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strada”?
Come mai i politici dichiarano di voler refreshare il Paese se intendono
semplicemente “rivoltarlo come un calzino”?
Chi teme un competitor e cerca un endorsement non potrebbe aver paura di un
“concorrente” o di un “avversario” e aspirare a un “sostegno” o a un “appoggio”?
Questi esempi ci segnalano un’evoluzione preoccupante dell’italiano che negli ultimi
anni si sta logorando non solo per il proliferare degli anglismi ma anche per un grave
peggioramento delle nostre cognizioni linguistiche. Siamo ormai un Paese dove i
fiumi non straripano (una parola perduta!) più, semmai esondano, e i tribunali
emettono “ordinazioni” (sacerdotali?) invece che “ordinanze”.
Come presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini combatte ogni
giorno per difendere la nostra meravigliosa lingua e attrezzarla per le sfide del
futuro. L’italiano, ci ricorda Marazzini, ha una storia diversa da quella dell’inglese o
del francese – nati con gli Stati nazionali – perché è fiorito ben prima che ci fosse
l’Italia: dopo essersi sviluppato nel Medioevo come idioma popolare figlio del
latino, si è arricchito splendidamente con la nostra grande letteratura diventando
così, fra tutte le lingue, la più colta, raffinata e amata all’estero. Vogliamo dunque
ora perdere questo nostro immenso patrimonio di sensibilità e di cultura?
In questo libro Marazzini, compiendo un’analisi rigorosa e approfondita, presenta
una lucida diagnosi dello stato di salute della nostra lingua e pone le basi per
invertire la rotta, appellandosi anche ai politici e alle università, spesso responsabili
della dispersione di parole e significati. Allo stesso tempo, passando in rassegna gli
errori di ogni genere che si stanno insinuando, ci offre l’opportunità di correggerci e
di recuperare le mille e mille sfumature della nostra meravigliosa lingua che forse ci
stanno sfuggendo.
CLAUDIO MARAZZINI (Torino, 1949), linguista, dal maggio 2014 è presidente
dell’Accademia della Crusca. Professore ordinario di Storia della lingua italiana al
Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale
Amedeo Avogadro (Vercelli), ha insegnato nelle Università di Macerata e Udine e ha
tenuto corsi all’Università di Losanna. Autore di molti saggi, libri e articoli su riviste
specializzate, svolge anche attività giornalistica: dal 1990 firma la rubrica di lingua
Parlare e scrivere del settimanale “Famiglia Cristiana”.
Claudio Marazzini
presidente dell’Accademia della Crusca
L’italiano è meraviglioso
Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua
Pubblicato per
eISBN 978-88-58-69323-0
La citazione a pag. I è tratta da Progetto di opere future, in Poesia in forma di rosa di Pier Paolo Pasolini
(Garzanti, Milano, 1964).
www.rizzoli.eu
Le discussioni sulla lingua, in Italia, nel corso dei secoli, sono state sempre vivaci e
infuocate. Il dibattito è cominciato con Dante, nel Duecento, si è impennato nel
Cinquecento, quando davvero è diventato motivo di forte scontro tra gli intellettuali;
ha raggiunto la punta massima nell’Ottocento, in un momento particolare per la
nazione, cioè in coincidenza con la realizzazione dell’unità politica. Non si può dire
che da allora questo dibattito sia cessato, anche se è mutato in parte, perché via via
sono emersi temi nuovi, determinati dal mutare della situazione sociale e politica.
Occuparsi di lingua significa necessariamente fare i conti con queste discussioni, con
quelle del passato che in parte proseguono, con quelle del presente, che sono la
nostra attualità, e anche con quelle che si prospettano nel futuro, perché dobbiamo
prepararci a quanto accadrà, per affrontare un destino di cui già si intravedono i
primi segnali.
Non siamo profeti, ma è facile intuire che la lingua italiana, nel mondo
globalizzato, andrà incontro a una crisi di cui si manifestano ora i primi sintomi
allarmanti, sintomi che spaventano anche altre lingue d’Europa, soprattutto quelle
latine. Abbiamo un grande passato, alle nostre spalle sta una grande cultura che è
cominciata con il Medioevo, si è sviluppata nell’Umanesimo e nel Rinascimento, ma
non siamo altrettanto certi di avere un grande futuro. O almeno, è probabile che per
avere un futuro decente occorra cambiare strada e abbandonare alcuni luoghi comuni
a cui ci si è affezionati in anni recenti.
Occuparsi di cose di lingua significa dunque fare i conti con la storia politica e
civile d’Italia, e non è certamente un modo sereno di baloccarsi con una materia
pacifica, neutra e inerte. Il tema della lingua trascina anzi con sé una bella dose di
passionalità: nelle scelte linguistiche entrano con forza elementi identitari, abitudini,
tradizioni, aspirazioni, campanilismi. Posso garantire che non è sempre facile la
condizione di chi si trova a presiedere l’Accademia della Crusca, la maggiore
istituzione esistente al mondo che si occupi di verificare lo stato della lingua italiana.
Le burrasche non sono rare.
Sembra impossibile che attorno alla lingua possano concentrarsi tante tensioni e
tante polemiche. Eppure è così, anche se nella sede dell’Accademia della Crusca, tra
le antiche mura della cinquecentesca Villa medicea di Castello, si respira
(all’apparenza) un’atmosfera di sicurezza rasserenante. L’Accademia è uno dei
simboli della cultura italiana. È nota in tutto il mondo. Ha sede nel comune di
Firenze, seppure un po’ ai margini, quasi al confine con Sesto Fiorentino.
L’Accademia ha un passato molto fiorentino, fin troppo fiorentino. È nata a Firenze
nel 1583, e lì è sempre rimasta, perché Firenze è la città in cui la lingua italiana è
nata e cresciuta, anche se poi si è fatta sentire l’influenza di altre regioni italiane, e
soprattutto di Roma e di Milano. L’Accademia non poteva essere se non lì: non ha
mai avuto filiazioni periferiche o sedi decentrate. È unica, come il Vaticano per la
Chiesa cattolica.
Il Vaticano sta in un posto solo, a Roma. Non potrebbe essere traslato altrove. La
michelangiolesca cupola di San Pietro, nella mente di noi tutti, si associa al Vaticano
in un’indissolubile immagine mentale. Così la Villa medicea di Castello si associa
alla lingua d’Italia. Siamo alle pendici di Monte Morello, in una posizione
geografica quasi campagnola. La città di Firenze si protende verso Sesto e Prato, con
le propaggini di urbanizzazione moderna, quelle che fanno rimpiangere la sapienza
urbanistica forte e discreta degli antichi fiorentini. Dalle finestre della Crusca si vede
l’aeroporto di Peretola, dedicato al navigatore fiorentino Amerigo Vespucci, il cui
nome di battesimo, che deriva dal germanico Haimirich, fu scelto nel 1507 dal
cartografo tedesco Martin Waldseemüller, su suggerimento di Matthias Ringmann,
per battezzare il nuovo continente scoperto da Colombo. Quello stesso Colombo che
nell’estate 2017 è stato vandalizzato in effigie nel Queens, e decapitato nel parco di
Yonkers, nello Stato di New York. «Cristoforo Colombo vittima di una furia
iconoclasta senza precedenti negli Stati Uniti» scrive l’ANSA in un comunicato del 1°
settembre 2017. Colombo è accusato di genocidio. Come se fosse stato lui a
eliminare gli Indiani d’America, e non avessero colpa alcuna i governi degli Stati
Uniti. Forse negli USA questi radicali anti-italiani dovrebbero rileggersi Alexis de
Tocqueville.
Dal cortile della Crusca, se si presta attenzione, si sentono gli aerei che atterrano
e decollano. Appena oltre il viale che conduce alla villa, corre la linea ferroviaria ad
alta velocità, senza la quale mi sarebbe impossibile svolgere la funzione di
presidente di un’istituzione fiorentina, visto che sono piemontese, abito a Torino, e
per di più sono docente in un’università del Nord Italia. Nella Villa medicea,
percorso il viale di accesso, la periferia urbana si attenua, quasi sparisce. Gli uliveti
che risalgono le pendici di Monte Morello, verso le zone boscose della cima, si
impadroniscono del paesaggio. I membri della famiglia Medici hanno edificato
sapientemente la villa. La usavano per le vacanze, e certamente erano in grado di
scegliere i luoghi migliori. Qualche cosa di quelle delizie ancora sopravvive. Il
giardino è uno dei più famosi al mondo, capostipite del giardino geometrico o
«all’italiana»: basterebbe questo a rendere eccezionale il luogo.
La sede della Crusca è in una delle ville medicee più belle, una delle quattordici
ora promosse al rango di patrimonio dell’umanità. In realtà sono un po’ meno di
quattordici, perché nella lista sono stati inseriti due giardini senza villa, quello di
Boboli e quello di Pratolino. Non dovrebbero esistere ville senza giardini e giardini
senza ville: ma la villa del giardino di Boboli è niente di meno che Palazzo Pitti, che
non aveva bisogno dell’Unesco per diventare celebre in tutto il mondo; quanto alla
Villa di Pratolino, non esiste più, perché fu demolita nel 1822. Quindi la villa della
Crusca è una delle dodici vere ville medicee. Qui è insediata l’Accademia della
Crusca, un’istituzione che a un dipresso corrisponde alle altre grandi accademie
nazionali che si occupano di lingua, come la Real Academia Española (RAE ) di
Madrid, o come l’Académie française di Parigi. Queste accademie hanno non dico un
prestigio, ma certo un ruolo analogo, forse anche superiore, a quello dell’Accademia
della Crusca: la Spagna e la Francia, infatti, hanno demandato a queste loro
istituzioni i compiti di controllo della lingua in maniera ufficiale. Sono poteri che la
Crusca non ha mai ricevuto. Eppure la Crusca è la più antica, è stata anzi il modello a
cui si sono ispirati i fondatori delle istituzioni d’Oltralpe. La RAE nacque nel 1713 a
opera dell’ottavo marchese di Villena, Juan Manuel Fernández Pacheco, grande di
Spagna e cavaliere del Toson d’oro. L’Académie française, più antica ancora, fu
fondata da Richelieu nel 1635. L’Accademia della Crusca nacque e operò ben prima,
dal 1583: nel 1612 aveva già realizzato il primo grande vocabolario della lingua
letteraria, quel vocabolario che i francesi poterono stampare solo nel 1694 (la Crusca
era allora alla terza edizione accresciuta), e gli spagnoli nel 1726, anno del primo
volume del Diccionario de autoridades, attento alla purezza del castigliano, così
come la Crusca era stata attenta alla purezza della lingua toscana.
Tutte e tre queste accademie sono vive e attive, dopo centinaia di anni. La Crusca
è la decana. Benché a differenza delle altre due consorelle non sia investita in forma
ufficiale del potere di controllo della lingua, ha una funzione forte, affidata alla
capacità di convincimento e all’autorevolezza degli studiosi che ne fanno parte. Lo
statuto dell’Accademia della Crusca, al primo articolo, prevede il «compito
essenziale di sostenere la lingua italiana, nel suo valore storico di fondamento
dell’identità nazionale». Quindi l’Accademia della Crusca deve vegliare sul destino
dell’italiano: non può non occuparsene, specialmente quando si profilano pericoli.
Questo libro nasce appunto dall’esperienza del presidente dell’Accademia, giunto al
suo quarto anno di mandato. Ma il libro parla soprattutto del futuro, anche se ogni
tanto uno sguardo indietro nel tempo aiuta a riflettere sulle caratteristiche
dell’italiano, che ha una storia piuttosto particolare, per molti versi differente da
quella delle altre lingue d’Europa.
I
Una lingua senza impero
Lingue e imperi
La storia dell’italiano è singolare, ben diversa da quella delle altre lingue di cultura,
prima di tutto perché la realizzazione della nazione politica, lo «Stato Italia», è
avvenuta molto più tardi rispetto alla stabilizzazione e diffusione della lingua.
Insomma, prima è venuta la lingua, poi è venuta l’Italia. L’idea stessa di Italia
geografica e culturale, se non politica, può essere fatta risalire a un’intuizione di
Dante, nel trattato De vulgari eloquentia, scritto alla fine del Duecento. In Italia, la
cultura e la letteratura hanno in qualche modo aperto la strada all’idea politica di
nazione. Senza la cultura, la nazione non ci sarebbe mai stata. A nessuno sarebbe
venuto in mente di unificare una Penisola così diversa nelle sue varie parti.
Questo svolgersi degli eventi, come dicevamo, è piuttosto differente da quello di
altri Stati, nei quali accadde la cosa più semplice: lì, la storia della lingua è
semplicemente il frutto di conquiste e di espansioni territoriali; la fondazione di un
saldo potere politico ne costituisce la base. In genere, le lingue si espandono e si
impongono proprio seguendo le armi e gli eserciti. Questo procedimento è molto
evidente nel caso del latino, al tempo dell’impero di Roma, ma anche in epoca
moderna, nel caso delle grandi lingue coloniali, per esempio inglese, francese,
portoghese e spagnolo. Tutti questi idiomi furono trasportati nel continente
americano. Senza il colonialismo, l’inglese non sarebbe la prima lingua al mondo per
prestigio e peso numerico, perché questo peso è legato alla forza degli USA , l’ex
colonia, non certo alla Gran Bretagna; senza le armi dei conquistadores, lo spagnolo
non avrebbe 350 milioni di parlanti, o 500 milioni, come afferma ora l’Instituto
Cervantes, l’istituzione pubblica «creada por España en 1991 para promover
universalmente la enseñanza, el estudio y el uso del español y contribuir a la difusión
de las culturas hispánicas en el exterior» (come si legge nel sito dell’Instituto
Cervantes di Madrid).
Nel caso dell’italiano, le cose sono andate in maniera completamente diversa.
Innanzitutto, non c’è stato mai un impero italiano (a parte quello, piuttosto meschino
e assai breve, durato dal 1936 alla fine della guerra mondiale: in tutto meno di dieci
anni, cioè un bel nulla rispetto alla millenaria storia dell’italiano). L’impero legato
alla storia della Penisola fu semmai quello latino, frutto del potere di Roma. Fu cioè
l’impero del padre dell’italiano, ma padre anche delle altre grandi lingue romanze, il
francese, lo spagnolo, il portoghese e il rumeno, che gli devono la loro comune
origine.
L’Italia non ereditò mai il potere romano (lasciamo da parte le caricature
imperiali del fascismo), anche se trasse dal latino preziose linfe vitali, tanto che
l’italiano può sentirsi quasi privilegiato per la somiglianza notevole al latino, per
esempio nel lessico. Se si guarda all’etimologia, le parole di origine latina presenti
nell’italiano sono circa tre volte più numerose di quelle che ci arrivano dal greco,
cinque volte più numerose di quelle che ci arrivano dall’inglese, quattro volte più
numerose di quelle che ci arrivano dal francese. Se poi si considera che molte parole
che ci arrivano dal francese o dall’inglese, a ben vedere, sono a loro volta di origine
latina, come abolizionismo (inglese abolitionism, dal latino aboleo), computer (lat.
computare), aggiornamento (fr. ajournement, lat. ad iurnus), si deve concludere che
la presenza del latino è enorme, anche a prescindere da fenomeni più complessi,
come il residuo di certi neutri o la sopravvivenza sporadica dei casi (che nel
passaggio dal latino alle lingue romanze si sono in genere persi).
Se vogliamo sapere chi (o che cosa) ha fatto diventare grande l’inglese, il
francese o lo spagnolo, non possiamo avere dubbi: dobbiamo riferirci alla storia di
alcune monarchie, alle imprese militari di dinastie reali, alla loro gestione del potere
politico. Dobbiamo elencare guerre e invasioni, spedizioni coloniali, sangue e
vittime. Non è l’esame di una storia pacifica, anzi si può dire che il successo
internazionale di queste grandi lingue gronda violenza. Il paragone con la storia
dell’italiano mostra una situazione piuttosto diversa. Il successo internazionale della
nostra lingua, quando questo successo ci fu davvero, nei secoli passati, si deve
unicamente all’interesse per la nostra cultura. Questo interesse fu precoce, fin dal
Cinquecento, quando tutta l’Europa fece propria la poesia di Petrarca, e quando si
affermò anche il modello novellistico di Boccaccio. Petrarca, con i Rerum vulgarium
fragmenta (il vero titolo del Canzoniere è proprio questo, in latino), e Boccaccio, con
il Decameron (in questo caso il titolo scelto era grecizzante), furono imitati da tutti.
Petrarca e Boccaccio furono letti e imitati anche più di quanto non si leggesse e
imitasse Dante, che era per parte sua troppo originale e irripetibile. Il petrarchismo,
cioè la poesia d’amore alla maniera di Petrarca, e la novellistica alla maniera di
Boccaccio, sono fenomeni europei, non solo italiani.
Poi venne l’Umanesimo, che ebbe in Italia la sua culla, e venne il Rinascimento,
altra svolta culturale tipicamente italiana. Umanesimo e Rinascimento sono entrambi
legati alla riscoperta della cultura classica, al mondo latino ancor più che a quello
greco. Dunque accentuarono lo stretto rapporto di simbiosi con la lingua latina, di cui
abbiamo già parlato riferendoci all’etimologia delle parole presenti ancora oggi, in
maggioranza assoluta, nell’italiano.
Lingua impopolare
Come si vede, qui si era già posto il problema della norma, che tormentò gli scriventi
per secoli, e che ancora oggi assilla a volte gli utenti della lingua: da dove si devono
prendere le regole? Dalla lingua viva di un luogo particolare, la Toscana, Firenze o
Siena, oppure dalle opere degli scrittori? Se si devono prendere dagli scrittori, qual è
l’epoca migliore a cui fare riferimento? Bembo, nel 1525, raffinò molto il metodo
usato da Fortunio. Non gli bastò scegliere i tre scrittori che anche Fortunio aveva
ammirato, ma selezionò ulteriormente il loro apporto alla lingua, per distillare il
meglio: Petrarca fu messo per primo, poi venne Boccaccio per la prosa, ma lasciando
in second’ordine le parti del Decameron in cui aveva introdotto forme colloquiali.
Dante venne per terzo, ma con una selezione ancora più severa, perché in molti casi,
secondo Bembo, aveva scritto male, scivolando nella popolarità. Bembo era un
raffinatissimo intellettuale, un letterato che si ispirava al modello del ciceronianismo
latino. Aborriva sopra ogni altra cosa la popolarità. Il solo contatto con la popolarità
linguistica, a suo parere, poteva guastare la lingua.
Per quanto a noi moderni una simile tesi possa apparire strana e azzardata,
dobbiamo ricordarci che il classicismo italiano ebbe queste idee, e Bembo godette di
un’autorità enorme. Poiché la stabilizzazione normativa e grammaticale dell’italiano
risale a lui, e per molti anni fu ritenuta autorevolissima, non ci dobbiamo stupire se
l’italiano si stabilizzò come una lingua colta e d’élite. Ci piaccia o no, le cose stanno
così. Questa è stata la forza della nostra lingua, ammirata in tutta l’Europa per la sua
carica di raffinata letterarietà. Questa è stata anche la debolezza della nostra lingua,
quando si è dovuta trasformare in una lingua di popolo, perché con il popolo questa
lingua non andava molto d’accordo. Era nata vicino al popolo, nel Medioevo, ma se
ne era allontanata nel corso della stabilizzazione normativa del Cinquecento, proprio
quando se ne erano fissate le regole.
Ipercultura e varietà
Oltre al carattere schiettamente culturale dell’italiano, lingua di poeti e letterati
prima che lingua di popolo, occorre tener conto della varietà linguistica del territorio
italiano. Occorre distinguere tra dialetti e lingue minoritarie. Incominciamo da
queste ultime, e anzi dalle aree in cui vivono alloglotti che non parlano idiomi
romanzi. «Alloglotti» è una parola tecnica, un cultismo costruito sul greco, per
indicare coloro che parlano una «lingua altra». In Italia abbiamo tedescofoni,
slavofoni, grecofoni, albanesi. Tutti costoro non sono di lingua romanza, perché
tedesco, slavo (gli sloveni delle province di Trieste e Gorizia, e i croati del Molise),
greco, albanese non sono lingue derivate dal latino. Sto facendo riferimento alle
cosiddette minoranze storiche, cioè a minoranze molto antiche. Tra queste
minoranze, abbiamo quelle germaniche: non sono soltanto gli abitanti sudtirolesi
della provincia autonoma di Bolzano. Ci sono anche altri tedeschi, seppure in piccolo
numero e da considerare quasi una rarità: per esempio i Walser delle montagne
attorno al Monte Rosa, insediatisi lì fin dal Medioevo. Gli albanesi della minoranza
storica arrivarono, con la loro religione cristiana di rito greco-ortodosso, quando i
turchi conquistarono la loro terra, nel Quattrocento. Le minoranze storiche, cioè
quelle antiche, contano poi i provenzali delle valli piemontesi, i francoprovenzali di
Piemonte e Valle d’Aosta, i catalani di Alghero, i tabarchini di Carloforte in
Sardegna, giunti nel 1738 (portatori di una parlata ligure, discendenti di una
comunità di pescatori di corallo passata attraverso una lunga permanenza in Africa
settentrionale, nell’isola di Tabarca). Anche i friulani e i sardi sono minoranze
riconosciute dalla glottologia e dalla legge.
