assaggiano
cibi tipici, per esempio il baccalà mantecato o il folpeto, un moscardino bollito.
Potremmo chiederci se è stato giusto non inserire webete. Difficile dirlo. Nel
successo reale o mancato di questi neologismi sta l’italiano del futuro, ma il futuro
non è così facile da prevedere. Negli anni ’60 circolarono alcune parole che
assomigliano in qualche modo a webete. Si parlava allora di vidiota e vidiozia, con la
radice di video combinata con idiota e idiozia. Allora lo strumento dominante della
comunicazione era la televisione. Oggi i fenomeni di cretineria collettiva si
collegano alla Rete e al web. Ecco dunque webete. Lo Zingarelli potrà semmai
utilizzare la parola nei prossimi anni, dopo aver verificato che abbia avuto fortuna.
La cautela non è mai un errore.

Un italiano giusto: la lingua al guinzaglio


La fine di un mandato: la letteratura che non c’è più
Quanto dirò ora, molto probabilmente mi tirerà addosso l’antipatia di una miriade di
scrittori, perché si sa che l’Italia è un Paese con molti autori di romanzi e poesie nel
cassetto, alla ricerca di un editore e del successo. Sul quotidiano «La Stampa» del 21
febbraio 2018 si legge che ben 2 milioni di italiani sono aspiranti scrittori, e che,
secondo l’Istat, un milione e mezzo di italiani scrivono, e lo fanno solo per passione.
Lo stesso giornale riporta (ma senza fonte) un altro dato: ci sono 5 milioni e 886.000
italiani che vorrebbero scrivere, anche se non lo hanno mai fatto. L’Italia è dunque
un Paese di scrittori e aspiranti scrittori. Il problema è semmai trovare i lettori, visto
che sappiamo bene, grazie ad altri dati statistici, come siano in calo sia le vendite dei
libri sia quelle dei giornali. Scrivere è certo qualche cosa di positivo. Meglio scrivere
che fare altro. Purtroppo, però, gli italiani hanno una scarsa tendenza alla scrittura
razionale, e una grande disponibilità alla scrittura d’arte. Il nostro resta purtroppo un
Paese di artisti, di santi e di navigatori. Il grande linguista dell’Ottocento Graziadio
Isaia Ascoli, fondatore della glottologia in Italia, se la prendeva con l’eccesso di
retorica diffuso da noi, e si augurava che si affermasse una scrittura dell’utile, una
scrittura fatta per comunicare idee e informazioni concrete. Arrivava al punto di
chiamare i professori universitari con l’appellativo di «operai dell’intelligenza».
Forse la posizione di Ascoli era troppo radicale, però ancora oggi si potrebbe farne
tesoro.
Queste belle idee, Ascoli ebbe occasione di esporle dibattendo con i manzoniani,
cioè i seguaci di Alessandro Manzoni, uno scrittore che aveva avuto il merito di
portare nella lingua, non solo in quella della narrativa ma anche in quella della
saggistica, un gusto per la linearità e per la maggiore vicinanza al parlato. In qualche
modo, entrambi gli avversari, Graziadio Isaia Ascoli e Alessandro Manzoni, erano
portatori di profonde istanze innovative, relativamente alla scrittura e alla tecnica
dello scrivere. È interessante però notare che, dei due, uno solo era scrittore d’arte.
L’altro era uno scienziato: dobbiamo usare questo termine per un linguista che si
ispirava al metodo storico. Lo scienziato aveva ragione, ma, nello scrivere, era molto
più bravo Manzoni, perché la lingua di Ascoli è ostica e difficile, anche se ricca di
argomenti molto solidi.
Per secoli, gli scrittori d’arte, i narratori, ma soprattutto i poeti, ebbero una
funzione fondamentale nell’Italia divisa politicamente. Non essendo l’Italia uno
Stato politicamente unito, era impossibile avere un’unica politica linguistica,
un’unica politica culturale, un’unica politica scolastica, anzi tutte queste cose si
manifestavano in un’Italia che presentava situazioni totalmente disomogenee:
qualche Stato era più avanti, per esempio il Lombardo-Veneto o il Piemonte; qualcun
altro era molto indietro, come il governo pontificio o il Regno delle Due Sicilie.
La lingua italiana, come già si è detto, si era sviluppata ed era cresciuta
essenzialmente proprio grazie all’apporto degli scrittori: non è un caso che Dante
venga ancora oggi definito il «padre dell’italiano». Analoga funzione ebbero Petrarca
e Boccaccio. Gli scrittori erano il modello della lingua utilizzato dai grammatici, il
medesimo a cui si erano ispirate le classi dirigenti dell’Italia preunitaria. Questa
particolare funzione degli scrittori per il controllo della lingua è durata fino alla fine
dell’Ottocento, o al più fino all’inizio del Novecento, finché sono esistiti scrittori
con un ruolo che può essere definito la «funzione del vate». Il vate non è soltanto un
poeta o narratore. È un intellettuale che, scrivendo, diffonde principi di politica, di
filosofia, di civiltà, di morale, di estetica. Diventa simbolo e protagonista di una
cultura, indirizza gli altri, nel bene e nel male. La sua scrittura diventa modello per
tutti. L’Italia ha avuto questi scrittori-vati. Gli ultimi sono stati Carducci e
D’Annunzio, in parte anche Pascoli. D’Annunzio può risultare antipatico a qualcuno,
ma la sua funzione di scrittore, di agitatore politico, di eroe di guerra, è comunque
una realtà indiscutibile. Oggi nessun personaggio della politica o della cultura
riuscirebbe ad avere una simile trascinante popolarità.
Il Novecento post-bellico è caratterizzato da un ruolo diverso dello scrittore, che
rifiuta la funzione pubblica, non vuol essere né punto di riferimento né guida. Rifiuta
cioè la funzione di vate. Il non-vate ebbe per un certo tempo una scrittura
raffinatissima (basti pensare a un poeta come Montale). Poi la protesta,
l’insoddisfazione nei confronti della società, si è trasformata talora in mediocrità;
quella degli scrittori è diventata una lingua spesso banale. Non più una lingua
razionale e lineare, come quella di Calvino o di Primo Levi, ma una lingua di livello
troppo comune. Forse anche questa era un’operazione importante, in una nazione
come la nostra, in cui la tradizione letteraria si era mossa sempre a un livello alto,
troppo alto. Alla fine, però, la banalità non porta lontano. La funzione degli scrittori,
di far da guida alla lingua italiana, svolta da Dante fino a D’Annunzio, probabilmente
oggi è finita. È finito il loro mandato. Non sono più gli scrittori a guidare la lingua.
Se si dovessero indicare i modelli di italiano oggi più validi, probabilmente sarebbe
il caso di cercarli negli autori della saggistica di tipo umanistico e nel giornalismo di
alto livello. Questi sono i modelli che hanno assunto le funzioni un tempo
monopolizzate dalla scrittura d’arte.
Ora anche gli storici della letteratura e i critici più sensibili si pongono questo
problema: lo ritrovo per esempio in un recente libro dell’amico Giorgio Ficara
intitolato Lettere non italiane. Considerazioni su una letteratura interrotta
(Bompiani, Milano, 2016). La letteratura interrotta, manco a dirlo, è quella italiana,
che Giorgio Ficara, professore nell’Università di Torino, conosce assai bene. Il libro
ci parla della fine della secolare influenza della nostra letteratura sull’Europa, e ci
dice anche qualche cosa sul modo di scrivere dei giovanissimi romanzieri: «i più
emarginati degli emarginati, cioè molti tra i giovani e giovanissimi romanzieri
italiani, scrivono ormai in un altro italiano, più simile alla traduzione da un succinto
inglese che a quella lingua “altrettanto perfetta quanto immensa” di cui parlava
Leopardi quasi due secoli fa».
Che cosa accadrà nel futuro? Non credo sia probabile che gli scrittori riprendano
la funzione di guida civile e linguistica della nazione; è molto difficile che ciò
avvenga, e purtroppo anche gli scienziati difficilmente potranno svolgere questo
ruolo, vista la loro determinazione nell’abbandonare la lingua italiana.
Probabilmente uno dei motivi di crisi della lingua sta anche in questa mancanza di
modelli «alti» a cui fare riferimento.
L’italiano del futuro non dovrà dimenticare la grande tradizione che ha alle
spalle, ma dovrà fare i conti, come aveva intuito Italo Calvino, con le altre lingue
dell’Europa che lo circondano, e con l’inglese che circonda le lingue dell’Europa.
Dovrà fare il massimo sforzo per modernizzarsi, senza però perdere la continuità con
il proprio passato, perché non si può lasciare che la lingua se ne vada a briglia sciolta
dove la portano le mode. La nostra proposta è quella di una lingua libera, sì, ma
trattenuta saldamente al guinzaglio, per quanto lungo, in modo che non vada dove
vuole, o dove la porterebbero i parlanti più sprovveduti, o più innovativi, o più
libertari. Sembra un programma lineare, ma in realtà è una strada molto difficile da
percorrere.
Occorre dunque evitare che la lingua sia gonfia ma vuota, eliminando quella che
Calvino chiamava l’«antilingua», che non è soltanto il linguaggio burocratico, come
credono alcuni. Occorre tornare a una forma più sorvegliata ed elegante, visto che si
è semplificato anche troppo. Gli esperimenti di scrittura difficile, come quella di
Gadda o del critico Gianfranco Contini, per quanto meravigliosi e virtuosamente
raffinati, non sono la via che si può indicare a tutti. Occorre poi restituire agli italiani
il senso critico che permetta loro di guardare ai difetti della scrittura come a una
deviazione disdicevole.
Si potrà discutere su certi vezzi moderni, per esempio le frasi frante, i periodi
brevissimi, alla maniera del giornalista Ilvo Diamanti. Si tratta di vezzi stilistici che
hanno una base nelle preferenze novecentesche per la paratassi e per le frasi nominali
(quelle senza verbo). Non credo però che questo modello vada proposto a tutti senza
qualche raccomandazione di cautela. Quale modello di italiano potremmo dunque
indicare per il futuro? Come potremmo interpretare alcune regole per scrivere e
parlare? I linguisti sono concordi sul fatto che le regole possono aiutare a
comprendere il meccanismo della lingua ma non insegnano a scrivere bene in una
lingua. Però non si può dire che le regole non servano a nulla; è vero che la loro
funzionalità perfetta si realizza quando sono totalmente interiorizzate, cioè quando
diventano istinto naturale. Anche quando pratichiamo uno sport, e lo conosciamo
bene, per cui i movimenti ci vengono spontanei, ci sono momenti in cui dobbiamo
pensare alle regole. Nello sci per esempio, in certi momenti ci è utile pensare che
dobbiamo portare il peso in avanti, nel momento in cui l’abbiamo inavvertitamente
arretrato. Dunque le regole in ogni circostanza possono essere un richiamo utile,
specialmente quando si inseriscono su di una conoscenza di base già ben consolidata.
Vedremo di suggerire qualche regola nelle pagine che seguono, non esponendo
tutta la grammatica, ma toccando singoli casi che possono far esitare l’utente della
lingua italiana, pur ben disposto a seguire la norma migliore.
Oralità o scrittura?
Oggi tutti i linguisti esaltano i meriti e i pregi dell’oralità, e sembrano mettere un po’
da parte la lingua scritta. Nei secoli passati non si ragionava certamente così. Da
Dante fino al Rinascimento, il primato fu sempre assegnato alla lingua scritta,
reputata più «pensata», più elegante. Pur avendo perfettamente colto la differenza tra
scritto e parlato, gli uomini del Rinascimento, come già gli Umanisti, rimanevano
saldamente schierati dalla parte della scrittura, almeno in grande maggioranza. La
varietà del parlato, la sua mutevolezza, andava compensata garantendo ai testi d’arte
la maggior durata temporale possibile, e per garantire la durata occorreva la scrittura.
Senza la durata, sarebbe venuto meno un principio basilare del classicismo; i
classicisti volevano essere letti dalle genti del futuro, cioè dai posteri. Ecco emergere
il grande problema dei «posteri» che assillava la cultura del Rinascimento, tanto
quanto importa poco o nulla alla società di oggi, con enorme differenza
antropologica nel modo di concepire la cultura. Il parlare, dunque, regno dell’oralità,
valeva poco agli occhi dei classicisti, perché si rivolgeva a pochi e durava poco.
Ovviamente, allora pesava anche l’inesistenza di una risorsa che oggi ci domina e
travolge, cioè il «parlato trasmesso», che ha mutato il quadro della comunicazione
del nostro tempo. Oggi anche il parlato può raggiungere un pubblico vasto e lontano,
in un tempo differito, e tutto ciò senza necessità di scrittura. Possiamo registrare
l’immagine assieme al parlato, possiamo spedirla lontano, come accade nei messaggi
vocali dei telefoni, oltre che nelle trasmissioni radiofoniche e televisive. Si tratta di
vedere quanto potranno durare tutte le registrazioni di parlato che invadono la Rete e
si accumulano nei mastodontici magazzini di YouTube. La facilità di memorizzare i
dati ne moltiplica la quantità: quando si scriveva sulla pietra, evidentemente, si
faceva più economia. Si faceva economia anche quando si scriveva sulla pergamena.
Dalla carta in poi, le cose sono state più semplici, e si è cominciato a largheggiare.
Figuriamoci nell’era del digitale, quando la difficoltà di produrre e conservare
sembra non esistere più.

Dubbi ed esitazioni nel parlare: incipit e intercalari


Anche nel parlare, specialmente in circostanze formali, occorre evitare scivoloni e
incidenti. Non parlo solo di errori, ma anche dei cosiddetti «tic» del parlato. Per
esempio, ci sono alcuni che non riescono a iniziare un discorso senza esordire con un
bel «niente». Iniziare una frase o un discorso con quell’inutile «niente» ha davvero
poco senso, anche se si potrebbe tentare una difesa in extremis, interpretando il
«niente» come una forma moderna e piuttosto rozza della deminutio prevista dalle
regole della retorica classica. È altrettanto vero, però, che bisogna concedere qualche
cosa all’emotività di chi parla. Un tempo si preferiva esordire con un «hem...». Gli
anglosassoni amano molto partire con un «well...». Qualcuno usa «dunque» come
incipit, e anche questa è una contraddizione, perché sembra che si concluda, quando
invece si avvia il discorso. In realtà, chi dice quel «dunque», intende rivolgere a se
stesso l’esortazione a raccogliere tutte le idee per rispondere all’uditorio.
Meglio sarebbe essere sempre freddi e lucidi, non appoggiarsi a queste deboli
stampelle. Si sa, tuttavia, che parlare in pubblico è difficile, talora fa paura. Un altro
rischio è il «no?» usato come intercalare. Altri usano l’intercalare «vero?» / «è
vero?». La funzione è analoga, sempre la medesima. Sono parole vuote di significato,
ma che si utilizzano come «perditempo», come pausa o richiamo per verificare il
canale della comunicazione. Accade che si adoperino queste formule quando si è
attanagliati dal dubbio, spesso inconscio, che l’uditorio non ci segua. Ritengo che il
fastidio nasca quando l’intercalare, anziché segnalare un legittimo dubbio, assume
cadenza ossessiva, e il suo indice statistico cresce troppo.

