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IL TICINO È SPERANZA?

Signore e Signori,
come è potuta nascere l’Università della Svizzera italiana? Questo libro documenta con rigore
accademico ma piglio leggero, con un corredo di fonti preciso, ricco e accattivante, infiorito
anche di gustosi aneddoti e testimonianze imperdibili, non LA causa della nascita dell’USI, ma
direi prendendo a prestito una felice espressione di Carlo Emilio Gadda, la “rosa di concause”
che hanno permesso al miracolo di accadere. È un libro importante per il quale siamo molto
grati agli autori Pietro Montorfani, Direttore dell’Archivio storico di Lugano e il professor
Mauro Baranzini, uno dei protagonisti dell’USI.
Dalla lettura del libro emergono anche alcune costanti con cui è confrontata da sempre la
parte subalpina della Confederazione elvetica e segnali di svolta e di cambi di mentalità che
credo sia utile cogliere. Ciò potrebbe servire per rispondere alle prossime sfide non solo
dell’USI ma della regione che è riuscita a crearla.

C’è un evento a parer mio rappresentativo, in modo quasi iconico, di un cambio di mentalità
che si ravvisa nella parte più viva della Svizzera italiana nell’ultimo decennio del secolo
scorso, cambio che l’Università della Svizzera italiana rende evidente fin dalla sua gestazione,
dopo il fallimento del CUSI. Questo evento emblematico è il Settimo centenario della
Confederazione elvetica, celebrato il 10 gennaio 1991 a Bellinzona sotto la tenda di Mario
Botta, proprio mentre il progetto di università stava prendendo forma.
Quella suggestiva tenda, disegnata da un grande architetto ticinese e piantata fra i castelli di
Bellinzona, al confluire degli assi che collegano e fanno da ponte fra il Nord e il Sud Europa,
esprime la consapevolezza di una rinnovata maturità confederale degli Svizzeri italiani e la
loro volontà di essere co-protagonisti e non a rimorchio delle principali aree di sviluppo e di
diversa lingua e cultura elvetiche. Sotto quella tenda erano riuniti i principali decisori di una
Svizzera infragilita e in preda a non pochi affanni. Fra questi decisori c’erano anche tutti gli
attori della costituenda Università della Svizzera italiana. Anzitutto un Presidente della
Confederazione svizzero-italiano, Flavio Cotti, che tre mesi prima a Poschiavo, aveva tenuto
un memorabile discorso in cui aveva lanciato l’idea di un’università che rafforzasse la Terza
svizzera, quella di lingua italiana. C’era Mario Botta, al quale il Consiglio dei Politecnici federali
stava per assegnare il mandato di un progetto di Accademia di architettura in Ticino (a
seguito di un probabile preavviso favorevole dello stesso Cotti, responsabile della politica
scientifica del Paese). C’era il vescovo Eugenio Corecco, che alcuni mesi prima aveva
preannunciato la nascita di una facoltà europea di teologia a Lugano, facoltà che avrebbe
aperto i battenti l’anno successivo. C’era il Presidente del Consiglio di Stato Renzo Respini, che
cinque anni dopo avrebbe assunto la presidenza della Fondazione per le facoltà di Lugano
dell’Università della Svizzera italiana. E il sindaco di Lugano Giorgio Giudici che, in tandem col
municipale Giorgio Salvadé, si stava per dedicare, con grande convinzione, efficacia e celerità ,
alla creazione delle facoltà di economia e di scienze della comunicazione. E c’era il Consigliere
di Stato Giuseppe Buffi, decisivo per la realizzazione dell’USI nella sua forma istituzionale
compiuta e il riconoscimento del Ticino come Cantone universitario. Non so se ci fosse
fisicamente anche Giuliano Bignasca, ma il Mattino della domenica aveva pubblicato due mesi
prima una sua Lettera aperta a Flavio Cotti nella quale, col suo stile provocatorio, esortava il
Presidente della Confederazione “a risparmiarsi qualche discorso sui Settecento anni della
Confederazione e a convincere il Consiglio federale a prendere decisioni rapide a favore
dell’Università in Ticino”. Insomma, se per tirare una retta ci vogliono almeno due punti, qui i
punti erano tanti e tali da poter tracciare non una retta ma una rotta, con una flotta a
disposizione coordinata e di notevole forza d’urto.
La Svizzera stava vivendo uno psicodramma. Cotti aveva voluto che il luogo del ripensamento
non fosse il Rü tli dei lontani padri fondatori e neppure l’arrogante capitale della piazza
finanziaria elvetica, Zurigo, sotto choc dopo aver perso la “sua” consigliera federale Elisabeth
Kopp, costretta alle dimissioni per una soffiata al marito coinvolto in uno scandalo per
riciclaggio, e nemmeno la Berna federale, sotto accusa per lo scandalo delle schedature. Il
Presidente della Confederazione ticinese aveva scelto la regione minoritaria per eccellenza, la
Svizzera di lingua italiana.