L’elenco avrà forse stupito chi non si è mai soffermato a riflettere sulla varietà
linguistica italiana. Ma non è finita qui. Alle minoranze storiche vanno aggiunti i
nuovi immigrati, che sono parte della storia recente e recentissima dell’Italia, e che
entreranno con un certo peso nella sua storia futura, come è facile prevedere, anche
come nuovi cittadini, visto che sono più giovani degli italiani, fanno più figli, mentre
la popolazione italiana invecchia ed è ben poco prolifica. La fecondità totale delle
donne italiane è scesa nel 2016 a 1,34 figli per donna (nel 2015 era 1,35), mentre per
le donne straniere il tasso di fecondità media è stato di 1,95 figli.
I nuovi immigrati sono, in ordine decrescente, rumeni, albanesi, marocchini,
cinesi, ucraini, filippini, indiani, di Moldova, del Bangladesh, egiziani, pakistani,
dello Sri Lanka, senegalesi, peruviani, polacchi, tunisini, nigeriani, ecuadoregni,
macedoni, bulgari, ganesi, brasiliani, cosovari, serbi, russi, dominicani, della Costa
d’Avorio, bosniaci, cubani, algerini, turchi, colombiani, croati, del Mali, georgiani,
del Burkina Faso, boliviani, del Gambia, salvadoregni, del Camerun, afgani, iraniani,
e qui mi fermo, perché ho seguito fedelmente la tabella Istat (dati.istat.it, agosto
2017) tenendo conto del numero, partendo da 1.168.552 rumeni, a calare fino ai
10.794 iraniani, e ho deciso di non scendere sotto i 10.000. A seguire, ci sarebbero gli
eritrei, che sono «solo» 9.394. In tutto, gli stranieri elencati nella tabella Istat
ammontano a 5.047.028, calcolati al 1° gennaio 2017. Sono complessivamente (a
prescindere dalla diversa presenza nelle varie Regioni) l’8,3% della popolazione
italiana, la quale, per conto suo, nel corso del 2017 è calata di 86.000 unità.
Il quadro variegato dei nuovi immigrati arricchisce ancora la gamma degli idiomi
parlati sul territorio nazionale. È vero che il numero più alto è quello dei rumeni, che
parlano una lingua romanza, di origine latina esattamente come la nostra, anche se
ricca di elementi slavi. Però è alto il numero di arabofoni e cinesi. Si può osservare
che una differenza sostanziale tra le minoranze antiche e le nuove minoranze sta
nella dispersione attuale, rispetto alla concentrazione del passato, quando si sono
formate intere comunità di greci, o albanesi, o un’intera città catalana (Alghero).
Però in parte questa differenza non vale, o almeno non vale per tutti, perché, almeno
in certi casi, le nuove minoranze sono raggruppate in maniera compatta. Lo sono per
esempio i cinesi a Prato, in Toscana. In quella comunità, può accadere che il cinese
venga usato come lingua predominante anche nella vita sociale e lavorativa, benché
si sia in Italia, non lontano da Firenze, la città natale dell’italiano.
Insomma, tra antiche e nuove minoranze, la situazione linguistica italiana è
davvero babelica. Inoltre non abbiamo ancora completato l’elenco con i francofoni
della Valle d’Aosta, che sono in realtà franco-provenzali, ma usano il francese come
lingua di cultura. Una legge, la n. 482 del 15 dicembre 1999, tutela una piccola serie
di minoranze linguistiche, scelte tra quelle «storiche»: sono menzionate le minoranze
albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate, francesi, franco-provenzali,
friulane, ladine, occitane e sarde (l’elenco così esposto è eterogeneo, ma l’ho ripreso
pari pari dall’art. 2 della legge, che è scritta proprio così). È evidente che si tratta di
un quadro quasi museale, rispetto alla complicata situazione reale dell’Italia di oggi,
come ben sanno gli insegnanti, i quali a volte si trovano classi di allievi per la
maggioranza non nati da famiglie italiane, anzi provenienti da diversi continenti, e a
questi allievi misti devono insegnare la lingua italiana, che è anche il passaggio
necessario per l’integrazione, non solo per l’integrazione nel nostro Paese, ma anche
per evitare che si creino ghetti nazionali in base alla provenienza, chiusi e
impermeabili.
Eppure in anni passati c’è stato chi ha proposto di insegnare l’arabo o il cinese ai
nuovi venuti: si trova sempre qualcuno che propone soluzioni improvvide, purtroppo.
Oggi è più chiaro che solo la lingua italiana può legare gente di origine
assolutamente diversa, che ha deciso di rimanere in Italia per farsi una nuova vita.
Dialettomania e dialettofobia
Oltre alle lingue di minoranza, riconosciute o meno dalla legge, di origine romanza o
non romanza, la varietà italiana si è espressa da secoli nei dialetti. I dialetti sono un
patrimonio straordinario dell’Italia, unico nel suo genere, a tal punto che la parola
«dialetto» è di traduzione quasi impossibile. Gli apparenti corrispondenti in lingua
inglese e francese, dialect e dialecte, hanno un significato diverso. In inglese e in
francese «dialetto» significa una forma particolare della lingua, una sua varietà,
adoperata da un gruppo sociale o in un certo luogo. I francesi usano il termine patois,
che indica una lingua non standard, o anche vernaculaire, che indica il parlato
rispetto allo scritto, caratteristico della lingua nazionale. Il significato della parola
italiana «dialetto», però, è molto diverso. Infatti i dialetti regionali italiani non sono
«varietà» dell’italiano, ma hanno la stessa origine dell’italiano, perché provengono
dal latino. Molti di essi hanno uno standard, una vera tradizione grammaticale e
lessicografica. Spesso lo standard si riferisce all’uso della città capoluogo, che in
certi casi era anche capitale politica e culturale. Nell’area di ogni dialetto esistono
varietà diverse, con un diverso rango sociale e una tradizione differenziata. Inoltre i
dialetti italiani non sono solo «lingua parlata». Sicuramente furono parlati, e molto,
quando in italiano si parlava pochissimo o mai. Però furono anche scritti, talora
prima che si scrivesse in lingua toscana. I primi testi letterari in volgare italiano,
anzi la prima scuola poetica italiana, è quella di Federico II di Svevia, in volgare di
Sicilia, seppure ingentilito e nutrito di modelli poetici provenzali.
L’esempio del siciliano prova che la storia dei dialetti non è esente da legami con
la storia della cultura alta, e anzi non sarebbe possibile raccontare sul serio la storia
della letteratura italiana senza inglobare in essa la vicenda dei dialetti. Essi non
vanno visti, dunque, come i nemici dell’italiano, i concorrenti della nostra lingua, ma
come una parte della tradizione culturale nazionale. Basti pensare ai più ricchi di
letteratura, come il napoletano, il siciliano, il veneziano, il milanese, il romanesco.
Come si potrebbe svolgere un discorso serio sulla letteratura della prima metà
dell’Ottocento senza parlare dei sonetti romaneschi del grande Belli, o senza far
riferimento al milanese del Porta? Belli diede voce al popolino della città dei papi,
Porta diede voce a personaggi popolari della plebe milanese. Come si potrebbe
parlare della narrativa del Seicento se non si nominasse Basile, il letterato che portò
meglio di ogni altro nella letteratura colta le fiabe popolari di magia? E come si
potrebbe parlare del teatro italiano senza menzionare le commedie dialettali di
Goldoni? Si noti che Basile e Goldoni, autori di magnifici testi in dialetto, furono
allo stesso tempo autori in lingua italiana: segno evidente che la scelta dell’uno o
dell’altro codice non era in radicale opposizione, ma dipendeva dal genere, dalla
situazione, dagli obiettivi che gli autori si ponevano di volta in volta. Coloro che
tentano di contrapporre lingua e dialetto come avversari l’un contro l’altro armati
non hanno capito praticamente un bel nulla della letteratura italiana.
Dunque i dialetti possono essere considerati una ricchezza linguistica nazionale e
un segno ulteriore della varietà linguistica italiana, assieme alle lingue di minoranza.
Resta da vedere come mai in molte occasioni la contrapposizione tra lingua e dialetto
sia potuta degenerare in forme di conflittualità.
Incominciamo con le responsabilità dei fautori della lingua nazionale. Per molti
secoli, come abbiamo visto, il possesso della lingua, perlomeno a buoni livelli di
comunicazione, fu riservato alle classi colte, mentre il popolo ne rimaneva
sostanzialmente escluso, o utilizzava varietà ibride, incroci tra lingua e parlata
locale. Quando si diffusero ideali illuministi, e i membri maggiormente progressisti
delle classi elevate ritennero che il popolo dovesse essere portato a vivere in
condizioni migliori, e che l’istruzione fosse il primo passo necessario, allora il
dialetto incominciò a essere guardato con sospetto, come una prigione in cui i
cittadini non istruiti fossero rinchiusi con danno loro e della società intera. Non era
solo una prospettiva italiana, anzi il modello veniva dalla Francia rivoluzionaria.
Per la Francia, si è soliti ricordare l’abbé Grégoire, vescovo costituzionale e
deputato della Convenzione nazionale, grande avversario delle parlate locali francesi.
Grégoire era sicuramente un uomo di idee progressiste e avanzate: era contrario ai
privilegi, avversario della schiavitù (che ancora esisteva), era sostenitore del
suffragio universale: insomma, era un democratico dalle idee molto moderne,
sinceramente avverso alla tirannia, tanto è vero che fu poi profondamente
antinapoleonico, contrario all’impero del Bonaparte. Nel 1807 pubblicò un intervento
in cui sosteneva che la presunta inferiorità razziale dei negri, in quell’epoca ritenuta
un dato di fatto indiscutibile, era fondata su di un pregiudizio, e dipendeva solo dalla
mancanza di istruzione e educazione. Un negro istruito sarebbe stato capace di
rivaleggiare con un bianco. Fra l’altro era contrario alla pena di morte, anche nel
caso della condanna del re Luigi XVI, poi ghigliottinato. Si vede bene che un uomo
del genere, capace di sostenere queste idee, non può essere messo da parte come un
reazionario. Invece i giudizi sull’abbé Grégoire formulati da chi si occupa di lingua
esprimono una condanna totale, perché Grégoire era assolutamente avverso ai patois
locali. Li riteneva un ostacolo alla costruzione della nazione e un impedimento alla
crescita civile e sociale del popolo. Avrebbe voluto operare per far sparire
completamente quelli che gli sembravano «gerghi» adatti solo a ostacolare il
progresso dei lumi. Voleva rendere universale la lingua francese. Proprio le sue idee
illuministe e progressiste avevano come sbocco una forte dialettofobia, facile da
comprendere, se si tiene conto della situazione delle plebi alla fine del Settecento.
Occorre saper storicizzare queste posizioni. Anche in Italia, all’inizio
dell’Ottocento, circolavano idee simili, pur se non tradotte in politica attiva, come
aveva potuto fare Grégoire, che era stato deputato e membro dell’Assemblea
costituente. Pietro Giordani, letterato e intellettuale italiano dell’inizio
dell’Ottocento, quello che può essere considerato il «maestro» e il primo estimatore
di Giacomo Leopardi, di cui fu anche un grande amico, quanto ai dialetti, la pensava
più o meno come l’abbé Grégoire. Anche Giordani era convinto che il dialetto finisse
per perpetuare l’ignoranza della plebe, e lo scrisse in un intervento da letterato quale
egli era, recensendo la raccolta della letteratura dialettale milanese che si era
cominciata a stampare a Milano nel 1816, curata dal lessicografo dialettale
Cherubini. Quella raccolta di opere dialettali, fin dal primo volume, si presentava
come una difesa della vitalità e qualità del dialetto. Contro il Giordani polemizzò il
poeta milanese Carlo Porta, in una serie di poesie satiriche molto aggressive e molto
ben riuscite, che tuttavia, per quanto divertenti, non mutano la valutazione generale
che abbiamo espresso: nel contesto storico, nella situazione che realmente esisteva
tra Settecento e Ottocento, l’ostilità al dialetto non era segno di atteggiamento
reazionario, ma poteva essere frutto di un profondo amore per il progresso.
Ovviamente oggi le cose non stanno allo stesso modo.
Insomma, la disputa, dialetto sì, dialetto no, non è certamente esclusiva della
nostra epoca. Anzi, ai tempi nostri le condizioni sono radicalmente mutate, perché si
tratta semmai di valorizzare il dialetto in un contesto in cui ormai tutti conoscono
l’italiano e lo parlano. Più di metà degli italiani sono ancora in grado di utilizzare il
dialetto in situazioni familiari e parlando con amici, ma sono allo stesso tempo in
grado di passare all’italiano, se sono presenti persone che non conoscono il dialetto
locale. L’uso prevalente dell’italiano in famiglia riguarda il 45% della popolazione
dai sei anni in su, l’uso prevalente del dialetto in famiglia è limitato al 16%, secondo
i dati Istat diffusi nel 2007. L’istruzione obbligatoria, impartita in lingua nazionale,
proprio come avrebbero desiderato Grégoire e Giordani, ha fatto il miracolo: ha reso
i cittadini più uguali, e ha anche permesso che il dialetto potesse essere rivalutato
come una risorsa aggiuntiva da non disprezzare affatto.
Il grande linguista Graziadio Isaia Ascoli sosteneva che conoscere la lingua, e in
aggiunta conoscere il dialetto, è un vantaggio. Sicuramente aveva ragione di pensarla
così. Ma conoscere solo il dialetto, non la lingua, è come stare in una prigione.
La Francia e la Spagna
Come dicevo, di fronte alla dittatura della lingua inglese, la reazione, nelle varie
nazioni, è analoga, ma non identica. Le nazioni di maggior tradizione culturale, di
maggiore compattezza sociale e politica, si difendono in maniera migliore.
Certamente non sono in grado di rovesciare la situazione, ma almeno possono
contare sul consenso di gran parte della popolazione attorno ai valori di cui la lingua
nazionale è portatrice.
L’esempio più interessante è sicuramente quello della Francia, ma non è l’unico.
Certo, la Francia è famosa per l’attenzione prestata alla propria lingua, anche se oggi
si riscontra qualche segno di cedimento. Tuttavia i cedimenti sono minori che da noi:
mi ha colpito per esempio che nello scontro finale di fronte al pubblico televisivo,
nell’ultima campagna elettorale per la nomina del presidente della Repubblica, i due
candidati, Marine Le Pen e Emmanuel Macron, abbiano toccato entrambi il tema
della lingua, brevemente ma con molta intensità, mostrando (loro così divisi su tutto)
di condividere il massimo apprezzamento per la lingua francese. Marine Le Pen è
partita all’attacco accusando Macron di non voler proteggere la lingua francese, e
Macron ha risposto, proprio nell’appello finale agli elettori, esaltando il proprio
amore per il francese, per notre langue qui m’a fait, – come egli ha detto – «la nostra
lingua che mi ha fatto», e ha continuato: «e che mi ha fatto crescere». Trovo che
l’espressione renda benissimo la funzione formatrice di una lingua nazionale in cui si
ripone fiducia. Non ho mai sentito uomini politici italiani, in momenti decisivi della
loro battaglia, trattare in questo modo temi analoghi; non ho mai sentito un uomo
politico italiano parlare della lingua nazionale come del nutrimento costitutivo della
propria identità, come base della propria formazione, anzi della propria natura.
Ogni nazione valorizza la lingua secondo i propri sentimenti collettivi di identità
nazionale, più o meno forti. I francesi sono da questo punto di vista sicuramente più
solidi degli italiani, anche perché la loro storia nazionale è molto più lunga, e da
molto più tempo sono riuniti sotto una stessa bandiera. Nel bene e nel male, la loro
nazione da secoli si muove sul palcoscenico della storia. La nostra nazione lo fa
appena da un secolo e mezzo. La dimensione temporale delle due nazioni non è
dunque paragonabile, la nostra maturità è ancora incompleta.
Ogni Stato, di fronte alla dittatura dell’inglese, tenta di mettere in campo
soluzioni coerenti con la propria storia e con il proprio passato, e cerca di proiettare
l’eredità del passato nel futuro. Per contro, i sostenitori della globalizzazione e della
lingua unica accusano tutti coloro che non la pensano come loro di essere troppo
legati al passato. In sostanza, spesso insinuano che il passato è passato, e che esiste
solo il futuro, ovviamente già prestabilito secondo i piani che essi ritengono vincenti.
Vediamo come si comporta chi invece cerca di sfruttare il proprio passato per
dargli un seguito vitale. Consideriamo per esempio la Spagna: la Spagna, la cui
lingua è il castigliano, non si trova senza difficoltà, benché lo spagnolo-castigliano
sia una lingua con più di 350 milioni di parlanti, cioè una delle lingue più diffuse al
mondo. Sul fronte interno, deve subire però la concorrenza delle lingue delle
comunità locali, in primo luogo del catalano. Il prezzo da pagare all’apertura verso i
localismi non è stato piccolo, per la nazione spagnola. La Spagna non può trascurare
il fatto che lo spagnolo è una lingua con un numero di parlanti abbastanza limitato
nel vecchio continente. Gli abitanti della Spagna sono 46.560.000 (ma con più di 7
milioni di catalani), contro 60.600.000 italiani, 66.900.000 francesi, 82.670.000
tedeschi. Se però si considera la presenza dello spagnolo in America e nel mondo (la
piccola minoranza delle Filippine, la Guinea equatoriale, l’Isola di Pasqua), i numeri
crescono enormemente, fino a 350 milioni di parlanti e forse molto oltre. Lo
spagnolo, grazie all’America (Argentina, Bolivia, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile,
Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay,
Perú, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Uruguay e Venezuela), è una delle grandi
lingue del mondo, assieme all’inglese e al cinese; ma evidentemente la situazione
dello spagnolo è tutta speciale. Fra l’altro, la tendenza al panispanismo proietta la
Spagna al di là dei confini dell’Europa, in qualche modo allontanandola un poco da
obiettivi comuni europei, ai quali potrebbe dare forza. Sul fronte interno, semmai, la
Spagna ha dovuto fare i conti con le spinte autonomistiche di alcune minoranze, in
particolare quella catalana.
Anglicizzazione stupida
In scala, il livello più basso è rappresentato da quella che chiamerò, senza
nascondermi dietro eufemismi di cortesia, l’anglicizzazione stupida, di cui sono
vittima coloro che l’inglese magari manco lo sanno parlicchiare, e probabilmente
non dovranno mai usarlo nella vita per fare cose serie e per raggiungere risultati
importanti.
In questo caso, va precisato, non siamo per fortuna di fronte a un tentativo di
sostituzione totale della lingua nazionale, tentativo di cui parleremo ancora più
avanti in un diverso contesto, ma siamo di fronte all’inserimento più o meno
fastidioso di una gran quantità di parole inglesi o pseudo-inglesi all’interno della
lingua nazionale. Ovviamente questo è il livello più innocuo: non determina
immediatamente grandi danni, anche se veicola l’idea (falsa) di una superiorità
naturale dell’inglese sul nostro idioma, l’inglese che dovrebbe permettere di dire
cose che gli italiani non sanno e non riescono a dire in altro modo.
Incominciamo dunque da questo livello elementare. Ricordiamo prima di tutto
che illustri studiosi della lingua italiana, fin dal Settecento, hanno insistito sul fatto
che i prestiti non sono di per sé un danno, anzi possono essere addirittura un
arricchimento. Perché ci sia un arricchimento, tuttavia, occorre che la parola
forestiera rechi un concetto nuovo, o indichi un oggetto mai visto. Se così non è,
l’arricchimento resta pura illusione. Tra gli arricchimenti che definisco pura
illusione, possiamo ricordare alcuni anglismi stupidi, come step che è diventato
costante per indicare qualunque tipo di progresso di qualunque tipo, o qualunque
obiettivo da raggiungere, qualunque mission, quasi che si procedesse sempre verso
gli obiettivi con il salto della rana, e non con un percorso graduale di avvicinamento.
C’è poi il food, per indicare qualunque tipo di cibo, ora anche nelle variante visual
food per le «creazioni belle da mangiare» e street food, a cui per fortuna l’italiano
«cibo di strada» dà un po’ di filo da torcere. VisualFood. Creare, Stupire, Gustare è
il titolo di un libro uscito nell’ottobre 2014, diventato subito un «best seller tra gli
appassionati di food art», se è vero quanto annunciato da una pubblicità in Rete.
Abbiamo poi la location per indicare qualunque bella posizione di albergo o
ristorante, specialmente nelle descrizioni vergate dai recensori che si dilettano a
compilare le schede di TripAdvisor. Ma non si tratta solo di quelle: già il Gr1 del 2
marzo 2013 parlava della location segreta dei grillini in occasione del loro incontro
in un albergo romano. I grillini attirano neologismi: in un giornale del 2013 ho letto
che vogliono refreshare il Paese, cioè rivoltarlo come un calzino. In politica,
particolarmente sciocchi e frutto di una provinciale imitazione dei sistemi
d’oltreoceano appaiono il competitor, perfetto equivalente di concorrente o
avversario, e l’endorsement, inteso come sostegno o appoggio. Non parliamo della
ricerca tecnologica: a Radio Parlamento del 3 febbraio 2014 veniva presentata una
nuova traversina ferroviaria, concepita secondo «un nuovo concept di traversina».