Questioni di accento
Anche se si usa la lingua nella dimensione dell’oralità, si dovrebbe portare più
rispetto alle regole. Invece si affacciano due malattie croniche della nostra epoca,
due malattie che colpiscono anche l’italiano: domina la passione per la colloquialità,
e ci si illude che la spontaneità sia dotata di pregi senza limiti. Le due premesse sono
esagerate, se non false, ma quasi tutti ci credono ciecamente. Per esempio, perché
non si può cercare di pronunciare le parole con un po’ di cura? Non sto parlando
della buona dizione, cioè dell’apertura e chiusura delle «o» e delle «e», così come si
impara nei corsi per aspiranti attori, o così come la si possiede in maniera naturale se
si è originari dell’Italia centrale. Nessun italiano riesce a liberarsi completamente
delle proprie caratteristiche fonetiche regionali, né è necessario farlo, anche perché il
risultato sarebbe un italiano artificioso e inesistente; non si tratta di abolire i tratti
dell’italiano regionale, ma semmai di attenuarli, contenendoli nel limite del lecito.
Del resto nessuno oggi si avvale di un italiano regionale molto marcato, che invece
in passato si riconosceva persino sulla bocca di certi uomini politici, per esempio
l’onorevole Ciriaco De Mita, segretario dell’allora partito di maggioranza. Non
parliamo di vocali aperte o chiuse, ma della posizione dell’accento tonico. Quante
volte si sente èdile per edìle? Rùbrica per rubrìca? O dèvia invece di devìa, nocciòlo
invece di nòcciolo (nucleo di alcuni frutti), persuàdere invece di persuadère,
leccòrnia invece di leccornìa... Possiamo pensar male del livello culturale di chi
adopera la lingua in questo modo, oppure possiamo ammettere che queste infrazioni
siano un inevitabile progresso, perché investono punti deboli del sistema linguistico
e forse preludono a una trasformazione definitiva. Si può tenere nel debito conto la
seconda ipotesi, molto favorevole a chi sbaglia. Tuttavia, pur con la massima
comprensione per i fratelli che errano, ci si può collocare elegantemente dalla parte
della miglior tradizione, evitando i modi e le forme «popolari». Io consiglio
vivamente di fare così, anche perché è facilissimo verificare la giusta pronuncia.
Basta un vocabolario, basta il DOP (il Dizionario d’ortografia e di pronunzia di
Migliorini, Tagliavini e Fiorelli, edito dalla ERI, la casa editrice della Rai,
liberamente consultabile on line). Eppure si sa: le cose utili e intelligenti della Rete
sono spesso le più trascurate.
Ci sono casi in cui gli accenti sbagliati derivano da snobismo. Càpita anche per i
nomi propri. È rimasto famoso il ministro delle Finanze, i cui antenati certamente si
chiamavano Padoàn, perché si tratta di un «etnico», cioè di un nome veneto che
indica l’origine da un luogo preciso, Padova: padoàn vuol dire «padovano». Ma quel
ministro fece sapere a tutti che il suo nome era Pàdoan. Un caso analogo è quello di
un celebre industriale e della sua ditta, anche questa con nome veneto, Benettòn, cioè
un alterato di Benedetto. Molti lo trasformano in Bénetton, che ha il pregio di
sembrare un nome americano. Del resto, anche la catena francese Carrefour (che
vuol dire «Incrocio di strade»), e che si dovrebbe pronunciare «carfùr», è diventata
«càrfur» sulla bocca di tanti italiani. Ritrarre l’accento è insomma uno sport
nazionale. Ovviamente si tratta di una lettura «all’inglese» di un nome francese.
Anche i nomi propri, infatti, sono investiti dall’anglificazione. A un Gr Parlamento
del febbraio 2013 mi è capitato di ascoltare la pronuncia Iumbolt per il filosofo
tedesco Humboldt.
Ci sono casi in cui l’accento tonico risponde a una precisa ideologia, diventa una
scelta di campo, magari con significato politico. Ciò accade per Cossovo, che può
essere detto Kòssovo o Kossòvo. Quella terra infelice fu teatro di una guerra tra le
due diverse etnie che la abitano, e la diversa pronuncia discende appunto dal diverso
uso delle due parti in causa, la serba e l’albanese. La pronuncia tradizionale in Italia,
prima del conflitto, era quella serba, Kòssovo; ma molti usano oggi la pronuncia
albanese: i più intelligenti lo fanno per mostrare la loro adesione alla parte «debole»,
cioè alle vittime albanesi che patirono l’invasione. Nel caso di un territorio conteso,
la pronuncia può assumere una valenza politica. Io tuttavia, senza entrare in
questioni internazionali, seguo il DOP e preferisco dire Kòssovo, non Kossòvo.
L’errore di accento sui nomi propri è anche una mancanza di rispetto. Ricordo
che al terzo giorno dall’inizio dell’alluvione del Piemonte, nel 1994, alcuni
giornalisti della Rai ancora pronunciavano «Tanàro» per il fiume Tànaro. Non ci
sarebbe voluta molta fatica per essere più precisi. Un tempo, infatti, nelle redazioni il
DOP aveva un posto d’onore.
Va bene mettere l’accento al posto giusto quando si parla, ma poi occorre anche
scriverlo. Ricordiamo che ormai si è saldamente affermato, in perfetto accordo con
la fonetica, l’accento acuto sulle parole come perché, affinché, mentre l’accento è
grave su thè e cioè, perché cioè deriva da «ciò + è», ossia dalla terza persona del
presente indicativo del verbo essere, una «è» che si pronuncia aperta, mentre la
congiunzione «e» si pronuncia chiusa.
L’accento grafico è obbligatorio quando cade sull’ultima sillaba in parole
polisillabiche, per esempio in coccodè, così come in perché e affinché. Ecco perché
l’accento va anche sui numeri composti di tre, anche se tre non ce l’ha. Tre non ha
accento perché è monosillabico, ma ventitré e trentatré sono polisillabi tronchi, e
dunque lo richiedono. Ci sono alcuni casi in cui si adopera l’accento anche sui
monosillabi, ma ciò accade solamente in presenza di dittonghi ascendenti (come
più), o quando c’è rischio di confusione, come accade tra se congiunzione e sé
pronome, o e congiunzione ed è voce del verbo essere. Dal novero delle confusioni
disambiguate dall’accento si è deciso però di escludere l’omografia con le note
musicali: quindi do voce del verbo dare e do nota musicale sono omografi, mentre da
preposizione e dà voce del verbo dare non lo sono, e vengono distinti appunto
dall’accento.
Abbiamo appena citato il caso dell’accento posto su sé pronome per distinguerlo
da se congiunzione, e siamo così arrivati a toccare una questione tra le più curiose
della prassi scrittoria e scolastica italiana, quella per cui si accetta comunemente che
sé porti accento, ma tale accento viene eliminato quando il pronome sta in
compagnia di «stesso» e anche di «medesimo», per cui si ha «tra sé e sé», ma «tra se
stesso», con una curiosa eccezione, che fra l’altro va contro la realtà fonetica. Solo la
forma sé stesso è legittima, dunque di gran lunga preferibile. Alle molte ragioni che
si potrebbero addurre (per esempio, l’inutilità di introdurre un’eccezione grafica),
aggiungiamo una notazione fonetica: il pronome sé, a differenza della congiunzione,
è sempre forte, cioè porta accento. Insomma, in italiano la pronuncia del se di «se
sapessi...» non è uguale a quella del sé di «sé stesso»: nel secondo caso vi è la
presenza di un accento, che va dunque indicato. Come si è diffusa e imposta la regola
scolastica di se stesso senza accento? Questo è uno dei casi più interessanti di
normativa grammaticale imposta dalla prassi dell’insegnamento scolastico. L’effetto
è stato la stabilizzazione di una norma, per quanto errata. Non c’è troppo da
scandalizzarsi. Infatti la normativa della lingua si basa sul sentimento della
maggioranza. La maggioranza è per se stesso, senza accento, come ha insegnato la
scuola (è un circolo vizioso!). Conclusione: continuiamo pure a usare la forma cara
ai più, ma non condanniamo chi ha scelto la forma giusta, per quanto fondata su di un
consenso minoritario.
Abbiamo visto che l’accento sulle «e» e sulle «o» toniche non è casuale, ma deve
essere acuto o grave a seconda della pronuncia reale. In base a tale regola, abbiamo
distinto cioè da perché. Nella scrittura, o meglio nella stampa, ci si potrà forse
sorprendere di fronte a un’oscillazione della grafia dell’accento sulle «i» e sulle «u».
Nella maggior parte dei casi, troveremo scritto più, così, lì. Tuttavia alcuni si sono
appassionati a una tesi in realtà un po’ peregrina, e sostengono che si deve scrivere
piú, cosí, lí. La ragione starebbe nel fatto che quelle «u» e «i» sono chiuse, e dunque
vogliono l’accento acuto, mentre città ha una «a» aperta, che deve portare l’accento
grave. La spiegazione è di lana caprina, perché, qualunque sia l’accento che
metteremo su «i», «u» e «a», non potrà mai condizionare la pronuncia, per il
semplice motivo che è impossibile pronunciare in italiano una «a» aperta o «chiusa»,
o una «i» aperta diversa da una chiusa. La pronuncia di queste vocali è assolutamente
la medesima, sempre. Dunque la distinzione tra accento grave e acuto ha un senso
solo sulle vocali come «e» e «o», che possono essere davvero aperte o chiuse nella
reale pronuncia.
Sarà curioso ricordare che nella prima metà del Novecento ebbe una certa fortuna
il tentativo di abolire la h del verbo avere nelle forme ha, ho, hanno, sostituendola
con un accento: à, ò, ànno. Se si sfoglia un’opera celebre come il Dizionario
Bompiani delle opere e dei personaggi, si vede che lì fu adottata questa soluzione,
che fra l’altro faceva risparmiare molto spazio, abolendo centinaia di lettere h;
l’innovazione grafica però non ebbe fortuna, ed è ormai ignota ai più.
Avete mai sentito dire ìmene per iméne? Già abbiamo visto che ritrarre l’accento
è di moda. Spero tuttavia che nessun medico abbia detto mai «ìmene», pronuncia
priva di qualunque sensata giustificazione. Vediamo però il problema che sta dietro
all’«arretramento», che effettivamente a volte si verifica, come in
ecchimòsi/ecchìmosi. Il doppio accento non ricorre solo nelle parole tecniche, ma
anche nei nomi della Grecia antica, come Odìsseo/Odissèo, Èdipo/Edìpo. La ragione
sta nel fatto che molte parole greche ci sono giunte per tradizione latina, e in latino
l’accento si è adattato alla legge che governa rigidamente la pronuncia della lingua di
Roma (detta la «legge della penultima»: la penultima sillaba porta accento solo se è
lunga; se è breve, l’accento si ritrae; in latino l’accento di una parola polisillabica
non cade mai sull’ultima sillaba). Si tratta dunque di vedere il percorso storico
seguito da ogni parola. Se ci è giunta direttamente dal greco e dunque va pronunciata
«alla greca», o è passata dal latino, e dunque va pronunciata «alla latina», o se è
arrivata da altre lingue: ecchìmosi è alla greca, ma ecchimòsi è alla latina, mediata
dal francese ecchymose. Entrambe le pronunce sono comunque legittime, anche se i
medici credono che sia giusta solo la prima.
Un fenomeno particolare, che solo in certi casi è registrato dalla scrittura, è
quello che gli specialisti chiamano «raddoppiamento fonosintattico». Esso consiste
nel rafforzamento della consonante iniziale di una parola, quando sia preceduta da
alcune altre parole particolari (non da tutte): la grafia lo segnala unicamente quando
c’è «univerbazione», cioè quando due parole si uniscono per formarne una sola. Per
esempio, soprattutto, formato da sopra e da tutto, nell’unione raddoppia la «t» di
tutto. Sopra produce dunque il raddoppiamento fonosintattico, e questo è il motivo
per cui si scrive anche soprammercato, sopravvenuto, e sopralluogo (che con una
sola «l» è sbagliato). Però intravvedere, con due «v», non è corretto, perché intra non
produce tale raddoppiamento, e nessuno ha mai scritto intrammuscolare: dunque non
si deve scrivere intravvedere, come fanno alcuni, convinti di compiere un atto di
eleganza, mentre sbagliano. Ma allora perché esiste intrattenere? Intrattenere non è
composto di intra, ma di in combinato con trattenere, per cui la doppia «t» non è
frutto di fonosintassi dovuta a intra (che non la produce), ma è quella del verbo
trattenere, a sua volta frutto di fonosintassi, perché viene da «tra+tenere». Si noti
però che tra, a differenza di fra, provoca il raddoppiamento solo in trattenere e
derivati.
C’è una tendenza a dimenticare gli accenti e dare la colpa alle tastiere dei PC ,
quando si scrive E’ invece di È, o, peggio, e’ invece di è. Ma le tastiere dei PC che si
vendono in Italia non sono tastiere americane, ma italiane, e hanno gli accenti. È
forse legittimo o comunque accettabile l’uso dell’apostrofo al posto dell’accento? A
mio parere, questa soluzione è sbagliata e fuorviante. Confonde elementi diversi.
Anche la norma che permette l’omissione dell’accento sulle lettere maiuscole non è
propria della lingua italiana, ma semmai del francese, e non c’è ragione per imitarla.
I caratteri maiuscoli, a lettere di scatola o colorati, sono soggetti, a volte, alla
fantasia di grafici che stravolgono gli accenti o li aboliscono, ma si tratta pur sempre
di un abuso non giustificabile. Le tastiere mancano di certe lettere, è vero, ma questo
non giustifica nulla, infatti i buoni programmi di scrittura rimediano: l’ottimo Word,
per esempio, modifica da solo la «è» dopo punto, trasformandola automaticamente in
«È». Lo stesso risultato si ottiene evidenziando la lettera e attivando il tasto F3. Con
il medesimo metodo si ottiene «Ì» da «ì», e si può scrivere SÌ. L’uso di «E’» per «È»
può essere perdonato come peccato veniale solo su certe tastiere estranee alla nostra
lingua, utilizzate in condizioni particolari (assenza di programmi di qualità, PC esteri
a disposizione in un hotel), ma si tratta pur sempre di una soluzione rudimentale, che
fa a pugni con la scrittura corretta dell’italiano.
Abbiamo visto che in italiano l’accento grafico è obbligatorio solo quando cade
sulla sillaba finale. C’è chi consiglia di usare anche per l’italiano gli accenti grafici
alla maniera degli spagnoli, segnalando le sdrucciole. Sarebbe effettivamente una
saggia decisione, almeno nei casi di omografia, tenendo conto del rischio di
equivoco, in riferimento al contesto. Così, per prìncipi/princìpi. Si pensi a una frase
di dubbia interpretazione come: «I principi vanno rispettati». Si parla di principi
morali, o di principi in carne e ossa? La distinzione, affidata al contesto, non è
immediatamente evidente.
Anche il plurale dei nomi in -io, come manubrio e atrio finisce nella questione
degli accenti, seppure quelli non tonici. Infatti questi plurali possono essere scritti in
diversi modi: l’uso comune dell’italiano di oggi preferisce una «-i» semplice, e
allora abbiamo manubri e atri; ma è anche possibile ricorrere a una grafia più
all’antica, e mettere due «i», e allora avremo manubrii e atrii; ma vi è anche una
terza soluzione che consiste nel collocare sulla «i» finale un accento circonflesso:
manubrî, atrî. Diverso il caso in cui si abbia una «i» tonica: leg-gì-o, leg-gì-i. In tal
caso si deve scrivere la doppia «i». In ogni modo, la grafia della doppia «i» nel
plurale dei nomi in -io è sempre lecita, ma ha ormai un sapore arcaico e letterario.
Anche l’accento circonflesso non è oggi usato quasi mai, tanto è vero che molte
persone non ne conoscono nemmeno l’esistenza. A costoro però andrà ricordato che
il testo originale della Costituzione repubblicana del 1948, al titolo «Principî
generali», porta proprio questo accento, che ai padri costituenti, settant’anni fa,
sembrava ancora assolutamente normale. Aggiungerò che una sentenza della Corte
Costituzionale, la 42/2017, fa uso di questa medesima grafia. Si tratta della già più
volte menzionata sentenza relativa all’uso di italiano e inglese nell’Università. In
questa sentenza, la parola principî (plurale di «principio») ricorre ben 10 volte.
Dunque anche in italiano esiste l’accento circonflesso. Tra i plurali, ve ne sono
alcuni che possono stupire. Perché la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde
ha provincie con la «i»? Perché un libro di Oriana Fallaci si intitola Un cappello
pieno di ciliege, senza la «i»? La regola che ci hanno insegnato a scuola, che ci fa
mettere la «i» al plurale se -cia e -gia al singolare sono preceduti da vocale e non da
consonante, è una soluzione ottima, escogitata dai grammatici per risolvere un
problema difficile dell’italiano; ma le grafie citate sono giustificate perfettamente
dall’etimologia, e dunque sono corrette, anche se la regola moderna preferisce in
genere optare per province e ciliegie.
Le parole straniere restano invariabili in italiano anche quando passano al
numero plurale. Non si dice «ho visto i films», ma «i film». La morfologia del
plurale della lingua di provenienza deve essere ignorata. Questo vale per le parole
straniere acclimatate, cioè per i prestiti ormai stabilizzati, e dunque anche per i
termini dell’informatica. È sbagliato e ridicolo scrivere «i computers» o «i files»,
perché le parole inglesi prestate all’italiano, usate al plurale, non richiedono la -s
delle norme grammaticali della lingua d’origine. Questa norma si fa rigida e senza
eccezioni, come dicevamo, quando si tratta di parole molto note.
Se consideriamo che anche le parole latine e greche sono a pieno titolo
forestierismi, allora la regola che abbiamo appena enunciato per le parole inglesi
dovrebbe essere applicata anche ai prestiti giunti dal mondo classico. Però in questo
caso le cose non sono così semplici. Sicuramente alcuni penseranno che i curriculum
in italiano sia scorretto. Costoro non hanno ragione, perché vige la regola che le
parole straniere (quelle più comuni), siano esse inglesi o francesi o latine, restano
invariate al plurale. Proviamo a rispondere usando il nuovo dizionario di De Mauro:
alla voce curriculum ci avverte che questa parola latina è invariabile: dunque, plurale
«i curriculum». Una nota finale marcata G («Grammatica») avverte però: «pl. anche
curricula». Il vocabolario ha fatto bene ad accogliere questo avviso, che tempera la
regola precedente: il plurale curricula è infatti lecito; lo si usa, in particolare, nel
caso in cui la parola sia scritta in corsivo, cioè sia segnalata al lettore come termine
straniero, e non assunto quale elemento della lingua italiana. Come mai la regola
generale del plurale invariabile è venuta meno? Perché il latino ha uno status
speciale, e chi adopera curriculum al plurale rischia di far la figura dell’ignorante,
anche se ha ragione. Il caso non è molto diverso da quello che prima citavamo, per
l’accento eliminato da «se stesso»: a volte chi ha ragione passa dalla parte del torto,
quando la maggioranza è convinta che le cose stiano in altro modo.