Cosa poteva portare quella piccola regione periferica a una Confederazione in crisi e alla
vigilia di altri traumi politici ed economico-finanziari? Ad esempio una nuova università .
Cent’anni dopo l’ultima, sorta nell’ormai antidiluviano Ottocento.

Il discorso portante di quell’evento fu pronunciato da Jean Starobinski, accademico di chiara


fama e probabilmente il maggiore intellettuale svizzero nel Novecento. Il suo messaggio – che
non fu di circostanza – interpellò fortemente i presenti e motivò in modo particolare chi era
intento a gettare le basi della nuova università a Sud delle Alpi.
Cito: “Rendiamo omaggio al lavoro di chi migliora le vie che attraversano le Alpi e assicurano
gli scambi fra il Nord e il Sud e gli sbocchi verso l’Oriente. Un compito straordinario che
associa educazione, cultura, comunicazione e vocazione all’accoglienza. Strade e sentieri sono
oggi le scienze e le loro applicazioni nel linguaggio della ragione (spesso calunniata) che le
nostre Alte scuole sono intente a sviluppare. Urge continuare ad eccellere nel maggior numero
di settori perché un piccolo Paese deve compensare la ristrettezza del proprio territorio con il
valore di ciò che produce e porta a compimento”. Citazione chiusa.

Come non identificarsi in quelle parole? Il discorso di Starobinski si attagliava perfettamente a


chi della Via delle Genti era custode da secoli e nel contempo aveva fatto dell’impegno per
l’istruzione pubblica lo strumento privilegiato per la crescita di un Cantone emancipatosi
dopo lunghi secoli di servitù verso Sud e verso Nord. Il Ticino moderno si è costruito grazie
agli Stefano Franscini e ai Carlo Cattaneo che raccogliendo l’eredità dei Padri somaschi hanno
promosso la diffusione del sapere e fondato l’istruzione pubblica in una regione dove essa era
largamente assente. Anche se il primo a vagheggiare un istituto di studi universitari in Ticino
era stato Karl Konrad Beroldingen nel 1698, fu Franscini a progettare un’articolata accademia
che aveva i tratti di una vera università . Ad affossare quel primo progetto furono le indubbie
difficoltà economico-finanziarie del Cantone ma soprattutto un vizio endemico di queste
contrade: i campanilismi comunali. Campanilismi che, sembra incredibile, la realizzazione
dell’USI è invece riuscita a superare (compresa la frattura storica e ideologica fra Sopra e
Sottoceneri), se è vero che i centri dell’Università della Svizzera italiana oggi sono Lugano,
Mendrisio, Bellinzona, con antenne anche a Locarno e Airolo. La sede e il contributo
finanziario del borgo di Mendrisio furono addirittura decisivi agli inizi per far decollare il
progetto universitario e il valore aggiunto scientifico dell’IRB e dello IOR a Bellinzona è
essenziale per l’USI, in particolare per la nuova facoltà di biomedicina. Come preziosi sono per
la nuova facoltà il know how dell’ EOC, di cui fa parte l’Istituto Cardiocentro Ticino e la
disponibilità del settore ospedaliero privato. Una bella rete multipolare.
Le parole di Starobinski valorizzavano anche l’opera di chi, come Pasquale Lucchini
(“ingegnere senza Politecnico”, lo definì Mario Agliati), aveva progettato le strade mettendo in
comunicazione gli abitanti del Cantone ma anche i ponti necessari per chi transitava per le
valli alpine da Nord a Sud e viceversa sviluppando fecondi commerci e scambi culturali. Certo,
si può essere custodi delle vie alpine vivendo per secoli soprattutto di rendita grazie a dazi e
pedaggi, senza mettere a profitto gli scambi e aprire i propri orizzonti. È capitato e capita
ancora. Ma è significativo constatare che proprio negli anni in cui stava nascendo l’Università
della Svizzera italiana, il Cantone Ticino dimostrava di saper guardare lontano anche
nell’approccio alle nuove trasversali ferroviarie. Mentre il Consiglio federale considerava
ancora non prioritaria una nuova linea ferroviaria veloce attraverso le Alpi, la parte più viva
della classe politica ticinese si mobilitò con successo affinché la Svizzera italiana non fosse
tagliata fuori dai nuovi assi di collegamento veloce fra il Nord e il Mediterraneo. Memori
dell’impegno decisivo di Giovan Battista Pioda per la Gotthardbahn, negli Anni Novanta del
secolo scorso (malgrado una situazione finanziariamente difficile) Governo e Deputazione alle
Camere si impegnarono con una mentalità da protagonisti nel dibattito su AlpTransit
Gottardo e sul suo tracciato che, in una visione non localistica ma veramente europea, avrebbe
dovuto garantire la continuazione a Sud fino al collegamento con la rete italiana. Una lunga
battaglia (fino all’approvazione della galleria del Ceneri, essenziale per la nuova Città Ticino) e
che a dire il vero ancora non è conclusa. Fu un impegno senza complessi di inferiorità che ha
dovuto affrontare ostacoli molto simili a quelli che si dovettero superare per giungere
all’approvazione dell’USI da parte della Conferenza universitaria svizzera e dal Consiglio
svizzero della scienza per fare del Ticino un Cantone universitario a tutti gli effetti.