Perché questi anglismi sono così irritanti? Il progresso non è sempre per step,
come dicevo, e la location uccide una serie di sinonimi della lingua italiana che
potrebbero essere i tradizionali luogo, sito, posizione, posto; per di più, a volte,
location viene usato a vanvera per indicare la suggestione di un locale tipico e
caratteristico: c’è chi parla della location legata alla presenza delle tovaglie a
quadretti nel ristorante, cioè qualche cosa che in Italia indicheremo come atmosfera,
fascino di un locale tipico. Quanto al food, l’unica scusante sta nel fatto che lo si
utilizza spesso per il commercio internazionale, e inoltre in versione ironica, come lo
Slow Food che indica uno stile tutto italiano alternativo al Fast food, e cerca di
spiegarlo agli stranieri. Lo Slow Food di Carlo Petrini trova una buona
giustificazione, ma sicuramente è stupida la moltiplicazione indiscriminata di food
in tutti i contesti estranei all’antitesi con il fast food, specialmente quando l’impiego
dell’anglismo si accompagna alla celebrazione ormai esagerata e quasi mistica del
primato alimentare italiano, che semmai, proprio in quanto italiano, meriterebbe di
essere propagandato in lingua italiana, anche in considerazione del fatto che la parola
italiana più diffusa del mondo è pizza. Ovviamente la cultura americana mangia
tutto: si racconta un aneddoto, non so se vero o inventato, ma certo significativo, a
proposito di quell’italiano che, in visita negli USA , deve rispondere alla seguente
domanda: «Come si chiama in italiano la pizza?». L’americano è insomma convinto
che pizza sia una parola inglese. Annamaria Testa, nel sito «Dillo in italiano», cita
parole come form quando si può dire modulo, jobs act quando si può dire legge sul
lavoro, market share quando si può dire quota di mercato, fashion quando si può dire
moda, e show o performance per spettacolo ed esibizione. Aggiungerei il più recente,
quanto a successo: il sold out, che equivale perfettamente a tutto esaurito.
La sfiducia nell’italiano
Purtroppo non si tratta soltanto di controllare e contrastare l’introduzione di un certo
numero di anglismi più o meno utili. Se il problema fosse soltanto questo, le cose
andrebbero ancora abbastanza bene; ma la partita per l’italiano del futuro non si
gioca in modo così semplice. Ormai il problema è un altro: cioè quello dell’italiano
nel suo complesso, o, per meglio dire, della scarsa fiducia che molti italiani hanno
nella loro lingua, e spesso questi italiani privi di fiducia sono proprio quelli che
hanno più responsabilità della conduzione della vita sociale. Si apre dunque un
capitolo molto difficile e incerto: di fronte al tentativo di una parte
dell’intellighenzia italiana di marginalizzare la lingua nazionale, estromettendola da
una serie di funzioni importanti, e prima di tutto limitandone l’uso nell’Università e
nella cultura. Assistiamo a un paradosso incredibile. Già dobbiamo fare i conti con la
marginalizzazione delle lingue diverse dall’inglese, le quali sono oggi in posizione di
debolezza. Fare i conti realisticamente con questo fatto non significa assecondare le
tendenze che riteniamo pericolose, in quanto inutilmente anticipatrici di processi che
comunque non si sono ancora compiuti. Significa invece, se si opera con buon senso,
raggiungere un sano equilibrio tra le reali necessità del momento e il doveroso sforzo
di mantenere prestigio e funzionalità per la lingua nazionale.
Vedremo tra poco che molte significative vicende che si sono svolte nel 2017
hanno dato, in questo senso, un segnale estremamente negativo, e questo segnale non
è venuto dal basso, ma è venuto dalla classe dirigente, da coloro che ci dovrebbero
guidare con saggezza ed equilibrio. Non dico che tutta la classe dirigente sia
colpevole di queste scelte, ma una parte sì, e ne porterà nel tempo una gravissima
responsabilità. Ogni volta che si solleva la questione, i nemici dell’italiano alzano la
voce, perché ritengono che sia stato perpetrato un attentato
all’internazionalizzazione. È un’interpretazione falsa, contro la quale bisogna avere
il coraggio di lottare a viso aperto. In questa battaglia, occorre prima di tutto aprire
un dialogo costruttivo con gli uomini di scienza. È necessario convincerli che non
devono abbandonare l’italiano.
Alcuni critici della sentenza si sono smarriti prima di intendere la parte finale qui
riportata. Oppure si devono essere arrestati troppo presto, annoiati dal lungo
riepilogo dei fatti. Se i detrattori avessero letto e inteso questa parte della sentenza,
ora non si strapperebbero i capelli per i presunti «vincoli» posti alle scelte
dell’Università italiana, di qui in avanti (secondo loro) «meno libera»
nell’impostazione dei programmi di internazionalizzazione. Si legga bene il passo
riportato dalla sentenza: nessuno impedisce alle Università di attivare i corsi in
inglese, ma la Corte invita a farlo con un po’ di equilibrio e in maniera non
sconsiderata. La Corte non lo dice, ma noi tutti conosciamo bene il rischio, più volte
segnalato nei dibattiti sull’argomento, di corsi in cui l’inglese risulta di fatto molto
più modesto dell’italiano, che sarebbe stato più funzionale se usato in una
comunicazione di qualità, di fronte a un pubblico costituito unicamente da italiani.
Questa sentenza – va detto a chiare lettere – difende la nostra libertà, difende il
diritto di scelta necessario alla libertà didattica, contro un atto di autoritarismo
linguistico messo in atto da qualcuno che della libertà ha un’idea a dir poco curiosa,
perché, mentre toglie agli altri la lingua, si stupisce che facciano qualche resistenza.
La differenza sta in questo: l’imposizione del Politecnico toglieva totalmente il
diritto all’italiano, mentre la sentenza 42 non toglie (come abbiamo letto nel
chiarissimo passo citato) la possibilità di usare l’inglese, ma semplicemente invita
all’uso dell’italiano, quando non sia necessario staccarsi da esso. Giudichi chi legge,
da quale parte stia la più evidente privazione di libertà.
Molte voci si levano per spiegarci che l’inglese è la lingua internazionale della
scienza, ma la sentenza della Corte non richiede che ci addentriamo nell’eventuale
discussione di questo luogo comune, che in questo modo, sostenuto senza
discernimento, sembra più vicino alle rivendicazioni di primato del francese tra
Seicento e Settecento, culminate con gli eccessi della Rivoluzione e dell’Impero, al
tempo delle rivendicazioni di primato mondiale dell’idioma d’Oltralpe. Tralasciamo
anche un altro topos, l’esaltazione del latino nell’Università del Medioevo:
l’Università medievale appare ora come il modello più bello, perché si teneva
lezione in una lingua unica (allora il latino), secondo il pensiero di molti fautori del
progresso, dimentichi che l’Università moderna non discende in maniera diretta (per
fortuna) da quella medievale, e che la sua capacità di creare è andata di pari passo
con lo sviluppo delle lingue nazionali.
Tuttavia la lingua della scienza in quanto tale, considerata di per sé, non c’entra
per nulla con questa sentenza: la Corte, infatti, non ha mai discusso quale sia o debba
essere la lingua della scienza. Non è di sua competenza stabilire una cosa del genere.
La lingua della scienza è quella che gli scienziati e gli studiosi adottano via via. È
affidata a un libero mercato, in cui non mancano tuttavia forti condizionamenti
politici ed economici.
L’identità sfocata
Converrà anche smettere di assumere un atteggiamento di presuntuosa sufficienza
ogni volta che si parla della cura rispettosa della propria lingua perseguita dai
francesi, con attiva partecipazione della loro Académie. Un esame della politica
economica espansiva della Francia, per esempio nel settore della grande
distribuzione, mostra che i francesi se la cavano benissimo a livello internazionale,
anche se guardano alla propria lingua con un sentimento intenso di affetto e fiducia.
E guardare alla propria lingua con affetto e fiducia non vuol dire non imparare
l’inglese. Infatti mediamente i francesi lo parlano meglio degli italiani. Tra le due
cose, amore per la propria lingua e conoscenza delle lingue straniere, non c’è alcuna
contraddizione.
È dunque scandaloso, a parer mio, che qualcuno si sia scandalizzato perché la
Suprema Corte ha messo per iscritto una cosa che dovremmo pensar tutti, e cioè che
per nessuna ragione si può ridurre la lingua italiana «a una posizione marginale e
subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e
dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio
culturale da preservare e valorizzare».
Ha ben ragione Michele Ainis («la Repubblica», 8 marzo 2017, p. 33) quando
ribadisce che l’italiano costituisce un bene culturale in sé, e negarlo significa solo
mostrare apertamente che molti italiani hanno «un’identità debole, sfocata», che la
nostra storia è scandita dal localismo, più che dal nazionalismo. La Corte, parlandoci
di «ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza», cioè invocando il senso della
misura (che nel Paese del massimalismo è stato subito interpretato come ambiguità),
ci ha dato un segnale: può essere l’occasione per un grande percorso che aiuti a
elaborare una politica linguistica moderna, capace di limitare in nome di principi
comuni l’autonomia sconsiderata di atenei travolti non dall’ansia
dell’internazionalizzazione (come vogliono farci credere), ma massacrati e ridotti ai
minimi termini da defatiganti e artificiose gare di concorrenza pseudo-aziendale in
cui si consumano le poche risorse che restano, e che potrebbero essere meglio
impiegate diversamente. Ci serve insomma una politica capace di valorizzare
l’italiano, lingua materna, lingua di avvio, con il plurilinguismo come punto
d’arrivo, ricordando (come ha scritto la scienziata Maria Luisa Villa) che l’inglese,
da solo, non basta.
Non si potrebbe dire meglio. Su questa materia, il MIUR si muove da anni con
incertezza. Mi si perdoni se entro in una materia un po’ tecnica, ma qui il caso lo
richiede. Prima di questo bando 2017, si ebbero il bando PRIN 2015 e il bando PRIN
2012. Come si vede, questi bandi sono intervallati da periodi di silenzio, perché i
finanziamenti alla ricerca dell’Università non vengono erogati tutti gli anni. La serie
PRIN è dunque quella che ho detto: 2012, 2015, e ora 2017. Nel 2012, si richiese una
domanda compilata in lingua italiana e in lingua inglese. In questo modo si affianca
alla lingua nazionale la lingua con la quale il progetto può essere più facilmente
sottoposto al giudizio di studiosi stranieri. Nel 2015 la scelta fu ancora differente: si
lasciò la libertà di adottare l’inglese o l’italiano. Anche questa soluzione è
interessante: affida la scelta alla progettualità di chi presenta la domanda,
salvaguardando gli ambiti in cui un giudice competente deve per forza conoscere la
lingua italiana, come accade per molte discipline umanistiche. Nel 2017 invece,
come abbiamo visto, si è passati integralmente all’inglese.
Resistenti e insipienti
Non scrivo un articolo scientifico in italiano dal... 1993, se non erro. Confesso
che non ne sarei capace, e se anche lo facessi potrei tranquillamente riunire i
colleghi italofoni nel salotto (che, credetemi, è molto piccolo) di casa mia.
L’uso «scientifico» dell’italiano da parte mia e di tanti colleghi si limita ai
progetti del Ministero e poco più, in cui si rende in italiano, faticosamente e
grossolanamente (evitando termini troppo tecnici, che spesso in italiano non
esistono) ciò che già si è pensato e redatto in inglese. Pensavo che questo doppio
lavoro si rendesse necessario al fine di rendere il messaggio comprensibile a
colleghi o tecnici ministeriali che forse hanno poca familiarità con le
pubblicazioni internazionali. Adesso scopro che si tratta invece di difendere un
«patrimonio storico», un «primato», una «tradizione» – il tutto condito da un
abbondante uso dell’aggettivo «nazionale».
Speravo che questo doppio lavoro fosse finito e che l’italiano si potesse relegare
all’ambito informale e quotidiano che gli appartiene. Forse non lo sarà
quest’anno, ma lo sarà a breve.
Forse per molti colleghi di area umanistica l’italiano è davvero necessario; forse
è la loro prima lingua – la mia è una di quelle «cose» senza nome che la Crusca
chiama «dialetti» perché così le chiamano le leggi della Repubblica (in barba a
ogni considerazione scientifica. Ma questa è un’altra storia).
Questa lettera, che fu «postata» nel sito della Crusca nel pieno del dibattito, mostra
un incomprensibile quanto immotivato odio per la lingua nazionale, ma è preziosa,
perché contiene tutte le ragioni per le quali noi ci battiamo contro la
marginalizzazione dell’italiano. Se prevarranno idee del genere, è evidente che
l’italiano non avrà futuro, e non avrà futuro nemmeno la nazione in cui viviamo. Si
dissolverà nei particolarismi, illudendosi di compensare la propria insignificanza
nella globalizzazione.
È evidente che chi non usa mai l’italiano per comunicare la propria scienza, alla
fine non sa più farlo: il racconto di questo professore ne è un esempio da manuale,
così come è da manuale la sua insensibilità per la comunicazione sociale. Costui vive
la sua esperienza solipsistica, e ne gode, chiuso nello spazio ristretto della sua bella
torre d’avorio, comunicando con quelli che soli ritiene i propri pari.
Che cosa accade se la pensano così anche studiosi il cui contributo al sapere
collettivo potrebbe risultare prezioso? È lecito tollerare che costoro si vantino della
propria solitudine? Sordità verso le esigenze degli altri; in fondo, si tratta soprattutto
di questo: non basta a costoro poter scrivere liberamente in inglese, se lo ritengono
opportuno. A costoro interessa, invece, abolire o almeno sminuire l’italiano,
invocando, secondo il caso, l’inglese o il dialetto, disprezzando coloro che dichiarano
di voler far uso della lingua nazionale in cui si sono formati, trattandoli per questo
come retrogradi e sopravvissuti. Questo è il vero scopo di chi, però, la carriera l’ha
fatta in Italia, e ha lo stipendio pagato da contribuenti che, nonostante tutto,
continuano a parlare italiano.
Il nuovo concorso per aspiranti professori nelle scuole secondarie, che verrà
bandito in gennaio [2018] dal Ministero, prevede per tutti i candidati un
colloquio in lingua straniera. Se, come viene anticipato, si richiederà la
conoscenza dell’inglese almeno al livello B2, vale la pena porsi alcune domande.
Primo, fermo restando che l’inglese è la lingua più parlata in Europa, siamo
sicuri che a Milano o a Palermo un insegnante di storia, di italiano, di musica o di
matematica capace di ordinare con scioltezza una birra scura a Soho sia un
insegnante migliore di un altro che nella stessa situazione mostri qualche
impaccio?
Sembrano molto distanti i due mondi, quello della ricerca, di cui prima parlavamo,
con le domande per i finanziamenti del PRIN , e la scuola, con la formazione dei
ragazzi. Eppure, improvvisamente, questi due mondi si collegano, e ciò avviene
proprio durante la polemica che stiamo raccontando. A collegarli, è un intervento
pubblicato il 5 gennaio 2018 sul «Corriere della Sera», a firma di Gianna Fregonara.
La giornalista prende posizione a favore della scelta per l’inglese compiuta dal
ministro dell’Istruzione, e non sembra voler stare tra gli amici dell’italiano, visto ciò
che scrive a proposito delle domande in inglese: «Con realismo questa volta i
“burocrati” hanno ammesso che richiedere la versione italiana è inutile, uno spreco
di tempo. E che, poiché i valutatori non sono solo italiani, avere una versione
“universale” rende il processo di selezione più semplice». L’italiano è dunque una
lingua che nella cultura non serve più a niente.
Lo sappiamo: si tratta di un’opinione ormai non rara. Sappiamo anche che le
opinioni vanno rispettate, il che non vuol dire che non si richieda almeno un po’ di
coerenza nel ragionamento, e qui la coerenza viene meno. Scrive infatti la
giornalista, questa volta manifestando un po’ di tardiva simpatia per le sorti
dell’italiano:
Aggressori e aggrediti
Il giorno 8 gennaio 2018, nel blog di Marco Bella, è comparso un intervento sulla
questione della lingua dei bandi PRIN . Marco Bella è professore di chimica organica,
e ama presentarsi così: «Negli ultimi anni ho vissuto vicino all’Oceano Pacifico di
San Diego, California, il Mar Baltico di Aarhus, Danimarca e il Mare Tirreno di
Anzio». Ha il cuore e la testa per metà in America, come tanti italiani. Il titolo del
suo intervento è molto chiaro: Per una volta il Miur ha ragione. Intende dire che il
Ministero ha fatto bene ad abolire l’italiano.
Vediamo dunque le ragioni per le quali uno scienziato dà ragione al MIUR che
abolisce l’italiano. La prima ragione sta nel fatto che la selezione dei progetti di
ricerca deve essere affidata a revisori stranieri, perché questo permette di limitare i
comportamenti non trasparenti in un ambiente nel quale «bene o male tutti
conoscono tutti». Servono arbitri imparziali, e questi ce li garantisce, secondo lo
scienziato, l’uso della lingua inglese. Marco Bella prosegue spiegandoci che in
chimica, fisica, biologia e medicina le pubblicazioni scientifiche recenti sono
esclusivamente in lingua inglese. Non esiste una rivista scientifica con un minimo di
prestigio la quale accetti articoli in italiano. Ma poi lo scienziato si fa più benevolo:
«Posso capire – ammette – i colleghi di altre aree, come Legge e Lettere, nelle quali
la produzione accademica in italiano è invece rilevante».
Io spero che gli scienziati non ragionino tutti così. L’oggetto del contendere,
giova ricordarlo, era: se il Ministero avesse ragione o torto nell’abolire l’italiano
come lingua ufficiale per le domande di finanziamento.
Ma è poi vero che l’italiano non si usa più nella ricerca universitaria? Proviamo a
consultare i dati ufficiali, che si possono ricavare dalle campagne di valutazione
condotte dall’ANVUR , l’«Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario
e della Ricerca» a cui è affidato il compito di controllare e giudicare il sistema
universitario del nostro Paese. Per la valutazione triennale 2011-2014, ultima svolta
e conclusa, i cui dati sono ormai disponibili, ogni docente universitario della
Repubblica è stato chiamato a presentare una serie di «prodotti» della ricerca.
«Prodotti» è l’espressione poco gradevole che si usa oggi, dopo che è invalso un
linguaggio modellato su quello aziendale. Questi «prodotti» sono in larghissima
parte pubblicazioni, in qualche caso progetti o brevetti, e l’ANVUR li ha anche
classificati in base alla lingua in cui sono scritti. Ogni docente ha dunque inviato una
scelta delle pubblicazioni o «prodotti» che riteneva migliori, allo scopo di essere
giudicato e valutato per quelli.
Una tabella del rapporto finale dell’ANVUR ci fornisce la percentuale di italiano e
inglese, ripartita per aree disciplinari.
Per leggere la tabella, è ovviamente necessario conoscere quali siano le aree
scientifico-disciplinari. Sono le seguenti:
Area 01 - Scienze matematiche e informatiche
Area 02 - Scienze fisiche
Area 03 - Scienze chimiche
Area 04 - Scienze della terra
Area 05 - Scienze biologiche
Area 06 - Scienze mediche
Area 07 - Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 - Architettura (8a) e Ingegneria civile (8b)
Area 09 - Ingegneria industriale e dell’informazione
Area 10 - Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche (11a) e psicologiche (11b)
Area 12 - Scienze giuridiche
Area 13 - Scienze economiche e statistiche
Area 14 - Scienze politiche e sociali
Percentuale di prodotti conferiti per area e lingua del prodotto
quando Vittorio Erspamer e Giulio Natta scrivevano ancora in italiano, oltre e più
spesso che in inglese, non solo su riviste italiane ma anche su riviste
internazionali, lo facevano anche perché, oltre che ai colleghi stranieri, si
rivolgevano anche a chimici e farmacologi impegnati nell’industria nazionale (e
a nessuno sarebbe venuto in mente di considerarli provinciali per questo: anche
Brotzu, prima della «rivoluzione culturale» celebrata da Pepeu, scriveva i suoi
lavori di farmacologia in italiano, ma ciò non gli aveva impedito di ottenere la
laurea honoris causa dell’università di Oxford).
Il riferimento a Brotzu, presente nel passo del libro di Santoni e Russo che abbiamo
citato qui sopra, merita di essere approfondito, perché in Italia è forte la distanza
dalla scienza e dagli scienziati, e ci ricordiamo più di poeti e artisti che di ricercatori
di talento. Quello di Brotzu è un caso di grande interesse: fu il pioniere nella scoperta
delle cefalosporine, utilizzate come antibiotico. Era professore di Igiene
nell’Università di Cagliari, e fin dagli anni ’20 aveva osservato che le salmonelle
convogliate in mare con le acque delle fognature sparivano rapidamente in certi punti
delle acque costiere, ma non dappertutto, bensì solo in certi punti. Continuando le
osservazioni, Brotzu riuscì a isolare nelle acque marine un fungo microscopico del
genere delle cefalosporine, e ne verificò l’azione antibatterica, che utilizzò anche per
cure ai malati. Nel frattempo, però, Brotzu era stato epurato, perché colpevole di
essere stato rettore dell’Università negli anni del fascismo. Brotzu inviò una cultura
del suo fungo a Oxford, a uno dei vincitori del premio Nobel 1945. Alla fine furono
gli americani a raccogliere i risultati commerciali di questa scoperta, e Brotzu si
accontentò di una laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Oxford.
Gli studi di Brotzu sulle cefalosporine erano ovviamente in italiano. Il senso di
questa storia è molto semplice: contano i risultati e le scoperte, e chi scopre cose
importanti le può comunicare anche in italiano. Aggrapparsi all’inglese può essere,
forse, un modo per andare al traino del carro del vincitore, nel momento in cui si è in
piena decadenza.