Maiuscole, secoli, date e numeri


Sembra che la scelta tra il maiuscolo e il minuscolo sia facile. Non è così. Anzi, mi
pare che ci sia una certa confusione, accresciuta dal fatto che nel corso dei secoli
l’uso delle maiuscole è andato sempre diminuendo, ed è rimasto più intenso nelle
scritture di carattere popolare. Un tempo le virtù morali e i sentimenti erano sempre
maiuscoli: Amore, Onestà. Un tempo era obbligatorio il maiuscolo per i nomi dei
popoli, i Francesi, i Tedeschi. Oggi tale maiuscola si adopera solo per i popoli
antichi, quindi i Romani sono cosa diversa dai romani della Roma del nostro tempo.
Per i mesi, le stagioni e i giorni della settimana, si preferisce il minuscolo: alcuni in
passato optavano per il maiuscolo, ritenendo si trattasse di nomi propri. Per quanto la
distinzione tra comune e proprio talora vacilli, e certi nomi passino dall’una all’atra
categoria, come «Cicerone» e «fare il cicerone», mi sembra che «novembre» o
«lunedì» non siano comunque veri nomi propri a tutti gli effetti. I nomi propri
sicuramente maiuscoli sono altri: di persona, di animale (Fido, Baiardo), di luogo
(nazione, fiume, città, monte, lago ecc.), di stelle, pianeti e corpi celesti, di feste
religiose e civili, di opere letterarie e artistiche. In maiuscolo devono essere però
tassativamente i secoli, il Trecento, il Quattrocento, e le epoche storiche, il
Rinascimento, l’Umanesimo. Non si dimentichi che, se si usa il numero romano per
indicare un secolo, si deve aumentare di un’unità: il Trecento è il XIV secolo (non il
XIII), il Quattrocento è il XV. I secoli dopo il 1000 possono essere in numero arabo
preceduto da apostrofo: il ’300 è il Trecento. Un uso sbagliato si va generalizzando
anche nei media: nel Gr1 delle 8 di mattina del 14 febbraio 2018, un servizio relativo
al furto di un arco di pietra ad Aielli, in provincia de L’Aquila, è stata l’occasione
perché la giornalista facesse sfoggio di date come «il 1600» e «il 1800», per indicare
l’epoca delle opere architettoniche a rischio. In questi casi occorreva invece far
riferimento al secolo, il Seicento, non all’anno solare. L’errore è molto comune
anche tra gli studenti universitari che sostengono i miei esami, segno che ha una
larga diffusione.
Abbiamo appena parlato dell’uso del numero romano per indicare i secoli: il
Cinquecento è il XVI secolo, che si può abbreviare in «sec. XVI». Ma si rammenti
che con il numero romano non si deve mai mettere l’esponente, la piccola «o» che si
usa invece se si scrive «secolo 16°» in numeri arabi. Intendo dire che «sec. XV» è
sempre «quindicesimo», mai «quindici», e «sec. XVI» è sempre «sedicesimo», mai
«sedici». Quando invece si adoperano i numeri arabi, essi possono avere doppia
funzione, di cardinali o di ordinali. Per distinguere queste due funzioni, si appone la
piccola «o» in esponente al numero arabo, quando va letto come ordinale. Un testo
che contenga «XV°» si segnala come redatto da persona inesperta.
I nomi dei giorni della settimana, dal lunedì al venerdì, vanno sempre accentati,
sia in lettere maiuscole, sia in lettere minuscole, perché le parole tronche in italiano
portano l’accento, senza eccezioni di sorta. Oggi si possono aver dubbi anche sulla
forma delle date: 29-01-18 o 29-01-’18. Sono grafie che potremmo definire di tipo
«tecnico», adatte alla compilazione di moduli prestampati (si noti lo «01»), a cui
siamo spesso costretti da una mascherina che compare nel computer. Altro dubbio: è
meglio la grafia «1° gennaio» o «1 gennaio», senza la piccola «o» in esponente?
Credo che entrambe le grafie abbiano oggi legittimità, anche se la prima è più
elegante. Si leggono in modo diverso. Infatti «1 gennaio» senza esponente sarà il
giorno «uno gennaio», come esiste il «due», il «tre» e via via proseguendo nella
serie. Se intendo dire «il primo di gennaio», allora dovrò mettere l’esponente, in
forma di piccola «o», cioè l’ultima lettera di «primo». Il riferimento all’ordinale, e
non al numerale cardinale, vale solo per il giorno 1, perché «il (dì) terzo (3°) di
settembre» suonerebbe arcaico. Arcaico è anche l’uso di «li» prima della data, un
articolo che alcuni interpretano come un avverbio, e trasformano (sbagliando) in
«lì», con un accento fuori luogo.
Una data può essere scritta anche con le barrette: «1/10/1997». Se la data deve
essere preceduta da una preposizione articolata, quale sarà la forma migliore? Sarà
«del 1/10/1997», o «dell’1/10/1997»? Occorre o non occorre l’apostrofo? Il problema
sta nella lettura del numero 1; se lo si legge «uno (ottobre)», allora ci si aspetta che
sia preceduto dall’apostrofo; se lo si legge «primo (ottobre)», allora risulta corretto
del. D’altra parte, il giorno scritto in arabo non dovrebbe essere letto come ordinale.
La soluzione tecnicamente più esatta mi sembra dunque quella con l’apostrofo,
quando i numeri cominciano con vocale («l’8 settembre», «l’11° Bersaglieri» ecc.).
Eppure questo apostrofo era sgradito a un purista come Gabrielli. Allora si può usare
la soluzione preferita da Manzoni (la ricordava lo stesso Gabrielli). Manzoni aggirò
l’ostacolo scrivendo sempre in lettere il numero che cominciava per vocale. Oppure
possiamo inserire la parola giorno. Questa può essere una buona soluzione per venire
a capo di un problema che altrimenti non sarà mai risolto con piena soddisfazione di
tutti.
Abbiamo parlato di apostrofo, che segna l’elisione, e in qualche caso l’apocope o
troncamento. Per esempio l’apostrofo segna la caduta della «i» nelle forme
dell’imperativo. Sono legittimi sta’, da’, fa’, di’. Ma il problema maggiore
dell’apostrofo si ha con «qual è». C’è chi si ostina a scrivere «qual’è», con
l’apostrofo. Invece non si usa mai l’apostrofo per qual davanti a vocale, perché esiste
la forma qual anche di fronte a consonante: «qual buon vento ti porta?». Dunque è
apocope, non elisione.
I numeri non si usano solo per scrivere le date e per far di conto. Oggi va per la
maggiore il numerino seguito da zero, che indica un presunto progresso: l’Industria
2.0, 3.0, 4.0 e via di seguito. C’era persino uno spot di Raiuno con l’«Intervallo 2.0».
È l’influenza di Internet, in una forma innegabilmente piuttosto banale. Infatti il
web, la «Rete» in cui «navighiamo» come in un oceano senza fine, a un certo punto,
attorno al 2004, passò a una fase più avanzata detta Web 2.0 per contrapporla a Web
1.0, la fase vecchia, nata nel 1991. Web 2.0 si caratterizza per la capacità di
interagire con l’utente attraverso i cosiddetti «social network», i siti e programmi
che tanto appassionano la gente, YouTube, Facebook, Twitter, Google+, Linkedin. Ci
fu dunque il Web «dinamico», in contrapposizione a quello precedente, «statico».
Ora si passa al Web 3.0, definito «semantico», capace di reagire alle richieste con
un’interpretazione del significato più simile a quella della mente umana. Anche i
programmi dei PC sono caratterizzati dalla doppia serie di numeri X.X, versione e
revisione, anche più precisa di quella del Web: 2.1, 2.2, 2.3, e via di questo passo.
Ecco perché molti modaioli non hanno perso l’occasione per classificare in analogo
modo cose relative a contesti assolutamente diversi.
Maiuscole e minuscole
Non è corretto riportare sui cartelli o annunci o pubblicità i nomi propri o i cognomi
con l’iniziale minuscola (per esempio: via cimabue, via mecenate). La norma
grammaticale prevede il maiuscolo per i nomi propri, senza eccezioni. Chi fa
diversamente, si appella a una libertà «grafica» simile a quella che si prendono a
volte coloro che mettono i titoli scorrevoli nei film e nelle sigle televisive. Poiché
l’infrazione all’uso del maiuscolo è circoscritta e avviene in pochi casi facilmente
prevedibili, non la ritengo particolarmente grave per la salute della nostra lingua. Si
tratta però di vedere se da quest’uso del minuscolo derivi davvero un vantaggio
estetico, come credono i grafici e i creativi ribelli alla grammatica, o si tratti di una
semplice moda effimera.
Ci sono tuttavia casi in cui una delle regole ritenute basilari, quella del maiuscolo
per iniziare il periodo, dopo punto interrogativo o punto esclamativo, entra in crisi e
può (ho detto «può», non «deve»!) essere ignorata. Si tratta insomma di una
possibilità, di cui alcuni non vogliono proprio far uso, e che altri trovano utile. Si
tratta di distinguere tra la normale interrogazione o esclamazione, e i casi in cui
invece si hanno serie continue di due o più interrogazioni o esclamazioni
strettamente correlate, concepite come qualche cosa di unitario, o poste in un
susseguirsi incalzante, come se tra esse non ci fosse pausa alcuna. Esempi: «Davvero
lo hai fatto? tu? e perché?»; «No...! no! non ci credo!». Sarebbe possibile la scrittura
con le regolari maiuscole, ma la scrittura con le minuscole è differente per
significato, ritmo, concitazione. Non credo che la minuscola si adatti a una scrittura
neutra e pacata, come può essere una relazione d’ufficio, ma mi pare che si possa
ricorrere a essa in un testo che vuole realizzare la mimesi del parlato, o che aspira
alla vivacità colloquiale.
Il «di» nobiliare è sempre minuscolo, non integrato nel cognome. Maiuscolo è un
«di» (o «de») indicante provenienza (patronimico, matronimico, origine geografica),
poi assunto nel nome, a volte anche con l’univerbazione, come nel caso di
Degiovanni, cioè «de» che equivale a «da Giovanni». Nel caso dei titoli nobiliari, il
«di» indica invece la signoria, l’infeudamento: il marchese Ludovico Arborio
Gattinara (dei conti) di Sartirana (dei marchesi) di Breme. Non si tratta, quindi, di
cognomi borghesi, come sarebbero Di Breme e Di Caluso. Ecco perché alcune
persone, dotate di nome borghese con il «Di» maiuscolo, provano tanto gusto nel
tentare di imporre la grafia con il «di» minuscolo, la quale a loro pare assai
nobilitante, mentre è dettata da buffo bovarismo. Anche lo scrittore Gabriele
D’Annunzio amava trasformarsi in d’Annunzio. In questo caso possiamo davvero
parlare di un «potere della minuscola».

Punti, virgole e apostrofi


Il punto fermo, per universale e ben consolidata convenzione grafica e tipografica, si
omette alla fine dei titoli e sottotitoli, anche se all’interno del titolo stesso ricorre
punteggiatura. Questa è una regola che va rispettata senza eccezioni.
Oggi si fa un uso anomalo della punteggiatura, soprattutto nei giornali: mi
riferisco all’eccesso di punti fermi e di frasi brevi e brevissime. Un tempo l’italiano
si caratterizzava per il difetto contrario, cioè per la lunghezza delle frasi, per la
catena del periodare ipotattico, secondo il modello caro a Bembo, che guardava con
ammirazione allo stile di Boccaccio, con l’abbondanza di frasi gerundive e con i
verbi in fondo alla frase, come in latino. Va bene che le cose siano cambiate, e che
oggi lo stile italiano sia diventato veloce, paratattico e semplice. Certo non si
dovrebbe esagerare. Bruno Migliorini, nell’aurea Piccola guida di ortografia del
1954, invitava a non abusare del punto fermo, a non procedere a piccole frasi staccate
e quasi singhiozzanti, quando le idee espresse possono essere rese meglio mediante
congiunzioni e interpunzioni minori. Esortava a non fare degli «spezzatini». La moda
dello stile «spezzatino» era allora appena all’inizio della sua fortuna, poi cresciuta in
maniera inverosimile. Ecco un esempio di stile «spezzatino», da un settimanale
italiano: «Una primavera. Promettente come tutte le primavere. Non senza
acquazzoni, com’è ovvio. Ma piena di luce. Per altri, invece, fu una primavera senza
estate». Negli articoli dei giornali domina la «frase nominale», per usare il nome
tecnico che indica le frasi senza verbi. La «frase nominale» è tipica del gusto
moderno. I primi validi esempi sono nella prosa di D’Annunzio, che così descrive il
volo di una rondine: «Un grido, due gridi. Viene dalla Riva degli Schiavoni. Passò
sopra Chioggia. Volò a San Francesco del Deserto. Girò intorno al campanile
orientale nell’isola degli Armeni. ... Entra nella Corte Contarina. Un grido aguzzo, un
guizzo bianco». So bene che oggi i giornalisti abusano dello stile nominale, che di
per sé non sarebbe un male, anzi è una magnifica risorsa. Tuttavia ogni eccesso
finisce per essere avvertito come manierato e superfluo.
La punteggiatura è una cosa importante. Tutti ricordano il modo di dire secondo
il quale «per un punto Martino perse la cappa». Frate Martino, per dare il benvenuto
agli ospiti, diede l’ordine di incidere sulla porta del convento queste parole latine:
«Porta pàtens esto. Nulli claudàris honesto», cioè «Porta stai aperta, non chiuderti in
faccia a nessuno che sia onesto». Ma lo scalpellino sbagliò, ed ecco la prova che la
punteggiatura è importantissima. Lo scalpellino mise il punto non dopo esto, come
avrebbe dovuto, ma dopo nulli (ovviamente i caratteri della lapide erano maiuscoli, e
dunque non si distingueva la maiuscola di inizio periodo). La frase latina mutò
quindi significato, diventando: «Porta non aprirti a nessuno. Chiuditi alle persone
oneste». Martino pagò l’errore, rimettendoci la cappa, cioè la veste di abate.
Con la punteggiatura, o meglio, con la sua assenza o il suo cattivo uso, si possono
anche tentare soluzioni furbesche. Prendiamo la celebre frase latina «ibis, redibis non
morieris in bello», tramandata come il responso dato dalla Sibilla a un soldato andato
a consultare l’oracolo sull’esito della propria missione. Nel Medioevo e
nell’antichità non si usava la punteggiatura come la usiamo noi, ma in questo caso
possiamo appunto provare il valore sintattico della virgola. Si veda infatti la
differenza tra «ibis, redibis, non morieris», che è «Andrai, ritornerai e non morirai»,
e «ibis, redibis non, morieris», cioè «Andrai, non tornerai, morirai». Poiché gli
antichi non possedevano l’uso delle virgole, la frase della Sibilla si poteva intendere
come si voleva: ottimo esempio di interessata ambiguità!
La frase della Sibilla non è della nostra lingua, ma del latino. Ci soccorre Simone
Fornara, professore di didattica dell’italiano alla Scuola Universitaria Professionale
della Svizzera italiana, con il suo manuale di punteggiatura: per spiegare
l’importanza della virgola, mostra la differenza che intercorre tra «Mentre il nonno
legge sul divano, Luca gioca con la palla» e «Mentre il nonno legge, sul divano Luca
gioca con la palla». In questo caso si potrebbe osservare che la virgola risulta
particolarmente importante proprio perché l’italiano, per sua natura, ha una grande
disponibilità nel collocare le parole, e tollera l’anticipazione del complemento di
luogo «sul divano», che produce una focalizzazione diversa rispetto all’esempio
precedente, perché in questo modo il divano assume una particolare evidenza. Non
tutte le lingue hanno una simile libertà sintattica.
Un testo di alta qualità linguistica e di grande prestigio, quale è la Costituzione
italiana del 1948, offre, proprio al primo articolo, un esempio molto interessante
degli effetti della virgola. La stesura dell’articolo fu particolarmente travagliata. Si
partiva da formulazioni simili alla seguente: «Lo Stato italiano è una Repubblica
democratica. Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di
tutti i lavoratori all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese». Così era
il testo il 28 novembre 1946, durante i lavori della Costituente. Il 22 marzo 1947 il
testo fu radicalmente modificato: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul
lavoro». Amintore Fanfani, celebre politico democristiano del tempo, spiegava che in
questo modo si escludeva che la repubblica potesse essere fondata sul privilegio,
sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui. In realtà, dietro questa formulazione, come
dietro alle precedenti, premeva l’idea della «società dei lavoratori», cioè l’idea di
«repubblica socialista». Togliatti aveva infatti insistito, senza successo, per la
formula marxista «Repubblica democratica di lavoratori». Ma qui ci interessa
l’ultimo passaggio, che consistette nell’introduzione di una virgola: «L’Italia è una
Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Sembra cosa da poco, invece la piccola
pausa dopo «democratica» è fondamentale, perché accentua la distanza del «fondata
sul lavoro», che non è più elemento primario costitutivo della definizione, ma passa
al secondo grado, gerarchicamente sottoposto al concetto di «repubblica
democratica». Una virgola che fa una bella differenza, dunque. Chi crede che le
virgole non contino, consideri questo esempio e ci mediti sopra.
Un noto caso di punteggiatura scorretta è la collocazione della virgola tra
soggetto e verbo. I linguisti dimostrano, anche attraverso esempi di lingua colta, che
ci sono casi in cui la virgola viene messa in questa posizione, soprattutto quando il
soggetto sia accompagnato da espansioni, o, come diceva il grammatico Giuseppe
Malagoli, «abbia dei complementi che stiano presso il predicato in modo che possa
essere dubbio se appartengano o a questo o a quello: la virgola potrà giovare allora a
togliere ambiguità». Bice Mortara Garavelli nel suo prezioso Prontuario di
punteggiatura (Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 84-85) porta due esempi che si
collocano in questa categoria. Ecco il primo, tratto da un testo di natura tecnica:

La necessità di evitare che queste azioni meccaniche ... possano deformare gli
avvolgimenti danneggiandone l’isolamento, impone particolari cure nella
progettazione della struttura.

Il secondo esempio portato da Bice Mortara Garavelli è dello scrittore Italo Calvino:

Ora io credo che nell’uno come nell’altro caso, la somma di due linguaggi che
non sono interamente veri, non riesce a costituire un linguaggio vero.

Questo secondo esempio, a me sembra meno significativo, perché sarebbe stato


possibile collocare tra due virgole i due incisi «nell’uno… caso» e «che non sono
interamente veri». Sarebbe stato anche possibile utilizzare il congiuntivo «riesca» al
posto di «riesce», in dipendenza del verbo di opinione «credo». Direi dunque che
questa scrittura, anche se è di un grande autore, mostra una certa spontaneità
distratta, una colloquialità non troppo sorvegliata.
Anche a me è capitato di utilizzare involontariamente questo tipo di virgola, in
un volumetto pubblicato nella collanina di «Repubblica/Accademia della Crusca»,
Scrivere nell’era digitale, uscito nel 2016. A p. 78 mi sfuggì la frase: «I più avversi,
arriveranno a dire che...». Si trattava di una semplice svista. E a p. 81:

Lo studente a cui sia assegnato in sede di esame un articolo di giornale su


qualsiasi argomento, non potrà certo chiedere di uscire per andare a fare
un’inchiesta...

In questo secondo caso la virgola è sostenibile, perché davvero individua un soggetto


espanso. L’amico Salvatore Claudio Sgroi, linguista molto bravo, appassionato di
tutto ciò che mette in crisi la (vera o presunta) norma, riprese subito l’esempio in un
articolo giornalistico, utilizzandolo per criticare la grammatichetta curata dalla
Crusca nella stessa collanina, una grammatica tradizionale in cui non si faceva alcun
cenno alla nozione moderna di «virgola tematica» posta dopo il «soggetto pesante»,
cioè appunto quel tipo di virgola che abbiamo visto utilizzata qui sopra negli esempi
proposti da Bice Mortara Garavelli. Il richiamo di Salvatore Sgroi ci ricorda che
esiste una grammatica normativa conscia e una grammatica inconscia. A volte
scriviamo per istinto, seguendo quest’ultima. La grammatica inconscia, tuttavia, a
suo modo, non procede a caso: segue altre regole, per cui io stesso, nei due esempi
individuati dal linguista, mi sono attenuto a una norma diversa da quella che avrei
seguito riflettendo lucidamente.
È dunque vero che si trovano esempi d’autore con la virgola che separa il
soggetto dal verbo, ma nell’adottare questa soluzione è bene essere piuttosto cauti.
Ovviamente, se la virgola isola una frase soggettiva, il suo impiego è perfettamente
legittimo anche per la grammatica tradizionale e puristica.

L’ordine alfabetico
Molte persone sono in imbarazzo nel momento in cui devono compiere un atto
abbastanza semplice, qual è l’apposizione della firma. Il problema sta nell’ordine:
prima il nome di battesimo, o prima il cognome? Anteporre il cognome, significa
commettere un errore, per eccesso di zelo burocratico. Se si fa così, si produce
l’antilingua di Calvino, di cui abbiamo già parlato. Soltanto negli elenchi il cognome
precede. Altrimenti per primo viene il nome detto di battesimo, che ci identifica
individualmente, e il nome della famiglia segue in seconda o terza o quarta posizione
(dipende da quanti nomi di battesimo abbiamo, e quanti ne usiamo per firmare: ma il
notaio ce li chiederà tutti). Si firma prima con il nome anche nei documenti ufficiali
e nelle sottoscrizioni notarili: mi è capitato di sottoscrivere di fronte al notaio, e l’ho
fatto con nome e cognome, senza che ci fossero obiezioni da parte sua.
Negli elenchi, i cognomi precedono i nomi, per ragioni pratiche, per favorire il
riordinamento alfabetico, come quando si fa l’appello, che è appunto in ordine
alfabetico. L’ordine alfabetico è uno strumento dall’apparenza semplice, di uso
antico, ma sempre prezioso. Serve a mettere in ordine le parole, in maniera sicura e
univoca, nei dizionari così come nelle liste di qualunque genere. Oggi, il
riordinamento alfabetico è una funzione specifica del programma di scrittura, come
Word di Microsoft. Possono esserci a volte alcune incertezze nel trattamento di nomi
con apostrofi, o composti mediante preposizioni. Verrà prima Da Milano o
Damilano? D’Angelo o Dangelo? La scelta dell’uno o dell’altro ordine è
convenzionale. Si può ignorare in tutto o in parte la separazione interna, si possono
dividere i nomi in base alla preposizione (nell’ordine: d’, dal ecc.). Mi pare tuttavia
di gran lunga più pratica la scelta che non ci costringe a conoscere in anticipo come
si scrive il nome che cerchiamo. Sia scritto Damilano o Da Milano, o ancora
D’Amilano, non farà differenza per la nostra ricerca. Tutti questi cognomi, infatti,
saranno ordinati solo in base al nome di battesimo della persona. Questo si chiama
un «ordinamento per lettere», perché guarda alle lettere dell’alfabeto,
indipendentemente dal fatto che si presentino separate da spazi o segni di apostrofo.
Altri criteri si definiscono «per parole», e di fatto risultano più complicati.
Ma il problema vero è oggi un altro: pare che molti italiani non conoscano più
l’ordine alfabetico. Abituati ormai alla consultazione di Internet e all’uso dei
telefonini, non sono più in grado di muoversi da soli nella serie delle lettere italiane,
oppure credono che la serie italiana sia identica alla serie inglese, che invece ha più
lettere. Chi non conosce l’ordine dell’alfabeto italiano, se ne renda conto o no, si
troverà prima o poi in condizione di grande imbarazzo, e sarà costretto a cercare
l’alfabeto digitando la ricerca «alfabeto italiano» in Google.