La nuova mentalità che evidenzia l’approccio coraggioso e propositivo di queste due battaglie
contemporanee e parallele, segna una svolta rispetto a quello del mendicante verso la
Confederazione che ci siamo trascinati per lungo tempo, come ebbe a commentare Giuseppe
Buffi: - cito - “In passato il Ticino tendeva a chiedere a Berna cosa poteva offrire per poter
essere ammesso nella ristretta cerchia dei cantoni universitari. Oggi le facoltà di scienze della
comunicazione e di economia, illustrate a dovere, sono state percepite dalla Conferenza
universitaria svizzera per la loro originalità e portata in uno spazio transfrontaliero: una
dimensione fondamentale per il Ticino”. Citazione chiusa.
Questa nuova mentalità propositiva, che già aveva animato i convegni e i suggerimenti di
Nuova critica, basata sulla lungimiranza e l’eccellenza innovativa dei progetti, piacque alla
Consigliera federale Ruth Dreifuss ed ebbe ragione delle resistenze della Conferenza
universitaria svizzera e del Consiglio svizzero della scienza.
Paradossalmente, ci avevano aiutato meno i tempi delle vacche grasse quando l’erario
cantonale e quello luganese si riempivano senza grande fatica grazie al gettito di una piazza
finanziaria che operava in condizioni quadro e con margini ben diversi di quelli che ha oggi
dopo la fine del segreto bancario per i clienti stranieri e dopo le crisi finanziarie d’inizio
secolo. Quei tempi fasti avevano contribuito loro malgrado a solleticare in molti comparti
economici una mentalità meno propositiva e più incline, diciamolo, a vivere di rendita. La
nuova facoltà di economia dell’USI ha dato avvio ad un’articolata stagione innovativa che oggi
– in una fase di ristrutturazione della piazza finanziaria che punta con successo sulla
competitività - si rivela preziosa anche perché ha saputo far tesoro di centri come quello di
Studi bancari, integrare istituti di ricerca economica esistenti (come l’IRE) e crearne di nuovi,
come ad esempio l’Istituto di finanza, in partnership con quelli leader in Svizzera, a
cominciare dallo Swiss financial Institute.
Oggi, il valore aggiunto della Svizzera a livello internazionale è una competitività delle aziende
basata sulla capacità di abbinare felicemente la ricerca scientifica nei suoi istituti specializzati,
politecnici e atenei collocati ai vertici dei ranking mondiali con l’attività economica in settori
di avanguardia, un modello che vale anche per il settore finanziario che ha saputo diventare
molto competitivo nell’era digitale e che resta vitale per l’attività economica imprenditoriale e
statale. Avere, oggi l’università in Ticino rappresenta una benvenuta opportunità per uscire da
una monocultura produttiva (una mentalità poco propositiva e innovativa e una bassa
produttività del lavoro). Le monoculture economiche, l’incapacità di diversificarsi, hanno
comportato il declino di intere regioni svizzere. Diversificare la produzione e accrescere
produttività del lavoro, competitività ed innovazione rappresenta la vera sfida per il nostro
Cantone e l’USI costituisce un potente strumento a disposizione per raggiungere questo
obiettivo. Da questo punto di vista, aver puntato su facoltà innovative (come Scienze della
Comunicazione - da subito focalizzata anche sulle tecnologie della comunicazione e oggi
attrezzata per capire la svolta digitale e del metaverso -) nonché sulle scienze esatte, ha
rappresentato una scelta strategica vincente che i Presidenti Marco Baggiolini e Pietro
Martinoli – biochimico uno e fisico l’altro – hanno saputo concretizzare brillantemente, forti di
una rete nazionale e internazionale notevole attirando a Lugano accademici di primissimo
piano su scala mondiale. Centro di calcolo scientifico, facoltà di scienze informatiche, Istituto
di scienze computazionali e Scienza dei dati e istituti d’eccellenza preesistenti in Ticino sono
stati integrati in una rete di studi d’avanguardia nelle scienze esatte. La venuta e la
permanenza del Centro di calcolo scientifico del Politecnico federale in Ticino è stata una
battaglia decisiva. Vinta grazie a una mentalità propositiva e senza complessi di accademici di
grande eccellenza, grazie alla forza dei progetti e una rete di sostegno coordinata e
intelligente. Una battaglia durata a lungo e conclusasi felicemente anche grazie al fatto che nel
frattempo Mauro dell’Ambrogio, già vero perno operativo (con Albino Zgraggen e Mauro
Martinoni) della fase iniziale dell’USI era stato chiamato dal Consigliere federale Pascal
Couchepin a dirigere il Segretariato per la scienza e la ricerca in Svizzera. Anche grazie a
quella felice nomina, che coronava l’impegno di Dell’Ambrogio per l’USI ma segnava anche un
importante riconoscimento per la neonata università , il partenariato con il Politecnico
federale di Zurigo si è consolidato. Una collaborazione con l’ETH - ateneo ai vertici del ranking
mondiale - assolutamente strategica per il futuro, come evidenzia il fatto stesso che su di essa
poggia (insieme a quella con l’Università di Basilea - e bisogna ringraziare il professor Antonio
Loprieno -) anche la neonata Facoltà di scienze biomediche.