La norma è stabilità
Vediamo alcune formulazioni del concetto tradizionale di norma diverso da quello
della linguistica moderna. Scorreremo alcune definizioni di norma o regola, così
come furono espresse dai grammatici italiani a partire dal secolo XV. In questo come
in altri casi, le più antiche formulazioni degli autori italiani si collegano a una
tradizione grammaticale più antica, greca e latina. Il peso della tradizione classica
risulta forte: senza di essa, non potremmo nemmeno pensare allo sviluppo di una
normativa autonoma delle lingue moderne, e della nostra in particolare.
Prendiamo dunque la prima grammatica italiana a stampa, quella di Giovan
Francesco Fortunio, del 1516. Fortunio, nella prefazione alla sua grammatica, spiega
come ha fatto a scovare le norme. Non è stato difficile, perché non erano da inventare
ex novo. Le regole, come già si è detto, erano racchiuse negli scrittori: in Dante, in
Petrarca, in Boccaccio. Dunque la regola si presentava prima di tutto come armonia,
come qualità di scrittura. Più che un concetto linguistico, sembra un frutto dell’arte,
e infatti le categorie tradizionali di grammatica e retorica sono ben presenti in una
prospettiva del genere. Da tempi remotissimi si insegnava che la retorica è la diretta
prosecuzione della grammatica.
La grammatica doveva servire a dare stabilità alla lingua. Il più grande
grammatico del Cinquecento, Pietro Bembo, uno dei maestri del classicismo italiano,
in quel capolavoro che sono le Prose della volgar lingua (1525), aveva invitato «a
sentire quanta variazione è oggi nella volgar lingua ..., con la qual noi e gli altri
Italiani parliamo, e quanto è malagevole lo eleggere e trarne quello essempio, col
quale più tosto formar si debbano e fuori mandarne le scritture». Al contrario della
linguistica moderna, dunque, il grammatico antico voleva allontanarsi per quanto
possibile da ogni instabile contaminazione. La regolarità era il suo obiettivo
fondamentale. Si noti che l’aspirazione dei grammatici cinquecenteschi alla
regolarità fu largamente condivisa dal loro pubblico. Lo dimostra il successo degli
strumenti normativi nel Cinquecento e la smania correttoria dei tipografi del
Rinascimento.
In quell’epoca, nessuno aveva interesse a perpetuare la condizione di incertezza
propria della variabilità linguistica del Quattrocento, quando il latinismo aveva
dovuto di necessità supplire alle carenze normative del volgare, in assenza di
strumenti e regole a cui fare riferimento, non essendoci né grammatiche né dizionari
disponibili per la consultazione. Si potrebbe forse chiosare, di fronte a questi sforzi,
che la variabilità è bella soprattutto quando la si è superata. Inoltre agli occhi degli
uomini del Rinascimento ogni discesa o concessione alla popolarità sarebbe stata
reputata un vero crimine contro la lingua.
quanto altri più sa della lingua, ben appresa nelle sue radici, tanto va più ritenuto
in condannare: e a sì fatti uomini non udirete uscir di bocca, se non se il fallo sia
inescusabile, un di que’ NON SI PUÒ , che in altri val quanto: NON MI PIACE ; un
Non è secondo le regole del tal Grammatico, che solo ho studiato; un Non si
confà co’ principj che m’ho fitti in capo, e co’ quali ognuno si de’ regolare: un
Non così scrivono, o parlano, questi, o quegli Accademici, e simili.
Secondo Bartoli, infatti, dal confronto tra i vari principi di autorità sui quali fondare
la norma, cioè il riferimento al latino (potremmo parlare della «ragione
etimologica»), l’uso moderno, l’uso antico, emergeva una mescolanza equilibrata di
ragioni razionalmente giustificabili e di preferenze arbitrarie, cioè «si mescola quasi
per metà la Ragione e l’Arbitrio, e di quella ve ne ha per ciascuna parte del sì e del
no, la sua giusta porzione, e questo, se non vogliam fare d’uomini bestie, si de’
lasciar libero a ciascuno».
Alcuni grammatici italiani, dunque, hanno espresso già secoli fa opinioni critiche
nei confronti di una norma eccessivamente rigida o ispirata a un criterio di
valutazione esclusivo. Tali prese di posizione possono essere utilmente affiancate
alle analoghe affermazioni di autori moderni. Si legga per esempio quanto viene
proposto nell’Introduzione della Grammatica italiana di Serianni e Castelvecchi,
dove si fa riferimento ai fattori di variabilità, ma anche al «portato dei tanti secoli di
storia» che hanno segnato la fisionomia dell’italiano. A questo proposito, viene
proposto l’esempio di «a faccia a faccia» contro il deteriore «faccia a faccia», ma
allo stesso tempo si ammette che, in certi casi, «non è stato possibile individuare una
norma o anche solo orientare il lettore tra diverse possibilità».
Proprio la «variabilità» era stata invocata da coloro che denunciarono, negli anni ’70,
l’inadeguatezza e l’arbitrarietà nell’applicazione tradizionale del concetto di
«norma», soprattutto nella scuola. Si pensi per esempio alle famose Dieci tesi per
l’educazione linguistica democratica, un testo collettivo preparato dai soci del
GISCEL nel 1975, ma largamente ispirate dall’insegnamento del linguista Tullio De
Mauro. Le Dieci tesi esponevano in maniera netta (e anche polemica) i presupposti
teorici e le linee d’intervento dell’educazione linguistica, proponendole
all’attenzione di coloro che ritenevano di lavorare per una scuola «democratica», ciò
che significava appunto mettere in primo piano l’educazione al parlato, l’oralità, la
valorizzazione del repertorio naturale degli studenti. Questo pareva allora lo
strumento fondamentale della nuova pedagogia linguistica, perché
È vero, d’altra parte, che il momento di maggior affrancamento dalla norma, se non
altro nelle formulazioni teoriche e di principio, non si ebbe nell’età dei Lumi, o in
età romantica, e forse nemmeno a seguito dell’ideologia libertaria degli anni ’70 del
Novecento. Il filosofo Benedetto Croce, nella prima metà del secolo XX, teorizzò
l’«impossibilità di una grammatica normativa». Era ammessa la legittimità della
grammatica solo come «raccolta di schemi utili all’apprendimento delle lingue,
senza pretesa alcuna di filosofica verità», mentre era riconosciuta la verità della
storia delle lingue nella loro «realtà vivente». La teoria di Croce, benché molto
ascoltata in Italia, non produsse danni nell’insegnamento, perché la scuola era allora
estremamente rigida e severa, e accoglieva al proprio interno studenti che
provenivano dalle classi agiate e colte. Quindi la distanza dalla grammatica si
tradusse semplicemente in una maggiore libertà degli scriventi rispetto ai modelli.
Contro la posizione crociana si è levato il lamento dei grammatici e linguisti di
oggi. Vi è dunque una perenne dialettica tra l’attenzione all’individuo intento a
manifestare la propria libera espressività, e la norma, la quale esiste, per lo meno
come vincolo sociale, più o meno forte a seconda dei diversi momenti storici. Non si
può certo negare che la libertà del parlante sia reale, ma, là dove interviene la norma
sociale, la libertà totale viene meno, anche se non si esaurisce la possibilità di scelta.
Quindi la norma esiste, ha pieno valore, può essere analizzata in relazione al cambio
linguistico, per frenarlo o per accelerarlo.
C’è un noto Dizionario di pronuncia italiana, acronimo D iPI, di Luciano Canepari
(Zanichelli, Bologna, 1999), eccellente strumento che copre un settore molto
particolare della lingua, quale appunto è la pronuncia. Questo libro interpreta assai
bene il concetto moderno di «norma», inteso come alternativa fra diverse possibilità,
e ci può servire per esemplificare il concetto di norma «mobile»: il D iPI non registra
solamente la pronuncia ritenuta migliore, ma le affianca, quando possibile, la
pronuncia «tradizionale» (quella consigliata un tempo, oggi magari passata di moda),
la pronuncia «accettabile» (meno consigliabile di quella migliore, ma pur sempre
utilizzabile), la pronuncia «tollerata» (ancor meno consigliabile, ma tuttavia non
soggetta a una condanna senza appello), e infine quella «trascurata», davvero da
evitare, in quanto segno di ignoranza. Il D iPI prevede anche la pronuncia
«intenzionale», rara, ma utilizzata da chi vuole esibire la propria raffinata cultura.
Talora ci sono varianti particolari, come motòscafo che, oltre a essere «trascurato»
(cioè una pronuncia che andrebbe assolutamente evitata), è anche proprio
dell’italiano del Canton Ticino. Questo può essere il modo esemplare di affrontare il
problema della norma, anche al di là della questione della pronuncia.
Nessuno oggi può aspirare a un’omogeneità come quella che ingenuamente
qualcuno voleva raggiungere, non molto tempo fa, durante il governo Berlusconi,
attraverso la proposta (poi finita in nulla) di istituire un Consiglio superiore della
lingua italiana con l’autorità di compilare la «grammatica di Stato». Non è detto
però che la diffusione di una norma vada lasciata al caso, o sia affidata al predominio
dei mezzi di comunicazione di massa, o delegata solo a custodi pedanti come i
puristi fanatici, o a custodi occulti, come il correttore grammaticale del programma
di scrittura Word.
Una lunga tradizione italiana ha elaborato regole largamente condivise,
accordando piena fiducia agli scriventi colti, gli scriventi «che contavano». Non è
necessario prescindere da questo principio. Esiste pur sempre un criterio legato al
«prestigio», un criterio che molti di noi applicano nei casi dubbi, confrontandosi non
solo con i suggerimenti delle grammatiche, ma anche con l’uso degli scrittori.
Quest’ultimo è una forza sempre in gioco, come al tempo dei grammatici antichi
dell’italiano, anche se sappiamo che l’uso, il nostro, così come quello degli scrittori
antichi, non sarà mai rigorosamente unitario e univoco. Si tratta di aspirare alla
norma, più che applicare una norma rigida. Sulla definizione del corpus degli
scrittori autorevoli si potrà eventualmente discutere, purché si mettano per sempre da
parte le esagerazioni di don Milani, che nella lingua normata vedeva il marchio della
«ditta», la classe dei padroni di cui era esponente il papà di «Pierino del dottore»,
genìa identificata proprio attraverso l’osservanza delle regole grammaticali, e magari
anche di comportamento, imperdonabili segni di appartenenza. Nessuno
sottoscriverebbe ormai l’affermazione che le «lingue le creano i poveri e poi
seguitano a rinnovarle all’infinito», e i «ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi
non parla come loro». Anche questa è, indubbiamente, una raffigurazione icastica
della «norma», e tuttavia la dinamica linguistica risulta più complessa, anche per le
classi popolari.
IL CAMPIONE E I TEST
Campioni rappresentativi della popolazione di età compresa tra i 16 e i 65 anni
sono stati selezionati in 24 paesi (22 membri dell’OCSE ) e alle persone
campionate è stato sottoposto un questionario per rilevare alcune informazioni di
base (sesso, composizione famigliare, condizione occupazionale, etc.) ed è stato
chiesto loro di partecipare a un test delle competenze linguistiche e matematiche.
Si tratta di test che rilevano, per esempio, la capacità di comprensione di testi
scritti oppure di svolgere operazioni matematiche di varia complessità. Le
domande dei test sono le stesse in tutti i paesi, semplicemente tradotte nella
lingua locale, garantendo così, grazie anche all’armonizzazione delle tecniche di
campionamento, la comparabilità dei risultati.
Per comodità dei lettori, riporterò qui il grafico a cui ha fatto riferimento Pellizzari:
Non è qui la sede per commentare e spiegare questo grafico, o per illustrare i criteri
con cui sono stati raccolti ed elaborati i dati. Quanto ai criteri di elaborazione, devo
dire che non sono stati esaminati nemmeno da coloro che pure hanno commentato in
libri e giornali i risultati negativi dell’inchiesta. Però è palese che gli italiani sono in
ultima posizione, dopo gli spagnoli. La parte scura della barra utilizzata nel grafico
mostra la percentuale dei più sfavoriti; lo spostamento a sinistra rispetto alle altre
barre denuncia la condizione negativa; ma anche le eccellenze, nella parte destra
della colonna, sono in posizione sfavorevole.
Per farla breve, diremo che sono entrate nei criteri di valutazione non soltanto
verifiche sulle capacità di lettura applicate a un testo di tipo tradizionale, ma, in
genere, in maniera più ampia, si è tenuto conto del rapporto con tutto ciò che si
presenta in forma scritta, tenendo conto, per esempio, anche della capacità di trarre
informazioni da una pagina web. È importante soprattutto ricordare che molte
inchieste analoghe riguardano il mondo della scuola, cioè i ragazzi in età scolare,
mentre la caratteristica più importante della ricerca PIAAC 2013 sta nel fatto che
fotografa la situazione degli italiani dall’età scolare fino all’età della pensione.
Questo insomma è veramente il desolante ritratto di una società, la nostra, su cui c’è
molto da riflettere.
le mie previsioni sono queste: ogni lingua si concentrerà attorno a due poli: un
polo di immediata traducibilità nelle altre lingue con cui sarà indispensabile
comunicare, tendente ad avvicinarsi a una sorta di interlingua mondiale ad alto
livello; e un polo in cui si distillerà l’essenza più peculiare e segreta della lingua,
intraducibile per eccellenza, e di cui saranno investiti istituti diversi come l’argot
popolare e la creatività poetica della letteratura.
L’italiano nella sua anima lungamente soffocata, ha tutto quello che ci vuole per
tenere insieme l’uno e l’altro polo: la possibilità d’essere una lingua agile, ricca,
liberamente costruttiva, robustamente centrata sui verbi, dotata d’una varia
gamma di ritmi nella frase. L’antilingua invece esclude sia la comunicazione
intraducibile, sia la profondità espressiva. La situazione sta in questi termini: per
l’italiano trasformarsi in una lingua moderna equivale in larga parte a diventare
veramente se stesso, a realizzare la propria essenza; se invece la spinta verso
l’antilingua non si ferma ma continua a dilagare, l’italiano scomparirà dalla carta
linguistica d’Europa come uno strumento inservibile.
A giudizio di Calvino, dunque, il vero rischio per l’italiano sta in quella che chiama
l’antilingua. In sostanza, il pericolo maggiore è dato dalla pressione del linguaggio
retorico e burocratico, svuotato di significato, avulso dalla realtà e dalla concretezza
delle cose. Per rendere meglio queste affermazioni, dobbiamo tornare all’articolo
precedente, in cui Calvino spiegava il proprio ideale di scrittura:
il mio ideale linguistico è un italiano che sia il più possibile concreto e il più
possibile preciso. Il nemico da battere è la tendenza degli italiani a usare
espressioni astratte e generiche. Per svilupparsi come lingua concreta e precisa
l’italiano avrebbe possibilità che molte altre lingue non hanno. Ma la necrosi che
tende a farne un tessuto verbale in cui non si vede e non si tocca nulla lo sta
cancellando dal numero delle lingue che possono sperare di sopravvivere ai
grandi cataclismi linguistici dei prossimi secoli.
Calvino dunque intuiva che qualche cosa di grave stava succedendo nel rapporto tra
le lingue d’Europa e del mondo. Non a caso usa qui la parola «cataclisma». Anche
Calvino, tuttavia, non riusciva a essere davvero profeta, perché non è possibile
indovinare tutto il futuro. Non intuiva che la crisi sarebbe stata provocata dal potere
debordante e incontrollato dell’inglese.
Cambiare rotta
Non è difficile trarre le conclusioni, dopo tutti gli argomenti che abbiamo svolto. È
facile dire, anzi, con giusto e severo realismo, che la società italiana si caratterizza,
oggi come in passato, per scarsa densità della cultura, scarsa conoscenza della lingua
nazionale a livelli di qualità, faciloneria nell’uso dell’italiano anche nella
comunicazione pubblica (basta ascoltare certi discorsi degli onorevoli in
parlamento); non sono rare forme di approssimazione nell’uso della lingua,
un’approssimazione formale che inevitabilmente si accompagna, e anzi ha per
conseguenza, un’approssimazione nella sostanza.
Dobbiamo prendere atto che è molto grande la distanza tra il sentire della nazione
e la cultura scientifica moderna, anche a causa del disinteresse degli scienziati per la
comunicazione in lingua italiana, e ciò si accompagna inoltre alla perdita della
tradizione umanistica viva nel passato. Coronamento di tutto questo è lo scarso
sentimento della propria identità nazionale, identità che facilmente si disgrega in
particolarismi che fanno riemergere un passato lontano. Oppure ci si orienta verso
modelli radicalmente diversi, che vengono dall’estero, anche perché la disponibilità
totale, spesso acritica, per ciò che è straniero (e apprezzato in quanto tale, senza
ulteriori approfondimenti) si accompagna a una scarsa capacità di considerare le
proprie tradizioni, anche quando sono positive, eccettuato forse il campo del food, in
cui si assiste a un’esaltazione ormai stucchevole del concetto di italianità, del resto
asservito a banali obiettivi commerciali.
In questo quadro si inserisce il problema della lingua. Ovviamente non è che una
piccola parte di un problema più grande di identità nazionale e di alfabetizzazione,
ma la questione linguistica è un segnale importante, forse uno dei canali attraverso i
quali si può cercare di costruire una coscienza nazionale e civile capace di
confrontarsi con i modelli dell’Europa e con i modelli d’oltreoceano, in modo da far
convivere un po’ meglio, nell’età della globalizzazione, il nuovo e l’antico, evitando
di gettare via quello che abbiamo di buono, assieme a quello che abbiamo di meno
buono. Per questo ritengo che la battaglia della lingua e per la lingua sia una
questione di civiltà.
La lingua non è soltanto lo strumento con cui possiamo leggere i nostri scrittori,
cioè quelle fonti di italianità che sono venute molto prima che l’italianità si
trasformasse in un dato politico. Alcuni di questi scrittori sono stati e sono tuttora
ammirati e letti in tutto il mondo, da Dante a Petrarca a Machiavelli a Galileo, per
citarne soltanto pochissimi di primo piano. Non ci serve una classe dirigente che, per
affrontare i problemi dell’Italia, abbia la testa soltanto rivolta verso l’estero. Non ci
serve una classe dirigente malata di inguaribile esterofilia provinciale. Ci serve
qualcuno che sappia guardare all’estero, sì, per imparare, ma che allo stesso tempo
sappia tener conto di ciò che noi siamo e di ciò che abbiamo di buono e di valido.
Occorre ricordare che le lingue straniere non si imparano per davvero, al fine di
un uso importante, se non si parte dalla competenza salda nella propria lingua
materna, e la lingua materna degli italiani è l’italiano. Ovviamente mi riferisco a un
uso ben diverso da quello necessario per dire poche parole per l’acquisto di un
panino o durante un viaggio su di un aereo di una compagnia low cost. La salvezza
non verrà mai dal globish, l’inglese povero e globale che qualcuno immagina come
un toccasana, tanto da sognare la sua imposizione forzosa anche nella didattica
universitaria, la quale invece abbisogna di lingue vere, ricche e complete.
Occorre respingere le tentazioni di coloro che ci fanno sognare un piccolo eden
attraverso il rimpianto di mondi dialettali, utilizzati con il fine recondito e non
dichiarato di gettare le basi per un’eventuale futura secessione, e comunque con
l’idea di disgregare ciò che in questo momento è unito. La formula «inglese più
dialetto», subdola, accarezzata da alcuni nemici dell’italiano, non ci affascina
minimamente, anzi la riteniamo una forma di suicidio, soprattutto nel quadro
dell’Europa di oggi, che dovrebbe per contro coltivare il plurilinguismo come una
risorsa preziosa.
Occorre resistere alle sirene tentatrici che ci fanno credere che non esista più
alcuna norma linguistica davvero stringente, ma che l’unico scopo della
comunicazione sia coltivare l’espressività e la naturalezza. Tale atteggiamento
libertario viene trasportato facilmente nella scrittura della Rete, esaltata come più
vicina al parlato, più spontanea, più immediata, in conclusione, più significativa;
mentre in realtà spesso si tratta solo di spazzatura verbale. Anche nel campo della
lingua, è bene puntare su modelli alti e di qualità. Non è soltanto questione di forma,
ma semmai un modo per avvicinare la forma alla sostanza. Occorre smetterla di
disprezzare l’italiano, di avvilirlo e di metterlo da parte, di contrapporgli
un’internazionalizzazione autolesionista. Occorre smetterla di introdurre leggi e
norme che tendono a ridurre il ruolo della nostra lingua, anche contro le chiarissime
indicazioni della sentenza 42 del 2017 della Corte Costituzionale. Tutto questo
significa cambiare rotta, e cambiare rotta è necessario.
IV
Come la lingua cambia senza tradire il passato
Adattamento e selezione
La crisi dell’italiano che abbiamo descritto nei capitoli precedenti si è accompagnata
a una curiosa crescita di atteggiamenti puristici: quando si protesta contro l’eccesso
di parole inglesi, si trova facilmente, in quel solo caso, il consenso di molti: gente
comune, ma anche intellettuali, giornalisti e scrittori. Non tutti costoro, in altre
situazioni, quando si tratta di difendere per davvero l’italiano dall’emarginazione
(per esempio, nelle questioni di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo di questo
libro), sono altrettanto disposti a darsi da fare. Sembra un paradosso, ma è così.
Classificherei questo atteggiamento come un nuovo genere di purismo, un amore
per la lingua italiana che nasconde una forma rischiosa di conservatorismo. Più o
meno consciamente, costoro mirano a imbalsamare la lingua, ancorandola al suo
passato; ma le lingue, in questo modo, muoiono. Diventano come gli idiomi classici,
il latino e il greco, si staccano dalla realtà contemporanea. La conservazione del
passato può dare soddisfazione, può essere frutto di un certo gusto erudito, ma
sicuramente non porta verso il futuro. Per questo i linguisti sostengono che la
produzione di neologismi è garanzia di vitalità.