Articoli e pronomi
Sembra che l’articolo sia una parte elementare della lingua, ma poi ci si trova incerti
nella scelta tra «i pneumatici» e «gli pneumatici». E poi, perché diciamo il dio, ma
gli dei? Tutto ciò accade perché la lingua spesso si trascina dietro il suo passato, e
nella forma attuale rimane il ricordo di una più antica. Nel toscano medievale il
plurale dei non era affatto comune, anche perché lo si poteva confondere con dei
seconda persona singolare del presente del verbo dovere (moderno e prosastico
«devi»). Il plurale usuale era dunque Iddei, o Iddii, con articolo gli, regolare prima di
vocale. Questo articolo finì per accompagnare anche le forme brevi dii e dei. Alcune
attestazioni di i dei o i dii, tuttavia, si rintracciano anche nella letteratura, da
Boccaccio a Boiardo a Vittoria Colonna, e giù giù fino a Leopardi; ma si tratta di
testimonianze isolate, e in genere di autori non toscani. Fin dal Cinquecento, invece,
la linea maestra della lingua letteraria italiana fissò stabilmente la combinazione gli
dei, la quale è ancora solidissima nell’italiano del nostro tempo, in barba alle regole
dei grammatici, anzi a riprova che la regola non vince contro l’uso.
Il trattamento dei nomi di parentela (i linguisti, con un grecismo, li definiscono
singenionimi) sta a sé, per quanto riguarda l’uso dell’articolo. Non si dice forse «Mio
padre mi ha detto...», e anche «Mio zio mi ha scritto...», senza articolo? E allora
perché si dice «La mia mamma mi ha detto»? Ecco la spiegazione: l’articolo, a
norma di grammatica, è richiesto dalle «varianti affettive», come i diminutivi o gli
alterati in genere: «la mia mammina», «il mio figliolino». Babbo, papà e mamma
valgono come forme affettive, e dunque si comportano come diminutivi. Ciò,
almeno, a norma di grammatica e nell’uso toscano, perché in realtà, in gran parte
dell’Italia settentrionale, sono saldamente affermate le forme senza articolo: «mia
mamma mi ha detto» e «mio papà mi ha detto». Non voglio difendere queste forme
locali, ma è evidente che ha un certo peso la variabilità della lingua d’uso, detta
variabilità diatopica quando le forme cambiano da luogo a luogo.
Un tempo, se a scuola si scriveva «Manzoni» al posto de «il Manzoni», si
rischiava un rimprovero, per quanto immotivato: si usava imporre l’articolo al
cognome, nel caso di persone celebri. Quell’articolo prima del cognome, un tempo
era prescritto. Oggi molti ritengono che la scrittura moderna debba fare a meno di
quell’articolo, che tende a creare un maggior effetto di distacco. Le cose si sono
complicate da quando i sostenitori e le sostenitrici della «scrittura antisessista» si
sono accorte che l’articolo si usa sempre per i cognomi di donne: per cui capita di
leggere «Mattarella è stato eletto presidente della Repubblica», ma «la Boldrini è
stata eletta presidente della Camera dei deputati». Questa asimmetria è stata
giudicata una discriminazione, anche se è preziosa, perché ci fa capire chi sia uomo e
chi sia donna. E allora non sarebbe una buona idea se tornassimo all’articolo anche
nel caso del maschile, per tacitare le richieste della scrittura antisessista?
Già le prime grammatiche italiane (secc. XV-XVI) raccomandavano lo davanti a
vocale e davanti a s più consonante (anche se il margine di oscillazione concesso era
maggiore di quello di oggi). Solo alla fine del secolo XVI si ebbe la prima
indicazione relativa alle parole inizianti per z, ma la norma codificata dal linguista
toscano Benedetto Buommattei fu il al singolare / gli al plurale: il zoppo, gli zoppi.
Solo nel Settecento fu teorizzato il tipo lo zoppo singolare, contro il parere di molti.
Non a caso Leopardi preferiva ancora il zappatore, non in quanto poetico, come si
potrebbe credere, ma in quanto più grammaticale, o meglio, più fedele alla tradizione
classica. Ancora più tardi i grammatici affrontarono la questione dell’articolo
davanti a semivocale, a ps, pn, gn, x (che vale come cs). Oggi si suole dire che lo si
adopera davanti a gruppi consonantici anomali, di origine forestiera, per esempio
greca (come lo ftalato, che è, per dir così, un franco-grecismo, con lo stesso etimo di
naftalina, da naphtaline, a sua volta da naphte «nafta», greco nàphtha «bitume»).
Inoltre l’uso contraddice spesso le regole, e ne anticipa di nuove: oggi, per esempio,
si è affermata la forma il pneumatico, i pneumatici, contro lo pneumatico e gli
pneumatici.
Nella terza persona singolare delle forme atone, l’uso sta intaccando la
distinzione fra maschile e femminile nel caso obliquo «gli/le dico» del parlato
informale, con impiego erroneo del maschile per il femminile. Si registra
un’espansione di «gli» anche a danno del caso obliquo plurale, «gli dico» = «dico a
loro», persino nel parlato formale. Nel caso di gli per a lei, dativo femminile,
dobbiamo ammettere che non si tratta di oscillazione recente: ne esistono esempi
antichi, di Boccaccio, Machiavelli, Carducci, Verga, e anche esempi di autori del
Novecento come Soffici, Moravia, Bianciardi, Castellaneta... Mentre, in certi casi,
gli per loro (anch’esso antico e ben attestato nella tradizione italiana) può essere
accettato, bisogna respingere sempre, anche nel parlato colloquiale, gli per a lei. La
Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi-Salvi (il Mulino, Bologna,
1988-1995, vol. I, p. 537) si limita a registrare il fenomeno: «Nella lingua parlata
spontanea si usa spesso la forma maschile sing. gli del pronome dativo al posto del
femminile le». Carducci difendeva con una certa veemenza l’uso di gli per a lei,
come popolare in tutta l’Italia, Toscana compresa. Il filologo Arlìa riconosceva
giusta la regola che condannava gli per a lei, aggiungendo però: «ma come esempii
che le fanno eccezione non mancano, e come nell’uso familiare si adopera
spessissimo contro il divieto grammaticale; così è lecito, chi sappia farlo
acconciamente, ma sempre in iscrittura familiare, derogare al soverchio rigore de’
grammatici».
Si pensi a una frase come «Non rubiamogli l’infanzia», adatta per un titolo
giornalistico sui diritti dei bambini. Questo titolo è comparso su di un noto
settimanale di qualche anno fa. Certo, quel «gli» non era e non è perfettamente
adeguato alle norme di grammatica. Immaginiamo un’alternativa: «Non rubiamo
loro (o ad essi) l’infanzia». Si ammetterà che questa forma, più grammaticale,
risuona al tempo stesso più aulica, forse troppo aulica, meno adatta a un messaggio
immediato, spontaneo, convincente, alla mano, «parlato». Oggi domina appunto la
moda dello stile colloquiale. Un tempo si suonavano trombe e tamburi retorici. Oggi
la retorica porta jeans e maglietta e rifiuta la cravatta. Retorica era quella in cravatta,
retorica è quella in jeans, ma l’abilità della retorica vincente sta nel non farsi
riconoscere, così da apparire naturale.

Verbi-trappola
Converrà ricordare che «soddisfando» per «soddisfacendo» è forma erronea, perché
il verbo «soddisfare» si coniuga appunto come «fare». Quindi il gerundio si
costruisce su «facendo», non su di un inesistente «fando». Accade però che il nesso
tra il verbo «soddisfare» e «fare» si attenui fino a non essere più avvertito;
«soddisfare» perde dunque la sua natura e viene arbitrariamente regolarizzato, come
se si trattasse di «giocando», «parlando» ecc., cioè di un qualunque verbo in -are.
Analogamente, è sbagliato indirono al posto del regolare indissero. È un errore
simile a malediamo per malediciamo. I composti di dire si coniugano come dire, e
quindi devono ricollegarsi a dissero e diciamo (dirono non esiste, e diamo è forma
del verbo dare, per cui malediamo vale «diamo il male», non «diciamo
maledizioni»). Queste forme errate vanno imponendosi gradatamente, perché la
gente ormai non si accorge più che quei verbi sono composti di dire, e li sente come
completamente indipendenti, e dunque li normalizza; ma si tratta di forme semicolte,
respinte dalla norma. Queste forme sono «popolari».
Che vuol dire «popolari»? Significa che sono accettabili o no? In senso
strettamente tecnico, possiamo dire che è in atto un fenomeno di adattamento causato
da una semplificazione. Come giudicare questa scelta? A favore di una certa
tolleranza può intervenire anche un altro fatto: questi «errori» si ritrovano a volte
nella tradizione letteraria, visto che Pulci scrisse maladiva, e malediva è in Cellini,
come nel Lasca, e in Boito, Verga, Fogazzaro, Carducci, Pascoli; F.M. Piave, il
librettista di Verdi, scrisse quel vecchio maledivami (nel Rigoletto). Quando la
tradizione letteraria e l’uso popolare si incontrano, le certezze assolute si incrinano.
Proporrei di fare così: severità verso se stessi (si segua, dunque, il verbo dire) e
relativa tolleranza verso gli altri; si tratta, insomma, di correggere chi usa le forme
«popolari» (e poetiche), specialmente nella scuola, ma senza sbeffeggiare chi ha
sbagliato, anche perché è un errore solo per metà.
Si potrebbe condannare il participio esigito, da esigere, come parola adatta ai
semicolti, quindi da evitare. È vero tuttavia che il participio giusto di esigere, cioè
esatto, ha assunto un significato burocratico, oppure vuol dire «giusto». Quindi
esigito potrebbe forse essere impiegato al posto di esatto. Confesso però che non
userei esigito, ma, se esso scivola fuori da penne illustri e non viene subito fermato
dai correttori di bozze, vuol dire che alcuni hanno una certa fiducia nelle sue
possibilità di successo.
Il verbo redarre gode ormai di una certa fortuna: «redarre una relazione»,
«redarre un articolo». Il verbo giusto è redigere, ma redarre è sfuggito dalla penna di
scriventi illustri. Ovviamente questo non basta per legittimarlo.
«Ricordo in modo particolare i ragazzi che ho avuto a scuola», oppure «i ragazzi
che ho avuti a scuola?». Ecco il problema dell’accordo del participio con il verbo
«avere». Con il verbo «avere», perché con «essere» le cose sono più semplici, dato
che l’accordo ha sempre luogo: «il viaggiatore è partito», «la viaggiatrice è partita»,
«i viaggiatori sono partiti». Nella frase citata in apertura, abbiamo un pronome
relativo posto a precedere il participio: in questo caso possiamo concludere,
salomonicamente, che una soluzione vale l’altra: «i ragazzi che ho avuti» o «ho
avuto» pari sono. Nei seguenti casi il pronome relativo non c’è: «mia sorella mi ha
chiamata» | «mia sorella mi ha chiamato». L’accordo del participio è un punto
dolente della grammatica. Le opinioni non sono perfettamente univoche, tuttavia
ritengo si debba preferire la forma concordata. Se dunque il pronome «mi» si
riferisce a una donna, la prima forma risulta la più corretta. Per giustificare questa
scelta potrei invocare una regola a suo tempo espressa dal grammatico Fornaciari, il
quale sosteneva che il participio passato nei tempi composti deve regolarmente restar
invariabile e non accordarsi in numero e genere coll’oggetto plurale o femminile
quando questo gli sia posposto, ma deve accordarsi in numero e genere quando
questo gli sia anteposto. Serianni ritiene che questa norma sia senza fondamento, ma
nel caso del pronome anteposto, specialmente nella forma della particella
pronominale atona in funzione di oggetto, credo che la norma stessa sia
sufficientemente condivisa. Inoltre si adatta alla sensibilità moderna per il «genere»
inteso come «gender», alla maniera anglosassone, in riferimento al «politicamente
corretto». Ecco un esempio di D’Annunzio, dal Trionfo della morte: «Mia sorella mi
ha aiutata e mi aiuta a rendere verisimile la finzione».
«Alcune ragazze stamattina non hanno potuto venire». Sarebbe stato giusto dire:
«Alcune ragazze stamattina non sono potute venire». È la questione dell’ausiliare
con i verbi detti «servili». La regola classica prescrive che si adotti l’ausiliare del
verbo retto dal verbo servile. Dunque, poiché si dice «sono venuto», sarà corretto
dire «non sono potuto venire». La regola è aurea, chi la rispetta sarà sempre nel
giusto. Ci sono tuttavia alcune eccezioni. Per esempio, con l’infinito «essere». Per
non creare un accumulo di verbi «essere», si eviterà di dire «non sono potuto essere
con voi», e sarà meglio «non ho potuto essere». Inoltre, se l’infinito è un verbo
intransitivo, indipendentemente dall’ausiliare suo specifico, è lecito usare l’ausiliare
«avere». D’Annunzio: «Ma poi... non ho potuto andare più oltre». Insomma, per
riassumere la casistica: i verbi servili tendono ad avere il medesimo ausiliare del
verbo all’infinito che reggono, ma: 1) se l’infinito è un verbo intransitivo, il verbo
reggente può essere «avere» (può, non «deve»); 2) se l’infinito è «essere» il verbo
reggente sarà «avere»; 3) se l’infinito è passivo, l’ausiliare è «avere».
Ci sono casi in cui l’italiano non ce la fa davvero. Considerate lo scanner,
strumento utilissimo per catturare immagini e documenti di testo: non ha un nome
italiano. Per inventarlo dovremmo fare uno sforzo di fantasia, e poi lo sforzo non
sarebbe condiviso dai più. Meglio il forestierismo, dunque, che per fortuna finisce in
-er (come molte parole dell’italiano letterario), e che si legge come si scrive, salvo
che non si voglia esibire un poco proponibile schènaa, con una lunga a finale. La
pronuncia scanner è dunque già di per sé un accettabile adattamento del
forestierismo, classificabile come prestito di necessità, perché non sostituibile. Ma il
verbo per indicare l’uso dello scanner? Ci sono forme tutt’ora concorrenti: scannare,
scannerizzare, scandire, scansionare (perché lo scanner fa una scansione),
scannerare (che trovo nello Zingarelli 2000, con l’avviso che è forma errata),
scansire. Quale dei sinonimi citati la spunterà? Mi pare che la partita si giochi tra
scansire, scannerizzare e scansionare, quasi bandito il correttissimo scandire, che ha
il difetto di portare con sé troppi significati analoghi, oltre a quello specifico.

Un dubbio costante: «familiare» o «famigliare»?


Si potrebbe paragonare il titolo Lessico famigliare, con -gli-, di Natalia Ginzburg e
quello scelto da Vasco Pratolini: Cronaca familiare, con -li-. Perché questa diversa
grafia da parte dei due scrittori? Ci sono differenze di significato? Una forma è forse
più corretta dell’altra? Non si può dire che una forma sia più corretta dell’altra, ma
diversa è stata la trafila storica: familiare è grafia colta, latineggiante, famigliare è
grafia coerente con l’evoluzione fonetica dell’italiano. Si può affermare, però, che
oggi familiare è più comune. C’è anche chi propone di adoperare sia familiare sia
famigliare, attribuendo però significato diverso a queste parole: famigliare sarebbe
quanto attiene alla famiglia, familiare sarebbe l’aggettivo adatto in tutti gli altri casi,
per indicare una generica familiarità. La distinzione proposta non è inedita: la si
ritrovava nelle vecchie edizioni del dizionario Devoto-Oli, che, sotto la forma con -
gl-, precisava: «pertinente alla famiglia», e sotto la forma con -l- avvertiva:
«conosciuto per lunga consuetudine». Lo stesso dizionario, in ogni modo, oggi
precisa che familiare equivale a famigliare. Secondo me la distinzione semantica
risulta un po’ artificiosa. Hanno ragione, piuttosto, quei vocabolari che da famigliare
rinviano direttamente a familiare. La distinzione, infatti, non è semantica o
etimologica. L’etimologia è la stessa, dal latino familiare(m). La differenza sta nella
minore fedeltà al latino, propria della parola con la -gl-.

Sia ... che ...


Un difetto che non viene più riconosciuto come tale quasi da nessuno è l’uso di sia e
di che correlativi, in espressioni del tipo: Carlo è sia bello che buono. La norma
tradizionale prescrive in questi casi un doppio sia, perfettamente simmetrico. Il
costrutto «sia ... che ...» è determinato da un’analogia con il tipo tanto ... che ... Chi
vorrà scrivere in maniera sia elegante, sia ineccepibile, dovrà fare a meno del sia ...
che ..., e usare sia ... sia ...

Le dieci e mezza/o
Si può dire sono le 10 e mezza» o «sono le 10 e mezzo». La forma preferita dai
toscani è quella con il maschile neutro sostantivato, mentre i settentrionali optano
generalmente per la forma femminile aggettivale, nella quale vedono una
concordanza di genere con «ora», che è femminile. Sicuramente nessuna delle due
soluzioni può essere ritenuta scorretta, anche se i puristi si ostinano a condannare il
femminile, in nome dell’analogia con «le 10 e un quarto» (maschile).

Cosa o che cosa fare?


Tre forme concorrenti: 1. Cosa fare...; 2. Che cosa fare...; 3. Che fare. Sui tipi 2 e 3
non si discute. Invece la forma 1 può suscitare dubbi. È sicuramente colloquiale
(anche se non la si può dire sbagliata). Vanta attestazioni letterarie, in genere nate
per «simulazione di parlato». Mi spiego meglio: la forma si trova nelle commedie di
Goldoni, nei Promessi sposi di Manzoni (ma solo nel discorso diretto; Renzo
all’oste: «Cosa mi date da mangiare?»), e in Verga, con valore stilistico marcato, per
esempio dove l’autore sembra dar voce, in una sorta di discorso indiretto libero, a un
poveraccio, mentre osserva i «signori» che se la godono al caffè: «Lì (al caffè
Martini) c’è dei signori che non sanno cosa fare del loro tempo e del loro denaro» (si
noti anche il c’è non concordato). Si veda anche il Mastro Don Gesualdo (I, 3):
«Cosa mi rispondi, Ninì?... cosa mi dici di fare?». D’altra parte, questo cosa per che
cosa è oggi assai diffuso, in forma stilisticamente non più marcata, proprio perché
nell’italiano attuale i modi colloquiali acquistano nuovo e particolare vigore, a danno
di quelli più formali, che vanno in obsolescenza. In ogni modo io sono pronto a
spezzare una lancia per un uso più largo delle forme tradizionali.