Aver privilegiato le scienze esatte e i settori d’avanguardia non ha fatto perdere di vista all’USI
il fatto di essere l’Università della Svizzera italiana. La creazione dell’Istituto di studi italiani
(voluto e sostenuto dal biochimico Marco Baggiolini), risponde a una necessità : la lingua e la
cultura di questo territorio svizzero a Sud delle Alpi, che è sovrano ormai da duecentoventi
anni, chiedevano e chiedono che la Svizzera italiana diventi anche un centro di studi storici,
letterari e umanistici che ne rafforzino l’identità propria. Come è accaduto per l’Accademia di
architettura voluta da Mario Botta, che ha invertito il cammino dei mastri e architetti ticinesi:
da luogo di partenza ed emigrazione dei Castelli e Fontana per le capitali europee un tempo, a
centro e vera Scuola di Architettura che oggi attira a Mendrisio studenti, architetti e umanisti
da tutto il mondo. Tutto sommato, la nascita della facoltà di teologia europea a Lugano, che
fece da apripista e stimolo per le facoltà luganesi dell’USI, creata da un accademico innovativo
e canonista con una visione sinodale della Chiesa come Monsignor Eugenio Corecco, risponde
ad un riflesso analogo: ovvero portare nelle terre ticinesi ormai emancipate, ma per lungo
tempo dipendenti ecclesiasticamente da quelle di Milano e Como e poi dalla Diocesi di Basilea
(formalmente fino 1971) anche l’insegnamento della teologia, sino a quel momento impartito
a Friburgo.

Signore e Signori,
il sistema elvetico di trasferimento della scienza e della ricerca all’economia nell’era digitale e
della quarta rivoluzione industriale è un modello di successo che grazie all’USI e istituti
affiliati nonché alla sinergia e alla collaborazione con la SUPSI può trasformare in profondità
anche il tessuto economico ticinese (si pensi al potenziale dell’ultima nata, la facoltà di
biomedicina per il settore della sanità e l’industria farmaceutica) suscitando iniziative
innovative da parte di nuove aziende e start-up in tutti i campi economici.
Il cosiddetto “terzo mandato”, ovvero il trasferimento della conoscenza al territorio,
rappresenta d’altronde - dopo aver creato con successo una governance accademica moderna
– una delle priorità fissate per i prossimi anni dal rettore Boas Erez. A partire da un audace e
felice titolo programmatico che il rettore ha voluto dare per inaugurare l’entrata nell’età
adulta della giovane università della Svizzera italiana, ovvero: “L’USI è speranza”. Un titolo che
ci piacerebbe veder “trasferito” al Cantone intero, ciclicamente in preda ad astratti furori e
antichi complessi.
Il Ticino è speranza?

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