Naturalmente, c’è neologismo e neologismo. Ci sono i forestierismi crudi, i
prestiti integrali, sui quali ho già detto tutto quello che penso, là dove ho distinto i
forestierismi stupidi (come step, mission, competitor, maladministration, sold out) e
i forestierismi inevitabili (come wi-fi, che del resto francesi e spagnoli, a differenza
degli italiani, non pronunciano alla maniera inglese). Discriminante tra l’una e l’altra
categoria è la novità effettiva dell’oggetto designato. La novità è particolarmente
evidente per tutto quello che appartiene al campo della tecnologia: chi introduce
un’innovazione tecnica ha il diritto di imporre una parola nuova. Ci sono però le
pseudo-innovazioni, innovazioni finte, verso le quali l’atteggiamento deve essere ben
diverso.
Non tutti i neologismi sono forestierismi. Certo, moltissimi lo sono. Se si
interroga la versione elettronica nel vocabolario Zingarelli 2018, il più aggiornato
dei vocabolari italiani, perché esce ogni anno rivisto e ammodernato, si può
constatare che le parole nuove registrate da questo vocabolario, entrate in italiano a
partire dall’anno 2000, sono in totale 467. Ovviamente la selezione è frutto di una
scelta, ma si tratta di una scelta oculata, e quindi si può dare a questo numero una
certa fiducia. Tra queste 467 voci, ben 228 sono originate dall’inglese o da una sorta
di pseudo-inglese, con combinazioni di inglese e italiano, come nella parola
acquaspinning. Si può dunque concludere che delle circa 500 parole accolte da un
vocabolario italiano come neologismi, a far data dall’anno 2000, una quota quasi pari
al 50% è inglese o risente fortemente dell’influsso dell’inglese. Il dato è
indubbiamente significativo.
Il neologismo spesso ha una radice forestiera, ma per fortuna dà luogo a una
parola italiana, ottenuta mediante suffissazione o adattamento: così taggare o
swappare. In questo caso i linguisti riconoscono che il forestierismo si è piegato
almeno in parte alle regole della lingua ricevente. L’adattamento è visto in genere
come un fatto positivo. Un tempo l’adattamento delle parole forestiere era più forte:
riguardava addirittura i nomi propri e i toponimi, per cui non si diceva New York ma
Nuova York. Oggi l’adattamento dei nomi geografici è molto più limitato, ma in certi
casi resiste, almeno per le parole che sono diventate italiane da molto tempo, per cui
abbiamo Parigi e non Paris, Londra e non London.
I linguisti osservano i neologismi, cercando di individuare il momento in cui le
parole nuove emergono per la prima volta. Non è raro che la prima comparsa di un
neologismo sia nei giornali, nella televisione o sulla Rete. I linguisti che si occupano
di compilare i dizionari, inoltre, devono assumersi la responsabilità di stabilire quali
neologismi abbiano diritto di entrare nel patrimonio della lingua, simbolicamente
rappresentato dal «vocabolario».
Qualche volta i lessicografi vantano il numero di neologismi introdotti nei loro
vocabolari. È soprattutto un espediente di mercato, con cui si cerca di attirare il
pubblico, dando l’idea di un aggiornamento significativo e continuo. In realtà le cose
sono più complicate, perché non tutti i neologismi sono davvero destinati a durare.
Allora la domanda è la seguente: quando un neologismo può essere accolto dal
vocabolario? Chi decide qual è il momento opportuno per la parola opportuna? Un
neologismo può essere accolto solo quando raggiunge una certa stabilità. Unicamente
in quel caso siamo di fronte a una vera parola della lingua. Ma qual è il momento in
cui il cambiamento avviene ed è riconoscibile? L’operazione è delicata. Si basa su di
un presupposto fondamentale di cui abbiamo già discusso: che la proprietà della
lingua appartenga alla società dei parlanti. I parlanti e gli scriventi decidono quando
una parola è destinata a fortuna nel tempo futuro e quando invece è destinata a cadere
e sparire. Non lo decidono riunendosi in un consiglio o mettendo ai voti la decisione;
la decisione nasce spontanea da sé, dall’uso della società, dall’azione combinata di
coloro che parlano e scrivono.
La vicenda di «petaloso»
Bisogna rendersi conto che creare neologismi è un’attività comune nella lingua. Non
riguarda soltanto gli addetti alla scrittura professionale, i giornalisti, i narratori. Si
inventano parole anche nella vita quotidiana, nella lingua comune, nella
conversazione di tutti i giorni. Spesso inventare una parola significa strappare un
sorriso, una risata, riscuotere successo nel circolo degli amici. Significa mostrare la
nostra capacità di invenzione. Questo non ci fa onomaturgi, cioè «creatori di parole»,
ma ci permette di esercitare la nostra vitalità di utenti della lingua materna. In una
lingua straniera il gioco sarebbe più difficile, uscirebbero solo calchi e incroci
involontari, semplice segno di imperizia.
Si è discusso molto di neologia quando si è scatenata la vicenda di petaloso, nel
febbraio 2016. Il bambino di terza elementare di Copparo in provincia di Ferrara
aveva usato petaloso in un tema scolastico, e l’insegnante aveva corretto la parola,
però, al tempo stesso, aveva consigliato al bambino di chiedere all’Accademia della
Crusca se quell’invenzione linguistica non potesse essere in qualche modo
giustificata. Il bambino scrisse, e l’Accademia rispose che petaloso era una parola
costruita in modo accettabile. Vale la pena di riprodurre la lettera della dott.ssa
Maria Cristina Torchia, dell’ufficio di consulenza linguistica della Crusca, colei che
ebbe la ventura di scrivere la risposta:
Caro Matteo,
la parola che hai inventato è una parola ben formata e potrebbe essere usata in
italiano così come sono usate parole formate nello stesso modo.
Tu hai messo insieme petalo + oso > petaloso = pieno di petali, con tanti petali.
Allo stesso modo in italiano ci sono:
pelo + oso > peloso = pieno di peli, con tanti peli
coraggio + oso > coraggioso = pieno di coraggio, con tanto coraggio.
La tua parola è bella e chiara, ma sai come fa una parola a entrare nel
vocabolario? Una parola nuova non entra nel vocabolario quando qualcuno la
inventa, anche se è una parola «bella» e utile. Perché entri in un vocabolario,
infatti, bisogna che la parola nuova non sia conosciuta e usata solo da chi l’ha
inventata, ma che la usino tante persone e che tante persone la capiscano. Se
riuscirai a diffondere la tua parola fra tante persone e tante persone in Italia
cominceranno a dire e a scrivere «Com’è petaloso questo fiore!» o, come
suggerisci tu, «le margherite sono fiori petalosi, mentre i papaveri non sono
molto petalosi», ecco, allora petaloso sarà diventata una parola dell’italiano,
perché gli italiani la conoscono e la usano. A quel punto chi compila i dizionari
inserirà la nuova parola fra le altre e ne spiegherà il significato.
È così che funziona: non sono gli studiosi, quelli che fanno i vocabolari, a
decidere quali parole nuove sono belle o brutte, utili o inutili. Quando una parola
nuova è sulla bocca di tutti (o di tanti), allora lo studioso capisce che quella
parola è diventata una parola come le altre e la mette nel vocabolario.
Spero che questa risposta ti sia stata utile e ti suggerisco ancora una cosa: un bel
libro, intitolato Drilla e scritto da Andrew Clements. Leggilo, magari insieme ai
tuoi compagni e alla maestra: racconta proprio una storia come la tua, la storia di
un bambino che inventa una parola e cerca di farla entrare nel vocabolario.
Grazie per averci scritto.
Un caro saluto a te, ai tuoi compagni e alla tua maestra.
Maria Cristina Torchia
Redazione della Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
Ieri un bambino di otto anni ha scritto insieme alla sua insegnante una lettera
all’Accademia della Crusca. Quel bambino ha coniato una parola, che
l’Accademia dopo una lunga discussione ha ritenuto essere una parola che deve
entrare nel vocabolario italiano. Quella parola è stata anche rilanciata dai social
ed ora è entrata nell’uso della lingua italiana. Ecco, così, direi che anche questo
progetto potrebbe essere definito «petaloso».
Webete e altri
Da allora, dalla vicenda di petaloso, le parole suffissate in -oso vengono proposte in
grande quantità alla Crusca, perché molti sperano di passare alla storia con la loro
invenzione verbale. Va detto che nel sito dell’Accademia esiste uno spazio dedicato
in maniera specifica ai neologismi, e in questo spazio è persino disponibile una
scheda con cui si possono segnalare parole che il pubblico ha incontrato o creato. I
neologismi segnalati dai lettori compaiono poi in una colonna laterale, in cui la
dimensione del carattere è proporzionata al numero di segnalazioni che sono giunte.
In pratica, la dimensione del carattere è già segno di una gerarchia. Nel momento in
cui sto scrivendo questo capitolo, le parole che si possono leggere nella colonna sono
le seguenti: taggare spoilerare gengle chattare shazammare capelloso laggare
morbidoso appetitoso apericena petaloso merendare kebabbaro babbano
cioccolatoso scialla bullizzare shish shippare zipote arcobalenoso boscoloso webete
gentismo puccioso whatsappare obsistenza padelloso pisellabile arcobalenato
callifonia googlare scodinzoloso alpinità biciclare mail di carta ti amoro killare
docciarsi cippettare psicoismo colazionare disiscaldarsi petoso bambinità inzupposo
croccantini forneria.
Nella serie, si riconoscono parole suffissate in -oso, certamente legate alla
fortuna di petaloso, e compare anche petaloso. Nell’elenco, si nota la parola webete,
che ha goduto di notevole celebrità nel 2017. L’invenzione di questo neologismo è
stata attribuita a Mentana, anche se poi in realtà il termine esisteva già in un
significato leggermente diverso. Mentana l’ha adoperato per stigmatizzare individui
aggressivi che scatenano la loro rabbia nel web; il vocabolario Zingarelli 2018, in
questo senso, usa il termine inglese hater, che potremmo tradurre in italiano come
portatore d’odio. Pare che all’origine webete indicasse chi usa la Rete credendo che
consista soltanto nelle risorse del web. In sostanza webete era un individuo
scarsamente competente delle risorse tecnologiche moderne. Come si vede, l’uso di
Mentana è diverso: siamo di fronte a ciò che scientificamente si definisce una
«risemantizzazione». Lo Zingarelli 2018 non ha registrato webete, e l’ha fatto a
ragion veduta, perché registra solo parole che ritiene abbiano acquisito una certa
stabilità. Nell’elenco delle parole accettate, trovo bacaro, brexit, ciclostazione,
coparentale, dronista, flaggare (nel senso di mettere un segno di spunta), post verità,
sviluppismo, oltre naturalmente, a hater (che abbiamo già menzionato). Come si
vede, pochi di questi neologismi sono forestierismi integrali. Molte sono parole
italiane, addirittura c’è una parola che viene dal dialetto, sicuramente antica, come il
bacaro, un tipo di osteria che esiste a Venezia. Come mai bacaro arriva solamente
ora? Arriva soltanto ora, perché la moda popolare del food (come si usa dire oggi, al
posto del banale cibo) ha probabilmente rilanciato un termine tipico della tradizione
regionale italiana. Nel bacaro o bacareto si beve un bicchiere di vino e si assaggiano
cibi tipici, per esempio il baccalà mantecato o il folpeto, un moscardino bollito.
Potremmo chiederci se è stato giusto non inserire webete. Difficile dirlo. Nel
successo reale o mancato di questi neologismi sta l’italiano del futuro, ma il futuro
non è così facile da prevedere. Negli anni ’60 circolarono alcune parole che
assomigliano in qualche modo a webete. Si parlava allora di vidiota e vidiozia, con la
radice di video combinata con idiota e idiozia. Allora lo strumento dominante della
comunicazione era la televisione. Oggi i fenomeni di cretineria collettiva si
collegano alla Rete e al web. Ecco dunque webete. Lo Zingarelli potrà semmai
utilizzare la parola nei prossimi anni, dopo aver verificato che abbia avuto fortuna.
La cautela non è mai un errore.
Questioni di accento
Anche se si usa la lingua nella dimensione dell’oralità, si dovrebbe portare più
rispetto alle regole. Invece si affacciano due malattie croniche della nostra epoca,
due malattie che colpiscono anche l’italiano: domina la passione per la colloquialità,
e ci si illude che la spontaneità sia dotata di pregi senza limiti. Le due premesse sono
esagerate, se non false, ma quasi tutti ci credono ciecamente. Per esempio, perché
non si può cercare di pronunciare le parole con un po’ di cura? Non sto parlando
della buona dizione, cioè dell’apertura e chiusura delle «o» e delle «e», così come si
impara nei corsi per aspiranti attori, o così come la si possiede in maniera naturale se
si è originari dell’Italia centrale. Nessun italiano riesce a liberarsi completamente
delle proprie caratteristiche fonetiche regionali, né è necessario farlo, anche perché il
risultato sarebbe un italiano artificioso e inesistente; non si tratta di abolire i tratti
dell’italiano regionale, ma semmai di attenuarli, contenendoli nel limite del lecito.
Del resto nessuno oggi si avvale di un italiano regionale molto marcato, che invece
in passato si riconosceva persino sulla bocca di certi uomini politici, per esempio
l’onorevole Ciriaco De Mita, segretario dell’allora partito di maggioranza. Non
parliamo di vocali aperte o chiuse, ma della posizione dell’accento tonico. Quante
volte si sente èdile per edìle? Rùbrica per rubrìca? O dèvia invece di devìa, nocciòlo
invece di nòcciolo (nucleo di alcuni frutti), persuàdere invece di persuadère,
leccòrnia invece di leccornìa... Possiamo pensar male del livello culturale di chi
adopera la lingua in questo modo, oppure possiamo ammettere che queste infrazioni
siano un inevitabile progresso, perché investono punti deboli del sistema linguistico
e forse preludono a una trasformazione definitiva. Si può tenere nel debito conto la
seconda ipotesi, molto favorevole a chi sbaglia. Tuttavia, pur con la massima
comprensione per i fratelli che errano, ci si può collocare elegantemente dalla parte
della miglior tradizione, evitando i modi e le forme «popolari». Io consiglio
vivamente di fare così, anche perché è facilissimo verificare la giusta pronuncia.
Basta un vocabolario, basta il DOP (il Dizionario d’ortografia e di pronunzia di
Migliorini, Tagliavini e Fiorelli, edito dalla ERI, la casa editrice della Rai,
liberamente consultabile on line). Eppure si sa: le cose utili e intelligenti della Rete
sono spesso le più trascurate.
Ci sono casi in cui gli accenti sbagliati derivano da snobismo. Càpita anche per i
nomi propri. È rimasto famoso il ministro delle Finanze, i cui antenati certamente si
chiamavano Padoàn, perché si tratta di un «etnico», cioè di un nome veneto che
indica l’origine da un luogo preciso, Padova: padoàn vuol dire «padovano». Ma quel
ministro fece sapere a tutti che il suo nome era Pàdoan. Un caso analogo è quello di
un celebre industriale e della sua ditta, anche questa con nome veneto, Benettòn, cioè
un alterato di Benedetto. Molti lo trasformano in Bénetton, che ha il pregio di
sembrare un nome americano. Del resto, anche la catena francese Carrefour (che
vuol dire «Incrocio di strade»), e che si dovrebbe pronunciare «carfùr», è diventata
«càrfur» sulla bocca di tanti italiani. Ritrarre l’accento è insomma uno sport
nazionale. Ovviamente si tratta di una lettura «all’inglese» di un nome francese.
Anche i nomi propri, infatti, sono investiti dall’anglificazione. A un Gr Parlamento
del febbraio 2013 mi è capitato di ascoltare la pronuncia Iumbolt per il filosofo
tedesco Humboldt.
Ci sono casi in cui l’accento tonico risponde a una precisa ideologia, diventa una
scelta di campo, magari con significato politico. Ciò accade per Cossovo, che può
essere detto Kòssovo o Kossòvo. Quella terra infelice fu teatro di una guerra tra le
due diverse etnie che la abitano, e la diversa pronuncia discende appunto dal diverso
uso delle due parti in causa, la serba e l’albanese. La pronuncia tradizionale in Italia,
prima del conflitto, era quella serba, Kòssovo; ma molti usano oggi la pronuncia
albanese: i più intelligenti lo fanno per mostrare la loro adesione alla parte «debole»,
cioè alle vittime albanesi che patirono l’invasione. Nel caso di un territorio conteso,
la pronuncia può assumere una valenza politica. Io tuttavia, senza entrare in
questioni internazionali, seguo il DOP e preferisco dire Kòssovo, non Kossòvo.
L’errore di accento sui nomi propri è anche una mancanza di rispetto. Ricordo
che al terzo giorno dall’inizio dell’alluvione del Piemonte, nel 1994, alcuni
giornalisti della Rai ancora pronunciavano «Tanàro» per il fiume Tànaro. Non ci
sarebbe voluta molta fatica per essere più precisi. Un tempo, infatti, nelle redazioni il
DOP aveva un posto d’onore.
Va bene mettere l’accento al posto giusto quando si parla, ma poi occorre anche
scriverlo. Ricordiamo che ormai si è saldamente affermato, in perfetto accordo con
la fonetica, l’accento acuto sulle parole come perché, affinché, mentre l’accento è
grave su thè e cioè, perché cioè deriva da «ciò + è», ossia dalla terza persona del
presente indicativo del verbo essere, una «è» che si pronuncia aperta, mentre la
congiunzione «e» si pronuncia chiusa.
L’accento grafico è obbligatorio quando cade sull’ultima sillaba in parole
polisillabiche, per esempio in coccodè, così come in perché e affinché. Ecco perché
l’accento va anche sui numeri composti di tre, anche se tre non ce l’ha. Tre non ha
accento perché è monosillabico, ma ventitré e trentatré sono polisillabi tronchi, e
dunque lo richiedono. Ci sono alcuni casi in cui si adopera l’accento anche sui
monosillabi, ma ciò accade solamente in presenza di dittonghi ascendenti (come
più), o quando c’è rischio di confusione, come accade tra se congiunzione e sé
pronome, o e congiunzione ed è voce del verbo essere. Dal novero delle confusioni
disambiguate dall’accento si è deciso però di escludere l’omografia con le note
musicali: quindi do voce del verbo dare e do nota musicale sono omografi, mentre da
preposizione e dà voce del verbo dare non lo sono, e vengono distinti appunto
dall’accento.
Abbiamo appena citato il caso dell’accento posto su sé pronome per distinguerlo
da se congiunzione, e siamo così arrivati a toccare una questione tra le più curiose
della prassi scrittoria e scolastica italiana, quella per cui si accetta comunemente che
sé porti accento, ma tale accento viene eliminato quando il pronome sta in
compagnia di «stesso» e anche di «medesimo», per cui si ha «tra sé e sé», ma «tra se
stesso», con una curiosa eccezione, che fra l’altro va contro la realtà fonetica. Solo la
forma sé stesso è legittima, dunque di gran lunga preferibile. Alle molte ragioni che
si potrebbero addurre (per esempio, l’inutilità di introdurre un’eccezione grafica),
aggiungiamo una notazione fonetica: il pronome sé, a differenza della congiunzione,
è sempre forte, cioè porta accento. Insomma, in italiano la pronuncia del se di «se
sapessi...» non è uguale a quella del sé di «sé stesso»: nel secondo caso vi è la
presenza di un accento, che va dunque indicato. Come si è diffusa e imposta la regola
scolastica di se stesso senza accento? Questo è uno dei casi più interessanti di
normativa grammaticale imposta dalla prassi dell’insegnamento scolastico. L’effetto
è stato la stabilizzazione di una norma, per quanto errata. Non c’è troppo da
scandalizzarsi. Infatti la normativa della lingua si basa sul sentimento della
maggioranza. La maggioranza è per se stesso, senza accento, come ha insegnato la
scuola (è un circolo vizioso!). Conclusione: continuiamo pure a usare la forma cara
ai più, ma non condanniamo chi ha scelto la forma giusta, per quanto fondata su di un
consenso minoritario.
Abbiamo visto che l’accento sulle «e» e sulle «o» toniche non è casuale, ma deve
essere acuto o grave a seconda della pronuncia reale. In base a tale regola, abbiamo
distinto cioè da perché. Nella scrittura, o meglio nella stampa, ci si potrà forse
sorprendere di fronte a un’oscillazione della grafia dell’accento sulle «i» e sulle «u».
Nella maggior parte dei casi, troveremo scritto più, così, lì. Tuttavia alcuni si sono
appassionati a una tesi in realtà un po’ peregrina, e sostengono che si deve scrivere
piú, cosí, lí. La ragione starebbe nel fatto che quelle «u» e «i» sono chiuse, e dunque
vogliono l’accento acuto, mentre città ha una «a» aperta, che deve portare l’accento
grave. La spiegazione è di lana caprina, perché, qualunque sia l’accento che
metteremo su «i», «u» e «a», non potrà mai condizionare la pronuncia, per il
semplice motivo che è impossibile pronunciare in italiano una «a» aperta o «chiusa»,
o una «i» aperta diversa da una chiusa. La pronuncia di queste vocali è assolutamente
la medesima, sempre. Dunque la distinzione tra accento grave e acuto ha un senso
solo sulle vocali come «e» e «o», che possono essere davvero aperte o chiuse nella
reale pronuncia.