Asprissimo
«Asprissimo» esiste, e non è scorretto. L’hanno adoperato i seguenti scrittori:
Boccaccio, Guicciardini, Doni, Bandello, Redi, Parini, Baffo, Leopardi, Rovani,
Pirandello, D’Annunzio. Altri hanno usato «asperrimo», tanto che il vocabolario
Treccani avverte: «Accanto al superlativo regolare asprìssimo, è anche in uso,
soprattutto nelle accezioni fig., il latinismo aspèrrimo».

Piuttosto che
Ha preso piede piuttosto che al posto di o, oppure. Tradizionalmente, piuttosto che
non si adoperava mai per due opzioni equivalenti, coerentemente con il valore
etimologico, visto che «più tosto» significa «più presto», cioè «anziché». Leopardi
scriveva per esempio: «mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in
cosa poetica». La scelta è evidente: Leopardi intende dire che ha usato la prosa
anziché il verso. La trasformazione recente di piuttosto che in o è stata notata da
molti. Tutti hanno condannato la novità, la quale sembra essere di origine
settentrionale, milanese. Piuttosto che non può valere «o», perché non ha valore
disgiuntivo. C’è chi nega che quest’uso di piuttosto che sia equivoco. Io invece trovo
che lo sia. Ecco un esempio dal Gr2 delle 7.30 di mattina del 31 dicembre 2015. Si
sta parlando delle cause dell’alcolismo, e un esperto discetta delle «... cause di natura
genetica piuttosto che di natura ambientale». Mi pare un ottimo caso di formulazione
equivoca. L’esperto voleva privilegiare la genetica, o la riteneva equivalente alle
cause ambientali e sociali? Eccone un altro esempio di effetto forse meno oscuro,
perché implicitamente chiarito dal lungo elenco: «... di questo passo, saranno gli
omosessuali piuttosto che i poveri piuttosto che i neri piuttosto che gli zingari ad
essere perseguitati» (Gino Strada, Tg3 del 22 gennaio 2002). La ministra
dell’Istruzione Giannini, in un’intervista tivù nella trasmissione di Fabio Fazio,
dichiara che l’insegnante italiano «prende 20.000 euro meno del collega tedesco
piuttosto che francese»; e ancora: «con i risparmi fatti dai corsi inutili piuttosto che
dai meccanismi di spesa fuori controllo». Risparmi dai corsi o dai meccanismi?

«C’ho», basso e dialettale


«C’avrei giurato», con l’apostrofo. È un errore? Benché molti vogliano sempre
risposte che distinguono il bianco dal nero in maniera assoluta, preferisco un
verdetto più sfumato. La risposta è la seguente: dipende dal contesto in cui si scrive e
dalla destinazione. Si possono citare decine di «c’ho», anche in testi letterari
autorevoli. Prendiamo Pasolini, Una vita violenta, p. 20 (Garzanti, Milano, 19638):
«“Nun c’ho voja” rispose Lello». Qui lo scrittore riproduce la parlata romanesca dei
suoi personaggi borgatari. Quindi è evidente che «c’ho» (a volte scritto persino
«ciò»!) è una forma bassa, plebea, dialettale o al più semidialettale, inadatta
all’italiano elegante e di rango. Ciò non vuol dire che non la si possa usare, ma lo si
deve fare tenendo sempre conto della marcatura stilistica bassa.

Un futuro incerto
Ecco frasi come «ci vediamo a Natale dell’anno prossimo», «ci vediamo tra due
mesi». Non sarebbe più opportuno il futuro? Tutti lamentano la perdita del
congiuntivo, nessuno piange sulla debolezza del futuro... Le forme in cui il presente
prende il posto del futuro sono sempre caratterizzate dalla presenza di un indicatore
temporale esplicito, perché altrimenti sarebbero impossibili. Il futuro dimostra di
essere un tempo piuttosto debole. Quello latino non si è conservato e al suo posto
sono nate forme perifrastiche: l’attuale futuro italiano deriva dall’infinito combinato
con il verbo «habeo»: al posto di «laudabo» abbiamo «laudare habeo», cioè lodare +
ho, loder-ò (-ai, -à ecc.). Anche il futuro del greco antico non si è conservato nel
greco moderno. Insomma, il futuro si dimostra incerto, soggetto a trasformazioni, in
molte lingue. Tuttavia, nell’italiano scritto e formale è meglio evitare un tono troppo
colloquiale, dunque conviene non abusare del presente al posto del futuro.

La posizione delle parole


Alcune frasi suonano errate per il cattivo ordine delle parole: «scuola dell’infanzia
statale» dovrebbe essere «scuola statale dell’infanzia», perché «statale» è la scuola,
non l’età infantile; «corsi per adulti di scuola media» dovrebbe essere «corsi di
scuola media per adulti»; «raccolta firme contro la costruzione di un campo nomadi
in piazza Prampolini»: la piazza Prampolini (la piazza del Duomo e del Municipio di
Reggio Emilia) non è il luogo dove si progetta di costruire il campo, ma il luogo in
cui si raccolgono le firme; perciò si sarebbe dovuto scrivere: «raccolta firme in
piazza Prampolini contro la costruzione di un campo nomadi». Occorre dunque stare
ben attenti alla collocazione delle parole, per quanto l’italiano goda di una certa
libertà. Una recente pubblicità, nel maggio 2017, parlava, a proposito di
un’automobile, del «rivelatore della stanchezza di serie». Si vede che la «serie» di
quell’auto non tirava più. Si deve prestare attenzione all’ordine delle parole anche
nel parlato, specialmente formale, per evitare curiosi effetti, come nel Gr Regionale
del Piemonte, il 26 maggio 2014, quando si è annunciato che «È grave una bambina
finita fuori strada nell’auto che stava guidando la mamma». Sarebbe stato meglio
dire «nell’auto che la mamma stava guidando». Interessante anche quest’altro
esempio, al Gr1 alle 7 di mattina del 27 settembre 2016: a proposito di un bambino
ucciso, si attendono le «dichiarazioni spontanee al GUP della madre». Dunque la
madre ha un suo GUP .

Lingua, genere, sesso

Sindaca e ministra
In qualità di presidente dell’Accademia della Crusca sono stato da tempo investito
dall’ondata delle polemiche sul linguaggio di genere. È curioso che una questione
piuttosto stagionata come questa ritorni ora con tanta intensità. Perché stagionata? In
Italia il dibattito su sindaca/sindaco, ministro/ministra ecc. è stato aperto nel 1986
dalle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana pubblicate dal
Poligrafico dello Stato al tempo del governo Craxi. Dunque non si tratta di una
novità. Inutile dire che quella polemica degli anni ’80 arrivava dal mondo
anglosassone, come altre cose che hanno investito la cultura italiana.
Molto spesso l’Accademia della Crusca viene interpellata in maniera
impegnativa sul linguaggio di genere, e quasi sempre l’interesse si concentra su
parole come sindaca e ministra, che appassionano giornalisti, funzionari regionali e
comunali, esponenti dei ministeri, talora ministri e funzionari di altissimo grado, e
persino la presidente della Camera nella XVII legislatura Laura Boldrini.
Sicuramente questo è uno dei temi che suscitano oggi più reazioni, anche se non
credo si tratti del problema principale della lingua italiana. Tuttavia la
rivendicazione di nuovi termini femminili nel campo delle professioni e delle
cariche pubbliche risponde a una grande esigenza di rinnovamento, perché si collega
al mutare della condizione femminile, che è sotto gli occhi di tutti; ma, allo stesso
tempo, diventa sempre più chiaro che tale movimento di progresso va accompagnato
da qualche riflessione, e anche da qualche attenzione o cautela.
Una posizione equilibrata è ovviamente scomoda, perché ha contro i sostenitori
delle tesi più radicali degli opposti schieramenti, cioè di coloro che si allarmano per
ogni desinenza in -a che non abbiano conosciuto fin da bambini, e di coloro (più
spesso o quasi sempre si tratta di un «coloro» femminile, trattandosi di donne attive
e militanti) che vorrebbero rovesciare la lingua come un calzino, per ripulirla d’ogni
traccia di quello che giudicano maschilismo offensivo, e dunque una forma di
irriverenza o violenza nei loro confronti. Difficile mettersi d’accordo. Occorre
distinguere tra le legittime aspirazioni delle protagoniste della rivoluzione civile e
politica femminista, tutte prese dagli obiettivi della loro battaglia, e i criteri
vincolanti di coloro che sono chiamati a dare un supporto tecnico per tradurre la
rivoluzione in norme linguistiche e istituzionali recepibili da parte della comunità.
L’Accademia della Crusca non era, non è e non sarà mai spaventata in futuro
dall’accusa di essere succube di fronte alle richieste del partito «femminile». Non mi
sono turbato a suo tempo per le battute spiritose di Luciana Littizzetto, di cui merita
dare un breve saggio:

Qualche giorno fa c’è stato un incontro a Montecitorio organizzato dalla


presidente della Camera Boldrini con i responsabili dell’Accademia della Crusca
che non è un’associazione vegana che si occupa del transito intestinale, ma
l’Istituto per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana. Si sono incontrati
per parlare di questo tema pressantissimo: il sessismo nella lingua italiana. Loro
dicono che c’è una discriminazione della donna nella lingua italiana. La lingua
italiana non rispetta la parità perché ci sono delle parole declinate al femminile e
altre no. ... A me non me ne frega niente che mettano la versione femminile del
mio mestiere. A me interessa che ci sia posto per me donna per fare quel
mestiere. In Italia c’è un divario economico tra uomini e donne del 45%. Che
significa, in soldi, che se un maschio italiano ogni mese guadagna 1000 euro, una
donna ne guadagna solo 550. ... Io che sono donna voglio essere rispettata perché
sono diversa da te, non uguale a te. So che mi sono attirata le ire dell’Accademia
della Crusca. Che però per parità di genere dovrebbe essere chiamata
l’Accademia della crusca e del germe di grano.

Francamente non so di quali «ire» parli l’autrice, che ammiro anche per la spiritosa
battuta del «germe di grano». Forse potrei osservare che per contestare i nomi
femminili, quelli per i quali la Crusca porgerebbe sostegno alla presidente Boldrini,
occorrerebbe insistere non sulla «diversità» dei generi, ma semmai
sull’«uguaglianza». Se diversità c’è, allora diventa più che legittimo, se non
necessario, il cambio di genere grammaticale. Ma questi sono dettagli. Tuttavia, per
vedere come si possa rincarare la dose, basterà un breve esempio tratto da altra fonte,
cioè «LiberoQuotidiano.it» del 9 marzo 2016:
E perfino l’Accademia della Crusca le dà ragione [alla presidente Boldrini]: dire
ministra, sindaca e magistrata è correttissimo. Dopo aver sdoganato «petaloso»,
la Crusca dà il suo autorevole avallo al «magistrata». Da quelle parti, di tempo da
perdere devono avercene parecchio. Occhio, dunque, a definire «presidente» la
«presidenta»: da oggi, con il patentino della Crusca, rischiate di essere tacciati di
sessismo.

Vedremo poi che «presidenta» è una sciocchezza non richiesta da nessuno, una
parola che sta lì solo per polemica. Per ora limitiamoci a osservare che le
puntualizzazioni un po’ spigolose del linguaggio di genere, sollevate nel lontano
1986-87 in due celebri libretti di Alma Sabatini, allora fatte spesso oggetto di
ludibrio, sono oggi nuovamente all’ordine del giorno in forma quasi identica, come
se il tempo non fosse trascorso, e suscitano reazioni anche passionali, ovviamente
contrastanti, che facilmente si traducono in polemica.
Come ho detto, questa polemica non ci spaventa, ma sollecita un’attenzione
critica verso qualunque asserzione azzardata, richiamandoci alla necessità di un
confronto serio sulla materia del contendere. Si aggiunga che il 15 dicembre 2016 il
presidente emerito Giorgio Napolitano volle a sua volta intervenire sul tema del
linguaggio di genere, manifestando dissenso su parole per la verità ormai largamente
diffuse, come ministra e sindaca, quelle parole che attirano sempre l’attenzione del
largo pubblico e dei giornalisti. Molti critici delle nuove denominazioni, coloro che
preferiscono parlare di «sindaco» anche se quel sindaco è donna, si sono subito
collocati (o trincerati?) al riparo del suo parere autorevole. Anch’io ho avuto modo di
discorrere di questo tema con il presidente Napolitano, che fra l’altro è Accademico
onorario della Crusca. Gli ho garantito che la Crusca non l’avrebbe «abbandonato» in
questa polemica. Questo non vuol dire che si debba in tutto e per tutto condividere la
sua posizione, ma certo occorre considerare seriamente il contenuto delle sue
obiezioni. È facile, per esempio, ribattere che i giudizi di «bruttezza» attribuiti alle
parole nuove, come sindaca e ministra, sono troppo soggettivi per essere assunti
validamente come strumento di misura. Un giudizio estetico resta troppo legato
all’abitudine di ciascuno. Occorre andare più a fondo.

Il «maschile non marcato»


La questione più importante che sta dietro a queste polemiche si lega a quello che in
linguistica si definisce il «maschile non marcato», cioè un maschile usato di fatto in
molte occasioni sia per il maschile sia per il femminile. Non è una peculiarità
italiana: esiste in altre lingue d’Europa. Se uso «studenti» per gli studenti e per le
studentesse, ecco che sto adoperando il «maschile non marcato». Faccio male?
Faccio bene? I fautori del linguaggio di genere sostengono che in questo modo
occulto le donne, facendole sparire nella forma maschile collettiva. Ovviamente
avrei dovuto dire «i fautori e le fautrici», perché altrimenti ecco nuovamente
riappare il maschile non marcato. Come si vede le occasioni di ripulire la lingua
dalle presunte tracce di sessismo si moltiplicano, ben al di là delle poche parole
indicanti cariche e professioni.
Se le necessità di cambiamento della lingua arriveranno fino all’abolizione totale
del cosiddetto «maschile non marcato», diventerà delicatissimo non solo parlare, ma
anche leggere un testo scritto qualche anno fa, persino un testo come la nostra
Costituzione repubblicana, che di quel maschile fa largo uso, per cui occorrerà
chiosare che, quando «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo», si intende «l’uomo e la donna» (come si direbbe oggi), o «la persona».
Dobbiamo cambiare tutte le leggi per mettere al sicuro questo principio? O non ci
conviene un po’ di elasticità? Occorrerà forse avvisare che quando all’art. 3 si dice
che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», si
intende «cittadini e cittadine», come del resto avvisa subito il seguito, che esclude
ogni «distinzione di sesso»? E via di questo passo, articolo per articolo, frase per
frase, per esempio per gli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini», dove i cittadini sono «cittadini e
cittadine».
Se una interpretazione radicale raggiungesse l’obiettivo di far abolire per sempre
l’inviso «maschile non marcato», e costringesse a riscrivere o tradurre in linguaggio
non sessista tutta la Costituzione, che cosa accadrebbe mai, una volta che ai termini
maschili e femminili si fosse attributo un valore assoluto per la distinzione di
genere? Quante migliaia di testi legislativi sarebbe necessario correggere? E la
dimenticanza di una correzione, che conseguenze potrebbe avere? Non converrà
accettare la soluzione più economica, cioè mantenere in vita il «maschile non
marcato», che esiste del resto in tutte le lingue europee e che è stato assolto anche
dall’Académie française?
Non si intende con questo dare una risposta perentoria a problemi complessi. Non
c’è dubbio che nel futuro le donne avranno ancora più spazio e rilievo di oggi, come
mostrano i risultati che ormai le vedono non solo a fianco degli uomini, ma spesso
davanti agli uomini, per merito e per capacità. C’è una tavola statistica dell’Istat
(Serie storiche) che mi ha sempre colpito: è la tabella degli «Sposi che non
sottoscrissero l’atto di matrimonio perché non sapevano scrivere – Anni 1867-1965».
Nel 1867, il 60% degli uomini non poté firmare, ma le donne analfabete risultarono
ben di più, l’80%: 20% di differenza a vantaggio degli uomini! Nel 1921, il 12%
degli sposi maschi non fu in grado di sottoscrivere l’atto di matrimonio. Quello
stesso anno, le donne nella medesima condizione furono il 20%, ancora quasi il
doppio dei maschi. Nel 1965, la percentuale era ormai identica, lo 0,3%. Parità
assoluta, e praticamente eliminazione dell’analfabetismo. Sono quelle stesse donne
che hanno continuato a progredire, se una sintesi del rapporto PIAAC -OCSE ISFOL
2013 le descrive così:
Le giovanissime italiane mostrano di aver recuperato familiarità ed esperienza
nell’apprendimento e nelle prestazioni di competenze matematiche e risultano
più brave dei ragazzi nelle prove di literacy [= competenza relativa alla
comprensione di un testo scritto]. Tale processo di progressiva convergenza delle
competenze tra maschi e femmine può essere sicuramente interpretato come
segnale di una sempre più massiccia partecipazione delle donne ai processi di
istruzione superiore.

Vedremo fin dove le donne del futuro sentiranno la necessità di portare le loro
rivendicazioni. Si arresteranno al di qua della lingua, come propone Luciana
Littizzetto? O rivendicheranno titoli tutti femminili? E lo faranno in nome della
differenza di genere, o dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri? E l’eventuale
manomissione della tradizione normativa della lingua si fermerà alla richiesta di
qualche elemento lessicale con uscita femminile, o arriverà a pretendere
modificazioni più profonde, per esempio nel meccanismo dell’accordo?

All’attacco della morfosintassi


Già in passato c’è stato chi ha chiesto che l’aggettivo riferito a un termine maschile e
a uno femminile non veda più la prevalenza del maschile, ma dipenda dalla
posizione. Costoro insomma intervengono sulla morfosintassi, perché a loro parere
resta lecito «la ministra e il ministro sono bravi», ma sarebbe d’obbligo «il ministro
e la ministra sono brave». Si tratta di vedere fin dove si debba spingere questo gioco,
e fino a che punto il sistema della lingua, che abbiamo sempre reputato
sostanzialmente naturale, cioè affidato alla volontà collettiva dei parlanti, si debba
piegare alle esigenze eventuali di una normativa vincolante dettata dall’esterno.
Il benedetto «maschile non marcato» salta fuori anche dove meno ce
l’aspettiamo: quante donne appassionate della loro causa linguistica avranno detto
«Siete arrivati tutti?» rivolgendosi a un gruppo di amici e di amiche? Ebbene, questo
è l’aborrito maschile non marcato. Se lo volessimo togliere, saremmo costretti a
parlare esercitando una continua insopportabile sorveglianza su tutta la nostra lingua,
e certo non riusciremmo a controllare tutto senza rallentare il nostro pensiero. Vale
la pena fare un simile sforzo? Oppure possiamo ricordarci dell’insegnamento del
grande antropologo Claude Lévi-Strauss, e del filologo, linguista e storico delle
religioni Georges Dumézil? Questi due illustri signori hanno spiegato a nome
dell’Académie française che la questione del genere grammaticale non è legata di per
sé alla sola questione del sesso, ma è parte di un meccanismo di funzionamento della
lingua in quanto struttura, per assicurare le concordanze e garantire la
comprensibilità del testo. Questi accordi puramente grammaticali si sono formati nei
secoli secondo processi non sempre coerenti, ma comunque funzionali. Perché si dice
la zebra e la pantera anche per il maschio, mentre il ghepardo è solo maschile?
Perché abbiamo come dato assolutamente certo e comune il leone e la leonessa, ma
la tigre ha un compagno detto il tigre che deve la sua fama principalmente a una
vecchia pubblicità del carburante? Perché esistono professioni o azioni che hanno
nome femminile e sono svolte anche da uomini o soprattutto da uomini, come la
guardia giurata? Le femministe degli anni ’80 del Novecento rispondevano che la
guardia deriva da un’azione, e dunque non conta, come se questa eventuale recondita
ragione etimologica cambiasse le cose o giustificasse l’anomalia. La guardia giurata
è anche e soprattutto una professione maschile.