Sarà curioso ricordare che nella prima metà del Novecento ebbe una certa fortuna
il tentativo di abolire la h del verbo avere nelle forme ha, ho, hanno, sostituendola
con un accento: à, ò, ànno. Se si sfoglia un’opera celebre come il Dizionario
Bompiani delle opere e dei personaggi, si vede che lì fu adottata questa soluzione,
che fra l’altro faceva risparmiare molto spazio, abolendo centinaia di lettere h;
l’innovazione grafica però non ebbe fortuna, ed è ormai ignota ai più.
Avete mai sentito dire ìmene per iméne? Già abbiamo visto che ritrarre l’accento
è di moda. Spero tuttavia che nessun medico abbia detto mai «ìmene», pronuncia
priva di qualunque sensata giustificazione. Vediamo però il problema che sta dietro
all’«arretramento», che effettivamente a volte si verifica, come in
ecchimòsi/ecchìmosi. Il doppio accento non ricorre solo nelle parole tecniche, ma
anche nei nomi della Grecia antica, come Odìsseo/Odissèo, Èdipo/Edìpo. La ragione
sta nel fatto che molte parole greche ci sono giunte per tradizione latina, e in latino
l’accento si è adattato alla legge che governa rigidamente la pronuncia della lingua di
Roma (detta la «legge della penultima»: la penultima sillaba porta accento solo se è
lunga; se è breve, l’accento si ritrae; in latino l’accento di una parola polisillabica
non cade mai sull’ultima sillaba). Si tratta dunque di vedere il percorso storico
seguito da ogni parola. Se ci è giunta direttamente dal greco e dunque va pronunciata
«alla greca», o è passata dal latino, e dunque va pronunciata «alla latina», o se è
arrivata da altre lingue: ecchìmosi è alla greca, ma ecchimòsi è alla latina, mediata
dal francese ecchymose. Entrambe le pronunce sono comunque legittime, anche se i
medici credono che sia giusta solo la prima.
Un fenomeno particolare, che solo in certi casi è registrato dalla scrittura, è
quello che gli specialisti chiamano «raddoppiamento fonosintattico». Esso consiste
nel rafforzamento della consonante iniziale di una parola, quando sia preceduta da
alcune altre parole particolari (non da tutte): la grafia lo segnala unicamente quando
c’è «univerbazione», cioè quando due parole si uniscono per formarne una sola. Per
esempio, soprattutto, formato da sopra e da tutto, nell’unione raddoppia la «t» di
tutto. Sopra produce dunque il raddoppiamento fonosintattico, e questo è il motivo
per cui si scrive anche soprammercato, sopravvenuto, e sopralluogo (che con una
sola «l» è sbagliato). Però intravvedere, con due «v», non è corretto, perché intra non
produce tale raddoppiamento, e nessuno ha mai scritto intrammuscolare: dunque non
si deve scrivere intravvedere, come fanno alcuni, convinti di compiere un atto di
eleganza, mentre sbagliano. Ma allora perché esiste intrattenere? Intrattenere non è
composto di intra, ma di in combinato con trattenere, per cui la doppia «t» non è
frutto di fonosintassi dovuta a intra (che non la produce), ma è quella del verbo
trattenere, a sua volta frutto di fonosintassi, perché viene da «tra+tenere». Si noti
però che tra, a differenza di fra, provoca il raddoppiamento solo in trattenere e
derivati.
C’è una tendenza a dimenticare gli accenti e dare la colpa alle tastiere dei PC ,
quando si scrive E’ invece di È, o, peggio, e’ invece di è. Ma le tastiere dei PC che si
vendono in Italia non sono tastiere americane, ma italiane, e hanno gli accenti. È
forse legittimo o comunque accettabile l’uso dell’apostrofo al posto dell’accento? A
mio parere, questa soluzione è sbagliata e fuorviante. Confonde elementi diversi.
Anche la norma che permette l’omissione dell’accento sulle lettere maiuscole non è
propria della lingua italiana, ma semmai del francese, e non c’è ragione per imitarla.
I caratteri maiuscoli, a lettere di scatola o colorati, sono soggetti, a volte, alla
fantasia di grafici che stravolgono gli accenti o li aboliscono, ma si tratta pur sempre
di un abuso non giustificabile. Le tastiere mancano di certe lettere, è vero, ma questo
non giustifica nulla, infatti i buoni programmi di scrittura rimediano: l’ottimo Word,
per esempio, modifica da solo la «è» dopo punto, trasformandola automaticamente in
«È». Lo stesso risultato si ottiene evidenziando la lettera e attivando il tasto F3. Con
il medesimo metodo si ottiene «Ì» da «ì», e si può scrivere SÌ. L’uso di «E’» per «È»
può essere perdonato come peccato veniale solo su certe tastiere estranee alla nostra
lingua, utilizzate in condizioni particolari (assenza di programmi di qualità, PC esteri
a disposizione in un hotel), ma si tratta pur sempre di una soluzione rudimentale, che
fa a pugni con la scrittura corretta dell’italiano.
Abbiamo visto che in italiano l’accento grafico è obbligatorio solo quando cade
sulla sillaba finale. C’è chi consiglia di usare anche per l’italiano gli accenti grafici
alla maniera degli spagnoli, segnalando le sdrucciole. Sarebbe effettivamente una
saggia decisione, almeno nei casi di omografia, tenendo conto del rischio di
equivoco, in riferimento al contesto. Così, per prìncipi/princìpi. Si pensi a una frase
di dubbia interpretazione come: «I principi vanno rispettati». Si parla di principi
morali, o di principi in carne e ossa? La distinzione, affidata al contesto, non è
immediatamente evidente.
Anche il plurale dei nomi in -io, come manubrio e atrio finisce nella questione
degli accenti, seppure quelli non tonici. Infatti questi plurali possono essere scritti in
diversi modi: l’uso comune dell’italiano di oggi preferisce una «-i» semplice, e
allora abbiamo manubri e atri; ma è anche possibile ricorrere a una grafia più
all’antica, e mettere due «i», e allora avremo manubrii e atrii; ma vi è anche una
terza soluzione che consiste nel collocare sulla «i» finale un accento circonflesso:
manubrî, atrî. Diverso il caso in cui si abbia una «i» tonica: leg-gì-o, leg-gì-i. In tal
caso si deve scrivere la doppia «i». In ogni modo, la grafia della doppia «i» nel
plurale dei nomi in -io è sempre lecita, ma ha ormai un sapore arcaico e letterario.
Anche l’accento circonflesso non è oggi usato quasi mai, tanto è vero che molte
persone non ne conoscono nemmeno l’esistenza. A costoro però andrà ricordato che
il testo originale della Costituzione repubblicana del 1948, al titolo «Principî
generali», porta proprio questo accento, che ai padri costituenti, settant’anni fa,
sembrava ancora assolutamente normale. Aggiungerò che una sentenza della Corte
Costituzionale, la 42/2017, fa uso di questa medesima grafia. Si tratta della già più
volte menzionata sentenza relativa all’uso di italiano e inglese nell’Università. In
questa sentenza, la parola principî (plurale di «principio») ricorre ben 10 volte.
Dunque anche in italiano esiste l’accento circonflesso. Tra i plurali, ve ne sono
alcuni che possono stupire. Perché la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde
ha provincie con la «i»? Perché un libro di Oriana Fallaci si intitola Un cappello
pieno di ciliege, senza la «i»? La regola che ci hanno insegnato a scuola, che ci fa
mettere la «i» al plurale se -cia e -gia al singolare sono preceduti da vocale e non da
consonante, è una soluzione ottima, escogitata dai grammatici per risolvere un
problema difficile dell’italiano; ma le grafie citate sono giustificate perfettamente
dall’etimologia, e dunque sono corrette, anche se la regola moderna preferisce in
genere optare per province e ciliegie.
Le parole straniere restano invariabili in italiano anche quando passano al
numero plurale. Non si dice «ho visto i films», ma «i film». La morfologia del
plurale della lingua di provenienza deve essere ignorata. Questo vale per le parole
straniere acclimatate, cioè per i prestiti ormai stabilizzati, e dunque anche per i
termini dell’informatica. È sbagliato e ridicolo scrivere «i computers» o «i files»,
perché le parole inglesi prestate all’italiano, usate al plurale, non richiedono la -s
delle norme grammaticali della lingua d’origine. Questa norma si fa rigida e senza
eccezioni, come dicevamo, quando si tratta di parole molto note.
Se consideriamo che anche le parole latine e greche sono a pieno titolo
forestierismi, allora la regola che abbiamo appena enunciato per le parole inglesi
dovrebbe essere applicata anche ai prestiti giunti dal mondo classico. Però in questo
caso le cose non sono così semplici. Sicuramente alcuni penseranno che i curriculum
in italiano sia scorretto. Costoro non hanno ragione, perché vige la regola che le
parole straniere (quelle più comuni), siano esse inglesi o francesi o latine, restano
invariate al plurale. Proviamo a rispondere usando il nuovo dizionario di De Mauro:
alla voce curriculum ci avverte che questa parola latina è invariabile: dunque, plurale
«i curriculum». Una nota finale marcata G («Grammatica») avverte però: «pl. anche
curricula». Il vocabolario ha fatto bene ad accogliere questo avviso, che tempera la
regola precedente: il plurale curricula è infatti lecito; lo si usa, in particolare, nel
caso in cui la parola sia scritta in corsivo, cioè sia segnalata al lettore come termine
straniero, e non assunto quale elemento della lingua italiana. Come mai la regola
generale del plurale invariabile è venuta meno? Perché il latino ha uno status
speciale, e chi adopera curriculum al plurale rischia di far la figura dell’ignorante,
anche se ha ragione. Il caso non è molto diverso da quello che prima citavamo, per
l’accento eliminato da «se stesso»: a volte chi ha ragione passa dalla parte del torto,
quando la maggioranza è convinta che le cose stiano in altro modo.
La necessità di evitare che queste azioni meccaniche ... possano deformare gli
avvolgimenti danneggiandone l’isolamento, impone particolari cure nella
progettazione della struttura.
Il secondo esempio portato da Bice Mortara Garavelli è dello scrittore Italo Calvino:
Ora io credo che nell’uno come nell’altro caso, la somma di due linguaggi che
non sono interamente veri, non riesce a costituire un linguaggio vero.
L’ordine alfabetico
Molte persone sono in imbarazzo nel momento in cui devono compiere un atto
abbastanza semplice, qual è l’apposizione della firma. Il problema sta nell’ordine:
prima il nome di battesimo, o prima il cognome? Anteporre il cognome, significa
commettere un errore, per eccesso di zelo burocratico. Se si fa così, si produce
l’antilingua di Calvino, di cui abbiamo già parlato. Soltanto negli elenchi il cognome
precede. Altrimenti per primo viene il nome detto di battesimo, che ci identifica
individualmente, e il nome della famiglia segue in seconda o terza o quarta posizione
(dipende da quanti nomi di battesimo abbiamo, e quanti ne usiamo per firmare: ma il
notaio ce li chiederà tutti). Si firma prima con il nome anche nei documenti ufficiali
e nelle sottoscrizioni notarili: mi è capitato di sottoscrivere di fronte al notaio, e l’ho
fatto con nome e cognome, senza che ci fossero obiezioni da parte sua.
Negli elenchi, i cognomi precedono i nomi, per ragioni pratiche, per favorire il
riordinamento alfabetico, come quando si fa l’appello, che è appunto in ordine
alfabetico. L’ordine alfabetico è uno strumento dall’apparenza semplice, di uso
antico, ma sempre prezioso. Serve a mettere in ordine le parole, in maniera sicura e
univoca, nei dizionari così come nelle liste di qualunque genere. Oggi, il
riordinamento alfabetico è una funzione specifica del programma di scrittura, come
Word di Microsoft. Possono esserci a volte alcune incertezze nel trattamento di nomi
con apostrofi, o composti mediante preposizioni. Verrà prima Da Milano o
Damilano? D’Angelo o Dangelo? La scelta dell’uno o dell’altro ordine è
convenzionale. Si può ignorare in tutto o in parte la separazione interna, si possono
dividere i nomi in base alla preposizione (nell’ordine: d’, dal ecc.). Mi pare tuttavia
di gran lunga più pratica la scelta che non ci costringe a conoscere in anticipo come
si scrive il nome che cerchiamo. Sia scritto Damilano o Da Milano, o ancora
D’Amilano, non farà differenza per la nostra ricerca. Tutti questi cognomi, infatti,
saranno ordinati solo in base al nome di battesimo della persona. Questo si chiama
un «ordinamento per lettere», perché guarda alle lettere dell’alfabeto,
indipendentemente dal fatto che si presentino separate da spazi o segni di apostrofo.
Altri criteri si definiscono «per parole», e di fatto risultano più complicati.
Ma il problema vero è oggi un altro: pare che molti italiani non conoscano più
l’ordine alfabetico. Abituati ormai alla consultazione di Internet e all’uso dei
telefonini, non sono più in grado di muoversi da soli nella serie delle lettere italiane,
oppure credono che la serie italiana sia identica alla serie inglese, che invece ha più
lettere. Chi non conosce l’ordine dell’alfabeto italiano, se ne renda conto o no, si
troverà prima o poi in condizione di grande imbarazzo, e sarà costretto a cercare
l’alfabeto digitando la ricerca «alfabeto italiano» in Google.
Articoli e pronomi
Sembra che l’articolo sia una parte elementare della lingua, ma poi ci si trova incerti
nella scelta tra «i pneumatici» e «gli pneumatici». E poi, perché diciamo il dio, ma
gli dei? Tutto ciò accade perché la lingua spesso si trascina dietro il suo passato, e
nella forma attuale rimane il ricordo di una più antica. Nel toscano medievale il
plurale dei non era affatto comune, anche perché lo si poteva confondere con dei
seconda persona singolare del presente del verbo dovere (moderno e prosastico
«devi»). Il plurale usuale era dunque Iddei, o Iddii, con articolo gli, regolare prima di
vocale. Questo articolo finì per accompagnare anche le forme brevi dii e dei. Alcune
attestazioni di i dei o i dii, tuttavia, si rintracciano anche nella letteratura, da
Boccaccio a Boiardo a Vittoria Colonna, e giù giù fino a Leopardi; ma si tratta di
testimonianze isolate, e in genere di autori non toscani. Fin dal Cinquecento, invece,
la linea maestra della lingua letteraria italiana fissò stabilmente la combinazione gli
dei, la quale è ancora solidissima nell’italiano del nostro tempo, in barba alle regole
dei grammatici, anzi a riprova che la regola non vince contro l’uso.
Il trattamento dei nomi di parentela (i linguisti, con un grecismo, li definiscono
singenionimi) sta a sé, per quanto riguarda l’uso dell’articolo. Non si dice forse «Mio
padre mi ha detto...», e anche «Mio zio mi ha scritto...», senza articolo? E allora
perché si dice «La mia mamma mi ha detto»? Ecco la spiegazione: l’articolo, a
norma di grammatica, è richiesto dalle «varianti affettive», come i diminutivi o gli
alterati in genere: «la mia mammina», «il mio figliolino». Babbo, papà e mamma
valgono come forme affettive, e dunque si comportano come diminutivi. Ciò,
almeno, a norma di grammatica e nell’uso toscano, perché in realtà, in gran parte
dell’Italia settentrionale, sono saldamente affermate le forme senza articolo: «mia
mamma mi ha detto» e «mio papà mi ha detto». Non voglio difendere queste forme
locali, ma è evidente che ha un certo peso la variabilità della lingua d’uso, detta
variabilità diatopica quando le forme cambiano da luogo a luogo.
Un tempo, se a scuola si scriveva «Manzoni» al posto de «il Manzoni», si
rischiava un rimprovero, per quanto immotivato: si usava imporre l’articolo al
cognome, nel caso di persone celebri. Quell’articolo prima del cognome, un tempo
era prescritto. Oggi molti ritengono che la scrittura moderna debba fare a meno di
quell’articolo, che tende a creare un maggior effetto di distacco. Le cose si sono
complicate da quando i sostenitori e le sostenitrici della «scrittura antisessista» si
sono accorte che l’articolo si usa sempre per i cognomi di donne: per cui capita di
leggere «Mattarella è stato eletto presidente della Repubblica», ma «la Boldrini è
stata eletta presidente della Camera dei deputati». Questa asimmetria è stata
giudicata una discriminazione, anche se è preziosa, perché ci fa capire chi sia uomo e
chi sia donna. E allora non sarebbe una buona idea se tornassimo all’articolo anche
nel caso del maschile, per tacitare le richieste della scrittura antisessista?
Già le prime grammatiche italiane (secc. XV-XVI) raccomandavano lo davanti a
vocale e davanti a s più consonante (anche se il margine di oscillazione concesso era
maggiore di quello di oggi). Solo alla fine del secolo XVI si ebbe la prima
indicazione relativa alle parole inizianti per z, ma la norma codificata dal linguista
toscano Benedetto Buommattei fu il al singolare / gli al plurale: il zoppo, gli zoppi.
Solo nel Settecento fu teorizzato il tipo lo zoppo singolare, contro il parere di molti.
Non a caso Leopardi preferiva ancora il zappatore, non in quanto poetico, come si
potrebbe credere, ma in quanto più grammaticale, o meglio, più fedele alla tradizione
classica. Ancora più tardi i grammatici affrontarono la questione dell’articolo
davanti a semivocale, a ps, pn, gn, x (che vale come cs). Oggi si suole dire che lo si
adopera davanti a gruppi consonantici anomali, di origine forestiera, per esempio
greca (come lo ftalato, che è, per dir così, un franco-grecismo, con lo stesso etimo di
naftalina, da naphtaline, a sua volta da naphte «nafta», greco nàphtha «bitume»).
Inoltre l’uso contraddice spesso le regole, e ne anticipa di nuove: oggi, per esempio,
si è affermata la forma il pneumatico, i pneumatici, contro lo pneumatico e gli
pneumatici.
Nella terza persona singolare delle forme atone, l’uso sta intaccando la
distinzione fra maschile e femminile nel caso obliquo «gli/le dico» del parlato
informale, con impiego erroneo del maschile per il femminile. Si registra
un’espansione di «gli» anche a danno del caso obliquo plurale, «gli dico» = «dico a
loro», persino nel parlato formale. Nel caso di gli per a lei, dativo femminile,
dobbiamo ammettere che non si tratta di oscillazione recente: ne esistono esempi
antichi, di Boccaccio, Machiavelli, Carducci, Verga, e anche esempi di autori del
Novecento come Soffici, Moravia, Bianciardi, Castellaneta... Mentre, in certi casi,
gli per loro (anch’esso antico e ben attestato nella tradizione italiana) può essere
accettato, bisogna respingere sempre, anche nel parlato colloquiale, gli per a lei. La
Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi-Salvi (il Mulino, Bologna,
1988-1995, vol. I, p. 537) si limita a registrare il fenomeno: «Nella lingua parlata
spontanea si usa spesso la forma maschile sing. gli del pronome dativo al posto del
femminile le». Carducci difendeva con una certa veemenza l’uso di gli per a lei,
come popolare in tutta l’Italia, Toscana compresa. Il filologo Arlìa riconosceva
giusta la regola che condannava gli per a lei, aggiungendo però: «ma come esempii
che le fanno eccezione non mancano, e come nell’uso familiare si adopera
spessissimo contro il divieto grammaticale; così è lecito, chi sappia farlo
acconciamente, ma sempre in iscrittura familiare, derogare al soverchio rigore de’
grammatici».
Si pensi a una frase come «Non rubiamogli l’infanzia», adatta per un titolo
giornalistico sui diritti dei bambini. Questo titolo è comparso su di un noto
settimanale di qualche anno fa. Certo, quel «gli» non era e non è perfettamente
adeguato alle norme di grammatica. Immaginiamo un’alternativa: «Non rubiamo
loro (o ad essi) l’infanzia». Si ammetterà che questa forma, più grammaticale,
risuona al tempo stesso più aulica, forse troppo aulica, meno adatta a un messaggio
immediato, spontaneo, convincente, alla mano, «parlato». Oggi domina appunto la
moda dello stile colloquiale. Un tempo si suonavano trombe e tamburi retorici. Oggi
la retorica porta jeans e maglietta e rifiuta la cravatta. Retorica era quella in cravatta,
retorica è quella in jeans, ma l’abilità della retorica vincente sta nel non farsi
riconoscere, così da apparire naturale.
Verbi-trappola
Converrà ricordare che «soddisfando» per «soddisfacendo» è forma erronea, perché
il verbo «soddisfare» si coniuga appunto come «fare». Quindi il gerundio si
costruisce su «facendo», non su di un inesistente «fando». Accade però che il nesso
tra il verbo «soddisfare» e «fare» si attenui fino a non essere più avvertito;
«soddisfare» perde dunque la sua natura e viene arbitrariamente regolarizzato, come
se si trattasse di «giocando», «parlando» ecc., cioè di un qualunque verbo in -are.
Analogamente, è sbagliato indirono al posto del regolare indissero. È un errore
simile a malediamo per malediciamo. I composti di dire si coniugano come dire, e
quindi devono ricollegarsi a dissero e diciamo (dirono non esiste, e diamo è forma
del verbo dare, per cui malediamo vale «diamo il male», non «diciamo
maledizioni»). Queste forme errate vanno imponendosi gradatamente, perché la
gente ormai non si accorge più che quei verbi sono composti di dire, e li sente come
completamente indipendenti, e dunque li normalizza; ma si tratta di forme semicolte,
respinte dalla norma. Queste forme sono «popolari».
Che vuol dire «popolari»? Significa che sono accettabili o no? In senso
strettamente tecnico, possiamo dire che è in atto un fenomeno di adattamento causato
da una semplificazione. Come giudicare questa scelta? A favore di una certa
tolleranza può intervenire anche un altro fatto: questi «errori» si ritrovano a volte
nella tradizione letteraria, visto che Pulci scrisse maladiva, e malediva è in Cellini,
come nel Lasca, e in Boito, Verga, Fogazzaro, Carducci, Pascoli; F.M. Piave, il
librettista di Verdi, scrisse quel vecchio maledivami (nel Rigoletto). Quando la
tradizione letteraria e l’uso popolare si incontrano, le certezze assolute si incrinano.
Proporrei di fare così: severità verso se stessi (si segua, dunque, il verbo dire) e
relativa tolleranza verso gli altri; si tratta, insomma, di correggere chi usa le forme
«popolari» (e poetiche), specialmente nella scuola, ma senza sbeffeggiare chi ha
sbagliato, anche perché è un errore solo per metà.
Si potrebbe condannare il participio esigito, da esigere, come parola adatta ai
semicolti, quindi da evitare. È vero tuttavia che il participio giusto di esigere, cioè
esatto, ha assunto un significato burocratico, oppure vuol dire «giusto». Quindi
esigito potrebbe forse essere impiegato al posto di esatto. Confesso però che non
userei esigito, ma, se esso scivola fuori da penne illustri e non viene subito fermato
dai correttori di bozze, vuol dire che alcuni hanno una certa fiducia nelle sue
possibilità di successo.
Il verbo redarre gode ormai di una certa fortuna: «redarre una relazione»,
«redarre un articolo». Il verbo giusto è redigere, ma redarre è sfuggito dalla penna di
scriventi illustri. Ovviamente questo non basta per legittimarlo.
«Ricordo in modo particolare i ragazzi che ho avuto a scuola», oppure «i ragazzi
che ho avuti a scuola?». Ecco il problema dell’accordo del participio con il verbo
«avere». Con il verbo «avere», perché con «essere» le cose sono più semplici, dato
che l’accordo ha sempre luogo: «il viaggiatore è partito», «la viaggiatrice è partita»,
«i viaggiatori sono partiti». Nella frase citata in apertura, abbiamo un pronome
relativo posto a precedere il participio: in questo caso possiamo concludere,
salomonicamente, che una soluzione vale l’altra: «i ragazzi che ho avuti» o «ho
avuto» pari sono. Nei seguenti casi il pronome relativo non c’è: «mia sorella mi ha
chiamata» | «mia sorella mi ha chiamato». L’accordo del participio è un punto
dolente della grammatica. Le opinioni non sono perfettamente univoche, tuttavia
ritengo si debba preferire la forma concordata. Se dunque il pronome «mi» si
riferisce a una donna, la prima forma risulta la più corretta. Per giustificare questa
scelta potrei invocare una regola a suo tempo espressa dal grammatico Fornaciari, il
quale sosteneva che il participio passato nei tempi composti deve regolarmente restar
invariabile e non accordarsi in numero e genere coll’oggetto plurale o femminile
quando questo gli sia posposto, ma deve accordarsi in numero e genere quando
questo gli sia anteposto. Serianni ritiene che questa norma sia senza fondamento, ma
nel caso del pronome anteposto, specialmente nella forma della particella
pronominale atona in funzione di oggetto, credo che la norma stessa sia
sufficientemente condivisa. Inoltre si adatta alla sensibilità moderna per il «genere»
inteso come «gender», alla maniera anglosassone, in riferimento al «politicamente
corretto». Ecco un esempio di D’Annunzio, dal Trionfo della morte: «Mia sorella mi
ha aiutata e mi aiuta a rendere verisimile la finzione».
«Alcune ragazze stamattina non hanno potuto venire». Sarebbe stato giusto dire:
«Alcune ragazze stamattina non sono potute venire». È la questione dell’ausiliare
con i verbi detti «servili». La regola classica prescrive che si adotti l’ausiliare del
verbo retto dal verbo servile. Dunque, poiché si dice «sono venuto», sarà corretto
dire «non sono potuto venire». La regola è aurea, chi la rispetta sarà sempre nel
giusto. Ci sono tuttavia alcune eccezioni. Per esempio, con l’infinito «essere». Per
non creare un accumulo di verbi «essere», si eviterà di dire «non sono potuto essere
con voi», e sarà meglio «non ho potuto essere». Inoltre, se l’infinito è un verbo
intransitivo, indipendentemente dall’ausiliare suo specifico, è lecito usare l’ausiliare
«avere». D’Annunzio: «Ma poi... non ho potuto andare più oltre». Insomma, per
riassumere la casistica: i verbi servili tendono ad avere il medesimo ausiliare del
verbo all’infinito che reggono, ma: 1) se l’infinito è un verbo intransitivo, il verbo
reggente può essere «avere» (può, non «deve»); 2) se l’infinito è «essere» il verbo
reggente sarà «avere»; 3) se l’infinito è passivo, l’ausiliare è «avere».
Ci sono casi in cui l’italiano non ce la fa davvero. Considerate lo scanner,
strumento utilissimo per catturare immagini e documenti di testo: non ha un nome
italiano. Per inventarlo dovremmo fare uno sforzo di fantasia, e poi lo sforzo non
sarebbe condiviso dai più. Meglio il forestierismo, dunque, che per fortuna finisce in
-er (come molte parole dell’italiano letterario), e che si legge come si scrive, salvo
che non si voglia esibire un poco proponibile schènaa, con una lunga a finale. La
pronuncia scanner è dunque già di per sé un accettabile adattamento del
forestierismo, classificabile come prestito di necessità, perché non sostituibile. Ma il
verbo per indicare l’uso dello scanner? Ci sono forme tutt’ora concorrenti: scannare,
scannerizzare, scandire, scansionare (perché lo scanner fa una scansione),
scannerare (che trovo nello Zingarelli 2000, con l’avviso che è forma errata),
scansire. Quale dei sinonimi citati la spunterà? Mi pare che la partita si giochi tra
scansire, scannerizzare e scansionare, quasi bandito il correttissimo scandire, che ha
il difetto di portare con sé troppi significati analoghi, oltre a quello specifico.
Le dieci e mezza/o
Si può dire sono le 10 e mezza» o «sono le 10 e mezzo». La forma preferita dai
toscani è quella con il maschile neutro sostantivato, mentre i settentrionali optano
generalmente per la forma femminile aggettivale, nella quale vedono una
concordanza di genere con «ora», che è femminile. Sicuramente nessuna delle due
soluzioni può essere ritenuta scorretta, anche se i puristi si ostinano a condannare il
femminile, in nome dell’analogia con «le 10 e un quarto» (maschile).
Asprissimo
«Asprissimo» esiste, e non è scorretto. L’hanno adoperato i seguenti scrittori:
Boccaccio, Guicciardini, Doni, Bandello, Redi, Parini, Baffo, Leopardi, Rovani,
Pirandello, D’Annunzio. Altri hanno usato «asperrimo», tanto che il vocabolario
Treccani avverte: «Accanto al superlativo regolare asprìssimo, è anche in uso,
soprattutto nelle accezioni fig., il latinismo aspèrrimo».
Piuttosto che
Ha preso piede piuttosto che al posto di o, oppure. Tradizionalmente, piuttosto che
non si adoperava mai per due opzioni equivalenti, coerentemente con il valore
etimologico, visto che «più tosto» significa «più presto», cioè «anziché». Leopardi
scriveva per esempio: «mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in
cosa poetica». La scelta è evidente: Leopardi intende dire che ha usato la prosa
anziché il verso. La trasformazione recente di piuttosto che in o è stata notata da
molti. Tutti hanno condannato la novità, la quale sembra essere di origine
settentrionale, milanese. Piuttosto che non può valere «o», perché non ha valore
disgiuntivo. C’è chi nega che quest’uso di piuttosto che sia equivoco. Io invece trovo
che lo sia. Ecco un esempio dal Gr2 delle 7.30 di mattina del 31 dicembre 2015. Si
sta parlando delle cause dell’alcolismo, e un esperto discetta delle «... cause di natura
genetica piuttosto che di natura ambientale». Mi pare un ottimo caso di formulazione
equivoca. L’esperto voleva privilegiare la genetica, o la riteneva equivalente alle
cause ambientali e sociali? Eccone un altro esempio di effetto forse meno oscuro,
perché implicitamente chiarito dal lungo elenco: «... di questo passo, saranno gli
omosessuali piuttosto che i poveri piuttosto che i neri piuttosto che gli zingari ad
essere perseguitati» (Gino Strada, Tg3 del 22 gennaio 2002). La ministra
dell’Istruzione Giannini, in un’intervista tivù nella trasmissione di Fabio Fazio,
dichiara che l’insegnante italiano «prende 20.000 euro meno del collega tedesco
piuttosto che francese»; e ancora: «con i risparmi fatti dai corsi inutili piuttosto che
dai meccanismi di spesa fuori controllo». Risparmi dai corsi o dai meccanismi?
Un futuro incerto
Ecco frasi come «ci vediamo a Natale dell’anno prossimo», «ci vediamo tra due
mesi». Non sarebbe più opportuno il futuro? Tutti lamentano la perdita del
congiuntivo, nessuno piange sulla debolezza del futuro... Le forme in cui il presente
prende il posto del futuro sono sempre caratterizzate dalla presenza di un indicatore
temporale esplicito, perché altrimenti sarebbero impossibili. Il futuro dimostra di
essere un tempo piuttosto debole. Quello latino non si è conservato e al suo posto
sono nate forme perifrastiche: l’attuale futuro italiano deriva dall’infinito combinato
con il verbo «habeo»: al posto di «laudabo» abbiamo «laudare habeo», cioè lodare +
ho, loder-ò (-ai, -à ecc.). Anche il futuro del greco antico non si è conservato nel
greco moderno. Insomma, il futuro si dimostra incerto, soggetto a trasformazioni, in
molte lingue. Tuttavia, nell’italiano scritto e formale è meglio evitare un tono troppo
colloquiale, dunque conviene non abusare del presente al posto del futuro.
Sindaca e ministra
In qualità di presidente dell’Accademia della Crusca sono stato da tempo investito
dall’ondata delle polemiche sul linguaggio di genere. È curioso che una questione
piuttosto stagionata come questa ritorni ora con tanta intensità. Perché stagionata? In
Italia il dibattito su sindaca/sindaco, ministro/ministra ecc. è stato aperto nel 1986
dalle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana pubblicate dal
Poligrafico dello Stato al tempo del governo Craxi. Dunque non si tratta di una
novità. Inutile dire che quella polemica degli anni ’80 arrivava dal mondo
anglosassone, come altre cose che hanno investito la cultura italiana.
Molto spesso l’Accademia della Crusca viene interpellata in maniera
impegnativa sul linguaggio di genere, e quasi sempre l’interesse si concentra su
parole come sindaca e ministra, che appassionano giornalisti, funzionari regionali e
comunali, esponenti dei ministeri, talora ministri e funzionari di altissimo grado, e
persino la presidente della Camera nella XVII legislatura Laura Boldrini.
Sicuramente questo è uno dei temi che suscitano oggi più reazioni, anche se non
credo si tratti del problema principale della lingua italiana. Tuttavia la
rivendicazione di nuovi termini femminili nel campo delle professioni e delle
cariche pubbliche risponde a una grande esigenza di rinnovamento, perché si collega
al mutare della condizione femminile, che è sotto gli occhi di tutti; ma, allo stesso
tempo, diventa sempre più chiaro che tale movimento di progresso va accompagnato
da qualche riflessione, e anche da qualche attenzione o cautela.
Una posizione equilibrata è ovviamente scomoda, perché ha contro i sostenitori
delle tesi più radicali degli opposti schieramenti, cioè di coloro che si allarmano per
ogni desinenza in -a che non abbiano conosciuto fin da bambini, e di coloro (più
spesso o quasi sempre si tratta di un «coloro» femminile, trattandosi di donne attive
e militanti) che vorrebbero rovesciare la lingua come un calzino, per ripulirla d’ogni
traccia di quello che giudicano maschilismo offensivo, e dunque una forma di
irriverenza o violenza nei loro confronti. Difficile mettersi d’accordo. Occorre
distinguere tra le legittime aspirazioni delle protagoniste della rivoluzione civile e
politica femminista, tutte prese dagli obiettivi della loro battaglia, e i criteri
vincolanti di coloro che sono chiamati a dare un supporto tecnico per tradurre la
rivoluzione in norme linguistiche e istituzionali recepibili da parte della comunità.
L’Accademia della Crusca non era, non è e non sarà mai spaventata in futuro
dall’accusa di essere succube di fronte alle richieste del partito «femminile». Non mi
sono turbato a suo tempo per le battute spiritose di Luciana Littizzetto, di cui merita
dare un breve saggio:
Francamente non so di quali «ire» parli l’autrice, che ammiro anche per la spiritosa
battuta del «germe di grano». Forse potrei osservare che per contestare i nomi
femminili, quelli per i quali la Crusca porgerebbe sostegno alla presidente Boldrini,
occorrerebbe insistere non sulla «diversità» dei generi, ma semmai
sull’«uguaglianza». Se diversità c’è, allora diventa più che legittimo, se non
necessario, il cambio di genere grammaticale. Ma questi sono dettagli. Tuttavia, per
vedere come si possa rincarare la dose, basterà un breve esempio tratto da altra fonte,
cioè «LiberoQuotidiano.it» del 9 marzo 2016:
E perfino l’Accademia della Crusca le dà ragione [alla presidente Boldrini]: dire
ministra, sindaca e magistrata è correttissimo. Dopo aver sdoganato «petaloso»,
la Crusca dà il suo autorevole avallo al «magistrata». Da quelle parti, di tempo da
perdere devono avercene parecchio. Occhio, dunque, a definire «presidente» la
«presidenta»: da oggi, con il patentino della Crusca, rischiate di essere tacciati di
sessismo.
Vedremo poi che «presidenta» è una sciocchezza non richiesta da nessuno, una
parola che sta lì solo per polemica. Per ora limitiamoci a osservare che le
puntualizzazioni un po’ spigolose del linguaggio di genere, sollevate nel lontano
1986-87 in due celebri libretti di Alma Sabatini, allora fatte spesso oggetto di
ludibrio, sono oggi nuovamente all’ordine del giorno in forma quasi identica, come
se il tempo non fosse trascorso, e suscitano reazioni anche passionali, ovviamente
contrastanti, che facilmente si traducono in polemica.
Come ho detto, questa polemica non ci spaventa, ma sollecita un’attenzione
critica verso qualunque asserzione azzardata, richiamandoci alla necessità di un
confronto serio sulla materia del contendere. Si aggiunga che il 15 dicembre 2016 il
presidente emerito Giorgio Napolitano volle a sua volta intervenire sul tema del
linguaggio di genere, manifestando dissenso su parole per la verità ormai largamente
diffuse, come ministra e sindaca, quelle parole che attirano sempre l’attenzione del
largo pubblico e dei giornalisti. Molti critici delle nuove denominazioni, coloro che
preferiscono parlare di «sindaco» anche se quel sindaco è donna, si sono subito
collocati (o trincerati?) al riparo del suo parere autorevole. Anch’io ho avuto modo di
discorrere di questo tema con il presidente Napolitano, che fra l’altro è Accademico
onorario della Crusca. Gli ho garantito che la Crusca non l’avrebbe «abbandonato» in
questa polemica. Questo non vuol dire che si debba in tutto e per tutto condividere la
sua posizione, ma certo occorre considerare seriamente il contenuto delle sue
obiezioni. È facile, per esempio, ribattere che i giudizi di «bruttezza» attribuiti alle
parole nuove, come sindaca e ministra, sono troppo soggettivi per essere assunti
validamente come strumento di misura. Un giudizio estetico resta troppo legato
all’abitudine di ciascuno. Occorre andare più a fondo.
Vedremo fin dove le donne del futuro sentiranno la necessità di portare le loro
rivendicazioni. Si arresteranno al di qua della lingua, come propone Luciana
Littizzetto? O rivendicheranno titoli tutti femminili? E lo faranno in nome della
differenza di genere, o dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri? E l’eventuale
manomissione della tradizione normativa della lingua si fermerà alla richiesta di
qualche elemento lessicale con uscita femminile, o arriverà a pretendere
modificazioni più profonde, per esempio nel meccanismo dell’accordo?
La questione non è finita lì. È stata chiamata in causa l’Académie française, come
spiega il giornalista nel seguito dell’articolo, e l’Accademia si è mostrata piuttosto
conservatrice:
Va tuttavia detto che in altri paesi francofoni, Svizzera francofona, Belgio, Canada
(Québec), la posizione ufficiale è diversa. In tutto il mondo, insomma, il problema si
pone, e le risposte non sono sempre identiche.
Gli irriducibili
Ci sono anche coloro che, in questo come in altri casi, se la prendono con
l’Accademia della Crusca perché non dà disposizioni univoche. Sono gli orfani
dell’autoritarismo, quelli che non possono sopportare la varietà della lingua e la
varietà delle opinioni, quelli che non possono accettare che l’espressione linguistica
sia essa stessa il segno della nostra identità intellettuale. Perché la scelta di un nome
al maschile o al femminile non dovrebbe rivelare la preferenza ideologica del
parlante? Perché dovrebbe essere obbligatorio per tutti i parlanti dire sindaca o
sindaco in tutti i contesti e senza alternative? Proviamo a immaginare il medesimo
discorso di pura fantasia, ma espresso in forme diverse, cioè nella maniera che piace
di più ai sostenitori della lingua di genere (tipo A), e poi nella maniera che piace a
coloro che non sopportano la lingua di genere (tipo B), e infine nella maniera
equilibrata in cui, allo stato attuale, potrebbe essere scritto da chi accetta alcune
innovazioni della lingua di genere, ma non ha intenzione di scardinare e
manomettere troppo il meccanismo della lingua (versione C):
Versione A)
Ci rivolgiamo agli studenti e alle studentesse di questa scuola, perché gli studenti
e le studentesse sono il futuro della nazione, sono le donne e gli uomini di
domani. Ad esse e ad essi sono demandate le sorti dei cittadini e delle cittadine
che abiteranno il nostro paese. La preside Angela Y responsabile di questa scuola
ha segnalato alla ministra dell’istruzione Maria YZ gli incresciosi avvenimenti
che si sono verificati. La ministra ha convocato uno speciale comitato di esperti e
di esperte che provvederà a indicare interventi possibili, da applicare al più
presto.
Versione B)
Ci rivolgiamo agli studenti di questa scuola, perché gli studenti sono il futuro
della nazione, sono gli uomini di domani. Ad essi sono demandate le sorti dei
cittadini che abiteranno il nostro paese. Il preside Angela Y responsabile di
questa scuola ha segnalato al ministro dell’istruzione Maria YZ gli incresciosi
avvenimenti che si sono verificati. Il ministro ha convocato uno speciale
comitato di esperti che provvederà a indicare interventi possibili, da applicare al
più presto.
Versione C)
Ci rivolgiamo agli studenti e alle studentesse di questa scuola, perché gli studenti
sono il futuro della nazione, sono le donne e gli uomini di domani. Ad essi sono
demandate le sorti dei cittadini che abiteranno il nostro paese. La preside Angela
Y responsabile di questa scuola ha segnalato alla ministra dell’istruzione Maria
YZ gli incresciosi avvenimenti che si sono verificati. Il ministro ha convocato
uno speciale comitato di esperti che provvederà a indicare interventi possibili, da
applicare al più presto.
Tipico di questo atteggiamento è l’odio per ogni forma di ridondanza, per cui, come
ricorda Serianni, ci sono lettori che protestano contro «trascorrere le vostre vacanze»
o contro «i piccoli furtarelli», e potrei aggiungere molti analoghi esempi, sulla base
della mia esperienza più che decennale nella rubrica Parlare e scrivere in un noto
settimanale. Chi pone quesiti linguistici spesso manifesta «un’istintiva avversione al
nuovo, visto come imbarbarimento e decadenza», come scrive Serianni nella Prima
lezione di grammatica; ma spesso si tratta di anziani, i quali notano meglio le
innovazioni che si vanno introducendo nella lingua.
Il «più acerrimo»
Analogamente alcuni non possono sopportare espressioni come il più acerrimo
nemico o la più completa dotazione. Acerrimo, dicono giustamente, è un superlativo,
e il superlativo non può essere rafforzato ulteriormente. Una cosa completa non può
essere più completa, perché altrimenti vuol dire che fin dall’inizio era incompleta.
Quanto al superlativo, l’italiano antico lo rafforzava tranquillamente: nel Novellino e
nel volgarizzamento toscano del Milione di Marco Polo si trova molto bellissimo.