I francesi danno la multa, ma l’Académie non ci sta


Invocare la grammatica per condannare «il sindaco» usato per una donna, o viceversa
per condannare «la sindaca», a sua volta usato per una donna, non ha senso. L’una o
l’altra condanna derivano o da radicalizzazione ideologica, o da affezione alla
tradizione linguistica. Tralasciamo il primo dei due casi. Il secondo caso discende
dalla personale preferenza di persone stimate e autorevoli, che certo hanno diritto
alla propria scelta. Non sempre, anzi quasi mai, l’uso del maschile non marcato
corrisponde a una volontà di offendere le donne. Se vi è questa volontà, allora senza
dubbio la reazione delle sostenitrici del linguaggio al femminile diventa più
giustificata. Qui affiora il complesso problema dell’intenzionalità dell’atto di parola,
che si verifica anche in altri casi. Si pensi agli insulti e alle offese. Io posso dire
«bischero» a un amico carissimo, e lo farò in forma ironica e sorridente. Non vi sarà
in tal caso intenzione di offendere. Posso dirlo con un tono irritato a uno che non mi
è amico, e di cui giudico negativamente la condotta: allora ci sarà intenzione
offensiva. In tempi non lontani la magistratura è stata chiamata a pronunciarsi su
insulti anche più forti, come «buffone» usato verso un presidente del Consiglio in
carica. La magistratura ha giudicato che non sia un insulto, cioè ha largheggiato in
tolleranza. Secondo me sarebbe stato più giusto ricorrere al criterio
dell’intenzionalità, ma probabilmente è difficile giudicare le intenzioni.
Allora non ci resta che essere tolleranti anche verso chi fa resistenza al
linguaggio di genere, magari semplicemente portando con sé abitudini antiche, come
accade agli anziani, che sentono con più fastidio le novità della lingua. Mi diceva
pochi giorni fa una «assessora» che alcuni funzionari del suo comune, piuttosto che
usare assessora, parlando con lei, sono passati a signora.
In Francia sono stati più severi che in Italia. È stata inflitta una multa a quel
deputato che si era rivolto alla presidente di turno della seduta parlamentare
chiamandola «madame le président» anziché «madame la présidente». Leggiamo il
fatto, traducendo in italiano ciò che è raccontato dal «Figaro» on line del 7 ottobre
2014:

«Madame le ou la président(e)», «le ou la député(e)»: que dit le règlement de


l’Assemblée?
L’argomento è tornato d’attualità lunedì sera quando il deputato UMP Julien
Aubert ha apostrofato la presidente della seduta, Sandrine Mazetier, esordendo
con «Madame le président». Tre parole che hanno fatto sobbalzare l’interessata.
Costei immediatamente ha richiamato all’ordine il parlamentare, annotando nel
processo verbale, per non avere messo al femminile la sua funzione. Risultato:
l’eletto sarà privato di un quarto della sua indennità di parlamentare per un mese,
ossia 1.378 euro. Pronunciando questa sentenza, Sandrine Mazetier non ha fatto
altro che basarsi sul regolamento dell’Assemblea nazionale. Una istruzione di
Palazzo Borbone presa nel 1998 e richiamata nel 2000, obbliga a mettere al
femminile le funzioni esercitate da donne nell’Assemblea. Nella Camera si deve
dunque dire «Madame la députée» ou «Madame la présidente» (di commissione,
di seduta ecc.). Questa regola non si applica alle funzioni ministeriali. Julien
Aubert ha dunque potuto continuare a dire «Madame le ministre» parlando di
Ségolène Royal, senza rischiare di vedere raddoppiare la sua sanzione.

La questione non è finita lì. È stata chiamata in causa l’Académie française, come
spiega il giornalista nel seguito dell’articolo, e l’Accademia si è mostrata piuttosto
conservatrice:

L’Académie française è contraria al femminile delle cariche. Nel suo sito


Internet, si rammarica che un numero sempre maggiore di mestieri, funzioni,
cariche e titoli siano stati femminilizzati nel corso degli ultimi anni. Infatti, per i
suoi membri, il genere maschile ha un «valore collettivo e generico», che non
rende necessario utilizzare il genere femminile in certi casi. «È inutile, per
indicare un gruppo di persone composto di uomini e donne, ripetere il medesimo
sostantivo o il medesimo pronome al femminile e poi al maschile», spiega
l’istituzione. E prosegue: «Solo il genere maschile, che è il genere non marcato
(ha effettivamente la capacità di rappresentare gli elementi rilevanti dell’uno e
dell’altro genere) può riflettere la natura indifferenziata di titoli, cariche, dignità
e funzioni. I termini chevalière, officière (di tal ordine), députée, sénatrice ecc.,
non devono essere usati». In altre parole, per l’Académie française, la funzione,
in politica, non può essere identificata con la persona che la ricopre.

Va tuttavia detto che in altri paesi francofoni, Svizzera francofona, Belgio, Canada
(Québec), la posizione ufficiale è diversa. In tutto il mondo, insomma, il problema si
pone, e le risposte non sono sempre identiche.

Discriminazioni vere e false


Ribadiamo che giudizi sul «bello» o «brutto» di questa o quella forma linguistica,
spesso evocati per giustificare una determinata scelta, sono soggettivi e
scientificamente nulli. Rassegniamoci all’oscillazione tra maschile non marcato e
femminile, fino a quando non ci sarà il netto prevalere di una forma sull’altra.
Valutiamo bene gli aspetti legali connessi alla modifica dei nomi di cariche ufficiali.
Buona soluzione mi pare quella di adottare il femminile quando abbiamo il nome
(«La presidente Boldrini», «La ministra Boschi»), il maschile non marcato quando la
carica è menzionata di per sé in atti ufficiali («La circolare del ministro», «Il
ministro decreta», maschio o femmina che sia).
Non si può dare torto a coloro che vedono una sopravvalutazione ideologica nella
questione del linguaggio di genere, così come è stata posta fino a oggi. Dobbiamo
pensare che la mancanza di rispetto verso la donna non sta nell’uso del maschile non
marcato, ma in altre aggiunte linguistiche che si possono introdurre, come se si
dicesse «i calzoni attillati del ministro», e naturalmente in questo caso sarà un
ministro donna (l’esempio mi è stato suggerito da un grande linguista, Raffaele
Simone). Potremmo aggiungere che, quando divenne ministra Maria Elena Boschi, la
sentii nominare (con sottile polemica) da un esponente della Destra con l’appellativo
di «dolcissima Boschi»: questo è discriminatorio e offensivo, molto di più di quanto
possa esserlo (se mai lo è) il maschile nel nome della carica.
Inoltre bisogna evitare che le rivendicazioni linguistiche forniscano alibi per non
affrontare concretamente problemi che hanno forse costi materiali maggiori. Il tema,
come abbiamo visto, è stato toccato ironicamente da Luciana Littizzetto, e non riesco
a darle del tutto torto. Oltre al resto, le sostenitrici del linguaggio di genere sono
particolarmente aggressive verso quelle donne che mostrano di non pensarla come
loro. Dovrebbero stare attente, in questo caso, nel lanciare anatemi, perché l’anatema
apre la strada all’autoritarismo, e l’autoritarismo spesso gioca brutti scherzi. In base
alla mia esperienza, le donne più giovani sono molto meno interessate alla questione
del linguaggio di genere, non saprei dire se per scarsa sensibilità politica o perché
considerano superato il problema. Una docente sensibile a questi temi, Anna
Loretoni, ordinaria di filosofia politica alla Scuola Sant’Anna di Pisa, sostiene che le
giovani cambiano idea al momento in cui si affacciano al mondo del lavoro. Non so
se sia così, e se, in quel caso, possa entrare in gioco un elemento diverso, cioè la
sensibilità per la convenienza pratica, un po’ come può accadere anche nelle quote
rosa. Certo sarebbe interessante, in questo caso, un bel sondaggio di opinione
condotto con metodo rigoroso.
I nomi femminili ministra, sindaca (quest’ultimo favorito nel suo innegabile
successo dalle recenti elezioni di Roma e Torino) non dipendono dunque dalla
grammatica, che accetta sia il maschile tradizionale sia il femminile innovativo, ma
da una battaglia ideologica trasportata nella lingua dalle donne (o da alcune di esse)
quando conquistano nuovi spazi in politica e nel mondo del lavoro.
La furia di chi talora avvia sgarbatamente una battaglia villana contro queste
donne fa pensare che in fondo esse abbiano più ragione di quanto possa sembrare a
prima vista. La lingua risente anche dei mutamenti ideologici, ed è ovviamente
terreno di scontro, ma il dibattito dovrebbe sempre mantenersi nei saldi binari della
civiltà.
Potremmo aggiungere che le forme che escono in -e, come assessore, presidente,
dovrebbero essere investite meno di altre dallo sforzo di chi vuole innovare in
funzione del genere: basta insomma l’articolo, senza tirare in ballo la morfologia
suffissale, perché in italiano abbiamo già il prete, l’abate, e la forbice, la neve, la
specie, tutti con uscita in -e. Purtroppo davanti ad assessore si elide l’articolo, e così
si perde la marca di genere. Per questo alcuni e alcune invocano la forma assessora,
che di per sé non sarebbe necessaria. Ho scritto «alcuni e alcune», con la doppia
indicazione, una reduplicazione che abbiamo visto condannata dall’Académie
française, ma che è molto cara a quasi tutti coloro che in Italia hanno cariche
pubbliche, dai presidi delle scuole, ai rettori delle Università, agli uomini e donne
che fanno politica. La reduplicazione viene esibita come segno di atteggiamento
moderno e progressista, anche se ha tutto sommato un certo sapore pedantesco, anche
perché allunga il discorso, a volte in maniera abbastanza ridicola (per esempio in
certe circolari burocratiche).
Nella pubblica amministrazione, si è manifestata una tendenza a rendere
obbligatoria tale soluzione. Un passo in là: si contesta anche l’uso dell’articolo per i
soli cognomi femminili, del tipo «la Boldrini è la presidente della Camera». Infatti,
dicono gli innovatori, si dice «Grasso è il presidente del Senato», e in questo caso
l’articolo non c’è.
Come si vede, si va a caccia di tutte le forme di asimmetria, in modo un po’
maniacale, e si cerca disperatamente di neutralizzarle, rendendo estremamente
complicato l’adeguamento alla norma. Per essere corretti, si dovrebbe operare una
revisione drastica della lingua. Per questo è davvero patetica la resistenza di coloro
che si agitano tanto per un paio di femminili come sindaca e ministra. Semmai la
resistenza si dovrebbe limitare ad arginare gli interventi lesivi della struttura
grammaticale, mentre queste piccolezze lessicali non danno nessun fastidio, ma
semmai segnano positivamente il progredire dei tempi.

Gli irriducibili
Ci sono anche coloro che, in questo come in altri casi, se la prendono con
l’Accademia della Crusca perché non dà disposizioni univoche. Sono gli orfani
dell’autoritarismo, quelli che non possono sopportare la varietà della lingua e la
varietà delle opinioni, quelli che non possono accettare che l’espressione linguistica
sia essa stessa il segno della nostra identità intellettuale. Perché la scelta di un nome
al maschile o al femminile non dovrebbe rivelare la preferenza ideologica del
parlante? Perché dovrebbe essere obbligatorio per tutti i parlanti dire sindaca o
sindaco in tutti i contesti e senza alternative? Proviamo a immaginare il medesimo
discorso di pura fantasia, ma espresso in forme diverse, cioè nella maniera che piace
di più ai sostenitori della lingua di genere (tipo A), e poi nella maniera che piace a
coloro che non sopportano la lingua di genere (tipo B), e infine nella maniera
equilibrata in cui, allo stato attuale, potrebbe essere scritto da chi accetta alcune
innovazioni della lingua di genere, ma non ha intenzione di scardinare e
manomettere troppo il meccanismo della lingua (versione C):

Versione A)
Ci rivolgiamo agli studenti e alle studentesse di questa scuola, perché gli studenti
e le studentesse sono il futuro della nazione, sono le donne e gli uomini di
domani. Ad esse e ad essi sono demandate le sorti dei cittadini e delle cittadine
che abiteranno il nostro paese. La preside Angela Y responsabile di questa scuola
ha segnalato alla ministra dell’istruzione Maria YZ gli incresciosi avvenimenti
che si sono verificati. La ministra ha convocato uno speciale comitato di esperti e
di esperte che provvederà a indicare interventi possibili, da applicare al più
presto.

Versione B)
Ci rivolgiamo agli studenti di questa scuola, perché gli studenti sono il futuro
della nazione, sono gli uomini di domani. Ad essi sono demandate le sorti dei
cittadini che abiteranno il nostro paese. Il preside Angela Y responsabile di
questa scuola ha segnalato al ministro dell’istruzione Maria YZ gli incresciosi
avvenimenti che si sono verificati. Il ministro ha convocato uno speciale
comitato di esperti che provvederà a indicare interventi possibili, da applicare al
più presto.

Versione C)
Ci rivolgiamo agli studenti e alle studentesse di questa scuola, perché gli studenti
sono il futuro della nazione, sono le donne e gli uomini di domani. Ad essi sono
demandate le sorti dei cittadini che abiteranno il nostro paese. La preside Angela
Y responsabile di questa scuola ha segnalato alla ministra dell’istruzione Maria
YZ gli incresciosi avvenimenti che si sono verificati. Il ministro ha convocato
uno speciale comitato di esperti che provvederà a indicare interventi possibili, da
applicare al più presto.

La versione C è ovviamente frutto di un compromesso, ma i compromessi sono il


sale della democrazia. Nascono dall’esigenza di rispettare alcune esigenze degli altri,
senza peraltro cedere a tutte le richieste, anche alle più esagerate. Non è un caso che
le dittature in genere si segnalino per alcuni tic linguistici, con cui pretendono di
cancellare forme linguistiche prima normali, sostituendole con altre che dovrebbero
segnare il nuovo corso in maniera fin troppo evidente. La Rivoluzione francese
impose il titolo di «cittadino», al posto di «signore». La Rivoluzione bolscevica
impose «compagno» al posto di «signore». La Rivoluzione fascista impose
«camerata». Come si vede, la tendenza a imporre usi linguistici non è una novità dei
nostri tempi. Ma torniamo alle tre frasi-campione A, B e C. La forma che accetta
tutte le innovazioni del linguaggio di genere si rivela molto verbosa: 93 parole e 576
caratteri. La forma tradizionalista e conservatrice, assolutamente antifemminista, è
la più sintetica: 75 parole e 486 caratteri. La forma C, quella che nasce dal
compromesso, non esclude il riferimento al genere, ma non lo trasforma in
un’ossessione, produce un testo di 81 parole e 518 battute. Ottima via di mezzo.

La lingua non è algebra

Per (troppo) amor di logica


Ci sono alcuni amici dell’italiano, ben intenzionati a difenderlo e a proteggerne le
regole, e tuttavia pericolosi per eccesso di pedanteria. Questi amici a volte creano
complicazioni inutili e producono danni, opponendosi in maniera risoluta e continua,
senza eccezioni, a qualunque turbamento di quella che essi ritengono «la» regola,
unica e immutabile. Queste persone si turbano se scoprono che la lingua
difficilmente contiene elementi del tutto rigidi, ed è comunque soggetta a un margine
di illogicità. L’illogicità della lingua tormenta queste persone più di qualunque altro
elemento esterno. In genere costoro non protestano per l’estromissione dell’italiano
dalla cultura o dalla ricerca. A loro di questo importa poco. A loro basta difendere la
purezza, anche se l’italiano diventa una lingua morta. Sono i degni eredi di un’antica
tradizione puristica che ha danneggiato la lingua italiana fin dalla fine del Settecento.
Eppure a costoro bisogna pur guardare con una certa simpatia, perché, come ho
detto, sono pur sempre amici dell’italiano. Vediamo, dunque, qual è il loro primo
turbamento: essi difendono a spada tratta l’assoluta coerenza logica della lingua. Uno
dei loro cavalli di battaglia sta per esempio nell’impossibilità di rafforzare un
concetto logico già espresso in forma compiuta. Ecco la condanna esplicita di
espressioni come scendere giù o salir su. È evidente che si scende sempre giù: non
c’è nessuno che possa scender su, quindi quel giù è sbagliato, è un errore gravissimo
contro la logica. Analogo il caso di salir su. È impossibile salire giù, e dunque quel
su è sbagliato e va abolito. Ha scritto assai bene Serianni nella Prima lezione di
grammatica:

Molto frequente [nel largo pubblico] è un atteggiamento iper-razionalistico,


fondato sull’idea che la lingua sia un monolite nel quale si possa sempre tracciare
il confine giusto-sbagliato sul fondamento di un’astratta immagine della norma,
sottratta alla variabilità degli usi concreti.

Tipico di questo atteggiamento è l’odio per ogni forma di ridondanza, per cui, come
ricorda Serianni, ci sono lettori che protestano contro «trascorrere le vostre vacanze»
o contro «i piccoli furtarelli», e potrei aggiungere molti analoghi esempi, sulla base
della mia esperienza più che decennale nella rubrica Parlare e scrivere in un noto
settimanale. Chi pone quesiti linguistici spesso manifesta «un’istintiva avversione al
nuovo, visto come imbarbarimento e decadenza», come scrive Serianni nella Prima
lezione di grammatica; ma spesso si tratta di anziani, i quali notano meglio le
innovazioni che si vanno introducendo nella lingua.

Il «più acerrimo»
Analogamente alcuni non possono sopportare espressioni come il più acerrimo
nemico o la più completa dotazione. Acerrimo, dicono giustamente, è un superlativo,
e il superlativo non può essere rafforzato ulteriormente. Una cosa completa non può
essere più completa, perché altrimenti vuol dire che fin dall’inizio era incompleta.
Quanto al superlativo, l’italiano antico lo rafforzava tranquillamente: nel Novellino e
nel volgarizzamento toscano del Milione di Marco Polo si trova molto bellissimo.
Leon Battista Alberti parlava di certe «molto asprissime genti» per indicare i barbari
che avevano invaso l’impero romano. Qui, oltre al rafforzamento del superlativo, che
dunque era ancora legittimo nel Quattrocento, in un autore che adoperava un’ottima
lingua toscana, c’è anche il superlativo costruito all’italiana e non alla latina,
«asprissimo» invece di «asperrimo». Si potrà ribattere che non è giusto portare
esempi di lingua antica per giustificare un uso moderno. L’obiezione ha una sua
innegabile validità. Ma la citazione della lingua antica voleva soprattutto mostrare
che, proprio in certe fasi della lingua considerate molto importanti e ammirevoli, per
secoli invocate come la stagione aurea dell’italiano, certi ostacoli della logica non
erano attivi. Saranno stati introdotti in seguito, ma non è detto che costituiscano un
ostacolo insormontabile, anche perché hanno un chiaro valore espressivo: la lingua
non è algebra, la lingua non è linguaggio formalizzato. Il «più acerrimo» comunque
si trova anche in Pirandello, ne La patente: «Lei che crede di fare il mio bene. Il mio
più acerrimo nemico!». Non dico che sia sempre raccomandabile il rafforzamento
del superlativo: a volte è accettabile, a volte no. Chi scriva un trattato scientifico, per
esempio, si avvantaggerà evitando le ridondanze logiche, che evocano una
soggettività emozionale inadatta all’oggettività della scienza. Non a caso Pirandello
ha messo quel rafforzamento sulla bocca di un personaggio in un testo teatrale, che
(benché sia scritto) deve dare l’idea dell’oralità.
Ecco un altro punto importante: molti non riescono a capacitarsi che non si parli
né si scriva sempre allo stesso modo. Non accettano di riconoscere che i momenti
della comunicazione non sono tutti uguali, ma dipendono dal pubblico, dal contesto,
dallo strumento con cui si comunica, dalla situazione in cui ci si trova. Non capire
questo, significa avere un’idea falsa della lingua, significa non conoscere che cosa è
la comunicazione. Significa anche, ahimè, rendere antipatica la lingua.

«Scender giù» e «salir su»


Abbiamo citato prima il caso di più completo. Completo vuol dire appunto che non
manca di nulla, dunque non è completabile ulteriormente. Anche in questo caso è
necessario superare un’illusione razionalista che, se presa per buona, potrebbe
portarci a credere che non si possa nemmeno «gridar forte», perché non è possibile
«gridar piano». La lingua non è soltanto un gioco razionale, un tavoliere di caselline
che non si sovrappongono mai l’una all’altra. Anzi la lingua è in gran parte frutto di
un disperato sforzo di espressione da parte del parlante: questo sforzo a volte si
esprime forzando la logica ordinaria. La frase assume in tal caso un valore stilistico.
Consideriamo proprio lo scender giù. Se descrivo una discesa in profondità, nelle
viscere della terra, in una cantina scura, in una grotta profonda, e dico «scesero
giù...», forse commetto un errore? Potrei addirittura reduplicarlo: «scesero giù
giù...». In questo caso è evidente che scendere giù è ben giustificato, così come lo
sarà salire su su fino ad arrivare al cielo.
Ho citato due casi di rafforzamento del significato ottenuto attraverso una
ridondanza, ma ce ne sono molti altri ugualmente legittimi. Sarebbe sciocco privare
il parlante di una potenzialità espressiva in nome di un vincolo strettamente logico. I
sostenitori del puro logicismo dovrebbero arrivare a intendere questo problema, e
non dovrebbero intervenire in maniera pedantesca in questi e in altri casi analoghi.
Lo stesso vale per il concetto di «completo». Ciò che è completo non dovrebbe essere
ulteriormente completabile; però nel confronto tra due oggetti o entità che svolgano
la medesima funzione, per esempio due programmi informatici o due strumenti
tecnologici perfettamente validi e «completi», può darsi che io ritenga «più
completo» uno dei due rispetto all’altro, per qualche sfumatura minima, per qualche
particolarità. In tal caso il concetto di «completezza» potrà assumere un valore
relativo, e potrò parlare legittimamente del «più completo» tra i due strumenti. In tal
caso, nel confronto, il solo aggettivo «completo» non basterebbe, e farebbe torto a
uno dei due prodotti, che esce vinto, ma solo per una sfumatura. Posso dire dunque
che chi sa usare «più completo» possiede una lingua «più completa» rispetto a chi
non conosce o teme questa espressione di raffinata gradualità. Comunque
Calandrino, descritto da Boccaccio, «scese giù, guardò e non vide il porco suo».
L’esempio è antico? Bene, eccone uno moderno, da una novella di Pirandello: «se ne
scese giù, con un diavolo per capello». Pirandello non è toscano, e dunque l’esempio
non vale? Ebbene, eccone allora uno dello scrittore toscano Federigo Tozzi, dal
Podere: «Non si mise né meno la giubba, e scese giù». Per «più completo», potrei
scegliere tra esempi di Verga, D’Azeglio, Boito, Matilde Serao e Italo Svevo. Ma
invece ne proporrò uno di Leopardi, che era grande maestro di elegante scrittura.
Ecco, dallo Zibaldone, 2 dicembre 1820: «immagina un disegno più perfetto, più
completo, più giusto, più conveniente, più esatto, più squisito di quello della natura».
Naturalmente ci sono casi in cui occorre evitare di rafforzare gli alterati, ma per
un motivo diverso. Al Gr1 delle 8 e 15 di mattina, il 13 novembre 2014, in un
servizio sul veicolo Philae, atterrato, anzi «accometato» appunto su di una cometa,
nella «missione Rosetta», un dirigente di Finmeccanica, intervistato, spiegava che la
sonda aveva fatto «un piccolo balzello»: in questo caso un ascoltatore colto non
pensa immediatamente al rafforzamento pleonastico di «balzo», ma al termine
balzello inteso come «tassa». La sonda dunque, sembrerebbe aver imposto una tassa,
per fortuna di piccola entità, in quanto «balzello», ma, per fortuna, «piccolo».
Conclusione
Tempi della lingua e tempi della storia

Un confronto e un grafico arrischiati


Nel 1995, scrivendo sulla rivista «Letture» (una testata che oggi non esiste più: ha
cessato le pubblicazioni nel maggio 2009) avevo azzardato una previsione secondo la
quale dal 2250 al 2300 l’italiano avrebbe cessato di esistere, perché tutte le nostre
parole sarebbero state sostituite da parole inglesi. Il calcolo era stato compiuto in
questo modo: avevo condotto uno spoglio a campione del vocabolario etimologico di
Giacomo Devoto, da cui risultava che nel 1968 le parole inglesi presenti erano l’1%
del totale, e l’avevo raffrontato con i dati ricavabili da un vocabolario degli anni ’90
del Novecento, il Devoto-Oli appena uscito in edizione elettronica, con il quale lo
spoglio era molto più semplice, automatico, perché era il primo vocabolario
elettronico su CD -ROM disponibile per il mercato italiano. Anzi, la trovata del mio
raffronto, più che altro, nasceva proprio dal desiderio di mettere alla prova la
funzionalità di quel Devoto-Oli, il primo strumento del genere rivolto al largo
pubblico, dotato di un motore di interrogazione piuttosto spartano, basato sul sistema
operativo MS -DOS , ma miracoloso agli occhi dei suoi primi utenti. Interrogando nel
1995 questo dizionario, che riproduceva l’edizione stampata nel 1990, risultava che
le parole inglesi erano salite alla percentuale del 7%. Proiettando nel futuro il tasso
di crescita costante, calcolato dal raffronto del vocabolario del 1968 con quello del
1995, ricavavo la data della morte dell’italiano.
Non mi è difficile ammettere che si trattava più che altro di una trovata, adatta a
un articolo di giornale, non certo spendibile in un contesto scientifico. In realtà
l’analisi era debole per molte ragioni. Prima di tutto, perché metteva a confronto due
vocabolari, che sono una cosa diversa dalla lingua vera e propria. Inoltre si trattava
di due vocabolari diversi tra loro e disomogenei, perché un etimologico non contiene
lo stesso corpus lessicale di un normale vocabolario dell’uso. Un confronto, per
proporre una tesi così radicale, avrebbero dovuto essere condotto in maniera ben più
rigorosa. Tuttavia il raffronto poteva rimanere valido almeno per segnalare che la
crescita degli anglismi stava diventando più intensa rispetto al passato; questo era un
dato di fatto, anche se in quel momento, negli anni ’90, quasi tutti i linguisti
tendevano a minimizzare il fenomeno.
È curioso che quell’intervento giornalistico del 1995, pur con una proposta così
eclatante, non suscitasse alcuna reazione o risonanza mediatica positiva o negativa,
anzi passasse praticamente inosservato (come forse del resto meritava). Tuttavia il
12 gennaio 2017, in una conferenza tenuta nel ciclo «GiovedìScienza» di Torino,
ebbi modo di recuperare quel vecchio grafico sulla «morte dell’italiano»,
riproponendolo al pubblico in sala, tra l’altro allo scopo di far notare quale fosse la
debolezza scientifica di una proiezione del genere, addirittura mettendola io stesso in
ridicolo come esempio di una profezia azzardata. Eppure quella notizia, nel 2017,
ebbe la risonanza mediatica che era mancata prima. La notizia era la medesima di
tanti anni addietro, ma prima non interessava, mentre nel 2017 incominciava a
colpire l’attenzione della gente.
Credo che ci si debba interrogare su questa diversa ricaduta mediatica. Era
cambiato il sentimento del pubblico. Nel 1995, la gente avvertiva ancora con
sicurezza la forza della propria lingua, sentendola come qualche cosa di saldo,
mentre nel 2017 la sicurezza era diminuita. Gli specialisti sono stati gli ultimi ad
allarmarsi, ma oggi anche alcuni di loro sono preoccupati.
Dunque sarà giusto oggi essere preoccupati, anche senza prendere troppo sul
serio il tasso tendenziale di crescita delle parole straniere. Faremo bene a essere
diffidenti verso questi calcoli, non soltanto perché fondati su dati troppo ristretti o
non omogenei, ma anche perché la storia di una lingua non è fatta di grafici, e anzi è
qualche cosa di molto più complesso. Il suo percorso non è predeterminato. Basta un
nonnulla per farle cambiare direzione e per scompaginare le attese immaginate e
diffuse dai presunti profeti. La penetrazione di un po’ di parole forestiere non può
mettere in crisi di per sé la sopravvivenza di una lingua, anche se è un segnale
interessante. Ritengo invece che abbia un grande peso quella che chiamiamo la
«politica linguistica», che è di due tipi, implicita ed esplicita.

Politica linguistica implicita


Vediamo un esempio di politica linguistica implicita, dunque non legata a
dichiarazioni o interventi, ma legata a comportamenti reali. Nel gennaio 2018, a
Davos, in Svizzera, si è svolto il tradizionale «World Economic Forum», una grande
occasione in cui si radunano i potenti della Terra per parlare del futuro del Pianeta.
Tra questi potenti c’era anche il presidente del Consiglio italiano, in quel momento
Paolo Gentiloni. Paolo Gentiloni, a Davos, è stato introdotto da un presentatore che
parlava in inglese, egli stesso ha parlato in inglese, sia nel discorso dal palco, sia
nell’intervista successiva. L’inglese di Gentiloni è risultato più che dignitoso,
appropriato a uno spazio internazionale. Tuttavia la lingua italiana non si è mai
sentita, anche se a parlare era il presidente del Consiglio della Repubblica italiana.
Io ritengo che un comportamento di questo tipo abbia anticipato la morte
dell’italiano di circa 100 anni. Si tratta di una battuta, me ne rendo conto, con un
numero casuale, in questo caso pronunciata senza ricorrere ai grafici e alle
proiezioni, ma temo sia una battuta che interpreta davvero il senso della storia.
Evidentemente il presidente del Consiglio riteneva che in quell’occasione l’italiano
fosse del tutto inutile, una lingua incomprensibile, una lingua da mettere da parte,
anche se si stava parlando in una nazione, la Svizzera, in cui quella lingua è
nazionale e ufficiale. Si potrà obiettare che Gentiloni ha adottato l’unico
comportamento possibile. Rispondo che non è vero. La rappresentante della
Germania, Angela Merkel, è stata presentata in tedesco, ha parlato in tedesco nel
discorso ufficiale, ed è stata intervistata in tedesco. Ha sempre usato la lingua della
nazione che rappresentava, e sono convinto che non l’ha fatto per ignoranza della
lingua inglese. Il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, è
intervenuto parlando in inglese (ha avviato il discorso con sapienti battute che hanno
strappato il riso al pubblico, parlando della neve che isolava Davos dal mondo
proprio in un forum sulla globalizzazione), ma a metà è passato al francese, per poi
chiudere in inglese. Il discorso di circa un’ora è stato equamente diviso tra la lingua
internazionale e la lingua nazionale. L’inglese di Macron era di qualità altissima.
Addirittura, nel passare da una lingua all’altra, si vedeva che l’oratore, smaliziato,
mutava il sistema dei segni, i movimenti delle mani e del corpo, alternando la
retorica anglosassone (con movimenti misurati delle mani) alla retorica latina (con
movimenti maggiori, per esempio il pugno e le mani protese in avanti).
Il possesso della strumentazione retorica di Macron mi è sembrato assolutamente
perfetto, ma il punto qui non è la capacità retorica di un leader, bensì la
considerazione manifestata per la propria lingua: credo che, per un francese, già il
50% di inglese significhi una forte apertura verso l’internazionalizzazione.
Probabilmente una simile scelta avrà persino creato malumori in alcuni cittadini
francesi, ma comunque il francese, nel discorso del presidente della Francia, si è
sentito, e il francese ha potuto risuonare nella sala del congresso di Davos; e il
francese è anche una delle lingue nazionali e ufficiali nella Repubblica elvetica.
L’episodio su cui mi sono soffermato spiega che cosa intenda per «politica
linguistica implicita», diversa dalla politica linguistica «esplicita», la quale si attua
invece attraverso annunci e dichiarazioni. La politica linguistica implicita è persino
più efficace di quella esplicita, e si realizza attraverso azioni, come quelle dei tre
modelli che ho descritto. Ci sono dunque tre diverse modalità nel rapporto con la
propria lingua nazionale di fronte a una platea internazionale: l’eliminazione totale,
la conservazione totale, l’equilibrio tra l’una e l’altra soluzione. Rispetto a come
sono andate le cose a Davos nel 2018, sarebbe stato preferibile che l’italiano
ricevesse il trattamento che ha avuto il tedesco, o che ha avuto il francese. Così non è
stato.