Leon Battista Alberti parlava di certe «molto asprissime genti» per indicare i barbari
che avevano invaso l’impero romano. Qui, oltre al rafforzamento del superlativo, che
dunque era ancora legittimo nel Quattrocento, in un autore che adoperava un’ottima
lingua toscana, c’è anche il superlativo costruito all’italiana e non alla latina,
«asprissimo» invece di «asperrimo». Si potrà ribattere che non è giusto portare
esempi di lingua antica per giustificare un uso moderno. L’obiezione ha una sua
innegabile validità. Ma la citazione della lingua antica voleva soprattutto mostrare
che, proprio in certe fasi della lingua considerate molto importanti e ammirevoli, per
secoli invocate come la stagione aurea dell’italiano, certi ostacoli della logica non
erano attivi. Saranno stati introdotti in seguito, ma non è detto che costituiscano un
ostacolo insormontabile, anche perché hanno un chiaro valore espressivo: la lingua
non è algebra, la lingua non è linguaggio formalizzato. Il «più acerrimo» comunque
si trova anche in Pirandello, ne La patente: «Lei che crede di fare il mio bene. Il mio
più acerrimo nemico!». Non dico che sia sempre raccomandabile il rafforzamento
del superlativo: a volte è accettabile, a volte no. Chi scriva un trattato scientifico, per
esempio, si avvantaggerà evitando le ridondanze logiche, che evocano una
soggettività emozionale inadatta all’oggettività della scienza. Non a caso Pirandello
ha messo quel rafforzamento sulla bocca di un personaggio in un testo teatrale, che
(benché sia scritto) deve dare l’idea dell’oralità.
Ecco un altro punto importante: molti non riescono a capacitarsi che non si parli
né si scriva sempre allo stesso modo. Non accettano di riconoscere che i momenti
della comunicazione non sono tutti uguali, ma dipendono dal pubblico, dal contesto,
dallo strumento con cui si comunica, dalla situazione in cui ci si trova. Non capire
questo, significa avere un’idea falsa della lingua, significa non conoscere che cosa è
la comunicazione. Significa anche, ahimè, rendere antipatica la lingua.
La Rete e i social
Uno degli argomenti che più interessa i media italiani, indifferenti al comportamento
linguistico dei loro leader, anzi pronti semmai a deriderli se usano un inglese
scadente, è relativo ai presunti danni prodotti alla lingua dalla Rete e dai social. In
più occasioni mi è capitato di affermare che uno strumento, un canale comunicativo,
di per sé, non produce automaticamente danni. Sono convinto che chi adopera
Twitter per la battaglia elettorale o per la lotta politica corra il rischio di far circolare
slogan e non ragionamenti, con la dimensione del messaggio di 140 battute o anche
del doppio: è comunque una misura troppo misera.
Molti paventano che le faccine, gli emoticon, sostituiscano la lingua. Semmai le
faccine possono servire come uno sberleffo ironico, come un sorriso posto alla fine
di una frase, magari per modificarne il senso. Ci sono linguisti che impiegano gran
tempo per costruire teorie sul cambiamento di funzione comunicativa e sociale
dovuta allo strumento tecnologico. Sono senz’altro studi interessanti, ma mi sembra
che spesso si esageri nella valutazione di qualche cosa che alla fin fine resta pur
sempre soltanto uno strumento, e come tale può essere usato bene o male, può far
crescere l’intelligenza o può far crescere l’idiozia. Allo stesso tempo non posso
credere a chi vede nel testo in Rete la trasformazione in un ipertesto senza confini
completamente destrutturato e posto al servizio di prestabiliti condizionamenti
informatici. Secondo me, anche nella Rete, quasi tutte le regole tradizionali dei testi
a stampa si conservano perfettamente. Ovviamente dipende da quale parte della Rete
si sta usando. Un sito accademico o istituzionale è diverso da un blog.
È vero tuttavia che la percezione di un testo è diversa se si guarda un video o se si
guarda un foglio. Può darsi che nelle generazioni future lo scarto si riduca o si
annulli, però attualmente è facile che sussista. Utilizzo ormai da anni ogni forma di
scrittura informatica, non soltanto attraverso la tastiera, ma ormai anche attraverso la
dettatura automatica. Mi sono reso conto che, in precedenza, molti anni fa, al tempo
della scrittura manuale o della macchina da scrivere, il mio stile era probabilmente
migliore. Ho attribuito ciò alla possibilità offerta dalla scrittura elettronica di
mostrare sempre una pagina ripulita, mentre al tempo della pagina dattiloscritta o
corretta manualmente si era costretti, quando le correzioni si facevano troppo fitte, a
ricopiare il testo; ricopiandolo, non era raro che si riformulassero le frasi, e ciò
portava a un miglioramento, a una maggiore chiarezza, perché ci si staccava dalla
stesura originale.
La scrittura elettronica rende molto più difficile questo distacco dal testo iniziale,
perché si procede attraverso correzioni ripetute, su di una pagina che dà
l’impressione di essere sempre perfetta. Tuttavia i vantaggi della scrittura elettronica
sono tali che nessuno di noi rinuncerebbe alla sua meravigliosa praticità. Un altro
vantaggio del testo elettronico sta nella possibilità di correggerlo una volta che è
stato collocato in Rete. Un tempo si doveva attendere che il libro fosse nuovamente
ristampato dall’editore. Come si vede, in tutti questi casi l’informatica è al servizio
di un continuo miglioramento, e non è soltanto foriera di una frenetica iperattività.
Possiamo dire che non tutto il web è identico; c’è un web che assomiglia alla
tradizione, che spesso l’accoglie e la rivitalizza in forma moderna, e c’è per contro
un web che travolge con la trappola dell’immediatezza.
La crescita di quello che non può essere definito un progresso è evidente in molte
situazioni della Rete. I dialoghi che si svolgono nelle pagine di Facebook, anche in
quella dell’Accademia della Crusca, spesso degenerano: siamo nuovamente di fronte
ai difetti dei social, e non c’è dubbio che quando Mentana ha coniato la parola
webete aveva individuato un bersaglio degno di attenzione. Tuttavia, anche in questo
caso, la colpa non è della Rete. Tuttalpiù, la Rete ci fa sentire più forte la voce di
quelli che pensavano male anche prima. Semplicemente, ora costoro trovano
maggiore spazio per esprimersi. Ciò non accade solo nel web. Anche altri media
usano strategicamente il contatto con il pubblico, sollecitandone la partecipazione.
L’ascolto delle telefonate, che sono tanto in uso nelle trasmissioni radiofoniche per
mantenere una sorta di controllo dell’audience, produce il medesimo effetto di
invadenza e di protagonismo, con una sola differenza: che le telefonate sono
sottoposte a una sorta di filtro preventivo che elimina la percentuale degli esagitati
più pericolosi, mentre la Rete non esercita questo filtro se non in presenza di danni
ormai irreparabili; ma l’operazione di raccolta di voci indistinte è la medesima,
attraverso tutti i canali dei media, vecchi e nuovi che siano.
Dunque smettiamola di dare la colpa agli strumenti tecnologici e alla Rete, che si
limitano a far emergere qualcosa che già c’è, e non rovinano una perfezione che non
esiste. Semmai altri sono gli effetti della Rete sulla lingua: la velocità, la necessità di
essere meno formali, lo scambio intensissimo e continuo che abbassa il controllo sui
testi. Possiamo essere certi che la maggior parte di questi testi non lasceranno traccia
di sé, mentre la carta poteva essere recuperata anche a distanza di secoli. In
compenso, nei tempi brevi e medi, la Rete assicura la conservazione di un’enorme e
pletorica quantità di dati, di immagini ma anche di parole e di voci registrate, a cui si
può attingere con estrema facilità, mettendo il naso negli affari privati, nel modo di
comportarsi, nel modo di ragionare di una grande quantità di persone.
Un recente libro di Mirko Tavosanis, professore dell’Università di Pisa, intitolato
Lingue e intelligenza artificiale (Carocci, Roma, 2018), affronta il tema delle lingue
e dei computer, informando su di una serie di novità che si stanno profilando, dalla
scrittura automatica sotto dettatura, alla capacità delle macchine di interpretare il
linguaggio umano rispondendo agli ordini dell’uomo. Una parte del libro è dedicata
alla traduzione automatica. Mi ha colpito in particolare la possibilità che in futuro le
macchine assumano la funzione di tradurre anche l’immediatezza dell’oralità, fino a
rendere inutile l’inglese come lingua franca. L’argomento è stato trattato da un
linguista americano di nome Nicholas Ostler in un libro uscito a Londra nel 2010,
intitolato The Last Lingua Franca. English until the Return of Babel (Allen Lane,
London, 2010). La traduzione automatica soppianterebbe quindi l’inglese come
lingua universale. Naturalmente bisogna essere molto cauti nel fare queste
previsioni. Opportunamente Tavosanis scrive che le previsioni generali «per quello
che ne sappiamo, eccedono di molto la potenzialità sia dell’intelligenza umana sia di
quella artificiale». Giusta cautela. Tuttavia la possibilità che accada una cosa del
genere ormai va considerata.
Come muore una lingua
La Rete non ucciderà la nostra lingua. Il provincialismo e la sudditanza, le politiche
linguistiche esplicite e implicite contro l’italiano, invece, potrebbero avere effetti
nefasti.
Non è facile stabilire quando muoia una lingua. Anzi, gli studiosi non sono mai
riusciti a mettersi d’accordo per riconoscere in maniera assolutamente univoca
quando avvenga un evento del genere. I libri di linguistica riportano il caso più
celebre di «morte» di una lingua, relativo al dalmatico dell’isola di Veglia, ultima
sopravvivenza di un idioma romanzo che si era ridotto ad avere un solo parlante, un
tale che è diventato celebre per questa sua unicità. Si chiamava Antonio Udina detto
Burbur, il «barbiere», di mestiere scalpellino: «Tuóne Udáina de supranáum Burbur».
Un celebre linguista del tempo, Matteo Bartoli, nel 1906 poté pubblicare un’opera
fondamentale sul dalmatico, avvalendosi proprio delle informazioni che erano venute
da Antonio Udina; ma il 10 giugno 1898 Antonio era morto improvvisamente per lo
scoppio di una mina: l’ultimo parlante del dalmatico dell’isola di Veglia spariva così
tragicamente dalla faccia della terra, rendendo impossibile il proseguimento degli
studi. Antonio Udina era anziano. Pare che Burbur avesse difetti di pronuncia per
mancanza di denti, e per di più conosceva parecchie lingue: all’occhio, anzi
all’orecchio dei linguisti, appariva anche come un informatore di dubbia qualità.
«Informatore» è il termine tecnico che gli specialisti usano per indicare chi fornisce i
dati nelle inchieste dialettali. Udina era un mediocre informatore perché, essendo
l’unico a conservare il patrimonio di una lingua, ma conoscendone diverse, poteva
contaminare quanto ricordava; essendo l’unico, non poteva rinfrescarsi la memoria
parlando con qualcun altro. La sua era ormai una lingua della solitudine, tutta legata
al passato. I linguisti hanno dunque posto il problema: il dalmatico non era forse già
morto prima di Udina? Infatti l’unico parlante di una lingua non è più il parlante di
una lingua viva, perché una lingua esiste soltanto finché esiste comunicazione
all’interno di una società.
Tra i casi in cui si può fornire l’atto di morte di una lingua assieme all’atto di
morte dell’ultimo parlante, si ricorda di solito, seguendo il linguista francese
Vendryes, il «cornico», cioè il celtico della Cornovaglia: l’ultima parlante di questa
lingua, una vecchia domestica, morì il 27 dicembre 1777. Oggi questa notizia è
contestata: in Wikipedia si legge in proposito il seguente commento: «Nonostante un
luogo comune, riportato anche da molte pubblicazioni non dettagliate o non
aggiornate, indichi Dolly Pentreath di Mousehole, morta nel 1777, come l’ultima
parlante madrelingua, pare ormai certo che un limitato numero di parlanti, alcuni dei
quali madrelingua, ma per necessità bilingui con l’inglese, sopravvisse oltre quella
data fino a portare la lingua nel secolo successivo». Il passo è molto buffo, con quel
«pare ormai certo» (o «pare», o «è certo»: difficile la via di mezzo), ma deriva dal
fatto che nel primo Novecento ci fu un recupero artificiale del cornico: è anche
possibile che una lingua venga resuscitata artificialmente per ristabilire un’identità
del gruppo che in essa si vuole riconoscere. È evidente che è meglio non arrivare a
tale punto, perché una lingua in quelle condizioni è un bel gioco, un bel simbolo, ma
ha ben poco di reale.
Può anche capitare che alla morte dell’ultimo parlante ce ne sia ancora qualche
altro che si nasconde, come pretende Wikipedia per il caso di Dolly Pentreath. Del
resto non è condivisa da tutti nemmeno l’idea che una lingua ridotta all’ultimo
parlante sia ancor viva, anche se effettivamente l’ultimo parlante può essere prezioso
a scopo scientifico, perché gli studiosi possono ricorrere all’ultimo sopravvissuto per
registrare le tracce di qualche cosa che successivamente diventerà assolutamente
imprendibile.
Non è un caso dunque che tra gli studiosi vi sia divergenza su come si possa
stabilire il momento della morte di una lingua. Un grande linguista francese, Antoine
Meillet, riteneva che si potesse stabilire la morte di una lingua solo quando il
parlante avesse il sentimento chiaro e cosciente di averla mutata per un’altra. Un
esperto sociolinguista di oggi, Gaetano Berruto, ritiene invece che una lingua muoia
quando non ha più parlanti nativi fluenti. Un altro linguista, l’austriaco Wolfgang U.
Dressler, ritiene che una lingua muoia quando cessa di essere il mezzo comunicativo
di una comunità.
Potremmo anche rovesciare completamente la questione, pensando al fatto che le
lingue romanze, l’italiano con i suoi dialetti, il francese, lo spagnolo, il catalano, il
rumeno, sono in sostanza il frutto dell’eredità del latino, sono una sorta di latino
vivente trasformato, e allora potremmo sostenere la tesi ottimistica secondo la quale
le lingue sono immortali, e a ciò potremmo aggiungere un altro elemento positivo,
cioè la considerazione che nessun parlante, pur provenendo da una lingua che è
morta, resta senza lingua. La comunità passa a un’altra lingua, e trasporta in questa
lingua elementi che gli specialisti definiscono di «sostrato». In questo senso, una
parte più o meno piccola della lingua morta sopravvive sempre nelle lingue vive che
ne proseguono la funzione. Benvenuto Terracini, grande linguista, fondatore della
scuola torinese, ha scritto appunto che morire, per una lingua, vuol dire mutarsi in
un’altra, e ha osservato che la mutevolezza del linguaggio esprime l’infinità di una
forza vitale che sta al di sopra del concetto di morte e perfino di quello di nascita.
Questa visione è di grande fascino. Esprime tutta la forza della lingua come
strumento dell’individuo parlante nella sua interazione con la comunità.
Ancora Benvenuto Terracini osservava che «morire per una lingua, cioè mutarsi,
viene a significare il momento in cui per un determinato gruppo di individui una
forma particolare di cultura si ritira più o meno violentemente di fronte a forme
nuove». Questo concetto della morte di una lingua è il primo, tra quelli elencati, a
inquietarmi davvero, perché purtroppo si applica perfettamente al rifiuto
dell’italiano da parte del ceto dirigente, alla reazione di rigetto che abbiamo descritto
più volte nelle pagine di questo libro. Certamente, per fortuna, il fenomeno è ben
lontano dall’essersi compiuto, ma è altrettanto vero che il ritiro violento di fronte
alle forme nuove che arrivano dal mondo anglosassone si sta manifestando in
maniera drammatica.
La varia casistica della morte delle lingue può dunque percorrere spazi e luoghi
distanti tra loro. Ci sono le morti violente, per esempio la distruzione delle lingue
locali compiute dai colonizzatori. L’America Latina ne è un esempio formidabile. Ci
sono morti lente e pacifiche, che avvengono dopo una lunga coesistenza: basti
pensare all’etrusco e alle lingue preromane di fronte al latino. Ci sono morti che, in
qualche modo, ci fanno pensare proprio alla situazione dell’italiano. Tra quelle su cui
si sofferma Benvenuto Terracini, mi colpisce quanto dice lo studioso relativamente
al gallico di fronte alla penetrazione romana. Nel caso del gallico, non siamo di
fronte a una distruzione che sia avvenuta con una colonizzazione violenta messa in
atto da parte dei Romani, ma assistiamo invece a una rinuncia progressiva alla
propria lingua da parte della classe dirigente gallica, che opta per lo strumento più
prestigioso costituito dal latino degli invasori. A un certo punto Benvenuto Terracini
si sofferma sul fatto che le ultime testimonianze di gallico sono scritture umili, di
povera gente che evidentemente non sapeva il latino e involontariamente dava prova
dell’ultima resistenza di fronte a un’egemonia soverchiante, destinata a far sparire la
cultura locale.
Ci sono casi di morte di grandi lingue, lingue di grande tradizione. Ci sono
esempi di morte di lingue microscopiche, di piccolissime comunità, come quella di
Forno di Lemie nella valle di Viù. Forno di Lemie è una località di montagna non
lontana da Torino, un tempo colonia di minatori valsesiani e bergamaschi, la cui
lingua, giunta da fuori, era diversa dal piemontese locale. Questa lingua isolata e
diversa durò molto tempo, preservata dai borghigiani come un contrassegno della
propria identità. Poi, estinto il mestiere del minatore, sparì anche la lingua, di cui
Terracini poté cogliere le ultime tracce. L’identità è sparita con la lingua che ne
contrassegnava la natura.
Per contro, ci sono casi in cui l’affezione alla propria identità fa resistere a
qualunque evento esterno e a qualunque invasione. Celebre è la resistenza del basco,
una lingua che ancora oggi esiste con tutta la sua forza, anche se si è ritirata entro
confini più ristretti rispetto al passato. Il popolo basco coltiva e difende con ostinata
determinazione la propria identità, fin dal tempo dell’invasione dei Romani. Non è
facile spegnere la lingua di un popolo che crede in se stesso.
La chiave per comprendere la morte delle lingue, laddove naturalmente non sia
stato messo in atto un genocidio violento, con distruzione fisica della popolazione, è
dunque il «prestigio» linguistico. Si tratta di una categoria fondamentale per spiegare
la resistenza di lingue come il basco, che Pier Paolo Pasolini, nel 1975, evocava
come modello da imitare per costruire una forma di resistenza all’omologazione, o
come il burusaki delle valli dell’Himalaya occidentale, una lingua molto rara a cui
Benvenuto Terracini dedica un breve cenno. Per usare ancora una poetica espressione
di Terracini, ci sono lingue che resistono come scogliere flagellate dalle onde
dell’oceano. Ma la forza per resistere l’ha soltanto chi possiede la fiducia in se
stesso, chi crede davvero nella propria tradizione.
Dunque le cause della morte di una lingua possono essere molte, e in qualche
modo si legano inevitabilmente alla storia della comunità e della nazione che la
parla, ma non vi si connettono in maniera meccanica, salvo il caso del genocidio
fisico. Una piccola comunità linguistica può resistere per molto tempo, può opporre
anticorpi all’egemonia di una grande lingua che la domina. Oppure una lingua di
grande tradizione può dissolversi pian piano con il deliberato consenso dei parlanti
che non le riconoscono un prestigio pari a quello della lingua a cui accettano di
approdare. Vi è un nesso complicato che collega in maniera non meccanica la storia
della lingua e le vicende della storia politico-sociale, ma questo nesso è condizionato
da una serie di variabili difficili da pesare scientificamente. È assolutamente
impossibile prevedere lo svolgimento dei fatti, anche se abbiamo individuato precise
linee di tendenza, che possono essere considerate valide. Tuttavia non è costante il
loro modo di tradursi in fattualità. Possiamo certamente riconoscere nella situazione
italiana di oggi, così come l’abbiamo descritta in questo libro, molti elementi che
accentuano il nostro pessimismo, ma non possiamo escludere che le resistenze si
manifestino per qualche improvviso cambiamento della storia, per una imprevista
diminuzione di prestigio del modello o per una sorda resistenza legata anche,
semplicemente, all’inerzia di gran parte della popolazione.
Come andrà a finire la vicenda che abbiamo narrato? Riuscirà l’italiano a
sopravvivere oltre il 2300, per citare nuovamente la data che avevo ricavato da un
superficiale grafico? In che modo agirà l’eventuale ibridazione dell’italiano? Che
effetti produrrà la progressiva perdita di contatto con la tradizione storica e culturale
che per secoli è stata riferimento costante, e che è ormai debole, come dimostra la
scarsa padronanza che hanno i giovani del lessico più colto, delle espressioni
proverbiali e idiomatiche? L’italiano diventerà una lingua diversa, molto diversa da
quella che conosciamo? E se così fosse, non si potrà dire che l’italiano nobilmente
letterario, che è durato in maniera stabile dall’epoca di Dante fino all’inizio del
Novecento, è in sostanza morto? In questo caso, naturalmente, il concetto di morte
coinciderebbe con il concetto di trasformazione, in un continuum graduale, senza
soluzione di continuità.
Come abbiamo detto fin dall’inizio, non siamo profeti e non vogliamo
trasformarci in ciarlatani. La profonda affezione per la nostra lingua ci fa sperare che
l’italiano riesca a essere al tempo stesso nuovo e antico, che non perda il contatto
vitale con il passato, caratterizzato da una tradizione straordinaria, fondamentale per
la cultura europea e mondiale. Noi sogniamo un italiano che mantenga le proprie
posizioni, che riesca a parlare di scienza e di cose moderne, e che al tempo stesso
non dimentichi le parole di Dante. Speriamo che le cose vadano così, e lavoreremo
per questo, pur sapendo che le lingue non sono patrimonio di un singolo, di una
generazione di uomini e di donne, di un’accademia, per quanto antica, perché i
padroni delle lingue sono solo e sempre i popoli che le parlano.
Indice
Conclusione
Un confronto e un grafico arrischiati
Politica linguistica implicita
La Rete e i social
Come muore una lingua