La Rete e i social
Uno degli argomenti che più interessa i media italiani, indifferenti al comportamento
linguistico dei loro leader, anzi pronti semmai a deriderli se usano un inglese
scadente, è relativo ai presunti danni prodotti alla lingua dalla Rete e dai social. In
più occasioni mi è capitato di affermare che uno strumento, un canale comunicativo,
di per sé, non produce automaticamente danni. Sono convinto che chi adopera
Twitter per la battaglia elettorale o per la lotta politica corra il rischio di far circolare
slogan e non ragionamenti, con la dimensione del messaggio di 140 battute o anche
del doppio: è comunque una misura troppo misera.
Molti paventano che le faccine, gli emoticon, sostituiscano la lingua. Semmai le
faccine possono servire come uno sberleffo ironico, come un sorriso posto alla fine
di una frase, magari per modificarne il senso. Ci sono linguisti che impiegano gran
tempo per costruire teorie sul cambiamento di funzione comunicativa e sociale
dovuta allo strumento tecnologico. Sono senz’altro studi interessanti, ma mi sembra
che spesso si esageri nella valutazione di qualche cosa che alla fin fine resta pur
sempre soltanto uno strumento, e come tale può essere usato bene o male, può far
crescere l’intelligenza o può far crescere l’idiozia. Allo stesso tempo non posso
credere a chi vede nel testo in Rete la trasformazione in un ipertesto senza confini
completamente destrutturato e posto al servizio di prestabiliti condizionamenti
informatici. Secondo me, anche nella Rete, quasi tutte le regole tradizionali dei testi
a stampa si conservano perfettamente. Ovviamente dipende da quale parte della Rete
si sta usando. Un sito accademico o istituzionale è diverso da un blog.
È vero tuttavia che la percezione di un testo è diversa se si guarda un video o se si
guarda un foglio. Può darsi che nelle generazioni future lo scarto si riduca o si
annulli, però attualmente è facile che sussista. Utilizzo ormai da anni ogni forma di
scrittura informatica, non soltanto attraverso la tastiera, ma ormai anche attraverso la
dettatura automatica. Mi sono reso conto che, in precedenza, molti anni fa, al tempo
della scrittura manuale o della macchina da scrivere, il mio stile era probabilmente
migliore. Ho attribuito ciò alla possibilità offerta dalla scrittura elettronica di
mostrare sempre una pagina ripulita, mentre al tempo della pagina dattiloscritta o
corretta manualmente si era costretti, quando le correzioni si facevano troppo fitte, a
ricopiare il testo; ricopiandolo, non era raro che si riformulassero le frasi, e ciò
portava a un miglioramento, a una maggiore chiarezza, perché ci si staccava dalla
stesura originale.
La scrittura elettronica rende molto più difficile questo distacco dal testo iniziale,
perché si procede attraverso correzioni ripetute, su di una pagina che dà
l’impressione di essere sempre perfetta. Tuttavia i vantaggi della scrittura elettronica
sono tali che nessuno di noi rinuncerebbe alla sua meravigliosa praticità. Un altro
vantaggio del testo elettronico sta nella possibilità di correggerlo una volta che è
stato collocato in Rete. Un tempo si doveva attendere che il libro fosse nuovamente
ristampato dall’editore. Come si vede, in tutti questi casi l’informatica è al servizio
di un continuo miglioramento, e non è soltanto foriera di una frenetica iperattività.
Possiamo dire che non tutto il web è identico; c’è un web che assomiglia alla
tradizione, che spesso l’accoglie e la rivitalizza in forma moderna, e c’è per contro
un web che travolge con la trappola dell’immediatezza.
La crescita di quello che non può essere definito un progresso è evidente in molte
situazioni della Rete. I dialoghi che si svolgono nelle pagine di Facebook, anche in
quella dell’Accademia della Crusca, spesso degenerano: siamo nuovamente di fronte
ai difetti dei social, e non c’è dubbio che quando Mentana ha coniato la parola
webete aveva individuato un bersaglio degno di attenzione. Tuttavia, anche in questo
caso, la colpa non è della Rete. Tuttalpiù, la Rete ci fa sentire più forte la voce di
quelli che pensavano male anche prima. Semplicemente, ora costoro trovano
maggiore spazio per esprimersi. Ciò non accade solo nel web. Anche altri media
usano strategicamente il contatto con il pubblico, sollecitandone la partecipazione.
L’ascolto delle telefonate, che sono tanto in uso nelle trasmissioni radiofoniche per
mantenere una sorta di controllo dell’audience, produce il medesimo effetto di
invadenza e di protagonismo, con una sola differenza: che le telefonate sono
sottoposte a una sorta di filtro preventivo che elimina la percentuale degli esagitati
più pericolosi, mentre la Rete non esercita questo filtro se non in presenza di danni
ormai irreparabili; ma l’operazione di raccolta di voci indistinte è la medesima,
attraverso tutti i canali dei media, vecchi e nuovi che siano.
Dunque smettiamola di dare la colpa agli strumenti tecnologici e alla Rete, che si
limitano a far emergere qualcosa che già c’è, e non rovinano una perfezione che non
esiste. Semmai altri sono gli effetti della Rete sulla lingua: la velocità, la necessità di
essere meno formali, lo scambio intensissimo e continuo che abbassa il controllo sui
testi. Possiamo essere certi che la maggior parte di questi testi non lasceranno traccia
di sé, mentre la carta poteva essere recuperata anche a distanza di secoli. In
compenso, nei tempi brevi e medi, la Rete assicura la conservazione di un’enorme e
pletorica quantità di dati, di immagini ma anche di parole e di voci registrate, a cui si
può attingere con estrema facilità, mettendo il naso negli affari privati, nel modo di
comportarsi, nel modo di ragionare di una grande quantità di persone.
Un recente libro di Mirko Tavosanis, professore dell’Università di Pisa, intitolato
Lingue e intelligenza artificiale (Carocci, Roma, 2018), affronta il tema delle lingue
e dei computer, informando su di una serie di novità che si stanno profilando, dalla
scrittura automatica sotto dettatura, alla capacità delle macchine di interpretare il
linguaggio umano rispondendo agli ordini dell’uomo. Una parte del libro è dedicata
alla traduzione automatica. Mi ha colpito in particolare la possibilità che in futuro le
macchine assumano la funzione di tradurre anche l’immediatezza dell’oralità, fino a
rendere inutile l’inglese come lingua franca. L’argomento è stato trattato da un
linguista americano di nome Nicholas Ostler in un libro uscito a Londra nel 2010,
intitolato The Last Lingua Franca. English until the Return of Babel (Allen Lane,
London, 2010). La traduzione automatica soppianterebbe quindi l’inglese come
lingua universale. Naturalmente bisogna essere molto cauti nel fare queste
previsioni. Opportunamente Tavosanis scrive che le previsioni generali «per quello
che ne sappiamo, eccedono di molto la potenzialità sia dell’intelligenza umana sia di
quella artificiale». Giusta cautela. Tuttavia la possibilità che accada una cosa del
genere ormai va considerata.
Come muore una lingua
La Rete non ucciderà la nostra lingua. Il provincialismo e la sudditanza, le politiche
linguistiche esplicite e implicite contro l’italiano, invece, potrebbero avere effetti
nefasti.
Non è facile stabilire quando muoia una lingua. Anzi, gli studiosi non sono mai
riusciti a mettersi d’accordo per riconoscere in maniera assolutamente univoca
quando avvenga un evento del genere. I libri di linguistica riportano il caso più
celebre di «morte» di una lingua, relativo al dalmatico dell’isola di Veglia, ultima
sopravvivenza di un idioma romanzo che si era ridotto ad avere un solo parlante, un
tale che è diventato celebre per questa sua unicità. Si chiamava Antonio Udina detto
Burbur, il «barbiere», di mestiere scalpellino: «Tuóne Udáina de supranáum Burbur».
Un celebre linguista del tempo, Matteo Bartoli, nel 1906 poté pubblicare un’opera
fondamentale sul dalmatico, avvalendosi proprio delle informazioni che erano venute
da Antonio Udina; ma il 10 giugno 1898 Antonio era morto improvvisamente per lo
scoppio di una mina: l’ultimo parlante del dalmatico dell’isola di Veglia spariva così
tragicamente dalla faccia della terra, rendendo impossibile il proseguimento degli
studi. Antonio Udina era anziano. Pare che Burbur avesse difetti di pronuncia per
mancanza di denti, e per di più conosceva parecchie lingue: all’occhio, anzi
all’orecchio dei linguisti, appariva anche come un informatore di dubbia qualità.
«Informatore» è il termine tecnico che gli specialisti usano per indicare chi fornisce i
dati nelle inchieste dialettali. Udina era un mediocre informatore perché, essendo
l’unico a conservare il patrimonio di una lingua, ma conoscendone diverse, poteva
contaminare quanto ricordava; essendo l’unico, non poteva rinfrescarsi la memoria
parlando con qualcun altro. La sua era ormai una lingua della solitudine, tutta legata
al passato. I linguisti hanno dunque posto il problema: il dalmatico non era forse già
morto prima di Udina? Infatti l’unico parlante di una lingua non è più il parlante di
una lingua viva, perché una lingua esiste soltanto finché esiste comunicazione
all’interno di una società.
Tra i casi in cui si può fornire l’atto di morte di una lingua assieme all’atto di
morte dell’ultimo parlante, si ricorda di solito, seguendo il linguista francese
Vendryes, il «cornico», cioè il celtico della Cornovaglia: l’ultima parlante di questa
lingua, una vecchia domestica, morì il 27 dicembre 1777. Oggi questa notizia è
contestata: in Wikipedia si legge in proposito il seguente commento: «Nonostante un
luogo comune, riportato anche da molte pubblicazioni non dettagliate o non
aggiornate, indichi Dolly Pentreath di Mousehole, morta nel 1777, come l’ultima
parlante madrelingua, pare ormai certo che un limitato numero di parlanti, alcuni dei
quali madrelingua, ma per necessità bilingui con l’inglese, sopravvisse oltre quella
data fino a portare la lingua nel secolo successivo». Il passo è molto buffo, con quel
«pare ormai certo» (o «pare», o «è certo»: difficile la via di mezzo), ma deriva dal
fatto che nel primo Novecento ci fu un recupero artificiale del cornico: è anche
possibile che una lingua venga resuscitata artificialmente per ristabilire un’identità
del gruppo che in essa si vuole riconoscere. È evidente che è meglio non arrivare a
tale punto, perché una lingua in quelle condizioni è un bel gioco, un bel simbolo, ma
ha ben poco di reale.
Può anche capitare che alla morte dell’ultimo parlante ce ne sia ancora qualche
altro che si nasconde, come pretende Wikipedia per il caso di Dolly Pentreath. Del
resto non è condivisa da tutti nemmeno l’idea che una lingua ridotta all’ultimo
parlante sia ancor viva, anche se effettivamente l’ultimo parlante può essere prezioso
a scopo scientifico, perché gli studiosi possono ricorrere all’ultimo sopravvissuto per
registrare le tracce di qualche cosa che successivamente diventerà assolutamente
imprendibile.
Non è un caso dunque che tra gli studiosi vi sia divergenza su come si possa
stabilire il momento della morte di una lingua. Un grande linguista francese, Antoine
Meillet, riteneva che si potesse stabilire la morte di una lingua solo quando il
parlante avesse il sentimento chiaro e cosciente di averla mutata per un’altra. Un
esperto sociolinguista di oggi, Gaetano Berruto, ritiene invece che una lingua muoia
quando non ha più parlanti nativi fluenti. Un altro linguista, l’austriaco Wolfgang U.
Dressler, ritiene che una lingua muoia quando cessa di essere il mezzo comunicativo
di una comunità.
Potremmo anche rovesciare completamente la questione, pensando al fatto che le
lingue romanze, l’italiano con i suoi dialetti, il francese, lo spagnolo, il catalano, il
rumeno, sono in sostanza il frutto dell’eredità del latino, sono una sorta di latino
vivente trasformato, e allora potremmo sostenere la tesi ottimistica secondo la quale
le lingue sono immortali, e a ciò potremmo aggiungere un altro elemento positivo,
cioè la considerazione che nessun parlante, pur provenendo da una lingua che è
morta, resta senza lingua. La comunità passa a un’altra lingua, e trasporta in questa
lingua elementi che gli specialisti definiscono di «sostrato». In questo senso, una
parte più o meno piccola della lingua morta sopravvive sempre nelle lingue vive che
ne proseguono la funzione. Benvenuto Terracini, grande linguista, fondatore della
scuola torinese, ha scritto appunto che morire, per una lingua, vuol dire mutarsi in
un’altra, e ha osservato che la mutevolezza del linguaggio esprime l’infinità di una
forza vitale che sta al di sopra del concetto di morte e perfino di quello di nascita.
Questa visione è di grande fascino. Esprime tutta la forza della lingua come
strumento dell’individuo parlante nella sua interazione con la comunità.
Ancora Benvenuto Terracini osservava che «morire per una lingua, cioè mutarsi,
viene a significare il momento in cui per un determinato gruppo di individui una
forma particolare di cultura si ritira più o meno violentemente di fronte a forme
nuove». Questo concetto della morte di una lingua è il primo, tra quelli elencati, a
inquietarmi davvero, perché purtroppo si applica perfettamente al rifiuto
dell’italiano da parte del ceto dirigente, alla reazione di rigetto che abbiamo descritto
più volte nelle pagine di questo libro. Certamente, per fortuna, il fenomeno è ben
lontano dall’essersi compiuto, ma è altrettanto vero che il ritiro violento di fronte
alle forme nuove che arrivano dal mondo anglosassone si sta manifestando in
maniera drammatica.
La varia casistica della morte delle lingue può dunque percorrere spazi e luoghi
distanti tra loro. Ci sono le morti violente, per esempio la distruzione delle lingue
locali compiute dai colonizzatori. L’America Latina ne è un esempio formidabile. Ci
sono morti lente e pacifiche, che avvengono dopo una lunga coesistenza: basti
pensare all’etrusco e alle lingue preromane di fronte al latino. Ci sono morti che, in
qualche modo, ci fanno pensare proprio alla situazione dell’italiano. Tra quelle su cui
si sofferma Benvenuto Terracini, mi colpisce quanto dice lo studioso relativamente
al gallico di fronte alla penetrazione romana. Nel caso del gallico, non siamo di
fronte a una distruzione che sia avvenuta con una colonizzazione violenta messa in
atto da parte dei Romani, ma assistiamo invece a una rinuncia progressiva alla
propria lingua da parte della classe dirigente gallica, che opta per lo strumento più
prestigioso costituito dal latino degli invasori. A un certo punto Benvenuto Terracini
si sofferma sul fatto che le ultime testimonianze di gallico sono scritture umili, di
povera gente che evidentemente non sapeva il latino e involontariamente dava prova
dell’ultima resistenza di fronte a un’egemonia soverchiante, destinata a far sparire la
cultura locale.
Ci sono casi di morte di grandi lingue, lingue di grande tradizione. Ci sono
esempi di morte di lingue microscopiche, di piccolissime comunità, come quella di
Forno di Lemie nella valle di Viù. Forno di Lemie è una località di montagna non
lontana da Torino, un tempo colonia di minatori valsesiani e bergamaschi, la cui
lingua, giunta da fuori, era diversa dal piemontese locale. Questa lingua isolata e
diversa durò molto tempo, preservata dai borghigiani come un contrassegno della
propria identità. Poi, estinto il mestiere del minatore, sparì anche la lingua, di cui
Terracini poté cogliere le ultime tracce. L’identità è sparita con la lingua che ne
contrassegnava la natura.
Per contro, ci sono casi in cui l’affezione alla propria identità fa resistere a
qualunque evento esterno e a qualunque invasione. Celebre è la resistenza del basco,
una lingua che ancora oggi esiste con tutta la sua forza, anche se si è ritirata entro
confini più ristretti rispetto al passato. Il popolo basco coltiva e difende con ostinata
determinazione la propria identità, fin dal tempo dell’invasione dei Romani. Non è
facile spegnere la lingua di un popolo che crede in se stesso.
La chiave per comprendere la morte delle lingue, laddove naturalmente non sia
stato messo in atto un genocidio violento, con distruzione fisica della popolazione, è
dunque il «prestigio» linguistico. Si tratta di una categoria fondamentale per spiegare
la resistenza di lingue come il basco, che Pier Paolo Pasolini, nel 1975, evocava
come modello da imitare per costruire una forma di resistenza all’omologazione, o
come il burusaki delle valli dell’Himalaya occidentale, una lingua molto rara a cui
Benvenuto Terracini dedica un breve cenno. Per usare ancora una poetica espressione
di Terracini, ci sono lingue che resistono come scogliere flagellate dalle onde
dell’oceano. Ma la forza per resistere l’ha soltanto chi possiede la fiducia in se
stesso, chi crede davvero nella propria tradizione.
Dunque le cause della morte di una lingua possono essere molte, e in qualche
modo si legano inevitabilmente alla storia della comunità e della nazione che la
parla, ma non vi si connettono in maniera meccanica, salvo il caso del genocidio
fisico. Una piccola comunità linguistica può resistere per molto tempo, può opporre
anticorpi all’egemonia di una grande lingua che la domina. Oppure una lingua di
grande tradizione può dissolversi pian piano con il deliberato consenso dei parlanti
che non le riconoscono un prestigio pari a quello della lingua a cui accettano di
approdare. Vi è un nesso complicato che collega in maniera non meccanica la storia
della lingua e le vicende della storia politico-sociale, ma questo nesso è condizionato
da una serie di variabili difficili da pesare scientificamente. È assolutamente
impossibile prevedere lo svolgimento dei fatti, anche se abbiamo individuato precise
linee di tendenza, che possono essere considerate valide. Tuttavia non è costante il
loro modo di tradursi in fattualità. Possiamo certamente riconoscere nella situazione
italiana di oggi, così come l’abbiamo descritta in questo libro, molti elementi che
accentuano il nostro pessimismo, ma non possiamo escludere che le resistenze si
manifestino per qualche improvviso cambiamento della storia, per una imprevista
diminuzione di prestigio del modello o per una sorda resistenza legata anche,
semplicemente, all’inerzia di gran parte della popolazione.
Come andrà a finire la vicenda che abbiamo narrato? Riuscirà l’italiano a
sopravvivere oltre il 2300, per citare nuovamente la data che avevo ricavato da un
superficiale grafico? In che modo agirà l’eventuale ibridazione dell’italiano? Che
effetti produrrà la progressiva perdita di contatto con la tradizione storica e culturale
che per secoli è stata riferimento costante, e che è ormai debole, come dimostra la
scarsa padronanza che hanno i giovani del lessico più colto, delle espressioni
proverbiali e idiomatiche? L’italiano diventerà una lingua diversa, molto diversa da
quella che conosciamo? E se così fosse, non si potrà dire che l’italiano nobilmente
letterario, che è durato in maniera stabile dall’epoca di Dante fino all’inizio del
Novecento, è in sostanza morto? In questo caso, naturalmente, il concetto di morte
coinciderebbe con il concetto di trasformazione, in un continuum graduale, senza
soluzione di continuità.
Come abbiamo detto fin dall’inizio, non siamo profeti e non vogliamo
trasformarci in ciarlatani. La profonda affezione per la nostra lingua ci fa sperare che
l’italiano riesca a essere al tempo stesso nuovo e antico, che non perda il contatto
vitale con il passato, caratterizzato da una tradizione straordinaria, fondamentale per
la cultura europea e mondiale. Noi sogniamo un italiano che mantenga le proprie
posizioni, che riesca a parlare di scienza e di cose moderne, e che al tempo stesso
non dimentichi le parole di Dante. Speriamo che le cose vadano così, e lavoreremo
per questo, pur sapendo che le lingue non sono patrimonio di un singolo, di una
generazione di uomini e di donne, di un’accademia, per quanto antica, perché i
padroni delle lingue sono solo e sempre i popoli che le parlano.
Indice

Introduzione. Dal ponte di comando di una portaerei della cultura

I. Una lingua senza impero


Lingue e imperi
Italiano lingua troppo colta
Un’arte difficile: arrangiarsi senza strumenti normativi
Primi gli spagnoli
La grammatica c’è, ma è nascosta
Lingua impopolare
Ipercultura e varietà
Dialettomania e dialettofobia
Dialetto è una parolaccia
L’azione delle classi dirigenti

II. Dove va l’italiano: un futuro piuttosto buio


Le smanie della globalizzazione
Non siamo soli
Babele, la Bibbia e la pluralità delle lingue
La Francia e la Spagna
Studenti stranieri e internazionalizzazione
Anglicizzazione stupida
Scansare gli anglismi inutili
Anglismi: ma non sono tutti uguali
Italiano lingua corrotta?
Lotta per la lingua: l’italiano in tribunale
La sfiducia nell’italiano
Una frattura che ha provocato molti danni
Guai se la scienza non sa più parlare italiano
L’Università, vero luogo di scontro
Una sentenza «contorta»?
Lingua, scuola, tecnocrati e scienziati
La lingua della didattica
L’Italia non è l’Olanda
L’identità sfocata
Dicembre 2017: una nuova polemica
Il Piemonte non era stato da meno
La Crusca batte, e la ministra risponde
Resistenti e insipienti
I nemici dell’italiano si rivelano
La selezione degli insegnanti: un problema d’inglese?
Attese della gente, ma non del tutto spontanee
Aggressori e aggrediti
L’italiano della chimica e la storia delle cefalosporine
Una sentenza definitiva e un dibattito per radio
Un altro attacco all’italiano: il CLIL con un seguito peggiore

III. Finché c’è lingua c’è speranza


Chi comanda la lingua
Consenso della maggioranza
La lingua è di tutti e di nessuno
La norma è stabilità
Il «non si può» e il «non mi piace»
L’educazione linguistica, più o meno democratica
Ma tanto si capisce lo stesso
Il sentimento della norma
Sciatti, senza lingua, e ultimi in graduatoria
Profeti del nuovo italiano
La lingua del futuro
La morte dell’italiano secondo Pasolini
La morte dell’italiano secondo Calvino
Cambiare rotta

IV. Come la lingua cambia senza tradire il passato


Neologismi: non tutto vien per nuocere
Adattamento e selezione
Parole che vanno e vengono
La vicenda di «petaloso»
Webete e altri
Un italiano giusto: la lingua al guinzaglio
La fine di un mandato: la letteratura che non c’è più
Oralità o scrittura?
Dubbi ed esitazioni nel parlare: incipit e intercalari
Questioni di accento
Maiuscole, secoli, date e numeri
Maiuscole e minuscole
Punti, virgole e apostrofi
L’ordine alfabetico
Articoli e pronomi
Verbi-trappola
Un dubbio costante: «familiare» o «famigliare»?
Sia ... che ...
Le dieci e mezza/o
Cosa o che cosa fare?
Asprissimo
Piuttosto che
«C’ho», basso e dialettale
Un futuro incerto
La posizione delle parole
Lingua, genere, sesso
Sindaca e ministra
Il «maschile non marcato»
All’attacco della morfosintassi
I francesi danno la multa, ma l’Académie non ci sta
Discriminazioni vere e false
Gli irriducibili
La lingua non è algebra
Per (troppo) amor di logica
Il «più acerrimo»
«Scender giù» e «salir su»

Conclusione
Un confronto e un grafico arrischiati
Politica linguistica implicita
La Rete e i social
Come muore una lingua

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